Autori e opere della letteratura italiana Vol.2 [2] 9788826815718


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Table of contents :
Copertina
Indice
Il Seicento
CAPITOLO 1 Il Seicento
CAPITOLO 2 La poesia del Seicento in Italia
CAPITOLO 3 La poesia europea del Seicento
CAPITOLO 4 Cervantes e la nascita del romanzo moderno
CAPITOLO 5 Galileo Galilei
CAPITOLO 6 William Shakespeare
CAPITOLO 7 Il secolo del teatro
Il Settecento e l’età napoleonica
CAPITOLO 8 Il secolo della ragione
CAPITOLO 9 L’Arcadia e Metastasio
CAPITOLO 10 Il romanzo nel Settecento
CAPITOLO 11 Carlo Goldoni
CAPITOLO 12 Giuseppe Parini
CAPITOLO 13 Vittorio Alfieri
CAPITOLO 14 Fra Neoclassicismo e Preromanticismo
CAPITOLO 15 Ugo Foscolo, un poeta tra due epoche
L’Ottocento: Romanticismo e Realismo
CAPITOLO 16 L’età del Romanticismo e del Realismo
CAPITOLO 17 Il Romanticismo europeo
CAPITOLO 18 La grande stagione del romanzo
CAPITOLO 19 Alessandro Manzoni
CAPITOLO 20 La letteratura risorgimentale
CAPITOLO 21 Giacomo Leopardi
Percorsi tematici
Giornalismo: divulgazione, costume, società
Tra biografia e autobiografia
La rappresentazione della donna nella letteratura
Glossario - Indice dei nomi
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Autori e opere della letteratura italiana Vol.2 [2]
 9788826815718

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ISBN 978-88-268-9014-2

Certi Car Graf

Edizioni 2 2012

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2014

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2015

9 10 2016

Certificazione Cartaria, Cartotecnica, Grafica

La casa editrice ATLAS opera con il Sistema Qualità conforme alla nuova norma UNI EN ISO 9001:2008 certificato da CISQ CERTICARGRAF.

Direzione Editoriale: Roberto Invernici Redazione: Lia Cappelletti, Monica Luciano e Lucia Mapelli Progetto grafico: Massimiliano Micheletti Impaginazione: BaMa – Vaprio d’Adda (MI) Copertina: Vavassori & Vavassori Stampa: L.E.G.O. SpA – Vicenza In copertina: Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (particolare), 1818. Amburgo, Kunsthalle.

L’Editore si impegna a mantenere invariato il contenuto di questo volume, secondo le norme vigenti. Si ringraziano per la gentile collaborazione Anna Besozzi e Chiara Lasen. Con la collaborazione della Redazione e dei Consulenti dell’I.I.E.A.

Il presente volume è conforme alle disposizioni ministeriali in merito alle caratteristiche tecniche e tecnologiche dei libri di testo. Si ringraziano le Fondazioni letterarie e artistiche, i Musei e gli archivi delle riviste storiche e i fotografi che hanno gentilmente fornito il materiale iconografico. L’editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare errori di attribuzione o eventuali omissioni sui detentori di diritto di copyright non potuti reperire. Ogni riproduzione del presente volume è vietata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. © 2012 by ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS Via Crescenzi, 88 – 24123 Bergamo – Tel. 035/249711 – Fax 035/216047 – www.edatlas.it

Presentazione AUTORI

E OPERE DELLA LETTERATURA: UN’OPERA MISTA, MULTIMEDIALE E DIGITALE

Questo nuovo corso di letteratura per il Triennio della Scuola secondaria di secondo grado propone lo studio della letteratura italiana e straniera nella prospettiva di una feconda integrazione di saperi e linguaggi, in particolare quello dell’arte, in rapporto anche ai principali problemi sociali, culturali, scientifici e tecnologici delle varie epoche. È una proposta editoriale mista, composta di materiali a stampa, materiali on line, materiali multimediali e interattivi; inoltre è disponibile in forma digitale (E-book) su piattaforma dedicata.

MATERIALI

A STAMPA

Autori e opere della letteratura presenta la storia della letteratura secondo uno sviluppo cronologico in tre volumi base, di cui l’ultimo diviso in due tomi: 1. Dalle origini al Cinquecento 2. Dal Seicento all’Età del Romanticismo 3A. Dall’Unità d’Italia al primo Novecento 3B. Dal primo Novecento ad oggi. Al primo volume è allegato il tomo Strumenti di analisi e di scrittura, un prezioso vademecum didattico per lo studente. Presenta, innanzitutto, le varie tipologie testuali (il testo letterario – narrativo, poetico, teatrale –, il testo non letterario: il testo espositivo e, in particolare, argomentativo, cioè il saggio scientifico, storico, artistico, letterario e l’articolo di opinione). Poi propone, con esempi e precise indicazioni operative, le abilità di base (il riassunto e la sintesi, la parafrasi e la trascrizione, la relazione) e le tipologie della Prima prova dell’Esame di Stato (l’analisi testuale, il saggio breve, l’articolo di giornale, il tema). Sempre in abbinamento al primo volume è possibile, per il Docente, adottare anche l’Antologia della Divina Commedia, un volume che propone 19 canti commentati e il riassunto di tutti gli altri canti dell’opera. È disponibile, inoltre, un volume autonomo di Verifiche in preparazione delle Prove INVALSI: dieci esercitazioni ognuna con tre testi di carattere argomentativo (continuo o misto), narrativo, poetico o teatrale; in alcuni casi sono presenti anche esercitazioni di carattere grammaticale.

MATERIALI

ON LINE

I materiali a stampa si integrano e si completano con una grande ricchezza e varietà di materiali on line in formato pdf, disponibili per studenti e Docenti sulla Libreria web, accessibile tramite un collegamento diretto alla home page del sito dell’Atlas: www.edatlas.it. Si tratta di: • un ricco repertorio di altri testi d’autore e di percorsi tematici letterari e pluridisciplinari indicati nell’indice a stampa di ogni volume; • 20 canti della Divina Commedia, in versione integrale, con parafrasi, note e analisi testuale; • materiali e documenti per il saggio breve e l’articolo di giornale; • verifiche e autoverifiche interattive.

MATERIALI

MULTIMEDIALI E DIDATTICI PER L’INSEGNANTE

Innanzitutto sono disponibili per i Docenti tre guide didattiche, una per ciascuno dei tre anni di corso. Propongono schede di programmazione didattica organizzate secondo un criterio storico-letterario. La parte centrale delle tre guide è costituita dalle Schede di verifica, che testano le conoscenze e le competenze degli studenti, corredate di soluzioni. In ogni volume sono presenti anche alcune Schede modello, che suggeriscono una traccia per l’analisi delle principali tipologie di testi letterari (un testo teatrale, trattatistico, narrativo, ecc.). Le guide sono disponibili anche in formato pdf sul sito dell’Atlas nell’area riservata ai Docenti, accessibile con apposita password a richiesta. Per i Docenti che adottanol’opera è disponibile anche un DVD–Rom che propone materiali multimediali su autori e movimenti, materiali interattivi (verifiche sommative) e materiali audio con lettura integrale di opere (Divina Commedia, Decameron, Orlando furioso, ecc.) e di un gran numero di testi poetici dei maggiori autori italiani presentati nel testo.

L’Editore

Indice generale Simboli rubriche:

Materiali on line T1

Testi antologici

F

Focus

P

Documenti

Parole chiave Letteratura e...

Interpretazione critica

IL SEICENTO Capitolo 1 Il Seicento Tavola sinottica STORIA Il nuovo assetto politico dell’Europa Il Seicento e le sue contraddizioni La guerra dei Trent’anni: motivi religiosi e interessi politici Le nuove potenze emergenti Due modelli di monarchia: Francia e Inghilterra Il consolidamento della monarchia francese L’Inghilterra verso la monarchia costituzionale Il declino politico ed economico dell’Italia La divisione politica dell’Italia e la crisi economica Il declino del Papato Venezia e il Ducato di Savoia: gli unici Stati indipendenti CULTURA Il secolo del Barocco La crisi della cultura rinascimentale Nasce la fiducia nella ragione P Origine e significato del termine barocco

4

INDICE

GENERALE

22 24 24 24 24 25 25 25 26 26 26 26 27 27 27 27

La filosofia si separa dalla teologia La riflessione politica Il Barocco nelle arti L’architettura barocca I centri della nuova cultura in Italia Il ruolo della Chiesa F Le accademie La Illiade del secol nostro di Paolo Sarpi La rivoluzione scientifica Il libro dell’universo e la sua lingua di Galileo Galilei LETTERATURA I caratteri del Barocco letterario

28 28 28 29 30 30 30 31 33 34 35

LETTERATURA E ARTE L’unitarietà della poetica barocca LETTERATURA E ARTE Il Barocco nelle arti: T L’arte barocca di Giulio Carlo Argan T L’estetica del Barocco di Ernesto d’Alfonso e Danilo Samsa La metafora nell’arte barocca di Emanuele Tesauro La lirica in Europa La grande stagione del teatro europeo Tragedia, commedia dell’arte e melodramma in Italia

36 37 38 38

© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

La nascita del romanzo moderno Il Marinismo La trattatistica L’ambito linguistico e letterario La trattatistica storica e politica T

39 39 40 40 40

T T

L’Adone Poi le luci girando al vicin colle da Adone, III

La prudenza, prima virtù del principe da Della ragion di Stato, III di Giovanni Botero

41 42

43 44

L’interesse novecentesco per la poesia barocca Marino: ricchezza di modi e di forme, nessuna profondità di Francesco De Sanctis T4 Chiuso nel’ampio e ben capace seno – da Adone, VIII

46 48 50

Capitolo 2 La poesia del Seicento in Italia

© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

63 64

52 52 53 54 54 55

Preparazione al bagno di Adone e Venere da Adone, VIII

La Murtoleide Gli scritti minori

T

Parla Maddalena alla croce da La Lira

63

44

La gatta cennerentola da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile T Bertoldo, astuto villano da Le sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce LETTERATURA E ARTE La pittura di genere nel Seicento

T

L’usignolo – da Adone, VII

F

T

Giambattista Marino e il Marinismo La vita Le opere La Lira F Il concettismo T1 Onde dorate – da La Lira T2 Pon mente al mar, Cratone da La Lira

60

41

T

Tipologie e generi letterari Concetti chiave Esercizi di sintesi

59

T3

T

La trattatistica scientifica F I Ragguagli di Parnaso e la nascita del giornalismo moderno Le prose eccentriche: Torquato Accetto La necessità di dissimulare davanti ai potenti di Torquato Accetto La narrativa Le particolarità della narrativa seicentesca in Italia

Due madrigali Donna che cuce – da La Lira Ninfa mungitrice – da La Lira

67 67

Narciso di Bernardo Castello da La Galeria

I principali poeti marinisti T5 Sudate, o fochi, a preparar metalli – da Poesie di Claudio Achillini I poeti antimarinisti Gabriello Chiabrera: tra classicismo e Barocco La vita Le opere F Fulvio Testi: classicismo e poesia civile

T

68

69 70 71 71 72 72

Al signor conte G. B. Ronchi di Fulvio Testi

57 T6

La vïoletta da Canzonette amorose di Gabriello Chiabrera INDICE

GENERALE

74

5

Il poema eroicomico F Genesi e sviluppi del poema eroicomico Alessandro Tassoni La vita e le opere La secchia rapita P Parodia e ironia T7 Gli dèi a concilio da La secchia rapita di Alessandro Tassoni

76 76 77 77 78 79

80

84 85

Capitolo 3 La poesia europea del Seicento Il Barocco in Spagna Góngora e il Gongorismo T1 La clessidra – di Luis de Góngora Quevedo e il concettismo spagnolo T2 La clessidra di Francisco de Quevedo

86 87 87 89

T3

6

INDICE

GENERALE

La vita e le opere F La narrativa picaresca e la nascita del romanzo moderno Il Don Chisciotte La trama La modernità dell’ultimo eroe cavalleresco P Romanzo T1 Origini, nascita e battesimo dell’eroe – da Don Chisciotte, I, 1 T2 Il duello con i mulini a vento da Don Chisciotte, I, 8 T3 Un bacile scambiato per elmo da Don Chisciotte, I, 21

T

96 98 99 99 100 100 102 106 109

L’abdicazione di Sancio da Don Chisciotte, II, 53

113 114 115

Capitolo 5 Galileo Galilei 91 91 91

La conclusione del poema da Paradiso perduto di John Milton Sfascia il mio cuore di John Donne

94 95

Capitolo 4

La Spagna di fine Cinquecento e il Don Chisciotte di Francesco Guazzelli Concetti chiave Esercizi di sintesi

Orologio da polvere di Ciro di Pers T Gli occhi miei potrà chiudere l’estrema di Francisco de Quevedo T In onore della regina Donna Margherita di Luis de Góngora LETTERATURA E ARTE La vanitas

T

Concetti chiave Esercizi di sintesi

89

T

La poesia inglese John Donne F John Milton

Commiato: divieto di dolersi di John Donne

Cervantes e la nascita del romanzo moderno

Altri poeti eroicomici T Il concilio degli uccelli da Lo scherno degli dèi di Francesco Bracciolini Concetti chiave Esercizi di sintesi

T

La vita e le opere La giovinezza e gli interessi scientifici La scoperta del metodo sperimentale I contrasti con aristotelismo e Chiesa cattolica Il processo e la condanna T

92

116 117 118 119 119

L’autodifesa e l’abiura da Atti del processo per eresia © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Gli ultimi anni Nuovo metodo, filosofia e religione P La riabilitazione di Galileo F La vita di Galilei di Bertolt Brecht T1 Sul linguaggio scientifico da Risposta a Ludovico delle Colombe Le Lettere copernicane T2 Lettera a Benedetto Castelli da Lettere copernicane Il Saggiatore T3 La veridicità delle teorie da Il Saggiatore Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo T4 Elogio dell’intelligenza umana da Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, I T5 Contro l’Ipse dixit – da Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, II

120

Capitolo 6

120 121

William Shakespeare

122

123 124

© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

T

146 148 149

Il sonetto 33 – da Sonetti

126 129 130 131

133

138

PERCORSO TEMATICO Il cammino della scienza A. Origini e sviluppi della scienza nel mondo classico: T Scienza è conoscenza dell’universale – di Aristotele T Alle origini della medicina scientifica – di Ippocrate B. Dal Medioevo alla scienza moderna: T La “scienza” nel Medioevo di Nicola Oresme T La dinamica dell’universo di Niccolò Copernico T Natura e metodo di Francesco Bacone C. Oltre Galileo: T Scienza e “lumi” di Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert T Evoluzionismo e scienza di Charles Darwin T Scienza e morale oggi: la bioetica di Maurizio Mori

I pregi della prosa galileiana di Raffaele Spongano Concetti chiave Esercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

La vita e le opere F Marlowe e il Faust T1 Il vostro pianto quando sarò morto… – da Sonetti

142 143 144

La produzione drammatica La visione del mondo I personaggi e l’autore I grandi temi tragici La profondità dei personaggi di Shakespeare di David Daiches F Il teatro al tempo di Shakespeare T2 Il primo dialogo d’amore tra Romeo e Giulietta da Romeo e Giulietta, II

T

150 151 152 152

153 154

155

La morte di Romeo e Giulietta da Romeo e Giulietta, V

Shakespeare e la cultura italiana T3 La follia di Amleto – da Amleto, II T4 Il monologo di Amleto da Amleto, III T5 Macbeth assassina il sonno da Macbeth, II T6 Il duca mago si congeda dal pubblico da La tempesta, IV Shakespeare in love Concetti chiave Esercizi di sintesi e per l’Esame di Stato F

159 159 162 164

168 170 171 172

Capitolo 7 Il secolo del teatro La grande stagione del teatro europeo Il teatro spagnolo del siglo de oro Lope de Vega Tirso de Molina Pedro Calderón de la Barca INDICE

GENERALE

172 173 174 174 175

7

F

Storia di un mito: Don Giovanni T

175

Io credo che due e due fa quattro – da Don Giovanni o il convitato di pietra – di Molière

Vivere è sognare da La vita è sogno, II di Pedro Calderón de la Barca Il teatro in Francia Pierre Corneille Jean Racine T1

T

176 177 177 178

Il melodramma

191

LETTERATURA E MUSICA Il teatro musicale dalle origini al Settecento T Arianna abbandonata – da Arianna di Ottavio Rinuccini

Concetti chiave Esercizi di sintesi Immagini simbolo

194 196 197

La confessione di Fedra da Fedra – di Jean Racine

Le commedie di Molière T2 Il litigio tra Valerio e Marianna da Tartufo, II – di Molière

179 180

IL SETTECENTO E L’ETÀ NAPOLEONICA Capitolo 8 Il secolo della ragione

La seduzione secondo Tartufo da Tartufo, III – di Molière T L’ira di Orgone contro Damide da Tartufo, III – di Molière T Tartufo smascherato – da Tartufo, V di Molière T

I generi teatrali in Italia e i principali autori La tragedia

185 185

Maria Stuarda al patibolo da La reina di Scozia di Federico Della Valle T Merope e Policare da Aristodemo di Carlo de’ Dottori T

La commedia T

186

Alla fine della fiera da La Fiera – di Michelangelo Buonarroti il Giovane

Dalla commedia dell’arte alla riforma goldoniana T3 La guerra di Meneghino da I consigli di Meneghino, I di Carlo Maria Maggi

F

8

INDICE

GENERALE

187

188

Tavola sinottica STORIA La rivoluzione del pensiero: l’Illuminismo Illuminismo e rivoluzione L’assolutismo illuminato La rivoluzione dell’economia Le condizioni dello sviluppo industriale in Gran Bretagna La nuova organizzazione del lavoro e le trasformazioni sociali La Rivoluzione americana La ribellione delle colonie inglesi d’America Il valore della rappresentanza Verso l’indipendenza e la Costituzione La Rivoluzione francese La Francia alla vigilia della Rivoluzione Il fallimento degli Stati generali Libertà, uguaglianza, fraternità Dalla guerra europea all’avvento di Napoleone Dal Consolato all’Impero e alla sconfitta CULTURA Verso l’Illuminismo Razionalismo e rinnovamento del sapere

202

204 204 204 204 205 205 205 205 205 206 206 206 206 206 207 207 208 208

© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

T

La riforma delle accademie da Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia di Ludovico Antonio Muratori

Il nuovo ruolo dell’intellettuale L’interesse per la ricerca storica

T

208 209

LETTERATURA E STORIA Il resto di niente di Enzo Striano

“Il Caffè” e il suo programma di Pietro Verri Contro la pena di morte e la tortura – di Cesare Beccaria

Alle basi dello storicismo da Principi di scienza nuova di Giambattista Vico T Storia civile e potere ecclesiastico da Istoria civile del Regno di Napoli di Pietro Giannone T

Progresso e ragione L’Illuminismo Origine e caratteri dell’Illuminismo Le opere più importanti dell’Illuminismo P Ragione Le facoltà della mente di Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert I philosophes La critica alle istituzioni tradizionali L’Enciclopedia

Vantaggi e necessità di una pubblica educazione da La scienza della legislazione di Gaetano Filangieri

209 210 211 212 212

213 214 214 214

La definizione di genio da Enciclopedia di Jean-François Saint-Lambert e Denis Diderot T Un nuovo atteggiamento mentale da Enciclopedia di Denis Diderot

LETTERATURA I rapporti tra Arcadia e Barocco L’evoluzione del romanzo europeo La riforma del teatro La poesia in Italia L’utilità della poesia di Giuseppe Parini Il Neoclassicismo Il Preromanticismo L’Apollo del Belvedere di Johann Joachim Winckelmann Tipologie e generi letterari Concetti chiave Esercizi di sintesi

219 220 222 223 223 224 225 226 226

228 229 231 233

T

I tentativi di riforma L’origine della disuguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau F La voce tolleranza L’Illuminismo in Italia Milano e “Il Caffè” T

F

214

215 217 217 217

I buoni principi del commercio da “Il Caffè” di Pietro Verri

L’Illuminismo napoletano

© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Capitolo 9 L’Arcadia e Metastasio L’Arcadia e il superamento del Barocco L’Accademia dell’Arcadia Il programma dell’Arcadia F Il dibattito critico sull’Arcadia La poesia arcadica Gli autori

T

235 236 236 237 238 238

Sognai sul far dell’alba e mi parea di Giambattista Felice Zappi

Solitario bosco ombroso di Paolo Rolli Pietro Metastasio La vita e le opere T1

218

INDICE

GENERALE

239 241 241

9

T

Le rime T2 Sogni e favole io fingo da Sonetti I melodrammi e la riforma del genere T

Capitolo 11

Lettera a Marianna Bulgarelli

Carlo Goldoni 241 242 244

Il dramma di Megacle da Olimpiade

Il supremo sacrificio dell’eroe da Attilio Regolo, III di Pietro Metastasio Amadeus Concetti chiave Esercizi di sintesi T3

245 249 250 251

La vita e le opere La carriera teatrale La polemica con Gozzi Il soggiorno in Francia La riforma del teatro T1 I miei due grandi libri, Mondo e Teatro – da Prefazione alla prima raccolta delle commedie F Il teatro nel teatro: da Goldoni a Pirandello La locandiera F La trama della Locandiera T2 Il Conte, il Marchese e il Cavaliere da La locandiera, I, 1, 3 e 4 T3 L’ingresso della protagonista da La locandiera, I, 5 e 9 T

Capitolo 10 Il romanzo nel Settecento L’evoluzione del romanzo europeo 252 I sottogeneri del romanzo settecentesco 253 Voltaire 254 T

10

INDICE

T

Manifesto settecentesco per la pace da Dizionario filosofico

Il Candido e gli altri romanzi filosofici T1 La conclusione del Candido da Candido, XXX Jonathan Swift I viaggi di Gulliver T2 A Lilliput da I viaggi di Gulliver, I Daniel Defoe Robinson Crusoe T3 Operosità e intraprendenza da Robinson Crusoe Samuel Richardson Pamela T4 La virtù di Pamela da Pamela, XV Concetti chiave Esercizi di sintesi GENERALE

T4

274 275 276 276 277

279 283 284 284

285 289

Una gara di seduzione e di recitazione da La locandiera, II, 4

Mirandolina all’attacco da La locandiera, II, 16 e 17

292

Mirandolina servita, vagheggiata, adorata da La locandiera, III, 6 e 13-14

Mirandolina si sposa da La locandiera, III, 18-20 L’egoismo di Mirandolina di Guido Davico Bonino F La trama de I rusteghi T6 Interno veneziano con rusteghi da I rusteghi, III, 1 T7 Una commedia corale da Le baruffe chiozzotte, I, 1 T5

255 256 259 259 260 263 263 264 267 267 268 272 273

295 299 300 300 304

I Mémoires T I capricci di Teodora Medebach, il successo di Corallina da Mémoires Concetti chiave Esercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

307 308

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Capitolo 12

Capitolo 13

Giuseppe Parini

Vittorio Alfieri

La vita Gli studi e l’attività di precettore Gli incarichi ufficiali La Rivoluzione francese e gli ultimi anni Il pensiero T

T1

312 313

La falsa e la vera nobiltà da Dialogo sopra la nobiltà

La poetica Le Odi Le odi principali: i contenuti

T T

310 310 311

313 314 315

La vita e le opere I viaggi e gli studi da autodidatta Il rimpatrio e la conversione letteraria F La Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso Il pensiero e la poetica P Titanismo T1 Come vivere in un regime tirannico – da Della tirannide Alfieri, uomo solitario e sradicato di Natalino Sapegno T2 Il divino impulso dello scrittore da Del principe e delle lettere Le Rime

La salubrità dell’aria – da Odi L’educazione – da Odi La caduta – da Odi

T

340 341 342 343 344 344 346

349 350 352

Presso la foce dell’Arno da Rime, CXXXV

316 In fuga da un’epoca vile da Rime, CLXXIII Le tragedie T3

T

Alla Musa – da Odi

Il Giorno La struttura e il contenuto dell’opera Le caratteristiche del capolavoro T2 La dedica – da Il Mattino T3 Il Giovin Signore e il precettore da Il Mattino

T

320 320 321 322

Alcune tragedie di Alfieri La composizione delle tragedie da Vita scritta da esso, IV Il Saul

357 359

324

T5 T4

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356

T4

La favola del Piacere da Il Mezzogiorno

La vergine cuccia da Il Mezzogiorno T5 La sfilata degli oziosi da La Notte L’ironia come limite della poesia del Giorno di Domenico Petrini Concetti chiave Esercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

I caratteri dello stile tragico da Risposta dell’autore a Ranieri de’ Calzabigi

F

T T

353 355

328 331

335 337 338

Gli antefatti della tragedia da Saul, I, 1-2 I tormenti di Saul – da Saul, II, 1 360

David al cospetto di Saul da Saul, II, 3 T La spada di Golia, l’ira di Saul, il canto di David da Saul, III, 4 T

Saul contro Achimelec da Saul, IV, 4 T7 Il suicidio – da Saul, V, 4-5 T6

INDICE

GENERALE

364 369

11

Il suicidio d’amore – da I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe Il Preromanticismo inglese T2

Elementi di tragicità nel Saul di Walter Binni La Mirra T8 Il dramma di un sentimento inconfessabile da Mirra, V, 2 Il Grand Tour Concetti chiave Esercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

372

394 397

La fuga di Isabella da Il castello di Otranto di Horace Walpole T Ritratto del monaco “nero” Schedoni – da L’italiano di Ann Radcliffe T

372 377 379 380

Sublime Elegia scritta in un cimitero di campagna – di Thomas Gray Il Preromanticismo in Italia T4 L’amore per Evirallina da Poesie di Ossian, Fingal di Melchiorre Cesarotti Concetti chiave Esercizi di sintesi P

398

T3

Capitolo 14 Fra Neoclassicismo e Preromanticismo Il Neoclassicismo L’opera di Winckelmann Il secondo teorico: Giovanni Battista Piranesi La concezione neoclassica e l’Italia F Gli scavi archeologici e la passione per le rovine Il Neoclassicismo e le poetiche letterarie Vincenzo Monti La vita e le opere T T

T

12

INDICE

384 385 385 385

387 392

L’incontro di Ettore e Andromaca da Iliade, VI

Il Preromanticismo Il Preromanticismo tedesco L’equazione tra amore e arte da I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe GENERALE

402 406 407

384 384

Prosopopea di Pericle Alta è la notte da Pensieri d’amore

T1 Al signor di Montgolfier F La traduzione dell’Iliade

T

382 383

398 400

393 393

Capitolo 15 Ugo Foscolo, un poeta tra due epoche Tra Neoclassicismo e Romanticismo La vita e le opere Il trasferimento a Venezia e l’impegno politico La disillusione politica Le peregrinazioni in Europa Il rientro in Italia L’esilio e gli ultimi anni di vita Il pensiero La poetica Le Ultime lettere di Jacopo Ortis T1 La dedica – da Ultime lettere di Jacopo Ortis T2 La delusione politica: Napoleone cede Venezia all’Austria – da Ultime lettere di Jacopo Ortis

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La consolazione dell’amore da Ultime lettere di Jacopo Ortis T Sentimento e ragione da Ultime lettere di Jacopo Ortis T Visita alla casa di Petrarca da Ultime lettere di Jacopo Ortis T

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Il bacio di Teresa – da Ultime lettere di Jacopo Ortis T4 L’incontro con Parini – da Ultime lettere di Jacopo Ortis T5 L’ultimo messaggio di Jacopo da Ultime lettere di Jacopo Ortis Uno scarno canzoniere: le Poesie Le odi T6 All’amica risanata – da Poesie I sonetti T7 Alla sera – da Poesie, sonetto I T8 Autoritratto da Poesie, sonetto VII A Zacinto T9 da Poesie, sonetto IX T10 In morte del fratello Giovanni da Poesie, sonetto X

Le Grazie

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T15

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Alla Musa da Poesie, sonetto XI

Dei sepolcri Lo sviluppo dei temi e il raccordo attraverso le transizioni La religione delle illusioni Il genere e le innovazioni La struttura metrica e ritmica T11 Il prologo da Dei sepolcri, vv. 1-15 T12 Antropologia del sepolcro da Dei sepolcri, vv. 16-150 T13 Aspetti storico-civili della tomba da Dei sepolcri, vv. 151-212 T14 La creazione del mito poetico della tomba da Dei sepolcri, vv. 213-295 Il mondo pieno e concreto dei Sepolcri di Francesco De Sanctis La Notizia intorno a Didimo Chierico F Jacopo Ortis e Didimo Chierico

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T16

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L’invocazione alle Grazie e la nascita della poesia da Le Grazie, I A Vesta da Le Grazie, II, 97-125

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Il velo delle Grazie da Le Grazie, III

Le Grazie come poema da interpretare anche in chiave politica di Vitilio Masiello Foscolo, Canova e la bellezza Concetti chiave Esercizi di sintesi e per l’Esame di Stato Immagini simbolo

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L’educazione sentimentale da Notizia intorno a Didimo Chierico Il ritratto interiore di Didimo da Notizia intorno a Didimo Chierico

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L’OTTOCENTO: ROMANTICISMO E REALISMO Capitolo 16 L’età del Romanticismo e del Realismo Tavola sinottica

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STORIA

L’età della Restaurazione Il tentativo di restaurazione del Congresso di Vienna Un impossibile ritorno al passato Il pensiero liberale Le potenze reazionarie Le trasformazioni economiche e sociali La “questione sociale” Il movimento socialista e il pensiero di Marx ed Engels I diversi orientamenti del socialismo e la dottrina sociale della Chiesa Le Rivoluzioni ottocentesche e il Risorgimento italiano Le insurrezioni del 1820-1821 I moti del 1830-1831 Il 1848 Il processo di unificazione dell’Italia INDICE

GENERALE

484 484 484 484 484 485 485 486 486 487 487 487 488 488

13

I princìpi della Rerum novarum di papa Leone XIII

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CULTURA

La crisi del razionalismo settecentesco e le nuove tendenze filosofiche F L’idea di nazione Il Romanticismo italiano s’intreccia con la politica Che cos’è la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini Socialismo utopistico e socialismo scientifico Progresso scientifico e progresso sociale di Carlo Pisacane LETTERATURA

Il Romanticismo letterario I prodromi del Romanticismo in Europa Caratteri e temi del Romanticismo P L’aggettivo romantico La poetica romantica Il manifesto del Romanticismo inglese – di William Wordsworth La pittura romantica Caratteri e temi del Romanticismo italiano Il Realismo Caratteri e temi del Realismo Il romanzo realistico La città fabbrica di Charles Dickens

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LETTERATURA E ARTE Storia sociale dell’arte nell’Ottocento LETTERATURA E MUSICA Due espressioni di una stessa realtà

La sfiducia nella ragione e la rivalutazione della religione Il sentimento della Sehnsucht La nuova poesia romantica Il nuovo artista: il genio Arte, poesia e popolo La parabola del Romanticismo in Europa Il Romanticismo tedesco La periodizzazione e gli autori

514 514 514 515 515 515 516 516

Una storia d’amore e di morte da Leonora di Gottfried August Bürger T Essere un col tutto – da Iperione di Friedrich Hölderlin T

Johann Wolfgang Goethe Il gruppo di Jena: i fratelli Schlegel e Novalis T1 La poetica romantica da Frammenti di Friedrich von Schlegel T2 La notte, la morte, il desiderio di amore eterno da Inni alla notte, VI di Novalis Il Romanticismo inglese Coleridge, Wordsworth e Blake L’estetica romantica La seconda generazione romantica T3 L’albatro – da La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge T4 Aroldo e il gregge degli uomini da Il pellegrinaggio del giovane Aroldo di George Gordon Byron La narrativa romantica

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L’apparizione del mostro da Frankenstein di Mary Shelley T I pensieri della mostruosa creatura di Frankenstein da Frankenstein di Mary Shelley T

Tipologie e generi letterari Concetti chiave Esercizi di sintesi

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Capitolo 17 Il Romanticismo francese

Il Romanticismo europeo I cardini e lo sviluppo del Romanticismo europeo Lo sviluppo del Romanticismo in Europa

14

INDICE

GENERALE

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L’eroe in fuga da se stesso da René di François-René de Chateaubriand © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Victor Hugo, il caposcuola romantico T

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La natura e la verità da Prefazione a Cromwell di Victor Hugo

El desdichado – da Chimere di Gérard de Nerval Mito e patologia del genio di Giovanni Macchia Il Romanticismo italiano La polemica classico-romantica T6 Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni di Madame de Staël

Concetti chiave Esercizi di sintesi

Capitolo 18 La grande stagione del romanzo

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Il romanzo nell’Ottocento La svolta realista in Europa Verso il romanzo moderno Il romanzo in Italia Il romanzo storico Walter Scott e Ivanhoe T1 Il cavaliere normanno, il templare e l’ebreo da Ivanhoe – di Walter Scott

Un italiano risponde al discorso di Madame de Staël di Pietro Giordani

Per una poesia universale e popolare – da Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo di Giovanni Berchet Romanticismo e Risorgimento: le riviste letterarie Caratteristiche specifiche e problematiche del Romanticismo italiano Il secondo o tardo Romanticismo T7

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Notte – da Psiche di Giovanni Prati

La questione della lingua nella prima metà dell’Ottocento F La poesia dialettale di Porta e Belli Porta e le dominazioni straniere in Italia di Carlo Porta T Offerta a Dio (La preghiera) di Carlo Porta T La Ninetta del Verzee di Carlo Porta T Sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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Maurizio tenta di conquistare Lady Rowena – da Ivanhoe di Walter Scott

Victor Hugo e I miserabili F Romanticismo e Realismo narrativo in Francia T2 Il furto dell’argenteria da I miserabili di Victor Hugo Ippolito Nievo e Le confessioni di un italiano

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Il castello di Fratta da Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo

La Pisana si rifugia da Carlino da Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo Il romanzo realista La pittura realista francese Stendhal e La Certosa di Parma T3

F

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Il mito del successo da Il rosso e il nero di Stendhal

Il monologo introspettivo di Fabrizio da La Certosa di Parma di Stendhal Balzac e Papà Goriot T4

INDICE

GENERALE

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15

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Le riflessioni di Rastignac da Papà Goriot di Honoré de Balzac Flaubert e Madame Bovary T6 Emma a teatro da Madame Bovary di Gustave Flaubert T5

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INDICE

T

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GENERALE

611 615

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La notte calava cupa, e Maria si sentiva finire… da Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo

Concetti chiave Esercizi di sintesi

618 619

Capitolo 19 589 589 589 590

591 595

Alessandro Manzoni La vita e le opere Gli anni della formazione A Parigi: dall’Illuminismo al Cristianesimo Gli anni della maturità artistica Gli ultimi anni F L’epistolario T

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Il diavolo sul campanile di Edgar Allan Poe

Melville, l’avventura e il simbolismo filosofico T9 L’avvistamento della balena bianca – da Moby Dick di Herman Melville Tolstoj e il romanzo realistico a tesi T10 Il principe Andréj alla battaglia di Austerlitz da Guerra e Pace di Lev Tolstoj Dostoevskij e il romanzo introspettivo

16

580 583

Il ritratto di Emma da Madame Bovary di Gustave Flaubert

Le altre forme della narrativa ottocentesca Charles Dickens e la narrativa umoristica F La nascita del romanzo naturalista F Il feuilleton T7 La campagna elettorale da Il Circolo Pickwick di Charles Dickens Oliver Twist Edgar Allan Poe e la narrativa dell’orrore T8 Il crollo della casa Usher da Racconti di Edgar Allan Poe

La confessione di Smerdjakov a Ivan – da I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij Tommaseo e il romanzo di introspezione in Italia T12 La malattia di Maria da Fede e Bellezza di Niccolò Tommaseo T11

La pensione della signora Vauquer da Papà Goriot di Honoré de Balzac

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Una religiosità profonda e problematica da lettera a Diodata Saluzzo

Il pensiero L’evoluzione del pensiero manzoniano La concezione religiosa P Calvinismo e Giansenismo La poetica T1 L’utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo da Sul Romanticismo La teoria linguistica e la sua evoluzione Le opere minori Gli Inni sacri F Il frammento Natale 1833 T2 La Pentecoste – da Inni sacri Le poesie civili e politiche T3 Marzo 1821 T4 Il cinque maggio

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Il piano umano e quello divino nel Cinque maggio di Giuseppe Ungaretti Le tragedie Il Conte di Carmagnola

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Il monologo di Marco da Il Conte di Carmagnola, IV

L’Adelchi Le teorie sul teatro nella Prefazione al Conte di Carmagnola La trama dell’Adelchi T5 Il vero della storia e il vero della poesia da Lettera a monsieur Chauvet T6 Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti – da Adelchi, III, coro T7 Sparsa le trecce morbide da Adelchi, IV, coro T8 La morte di Adelchi da Adelchi, V Le opere storiche T9 L’inizio della caccia agli untori da Storia della colonna infame, I Manzoni e Hayez I promessi sposi La genesi dei Promessi sposi I personaggi F La trama dei Promessi sposi Il genere, la finalità, il tema e lo stile del romanzo L’ideologia politica sottesa al romanzo La scelta del romanzo storico e le innovazioni narrative La lingua F Lo scritto Sul romanzo storico F La questione della lingua dopo Manzoni T10 Il manoscritto seicentesco da I promessi sposi, Introduzione T11 L’incipit del romanzo e l’incontro fra don Abbondio e i bravi da I promessi sposi, I

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La giovinezza di padre Cristoforo da I promessi sposi, IV

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La richiesta di perdono di padre Cristoforo da I promessi sposi, IV

La tecnica narrativa di Manzoni nell’incipit del romanzo di Umberto Eco T12 La “notte degli imbrogli”, trionfo del registro umoristico da I promessi sposi, VIII T13 L’Addio, monti: il culmine del registro lirico da I promessi sposi, VIII Un confronto fra I promessi sposi e il Fermo e Lucia T14 La monaca di Monza: il dramma psicologico da I promessi sposi, X T15 La prima stesura della vicenda della monaca di Monza da Fermo e Lucia, II, 2 T16 L’assalto alla casa del vicario: il realismo sociologico da I promessi sposi, XIII T17 Gli untori a Milano: l’inserto storico da I promessi sposi, XXXII T18 Don Rodrigo colto dalla peste: il registro tragico da I promessi sposi, XXXIII T19 Cecilia: il vertice della commozione da I promessi sposi, XXXIV

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La morte di don Rodrigo da Fermo e Lucia, IV, IX e da I promessi sposi, XXXV

La peste nella letteratura Il sugo di tutta la storia: la conclusione pedagogica da I promessi sposi, XXXVIII e da Fermo e Lucia, IV, 9 F La lezione morale che chiude il Bildungsroman di Renzo F Le Osservazioni sulla morale cattolica La Storia e l’Antistoria di Giorgio Bárberi Squarotti Concetti chiave Esercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

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T20

INDICE

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17

Capitolo 20 La letteratura risorgimentale Letteratura e battaglie culturali dal 1815 al 1870 Fasi, temi e generi della letteratura risorgimentale La poesia Il romanzo storico

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PERCORSO DI GENERE Il romanzo storico: T Morte, pentimento e redenzione da Marco Visconti di Tommaso Grossi T La morte della protagonista e la fiducia nella Provvidenza da Margherita Pusterla di Cesare Cantù T La disfida di Barletta da Ettore Fieramosca di Massimo d’Azeglio T Il delirio del padre da Beatrice Cenci di Francesco Domenico Guerrazzi

La memorialistica F Francesco De Sanctis T1 Per una letteratura europea, strumento di integrazione fra i popoli da D’una letteratura europea di Giuseppe Mazzini T2 Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli T3 Il carceriere Schiller da Le mie prigioni di Silvio Pellico T4 Sant’Ambrogio di Giuseppe Giusti Concetti chiave Esercizi di sintesi

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Giacomo Leopardi

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INDICE

GENERALE

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Ad Angelo Mai – da Canti, III

Il contrasto fra intelletto e cuore di Francesco De Sanctis T1 Ultimo canto di Saffo da Canti, IX F Saffo T2 Il passero solitario da Canti, XI T3 L’infinito – da Canti, XII

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Capitolo 21

La vita e le opere L’infanzia e l’adolescenza La giovinezza confinata nel natìo borgo selvaggio

Il periodo dei viaggi e dei ritorni Gli ultimi anni a Napoli Il pensiero La teoria del piacere Dal pessimismo storico al pessimismo cosmico L’ultima fase del pensiero La poetica I Canti Le fonti Le canzoni I piccoli idilli I grandi idilli o canti pisano-recanatesi Il “ciclo di Aspasia” La ginestra: un testamento spirituale e poetico F Il contenuto dei principali Canti

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La sera del dì di festa da Canti, XIII

La poetica dell’indefinito e L’infinito T4 Alla luna – da Canti, XIV T5 A Silvia – da Canti, XXI T6 Le ricordanze – da Canti, XXII F La poetica della rimembranza in Leopardi T7 Canto notturno di un pastore errante dell’Asia da Canti, XXIII T8 La quiete dopo la tempesta da Canti, XXIV T9 Il sabato del villaggio da Canti, XXV F Il “ciclo di Aspasia”: A se stesso F

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La ginestra o il fiore del deserto da Canti, XXXIV Le Operette morali I temi, i personaggi e lo stile F L’argomento delle principali Operette morali T10

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Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare da Operette morali

Dialogo della Natura e di un Islandese da Operette morali

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Dialogo di Tristano e di un amico da Operette morali

Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere da Operette morali F Il Cantico del gallo silvestre e il Frammento apocrifo di Stratone Lo Zibaldone T13 Natura e infelicità da Zibaldone T14 Poesia sentimentale e di immaginazione da Zibaldone Leopardi: la delusione storica e il progressismo di Cesare Luporini Concetti chiave Esercizi di sintesi e per l’Esame di Stato Immagini simbolo T12

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Percorso 2

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Tra biografia e autobiografia

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PERCORSI TEMATICI Percorso 1 Giornalismo, divulgazione, costume, società La nascita e lo sviluppo del giornalismo Il giornalismo nell’Ottocento © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

I giornali in Italia Una voce contemporanea: Mino Monicelli T1 Tra satira politica e pubblicistica da Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini T2 Le parole servano alle idee, non le idee alle parole da “Il Caffè” di Alessandro Verri T3 Il club – da “The Spectator”, n. 2 , marzo 1711 di Richard Steele T4 David Copperfield diventa giornalista da David Copperfield, XXXVI e XXXVIII di Charles Dickens T5 Il programma de “Il Conciliatore” di Pietro Borsieri T6 Pelle d’immigrato da “l’Espresso”, settembre 1969 di Mino Monicelli La pittura di genere: raccontare la società I cento passi

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Le origini del genere autobiografico Le caratteristiche del genere biografico Le memorie autobiografiche nel Settecento L’Ottocento e l’autobiografia Una voce contemporanea: Umberto Saba T1 Lazaro inizia il racconto della sua vita da Lazarillo de Tormes, I T2 Tra i ghiacci del Baltico da Vita scritta da esso, III di Vittorio Alfieri T3 La grande Roma da Viaggio in Italia di Johann Wolfgang Goethe T4 Tristram si racconta da Vita e opinioni di Tristram Shandy, I di Laurence Sterne INDICE

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Una memorialistica per formare i giovani da I miei ricordi di Massimo d’Azeglio Due ritratti ricchi d’affetto da Canzoniere – di Umberto Saba T6 La mia bambina con la palla in mano T7 Ed amai nuovamente, e fu di Lina Autoritratti d’artista Barry Lyndon T5

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Percorso 3 La rappresentazione della donna nella letteratura La figura femminile nella poesia barocca Tra Illuminismo e Romanticismo Una voce contemporanea: Elsa Morante

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INDICE

GENERALE

Pallidetto mio sole da La Lira, II, XV di Giambattista Marino T2 L’amore e la ragione da Giulia o la nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau T3 A Luigia Pallavicini caduta da cavallo di Ugo Foscolo T4 Una proposta di matrimonio da Orgoglio e pregiudizio, XIX di Jane Austen T5 Lucia e l’Innominato da I promessi sposi, XXX di Alessandro Manzoni T6 La maestra Ida Ramundo da La Storia, II di Elsa Morante Due protagoniste della grande pittura Tutta la vita davanti T1

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Glossario Indice dei nomi

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Il Seicento

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-1625. Roma, Galleria Borghese

CAPITOLO

1

Il Seicento

TAVOLA SINOTTICA

16001650

22

STORIA

CULTURA

LETTERATURA

1601 Giunge a Pechino il missionario gesuita Matteo Ricci. 1601 Viene fondata la Compagnia olandese delle Indie orientali. 1603 Giacomo I Stuart succede a Elisabetta I sul trono inglese. 1606 Papa Paolo V lancia l’interdetto contro Venezia. 1609 Federigo Borromeo fonda a Milano la Biblioteca Ambrosiana. 1612 In Giappone iniziano le persecuzioni contro i cattolici. 1618 Inizia la guerra dei Trent’anni. 1620 I Padri pellegrini sbarcano in Nordamerica. 1624 Gli olandesi fondano sull’isola di Manhattan la colonia di Nuova Amsterdam. 1624 In Francia il cardinale Richelieu diventa primo ministro. 1630 La peste dilaga nell’Italia settentrionale, colpendo in particolare Milano. 1642 In Inghilterra scoppia la guerra civile. 1647 A Napoli scoppia una rivolta popolare guidata da Masaniello contro il malgoverno spagnolo. 1648 La pace di Westfalia conclude la guerra dei Trent’anni.

1600 Giordano Bruno è arso vivo in Campo dei Fiori a Roma. 1601 Keplero è nominato astronomo dell’imperatore Rodolfo II. 1602 Campanella compone La Città del Sole. 1603 Federico Cesi fonda l’Accademia dei Lincei. 1609 Fondazione della Moschea Blu a Istanbul. 1610 Caravaggio muore sulla spiaggia di Porto Ercole. 1616 Viene messo all’indice il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico. 1620 Francis Bacon pubblica il Novum Organum. 1622-1625 Bernini scolpisce Apollo e Dafne. 1624-1635 Bernini realizza il baldacchino al centro della Basilica di San Pietro. 1625 Grozio pubblica il De iure belli ac pacis, le cui tesi sono all’origine del giusnaturalismo moderno. 1630-1631 Longhena realizza la Chiesa di Santa Maria della Salute a Venezia. 1632 Galileo pubblica il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. 1632-1654 In India sorge il Taj Mahal. 1633 Galileo è processato dal Tribunale dell’Inquisizione. 1635 Cartesio pubblica il Discorso sul metodo. 1637-1641 Borromini realizza la Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane a Roma. 1642 Rembrandt dipinge La ronda di notte. 1642-1644 Borromini realizza la Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma.

1605 Cervantes pubblica la prima parte del Don Chisciotte. 1606 Giulio Cesare Croce scrive Le sottilissime astuzie di Bertoldo. 1609 Pubblicazione dei Sonetti di Shakespeare. 1611 Shakespeare rappresenta la sua ultima opera, La tempesta. 1612 Prima edizione del Vocabolario della Crusca. 1615 Cervantes pubblica la seconda parte del Don Chisciotte. 1619 Sarpi pubblica a Londra l’Istoria del Concilio tridentino. 1623 Marino pubblica l’Adone. 1628 Federico Della Valle compone La Reina di Scozia. 1630 Tassoni pubblica La secchia rapita. 1630 Tirso de Molina compone L’ingannatore di Siviglia e Convitato di pietra. 1635 Calderón de la Barca compone La vita è sogno. 1636 Pubblicazione de Lo cunto de li cunti di Giambattisa Basile.

CAP. 1 - IL SEICENTO

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16511700

STORIA

CULTURA

1653 In Brasile si afferma il dominio portoghese. 1659 La pace franco-spagnola dei Pirenei sancisce la fine del predominio spagnolo in Europa. 1664 Nuova Amsterdam passa all’Inghilterra ed è ribattezzata New York. 1664 Nasce la Compagnia francese delle Indie orientali, con basi in Madagascar e nell’isola di Réunion. 1668 Con la pace di Aquisgrana si conclude la guerra franco-spagnola per il possesso delle Fiandre. 1670 Cosimo III de’ Medici diventa granduca di Toscana. 1683 Sconfitta dei Turchi a Vienna, che decreta la fine dell’espansione ottomana. 1685 Luigi XIV revoca l’editto di Nantes, che concedeva libertà di culto agli ugonotti. 1689 L’inghilterra diviene una monarchia costituzionale fondata sul Bill of Rights, che limita i poteri della corona. 1690 Gli inglesi fondano Calcutta. 1697 Primo viaggio in Europa dello zar Pietro il Grande, che vuole raccogliere idee per la modernizzazione della Russia.

1651 Hobbes pubblica il Leviatano. 1656-1667 Bernini progetta e realizza il colonnato di Piazza San Pietro. 1657 Il granduca di Toscana fonda l’Accademia del Cimento. 1662 Legge di Boyle sulla pressione dei gas. 1662 ca. Realizzazione della Reggia di Versailles. 1667-1690 Guarini realizza la cappella della Santa Sindone, annessa al Duomo di Torino. 1672-1678 Newton e Leibniz, in modo indipendente, si occupano del calcolo infinitesimale. 1675 Fondazione dell’osservatorio di Greenwich, in Inghilterra. 1677 Muore Baruch Spinoza. 1687 Newton espone la teoria della gravitazione universale. 1690 Locke pubblica il Saggio sull’intelletto umano. 1690 ca. Costruzione dell’attuale castello di Schönbrunn a Vienna.

LETTERATURA 1650-1673 Bartoli scrive l’Istoria della Compagnia di Gesù. 1654 Tesauro compone Il cannocchiale aristotelico. 1656 Pietro Sforza Pallavicini pubblica l’Istoria del Concilio di Trento. 1657 De’ Dottori compone l’Aristodemo. 1664 Molière compone il Tartufo. 1665 Molière compone il Don Giovanni. 1667 Pubblicazione del Paradiso perduto di John Milton. 1668 Pubblicazione del “Giornale de’ letterati” a Roma da parte dell’abate Francesco Nazzari. 1677 Rappresentazione della Fedra di Racine. 1690 Fondazione dell’Accademia dell’Arcadia.

Riunione all’Accademia del Cimento, dedita alla ricerca scientifica (cfr. pag. 30).

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CAP. 1 - IL SEICENTO

23

STORIA

STORIA IL

NUOVO ASSETTO POLITICO DELL’EUROPA

Il Seicento e le sue contraddizioni Il Seicento si presenta come un secolo che porta in sé notevoli contraddizioni. Da un lato è conosciuto come il “secolo d’oro” caratterizzato dal forte sviluppo economico di molti Stati europei e da uno straordinario splendore artistico e culturale, con la fioritura della sfarzosa arte barocca e la realizzazione di importanti scoperte scientifiche, accompagnate in molti casi da applicazioni sul versante della tecnica. D’altro lato, però, il Seicento è anche un secolo segnato da drammatiche carestie e da epidemie che decimano la popolazione di ampie regioni dell’Europa. Per decenni, inoltre, tutto il Vecchio Continente è dilaniato da guerre che, seppure giustificate da motivazioni di carattere religioso che ancora vedono scontrarsi cattolici e protestanti, di fatto nascondono interessi politici ed economici e portano a profondi mutamenti negli equilibri e nei rapporti di forza tra gli Stati europei. All’inizio del XVII secolo, forti motivi di scontro fra cattolici e protestanti sono presenti soprattutto nei territori tedeschi. La pace di Augusta (1555) aveva stabilito per i principi dell’Impero la libertà di scegliere se professare la religione cattolica o quella protestante, con l’obbligo per i sudditi di adeguarsi alla scelta del loro sovrano (cuius regio, eius religio). Questo però non basta a sedare gli odi e gli antagonismi religiosi, che nascondono perlopiù interessi di carattere politico. In Germania si creano due opposti schieramenti, l’Unione protestante e la Lega cattolica, che per molti anni impediscono la riconciliazione religiosa e l’assestamento politico dell’Impero.

La guerra dei Trent’anni: motivi religiosi e interessi politici Con l’ascesa al trono imperiale di Ferdinando II d’Asburgo (1619-1637), convinto sostenitore dei cattolici, le lotte religiose riprendono vigore. La posizione intransigente di Ferdinando in campo religioso rappresenta l’occasione dello scoppio della guerra dei Trent’anni, il conflitto prolungatosi dal 1618 al 1648 che ridisegnerà l’assetto politico dell’Europa. I principi protestanti tedeschi si armano contro

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CAP. 1 - IL SEICENTO – STORIA

quelli cattolici, sostenitori della politica controriformista dell’imperatore, e la guerra che ne nasce dilaga presto in tutto il continente. Con gli Asburgo d’Austria si schierano subito i sovrani spagnoli, cattolici e appartenenti alla stessa dinastia, mentre i protestanti tedeschi ottengono l’appoggio della Danimarca e della Svezia. Nel 1635 anche la Francia, benché cattolica, entra in guerra a fianco delle potenze riformate, mirando a indebolire la Spagna e l’Impero, in modo da potere assumere un ruolo egemone in Europa. Ciò rivela la natura eminentemente politica della guerra dei Trent’anni. Nelle sue diverse fasi, il conflitto vede i due schieramenti in lotta combattere con fortune alterne, senza che l’uno riesca a prevalere in modo determinante sull’altro. Logorati da tre decenni di guerre che hanno devastato il territorio europeo, gli Stati belligeranti si accordano per sottoscrivere la pace di Westfalia (1648). La potenza e il prestigio degli Asburgo escono fortemente compromessi dalla guerra: il ruolo dell’imperatore viene ulteriormente ridimensionato e la sua autorità effettiva limitata ai possedimenti asburgici, mentre la Spagna, pur conservando i propri territori in Italia e nel Nordeuropa, si avvia verso un inarrestabile declino politico ed economico. La Francia, invece, inizia a emergere come nuova grande potenza nel panorama europeo.

Le nuove potenze emergenti Alla definizione dei nuovi equilibri europei seguiti alla pace di Westfalia contribuisce anche l’affacciarsi sulla scena politica europea di nuove potenze emergenti, che possono vantare solidità e stabilità nell’organizzazione interna dello Stato e un’economia moderna e ricca. Dopo anni di lotte, le Province Unite d’Olanda riescono a conquistare la completa indipendenza dalla Spagna e si consolidano politicamente in un regime repubblicano e federale che unisce in un’unica compagine sette province, ciascuna delle quali gode di ampi margini di autonomia. Nella seconda metà del XVII secolo le Province Unite, grazie all’intraprendenza del ceto borghese, diventano una grande potenza commerciale, limitata solo dall’egemonia marittima dell’Inghilterra, che conosce una straordinaria fioritura economica e culturale. Dopo la guerra dei Trent’anni la dinastia degli Hohenzollern riesce a risollevare con abi© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

DUE MODELLI DI MONARCHIA: FRANCIA E INGHILTERRA Il consolidamento della monarchia francese Il rafforzamento politico della Francia nel contesto delle potenze europee si accompagna, all’interno, al consolidamento del potere monarchico. Il rafforzamento della monarchia francese è da ricondurre soprattutto all’opera del cardinale Richelieu, nominato primo ministro dal 1624, durante la minore età del re Luigi XIII. Richelieu limita fortemente il ruolo politico dell’aristocrazia (alla quale vengono però confermati i privilegi di natura economica), concentrando tutti i poteri nella persona del sovrano. Lo Stato viene riorganizzato anche sotto il profilo amministrativo, con un forte accentramento di tutte le funzioni attraverso la creazione di un efficiente apparato burocratico, composto da funzionari scelti soprattutto tra i componenti del ceto borghese. Sempre a Richelieu si deve la scelta di entrare nella guerra dei Trent’anni a fianco delle potenze protestanti e la scelta di intraprendere l’espansione coloniale in Africa (Senegal) e in America (Canada). Una svolta decisiva nell’instaurazione dell’assolutismo monarchico in Francia si ha con l’ascesa al trono di Luigi XIV che, a partire dal 1661, assunto personalmente il potere, governa in modo del tutto autonomo e indipendente, riservandosi qualsiasi decisione di tipo politico, economico e amministrativo. Il sovrano, sciolto da qualsiasi vincolo di legge (da cui il termine “assoluto”, da ab-solutus, “sciolto da”), diventa il padrone incontrastato dello Stato, signore indiscusso del regno e dei sudditi. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

L’economia francese conosce un momento di intenso sviluppo grazie all’azione del ministro Jean-Baptiste Colbert, che, pur attuando una strategia economica fondata sul mercantilismo (privilegiando le esportazioni rispetto alle importazioni per accrescere la ricchezza interna dello Stato), non riesce a strappare all’Inghilterra il monopolio dei commerci con le colonie americane.

L’Inghilterra verso la monarchia costituzionale Anche in Inghilterra, nel corso del Seicento, l’istituto monarchico trova una propria particolare identità, ben diversa da quella francese. Soprattutto nella seconda metà del secolo, infatti, si va definendo il carattere costituzionale e parlamentare della monarchia britannica, che afferma il proprio prestigio anche in ambito internazionale, sotto il profilo sia politico, sia economico, con la conquista del predominio nei commerci oceanici. Tutto questo, però, avviene non senza conflitti talvolta drammatici. Il momento di maggiore crisi nel processo di evoluzione che porta alla definizione della monarchia parlamentare inglese viene toccato durante il regno di Carlo I Stuart (1625-1649), il quale tenta di instaurare un regime di stampo assolutista, arrivando addirittura a decretare lo scioglimento del parlamento. Il conflitto tra il sovrano e il parlamento sfocia in una guerra civile che oppone le truppe fedeli al re all’esercito (New Model Army) guidato da Oliver Cromwell (1599-1656), un rappresentante della piccola nobiltà rurale. La guerra si conclude con la vittoria del parlamento. Carlo I viene processato, riconosciuto colpevole di tradimento nei confronti della patria e decapitato nel 1649. L’esecuzione del re inglese assume una straordinaria risonanza in tutta Europa, perché per la prima volta un sovrano viene giudicato dai propri sudditi e condannato a morte: un atto fino a quel momento inaudito, che pone in discussione la sacralità della persona del re, sulla quale in parte si era fondata la legittimazione del potere monarchico. Dopo la morte di Carlo I, Cromwell governa l’Inghilterra instaurando un regime repubblicano. Alla sua morte, nel 1656, segue un periodo di incertezza politica che si conclude con la restaurazione della monarchia e l’ascesa al trono di Carlo II Stuart (1660-1685). Dopo i conflitti religiosi che sconvolgono il regno del successore Giacomo II (1685-1689), portando anche alla breve rivoluzione incruenta nota come “Gloriosa rivoluzione” (1689), l’ascesa al trono del principe olandese Guglielmo d’Orange porta al Paese una nuova stabilità. Il re giura di rispettare la Dichiarazione dei diritti (il Bill of CAP. 1 - IL SEICENTO – STORIA

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STORIA

lità le sorti dei ducati di Brandeburgo e della Prussia orientale, dando nuovo impulso sia alla potenza militare sia a quella economica. Nell’arco di pochi decenni, la Prussia si trasforma in uno Stato unitario forte e potente e nel 1701 viene riconosciuta come regno indipendente dall’Impero germanico. Anche nell’estrema parte orientale dell’Europa si costituisce nel corso del secolo un nuovo Stato forte e accentrato: la Russia. Con l’ascesa al trono della dinastia dei Romanov (1613) il potere degli zar si va via via rafforzando. Per decenni la Russia rimane un paese economicamente assai arretrato e chiuso agli scambi commerciali e culturali con il resto d’Europa. Una svolta decisiva è possibile solo verso la fine del secolo, con l’ascesa al trono di Pietro I il Grande (1682-1725), che si propone di trasformare il proprio regno in un Paese moderno, al passo con gli altri Stati europei.

STORIA

Rights) formulata dal parlamento, che sancisce in maniera precisa le prerogative del sovrano e quelle del parlamento stesso e impone al re il rispetto dei diritti civili fondamentali. A partire da questo momento, la monarchia inglese diventa ufficialmente una monarchia parlamentare e costituzionale.

IL

DECLINO POLITICO ED ECONOMICO DELL’ITALIA

La divisione politica dell’Italia e la crisi economica Il Seicento è per l’Italia il secolo della decadenza politica e della crisi economica. Ormai divisa in tanti piccoli Stati sottoposti al dominio di dinastie straniere, la penisola occupa ormai una posizione del tutto marginale rispetto alle potenze europee, che vedono in essa solo un territorio da spartire nella riformulazione degli equilibri all’interno del continente. Lo spostamento delle rotte commerciali dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico, in seguito alle scoperte geografiche del XVI secolo, si è ormai compiuto e di conseguenza le città commerciali italiane perdono il proprio primato, a vantaggio dei porti collocati lungo le coste atlantiche o sul Mar Baltico. Anche le divisioni di natura religiosa avevano contribuito a limitare i commerci tra l’Italia cattolica e le regioni centro-settentrionali dell’Europa, entrate quasi completamente nell’area d’influenza protestante. La situazione economica risulta ulteriormente aggravata anche dalle continue carestie e pestilenze che, a ondate successive, percorrono la penisola, prima nel Nord (come quelle del 1630-1631) e poi nel Sud (tra il 1656 e il 1657). La decadenza economica italiana è anche strettamente legata alla dominazione spagnola, estesa direttamente ai Regni di Napoli, di Sicilia, di Sardegna, e al Ducato di Milano e, indirettamente, a vaste aree dell’Italia centrosettentrionale. La Spagna adotta nei confronti dell’Italia una politica economica basata sullo sfruttamento delle risorse che ha le ripercussioni più pesanti nelle regioni meridionali, dove la nobiltà terriera locale (i baroni) si adeguano al comportamento parassitario degli Spagnoli. Salvo rare eccezioni, la dominazione spagnola provoca quindi un generale impoverimento, che è causa di violente sommosse popolari.

da Roma una larga parte dell’Europa. L’unico vero successo ottenuto dai pontefici nel corso del XVII secolo è quello di Innocenzo XI (1676-1689) che, unendo i maggiori Stati europei, riesce a respingere l’avanzata dei Turchi che, giunti nel 1683 fin sotto le mura di Vienna, vengono costretti a ritirarsi, abbandonando il progetto di conquista del continente. Roma diventa capitale del Barocco, ma lo Stato pontificio è economicamente arretrato e anch’esso risente negativamente della dominazione spagnola sulla penisola. D’altra parte, essendo la Spagna considerata un baluardo del Cattolicesimo in Europa, i pontefici assecondano il governo di Madrid, anche rafforzando il ruolo dell’Inquisizione, che proprio nel Seicento conosce, in Spagna come in Italia, un nuovo vigore.

Venezia e il Ducato di Savoia: gli unici Stati indipendenti La Repubblica di Venezia riesce a mantenere la propria indipendenza politica. Tuttavia, perso il dominio dei commerci marittimi e spogliata dai Turchi di importanti possedimenti come Cipro (1573) e Creta (1669), è costretta a ripiegare sullo sfruttamento agricolo dei possedimenti dell’entroterra veneto e friulano. Un altro Stato italiano che riesce a sottrarsi all’influenza spagnola è il Ducato di Savoia, che si adopera per mantenere l’indipendenza anche dalla Francia e che infine si rafforza grazie all’azione di Vittorio Amedeo II (16841730).

Il declino del Papato All’inizio del Seicento il Papato appare ormai in crisi. La spaccatura prodotta in Europa dalla Riforma protestante e la successiva Riforma cattolica avevano rafforzato il ruolo dei papi all’interno del mondo cattolico, ma allontanato

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CAP. 1 - IL SEICENTO – STORIA

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IL

SECOLO DEL

BAROCCO

Il secolo XVII è, per quasi tutta l’Europa, l’età del Barocco. Movimento artistico centrale del Seicento, il Barocco supera la ripetitività del classicismo tardo-rinascimentale con un nuovo gusto e una diversa sensibilità: all’equilibrio e alle armoniose geometrie regolari, care al classicismo, contrappone la ricerca del prezioso, del raro, del bizzarro, al fine di suscitare meraviglia. Il Seicento che lo ha generato è in effetti un secolo ricco di contrasti. In esso appaiono fenomeni di segno opposto, come la caccia alle streghe e il primo grande sviluppo della scienza moderna, l’intolleranza religiosa e la nascita del moderno pensiero razionalistico, il gusto spettacolare ed edonistico appunto tipico del Barocco e la razionalità della trattatistica, il culto dell’irregolarità e l’esaltazione delle norme fino alla più violenta intolleranza. Tali contraddizioni alimentano e caratterizzano le tendenze filosofiche e artistiche del secolo.

La crisi della cultura rinascimentale

P

arole chiave

La cultura rinascimentale entra in crisi soprattutto per effetto dello scontro fra Riforma

CULTURA

CULTURA protestante e Controriforma cattolica, per le scoperte geografiche che allargano l’orizzonte del mondo e per la rivoluzione copernicano-galileiana, che sostiene l’eliocentrismo in campo cosmologico e sostituisce così la concezione aristotelico-tolemaica della Terra intesa come centro dell’universo (geocentrismo), generando la consapevolezza del fatto che il pur grande pianeta su cui abita l’uomo è un granello di polvere sperduto nell’immensità del cosmo. La rottura con il passato e la caotica situazione sociale e morale dell’epoca producono insicurezza e angoscia (grande spazio, nell’arte, hanno i temi del trascorrere del tempo e dell’incombere della morte), cui si accompagna spesso la crescente esigenza di autorità, punti di riferimento e regole salde, di carattere religioso ma non solo e che porta all’intolleranza verso il libero pensiero.

Nasce la fiducia nella ragione Pochi intellettuali, invece, accentuano la fiducia nella ragione e nei suoi mezzi di indagine, soprattutto in campo scientifico, dove studiosi come Galilei e Keplero mettono in discussione l’autorità di Aristotele e gettano le

ORIGINE E SIGNIFICATO DEL TERMINE BAROCCO Non è ancora definitivamente chiuso il dibattito sulle origini del termine barocco. Nel dizionario dell’Académie, edito nel 1694 in Francia, il vocabolo, che deriva, attraverso lo spagnolo, dal portoghese barroco, sta a indicare una perla di forma bizzarramente irregolare, scabra, non sferica. Quasi un secolo più tardi, nel Dictionnaire de Trévoux (1771), l’aggettivo francese baroque viene presentato come sinonimo di “bizzarro, diseguale, irregolare”; inoltre, per estensione, un dipinto è detto barocco quando le regole delle proporzioni non sono rispettate e ogni cosa è rappresentata secondo il capriccio dell’artista. Tale origine del termine, che è oggi la più accreditata, evidenzia il profondo distacco fra il gusto eccentrico e bizzarro del Barocco e la ricerca dell’equilibrio e dell’armonia tipica delle arti figurative e dell’architettura rinascimentali. Sussistono, tuttavia, altre ipotesi circa l’origine del termine: la principale fa riferimento al fatto che, nella lingua italiana, il vocabolo barocco indica una forma di sillogismo usato nella filosofia Scolastica e caratterizzato da un apparente rigore formale e da una sostanziale debolezza di contenuto. Riferito alle arti figurative, comunque, il termine appare nella lingua italiana solo nel Settecento, usato da Francesco Milizia e palesemente ripreso dal Dictionnaire de Trévoux. In ogni caso, l’attributo barocco è sempre contrapposto a classico, equilibrato, armonioso ed è usato inizialmente con significato spregiativo. Solo alla fine del XIX secolo, sviluppando un’intuizione di Jacob Burckhardt (1818-1897), lo storico dell’arte svizzero Heinrich Wölfflin (1882-1954), nel saggio Rinascimento e Barocco, riconoscerà un valore positivo a questo stile, pur senza rinunciare a contrapporlo, come di consueto, all’arte classica. Nella sua scia, Ernst Robert Curtius (1886-1956), Eugenio D’Ors (1882-1954) e altri, rifiutando la svalutazione del Barocco tipica di molti studiosi soprattutto italiani (come Benedetto Croce nella Storia dell’età barocca, 1929), giungeranno a considerare lo stile barocco una universale concezione del mondo e delle arti opposta a quella classica e razionalistica. Tale concezione si ritroverebbe, in alternativa al classicismo, in tutte le epoche e civiltà: dallo stile alessandrino al gotico, al romantico, fino alle diramazioni del Simbolismo e allo sperimentalismo delle Avanguardie nel XX secolo.

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CAP. 1 - IL SEICENTO – CULTURA

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CULTURA

basi della scienza moderna. Lo straordinario sviluppo delle scienze – in particolare astronomia, fisica e matematica – si avvale del contributo di studiosi come l’inglese Francesco Bacone (1561-1626), il danese Tycho Brahe (1546-1601), l’italiano Galileo Galilei (15641642), il tedesco Giovanni Keplero (15711630), i francesi René Descartes (1596-1650), meglio noto come Cartesio, e Blaise Pascal (1623-1662), l’inglese Isaac Newton (16421727). La nascita delle accademie scientifiche – fra le prime l’Accademia dei Lincei (1603) a Roma – testimonia l’inizio del distacco delle scienze fisiche, che dispongono ormai di metodologie proprie e autonome, dal sapere umanistico.

La filosofia si separa dalla teologia D’altra parte la filosofia, nel corso del secolo, si separa dalla teologia e dall’aristotelismo ortodosso per accostarsi alla nascente scienza moderna; molti filosofi sono anche scienziati: il problema della conoscenza è l’argomento principale di cui si occupano, e la maggior parte di loro – in primo luogo Cartesio, poi l’olandese Baruch Spinoza (1632-1677) e il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) – costruiscono sistemi di pensiero razionalistici, che esaltano cioè la ragione umana quale mirabile mezzo, di origine divina, in grado di indagare ogni aspetto della realtà. Non mancano però anche grandi filosofi, come Pascal, che, pervasi da un intenso senso religioso, pur riconoscendo la grandezza del pensiero umano, mettono in luce la fragilità della condizione dell’individuo, invitandolo a scommettere sull’esistenza del Dio cristiano come unica via di pace e di salvezza.

La riflessione politica La riflessione politica segue, per breve tempo, il filone utopistico di matrice umanisticorinascimentale, con filosofi come Tommaso Campanella (1568-1639); parallelamente, si assiste alla nascita di comunità religiose organizzate su basi radicalmente evangeliche o fondate su nuovi princìpi, diffuse soprattutto nel Nuovo Mondo in seguito all’emigrazione dei membri di correnti perseguitate, come i Quaccheri. Prevale poi, gradualmente, la giustificazione teorica dell’assolutismo, che trova la sua espressione nelle riflessioni sulla sovranità del francese Jean Bodin (1530-1596) e si articola nell’opera di Giovanni Botero (1544-1617), teorico italiano della ragion di Stato, che mira

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CAP. 1 - IL SEICENTO – CULTURA

a conciliare il principio teocratico con la necessità, per i sovrani, di compiere talora, per il bene comune, anche atti contrari alla pietà cristiana. Altre visioni politiche, distanti dall’assolutismo e cariche di premesse per il suo superamento anche laddove esso sia in vigore, partono dall’Olanda e dall’Inghilterra e affondano le loro radici nel pensiero di Ugo Grozio (15831645), che teorizza l’esistenza di diritti naturali dell’uomo. Thomas Hobbes (1588-1679), che fa discendere il potere statale non da Dio, ma dalla necessità di stabilire una sorta di patto – o contratto – che gli uomini stipulano fra loro per superare la loro naturale aggressività reciproca, e John Locke (1632-1704), che esalta la libertà dell’uomo, gettano le fondamenta della teoria del liberalismo, destinata a svilupparsi nel corso dei secoli successivi.

Il Barocco nelle arti Nel campo delle arti, nel Seicento trionfa il Barocco. Pittura, scultura e architettura vanno alla ricerca dello stupefacente e del meraviglioso, con scenografie d’effetto, suggestioni visive che aprano prospettive illusionistiche su pareti e soffitti (il trompe-l’oeil, o “inganno ottico”), con la cura esasperata per il dettaglio e il particolare minuzioso e l’interesse prevalente per tutto ciò che è bizzarro e straordinario, o anche mostruoso e orrido. Fra i maggiori pittori europei del secolo si collocano i fiamminghi Rubens, Rembrandt e Vermeer, lo spagnolo Velazquez e, soprattutto, l’italiano Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571 ca. – 1610), la cui pittura è caratterizzata dal luminismo e dall’introduzione di personaggi e situazioni della vita quotidiana nei soggetti sacri. Italiani sono anche i maggiori architetti del Barocco: Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) e Francesco Borromini (1599-1667). A Roma vengono realizzate le più tipiche scenografie urbanistiche barocche, dal colonnato di San Pietro a Piazza Navona. La musica nel Barocco conosce una stagione esaltante: fra i suoi principali esponenti si ricordano il cremonese Claudio Monteverdi (1567-1643) – insuperato compositore di melodrammi, che musica anche testi di poeti come Petrarca, Tasso e dei lirici barocchi – e il tedesco Johann Sebastian Bach (1685-1750), uno dei massimi compositori di ogni tempo, che porta a un livello altissimo il linguaggio musicale, sfruttando al massimo le potenzialità del contrappunto nei valori armonici, melodici e formali e spalancando la via agli sviluppi dei secoli successivi.

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Letteratura Letteratura e arte e Arte L’ARCHITETTURA BAROCCA Artisti letterati Nel Seicento i legami tra arte e letteratura sono intensi. Ci sono figure di artisti che si dedicano alla poesia con importanti risultati: ricordiamo Gian Lorenzo Bernini (autore di teatro con la commedia Fontana di Trevi del 1643-1644), Salvator Rosa (poeta per gioco di sette fortunate Satire pubblicate nel 1695), Lorenzo Lippi (è suo il poema eroicomico Il Malmantile racquistato, edito postumo nel 1676), Marco Boschini (autore di un originale poema in dialetto veneziano sulla pittura veneta tardo-rinascimentale e manierista, La carta del navegar pitoresco del 1660). Ci sono anche poeti cultori di arti figurative e collezionisti, come Cesare Rinaldi o Giambattista Marino, oppure pittori in stretti e fecondi contatti con gli ambienti letterari, come il Guercino e Guido Reni a Bologna. La concezione dello spazio Ma a parte queste incursioni di artisti versatili in altre discipline, il rapporto tra arte e letteratura si rivela molto profondo nella poetica barocca, nel quadro di una cultura che assegna alla “visione” il ruolo di mezzo privilegiato di conoscenza della realtà. In ossequio a questo principio, le opere architettoniche del periodo sono caratterizzate da una concezione estremamente dinamica e teatrale dello spazio, dall’uso di effetti illusionistici e dalla grandiosità delle forme. La compresenza di pittura, scultura ed architettura moltiplica inoltre l’effetto scenografico del risultato. Questo tipo di produzione artistica diventa lo strumento prediletto dalla Chiesa, che a Roma rende così tangibile la propria grandiosità e potenza. Il mecenatismo dei papi, in particolare di Urbano VIII (1623-1644), promuove quest’arte che illude i sensi, al fine di persuadere i fedeli della costante presenza del divino. Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) è l’artista che più di tutti impersona tali istanze artistiche della Chiesa: architetto, pittore, scultore e scenografo, egli fonde le sue esperienze e la sua attenzione ai differenti materiali per creare una sapiente combinazione fra le diverse arti e interpretare il messaggio trionfalistico della Chiesa post-tridentina: un’arte per stupire ed educare, di grande impatto emotivo, come dimostra il Colonnato di Piazza San Pietro. Così scrive Bernini a tal proposito: Essendo San Pietro quasi matrice di tutte le chiese doveva haver un portico che dimostrasse di ricevere a braccia aperte maternamente i Cattolici per confermarli nella credenza, gl’Heretici per riunirli alla chiesa, e gl’infedeli per illuminarli alla vera fede.

Egli organizza un enorme colonnato disposto in due emicicli, costituiti da due file di colonne divergenti fra loro. In questo modo, ribaltando verso l’osservatore il punto di fuga dei due portici, crea la sensazione di una maggiore vicinanza alla Basilica. La forma ellittica, inoltre, tipica dell’arte barocca, è utilizzata perché avendo due fuochi impone un continuo movimento all’occhio, facendo percepire la dinamicità dello spazio.

Gian Lorenzo Bernini, Colonnato di Piazza San Pietro, 1656-1667. Roma.

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CAP. 1 - IL SEICENTO – CULTURA

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CULTURA

I

CENTRI DELLA NUOVA CULTURA IN ITALIA

Il principale fra i centri della nuova cultura in Italia è Roma, la città dei papi, che assume il ruolo di capitale del Barocco europeo non solamente per i capolavori dell’arte e dell’architettura che i maggiori artisti dell’epoca lasciano nel tessuto cittadino, ma anche perché è il cuore della Riforma cattolica lanciata dal concilio tridentino. Motore della controriforma antiluterana è la Compagnia di Gesù fondata da Ignazio Loyola e riconosciuta da Paolo III nel 1540. Loyola esorta i confratelli a creare scuole, collegi e seminari cattolici in Italia e in tutta Europa, mettendo così la cultura al primo posto nell’evangelizzazione e nella nuova catechizzazione cristiana. Inoltre i ricchi e colti Gesuiti divengono fautori di un’arte che serva agli scopi di edificazione e della diffusione della parola divina, contribuendo così, come committenti, alla diffusione dell’arte barocca anche nei dipinti e nell’architettura ecclesiastica. Esempio tipico di tale politica culturale è anche la Milano dei Borromeo: Carlo, nipote di papa Pio IV, lascia la corte di Roma per realizzare gli ideali del concilio di Trento nella sua diocesi di Milano e vi promuove il rinnovamento artistico, la fondazione di Brera, la costruzione di nuove numerose chiese barocche; il nipote Federico (1564-1631), successogli sulla cattedra milanese, oltre a fondare la Biblioteca Ambrosiana – con la pinacoteca e l’Accademia –, è letterato e storiografo. A Torino, il cattolico Carlo Emanuele I di Savoia diventa mecenate dei poeti Alessandro Tassoni (1565-1635) e Giambattista Marino (1569-1625).

Focus

La Firenze di Cosimo II de’ Medici si caratterizza invece come un centro in cui assume maggiore rilevanza lo sviluppo della cultura scientifica, in ragione dell’influenza del pisano Galileo Galilei, che nel 1610 qui pubblica il Sidereus Nuncius. Nella Napoli spagnola, in ambito aristocratico si coltiva un gusto letterario vicino al gongorismo iberico e al barocco di Giambattista Marino, mentre convive con esso negli ambienti colti il gusto per la letteratura popolare e sperimentale che si esprime arditamente in vernacolo, come in Giovan Battista Basile (1575-1632), con le sue novelle, e Giulio Cesare Cortese (1575 ca. – 1625), con i suoi versi. Autonoma rispetto alle linee politico-culturali della Roma della controriforma e dell’influenza spagnola predominante è la Repubblica di Venezia, che per questo diviene un punto di riferimento per la cultura del dissenso. Non a caso Padova offre infatti lavoro e protezione a Galileo (1564-1642) nella propria Università e le autorità della Serenissima, sostenute da Paolo Sarpi (1552-1623), aprono il contrasto giurisdizionale con il papa sul processo agli ecclesiastici. Non bisogna poi dimenticare che Venezia, con le sue tipografie, produce la metà delle opere edite in Italia e che in essa fioriranno, verso la metà del Seicento, due nuove e importanti forme d’arte come il melodramma e la commedia dell’arte.

IL

RUOLO DELLA

CHIESA

Negli ultimi anni del XVI secolo e nella prima parte del XVII, la Chiesa post-tridentina (ossia del periodo che segue il Concilio di Trento)

LE ACCADEMIE

La parola accademia deriva dal greco e il suo etimo trae origine da un luogo vicino ad Atene dove si riunivano Platone e altri filosofi. Le accademie si sviluppano poi nell’Italia quattrocentesca e rinascimentale. Data la flessibilità del concetto di accademia – in quanto libera associazione di uomini di cultura – esse si diffondono in tutta Europa particolarmente nel Seicento, come circoli di intellettuali, letterati e studiosi che confrontano idee e programmi culturali in ambiti diversi. In particolare assumono grande rilevanza le accademie a carattere scientifico: l’Accademia dei Lincei – di cui fa parte Galileo Galilei – viene fondata a Roma nel 1603 ed esiste ancora oggi; l’Accademia del Cimento viene fondata a Firenze nel 1657, è operativa per un decennio e raccoglie scienziati, matematici e medici come Marcello Malpighi (1627-1694) e Francesco Redi (1626-1698). Numerose sono anche le accademie letterarie. A Roma nel 1690 viene fondata l’Accademia dell’Arcadia, che darà un contributo al sorgere di quel movimento letterario che, aprendo nuovi orizzonti, supererà il Barocco; a Firenze nasce l’Accademia della Crusca, nel 1583, con l’obiettivo di realizzare un dizionario della lingua italiana per diffondere a livello nazionale il fiorentino; a Napoli viene fondata nel 1611 l’Accademia degli Oziosi che sostiene la poetica del marinismo barocco. Altre importanti accademie sorgono a Venezia (Accademia degli Incogniti, 1630-1660), a Genova (Accademia degli Addormentati, 1587) e a Lecce (Accademia dei Trasformati,1559).

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CAP. 1 - IL SEICENTO – CULTURA

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La Illiade del secol nostro

che scritti di grandi autori come Machiavelli; viene inoltre instaurata una severa vigilanza sulle nuove pubblicazioni, in collaborazione con l’Inquisizione. Molti libri giudicati eretici sono bruciati, e nell’elenco, progressivamente ampliato, vengono a fine secolo inclusi anche scritti di autori precedentemente ammirati nel mondo cattolico, come il filosofo Bernardino Telesio. Tipico esempio della nuova realtà in cui si apre il Seicento, e che durerà per decenni, è la vicenda che interessa la teoria copernicana, apertamente perseguitata in occasione della sua ripresa da parte di Galileo Galilei: in un diverso contesto, il polacco Copernico aveva invece potuto esporla in un suo scritto – il Commentariolus – inviato al papa, intorno al 1500, ottenendo lusinghieri apprezzamenti da alte autorità ecclesiastiche e non incontrando comunque, a quel tempo, violente opposizioni. La svolta post-tridentina verso la rigida affermazione della necessità dell’obbedienza all’autorità della Chiesa cattolica incontra comunque importanti resistenze in ambito culturale e perfino ecclesiastico: l’esempio più rilevante è quello del frate servita veneziano Paolo Sarpi, che in ambito storiografico analizza in modo tutt’altro che favorevole lo stesso Concilio di Trento.

Paolo Sarpi

Presentiamo qui di seguito la pagina introduttiva del libro I della Istoria del Concilio tridentino, in cui l’autore dichiara le motivazioni, i propositi e alcuni presupposti di metodo della propria opera. In particolare, il servita veneziano Paolo Sarpi (1552-1623) spiega le ragioni che lo hanno spinto a scrivere una monografia sul Concilio di Trento e anticipa un giudizio complessivo, apertamente critico, sui risultati del Concilio stesso, del tutto contrari alle aspettative. Esso, a suo avviso, ha prodotto la divisione della cristianità e non ha rinnovato la Chiesa, ma ulteriormente potenziato la sua struttura gerarchica e centralizzata. Sarpi, che conobbe Giordano Bruno e Galileo Galilei, nel 1607 subì un attentato e fu scomunicato per le idee e le posizioni sostenute. Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino, imperò che1, quantonque molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti abbiano toccato qualche particolar successo in quello2, e Gioanni Sleidano3 diligentissimo auttore abbia con esquisita diligenzia narrato le cause antecedenti4, nondimeno, quando bene5 fossero tutti6 raccolti insieme, non si componerebbe un’intiera narrazione7. Io immediate che8 ebbi gusto delle cose umane, fui preso da gran curiosità di saperne l’intiero9, et oltre l’aver letto con diligenzia quello che trovai scritto, e li publici documenti usciti in stampa o di1. imperò che: poiché. 2. toccato… in quello: accennato a qualche avvenimento particolare di esso (successo in quello). 3. Gioanni Sleidano: Johann Philippson (detto Sleidano dalla città di Sleiden, presso Colonia, dove nacque nel 1506), ambasciatore protestante a Trento, scrisse un’opera fondamentale sulle vicende dell’Impero e della Riforma fra il 1515 e il 1555 (Commentarii de statu religionis et rei publicae, in 26 libri), con ampi riferimenti anche al Concilio di Trento.

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4. le cause antecedenti: gli avvenimenti che portarono alla convocazione del Concilio. 5. quando bene: quand’anche, anche se. 6. tutti: tutti gli scritti dei suddetti autori. 7. intiera narrazione: lo scopo di Sarpi è dunque quello di scrivere una storia complessiva del Concilio, che superi le storie parziali fin qui realizzate. 8. immediate che: non appena. 9. saperne l’intiero: conoscerle a fondo, nella loro interezza.

CAP. 1 - IL SEICENTO – CULTURA

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CULTURA

elabora un nuovo impianto dottrinale all’interno del quale devono operare intellettuali, artisti e scrittori del Seicento. Il ruolo della Chiesa in campo culturale è quello di contrastare l’affermarsi del libero pensiero al proprio interno, di opporsi alle idee condannate dal Concilio di Trento e, soprattutto, alla tendenza, tipica di molti intellettuali e scrittori rinascimentali, a intraprendere la carriera ecclesiastica principalmente per ricavarne benefici, in assenza di una vera vocazione. In quest’epoca, dure sono le misure di carattere repressivo in ambito cattolico, rispecchiate da analoghe misure prese nei Paesi protestanti: in particolare, già dal 1542, viene riorganizzato e rinforzato dal papa Paolo III, sotto il controllo della Congregazione cardinalizia del Santo Uffizio, il sistema medievale dei Tribunali dell’Inquisizione; tale sistema ha l’incarico di indagare e processare non credenti, protestanti, sospetti eretici e, in assenza di abiura, di procedere contro di loro consegnandoli al braccio secolare, che infligge le pene corporali. Vittime dell’Inquisizione sono soprattutto intellettuali, filosofi, scrittori, scienziati. Viene inoltre istituito, nel 1559, l’Indice dei libri proibiti, elenco di opere ritenute incompatibili con i princìpi religiosi e morali cattolici e che non risparmia an-

CULTURA

vulgati a penna10, mi diedi a ricercare nelle reliquie de’ scritti11 delli prelati et altri in concilio intervenuti, le memorie da loro lasciate, e li voti, cioè pareri detti in publico, conservati dalli auttori propri o da altri, e le lettere d’avisi12 da quella città scritte, non tralasciando fatica o diligenzia, onde ho avuto grazia di veder sino qualche registri intieri di note e lettere di persone che ebbero gran parte in quei maneggi. Ora avendo tante cose raccolte, che mi possono somministrar assai abbondante materia per narrazione del progresso13, vengo in risoluzione di ordinarla14. Raccontarò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di 22 anni15, per diversi fini e con vari mezi, da chi procaciata e sollecitata, da chi impedita e differrita, e per altri anni 1816 ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortito forma e compimento17 tutto contrario al dissegno di chi l’ha procurata et al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento per18 rasignare li pensieri in Dio19, e non fidarsi della prudenza umana. Imperò che questo concilio, desiderato e procurato dagl’uomini pii per riunire la Chiesa, che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma20 et ostinate le parti21, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai principi22 per riforma dell’ordine ecclesiastico ha causato la maggior disformazione23 che sia mai stata doppo che il nome cristiano si ode, e dalli vescovi adoperato per racquistar l’auttorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, gliel’ha fatta perder tutta intiera mente, et interessati loro stessi nella propria servitù24; ma temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace mezo per moderare l’essorbitante potenza da piccioli principii pervenuta con vari progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggietta, che mai fu tanta né così ben radicata25. Sì che non sarà inconveniente26 chiamarlo la Illiade del secol nostro27, nella esplicazione28 della quale seguirò drittamente la verità non essendo posseduto da passione che mi possi far deviare: e chi mi osserverà in alcuni tempi abbondare, in altri andar ristretto29, si raccordi30 che non i campi tutti sono di ugual fertilità, né tutti li grani meritano d’esser conservati, e di quelli che il mietitore vorrebbe tenir conto, qualche spica anco sfugge la presa della mano o il filo della falce, così comportando la condizione d’ogni mietitura, che resti anco parte per rispigolare31. da Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Ricciardi, Milano-Napoli, 1969

10. divulgati a penna: manoscritti. 11. reliquie de’ scritti: quello che restava degli scritti dei prelati. 12. lettere d’avisi: lettere ufficiali, resoconti degli osservatori del Concilio. 13. narrazione del progresso: la narrazione dello svolgersi degli eventi. 14. vengo… ordinarla: mi accingo a esporla con ordine. 15. nel corso di 22 anni: dal 1523 al 1545, anno dell’effettiva convocazione del Concilio. In questi anni il problema della divisione della Chiesa imponeva la convocazione di un concilio; altri eminenti prelati erano invece di parere contrario e la differivano indefinitamente (come si dice subito dopo: da chi impedita e differita). 16. per altri anni 18: sono gli anni in cui si svolge il Concilio, dal 1545 al 1563. Nel passo si allude alla scarsa continuità nel tempo che ebbe il Concilio, sospeso e ripreso più volte. 17. ha sortito… compimento: ha avuto natura e risultato. 18. documento per: testimonianza, esempio che insegna. 19. rasignare… in Dio: rimettersi con rassegnazione alla volontà di Dio. 20. stabilito lo scisma: reso insanabile lo scisma fra cattolici e protestanti.

21. ostinate le parti: rese più ostili le due parti (cattolici e protestanti), l’una all’altra. 22. maneggiato dai principi: strumentalizzato dai sovrani, ossia dal potere civile, che volle ingerirsi nelle questioni religiose. 23. disformazione: deformazione, disordine. 24. et interessati… servitù: riducendo cioè i vescovi a maggior servitù nei riguardi del papa. 25. ma temuto… ben radicata: il senso complessivo di questo periodo è che il Concilio, temuto a Roma per le sue intenzioni di limitare il potere papale, in realtà lo ha ulteriormente rafforzato, naturalmente nelle aree di influenza cattolica (la parte restatagli soggietta). 26. inconveniente: sconveniente, inopportuno. 27. Illiade del secol nostro: per la sua lunghezza, l’imprevedibilità del suo esito, la violenza dei contrasti. 28. esplicazione: esposizione. 29. in alcuni… ristretto: in alcuni momenti abbondare nell’esposizione, in altri essere più sintetico. 30. raccordi: ricordi. 31. spica… rispigolare: la metafora si basa sulla mietitura: anche in un campo già mietuto restano spighe da raccogliere; perciò, anche in una materia già trattata restano argomenti da approfondire.

Comprensione 1. Quale obiettivo enuncia Paolo Sarpi nell’introduzione della sua opera? 2. Quali sono le fonti che l’autore dice di avere usato per scrivere la sua opera? 3. Per quali aspetti Sarpi definisce il Concilio di Trento l’Iliade del suo tempo?

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CAP. 1 - IL SEICENTO – CULTURA

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Microscopio di tipo galileiano.

I due cannocchiali con cui Galileo scoprì i quattro satelliti maggiori di Giove.

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CAP. 1 - IL SEICENTO – CULTURA

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CULTURA

Il Seicento è chiamato il secolo della rivoluzione scientifica: in questo periodo, infatti, viene superata la concezione creazionistica o magica della natura, sopravvissuta fino all’epoca rinascimentale, e si approfondisce, invece, l’interesse verso la vita naturale e i meccanismi che regolano il mondo fisico. Se a livello teorico questo cambiamento era stato preparato da Copernico con la teoria eliocentrica dell’universo, da Francesco Bacone con il rifiuto del metodo deduttivo, da Cartesio con il razionalismo e la geometria analitica, a livello pratico appaiono in questo secolo numerose innovazioni tecnologiche che gli danno un notevole impulso, tra cui l’invenzione del microscopio (alla fine del Cinquecento) e del cannocchiale (perfezionato da Galileo Galilei), la scoperta dei batteri (Antoni van Leeuwenhoek), della circolazione del sangue (Marcello Malpighi), l’introduzione del calcolo logaritmico (John Napier). I fattori principali che determinano la nascita della scienza moderna sono dunque l’interesse preminente riservato dai filosofi al problema della natura, la collaborazione instauratasi tra tecnici e scienziati, i successi conseguiti nei vari campi specifici della scienza, l’esame dei risultati dell’osservazione e della pratica slegato da ogni preclusione ideologica. Ma la nascita vera e propria della scienza moderna è dovuta soprattutto alla convinzione che si afferma fra gli scienziati, a partire dal Seicento, di aver trovato l’unico modo corretto di studiare la natura attraverso un nuovo metodo conoscitivo. L’indagine e la conoscenza della natura prima del Seicento erano sempre

state praticate e descritte in due modi diversi: o mediante l’elaborazione teorica di princìpi primi della realtà da cui dedurre la spiegazione dei fenomeni naturali, oppure mediante la descrizione puntuale di un settore specifico della natura per ricavarne delle regole pratiche di azione. Nel primo caso la preminenza era data al ragionamento e alla riflessione; nel secondo all’intuizione, all’ingegno e alla creatività. La nuova scienza nasce per la scoperta di un metodo conoscitivo che integra l’elaborazione teorica con l’osservazione dei fatti: è questa la caratteristica del nuovo metodo galileiano. I risultati dell’indagine sono nello stesso tempo teorie razionali, in quanto basate sul linguaggio della matematica, ma sono anche legate strettamente all’esperienza concreta, in quanto si afferma che esse devono risultare verificabili con l’esperimento. La nuova conoscenza scientifica, la cui oggettività è garantita dalla logica e dall’accordo con l’osservazione, risulta anche estremamente dinamica, poiché cerca sempre nuovi confronti con i fatti e nuove estensioni in settori prima non esaminati: la scienza è intesa come un processo di continue interrogazioni sulla natura poste dalla ragione e di continui tentativi di interpretare il senso delle risposte ottenute con l’esperimento. Al di là dei dibattiti, ancora in corso, sull’importanza e sui limiti della scienza, questo nuovo metodo di conoscenza apparso nel Seicento rimane indiscutibilmente uno dei patrimoni più preziosi raggiunti dalla civiltà moderna. Il punto di partenza di tale metodo è la definizione che ne dà, nelle sue opere, Galileo Galilei: la scienza è infatti ancora oggi definita “galileiana”.

LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

CULTURA

Il libro dell’universo e la sua lingua

Galileo Galilei

In questo breve ma celebre passo del Saggiatore Galilei, polemizzando con il gesuita Orazio Grassi – il cui pseudonimo è Sarsi – condensa tre punti essenziali del proprio pensiero che saranno alla base della nascita della scienza moderna nel Seicento: il rifiuto del principio di autorità, la distinzione tra opere di scienza e opere di immaginazione, l’affermazione che la matematica è il linguaggio dell’universo. Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi1 ferma credenza, che nel filosofare2 sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda3; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola4; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. da Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli, 1953

1. Sarsi: pseudonimo del padre gesuita Orazio Grassi (1590-1654), autore della Libra astronomica ac philosophica (“Bilancia astronomica e filosofica”), in polemica con il Discorso delle comete di Mario Guiducci, discepolo di Galilei. 2. filosofare: ragionare.

3. maritasse... sterile ed infeconda: attraverso la metafora dell’accoppiamento e del parto, Galilei espone l’idea di Sarsi, secondo cui lo sviluppo di ogni ragionamento è subordinato alla sua “unione” con una celebre autorità. 4. parola: significato.

Comprensione 1. Quali sono le opinioni che Galilei attribuisce al gesuita Orazio Grassi? 2. Che cosa intende Galilei per filosofia? 3. Quale definizione dà Galilei della matematica?

IL SEICENTO

ECONOMIA

POLITICA

RELIGIONE

SCIENZA

FILOSOFIA

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• Forte crisi, che provoca carestie e pestilenze. • Sviluppo dell’area atlantica (Olanda, Inghilterra e Francia) e decadenza di quella mediterranea (Spagna e Italia). • Prevalenza della monarchia assoluta. • Nascita della monarchia costituzionale in Inghilterra. • Conflitti causati dall’intolleranza religiosa. • Azione repressiva della Chiesa cattolica post-tridentina. • Nascita della scienza moderna grazie alle teorie di Keplero e Galileo.

• Riflessioni sul problema della conoscenza, da cui deriva un rigoroso razionalismo.

CAP. 1 - IL SEICENTO – CULTURA

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I

CARATTERI DEL LETTERARIO

BAROCCO

Lo scrittore neoclassico Francesco Milizia (1725-1798) e molti suoi contemporanei ritengono il Barocco nettamente contrapposto al classicismo e lo definiscono degenere in quanto esso implica l’abbandono dell’idea rinascimentale dell’arte come rappresentazione armoniosa della realtà basata sull’imitazione dei classici. Il Barocco infatti si oppone, in nome della novità, a un consolidato sistema di rapporti di proporzione e di equilibrio e afferma un rapporto con il pubblico mirante soprattutto a suscitare emozioni, a liberare l’immaginazione al punto da deformare la realtà nella direzione del bizzarro, dello spettacolare, del sorprendente, facendo uso fino all’esagerazione del virtuosismo dell’abilità tecnica. Importanti studiosi e critici letterari del Novecento – da Luciano Anceschi a Carlo Calcaterra e a Giovanni Getto –, dopo secoli di giudizi negativi e condanne, rivalutano decisamente l’arte barocca, cogliendo in essa il segno dello stupore e dell’inquietudine dell’uomo che perde le proprie certezze e scopre di non abitare al centro dell’universo, ma su un minuscolo pianeta sperduto nell’infinito. Alle radici del Barocco starebbe perciò la presa di coscienza dell’instabilità del reale e dell’incertezza di tutte le cose e la consapevolezza della

precarietà dell’esistenza umana che – come la rappresentazione teatrale e la metafora, portata a sviluppi vertiginosi – consiste e si traduce in inganni, finzioni, parvenze che invano l’intelletto cerca di definire e di controllare. Come tutta l’arte del secolo, la letteratura e la poesia barocca interpretano insomma, nel bene e nel male, le caratteristiche dell’età, contraddistinta dalla crisi della visione rinascimentale del mondo e dalla pur confusa consapevolezza della fine di un’epoca. Sul piano dei temi e dei contenuti, a differenza di quanto accade per il classicismo, la letteratura barocca si apre agli oggetti più eterogenei: dall’immenso al minuscolo, dal bello, inteso soprattutto come spettacolare, grandioso o affascinante, all’irregolare e al mostruoso, dal sensuale al mistico o al lugubre, con potenti chiaroscuri e contraddizioni che riflettono un periodo insieme edonistico e angosciato, in cui un mondo è tramontato ma ancora non si è affermata una nuova visione della realtà. La principale novità è rappresentata dall’abbandono dell’imitazione dei classici e dalla ricerca, soprattutto a livello formale, di nuovi modi di espressione che trovano nella centralità della metafora il loro strumento privilegiato. L’importanza determinante della metafora viene ribadita, oltre che dai letterati, dai trattatisti dell’epoca, fra i quali si distingue il gesuita torinese Emanuele Tesauro.

Pietro da Cortona, Trionfo della Divina Provvidenza, 1633-1639. Roma, Palazzo Barberini.

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CAP. 1 - IL SEICENTO – LETTERATURA

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LETTERATURA

LETTERATURA

La metafora nell’arte barocca

Emanuele Tesauro

Parlando della metafora come massima manifestazione dell’ingegno e dell’effetto di meraviglia e di diletto che essa è in grado di produrre, il gesuita torinese Emanuele Tesauro (1592-1675), massimo teorico della letteratura barocca in Italia, fissa, in questo brano tratto da Il canocchiale aristotelico, i princìpi fondamentali dell’estetica barocca e delinea i caratteri salienti della letteratura seicentesca. Già posta da Aristotele al vertice delle figure retoriche, la metafora è per Tesauro lo strumento di conoscenza per antonomasia, grazie al quale si possono rivelare i molteplici e misteriosi aspetti del reale; ma è anche una suprema forma del linguaggio, capace di creare mirabili espressioni artistiche, nella poesia come nella pittura, nella scultura, nell’architettura, in un quadro di perfetta integrazione fra le arti.

Ed eccoci alla fin pervenuti grado per grado al più alto colmo delle figure ingegnose, a paragon delle quali tutte le altre figure fin qui recitate perdono il pregio, essendo la metafora il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino e mirabile, il più gioviale e giovevole, il più facondo e fecondo parto dell’umano intelletto1. Ingegnosissimo veramente, però che, se l’ingegno consiste (come dicemmo) nel ligare insieme le remote e separate nozioni degli propositi obietti, questo appunto è l’officio della metafora, e non di alcun’altra figura: perciò che, traendo la mente, non men che la parola, da un genere all’altro, esprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso, trovando in cose dissimiglianti la simiglianza2. Onde conchiude il nostro autore che il fabricar metafore sia fatica di un perspicace e agilissimo ingegno3. E per consequente ch’è fra le figure la più acuta: però che l’altre quasi grammaticalmente si formano e si fermano nella superficie del vocabulo, ma questa riflessivamente penetra e investiga le più astruse nozioni per accoppiarle; e dove quelle vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di concetti4. Quinci ell’è di tutte l’altre la più pellegrina per la novità dell’ingegnoso accoppiamento: senza la qual novità l’ingegno perde la sua gloria e la metafora la sua forza5. Onde ci avisa il nostro autore che la sola metafora vuol essere da noi partorita, e non altronde, quasi supposito parto, cercata in prestito6. E di qui nasce la maraviglia, mentre che l’animo dell’uditore, dalla novità soprafatto, considera l’acutezza dell’ingegno rappresentante e la inaspettata imagine dell’obietto rappresentato7. Che s’ella è tanto ammirabile, altretanto gioviale e dilettevole convien che sia: però che dalla maraviglia nasce il diletto, come da’ repentini cambiamenti delle scene e da’ mai più veduti spettacoli tu sperimenti8. Che se il diletto recatoci dalle retoriche figure procede (come ci ’nsegna il nostro autore) da quella cupidità delle menti umane d’imparar cose nuove senza fatica e molte cose in piccol volume, certamente più dilettevole di tutte l’altre ingegnose figure sarà la metafora che, portando a

1. eccoci... intelletto: eccoci infine giunti, passo dopo passo, al punto più alto delle figure d’abilità letteraria (ingegnose), in confronto alle quali tutte le altre fin qui esposte (recitate) sono inferiori, poiché la metafora è la creazione (il parto) più ingegnosa, acuta, nuova (dal latino peregrinum), meravigliosa, amabile e utile, eloquente e creativa dell’intelletto umano. 2. Ingegnosissimo... simiglianza: la metafora è figura di abilità in quanto (però che) il suo ruolo (officio) è quello, proprio dell’abilità letteraria (ingegno), di unire idee o rappresentazioni mentali (nozioni) lontane tra loro (separate) di oggetti che abbiamo dinanzi a noi (propositi), per il fatto che (perciò che), portando la mente e anche (non men che) la parola da un piano all’altro del significato (da un genere all’altro), essa esprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso, trovando una somiglianza tra cose diverse. 3. Onde... ingegno: per cui Aristotele (il nostro autore), che parla di metafora nelle pagine della Retorica, conclude che l’inventare metafore è il lavoro di un’abilità penetrante e rapidissima. 4. per consequente... concetti: ne consegue che la metafora è la più importante delle figure, poiché (però che) le

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CAP. 1 - IL SEICENTO – LETTERATURA

altre si formano quasi meccanicamente e si fermano alla superficie delle parole, mentre essa penetra di riflesso e cerca le più lontane idee per accostarle tra di loro, e, come le idee rivestono i pensieri di parole, così la metafora riveste le parole stesse di immagini mentali. 5. ell’è... forza: essa è la più preziosa figura per l’originalità dell’accostamento; senza questa qualità, l’ingegno perde il suo pregio e la metafora la sua forza poetica. 6. sola metafora... prestito: ancora Aristotele afferma che la metafora deve essere creata da noi e non essere presa a prestito altrove, come un parto frutto dell’ingegno altrui. 7. di qui nasce... rappresentato: lo stupore nasce dal fatto che chi ascolta viene sorpreso dall’originalità e comprende l’acutezza dell’ingegno metaforico nell’immagine inaspettata evocata dall’accostamento descritto (obietto rapresentato). 8. s’ella... sperimenti: così com’è sorprendente, occorre che la metafora sia anche bella e gradevole, poiché il piacere nasce dalla meraviglia, come si sperimenta quando le immagini cambiano improvvisamente, e negli spettacoli mai visti prima.

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da Trattatisti e narratori del Seicento, a cura di E. Raimondi, Einaudi, Torino, 1978

9. Che se... obietto: se il piacere derivatoci dalle figure retoriche proviene, come dice Aristotele, dal desiderio (cupidità) della mente umana di imparare nuove cose facilmente e molte cose concentrate (in piccol volume), certamente la metafora, che ci fa immaginare con una sola parola tante cose facendo volare la nostra mente da un oggetto all’altro, sarà la più piacevole di tutte le figure dell’abilità retorica. 10. Prata... lieto: per cui, se si dice “i prati sono belli” (prata amoena sunt, in latino), non si immagina altro che il verde dei prati; ma se si dice “i prati ridono” (prata rident, in latino), immaginiamo la terra come un essere umano in cui il prato è il viso e la bellezza il ridere contento. 11. Talché... letizia: perciò, da una sola espressione, emergono tutte queste rappresentazioni di diverso genere: terra, prato, gradevolezza, uomo, anima, riso, allegria. 12. reciprocamente... osservate: e d’altra parte, con passaggio mentale veloce, mi rendo conto di vedere nel viso

umano le immagini dei prati, e tutte le similitudini che ci sono tra i prati e i volti che non avevo mai visto prima. 13. questo... meraviglie: questo è appunto quel modo rapido e facile di imparare da cui nasce il piacere, poiché alla mente dell’ascoltatore sembra di scorgere in una sola parola un teatro pieno di meraviglie. 14. Né men... metafora: la metafora è d’aiuto a chi racconta come è piacevole a chi ascolta. 15. perch’ella... sapresti: poiché la metafora, spesso, soccorre alla povertà della lingua e, dove manca una parola precisa, supplisce con una provvidenziale sostituzione: come se tu volessi tradurre in termini esatti “le viti gemmano” o “il sole sparge la luce” (vites gemmant e sol lucem spargit sono espressioni latine) e non sapessi come fare. 16. ben... ornamento: per cui Cicerone (I sec. a.C.) osservò correttamente che le metafore assomigliano a quegli abiti che, messi per necessità, servono anche come elegante ornamento.

Comprensione 1. Qual è, secondo Tesauro, il ruolo dell’ingegno nella costruzione della metafora e nell’estetica barocca? 2. Come l’autore definisce la metafora? 3. Perché, a giudizio dello scrittore, la metafora genera meraviglia e diletto?

La lirica in Europa In Spagna il gusto barocco si ritrova nel cosiddetto Gongorismo, tendenza che deriva dal nome del poeta spagnolo Luis de Góngora y Argote (1561-1627), i cui versi sono caratterizzati da una sovrabbondanza di metafore e di figure retoriche, da un sapiente senso ritmico e © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

musicale e dalle agudezas (“arguzie”), ingegnosi giochi di parole che rivelano uno spiccato interesse per il livello linguistico e formale del testo e che si possono paragonare all’amore per il dettaglio prezioso che contraddistingue l’architettura e l’arte figurativa del tempo. In Góngora si intravede una vera e propria rifondazione della poesia, che rompe i legami con la tradizione CAP. 1 - IL SEICENTO – LETTERATURA

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LETTERATURA

volo la nostra mente da un genere all’altro, ci fa travedere in una sola parola più di un obietto9. Perciò che se tu di’: Prata amoena sunt altro non mi rappresenti che il verdeggiar de’ prati; ma se tu dirai: Prata rident tu mi farai (come dissi) veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l’amenità il riso lieto10. Talché in una paroletta transpaiono tutte queste nozioni di generi differenti: terra, prato, amenità, uomo, anima, riso, letizia11. E reciprocamente con veloce tragitto osservo nella faccia umana le nozioni de’ prati e tutte le proporzioni che passano fra queste e quelle, da me altra volta non osservate12. E questo è quel veloce e facile insegnamento da cui ci nasce il diletto, parendo alla mente di chi ode vedere in un vocabulo solo un pien teatro di meraviglie13. Né men giovevole a’ dicitori che dilettevole agli uditori è la metafora14. Sì, perch’ella spesse fiate, providamente sovviene alla mendicità della lingua e, ove manchi vocabulo proprio, supplisce necessariamente il translato: come se tu volessi dir co’ vocabuli propri vites gemmant e sol lucem spargit, tu non sapresti15. Onde ben avvisò Cicerone, le metafore simigliare alle vesti, che, ritrovate di necessità, servono ancor di gala e di ornamento16.

LETTERATURA

classicista tardo-rinascimentale e pone alla base dei poemi dell’autore, ma più ancora delle raccolte di liriche – fra le quali emergono le Soledades (“Solitudini”) e i Sonetti – la trasformazione della visione del mondo attraverso la metafora, la ricerca di una raffinata manipolazione della lingua attraverso il frequente ricorso a elementi mitologici e latineggianti e un sapiente uso delle parole e dei suoni per ottenere effetti ritmico-musicali prevalenti sul contenuto informativo, che spesso rappresenta solo un esile filo conduttore. La poesia di Góngora, a lungo avversata nei secoli successivi, è stata rivalutata da alcuni importanti poeti simbolisti ed ermetici tra Ottocento e Novecento, da Paul Verlaine a Rubén Darío fino a Giuseppe Ungaretti, appassionato traduttore del poeta seicentesco. In Francia la lirica barocca si manifesta soprattutto nei circoli letterari dei salotti aristocratici – in particolare, della marchesa di Rambouillet – con poeti come Vincent Voiture (1597-1648); in Inghilterra con l’Eufuismo, maniera adottata dai continuatori dello scrittore John Lyly (15541606), autore del romanzo Euphues, scritto in stile ricercato e artificioso. Non priva di influssi barocchi è anche la poesia inglese detta metafisica, il cui caposcuola è il poeta e teologo John Donne (1572-1631), nei cui testi si tratta soprattutto del conflitto fra sensualità e spiritualità religiosa; anche nei sonetti di William Shakespeare si rinvengono elementi barocchi. La contraddittorietà del Seicento europeo si riflette inoltre nei suoi capolavori letterari: durante il secolo, infatti, compaiono opere assai lontane dallo stile barocco. Fra esse va ricordato, in particolare, il Paradiso perduto, poema dell’inglese John Milton (1608-1674), nel

quale trova espressione la religiosità protestante britannica dell’epoca attraverso il melodioso e duttile blank verse, un decasillabo non rimato che diverrà il verso della poesia epica anglosassone.

LA

GRANDE STAGIONE DEL TEATRO EUROPEO

Straordinario interesse suscita, nell’Europa del Seicento, il teatro. William Shakespeare (1564-1616), autore di valore universale, intriso anche di spirito barocco, è senza dubbio il gigante dell’epoca che domina ancora oggi il genere teatrale. In Inghilterra si sviluppa la grande stagione del teatro elisabettiano che, oltre a Shakespeare, esprime altri grandi autori come Christopher Marlowe (1564-1595). In Francia fioriscono i tragediografi Pierre Corneille (1606-1684) e Jean Racine (1639-1699), che hanno tuttavia un’impronta decisamente classicista, e il commediografo Jean-Baptiste Poquelin detto Molière (16221673). Per la Spagna il Seicento è detto siglo de oro (“secolo d’oro”), grazie a drammaturghi come Pedro Calderón de la Barca (16001681), Félix Lope de Vega Carpio (1562-1635) e Tirso de Molina (1584-1648).

Tragedia, commedia dell’arte e melodramma in Italia In Italia la produzione tragica prosegue, invece, sulla via tracciata dal secondo Cinquecento, che rispetta rigidamente le regole aristoteliche e considera principale punto di riferimento il modello del latino Seneca, incon-

Caravaggio, I bari, 1594-1595. Fort Worth (Texas), Kimbell Art Museum.

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CAP. 1 - IL SEICENTO – LETTERATURA

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NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

Il Seicento in Europa è un secolo di grande importanza per lo sviluppo dei generi narrativi. Nel 1554 esce in Spagna il Lazarillo de Tormes, di autore ignoto, capostipite del romanzo picaresco (che narra le avventure del picaro, termine spagnolo che indica il vagabondo astuto e furfantesco). La diffusione del genere contribuisce alla nascita dell’opera che molti ritengono il primo vero romanzo moderno, il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616), pubblicato nei primi anni del Seicento, che influenzerà lo sviluppo della narrativa delle altre letterature europee. In Francia, Pierre-Daniel Huet scrive il Trattato sull’origine dei romanzi (1670), contribuendo a far evolvere il genere in una direzione realistica, avventurosa e sentimentale. Huet definisce i romanzi storie fittizie di avventure amorose, scritte con arte in prosa, per il piacere e l’istruzione dei lettori. Il gusto romanzesco si lega, secondo l’autore, alla natura della mente umana, che ama la finzione e la novità e ha desiderio e curiosità di apprendere. Il più importante romanzo francese del tempo è La principessa di Clèves (1678) di Madame de La Fayette.

IL MARINISMO In Italia, il caposcuola della poesia barocca è il napoletano Giambattista Marino (1569© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

1625), il cui stile sarà tanto imitato che, per tutto il XVII secolo, si parlerà di Marinismo per indicare una concezione poetica che, come ha scritto l’autore stesso, ha come fine la maraviglia: si propone cioè – analogamente al Gongorismo spagnolo – di stupire il lettore con raffinate arguzie e con un ricco gioco di figure retoriche, in cui dominano le metafore, e di ritorni sonori ottenuti attraverso rime, allitterazioni, assonanze e altre tecniche. Già alla fine del Cinquecento in Italia si afferma il concetto secondo cui fine della poesia è procurare diletto, cioè piacere, mentre i compiti di insegnamento religioso e morale sono attribuiti ad altri generi letterari. Nel Seicento, dunque, si afferma una visione edonistica della poesia: nei suoi Commentarii alla Poetica di Aristotele, il trattatista Paolo Beni (1562-1625) ribadisce che lo scopo della poesia è suscitare piacere e aggiunge che compito del poeta è creare meraviglia, stupire per mezzo di tecniche raffinate, sovrabbondanza di figure retoriche, immagini e trovate ingegnose e sorprendenti. Sulla scia della concezione di Beni, già pienamente ascrivibile alla poetica barocca, e degli approfondimenti anche tecnici e stilistici di Emanuele Tesauro (1592-1675), il Seicento italiano e i suoi poeti si allontanano dal classicismo rinascimentale, contrapponendo alla precettistica cinquecentesca la ricerca del nuovo e l’esaltazione della libertà creativa dell’autore. Il Marinismo italiano – come il Gongorismo e le sue varianti – è caratterizzato da una serie di tratti distintivi come il concettismo, consistente in un gioco di combinazioni ed estensioni del significato delle parole per ottenere effetti sorprendenti e bizzarri; il virtuosismo espressivo, che si manifesta nell’uso sovrabbondante delle figure retoriche e, in particolare, delle metafore; la accurata descrizione dei dettagli, che ricorda il gusto delle arti figurative e dell’architettura del secolo; l’abilità nell’uso di ripetizioni, rime, allitterazioni e consonanze per ottenere dal testo effetti prosodici e melodici. Il Marinismo è caratterizzato dall’attenzione per i più disparati temi e fenomeni, specialmente se bizzarri e sorprendenti; da una vena sensuale ed edonistica, che ama ambientare i componimenti in scenari quasi “teatrali” di natura in fiore, giardini fiabeschi, splendidi palazzi, con la presenza di gioielli, pietre preziose, donne affascinanti; dall’indifferenza verso ogni problematica ideale e morale e, più in generale, dalla subordinazione del contenuto informativo dei componimenti agli esiti formali. I meriti principali dei poeti marinisti consistono nell’ampliamento dei temi (spesso tratti CAP. 1 - IL SEICENTO – LETTERATURA

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trandosi con l’estetica della Controriforma in opere di contenuto religioso e morale. Altra tematica assai frequente (in particolare nelle grandi tragedie di Shakespeare) è il dramma determinato dalla ragione di Stato, ossia il conflitto suscitato, in sovrani e principi, fra le umane passioni e il senso del dovere. Anche la commedia sopravvive, nel corso del secolo, in forme ripetitive. L’autore che più merita di essere ricordato è Michelangelo Buonarroti il Giovane, nipote del grande artista; più interessanti e riuscite sono le opere in dialetto milanese di Carlo Maria Maggi. Il culmine del teatro comico italiano del tempo è però rappresentato dalla commedia dell’arte, recitata da compagnie di attori di mestiere. Basata su un canovaccio predisposto dal capocomico, sulla cristallizzazione dei tipi in maschere fisse – da Arlecchino a Pantalone – e sull’improvvisazione, dalla penisola essa si diffonderà in tutta Europa. Un’altra grande innovazione è rappresentata dalla nascita del melodramma, i cui principali autori, di livello europeo, sono Ottavio Rinuccini per quanto riguarda i testi e Claudio Monteverdi per la musica.

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dalla vita quotidiana, con presenza nei versi, per la prima volta, di oggetti della scienza e della tecnica); nella dilatazione del lessico; nelle innovazioni metriche (ampio è l’uso, accanto al sonetto, del madrigale e della canzone, spesso variati rispetto ai canoni tradizionali); nella proposta di un’ampia gamma di modelli femminili che rompe con la tradizione dello stereotipo di donna che si ripete nelle liriche petrarchiste, e nell’abilità con cui il poeta evoca immagini e sonorità attraverso le parole. Tipicamente marinista è inoltre la curiosità – propria di tutto il secolo – nei confronti della realtà fisica e materiale e, infine, l’insistenza su temi tipicamente seicenteschi: la realtà come illusione (il teatro, lo specchio, il sogno), il rapido trascorrere del tempo e l’incombere della morte (le rovine, le catastrofi, i teschi, i fiori appassiti, gli orologi), l’inafferrabile e indefinibile mutevolezza della realtà (il vento, l’acqua, le ombre, le metamorfosi). Tuttavia nei versi dell’ampia schiera dei poeti marinisti – soprattutto fra i minori – si manifestano anche gli aspetti deteriori del nuovo stile: in particolare, l’artificiosità dei giochi di parole e la mancanza di spessore psicologico e morale dei testi.

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TRATTATISTICA

Il Seicento conosce un grande sviluppo della trattatistica che si articola in numerosi campi: linguistico, letterario, morale, politico, storico e scientifico.

ma che, essendovi un progresso delle arti, i moderni sono superiori agli antichi. Un’altra grande polemica si sviluppa intorno all’Adone di Marino: fra il 1627 e il 1629 vengono pubblicati i trattati Dell’occhiale di Tommaso Stigliani (1573-1651) e Difesa dell’Adone di Girolamo Aleandro (1574-1629). L’opera di Stigliani accusa il poema di Marino di dispersività e di mancato rispetto delle regole aristoteliche; la difesa di Aleandro lo esalta in quanto capace di suscitare diletto fino ad inebriare il lettore. Intermedia la posizione di Nicola Villani, che, soprattutto nelle Considerazioni, apprezza le innovazioni contenute nell’Adone, ma critica gli eccessi del Marinismo.

La trattatistica storica e politica Il trattato storico è il genere in cui primeggia Paolo Sarpi (1552-1623): in tale ambito, merita tuttavia di essere citato anche il gesuita Pietro Sforza Pallavicino (1607-1667), autore della Istoria del Concilio di Trento, scritta in contrapposizione all’opera di Sarpi che tratta il medesimo argomento, ed autore di pregevoli scritti morali. Interessanti sono anche le opere di Guido Bentivoglio, nunzio apostolico nelle Fiandre e a Parigi e, successivamente, cardinale: il suo capolavoro, Della guerra di Fiandra, è scritto con accuratezza ed eleganza e rispecchia l’esperienza diplomatica dell’autore. Nel Seicento un ruolo dominante va attribuito alla trattatistica politica. L’affermazione dell’assolutismo e le trasformazioni che ne de-

L’ambito linguistico e letterario In ambito linguistico, le tre edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612, 1623, 1691), pur di grande importanza per la formazione della lingua nazionale italiana, provocano un acceso dibattito in cui intervengono molti fra i principali scrittori del secolo. Contro la codificazione di una norma grammaticale uniforme scendono in campo Emanuele Tesauro (1592-1675), il gesuita Daniello Bartoli (1608-1685), che nell’opera Il torto e il diritto del non si può, deride gli eccessi di trecentismo dei compilatori del Vocabolario, e Traiano Boccalini, che si schiera a favore di una lingua libera, che accolga gli apporti dei moderni. I limiti evidenziati dai detrattori sono in parte rettificati nell’edizione del 1691 del Vocabolario, che accoglie non pochi termini usati da grandi scrittori moderni. Sul piano letterario, la trattatistica del Seicento è impegnata soprattutto nel dibattito polemico sul valore delle opere di Petrarca e dell’imitazione petrarchista, acceso dalle Considerazioni sopra le Rime del Petrarca (1609) di Alessandro Tassoni. In tale opera l’autore affer-

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Pieter Paul Rubens, I quattro filosofi, 1612 ca. Firenze, Palazzo Pitti.

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Focus

meglio rappresentano le correnti di pensiero dominanti del secolo: tra di loro primeggia il gesuita Giovanni Botero (1544-1617), che in Della ragion di Stato, criticando Machiavelli, ripropone una concezione cristiana della politica.

La trattatistica scientifica Notevole è lo sviluppo del trattato scientifico, che assume a modello i testi di Galileo Galilei. Oltre che per il contenuto, tali opere scientifiche sono innovative anche per lo stile, che, rifiutando le tortuosità barocche, anticipa la lineare prosa settecentesca per la chiarezza razionale, non disgiunta da vivacità espositiva. Secondo l’usanza della comunità scientifica, tali trattati sono composti talora in italiano, talora in latino. Fra gli autori della “nuova scienza”, dopo Galileo, va ricordato anzitutto Federico Cesi (1585-1630), suo amico nonché fondatore dell’Accademia dei Lincei, il cui capolavoro è La dignità e i progressi delle scienze, nel quale egli illustra lo scopo dell’attività dell’Accademia, volta alla ricerca sperimentale e alla diffusione delle conoscenze acquisite. Cesi attribuisce grande importanza allo scambio di informazioni fra scienziati e mette in comunicazione – fra loro e con Galileo – personaggi come il fisico Benedetto Castelli, cui si deve lo studio Della misura dell’acque correnti, che sta alla base dell’idraulica moderna, il matematico Bonaventura Cavalieri, autore della Geometria indivisibilium

I RAGGUAGLI DI PARNASO E LA NASCITA DEL GIORNALISMO MODERNO

I Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini rappresentano forse la prima rilevante opera letteraria strutturata secondo i canoni del nascente giornalismo moderno e sono composti da una serie di resoconti che descrivono ai lettori le vicende dell’immaginario regno di Parnaso, dietro le quali si nascondono gli eventi politici del tempo. Già sul finire nel XVI secolo, proprio nella città di Venezia in cui appare l’opera di Boccalini, si era diffusa l’abitudine di affiggere in bacheche gli avisi (“avvisi”), fogli contenenti succinti resoconti dei più recenti avvenimenti cittadini. Veneziana è pure la gazzetta (così detta dalla denominazione della moneta necessaria per acquistarla), che nasce alle soglie del Seicento e ben presto assume un’impaginazione in quattro fogli. Gestita dal governo ducale, essa diventa un importante strumento per influenzare l’opinione pubblica. A imitazione di tali primi modelli, nel corso del secolo, si diffondono, in tutta Europa, periodici di più ampio respiro e di maggiore importanza. Nella penisola, Venezia e Firenze possiedono le stamperie più attrezzate e producono i migliori periodici italiani. È però in Inghilterra che, agli inizi del Settecento, si affermerà il moderno giornalismo, che diventerà poi, grazie alla cultura illuminista, un importante strumento di divulgazione delle conoscenze e di formazione dell’opinione pubblica. Fino alla metà dell’Ottocento, i giornali, distaccandosi dal modello originario degli avisi, basati su notizie essenziali e del tutto privi di commenti iconografici, a parte qualche rara incisione, somiglieranno comunque più alle moderne riviste di cultura che agli attuali quotidiani. Va infine notato, nei Ragguagli di Boccalini, l’innovativo stile – tipico in seguito del cosiddetto corsivo giornalistico – che consiste nel satireggiare in tono bonario e scherzoso, consentendo all’autore di non essere direttamente imputato per le proprie affermazioni. Fra gli scrittori che lo apprezzeranno maggiormente si distinguerà l’inglese Jonathan Swift (1667-1745), autore del celebre I viaggi di Gulliver.

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rivano in ogni ambito della vita sociale producono la necessità di una riflessione sul rapporto fra l’individuo e lo Stato e fra lo Stato e la Chiesa da parte degli intellettuali sia italiani sia europei: anche per il più importante storiografo italiano, Paolo Sarpi, l’interesse politico è tratto fondamentale delle sue opere. La trattatistica di denuncia del potere si esprime soprattutto nel Tacitismo. Cornelio Tacito (54-120 ca.), storico romano ostile agli imperatori, aveva descritto nelle proprie opere le atrocità da essi commesse: nel Seicento, i suoi scritti sostituiscono come modello quelli di Tito Livio. Trattando delle crudeltà degli imperatori romani e dei meccanismi del potere assoluto, molti scrittori denunciano così, indirettamente, l’oppressione esercitata dalle autorità del XVII secolo. Nel contempo però, il Tacitismo di alcuni autori – sostenendo le più spregiudicate analisi di Machiavelli, ma fingendo di ricavarle dagli scritti di Tacito – contribuisce anche alla formazione e al consolidamento dell’assolutismo. All’interno della tendenza, si distingue Traiano Boccalini (1556-1613), che nei Ragguagli di Parnaso usa la finzione del processo giudiziario per emettere assoluzioni e condanne, con gustosa vena satirica, e per esprimere il proprio pensiero su svariati personaggi e temi politici, morali, letterari e di costume, anticipando inoltre alcuni caratteri della prosa giornalistica. La condanna delle tesi di Machiavelli e del Tacitismo emerge invece negli scrittori che

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(“Geometria degli indivisibili”), il fisico e matematico Evangelista Torricelli, inventore del barometro e autore dell’Opera geometrica. Forse il primo esempio di una collaborazione fra scienziati di varie discipline e nazionalità è la pubblicazione da parte dell’Accademia dei Lincei, nel 1651, del cosiddetto Tesoro messicano, volume di carattere enciclopedico sulla medicina e la storia delle piante, degli animali e dei minerali del Messico. Nella seconda metà del Seicento, scienziati e scrittori detti “della seconda generazione”, acquistano fama europea, come Lorenzo Bellini, autore dei Discorsi di anatomia, e Marcello Malpighi, studioso di anatomia ed embriologia. Un cenno a parte meritano l’aretino Francesco Redi (1626-1698), scienziato e letterato, membro anche dell’ Accademia dell’Arcadia – che inaugurerà il ritorno al classicismo – e il romano Lorenzo Magalotti (1637-1712), naturalista e fantasioso prosatore. Dopo la condanna di Galileo, fedeli al voto di obbedienza al papa che sta a fondamento della loro regola, i Gesuiti prendono le distanze dalle tesi condannate dalla Chiesa ma non cessano di pubblicare opere di alto valore, cercando di conciliare le nuove teorie con il sistema aristotelico-tomistico. Fra questi, si distinguono Athanasius Kircher (1601-1680), erudito tedesco trasferitosi a Roma, e soprattutto il ferrarese Daniello Bartoli (1608-1685), autore dottissimo e ammiratore della scienza nuova, dalla quale però espunge le teorie condannate come eretiche. A questo geniale

poligrafo gesuita appartengono fra l’altro i trattati scientifici Del suono de’ tremori armonici e dell’udito e Del ghiaccio e della coagulazione, che accoppiano metodo sperimentale e ricorso alle “autorità”. La Ricreazione del savio in discorso con la natura e con Dio – opera sospesa fra morale e scienza – è spesso protesa alla descrizione delle meraviglie del creato, presentate con un gusto letterario che sovente sconfina nella prosa barocca.

Lettera del 19 novembre 1683 in cui Francesco Redi parla di una pubblicazione scientifica di carattere anatomico.

Lorenzo Magalotti, Frontespizio della prima edizione dei Saggi di naturali esperienze. Firenze, 1667.

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Le prose eccentriche: Torquato Accetto Non mancano, in un secolo in cui la ricerca della novità è apertamente sottolineata come contrappeso al ritorno all’ordine, opere eccentriche e difficilmente classificabili in un preciso genere. Fra esse primeggia La dissimulazione onesta di Torquato Accetto – autore sulla cui vita si hanno ben poche notizie – che, interpretando la condizione in cui molti intellettuali si trovarono di fronte al potere, esalta, con ampie argomentazioni, la necessità di dissimulare il proprio pensiero: non per ingannare gli altri, ma per una motivazione che egli definisce onesta. Ingegno e virtù, infatti, secondo Accetto suscitano invidia, in particolare presso i potenti, che temono ogni mente ove abita la sapienzia: da qui le loro minacce. Dura è perciò la condizione del libero pensatore, che talora deve dissimulare perfino con se stesso per dimenticare la triste condizione in cui vive e per procurarsi quella moderata oblivione che serve agli infelici.

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Torquato Accetto

A lungo ignorata, l’opera di Torquato Accetto (1590 ca. – ?), riscoperta nel 1928 da Benedetto Croce, è oggi ritenuta un gioiello della prosa seicentesca. Il testo, tratto da Della dissimulazione onesta, vuole descrivere e insegnare la difficile arte della dissimulazione, definita onesta per contraddistinguerla dalla simulazione, che si propone invece come scopo l’inganno, e verte sulla necessità di dissimulare e nel contempo sull’amore per la verità. L’opera si accompagna allo sviluppo di una sottintesa polemica contro il potere, espressa con uno stile volutamente conciso. La frode è proprio mal dell’uomo, essendo la ragione il suo1 bene, di che quella è abuso2; onde nasce ch’è impossibile di trovar arte alcuna3, che la riduca a segno4 di poter meritar lode5: pur si concede talor6 il mutar manto7, per vestir conforme alla stagion della fortuna, non con intenzion di fare, ma di non patir danno, ch’è quel solo interesse col quale si può tollerar chi si vuol valere della dissimulazione8, che però9 non è frode; ed anche in senso tanto moderato10, non vi si dee poner mano se non per grave rispetto11, in modo che si elegga per minor male, anzi con oggetto di bene12. Sono13 alcuni che si trasformano, con mala piega14 di non lasciarsi mai intendere; e spendendo questa moneta con prodiga mano in ogni picciola occorrenza, se ne trovano scarsi dove piú bisogna15, perché scoperti ed additati per fallaci, non è chi loro creda. Questo è per avventura il piú difficile in tal industria16; perché, se in ogni altra cosa giova l’uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il contrario, poiché il dissimular sempre mi par che non si possa metter in pratica di buona riuscita. È dunque dura impresa il far con arte perfetta quello che non si può essercitar in ogni occasione, e però non è da dir che Tiberio17 fosse molto accorto in questo mestiero, ancorché da molti si affermi; e ciò considero, perché, dicendo Cornelio Tacito18: Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura seu adsuetudine, suspensa semper et obscura verba19; non solo disse prima plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat20, ma conchiude At patres, quibus unus metus, si intelligere viderentur21, ecc.; ecco che si accorgeano chiaramente della sua intenzion in quelli continui artifici. In sostanza il dissimular è una professione, della qual non si può far professione, se non nella scola del proprio pensiero. Se alcuno portasse la maschera ogni giorno, sarebbe piú noto di ogni altro, per la curiosità di tutti; ma degli eccellenti dissimulatori, che sono stati e sono, non si ha notizia alcuna. da Della dissimulazione onesta, a cura di S. S. Nigro, Einaudi, Torino, 1997

1. suo: dell’uomo. 2. quella è abuso: la frode è un uso perverso (abuso) della ragione in quanto si avvale di procedimenti razionali e di abilità intellettuale per carpire la buona fede del prossimo. 3. arte alcuna: un modo qualunque. 4. la riduca a segno: la giustifichi e la renda degna. 5. meritar lode: la frode dunque non è dissimulazione e non può essere mai giustificata né, tanto meno, lodata. 6. si concede talor: è qualche volta ammesso (dalla legge morale). 7. mutar manto: cambiare l’abito. 8. ch’è… della dissimulazione: il non patir danno è il solo motivo che rende tollerabile chi usa la dissimulazione. 9. però: perciò. 10. moderato: ristretto. 11. per grave rispetto: costretti da gravi circostanze. 12. si elegga… oggetto di bene: la dissimulazione venga scelta (eletta) come un male minore, ed anzi a scopo

(oggetto) di bene. 13. Sono: ci sono. 14. con mala piega: con la cattiva abitudine. 15. dove piú bisogna: quando più ne avrebbero bisogno, cioè: non possono più far ricorso alla dissimulazione perché ne hanno abusato quando non ce n’era bisogno. 16. in tal industria: nell’arte del dissimulare. 17. Tiberio: imperatore romano del I secolo d.C., successore di Augusto. 18. Cornelio Tacito: le citazioni che seguono sono tratte dagli Annales di Tacito (I, 11). 19. Tiberioque... verba: Tiberio usava, anche nelle occasioni in cui non c’era bisogno di dissimulare, sia per indole sia per consuetudine, sempre parole ambigue ed oscure. 20. plus... erat: in tale discorso c’era più dignità di forma che sincerità. 21. At patres... viderentur: ma i padri (i senatori), che avevano il solo timore di farsi accorgere che lo capivano.

Comprensione 1. Come viene definita da Torquato Accetto la dissimulazione? 2. Perché, secondo l’autore, si dovrebbe dissimulare davanti ai potenti? 3. Quale differenza esiste per Accetto tra la dissimulazione e la frode?

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CAP. 1 - IL SEICENTO – LETTERATURA

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LETTERATURA

La necessità di dissimulare davanti ai potenti

LETTERATURA

I GENERI DELLA TRATTATISTICA

TRATTATISTICA

LETTERARIA

LA

Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico. Un catalogo di figure retoriche, prima fra tutte la metafora.

POLITICA

Giovanni Botero, Della ragion di Stato. L’autore getta le basi della rinnovata concezione cristiana della politica, opponendosi alle tesi di Machiavelli.

STORICA

Paolo Sarpi, Istoria del Concilio tridentino. Un’opera in cui l’autore dimostra il fallimento del Concilio di Trento, che giunge a negare ogni proposito di riforma all’interno della Chiesa cattolica.

SUL COMPORTAMENTO

Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta. Un trattato che verte sul rapporto fra la necessità di dissimulare e l’amore per la verità.

POLEMISTICA MORALE

Traiano Boccalini, Ragguagli di Parnaso. Una critica mascherata alla società del tempo, espressa con vena satirica, che anticipa lo stile giornalistico.

RELIGIOSA

Daniello Bartoli, Istoria della Compagnia di Gesù. Sei volumi che descrivono l’operato dei Gesuiti nelle diverse parti del mondo.

FILOSOFICA

Tommaso Campanella, La Città del Sole. Ricollegandosi alla tradizione dell’utopia, il filosofo illustra le proprie idee circa la forma migliore di governo.

NARRATIVA

La fortuna del romanzo nel Seicento in Italia inizia con il 1624 – anno di pubblicazione dell’Eromena, primo volume di una trilogia di Giovan Francesco Biondi (1572-1644) – e si conclude con il 1673, con la pubblicazione dell’Eroina intrepida del genovese Francesco Fulvio Frugoni. Molti romanzieri seicenteschi conducono un’esistenza avventurosa, partecipando a guerre e intrighi di corte, al servizio dei potenti. Esemplare il caso del piacentino Ferrante Pallavicino (1616-1644): avvicinatosi al Calvinismo, dopo aver pubblicato opere antipapali viene catturato e giustiziato come eretico ad Avignone. La sua vita offrirà lo spunto, nell’Ottocento, al francese Stendhal (17831842) per la creazione del personaggio di Ferrante Palla nel romanzo La Certosa di Parma.

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CAP. 1 - IL SEICENTO – LETTERATURA

Le particolarità della narrativa seicentesca in Italia Il romanzo seicentesco deve la sua fortuna editoriale alla capacità di soddisfare i gusti di un ampio pubblico, meno colto e più vasto rispetto ai lettori dei secoli precedenti. È un genere destinato all’intrattenimento, con trame ricche di peripezie, ambientate in luoghi esotici o nel lontano passato, e con sovrabbondanza di elementi bizzarri e giochi verbali e concettuali. Caratteristiche comuni di tali romanzi sono la presenza di un ampio numero di personaggi, le cui vicende sono spesso storie parallele che poi si intrecciano e le continue digressioni, che costituiscono “storie nelle storie”. I personaggi non hanno spessore psicologico, ma contano solo per ciò che fanno: sono, cioè, costruiti in funzione dell’azione e dell’intreccio. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

mamma Oca, che racchiudono gioielli come Il Gatto con gli stivali, Cappuccetto rosso, La bella addormentata nel bosco, Cenerentola. Il recupero del Cunto avverrà pienamente nell’Ottocento romantico tedesco, per merito di autori di fiabe come Cristoph Wieland (1733-1813) e come i celebri fratelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm (1786-1859) Grimm. Nel 1925 Benedetto Croce pubblicherà una traduzione in lingua italiana dell’intera opera, indicando in Basile il miglior narratore dell’età barocca. L’emiliano Giulio Cesare Croce (1550-1609), di umili origini e dalla vita trasgressiva, poeta di piazza a Bologna, cantastorie, autore di operette per feste popolari, fiere e per il carnevale, deve la sua fama alla creazione del personaggio di Bertoldo, protagonista delle opere Le sottilissime astuzie di Bertoldo (1606) e Le piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino (1608), quest’ultima dedicata allo sciocco figliuolo del furbo Bertoldo. Croce trae ispirazione da un testo medievale del XII secolo (“Dialogo di Salomone e Marcolfo”), ma al saggio Salomone sostituisce il re longobardo Alboino e a Marcolfo l’astuto plebeo Bertoldo, che incarna il buon senso popolare. Bertoldo diventa consigliere del re, che gli permette di prendersi gioco di lui; la vita di corte però non gli si addice, tant’è vero che infine egli muore perché costretto a cibarsi di pietanze troppo raffinate anziché di rape e fagioli. Bertoldino è l’opposto del padre: chiamato alla corte, con la madre Marcolfa, dopo la morte di Bertoldo, diventa oggetto di ridicolo poiché, sciocco com’è, prende ciò che gli si dice alla lettera, cadendo vittima di mille equivoci verbali.

L’inizio delle novelle Il gatto e Il mercante. Dall’edizione napoletana del Pentamerone del 1754, prima della traduzione in italiano del Cunto de li cunti di Giambattista Basile.

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CAP. 1 - IL SEICENTO – LETTERATURA

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LETTERATURA

La narrativa seicentesca oggi più apprezzata in Italia, pur ispirandosi al gusto fantastico barocco, presenta rilevanti particolarità nel tono fiabesco, plebeo e, talora, nel linguaggio dialettale. Al suo interno, emergono infatti due figure preminenti: Giambattista Basile (1575 ca. – 1632), che scrive in dialetto napoletano, e Giulio Cesare Croce (1550-1609), inventore del celebre personaggio di Bertoldo. Basile, membro dell’Accademia degli Oziosi a Napoli, oltre a odi e madrigali, scrive in vernacolo le Muse Napolitane e il suo capolavoro Lo cunto de li cunti overo Lo trattenemiento de’ piccerille, una raccolta di fiabe nella cornice di cinque giornate in cui dieci anziane donne raccontano cinquanta storie, delle quali la più nota è La gatta Cennerentola. La materia dei cunti è ricavata in parte dalla tradizione popolare, in parte da fiabe orientali, ma i motivi ai quali Basile attinge sono arricchiti e personalizzati dalla sua sfrenata fantasia; l’esuberante stile dell’autore è sempre pronto a creare meraviglia narrando ciò che è inconsueto, bizzarro e stupefacente: fate, orchi, oggetti magici, incantesimi, metamorfosi. I racconti sono popolati da figure femminili che generano piante e da piante che fanno nascere fate, da frutti da cui escono fanciulle e da giovani che si trasformano in uccelli. Il Cunto eserciterà una notevole influenza sulla narrativa italiana successiva, ad esempio sull’Amore delle tre melarance (1761) e sulle altre fiabe teatrali del veneziano Carlo Gozzi (17201806). E non è escluso che abbia anche incoraggiato la tendenza francese di produrre fiabe, il principale esponente della quale è Charles Perrault (1628-1703), autore dei Racconti di

Tipologie e generi letterari La poesia lirica La poesia lirica seicentesca si sviluppa lungo due filoni paralleli: quello caratterizzato dal concettismo barocco e quello ancora legato alle poetiche classiciste cinquecentesche. Il capofila della poesia barocca è Giambattista Marino, che si propone come modello sia in ambito lirico con La Lira (1614) e La Galeria (1619), sia in ambito bucolico con La Sampogna (1620). A lui si rifanno i tanti poeti minori di stampo barocco, da Claudio Achillini a Giuseppe Artale, da Ciro di Pers a Giacomo Lubrano, caratterizzati da uno sperimentalismo concettistico. Nell’ambito del classicismo, o in ogni caso di un barocco moderato (o di un classicismo barocco), si muovono invece autori come Gabriello Chiabrera – le cui poesie tendono spesso ad un’alta solennità o ad una raffinata misura di grazia e leggerezza – e Fulvio Testi. Di tutt’altro genere sono le Poesie filosofiche (1622) di Tommaso Campanella, lontane sia dal contemporaneo gusto barocco sia dal classicismo chiabreresco, tese a un ideale di poesia eticamente e religiosamente sostenuta, di stampo dantesco. Il poema Accanto a numerosi poemi epici che nel primo Seicento si rifanno al modello della Gerusalemme liberata, spicca il poema in ottave Adone (1623) di Giambattista Marino, che rompe i canoni del genere epico, riprendendo il materiale delle favole mitologiche classiche nei termini della nuova poetica barocca. Dello stesso Marino è il poema sacro in ottave La strage degli innocenti (1638). Anche Alessandro Tassoni prende esplicitamente le distanze dall’epica tassiana, deformandone le convenzioni in modi comici: la sua Secchia rapita (1622) inaugura il nuovo genere, assai fortunato fra Seicento e Settecento, del poema eroicomico. Da ricordare come ulteriore esempio è L’asino (1652) di Carlo de’ Dottori. Il romanzo Il romanzo in prosa conosce una discreta fortuna nel Seicento, soppiantando a poco a poco le opere narrative in versi. I centri principali di tale produzione in Italia sono Venezia, Bologna e Genova. Per lo più i romanzi seicenteschi raccontano vicende avventurose, dall’intreccio spesso estremamente complicato e tortuoso. Un posto a sé occupa Il cane di Diogene (1687), una sorta di romanzo grottesco e frammentario, assai vicino al gusto barocco, di Francesco Fulvio Frugoni. La novellistica Mentre sono di scarso valore le raccolte seicentesche di novelle in lingua, è invece di assoluto rilievo Lo cunto de li cunti (1634-1636), una raccolta di fiabe in dialetto napoletano, nota anche come il Pentamerone, di Giambattista Basile. Di carattere popolare, oscillante fra il romanzo e la novellistica, sono Le sottilissime astuzie di Bertoldo (1606) del bolognese Giulio Cesare Croce. La trattatistica Alcuni trattati discutono aspetti fondamentali della vita seicentesca – come ad esempio Della dissimulazione onesta (1641) di Torquato Accetto, che verte sul rapporto fra la necessità di dissimulare e l’amore per la verità – o cercano di definire i princìpi della poetica concettista – come Il cannocchiale aristotelico (1655) di Emanuele Tesauro, che con il suo stile ricco e ricercato offre un esempio estremo ed emblematico di scrittura barocca. Di tutt’altra specie è la trattatistica scientifica, aliena da qualunque sfoggio concettistico e caratterizzata in genere da nitida chiarezza e da rigore razionale. Decisivo sul piano stilistico è il modello della prosa di Galileo Galilei: al Saggiatore (1623) e al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) fanno seguito nel Seicento numerose altre opere di scienziati – da Evangelista Torricelli a Francesco Redi, da Lorenzo Magalotti a Marcello Malpighi –, che si allontanano dagli esempi della prosa barocca. All’inizio del Seicento continua anche il filone della trattatistica politica sulla ragion di Stato: basta ricordare due opere dal medesimo titolo, Della ragion di Stato, pubblicate nel 1621 da Ludovico Zuccolo e nel 1627 da Ludovico Settala. Non un trattato organico e sistematico, ma una raccolta di riflessioni frammentarie sono i Dieci libri di pensieri diversi (1608) di Alessandro Tassoni.

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Un posto a sé occupa La Città del Sole (1602) del filosofo Tommaso Campanella, descrizione utopistica di una società ideale basata sulla giustizia e sull’uguaglianza. La critica letteraria Significative sono le Considerazioni sopra le Rime del Petrarca (1609) di Alessandro Tassoni, documento del nuovo gusto post-petrarchesco e post-rinascimentale di inizio Seicento. Un esempio di critica letteraria spregiudicata ed originale è dato dai Ragguagli di Parnaso (16121613) di Traiano Boccalini. Importante per l’identità della poetica barocca è il dibattito che nasce dopo la pubblicazione, nel 1623, dell’Adone di Marino. Tommaso Stigliani con Dell’occhiale (1627) critica il nuovo poema, mentre Girolamo Leandro si esprime a favore con la Difesa dell’Adone (1629-1630). Daniello Bartoli con L’uomo di lettere difeso ed emendato (1645) propone invece una ridefinizione del compito del letterato in termini etico-religiosi. La storiografia Non lontano dal gusto barocco è il gesuita Daniello Bartoli, autore della monumentale Istoria della Compagnia di Gesù (1650-1673). Lontana dalla cultura barocca ed ecclesiastica del tempo, sorretta da un forte impegno morale e accesa da una vibrante polemica contro il Papato controriformista è l’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi, stampata a Londra nel 1619. Per controbattere le tesi di Sarpi in nome della concezione ufficiale della Chiesa, il gesuita Pietro Sforza Pallavicino pubblicherà anni dopo una Istoria del Concilio di Trento (1656-1657). Di minore importanza sono altre opere storiografiche, come ad esempio l’Istoria veneziana (1605) di Paolo Paruta. L’oratoria sacra Anche nell’ambito dell’oratoria sacra si afferma il gusto barocco: basti pensare che lo stesso Giovan Battista Marino scrive tre orazioni religiose – le Dicerie sacre (1614) – ricche di metafore esasperate e di concetti. Lo imita il padre cappuccino Emanuele Orchi nel suo Quaresimale (1650). Ispirato ad uno stile barocco più moderato è invece il Quaresimale (1679) del gesuita Paolo Segneri. D’altra parte sono sempre più numerose, dalla metà del secolo in poi, le voci che si levano contro l’eccessivo adeguamento dell’oratoria religiosa al concettismo barocco. La tragedia Il più significativo tragediografo del Seicento è Federico Della Valle, nel cui capolavoro, La Reina di Scozia (1628), viene messo in scena, con un páthos intensamente cristiano, un dramma legato alla ragion di Stato. Le altre due importanti tragedie di Della Valle, entrambe di argomento biblico, sono la Ester e la Iudit, pubblicate nel 1627. Notevole anche l’Aristodemo (1657) di Carlo de’ Dottori, centrato sulla nobile ed eroica figura della giovane Merope, vittima del tiranno Aristodemo. La commedia Mentre la commedia di derivazione classica va tramontando, si affaccia la commedia popolare, soprattutto a Firenze, dove opera Michelangelo Buonarroti il Giovane, nipote del sommo artista e autore della Fiera (1619). A fine secolo a Milano opera invece Carlo Maria Maggi, inventore del popolare personaggio di Meneghino. Ma per tutto il Seicento domina incontrastata, diffondendosi anche in Europa, la commedia dell’arte, legata all’improvvisazione degli attori e alla tipicità dei personaggi, che si trasformano presto in vere e proprie maschere. Il melodramma Verso la fine del Cinquecento un gruppo di letterati e musicisti fiorentini – la cosiddetta Camerata de’ Bardi – discute la possibilità di affiancare la musica all’azione drammatica: nasce così un nuovo genere letterario, l’opera in musica o melodramma. Il primo esempio è la Dafne (1598) di Ottavio Rinuccini, cui seguono, nel Seicento, altri melodrammi, rappresentati dapprima a Firenze e poi a poco a poco in altri centri italiani – Mantova, Venezia, Roma – ed europei. Il valore di queste opere è legato, più che ai testi o libretti, soprattutto alle musiche, di cui sono autori personaggi come Iacopo Peri, Giulio Caccini o Claudio Monteverdi. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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Concetti chiave STORIA Il Seicento si presenta come il secolo d’oro per la cultura e lo sviluppo delle potenze emergenti – Paesi Bassi, Prussia e Russia –, ma anche come un periodo critico per guerre – la guerra dei Trent’anni (1618-1648), che coinvolge l’Impero germanico, Danimarca, Svezia e Francia e termina con la pace di Westfalia (1648) –, carestie ed epidemie, che decimano la popolazione europea. Si rafforzano due modelli di monarchia: la Francia assolutista di Luigi XIV, il Re Sole, e l’Inghilterra, che vede il passaggio alla monarchia costituzionale con la rivoluzione del 1689 e la Dichiarazione dei diritti formulata dal parlamento. In Italia si verifica un declino politico ed economico, caratterizzato dalla divisione in Stati regionali e dalla dominazione spagnola nei regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, oltre che nel Ducato di Milano. La monarchia iberica influenza anche il Papato in crisi. Gli unici Stati della penisola che conservano una certa indipendenza sono la Repubblica di Venezia e il Ducato di Savoia.

CULTURA IL SEICENTO E IL BAROCCO Il secolo XVII è l’età del Barocco, movimento artistico che supera il classicismo tardorinascimentale caratterizzandosi per la ricerca del prezioso, del raro, del bizzarro al fine di suscitare meraviglia. I CARATTERI DELLA CULTURA DEL SEICENTO La cultura rinascimentale entra in crisi per effetto della Controriforma, per le scoperte geografiche e per la rivoluzione copernicano-galileiana, che sancisce la nascita della scienza moderna col sorgere delle accademie scientifiche (come l’Accademia dei Lincei nel 1603 a Roma). La filosofia si separa dalla teologia con il razionalismo di Cartesio (1596-1650), Spinoza (1632-1677) e Leibniz (1646-1716), che esaltano la ragione umana come mezzo per indagare la realtà. In politica prevale la giustificazione teorica dell’assolutismo con Jean Bodin (1530-

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1596), mentre Giovanni Botero (1544-1617), teorico della ragion di Stato, mira a conciliare il principio religioso e la morale con le necessità del potere. Ugo Grozio (1583-1645), che sostiene l’esistenza di diritti naturali dell’uomo, Thomas Hobbes (1588-1679), che fa discendere il potere statale da una sorta di patto sociale nato per superare l’aggressività umana, e John Locke (1632-1704), che esalta la libertà dell’uomo, gettano le fondamenta del liberalismo. IL BAROCCO NELLE ARTI Pittura, scultura e architettura vanno alla ricerca dello stupefacente e dell’effetto. Fra i pittori sono da ricordare i fiamminghi Rubens, Rembrandt e Vermeer, lo spagnolo Velazquez e l’italiano Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571 ca. – 1610). Fra gli architetti Gian Lorenzo Bernini (15981680) e Francesco Borromini (1599-1667). Fra i musicisti del Seicento emergono Claudio Monteverdi (1567-1643) e Johann Sebastian Bach (1685-1750). I CENTRI DEL BAROCCO IN ITALIA Roma assume il ruolo di capitale del Barocco europeo in quanto centro della Riforma cattolica (o Controriforma). A Milano Federico Borromeo (1564-1631) fonda la Biblioteca Ambrosiana con la pinacoteca e l’Accademia. A Torino Carlo Emanuele I di Savoia diventa mecenate dei poeti Alessandro Tassoni (1565-1635) e Giambattista Marino (1569-1625). La Firenze di Cosimo II de’ Medici è un centro della nuova cultura scientifica. A Napoli operano Giovan Battista Basile (1575-1632) con le sue novelle e Giulio Cesare Cortese (1575 ca. – 1625) con le sue rime. Venezia diviene punto di riferimento del dissenso per la presenza di Galileo (1564-1642) all’Università di Padova e del contrasto giurisdizionale con la Chiesa, in cui la Serenissima è sostenuta dal frate e storiografo Paolo Sarpi (1552-1623). IL RUOLO DELLA CHIESA Nel primo Seicento la Chiesa post-tridentina elabora un impianto dottrinale all’interno del quale devono operare intellettuali, artisti e scrittori, attraverso la riorganizzazione dell’Inquisizione (1542) e l’Indice dei libri proibiti (1559).

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LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA I fattori che determinano la nascita della scienza moderna sono l’interesse dei filosofi al problema della natura e la collaborazione tra tecnici e scienziati, ma soprattutto il libero esame dei risultati dell’osservazione. Il nocciolo del nuovo metodo conoscitivo è l’integrazione fra l’elaborazione razionale e l’osservazione dei fatti (metodo galileiano): ne risultano teorie basate sul linguaggio della matematica e verificabili con l’esperimento.

LETTERATURA IL BAROCCO LETTERARIO Le principali caratteristiche del Barocco letterario sono l’abbandono dell’imitazione dei classici e la ricerca di nuovi modi di espressione basati a livello della forma sulla centralità della metafora e, sul piano dei contenuti, sull’attenzione dedicata agli oggetti più stupefacenti: dall’immenso al minuscolo, dallo spettacolare all’irregolare e al mostruoso, che riflettono un periodo di contrasti, insieme edonistico e angosciato. LA PRODUZIONE POETICA IN EUROPA In Spagna nasce il Gongorismo, tendenza che prende il nome da Luis de Góngora y Argote (1561-1627), in Inghilterra l’Eufuismo, da John Lyly (1554-1606). Ricordiamo inoltre la poesia metafisica di John Donne (1572-1631). Lontano dal gusto barocco è, invece, il Paradiso perduto dell’inglese John Milton (1608-1674). LA GRANDE STAGIONE DEL TEATRO In Inghilterra fiorisce il teatro elisabettiano con William Shakespeare (1564-1616) e con Christopher Marlowe (1564-1595); in Francia si afferma il classicismo dei tragediografi Pierre Corneille (1606-1684) e Jean Racine (1639-1699), ed emerge il genio del commediografo Jean-Baptiste Poquelin detto Molière (1622-1673). Per la Spagna il Seicento è il siglo de oro (“secolo d’oro”), grazie a drammaturghi come Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), Félix Lope de Vega Carpio (1562-1635) e Tirso de Molina (1584-1648). In Italia nascono la commedia dell’arte, basata sull’improvvisazione su un canovaccio e su maschere fisse come, ad esempio, Arlecchino, e il melodramma – che fonde teatro e musica – con Ottavio Rinuccini e Claudio Monteverdi.

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LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO Dopo il picaresco Lazarillo de Tormes (1554) di anonimo spagnolo, il primo vero romanzo moderno è il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes (1547-1616), pubblicato in Spagna nei primi anni del Seicento, mentre Pierre-Daniel Huet dà alle stampe in Francia il Trattato sull’origine dei romanzi (1670). IL MARINISMO IN ITALIA In Italia Giambattista Marino (1569-1625) inizia uno stile che da lui prende il nome di Marinismo, che ha come fine la maraviglia, proponendosi, come il Gongorismo spagnolo, di stupire con un ricco gioco di figure retoriche – in particolare le metafore – e di rime. Tipico è il concettismo, un gioco di combinazioni ed estensioni del significato delle parole per ottenere effetti sorprendenti e bizzarri, e l’insistenza su temi seicenteschi (la realtà come illusione, il rapido trascorrere del tempo e l’incombere della morte, l’inafferrabile mutare delle cose). LA TRATTATISTICA In ambito letterario va ricordato soprattutto Emanuele Tesauro, teorico della letteratura barocca. In ambito storico-politico, oltre a Paolo Sarpi (che nella sua Istoria del Concilio di Trento critica la Controriforma), la denuncia del potere si esprime nel Tacitismo. Si distingue inoltre Traiano Boccalini (15561613) con i Ragguagli di Parnaso, mentre il gesuita Giovanni Botero (1544-1617) in Della ragion di Stato critica Machiavelli, riproponendo una concezione cristiana della politica ma giustificando come talora inevitabile l’operato repressivo del potere. In ambito scientifico, oltre a Galileo Galilei (1564-1642), fondatore del metodo scientifico moderno, vanno ricordati Federico Cesi (1585-1630), fondatore dell’Accademia dei Lincei, Lorenzo Bellini, Marcello Malpighi, Francesco Redi (1626-1698) e Lorenzo Magalotti (1637-1712). A sé stante è l’opera, recentemente rivalutata, Della dissimulazione onesta, di Torquato Accetto. LA NARRATIVA ITALIANA Fra gli autori del genere narrativo in Italia emergono Giambattista Basile (1575 ca. – 1632), che scrive in dialetto napoletano una raccolta di fiabe (Lo cunto de li cunti) e Giulio Cesare Croce (1550-1609), inventore del personaggio di Bertoldo, astuto contadino.

CAP. 1 - IL SEICENTO

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E

sercizi di sintesi STORIA

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il Seicento europeo è caratterizzato, fra l’altro, da a. grandi scoperte geografiche. b. numerose rivoluzioni politiche. c. frequenti carestie ed epidemie. d. assenza di progresso scientifico. 2. L’Unione protestante nasce a. in Germania. b. in Italia. c. in Spagna. d. nei Paesi Bassi. 3. La guerra dei Trent’anni scoppia per motivi a. dinastici. b. esclusivamente politici. c. religiosi e politici. d. esclusivamente economici. 4. Nel Seicento le Province Unite d’Olanda a. diventano provincia spagnola. b. scompaiono dall’Europa. c. raggiungono l’indipendenza. d. diventano una monarchia. 5. Prussia e Russia nel Seicento diventano a. gli Stati dominatori del continente. b. gli aghi della bilancia in Europa. c. Stati in declino politico. d. Stati forti e accentrati. 6. Re Sole è a. il soprannome di Pietro il Grande. b. il soprannome di tutti i monarchi francesi. c. il sovrano delle nuove Province Unite. d. il modo in cui è chiamato Luigi XIV. 7. Nel Seicento l’Inghilterra diventa a. la maggior potenza coloniale. b. una provincia dell’Impero. c. la prima potenza economica mondiale. d. una monarchia costituzionale. 8. In Italia nel Seicento sono dominati dalla Spagna a. Venezia e Milano. b. Napoli, Milano, la Sicilia e la Sardegna. c. lo Stato pontificio e la Sicilia. d. i ducati di Savoia e di Milano. 9. Nel Seicento il Papato è a. in grave declino. b. in pieno sviluppo economico. c. in conflitto con l’Impero. d. sotto l’influenza francese.

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CAP. 1 - IL SEICENTO

10. Gli unici Stati che conservano un’indipendenza in Italia sono a. Napoli e Milano. b. i regni di Sicilia e Sardegna. c. Venezia e il Ducato di Savoia. d. il Papato e Firenze.

CULTURA 2 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il movimento artistico che caratterizza la cultura del Seicento è a. il Classicismo. b. il Manierismo. c. il Barocco. d. il Neoclassicismo. 2. I caratteri del Barocco sono a. il culto della razionalità, delle proporzioni e del nuovo. b. la ricerca dell’armonia e dell’equilibrio. c. il culto dello stupefacente, dell’antico e del classico. d. la ricerca del meraviglioso, del raro e del bizzarro. 3. Gli esponenti più importanti della pittura barocca sono a. Bernini e Borromini. b. Rubens, Rembrandt, Velázquez, Caravaggio. c. Monteverdi e Bach. d. Marino, Basile, Croce e Tassoni. 4. I fattori che determinano la nascita della scienza moderna sono a. l’avvento della Controriforma cattolica. b. la rivoluzione copernicana. c. l’interesse per la natura e le scoperte scientifiche. d. il recupero del razionalismo e del principio di autorità. 5. Il principale esponente della nuova scienza è a. Giambattista Marino. b. Galileo Galilei. c. Renato Cartesio. d. Giovan Battista Basile. 6. Gli autori con cui inizia il liberalismo sono a. William Shakespeare e Christopher Marlowe. b. Grozio, Hobbes e Locke. c. Jean Bodin e Giovanni Botero. d. Lope de Vega, Molière e Cervantes.

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3 Spiega il ruolo della Chiesa in Italia nel Seicento. 4 Quali sono i nomi più importanti della filosofia razionalista del Seicento? 5 Scrivi e intitola opportunamente una intervista immaginaria a Paolo Sarpi sulle principali differenze fra il suo pensiero e quello prevalente nella Chiesa cattolica seicentesca e fra il pensiero diffuso nel suo tempo e quello dei nostri giorni (max 3 colonne di metà foglio protocollo). Specificane inoltre la destinazione editoriale.

LETTERATURA 6 Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). 1. Quali sono le principali differenze nella forma e nei contenuti tra il Classicismo e il Barocco in letteratura? 2. Che cosa si intende per Marinismo? 3. Quali sono i nomi più importanti della grande stagione teatrale in Europa? 4. Che cosa si intende per Gongorismo? 5. Che cosa si intende per concettismo? 6. Che cos’è l’Eufuismo? 7. Dove vive, per quali eventi è noto e che cosa scrive Paolo Sarpi? 8. In che lingua dovevano scrivere i letterati secondo il Vocabolario degli Accademici della Crusca e chi e per quali ragioni si oppone a tale tesi? 9. Quali sono i nomi più importanti della trattatistica storico-politica del Seicento e per quali opere, e di che genere, devono essere ricordati? 10. Quali sono gli scrittori più eminenti della narrativa italiana del Seicento e quali sono le loro opere e la loro particolarità? 7 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Quali sono i centri del Barocco in Italia? 2. Quali sono i contenuti e i temi principali delle opere letterarie barocche? 3. Che cosa si intende per siglo de oro? 4. Che cos’è l’Indice dei libri proibiti? 5. Di che tratta Lo cunto de li cunti? 6. Qual è il principale personaggio creato da Giulio Cesare Croce e per quali caratteristiche si distingue? 7. Qual è il primo romanzo moderno, dove e da chi è scritto e da quale altra opera narrativa pubblicata nella stessa nazione è preceduto?

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8. Quali sono i principali trattatisti italiani del Seicento in ambito letterario e quali le loro tematiche di dibattito? 9. Che cosa si intende per commedia dell’arte? 10. Quali sono le caratteristiche del melodramma del Seicento e chi ne sono i principali autori?

8 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il Barocco letterario è caratterizzato a. dal classicismo. b. dall’abbandono del classicismo. c. dall’ossequio alle regole. d. dall’imitazione degli antichi. 2. Non è un poeta con caratteristiche barocche a. Luis de Góngora. b. Giambattista Marino. c. John Milton. d. John Donne. 3. Marino ritiene scopo del poeta a. imitare i classici. b. educare i lettori. c. suscitare meraviglia. d. trattare temi religiosi. 4. Testi per melodramma sono scritti soprattutto da a. Monteverdi. b. Marlowe. c. Lope de Vega. d. Rinuccini. 5. Il Barocco si contrappone a. al petrarchismo. b. alle innovazioni. c. al classicismo. d. al gongorismo. 6. Un importante trattato di poetica barocca è scritto da a. Emanuele Tesauro. b. Torquato Accetto. c. Paolo Sarpi. d. Traiano Boccalini. 7. L’opera principale di Paolo Sarpi tratta a. della poetica barocca. b. di argomenti linguistici. c. della ragion di Stato. d. del Concilio di Trento. 8. Della dissimulazione onesta è un’opera di a. Torquato Accetto. b. Giulio Cesare Croce. c. Giambattista Basile. d. Giovanni Botero.

CAP. 1 - IL SEICENTO

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CAPITOLO

2

La poesia del Seicento in Italia

Francesco Furini, La poesia e la pittura, 1626. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina.

GIAMBATTISTA MARINO

Il poeta della maraviglia barocca

E IL

MARINISMO

Giambattista Marino è considerato il caposcuola della nuova tendenza poetica seicentesca che da lui prende il nome di Marinismo, caratterizzata da una serie di aspetti che la distinguono non solo dalla poesia classicista rinascimentale, ma anche dallo stile di autori come Torquato Tasso che pure ne anticipano alcuni tratti. Egli si ispira ai maestri del Barocco spagnolo, e in primo luogo a Luis de Góngora. La poesia di Marino incarna nel modo più emblematico in Italia la concezione barocca della poesia: suoi sono i versi citati come sintesi della poetica prevalente nel secolo: è del poeta il fin la maraviglia […] chi non sa far stupir vada alla striglia.

La vita La giovinezza a Napoli

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Nato a Napoli nel 1569, Giambattista Marino viene ostacolato dal padre nella vocazione letteraria e avviato agli studi giuridici. Il giovane frequenta letterati e nobili, fra cui Giambattista Manso, biografo di Torquato Tasso, presso il quale forse incontra lo stesso Tasso e il poeta Guarini, autore del Pastor fido: entrambi re-

CAP. 2 - LA

POESIA DEL

SEICENTO

IN ITALIA

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Roma: il primo nucleo della Lira

Torino e il contrasto con Murtola

Il successo e la produzione parigina

Il ritorno in Italia e la morte

steranno per lui un punto di riferimento letterario. Dal 1596 è segretario di don Matteo di Capua, grande ammiraglio e principe di Conca. Dopo due anni, la fama del poeta, non ancora trentenne, è già tale che il letterato Camillo Pellegrino lo rende protagonista del dialogo Del concetto poetico e gli attribuisce la dimostrazione della necessità del copioso ricorso alle metafore nei testi poetici e soprattutto nel sonetto, indicato come la forma metrica più completa e ricca. Nel 1600, però, l’inquieto scrittore è costretto a fuggire da Napoli, dopo aver già subito il carcere per la sua vita dissoluta e sregolata. Giambattista Recatosi a Roma, dal 1602 al 1606 MaMarino. rino è al servizio del cardinale Aldobrandini, nipote di papa Clemente VIII e frequenta artisti, compone versi, ammira edifici, statue e quadri del nascente gusto barocco. Nel 1602 pubblica, con il titolo Rime, il primo nucleo della raccolta di liriche La Lira (1614). Trasferitosi il cardinale a Ravenna, Marino cerca fortuna alla corte torinese di Carlo Emanuele I di Savoia, dove l’avventuroso scrittore mira a diventare segretario del duca ed entra in contrasto con il poeta genovese Gaspare Murtola, che già riveste l’incarico. I due si scambiano versi aspramente satirici. Le Fischiate di Marino saranno successivamente raccolte nella Murtoleide. In seguito a questa accesa polemica, Murtola gli tende un agguato e viene arrestato, tuttavia la pena viene commutata in esilio per intercessione della stessa vittima. La propensione del poeta napoletano alla beffa insospettisce, infine, lo stesso duca, che lo fa imprigionare per un anno. Deluso, Marino cerca altrove protezione e, nel 1615, come tanti altri intellettuali italiani, accetta l’invito di Maria de’ Medici, vedova di Enrico IV, e si trasferisce a Parigi. Nella capitale francese è ben retribuito, onorato e stimato, e sopravvive persino alla caduta in disgrazia dei suoi protettori italiani e della stessa regina madre. A Parigi, Marino raccoglie, ordina e pubblica tutta la sua produzione poetica. Vedono così la luce La Galeria (1619), descrizione, divisa in pitture e sculture, delle opere d’arte raccolte nella galleria di un principe; La Sampogna (1620), raccolta di idilli pastorali; e soprattutto il poema l’Adone (1623), che egli considera la propria opera maggiore. Nel 1623, ammalatosi e preso dalla nostalgia per l’Italia, Marino lascia la capitale francese in preda ai disordini e raggiunge dapprima Roma e poi Napoli, dove viene onorato dalle accademie ma deve però subire la censura ecclesiastica per i versi dell’Adone nei quali, per inciso, tesse anche l’elogio di Galileo Galilei (Del telescopio a questa etate ignoto / per te fia, Galileo, l’opra composta: X, 43). La sua morte, avvenuta nel 1625 a Napoli, segna per i contemporanei la scomparsa di un grande poeta.

Le opere Le principali opere di Marino sono da un lato le raccolte di liriche, dall’altro il poema l’Adone. In entrambi i casi, la sua pur variamente giudicata poesia si contrappone alla poetica e alle tendenze prevalenti nei secoli precedenti, accostandosi soprattutto al modello dello spagnolo Góngora, iniziatore del barocco letterario europeo, e, per alcuni aspetti, a quello di Torquato Tasso. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

CAP. 2 - LA

POESIA DEL

SEICENTO

IN ITALIA

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La Lira

Il contenuto si dissolve in suoni e immagini

Con il titolo di Rime, nel 1602 Marino pubblica una raccolta di poesie, distinte in sonetti (448), madrigali (207) e canzoni (18): già la scelta di suddividere la silloge in base al metro è indicativa dell’attenzione predominante, tipica del gusto barocco, all’aspetto formale dei componimenti. L’edizione definitiva (1614), dopo una prima e seconda parte pubblicate nel 1608, intitolata La Lira, comprende buona parte delle Rime ed è ulteriormente suddivisa nei vari generi e temi della poesia lirica, alla maniera di Tasso: Marittime, Eroiche, Morali, Sacre, Amori, Lodi, Lagrime, Divozioni, Capricci. La Lira è oggi considerata da molti una delle più significative opere poetiche del Barocco europeo. Notevoli sono i madrigali – componimenti destinati ad essere musicati e dunque congeniali alla vena melodica marinista – e ancor di più i sonetti. Veri e propri gioielli lirici sono quasi tutti i componimenti della sezione delle Marittime, che hanno per tema l’amore del pescatore Fileno per la ninfa Lilla. Qui il concettismo, sebbene abbia un ruolo non trascurabile, passa spesso in secondo piano a favore dell’emergere di preziosi e innovativi intarsi di metafore e di un’abilissima orchestrazione di variazioni foniche fondata su ripetizioni, rime raffinate, consonanze e allitterazioni. Con la maestria verbale di Marino, il Barocco getta le basi di una poesia rinnovata, in cui il contenuto tematico si dissolve in suoni e immagini: solo quei poeti del Novecento che si pongono un analogo obiettivo potranno però comprendere e rivalutare appieno, a distanza di secoli, la lungamente contestata grandezza de La Lira.

Focus

IL CONCETTISMO

Il concettismo è un procedimento stilistico e un atteggiamento poetico proprio del Barocco letterario nelle sue diverse varianti europee, caratterizzato da un gusto esasperato per le sottigliezze linguistiche e per la raffinata elaborazione formale e concettuale della creazione poetica. Antecedenti del concettismo possono trovarsi in scrittori dell’antichità e nell’area del petrarchismo, tendenza poetica che riprende in forme più marcate i motivi già presenti in Petrarca (cura scrupolosa della forma, propensione alle simmetrie e alle antitesi, raffinati procedimenti poetici tratti dal trobar clus dei trovatori). Il concettismo, tuttavia, si afferma in modo pieno e maturo nel Seicento, nella misura in cui il gusto barocco propone una ricerca espressiva capace di suscitare meraviglia e rintracciare analogie inusuali e sorprendenti tra piani diversi della realtà. Inseparabile dalla metafora, il concetto, da questo punto di vista, è un collegamento audace e imprevedibile di diversi elementi, a volte contraddittori (morte/vita, buio/luce, anima/corpo) a volte distanti ed eterogenei ma collegati fra loro mediante inaspettate associazioni visive o sonore. C’è un concettismo artisticamente mirabile (lo ritroviamo spesso in Marino) e c’è un concettismo deteriore, basato su giochi di parole di cattivo gusto (frequente nei marinisti minori e non raro neppure nel poeta napoletano). I princìpi retorici del concettismo sono la propensione all’intuitività, il contrasto di contenuto e forma, la ricerca della teatralità e dell’artificio retorico, la sopravvalutazione degli aspetti stilistici e formali che si traduce spesso in un disinteresse per i contenuti morali, spirituali e filosofici. La capacità di produrre “concetti” in questo senso è definita come acutezza d’ingegno o in termini di analogo significato nelle diverse lingue del Barocco europeo (agudezas in spagnolo). Nella letteratura spagnola del Seicento, il massimo poeta concettista è Francisco de Quevedo (1580-1645), mentre il teorico del concettismo è Baltasar Gracián y Morales (1601-1658) con il suo trattato Agudeza y Arte de Ingenio. In Italia, il testo teorico più importante e famoso sull’argomento è Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro (1592-1675).

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T1 Onde dorate da La Lira, VII

Giambattista Marino

Il sonetto Onde dorate è dedicato all’amore sensuale. L’amante, vedendo la donna che si pettina, se ne innamora perdutamente. L’emozione e il contenuto sono posti in secondo piano, com’è tipico del gusto barocco, rispetto al fuoco d’artificio delle figure poetiche dell’immagine evocata, che affascina la fantasia del lettore. Nel sonetto è possibile cogliere le caratteristiche del Marinismo, destinato a rappresentare una parte consistente della poesia seicentesca. Schema metrico: sonetto, con rime ABBA, ABBA, CDC, DCD. PISTE DI LETTURA • Variazione sul tema, tipicamente barocco, del naufragio d’amore • Abile arguzia e raffinatezza, scarsa partecipazione emotiva • Tono di esercizio retorico

Onde dorate, e l’onde eran capelli, navicella d’avorio un dì fendea1; una man pur d’avorio2 la reggea3 per questi errori preziosi e quelli4; 5

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Onde dorate – e le onde eran capelli – solcava un giorno il pettine come una navicella d’avorio; una mano, anch’essa bianca come l’avorio, la guidava qua e là in percorsi attraverso l’oro prezioso; e mentre divideva le onde luccicanti e belle con una scriminatura drittissima, Amore raccoglieva l’oro dei fili spezzati per formarne catene per chi gli si ribella.

e, mentre i flutti5 tremolanti e belli con drittissimo solco dividea6, l’or de le rotte fila Amor cogliea, per formarne catene a’ suoi rubelli7. Per l’aureo mar, che rincrespando apria il procelloso suo biondo tesoro8 agitato il mio core a morte gia9. Ricco10 naufragio, in cui sommerso io moro11, poich’almen fur, ne la tempesta mia, di diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro!12

In quel mare dorato, che increspandosi apriva il suo biondo tesoro in tempesta, il mio cuore agitato andava verso la morte. Naufragio prezioso, questo in cui sommerso io muoio, poiché almeno, nella mia tempesta, lo scoglio fu diamante e il golfo d’oro!

da Opere, a cura di A. Asor Rosa, Rizzoli, Milano, 1967 1. navicella... fendea: è il pettine che solca le onde dei capelli. In passato i pettini erano d’osso o d’avorio. 2. pur d’avorio: anch’essa color dell’avorio. Il pallore, un tempo, era considerato elemento di bellezza. 3. reggea: conduceva, guidava. 4. per questi... quelli: in questi e quei viaggi (errori) fra le onde dorate dei capelli (preziosi); gli aggettivi dimostrativi questi e quelli indicano la distanza – minore o maggiore – dell’osservatore dall’oggetto osservato. 5. flutti: onde. 6. con drittissimo... dividea: il pettine divideva i capelli con una perfetta scriminatura (drittissimo solco). 7. l’or... rubelli: Amore raccoglieva l’oro dei capelli spezzati dal pettine per formarne catene con cui imprigionare chi si ribellava alla sua potenza (a’ suoi rubelli). 8. che rincrespando... tesoro: che, increspandosi (per il passaggio del pettine), apriva la sua preziosa e bionda chioma, causa di tempeste (amorose); l’aggettivo procelloso è un latinismo e significa “tempestoso”. 9. gia: andava. Il verbo gire, “andare”, in italiano antico (rimasto in uso nei vocaboli giro e gita) deriva dal latino ire. 10. Ricco: il poeta naufraga fra oro e diamanti. 11. moro: muoio, annego. 12. poich’almen... d’oro!: poiché almeno, nella mia tempesta, lo scoglio è di diamante e il golfo è d’oro; lo scoglio è forse metafora per “fermaglio” o per un gioiello, che dà l’ultimo tocco alla bionda capigliatura (golfo) della donna.

Edgar Degas, Dopo il bagno, 1884. San Pietroburgo, Museo dell’Hermitage.

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inee di analisi testuale Gli antecedenti Il sonetto qui presentato vanta una serie di illustri antenati. Nella lirica amorosa il tema del naufragio è un luogo letterario frequente, in particolare abbinato a quello dei capelli dorati (basti pensare al Canzoniere di Petrarca: Erano i capei d’oro a l’aura sparsi). L’argomento viene molto sfruttato dai poeti del Seicento, anche perché il naufragio fra le chiome è incentrato su un tipico procedimento metaforico (le immagini del naufragio e dei capelli legate all’idea di “onde dei capelli” e, dunque, di “mare”). La metafora onde-capelli, sviluppata in tutte le possibili sfaccettature, regge mirabilmente l’intero sonetto. La particolarità di Marino è l’attenzione concentrata sui dettagli dei capelli, del pettine, delle onde: ad esempio la navicella d’avorio (che può essere un’imbarcazione o un pettine) o i flutti tremolanti (onde o capelli). La maraviglia ottenuta attraverso un arazzo di metafore Come un sontuoso arazzo, il sonetto è interamente intessuto di fili d’oro. L’immagine principale infatti è l’oro, richiamato in ogni verso da una moltitudine di riferimenti coloristici e musicali. D’oro sono le onde e i capelli; l’oro compare direttamente nel verso l’òr de le rotte, il mare è aureo, d’oro infine è il golfo. Sui suoni o e r il poeta costruisce inoltre un efficace sistema di allitterazioni (avorio, errori, rotte, formarne, aureo) che si richiamano attraverso tutto il testo creando una sorta di scatola dorata contenente suoni e immagini di tipico preziosismo barocco. Man mano che il componimento procede, tutto prende sempre più movimento, dall’andamento oscillatorio delle onde, dei capelli e della navicella, al mare procelloso, al core agitato, per tornare nella terzina finale alla calma del naufragio, dello scoglio e del golfo: l’acconciatura è finalmente terminata.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del sonetto di Marino. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali elementi naturali assumono, per così dire, sembianze femminili? b. Da quali elementi si deduce il tono di ammirazione per la bellezza femminile? c. Qual è la causa del perdersi nella bellezza del poeta e quali versi la rivelano? Analisi e interpretazione 3. Chiarisci il contenuto letterale e metaforico delle espressioni sotto riportate: a. navicella d’avorio un dì fendea b. i flutti tremolanti e belli / con drittissimo solco dividea c. Ricco naufragio, in cui sommerso io moro d. di diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro 4. Quale figura retorica prevale nel testo? 5. Quali altre figure retoriche hanno rilievo nel testo? 6. Attraverso quali artifici Marino mira a suscitare maraviglia nel testo? Approfondimenti 7. La rete di analogie tra i capelli dell’amata, le onde del mare e altri elementi naturali, il naufragio ed altri riferimenti giungono a Marino dalla tradizione poetica e dunque da testi lirici precedenti. Analizza l’argomento e confronta i diversi approcci a tali temi, mettendo in luce somiglianze e innovazioni. 8. Riflettendo attentamente sul sonetto, indica nelle varie sfumature il tipo di sensazione che il poeta vuole evocare nel lettore attraverso le analogie. 9. Riassumi i testi di una o più canzoni a te note in cui compaiono le metafore contenute nel sonetto; confronta poi tali testi con quello di Marino per evidenziarne i principali punti di contatto.

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T2 Pon mente al mar, Cratone da La Lira, VIII

Giambattista Marino

Questo celebre sonetto è tratto dalla prima parte de La Lira, in cui Marino inserisce rime ispirate al mare. Il tema del mare in ambientazione notturna, che vanta illustri cantori tra i classici greci, latini e italiani, offre al poeta lo spunto per dare prova della sua arte pittorica e, soprattutto, del magistrale uso della metafora. Schema metrico: sonetto, con rime ABBA, ABBA, CDC, DCD. PISTE DI LETTURA • Il tema del mare di notte • L’uso delle allitterazioni e delle figure retoriche per creare “musica verbale” • Tono elegiaco

Pon mente1 al mar, Cratone, or che ’n ciascuna riva2 sua dorme l’onda e tace il vento3, e Notte in ciel di cento gemme e cento ricca spiega la vesta azzurra e bruna4. 5

10

Rimira ignuda e senza nube alcuna, nuotando per lo mobile elemento, misto e confuso l’un con l’altro argento, tra le ninfe del ciel danzar la Luna5. Ve’6 come van per queste piagge e quelle7 con scintille scherzando8 ardenti e chiare, volte in pesci le stelle, i pesci in stelle9. Sì puro il vago fondo10 a noi traspare, che fra tanti dirai lampi e facelle: “Ecco in ciel cristallin cangiato il mare”11. da Opere, a cura di A. Asor Rosa, Rizzoli, Milano, 1967

1. Pon mente: guarda attentamente. Il poeta si rivolge all’interlocutore, Cratone. 2. riva: punto. In ogni tratto del mare l’onda è quieta e non c’è vento. 3. dorme... vento: la metafora è ripresa da esempi petrarcheschi (Or che ’l ciel et la terra e ’l vento tace… et nel suo letto il mar senz’onda giace) ma rielaborata con gusto barocco. 4. e Notte... bruna: e la Notte distende nel cielo la sua veste color azzurro cupo, tempestata di infinite stelle (cento gemme e cento). L’immagine della notte (personificata) è presente in Petrarca, Notte il carro stellato in giro mena (Canzoniere, CLXIV, 3) e nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, Era la notte, e il suo stellato velo / chiaro spiegava e senza nube alcuna (VI, CIII, 1-2). Si noti però come in Marino il tessuto metaforico sia più esasperato rispetto agli illustri antecedenti. 5. Rimira... la Luna: osserva con attenzione la Luna nuda e senza nubi (che la coprono) danzare tra le stelle (ninfe del ciel), nuotando nel mare (mobile elemento), mentre si mescolano e si confondono i colori argentei del mare e del cielo; l’espressione senza nube alcuna riprende esattamente quella di Tasso (cfr. nota precedente); misto... argento è locuzione che ricalca la struttura dell’ablativo assoluto latino.

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6. Ve’: vedi. 7. queste... quelle: i tratti di cielo e di mare. Cratone viene invitato a osservare come nelle distese del mare e del cielo sembrino guizzare i pesci e le stelle, ugualmente scintillanti. L’elemento barocco presente nel sonetto di Marino si accentua soprattutto attraverso l’uso ripetuto delle allitterazioni (in particolare, della doppia l). 8. scherzando: la metafora, da collegare sintatticamente al van del verso precedente, può essere assunta come parola chiave, in quanto rievoca l’atmosfera di bellezza e di gioco che caratterizza l’intero sonetto. 9. volte... stelle: le stelle trasformate in pesci e i pesci in stelle; da notare il chiasmo, il parallelismo e, soprattutto, le insistite allitterazioni. 10. Sì... fondo: così limpido il bel fondo trasparente del mare appare ai nostri occhi. 11. che... mare: cosicché tu penserai che fra tanti lampi e scintillii (facelle) il mare si sia trasformato (cangiato) in cielo limpido (cristallin). La seconda parte del sonetto si fonda su una duplice coppia di metafore: il mare è cielo, i pesci sono stelle, e viceversa. L’effetto di maraviglia non è però raggiunto solo con la padronanza di tali elementi visivi: essi, infatti, si intrecciano a un iperbolico sovraccarico di ripetizioni di suoni.

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inee di analisi testuale La metamorfosi Nel corso del sonetto si assiste a una progressiva metamorfosi: sullo sfondo di un mare tranquillo, mentre la Notte abita il cielo con la ricca veste di stelle, dapprima la Luna si muove come fosse nell’acqua (nuotando nel mare in cui si specchia), poi le stelle e i pesci sembrano mescolarsi, come se ambedue vagassero sia per il cielo sia per il mare, in un continuo specchiarsi di cielo e acque; infine, la trasparenza dell’acqua si fa cielo e gli elementi – attraverso le metafore – si confondono in una metamorfosi compiuta. La meraviglia tradotta in immagini e suoni Il sonetto è strutturato all’insegna della percezione visiva, del gusto pittorico, come segnalano Rimira, Ve’ , traspare. Man mano che il testo si sviluppa, però, acquista crescente importanza l’elemento melodico e sonoro, con l’uso musicale delle consonanze e delle allitterazioni che si inseguono lungo tutto il componimento (ignuda, nube, nuotando, Luna; quelle, scintille, stelle, facelle, cristallin), vertendo intorno a suoni dolci di consonanti labiali e liquide. La ricchezza delle figure retoriche Sul piano del contenuto, il sonetto sembra poca cosa: si riduce, infatti, a un doppio incrocio di metafore (il mare diventa cielo e viceversa, i pesci diventano stelle e viceversa). Ricchissimo è invece il gioco delle metafore a intarsio, in qualche caso modernamente polisemiche (più di un’interpretazione, ad esempio, può essere attribuita all’espressione l’altro argento). Affascinante è anche lo scenario fiabesco creato dalle personificazioni (l’onda, il vento, la Notte, la Luna).

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Parafrasa, aiutandoti con le note, il sonetto di Marino. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A chi si rivolge il poeta e per quale motivo? b. Qual è l’analogia di elementi naturali verso cui il poeta vuol condurre il lettore? c. Quali elementi naturali sono personificati? d. Quali esseri viventi vengono assimilati a fenomeni naturali? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quale figura retorica principale regge la costruzione del testo e in che cosa essa consiste? b. Su quali elementi metaforici si fonda l’identificazione di cielo e mare? c. Qual è la sequenza di metafore che compone il testo? d. Quali figure retoriche presenti nel testo suscitano immagini e quali, invece, percezioni sonore? e. Quali sono le principali consonanze e allitterazioni che conferiscono intensa valenza musicale al sonetto? 4. Riflettendo sul testo del sonetto, analizzalo dal punto di vista stilistico-formale: prendi in esame dapprima il livello retorico, segnalando in particolare allitterazioni, anafore, metafore, iperboli, similitudini; poi quello sintattico, indicando se sono presenti inversioni nella costruzione del periodo; infine quello lessicale, sottolineando tutti i termini appartenenti all’area semantica del mare. Approfondimenti 5. Scrivi un’intervista immaginaria a Marino in merito alla genesi, alle finalità e alla poetica del sonetto Pon mente al mar, Cratone e, in generale, alla poetica che informa di sé l’opera del caposcuola della lirica barocca. Non superare le tre colonne di metà foglio protocollo. Intitola l’intervista secondo le regole del linguaggio giornalistico. 6. Tratta sinteticamente il seguente argomento, motivando la tua risposta con opportuni riferimenti al testo (max 20 righe): L’uso della metafora e delle allitterazioni nella lirica di Marino.

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L’Adone Un poema mitologico a tema amoroso

L’intreccio innovativo dei temi

L’Adone è un poema mitologico di oltre quarantamila versi, distribuiti in venti canti, pubblicato nel 1623. Marino vi lavora fin dagli ultimi anni del Cinquecento, riponendo in esso le sue ambizioni di gloria poetica. La trama è incentrata sugli amori di Venere e Adone. A causa di un dispetto di suo figlio Amore, Venere si innamora del bellissimo Adone che, in seguito a una tempesta, è approdato a Cipro, l’isola della dea. Venere accompagna Adone a visitare il Palazzo di Amore, il proprio giardino, dove tra i fiori brilla la rosa – cui sono dedicati celebri versi esemplarmente barocchi come Rosa riso d’amor, del ciel fattura / rosa del sangue mio fatta vermiglia, / pregio del mondo e fregio di natura – ed altri luoghi meravigliosi, finché i due amanti sono costretti a separarsi a causa della gelosia e dell’ostilità del dio Marte e di una maga. Quando si ricongiungono, dopo innumerevoli peripezie, Adone muore durante una battuta di caccia, ucciso da un cinghiale per volontà di Marte. La vicenda trae spunto dal mito classico ma, secondo il gusto barocco, separa decisamente l’intreccio dalla fabula mediante innumerevoli digressioni, soprattutto narrative, inseguendo vicende secondarie (ad esempio, la favola di Amore e Psiche) inserite nel racconto principale. Centrale è il tema amoroso, sviluppato in atmosfere languide; gli scenari rinviano al genere idillico, ma le parti meglio riuscite del poema sono singoli episodi o frammenti lirici in cui, abbandonando gli eccessi di concettismo, l’autore rivela le sue migliori qualità di poeta, già espresse nei componimenti raccolti ne La Lira.

L’ADONE COMPOSIZIONE

GENERE

• Il primo progetto risale al 1596 e tra il 1600 e il 1605 Marino compone un poemetto-base. • La pubblicazione avviene a Parigi nel 1623.

• Poema mitologico in ottave.

STRUTTURA

• 20 canti per un totale di oltre 40.000 versi. • L’intreccio è molto complesso: all’azione principale si aggiungono linee narrative secondarie, a loro volta variate da infinite digressioni.

ARGOMENTO

• L’amore di Venere per Adone, a cui segue la formazione del giovane basata su una conoscenza sensoriale e intellettuale, la gelosia di Marte e l’uccisione di Adone da parte di un cinghiale.

FONTI

• La tradizione volgare di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso. • Gli autori classici latini e greci, ma anche il romanzo ellenistico e i poemi bizantini.

STILE

• Per la poetica di Marino sono fondamentali i gusti del pubblico: scopo della poesia è infatti il diletto del lettore. • I versi hanno caratteristiche fortemente musicali. • Tra le raffinate e numerose figure retoriche, spiccano soprattutto la metafora e l’antitesi.

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La figura del protagonista

Nella prefazione del prestigioso letterato francese Jean Chapelain (1595-1674), uomo di corte vicino a Richelieu – l’opera viene stampata a Parigi a spese di Luigi XIII –, l’Adone viene presentato come un poema di nuova specie, in cui si trovano per la prima volta mescolati i temi della guerra e della pace. Anche la critica più recente ritiene che l’Adone nasconda un disegno allegorico che vede l’isola di Cipro come un luogo ideale di pace e amore in cui regnano valori opposti a quelli della società del tempo. Il protagonista, a sua volta, può essere considerato come l’incarnazione simbolica di un ideale amoroso concepito nelle sue forme più sensuali e anche, nel contempo, come ispiratore dell’arte intesa come fondamento della civiltà. Ciò ben si comprende, ad esempio, dall’episodio in cui Adone è condotto in cielo (canto X) e gli vengono mostrate le forze irrazionali nella grotta della Natura e i prodigi della tecnica (fra cui il cannocchiale di Galileo) nella casa dell’Arte. La sconfitta e la morte di Adone potrebbero dunque esprimere, nella forma ambigua tipica del gusto barocco, il pessimismo dell’autore circa il possibile successo di tale modello nella realtà sociale del tempo.

T3 Poi le luci girando al vicin colle da Adone, III, 155-159

Giambattista Marino

Nei primi canti dell’Adone, Venere, trovandosi a Cipro, si imbatte in un bel giovane addormentato, Adone, un mortale appena giunto sull’isola. Istigata dal figlio Cupido, la dea se ne innamora. Quando il giovane si sveglia, Venere lo trattiene pregandolo di curarle un piede, ferito dalle spine di una rosa. Non appena la tocca, Adone si innamora di lei. Nel brano qui presentato, tratto dal III canto, Venere elogia la rosa che, sia pure involontariamente, è stata la causa dell’innamoramento di Adone. Schema metrico: ottave di endecasillabi, con rime ABABABCC. PISTE DI LETTURA • La rosa, oggetto chiave della tradizione poetica fin dai tempi più remoti • L’intreccio delle metafore • Tono edonistico e idillico

155

Poi le luci girando al vicin colle, dov’era il cespo, che ’l bel piè trafisse, fermossi alquanto a rimirarlo e volle il suo fior salutar pria che partisse1; e vedutolo ancor stillante e molle quivi porporeggiar2, così gli disse: − Salviti il ciel da tutti oltraggi e danni, fatal cagion de’ miei felici affanni3.

1. le luci... partisse: Venere, volgendo gli occhi al colle vicino, dove c’era il cespuglio che le ferì il piede; si fermò ad ammirarlo e volle salutare il suo fiore (cioè a lei sacro, in quanto simbolo della passione amorosa) prima di andarsene. 2. stillante... porporeggiar: visto il fiore della rosa (vedu-

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tolo), ancora gocciolante (stillante) e bagnato (molle) del suo sangue, diventare rosso (da bianco che era). 3. Salviti... affanni: ti salvi il cielo da ogni offesa e danno, o causa voluta dal destino delle mie ansie di felicità. Felici affanni è un ossimoro: gli affanni sono felici in quanto provocati dall’amore.

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156

Rosa riso d’amor, del ciel fattura, rosa del sangue mio fatta vermiglia, pregio del mondo e fregio di natura, dela terra e del sol vergine figlia, d’ogni ninfa e pastor delizia e cura, onor dell’odorifera famiglia, tu tien d’ogni beltà le palme prime, sovra il vulgo de’ fior donna sublime4.

157

Quasi in bel trono imperadrice altera siedi colà su la nativa sponda5. Turba d’aure vezzosa e lusinghiera ti corteggia dintorno e ti seconda e di guardie pungenti armata schiera ti difende per tutto e ti circonda6. E tu fastosa del tuo regio vanto porti d’or la corona e d’ostro il manto7.

158

Porpora de’ giardin, pompa de’ prati, gemma di primavera, occhio d’aprile, di te le Grazie e gli Amoretti alati fan ghirlanda ala chioma, al sen monile8. Tu qualor torna agli alimenti usati ape leggiadra o zefiro gentile, dai lor da bere in tazza di rubini rugiadosi licori e cristallini9.

159

Non superbisca ambizioso il sole di trionfar fra le minori stelle, ch’ancor tu fra i ligustri e le viole scopri le pompe tue superbe e belle10. Tu sei con tue bellezze uniche e sole splendor di queste piagge, egli di quelle, egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo, tu sole in terra, ed egli rosa in cielo11. da L’Adone, a cura di G. Pozzi, Mondadori, Milano, 1976

4. Rosa... sublime: rosa, sorriso d’amore (Rosa riso d’amor: paronomasia e metafora), opera del cielo (chiasmo), diventata rossa per il mio sangue (la ferita di Venere spiega l’origine del colore rosso della rosa, che prima era bianca), preziosità del mondo e ornamento della natura (parallelismo), pura figlia della terra e del sole, preoccupazione e delizia (ossimoro) delle ninfe e dei pastori, onore della specie (famiglia) dei fiori, tu detieni il primato (la palma è simbolo di vittoria) di ogni bellezza, sei la regina (donna sublime) del popolo (vulgo) dei fiori. Da notare l’antitesi fra il termine dispregiativo vulgo (“popolo”) e il termine donna, dal latino domina, “signora”. 5. Quasi... sponda: come su un bel trono, superba imperatrice, tu siedi là sul crinale dove sei nata. 6. Turba... circonda: una schiera aggraziata e galante di brezze ti fa la corte e ti accarezza (seconda) e una schiera armata (le spine) ti difende formando un cerchio protettivo dappertutto. 7. fastosa... manto: tu, orgogliosa della tua regale dignità,

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hai gli stami (corona) color dell’oro e i petali (manto) color della porpora (ostro). 8. Porpora... monile: rosso dei giardini, onore (pompa, dal greco pompé) dei prati, gemma della primavera, sei lo splendore (occhio) dell’aprile; le Grazie e gli Amoretti alati con te formano una ghirlanda per i capelli o un gioiello (monile) per il petto. 9. Tu... cristallini: quando la bella ape o il gentile vento Zefiro cercano i loro cibi consueti (cioè il nettare), offri loro da bere limpidi liquori di rugiada come in una tazza di rubino (gemma di colore rosso). 10. Non superbisca... belle: il sole ambizioso non insuperbisca nel trionfare sulle stelle che sono più piccole di lui, perché anche tu riveli (scopri) tra le piante dei ligustri e le viole il tuo superbo onore. 11. Tu sei... cielo: tu sei, con le tue bellezze uniche, lo splendore di questi luoghi terrestri, il sole di quelli celesti; esso nel suo cerchio celeste, tu sul tuo gambo; tu sei il sole della terra ed esso la rosa del cielo.

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inee di analisi testuale Sfoggio di abilità poetica Marino sembra qui voler dimostrare la sua abilità con tutti gli strumenti retorici a sua disposizione. Il suo sforzo è teso a destare nel lettore non tanto commozione, quanto meraviglia e ammirazione. Nell’ottava 156, ad esempio, la rosa è definita in ben nove modi diversi, tutti elogiativi: riso, fattura, pregio, fregio, figlia, delizia e cura, onor, donna. Appare evidente la volontà di Marino di competere con la tradizione. La metafora continuata Nell’ottava 157, il poeta riprende una metafora abusata – la rosa regina dei fiori – e la rinnova attraverso il gioco della metafora continuata, con un autentico sfoggio di bravura: se la rosa è l’imperatrice dei fiori, le spine diventano le guardie, i venti il corteggio, gli stami la corona, i petali il mantello di porpora. Il passo rappresenta anche un omaggio al gusto seicentesco per lo spettacolo e la magnificenza cortigiana: la rosa-regina, donna (signora) del vulgo, e le altre metafore richiamano la vita di corte e il suo sfarzo (imperadrice altera… guardie pungenti armata schiera… regio vanto… corona… manto). Attraverso le metafore si crea un’interscambiabilità fra i diversi elementi della natura (rosa/sole, terra/cielo…) che dà vita a un processo di metamorfosi (elemento caro alla poesia barocca). L’ottava 159 è interamente fondata sul rapporto analogico sole-rosa, con tipico concettismo: il sole tra le altre stelle è come la rosa tra gli altri fiori. Raffinata è anche la costruzione dei due versi finali, nel momento culminante della metamorfosi: la disposizione dei pronomi nell’ultimo verso è chiastica (egli… tu; tu… egli) e ciascuno dei due versi è caratterizzato al proprio interno dal parallelismo (egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo; tu sole in terra, ed egli rosa in cielo).

Antonio Canova, Venere e Adone (particolare). Ginevra, Villa La Grange.

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi in forma corretta il contenuto delle ottave proposte. 2. Svolgi la parafrasi delle ottave sull’elogio della rosa, aiutandoti con le note. 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Come viene presentato il fiore protagonista delle ottave? b. A quale astro il fiore viene paragonato e in quale contesto? c. Quanti e quali sono gli elogi rivolti alla rosa? Analisi e interpretazione 4. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono le figure retoriche che ricorrono nel testo? b. Su quali figure retoriche si reggono gli elogi rivolti alla rosa? c. Qual è la metafora principale che regge il testo? d. Quali elementi naturali vengono personificati? e. Quali sono le principali consonanze e allitterazioni che si rilevano nel testo? Approfondimenti 5. Tratta sinteticamente il seguente argomento, motivando la tua risposta con opportuni riferimenti al testo (max 20 righe): Amore e meraviglia nell’elogio della rosa di Marino.

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Focus

L’INTERESSE NOVECENTESCO PER LA POESIA BAROCCA

La poesia barocca, sottovalutata o disprezzata per almeno due secoli, ha risvegliato l’interesse e l’ammirazione di molti poeti e intellettuali del Novecento. Chi si interroga sulle cause del fenomeno, ne individua alcune motivazioni fondamentali. In primo luogo, fra il Seicento e il Novecento sussiste un’analogia di ordine filosofico: in entrambi i secoli, rispetto alla civiltà immediatamente precedente, viene meno una concezione organica della realtà che lascia il posto all’ansia e all’inquieta ricerca, che si affiancano a un esasperato edonismo. I sistemi di pensiero più diffusi, invece di rappresentare solide convinzioni interiori, si affermano come verità imposte dall’esterno, spesso con la forza dell’autorità e la repressione: tale caratteristica contraddistingue il Cattolicesimo controriformista (ma anche le fedi riformate) come i grandi sistemi totalitari del XX secolo. L’arte non si ricollega a Dio (come nel Medioevo) né alla natura armonicamente ordinata e all’imitazione dei classici (come nel Rinascimento), ma rappresenta solo lo sforzo soggettivo, conoscitivo ed espressivo, dell’autore, talvolta oltre la maschera di una devozione religiosa spesso formale. Sul piano estetico, sia l’arte barocca sia quella del Novecento non sono classiciste: esse non esprimono l’armonia, il bello, il vero, ma la convinzione della frammentazione e della caducità dei valori e della vita. Lo sfarzo esteriore del Barocco rivela, dietro le sue apparenze, il medesimo senso di angoscia e di vuoto che contraddistingue molta arte novecentesca (come scrive il poeta contemporaneo Eugenio Montale, codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo). Infine, una fonte di ammirazione del Novecento per il Barocco è il ricorso dei lirici del Seicento a una poetica fondata, fra l’altro, sulla ricerca a oltranza del nuovo e sulla prevalenza della forma. L’espressione artistica di questi due secoli apparentemente tanto diversi è fondata su presupposti e tecniche analoghe: l’estetismo, l’ambiguità, la distorsione delle forme, la rottura degli equilibri e, in poesia, la dissoluzione dei messaggi in immagini e suoni, attraverso il sovraccarico delle metafore e le preziose e talora ossessive figure di ripetizione, quali anafore, consonanze, parallelismi, chiasmi, paronomasie e allitterazioni: insomma, appunto, attraverso l’esaltazione della forma, rispetto al contenuto.

L’INTERPRETAZIONE CRITICA

Marino: ricchezza di modi e di forme, nessuna profondità Francesco De Sanctis Il grande critico ottocentesco Francesco De Sanctis parla in questo brano dei rapporti tra Marino e il suo tempo. A suo giudizio, il poeta napoletano è figlio del suo tempo: a causa del periodo storico in cui vive, è necessariamente concentrato sul come (la tecnica poetica) piuttosto che sui contenuti. Giudizio piuttosto severo – dovuto all’appartenenza di De Sanctis al movimento romantico –, appena mitigato dal riconoscimento di alcune caratteristiche positive come l’orecchio musicale e la feconda immaginazione. Il re del secolo, il gran maestro della parola, fu il cavalier Marino, onorato, festeggiato: pensionato, tenuto principe de’ poeti antichi e moderni, e non da plebe, ma da’ più chiari uomini di quel tempo. Dicesi che fu il corruttore del suo secolo. Piuttosto è lecito di dire che il secolo corruppe lui o, per dire con più esattezza, non ci fu corrotti né corruttori. Il secolo era quello, e non potea esser altro: era una conseguenza necessaria di non meno necessarie premesse. E Marino fu l’ingegno del secolo, il secolo stesso nella maggior forza e chiarezza della sua espressione. Aveva immaginazione copiosa e veloce, molta facilità di concezione, orecchio musicale, ricchezza inesauribile di modi e di forme, nessuna profondità e serietà di concetto e di sentimento, nessuna fede in un contenuto qualsiasi. Il problema per lui, come pe’ contemporanei, non era il che, ma il come. Trovava un repertorio esausto1, già lisciato e profumato dal Tasso e dal Guarini2, i due grandi poeti della sua giovinezza. Ed egli lisciò e profumò ancora più, adoperandovi la fecondità della sua immaginazione e la facilità della sua vena. La novità e la meraviglia non è nel repertorio, che è vecchissimo: un rimpasto di elementi e motivi per lungo uso divenuti ottusi. Ciò che è ripulito e messo a nuovo è lo scenario, o lo spettacolo, vecchio anch’esso, ma lustrato e inverniciato. Il qual lustro gli viene non dalla sua intima personalità più profondamente esplorata o sentita, ma da combinazioni puramente soggettive, ispirate da simi1. esausto: estenuato, esaurito. 2. Guarini: Battista Guarini (1538-1612), autore del Pastor

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fido, capolavoro del genere bucolico composto nel tardo Rinascimento (1580-1583).

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glianze o dissonanze accidentali, e perciò tendenti al paradosso e all’assurdo: di che nasce quello stupore in che il Marino pone il principale effetto della poesia […]. La poesia italiana in quest’ultimo momento della sua vita non è azione, e neppure narrazione: è spettacolo vocalizzato, descrizione a tendenze liriche, tra lo scoppiettio de’ concetti, il lustro delle immagini, e la sonorità delle frasi e delle cadenze, e i vezzi delle variazioni. Il suo ideale è l’idillio, una vita convenzionale, mitologica, amorosa, allegrata dal riso del cielo e della terra. L’Adone è esso medesimo un idillio inviluppato in un macchinismo mitologico, come l’Orfeo, la Proserpina3. da Storia della letteratura italiana, II, a cura di B. Croce, Laterza, Bari, 1954

3. l’Orfeo, la Proserpina: De Sanctis fa qui probabilmente riferimento a due opere simbolo del Barocco; Orfeo è un melodramma di Claudio Monteverdi (1567-1643), musicista barocco, il cui libretto, di Alessandro Striggio, è tratto dalla Fabula di Orfeo di Poliziano; il Ratto di Proserpina è un

gruppo scultoreo di un altro grande artista barocco, Lorenzo Bernini (1598-1680). Secondo altri, l’Orfeo cui qui si allude è l’opera per musica Il pianto d’Orfeo di Gabriello Chiabrera (1552-1638), rappresentata nel 1608.

T4 Chiuso nel’ampio e ben capace seno da Adone, VIII, 9-11 e 18-21

Giambattista Marino

Adone subisce una sorta di iniziazione, in cui il compito finale è lasciato a Mercurio: nel giardino del piacere, apprende i segreti dei cinque sensi e le delizie dell’intelletto e delle arti. Dopo aver attraversato i giardini della vista, dell’odorato, dell’udito e del gusto, Adone entra infine nel giardino del tatto, al centro del palazzo di Venere. Qui la sua guida, Mercurio, lo congeda e lo lascia alle amorevoli attenzioni della dea. Il tatto è posto per ultimo perché considerato il senso principale, superiore a tutti gli altri in quanto solo grazie ad esso secondo il poeta si può avere la conoscenza suprema della realtà esterna e sperimentarne i piaceri maggiori. Schema metrico: ottave di endecasillabi, con rime ABABABCC. PISTE DI LETTURA • L’educazione di Adone al sapere applicato e finalizzato al piacere • La natura come ambiente barocco, artificiale e stupefacente • Tono retorico, edonistico e idillico

9

Chiuso nel’ampio e ben capace seno1 è quel giardin de la maestra2 torre, degli altri3 assai più spazioso e pieno di quante seppe Amor gioie raccorre4. Un largo cerchio5 e di bell’ombre ameno6 vien un teatro sferico7 a comporre, che, col gran cinto del’eccelse mura, protege la gratissima verdura8.

1. seno: è lo spazio interno della torre (latinismo). 2. maestra: principale (termine di origine militare). 3. degli altri: dei giardini degli altri sensi. 4. di quante... raccorre: di quanti oggetti preziosi e piaceri il dio Amore seppe raccogliere.

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Quel giardino è racchiuso nell’ampio e ben capace cerchio delle mura turrite maggiori, molto più spazioso degli altri e pieno di tutte le gioie che Amore seppe raccogliere. Il largo cerchio, gradevole per le belle ombre degli alberi, compone un teatro circolare, che, insieme alla grande cintura delle alte mura, protegge la bellissima vegetazione.

5. cerchio: formato da alberi. 6. ameno: piacevole (latinismo). 7. sferico: circolare. 8. col gran... verdura: insieme con la grande cinta delle altissime mura (della torre), protegge il gradevolissimo giardino.

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10

Adon va innanzi e par che novo affetto9 d’amorosa dolcezza il cor gli stringa. Non fu mai d’atto molle osceno oggetto che quivi agli occhi suoi non si dipinga10: sembianti di lascivia e di diletto, simulacri di vezzo e di lusinga, trastulli, amori, o fermi il guardo o giri, gli son sempre presenti, ovunque miri.

Adone va avanti e gli pare che una nuova sensazione di dolcezza amorosa gli stringa il cuore. Non ci fu mai scena conturbante di atti sensuali che qui non appaia ai suoi occhi: immagini di piacere e di divertimento, simboli di bellezze e di invito, divertimenti, amori, sono sempre presenti dovunque egli guardi, sia che fermi gli occhi sia che li giri intorno a sé.

11

Sembra il felice e dilettoso loco pien d’angelica festa un paradiso. Spira quivi il Sospiro aure di foco, vaneggia il Guardo e lussureggia il Riso. Corre a baciarsi con lo Scherzo il Gioco. Stassi11 il Diletto in grembo al Vezzo assiso. Scaccia lunge il Piacer con una sferza le gravi Cure12 e col Trastullo scherza.

Il luogo felice e piacevole sembra un paradiso pieno di angeli in festa. Qui il Sospiro lancia brezze infuocate di passione, lo Sguardo rincorre pensieri leggeri e il Riso è abbondante. Il Gioco corre a baciare lo Scherzo. Il Divertimento sta seduto in braccio alla Bellezza. Il Piacere caccia lontano con una frusta le pesanti Preoccupazioni e scherza col Divertimento.

[...] 18

Ride la terra qui, cantan gli augelli, danzano i fiori e suonano le fronde, sospiran l’aure13 e piangono i ruscelli, ai pianti, ai canti, ai suoni Eco14 risponde. Aman le fere ancor tra gli arboscelli, amano i pesci entro le gelid’onde, le pietre istesse e l’ombre di quel loco spirano spirti15 d’amoroso foco.

Ride la terra qui, cantano gli uccelli, i fiori danzano e le fronde fanno musica, i venti sembrano sospirare e i ruscelli piangere; ai pianti, ai canti, ai suoni, Eco risponde. Anche gli animali selvatici amano tra i cespugli, i pesci amano nelle fresche onde, e le pietre stesse e le ombre di quel luogo sembrano emettere sospiri di passione amorosa.

19

– A dio, ti lascio; omai fin qui (di Giove disse là giunto il messaggier sagace) per ignote contrade ed a te nove averti scorto, o bell’Adon, mi piace. Eccoci alfine insu ’l confin, là dove ogni guerra d’amor termina in pace. Di quel senso gentil16 questa è la sede, a cui sol di certezza ogni altro cede.

– Addio, infine io ti lascio qui; – disse Mercurio, l’arguto messaggero di Giove – mi accontento, bell’Adone, di averti scortato attraverso luoghi ignoti e per te sorprendenti. Siamo giunti infine presso il confine dove termina, con la pace, ogni guerra d’amore. Questa è la sede del nobile senso del tatto, che vince ogni altro senso, in quanto è l’unico a dare la certezza della conoscenza.

20

Ogni altro senso può ben di leggiero deluso esser talor da’ falsi oggetti; questo sol no loqual sempr’è del vero fido ministro, e padre de’ diletti. Gli altri, non possedendo il corpo intero, ma qualche parte sol, non son perfetti; questo, con atto universal, distende le sue forze pertutto e tutto il prende17.

Ogni altro senso può essere senza dubbio facilmente ingannato, talvolta, da falsi oggetti; solo il tatto non lo può essere, fedele servitore del vero e padre dei piaceri. Gli altri sensi, non essendo estesi a tutto il corpo, ma avendo sede solo in alcune parti di esso, non sono perfetti; questo, con la sua azione universale, estende le sue attività dappertutto nel corpo e tutto lo controlla.

9. affetto: sensazione. 10. Non fu mai... dipinga: non ci fu mai immagine (oggetto) sensuale di atto sensuale che qui non appaia nitidamente ai suoi occhi. 11. Stassi: se ne sta. 12. Diletto... Cure: sono tutte personificazioni. 13. aure: brezze, venticelli (è un petrarchismo). 14. Eco: la ninfa che secondo la mitologia greca ripete le voci e i rumori. 15. spirano spirti: emanano sospiri (figura etimologica,

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che genera una forte allitterazione). 16. senso gentil: il tatto è definito gentile, cioè “nobile”, rispetto agli altri sensi, in quanto è l’unico che dà una conoscenza certa della realtà. 17. non possedendo... prende: il concetto che Mercurio spiega è che il tatto, essendo esteso a tutto il corpo, espande la sua percezione dappertutto e domina interamente i sensi. I concetti qui espressi anticipano in qualche misura il sensismo illuministico settecentesco, ma attribuiscono al tatto e al piacere fisico una ben più accentuata valenza.

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21

Vorrei parlarne, e ti verrei solvendo più d’un dubbio sottil dele mie scole18; ma tempo è da tacer, ch’io ben comprendo che la maestra tua19 non vuol parole. Io qui rimango, ad Erse20 mia tessendo ghirlandetta di mirti21 e di viole. Tu vanne e godi. Io so che ’n tanta gioia qualunque compagnia ti fora a noia22.

Vorrei parlarne più distesamente e ti spiegherei così molte difficili dottrine delle mie scuole di medicina, ma è il momento che smetta di parlare, perché capisco bene che la tua maestra [Venere] non vuol più parole. Io resto qui, a tessere alla mia Erse una piccola ghirlanda di mirti e di viole. Tu vai e godi. Io so che in un così grande piacere qualunque compagnia ti darebbe fastidio. da L’Adone, a cura di G. Pozzi, Mondadori, Milano, 1976

18. mie scole: le scuole di medicina, disciplina di cui Mercurio è protettore. 19. maestra tua: Venere. 20. Erse: la figlia di Aglauro, amata da Mercurio. 21. mirti: piante tradizionalmente sacre a Venere. 22. ti fora a noia: sarebbe per te fastidiosa. Fora è un latinismo.

Frontespizio de L’Adone di Giambattista Marino, edito a Parigi nel 1623. Milano, Biblioteca Trivulziana.

L

inee di analisi testuale Nel teatro circolare della seduzione Il giardino è una sorta di scenario teatrale. La descrizione di ogni particolare è accurata: il giardino, costituito dalla gratissima verdura nel ben capace seno della maestra torre, contiene le immagini del piacere fisico raccolte da Amore (quante seppe Amor gioie raccorre). Adone è protagonista di una sorta di opera teatrale in cui si susseguono visioni sensuali: una galleria di immagini di godimento che gli si presentano ovunque guardi (gli son sempre presenti, ovunque miri). Il giardino è di forma circolare e Adone vi si trova al centro. La scelta non è casuale: c’è in Marino un’evidente predilezione per le linee curve e il cerchio (i giardini, in particolare, sono all’interno di torri circolari), in quanto non solo simboli di sensualità ma anche di totalità e perfezione. Un Paradiso terrestre materiale Allo sguardo di Adone si offrono molteplici scene di piacere collegate al senso del tatto, come fosse in un Paradiso terrestre, che verrebbe a sostituirsi al Paradiso ultraterreno. L’esperienza di Adone rivela alcune superficiali somiglianze con il viaggio di Dante descritto nella Commedia: Adone e Dante hanno una guida (qui Mercurio, là Virgilio), sostituita, alla vigilia di conoscenze più alte, da una figura femminile (qui Venere, là Beatrice). I due percorsi però sono totalmente diversi. La ricerca del piacere, nella sua dimensione terrena, è estranea al mondo dantesco. Il senso del divino e la complessa tematica filosofico-religiosa della Commedia, sono sostituiti, nell’opera di Marino, dall’elemento sensuale. La concezione dantesca è dunque capovolta e immersa in una dimensione di puro edonismo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto delle ottave proposte. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. In quale ambiente si ritrova Adone? b. Per quale motivo Adone si trova lì? c. Quale personaggio gli parla e che cosa gli dice? d. Quali elementi naturali vengono personificati nel discorso? e. Quale esortazione finale viene rivolta ad Adone? f. Che cosa rappresenta il giardino e perché è circolare? g. Perché, secondo Marino, il tatto è importante? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono le principali figure retoriche presenti nella descrizione del giardino? b. Quali sono le più rilevanti personificazioni? c. Quali sono le più incisive consonanze e allitterazioni? Approfondimenti 4. L’atteggiamento nei confronti dell’amore presente nell’Adone è prevalentemente simile o diverso da quello della Commedia di Dante? Perché? 5. Le concezioni prevalenti nei ragazzi di oggi in materia amorosa ti sembrano vicine o lontane rispetto a quelle espresse da Marino nell’Adone? Motiva la tua risposta, facendo riferimento anche a opere d’arte – romanzi, racconti, film – attuali. 6. Secondo alcuni versi del brano proposto, l’educazione di Adone avviene attraverso i sensi, i quali sono veicolo di conoscenza e al tempo stesso strumento di piacere. Prendendo spunto da questi versi, rifletti sui cinque sensi e su come i giovani d’oggi vengono educati a utilizzarli. In particolare, ritieni che nella cultura della nostra società alcuni sensi siano ritenuti più importanti di altri? Quali? Perché?

La Murtoleide

Sonetti barocchi in stile burlesco

Gli scambi di sonetti burleschi e sarcastici – noti come Fischiate – nati dalla disputa con Gaspare Murtola sono raccolti nella Murtoleide (1619), contrapposta alla Marineide del suo rivale. Marino si rivela qui maestro nella rielaborazione in chiave barocca dello stile “basso” e burlesco in cui si erano in passato distinti poeti quali Cecco Angiolieri e Dante (nella tenzone con Forese Donati) e poi Burchiello e Berni. I sonetti sono occasione di un brillante e innovativo esercizio di rime aspre e chiocce – per dirla come Dante – cui si ispireranno, di fatto, anche alcuni detrattori del poeta napoletano. Ancora una volta Marino anticipa per la prima volta tendenze apparse nella lirica novecentesca, in particolare l’ardito uso delle onomatopee (La pecora belando fa be bu, / il cavallo annitrendo fa hi hi, / il grillo grifolando fa gri gri, / ed il porco grugnendo fa gru gru…). Come ne La Lira, anche nella Murtoleide la tradizione cinquecentesca è definitivamente superata: i versi burleschi, infatti, sono per Marino occasione di innovative sperimentazioni sul tessuto fonetico, sulla base di sonorità fondate sui fonemi dentali e gutturali: l’unico paragone possibile è con il Burchiello.

Gli scritti minori

La Galeria

La Sampogna

Marino, che ha sempre manifestato interesse per la pittura frequentando, fra gli altri, artisti come Caravaggio e i Carracci, in un primo tempo progetta di pubblicare un libro illustrato, dove incisioni di sculture e dipinti affiancano i testi poetici che le descrivono. Tuttavia, nell’opera pubblicata nel 1619, La Galeria, il progetto originario viene meno: l’interesse della raccolta deriva soprattutto dall’idea compositiva, che mira ad occuparsi di oggetti artistici e artificiali prodotti dall’uomo piuttosto che di elementi naturali, e dalla modernità del progetto originario, che anticipa, tentando di realizzare un connubio fra immagini e parole, taluni sviluppi dell’arte contemporanea. La Sampogna (1620) comprende otto idilli mitologici e quattro pastorali. I temi sono spesso erotici, ma i componimenti sono astratti ed eccessivamente artificio-

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Prose, versi edificanti ed epistole

si. La poetica di Tasso, che concepisce la natura come maestra d’amore, e il genere dell’idillio sembrano riproposti principalmente allo scopo di rendere omaggio al poeta cui Marino si ispira o forse, più semplicemente, per accontentare una reale o presunta domanda del pubblico dei lettori. Marino ci lascia anche prose e versi – non particolarmente riusciti – di argomento religioso ed edificante, quali le Dicerie sacre e La strage degli innocenti. Notevoli sono invece le Epistole, stampate due anni dopo la morte dell’autore; esempio tipico di prosa barocca, esse trattano vari argomenti, prevalentemente di carattere autobiografico.

I PRINCIPALI POETI MARINISTI Fra i lirici minori considerati imitatori ed epigoni di Giambattista Marino vanno ricordati soprattutto Achillini, Artale, Lubrano e Fontanella. Il giurista bolognese Claudio Achillini (1574-1640), autore della raccolta Rime e prose e bersaglio della satira manzoniana in un celebre passo dei Promessi sposi (capitolo XXVIII), è un abile tecnico del concettismo e della versificazione. Amico ed entusiasta ammiratore del poeta napoletano, ne prende più volte le difese, tessendone iperboliche lodi. Il marinismo di Achillini consiste in una ripresa degli aspetti meno validi della lirica barocca, a partire dall’artificioso gioco di concetti: alcune espressioni, come dalle stelle alle stalle (riferita alla nascita di Cristo), sono tuttavia rimaste tanto celebri da entrare nel linguaggio comune. Ancora più bizzarre e cervellotiche sono le composizioni del soldato di ventura Giuseppe Artale (1628-1679), nato a Mazzarino di Caltanissetta e morto a Napoli: protagonista di una vita avventurosa e violenta, ha raccolto le sue rime nell’Enciclopedia poetica. Un esempio del barocchismo di Artale è il verso, riferito alla Maddalena in lacrime, bagnar coi Soli (gli occhi luminosi) e asciugar co’ fiumi (i capelli fluenti). Artale è autore anche di un romanzo e di una tragedia. Il napoletano Giacomo Lubrano (1619-1693), predicatore gesuita e autore delle Scintille poetiche o poesie sacre e morali, si spinge all’estremo nell’utilizzo del concettismo, ma la sincera ispirazione religiosa riscatta non pochi fra i suoi testi. Napoletano è anche Girolamo Fontanella (1612-1644), autore delle raccolte Ode, Nove cieli ed Elegie, nei cui versi Benedetto Croce riconosce a tratti una fresca vena meritoria di attenzione. A sé stante è la produzione di Tommaso Stigliani (1573-1651), nato a Matera, il quale, dopo un inizio come esponente del Marinismo, ne abbandona la poetica e, trasferitosi a Roma, diventa un intellettuale di vasta cultura, curando fra l’altro un’edizione del Saggiatore di Galilei. Un discorso a parte merita anche il poeta Ciro di Pers (1599-1663), il più importante rimatore dopo Marino. Nel suo canzoniere prevalgono i temi della morte e del tempo, ispirati a una concezione tragica della vita, il cui simbolo è l’orologio. L’orologio da ruote, a cui è dedicato il sonetto sotto presentato, è l’orologio meccanico, uno degli strumenti su cui la tecnica dell’epoca più si esercita: sempre si more è il suo orribile monito, conforme alla cupa visione che interpreta l’esistenza umana come un implacabile rovinare verso la tomba. Orologio da ruote Mobile ordigno di dentate rote lacera il giorno e lo divide in ore, ed ha scritto di fuor con fosche note a chi legger le sa: SEMPRE SI MORE. Mentre il metallo concavo percuote, voce funesta mi risuona al core; né del fato spiegar meglio si puote che con voce di bronzo il rio tenore. Perch’io non speri mai riposo o pace, questo che sembra in un timpano e tromba, mi sfida ogn’or contro a l’età vorace. E con que’ colpi onde ’l metal rimbomba, affretta il corso al secolo fugace e, perché s’apra, ogn’or picchia a la tomba. da G. Getto, I marinisti, Utet, Torino, 1954

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T5 Sudate, o fochi, a preparar metalli da Poesie

Claudio Achillini

Il sonetto, noto anche per la polemica e ironica citazione manzoniana ne I promessi sposi (capitolo XXVII), è rappresentativo del concettismo estremo che caratterizza la poesia dei poeti marinisti. Achillini, esperto nel gioco di parole più estremo ed esasperato, lo dedica alla gloria militare di Luigi XIII di Francia. Schema metrico: sonetto con rime ABBA, ABBA, CDC, DCD. PISTE DI LETTURA • L’elogio, attraverso l’iperbole, delle imprese militari del re di Francia • L’uso di citazioni mitologiche e di storia romana per illustrare un contemporaneo • Tono encomiastico Loda il gran Luigi re di Francia1 che dopo la famosa conquista della Roccella2 venne a Susa e liberò Casale3. Sudate, o fochi, a preparar metalli4, e voi, ferri vitali5, itene pronti6, ite di Paro a sviscerare i monti7 per inalzar colossi al re de’ Galli. 5

10

Vinse l’invitta rocca8 e de’ vassalli9 spezzò gli orgogli a le rubelle fronti10, e machinando inusitati ponti diè fuga ai mari e gli converse in valli11. Volò quindi su l’Alpi e il ferro strinse12, e con mano d’Astrea13 gli alti litigi14, temuto solo e non veduto15, estinse. Ceda le palme16 pur Roma a Parigi: ché se Cesare venne e vide e vinse, venne, vinse e non vide17 il gran Luigi. da Lirici marinisti, a cura di G. Getto, Tea, Milano, 1990

1. il gran Luigi re di Francia: Luigi XIII, re di Francia dal 1610 al 1643. 2. conquista della Roccella: la conquista della fortezza de La Rochelle, ultimo baluardo degli ugonotti, il 28 ottobre 1628 (cfr. vv. 5-8 e note 8-11). 3. venne… Casale: l’esercito francese, sotto la guida di Luigi XIII e del cardinale Richelieu, nella primavera del 1629 vinse la resistenza piemontese a Susa; Luigi XIII trattò quindi con Carlo Emanuele I di Savoia la liberazione di Casale dalle truppe spagnole (cfr. vv. 9-11 e note 12-15). 4. Sudate… metalli: il poeta si rivolge ai fuochi delle fucine perché s’affrettino a preparare gli strumenti metallici necessari a costruire monumenti al re di Francia (per inalzar colossi al re de’ Galli, v. 4). 5. ferri vitali: sono gli stessi strumenti metallici del verso 1 (scalpelli ecc.), definiti vitali in quanto, come afferma G. Getto, lavorati, non grezzi, e tali da servire al lavoro, all’attività e alla vita dell’uomo. 6. itene pronti: andatevene veloci (dalle fucine in cui sarete preparati). 7. di Paro… i monti: a scavare i monti di Paro. L’isola di Paro, nel mar Egeo, era celebre per il suo marmo bianco. 8. Vinse l’invitta rocca: Luigi XIII vinse la resistenza dell’invitta roccaforte de La Rochelle.

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9. vassalli: sudditi; gli ugonotti. 10. a le rubelle fronti: delle fronti ribelli. 11. machinando… in valli: La Rochelle cadde dopo un lungo assedio, che poté avere effetto solo mediante la costruzione, voluta dal Richelieu, di una diga (gli inusitati ponti) che, partendo dalle due estremità del braccio di mare sul quale sorgeva la città, riuscì a bloccarla dalla parte del mare da cui giungevano i rifornimenti della flotta inglese […]; mediante la diga il mare venne così fugato (diè fuga ai mari), allontanato dalla città, trasformato in una chiusa insenatura, in una valle (G. Getto); gli converse in valli: li trasformò (i mari) in valli. 12. Volò… strinse: si precipitò quindi sulle Alpi e impugnò le armi. 13. con mano d’Astrea: con mano di giustizia; Astrea è la dea della giustizia. 14. alti litigi: profondi contrasti (tra Francesi e Spagnoli). 15. temuto… veduto: cioè, senza che il re fosse presente: estinse i litigi solo col timore procurato dalla sua autorità. 16. le palme: le insegne della vittoria. 17. venne, vinse e non vide: gioco di parole concettista basata sul celebre motto di Cesare: veni, vidi, vici (“venni, vidi e vinsi”).

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inee di analisi testuale Un sonetto esemplare del gusto dei marinisti minori I giochi di parole, le citazioni mitologiche e storiche erudite, l’enfasi e le iperboli nella descrizione dei fatti e dei personaggi, i concetti astrusi ma superficiali, la ricerca delle metafore più sorprendenti per il lettore, l’artificiosità estrema sono gli elementi fondamentali della lirica dei seguaci minori di Marino e del concettismo che la pervade. Tali elementi sono perfettamente esemplificati in questo sonetto di Achillini, che non a caso diventerà bersaglio del sarcasmo di Alessandro Manzoni. Alcuni esempi di concettismo estremo I ferri che indicano gli scalpelli e che devono dare vita alla statue (per questo definiti vitali), mentre di solito indicano le spade che uccidono, sono un esempio del concettismo estremo di Achillini. La personificazione dei fochi che sudano per forgiare metalli sembra involontariamente umoristica, più che sorprendere in quanto figura retorica. L’ossimoro vita-morte è esplicito nell’opposizione sviscerare i monti / inalzar colossi. Altri esempi di concettismo sono presenti nelle espressioni Vinse l’invitta rocca, diè fuga ai mari e gli converse in valli e nel confronto finale tra Cesare e Luigi XIII (il primo venne e vide e vinse, il secondo venne, vinse e non vide). Oltre l’idea della superiorità dei moderni sugli antichi – Luigi XIII vince Cesare: Ceda le palme pur Roma a Parigi –, qui c’è un ossequio esagerato spinto al limite del servilismo (se non nasconde una velata battuta di spirito nei confronti del re francese).

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il sonetto di Achillini in non più di 6 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Perché i fochi devono sudare? b. Chi e quando vinse l’invitta rocca e Volò […] su l’Alpi? c. Perché Roma deve cedere le palme a Parigi? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe). a. Che cosa sono i ferri vitali? Perché sono un esempio di concettismo estremo? b. Quali sono le personificazioni presenti nel testo? c. Da quale frase del condottiero romano nasce il paragone tra Cesare e Luigi XIII? Approfondimenti 4. Scrivi (destinandola al giornalino d’Istituto) una recensione del sonetto, illustrandone sinteticamente i caratteri contenutistici e stilistici. Devi convincere i lettori, con valide motivazioni, che esso merita di essere letto (o viceversa). Non superare le tre colonne di metà foglio protocollo.

I Il classicismo barocco degli antimarinisti

Un manierismo meno indifferente ai contenuti

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POETI ANTIMARINISTI

Le tendenze poetiche di opposizione alla dominante lirica barocca – che si manifestano sia nel dibattito teorico sia nella produzione poetica – hanno come tratto comune la fedeltà al classicismo e la ricerca della moderazione stilistica e tematica. In genere, tuttavia, anche i poeti che si proclamano antimarinisti rivelano nei propri versi la presenza di più o meno marcati influssi del Marinismo e, in generale, del Barocco, tanto che, nel loro caso, con formula solo in apparenza contraddittoria, si può parlare di classicismo barocco. Caratteristica comune alla maggioranza dei poeti antimarinisti è un sostanziale manierismo, consistente nella ripresa di temi, stilemi e modalità espressive dei classici nell’ambito di una imitazione prevalentemente formale. La lirica classicista del Seicento, così come il Marinismo, persegue la novità e la sperimentazione, ma soprattutto sul piano metrico, e con modalità meno accen-

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tuate rispetto a Giambattista Marino e ai suoi epigoni; è anch’essa, generalmente, ispirata a una concezione edonistica della poesia, il cui fine è il diletto, ma si distacca dal Marinismo per una maggiore attenzione al contenuto dei testi, per la presenza di esili ma organici fili conduttori razionalistici, per il rifiuto del concettismo fine a se stesso. Per tali motivi, la lirica di poeti del classicismo barocco, come Gabriello Chiabrera e Fulvio Testi, sarà molto apprezzata nel Settecento, quando, prima con gli autori dell’Accademia dell’Arcadia e in seguito con il Neoclassicismo, l’imitazione dei classici e una nuova forma di razionalismo si contrapporranno al gusto seicentesco. La critica più recente tende invece a considerare conservatrice la lirica classicista seicentesca, in quanto ciò che maggiormente la contraddistingue è la negazione di quegli elementi di innovazione che, soprattutto sul piano formale, il Barocco di Marino sviluppa, nel tentativo di interpretare in modo originale lo spirito del tempo.

Gabriello Chiabrera: tra classicismo e Barocco Pur facendo propria una poetica che lo allontana dalla tendenza marinista per il recupero di elementi classicisti, Gabriello Chiabrera può essere accostato a Marino per due aspetti: l’importanza attribuita all’innovazione formale – nel suo caso, soprattutto metrica – e il sostanziale disinteresse per il contenuto dei testi, salvo per il loro generico riferimento alla visione del mondo post-tridentina. Anche lo stile del poeta, inoltre, è talvolta influenzato da alcuni elementi tipici del gusto barocco.

La vita Una gioventù violenta

L’equilibrio e la stagione poetica fiorentina

Gabriello Chiabrera nasce a Savona, da famiglia nobile, nel 1552. Dalla sua autobiografia, stesa in terza persona dopo il 1625, emerge il ritratto stilizzato di un gentiluomo e letterato di corte, equilibrato e colto. Eppure la gioventù di Chiabrera è costellata di episodi violenti, risse e ferimenti. Si reca a Roma con lo zio dopo la morte del padre ed entra nella corte del cardinale Luigi Cornaro, ma nel 1576 deve lasciare la città pontificia, a causa di una vendetta compiuta contro un gentiluomo. Ritorna allora a Savona ma, in seguito alla partecipazione a violente risse, nel 1581 viene bandito per quattro anni dalla città. Dopo aver trascorso alcuni anni nella Torino dei Savoia e nella Firenze dei granduchi Ferdinando I e Cosimo II de’ Medici, il poeta trova un proprio equilibrio e collabora alla grande stagione poetica, letteraria e teatrale che fiorisce in occasione delle nozze del re di Francia Enrico IV con Maria de’ Medici. Fa anche parte della Camerata de’ Bardi e frequenta i musicisti fiorentini, per i quali compone numerosi testi che gli offrono spunti di riflessione sul legame fra la poesia e la musica.

L’Italia in una carta del XVI secolo.

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La vecchiaia a Savona

Nel 1602, in seguito a una crisi spirituale, ormai cinquantenne, decide di tornare alla città natale di Savona, dove ricopre cariche pubbliche, conduce una vita serena e si dedica alla stesura di opere letterarie, allontanandosi solo in occasione di viaggi, nel corso dei quali viene ospitato da famiglie nobili e mecenati della cultura: si reca a Torino, Mantova, Firenze e Roma, sempre ben accetto e onorevolmente accolto nelle corti. A Savona muore, quasi novantenne, nel 1638.

Le opere

L’antimarinismo dei Dialoghi dell’arte poetica

Nel complesso delle sue opere, che secondo alcuni critici rappresentano la più omogenea espressione poetica della Controriforma, si distinguono Il rapimento di Cefalo, rappresentato a Firenze nel 1600, opera per musica ispirata a una vicenda tratta dalle Metamorfosi di Ovidio e comprendente anche un’ode del poeta francese Pierre de Ronsard, e soprattutto il Pianto d’Orfeo, rappresentato a Mantova nel 1608. Numerose sono le raccolte di liriche, fra cui emergono le Canzoni – divise in Eroiche, Lugubri, Morali e Sacre –, le Canzonette, gli Scherzi e canzonette morali, le Rime. Tutte sono ricche di sperimentazioni metriche, elemento che è considerato il suo pregio maggiore. In endecasillabi sciolti – e ciò rappresenta un’ulteriore, notevole innovazione metrica – compone i trenta Sermoni, scritti fra il 1623 e il 1632 e pubblicati postumi nel 1718: sul modello del poeta latino Orazio, l’autore espone la propria visione della vita, che sostanzialmente aderisce, seppure in modo personale ed equilibrato, alle concezioni prevalenti nell’età post-tridentina. Fra le prose vanno ricordate, oltre alle pagine autobiografiche della Vita scritta da lui medesimo, i cinque notevoli Dialoghi dell’arte poetica, nei quali Chiabrera critica gli eccessi del Marinismo e difende inoltre le proprie innovazioni metriche e stilistiche nei confronti della tradizione petrarchista codificata nelle opere di Pietro Bembo.

Focus

FULVIO TESTI: CLASSICISMO E POESIA CIVILE

Fulvio Testi (Ferrara 1593 – Modena 1646) è, dopo Gabriello Chiabrera, il secondo nome per importanza del classicismo barocco. Scrive dapprima liriche giovanili di impronta marinista, ma accostandosi poi alla lezione di Chiabrera, si orienta verso il classicismo. Funzionario per conto dei duchi d’Este, viene incaricato di compiere missioni diplomatiche a Torino, a Vienna, a Roma, a Madrid. Nominato conte e tornato in patria, riceve l’incarico di governare la Garfagnana (1639-1642), ma non viene mai abbandonato dall’insoddisfazione. Mentre pubblica le proprie rime, sempre più marcatamente classiciste, col titolo di Poesie liriche (1627, 1644 e, postume, 1648), tenta a più riprese di assumere incarichi di prestigio, suscitando ostilità e antagonismi. Infine viene incarcerato a Modena con un’accusa di tradimento e muore in prigione. Fulvio Testi aderisce al classicismo spinto da sincere esigenze morali e politiche e non da una poetica di impronta edonistica. A differenza di Marino e di Chiabrera, al quale pure può essere accostato sul piano stilistico, ha piena consapevolezza della condizione dell’Italia contemporanea e sostiene che si deve cantare il presente. La poesia ritenuta migliore di Testi è infatti rivolta al suo tempo, come nella descrizione della calata dei lanzichenecchi (Ampio torrente / giù da l’Alpi nevose / precipitò d’uomini, e d’armi…) o nella solenne elegia per l’Italia e l’Europa sconvolte dalla peste del 1630 (Di sconosciuta fiamma acceso il petto / stan languendo le turbe. Al cor tremante / d’insolite paure / mandan vapor mortali / le vene putrefatte; così presta / è l’empia qualità, che si diffonde / per le membra infelici / che pria si muor, che di morir si senta). La critica recente attribuisce a Testi anche il poemetto in ottave Il pianto d’Italia, dedicato al principe Carlo Emanuele I di Savoia: un atto d’accusa contro il malgoverno spagnolo, che si rivolge ai duchi torinesi come ai possibili liberatori dell’Italia oppressa dalle potenze straniere. Protagonista dell’opera, composta in età giovanile (1617), è l’Italia stessa, raffigurata allegoricamente come una donna incatenata. Per le sue caratteristiche di poesia civile e patriottica, l’opera di Fulvio Testi sarà ammirata da tutti coloro che si dedicheranno a tali tematiche e, in particolare, da Giosue Carducci.

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Le novità di Chiabrera

Il recupero della metrica greca

Il modello melodico di Pierre de Ronsard Un’anticipazione dell’Arcadia

Gabriello Chiabrera, infatti, pur non apprezzando certe esuberanze mariniste, condivide la poetica della meraviglia e della ricerca del nuovo: di se stesso scrive che, come Cristoforo Colombo, vuole trovar nuovo mondo, o affogare. Per questo motivo la critica del Novecento, e in particolare Giovanni Getto, tende a considerarlo poeta barocco, complementare e non antitetico a Giambattista Marino. Le novità introdotte nella lirica italiana da Chiabrera riguardano principalmente l’ambito metrico; infatti molte fra le sue liriche compariranno fino alla prima metà del Novecento in vari trattati e manuali di retorica e versificazione per la varietà e l’esemplarità dei loro metri. Le nuove forme metriche elaborate da Chiabrera hanno una matrice classicista, in quanto si basano sul recupero e sul riadattamento di strutture della tradizione greca e latina; fra queste: l’ode pindarica, di tono solenne, attraverso la quale il poeta savonese tratta argomenti di carattere religioso, morale e politico; le anacreontiche, di contenuto amoroso e conviviale, fra cui si annoverano alcuni suoi capolavori, e i sermoni, che ricalcano lo stile e il ritmo del poeta latino Orazio, introducendo l’endecasillabo sciolto, destinato a grande fortuna. Anche nell’adottare le più tradizionali forme metriche della lirica italiana – come il sonetto, il madrigale, la ballata, la canzone – il poeta non rinuncia a sperimentare varianti e innovazioni. Esemplare è, a tal proposito, il rinnovamento della canzonetta, variata e mossa grazie all’inserimento di versi di quattro, cinque, sei, otto o nove sillabe, sia piani che sdruccioli: l’effetto va incontro alle richieste dei musicisti per i quali spesso Chiabrera compone i suoi testi. Tale indirizzo ripropone il modello della sperimentazione già avviata in Francia da Pierre de Ronsard e dai poeti della Pléiade, sperimentazione melodica che mira a riaccostare la poesia alla modalità in cui si esprimeva al tempo delle sue antiche origini, quando era strettamente legata alla musica e alla danza. Sul piano stilistico, i componimenti di Chiabrera sono spesso caratterizzati da toni semplici, cantabili e dolcemente melodiosi che anticipano il gusto arcadico. Altri componimenti, invece, hanno toni e contenuti più solenni e legati ai temi morali e religiosi costantemente proposti dai predicatori della Chiesa post-tridentina: i critici tendono a ritenere questa parte della produzione di Chiabrera la meno riuscita e valida sul piano artistico.

Claude Lorrain, Paesaggio con danza di contadini, 1639.

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T6 La vïoletta da Canzonette amorose

Gabriello Chiabrera

La canzonetta qui proposta è basata sul tema della fugacità della bellezza e della giovinezza. Il poeta rivolge alla donna amata l’appello a meditare sulla brevita della gioventù e la caducità della sua bellezza. In primo piano sta la ricerca della costruzione metrica e musicale del verso. Schema metrico: canzonetta anacreontica in 6 strofe di 6 versi (4 quinari, 2 settenari), con rime aaBccB. La lirica è detta anacreontica perché imita le odi erroneamente attribuite al poeta greco Anacreonte (VI secolo a.C.). PISTE DI LETTURA • Il tema della fugacità della giovinezza e della bellezza simboleggiato dalla viola • L’abilità nell’uso del metro e degli elementi melodici • Tono cantabile

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La vïoletta, che in sull’erbetta s’apre1 al mattin novella, di’2, non è cosa tutta odorosa, tutta leggiadra e bella? Sì, certamente, ché dolcemente ella ne spira odori, e n’empie il petto3 di bel diletto col bel de’ suoi colori. Vaga rosseggia, vaga biancheggia, tra l’aure4 mattutine; pregio d’aprile via più5 gentile: ma che diviene al fine? Ahi, che in brev’ora, come l’aurora lunge da noi sen vola; ecco languire, ecco perire la misera viola. Tu, cui6 bellezza e giovinezza oggi fan sí superba, soave pena, dolce catena di mia prigione acerba7;

1. s’apre: apre i suo petali (in quanto sboccia). 2. di’: dimmi. Il poeta si rivolge alla donna amata, come si capirà meglio a partire dal verso 25. 3. n’empie il petto: riempie il cuore di chi la odora e la ammira.

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4. aure: brezze (è un petrarchismo). 5. via più: vieppiù, sempre di più. 6. cui: che (complemento oggetto). 7. di mia prigione acerba: è il luogo poetico della prigionia d’amore.

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deh! con quel fiore consiglia il core sulla tua fresca etate8; ché tanto9 dura l’alta ventura10 di questa tua beltate. da Opere di Gabriello Chiabrera e lirici del classicismo barocco, a cura di M. Turchi, UTET, Torino, 1974

8. con quel fiore… fresca etate: con l’esempio della viola (quel fiore) consiglia il tuo cuore ad amare finché dura il tempo della tua giovinezza (fresca etate); oppure: consiglia

L

il tuo cuore riguardo alla (breve durata della) tua giovinezza. 9. tanto: tanto quanto la vita della viola. 10. l’alta ventura: il destino, il privilegio, la fortuna.

inee di analisi testuale La rosa e la viola La canzonetta riprende il luogo poetico della fuga e della brevità della giovinezza e della bellezza, caro alla sensibilità umanistico-rinascimentale (basti ricordare la Canzona di Bacco di Lorenzo de’ Medici). Il tema è classico, ma Chiabrera lo tratta con una sensibilità diversa, nell’ambito della nuova mentalità introdotta dalla Controriforma. Infatti il fiore che il poeta assume ad emblema della caducità della bellezza non è la rosa – simbolo di passione e di amore sensuale, come in Marino – ma la viola, segno di fragilità, delicatezza e pudore. Sotto questo segno la donna amata deve meditare sulla breve stagione caratterizzata dal privilegio della bellezza. Il tema sottinteso dell’inesorabile trascorrere del tempo è centrale nei poeti dell’epoca. Metrica e musica La sperimentazione formale attraverso il recupero e la variazione dei modelli classici che caratterizza tutta la lirica di Chiabrera è ben illustrata da questa canzonetta, particolarmente significativa sotto il profilo metricomusicale, che si può cogliere nella forte cadenza ritmica prodotta dalla ripetizione di un modulo fisso di tre versi (due quinari e un settenario), sottolineato dallo schema delle rime. Notevole la cantabilità dei quinari a rima baciata (violetta-erbetta, cosa-odorosa). La musicalità si coglie anche nell’effetto di contrappunto prodotto, nelle prime quattro strofe (dedicate alla descrizione della viola), dall’alternanza di domande e risposte. Le numerose anafore (tutta / tutta; di bel / col bel; vaga / vaga) e ripetizioni (ecco languire, ecco perire), le figure di suono come le allitterazioni (pregio d’aprile, sì superba, consiglia il core), i vezzeggiativi e i diminutivi (violetta, erbetta, novella) conferiscono alla lirica un’impressione di prezioso e leggero fraseggio canoro.

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Svolgi la parafrasi della canzonetta di Chiabrera. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il parallelismo che regge tutto il componimento poetico? b. Quali elementi della natura vi assumono sembianze femminili? c. Chi è il destinatario della poesia? Quale esortazione gli viene rivolta? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono il genere e lo schema metrico del componimento? b. Quale figura retorica predomina nella prima parte del testo? c. Quale figura retorica prevale nella parte finale del testo? d. Attraverso quali artifici metrici, fonici e lessicali il poeta conferisce musicalità al testo? Approfondimenti 4. Riflettendo attentamente sul testo, indica quali sono le sensazioni che il poeta vuole evocare nel lettore attraverso le figure retoriche. 5. Riassumi il testo di una o più canzoni per musica leggera dei nostri giorni in cui è citata – o è protagonista – la metafora fiore-giovinezza; confronta quindi tale testo (o tali testi) con la canzonetta di Chiabrera ed evidenziane i principali punti di contatto; infine, metti in luce l’influenza della poesia sugli odierni autori di testi per canzoni di musica leggera.

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La crisi del poema eroico

L’imitazione di Tasso

Il Mondo Nuovo

POEMA EROICOMICO

Nel Seicento viene prodotta una grande quantità di poemi eroici, ma nessuno di essi ha importanza significativa. Forse, come osserva un letterato del tempo, Nicola Villani (1590-1636), la loro sovrabbondanza è essa stessa un indizio di trascuratezza. In realtà il poema eroico (o epico o, anche, epico-cavalleresco) è già in crisi nella seconda metà del XVI secolo, quando, con il vicentino Gian Giorgio Trissino (1478-1550) si afferma una concezione del genere rigidamente regolata dalla precettistica e passivamente improntata all’imitazione dei classici. Proprio in quei decenni, tuttavia, viene alla luce un capolavoro del genere, la Gerusalemme liberata (1575) di Torquato Tasso. Pur nel fuoco delle polemiche, che indurranno l’autore a produrre il mediocre rifacimento della Gerusalemme conquistata, i contemporanei si rendono conto della grandezza dell’opera: nasce così una serie di poemi eroici che riprendono temi o personaggi del modello tassiano, senza però più riuscire a riprodurne lo spirito e il valore. La moda dell’imitazione si risolve quindi in una ripresa di personaggi e situazioni del capolavoro di Tasso (ad esempio il Boemondo di Giovan Leone Sempronio, il Tancredi di Ascanio Grandi o l’Erminia di Gabriello Chiabrera e l’Italia liberata dai Goti di Trissino, considerato massimo esempio di poema eroico rispettoso delle regole del genere), caratterizzata da una monotonia cui invano gli autori cercano di ovviare introducendo il patetico, il romanzesco, il novellistico. L’unica opera che forse merita di essere ricordata, per alcune belle pagine e per la capacità dell’autore di presentare il meraviglioso e l’esotico, è Il Mondo Nuovo di Tommaso Stigliani (1573-1661), pubblicato nel 1628. Fin dalla protasi, il poema si dimostra coerente con l’ideologia post-tridentina: lo scopritore dell’America (il trovator del Nuovo Mondo) viene esaltato anzitutto per l’opera di conversione delle popolazioni native, strappate ai loro riti. Il modenese Alessandro Tassoni (1565-1635), nella Lettera scritta a un amico a proposito del Mondo Nuovo, polemizza con Stigliani e nega il carattere eroico di un’impresa condotta contro indigeni disarmati, nudi e paurosi e vorrebbe invece raffigurare Colombo come un moderno Ulisse, desideroso di conoscere. Anche il suo incompiuto poema Oceano, però, non si sottrae ai difetti del poema eroico seicentesco. In questo contesto, si afferma e rapidamente si diffonde il genere eroicomico, che trae origine da spinte di carattere poetico e storico-culturale: talora infatti negli stessi poemi eroici compaiono apprezzati passi comici o satirici, talora i mede-

Focus

GENESI E SVILUPPI DEL POEMA EROICOMICO

Benché l’invenzione del poema eroicomico moderno sia esplicitamente rivendicata da Alessandro Tassoni nella Prefazione a La secchia rapita, il genere, inteso come narrazione in versi che tratta una materia bassa in stile alto o, viceversa, una materia alta in tono plebeo, parodistico e derisorio, ha origini antiche. Il prototipo del genere è la Batracomiomachìa (“Battaglia fra le rane e i topi”) di autore greco anonimo vissuto fra il VI e il IV secolo a.C. L’opera, a lungo attribuita a Omero e ripresa da poeti come Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli, presenta il contrasto, tipico del poema eroicomico, fra forma e contenuto, contrasto che costituisce una delle radici della comicità. Alle soglie dell’età moderna, si può considerare diretto anticipatore del poema eroicomico il Morgante di Luigi Pulci, che sancisce anche l’uso dell’ottava già affermatosi nel poema epico-cavalleresco; più anomalo, soprattutto per le scelte linguistiche basate sul latino maccheronico, è il Baldus di Teofilo Folengo. Dopo l’ampia diffusione di poemi eroicomici in ottave nel Seicento, il genere viene coltivato anche nel secolo successivo, sia in Italia che in Europa: fra le opere più significative si ricordano la Marfisa bizzarra del veneziano Carlo Gozzi (1720-1806) che, secondo la poetica del secolo, piega la vicenda narrata a scopi didascalici e polemici nei confronti dell’Illuminismo, e The rape of the lock (“Il ricciolo rapito”) del poeta inglese Alexander Pope (1688-1744). Dopodiché, salvo rare eccezioni, il genere, parallelamente a quanto accade al poema epico, pur conservando lo spirito che lo anima, perde le caratteristiche strutturali originarie (divisione in canti, uso dell’ottava, riferimento al modello eroico) e si mescola con le altre forme della produzione comica e umoristica in versi e, soprattutto, in prosa.

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Il successo della parodia e del poema eroicomico

simi autori – a cominciare da Alessandro Tassoni – tentano di produrre opere sia eroiche sia eroicomiche, verificando i migliori risultati e il maggior successo delle seconde, basate sulla parodia delle prime; talora il nuovo genere nasce da una sottintesa polemica contro l’esaltazione della guerra tipica del secolo. Il successo di questo tipo di poemi nel Seicento affonda le proprie radici nel gusto della sperimentazione, dell’innovazione, della mescolanza di stili, temi e linguaggi e, soprattutto, nella funzione di sfogo della parodia in un’epoca caratterizzata da un rigido e talora ossessivo controllo della vita culturale e letteraria.

Alessandro Tassoni Protagonista della dissacrazione del poema epico-cavalleresco e nel contempo della creazione di un genere nuovo – il poema eroicomico – è il modenese Alessandro Tassoni, che, con La secchia rapita, innova la materia e lo stile producendo un vero capolavoro, che sancisce il successo della parodia, attraverso la quale tutto un ambiente di intellettuali soggetti a un rigido controllo ideologico esprime la propria insofferenza in forme espressive che si sottraggono alla censura del potere.

La vita e le opere La giovinezza e le prime opere

Le Rime: fra Marinismo e sarcasmo

La polemica contro i petrarchisti

Alessandro Tassoni nasce da nobile famiglia a Modena nel 1565. Fin dalla gioventù, mostra un carattere inquieto e insofferente nei confronti della rigida organizzazione gerarchica della società controriformista e, in particolare, del dominio spagnolo. Frequenta le università di Bologna, Ferrara e Pisa e, a diciotto anni, scrive la tragedia Errico; nel 1597 intraprende la carriera di cortigiano, a Roma e in Spagna, in qualità di segretario del cardinale Ascanio Colonna. Fra il 1603 e il 1608 esordisce in ambito letterario con una raccolta di riflessioni e aforismi in nove libri, intitolata Varietà di pensieri di Alessandro Tassoni, pubblicata a Modena nel 1612, cui aggiungerà un decimo libro, Ingegni antichi e moderni, edito nel 1620. Nell’opera egli affronta molteplici temi e argomenti e sostiene con decisione la superiorità dei moderni sugli antichi, avviata, a suo giudizio, con il rifiuto del classicismo e dell’aristotelismo. Nel complesso, però, gli scritti si collocano nell’alveo del bizzarro enciclopedismo seicentesco, come dimostra il fatto che vengono poste sullo stesso piano ardue questioni metafisiche e problemi curiosi quali l’assenza della barba nelle donne. Nel frattempo, lo scrittore stende, e continuerà ad ampliare per tutta la vita, le Rime, testi poetici in parte di impronta barocca marinista, ma più spesso caratterizzati da uno stile basso e un tono sarcastico – che ricordano la Murtoleide di Marino – come nei numerosi sonetti indirizzati contro la Spagna, di cui la prima quartina di Le bellezze di Valladolid è un tipico esempio: Stronzi odorati e monti di pitali / versati e sparsi e lucidi torrenti / d’orine e brodi fetidi e fetenti / che non si pòn passar senza stivali. Nel 1609, Tassoni pubblica le Considerazioni sopra le “Rime” del Petrarca, in cui polemizza vivacemente con i petrarchisti, definiti zucche secche e bollati come imitatori privi di originalità; e neppure risparmia il loro modello, l’autore del Canzoniere, bersaglio di spunti critici che saranno valorizzati da Marino per sostenere la necessità della propria poesia. Al poeta trecentesco, Tassoni rimprovera soprattutto la concezione dell’amore cortese e platonico, ritenuta inconcepibile in una realtà come quella seicentesca, e irride, con toni che anticipano quelli del poema eroicomico, la gabbata speranza del poeta di dovere in vecchiaia sedersi con Laura a cuocer le castagne nel fuoco. Ben più aspra e derisoria è però la satira di Tassoni nei confronti dei petrarchisti, maestri della stitichezza, i quali, come gli aristotelici, sono considerati schiavi dell’imitazione come se gli umani ingegni, in cambio [invece] di andar perfezionando e loro stessi e le cose trovate […], si annebbiassero. In ultima analisi, se Tassoni polemizza coi seguaci del cantore di Laura, lo fa soprattutto per dimostrare l’errore di chi crede che fra tante sue rime, alcuna ve n’abbia che si possa dir meglio (“fra tanti versi di Petrarca, non ve ne sia uno che si possa scrivere meglio”). Attratto dalla politica indipendente della corte sabauda, nel 1618 lo scrittore si trasferisce a Torino, al servizio del cardinale Maurizio di Savoia e diventa quindi gentiluomo del duca Carlo Emanuele I, ma ne viene allontanato a causa di due Fi-

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Il capolavoro: La secchia rapita

lippiche, circolanti anonime dal 1615 contro lo spagnolo Filippo III, quando il Savoia è costretto a riavvicinarsi alla Spagna. A Parigi, nel 1622, viene intanto pubblicata La secchia, parodia dei mediocri poemi eroici del tempo; riveduta su richiesta del Santo Uffizio, l’opera viene data di nuovo alle stampe col titolo definitivo di La secchia rapita (1624), con alcune modifiche apportate in seguito alle richieste avanzate dalle autorità ecclesiastiche. Il capolavoro di Tassoni costituisce, a detta dell’autore stesso, la prima opera di un genere che il poeta modenese definisce eroicomico, per sottolinearne l’aspetto parodistico (vale a dire, di contraffazione con intento satirico e derisorio) del poema eroico – o epico – e cavalleresco. Il poeta vive nel frattempo a Roma; poi, a partire dal 1632, nella natia Modena, dove rimane al servizio del conte Francesco I d’Este, fino alla morte, avvenuta nel 1635, lasciando incompiuto il poema eroico, lontano da ogni spunto eroicomico, intitolato Oceano e di cui è protagonista Cristoforo Colombo.

La secchia rapita La poetica innovativa dell’opera

La trama

Il capolavoro di Tassoni – il poema eroicomico La secchia rapita – è costituito da dodici canti in ottave. Nella Prefazione, Tassoni presenta la propria opera come di nuova spezie, in quanto narra di un’impresa mezza eroica e mezza civile ed è scritta in due stili, grave e burlesco, mescolati fra loro. La poetica esposta è coerente con i princìpi dell’estetica letteraria barocca: il rispetto della verità storica non esclude la presenza del meraviglioso; lo scopo è il diletto, il cui raggiungimento non contempla l’osservanza delle regole classiciste. La trama è ambientata negli ultimi anni dell’Impero di Federico II (1194-1250), nel corso di una guerra fra modenesi e bolognesi. I modenesi, detti anche Gemignani dal nome del loro santo patrono (san Geminiano), al termine di una rissa, derubano i bolognesi, o Petroniani (da san Petronio), di una malconcia secchia che giace in fondo a un pozzo. Fra le due città, per il possesso della secchia, scoppia una terribile guerra, alla quale prendono parte anche gli dèi dell’Olimpo. Enzo, figlio dell’imperatore Federico II, combatte al fianco dei modenesi, ma i bolognesi e i loro alleati lo fanno prigioniero nella battaglia di Fossalta. La guerra si trascina fra intricate vicende, finché, durante una tregua, viene indetto un torneo: la guerriera modenese Renoppia sarà il premio per il vincitore. Un misterioso cavaliere bolognese, Melindo, vince tutti gli sfidanti, ma viene infine sconfitto dal pavido Conte di Culagna; si scoprirà poi infatti che, per un incantesimo, il prode Melindo poteva essere battuto solo dall’uomo più vile del mondo. Poiché Renoppia respinge il Conte di Culagna in quanto già sposato, questi decide di uccidere la moglie; venutolo a sapere, la consorte cerca a sua volta di sbarazzarsi del marito con il veleno a lei destinato; complice della donna è Titta, fanfarone e dongiovanni romano. La pozione bevuta dal Conte si rivela però essere un potentissimo purgante. I combattimenti riprendono e proseguono finché il legato pontificio non impone un accordo di pace: ai bolognesi resterà re Enzo e ai modenesi la secchia, causa del conflitto.

Sotto il nome di Bisquadro Accademico humorista, ovvero Andronico Melisone, ci è giunto un manoscritto della Secchia rapita, che in molti passi offre la lezione autentica del testo. Il manoscritto, anche se non autografato, fu senz’altro sotto gli occhi di Tassoni.

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Le caratteristiche rilevanti

La parodia degli eroi e degli dèi

Il protagonista: il Conte di Culagna

Plurilinguismo in chiave grottesca

P

arole chiave

La critica alla società del tempo e il diletto

Le caratteristiche rilevanti dell’opera di Tassoni sono molte. Nella Secchia rapita, nonostante le dichiarazioni dell’autore, la verità storica non è rispettata, in quanto Tassoni colloca sullo stesso piano cronologico avvenimenti accaduti in età diverse, come la battaglia di Fossalta del 1249, la presa di Castelfranco da parte dei modenesi del 1323, l’aiuto loro fornito da Ezzelino da Romano nel 1247 e, infine, la battaglia di Zappolino del 1325, quando effettivamente, secondo i cronisti del tempo, i modenesi vincitori portarono in trionfo una secchia sottratta a un pozzo bolognese. Pur presentando una struttura esteriore da poema epico, La secchia rapita ne costituisce una beffarda parodia, perché sostituisce ai personaggi eroici il loro opposto. Protagoniste non sono figure femminili idealizzate come la Clorinda della Gerusalemme liberata, ma Renoppia, sorda da un orecchio; ai paladini come Orlando e Rinaldo si sostituisce il Conte di Culagna, ridicolo, spaccone e vile. Comici sono anche personaggi minori come Titta – donnaiolo e spasimante della moglie del Conte – che esprime in romanesco le proprie fanfaronate. Particolarmente ben riuscita appare, nella Secchia rapita, la parodia degli dèi cari ai classicisti, come nell’esemplare passo che ha per protagonista Alcìde (ovvero Ercole) sull’Olimpo, in cui il semidio che agita la mazza viene paragonato a una guardia svizzera ubriaca, abituata a rompere braccia e teste nei giorni di festa solenne, precedendo il papa nelle vie di Roma. Tutti i personaggi del poema sono comunque ben disegnati: efficacissimo, in particolare, è il ritratto del protagonista, il buffonesco antieroe Conte di Culagna, cavalier bravo e galante, / filosofo, poeta e bacchettone; / ch’era fuor de’ perigli un Sacripante [un gran combattente], / ma ne’ perigli un pezzo di polmone. / Spesso ammazzato avea qualche gigante, / e si scopriva poi ch’era un cappone. Le vicende che lo riguardano suscitano sempre il riso o il sorriso e attingono agli intrecci e allo stile della novellistica boccaccesca e post-boccaccesca; né è escluso che Tassoni, che ha trascorso alcuni anni in Spagna, conosca – e in qualche caso prenda a modello – il Don Chisciotte di Cervantes. Il plurilinguismo, che mescola un lessico basso a termini ed espressioni alte ma collocate in un contesto tale da diventare ridicole o grottesche, è una chiave della comicità e della satira di Tassoni, rivolta non solo contro singoli individui – il Conte di Culagna rappresenterebbe il conte modenese Alessandro Brusantini, realmente esistito e detestato dal poeta – ma anche contro vizi e difetti ritenuti dall’autore tipici degli Italiani del tempo, come la codardia e la vanagloria. Sullo sfondo del poema, seppure in modo prudente, sono evidenziati i mali dell’Italia: il predominio spagnolo, la mancanza di ideali e di valori etici, il campanilismo e la mania delle guerre fratricide; tuttavia Tassoni tocca solo di sfuggita tali temi e preferisce dilettare il lettore con il vivace stile, il tratteggio delle caricature, l’uso delle iperboli, la scelta dissacrante e spassosa dei termini, senza escludere il ricorso a metafore di impronta marinista, anch’esse usate in chiave umoristica.

PARODIA E IRONIA Il termine parodia deriva dal sostantivo greco paroidía (“imitazione di un canto”). Il genere parodistico, infatti, si contraddistingue come imitazione a scopo derisorio: come la satira, comporta la creazione di un “eroe alla rovescia” e, insieme alla commedia, sembra rimandare al mondo carnevalesco, nel quale le gerarchie di potere sono rovesciate e capovolte attraverso lo scherzo e il riso. Secondo il critico russo Michail Bachtin (1895-1975), la parodia implica la creazione di una sorta di sosia dell’eroe e del potente che, imitandolo in modo buffo, gli toglie la corona, ribaltando i ruoli. In ambito più specificamente letterario, si ha parodia di un genere, di un’opera o di un personaggio quando un testo si serve della contraffazione e dell’ironia (dal greco eironéia, “dissimulazione”: affermazione di qualcosa mediante l’espressione dell’opposto) allo scopo di deridere. Come la satira, la parodia è spesso uno strumento usato da chi non detiene il potere e si propone di deridere chi lo esercita, soprattutto in una società rigida ed oppressiva, anche sul piano letterario, come quella del Seicento.

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T7 Gli dèi a concilio da La secchia rapita, II, 28-31; 35-41

Alessandro Tassoni

La notizia della guerra scoppiata fra modenesi e bolognesi giunge alla corte di Giove, che convoca immediatamente il concilio degli dèi. Nelle ottave qui proposte l’autore presenta le varie divinità che, in comica sfilata, rispondono (o non rispondono) alla convocazione. Schema metrico: ottave di endecasillabi, con rime ABABABCC. PISTE DI LETTURA • La parodia dei concili degli dèi dell’epica classica • La sottintesa satira dei costumi delle corti del tempo • Tono comico e umoristico

28

La fama in tanto al ciel battendo l’ali con gli avisi d’Italia arrivò in corte1, ed al re Giove fé sapere i mali che d’una secchia2 era per trar3 la sorte. Giove, che molto amico era ai mortali e d’ogni danno lor si dolea forte, fé sonar le campane del suo impero e a consiglio chiamar gli dèi d’Omero4.

Intanto la fama, battendo le ali nel cielo, giunse alla corte con le notizie dall’Italia e informò il re Giove delle disgrazie che, da una secchia, il destino stava per suscitare. Giove, che era molto amico dei mortali e si addolorava fortemente di ogni loro sventura, fece suonare le campane del suo regno e chiamare a consiglio gli dèi di cui narra Omero.

29

Da le stalle del ciel subito fuori i cocchi uscir sovra rotanti stelle, e i muli da lettiga e i corridori con ricche briglie e ricamate selle5: più di cento livree6 di servidori si videro apparir pompose e belle, che con leggiadra mostra e con decoro seguivano i padroni a concistoro7.

Dalle scuderie del cielo uscirono subito i cocchi che correvano su ruote fatte di stelle e i muli da portantina e i cavalli da corsa con ricche briglie e selle ricamate: si videro comparire più di cento servi dalla bella livrea decorata, i quali, con belle maniere e con onore, accompagnavano i loro padroni al concilio.

30

Ma innanzi a tutti il prencipe di Delo8 sopra d’una carrozza da campagna venìa correndo e calpestando il cielo con sei ginetti a scorza di castagna9: rosso il manto, e ’l cappel di terziopelo10, e al collo avea il toson11 del re di Spagna; e ventiquattro vaghe donzellette12 correndo gli tenean dietro in scarpette13.

1. La fama... in corte: la fama (personificata, come nella poesia epica) porta agli dèi le notizie (gli avisi) dell’Italia. 2. secchia: è la secchia rapita dai modenesi, causa della guerra. 3. era per trar: stava per suscitare (francesismo). 4. d’Omero: cantati da Omero; il riferimento è, in particolare, al canto IV dell’Iliade. 5. selle: si noti il bisticcio, tipicamente barocco, che crea allitterazioni fra i termini stalle, stelle, selle. 6. livree: divise. 7. a concistoro: in assemblea; propriamente il concistoro è la solenne riunione della curia dinanzi al papa.

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Ma davanti a tutti giungeva di corsa, galoppando nel cielo, Apollo, il principe di Delo, su una carrozza da campagna tirata da sei cavalli dal manto marrone: indossava un manto rosso e un cappello di velluto, e al collo il tosone d’oro del re di Spagna, e ventiquattro belle fanciulle mantenevano il suo passo correndo.

8. il prencipe di Delo: il principe di Delo è Apollo, il dio della bellezza, che guida il cocchio alato. 9. con sei ginetti... castagna: razza di cavalli spagnoli dal manto marrone (dallo spagnolo jinete). 10. terziopelo: velluto fitto a pelo lungo; è un altro termine spagnolo. 11. toson: il tosone è l’emblema del più importante ordine cavalleresco spagnolo; l’uso di vocaboli di origine spagnola, riferiti agli dèi classici, ha funzione satirica. 12. ventiquattro... donzellette: rappresentazione umoristica delle ore. 13. tenean… scarpette: lo seguivano a piedi (espressione popolaresca).

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31

Pallade sdegnosetta e fiera in volto venìa su una chinea di Bisignano14, succinta a mezza gamba, in un raccolto abito mezzo greco e mezzo ispano: parte il crine annodato e parte sciolto portava, e ne la treccia a destra mano un mazzo d’aironi a la bizzarra15, e legata a l’arcion la scimitarra.

La dea Pallade, piuttosto stizzosa e truce in volto, veniva su una mula di Bisignano, con la gonna al ginocchio, un vestito rialzato mezzo greco e mezzo spagnolo, portava la chioma in parte intrecciata e in parte sciolta, e nella treccia a destra portava un mazzo di piume d’airone acconciato in modo eccentrico, e legata alla sella una scimitarra araba.

[Nelle ottave 32-34 si descrivono gli arrivi di Venere – accompagnata dalle Grazie e da Cupido – Saturno, Marte e Nettuno.]

35

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Non comparve la vergine Diana, che levata per tempo era ita al bosco a lavare il bucato a una fontana ne le maremme del paese Tosco16; e non tornò, che già la tramontana girava il carro suo per l’aer fosco; venne sua madre17 a far la scusa in fretta, lavorando su i ferri una calzetta. Non intervenne men Giunon Lucina18, che ’l capo allora si volea lavare; Menippo19, sovrastante la cucina di Giove, andò le Parche ad iscusare20, che facevano il pan quella mattina, indi avean molta stoppa da filare; Sileno21 cantinier restò di fuori, per inacquare il vin de’ servidori. De la reggia del ciel s’apron le porte, stridon le spranghe e i chiavistelli d’oro; passan gli dèi da la superba corte ne la sala real del concistoro: quivi sottratte ai fulmini di morte22 splendon le ricche mura e i fregi loro: vi23 perde il vanto suo qual più lucente e più pregiata gemma ha l’Oriente.

14. una chinea di Bisignano: una cavalla di Bisignano (presso Cosenza); chinea deriva dal francese trecentesco haquenée, derivante a sua volta dal sobborgo londinese di Hackney, a quel tempo famoso per il commercio di cavalli di razza. Nella contrapposizione tra Bisignano e Hackney si intuisce una comica contrapposizione ormai perduta al giorno d’oggi. 15. a la bizzarra: in modo eccentrico, in singolare acconciatura. Il termine bizza, capriccio, da cui deriva bizzarro, è un termine popolaresco meridionale onomatopeico (come stizza) entrato nella lingua letteraria con i poemi eroicomici. 16. ne le maremme… Tosco: nella Maremma toscana. Nel commento alla prima edizione del poema l’autore stesso precisa di volersi qui riferire in particolare a Siena, i cui abitanti erano considerati particolarmente “lunatici” e quindi vicini alla dea Diana. L’immagine del carro della dea – trasformata in lavandaia – in preda alla bufera di vento, è comica. 17. sua madre: Latona. 18. Lucina: Lucina (dall’aggettivo latino lucinus, “della nascita”) è epiteto di Giunone, dea della luce e dei parti. 19. Menippo: Menippo di Gadara, poeta greco e filosofo

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Non giunse la vergine dea Diana, che, alzatasi presto, era andata al bosco a lavare il bucato a una fonte della Maremma toscana; e non era ancora tornata quando la tramontana girava il suo carro per l’aria ormai scura; venne sua madre Latona a scusarsi frettolosamente, lavorando una calza con gli aghi.

Non intervenne nemmeno la dea Giunone Lucina, perché in quel momento si voleva lavare i capelli; Menippo, che soprintendeva alla cucina di Giove, andò a chiedere scusa anche per le Parche, che quella mattina stavano facendo il pane e poi dovevano filare molta stoppa; Sileno, il cantiniere, restò fuori per annacquare il vino dei servi. Si aprono le porte della reggia del cielo, stridono i cardini e i chiavistelli d’oro; gli dei passano dal superbo cortile alla sala reale del concilio: qui, protette dai fulmini mortali di Giove, splendono d’oro le ricche pareti e i loro decori: davanti a esse qualsiasi lucentissima e preziosissima gemma orientale perderebbe ogni vanto.

cinico vissuto nel IV-III secolo a.C. Probabilmente è qui citato perché deve la sua fama alla creazione di un genere tra il serio e il faceto, chiamato, in seguito, satira menippea, che argutamente canzonava le stoltezze umane e le presunzioni dei filosofi. Secondo altri, Menippo è qui citato in quanto protagonista dei Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata (II secolo d.C.), come dimostrerebbe il riferimento alle Parche (vedi nota successiva). 20. le Parche ad iscusare: a portare le scuse delle Parche. Nella mitologia greca, le Parche o Moire, filando, tessendo e tagliando il filo della vita, stabilivano il destino degli esseri umani; qui, comicamente, si occupano del pane e lo adulterano riempiendolo di stoppa (propriamente: cascame della tessitura del lino o della canapa). 21. Sileno: il precettore di Bacco, uso a maneggiare il liquore sacro a Dioniso, il vino (che qui, furbescamente, annacqua). 22. sottratte... di morte: sottratte ai fulmini mortali (scagliati da Giove), cioè immortali. 23. vi: in questa sala, a confronto con le sue sfarzose pareti.

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Posti a seder ne’ bei stellati palchi i sommi eroi de’ fortunati regni, ecco i tamburi a un tempo e gli oricalchi24 de l’apparir del re diedero segni. Cento fra paggi e camerieri e scalchi25 venìeno, e poscia i proceri26 più degni; e dopo questi Alcide27 con la mazza, capitan de la guardia de la piazza:

Postisi a sedere nei bei palchi di stelle i più grandi eroi dei regni del destino, ecco che i tamburi insieme alle trombe diedero il segno dell’apparire del re. Stavano arrivando cento fra paggi, camerieri e maggiordomi, e poi i dignitari più onorati; e dopo di loro, con la mazza, il figlio di Alceo, Ercole, capitano della guardia del palazzo:

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e come quel ch’ancor de la pazzia non era ben guarito intieramente, per allargare innanzi al re la via, menava quella mazza fra la gente, ch’un imbriaco svizzero28 parìa, di quei che con villan modo insolente sogliono innanzi ’l papa il dì di festa romper a chi le braccia, a chi la testa.

e poiché questi non era ancora del tutto guarito della pazzia, per sgomberare la strada davanti al re roteava quella mazza fra la gente, tanto che sembrava una guardia svizzera ubriaca di quelle che in modo rozzo e insolente sono solite, precedendo il papa nei giorni di festa solenne a Roma, rompere braccia e testa alla gente.

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Col cappello di Giove e con gli occhiali seguiva indi Mercurio, e in man tenea una borsaccia, dove de’ mortali le suppliche e l’inchieste ei raccogliea; dispensavale poscia a due pitali29 che ne’ suoi gabinetti30 il padre avea, dove con molta attenzion e cura tenea due volte il giorno segnatura31.

Con il copricapo e gli occhiali di Giove veniva poi il dio Mercurio, e teneva in mano una borsaccia, dove raccoglieva le suppliche e le richieste dei mortali; le divideva poi in due vasi, che il padre teneva nei suoi stanzini, in cui con molta attenzione e cura due volte al giorno lasciava la firma.

41

Venne alfin Giove in abito reale con quelle stelle, c’han trovate, in testa32, e su le spalle un manto imperiale che soleva portar quand’era festa; lo scettro in forma avea di pastorale, e sotto il manto una pomposa vesta donatagli dal popol sericano33, e Ganimede avea la coda in mano34.

Giunse infine Giove in abiti regali, con in capo quelle stelle che gli astronomi hanno scoperto e sulle spalle il manto imperiale che era solito portare nei giorni di festa; aveva lo scettro a forma di pastorale, sotto il manto un abito molto elegante che gli era stato regalato dai cinesi, e Ganimede gli reggeva lo strascico.

da La secchia rapita. Rime e prose scelte, a cura di G. Ziccardi, UTET, Torino, 1952

24. oricalchi: trombe in bronzo. Il termine, militare, deriva dal greco (oreikhalkos, letteralmente “rame di monte”). Il contrasto fra termini bassi, come camerieri, e alti, come oricalchi, suscita un effetto comico. 25. scalchi: sono propriamente i funzionari della corte che curavano la mensa (dal longobardo skalk, “servo”). 26. proceri: notabili; dal latino procerus, “alto”. 27. Alcide: Ercole, ancora in preda alla pazzia, causatagli dall’aver indossato la camicia intrisa di sangue del centauro Nesso. 28. imbriaco svizzero: alle guardie svizzere del papa viene qui attribuita la passione per il vino. 29. pitali: dal greco pithàrion, “recipiente”; nel linguaggio popolare, il termine passò a significare il vaso da notte: ironia oggi perduta, poiché non usiamo più il vaso per le due incombenze indicate da Tassoni. 30. gabinetti: l’autore gioca col duplice significato della parola gabinetto, stanza riservata in cui il sovrano convoca

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i consiglieri intimi e locale dei bisogni corporali. 31. tenea... segnatura: due volte al giorno firmava gli atti, oppure mingeva (fare segnatura, segnare era espressione popolaresca analoga alla minzione animale per segnare il territorio); doppio è quindi il significato di segnatura, come per gabinetti e pitali. 32. con quelle stelle... in testa: l’autore si riferisce ai primi quattro satelliti del pianeta Giove scoperti da Galileo Galilei nel 1620 e detti pianeti medicei. Giove con lo scettro… in forma di pastorale rappresenta, con ogni probabilità, il papa ritratto in forma satirica. Comico è anche il fatto che Mercurio indossi copricapo e occhiali di Giove. 33. popol sericano: dal greco serikós, “dei Seri”, antico nome dei cinesi, in quanto produttori di seta (di qui l’aggettivo serico, ossia “fatto di seta”). Forse è un’allusione ai doni fatti dai giapponesi a papa Paolo V. 34. Ganimede... in mano: Ganimede, il coppiere di Giove, tiene in mano lo strascico (la coda) del manto.

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inee di analisi testuale Una duplice parodia Le immagini di Giove che chiama a consiglio gli dèi d’Omero e si presenta con uno scettro in forma di pastorale e l’abito mezzo greco e mezzo ispano di Pallade sono quelle che più esplicitamente dichiarano i bersagli della parodia di questo passo: anzitutto l’epica classica, di cui Tassoni ribalta in chiave comica il luogo letterario del concilio degli dèi (riprendendolo in particolare dal canto IV dell’Iliade); poi – ma in forma non esplicita – la Curia romana, con i suoi riti e i suoi costumi modellati su quelli del potere spagnolo. Entrambi i temi, attraverso la parodia, sono ridotti a una dimensione quotidiana meno edificante: gli dèi fanno il bucato, la calzetta, oppure sono impegnati a truffare preparando pane fatto di stoppa o vino annacquato. La figura di Menippo Il personaggio di Menippo è la controfigura dell’autore stesso: è capo cuciniere di Giove, come Tassoni è al servizio del cardinale Ascanio Colonna e poi del cardinale Maurizio di Savoia; ed è portavoce delle Parche, che qui si occupano di fare il pane anziché di stabilire il destino degli uomini. Inoltre, come Tassoni, Menippo si dedica a una poesia minore – satirica, che mescola serio e faceto, grave e burlesco – di cui finge di doversi scusare.

Diego Velázquez, Menippo, 1639-1642. Madrid, Museo del Prado.

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto delle ottave proposte (max 30 righe). 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Per quale motivo viene convocata l’assemblea divina? b. Che cosa intende parodiare Tassoni in queste ottave? c. Chi è Menippo e che cosa rappresenta? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è lo schema metrico dei versi sopra proposti? b. Quali similitudini sono presenti? c. Quali principali figure retoriche ottengono effetti comici? d. Quale registro utilizza il poeta e quali passi lo dimostrano chiaramente? e. Quali caratteristiche di ciascun dio vengono tradotte in parodia da Tassoni? Approfondimenti 4. Riflettendo sul testo, analizzalo dal punto di vista stilistico-formale. Prendi in esame dapprima il livello retorico, segnalando in particolare similitudini, metafore, iperboli; poi quello lessicale, sottolineando tutti i termini appartenenti all’area semantica del mito contrapposti, in modo parodistico, a quella della vita quotidiana. 5. Riassumi il contenuto di un romanzo, di un fumetto o di un film a te noto in cui sia presente una parodia degli dei dell’Olimpo greco e poi confrontalo con le ottave di Tassoni per evidenziare i principali punti di contatto o le differenze.

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Concetti chiave GIAMBATTISTA MARINO E IL MARINISMO In conseguenza del successo dell’opera di Giambattista Marino, all’inizio del Seicento si sviluppa in Italia una lirica in cui – sulla scia di Tasso ma anche e soprattutto del Barocco spagnolo – prevalgono il frequentissimo uso di metafore, di richiami fonico-musicali e i giochi e le analogie bizzarre fra i concetti (concettismo). Giambattista Marino nasce a Napoli nel 1569, frequenta la corte napoletana, ma ben presto si reca a Roma e da lì a Torino, al servizio del duca Carlo Emanuele I, di cui diviene poeta ufficiale. Nonostante il successo letterario e mondano, Marino è accusato e imprigionato per aver scritto versi ingiuriosi: uscito dal carcere, si reca a Parigi; nel 1623, dopo aver pubblicato il poema Adone, torna in Italia e muore a Napoli due anni dopo. Le opere di Marino sono caratterizzate da un intenso sperimentalismo sia nell’uso degli strumenti retorici sia nella pratica dei generi poetici. La Lira (1614) è una raccolta di liriche disposte secondo criteri tematici e metrici e può essere considerata una delle opere più significative del Barocco: in essa il contenuto si dissolve in suoni e in immagini. La Sampogna (1620) si rifà invece al genere bucolico ed è una raccolta di dodici idilli, che trattano per lo più di episodi desunti dalla mitologia dove l’amore è concepito in chiave sensuale. Nella Galeria (1619) Marino compete invece con pittura e scultura: le poesie di questa raccolta, infatti, traggono ispirazione da opere d’arte. La Murtoleide è la raccolta di sonetti burleschi rivolti da Marino al suo rivale, in poesia e nel lavoro di corte a Torino, Gaspare Murtola, in cui si rivela la rielaborazione in chiave barocca dello stile basso di poeti come il Burchiello, Cecco Angiolieri e delle rime chiocce di Dante. L’opera più nota di Marino è l’Adone (1623), un poema mitologico che narra l’amore di Venere per il bellissimo pastore Adone. Centrale è il tema amoroso, sviluppato in atmosfere languide; gli scenari rinviano al genere idillico, ma le parti meglio riuscite del poema sono singoli episodi o frammenti lirici in cui vengono abbandonati gli eccessi di concettismo. Per alcuni critici è importante

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anche il tema – che essi considerano sottinteso all’opera – del contrasto fra la guerra e la pace. Temi e stile di Marino vengono ripetuti e accentuati – con effetti spesso infelici – dai molti seguaci del poeta. I POETI ANTIMARINISTI E IL CLASSICISMO BAROCCO A causa della persistenza di valori legati al classicismo cinquecentesco, nel Seicento si sviluppa una lirica che si serve con una certa moderazione degli strumenti retorici (a partire dalla metafora) abusati dal Barocco e che prende esplicitamente le distanze dal Marinismo. Nonostante i poeti non rinuncino del tutto al gusto concettista, i loro testi sono caratterizzati dall’imitazione – per quanto esteriore – delle modalità stilistiche dei classici greci e latini. La novità è data dalla sperimentazione di soluzioni metriche inedite in Gabriello Chiabrera (15521638). Fulvio Testi (1593-1646) affronta invece soprattutto temi civili, politici e patriottici. Per le caratteristiche dei loro versi, la poesia dei due poeti è indicata con l’apparentemente contraddittoria definizione di classicismo barocco. IL POEMA EROICOMICO: ALESSANDRO TASSONI E LA SECCHIA RAPITA Nel Seicento si assiste a un’abbondante produzione di poemi eroici che imitano in modo freddo e pedissequo la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Nel contempo, si afferma il nuovo genere del poema eroicomico, che si caratterizza per la ripresa, in termini satirici e parodistici, di personaggi e temi propri dell’epica: si tratta infatti di narrazioni in versi che, con una mescolanza di stili e linguaggi, affrontano una materia “alta” in stile “basso” o viceversa. Prototipo del poema eroicomico è La secchia rapita, capolavoro del modenese Alessandro Tassoni (1565-1635). L’opera, di tono satirico, comico e umoristico, narra la guerra – alla quale partecipano anche gli dèi dell’Olimpo – fra modenesi e bolognesi a causa di una malconcia secchia; il suo protagonista, il vile Conte di Culagna, è una ridicola figura di antieroe.

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E

sercizi di sintesi

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Nel Seicento, in Italia a. tutti i poeti di rilievo si possono definire marinisti. b. molti poeti – ma non tutti – si rifanno direttamente a Marino. c. Marino viene criticato da molti poeti. d. Marino viene ironicamente imitato da molti poeti. 2. Per lirica concettista si intende a. una poesia che dà importanza soprattutto al contenuto. b. un modo di fare poesia in assenza di concetti. c. una poesia che abusa di bizzarri giochi di concetti. d. un abuso di concetti e luoghi comuni della poesia antica. 3. I poeti del classicismo barocco, in generale a. amano la metafora. b. usano moderatamente le figure retoriche e amano i classici. c. imitano i grandi autori antichi. d. non sono italiani. 4. Fulvio Testi appartiene a una tendenza che può essere definita a. barocco esasperato. b. anti-barocco. c. classicismo anti-concettista. d. classicismo barocco. 5. La lirica di Gabriello Chiabrera a. ricerca la novità soprattutto sul piano concettuale. b. ricerca la novità soprattutto sul piano metrico. c. ricerca la novità per poi tornare alle soluzioni antiche. d. non ricerca la novità, in quanto ama i classici. 6. Chiabrera condivide di Marino a. la poetica della ricerca del nuovo. b. gli artifici retorici. c. l’uso frequentissimo della metafora. d. le tematiche. 7. Ne La vïoletta, Chiabrera a. imita nei contenuti e nello stile un sonetto di Lorenzo de’ Medici. b. riprende il tema della fugacità della giovinezza e invita a riflettere sull’amore. c. riprende i temi cari alla sensibilità medievale. d. si accosta alla poetica e allo stile marinista.

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8. Nel Seicento il poema eroico-cavalleresco a. acquista importanza. b. nonostante l’espansione quantitativa, entra in crisi. c. vive un profondo rinnovamento. d. è un genere letterario ormai in disuso. 9. Nel capolavoro di Tassoni, una secchia è causa a. di una burla. b. di un litigio. c. di una guerra. d. della fine di un amore. 10. Il poema incompiuto Oceano è a. un’opera di Tassoni che tratta dell’impresa di Colombo. b. un’opera eroicomica di Tassoni. c. un’opera di Chiabrera che critica la Spagna. d. un’opera eroicomica di Chiabrera.

2 Rispondi alle seguenti domande (max 8 righe per ogni risposta). 1. In estrema sintesi, quali sono la poetica e le caratteristiche stilistiche principali della lirica di Marino? 2. Che cosa si intende con il termine concettismo, riferito alla poesia marinista del Seicento? 3. Nel noto sonetto di Marino che inizia con le parole Pon mente al mar, Cratone, con che cosa sono metaforicamente identificati, rispettivamente, mare e pesci e con che cosa cielo e stelle? 4. Quale poeta è bersaglio principale delle satire di Marino, in quale opera e quali caratteristiche vi presenta lo stile dell’autore napoletano? 5. Con quali caratteristiche salienti si manifestano nel Seicento le tendenze di opposizione alla lirica marinista? 6. Su quale piano principalmente la lirica del cosiddetto classicismo barocco del Seicento ricerca la novità e soprattutto con quale autore e in quale ambito? 7. Quale lirico del Seicento si dedica anche alla poesia civile e quali sono le caratteristiche del suo stile? 8. Quali principali differenze distinguono la lirica di Gabriello Chiabrera da quella di Fulvio Testi? 9. Qual è il tema del componimento Il pianto d’Italia attribuito a Testi e per quale aspetto esso risulta anomalo rispetto alla produzione poetica del secolo? 10. Quali sono le principali caratteristiche del poema eroicomico e qual è il titolo dell’opera di Tassoni che ne rappresenta il capolavoro?

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CAPITOLO

3

La poesia europea del Seicento

Maestro di Leida, Natura morta con libri, 1628 circa. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek. Tra i simboli della vanitas, oltre al teschio, alla clessidra, alla polvere sugli oggetti, ci sono anche i libri sgualciti.

IL BAROCCO

IN

SPAGNA

Il Barocco nel Seicento è la tendenza dominante in tutte le principali letterature europee: dalla Spagna all’Inghilterra, dalla Francia alla Germania, dal Portogallo all’Italia. La sensibilità barocca trova sul piano poetico le sue più alte espressioni in Spagna. Il senso della precarietà della dimensione terrena e umana, il crollo delle glorie, la delusione, la morte, sono infatti temi strettamente legati alla poesia dei capiscuola della tendenza – Luis de Góngora e Francisco de Quevedo – che manifestano toni di cupa meditazione, drammaticità di contrasti, decorazione lussuosa ma funerea, ansia di moralità. La lirica barocca spagnola è caratterizzata dal concettismo e dal cultismo. Il concettismo consiste nel collegare concetti o immagini fortemente contrastanti in modo da raggiungere risultati retorici di straordinario effetto (le cosiddette agudezas); il cultismo (o culteranesimo, da estilo culto, cioè stile prezioso e raffinato – o, più comunemente, Gongorismo, dal nome del suo maggiore esponente, Góngora) opera anche più specificamente sul lessico: dilata l’area dei significati di un termine, lo usa in senso metaforico, crea neologismi, ricorre a un’ornamentazione spesso complessa e oscura, nell’ambito di un raffinato gioco di intrecci fonici. I due versanti della lirica spagnola corrispondono perciò a questi due aspetti dell’anima barocca: il concettismo di Quevedo tende a riassumere l’inquieta

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realtà contemporanea attraverso rappresentazioni che devono essere stupefacenti, ma nello stesso tempo esprimere la disperazione del vivere; il cultismo di Góngora riscontra le lacerazioni in atto tra cultura e vita, tra idea e natura, e apre la lirica a continue analogie che rimandano alla meraviglia di creare un universo nuovo, utopistico eppure tangibile, sensuale e nel contempo alternativo alla realtà. Entrambi gli indirizzi sono caratterizzati da quello che è l’elemento comune e primario del Barocco, cioè la struttura metaforica. La dilatazione semantica che essa comporta, ripresa dalla poesia francese di fine Ottocento, costituirà una delle costanti della poesia moderna. Si può affermare che la lezione della poesia barocca spagnola in questa direzione sia stata fondamentale: ciò vale in particolare per il Gongorismo, che si colloca al vertice della lirica barocca europea.

Góngora e il Gongorismo Vita e opere

Caratteristiche della poesia di Góngora

La rivalutazione moderna

Luis de Góngora y Argote (1561-1627) nasce a Córdoba; qui studia lettere, matematica e giurisprudenza, prende prima gli ordini minori, poi quelli maggiori. Ai frequenti viaggi ecclesiastici in tutta la Spagna unisce l’attività di letterato, che suscita la reazione polemica dei suoi superiori. Anche autore di teatro (tra l’altro, La costanza di Isabella del 1610 e Il dottor Carlino del 1613), lo scrittore deve la sua fama prevalentemente alla produzione lirica, tra cui si ricordano il capolavoro, le Solitudini (1613), il Panegirico del duca di Lerma (1616), le Odi e i Sonetti. Nonostante la produzione poetica, specie quella iniziale, sia contraddistinta da toni e strutture semplici, presto Góngora elabora il suo stile personale, che estende l’area semantica dei termini e ne reinventa i significati in un prezioso gioco di metafore. Il valore della lirica di Góngora non si esaurisce tuttavia nella perfezione formale, ma trova conferma nei temi che egli canta, tra cui, in particolare, l’intimo tormento della vita. In Góngora si intravede una vera e propria rifondazione della poesia, che rompe i legami con la tradizione classicista tardo-rinascimentale e pone alla sua base la trasformazione della visione del mondo attraverso la metafora, la ricerca di una raffinata elaborazione della lingua tramite il frequente ricorso a elementi mitologici e latineggianti e un sapiente uso delle parole e dei suoni per ottenere effetti ritmico-musicali prevalenti sul contenuto, che spesso rappresenta solo un filo conduttore di rilievo secondario. La poesia di Góngora, a lungo avversata nei secoli successivi, è stata rivalutata da alcuni importanti poeti simbolisti ed ermetici tra Ottocento e Novecento: da Paul Verlaine a Rubén Darío fino a Giuseppe Ungaretti, appassionato traduttore del poeta seicentesco.

T1 La clessidra

Luis de Góngora

Nella poesia barocca, non solo spagnola, ricorre spesso l’immagine dell’orologio e in particolare della clessidra (in spagnolo reloj de arena, cioè “orologio da polvere”). Il motivo è legato al sentimento tragico del trascorrere del tempo e della precarietà della vita, tema molto caro alla sensibilità degli autori barocchi. Schema metrico: nella traduzione italiana, madrigale in dieci versi liberi con rime abcddefggf. PISTE DI LETTURA • La personificazione del tempo • L’intreccio delle metafore • Una lirica che verte attorno a una sola domanda retorica

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Che vale, tempo tiranno, la ristretta prigione che di vetro ti costruimmo per tenerti in mano, se trattenerti è vano, e sempre di te è vuota, quando più pensi piena, la nostra vita, alla cui voce fuggi qual tempo veloce e sordo come nell’arena?

5

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da Poeti dell’età barocca, I, a cura di G. Spagnoletti, trad. it. di G. Bellini, Garzanti, Milano, 1973

L

inee di analisi testuale Un gioco formale ma non intellettualistico Il testo è un esempio eccellente del raffinato gioco formale di Góngora, che però non è mai freddo e intellettualistico, ma evoca forti emozioni e sentimenti. Nei versi domina la personificazione del tempo, che gli uomini tentano di ridurre a prigioniero della clessidra e che si rivela invece come il dio che tiranneggia la breve vita mortale. L’immagine della clessidra è al centro di una serie di opposizioni e metamorfosi: la prigione di vetro si tramuta in libertà, il vuoto in pieno e viceversa. Il tentativo della clessidra di imprigionare il tempo si rivela impossibile, e ciò è svelato dalla componente stessa dell’oggetto, la parola che chiude la poesia: l’arena, la sabbia che scorre inesorabile e sfuggente, segno della fugacità della vita. La sintassi in funzione poetica Nel trasmettere la sensazione di impotenza davanti a una trappola, una gabbia cui l’uomo non può sfuggire, gioca un ruolo importante la sintassi, tortuosa ed elaborata, che frantuma il senso del discorso – il quale consiste in una sola, lunga domanda retorica – in una serie di immagini strettamente intrecciate e molto difficili da districare, così come impossibile è la risposta a quella domanda inesorabile. I magistrali effetti formali di cui il testo è ricco sono, evidentemente, ancora più rilevanti nell’originale in lingua spagnola.

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi la lirica in non più di 5 righe. 2. Che cosa afferma Góngora a proposito del tempo? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quale figura retorica sorregge l’intera lirica? b. Quali sono le principali metafore presenti nel testo? Approfondimenti 4. Ritrova il tema della clessidra e del tempo che fugge in uno scritto letterario moderno e indica le somiglianze e le differenze nel modo in cui il tema vi è trattato, rispetto al testo di Góngora. 5. Alcuni poeti del Novecento – per esempio l’americano Ezra Pound – ritengono che una lirica ricca di intrecci fonici come quella barocca, se letta solo in una traduzione, perda gran parte della propria bellezza; ciò non si verificherebbe invece per i testi di autori appartenenti ad altre tendenze poetiche, che attribuiscono importanza fondamentale a temi e contenuti. Qual è il tuo motivato parere su tale affermazione?

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Quevedo e il concettismo spagnolo Uno sperimentatore di generi

Nella letteratura spagnola del Seicento, il massimo poeta concettista è Francisco Gomez da Quevedo y Villegas (1580-1645), più comunemente noto come Francisco de Quevedo, scrittore proteso a conciliare cultura religiosa ed etica politica; per questo egli dimostra, pur nella varietà dei temi, una serietà morale originata anche dal disaccordo coi tempi in cui vive – un’epoca di disfacimento per il suo Paese – e una nostalgia del passato che si risolve in tensione perenne, che lo spinge a sperimentare più generi letterari come canali espressivi del suo sentire. Della sua eclettica attività di scrittore si ricordano Politica di Dio e governo di Cristo (1626), Sogni e discorsi di verità scopritrici di abusi, vizi e inganni in tutte le professioni e stati (1627), il romanzo picaresco Il pitocco (1626) e, per quanto riguarda la produzione poetica, le due raccolte pubblicate postume Il Parnaso spagnolo, monte suddiviso in due vette, con le nove muse castigliane (1648) e Le tre muse ultime castigliane, seconda cima del Parnaso spagnolo (1670). L’enfatizzazione dei contrasti, il gioco delle antitesi, il tortuoso concettismo dello stile di Quevedo sono, prima che moduli espressivi, la forma in cui si manifesta un conflittuale modo di sentire la realtà, una tensione etica che diventa inquietudine stilistica.

T2 La clessidra

Francisco de Quevedo

Il componimento di Quevedo, che ha lo stesso titolo e lo stesso tema di quello precedentemente proposto di Góngora, si inserisce nel filone, notevole della poesia barocca, dominato dall’angosciosa meditazione sull’ineluttabile trascorrere del tempo. Schema metrico: nella traduzione italiana, testo in versi e rime liberi. PISTE DI LETTURA • L’ossessione della morte • L’intreccio delle figure retoriche e il concettismo • Tono cupo

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Che hai tu da contar, clessidra fastidiosa, in un soffio di vita sventurata che sì presto trascorre? In un cammino che è breve giornata e stretta da questo all’altro polo, giornata che non è che un passo solo? Poiché se son gli affanni e le pene comprender non potresti se capace vaso tu fossi delle arene dove l’eccelso mar trattiene il passo. Lascia passare l’ore senza udirle, contarle io non voglio né che tu mi annunci in questo modo i termini forzosi della morte. Non farmi ormai più guerra, lasciami e nome di pietosa acquista, che troppo è il tempo che m’avanza per dormir sotto terra. Ma se per caso questo è il tuo ufficio, di misurar la mia vita, presto riposerai, poiché le pene tremende che alimenta lacrimoso

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il cor preoccupato e dolente, la fiamma ardita che amore, me triste!, ardere fa nelle mie vene (meno di sangue che di fuoco piene), non solo affretta la mia morte, ma il cammino raccorcia: ché con piede dolente, misero pellegrino, giro intorno alla nera sepoltura. Ben so che sono alito fuggente; ormai io so, e temo e anche spero d’essere polvere, come te, se muoio; e che son vetro, come te, se vivo.

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da Poeti dell’età barocca, I, a cura di G. Spagnoletti, trad. di G. Bellini, Garzanti, Milano, 1973

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inee di analisi testuale Un tipico esempio di concettismo Il testo è un esempio del concettismo tipico di Quevedo, capace di collegare elementi distanti e perfino opposti per ottenere effetti sorprendenti. Il poeta procede per accumulazione e amplificazione: all’inizio del testo, il corso della vita (la breve giornata) viene paragonato al collo della clessidra che permette il passaggio della sabbia da un bulbo all’altro; poi viene sviluppata l’iperbolica ipotesi di una clessidra fantastica capace di contenere tutta la sabbia del mare, ma insufficiente a calcolare le sofferenze umane, e questa immagine viene accostata a quella di una vita rattristata e abbreviata dalle pene d’amore. L’abilità espressiva del poeta si gusta ancora di più nel testo originale spagnolo, in cui i concetti e le metafore si intrecciano con rime e allitterazioni, inevitabilmente perdute nella traduzione in lingua italiana. Il significato della clessidra La clessidra è uno strumento per misurare il tempo. Il tema del trascorrere del tempo ha grande successo nel Seicento, anche in seguito alla diffusione dei primi orologi meccanici. Qui, l’antica macchina materiale usata per misurare il tempo, che è immateriale, rivela all’uomo la brevità della sua vita, ma anche l’inutilità e la crudeltà della propria funzione. L’oggetto, attraverso i materiali che la costituiscono – il vetro trasparente, simbolo della vita, e la polvere, simbolo della dissoluzione del corpo nella morte – rende costantemente presente all’uomo la sua fragile ed effimera materialità. Rispetto al contenuto, con l’allusione alla morte che attende il pellegrino che si aggira intorno alla tomba, sembra quasi di essere tornati alle atmosfere tematiche prerinascimentali di Jacopone da Todi.

L

avoro sul testo

Comprensione del testo 1. Svolgi un riassunto della lirica in non più di 10 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Che cosa domanda Quevedo alla clessidra? b. Che cosa afferma il poeta a proposito del tempo? c. Quale evento la clessidra ricorda all’uomo e perché? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A che cosa è dovuto il successo del tema della clessidra nel Seicento? b. Che cosa simboleggiano il vetro e la sabbia della clessidra? c. Quali sono le personificazioni presenti nel testo? d. Quali metafore Quevedo costruisce intorno alla clessidra? Approfondimenti 4. Dopo aver riletto la poesia precedente di Góngora sullo stesso tema, tratta sinteticamente in non più di 20 righe il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: Il tema del tempo in Góngora e Quevedo.

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LA

La poesia metafisica

POESIA INGLESE

Anche se in Inghilterra nel Seicento si affermano grandi poeti estranei alla tendenza, come John Milton (1608-1674), la poesia britannica, dopo quella spagnola, è la più influenzata dalla sensibilità barocca, che si manifesta anche nei Sonetti di Shakespeare. Un gruppo di lirici inglesi del Seicento sono comunemente raggruppati sotto l’etichetta di poeti metafisici, coniata nello stesso XVII secolo dallo scrittore John Dryden. Tale definizione implica un richiamo al sottofondo filosofico di tale tendenza letteraria. Essa tuttavia non esclude la presenza di alcune caratteristiche stilistiche del Barocco continentale: arguzie, concettismo, ricorso frequente alle figure retoriche. Notevole è però la differenza: i rimatori inglesi sviluppano un’arte più semplice e comunicativa e ricorrono spesso a metafore tratte anche dalla vita quotidiana. Il principale esponente di questa corrente è John Donne (1573-1631), l’unico che, nella tendenza barocca, possa essere considerato, in ambito europeo, della stessa levatura dello spagnolo Góngora.

John Donne

Le novità della poesia di John Donne

Innovatore, ostile alle regole della tradizione letteraria, John Donne (15731631) rifiuta il ricorso alle immagini mitologiche e classiciste, tratta nuovi temi e, anche sul piano della prosodia, introduce strutture metriche e ritmi inediti. Marinaio, cortigiano, uomo politico, infine predicatore, Donne è caratterizzato da una vasta ed enciclopedica cultura e da una ricca e tormentata esperienza di vita, trascorsa in diversi ambienti sociali. La sua poesia, come quella di molti poeti barocchi del continente, oscilla fra pessimismo, sensualità e slanci mistici. I due filoni principali della lirica di Donne sono i versi d’amore, caratterizzati da passionale ardore, e i componimenti d’ispirazione mistica. La lirica d’amore, tema in lui ricorrente nella prima parte della vita e trattato in modo fortemente innovativo, verte intorno alla passione che non può raggiungere il suo compimento, come nel celebre componimento Addio, proibito piangere (magistralmente tradotto di recente dal poeta Giovanni Giudici), che verte sulla separazione fra l’autore e la sua donna. L’abilità di Donne consiste nella capacità di fondere la sua cultura e la sua straordinaria sensibilità. Nella seconda parte della vita, dopo la morte della moglie e di alcuni dei figli, Donne veste l’abito religioso: insieme alle prediche, compone poesie di carattere religioso, in primo luogo i Sonetti sacri, dove le figure retoriche tipiche del Barocco sono utilizzate più raramente. La concezione religiosa di Donne è dramma-

Focus

JOHN MILTON

Non sono riconducibili alla corrente metafisica né alla poesia barocca le opere di John Milton (1608-1674), personalità artistica straordinaria del Seicento inglese. Puritano, influenzato dalla poesia italiana, che legge in lingua originale, egli conosce profondamente Dante, Petrarca e Tasso. Dopo il 1638 viaggia per l’Europa, realizzando il suo antico desiderio di soggiornare in Italia, per completare la sua educazione artistica e intellettuale. Dal 1649 inizia a prendere parte attiva alla vita politica inglese, assumendo incarichi di rilievo nel governo repubblicano di Oliver Cromwell, del quale è convinto fautore. Dopo il 1660, affermatasi la restaurazione monarchica, Milton si ritira a vita privata e scrive i propri capolavori: il grande poema Il Paradiso perduto, edito nel 1667, cui fa seguito, quattro anni dopo, Il Paradiso riconquistato, che ha per tema la tentazione di Cristo da parte di Satana, di cui tratta il Vangelo secondo Luca. Il Paradiso perduto è un poema epico in dodici libri – scritto in blank verse, un decasillabo non rimato che deriva dall’endecasillabo sciolto italiano – che affronta temi metafisici, ispirandosi alla Bibbia. Vi si racconta della caduta degli angeli ribelli a Dio, capeggiati da Satana, e della nuova rivolta degli angeli maledetti, che si servono dell’uomo e della sua fragilità di fronte alle tentazioni, provocandone la cacciata dal Paradiso terrestre: la salvezza giungerà solo da Cristo. Ciò che più colpisce, nell’opera, è il personaggio di Satana: bello e maledetto, caratterizzato da un’ambiguità che mai sarà risolta dall’autore, l’angelo ribelle di Milton rappresenta, per molti aspetti, il prototipo degli eroi negativi che troveranno diffusione nella letteratura romantica e, più ancora, nel Decadentismo e in molte opere del XX secolo.

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Dai versi d’amore alla lirica religiosa

tica, e ciò deriva anche dall’esperienza biografica del poeta, vissuto prima in ambiente cattolico e successivamente anglicano. A volte sembra che la sua mente sia orientata a concepire un Cristianesimo al di sopra dei sanguinosi conflitti fra le Chiese, anche se il contrasto interiore del poeta non ne risulta pacificato. Soprattutto dopo la scomparsa della moglie, il tema della morte si afferma ampiamente nella lirica di Donne; gli strumenti stilistici barocchi, utilizzati con grande originalità, forniscono spunti ai suoi versi, come nell’esemplare sonetto in cui egli si rivolge alla morte, chiudendo il componimento con un forte ossimoro che pure non suona affatto artificioso: E non ci sarà più morte; morte, tu morirai.

T3 Sfascia il mio cuore

John Donne

In questo esemplare testo di poesia metafisica (un sonetto nell’originale inglese), il poeta si rivolge a Dio perché lo liberi dalla colpa, dalla soggezione al male e dal lacerante dissidio tra sensualità e purezza. Questa tensione ridefinisce l’amore in una dimensione mistica di ricerca della perfezione e della conoscenza. Schema metrico: nella traduzione italiana, testo in versi liberi, con rime fra i versi 5-6 e 8-9. PISTE DI LETTURA • Il senso del peccato originale • Il contrasto tra la carne e lo spirito • Un dialogo mistico

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Sfascia il mio cuore, Dio in tre persone1! Per ora tu solo bussi, aliti, risplendi e tenti di emendare. Ma perché io sorga e regga, tu rovesciami e tendi la tua forza a spezzarmi, ad esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo. Usurpata città, dovuta ad altri2, io mi provo a farti entrare, ma ahi! senza fortuna. La ragione, in me tuo viceré, mi dovrebbe difendere ma è prigioniera e si mostra molle o infida3. Pure teneramente io t’amo e vorrei essere riamato. Ma fui promesso al tuo nemico4. Divorziami, disciogli, spezza il nodo5, rapiscimi, imprigionami: se tu non m’incateni non sarò mai libero, casto mai se tu non mi violenti6. da Poesie amorose, poesie teologiche, a cura di C. Campo, Einaudi, Torino, 1971

1. Dio in tre persone: Dio Uno e Trino. 2. Usurpata città… altri: l’uomo è come una città che spetterebbe a Dio ma che è stata usurpata dal diavolo. 3. La ragione… infida: la ragione è lo strumento (viceré) con cui Dio domina e difende l’uomo, ma è detta prigioniera del diavolo, e lascia spazio ad un amore deviato dalla sua originaria dignità, come è ulteriormente chiarito nei versi seguenti. 4. Ma fui promesso… nemico: il peccato originale grava

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sull’uomo, che è ormai possesso del diavolo. 5. spezza il nodo: il “nodo” del peccato che era stato spezzato per la prima volta da Cristo sul Golgota. 6. mi violenti: l’inglese ravish significa sia “rapire in estasi” che “violentare”; il poeta invoca una totale alienazione di sé, l’annientamento della sua stessa persona in Dio, per compiere il suo destino di credente, pensiero che condivide con i grandi mistici del Seicento.

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inee di analisi testuale Fra concettismo e tensione metafisica Come Marino, anche Donne complica l’espressione delle emozioni e dei sentimenti inserendo nei versi dei filtri concettuali (figure di enfasi, metafore, sinestesie), ma ugualmente l’espressione emotiva domina in tutta la lirica. Nonostante la schermatura razionale, sullo sfondo della poesia di Donne si agita la contrapposizione tra due forti contenuti passionali: fede e bisogno di amore, cui corrispondono salvezza e peccato. Un dialogo mistico Il poeta prega Dio di non bussare gentilmente, ma di entrare con forza in lui, nel suo cuore, di stravolgerlo, spezzarlo con forza, farlo esplodere e rinnovarlo con il fuoco. Il linguaggio è violento, e rispecchia il senso di colpa dell’uomo che si riconosce macchiato irrimediabilmente dal male. La ragione che lo dovrebbe difendere è ritenuta debole, in quanto lascia spazio al dubbio e alla materialità. L’uomo è stato unito indissolubilmente al male attraverso il peccato d’origine e solo la divinità può liberarlo con una forza mistica che Donne esprime con una metafora in cui violenza ed estasi si intrecciano inscindibilmente.

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A chi si rivolge John Donne in questo componimento? b. Chi è il nemico al quale si riferisce? c. Che cosa pensa il poeta della ragione umana? Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono i tratti barocchi che si possono rilevare nella lirica di Donne? b. Quali sono gli aspetti per cui questo tipo di poesia è tipicamente metafisica? c. Quali figure retoriche si rilevano nel testo? Approfondimenti 3. La traduzione di una lirica come quella di Donne, in cui sono importanti sia i temi e le metafore, sia la struttura metrica e prosodica, presenta problemi particolari e, spesso, di difficile soluzione. Quali e perché, a tuo avviso? 4. Nel testo, l’autore dedica alcuni versi alla ragione. Chiarisci come essa viene presentata e metti in luce le principali differenze fra la concezione di Donne e quella prevalente in età umanistico-rinascimentale su questo tema.

LE DIVERSE TENDENZE DELLA POESIA DEL SEICENTO

GONGORISMO

POESIA METAFISICA

MARINISMO

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• concettismo • culteranesimo • senso del tempo che fugge • ossessione della morte • linguaggio metaforico ardito e complesso • riflessione filosofica • temi religiosi • misticismo • ossessione del peccato • linguaggio astratto e complesso • concettismo • temi legati alla vita quotidiana • uso ardito e esasperato della metafora • giochi di parole • linguaggio allitterativo e retorico

CAP. 3 - LA

POESIA EUROPEA DEL

SEICENTO

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Concetti chiave IL GONGORISMO IN SPAGNA Il Barocco è la tendenza principale di tutta la poesia europea del Seicento: dalla Spagna all’Inghilterra, dalla Francia alla Germania, dal Portogallo all’Italia. Una delle sue più alte espressioni è il Gongorismo (o culteranesimo) in Spagna, che si basa sul senso della precarietà della dimensione terrena e umana, l’ossessione della morte, la disperazione del vivere, la forte originalità nelle metafore e un lessico teso a suscitare sorpresa e meraviglia nel lettore. Fenomeno analogo e coevo al Marinismo, il Gongorismo ha come esponenti maggiori Luis de Góngora y Argote (1561-1627), che dà il nome al movimento, e Francisco de Quevedo (1580-1645), le cui tematiche sono più cupe e che è maestro nell’uso del concettismo (le agudezas). LA POESIA INGLESE Alla fine del XVI secolo si afferma in Inghilterra una corrente letteraria caratterizzata – in modo analogo al concettismo barocco – da uno stile ricco di antitesi e metafore, il

cui fine è, oltre a suscitare stupore nel lettore, anche di trattare ampiamente temi religiosi. Al suo interno la definizione di poeti metafisici si richiama appunto al sottofondo filosofico di tale tendenza, che pure non esclude la presenza delle caratteristiche stilistiche della poesia barocca europea, come arguzie, concettismo, abbondanza di figure retoriche. I principali autori inglesi di questi periodo sono John Donne (1572-1631), il più importante esponente della scuola metafisica, e John Milton (1608-1674), nelle cui opere sono invece riconoscibili differenti influenze, dalla tradizione classica alla poesia italiana e al pensiero cristiano. Il suo capolavoro è il poema Il Paradiso perduto (1667), che narra la caduta degli angeli ribelli capeggiati da Satana e la fragilità dell’uomo davanti alle tentazioni, fino alla sua cacciata dal Paradiso terrestre. Nel poema di Milton è usato il blank verse, fondamentale per la poesia inglese, un decasillabo non rimato che deriva dall’endecasillabo italiano.

Pieter Claesz, Natura morta con vanitas, 1630. L’Aja, Mauritshuis.

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CAP. 3 - LA

POESIA EUROPEA DEL

SEICENTO

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E

sercizi di sintesi

1 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Quali sono le caratteristiche principali del Gongorismo e perché si chiama così? 2. Quali sono i principali esponenti del Gongorismo e del concettismo in Spagna, quali le loro opere principali e per quali aspetti si differenziano fra loro? 3. Quali sono le più rilevanti caratteristiche che contraddistinguono la poesia di John Donne e di quale tendenza egli viene considerato principale esponente? 4. Chi è John Milton, quali sono le caratteristiche della sua poesia e come s’intitola e di che cosa tratta la famosa opera di cui è autore? 2 Indica con una x la risposta corretta. 1. Nel Seicento, nella maggioranza dell’Europa la poesia viene influenzata a. dalla corrente metafisica inglese. b. dal manierismo italiano. c. dalla poetica barocca. d. dal classicismo. 2. Per Gongorismo si intende a. una poesia che punta al contenuto sentimentale. b. il modo di fare poesia dei continuatori di Góngora. c. una poesia che abusa di onomatopee. d. la poesia che imita Góngora e i poeti classicisti.

b. la fiducia nella ragione umana. c. l’obiettivo principale di stupire il lettore. d. il rifiuto di trattare temi religiosi. 7. Il Paradiso perduto di John Milton tratta a. delle delusioni d’amore del poeta. b. delle allucinazioni del poeta. c. della caduta di Satana che induce Adamo al peccato originale. d. dei peccati di cui il poeta chiede perdono a Dio. 8. Nel Paradiso perduto Milton usa il blank verse, ossia a. endecasillabi rimati come nelle ottave italiane. b. endecasillabi rimati come nelle terzine dantesche. c. decasillabi non rimati. d. endecasillabi sciolti. 9. Nel sonetto di John Donne Sfascia il mio cuore il poeta si rivolge a. all’amata. b. alla morte imminente. c. a Dio. d. alla propria ragione.

3. Il tema centrale della lirica La clessidra di Góngora è a. il trascorrere tragico del tempo. b. la difficoltà di misurare il tempo. c. il rimpianto della giovinezza. d. il timore della morte violenta. 4. Nella poesia La clessidra di Quevedo a. si evoca la bellezza della vita. b. ci si lamenta perché il tempo passa lentamente. c. si evoca il terrore dell’inferno. d. si descrive il funzionamento dell’orologio a sabbia. 5. Le caratteristiche della poesia di John Donne sono a. l’emulazione dei poeti petrarchisti. b. il rifiuto di innovazioni sul piano metrico. c. il sottofondo filosofico e mistico. d. il sottofondo di ricerca dei classici. 6. John Donne condivide con Góngora a. alcune caratteristiche dello stile barocco.

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Pieter Claesz, Vanitas.

CAP. 3 - LA

POESIA EUROPEA DEL

SEICENTO

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CAPITOLO

4

Cervantes

e la nascita del romanzo moderno Jáuregui, Ritratto di Cervantes. Madrid, Istituto Valencia D. Juan.

LA

VITA E LE OPERE

Una vita da romanzo

Le disavventure della famiglia

LA

Nato ad Alcalá de Henares presso Madrid nel 1547, Miguel de Cervantes Saavedra – più noto come Cervantes – è il quarto di sette figli di un modesto cerusico (il medico chirurgo del tempo) spagnolo, forse di origine ebraica. Nel 1550, la famiglia del futuro scrittore si trasferisce a Valladolid, dove il padre viene imprigionato per debiti. Trasferitosi a Cordoba e a Siviglia, il giovane Miguel stu-

LINEA DEL TEMPO: LA VITA E LE OPERE

1547 Miguel de Cervantes nasce presso Madrid

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1569 È in Italia al servizio del cardinale Acquaviva

CAP. 4 - CERVANTES

1570 Intraprende la carriera militare

E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

1571 BATTAGLIA LEPANTO

DI

1575-1580 Catturato dai pirati, è venduto come schiavo

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Le vicende di una vita avventurosa e sfortunata

Don Chisciotte

Le opere degli ultimi anni

1585 Commissario per l’approvvigionamento dell’Invincibile Armata

dia presso i Gesuiti; la famiglia subisce un nuovo sequestro dei beni e una sorella viene sedotta da un avventuriero e abbandonata con un figlio. Dopo il ritorno a Madrid, nel 1566, compaiono i primi scritti dell’autore, componimenti poetici di carattere encomiastico. Nel 1569 il giovane Cervantes viene condannato al carcere e al taglio della mano destra perché coinvolto in un ferimento: fugge però in Italia, al servizio del futuro cardinale Giulio Acquaviva e entra in contatto con la cultura italiana della fine del Rinascimento. Pochi mesi dopo, nel 1570, si arruola e partecipa valorosamente alla battaglia di Lepanto che segna la vittoria della flotta cristiana contro i Turchi (1571), riportando ferite al petto e alla mano sinistra, che rimane storpiata in modo permanente. In questi anni, in cui è di guarnigione nella Napoli spagnola, ha modo di approfondire la conoscenza della letteratura italiana e, in particolare, dei poemi epico-cavallereschi rinascimentali. Nel 1575 si imbarca da Napoli per tornare in Spagna, ma la nave viene attaccata alle foci del Rodano da una flotta di pirati turchi. Imprigionato ad Algeri, dopo alcuni tentativi di fuga falliti, viene liberato cinque anni dopo, grazie al pagamento di un riscatto. Ritornato a Madrid, scrive alcune commedie, ma ben presto riprende la sua vita avventurosa e sfortunata. Cervantes si arruola infatti nell’esercito spagnolo di Filippo III, impegnato nella conquista del Portogallo, sperando di veder ricompensati i meriti maturati a Lepanto e durante la prigionia, ma resta deluso. Dopo aver avuto una figlia, si sposa, nel 1584, con Catalina de Salazar y Palacios. Costantemente alle prese con problemi economici, Cervantes tenta di dedicarsi agli affari a Siviglia. Fornitore di cereali e olio per la flotta reale, deve requisire nei villaggi i prodotti e, per non aver rispettato i privilegi delle parrocchie, nel 1587 viene colpito da scomunica; a causa del fallimento di un banchiere presso cui ha depositato il denaro delle riscossioni, nel 1597 è infine incarcerato: probabilmente in prigione inizia la stesura del suo capolavoro, il Don Chisciotte, pubblicato nel 1605, che ottiene insperatamente un immediato successo. In quello stesso anno, per un’oscura vicenda che porta all’uccisione di un cavaliere presso l’abitazione dei Cervantes, l’intera famiglia è incarcerata per sospetto omicidio. Il successo del romanzo non è tale da consentire di liberare l’autore dai guai e dagli stenti. Ma infine, nel 1609, a Madrid, grazie alla protezione del cardinale di Toledo, Bernardo de Sandoval y Rojas, e del conte di Lemos, può finalmente dedicarsi all’attività letteraria. Dopo i sessant’anni, Cervantes scrive numerose opere, fra cui le Novelle esemplari (1613), celebri anche per l’autoritratto dell’autore tracciato nel prologo, Otto commedie e otto intermezzi (1615) e soprattutto – dopo un tentativo di contraffazione della sua opera da parte di un imitatore – la seconda parte del Don Chisciotte. Nel 1616, pochi anni dopo che l’autore sembra aver raggiunto la tranquillità dedicandosi solo alla letteratura, l’avventurosa e tormentata vita di Miguel de Cervantes, ammalatosi di idropisia, si conclude a Madrid.

1588 L’INVINCIBILE ARMATA È SCONFITTA DALLA FLOTTA INGLESE

1598 FILIPPO III SUCCEDE AL PADRE FILIPPO II SUL TRONO SPAGNOLO

1604 TERMINA LA GUERRA TRA SPAGNA E INGHILTERRA

1605 1613 Pubblicazione Novelle esemplari della prima parte 1614 del Don Chisciotte Il viaggio nel Parnaso

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CAP. 4 - CERVANTES

1616 Muore a Madrid

1615 Pubblicazione della seconda parte del Don Chisciotte 1616 I travagli di Persile e Sigismonda

E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

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Focus

LA NARRATIVA PICARESCA E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

Con l’apparizione in Spagna del Lazarillo de Tormes, pubblicato anonimo nel 1554, si è soliti indicare una delle tappe fondamentali per la nascita del romanzo moderno, a causa della distanza che lo separa dai romanzi cavallereschi nella materia, nella struttura, nei personaggi e nella scelta della prosa. In esso è raccontata la vita di un picaro, uno scaltro furfante proveniente dagli strati più bassi della società, costretto a vivere di espedienti, di furbizie e inganni, in continuo viaggio nel tentativo di trovare buoni padroni o comunque di sfuggire alla fame. Il Lazarillo presenta alcune importanti novità per la storia futura del romanzo: innanzi tutto vi è il piacere di narrare una storia per il piacere di narrare, senza preoccupazioni moralistiche, religiose o erudite. Non vi si rappresenta alcun eroe virtuoso: Lazarillo è un miserabile il cui principale obiettivo è quello di sopravvivere in una realtà ostile, fatta di miserie sociali e di disgregazione dell’ordine morale e civile. Tutto questo viene raccontato in prima persona, dal basso, con gli occhi di chi questa società la subisce e la osserva con serietà, perché quello è lo spazio entro il quale egli è costretto a muoversi, senza idealità, moralità o risentimenti. Ma nel Lazarillo c’è un altro aspetto che avrà grandi ripercussioni nella narrativa successiva ed è l’ambiguo rapporto di verità e finzione sul quale è costruito il racconto. Alla sua apparizione il testo si presenta non come un romanzo, opera di invenzione, ma come una lettera realmente scritta da un picaro a un signore destinatario dell’opera: i luoghi, la concretezza dei particolari, la caratterizzazione del personaggio, i riferimenti alla contemporaneità sono elementi che sembrano confermare la veridicità del documento. Dall’altra parte abbiamo, invece, la finzione che si rivela nella struttura a episodi e nella lucida strategia narrativa. Il Lazarillo de Tormes inaugura il genere picaresco, basato di solito sul racconto in prima persona della vita di un vagabondo solitario e senza radici, che con inganni e frodi cerca, attraverso varie vicende più o meno fortunate, un impiego o comunque una fuga dall’emarginazione: in sostanza la narrativa picaresca riprende la tradizione dei cavalieri erranti e la trasferisce nella poco eroica quotidianità contemporanea. La composizione narrativa è, per usare la definizione di Viktor Sˇklovskij, per schidionata, cioè organizzata in una serie di episodi e racconti disposti uno dopo l’altro lungo un’esile trama principale. Si tratta insomma di una struttura “aperta”, passibile cioè di infinite aggiunte e complicazioni. La narrativa picaresca si afferma con la Vida del pícaro Guzmán de Alfarache (1599) di Mateo Alemán (1547-1614), che diventerà il modello riconosciuto del genere. È la storia di un furfante che dopo aver cercato in infiniti viaggi per città e paesi di cambiare vita e aver tentato mille mestieri, dal soldato al ruffiano, dal servitore al sacerdote, finisce imprigionato nelle galere spagnole. L’Historia de la vida del Buscón, llamado Don Pablos, exemplo de vagabundos y espejo de tacaños (“Storia della vita del pitocco chiamato Pablo, esempio di vagabondi e specchio d’imbroglioni”) di Francisco de Quevedo, uscita nel 1626, è l’altro grande romanzo picaresco spagnolo. In esso si racconta la formazione di Pablo, che impara ad essere picaro come risposta alle tante beffe, umiliazioni e ostilità ricevute dalla società in quanto figlio di un ladro e di una fattucchiera; ora malvivente, ora mendicante, galeotto, comico itinerante e altro ancora, vagabonda per la Spagna vivendo una serie di avventure da emarginato, fino alla decisione di imbarcarsi per le Americhe in cerca di una vita migliore. Il genere avrà molto successo non solo in Spagna (dove influenza direttamente il Don Chisciotte di Cervantes), ma anche nella narrativa europea: troviamo infatti importanti esempi di racconto picaresco in Germania e in Francia, ad esempio con la Histoire de Gil Blas de Santillana (“Storia di Gil Blas di Santillana”, 17151735) di Alain-René Lesage, mentre in Italia Il cane di Diogene (1689) di Francesco Fulvio Frugoni presenta indubbie suggestioni picaresche. Questa narrativa ha in ogni caso il merito di individuare con anticipo alcuni elementi base sui quali sarà costruito il romanzo moderno: l’analisi dei personaggi, la loro descrizione realistica, la rappresentazione vivace della realtà sociale.

Frontespizio de La vita di Lazarillo de Tormes, capostipite dei romanzi picareschi.

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CAP. 4 - CERVANTES

E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

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IL DON CHISCIOTTE Fra letteratura picaresca e cavalleresca

L’intento dell’opera

Capolavoro della letteratura mondiale, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha (“L’ingegnoso cavaliere don Chisciotte della Mancha”), si ispira alla letteratura picaresca spagnola, che narra avventure di poveri vagabondi, ma soprattutto a quella dei poemi cavallereschi rinascimentali. Il romanzo, quasi interamente scritto in prosa, viene pubblicato in due parti: 52 capitoli nel 1605 e 74 capitoli nel 1615. La prima parte – come pure la seconda – è preceduta da un Prologo nel quale il narratore si rivolge all’ozioso lettore (in spagnolo: desocupado lector) e gli narra come un amico lo abbia convinto a dare alle stampe l’opera, benché priva di molte tipiche caratteristiche dei poemi cavallereschi, affinché chi è malinconico rida, chi è allegro rida più che mai, l’ignorante non si annoi, la persona seria non la disprezzi e il saggio non manchi di lodarla.

La trama Un hidalgo impazzito che si crede cavaliere

Lo scudiero Sancio Panza

Gli episodi più celebri

Il Prologo e la seconda parte

Tra folli imprese e beffe

Protagonista dell’opera è Alonso Chisciana (Quijada o Quesada), un povero gentiluomo (hidalgo) di campagna che vive nell’arida regione della Mancha. Egli tanto si appassiona alla lettura dei romanzi cavallereschi che finisce per credere di essere un cavaliere. Risfodera allora le armi degli antenati, battezza Ronzinante un vecchio cavallo, assume l’altisonante nome di don Chisciotte della Mancha, sceglie come propria dama Dulcinea del Toboso (in realtà la contadina Aldonza Lorenzo) e parte per la sua avventura. Pensando anzitutto a ricevere l’investitura di cavaliere, si ferma in un’osteria di campagna, che scambia per un castello, e chiede all’oste di armarlo cavaliere. Ripreso il cammino, dopo una serie di avventure nelle quali a sogni e illusioni si contrappone la dura realtà, l’hidalgo impazzito che si crede cavaliere viene bastonato da un gruppo di mercanti ai quali pretende di far lodare la bellezza di Dulcinea. Don Chisciotte viene infine riportato al suo villaggio, pesto e sanguinante, da un compaesano. Il curato e il barbiere, per salvarlo dalla follia, bruciano i suoi romanzi cavallereschi: ma l’hidalgo, appena guarito, si procura uno scudiero nella persona del contadino Sancio Panza, lo mette a cavallo di un asino e con lui riparte per nuove imprese. Le disavventure della coppia sono innumerevoli: Sancio – che pure comprende la realtà – è inseparabile dal folle hidalgo, sia perché dal Chisciotte gli verrà promessa la carica di governatore di un’isola, sia perché dimostra di essersi affezionato al padrone. Nelle pagine più celebri del romanzo il delirante cavaliere e Sancio Panza lottano contro i mulini a vento, trasfigurati in malvagi giganti; attaccano una diligenza per liberare una principessa; si scontrano con dei mulattieri da cui vengono sonoramente bastonati; sono ancora una volta malmenati quando don Chisciotte confonde due greggi con degli eserciti e quando, dopo aver preso, scambiandolo per un elmo, il bacile di un barbiere, si lancia alla liberazione di un gruppo di galeotti, che crede vittime ingiustamente oppresse. Infine il curato, il barbiere e Sancio lo convincono che ha subìto un incantesimo malvagio e lo riconducono a casa, dove la governante e la nipote lo mettono a letto, maledicendo i libri cavallereschi pieni di scempiaggini. Anche la seconda parte dell’opera – pubblicata anni dopo – inizia con un Prologo, in cui Cervantes polemizza contro l’autore di una contraffazione apparsa nell’anno precedente. Il Prologo contiene anche un’orgogliosa difesa delle ferite riportate dall’autore in battaglia, che erano state derise dall’anonimo falsario. Riprende poi la narrazione. Al paese di don Chisciotte arriva il baccelliere Sansone Carrasco che, entusiasta della lettura delle avventure dell’hidalgo appena stampate, gli propone di recarsi con Sancio alla giostra di Saragozza. In realtà Carrasco ha intenzione di travestirsi da Cavaliere del Bosco e di sfidarlo, sconfiggerlo e guarirlo così dalla pazzia. Tuttavia inaspettatamente don Chisciotte vince il duello e decide di proseguire il suo viaggio, dirigendosi a Barcellona. Strada facendo, cavaliere e scudiero incontrano una duchessa che li ospita nella sua casa, facendoli diventare oggetto di elaborate burle, fra cui è celebre la nomina di Sancio a governatore dell’isola di Baratteria, in realtà un paese dei dintorni.

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CAP. 4 - CERVANTES

E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

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La guarigione e la morte del protagonista

Conclusa la serie delle avventure, don Chisciotte è di nuovo affrontato e sconfitto in duello dal baccelliere Carrasco, travestito da Cavaliere della Bianca Luna e, secondo i patti della sfida, deve ritornare al paese. Qui, dopo un periodo di malinconia, l’hidalgo rinsavisce all’improvviso e, ripudiate tutte le storie mondane della cavalleria errante, dopo aver fatto testamento, muore cristianamente, circondato dagli amici.

La modernità dell’ultimo eroe cavalleresco

Il contrasto tra ideale e realtà

P

arole chiave

L’universalità del personaggio

Benché lo scrittore spagnolo dichiari in più occasioni che il suo scopo è quello di “combattere” la letteratura cavalleresca, non pochi considerano don Chisciotte l’ultimo cavaliere e il suo creatore, Cervantes – come dimostra la sua vita –, un vero cultore degli ideali cavallereschi, anche se consapevole che la cavalleria è ormai, nel suo tempo, un sogno irrealizzabile e folle. Per questo l’autore fa infine soccombere l’ideale, incarnato da don Chisciotte, di fronte alla realtà. L’opera è tragicomica, ossia sospesa fra registro umoristico e drammatico, e il suo protagonista si staglia come figura eroica, in un’accezione che nulla ha a che vedere con gli antichi cavalieri, perché essa incarna il contrasto eterno e universale che oppone ideali e sogni alla realtà brutale e prosaica. La follia di don Chisciotte nasce, più che dalla malattia, dal rifiuto di rinunciare agli ideali del mondo cavalleresco e alle proprie illusioni e dalla disperata volontà di non adeguarsi a una realtà che non riconosce. Il personaggio dell’hidalgo acquista, inoltre, uno spessore straordinario dal contrappunto con la figura di Sancio Panza, che rappresenta la concretezza e il disinganno del buon senso. La modernità di don Chisciotte, come di ogni protagonista di tutti i capolavori della letteratura, dipende dal suo essere un personaggio universale, espressione sofferta della complessità e della fragilità della natura umana – per il suo continuo oscillare tra ragione e follia, tra umorismo e tragicità, tra desiderio e sconfitta, tra verità ed errore –, ma anche dell’ambiguità della vita e della relatività del cono-

ROMANZO Il termine romanzo deriva dall’antico francese romanz, che significa “scritto in lingua volgare”. Già Dante usa il termine nel significato più ristretto di opera narrativa in prosa volgare, quando in Purgatorio, XXVI, 118 – versi d’amore e prose di romanzi – lo distingue, nell’ambito della nuova letteratura volgare, dal genere lirico. In epoca ellenistica si era sviluppata una ricca narrativa in prosa, spesso basata, come ne Gli amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista (II-III secolo d.C.), su lunghe e intricate vicende che avevano come protagonisti due giovani innamorati. Anche alcuni scrittori latini avevano ripreso lo stesso genere, accentuandone gli aspetti realistici: basta pensare al Satyricon di Petronio Arbitro (I secolo d.C.) e alle Metamorfosi di Apuleio (II secolo d.C.). Ma è soltanto nella Francia del XII e XIII secolo che iniziano a svilupparsi quei cicli narrativi in lingua d’oïl, dapprima in versi e subito dopo in prosa, che verranno chiamati appunto romanzi. In Italia i primi testi narrativi in prosa sono scritti da Boccaccio, autore del Filocolo, che riprende il modello del romanzo ellenistico, e dell’Elegia di Madonna Fiammetta. Ma questi esperimenti restano isolati e non vengono ripetuti in epoca umanistica e rinascimentale; mentre fra Quattrocento e Cinquecento conosce grande fortuna il genere novellistico, la narrativa a lungo respiro si afferma soprattutto nelle opere in versi del genere cavalleresco, dall’Orlando innamorato all’Orlando furioso. Non è un caso che, nel Cinquecento, con il termine romanzo si intenda appunto il poema di tipo boiardesco o ariostesco. Restano delle eccezioni opere come l’Hypnerotomachia Poliphili o come l’Arcadia di Sannazaro (che peraltro non è un romanzo vero e proprio ma un prosimetro). Una svolta decisiva, a livello europeo, si ha con il Don Chisciotte: l’opera segna la nascita del romanzo moderno europeo, che presto si staccherà definitivamente dalla matrice avventurosa e cavalleresca per volgersi, soprattutto nei romanzi inglesi settecenteschi di Fielding o di Defoe, alla rappresentazione puntuale e realistica della società contemporanea (cfr. pagg. 253-254 e 263-266), ma anche, in Francia, alla discussione e divulgazione, con Diderot o Voltaire, delle nuove idee illuministiche (cfr. pag. 254 e segg.), o ad altri generi di narrazione romanzesca. In Italia il romanzo conosce una discreta fortuna nel Seicento e nel Settecento, rifacendosi sia alla tradizione cavalleresca sia al modello avventuroso ellenistico; ma perché inizi ad affermarsi davvero come il genere centrale e dominante di tutta la letteratura bisogna aspettare la decisiva innovazione del romanzo manzoniano.

100 CAP. 4 - CERVANTES E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

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Il diverso tono emotivo

Ultima opera cavalleresca e primo romanzo moderno

scere. Segno di questa modernità è il fatto che, radicandosi nell’immaginario collettivo, espressioni come “essere un don Chisciotte” o “lottare contro i mulini a vento” sono entrate in uso in molte lingue europee. Esiste poi una significativa diversità di tono emotivo fra le due parti del Don Chisciotte, scritte a dieci anni di distanza l’una dall’altra. Nella prima parte del romanzo predomina la follia del protagonista in forma di illusione e allucinazione: un gregge di pecore diventa un esercito, due frati che precedono una carrozza sono scambiati per rapitori e, viceversa, i gaglioffi per gentiluomini o vittime; vi prevale, dunque, l’elemento comico. Nella seconda parte, i personaggi che incontrano don Chisciotte lo conoscono, perché hanno letto le sue avventure, e spesso deliberatamente ordiscono beffe ai danni suoi e di Sancio; il tono tende perciò a diventare amaro, a coinvolgere il lettore nella delusione del protagonista. Nel finale, a conclusione di questo mutamento di prospettiva, gli accenti sono spesso commossi e a volte il tono risulta drammatico. L’importanza del Don Chisciotte è straordinaria: l’opera chiude il secolare ciclo della narrazione cavalleresca e inaugura – per le caratteristiche dei personaggi, i temi trattati, la struttura narrativa, la scelta a favore della prosa, ma anche per il nuovo rapporto fra narratore e vicenda narrata e, infine, per lo stile – una nuova era nella storia della letteratura: quella del romanzo moderno, destinata a dominare ancora ai nostri giorni nella narrativa.

IL DON CHISCIOTTE

COMPOSIZIONE

GENERE

La prima parte del romanzo è pubblicata nel 1605; la seconda esce nel 1615, dopo che l’anno precedente era stato dato alle stampe un testo apocrifo ad opera di un tale Avellaneda.

Primo romanzo moderno.

STRUTTURA

• Il primo libro consta di 52 capitoli, il secondo di 74. • L’azione si articola in tre salidas (“uscite”) dal paese, a cui don Chisciotte fa sempre ritorno. • Nella vicenda principale, condotta in ordine cronologico, si innestano episodi secondari, non necessariamente collegati alla storia dominante, secondo uno schema a schidionata.

ARGOMENTO

Appassionato lettore di romanzi cavallereschi, un gentiluomo della piccola nobiltà spagnola si convince di essere un cavaliere errante, illudendosi di poter far rivivere gli alti ideali cavallereschi e andando incontro a una serie di disavventure.

PERSONAGGI PRINCIPALI

Don Chisciotte, illuso e idealista, e il suo scudiero Sancio Panza, espressione del buon senso contadino e della razionalità.

VISIONE DEL MONDO

Ai molteplici piani narrativi e alle antitetiche visioni della vita di don Chisciotte e di Sancio Panza corrispondono la perdita della verità assoluta e la moltiplicazione degli aspetti della realtà.

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CAP. 4 - CERVANTES

E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

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T1 Origini, nascita e battesimo dell’eroe da Don Chisciotte, I, 1 Il romanzo ha inizio con la presentazione di don Chisciotte, di cui sono descritti la condizione sociale, l’aspetto fisico, i costumi, il carattere e l’origine della follia. Segue la vestizione del cavaliere, dove la serietà e la puntualità del richiamo al modello letterario si fondono con l’intento parodistico e con la comicità, esemplificata dagli oggetti che fungono da armatura. PISTE DI LETTURA • Il ritratto letterario • La follia di Alonso rinomina se stesso e il mondo • Tono ironico e parodistico

Il ritratto fisico e sociopsicologico del protagonista

Le amate letture cavalleresche di Alonso

In un paese della Mancia, di cui non voglio fare il nome1, viveva or non è molto uno di quei cavalieri che tengono la lancia nella rastrelliera, un vecchio scudo, un ossuto ronzino2 e il levriero da caccia. Tre quarti della sua rendita se ne andavano in un piatto piú di vacca che di castrato3, carne fredda per cena quasi ogni sera, uova e prosciutto il sabato, lenticchie il venerdí e qualche piccioncino di rinforzo alla domenica. A quello che restava davano fondo il tabarro di pettinato4 e i calzoni di velluto per i dí di festa, con soprascarpe dello stesso velluto, mentre negli altri giorni della settimana provvedeva al suo decoro con lana grezza della migliore. Aveva in casa una governante che passava i quarant’anni e una nipote che non arrivava ai venti, piú un garzone per lavorare i campi e far la spesa, che gli sellava il ronzino e maneggiava il potatoio5. L’età del nostro cavaliere sfiorava i cinquant’anni; era di corporatura vigorosa, secco, col viso asciutto, amante d’alzarsi presto il mattino e appassionato alla caccia. Ritengono che il suo cognome fosse Quijada o Quesada, e in ciò discordano un poco gli autori che trattano questa vicenda; ma per congetture abbastanza verosimili si può supporre che si chiamasse Quijana6. Ma questo, poco importa al nostro racconto: l’essenziale è che la sua narrazione non si scosti di un punto dalla verità. Bisogna dunque sapere che il detto gentiluomo, nei momenti che stava senza far nulla (che erano i piú dell’anno), si dedicava a leggere i libri di cavalleria con tanta passione, con tanto gusto, che arrivò quasi a trascurare l’esercizio della caccia, nonché l’amministrazione della sua proprietà; e arrivò a tanto quella sua folle mania che vendette diverse staia di terra da semina per comprare romanzi cavallereschi da leggere, e in tal modo se ne portò in casa quanti piú riuscí a procurarsene, e fra tutti, non ce n’erano altri che gli piacessero quanto quelli composti dal famoso Feliciano de Silva7, poiché il nitore della sua prosa e quei suoi ingarbugliati ragionamenti gli parevano una delizia, specie quando arrivava a leggere quelle dichiarazioni amorose o quelle lettere di sfida, dove in certi punti trovava scritto: “La ragione dell’irragionevole torto che alla mia ragio-

1. In un… nome: la prima parte della frase (In un paese della Mancia) è un ottonario tratto da un romance (un componimento epico-lirico di origine popolare) intitolato El amante apaleado (“L’amante bastonato”); la seconda parte (di cui non voglio fare il nome) è tratta invece da un racconto popolare spagnolo. Al di là di queste allusioni, sono da segnalare la vaghezza dell’informazione e l’ambientazione in luoghi esotici immaginari, favolosi, come nei romanzi cavallereschi, ma con un tono meno solenne. 2. la lancia… ronzino: lancia, scudo e cavallo sono i segni di riconoscimento sociale dell’hidalgo. 3. castrato: montone.

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4. tabarro di pettinato: mantello di lana. 5. potatoio: strumento tagliente per potare. 6. Ritengono… Quijana: la mancanza di precisione sul vero nome di don Chisciotte si mantiene fino alla fine del romanzo, quando, in punto di morte, il protagonista afferma di essere Alonso Quijano, a cui i suoi costumi meritarono il nome di Buono (su questo aspetto ha scritto pagine importanti Leo Spitzer); l’espressione gli autori che trattano questa vicenda, per cui cfr. righe 14-15, richiama ironicamente le disquisizioni erudite degli storici. 7. Feliciano de Silva: scrittore spagnolo, noto principalmente come autore dell’Amadis de Grecia, seguito dell’Amadís de Gaula di García Rodríguez de Montalvo (1508).

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L’effetto dei romanzi cavallereschi sulla sua psiche

Gli eroi preferiti

L’idea di diventare cavaliere

ne vien fatto, mortifica in tal modo la mia ragione che con ragione mi dolgo della vostra bellezza”. O quando leggeva: “...gli alti cieli che nella vostra divinità divinamente con le stelle vi fortificano e vi fanno meritare il merito che merita la grandezza vostra”8. Con questi ragionamenti il povero cavaliere perdeva il giudizio, e stava sveglio la notte per capirli e cavarne fuori un senso, dove non avrebbe saputo cavarlo e capirci nulla nemmeno Aristotele in persona, se fosse risuscitato apposta. Non lo persuadevano molto le ferite che Belianigi9 dava e riceveva considerando che per quanto lo avessero curato grandi chirurghi non poteva fare a meno di avere il viso e tutto quanto il corpo intieramente coperto di cicatrici e di ricordi. Ma con tutto ciò ne lodava l’autore, perché chiudeva il libro promettendo il seguito di quell’interminabile avventura, e molte volte gli venne il desiderio di prendere la penna e scriver lui la fine, prendendo alla lettera l’invito dell’autore; e certamente lo avrebbe fatto e vi sarebbe riuscito, se altri pensieri piú importanti e piú assidui non gliel’avessero impedito. Piú volte si trovò a discutere con il curato del paese (che era un uomo colto, laureato a Siguenza10) su chi era stato il miglior cavaliere: se Palmerino d’Inghilterra o Amadigi di Gaula; ma maestro Nicola, barbiere della medesima località, diceva che non c’era nessuno che arrivasse al Cavaliere di Febo, e che se qualcuno gli si poteva paragonare era Galaor11, fratello di Amadigi di Gaula, perché aveva eccellenti virtú in ogni cosa; non era un cavaliere svenevole, né lacrimoso come suo fratello, e in quanto a valore non restava indietro. Insomma, tanto s’immerse nelle sue letture, che passava le nottate a leggere da un crepuscolo all’altro, e le giornate dalla prima all’ultima luce; e cosí, dal poco dormire e il molto leggere gli s’inaridí il cervello in maniera che perdette il giudizio. La fantasia gli si empí di tutto quello che leggeva nei libri, sia incantamenti che di contese, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste ed altre impossibili assurdità; e gli si ficcò in testa a tal punto che tutta quella macchina d’immaginarie invenzioni che leggeva, fossero verità, che per lui non c’era al mondo altra storia piú certa. Egli diceva che, sì, il Cid Ruiz Díaz era stato un ottimo cavaliere, ma non aveva niente a che spartire con il Cavaliere dall’Ardente Spada12, che con un solo rovescio aveva spaccato a mezzo due feroci e immani giganti. Aveva piú simpatia per Bernardo del Carpio13, perché in Roncisvalle aveva ucciso Orlando il fatato, valendosi dell’astuzia di Ercole che strozzò fra le braccia il figlio della Terra, Anteo. Diceva molto bene del gigante Morgante14, perché, pur appartenendo a quella genia di giganti, che son tutti scostumati e superbi lui invece era affabile e educato. Ma fra tutti, prediligeva Rinaldo di Montalbano15, specie quando lo vedeva uscire dal suo castello e depredare tutti quelli che incontrava, o quando in terra d’oltremare rubò quell’idolo di Maometto, tutto d’oro massiccio, a quel che dice la sua storia. Per poter dare a quel traditore di Gano di Maganza16 una bella scarica di calci, avrebbe dato la governante che aveva, e magari per giunta la nipote. Cosí, con il cervello ormai frastornato, finí col venirgli la piú stravagante idea che abbia avuto mai pazzo al mondo, e cioè che per accrescere il proprio nome, e servire la patria, gli parve conveniente e necessario farsi cavaliere errante, e andarsene per il mondo con le sue armi e cavallo, a cercare e a cimentar-

8. “La ragione… vostra”: parodiando lo stile ricercato e vuoto di Feliciano, Cervantes vuole colpire la moda letteraria della Spagna dell’epoca. 9. Belianigi: protagonista di un romanzo cavalleresco spagnolo. 10. Siguenza: città spagnola situata tra Saragozza e Madrid. La sua università non godeva di grande stima ed era spesso oggetto di ironia per il basso livello di preparazione che la stessa assicurava. 11. Palmerino… Galaor: Palmerino d’Inghilterra, Amadigi di Gaula, Cavaliere di Febo e Galaor sono eroi di romanzi cavallereschi presenti nella biblioteca di don Chisciotte. 12. Cid… Spada: il Cid è un personaggio storico (morto

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nel 1099), eroe della reconquista spagnola, protagonista del poema Cantare de mio Cid e dei romanzi del Romancero del Cid; il Cavaliere dall’Ardente Spada è invece personaggio inventato, presente nell’Amadis de Grecia di Feliciano de Silva. 13. Bernardo del Carpio: nemico e uccisore di Orlando. 14. Morgante: il gigante protagonista dell’omonimo poema di Luigi Pulci (cfr. vol. I, pagg. 546-554). 15. Rinaldo di Montalbano: cugino di Orlando, è uno dei personaggi dell’Orlando innamorato di Boiardo, che narra l’episodio qui descritto. 16. Gano di Maganza: personaggio dell’epopea carolingia, il cui tradimento provoca la morte di Orlando a Roncisvalle.

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La preparazione delle armi

Il cavallo Ronzinante

La scelta del nome da cavaliere

La ricerca della dama cui dedicare le imprese

si in tutto ciò che aveva letto che i cavalieri erranti si cimentavano, disfacendo ogni specie di torti e esponendosi a situazioni e pericoli da cui, superatili, potesse acquistare onore e fama eterna. Si vedeva già, il poveretto, incoronato, dal valore del suo braccio, almeno almeno dell’impero di Trebisonda, e cosí, con queste affascinanti prospettive, spinto dallo strano piacere che vi provava, si affrettò a porre in atto le sue aspirazioni. E la prima cosa che fece fu ripulire certe armi che erano state dei suoi bisavoli, che, prese dalla ruggine e coperte di muffa, stavano da lunghi secoli accantonate e dimenticate in un angolo. Le ripulí e le rassettò come meglio poté, ma s’accorse che avevano un grave inconveniente, e cioè che invece di una celata a incastro, non c’era che un semplice morione17; ma vi trovò un rimedio la sua abilità, perché fece una specie di mezza celata di cartone, che incastrata nel morione, dava un aspetto di celata intera. Vero è che per vedere se era forte e se poteva correr l’alea18 d’un colpo di spada, egli prese la sua e le assestò due fendenti, e già col primo e in un solo istante rovinò tutto il lavoro d’una settimana. Naturalmente, la facilità con cui l’aveva fatta a pezzi non mancò di produrgli una cattiva impressione, e per prevenire questo pericolo tornò a rifarla, mettendoci stavolta dei sostegni di ferro dalla parte interna; cosí rimase soddisfatto della sua resistenza e, senza voler fare altra prova, la giudicò e la ritenne una finissima celata a incastro. Andò poi a guardare il suo ronzino, e benché avesse piú crepature agli zoccoli e piú acciacchi del cavallo del Gonnella19, che tantum pellis et ossa fuit20, gli parve che non gli si potesse comparare neanche il Bucefalo di Alessandro o il Babieca del Cid. Passò quattro giorni ad almanaccare che nome dovesse dargli; perché (come egli diceva a se stesso) non era giusto che il cavallo d’un cavaliere cosí illustre, ed esso stesso cosí dotato di intrinseco valore, non avesse un nome famoso; perciò, ne cercava uno che lasciasse intendere ciò che era stato prima di appartenere a un cavaliere errante, e quello che era adesso; ed era logico, del resto, che mutando di condizione il padrone, mutasse il nome anche lui, e ne acquistasse uno famoso e sonante, piú consono al nuovo ordine e al nuovo esercizio che ormai professava; cosí, dopo infiniti nomi che formò, cancellò e tolse, aggiunse, disfece e tornò a rifare nella sua mente e nella sua immaginazione, finí col chiamarlo Ronzinante, nome, a parer suo, alto, sonoro e significativo di ciò che era stato ante, quando era ronzino, e quello che era ora, primo ed innante a ogni altro ronzino al mondo. Avendo messo il nome, con tanta soddisfazione, al suo cavallo, volle ora trovarsene uno per sé, e in questo pensiero passò altri otto giorni, finché si risolse a chiamarsi don Chisciotte; dal che, come s’è detto, gli scrittori di questa autentica storia dedussero che doveva certamente chiamarsi Quijada, e non già Quesada, come piacque ad altri sostenere. Ma ricordandosi che il valoroso Amadigi non s’era accontentato di chiamarsi Amadigi e basta, e aveva aggiunto il nome del suo regno e della sua patria, per renderla famosa, cosí, da buon cavaliere, volle egli aggiungere al suo il nome della sua patria e chiamarsi don Chisciotte della Mancia, e cosí a parer suo egli veniva a dichiarare apertamente il suo lignaggio21 e la sua patria, e la onorava, assumendone il soprannome. Ripulite dunque le armi, fatta del morione una celata, battezzato il ronzino e data a se stesso la cresima, si convinse che non gli mancava ormai nient’altro se non cercare una dama di cui innamorarsi: perché un cavaliere errante senza amore è come un albero senza né foglie né frutti o come un corpo senz’anima. Egli diceva fra sé: “Se io, per dannazione dei miei peccati, o per mia buona ventura, andando in giro m’imbatto in qualche gigante, come di solito accade ai cavalieri erranti, e lo atterro al primo incontro, o lo fendo in due, o infine lo vinco e lo costringo ad arrendersi, non sarà bene che abbia a chi ordinargli di presentarsi, e che entri e s’inginocchi dinanzi alla mia dolce signora, e dica con voce umile e sottomessa: – Io sono, signora, il gigante Caraculiambro, signore del-

17. morione: l’elmo che copre tutta la testa; la celata invece è la parte dell’elmo che protegge gli occhi. 18. alea: rischio, sorte. 19. Gonnella: il buffone della corte di Ferrara, ricordato

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più volte da Sacchetti nelle sue novelle. 20. tantum… fuit: “fu soltanto pelle ed ossa”; citazione da un epigramma di Teofilo Folengo. 21. lignaggio: stirpe.

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l’isola Malindrania22, che è stato vinto a singolar tenzone dal mai abbastanza lodato cavaliere don Chiscíotte della Mancia, il quale mi ha ordinato di presentar- 130 mi davanti alla grazia vostra, perché la vostra grandezza disponga di me a suo talento?”. Oh, come si rallegrò il nostro buon cavaliere quand’ebbe fatto questo discorso, e piú ancora quand’ebbe trovato il nome di sua dama! Ed è che, a quanto si crede, in un paesetto vicino al suo c’era una giovane contadina di aspetto avvenente di cui un tempo egli era stato innamorato, benché, a quanto 135 è dato di credere, essa non ne seppe mai nulla e non se ne accorse nemmeno. Una contadina Si chiamava Aldonza Lorenzo: ed è a costei che gli parve bene dare il titolo di diventa signora dei suoi pensieri; e cercandole un nome che non disdicesse molto dal principessa suo, e che s’incamminasse a esser quello di una principessa e gran dama, la chiamò Dulcinea del Toboso, perché era nativa del Toboso23: nome che gli par- 140 ve musicale, prezioso e significativo, come tutti gli altri che aveva imposto a se stesso e alle proprie cose. da Don Chisciotte della Mancia, trad. di V. Bodini, Einaudi, Torino, 1956

22. Caraculiambro… Malindrania: nomi burleschi di invenzione.

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23. Toboso: paese situato nel centro di quell’immensa pianura arida e brulla denominata La Mancia.

inee di analisi testuale Il ritratto dell’eroe Nel primo capitolo Cervantes traccia il ritratto del suo eroe – che, per molti aspetti, è un antieroe – esponente di quella piccola nobiltà decaduta che, nella Spagna di fine Cinquecento, è ormai lontana dai tempi gloriosi di Carlo V ed è costretta a fare i conti con l’ingombrante passato e le magre risorse del presente. Il capitolo anticipa molti dei motivi centrali dell’opera. La lunga carrellata dei libri cavallereschi letti febbrilmente dall’hidalgo rivela la disposizione che i critici definiscono “metanarrativa” del romanzo, cioè la propensione dell’autore a inserirvi riflessioni sulla letteratura e sulle proprie dinamiche compositive, in un gioco fatto dal continuo sovrapporsi di finzione e realtà (aspetto, questo, che sarà centrale nella letteratura del Novecento). Il tema della follia Il conflitto tra letteratura e vita, tra realtà e illusione è strettamente connesso con il tema della follia: una follia attiva, che spinge l’eroe all’azione allucinata, anticipata dalla necessità di battezzare se stesso e il mondo, di dare il nome alle cose per modificare la realtà e ricondurla all’epoca dei cavalieri e delle dame. In questa operazione emerge il tono ironico come caratteristica principale della narrazione, rivelata anche nei più piccoli particolari: il nome dato a Ronzinante, ad esempio, non si collega alle etimologie illustri fornite dal narratore, perché il suffisso letterario -ante tenta invano di nobilitare un misero ronzino. Il procedimento parodistico, ossia di ripresa derisoria, dei poemi cavallereschi è dichiarato fin dalle prime battute.

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Comprensione 1. Rileggi il brano e dividilo in sequenze, individuando in particolare le diverse fasi della descrizione del personaggio. 2. Riassumi il brano in non più di 15 righe. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono le cause della follia di don Chisciotte suggerite dal narratore? b. Quali elementi del mondo cavalleresco e della società spagnola del tempo sono oggetto di parodia? Approfondimenti 4. Cerca di ricordare come venivano presentati gli eroi del ciclo carolingio e del ciclo bretone e metti in luce le principali differenze e somiglianze con la presentazione che Cervantes fa di don Chisciotte. 5. Svolgi una intervista immaginaria, opportunamente intitolata, a Miguel de Cervantes, a proposito delle caratteristiche che l’autore attribuisce al personaggio di don Chisciotte (max 2 colonne di metà foglio protocollo).

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T2 Il duello con i mulini a vento da Don Chisciotte, I, 8 Una delle pagine più note e significative della prima parte del Don Chisciotte è quella che racconta la lotta contro i mulini a vento. Nel brano emerge la follia visionaria del protagonista che si cimenta in avventure e combattimenti contro creature immaginarie generate dalla sua fantasia. PISTE DI LETTURA • Il mito cavalleresco del gigante • Don Chisciotte emblema della follia e Sancio del senso di realtà • Tono eroicomico

Don Chisciotte delira, Sancio scorge la realtà

L’eroe attacca i mulini a vento

Il cavaliere è travolto da una pala

A questo punto scoprirono trenta o quaranta mulini a vento che si trovano in quella campagna, e non appena don Chisciotte li vide, disse al suo scudiero: – La fortuna va incamminando le nostre cose assai meglio di quanto potremmo desiderarlo, perché guarda lí, amico Sancio Panza, che ci si mostrano trenta e piú smisurati giganti, con i quali ho intenzione di azzuffarmi e di ucciderli tutti, cosí con le loro spoglie cominceremo ad arricchirci, che questa è buona guerra1, ed è fare un servizio a Dio togliere questa mala semenza dalla faccia della terra. – Che giganti? – disse Sancio Panza. – Quelli che vedi là – rispose il suo padrone – dalle smisurate braccia; e ce n’è alcuni che arrivano ad averle lunghe due leghe. – Badi la signoria vostra – osservò Sancio – che quelli che si vedono là non son giganti ma mulini a vento, e ciò che in essi paiono le braccia, son le pale che girate dal vento fanno andare la pietra del mulino. – Si vede bene – disse don Chisciotte – che non te n’intendi d’avventure2; quelli sono giganti; e se hai paura, levati di qua, e mettiti a pregare, mentre io entrerò con essi in aspra e disugual tenzone. E cosí dicendo, diede di sprone al suo cavallo Ronzinante, senza far caso a ciò che gli gridava Sancio Panza, per avvertirlo che erano certamente mulini a vento, e non giganti, quelli che andava a attaccare. Ma lui era talmente convinto che erano giganti che né sentiva le grida del suo scudiero Sancio, né s’accorgeva, nemmeno ora che era arrivato vicino, di ciò che erano; anzi gridava a gran voce: – Non scappate, codarde e vili creature, che è un cavaliere solo che vi attacca. A questo punto soffiò un po’ di vento e le grandi pale cominciarono a muoversi, e don Chisciotte disse, vedendo ciò: – Quand’anche muoviate piú braccia del gigante Briareo3, me la pagherete. Così dicendo, e raccomandandosi ardentemente alla sua signora Dulcinea per chiederle che lo soccorresse in quel frangente, ben coperto dalla rotella4, con la lancia in resta, spinse Ronzinante a gran galoppo e investí il primo mulino che si trovò davanti; e avendo dato un gran colpo di lancia alla pala, il vento la fece ruotare con tal furia che fece in pezzi la lancia, trascinandosi dietro cavallo e cavaliere, che rotolò tramortito per terra. Accorse ad aiutarlo Sancio Panza, con tutta la velocità del suo asino, e quando arrivò lo trovò che non era neanche in grado di muoversi: tale era il colpo che Ronzinante gli aveva dato.

1. buona guerra: secondo il codice cavalleresco, sono lecite solo le guerre contro i prevaricatori, gli infedeli e le creature demoniache. 2. Si vede bene… d’avventure: don Chisciotte considera semplice viltà il realismo del suo scudiero; l’arroganza e il paternalismo con cui l’hidalgo apostrofa Sancio Panza ri-

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flettono le tensioni tra la piccola nobiltà e i contadini al tempo di Cervantes. 3. Briareo: il terribile gigante figlio di Urano e della Terra, con cento braccia, cinquanta teste e altrettante bocche che sputano fuoco. 4. rotella: piccolo scudo circolare.

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Lo sconfitto accusa un mago

Don Chisciotte vuole usare un ramo come spada

Un cavaliere non si lamenta per il dolore...

…e non ha mai fame (ma lo scudiero sì)

– Per l’amor di Dio! – disse Sancio –. Non gliel’avevo detto io che stesse bene attento a quel che faceva, che quelli erano mulini a vento, e solamente chi ce li avesse avuti in testa poteva non accorgersene? – Taci, caro Sancio – rispose don Chisciotte –; poiché le cose della guerra sopra tutte le altre sono soggette a continua vicenda5; tanto piú che io credo, ed è e sarà certamente cosí, che quel mago Frestone che mi ha rubato la stanza e i libri6, ha convertito anche questi giganti in mulini, per togliermi la gloria di vincerli: tale è l’inimicizia che mi tiene; ma alla resa dei conti, poco varranno le sue male arti contro la bontà della mia spada. – Ci pensi il Signore, che tutto può – rispose Sancio Panza. E lo aiutò ad alzarsi. Così egli risalì su Ronzinante, che s’era mezzo spallato7. E discorrendo della passata avventura, continuarono in direzione del Passo Lápice, perché lí don Chisciotte diceva che non potevano mancare molte e diverse avventure, dato che era un posto di molto transito, ma che una sola preoccupazione aveva, ed è che gli era venuta a mancare la lancia; e parlandone col suo scudiero, gli disse: – Io mi rammento d’aver letto che un cavaliere spagnolo, di nome Diego Pérez de Vargas, essendoglisi spezzata la spada nel corso d’una battaglia, strappò da una quercia un grosso ramo o un tronco, e con esso compí tali cose in quella giornata, e accoppò tanti Mori, che gli rimase il soprannome di Accoppa, e da allora in poi i suoi discendenti si chiamarono Vargas-Accoppa8. Ti dico ciò, perché dalla prima quercia o rovere che mi capita intendo anch’io strappare un tronco tale, e cosí forte, come suppongo dovesse esser quello; e voglio fare con esso tali imprese che dovrai reputarti fortunato di aver meritato di vederle e di esser testimone di cose che difficilmente potranno esser credute. – Tutto sta nelle mani di Dio – disse Sancio; io credo a tutto ciò che la signoria vostra dice; ma si raddrizzi un poco, perché sembra che penda tutto d’un lato: dev’essere per il colpo della caduta. – È cosí infatti – rispose don Chisciotte; e se non mi lamento per il dolore è perché non è dato ai cavalieri erranti di lamentarsi per ferita alcuna, quand’anche gli escano fuori le budella. – Se le cose stanno cosí, non ho nulla da eccepire – disse Sancio; Dio solo sa se io non sarei contento che la signoria vostra si lamentasse, se qualcosa le duole. Per conto mio, le assicuro che mi lagnerò al più piccolo dolore che mi capiterà di provare, a meno che codesta proibizione di lamentarsi non si estenda anche agli scudieri dei cavalieri erranti. Non poté non ridere don Chisciotte per l’ingenuità del suo scudiero; lo rassicurò quindi che poteva benissimo lamentarsi quando e come gli pareva, se ne aveva voglia e anche se non ce l’aveva, perché fino a quel momento non aveva letto nulla in contrario negli ordinamenti cavallereschi. Sancio gli ricordò che era ora di mangiare. Ma il suo padrone gli rispose che mangiasse pure quando gli pareva, che lui per il momento non ne aveva bisogno. Con questo permesso, Sancio si sistemò come meglio poté sul giumento e, tirato fuori dalle bisacce quanto vi aveva messo, camminava e mangiava dietro il suo padrone, con molta lentezza, e di tanto in tanto alzava in aria l’otre, con tanto piacere, che l’avrebbe guardato con invidia il piú raffinato taverniere di Malaga. E intanto che in tal modo reiterava sorsate, non pensava piú a nessuna delle promesse che il padrone gli aveva fatto9, e non gli pareva per nulla una fatica, ma un sollievo grandissimo, andare in cerca d’avventure per pericolose che fossero. Trascorsero la nottata fra gli alberi, da uno dei quali don Chisciotte strappò un ramo secco che poteva far l’uso di lancia, e vi applicò la punta di ferro che tolse a quella che gli si era rotta. Per tutta quella notte don Chisciotte non dormí,

5. continua vicenda: continui cambiamenti. 6. mago… libri: don Chisciotte ritiene che la scomparsa dei libri dalla sua biblioteca (in realtà fatti bruciare dal curato e dal barbiere) sia colpa di un tale mago Frestone. 7. spallato: esausto, sfinito.

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8. Vargas-Accoppa: Vargas è personaggio di un romance sull’assedio di Jerez (1250), del quale don Chisciotte si proprone di emulare le gesta, sostituendo la lancia perduta con un robusto ramo. 9. promesse… fatto: di essere nominato governatore di un’isola.

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Un cavaliere non dorme e pensa alla sua dama

Solo i cavalieri possono salvare un cavaliere

pensando alla sua signora Dulcinea, per conformarsi a quanto aveva letto nei suoi libri, dei cavalieri che passavano senza dormire notti e notti in foreste e in deserte località, in compagnia del ricordo della loro dama. Non la passò cosí Sancio Panza, che avendo la pancia piena, e non proprio d’acqua di cicoria, fece tutto un sonno, e se non l’avesse chiamato il suo padrone, non sarebbero valsi a destarlo i raggi del sole che gli battevano in faccia, né il canto degli uccelli, che in gran numero e allegria salutavano l’entrata del nuovo giorno. Nell’alzarsi, tastò l’otre e lo trovò un po’ piú floscio della sera avanti; gli si strinse il cuore, perché gli sembrava che l’itinerario che seguivano non era adatto a colmare abbastanza presto quel vuoto. Don Chisciotte non volle mangiar nulla perché, come s’è detto, preferiva nutrirsi di memorie. Si rimisero sulla via di Passo Lápice, e verso le tre del pomeriggio lo avvistarono. – Qui, fratello Sancio Panza – disse don Chisciotte a quella vista –, potremo tuffar le mani fino ai gomiti in ciò che si chiama avventura. Ma bada, che quand’anche tu mi vedessi nei piú grandi pericoli del mondo, non devi metter mano alla spada per difendermi, a meno che tu non veda che quelli che mi offendono son canaglia e gente bassa, perché in questo caso puoi portarmi aiuto; ma se si tratta di cavalieri, non ti è lecito né concesso aiutarmi nella maniera più assoluta, finché non sarai armato cavaliere. – Stia pur certo – rispose Sancio – che in questo sarà molto ben obbedito; tanto piú che per conto mio sono pacifico e contrario a mettermi in mezzo a liti e a risse; ma è altrettanto vero che se si tratterà di difendere la mia persona, non farò molto caso di codeste leggi, poiché tanto quelle divine che quelle umane consentono che ciascuno si difenda da chi voglia fargli offesa. – Non dico di no – disse don Chisciotte; ma in quanto a prestarmi aiuto contro dei cavalieri, dovrai tenere a freno i tuoi impulsi naturali. – Le assicuro che lo farò – disse Sancio – e che osserverò questo precetto come il giorno della domenica.

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da Don Chisciotte della Mancia, trad. di V. Bodini, Einaudi, Torino, 1956

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inee di analisi testuale Il modello del gigante malvagio I profili di trenta o quaranta mulini a vento vengono trasformati dal cavaliere delirante in enormi giganti: queste spaventose creature sono una presenza assai ricorrente nei romances cavallereschi fin dal Medioevo, da Morholt sconfitto da Tristano fino al grande gigante signore della rocca di Galtares sconfitto da Galaor, fratello di Amadigi. Nella esaltata fantasia di don Chisciotte essi sono figure abituali, familiari. Il duello con i mulini e quello con Sancio Don Chisciotte lotta su due livelli: al duello delirante del cavaliere con i mulini si affianca quello verbale con Sancio Panza – espressione del senso della realtà – che inutilmente cerca di fargli prendere coscienza dell’illusione. I due protagonisti hanno caratteristiche opposte: don Chisciotte è preda dello stravolgimento tipico dell’allucinazione, che sovrappone immagini soggettive e oniriche alla realtà; Sancio è invece preoccupato per l’incolumità propria e del suo padrone, del quale non comprende lo stato alterato. La presenza della voce narrante La voce narrante è esterna, il punto di vista del narratore si aggiunge così a quello dei due personaggi e lo commenta. Il punto di vista è sviluppato abilmente su tre diversi piani (narratore esterno, don Chisciotte, Sancio) e questa tecnica è uno dei molti pregi della narrazione di Cervantes.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano in non più di 20 righe. 2. Descrivi i caratteri della follia di don Chisciotte. Analisi e interpretazione 3. Indica qual è il genere letterario cui appartiene il brano e da quali caratteristiche lo si riconosce; precisa poi le particolarità che distinguono il testo di Cervantes rispetto ad altri del genere. 4. Definisci le caratteristiche della voce narrante e analizza la prospettiva da cui si pone nel presentare i fatti. 5. Individua alcune fra le più rilevanti figure retoriche presenti nel testo, presentane le caratteristiche e ipotizza le ragioni del loro uso. Approfondimenti 6. Facendo riferimento a versioni cinematografiche o rifacimenti del Don Chisciotte di Cervantes a te noti, stendi una relazione sugli episodi che ricordi maggiormente e, collegandoli con quello che hai letto sui mulini a vento, ricostruisci la personalità del protagonista. 7. Svolgi una ricerca iconografica sulle varie rappresentazioni che dell’episodio dei mulini a vento sono state date nei secoli dagli artisti (ad esempio William Hogarth, Gustave Doré, Honoré Daumier, Pablo Picasso, Salvador Dalí, Edward Hopper, Manolo Valdés, Julio Gonzales), cercando di valutare le diversità di interpretazione che da esse emergono.

T3 Un bacile scambiato per elmo da Don Chisciotte, I, 21 Uno dei motivi centrali del Don Chisciotte è la critica al romanzo cavalleresco. Una considerevole distanza separa del resto i testi della tradizione cavalleresca dalla concezione che Cervantes ha della scrittura come mezzo per indagare ed interpretare la realtà. La follia di don Chisciotte e tutta la sua vicenda sono caratterizzate da una continua parodia dei codici cavallereschi, dei personaggi e delle storie lette sui libri del genere. L’assalto al barbiere che si protegge dalla pioggia con una catinella ne è un esilarante esempio. PISTE DI LETTURA • La realtà e la sua distorsione fantastica • Una rivisitazione dei miti e dei personaggi dei libri cavallereschi • La parodia della cavalleria

Intanto cominciò a piovigginare, e Sancio avrebbe voluto che si rifugiassero nel mulino delle gualchiere1; ma don Chisciotte, dopo quello scherzo increscioso, lo aveva preso cosí in odio che non volle assolutamente mettervi piede, e cosí torcendo a mano destra trovarono un’altra strada come quella che avevano fatto il giorno prima. Di lí a un poco don Chisciotte scoprí un uomo a cavallo che 5 portava in capo una cosa che scintillava come se fosse d’oro, e appena lo vide si voltò a Sancio e gli disse:

1. gualchiere: macchine ad acqua, con magli che battono le stoffe per liberarle dalle impurità. Don Chisciotte e San-

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cio, nell’episodio precedente, sono stati nottetempo messi in allarme dal rumore regolare delle gualchiere.

CAP. 4 - CERVANTES

E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

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Don Chisciotte crede di vedere un cavaliere con l’elmo

Sancio lo avvisa che è un uomo su un asino

La realtà: un barbiere ha una bacinella in testa

Don Chisciotte lo attacca, lancia in resta

– Mi pare, Sancio, che non c’è proverbio che non dica il vero, perché son tutte sentenze2 ricavate dall’esperienza, madre di tutte le scienze; e in particolar modo quello che dice: “Non si serra mai una porta, che non se ne apra un’altra”3. Dico questo perché, se stanotte la fortuna ci ha chiuso la porta dell’avventura che cercavamo, traendoci in inganno con dei magli, ora ce ne spalanca un’altra per altra e piú certa avventura, e se io non dovessi riuscire ad entrarvi, mia sarà tutta la colpa, né potrò piú attribuirla alla poca pratica che ho di magli, o all’oscurità della notte. E dico questo perché, se non erro, c’è uno che avanza verso di noi e ha in capo l’elmo di Mambrino4, per cui io feci il giuramento che sai. – Badi bene la signoria vostra a quello che dice, ma badi soprattutto a quello che fa – disse Sancio; non vorrei che fossero altri martelli, e finissero di martellarci e pestarci l’anima5. – Che il diavolo ti porti! – replicò don Chisciotte –. Che c’entrano ora i martelli con l’elmo? – Io non so nulla – rispose Sancio –, ma in fede mia, se potessi parlar tanto quanto solevo, potrei forse addurre ragioni tali, che la signoria vostra si renderebbe conto che in ciò che dice si sbaglia. – Come posso sbagliarmi in ciò che dico, maledetto pignolo6! – disse don Chisciotte. – Dimmi, non lo vedi tu quel cavaliere che avanza verso di noi, su un cavallo grigio pomellato7, e porta in testa un elmo d’oro? – Quello che io vedo e distinguo – rispose Sancio – non è che un uomo su di un asino, grigio come il mio, che porta sulla testa una cosa che luccica. – Ebbene, quello è l’elmo di Mambrino – disse don Chisciotte –. Ora fatti da parte e lasciami con lui da solo a solo; e senza neanche dire una parola, per far piú presto, vedrai che compirò quest’avventura e l’elmo che ho tanto agognato resterà a me. – A farmi da parte ci penso io – replicò Sancio; ma voglia il cielo (ripeto) che siano erbe odorose anziché magli. – Vi ho già detto, fratello, di non piú nominarmi, neanche di sfuggita, la faccenda dei magli – disse don Chisciotte; o giuro... e non dico altro, che vi maglio la testa. Tacque Sancio, per paura che il padrone mantenesse la solenne promessa che gli aveva fatto. Il fatto è che l’elmo, e il cavallo, e il cavaliere che don Chisciotte vedeva, consistevano in questo: che in quei paraggi vi erano due borghi, uno dei quali era cosí piccolo che non aveva neanche una farmacia e un barbiere, mentre l’altro, che ne distava poco, li aveva; e il barbiere del piú grande serviva il piú piccolo, nel quale un malato s’era trovato ad aver bisogno di un salasso8, e un altro, di farsi la barba, e perciò vi si recava il barbiere e portava una bacinella9 di ottone; e volle il caso che, mentre vi stava andando, s’era messo a piovere e lui, perché non gli si sciupasse il cappello, che era nuovo, si mise sulla testa la bacinella; questa era lucida, e si vedeva luccicare da mezza lega. Andava su un asino grigio, come aveva detto Sancio, e questa era la realtà di ciò che a don Chisciotte era parso cavallo grigio pomellato, cavaliere e elmo d’oro; poiché tutte le cose che vedeva, con grandissima facilità le adattava alla sua stravagante cavalleria e ai suoi aberranti pensieri. Come vide che il meschino cavaliere si avvicinava, senza venire con lui a spiegazioni, lanciò a gran galoppo Ronzinante e gli puntò la lancia in resta, con l’intenzione di attraversarlo da parte a par-

2. sentenze: motti, proverbi. 3. “Non si serra… un’altra”: quando un’opportunità svanisce, un’altra si offre subito in alternativa. 4. Mambrino: cavaliere che don Chisciotte ha conosciuto nel corso delle sue letture e di cui si è riproposto di conquistare l’elmo. 5. finissero… anima: batterci e confonderci. Sancio vuol dire al padrone che la vista dell’elmo è soltanto una visione da cui è ingannato, così come le gualchiere li hanno ingannati e confusi la notte precedente.

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6. pignolo: don Chisciotte scambia per pedanteria il realismo di Sancio. 7. pomellato: col manto pezzato. 8. salasso: il salasso è un’antica pratica medica che consiste nel sottrarre all’organismo una certa quantità di sangue. 9. perciò… bacinella: i barbieri, al tempo di Cervantes, compiono anche le operazioni chirurgiche di minore importanza, fra cui il salasso; la bacinella, dunque, serve al barbiere sia per fare la barba ai clienti sia per raccogliere il sangue dei salassati.

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Sancio raccoglie il bacile e lo porge al padrone

Come l’elmo si sarebbe trasformato in catino

te; ma quando stava per arrivargli sopra, senza rallentare la furia della corsa, gli disse: – Difenditi, vile creatura, o concedimi di tua volontà ciò che a buon diritto mi si deve. Il barbiere, vedendosi venire addosso quel fantasma che era cosí lontano dall’aspettarsi e dal temere, altro non poté fare per salvarsi dal colpo della lancia, che lasciarsi cadere giú dall’asino; e non aveva toccato terra, che si rialzò piú leggero di un daino e cominciò a correre per quella pianura che non l’avrebbe raggiunto neanche il vento. Lasciò al suolo il bacile, di che don Chisciotte fu pago, dicendo che il pagano10 era stato furbo e aveva imitato il castoro, il quale vedendosi incalzato dai cacciatori si dilacera e taglia coi denti ciò per cui esso, per istinto naturale, sa che lo perseguitano11. Ordinò a Sancio di prender da terra l’elmo, e quegli presolo in mano, disse: – Per Dio, è un buonissimo bacile, e vale un reale da otto o anche un maravedí12. E lo consegnò al suo padrone, che subito se lo mise in testa, girandoselo e rigirandoselo da ogni parte in cerca della visiera, e poiché non la trovava disse: – Sicuramente il pagano sulla cui misura fu forgiata in origine questa famosa celata13, doveva avere una grossissima testa; e quel che è peggio, è che gliene manca mezza. Quando Sancio sentí chiamare celata il bacile, non poté trattenere il riso; ma gli tornò in mente la collera del padrone, e a metà della risata si tacque. – Di che ridi, Sancio? – disse don Chisciotte. – Rido – rispose lui – pensando alla grossa testa che aveva il pagano padrone di quest’elmetto, che somiglia a una bacinella di barbiere, tale e quale. – Sai cosa penso, Sancio? Che quest’oggetto famoso, qual è quest’elmo incantato, per qualche strano accidente dev’essere andato a finire nelle mani di qualcuno che non seppe né riconoscere né stimarne il valore, e senza sapere ciò che faceva, vedendolo di oro purissimo, dovette fonderne una metà per far denaro, e dell’altra metà fece questa che pare una bacinella da barbiere, come tu dici14. Ma sia quel che sia, per me che lo conosco, la sua trasmutazione non mi tocca, perché nel primo paese dove ci sia un fabbro io lo riaccomoderò e in tal modo che non soltanto non lo superi, ma che non possa stargli a confronto l’elmo che il dio delle fucine fece e forgiò per il dio delle battaglie15. E nel frattempo cercherò di portarlo come potrò, perché è sempre meglio poco che niente; e in ultima analisi, mi potrà almeno servire a difendermi da qualche sassata.

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da Don Chisciotte della Mancia, trad. di V. Bodini, Einaudi, Torino, 1956

10. pagano: in senso dispregiativo, accomuna l’idea dell’infedele a quella di un individuo spregevole. 11. ciò per cui... perseguitano: la coda. 12. un reale... un maravedí: reali e maravedí sono monete. 13. celata: l’elmo privo della cresta (o cimiero). 14. Sai cosa penso Sancio?... come tu dici: don Chisciotte trova giustificazioni improbabili per confermare il proprio punto di vista; dapprima motiva le grosse dimensioni del presunto elmo con le dimensioni del capo del proprietario originario, poi ipotizza che qualcuno abbia fuso metà dell’elmo originario, forgiando l’altra metà come bacile da barbiere. 15. il dio... delle battaglie: Vulcano e Marte.

Honoré Daumier, Don Chisciotte a cavallo. Monaco, Neue Pinakothek.

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inee di analisi testuale Il punto di vista di Sancio Come nel brano precedente, il lettore è di fronte a due prospettive che sdoppiano il dato reale. Ma il punto di vista di Sancio rispecchia molto di più quello della voce narrante e i suoi ragionamenti sono gli stessi che il lettore vorrebbe rivolgere a don Chisciotte. Le riflessioni dello scudiero non mancano di equilibrio, di pazienza, di saggezza e di una certa dose di umorismo che derivano dall’esperienza. La follia secondo Cervantes Questo episodio consente di analizzare più approfonditamente come Cervantes intende e descrive la follia del suo protagonista. Agli occhi di don Chisciotte il mondo non scompare, non viene sostituito da un mondo diverso, ma viene rivissuto secondo schemi interpretativi – il codice cavalleresco – che pur non corrispondendo al tempo e allo spazio reali hanno una loro coerenza interna. Il cervello di don Chisciotte non distorce la realtà a tal punto da non essere riconosciuta: la distanza tra l’interpretazione allucinata del cavaliere e la realtà dei fatti (condivisa con Sancio) è colmata dalle ipotesi indimostrabili di don Chisciotte: come un mago ha tramutato i giganti in mulini a vento, un incapace ha venduto metà dell’elmo di Mambrino e forgiato l’altra metà a forma di bacinella.

Gustave Doré, Don Chisciotte a cavallo attende il mattino, 1863.

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avoro sul testo

Comprensione del testo 1. Riassumi il brano in non più di 20 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Dove avrebbe voluto entrare Sancio e perché? b. Chi è l’uomo a cavallo che sopraggiunge? c. Quale oggetto viene scambiato per un altro e per quale motivo? d. Perché ad un certo punto don Chisciotte chiede allo scudiero Di che ridi, Sancio? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Nel brano interviene la voce narrante dell’autore: dove e con quale funzione? b. Chi rappresenta il buon senso e chi fa le spese della follia di don Chisciotte? c. Qual è il tono prevalente nel testo? Approfondimenti 4. Mambrino compare sia nell’Orlando innamorato di Boiardo sia nell’Orlando furioso di Ariosto. Rintraccia in entrambi i poemi i passi relativi a questo personaggio e poni a confronto le sue caratteristiche con quelle del Mambrino del Don Chisciotte. Scrivi sull’argomento una relazione (max 30 righe). 5. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: La follia di don Chisciotte secondo Cervantes.

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

La Spagna di fine Cinquecento e il Don Chisciotte Francesco Guazzelli Il critico Francesco Guazzelli nel passo qui proposto affronta il problema del rapporto tra il capolavoro di Cervantes e la situazione spagnola del tempo, mettendo in luce come il romanzo rifletta i cambiamenti sociali e politici avvenuti nel Paese iberico, sia nelle vicende narrate sia nei comportamenti, nel modo di vita e nella psicologia dei personaggi. A partire dalla metà del Cinquecento la Spagna conosce un radicale cambiamento a livello demografico-sociale. Mentre nelle città si afferma una nuova classe borghese, la popolazione rurale abbandona progressivamente le campagne. Ne scaturisce, da un lato, un forte flusso migratorio verso le città (inurbamento) e, dall’altro, il fenomeno del vagabondaggio da cui si origina un nuovo tipo di avventurieri (picari). Il romanzo di Cervantes riflette i mutamenti sociali del suo tempo. Nel confronto tra don Chisciotte e Sancio rivive il rapporto contrastato e teso tra i piccoli proprietari terrieri e la manodopera agricola superstite, costretti ad una maggiore frequentazione a causa dello spopolamento delle campagne e ad un più diretto interessamento degli hidalgos nella cura delle proprie terre. Al tempo stesso, nel Don Chisciotte si specchia la vita di espedienti e furfanterie dei picari. Cervantes non prende mai le parti di una classe sociale o dell’altra né esprime giudizi morali sulla vita dei picari. Si limita a descrivere un mondo in mutazione, facendo del suo capolavoro un esempio emblematico di romanzo sociale. [...] Un altro aspetto che il libro mette a fuoco, delle condizioni della Spagna barocca, è quello del vagabondaggio come scelta di vita. Gli storici sono tutti concordi nel disegnarci una nazione che, oltre al fenomeno del pauperismo urbano, è flagellata, specialmente in Castiglia, dalle scorrerie di un esercito di avventurieri in cerca di fortuna. Se il romanzo picaresco trae spunto, in massima parte, proprio da questa realtà, il Quijote non la trascura. [...] Il rapido esame dell’ambiente su cui si innesta la vicenda di don Chisciotte e Sancio, non implica la recezione del romanzo dietro il discriminante sociale. Il Don Quijote non è un lavoro a tesi e, semmai ve ne fosse una fra le tante che sono state prospettate, difficilmente sarebbe dato riscontrarla nella socialità dell’opera. La denuncia, quando compare, è vaga e qualunquistica, mentre l’immagine dei tipi e delle situazioni solo al moderno lettore può apparire di condanna o di critica. da Il “Quijote”, in C. Samonà, G. Mancini, F. Guazzelli, A. Martinengo, La letteratura spagnola. I secoli d’oro, RCS Libri, Milano, 1996

Alessandro Magnasco, Don Chisciotte, 1719-1725. Detroit, Institute of Arts.

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E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

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Concetti chiave LA VITA E LE OPERE Miguel de Cervantes nasce nel 1547 presso Madrid in una modesta famiglia. Completata la propria formazione presso i Gesuiti, inizia una vita avventurosa, tormentata e perseguitata dalla malasorte. Per sfuggire alla giustizia, si mette dapprima al servizio del cardinale Acquaviva in Italia, entrando così in contatto con la cultura rinascimentale e con i grandi poemi cavallereschi. Nel 1570 intraprende la carriera militare e l’anno successivo partecipa alla battaglia di Lepanto restando ferito; nel 1575 la nave su cui viaggia per tornare in Spagna da Napoli è assalita dai pirati: Cervantes viene catturato dai corsari e solo cinque anni più tardi è riscattato e riesce a rientrare in patria. In Spagna si dedica alla letteratura e, nonostante alcuni problemi con la giustizia, nel 1605 pubblica la prima parte del capolavoro Don Chisciotte, che ha probabilmente iniziato a scrivere in carcere. Si reca successivamente a Madrid presso la corte di Filippo III in cerca di protezione, ma sono l’arcivescovo di Toledo e il conte di Lemos a sollevarlo dai problemi finanziari. Solo nel 1615, dopo l’uscita di una seconda parte del Don Chisciotte scritta da un imitatore, Cervantes pubblica il seguito del suo romanzo e muore nell’anno successivo.

crea una realtà fittizia intorno a sé, mutando il proprio nome in don Chisciotte della Mancha ed identificando in una contadina la propria dama ribattezzata Dulcinea del Toboso. A cavallo del proprio destriero, Ronzinante, don Chisciotte parte in cerca di avventure; durante una delle numerose peripezie è salvato dal contadino Sancio Panza, che egli nomina suo scudiero. Dopo un ritorno al paese e la pubblicazione delle sue avventure, nella seconda parte della storia don Chisciotte riparte per un altro viaggio dove si accentua sempre più il contrasto tra la realtà e il mondo ideale in cui crede di vivere. Riportato a casa da Carrasco che lo sfida a duello e per la sua vittoria lo obbliga a obbedirlo, il vecchio infine rinsavisce, ma poco dopo muore. Il personaggio di don Chisciotte è moderno perché universale, espressione dell’eterno contrasto che nell’uomo oppone il sogno e l’ideale alla realtà. La straordinaria importanza dell’opera di Cervantes sta anche nel fatto che essa chiude il ciclo del genere cavalleresco e apre l’epoca del romanzo moderno, cui appartengono l’uso della prosa anziché dei versi e, inoltre, personaggi, temi, prosa, voce narrante e stile.

IL DON CHISCIOTTE Dai più considerato il primo vero romanzo moderno, il Don Chisciotte è composto di due parti, pubblicate rispettivamente nel 1605 e nel 1615; l’opera, quasi interamente scritta in prosa, narra le disavventure di un hidalgo (gentiluomo povero di campagna) a tal punto appassionato lettore di romanzi cavallereschi da sprofondare in uno stato di follia e voler far rivivere gli ideali e gli stili di vita dei cavalieri erranti. Il nobiluomo

Gustave Doré, Don Chisciotte e Sancio Panza, 1863.

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sercizi di sintesi

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Nel 1570 Cervantes a. intraprende la carriera politica. b. è ferito in un’importante battaglia. c. subisce il taglio della mano sinistra. d. viene venduto come schiavo.

9. In un celebre episodio, i mulini a vento vengono scambiati da don Chisciotte per a. enormi giganti. b. creature demoniache al servizio di Satana. c. mostri con lingue di fuoco. d. macchine costruite da Mambrino, suo nemico.

2. Protettori e mecenati di Cervantes sono a. Filippo III e il conte di Lemos. b. Filippo III e l’arcivescovo di Toledo. c. il conte di Lemos e l’arcivescovo di Toledo. d. due anonimi nobili.

10. Il cavallo di don Chisciotte ha nome a. Baiardo. b. Sacripante. c. Ronzinante. d. Medardo.

3. L’uscita della prima parte del Don Chisciotte a. è ostacolata dal Tribunale dell’Inquisizione. b. crea problemi all’autore. c. ottiene un immediato successo. d. suscita tiepido interesse.

11. La voce narrante e il punto di vista nel Don Chisciotte a. sono quelli del protagonista. b. sono quelli dello scudiero. c. variano nel testo. d. sono quelli dell’autore-narratore.

4. Il Don Chisciotte a. imita e fa la parodia dei poemi cavallereschi. b. imita i capolavori del romanzo. c. narra le vicende da un unico punto di vista. d. ha intenti soltanto comici.

12. Secondo don Chisciotte, il barbiere che incontra in un episodio ha sulla testa a. una bacinella. b. un elmo. c. un cappello. d. un poema cavalleresco.

5. Il protagonista del Don Chisciotte è un hidalgo ovvero un a. gentiluomo appartenente alla piccola nobiltà spagnola. b. autore di poemi cavallereschi spagnolo. c. pìcaro, ossia furfante che vive di espedienti. d. nobile decaduto che cerca di diventare un ricco borghese. 6. Aldonza Lorenzo è a. la madre di don Chisciotte. b. la moglie di Sancio Panza. c. il vero nome di Dulcinea del Toboso. d. una nobildonna. 7. Don Chisciotte promette a Sancio Panza a. fama e gloria. b. una rendita vitalizia. c. che lo nominerà governatore di un’isola. d. di non procurargli guai. 8. Nel primo capitolo del romanzo, Cervantes a. traccia il ritratto del suo eroe. b. mette in primo piano Sancio Panza. c. dà precise informazioni geografiche. d. dedica l’opera ai suoi figli.

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2 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Quali sono le vicende salienti della vita di Miguel de Cervantes? 2. Quali sono le caratteristiche principali del Don Chisciotte di Cervantes? 3. Qual è, in sintesi, la trama del Don Chisciotte? 4. Perché il Don Chisciotte può essere definito il primo romanzo moderno? 5. Quali differenze esistono fra la prima e la seconda parte del Don Chisciotte? 3 Sulla base delle tue letture tratte dal Don Chisciotte, svolgi il seguente tema. Il personaggio di don Chisciotte nel capolavoro di Cervantes mostra alcuni caratteri tipici dell’epoca e altri che, invece, appartengono alla natura umana più profonda, che trascende i tempi storici. Individua esempi degli uni e degli altri, motivando la tua scelta e mettendo in luce come su alcuni suoi aspetti universali (non legati cioè a un tempo e luogo definito) si basi lo straordinario successo del personaggio, testimoniato dalla attuale persistenza nel linguaggio di espressioni come “essere un don Chisciotte” o “combattere contro i mulini a vento”.

CAP. 4 - CERVANTES

E LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO

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CAPITOLO

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Galileo Galilei

Joost Sustermans, Galileo Galilei.

LA Uomo del Rinascimento, inaugura la scienza moderna…

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VITA E LE OPERE

Galileo Galilei nasce a Pisa nel 1564 da antica famiglia fiorentina, appartenente un tempo alle classi agiate, in seguito decaduta economicamente. Il padre Vincenzo, un ottimo musicista membro della Camerata de’ Bardi, gli impartisce una valida formazione, di carattere prevalentemente umanistico. Anche a tale aspetto dell’educazione di Galileo si ricollegano coloro che vedono in lui l’ultimo grande scrittore e pensatore del Rinascimento che, vissuto nel-

LINEA DEL TEMPO: LA VITA E LE OPERE

1564 Galileo Galilei nasce a Pisa

1592 Diventa professore di matematica all’Università di Padova

1603 FEDERICO CESI FONDA L’ACCADEMIA DEI LINCEI

1604 Aderisce pubblicamente alla teoria copernicana

1609 Utilizza per la prima volta il telescopio per l’osservazione del cielo

1610 Torna a Firenze, dove può dedicarsi a tempo pieno alla ricerca scientifica

1610 Pubblicazione del Sidereus nuncius

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CAP. 5 - GALILEO GALILEI

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…e un nuovo linguaggio nei trattati del genere

l’età della Controriforma, apre la via alla scienza sperimentale moderna della quale, per primo, definisce il metodo che ancora da lui prende nome. Inoltre, Galileo – con il suo razionalismo – anticipa l’età dell’Illuminismo e per primo si serve del volgare, e non più del latino, nell’ambito della trattatistica scientifica, innovandone profondamente anche il linguaggio, in quanto è sua intenzione essere compreso da una fascia di lettori più estesa del tradizionale mondo dei dotti.

La giovinezza e gli interessi scientifici La gioventù a Firenze e gli studi pisani

Le invenzioni e le esperienze fiorentine

L’insegnamento della matematica a Padova

La famiglia Galilei torna a Firenze nel 1574. Nel 1581, il giovane si iscrive all’Università di Pisa per studiare medicina, ma coltiva con intenso interesse soprattutto la matematica pura e applicata, appassionandosi alle opere di Archimede ed Euclide. Forse già nel 1583, basandosi sull’osservazione empirica, compie la celebre scoperta riguardante l’isocronismo delle oscillazioni del pendolo (ossia la loro uguale durata, indipendentemente dall’ampiezza), di cui si occuperà per l’intera esistenza, mirando a dimostrarla sul piano matematico. Nel 1585, poco più che ventenne, Galileo abbandona gli studi universitari, torna a Firenze e approfondisce il proprio sapere matematico, filosofico e letterario, a contatto con lo stimolante ambiente frequentato dal padre. Nel 1586, inventa la bilancia idrostatica (che costruirà alcuni anni dopo) per misurare il peso specifico dei corpi, scrivendo sull’argomento l’opuscolo La bilancetta. Negli anni fra il 1587 e il 1589 tiene all’Accademia di Firenze due lezioni sull’Inferno dantesco, raccolte sotto il titolo Circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante. Grazie all’appoggio di scienziati del tempo, ottiene poi di ritornare come professore all’Università di Pisa (1589), ma solo per un insegnamento secondario. In questo periodo, Galileo scrive anche testi critici sulle opere di Ariosto e Tasso, mostrando una chiara preferenza per il primo, e il capitolo in versi Contro il portar la toga, satira contro gli accademici che manifestano il vuoto culto delle apparenze esteriori. Sul piano scientifico, elabora il De motu (“Il movimento”), le cui tesi sulla forza di gravità e sulla caduta dei corpi – con velocità indipendente dal peso – minano le basi della fisica aristotelica. Più volte rielaborato, il De motu non sarà mai pubblicato dall’autore. Nel 1592, Galileo è nominato professore di matematica presso l’Università di Padova: la retribuzione si rivela però insufficiente, a causa delle pressanti richieste di aiuto economico dei familiari – la madre e i sei fratelli rimasti senza capofamiglia – e il giovane deve chiedere anticipi al governo veneziano e impartire lezioni private. Nonostante tali difficoltà, gli anni vissuti a Padova (dal 1592 al 1610) sono assai produttivi sul piano scientifico (trattati sulla meccanica, le fortificazioni, la cosmografia e il compasso da lui ideato) e in ogni campo, compreso quello dei rapporti

LA

1615 È denunciato al Sant’Uffizio

1616 CHIESA CATTOLICA

CONDANNA UFFICIALMENTE LA TEORIA COPERNICANA

1623 MAFFEO BARBERINI È ELETTO PAPA CON IL NOME DI URBANO VIII

1623 Pubblicazione del Saggiatore

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1633 È processato e condannato dal Tribunale dell’Inquisizione

1632 Pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

1642 Muore nella sua villa di Arcetri

1638 Pubblicazione dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze

CAP. 5 - GALILEO GALILEI

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L’adesione all’eliocentrismo copernicano

umani: convive con Marina Gamba che gli dà tre figli, è circondato da amici, fra i quali Paolo Sarpi e lo scienziato Giovanni Francesco Sagredo (1571-1620). A partire dal 1597, Galileo comincia a prendere posizione a favore del sistema eliocentrico copernicano (ad esempio, in una lettera al celebre astronomo tedesco Giovanni Keplero); ma la prima dichiarazione pubblica di adesione a tale teoria risale al 1604 e già suscita critiche da parte degli ambienti scientifici più tradizionalisti. Negli stessi anni, lo scienziato formula la legge sulla caduta dei gravi, di cui parla in una lettera del 1604 a Paolo Sarpi.

La scoperta del metodo sperimentale Il nuovo metodo di ricerca galileiano

La fondazione della moderna scienza sperimentale

Il Sidereus nuncius La fama, il successo e i viaggi

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La vera e propria svolta nelle ricerche di Galileo avviene, tuttavia, solo nel 1609, quando egli, per primo, utilizza negli studi astronomici il cannocchiale o telescopio. L’importanza dell’avvenimento non sta nella scoperta in sé dello strumento, quanto piuttosto nel fatto che Galileo rivolge il cannocchiale verso il cielo e inaugura un metodo di ricerca scientifica fondato sull’osservazione e sull’esperienza sensibile, e non solo sul ragionamento astratto, in netta contrapposizione con gli aristotelici del tempo, le cui deduzioni e convinzioni, subordinate al principio di autorità, escludevano o svalutavano il ricorso al controllo dell’osservazione diretta e della verifica sperimentale. Prima di Galileo, la conoscenza degli elementi e dei fenomeni della natura era basata essenzialmente sulla rielaborazione teorica di princìpi generali per lo più metafisici di autorità indiscusse, da cui era dedotta ogni spiegazione. Tuttavia, per avere e usare delle regole con cui agire nella pratica, anche prima di Galileo si esplorava con enorme pazienza e per lungo tempo un settore specifico della natura o una serie di fenomeni naturali particolari, descrivendoli in maniera molto precisa e puntuale, per trovarvi delle costanti fisse cui fare riferimento per l’azione: ad esempio, l’osservazione del cielo per elaborare i calendari, o quella delle stagioni per i lavori agricoli, o i comportamenti del corpo umano per la medicina, e così via. Nel primo caso si dava preminenza al ragionamento e alla riflessione, nel secondo caso si puntava sull’ingegno e sull’intuizione. Il nuovo metodo conoscitivo introdotto da Galileo integra l’osservazione dei fatti con l’elaborazione teorica: così facendo egli fonda la scienza moderna. La caratteristica del metodo galileiano risiede nel fatto che i risultati del lavoro sono teorie razionali, in quanto basate su calcoli matematici, e, quando possibile, risultati di esperienze concrete verificabili da chiunque e in ogni momento. Loro fondamenti sono l’osservazione del fenomeno, la sua traduzione in regola matematica e – soprattutto in ambito fisico – l’esperimento compiuto dallo scienziato che enuncia la legge generale del fenomeno: esso deve poter venire confermato da chi lo ripete. In caso contrario – come, meglio di Galileo, preciseranno i suoi continuatori fino ai giorni nostri – l’ipotesi necessita di integrazioni o modifiche, in un processo senza fine che tende ad arricchire la conoscenza. Questo nuovo metodo di conoscenza, su cui si basa ancora oggi la scienza moderna, viene inaugurato da Galileo in occasione dell’utilizzo del cannocchiale per osservare il cielo. In tale occasione, Galileo scopre i quattro satelliti di Giove, che ribattezza Astri medicei in onore del Granduca di Toscana, e osserva inoltre le macchie lunari, la via Lattea e le fasi di Venere. Dà poi notizia di queste fondamentali scoperte nel 1610, nelle pagine del Sidereus nuncius (“Messaggero celeste”), scritte in latino, come voleva la tradizione, in quanto destinate alla comunità scientifica. Le scoperte di Galileo suscitano incredulità e polemiche, ma conquistano l’appoggio della maggioranza degli scienziati indipendenti, quando scendono in campo, a favore dello studioso pisano, prima Keplero, e poi una parte degli stessi astronomi della Compagnia di Gesù. La fama acquisita frutta a Galileo, nel 1610, l’offerta del posto di matematico straordinario dello Studio di Pisa e di filosofo del granduca Cosimo II de’ Medici: l’assillo del problema economico è risolto e l’ormai maturo scienziato, libero da obblighi fastidiosi e impegni minuti, può finalmente dedicarsi alle proprie ricerche. Egli accetta l’incarico, pur consapevole dei rischi del trasferimento dalla più libera Repubblica di Venezia a Firenze, città ove assai maggiore è il potere dell’Inquisizione.

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Nel 1611, si reca in viaggio a Roma, dove è trionfalmente accolto dai Gesuiti e – anche in quanto convinto cattolico – dallo stesso pontefice. Riceve inoltre la nomina a membro dell’Accademia dei Lincei, la più importante del tempo in ambito scientifico.

I contrasti con aristotelismo e Chiesa cattolica Lo scontro con la Chiesa

Le Lettere copernicane

La denuncia al Santo Uffizio

Il contrasto fra testi sacri e teoria eliocentrica

Dal Saggiatore al Dialogo sopra i due massimi sistemi

Si accentuano tuttavia anche gli attacchi alla sua opera, considerata pericolosa sul piano teologico da parte di alcuni settori retrivi della gerarchia cattolica romana. Per superare queste resistenze e aprirsi a un pubblico più vasto, Galileo decide di accantonare il latino e ricorre al volgare per sostenere e divulgare le sue teorie. Tornato a Firenze, pubblica il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, in aperta polemica con gli aristotelici, e le tre lettere Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, nelle quali lo scienziato, negando l’immutabilità dei cieli – cardine della teoria aristotelica – evidenzia più apertamente il proprio orientamento copernicano, maturato in seguito a numerose considerazioni derivanti dalle dirette osservazioni astronomiche. L’opposizione dei teologi più tradizionalisti diventa netta e si basa sulla convinzione – maturata nel clima autoritario post-tridentino – che la teoria copernicana sia da considerarsi eretica, perché in contraddizione con quanto afferma la Bibbia sul movimento del Sole attorno alla Terra. Oggetto di aspre polemiche, Galileo non dissimula le proprie convinzioni, ma divulga fra amici e conoscenti le famose quattro Lettere copernicane – una indirizzata al frate Benedetto Castelli, due a monsignor Piero Dini e l’ultima a Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana nelle quali affronta – da un punto di vista cattolico ma senza rinunciare alle proprie tesi scientifiche – soprattutto il problema del rapporto fra scienza e fede. Dopo la pubblicazione della prima lettera, il domenicano Niccolò Lorini, nel 1615, denuncia Galileo al Santo Uffizio. L’accusato è a conoscenza del fatto che le alte cariche ecclesiastiche si stanno orientando in senso anticopernicano, eppure scende ancora apertamente in campo, rifiutando di allinearsi all’opinione del cardinale Roberto Bellarmino, che gli consiglia di considerare l’eliocentrismo come pura ipotesi matematica. L’atteggiamento di Galileo è dettato dalla certezza scientifica raggiunta e dalla convinzione espressa nelle lettere copernicane secondo cui, se rettamente interpretati, i testi sacri non contrastano con la teoria di Copernico. Nello stesso anno 1615, lo scienziato si reca personalmente a Roma per difendere le proprie convinzioni, ma le autorità ecclesiastiche dichiarano la teoria eliocentrica incompatibile con la fede cattolica (1616), in quanto in contrasto con alcune affermazioni contenute nell’Antico Testamento. Nel 1618 compaiono in cielo tre comete e si accende un dibattito sulla interpretazione del fenomeno. In polemica con il gesuita Orazio Grassi, Galileo pubblica, nel 1623, Il Saggiatore e sul piano logico, metodologico, stilistico, dà prova di un ulteriore passo avanti nella fondazione del moderno metodo scientifico. Nello stesso anno viene intanto eletto pontefice, col nome di papa Urbano VIII, il cardinale Maffeo Barberini, uomo di grande apertura mentale. Galileo si convince che il momento è favorevole per riproporre le proprie tesi e scrive il proprio capolavoro, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, che viene pubblicato nel 1632.

Il processo e la condanna L’abiura, la condanna e l’isolamento ad Arcetri

Non appena il Dialogo vede la luce, però, il partito della Chiesa più ostile a Galileo lo attacca: vecchio e malato, pochi mesi dopo la pubblicazione, lo scienziato è convocato a Roma, processato, riconosciuto colpevole e costretto ad abiurare (1633), per aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il Sole sia centro della Terra e che non si muova da oriente a occidente, e che la Terra si muova e che non sia centro del mondo. Condannato alla prigione a vita dopo l’abiura, la pena gli viene commutata in isolamento, dapprima nell’abitazione dell’arcivescovo Piccolomini di Siena, suo amico, quindi nella propria villa di Arcetri; il Dialogo è incluso nell’Indice dei libri proibiti. Le ragioni di tanto accanimento della Chiesa traggono origine da evidenti motivazioni: Galilei è uno scienziato molto noto a livello internazionale e, condannan-

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dolo, la Chiesa di Roma vuole mostrare intransigenza nel timore che, permettendo allo scienziato di contraddire la Bibbia, si favorisca la teoria luterana della libera interpretazione dei testi sacri. Inoltre, nell’epoca post-tridentina il contesto storico e i tempi sono cambiati e non si respira più l’atmosfera tollerante del Rinascimento. Ciò spiega il mutato atteggiamento della Chiesa e lo attesta il fatto che, nella prima metà del Cinquecento, sia per il Commentariolus sia per la dedica al pontefice Paolo III dell’opera De revolutionibus, in cui enunciava la propria teoria, Copernico non avesse invece incontrato forti opposizioni.

Gli ultimi anni

I Discorsi: un capolavoro di rigore scientifico

Profondamente amareggiato, il vecchio scienziato pisano trascorre gli ultimi anni di vita nell’isolamento, assistito dai familiari e in particolare dalla figlia, suor Maria Celeste. Col trascorrere del tempo e l’attenuarsi del rigore controriformista, lo scrittore ha maggiore libertà di movimento: può ricevere importanti visite (per esempio, del filosofo Thomas Hobbes) e recarsi a Firenze. Ormai quasi cieco, negli ultimi anni pubblica in Olanda, presso il celebre editore Elzeviro, la sua opera maggiore sul piano scientifico: i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, che non tratta esplicitamente del sistema copernicano, ma smantella indirettamente alcune obiezioni degli oppositori. L’opera, poco rilevante sul piano letterario, rappresenta il capolavoro di Galileo a livello di rigore scientifico. Aiutato, a partire dal 1639, da Vincenzo Viviani, che sarà suo biografo, e, successivamente, da Evangelista Torricelli, Galileo trascorre gli ultimi anni occupandosi di problemi scientifici, fino alla morte, avvenuta nel 1642.

NUOVO I risvolti filosofici della teoria galileiana

Le leggi della natura sono scritte in linguaggio matematico

L’autonomia della scienza dalla religione Conciliazione dei contrasti fra scienza e Scritture

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METODO, FILOSOFIA E RELIGIONE

La battaglia di Galileo per l’emancipazione della scienza ha risvolti filosofici di enorme portata. Egli, infatti, per affermare il nuovo metodo e le proprie teorie, rinnega apertamente il principio di autorità, ovvero la tesi che considera in primo luogo la Chiesa e poi anche i grandi pensatori antichi, e in particolare Aristotele, come i depositari assoluti della verità (principio dell’ipse dixit, ossia “l’ha detto lui”), anche contro l’evidenza dell’osservazione scientifica. Per Galileo, l’autorità in ambito scientifico è interna alla ricerca scientifica stessa, ed è costituita dalle sensate esperienze e dalle necessarie dimostrazioni, principio che egli ritiene rifiutato dagli aristotelici ma assai stimato da Aristotele (Lettera a Liceti del 1640). Il libro della natura, che Galileo considera scritto da Dio, rivela le proprie leggi solo a chi lo indaghi con l’osservazione diretta e, quando possibile, effettuando opportuni esperimenti e dimostrazioni. Le leggi dell’universo non dipendono da alcuna autorità religiosa o filosofica, ma sono “scritte” nel linguaggio della matematica, che in qualche modo costituisce quindi la struttura profonda della realtà. D’altra parte Galileo, cattolico convinto, è profondamente rispettoso della religione e delle autorità ecclesiastiche; ritiene però che accanto alle verità religiose e morali, che sono dettate da Dio e di cui è depositaria la Chiesa, esista un’altra verità, anch’essa discendente dal Creatore: quella della natura. La scienza e l’interpretazione delle Sacre Scritture costituiscono per Galileo due vie autonome per raggiungere la verità, che in se stessa è unica, e ciascuna di esse prevale a seconda del campo in cui si opera. Se c’è contrasto nell’ambito di questioni che riguardano lo studio delle leggi della natura, quindi, esso è soltanto apparente e non può derivare che da un’errata interpretazione della Bibbia. Tra il Libro sacro ispirato da Dio e il libro della natura, infatti, Galileo privilegia il secondo: è vero infatti che Bibbia e Natura derivano entrambe dal Verbo divino, ma la Natura in modo diretto, la Bibbia in modo indiretto, attraverso cioè la mediazione degli uomini, alla cui limitatezza ha dovuto adattarsi. Non bisogna dunque servirsi della Bibbia per capire le leggi della Natura, anche perché, come Galileo afferma chiaramente, Dio non intendeva suggerire tesi scientifiche agli autori dei libri sacri, e dunque esse sono presentate secondo il punto di vista dell’autore, vincolato alle credenze del tempo. Per quanto riguarda i passi delle Scritture che trattano temi religiosi, infine, Galileo ricorda che essi vanno

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Le interpretazioni del pensiero galileiano

spesso interpretati in chiave allegorica: si giungerebbe altrimenti a dover attribuire alla divinità mani, piedi, occhi e altri caratteri antropomorfi, il che è considerato dallo studioso – nelle lettere copernicane – una bestemmia. In tal modo Galileo mira a conciliare il rispetto della religione e delle Scritture con la piena autonomia della ricerca scientifica. Va però detto che, su questa come su altre questioni, esistono diverse interpretazioni del pensiero galileiano. C’è, fra l’altro, chi ritiene che esso segni il passaggio dalla filosofia alla scienza applicata, mentre per altri esso avrebbe ancora una natura propriamente filosofica, come dimostrerebbe il concetto fondamentale di Natura, che ha le sue radici nel platonismo rinascimentale. Questa interpretazione viene giustificata anche dall’interesse che Galileo avrebbe, più che per i fenomeni reali, per il loro modello teorico di tipo matematico. Ma altri studiosi fanno osservare che lo scienziato è sostanzialmente estraneo, oltre che all’aristotelismo – di cui combatte soprattutto i seguaci – anche al platonismo caro ai Rinascimentali, e che, soprattutto nelle opere astronomiche, un peso rilevante è attribuito all’osservazione concreta: i teoremi matematici – sostiene infatti lo stesso Galilei – vanno dimostrati attraverso esperienze empiriche e, nel caso degli studi astronomici, anche mediante l’uso di opportuni strumenti, come il telescopio.

Focus

LA RIABILITAZIONE DI GALILEO

La questione del processo a Galileo sarà ripresa dalla Chiesa cattolica solo 350 anni dopo i fatti. Nel 1979, papa Giovanni Paolo II nomina una commissione pontificia che ha l’incarico di rivedere il processo. In base ai lavori della commissione, nel 1992 la condanna dello scienziato viene ufficialmente cancellata. Nel Discorso di Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze del 31 ottobre 1992, si legge tra l’altro: […] Ora, nell’anno stesso in cui si celebra il 350° anniversario della morte di Galileo, la Commissione presenta, a conclusione dei suoi lavori, un complesso di pubblicazioni che apprezzo vivamente. […] I problemi soggiacenti a quel caso toccano la natura della scienza come quella del messaggio della fede. […] Anzitutto, come la maggior parte dei suoi avversari, Galileo non fa distinzione tra quello che è l’approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione sulla natura di ordine filosofico, che esso generalmente richiama. È per questo che egli rifiutò il suggerimento che gli era stato dato di presentare come un’ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non fosse confermato da prove irrefutabili. Era quella, peraltro, un’esigenza del metodo sperimentale di cui egli fu il geniale iniziatore. Inoltre, la rappresentazione geocentrica del mondo era comunemente accettata nella cultura del tempo come pienamente concorde con l’insegnamento della Bibbia, nella quale alcune espressioni, prese alla lettera, sembravano costituire delle affermazioni di geocentrismo. Il problema che si posero dunque i teologi dell’epoca era quello della compatibilità dell’eliocentrismo e della Scrittura. Così la scienza nuova, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, obbligava i teologi ad interrogarsi sul loro criterio di interpretazione della Scrittura. La maggior parte non seppe farlo. Paradossalmente, Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto più perspicace dei suoi avversari teologi. […] Se la cultura contemporanea è segnata da una tendenza allo scientismo, l’orizzonte culturale dell’epoca di Galileo era unitario e recava l’impronta di una formazione filosofica particolare. Questo carattere unitario della cultura, che è in sé positivo ed auspicabile ancor oggi, fu una delle cause della condanna di Galileo. […] L’errore dei teologi del tempo, nel sostenere la centralità della terra, fu quello di pensare che la nostra conoscenza della struttura del mondo fisico fosse, in certo qual modo, imposta dal senso letterale della Sacra Scrittura. […] In realtà, la Scrittura non si occupa dei dettagli del mondo fisico, la cui conoscenza è affidata all’esperienza e ai ragionamenti umani. Esistono due campi del sapere, quello che ha la sua fonte nella Rivelazione e quello che la ragione può scoprire con le sole sue forze. A quest’ultimo appartengono le scienze sperimentali e la filosofia. La distinzione tra i due campi del sapere non deve essere intesa come una opposizione. I due settori non sono del tutto estranei l’uno all’altro, ma hanno punti di incontro. Le metodologie proprie di ciascuno permettono di mettere in evidenza aspetti diversi della realtà.

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Focus

LA VITA DI GALILEI DI BERTOLT BRECHT

Il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956), nel famoso dramma Leben des Galilei (“Vita di Galilei”), pone sulla scena la figura dell’intellettuale in lotta contro il potere costituito. Secondo il drammaturgo tedesco, Giordano Bruno, coerente fino a morire sul rogo, è un “eroe”, mentre Galilei è una sorta di “antieroe”, che sceglie la strada dell’abiura per poter comunque proseguire le proprie ricerche scientifiche. L’opera attraversa tre successive rielaborazioni e rappresentazioni (Zurigo 1943, Los Angeles 1947, Berlino, gennaio 1957), nelle quali la “colpevolezza” attribuita dall’autore a Galilei sembra essere sempre più nitida. In una nota per la rappresentazione americana del 1947, Brecht scrive: Il misfatto di Galileo può essere considerato il “peccato originale” delle scienze naturali moderne. Della moderna astronomia, che interessava profondamente una classe nuova, la borghesia, perché appoggiava le correnti sociali rivoluzionarie dell’epoca, egli fece una scienza specialistica strettamente limitata, la quale naturalmente, proprio grazie alla sua “purezza”, ossia alla sua indifferenza per il sistema di produzione, poté svilupparsi relativamente indisturbata. La bomba atomica come fenomeno tecnico non meno che sociale, è il classico prodotto terminale delle sue conquiste scientifiche e del suo fallimento sociale.

Si riporta di seguito una parte della scena XIII, ambientata a Roma nel 1633, quando, dopo l’abiura, Galileo torna tra i suoi discepoli che si sentono traditi dalla sua decisione. Sono presenti la figlia di Galilei, Virginia, e tre allievi (Andrea, Fulgenzio e Federzoni). Silenzio FEDERZONI Sono le cinque. Virginia prega più forte. ANDREA Non riesco più a star fermo, no! Stanno uccidendo la verità! Si tappa gli orecchi con le dita; frate Fulgenzio lo imita. Ma la campana non suona. Dopo una pausa, riempita dal mormorio delle preghiere di Virginia, Federzoni scuote la testa, in segno di diniego. Gli altri due abbassano le mani. FEDERZONI Niente! Sono le cinque e tre minuti. ANDREA Non ha ceduto. FULGENZIO Non abiura. FEDERZONI No. Che felicità! Si abbracciano, deliranti di gioia. [...] In questo istante si odono i rintocchi della campana di San Marco. Tutti restano impietriti. VIRGINIA (balzando in piedi) La campana di San Marco! Non è dannato! Dalla via si ode un banditore leggere l’abiura di Galileo. VOCE “Io, Galileo Galilei, lettore di matematiche nell’Università di Firenze pubblicamente abiuro la mia dottrina che il sole è il centro del mondo e non si muove, e che la terra non è il centro del mondo e si muove. Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto i suddetti errori ed eresie, e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa”. La scena si oscura. Quando torna la luce, si odono ancora i rintocchi della campana che però cessano subito. Virginia è uscita; i tre discepoli di Galileo sono sempre in scena. FEDERZONI Non t’ha mai pagato decentemente per il tuo lavoro! Non sei mai riuscito a pubblicare un libro tuo, e neanche a comprarti un paio di calzoni. Ecco il bel guadagno che hai fatto a “lavorare insieme per la scienza”! ANDREA (forte) Sventurata la terra che non produce eroi! Galileo è entrato. Il processo lo ha trasformato radicalmente, fin quasi a renderlo irriconoscibile. Ha udito le parole di Andrea. Per alcuni istanti si ferma sulla soglia, aspettando un saluto. Ma poiché nessuno lo saluta, anzi i discepoli si allontanano da lui, egli avanza lentamente, col passo incerto di chi ci vede male, fino alla ribalta; qui trova uno sgabello e si siede. ANDREA Non posso guardarlo. Fatelo andar via. FEDERZONI Sta’ calmo. ANDREA (grida a Galileo) Otre da vino! Mangialumache! Ti sei salvata la pellaccia, eh? (Si siede) Mi sento male. GALILEO (calmo) Dategli un bicchier d’acqua. Frate Fulgenzio esce e rientra portando un bicchier d’acqua ad Andrea. Nessuno mostra di accorgersi della presenza di Galileo, che siede in silenzio, nell’atto di ascoltare. Giunge di nuovo, da più lontano, il grido del banditore. ANDREA Adesso riesco a camminare, se mi aiutate un po’. Gli altri due lo sorreggono fino all’uscita. In questo momento Galileo incomincia a parlare. GALILEO No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi. da Vita di Galileo, trad. di Emilio Castellani, Einaudi, Torino, 1963

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T1 Sul linguaggio scientifico da Risposta a Ludovico delle Colombe Nel 1611 Galilei partecipa ad alcune discussioni, presso il Granduca di Firenze Cosimo II, in merito al galleggiamento dei corpi. La posizione sostenuta dallo scienziato – e, tra gli altri, dal Granduca stesso – si richiama ad Archimede; una posizione di stampo aristotelico è sostenuta invece da un altro gruppo di studiosi, tra i quali il cardinale Federico Gonzaga e il letterato fiorentino Ludovico delle Colombe, avversario della teoria copernicana. È lo stesso Cosimo II a proporre ai due gruppi di mettere per scritto le rispettive considerazioni. Vengono così alla luce vari Discorsi, fra cui, nel 1615, una Risposta a Ludovico delle Colombe, che, pur essendo firmata da Benedetto Castelli, discepolo di Galilei, è da attribuire in gran parte allo scienziato pisano. Da essa è tratto il brano qui proposto. PISTE DI LETTURA • Una polemica tra scienziati • La necessità del rigore nel linguaggio • Un esempio di razionalismo galileiano

L’uso più o meno rigoroso del linguaggio

L’esempio del termine spezie

Qui comincia il Sig. Colombo1 a entrare in un pelago2 infinito di vanità, nate tutte dal non aver mai potuto intendere un semplice termine dichiarato apertissimamente dal Sig. Galileo, e usato ben mille volte nel suo Discorso; e questo suo disordine ha radice su ’l non aver egli considerato, che essendo al mondo tanti linguaggi diversi, e contenendo ogni linguaggio migliaia di nomi, imposti tutti da uomini a lor beneplacito3, ben abbia potuto il Sig. Galileo ancora introdurne uno per suo uso, con dichiararne prima distintamente ’l significato. E se il Sig. Colombo tollera a i logici chiamare spezie quell’universale che contien sotto di sé molti individui4; ammette a i grammatici nominare spezie quel che altrimenti noi chiamiamo sembiante o aspetto; comporta5 che gli speziali6 nominino spezie certa polvere fatta di varie droghe; acconsente a certi popoli il nominare con tal nome una terra posta sopra certo golfo di mare7; per qual cagione si ha egli da perturbar8 tanto che ’l Sig. Galileo voglia servirsi dell’istesso termine in distinguer certi modi d’intender la gravità e leggerezza di alcuni corpi in relazione d’alcun’altri? Qui, o bisogna rispondere che il Sig. Colombo non abbia mai posto cura, che9 ci son delle parole che si pigliano in diversi significati, come, v.g.10, fortezza, che significa una virtù, un propugnacolo11, una certa qualità dell’aceto; o vero12 che egli non abbia appresa la significazione che ’l Sig. Galileo gli ha data, mentre13 si è dichiarato di voler chiamar corpi o materie egualmente gravi in spezie quelle delle quali moli14 eguali pesano egualmente, e più grave in spezie quel corpo di un altro, del quale una mole pesa più d’altrettanta mole dell’altro, etc.: nella qual relazione, Sig. Colombo, non si ha mai riguardo15 ad altro che alle moli di essi corpi e alle lor gravità, non cadendo16 mai in considerazione se quei corpi sieno o non sieno della medesima spezie, presa nel significato de’ logici.

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da Le opere di Galileo Galilei (Nuova ristampa dell’edizione nazionale), Barbera, Firenze, 1968 1. Sig. Colombo: il letterato fiorentino Ludovico delle Colombe, autore del Discorso apologetico d’intorno al Discorso di Galileo Galilei. 2. pelago: mare; latinismo. 3. beneplacito: arbitrio. 4. tollera... individui: ammette che i filosofi chiamino specie quella globalità che raggruppa la molteplicità degli individui. 5. comporta: ammette. 6. speziali: venditori di erbe medicinali. 7. una terra... mare: allude a La Spezia.

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8. ha... perturbar: si indispettisce. 9. non abbia... che: non si sia mai preoccupato del fatto che. 10. v.g.: abbreviazione per verbi gratia, cioè “ad esempio”. 11. propugnacolo: antica fortificazione a scopo difensivo. 12. o vero: oppure (in correlazione con il precedente o bisogna...). 13. mentre: quando. 14. moli: masse. 15. si ha… riguardo: pone… attenzione. 16. non cadendo: non prendendo.

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inee di analisi testuale L’importanza della terminologia rigorosa Tra i molti spunti polemici che animano le opere nate dal dibattito sul galleggiamento dei corpi sorto a Firenze, attorno al Granduca di Toscana, suscita particolare interesse la critica che Ludovico delle Colombe (il Colombo) rivolge alla terminologia impiegata da Galilei nel suo Discorso del 1612. Nella Risposta del 1615 Galilei e Castelli controbattono a tono: i nomi non sono “cose”; la terminologia, in ambito scientifico, deve essere impiegata con esattezza e con l’unico scopo di garantire la funzionalità del linguaggio. I caratteri del linguaggio scientifico È questo un tratto fondamentale del pensiero galileiano, che ne investe la concezione della trattatistica: l’indagine scientifica necessita di un linguaggio specifico e dotato di proprie particolarità; esso si deve differenziare da quello comune per rigore e precisione, anche se, per permettere una più ampia accessibilità alla lettura dei testi, si tratta di lingua volgare e non di latino “dotto”. Esso deve, infine, contrapporsi al linguaggio poetico – ampiamente polisemico – per il fatto di essere univoco – ossia di tradurre in parole quella che già Leonardo da Vinci definiva “la somma certezza delle matematiche” – evitando l’ambiguità del linguaggio comune e, soprattutto, di quello letterario.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del passo in non più di 5 righe. Analisi e interpretazione 2. Quale intento persegue Galileo in questo passo in particolare? 3. Sottolinea nel testo e chiarisci il senso degli usi del termine spezie. 4. Quanti significati può assumere, secondo il passo, il termine spezie e quali conseguenze ne derivano per il linguaggio scientifico? Approfondimenti 5. Tratta in modo sintetico (max 20 righe) il seguente argomento: I caratteri del linguaggio scientifico secondo Galileo.

LE LETTERE L’epistolario e la lettera a Castelli

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COPERNICANE

Vasto e interessantissimo è l’epistolario di Galileo, che comprende lettere indirizzate a parenti, personalità politiche e studiosi di tutta l’Europa, fra cui spiccano i nomi dei grandi scienziati Giovanni Keplero e Pierre Gassendi, oltre che di Paolo Sarpi. Fra le lettere si distinguono le missive destinate a pubblicazione, fra cui le quattro denominate, per l’argomento trattato, copernicane, indirizzate rispettivamente nel 1613 al frate benedettino Benedetto Castelli, allievo e amico dello scienziato, nel 1615, in due occasioni a monsignor Piero Dini, autorità ecclesiastica legata alla Curia pontificia, e infine a Cristina di Lorena, madre del Granduca di Toscana. In particolare nella Lettera a Benedetto Castelli, suo discepolo e docente di matematica all’Università di Pisa, Galileo entra nel merito di una disputa tenutasi presso la corte toscana e riguardante la conciliabilità tra la teoria cosmologica copernicana e le Scritture, con particolare riferimento al passo biblico nel quale Giosuè ordina al sole e alla luna di fermare il loro corso: e […] il sole si fermò in mezzo al cielo (Giosuè, 10, 13). L’epistola si divide in tre parti: la prima presenta la questione, la seconda espone le tesi di Galileo sul rapporto fra scienza e Scritture, la terza interpreta allegoricamente alcuni passi della Bibbia, per dimostrare che essi non sono in contrasto con il sistema copernicano, come invece sostengono gli aristotelici e le autorità della Chiesa.

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Le verità bibliche sono solo religiose e morali

La Lettera a Cristina di Lorena

La scienza si basa su esperienze e dimostrazioni

Reinterpretazione eliocentrica dei passi biblici

Particolarmente importante è la parte centrale dell’epistola, nella quale, Galileo afferma che sia la natura sia le Scritture derivano da Dio, ma nei testi sacri, molte parole sono scritte in modo tale da accomodarsi all’incapacità del vulgo, per cui, ad esempio, si giunge a dare a Iddio e piedi e mani e occhi. La Bibbia, cioè, è scritta in un linguaggio semplice e immaginoso, adatto a essere compreso dalla mentalità comune dei popoli, anche quelli primitivi. È perciò evidente che essa richiede di essere interpretata allegoricamente; inoltre, vanno considerati ispirati da Dio quei passi che riguardano la religione, la morale e la salvezza dell’anima ma non quelli che toccano conoscenze che l’uomo stesso può autonomamente raggiungere, mediante l’uso di sensi, di discorso e d’intelletto, come per esempio le verità in campo astronomico. In ultima analisi, dunque, secondo Galileo, nelle dispute scientifiche l’autorità della Scrittura non ha valore e, comunque, dovrebbe essere richiamata in ultima istanza. In questo modo, lo scienziato pisano opera una chiara distinzione tra teologia e scienza, assegnando alla prima una funzione di guida in campo spirituale e morale sulla base della verità rivelata della Bibbia e riconoscendo alla seconda un suo ambito autonomo di ricerca e conoscenza della natura, il grandissimo libro dell’universo, scritto in caratteri matematici e opera, anch’esso, di Dio. Nella Lettera a Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana – che a lungo circola manoscritta prima di essere pubblicata in Germania nel 1636 –, Galilei sviluppa la difesa del sistema copernicano e dell’indipendenza della scienza. L’autore polemizza contro gli scienziati tolemaici che, non essendo in grado di ribattere alle tesi copernicane sulla base delle osservazioni astronomiche e dei calcoli matematici, cercano di ostacolarne l’affermazione, trasferendo la disputa sul piano religioso e comunque opponendo alle argomentazioni scientifiche i passi delle Scritture o il pensiero di Aristotele e il principio di autorità (il celebre ipse dixit). Galileo ribadisce la distinzione fra argomenti, da un lato, che trascendono le possibilità di conoscenza empirica e razionale, nell’ambito dei quali occorre attenersi all’autorità della Bibbia, e argomenti, invece, che riguardano la natura, accessibile ai nostri sensi e ragionamenti, nei quali occorre basarsi sulle sensate esperienze […] o necessarie dimostrazioni tipiche del metodo scientifico sperimentale. Infine, l’autore si ricollega all’autorità dei Padri della Chiesa per sostenere che un’interpretazione letterale del passo biblico in cui si afferma che il sole si sarebbe fermato in mezzo al cielo sarebbe più in contrasto con i presupposti del sistema tolemaico che con quelli del sistema copernicano, col quale invece, se rettamente interpretato, potrebbe accordarsi. Galileo conclude la lettera ricordando passi di grandi autori cristiani che sottintendono una concezione eliocentrica dell’universo e affermando, infine, che, se si fosse disposti ad accettare la teoria copernicana, non si troverebbero nelle Scritture solamente luoghi ad essa repugnanti, ma altrettanti di concordi. Di minore importanza sono, invece, le due lettere indirizzate a monsignor Dini.

Una rappresentazione del sistema solare secondo la concezione copernicana.

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T2 Lettera a Benedetto Castelli da Lettere copernicane, I La lettera – di cui viene qui riportata la parte centrale – è scritta a Firenze il 21 dicembre 1613 ed è indirizzata al frate benedettino Benedetto Castelli, discepolo di Galilei e insegnante di matematica presso l’Università di Pisa. Castelli ha partecipato a una discussione svoltasi a Firenze, alla corte dei Medici; in quella circostanza, la granduchessa di Toscana – Cristina di Lorena, madre di Cosimo II – ha posto una particolare domanda: come si può conciliare la teoria copernicana con il versetto della Bibbia in cui si racconta che il sole si fermò (Giosuè, 10, 13)? In sostanza, l’interrogativo pone il problema del rapporto tra la scienza e la fede. Galileo espone le proprie tesi in proposito. PISTE DI LETTURA • Lo sforzo di conciliazione con la Chiesa cattolica • Argomentazioni che integrano ragione, scienza e fede • Tono didascalico

Non fermarsi al senso letterale della Bibbia

Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima1, parmi che prudentissimamente2 fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra3, non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti4 d’assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole5, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora6; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione7 delle cose passate e l’ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi all’incapacità del vulgo8, così per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti9. Stante10, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace11, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni12 diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo13: perché, procedendo di pari14 dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima15 esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto16 nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale17, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato18 delle parole, dal vero assoluto; ma,

1. Madama Serenissima: Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana. 2. prudentissimamente: con molta saggezza. 3. Paternità Vostra: il destinatario della lettera, Benedetto Castelli. 4. decreti: dichiarazioni. 5. nel puro... parole: al significato puramente letterale delle parole, slegate dal contesto. 6. ancora: anche. 7. obblivione: dimenticanza. 8. poste... vulgo: esposte in tale modo per adeguarsi all’ingenuità del popolo incolto. 9. produchino... profferiti: rendano manifesti i significati veri e indichino i motivi specifici per cui sono stati espressi

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con quelle determinate parole. 10. Stante: tenuto conto. 11. capace: soggetta. 12. esposizioni: interpretazioni. 13. nelle dispute... luogo: nelle discussioni riguardanti la scienza, la Scrittura dovrebbe essere lasciata all’ultimo posto. 14. procedendo di pari: derivando entrambe allo stesso modo. 15. osservantissima: scrupolosissima, riferito alla natura. 16. di più, convenuto: inoltre, stato necessario. 17. per accomodarsi... universale: per adeguarsi alla capacità di comprensione da parte di ogni uomo. 18. in aspetto... significato: per quanto concerne la loro apparenza e il significato letterale.

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Le Scritture non sono attendibili nello studio della natura…

…ma lo sono in materia di fede

all’incontro19, essendo la natura inesorabile20 e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini21, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli22; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante23, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto24, d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati25, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare de’ suoi principalissimi dogmi26, attribuendo sino all’istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente27 sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto,28 nel parlare anco incidentemente29 di Terra o di Sole o d’altra creatura, abbia eletto30 di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole? e massime pronunziando di esse creature cose lontanissime dal primario instituto di esse Sacre Lettere31, anzi cose tali, che, dette e portate con verità nuda e scoperta, avrebbon più presto danneggiata l’intenzion primaria, rendendo il vulgo più contumace alle persuasioni de gli articoli concernenti alla salute32. Stante questo, ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi33, è ofizio34 de’ saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de’ luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto35 o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri. Anzi, essendo, come ho detto, che le Scritture, ben che dettate dallo Spirito Santo, per l’addotte cagioni ammetton in molti luoghi esposizioni lontane dal suono36 litterale, e, di più, non potendo noi con certezza asserire che tutti gl’interpreti parlino inspirati divinamente, crederei che fusse prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno l’impegnar i luoghi della Scrittura e obbligargli37 in certo modo a dover sostenere per vere alcune conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il contrario. E chi vuol por termine38 a gli umani ingegni? chi vorrà asserire, già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile? E per questo, oltre a gli articoli39 concernenti alla salute ed allo stabilimento40 della Fede, contro la fermezza de’ quali non è pericolo alcuno che possa insurger mai dottrina valida ed efficace, sarebbe forse ottimo consiglio41 il non ne aggiunger altri senza necessità: e se così è, quanto maggior disordine sarebbe l’aggiugnerli a richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo ch’elleno son del tutto ignude42 di quella intelligenza che sarebbe necessaria non dirò a redarguire43, ma a capire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare alcune lor conclusioni?

19. all’incontro: al contrario. 20. inesorabile: inflessibile nell’eseguire i disegni di Dio. 21. nulla... uomini: assolutamente indifferente al fatto che le sue leggi segrete e le modalità con cui opera siano o non siano facilmente comprensibili per gli uomini. 22. imposteli: che le sono state imposte. 23. pare che... sembiante: è evidente che ciò che l’esperienza dei sensi ci mostra dei fenomeni naturali o (ciò che) le dimostrazioni logiche ci provano, non deve in alcun modo essere messo in dubbio a causa di passi della Scrittura le cui parole (nel loro significato letterale) esprimano una diversa spiegazione. 24. rispetto: motivo. 25. indisciplinati: incivili. 26. d’adombrare... dogmi: di esprimere in modo allusivo alcuni suoi dogmi fondamentali. 27. asseverantemente: decisamente. 28. posto... rispetto: messo da parte tale motivo, cioè la comprensione da parte degli incolti. 29. incidentemente: casualmente.

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30. eletto: scelto. 31. massime... Lettere: soprattutto pronunciando, riguardo alle creature di Dio, affermazioni molto lontane dall’intenzione principale delle Sacre Scritture; massime è latinismo. 32. contumace... salute: diffidente ad accettare gli insegnamenti di princìpi che riguardano la salvezza dell’anima. 33. contrariarsi: contraddirsi. 34. ofizio: compito. 35. senso manifesto: quello che è reso evidente dall’esperienza. 36. suono: significato. 37. crederei... obbligargli: credo che sarebbe cosa saggia non permettere a nessuno di vincolare i passi della Scrittura e forzarli. 38. termine: limite. 39. articoli: princìpi. 40. stabilimento: consolidamento. 41. consiglio: decisione. 42. elleno... ignude: esse sono del tutto prive. 43. redarguire: correggere.

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Lo scienziato deve usare l’intelletto donato da Dio

Io crederei che l’autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni,44 che, sendo necessarie per la 65 salute loro e superando ogni umano discorso45, non potevano per altra scienza46 né per altro mezzo farcisi47 credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo48 l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire49, non penso che sia necessario il crederlo50, 70 e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise51 se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l’astronomia, di cui ve n’è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti. Però se i primi scrittori sacri avessero auto pensiero52 di persuader al popolo le disposizioni53 e movimenti de’ corpi celesti, non ne avrebbon trattato così poco, che è come nien- 75 te in comparazione dell’infinite conclusioni altissime e ammirande che in tale scienza si contengono54. da Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli, 1953

44. a persuader... proposizioni: di persuadere gli uomini riguardo a quei princìpi e a quelle affermazioni; il verbo persuader regge il dativo secondo la costruzione latina. 45. discorso: ragionamento. 46. scienza: argomentazione logica. 47. farcisi: rendersi a noi. 48. posponendo: subordinando. 49. notizie... conseguire: nozioni che possiamo acquisire

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con quei (mezzi). 50. non penso... crederlo: proposizione principale che regge tutto il periodo precedente. 51. minima... divise: parte insignificante e con osservazioni frammentarie. 52. auto pensiero: avuto intenzione. 53. disposizioni: posizioni. 54. si contengono: sono trattate.

inee di analisi testuale Uno schema retorico tradizionale per una teoria nuova Galilei segue il tradizionale schema retorico tipico dell’epistola. A una parte introduttiva (in latino: exordium), nella quale è presentato l’argomento e sono descritte le circostanze della discussione alla corte medicea, seguono l’esposizione del nucleo centrale del pensiero dell’autore (narratio), la presentazione delle prove a favore della sua tesi (confirmatio) e la confutazione delle tesi opposte (confutatio). Sacra Scrittura, scienza e scienziato Nella prima parte l’autore presenta il concetto portante della sua teoria: il rapporto tra la ricerca scientifica e la Scrittura. Galilei afferma non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare. Tuttavia non ci si deve fermare al puro significato delle parole. L’allegoria serve per presentare le verità di fede a una umanità ancora incolta. Può dunque errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori se legge la Scrittura alla lettera. La Bibbia è dettatura dello Spirito Santo, ma in campo scientifico essa doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo, non essendo il suo scopo istruire gli uomini in campo scientifico; il linguaggio delle Scritture, volto alla salvezza dei fedeli, è inoltre spesso allegorico tanto che, ad esempio, certe rappresentazioni antropomorfiche di Dio, prese alla lettera, risulterebbero blasfeme. I testi sacri non possono dunque essere utilizzati come manuali scientifici. Lo scienziato deve utilizzare la sensata esperienza e le necessarie dimostrazioni, al fine di cogliere le leggi della natura: Dio, infatti, ha donato agli uomini l’intelletto per comprendere i princìpi che la governano. Lo stile rispecchia l’atteggiamento prudente Galilei procede con estrema cautela e circospezione: certamente egli sa di muoversi su un terreno pericoloso: nel presentare le parti salienti del suo pensiero, sceglie il condizionale (crederei che fusse; sarebbe… ottimo consiglio…). Il carattere privato della lettera gli consente di usare un linguaggio logico, chiaro e ben comprensibile.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il passo proposto della Lettera a Benedetto Castelli in non più di 20 righe. 2. Riscrivi il testo galileiano, aiutandoti con le note, in italiano corrente. Analisi e interpretazione 3. Quali sono le caratteristiche e le funzioni dei due ambiti e linguaggi – quello della Bibbia e quello della scienza – di cui parla Galileo nel testo? 4. Quali intendimenti si propone Galileo scrivendo questa lettera? 5. Nel passo di Galileo sono presenti elementi di testo espositivo (basato su dati oggettivi) e di testo argomentativo (basato su tesi soggettive): individuane alcuni esempi. Approfondimenti 6. Paragona il contenuto e lo stile di altre lettere di personaggi celebri a te noti con la lettera di Galileo a Benedetto Castelli, mettendo infine in luce le caratteristiche, i possibili usi e le diverse finalità del mezzo di comunicazione epistolare.

IL SAGGIATORE

Una polemica sulla natura delle comete

Stampato a Roma nel 1623 a cura dell’Accademia dei Lincei e dedicato a papa Urbano VIII, Il Saggiatore è assai pregevole sul piano letterario e riveste notevole interesse perché riassume gli aspetti fondamentali del nuovo metodo scientifico galileiano. La polemica alla base dell’opera nasce dall’apparizione, nel 1618, di tre comete. Il gesuita Orazio Grassi pubblica, in proposito, un proprio studio (Disputa astronomica, 1619); Galileo lo confuta indirettamente mediante il Discorso sulle comete del suo discepolo Mario Guiducci. Grassi, sotto il nome di Lotario Sarsi Sigensano, replica con un altro saggio intitolato Libra astronomica e filosofica. Galileo ribatte allora con Il Saggiatore nel quale con bilancia squisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra filosofica e astronomica di Lotario Sarsi Sigensano, scritto in forma di lettera [...] a monsignor Virginio Cesarini. Già il titolo è umoristico e contrappone il saggiatore – ossia il bilancino di precisione usato dagli orefici – alla libra o stadera, la grossolana bilancia che Galileo pa-

TERMINI CHIAVE DEL PENSIERO DI GALILEO

NATURA

Creata direttamente da Dio, rivela le proprie leggi a chi la osservi mediante opportuni esperimenti.

MATEMATICA

Costituisce la struttura profonda della realtà: i caratteri in cui è scritto il libro dell’universo sono infatti triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche.

SCIENZA

Galileo sostiene con forza la sua autonomia dalla religione, negando il principio di autorità.

BIBBIA

Espressione del Verbo divino, è scritta con la mediazione degli uomini e ne riflette le convinzioni talora errate. Adattandosi alla comprensione umana, trasmette le verità religiose e morali, ma spesso deve essere interpretata allegoricamente.

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Il manifesto della nuova scienza Il libro dell’universo e la matematica

ragona metaforicamente all’esposizione di Sarsi: Galileo ritiene cioè che il discorso scientifico abbia bisogno di esattezza e precisione matematica. La forma della lettera privata a un discepolo è suggerita dalla prudenza. L’aspetto più importante dell’opera non riguarda la specifica questione trattata: su taluni aspetti anche rilevanti, la scienza posteriore dimostrerà infatti che Grassi era più vicino alla verità, poiché sosteneva che le comete fossero corpi celesti, mentre Galileo pensava che si trattasse di un fenomeno legato alla riflessione della luce solare. Dopo aver replicato ad alcuni personaggi che cercano di attribuirsi sue invenzioni, nel Saggiatore Galileo entra nel merito di vari e complessi problemi scientifici, polemizzando in bello stile. All’interno dell’opera di Galileo sono rintracciabili pagine che ne fanno un manifesto della nuova scienza sperimentale. Emergono anzitutto quelle che illustrano la concezione secondo cui il libro dell’universo deve essere letto in chiave matematica; rilevanti sono anche la ricerca di un linguaggio scientifico esatto; la ripresa della concezione socratica secondo cui si deve essere pronti a imparare più che a insegnare e, dunque, essere aperti a nuove scoperte; la sottolineatura dell’importanza dell’osservazione empirica per l’elaborazione delle ipotesi su base logico-matematica, in opposizione al principio di autorità e a una concezione della scienza sia libresca e astratta sia basata su criteri quali il vasto consenso ottenuto dalle teorie.

T3 La veridicità delle teorie da Il Saggiatore, 9 In questo passo de Il Saggiatore, Galileo, in polemica con Sarsi, esprime le proprie tesi sul peso da attribuire al numero dei seguaci nella valutazione della veridicità delle teorie filosofiche e scientifiche. PISTE DI LETTURA • Pochi sono gli esperti in campo filosofico e scientifico • La verità di una teoria non è determinata del numero dei seguaci • Il rigore della dimostrazione contrapposto agli artifici retorici Una teoria veritiera e complessa ha pochi seguaci

Linguaggio magniloquente e acutezza delle dimostrazioni

Signor Sarsi, infinita è la turba de li sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla1; assai son quelli che sanno pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; un solo Dio è quello che la sa tutta. Sicché per dir quel ch’io voglio inferire, trattando della scienza che per via di dimostrazione e di discorso umano si può 5 dagli uomini conseguire, io tengo per fermo che quanto più essa parteciperà di perfezione, tanto minor numero di conclusioni permetterà di insegnare, tanto minor numero ne dimostrerà ed in conseguenza tanto meno alletterà e tanto minore sarà il numero dei suoi seguaci2. […] Ma per l’opposito la magnificenza de’ titoli, la grandezza e numerosità delle 10 promesse, attraendo la natural curiosità degli uomini, e tenendoli perpetuamente ravvolti in fallacie e chimere, senza mai far loro gustar l’acutezza di una sola dimostrazione, onde il gusto risvegliato abbia a conoscer l’insipidezza de’ suoi cibi consueti, ne terrà numero infinito occupato, e gran ventura sarà d’alcuno che scorto da straordinario lume naturale si saprà torre dai tenebrosi e confusi 15

1. Signor... nulla: rivolgendosi a Sarsi (pseudonimo del gesuita Orazio Grassi, 1590-1654) l’autore afferma che molti non sanno nulla di filosofia; il loro consenso alle teorie è perciò irrilevante. Sarsi aveva invece disprezzato le teorie di due filosofi rinascimentali – Bernardino Telesio (15091588) e Gerolamo Cardano (1501-1576) – portando come principale argomento lo scarso numero dei loro seguaci.

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2. tanto minor… seguaci: l’autore si dice convinto (io tengo per fermo) che quanto più una tesi filosofica o scientifica è corretta e complessa (parteciperà di perfezione), tanto minore sarà il numero di affermazioni (conclusioni) che potrà divulgare (insegnare) agli incompetenti; sarà perciò meno gradita (meno alletterà) e avrà un minor numero di sostenitori (seguaci).

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laberinti nei quali si sarebbe con l’universale andato sempre aggirando e tuttavia più avviluppando3. Il giudicar dunque dell’opinioni d’alcuno in materia di filosofia dal numero dei seguaci, lo tengo poco sicuro. da Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli, 1953 3. la magnificenza… avviluppando: l’uso della magniloquenza retorica (magnificenza) del linguaggio affascina e illude gli uomini con i suoi ingannevoli sofismi; l’opposto

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accade per l’esatto linguaggio scientifico (basato sulla acutezza della dimostrazione).

inee di analisi testuale Un’esposizione di grande chiarezza In poche righe Galileo contrappone con chiarezza le proprie idee a quelle di Sarsi, che aveva disprezzato la filosofia della natura rinascimentale di due filosofi, Telesio e Cardano, basandosi sullo scarso numero dei loro seguaci. Galileo – che in un passo successivo affermerà di non pronunciarsi sui due autori, perché non ne ha studiato le opere in modo sufficiente per giudicarle – sostiene anzitutto che assai son quelli che sanno pochissimo di filosofia e ne trae la conseguenza che il numero dei seguaci di una teoria filosofica è irrilevante. Aggiunge che, anzi, una tesi veritiera e corretta (che parteciperà di perfezione) tende ad avere un seguito minoritario e non si rende gradita (non alletterà), giacché non usa la magnificenza delle parole per creare ingannevoli illusioni (fallacie e chimere) ma un linguaggio di non facile comprensione, in quanto scientifico e rigoroso. Viene inoltre affermato il principio dell’autonomia di chi cerca la verità filosofica e scientifica.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Contro quali affermazioni Galileo polemizza e quali tesi vi contrappone? Analisi e interpretazione 2. Galileo rifiuta come criterio certo di verità in campo filosofico (e, implicitamente, scientifico) l’ampio consenso e, in un passo successivo, anche la scarsità di tale consenso. Quali sono invece, secondo l’autore, i criteri per individuare le teorie perfette, ossia veritiere? 3. Nel passo di Galileo (si pensi soprattutto al periodo centrale Ma per l’opposito […] avviluppando) predominano i costrutti ipotattici o un’espressione semplice e con una sintassi paratattica? Motiva la tua risposta con adeguati riferimenti al testo. Approfondimenti 4. Nel passo viene menzionato Dio. A quale scopo? Quale concezione galileiana della conoscenza emerge da tale riferimento?

IL DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO Un dialogo a favore dell’eliocentrismo

Interlocutori, struttura e temi

Dal 1624 al 1630 Galileo lavora al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il suo capolavoro. Con chiaro intento divulgativo – a tal fine il Dialogo è scritto in volgare e non in latino –, esso si propone di esporre e confrontare, in forma dialogica, le ragioni a sostegno dei due massimi sistemi cosmologici riconosciuti dalla cultura del tempo: quello aristotelico-tolemaico (geocentrico) e quello copernicano (eliocentrico), a favore del quale Galileo prende nettamente posizione. Nel proemio dell’opera si motiva la scelta della forma del dialogo: essa permette all’autore di esporre in modo imparziale i temi della disputa fra aristotelici e copernicani, mettendo in luce le ragioni degli uni e degli altri. Tre sono gli interlocutori: Salviati, Sagredo e Simplicio; i primi due sono personaggi reali e amici di Galileo, l’ultimo è immaginario. Le argomentazioni di Salviati, nobile fiorentino, sostenitore del nuovo sistema eliocentrico, coincidono con il punto di vista dell’autore, che nel dialogo è ricordato

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Gli argomenti delle quattro giornate

Una tesi inaccettabile nel clima seicentesco

Lo stile

con espressioni come il nostro amico comune; Sagredo, nobile veneziano, svolge la parte del colto profano fra dotti specialisti: la sua funzione dovrebbe essere neutrale, ma in realtà egli si entusiasma per le tesi copernicane, che ripropone spesso in forma divulgativa e più comprensibile per il pubblico dei lettori. L’aristotelico Simplicio – il nome attribuitogli è significativo – con le proprie argomentazioni pedanti che ammettono solo tesi già presenti in opere di autorità del passato incarna in modo esemplare la mentalità dogmatica e limitata di chi condivide la sua concezione. Il Dialogo è diviso in quattro giornate; vi si affrontano numerose questioni di carattere scientifico: dalle leggi sul moto dei gravi e dei corpi celesti alle caratteristiche della riflessione sulla luna della luce solare, dalle nuove scoperte astronomiche alla teoria aristotelica dell’immutabilità dei corpi celesti. Su tale ultimo punto, in particolare, nella prima giornata si accende la polemica: il dialogo dimostra come la teoria aristotelica sia incompatibile con le recenti osservazioni astronomiche riguardanti la luna, il sole, le comete, le nuove stelle, l’esistenza dei pianeti medicei ruotanti intorno a Giove, le fasi di Venere, le variazioni del diametro apparente di Marte. La seconda giornata tratta soprattutto la questione del movimento o della quiete della Terra: l’argomento è discusso alla luce delle conclusioni cui si può giungere dall’osservazione e dall’analisi delle leggi che regolano il moto dei gravi e dei proiettili. La terza giornata parla delle nuove stelle e, esplicitamente, del movimento annuo, da attribuirsi alla Terra e non al Sole; la teoria copernicana viene esposta con chiarezza e abbondanza di argomentazioni e la discussione si sposta poi sulle macchie solari, la cui esistenza conferma i presupposti della teoria copernicana. Il fatto che il sole presenti delle irregolarità sulla sua superficie e che il suo aspetto vari nel tempo, è un’ulteriore prova a sfavore della teoria tolemaica, secondo la quale ogni corpo celeste è perfetto e immutabile. Nella quarta giornata si dibatte del flusso e riflusso del mare ed erroneamente è confutata la teoria di Keplero, il quale per primo attribuisce il fenomeno all’attrazione della luna. Vengono infine affrontati altri temi scientifici, riguardanti, fra l’altro, i venti e la precessione degli equinozi. Il Dialogo inaugura una nuova visione dell’uomo e della conoscenza: quest’ultima, infatti, fino a quel momento si basava sull’autorità dei testi sacri e dei grandi autori classici, in primo luogo Aristotele. Nel clima ideologico seicentesco, la tesi eliocentrica – che pure non aveva suscitato gravi conflitti alla prima esposizione, da parte di Copernico, in età rinascimentale – è ritenuta inaccettabile perché, in un clima culturale radicalmente cambiato – nella Controriforma la Chiesa di Roma combatte la luterana libera interpretazione delle Scritture – Galileo la associa all’affermazione dell’indipendenza dello scienziato dall’autorità della Chiesa. Nel 1632 la vendita del Dialogo è vietata; in ottobre Galileo è convocato a Roma dall’Inquisizione ed è processato; nel 1633 il libro è proibito e lo scienziato, condannato, firma l’abiura. Per quanto concerne l’aspetto stilistico, il dialogo, come annota Massimo Bontempelli, è fondato su chiarezza e precisione, mosse da entusiasmo, in quanto la scienza stessa, ch’egli [Galileo] ha la passione di divulgare, costringe alla chiarezza. Lo stile dell’opera si colloca, dunque, su un piano diametralmente opposto al gusto barocco, e richiama le più razionali, lucide e lineari pagine degli autori classici e rinascimentali. Controfrontespizio del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei, edito a Firenze nel 1632.

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T4 Elogio dell’intelligenza umana da Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, giornata I Nella prima giornata del Dialogo, Sagredo e Salviati discutono sulla forza della conoscenza umana, che deve basarsi su una necessaria umiltà e sulla coraggiosa rinuncia al principio di autorità. La posizione rigida e anacronistica degli aristotelici (simboleggiati da Simplicio) nega il progresso della conoscenza. Le argomentazioni galileiane si concentrano sul processo conoscitivo che, pur con i suoi limiti rispetto alla sapienza divina, possiede il segno inconfondibile della stessa forza creatrice di Dio. PISTE DI LETTURA • Consapevolezza dei limiti conoscitivi e fiducia rinascimentale nell’ingegno umano • La precisione linguistico-lessicale e la chiarezza degli esempi • Forma dialogica

SAGREDO

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SALVIATI

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SIMPLICIO SALVIATI

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Estrema temerità1 mi è parsa sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura2 di quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all’incontro3, e’4 non è effetto5 alcuno in natura, per minimo che e’ sia, all’intera cognizion del quale possano arrivare i più specolativi6 ingegni. Questa così vana prosunzione d’intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato7 una volta sola a intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell’infinità dell’altre conclusioni8 niuna ne intende. Concludentissimo9 è il vostro discorso; in confermazion del quale abbiamo l’esperienza di quelli che intendono o hanno inteso qualche cosa, i quali quanto più sono sapienti, tanto più conoscono e liberamente confessano di saper poco; ed il sapientissimo della Grecia, e per tale sentenziato da gli oracoli10, diceva apertamente conoscer di non saper nulla. Convien dunque dire, o che l’oracolo, o l’istesso Socrate, fusse bugiardo, predicandolo quello per sapientissimo, e dicendo questo di conoscersi ignorantissimo. Non ne seguita né l’uno né l’altro11, essendo che amendue i pronunziati12 posson esser veri. Giudica l’oracolo sapientissimo Socrate13 sopra gli altri uomini, la sapienza de i quali è limitata; si conosce14 Socrate non saper nulla in relazione alla sapienza assoluta, che è infinita; e perché dell’infinito tal parte n’è il molto che ’l poco e che il niente15 (perché per arrivar, per esempio, al numero infinito tanto è l’accumular16 migliaia, quanto decine e quanto zeri), però17 ben conosceva Socrate, la terminata sua sapienza esser nulla all’infinita18, che gli mancava. Ma perché pur19 tra gli uomini si trova qualche sapere, e questo non egualmente compartito20 a tutti, potette Socrate averne

1. Estrema temerità: posizione dettata da eccessiva audacia. 2. misura: parametro. 3. dove... incontro: mentre, al contrario. 4. e’: forma pleonastica (ei). 5. effetto: evento. 6. specolativi: portati all’indagine filosofica. 7. altri... esperimentato: qualcuno avesse provato. 8. conclusioni: argomenti. 9. Concludentissimo: perfettamente coerente e persuasivo. 10. sapientissimo... oracoli: allude a Socrate, che l’oracolo indicò pubblicamente come il più saggio fra i Greci; sapientissimo è superlativo relativo (si tratta di un latinismo).

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11. Non ne seguita... l’altro: non ne deriva necessariamente né l’una né l’altra conclusione. 12. pronunziati: enunciati. 13. Socrate: complemento oggetto di giudica. 14. si conosce: riconosce di. 15. e perché... niente: e visto che il molto, il poco e il niente sono uguali di fronte all’infinito. 16. l’accumular: il sommare. 17. però: perciò. 18. terminata... infinita: che la propria sapienza limitata non aveva nessun valore rispetto all’infinita. 19. perché pur: dal momento che, tuttavia. 20. compartito: distribuito.

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maggior parte de gli altri, e perciò verificarsi il responso dell’oracolo. Parmi di intender benissimo questo punto. Tra gli uomini, signor Simplicio, è la potestà di operare, ma non egualmente participata da tutti21: e non è dubbio che la potenza d’un imperadore è maggiore assai che quella d’una persona privata; ma e questa e quella è nulla in comparazione dell’onnipotenza divina. Tra gli uomini vi sono alcuni che intendon meglio l’agricoltura che molti altri; ma il saper piantar un sermento22 di vite in una fossa, che ha da far23 col saperlo far barbicare24, attrarre il nutrimento, da quello scierre25 questa parte buona per farne le foglie, quest’altra per formarne i viticci, quella per i grappoli, quell’altra per l’uva, ed un’altra per i fiocini26, che son poi l’opere della sapientissima natura? Questa è una sola opera particolare delle innumerabili che fa la natura, ed in essa sola si conosce un’infinita sapienza, talché si può concludere, il saper divino esser infinite volte infinito. Eccone un altro esempio. Non direm noi che ’l sapere scoprire27 in un marmo una bellissima statua ha sublimato28 l’ingegno del Buonarruoti29 assai assai sopra gli ingegni comuni degli altri uomini? E questa opera non è altro che imitare una sola attitudine30 e disposizion di membra esteriore e superficiale d’un uomo immobile; e però che cosa è in comparazione d’un uomo fatto dalla natura, composto di tante membra esterne ed interne, de i tanti muscoli, tendini, nervi, ossa, che servono a i tanti e sì diversi movimenti? Ma che diremo de i sensi, delle potenze31 dell’anima, e finalmente dell’intendere32? non possiamo noi dire, e con ragione, la fabbrica33 d’una statua cedere d’infinito intervallo34 alla formazion d’un uomo vivo, anzi anco alla formazion d’un vilissimo verme? E qual differenza crediamo che fusse tra la colomba d’Archita35 ed una della natura? O io non sono un di quegli uomini che intendano36, o ’n questo vostro discorso è una manifesta contradizione. Voi tra i maggiori encomii37, anzi pur per il massimo di tutti, attribuite all’uomo, fatto dalla natura, questo dell’intendere; e poco fa dicevi con Socrate38 che ’l suo intendere non era nulla; adunque bisognerà dire che né anco39 la natura abbia inteso40 il modo di fare un intelletto che intenda. Molto acutamente opponete41; e per rispondere all’obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l’intendere si può pigliare42 in due modi, cioè intensive, o vero extensive43: e che44 extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili45, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene46 egli intendesse mille proposizioni47, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente48, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così

21. è la potestà... da tutti: si trova la facoltà di agire, che però non è condivisa da tutti allo stesso modo. 22. sermento: tralcio. 23. che ha da far: che ha a che fare. 24. barbicare: radicare. 25. da quello scierre: scegliere da quel tralcio. 26. fiocini: semi dell’uva. 27. scoprire: realizzare. 28. sublimato: elevato. 29. Buonarruoti: Michelangelo Buonarroti, il grande scultore, architetto e pittore (1475-1564). 30. attitudine: atteggiamento. 31. potenze: facoltà. 32. intendere: capacità intellettiva. 33. fabbrica: realizzazione. 34. cedere... intervallo: è infinitamente inferiore. 35. Archita: Archita di Taranto, matematico e filosofo vissuto nel IV secolo a.C., divenuto celebre per l’invenzione di

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una colomba meccanica in grado di volare. 36. un... intendano: una persona intelligente. 37. encomii: apprezzamenti. 38. con Socrate: riferendoti a Socrate. 39. né anco: neppure. 40. inteso: compreso. 41. opponete: obiettate. 42. pigliare: considerare. 43. intensive... extensive: avverbi latini; si possono interpretare come “dal punto di vista della profondità del sapere” e “dal punto di vista della quantità dei concetti appresi”. 44. e che: è retto dal precedente dicendo. 45. intelligibili: argomenti che possono essere oggetto di conoscenza. 46. quando bene: anche se. 47. proposizioni: concetti. 48. importa intensivamente: indica la piena comprensione.

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perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura49; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli50 la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità51, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito. Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità o d’ardire e che punto52 non detraggono di maestà alla divina sapienza, sì come niente53 diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto54 non sia fatto. Ma dubito55, signor Simplicio, che voi pigliate ombra56 per esser state ricevute57 da voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che58 ci danno cognizione59 le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina60; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente più eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito61: e dove noi, per esempio, per guadagnar la scienza62 d’alcune passioni63 del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle più semplici e quella pigliando per64 sua definizione, passiamo con discorso ad un’altra, e da questa alla terza, e poi alla quarta, etc., l’intelletto divino con la semplice apprensione65 della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso66, tutta la infinità di quelle passioni; le quali anco poi in effetto virtualmente si comprendono67 nelle definizioni di tutte le cose, e che poi finalmente, per esser infinite68, forse sono una sola nell’essenza loro e nella mente divina. Il che né anco all’intelletto umano è del tutto incognito, ma ben da profonda e densa caligine adombrato69, la qual viene in parte assottigliata e chiarificata quando ci siamo fatti padroni di alcune conclusioni fermamente dimostrate e tanto speditamente70 possedute da noi, che tra esse possiamo velocemente trascorrere71: perché in somma, che altro è l’esser nel triangolo il quadrato opposto all’angolo retto eguale a gli altri due che gli sono intorno, se non l’esser i parallelogrammi sopra base comune e tra le parallele, tra loro eguali?72 e questo non è egli73 finalmente il medesimo che essere eguali quelle due superficie che adattate insieme non si avanzano, ma si racchiuggono dentro al medesimo termine74? Or questi passaggi, che l’intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l’intelletto divino, a guisa75 di luce, trascorre76 in un instante, che è l’istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l’in-

49. natura: è qui intesa come “Dio”. 50. agguagli: eguagli. 51. necessità: il fatto che siano ineluttabili. 52. punto: affatto. 53. niente: per niente. 54. il fatto: le cose accadute. 55. dubito: temo. 56. pigliate ombra: vi adombriate, vi preoccupiate. 57. ricevute: intese. 58. di che: di cui. 59. cognizione: conoscenza. 60. sapienza divina: soggetto di conosce. 61. procede... intuito: procede per ragionamenti e passaggi che si succedono, mentre il modo di conoscere divino è puramente intuitivo. 62. guadagnar la scienza: acquisire la conoscenza. 63. passioni: proprietà. 64. per: come. 65. apprensione: intuizione. 66. temporaneo discorso: ragionamento che richiede

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tempo. 67. in effetto... si comprendono: potenzialmente sono contenute. 68. per esser infinite: poiché sono infinite (riferito alle passioni). 69. adombrato: offuscato. 70. speditamente: in modo immediato. 71. tra esse... trascorrere: possiamo velocemente superarle. 72. che altro... eguali?: Salviati enuncia il teorema di Pitagora e poi quello di equivalenza dei parallelogrammi, come esempi di modalità del ragionamento umano. 73. egli: pleonastico. 74. che essere... termine: si tratta dell’enunciazione del teorema generale (che comprende anche i due precedenti) di equivalenza tra due superfici che combaciano (non si avanzano) se sovrapposte (adattate insieme) e che hanno la stessa estensione (si racchiuggono... termine). 75. a guisa: come se fosse. 76. trascorre: li supera.

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tender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d’infinito intervallo77 superato dal divino; ma non però l’avvilisco78 tanto, ch’io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto maravigliose cose hanno intese investigate79 ed operate gli uomini, pur troppo80 chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti. Io son molte volte andato meco medesimo81 considerando, in proposito di questo che di presente82 dite, quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano; e mentre io discorro per83 tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sì nelle arti come nelle lettere, e poi fo reflessione sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere84 non solo di ritrovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi reputo poco meno che infelice. S’io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico a me medesimo: “E quando sapresti levare il soverchio85 da un pezzo di marmo, e scoprire sì bella figura che vi era nascosa? quando mescolare e distendere sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano86?” S’io guardo quel che hanno ritrovato gli uomini nel compartir gl’intervalli musici87, nello stabilir precetti e regole per potergli maneggiar88 con diletto mirabile dell’udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti e sì diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia riempie chi attentamente considera l’invenzion de’ concetti e la spiegatura89 loro? Che diremo dell’architettura? che dell’arte navigatoria? Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza90 di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta91. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa92 de’ nostri ragionamenti di questo giorno: ed essendo passate le ore più calde, il signor Salviati penso io che avrà gusto di andare a godere de i nostri freschi in barca93; e domani vi starò attendendo amendue per continuare i discorsi cominciati, etc. da Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli, 1953

77. d’infinito intervallo: infinitamente. 78. l’avvilisco: lo svaluto. 79. investigate: ricercate. 80. pur troppo: molto. 81. meco medesimo: fra me e me. 82. di presente: ora. 83. discorro per: passo in rassegna con la mente. 84. promettere: ripromettere. 85. il soverchio: il superfluo. 86. Raffaello... Tiziano: Raffaello Sanzio (1483-1520) e Tiziano Vecellio (1488-1576) sono due fra i massimi rappresentanti della pittura italiana rinascimentale.

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87. compartir... musici: suddividere gli intervalli musicali. Si ricordi che nel Rinascimento la trattatistica musicale, in seguito alle innovazioni apportate, conobbe un notevole sviluppo. 88. potergli maneggiar: poterli utilizzare. 89. spiegatura: sviluppo. 90. eminenza: superiorità. 91. con i vari... carta: qui si allude all’invenzione dell’alfabeto e della stampa con caratteri mobili. 92. sigillo... chiusa: emblema conclusivo, conclusione. 93. de i nostri... barca: la frescura della sera in gondola.

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inee di analisi testuale Sapienza assoluta e sapienza limitata Galilei pone in discussione il principio di autorità al quale obbediscono gli intellettuali di stampo tradizionale e suggerisce la via della ricerca e dell’autonomia intellettuale del singolo, a patto che venga percorsa in sostanziale umiltà, riconoscendo i limiti della conoscenza umana in relazione alla sapienza assoluta di Dio. Il pubblico dell’opera Come esempi della differenza d’infinito intervallo tra la divinità e l’uomo, Sagredo propone quello della vite e Salviati quello della statua di Buonarroti. La differenza abissale tra l’operare divino e la conoscenza umana trova così, grazie agli esempi concreti, un’immediata visualizzazione agli occhi del lettore. Galilei non si rivolge infatti solo alla ristretta cerchia dei colleghi e degli specialisti, ma a un uditorio il più ampio possibile: per questa ragione, spesso, immagini tratte dalla vita reale compaiono con viva immediatezza a illustrare argomentazioni teoriche. Ingegno e nuovo metodo conoscitivo La conclusione della prima giornata del Dialogo è affidata a una riflessione di Sagredo. Il nobile pone in evidenza la grande… acutezza dell’ingegno umano e le tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli uomini. Elenca esempi tratti dalla scultura, dalla pittura, dalla musica, fino a giungere alla stupenda invenzione della scrittura che permette alle conoscenze di attraversare spazi e tempi. Sono frasi che si collocano indubbiamente sulla scia delle concezioni rinascimentali: gli uomini, se pure non possono raggiungere il vero assoluto, possono tuttavia dirsi fieri dei progressi compiuti. Si fornisce anche una chiara indicazione del metodo da seguire: la realtà deve essere osservata con occhio obiettivo, autonomo, disincantato; i diversi fenomeni devono trovare ordine e unità attraverso il linguaggio matematico. Lo stile Galileo utilizza nel passo uno stile cui non è sempre estraneo il linguaggio metaforico seicentesco; tuttavia, proprio attraverso la semplificazione di questa modalità espositiva, riesce a esprimere un senso di sincero e reale stupore: la sua è autentica meraviglia di fronte all’arte e all’ingegno umani, capaci di gareggiare con la natura.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi in forma discorsiva il passo del Dialogo sopra i due massimi sistemi. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Che cosa sostiene nel dialogo il personaggio di Salviati? b. Qual è, nel dialogo, la posizione del personaggio di Sagredo? c. Quali sono le tesi di fondo che Galileo intende proporre nel passo? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A quale filosofo greco si richiama Galileo nel testo per dimostrare la sua tesi sulla relatività della conoscenza umana e sulla base di quale figura retorica egli argomenta? b. A quale grande invenzione dell’intelletto umano fa riferimento Galileo alla fine del brano senza nemmeno nominarla, e per quale motivo, a tuo avviso, l’autore non la nomina esplicitamente? c. Quali sono le caratteristiche dello stile usato nel passo e in quale relazione esso si pone rispetto alle modalità espressive tipiche del gusto barocco? Approfondimenti 4. Rifletti sulla concezione di Galileo a proposito delle capacità della mente umana di arrivare alla conoscenza della verità e confronta la sua posizione con quella della scienza contemporanea, citando in proposito esempi delle teorie attuali, tratti da libri, riviste scientifiche o da programmi televisivi di divulgazione. 5. Scrivi (per il giornale d’Istituto) una recensione del passo del Dialogo sopra i due massimi sistemi qui proposto, illustrandone sinteticamente i caratteri contenutistici e stilistici. Devi presentare l’opera e convincere i lettori, con valide motivazioni, che essa merita di essere letta. Non superare le due colonne di metà foglio protocollo. 6. Tratta sinteticamente il seguente argomento (max 20 righe): La via della ricerca conoscitiva umana secondo Galileo Galilei.

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T5 Contro l’Ipse dixit da Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, giornata II All’inizio della seconda giornata, il nobile Sagredo narra l’aneddoto dell’anatomista che, nel sezionare un cadavere, osserva che il sistema nervoso parte dal cervello e non dal cuore, come invece sosteneva Aristotele. Il brano qui proposto è giustamente famoso: Galilei presenta con chiarezza ciò che distingue la scienza moderna e il suo metodo sperimentale, basato sull’osservazione, dall’ossequio all’autorità, i cui seguaci non si arrendono nemmeno di fronte all’evidenza dei fatti. Ironia e sarcasmo mettono in luce il contrasto tra l’ostinato dogmatismo e il nuovo metodo, basato sulla libertà di pensiero e d’indagine. PISTE DI LETTURA • L’ironia sul dogmatismo e sul servilismo intellettuale • L’exemplum dell’anatomista aristotelico • Tono ironico e sarcastico

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Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando1 le cose di ieri, e veramente trovo di molte belle nuove e gagliarde considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer2 assai più dall’autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare... Voi scotete la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qualche grande esorbitanza3. Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch’io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora nominare. Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò4 forse il signor Simplicio non continuasse di creder d’avervi esso mosse le risa. Son contento5. Mi trovai un giorno in casa un6 medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia7 per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l’origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici Galenisti8 ed i Peripatetici9; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo10 de i nervi si andava poi distendendo per la spinale11 e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe12 arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch’egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé13, rispose: “Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata14, che quan-

1. ruminando: rimuginando. 2. stringer: costringere. 3. esorbitanza: assurdità. 4. acciò: affinché. 5. Son contento: d’accordo. 6. un: di un. 7. notomia: dissezione anatomica. 8. Galenisti: i seguaci di Claudio Galeno (129-200 ca.) di Pergamo, medico e filosofo, autore di scritti di anatomia, fisiologia sperimentale e terapia, i quali affermavano che il sistema nervoso ha origine dal cervello e non dal cuore, come

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sosteneva Aristotele. 9. Peripatetici: i seguaci della scuola di Aristotele, così denominati per la loro consuetudine di passeggiare nel Peripato, parte del Liceo dove il maestro teneva le sue lezioni. 10. ceppo: fascio. 11. spinale: colonna vertebrale. 12. refe: sottile filo per cucire. 13. sopra di sé: soprappensiero. 14. aperta e sensata: palese e percepibile con i sensi.

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do15 il testo d’Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera.” Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell’origine de i nervi non è miga così smaltita e decisa16 come forse alcuno si persuade. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori17; ma questo che voi dite non diminuisce punto18 la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a così sensata esperienza non produsse19 altre esperienze o ragioni d’Aristotile, ma la sola autorità ed il puro Ipse dixit20. Aristotile non si è acquistata sì grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne’ suoi libri, che se ne sia formata un’idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla mente; perché e’ non ha scritto per il volgo, né si è obligato21 a infilzare i suoi silogismi col metodo triviale ordinato22, anzi, servendosi del perturbato23, ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che par che trattino di ogni altra cosa: e però24 bisogna aver tutta quella grande idea25, e saper combinar questo passo con quello, accozzar26 questo testo con un altro remotissimo; ch’e’ non è dubbio che chi averà27 questa pratica, saprà cavar da’ suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile, perché in essi è ogni cosa. Ma, signor Simplicio mio, come28 l’esser le cose disseminate in qua e in là non vi dà fastidio, e che voi crediate con l’accozzamento e con la combinazione di varie particelle29 trarne il sugo30, questo che voi e gli altri filosofi bravi farete con i testi d’Aristotile, farò io con i versi di Virgilio o di Ovidio, formandone centoni31 ed esplicando con quelli tutti gli affari de gli uomini e i segreti della natura. Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? io ho un libretto assai piú breve d’Aristotile e d’Ovidio, nel quale si contengono tutte le scienze, e con pochissimo studio altri32 se ne può formare una perfettissima idea: e questo è l’alfabeto; e non è dubbio che quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonanti o con quell’altre, ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l’accozzare un poco di questo con un poco di quello e di quell’altro, figurando33 uomini, piante, fabbriche34, uccelli, pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili, senza che su la tavolozza sieno né occhi né penne né squamme né foglie né sassi: anzi pure è necessario che nessuna delle cose da imitarsi, o parte alcuna di quelle, sieno attualmente35 tra i colori, volendo che con essi si possano rappresentare tutte le cose; ché se vi fussero, verbigrazia36, penne, queste non servirebbero per dipignere altro che uccelli o pennacchi.

15. quando: se. 16. smaltita e decisa: risolta e portata a termine. 17. Né sarà... contradittori: non sarà mai risolta, fino a che vi saranno obiezioni di questo tipo. 18. punto: affatto. 19. produsse: propose. 20. Ipse dixit: letteralmente Lo ha detto lui (Aristotele); è il principio di autorità in base al quale i peripatetici sostenevano la validità incontestabile delle loro opinioni. 21. obligato: sottoposto alla costrizione. 22. infilzare... ordinato: disporre in ordine i suoi sillogismi secondo un criterio basato su una banale successione di ragionamenti; il sillogismo è un ragionamento di tipo deduttivo costituito da premesse (una maggiore e una minore) e da una conclusione che ne deriva necessariamente (ad esempio, tutti gli uomini sono mortali, tutti i greci sono uomini, dunque tutti i greci sono mortali).

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23. perturbato: si tratta del metodo “disordinato”, opposto a quello “ordinato” che è di più facile comprensione. 24. però: perciò. 25. aver... idea: conoscere il sistema filosofico aristotelico nella sua globalità. 26. accozzar: mettere insieme. 27. averà: acquisirà. 28. come: dal momento che. 29. particelle: parti. 30. sugo: significato. 31. centoni: componimenti letterari, in uso nell’Alto Medioevo, risultanti dalla giustapposizione di espressioni arbitrariamente tratte da vari autori classici. 32. altri: chiunque. 33. figurando: rappresentando. 34. fabbriche: edifici. 35. attualmente: effettivamente. 36. verbigrazia: ad esempio.

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E’ son vivi e sani alcuni gentil uomini che furon presenti quando un dottor leggente in uno Studio37 famoso, nel sentir circoscrivere38 il telescopio, da sé39 non ancor veduto, disse che l’invenzione era presa da Aristotile; e fattosi portare un testo, trovò certo luogo40 dove si rende la ragione onde41 avvenga che dal fondo d’un pozzo molto cupo si possano di giorno veder le stelle in cielo; e disse a i circostanti: “Eccovi il pozzo, che denota il cannone; eccovi i vapori grossi, da i quali è tolta l’invenzione de i cristalli; ed eccovi finalmente fortificata la vista nel passare i raggi per il diafano più denso e oscuro42.” Questo è un modo di contener tutti gli scibili assai simile a quello col quale un marmo contiene in sé una bellissima, anzi mille bellissime statue; ma il punto sta a saperle scoprire43: o vogliam dire che e’ sia simile alle profezie di Giovacchino44 o a’ responsi degli oracoli de’ gentili45, che non s’intendono se non doppo gli eventi delle cose profetizate. […] Io credo, e in parte so, che non mancano al mondo de’ cervelli molto stravaganti, le vanità de’ quali non dovrebbero ridondare in pregiudizio d’Aristotile46, del quale mi par che voi parliate talvolta con troppo poco rispetto; e la sola antichità, e ’l gran nome che si è acquistato nelle menti di tanti uomini segnalati, dovrebbe bastar a renderlo riguardevole appresso di tutti i letterati. Il fatto non cammina47 così, signor Simplicio: sono alcuni suoi seguaci troppo pusillanimi, che danno occasione, o, per dir meglio, che darebbero occasione, di stimarlo meno, quando noi volessimo applaudere48 alle loro leggereze49. E voi, ditemi in grazia, sete così semplice che non intendiate50 che quando51 Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor che lo voleva far autor del telescopio, si sarebbe molto più alterato contro di lui che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano? Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e’ non fusse per mutar opinione e per emendar52 i suoi libri e per accostarsi alle più sensate dottrine, discacciando da sé quei così poveretti di cervello che troppo pusillanimamente s’inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide53, volesse che i suoi decreti54 fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l’autorità ad Aristotile, e non esso che se la sia usurpata o presa; e perché è più facile il coprirsi sotto lo scudo d’un altro che ’l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d’allontanarsi un sol passo, e più tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono impertinentemente negar quelle che veggono nel cielo della natura. da Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli, 1953

37. dottor... Studio: docente in una Università. 38. circoscrivere: descrivere. 39. da sé: da lui stesso. 40. luogo: si tratta di un passo tratto dall’opera aristotelica De generatione animalium (“L’origine degli animali”). 41. onde: per cui. 42. Eccovi... oscuro: il docente aristotelico interpreta il pozzo come la canna del telescopio e i vapori che si addensano nella parte alta del pozzo (vapori grossi) come le lenti dello strumento; la vista dell’osservatore sarebbe così potenziata con il passaggio dei raggi del sole attraverso i vapori densi ma trasparenti. 43. scoprire: portarle alla luce. 44. Giovacchino: si tratta di Gioacchino da Fiore (1130 ca. – 1202), teologo e mistico che profetizzò, in modo vago e

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privo di precisi riferimenti temporali, la venuta di un’epoca dello Spirito Santo, che avrebbe seguito quelle del Padre e del Figlio. 45. gentili: pagani. 46. ridondare... Aristotile: costituire un pregiudizio verso Aristotele. 47. cammina: sta. 48. applaudere: acconsentire. 49. leggereze: superficialità. 50. che non intendiate: da non capire. 51. quando: se. 52. fusse per mutar... e per emendar: sarebbe disposto a mutare [...] e a correggere. 53. stolide: stolte. 54. decreti: teorie.

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inee di analisi testuale L’ironia contro l’ipse dixit Nonostante la chiarezza e l’immediatezza dell’osservazione diretta, il notomista dell’exemplum continua a negare l’evidenza in nome di quanto scritto da Aristotele, ignorando la sensata esperienza e affidandosi al puro ipse dixit, ossia a quanto scrisse il filosofo greco. Galilei, fiero oppositore del principio d’autorità – come già lo era stato Leonardo da Vinci – rassegnato al fatto che Simplicio sia irrecuperabile, passa all’ironia, facendolo parlare tramite immagini collegate al processo digestivo (sono andato ruminando), quasi a porre in risalto l’animalità tipica delle pecore. A Simplicio, Sagredo ribatte con una sorta di paradosso: logicamente, usando l’alfabeto come “testo unico”, è possibile giustificare le più diverse proposizioni. E Salviati ricorda come, collegando e interpretando in modo fantasioso i testi aristotelici, sia possibile giustificare tutto ciò che si desidera, al punto che qualcuno è riuscito a trovare nelle parole di Aristotele addirittura la profezia dell’invenzione del telescopio. Infine Salviati recupera la figura di Aristotele distinguendola da quelle degli epigoni seicenteschi, condannando parallelamente, con durezza, le pecore che, coprendosi sotto lo scudo d’un altro, perpetuano all’infinito la propria ignoranza. Quella di Galileo è una lotta titanica contro la pigrizia intellettuale, valida – con le necessarie modifiche – anche in altre epoche. La differenza fra gli stili Alla grande efficacia della prosa galileiana contribuisce il ricorso a immagini concrete, forti – come quella del cadavere sezionato –, grazie alle quali il messaggio riceve potenza e rilievo. Tanto l’ironia è tagliente fino a raggiungere talora il sarcasmo, quanto il periodare galileiano è chiaro e preciso; l’autore sembra voler riprodurre i momenti in cui, durante l’esperimento, si riesce a raggiungere la certezza grazie alla totale evidenza del fenomeno. Simplicio si dibatte invece in uno sterile e cavilloso argomentare, con cui insiste senza tregua sulla necessità di seguire l’autorità di Aristotele, difendendone a oltranza i testi o, meglio, le interpretazioni forzate che di tali testi sono ormai prassi comune. Ma allo scienziato moderno, di fronte alle conoscenze dirette e sperimentali non occorrono le conferme provenienti dalle pur autorevoli fonti dell’antichità.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Che cosa sostiene nel dialogo il personaggio di Salviati? b. Qual è, nel dialogo, la posizione del personaggio di Sagredo? c. Simplicio, nel brano, appare un tipico esempio di chi argomenta secondo la concezione dell’ipse dixit: perché? 2. Svolgi un riassunto del brano in forma discorsiva, ossia non in forma di dialogo e senza l’uso del discorso diretto. Analisi e interpretazione 3. Suddividi il testo del dialogo in sequenze, identificando per ciascuna l’argomento principale. Approfondimenti 4. Tratta sinteticamente il seguente argomento (max 20 righe): Come si percorre la via della ricerca, secondo Galileo Galilei?

Galileo mostra il cannocchiale ad alcune dame. Controfrontespizio delle opere di Galileo in un’edizione bolognese del 1656.

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

I pregi della prosa galileiana

Raffaele Spongano

In questo brano, il critico Raffaele Spongano analizza la prosa galileiana con accenti di entusiastica ammirazione, affermando che Galileo è dotato di un vero e proprio magistero stilistico dovuto all’ampiezza di respiro di cui è capace la sua anima. La sintassi di Francesco Guicciardini, che Spongano utilizza come termine di paragone, è altrettanto complessa di quella di Galilei; tuttavia solo lo scienziato riesce a far sì che tale complessità si risolva in vastità e libera immensità anziché in compattezza e in massa. La prosa di Galileo è il riflesso della sua anima: fervida, e cionondimeno padrona di sé, entusiastica […], e cionondimeno grave. Non vi è prosatore che come lui sappia contenere, sotto il dominio della riflessione, la foga e il fremito della passione, e che con altrettanta sicurezza raffreni e temperi tutti gli scatti dell’ardore. Di qui il tono prevalentemente calmo dei suoi scritti, di qui il giro prevalentemente largo della sua forma: due cose che restano impresse e che tuttavia non sono né il metro né il senso unico della sua pagina. Voglio dire che Galileo è uno scrittore che pagina per pagina si presenta vario, e quindi anche vivace e rapido, e tuttavia nell’insieme torna quasi solamente alto e solenne. Persino i suoi scritti polemici si risolvono in un’ampia più che agitata esaltazione della sua figura di scienziato, e trasfigurano in ritratto il suo ideale di sapienza, più che registrare e descrivere le battute e le mosse di un contrasto. Così, in questa prosa i particolari contano dappertutto meno che l’insieme, al contrario di quello che accade negli scrittori più letterati, dove i particolari pesano e vengono in luce punto per punto come un riflesso o uno spiccato accento di motivi dominanti. In Galileo non la parola, né la frase o la battuta, segnano ciò, ma il periodo, e più del periodo la pagina, più della pagina l’intero sviluppo di un’argomentazione. E questo avviene non solo per la forza di concatenazione logica di cui è dotata la sua mente, ma per un vero e proprio magistero stilistico dovuto all’ampiezza di respiro di cui è capace la sua anima. Qui si rivela l’originalità assoluta di Galileo come scrittore, che, pur avendo un intelletto potentemente costruttivo e logico, è tuttavia alienissimo dal costruire i suoi periodi sui nudi suggerimenti di esso, cioè con forti e rigide giunture sintattiche, e vi infonde un andamento così sciolto che fa delle sue prose di argomento più arduo un capolavoro di lucidezza e di duttilità. Egli ha una sintassi altrettanto complessa del Guicciardini1, ma nel Guicciardini il lettore l’avverte, in lui non se ne accorge. Galileo ha periodi che, nelle parti espositive, vanno quasi sempre oltre le venti righe: alcuni si avvicinano alle trenta. Si leggono come i più agevoli che mai fossero scritti. A volte essi sono concatenati con altri ed altri ancora a saldare il giro di una intera dimostrazione. Neppure questo pesa, neppure qui si para innanzi al lettore nulla di architettonico. Un periodo di simile ampiezza in Guicciardini riesce poderoso, in Galileo è spazioso. L’uno e l’altro hanno un procedimento convergente verso un punto solo ma con quale diversa struttura! Questo punto è il vero rettor di tutti i pesi ed occupa il centro nel periodo guicciardiniano: sta invece nella conclusione del periodo galileiano, e non regge, ma esso è retto da tutto quel che gli è subordinato. Per questo abbiamo lì un edificio sintattico e l’impressione della compattezza e della massa, e qui […] nessuna sensazione del genere, ma, piuttosto, l’impressione della vastità e della libera immensità. da La prosa di Galileo e altri scritti, D’Anna, Messina-Firenze, 1949

1. Guicciardini: Francesco Guicciardini (Firenze 1483 – Arcetri 1540), uomo politico fiorentino, ambasciatore della Repubblica di Venezia presso Ferdinando il Cattolico, consigliere di Alessandro de’ Medici, governatore di Modena e, tra l’altro, responsabile, a Roma, della politica estera pontificia. Le sue opere sono, con quelle di Niccolò Machiavelli, alla base della scienza politica e della storiografia moderna: si ricordano in particolare la Storia d’Italia, la Storia fiorentina, Del reggimento di Firenze, Considerazioni sui discorsi di Machiavelli e i Ricordi.

Un telescopio, un orologio a pendolo e altri strumenti appartenuti a Galilei. Firenze, Museo di Storia della Scienza.

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Concetti chiave LA VITA Galileo Galilei nasce nel 1564 a Pisa. Dopo i primi studi di stampo umanistico, si interessa alla matematica e, a poco più di vent’anni, compie le prime scoperte scientifiche. Nel 1592 ottiene la cattedra di matematica all’Università di Padova e nel 1604 dichiara pubblicamente la propria adesione alle teorie copernicane. Il perfezionamento del cannocchiale e soprattutto il suo utilizzo per osservare la volta celeste permettono a Galileo di introdurre un nuovo metodo di ricerca scientifica, fondato anzitutto sull’osservazione e sull’esperienza sensibile, annunciato con il Sidereus nuncius nel 1610. Nello stesso anno Galileo fa ritorno a Firenze, dove Cosimo II de’ Medici gli offre il ruolo di matematico straordinario dello Studio di Pisa, che gli permette di dedicarsi a tempo pieno alla ricerca scientifica. A causa della sua convinta difesa delle tesi eliocentriche, Galileo è denunciato al Sant’Uffizio per la prima volta nel 1613, mentre nel 1616 la Chiesa condanna la teoria copernicana, che pure non aveva suscitato particolari ostilità nell’epoca rinascimentale, dichiarandola incompatibile con la fede cattolica. Con l’elezione al soglio pontificio di Urbano VIII (1623), Galileo ripropone con forza le tesi copernicane, pubblicando nel 1632 il suo capolavoro: il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. La reazione della Chiesa, però, è di netta opposizione all’opera e lo scienziato pisano viene processato e riconosciuto colpevole (1633); nonostante l’abiura, è condannato al carcere a vita, pena che viene poi commutata nell’isolamento. Galileo trascorre così gli ultimi anni quasi cieco nella villa di Arcetri, assistito dalla figlia suora e dai più vicini discepoli, continuando ad occuparsi di scienza. LE LETTERE COPERNICANE Scritte tra il 1613 e il 1615, le quattro Lettere copernicane spiccano per la loro importanza all’interno del vasto epistolario dello scienziato pisano. Sono da ricordare in particolare la missiva a Benedetto Castelli, che affronta il tema della conciliabilità tra le Sa-

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cre Scritture e la teoria copernicana, e quella a Cristina di Lorena, in cui Galileo chiarisce l’autonomia della scienza dalla religione e polemizza con gli scienziati tolemaici, che trasferiscono la disputa sul piano religioso, affidandosi al principio di autorità.

IL SAGGIATORE Caratterizzato da uno stile chiaro e lucido ma anche ironico e pungente, Il Saggiatore (1623) è il manifesto della nuova scienza sperimentale: riafferma infatti con forza l’importanza dell’osservazione empirica per l’elaborazione delle ipotesi, in opposizione al principio di autorità, e la concezione secondo cui la natura deve essere letta in chiave matematica. Dal punto di vista scientifico, invece, Galileo vi difende una teoria rivelatasi erronea, considerando l’apparizione di tre comete come un fenomeno legato alla riflessione della luce solare. L’opera è importante anche dal punto di vista letterario, sia perché – a differenza delle altre del genere scritte fino a quel momento in ambito scientifico – stesa in volgare, sia per la chiarezza e la precisione del linguaggio scientifico teorizzate e messe in pratica dall’autore. IL DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI Scritto in italiano, con intento divulgativo, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo viene pubblicato nel 1632, un anno prima della condanna dello scienziato. Sotto forma, appunto, di dialogo tra Salviati (che rappresenta il punto di vista dell’autore), Sagredo (che svolge la parte del colto profano tra dotti specialisti) e Simplicio (che incarna il modo di pensare degli aristotelici del Seicento, basato sul riferimento alle tesi delle autorità anche contro l’evidenza), tratta numerose questioni scientifiche e soprattutto espone le argomentazioni a sostegno del sistema copernicano eliocentrico contrapposte a quelle dei sostenitori delle tesi geocentriche aristotelico-tolemaiche, in uno stile chiaro e preciso, lontanissimo dal gusto espressivo barocco prevalente nell’epoca.

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sercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Galileo Galilei nasce nel 1564 a a. Arcetri. b. Padova. c. Firenze. d. Pisa. 2. Nel 1610, con il Sidereus nuncius, Galileo a. annuncia di aver scoperto tre comete. b. polemizza sul sistema aristotelico-tolemaico. c. inaugura il nuovo metodo scientifico in astronomia. d. annuncia di aver inventato il cannocchiale. 3. Un argomento centrale nelle Lettere copernicane di Galileo è a. il chiarimento della differenza fra Medioevo e Rinascimento. b. l’annuncio riguardante la scoperta dei satelliti di Giove. c. l’analisi del problema dei rapporti tra scienza e fede. d. la polemica contro il modo di pensare di Aristotele. 4. Quando il polacco Copernico sostiene l’eliocentrismo nel Rinascimento a. è denunciato al Santo Uffizio e condannato. b. è processato dal Santo Uffizio, ma viene infine assolto. c. non è condannato dalla Chiesa. d. non espone le proprie tesi per evitare la condanna della Chiesa. 5. Nel Saggiatore, Galileo a. annuncia la scoperta delle macchie solari. b. annuncia la scoperta dei satelliti medicei. c. polemizza in forma di dialogo contro gli aristotelici. d. presenta il suo nuovo metodo polemizzando sulle comete. 6. Nel 1633 la Chiesa di Roma a. condanna Galileo al rogo ma infine lo grazia. b. condanna Galileo perché rifiuta di abiurare. c. condanna Galileo al carcere e all’isolamento. d. assolve Galileo, ma gli vieta di esporre le sue tesi. 7. Il famoso ipse dixit a. è la formula con cui Galileo abiura. b. è l’ordine con cui la Chiesa intima a Galileo il silenzio. c. è la frase che Galileo pronuncia dopo la condanna del 1633. d. è la formula latina che traduce il principio di autorità.

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8. Secondo Galileo il “libro della natura” una x la risposta corretta. 1 Indicaa.con è interpretabile solo dalla Chiesa. 1. Galileo nel 1564 a b. puòGalilei esserenasce letto solo da Dio. a.c.Arcetri. b. Padova. è scritto in linguaggio matematico. c.d. Firenze. d. Pisa. divina. non è opera di creazione 2. Nel 1610, con il Sidereus nuncius, Galileo 9. Galileo, attraverso le sue opere,tre esprime la voa. annuncia di aver scoperto comete. lontà di b. polemizza sul sitema aristotelico-tolemaico. affermare la superiorità degli scienziati c.a.inaugura il nuovo metodo scientifico in astrosui teologi in ogni ambito. nomia. contrapporsi alleinventato tesi religiose sostenute d.b.annuncia di aver il cannocchiale. nella Bibbia. 3. Un centrale Letteredicopernic. argomento attribuire alla scienzanelle il compito scocaneprire di Galileo verità èassolute. a.d. il chiarimento della differenza fra Medioevo garantire l’autonomia della scienza dale Rinascimento. la religione. b. l’annuncio riguardante la scoperta dei satel10. LalitiChiesa cattolica, alla fine del XX secolo, di Giove. a. ha riaffermato la condanna di Galileo. c. l’analisi del problema dei rapporti tra scienza b. ha affermato che la Bibbia va interpree fede. alla lettera. d. la tata polemica contro il modo di pensare di c.Aristotele. ha annullato la condanna di Galileo. d. ha sostenuto la superiorità della scien4. Quando polaccomorali. Copernico sostiene l’elioza suiil princìpi centrismo nel Rinascimento a. èindenunciato al Santo Uffizio eargomeninfine con2 Svolgi modo sintetico i seguenti ti (maxdannato. 20 righe). è processato Santo Uffizio ma viene 1. I b. fatti salienti chedal hanno caratterizzato la vitainfine assolto. di Galileo Galilei, nel contesto del suo tempo. non è oggetto di condanna parte della 2. Lac.posizione e il ruolo della Chiesadacattolica di Chiesa. fronte alle tesi di Copernico, di Galileo e alla d. non della espone le proprie tesi per evitare la connascita scienza moderna. danna della Chiesa. 3. Le caratteristiche del sistema aristotelico tolee del sistema copernicano eliocentrico. 5.maico Nel Saggiatore, Galileo 4. Laa.rivoluzione operata da Galileo annuncia laconoscitiva scoperta delle macchie solari. Galilei e la nascita della dei scienza moderna in b. annuncia la scoperta satelliti medicei. contrapposizione al principio di autorità. c. polemizza in forma di dialogo contro gli ari5. Le principali stotelici. opere di Galileo: contenuti, significato letterario e scientifico, stile.polemizzando d. presenta il suo nuovo metodo sulle comete. 6. Nel 1633 la Chiesa di Roma ANALISI DEL TESTO a. condanna Galileo al rogo ma infine lo grazia. b. il condanna Galileogliperché rifiuta di abiurare. 3 Leggi testo e svolgi esercizi proposti. c. condanna Galileo al carcere e all’isolamento. Riportiamo quiGalileo di seguito dell’abiura d. assolve ma alcuni gli vietapassi di esporre le sue che Galileo sottoscrisse a Roma il 22 giugno tesi. 1633 in seguito alla condanna nel processo in7. Il famoso ipse dixit tentato dalla Chiesa contro di lui. a. è la formula con cui Galileo abiura nel 1633. Io Galileo […] giuro hointima creduto, creb. è l’ordine conche cuisempre la Chiesa a Galileo do adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avil silenzio. venire, quello cheGalileo tiene, predica e insegna c. ètutto la frase che pronuncia dopo la la S.a [Santa] Cattolica et Apostolica Chiesa. Ma condanna del 1633. perché S. Off.o Ufficio],ilper aver d. èdalaquesto formula latina[Santo che traduce principio io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesd’autorità. so giuridicamente intimato che omninamente [as8. Secondodel Galileo “libro della solutamente, tutto]ildovessi lasciarnatura” la falsa opia. è interpretabile solo dalla Chiesa. nione che il sole sia centro del mondo e che non b. puòe essere si muova che la letto terra solo non da siaDio. centro del monè scritto in linguaggio matematico. do e c. che si muova […], sono stato giudicato vehed. non è opera di creazione divina. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

mentemente [fortemente] sospetto d’heresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo et imobile e che la terra non sia centro e che si muove. Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re [Vostre] e d’ogni fedel Christiano questa vehemente sospitione [sospetto], giustamente di me conceputa [originatosi giustamente sul mio conto], con cuor sincero e fede non finta abiuro [rifiuto], maledico e detesto li sudetti errori et heresie, e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospitione; ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d’heresia lo denontiarò [denuncerò] a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco e prometto d’adempire et osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo [se contravvenissi, se mancassi] ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono dai sacri canoni et altre constitutioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate […]. Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria. da E. Genovesi, Processi contro Galileo, Ceschina, Milano, 1966

Comprensione 1. Rileggi con attenzione questo passo e riassumine il contenuto in non più di 15 righe. 2. Che cosa afferma Galileo rispetto alla sua fedeltà alla Chiesa cattolica? (max 5 righe) 3. Qual è la posizione che Galileo assume rispetto alla teoria eliocentrica da lui sostenuta fino a quel momento e da quale passo emerge? (max 5 righe) 4. Che cosa significa esattamente il termine “abiurare” usato da Galileo? (max 5 righe) Analisi e interpretazione 5. Rispondi alle seguenti domande. a. Quali elementi linguistici e stilistici evidenziano il fatto che il testo è seicentesco? b. Rileva e spiega le figure retoriche presenti nel testo. c. A quale genere appartiene questo testo e quali ne sono le caratteristiche? Approfondimenti 6. Innumerevoli testimonianze attestano come Galileo abbia sottoscritto l’abiura alle proprie convinzioni copernicane anche se non convinto della loro erroneità. Quali motivazioni ri-

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tieni lo abbiano indottolead la dolo-la vo9. Galileo, attraverso sueassumere opere, esprime rosalontà decisione di di abiurare e come giudichi il suo a. atteggiamento? affermare la superiorità degli scienziati sui 7. In un suo celebre passo, il grande filosofo noteologi in ogni ambito. vecentesco Karl Popper l’altro nella b. contrapporsi alle tesisostiene religiose fra sostenute quantoBibbia. segue. c. attribuire alla scienza il compito di scoprire La storia verità della scienza, assolute.come quella di tutte le idee umane, è storia di sogni irresponsabili, di red. garantire l’autonomia della scienza dalla ostinazioni e di errori. Ma la scienza è una delle ligione. pochissime attività umane – se non l’unica – in La Chiesa cattolica, alla fine del XX secolo, cui 10. gli errori vengono sistematicamente sottopoa. ha riaffermato la condanna di Galileo. sti a critica e, sovente, corretti con l’andare del ha affermato che la Bibbia interpretata tempo.b.Per questo possiamo direvache, nella alla lettera. scienza, spesso impariamo dagli errori […]. c. ha annullato la condanna di Galileo. sostenuto la superiorità scienza sui dad.K.haPopper, Verità, razionalità edella accrescersi princìpi morali. della conoscenza scientifica Chiarisci con parole tue il significato delle affermazioni di Popper e esponi il tuo motivato in modo sintetico i seguenti argomenti 2 Svolgi punto di vista sul rapporto – di continuità o di (max 20 righe). contrapposizione – che ti sembra esistere lafravita di 1. I fatti salienti che hanno caratterizzato le tesi del filosofo novecentesco e conceGalileo Galilei, nel contesto del lasuo tempo. zione della scienza che emerge dall’intera 2. La posizione e il ruolo della Chiesa cattolica di opera galileiana. fronte alle tesi di Copernico, di Galileo e alla nascita della scienza moderna. 3. Le caratteristiche del sistema aristotelico toleSAGGIO BREVE maico /eARTICOLO del sistema copernicano eliocentrico. 4. La rivoluzione conoscitiva operata da Galileo 4 Sviluppa uno edei argomenti forma in Galilei la seguenti nascita della scienzainmoderna di saggio breve o di articolo di giornale, utilizcontrapposizione al principio di autorità. zando come materiali di di consultazione le pa-signi5. Le principali opere Galileo: contenuti, gine presenti in questo volume (compresi i ficato letterario e scientifico, stile. passi antologici e critici). Attribuisci all’elaborato un titolo coerente con la trattazione e indicaSAGGIO BREVE / ARTICOLO ne una destinazione editoriale a tua scelta. Per entrambe le forme di scrittura, non superare le uno dei foglio seguenti argomenti in forma di 4treSviluppa colonne di metà protocollo. saggio breve o di articolo di utilizzando 1. La ricerca e l’affermazione giornale, della verità secome materiali di consultazione le pagine precondo Galileo. in questo volume (compresi i passinei antolo2. senti Le prese di posizione della Chiesa cattolica gici e critici). Attribuisci all’elaborato un titolo confronti di Nicola Copernico, Giordano coerente con la trattazione e indicane una destiBruno e Galileo Galilei. nazione editoriale a tua scelta. Per entrambe le forme di scrittura, non superare le tre colonne di metà foglio protocollo. TEMA DI STORICO della verità secondo 1. ARGOMENTO La ricerca e l’affermazione Galileo. 5 Svolgi la seguene traccia. della Chiesa cattolica nei 2. Le prese di posizione Il Seicento è, per l’Europa, un secolo di graveGiordano crisi confronti di Niccolò Copernico, economica, carestie, pestilenze, guerre e conflitti religiosi, cui si aggiunge, in Italia, una marcata crisi politica. È tuttavia anche il secolo della rivoluzione culturale da cui nasce il pensiero scientifico moderno e di cui è protagonista, insieme ad altri grandi scienziati e pensatori europei, Galileo Galilei. Chiarisci le modalità in cui si manifesta l’ambivalenza del secolo XVII.

CAP. 5 - GALILEO GALILEI

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CAPITOLO

CAPITOLO

6 LA

William Shakespeare

VITA E LE OPERE

La vita William Shakespeare nasce a Stratford-on-Avon, in Inghilterra, nel 1564. La madre discende da una famiglia di possidenti del contado; il padre è un guantaio che, dopo aver raggiunto un certo benessere, attraversa momenti economicamente difficili durante l’infanzia dello scrittore, terzogenito di otto figli. Le notizie sulla giovinezza del grande scrittore risultano, inoltre, scarse e non sempre attendibili. Dopo aver studiato a Stratford e, forse, aver frequentato per qualche tempo l’università, Shakespeare a diciott’anni sposa Anne Hathaway, figlia di coltivatori, di otWilliam Shakespeare nel 1610 circa, dipinto di autore anonimo detto Ritratto Chands. Londra, National Portrait Gallery.

LA

LINEA DEL TEMPO: LA VITA E LE OPERE

1564 William Shakespeare nasce a Stratford-on-Avon

1588 1576 VIENE COSTRUITO A LONDRA THE THEATRE

1582 Sposa Anne Hathaway

LA

FLOTTA INGLESE SCONFIGGE L’INVINCIBILE ARMATA SPAGNOLA

1588-1593 La bisbetica domata

1592-1594 I

TEATRI DI LONDRA SONO CHIUSI PER UN’EPIDEMIA DI PESTE

1593-1596 Sogno di una notte di mezza estate

1594 Entra nella compagnia dei Lord Chamberlain’s Men

1594-1597 Il mercante di Venezia

1592-1595 Romeo e Giulietta

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CAP. 6 - WILLIAM SHAKESPEARE

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Shakespeare a Londra

Gli esordi teatrali

I rapporti con la cultura italiana

L’ingresso nella compagnia teatrale di corte

I capolavori dei primi anni del Seicento Autore e impresario

1598 La compagnia di Shakespeare costruisce il Globe Theatre

1598-1599 Giulio Cesare

to anni più anziana di lui. Negli anni immediatamente successivi, alla coppia nascono tre figli. Fino al 1592 non si hanno più notizie di Shakespeare: viene oggi ritenuta probabile l’ipotesi che egli abbia svolto l’attività di maestro nel contado, scrivendo forse opere per piccole compagnie teatrali. Nel 1592 l’autore è sicuramente a Londra e, in base alle testimonianze pervenuteci, già gode di notevole fama come drammaturgo e attore; è inoltre entrato in rapporto di amicizia – si ignora per quale via – con personaggi altolocati, ai quali dedica le opere letterarie in versi scritte fra il 1593 e il 1597: i poemetti Venere e Adone e Lucrezia violata, composti contemporaneamente ai primi Sonetti. Fra il 1591 e il 1594 esordisce in campo teatrale sotto l’influsso di Christopher Marlowe (1564-1593), grande drammaturgo dell’età elisabettiana, sperimentando vari generi: il dramma (con Enrico VI), la tragedia dell’orrore e la commedia. Tra il 1592 e il 1599, scrive una serie di drammi legati alla storia inglese, come Riccardo III, Riccardo II, Enrico IV ed Enrico V, alternandoli con la produzione di commedie di carattere, come La bisbetica domata, o di ispirazione fantastica, come il Sogno di una notte di mezza estate; nel 1595 scrive Romeo e Giulietta, uno dei suoi capolavori. Alcuni studiosi suppongono che Shakespeare abbia trascorso in Italia settentrionale qualche tempo, dopo lo scoppio dell’epidemia di peste del 1592 a Londra, perché, attorno al 1594, lo scrittore elabora drammi d’ambiente italiano che sembrano rivelare una diretta conoscenza delle località citate. In ogni caso, Shakespeare ha occasione di familiarizzare con la cultura italiana, anche grazie alla conoscenza del traduttore Giovanni Florio, che frequenta la casa del conte di Southampton, protettore dello scrittore. Quasi certamente è Southampton a permettere a Shakespeare di entrare a far parte della prestigiosa compagnia teatrale di corte dei Chamberlain’s Men (“Gli uomini del Ciambellano”), più tardi ribattezzata King’s Men (“Gli uomini del re”), il che gli consente di godere di prosperità economica e di dedicarsi sempre più intensamente alla propria attività di drammaturgo. Nel 1596 gli muore il figlio Hammet; nell’anno successivo, per essere più vicino alla famiglia, Shakespeare acquista una proprietà a Stratford, pur continuando a risiedere a Londra. Intanto, agli inizi del Seicento, dopo la realizzazione di alcune commedie, la produzione di Shakespeare si orienta verso testi di profonda drammaticità e in questo periodo nascono i maggiori capolavori: nel 1601 scrive Amleto; nel 1605 Otello; nel 1606 Re Lear e Macbeth. Shakespeare si dedica intanto, a fronte dei suoi successi, all’attività di impresario: dopo aver aperto nel 1599 il teatro The Globe, a partire dal 1603 rinuncia all’attività di attore per dedicarsi esclusivamente a scrivere testi e a curarne l’alle-

1603 MUORE ELISABETTA I La compagnia di Shakespeare prende il nome di King’s Men

1600-1601 Amleto

1602-1611 Otello

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1604 TERMINA LA GUERRA TRA INGHILTERRA E SPAGNA

1605-1606 Re Lear

1608 I King’s Men acquistano un teatro al chiuso, il Blackfriars

1609 Pubblicazione dei Sonetti

1616 Muore a Stratford-onAvon

1611 La tempesta

1605-1608 Macbeth

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Le ultime opere a Stratford

stimento; nel 1609, i King’s Men, che godono del diretto appoggio del nuovo re Giacomo I, cominciano ad utilizzare il teatro coperto di Blackfriars, che diventa la sede principale della compagnia. Prima del 1610, Shakespeare fa ritorno stabilmente a Stratford. Le sue ultime opere sono caratterizzate da nuove tematiche, come Il racconto d’inverno del 1611 e La tempesta dell’anno successivo. A Stratford lo scrittore muore nel 1616.

I Sonetti Introspezione, emozioni, petrarchismo

I temi classicisti e convenzionali

Versi originali e ricchi di sensibilità moderna

I Sonetti (editi per la prima volta nel 1609) sono una raccolta che si distingue da tutti i canzonieri dell’epoca per la capacità di analizzare le passioni umane più intime e per l’appassionato accento di esperienza vissuta. Dedicati in parte a Mr. W.H. e in parte ad un’altrettanto misteriosa Dark Lady (“Signora bruna”, ma anche “Signora oscura”), i Sonetti si avvicinano nell’ispirazione e nella poetica al petrarchismo e alla lirica latina classica. Non sono privi, però, anche di influssi della sensibilità barocca del tempo. In essi sono presenti motivi convenzionali e temi classicisti evidenti soprattutto nei primi 18 sonetti, il gruppo dei cosiddetti “sonetti matrimoniali”: ad esempio il tema dell’immortalità assicurata dai versi (Orazio), l’invito al matrimonio e alla procreazione (tipico della letteratura latina). Convenzionali sono il ricorrere dell’apparizione notturna dell’amata, la sua assenza, i suoi occhi, motivi di derivazione petrarchista, presenti soprattutto nei sonetti dedicati alla Dark Lady. In molti altri sonetti emergono e prevalgono però fili conduttori riferiti a situazioni reali, trattate in modo profondamente originale. Nel complesso, a parere di molti critici, Shakespeare sa rivelare nei suoi versi un’acuta sensibilità moderna, volta – come tutta la sua opera – all’indagine dei momenti essenziali della vita dell’uomo e, con spunti metafisici che ricordano la poesia di John Donne, del senso dell’intera esistenza. L’influsso barocco si manifesta, secondo quanto rilevano molti critici, soprattutto nell’uso delle figure retoriche.

Focus

MARLOWE E IL FAUST

Nato a Canterbury nel 1564, Christopher Marlowe grazie a una borsa di studio per aspiranti ecclesiastici, può diventare magister artium (“maestro delle arti”) all’Università di Cambridge. Poiché non ha mai lavorato, alcuni sostengono che abbia operato nel servizio segreto della regina Elisabetta I. Dopo la giovanile tragedia Didone, regina di Cartagine, scrive alcune importanti tragedie, tra cui Tamerlano il Grande (1588), L’ebreo di Malta (1589), Il massacro di Parigi (1592) ed Edoardo II, la prima tragedia storica inglese. Dopo il 1592 compone la tragedia, scritta in parte in versi e in parte in prosa e senza divisione in atti, La tragica storia del dottor Faust, portata sulle scene nel 1594 e considerata il suo capolavoro. Fonte della vicenda è un testo di autore anonimo tedesco del 1587, l’Historia von Johann Fausten, lo stesso cui si ispirerà lo scrittore romantico Wolfgang Goethe per realizzare il Faust più famoso. La trama vede come protagonista uno studioso di teologia e magia, che stringe un patto con Lucifero: in cambio dell’aiuto di Mefistofele e di ventiquattro anni di immortalità, la sua anima, alla morte, apparterrà al diavolo. Trascorsi gli anni pattuiti, muore implorando pietà, ma la sua anima è dannata e i diavoli fanno strazio del suo cadavere. Il personaggio si ricollega alla vicenda della caduta di Lucifero, e il Coro finale conclude con l’affermazione che soprattutto gli ingegni audaci sono in pericolo perché indotti a sfidare i limiti umani più di quanto il Cielo consenta. A Marlowe spetta il merito di avere perfezionato il blank verse (un pentametro non rimato ispirato all’endecasillabo italiano), che sarà utilizzato anche da Shakespeare, diventando il metro della poesia drammatica ed epica inglese. Nelle biografie, Marlowe viene dipinto come un giovane avventuriero blasfemo e talvolta violento; in un impeto d’ira giunge, nel 1589, insieme ad un amico poeta, ad uccidere un albergatore (fatto per il quale è incarcerato). Accusato di ateismo, è infine costretto, per ordine della magistratura, a trasferirsi nel villaggio di Deptford, presso Londra. Qui, in una rissa di taverna, nel 1593, non ancora trentenne, Marlowe viene colpito a morte, per ragioni rimaste sconosciute.

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T1 Il vostro pianto quando sarò morto… da Sonetti, LXXI In questo sonetto, il LXXI del suo canzoniere, Shakespeare affronta, con stilemi spesso di gusto barocco, il tema della morte. Lo fa però toccando anche il motivo classico della fama letteraria e non senza ironia – dunque in modo profondamente originale – confessando a un amico che, dopo la propria scomparsa, preferirebbe essere dimenticato anziché destare in lui pensieri malinconici. La traduzione è opera del poeta novecentesco Giuseppe Ungaretti. Schema metrico: nell’originale in lingua inglese, sonetto elisabettiano (o shakespeariano), costituito da tre quartine e un distico finale. I versi sono pentametri giambici (blank verses). La traduzione italiana, in versi liberi, ne ricalca le caratteristiche solo nella struttura delle strofe. PISTE DI LETTURA • Un elogio del ricordo attraverso l’arte, ma a condizione di non rattristare l’amico • La morte, tema barocco rivisitato con originalità e temperato dall’ironia • Tono mutevole

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Il vostro pianto quando sarò morto, non si prolunghi Quando più non udrete, lugubre, tetra, la campana1 Propagare in giro la notizia che me ne sono andato Da questo vile mondo, a ospite dei vermi più vili:

No longer mourn for me when I am dead Then you shall hear the surly sullen bell Give warning to the world that I am fled From this vile world, with vilest worms to [dwell:

Né vi tocchi se rileggete queste righe, il ricordo Della mia mano che le scrisse, poiché vi amo talmente Che vorrei anche dai pensieri vostri sapermi assente Se dovesse darvi il pensare a me malinconia.

Nay, if you read this line, remember not The hand that writ it; for I love you so That I in your sweet thoughts would be forgot If thinking on me then should make you woe.

Oh! se vi cade, dico, uno sguardo su questi versi Quando già forse sarò sciolto e fuso nella terra, Non riesca il povero mio nome nemmeno a farsi esprimere, Ma sia anche l’amore vostro con la mia vita, finito;

O, if, I say, you look upon this verse When I perhaps compounded am with clay, Do not so much as my poor name rehearse. But let your love even with my life decay,

Per tema che la gente saggia2 scorgendo il vostro pianto, Per via mia non vi beffi, quando me ne sarò andato.

Lest the wise world should look into your [moan And mock you with me after I am gone.

da G. Ungaretti, 40 sonetti di Shakespeare, Mondadori, Milano, 1946

1. lugubre... campana: il testo inglese (the surly sullen bell) tramite l’accostamento dei due sinonimi (surly, sullen) e la loro allitterazione crea un ritmo che imita il rintocco funebre, e contribuisce a sottolinearne l’atmosfera barocca.

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2. gente saggia: è evidente il tono ironico, poiché il poeta sta pensando alla massa incolta, che non sentirà alcun rimpianto per la sua scomparsa così come ora non sa cogliere la sua arte.

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L

inee di analisi testuale Morte e sopravvivenza Il sonetto è inizialmente caratterizzato dall’insistenza su immagini cupe e sul senso di finitezza, precarietà, transitorietà dell’essere umano: il tono triste presenta la morte non come un passaggio all’altra vita, ma anzitutto come la fine della vita terrena. Si tratta di un tema caro alla poesia barocca, che si compiace di soffermarsi sulla morte e sulle sue immagini più macabre. Tuttavia è presente – legata a una tematica di ispirazione classica – anche l’apertura a una sopravvivenza, nel ricordo dei vivi (se rileggerete queste righe; se vi cade... uno sguardo su questi versi): quella della poesia. Ma anche questo argomento, coinvolto nella malinconia, viene deprivato di valore: se la poesia fa ricordare l’uomo e immalinconisce, bisogna scacciare il ricordo dell’autore. Poesia e ironia Tale argomento sottintende, però, il desiderio che la poesia venga considerata al di sopra dell’individuo mortale: questa è figura retorica di alta ironia, come alcuni interpreti affermano. Una fine ironia si nota anche nella chiusa, in cui il poeta scongiura l’amico di non commuoversi per lui dopo la morte, per evitare il sarcasmo della gente che non comprende l’arte e deride chi piange considerandolo un debole. Il tono mutevole e la traduzione Dietro l’affermazione di non voler essere più ricordato né amato, c’è quindi l’esortazione a considerare la poesia come speranza di sopravvivere nei versi. Il tema barocco viene innovato con il contenuto di ascendenza classica, che sarà presente anche nei Sepolcri di Ugo Foscolo, mentre la malinconia è temperata da una venatura ironica. All’alternarsi di temi contraddittori – che non si contrappongono, ma si integrano in modo originale – corrisponde una tendenza alla variazione del tono e dello stile. Ciò si nota naturalmente soprattutto nell’originale in lingua inglese, in quanto la traduzione di Ungaretti è per molti aspetti, come spesso accade in casi analoghi, una “nuova poesia” creata dall’ispirazione dell’autore italiano.

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi e commenta il contenuto del sonetto di Shakespeare. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quale figura retorica sostiene la struttura del sonetto? b. Per quale principale aspetto il testo può essere considerato una testimonianza della sensibilità barocca e quale tema invece rinvia alla poesia classica? c. Sulla base di quali elementi del testo alcuni critici ne hanno proposto una interpretazione in chiave ironica? Approfondimenti 3. Confronta – anche con l’aiuto dell’insegnante di lingua inglese – il testo originale di Shakespeare con la versione di Ungaretti ed esponi brevemente in forma scritta i motivi per cui la traduzione di un testo poetico da o in una lingua straniera presenta problemi maggiori di quanto si verifichi con i testi in prosa. 4. Spiega le caratteristiche della lirica barocca e le ragioni per cui il sonetto LXXI di Shakespeare in parte si accosta ad esse, in parte se ne discosta.

La produzione drammatica La fonte

Quattro fasi

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L’elenco delle opere attribuite a Shakespeare comprende trentasei fra commedie e tragedie, raccolte nel 1623 da due attori, John Heminge ed Henry Condell, in un volume di grande formato (in-folio), che ancora oggi è ritenuto la fonte principale e l’unico valido punto di riferimento per orientarsi nei complessi problemi di attribuzione e datazione. Non si hanno però notizie certe né sui testi originali, né sulla cronologia delle opere shakespeariane. Secondo una consolidata partizione operata dai critici, la produzione drammaturgica di Shakespeare percorre quattro fasi. La prima fase (1590-1595) comprende le prime commedie e la sperimentazione di diversi generi teatrali; la seconda (1595-1600), le commedie maggiori, dedicate

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Prima fase: diversi generi teatrali

Un capolavoro tragico: Romeo e Giulietta Seconda fase: grandi commedie e drammi storici

Terza fase: grandi tragedie e problem plays

Le opere dell’ultima fase

all’analisi delle relazioni sociali, e i drammi storici, relativi a temi storico-politici; la terza, fondamentale, fase (1600-1608) include le grandi tragedie e i problem plays, o drammi dialettici, nei quali si fondono elementi comici, storici e tragici; nell’ultima fase (1608-1616) prevalgono le romance commedies o tragicommedie, nelle quali si sintetizzano i caratteri dei precedenti lavori (con il termine romance ci si riferisce qui alle storie d’amore tipiche della letteratura cavalleresca medievale e delle novelle italiane di scrittori quali Boccaccio, Giraldi Cinzio e Bandello). Nella prima fase, in cui prevale la sperimentazione, Shakespeare si cimenta nei diversi generi teatrali: soprattutto nella commedia ma anche nella farsa, nel dramma storico e nella tragedia cruenta – come in Tito Andronico – ad imitazione di Seneca e della revenge play, la “tragedia della vendetta” tipica del periodo elisabettiano, in cui un’azione iniziale malvagia è causa di una serie di sanguinose vendette che portano all’annientamento dei protagonisti. Tipiche commedie di questo periodo sono, fra le altre, La commedia degli errori, brillante adattamento dei Menaechmi di Plauto, e La bisbetica domata. A questo primo periodo appartengono, inoltre, i drammi storici Enrico VI e Riccardo III. Il capolavoro che conclude la prima fase è la celebre tragedia Romeo e Giulietta, tratta da una novella del narratore italiano Matteo Bandello: in quest’ultima, scritta verso il 1595, sono già evidenti alcuni tratti caratteristici dell’età matura, nello sviluppo della trama e nell’introspezione psicologica dei personaggi. Nella seconda fase vengono composte alcune fra le commedie più riuscite e significative: in primo luogo Sogno di una notte di mezz’estate, ma anche Il mercante di Venezia, Molto rumore per nulla, Come vi piace e La dodicesima notte. Nel Sogno di una notte di mezz’estate i temi tradizionali dell’amor cortese sono arricchiti e resi vivaci dall’umorismo e dalla parodia; il sentimento amoroso è messo in risalto dall’intrecciarsi di mondi opposti eppur complementari: la corte, le fate, gli amanti. In questa fase Shakespeare porta a termine anche il grande ciclo dei drammi storici sulla monarchia inglese: Riccardo II, Re Giovanni, Enrico IV, Enrico V. Solo alla fine della sua carriera tornerà ad occuparsi della storia inglese con l’Enrico VIII, che gli offrirà lo spunto per allacciarsi alla storia contemporanea e celebrare Elisabetta I e Giacomo I. Sempre a questa seconda fase appartiene l’importante Giulio Cesare, che è una sorta di anello di congiunzione fra i drammi storici e le grandi tragedie che caratterizzeranno la fase successiva. La terza fase è quella delle grandi tragedie, caratterizzate da profondo pessimismo o problematicità. Shakespeare vive nel periodo cupo degli ultimi anni di regno di Elisabetta I e ne trae spunto per una universale meditazione sull’uomo e sul suo mondo, dominato dalle forze del male e condannato al caos. Numerosi sono i grandi capolavori tragici, Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth, e le opere di ambientazione classica, Troilo e Cressida, Antonio e Cleopatra, Timone d’Atene e Coriolano. Anche le commedie – Le allegre comari di Windsor, Tutto è bene ciò che finisce bene, Misura per misura – riflettono la stessa atmosfera di pessimismo e inquietudine: per questo motivo esse vengono dette problem plays o “drammi dialettici”. Le opere dell’ultima fase – Pericle, Cimbelino e i capolavori Racconto d’inverno e La tempesta – differiscono notevolmente dalle precedenti, soprattutto per quanto concerne l’atmosfera, che qui è di relativa serenità e ottimismo. In queste tragicommedie, in un’atmosfera apparentemente realistica, trova ampio spazio la presenza di magia e di elementi soprannaturali, innovativi e fortemente spettacolari per il modo in cui l’autore ne cura la resa scenica.

LA La transizione al mondo moderno

VISIONE DEL MONDO

Shakespeare propone, in chiave universale e innovativa, i temi del passaggio dal pensiero e dal sentire medievale a quello moderno, indagando soprattutto le angosce, la tensione, l’inquietudine dell’esistenza. Quello in cui vive Shakespeare è un periodo di transizione al mondo moderno e la sua visione della vita, come la sua opera, riflette il dramma di questo tormentato passaggio, attraverso le contraddizioni e le ambiguità di cui sono espressione i suoi personaggi.

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I personaggi e l’autore I personaggi: specchi dell’autore

Innumerevoli e di ogni categoria sociale e tipologia umana sono i personaggi delle opere di Shakespeare, che – come è stato rilevato da molti critici – spesso in qualche modo riflettono la tormentata visione del mondo dell’autore: re e regine, eroi e codardi, amanti e nemici, protagonisti tragici e buffoni, tutti sono rappresentati come reali esseri umani, con i loro sentimenti, paure, emozioni e incertezze. I protagonisti dei drammi soffrono, hanno dubbi, subiscono soprusi o vengono puniti per i loro errori: attraverso l’esperienza acquisiscono una più profonda coscienza di sé e del mondo che li circonda. Essi sono nel contempo persone reali, figure esemplari ed universali e specchi dei drammi interiori del loro creatore. I personaggi shakespeariani, nei quali si intrecciano ombre e luci, affrontano le avversità della vita con coraggio e dignità: Macbeth, il protagonista dell’omonima tragedia, si macchia di orrendi crimini, ma va incontro alla morte con piena coscienza di quanto il lato oscuro della natura umana abbia pesato sui suoi errori. I personaggi di Shakespeare sono insieme mirabilmente persone autentiche e varie, come sono varie le circostanze dell’esistenza. Essi sono gli “strumenti” con i quali, attraverso le opere, l’autore esplora la natura umana e se stesso e rappresentano i grandi ed eterni problemi dell’umanità di ogni tempo.

I grandi temi tragici La concezione della “catena degli esseri”

L’ordine gerarchico stritola l’individuo

L’esempio di Re Lear

Il contrasto dei sentimenti umani…

…in Antonio e Cleopatra…

…e in Re Lear

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Alla base della visione del mondo di Shakespeare, e dell’intera età elisabettiana, è la cosiddetta “catena degli esseri”, un concetto diffuso dalla filosofia neoplatonica nel XV secolo, secondo cui l’armonia e l’unità finale della creazione sono simboleggiate da una catena i cui anelli racchiudono in un ordine gerarchico tutti gli esseri, da quello supremo, Dio, ai governanti, al popolo, agli animali, fino agli esseri inanimati. Un mondo ordinato, in cui ogni persona si trova in un preciso ruolo gerarchico ed ha il dovere di assolvere un determinato compito – più importante e gravoso a seconda della posizione occupata – per assicurare felicità e dignità a tutti. Sottrarsi al proprio dovere implica una disastrosa infrazione e una rottura di quest’ordine armonico: tutta la catena ne soffre e l’ordine può essere ristabilito solo quando il colpevole venga punito o scompaia dalla scena. In particolari circostanze, l’ordine gerarchico e i suoi meccanismi, impliciti nella concezione della “catena degli esseri”, stritolano l’individuo costretto a scelte tragiche, o per le sue fragilità (come nel caso di Amleto) o per infausta sorte (il caso malvagio di Romeo e Giulietta). La responsabilità politica e il potere sono spesso ritenuti – come nell’antica tragedia greca – elementi privilegiati e aggravanti del dramma, che spesso costringe l’individuo a scelte tragicamente laceranti. Paradigmatica è la tragedia di Re Lear che, vecchio, rinuncia al trono in favore di due delle tre figlie: le più dure e adatte a comandare. Quando però allontana Cordelia – che è incapace di gestire il potere perché gli antepone i sentimenti ed è l’unica che lo ama come padre – Lear si procura una sofferenza tale da essere condotto alla follia. Nell’esplorare la natura umana e i suoi contrasti interiori, Shakespeare arriva ad analizzare in profondità e descrivere magistralmente passioni e sentimenti universali che hanno agitato e lacerato l’intimo essere degli uomini in ogni tempo e in ogni luogo. Anche in questo sta la perenne attualità delle sue opere e la sua grandezza artistica. Ad esempio, l’amore che, nell’omonima tragedia, lega Antonio e Cleopatra – lui generale romano e uomo di potere, lei regina d’Egitto – è insieme contraddittoriamente passione fisica che induce Antonio a tradire Roma e Cleopatra il trono, e sentimento tanto forte e intenso da provocare alla fine la rinuncia al potere e alla vita stessa dei protagonisti. Ancora, in Re Lear, il protagonista in realtà sembra sospettare l’amore solo apparente delle figlie Gonerilla e Regana e il vero amore della terza figlia, Cordelia, ma è lacerato tra l’affetto di padre e la responsabilità di re e la sua debolezza scatenerà le forze del male che porteranno al caos e alla morte.

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Amleto: una tragedia esemplare

Il ruolo della pazzia

Nell’Amleto, una delle tragedie più complesse della produzione shakespeariana, lo spirito del padre rivela al protagonista di essere stato ucciso dal fratello Claudio, che ne ha preso il posto come re e come marito. Claudio è dunque un usurpatore, ha ucciso un re ed un fratello e ne ha insidiato la moglie, commettendo un doppio crimine; tuttavia Shakespeare ne mostra l’efficienza nel governare, ne mette in luce il sincero pentimento e l’attaccamento affettivo alla moglie. Con questi esempi l’autore intende dimostrare l’antichissima verità secondo cui il vizio e il male possiedono un’irresistibile forza di attrazione e coabitano nel cuore umano con il bene e i sentimenti nobili. Il principe di Danimarca, Amleto, subito tormentato dal dubbio sulla realtà dell’apparizione dello spirito che i suoi occhi hanno visto, è invece l’archetipo del contrasto interiore: schiacciato dal disgusto per la malvagità degli uomini indotta dalla brama di potere, ma più ancora devastato dal sospetto di ingannarsi e dai sentimenti laceranti verso la madre, complice del delitto, si sente sull’orlo della follia, che egli finge con gli altri, consapevole di essere fragile, vulnerabile e prigioniero di emozioni che non riesce a controllare e che lo inducono a causare indirettamente la morte di innocenti quali Ofelia. La giovane, che ama il principe di Danimarca, è incapace di accettarne la nuova immagine quando il protagonista sembra decidersi a vendicare la morte del padre e ucciderà così, forse per errore, anche Polonio, padre di Ofelia. La fanciulla impazzisce e muore annegata. La conclusione dell’Amleto – con la morte violenta di tutti i principali protagonisti, spesso dovuta a concatenazioni non previste di vicende – esemplifica il culmine della visione pessimistica del mondo dell’autore. Spesso l’insopportabile contrasto interiore nelle tragedie shakespeariane sfocia nella pazzia. Tale tema è centrale nelle tragedie shakespeariane. Lo stesso Amleto finge di essere pazzo per accertarsi della verità e per attuare la sua vendetta, oltre che per proteggersi dalle minacce del mondo circostante, ma ci sono momenti in cui la finzione non appare più tale e la pazzia di Amleto viene percepita come reale. La follia colpisce nel Macbeth la moglie del protagonista, la quale ha ordito un assassinio per far ascendere il coniuge nella scala del potere, e attraverso la pazzia anche re Lear arriva alla consapevolezza nella scena della tempesta, simbolo delle forze primitive della natura, che squarcia i veli esterni per mostrare la vera essenza della realtà. Nella fase centrale e più pessimistica della vita e dell’opera di Shakespeare la pazzia, insieme all’uccisione degli innocenti, determinate dalla malvagità e dai vizi umani (come in Otello) o dalla sorte beffarda (come in Romeo e Giulietta), sembrano spesso essere i principali sbocchi dei tragici conflitti da cui gli esseri umani – secondo la concezione dell’autore che si attenuerà solo negli ultimi anni di vita – sono dilaniati dentro e fuori di loro nel gran teatro del mondo.

L’INTERPRETAZIONE CRITICA

La profondità dei personaggi di Shakespeare

David Daiches

Lo storico e critico inglese David Daiches, con le sue osservazioni su Giulio Cesare, Bruto, Amleto e Otello, sottolinea la ricchezza e la profondità psicologica che Shakespeare sa dare ai propri personaggi, in preda a passioni dirompenti e angosciosi conflitti, vittime e anche zimbelli del destino, che l’eterna nemesi storica colpisce punendoli, ma che la sfortuna tormenta anche quando non sono direttamente responsabili. Nelle vite plutarchiane1 di Cesare, Bruto e Marc’Antonio, Shakespeare trovò la storia interpretata attraverso la biografia e ne ricevette lo spunto per rappresentare, in forma drammatica, alcuni dei modi paradossali in cui la personalità di un individuo può influire sulla vita pubblica e risentirne a sua volta l’influsso. L’argomento del dramma è, in un certo senso, il rapporto tra virtù pubblica e virtù privata: esse non sono la stessa cosa, come pensava Bruto, e non è detto che l’idealista umanitario sia un buon politico e neppure un buon patriota. [...] Nel Julius Caesar Shakespeare analizza questo problema con maggiore profondità presentandoci una figura di generoso idealista che, col suo com-

1. Nelle vite plutarchiane: Daiches si riferisce alle Vite parallele, una raccolta di biografie di grandi personaggi del

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mondo greco e romano scritta da Plutarco, letterato e filosofo greco vissuto tra I e II secolo d.C.

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portamento, ottiene risultati esattamente opposti a quelli che intendeva raggiungere. Bruto, come Amleto e come, in una certa misura, Otello, viene distrutto essenzialmente dalle sue stesse virtù. In Bruto la nobiltà di carattere ha come corollario l’ingenuità politica; in Amleto l’intelligenza e la sensibilità determinano l’incapacità di affrontare la realtà così come si presenta; in Otello l’integrità di carattere e la franchezza hanno come conseguenza la credulità ed è proprio a causa della credulità che nasce la sua tragica diffidenza nei confronti dell’unica persona della quale avrebbe dovuto fidarsi2. Tutti questi personaggi avrebbero forse agito meglio se fossero stati meno virtuosi. Un Bruto più esperto delle cose del mondo, un Amleto dotato di minore sensibilità morale, un Otello più inflessibile e più astuto avrebbero fatto meno male nel mondo. Tutto questo va molto più a fondo del semplice problema del rapporto tra qualità pubbliche e qualità personali; ne viene coinvolto anche il problema del rapporto tra ingenuità e virtù, o per lo meno quello tra l’ingenuità di carattere e l’efficacia dell’azione morale. [...] Il dramma di un uomo distrutto dalle sue stesse virtù è un tema veramente tragico, ed è abbastanza comune nel mondo moderno in cui la tragedia dell’intellettuale che spera generosamente nel progresso è un luogo comune. da Storia della letteratura inglese, Garzanti, Milano, 1970 2. unica persona… fidarsi: Desdemona, la moglie di Otello, che il protagonista uccide, pur amandola appassionatamente, convinto della sua infedeltà e accecato dalla gelosia, perché il suo senso dell’onore non può tollerare l’a-

Focus

dulterio. In realtà la sposa gli è stata fedele e la gelosia omicida di Otello deriva da una calunnia di Jago, che ha la meglio sulla fiducia che il protagonista dovrebbe nutrire nei confronti dell’innocente consorte.

IL TEATRO AL TEMPO DI SHAKESPEARE

Negli ultimi decenni del Cinquecento, il teatro diviene in Inghilterra una forma d’intrattenimento di grande popolarità. L’apice della fortuna è raggiunto intorno al secondo decennio del Seicento, quando per numero di edifici, quantità di testi rappresentati e frequenza di pubblico, Londra non conosce rivali in campo internazionale: tra il 1576 e il 1642 vengono rappresentate almeno 2.000 opere, che attirano un pubblico di 15.00020.000 persone alla settimana (su una popolazione di 160.000 abitanti). Il primo edificio adibito esclusivamente a rappresentazioni teatrali è The Theatre, costruito nel 1576 dall’impresario teatrale James Burbage, a cui seguono The Curtain (1577), The Rose (1587), The Swan (1595) e The Globe (1598, ricostruzione di The Theatre sulla sponda meridionale del Tamigi). Tali edifici vengono chiamati playhouses o public theatres (“teatri pubblici”) per distinguerli dai teatri privati ricavati da sale preesistenti e rivolti ad un pubblico più elitario. Le playhouses sono arene a cielo aperto. Su una parete di fondo è issata una piattaforma piuttosto ampia, alla quale gli attori accedono dal retro. In alto, sopra il palcoscenico, v’è una balconata dove trovano posto i musicisti o dalla quale si affacciano i personaggi (ad esempio Giulietta nella famosa “scena del balcone”). Poiché il palcoscenico è privo di copertura, gli spettacoli vengono rappresentati nel pomeriggio, alla luce del sole: la loro messa in scena dipende dalle condizioni meteorologiche. La scena è fissa e l’allestimento prevede la presenza di oggetti ed attrezzi che suggeriscono l’ambientazione (ad esempio spade, scudi, corone, alberi, rocce, lastre di metallo da percuotere per imitare i temporali); sulla piattaforma alcune botole permettono la resa di particolari effetti scenici, come l’apparizione di fantasmi dall’oltretomba; i musicisti accompagnano le canzoni e soprattutto la danza burlesca con cui i comici concludono lo spettacolo. Non essendoci sipario, i cambiamenti avvengono sulla scena. I costumi sono quelli contemporanei, ma, quando è necessario, l’ambientazione è suggerita da qualche dettaglio: per esempio un generale romano può indossare un mantello o una corona di alloro sopra l’abito elisabettiano. Gli spettacoli teatrali attirano un pubblico estremamente composito. I prezzi di ingresso variano a seconda dei posti occupati: l’arena o pit (che circonda il palcoscenico) è la postazione meno costosa. Ad un prezzo maggiore gli spettatori possono accedere ai due o tre ordini di balconate semicircolari che circondano il palcoscenico, al riparo dalle intemperie; è perfino possibile prendere posto direttamente sulla piattaforma centrale, vicino agli attori. Tra attori e pubblico il rapporto è diretto: gli spettatori parlano durante la rappresentazione e a volte si rivolgono agli stessi interpreti per commentare una scena o un comportamento. Il teatro del periodo si avvale dell’opera di popolarissimi attori fra cui il figlio di James Burbage, Richard, uno dei più grandi interpreti tragici della sua epoca, per il quale Shakespeare scrive le parti di Amleto, Otello, Macbeth e Re Lear. Alcuni attori, che spesso provengono dalle compagnie di fanciulli, sono specializzati nella recitazione di ruoli femminili (si ricordi, infatti, che in questo periodo la recitazione è interdetta alle donne). I drammaturghi vengono pagati alla consegna dell’opera; non vigendo il diritto d’autore, non hanno perciò interesse a vedere stampato il proprio lavoro.

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LE OPERE DRAMMATICHE

COMPOSIZIONE

GENERI

• Non si hanno date certe sulla cronologia delle opere né manoscritti originali. • Solo nel 1623 due attori amici di Shakespeare raccolgono e pubblicano i suoi drammi.

• Commedie. • Drammi storici. • Tragedie. • Drammi dialettici. • Tragicommedie.

PERSONAGGI

• Sono individui e non tipi, che subiscono cambiamenti interiori e presentano un complesso sviluppo psicologico. • Assumono un valore esemplare, incarnando le problematiche eterne dell’umanità.

TEMI

• Sovranità: ha una forte valenza religiosa e l’usurpazione del trono e il regicidio sono un crimine anche contro la volontà divina, garante dell’ordine terreno. • Apparenza e realtà: la verità ha diverse facce e i personaggi shakespeariani non sempre riescono a distinguerne i vari aspetti. • Amore: quando è nobile e sincero può essere fonte di felicità, ma è anche una forza distruttiva. • Conflitto fra bene e male: i personaggi sono caratterizzati da una lotta interiore tra diversi aspetti della propria personalità, oppure nascondono la propria malvagità a danno di coloro che li circondano. • Pazzia: può essere causata dalla sfida alle regole sociali e al mondo. Amleto finge di essere pazzo per vendicare il padre, ma in alcuni momenti la sua finzione viene percepita come reale.

T2 Il primo dialogo d’amore tra Romeo e Giulietta da Romeo e Giulietta, II, 2 La celebre tragedia Romeo e Giulietta, scritta forse nel 1595, è tratta da novelle di autori italiani (in particolare, di Matteo Bandello). L’opera è ambientata in Italia, a Verona, dove due potenti famiglie, i Montecchi e i Capuleti, sono mortalmente nemiche. Romeo Montecchi entra mascherato a una festa nel palazzo Capuleti, scorge Giulietta e i due si innamorano a prima vista, scoprendo, però, con sgomento l’identità dell’altro. Nella notte, Romeo entra nel giardino dei Capuleti e, quando Giulietta si affaccia al balcone, le dichiara il suo amore, che la giovane mostra di ricambiare intensamente, come si legge nel brano proposto. Il giorno successivo, frate Lorenzo sposerà segretamente i due, sperando di riconciliare le loro famiglie. Ma Romeo, per vendicare l’uccisione, dovuta alla sorte, dell’amico Mercuzio, ucciderà d’impeto Tebaldo, il cugino di Giulietta, e sarà costretto a fuggire da Verona. Giulietta, per evitare di sposare un altro uomo, berrà un filtro che provoca morte apparente. Ma a Romeo, ancora per una beffa del destino, giungerà il messaggio della morte reale dell’amata e, tornato a Verona, nella cripta accanto a lei berrà una fiala di veleno. Risvegliatasi, Giulietta, vedendo Romeo morto, si ucciderà con la sua spada. PISTE DI LETTURA • L’amore si contrappone alla durezza della realtà e ai suoi violenti conflitti • La giovinezza e l’esaltazione sentimentale • Tono elegiaco © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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Giardino dei Capuleti Entra Romeo ROMEO 5

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Ride delle cicatrici, chi non ha mai provato una ferita. (Giulietta appare ad una finestra in alto) Ma, piano! Quale luce spunta lassù da quella finestra? Quella finestra è l’oriente e Giulietta è il sole! Sorgi, o bell’astro, e spengi la invidiosa luna, che già langue pallida di dolore, perché tu, sua ancella, sei molto più vaga di lei. Non esser più sua ancella, giacché essa ha invidia di te. La sua assisa di vestale non è che pallida e verde e non la indossano che i matti; gettala. È la mia signora; oh! è l’amor mio! oh! se lo sapesse che è l’amor mio! Ella parla, e pure non proferisce accento: come avviene questo? È l’occhio suo che parla; ed io risponderò a lui. Ma è troppo ardire il mio, essa non parla con me: due fra le più belle stelle di tutto il cielo, avendo da fare altrove, supplicano gli occhi suoi di voler brillare nella loro sfera, finché esse abbian fatto ritorno. E se gli occhi suoi, in questo momento, fossero lassù, e le stelle fossero nella fronte di Giulietta? Lo splendore del suo viso farebbe impallidire di vergogna quelle due stelle, come la luce del giorno fa impallidire la fiamma di un lume; e gli occhi suoi in cielo irradierebbero l’etere di un tale splendore che gli uccelli comincerebbero a cantare, credendo finita la notte. Guarda come appoggia la guancia su quella mano! Oh! foss’io un guanto sopra la sua mano, per poter toccare quella guancia! Ohimè! Essa parla. Oh, parla ancora, angelo sfolgorante! poiché tu sei così luminosa a questa notte, mentre sei lassù sopra il mio capo come potrebbe esserlo un alato messaggero del cielo agli occhi stupiti dei mortali, che nell’alzarsi non mostra che il bianco, mentre varca le pigre nubi e veleggia nel grembo dell’aria. O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome: o, se non vuoi, legati solo in giuramento all’amor mio, ed io non sarò più una Capuleti. (fra sé) Starò ancora ad ascoltare, o rispondo a questo che ha detto? Il tuo nome soltanto è mio nemico: tu sei sempre tu stesso, anche senza essere un Montecchi. Che significa “Montecchi”? Nulla: non una mano, non un piede, non un braccio, non la faccia, né un’altra parte qualunque del corpo di un uomo. Oh, mettiti un altro nome! Che cosa c’è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave; così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella preziosa perfezione, che egli possiede anche senza quel nome. Romeo, rinunzia al tuo nome, e per esso, che non è parte di te, prenditi tutta me stessa. Io ti piglio in parola: chiamami soltanto amore, ed io sarò ribattezzato; da ora innanzi non sarò più Romeo. Chi sei tu che, così protetto dalla notte, inciampi in questo modo nel mio segreto? Con un nome io non so come dirti chi sono. Il mio nome, cara santa, è odioso a me stesso, poiché è nemico a te: se io lo avessi qui scritto, lo straccerei. L’orecchio mio non ha ancora bevuto cento parole di quella voce, ed io già ne riconosco il suono. Non sei tu Romeo, e un Montecchi? Né l’uno né l’altro, bella fanciulla, se l’uno e l’altro a te dispiace. Come sei potuto venir qui, dimmi, e perché? I muri del giardino sono alti, e difficili a scalare, e per te, considerando chi sei, questo è un luogo di morte, se alcuno dei miei parenti ti trova qui. Con le leggere ali d’amore ho superati questi muri, poiché non ci sono limiti di pietra che possano vietare il passo ad amore: e ciò che amore può fare, amore osa tentarlo; perciò i tuoi parenti per me non sono un ostacolo. Se ti vedono, ti uccideranno.

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Ahimè! c’è più pericolo negli occhi tuoi, che in venti delle loro spade: basta che tu mi guardi dolcemente, e sarò a tutta prova contro la loro inimicizia. Io non vorrei per tutto il mondo che ti vedessero qui. Ho il manto della notte per nascondermi agli occhi loro; ma a meno che tu non mi ami, lascia che mi trovino qui: meglio la mia vita terminata per l’odio loro, che la mia morte ritardata senza che io abbia l’amor tuo. Chi ha guidato i tuoi passi a scoprire questo luogo? Amore, il quale mi ha spinto a cercarlo: egli mi ha prestato il suo consiglio, ed io gli ho prestato gli occhi. Io non sono un pilota: ma se tu fossi lontana da me, quanto la deserta spiaggia che è bagnata dal più lontano mare, per una merce preziosa come te mi avventurerei sopra una nave. [...] Quale soddisfazione puoi avere questa notte? Il cambio del tuo fedele voto di amore col mio. Io ti diedi il mio, prima che tu lo chiedessi; e tuttavia vorrei non avertelo ancora dato. Vorresti forse riprenderlo? Per qual ragione, amor mio? Solo per essere generosa, e dartelo di nuovo. Eppure io non desidero se non ciò che possiedo; la mia generosità è sconfinata come il mare, e l’amor mio quanto il mare stesso è profondo: più ne concedo a te, più ne possiedo, poiché la mia generosità e l’amor mio sono entrambi infiniti. (La Nutrice chiama di dentro) Sento qualche rumore in casa; addio, caro amor mio! Subito, mia buona nutrice! Diletto Montecchi, sii fedele. Aspetta un solo istante, tornerò. (Esce) O beata, beata notte! Stando così in mezzo al buio, io ho paura che tutto ciò non sia che un sogno, troppo deliziosamente lusinghiero per essere realtà. (Giulietta torna alla finestra) Due parole, caro Romeo, e buona notte davvero. Se l’intenzione dell’amor tuo è onesta e il tuo proposito è il matrimonio, mandami a dire, domani, per una persona che farò venir da te, dove e in qual tempo tu vuoi compiere la cerimonia ed io deporrò ai tuoi piedi il mio destino e ti seguirò, come signore mio, per tutto il mondo. (di dentro): Signora! Vengo subito. Ma se le tue intenzioni non sono oneste, io ti scongiuro... (di dentro): Signora! Ora vengo! Cessa le tue proteste e lasciami al mio dolore: domani manderò. Così l’anima mia sia salva. Mille volte buona notte! (Si ritira dalla finestra) Mille volte cattiva notte, invece, poiché mi manca la tua luce. Amore corre verso amore, con la gioia con cui gli scolari lasciano i loro libri, ma al contrario amore lascia amore con quella mestizia nel volto, con la quale gli scolari vanno alla scuola. (Si ritira lentamente)

Riappare Giulietta alla finestra

GIULIETTA Pst! Romeo, pst! Oh avessi io la voce di un falconiere, per richiamare a me questo gentile terzuolo! La voce della schiavitù è fioca, e non può farsi sentire: altrimenti saprei squarciare la caverna dove si cela l’eco e far diventare l’aerea sua voce più fioca della mia, a forza di ripetere il nome del 105 mio Romeo. (tornando indietro) È l’anima mia che pronunzia il mio nome; che dolce ROMEO tinnire d’argento ha nella notte la voce degli amanti! È come una musica dolcissima, per un orecchio che ascolta avidamente. GIULIETTA Romeo! 110 ROMEO Cara! GIULIETTA A che ora, domani, devo mandare da te? Alle nove. ROMEO GIULIETTA Non mancherò; ci sono venti anni di qui allora. Non mi ricordo più perché ti ho richiamato. 115 ROMEO Lasciami restar qui finché te ne ricordi. da Tutte le opere, a cura di M. Praz, Sansoni, Firenze, 1965

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inee di analisi testuale I due monologhi Il passo è strutturato in due monologhi e un dialogo. Il primo monologo è quello di Romeo, che, entrato nel giardino dei Capuleti, vede Giulietta affacciarsi al balcone e paragona la sua bellezza alla luna e alle stelle; aggiunge poi che vorrebbe essere un guanto di lei per toccare la sua guancia. Il secondo monologo è quello di Giulietta, che parla ad alta voce credendo di essere sola, introducendo il celebre inizio: O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome. La trovata è geniale e di tale suggestione che il poeta la riprende più volte subito dopo, ampliandola, e infine introduce l’argomento della rosa, divenuto anch’esso quasi proverbiale: Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave; così Romeo, se non si chiamasse più Romeo. Sullo stesso tema (Io ti piglio in parola: chiamami soltanto amore) inizia il lungo dialogo tra i due giovani. Il dialogo d’amore Nella prima parte del dialogo i due giovani si dichiarano il proprio amore. Mentre Giulietta ha paura che lo scoprano, Romeo fa la sua dichiarazione in perfetto stile cortese, con dolci espressioni in cui il termine amore appare ripetutamente. La dichiarazione di Giulietta è invece contraddittoria, è tutto un affermare e un negare, un esibirsi e un ritrarsi, un chiedere e un rifiutare. Si vergogna, perché il suo sentimento è stato scoperto, chiede a Romeo il giuramento d’amore e poi gli chiede di non giurare, gli augura buona notte (complessivamente per ben sei volte) e riprende il dialogo, si ritira e torna sul balcone (tre volte). Shakespeare mostra magistralmente di conoscere le differenze emotive tra i due sessi. Un modello universale Nel celebre episodio, Shakespeare ha creato un modello universale di tutte le grandi passioni amorose giovanili che saranno descritte in ogni tempo. Anche le efficaci similitudini richiamano spesso un contesto giovanile: ad esempio, gli innamorati si incontrano con la gioia con cui gli scolari lasciano i loro libri e si lasciano con quella mestizia nel volto con la quale gli scolari vanno alla scuola.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono i tratti di carattere che Romeo rivela nel dialogo e quando si evidenziano maggiormente? b. Che cosa chiede Giulietta a Romeo quando non sa di essere ascoltata da lui? c. In che modo Romeo dichiara il suo amore? d. Perché interviene la nutrice? e. Quali sono i tratti di carattere che Giulietta rivela nel dialogo e quali comportamenti e battute li evidenziano maggiormente? Analisi e interpretazione 2. A che genere appartiene il testo e quali aspetti lo dimostrano con estrema chiarezza? 3. Quali sono le principali figure retoriche che caratterizzano il testo? 4. Che cosa sono le didascalie e quale uso, abbondante o parco, ne viene fatto nel testo drammaturgico proposto? Approfondimenti 5. Rifletti sul contenuto del dialogo di Romeo e Giulietta: le concezioni dell’amore dei giovani d’oggi ti sembrano vicine o lontane da quelle espresse da Shakespeare per bocca dei due amanti di Verona? Motiva la tua risposta. 6. Attraverso una ricerca (che potrai compiere in biblioteca o su attendibili siti Internet), procurati il testo integrale della tragedia di Shakespeare, leggila, poi elabora una relazione scritta, debitamente intitolata, su di essa. 7. Se hai visto la versione cinematografica del musical West Side Story di Robert Wise, individua in una breve relazione scritta (max 2 colonne di metà foglio protocollo) i numerosi ed evidenti parallelismi fra la vicenda narrata nell’opera e quella di Romeo e Giulietta.

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Focus

SHAKESPEARE E LA CULTURA ITALIANA

Il teatro di Shakespeare deve molto alla tradizione culturale italiana. Molti drammi e molte commedie (poco più d’un terzo) s’ispirano direttamente o indirettamente a opere italiane. La bisbetica domata si rifà ai Suppositi di Ariosto attraverso i Supposes dell’inglese George Gascoigne; I due gentiluomini di Verona riprende l’intreccio di una tipica commedia dell’arte italiana; Romeo e Giulietta attinge abbondantemente alla novellistica italiana del Cinquecento; Il mercante di Venezia rielabora una novella del Pecorone di ser Giovanni Fiorentino attraverso la versione di William Painter contenuta in The Palace of Pleasure (“Il palazzo delle delizie”, 1567); Molto rumore per nulla è desunto da una novella di Bandello attraverso la traduzione francese di Belleforest compresa nelle Histoires tragiques (“Storie tragiche”); Giulio Cesare ha come fonte una tragedia italiana del 1594, Il Cesare di Orlando Pescetti; La dodicesima notte o quel che volete riprende la commedia Gli ingannati (1537) dell’Accademia degli Intronati, che è a sua volta la fonte per la novella II, 36 di Bandello, tradotta nelle Histoires tragiques di Belleforest; Le allegre comari di Windsor s’ispira alla novella IV, 4 delle Piacevoli notti di Straparola, tradotta da Richard Tarleton nel 1590; Troilo e Cressida risale al Filostrato di Boccaccio attraverso la mediazione del Troilus and Criseyde di Chaucer; Tutto è bene quel che finisce bene riprende la novella IX, 3 del Decameron, tradotta nel già citato Palace of Pleasure di Painter; Otello si rifà alla settima novella della terza deca degli Ecatommiti (1565) di G. B. Giraldi Cinzio; Cimbelino s’ispira in parte al motivo della scommessa contenuto nella novella II, 9 del Decameron; La tempesta, infine, riprende l’intreccio di una tipica commedia dell’arte italiana.

T3 La follia di Amleto da Amleto, II, 2 Nell’Amleto – capolavoro ultimato nei primi anni del Seicento – Shakespeare documenta il definitivo tramonto dell’uomo rinascimentale, cui subentra l’eroe moderno: lacerato da interne contraddizioni, tormentato, esitante di fronte all’azione, privo di solide certezze, dubbioso al punto che l’aggettivo “amletico” entrerà nel linguaggio comune per indicare “lacerato dal dubbio”. Amleto, giovane principe di Danimarca, apprende dall’apparizione del fantasma del padre che lo zio Claudio ne ha usurpato il trono, uccidendolo e sposando sua madre, la regina Gertrude, e gli chiede di vendicarlo. Il giovane principe, incerto sull’apparizione e sconvolto, simula la pazzia per poter accertare i fatti e per vendicarsi più agevolmente, ma si scopre irresoluto. Respinge l’amore di Ofelia e ne uccide per tragico errore il padre, il ciambellano Polonio: la fanciulla perde il senno e muore nel fiume. Il fratello di Ofelia, Laerte, sfida a duello Amleto; Claudio prepara una spada con la punta avvelenata e avvelena anche una coppa di vino da offrire al nipote. Ma il complotto si ritorce contro i suoi autori: è la regina a bere la coppa avvelenata, mentre Laerte muore colpito dalla sua stessa spada e svela l’inganno ad Amleto, che, furioso, uccide Claudio. Ma anche Amleto, che è rimasto ferito, muore, affidando il regno all’amico Fortebraccio di Norvegia. Nella scena qui riportata, Amleto si incontra con Rosencrantz e Guildenstern, due vecchi compagni di scuola, che egli però sa che sono spie inviate dallo zio Claudio per indagare sulla sua presunta pazzia. PISTE DI LETTURA • Il tormentato rapporto di Amleto con la follia • Il venir meno delle convinzioni dell’uomo rinascimentale • Tono ambiguo

GUILDENSTERN Mio diletto signore! ROSENCRANTZ Mio dilettissimo signore! Eccellenti amici! Come stai, Guildenstern? Rosencrantz! Come state, AMLETO ragazzi? 5 ROSENCRANTZ Da comuni rampolli della terra. GUILDENSTERN Felici in questo, che non siamo troppo felici; sulla berretta della fortu© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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na, non sul suo pennacchio. Né sotto la suola delle sue scarpe? Neppure, monsignore. Siete dunque alla sua cintura? O nel bel mezzo delle sue grazie? Siamo a parte dei suoi segreti. Nelle parti segrete della fortuna? Dimenticavo, è una sgualdrina. Che si dice di nuovo? Poco, monsignore, se non che il mondo si è fatto onesto. Allora il giorno del giudizio è vicino; ma la voce è infondata. Quante cose avrei da chiedervi! Che punizione avete meritato dalla sorte, perché essa vi mandi qui in prigione? In prigione, monsignore! La Danimarca è una prigione. Allora il mondo ne è una. E ben fatta, con le sue celle, i sotterranei, le segrete: la Danimarca, una delle peggiori. Noi non pensiamo così, monsignore. Allora per voi non lo è; niente è buono o cattivo in sé, ma nel nostro pensiero. Per me è una prigione. L’ambizione ve lo fa parere tale; è troppo angusta per una mente come la vostra. Dio, potrei essere confinato in un guscio di noce e sentirmi un re dello spazio infinito, se non facessi cattivi sogni. I quali appunto sono ambizione, la cui sostanza è la mera ombra di un sogno. Un sogno che non è che ombra. E io tengo l’ambizione per così fatua e leggera da non essere che l’ombra di un’ombra. Allora i nostri mendicanti sono i corpi, e i nostri monarchi e i vocianti eroi, le ombre dei mendicanti. Vogliamo raggiungere la corte? In fede mia, non ragiono. Siamo al vostro servizio. Non ditelo. Non voglio confondervi con gli altri che mi ronzano attorno, perché, se devo parlarvi franco, sono mal circondato. Ma, per la via battuta dell’amicizia, che cosa vi ha condotto a Elsinore? Per fare visita a voi, monsignore, nessun altro motivo. Mendicante quale sono, a corto perfino di ringraziamenti, pure vi ringrazio; e la mia gratitudine, cari amici, anche se è un mezzo soldo, vale già troppo. Non foste chiamati? Venite di vostra iniziativa? È una visita spontanea? Avanti, scopriamo il giuoco; avanti, su, parlate. Che dovremmo dire, monsignore? Qualunque cosa, ma senza cambiare discorso. Foste chiamati: nei vostri occhi c’è una specie di confessione che le vostre modestie non sanno colorare. So che il buon re e la regina vi hanno mandato a chiamare. A che scopo, monsignore? Ditelo voi a me. Ma vi scongiuro, per i diritti della nostra amicizia, per le confidenze di gioventù, per gli obblighi di un affetto inalterato, e per ciò che di più caro un più efficace oratore saprebbe invocare, siate leali e sinceri con me. Foste o no chiamati? Tu che dici? (A parte a Guildenstern.) Attenti, vi osservo. Se mi volete bene, non mentite. Monsignore, fummo chiamati. E io vi dirò perché: così il mio intuito precederà le vostre rivelazioni, e la vostra lealtà verso il re e la regina non verrà meno. Da tempo – ma perché non so – ho perso tutta la mia gaiezza, ho tralasciato ogni esercizio consueto; e il mio umore è così depresso, che questa vaga struttura, la terra, mi sembra uno sterile promontorio; questo padiglione fulgido, l’aria, guardate, con il bel firmamento sovrastante, soffitto maestoso adorno di fuochi d’oro, per me non è che un ammasso di vapori pesti-

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feri. Quale capolavoro è l’uomo! Come nobile nell’intelletto! Come infinito nelle facoltà! Nella forma e nel moto, come raggiunto e mirabile! Un angelo nell’azione, un dio nel pensiero! La bellezza del mondo, il paragone del regno animale. Eppure, ai miei occhi cos’è, questa quintessenza di polvere? L’uomo non mi piace; no, e neanche la donna, se è questo che suggerisce il tuo sorriso. Monsignore, non lo pensavo. E perché hai riso, quando ho detto che l’uomo non mi piace? Pensavo all’accoglienza quaresimale che troveranno qui gli attori, se non vi piace l’uomo. Li oltrepassammo; stanno venendo a offrirvi i loro servigi. Colui che fa le parti di re sarà il benvenuto, sua maestà leverà tributi da me; l’eroe userà la spada e la targa; l’amoroso non sospirerà gratis; il caratterista finirà la parte in pace; il buffone farà ridere chi ha i polmoni solleticabili; e l’attrice dirà liberamente quello che pensa, o il verso zoppicherà. Che compagnia? Proprio quella che vi piaceva: i tragici della città. Si sono messi a viaggiare? Una sede stabile era più conveniente per loro, sia per il successo che per gli incassi. Le loro difficoltà sono dovute alle più recenti innovazioni, credo. Godono la stessa stima di quando ero in città? Hanno sempre il loro pubblico? Veramente no. Perché? Sono peggiorati? Il livello dei loro spettacoli è sempre lo stesso; ma è venuta fuori una banda di giovani, una nidiata di falchetti, che si tengono al corrente delle ultime novità, e perciò vengono scandalosamente applauditi. Vanno di moda, ora, e hanno talmente denigrato con le loro polemiche il teatro comune – così lo chiamano – che molti uomini di qualità non lo frequentano più per non sembrare arretrati. Sono bambini? Chi li sovviene? Come si tengono a galla? Smetteranno la professione, quando non potranno più cantare? E col tempo, diventati a loro volta attori comuni – come è probabile, se non hanno un talento superiore – non diranno che gli scrittori della loro parte li hanno rovinati, spingendoli a inveire contro il loro stesso futuro? C’è stato un gran darsi da fare da una parte e dall’altra, e il pubblico non crede di far peccato gettando olio sul fuoco. Per un certo periodo non si riusciva a piazzare una commedia, se nella trama non c’era un riferimento alla questione. Possibile? Oh, è stato un grande spremicervella. E i giovani la vincono? Si portano via Ercole con tutto il globo. Non è così strano. Mio zio è re di Danimarca, e chi gli voltava le spalle quando mio padre era in vita, ora dà venti, quaranta, cento ducati per una sua miniatura. Per il sangue, qui c’è qualcosa che passa la natura, se la filosofia sapesse definirlo. (Squillo.) da Amleto, trad. di L. Squarzina, Newton Compton, Roma, 1993

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inee di analisi testuale La finzione della follia Amleto è qui nelle vesti di fool, il giullare, che grazie al travestimento da folle si può permettere di dire qualunque cosa, e il principe pazzo usa l’inganno per dire quello che in realtà pensa e, soprattutto, per smascherare gli inganni dello zio. La sua buffoneria è quindi in realtà una amara ironia, e, nel contempo, acuta riflessione, che a volte però si intreccia con la vera follia. Il tono prevalente è, non a caso, basato sull’ambiguità.

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Il relativismo di Amleto Quando dichiara che il mondo è una prigione, mentre Rosencrantz dice di non essere d’accordo, Amleto afferma la relatività soggettiva dei giudizi morali con parole che ricordano il filosofo Michel de Montaigne. La sua professione di relativismo è costituita da una vertiginosa catena di paradossi come: potrei essere confinato in un guscio di noce e sentirmi un re dello spazio infinito, se non facessi cattivi sogni. Il riferimento al concetto di spazio infinito rappresenta, tra l’altro, una novità assoluta dell’epoca: l’infinità dell’universo è teorizzata dal filosofo Giordano Bruno (che vive a Londra fra il 1583 e il 1585, dove pubblica in italiano alcuni suoi importanti lavori, fra cui proprio il dialogo De l’infinito universo et mondi nel 1584). L’universo cessa per Amleto di essere un cosmo ordinato per rivelarsi un ammasso di vapori pestiferi. L’addio all’uomo rinascimentale Ad essere messa in dubbio e abbandonata da Amleto è l’esaltazione che il Rinascimento ha fatto dell’uomo fabbro della sua fortuna: l’esplicita parodia e l’iperbole con cui viene rovesciato l’ottimismo rinascimentale, con espressioni simili a quelle di Marsilio Ficino o Pico della Mirandola (Quale capolavoro è l’uomo! Come nobile nell’intelletto! Come infinito nelle facoltà! [...] Un angelo nell’azione, un dio nel pensiero) approdano alla definizione, di stampo barocco, dell’uomo come quintessenza di polvere.

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Comprensione 1. Rileggi la scena e riassumila in non più di 15 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Dove si può cogliere e in che cosa consiste la critica all’uomo rinascimentale? b. Come definisce i sogni Guildenstern? c. Perché Amleto afferma che un sogno non è che ombra? Approfondimenti 3. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: L’amara e ambigua ironia di Amleto nell’incontro con Rosencrantz e Guildenstern.

T4 Il monologo di Amleto da Amleto, III, 1 Il terzo atto della tragedia di Amleto si apre con il più celebre monologo della storia del teatro, che inizia con le parole: To be, or not to be, that is the question. L’ambigua follia che Amleto finge per nascondere la sua fragilità e riuscire a portare a termine la vendetta che ha promesso al fantasma del padre – verso la veridicità della cui apparizione, pure, talora nutre dubbi – si rivela incontrollabile e dolorosa quanto la lacerazione tra l’amore per la madre e l’odio verso di lei, in quanto complice delle trame dello zio Claudio. Questi motivi spingono il principe a meditare il suicidio, da cui lo trattiene la paura dell’aldilà, che gli appare come un mistero. PISTE DI LETTURA • Lo strazio dei sentimenti • I dubbi e le paure metafisiche dell’uomo • La forma del monologo

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Essere, non essere, qui sta il problema: è più degno patire gli strali, i colpi di balestra di una fortuna oltraggiosa, o prendere armi contro un mare di affanni, e contrastandoli por fine a tutto? Morire, dormire, non altro, e con il sonno dire che si è messo fine alle fitte del cuore, a ogni infermità naturale della carne: grazia da chiedere devotamente. Morire, dormire. Dormire? sognare forse. Ecco il punto: perché nel sonno di morte quali sogni intervengano a noi sciolti da questo viluppo, è pensiero che deve arrestarci. Ecco il dubbio che tiene in vita a così tarda età gli infelici, perché chi vorrebbe subire la sferza e gli sputi del tempo, i torti dell’oppressore, contumelie dall’uomo arrogante, pene per l’amore sprezzato, remore in luogo di legge, gli uffici e la loro insolenza, e gli oltraggi che il merito paziente ha inflitti dalla iniquità, quando egli stesso, nient’altro che con un pugnale, potrebbe far sua la pace? Chi vorrebbe portare some, gemere, smaniare sotto una vita opprimente, se lo sgomento di qualcosa dopo la morte, l’inesplorato dei continenti dalla cui frontiera non c’è viaggiatore che torni, non intrigasse la volontà, facendo preferire il peso dei mali presenti al volo verso altri di cui non si sa? È la coscienza che ci fa vili, noi quanti siamo. Così la tinta nativa della risoluzione si stempera sulla fiacca paletta del pensiero, imprese di grande flusso e momento insabbiano il loro corso e perdono il nome di azione. La bella Ofelia. Nelle tue preghiere, ninfa, intercedi per me peccatore. da Amleto, trad. di L. Squarzina, Newton Compton, Roma, 1993

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inee di analisi testuale Pazzia finta e pazzia vera Amleto si finge pazzo, ma la sua follia è in parte reale, poiché egli, mai completamente certo della verità, è prigioniero di contrastanti pensieri e passioni che gli devastano la mente, e si sente – come conclude alla fine del monologo – intrappolato nella vita e nei suoi mali, causati dall’oltraggiosa Fortuna, protagonista sempre incombente delle tragedie shakespeariane. La struttura del monologo Il monologo si apre con la figura retorica dell’antitesi – espressa nella contrapposizione fra gli estremi opposti della condizione umana, l’essere e il non essere – in forma di domanda dilemmatica. Subito dopo, l’antitesi viene ulteriormente specificata nell’interrogativo se sia più nobile sopportare i colpi della sorte o armarsi contro il mare di guai della vita. La successiva antitesi – che traduce, in forma stilistica, la lacerazione del dubbio – si presenta in termini esistenziali e ancora in forma di dilemma: Morire, dormire… nient’altro oppure Dormire, forse sognare. Il sonno del nulla porrebbe fine a ogni sofferenza. I sogni sono metafora di una possibile altra vita. La morte, il non essere, non garantisce il nulla. L’apparizione dello spettro paterno – se non è frutto della pazzia, come talora il protagonista sembra sospettare – è una dimostrazione dell’esistenza dell’aldilà: se tale paese ignoto esiste, il principe Amleto non ha via d’uscita dalla trappola della propria vita. L’aldilà come sogno Originale è la concezione dell’aldilà come sogno. Un sogno che può essere un incubo, come forse quello del padre, che vaga nel dolore eterno, nel desiderio di vendetta, forse nell’inferno. Il principe di Danimarca, lacerato dai sentimenti che prova nei confronti della madre (complice del delitto eppure amata) e del padre (che gli ha affidato la responsabilità della vendetta), non può neppure porre fine alla vita, perché teme oltre la vita forse di ritrovarsi nella condizione del padre. Le figure retoriche prevalenti Fra le figure retoriche prevalenti emerge l’enumerazione: mediante essa Amleto elenca i mali della vita, e, dopo una metafora dell’esistenza come contratto, continua ancora con una serie di domande retoriche in una tragica gradazione ascendente, fino alla soluzione finale, l’ammissione della viltà dell’inazione, imputata dal protagonista agli scrupoli religiosi e morali. La modernità di Amleto La modernità del personaggio di Amleto risiede anche nel suo profondo spessore psicologico, che rende protagonista della tragedia un uomo complesso al punto che – ancora oggi – mantiene vivo il dibattito sul suo pensiero e sulle ragioni del suo agire, legando il proprio nome all’attributo amletico, che si riferisce all’incertezza e al dubbio spinti all’esasperazione.

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Comprensione 1. Riassumi il contenuto del monologo di Amleto. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono i tratti di carattere che Amleto rivela nel monologo? b. Quali sono le domande esistenziali presenti nella prima parte del testo? c. Quali sono i principali dubbi del protagonista che emergono nel monologo? d. Quale argomento impedisce ad Amleto di togliersi la vita? e. Quale originale funzione attribuisce Shakespeare al sogno? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande riguardanti il protagonista (max 5 righe per ogni risposta). a. Quale principale figura retorica sostiene la parte iniziale del monologo e a quale aspetto del personaggio si collega? b. Quale principale condizione di tragico conflitto contraddistingue Amleto? c. Quali sono gli opposti sentimenti che Amleto nutre verso i suoi familiari e perché? d. Per quali aspetti la figura di Amleto può essere ritenuta straordinariamente moderna? Approfondimenti 4. Rifletti sul contenuto del monologo di Amleto: le concezioni sulla vita e sulla morte della maggioranza dei giovani di oggi che conosci ti sembrano vicine o lontane da quelle espresse da Shakespeare per bocca di Amleto? Motiva la tua risposta. 5. Tratta sinteticamente (in circa 30 righe) il seguente argomento: La profonda diversità fra i modelli di principe proposti, rispettivamente, nel capolavoro rinascimentale di Machiavelli e nell’Amleto di Shakespeare.

T5 Macbeth assassina il sonno da Macbeth, II, 2 La tragedia Macbeth – come l’Amleto – appartiene alla terza e più pessimistica fase della produzione shakespeariana. Spinto all’omicidio di re Duncan da un’oscura profezia e dalla moglie assetata di potere, Macbeth piomba in una situazione tragica senza via d’uscita, che porteranno alla follia Lady Macbeth ed entrambi i coniugi alla catastrofe. Per questa tragedia Shakespeare si ispira a Le cronache d’Inghilterra, Scozia e Irlanda di Raphael Holinshed, concentrando in pochi giorni eventi accaduti nel corso di diciassette anni; dà inoltre maggior rilievo alla figura di Lady Macbeth, facendone l’ispiratrice dell’assassinio di Duncan da parte di Macbeth e alterando le vicende storiche. PISTE DI LETTURA • Il conflitto fra ambizione di potere e coscienza morale • I diversi caratteri di Macbeth e di sua moglie • Tono tragico

Entra Lady Macbeth LADY MACBETH Ciò che ha reso loro ubriachi1 ha reso me audace: ciò che ha smorzato loro ha dato fuoco a me. – Silenzio! – Era la civetta2 a stridere, il fatale campanaro che porge la più spietata buonanotte. Lui3 è al lavoro.

1. Ciò… ubriachi: Lady Macbeth allude al vino con cui ha ubriacato le sentinelle. 2. la civetta: secondo la credenza popolare la civetta an-

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nuncia morte e sventura. 3. Lui: Macbeth, che è andato ad assassinare Duncan.

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Le porte sono aperte e guardie satolle scherniscono russando il loro compito4. Ho drogato le loro bevande sì che Morte e Natura contendono se debbano vivere o morire5. [dall’interno] Chi va là? – ehi! Ahimè! Ho paura che si siano svegliate e che la cosa non sia stata fatta. Il tentativo senza la riuscita sarebbe la rovina: – Silenzio! – Ho tratto fuori i loro pugnali – non poteva non vederli. – Se non avesse somigliato a mio padre6, mentre dormiva, l’avrei fatto io7. – Mio marito!

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L’ho fatto8. – Non hai sentito un rumore? MACBETH LADY MACBETH Ho sentito gridare la civetta, e cantare il grillo. Non hai parlato? Quando? MACBETH Ora. LADY MACBETH Mentre scendevo? MACBETH Sì. LADY MACBETH Ascolta! Chi dorme nell’altra camera? MACBETH LADY MACBETH Donalbain9. È una vista pietosa10. MACBETH LADY MACBETH Sciocco pensiero dire: una vista pietosa. Ce n’era uno che rideva nel sonno, un altro MACBETH che gridò: “Assassino!”, sì che si svegliarono l’un l’altro. Mi fermai per sentirli ma dissero le preghiere e ripresero a dormire. LADY MACBETH Due dormono insieme. Uno gridò, “Dio ci benedica!” e l’altro “Amen”, MACBETH come se mi avessero visto con queste mani di carnefice. Di fronte al loro timore, non potei dire “Amen”11 quando dissero “Dio ci benedica”. LADY MACBETH Non rifletterci troppo. Ma perché non ho potuto dire “Amen”? MACBETH Avevo più che mai bisogno d’una benedizione e l’“Amen” mi rimase sulla lingua. LADY MACBETH A questi fatti non si deve pensare in questo modo, che altrimenti ci faranno impazzire.12 MACBETH Mi parve di udire una voce gridare, “Non dormire più!” “Macbeth assassina il Sonno” – il Sonno innocente, il Sonno che ravvia la matassa scompigliata dell’affanno, morte della vita d’ogni giorno, bagno della dura fatica, balsamo delle anime ferite, seconda portata della grande Natura, primo nutrimento nel banchetto della vita –

4. scherniscono… compito: non si preoccupano di svolgere le loro mansioni. 5. sì che… morire: sono preda di un sonno così profondo che sembrano morti. 6. Se non avesse somigliato a mio padre: il soggetto è Duncan. 7. l’avrei … io: lo avrei assassinato io. 8. L’ho fatto: ho ucciso il re. 9. Donalbain: uno dei figli di Duncan.

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10. È… pietosa: la scena che si presenta nella camera del re assassinato. 11. dire “Amen”: con l’uccisione di Duncan il male si è impossessato di Macbeth, tanto che egli non può più chiedere aiuto a Dio. 12. A questi… impazzire: inconsciamente preannuncia quello che realmente le accadrà: diverrà infatti preda della follia.

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LADY MACBETH Che vuoi dire? E seguitava a gridare, “Non dormire più!” a tutta la casa. MACBETH “Glamis ha assassinato il Sonno, e perciò Cawdor13 non dormirà più, Macbeth non dormirà più!” LADY MACBETH Ma chi era che gridava così? Degno barone, sprechi la tua nobile forza nel pensare alle cose tanto morbosamente. Va a prendere dell’acqua e lava dalla mano questa sozza testimonianza14. Perché hai riportato qui i pugnali15? Debbono restare lì: va, rimettili a posto e imbratta di sangue le guardie addormentate. Non ci andrò più. MACBETH Ho paura al pensiero di ciò che ho fatto: non oso guardarlo un’altra volta. LADY MACBETH Sei troppo fragile. Dammi i pugnali. I dormienti e i morti non sono che immagini: è l’occhio del fanciullo ad aver timore d’un diavolo dipinto. Se lui sanguina, colorirò il viso delle guardie: deve sembrare colpa loro. Esce. Bussano fuori scena Chi è che bussa? MACBETH Com’è che ogni rumore mi atterrisce? Che mani sono queste? Ah! Mi strappano gli occhi. Basterà tutto il grande oceano di Nettuno a lavare questo sangue dalla mia mano? No, questa mia mano piuttosto imporporerà mari innumerevoli facendo del verde un solo rosso. Entra Lady Macbeth

LADY MACBETH Le mie mani hanno lo stesso colore ma io mi vergognerei di avere un cuore così bianco. Bussano Sento bussare al portone a Sud16. Ritiriamoci nella nostra camera. Un po’ d’acqua ci purificherà di questo atto: com’è facile, dunque!17 La tua fermezza ti ha abbandonato. Bussano 80 Ascolta! Altri corpi. Indossa la vestaglia, affinché non si scopra che siamo ancora alzati. Non perderti così miseramente nei tuoi pensieri. Se debbo conoscere il mio atto, sarebbe meglio MACBETH non conoscere me stesso18. Bussano 85 Sveglia Duncan coi tuoi colpi: vorrei che lo potessi!19 Escono 75

da Le tragedie, a cura di G. Melchiori, Mondadori, Milano, 1983

13. Glamis… Cawdor: due titoli nobiliari con i quali le fatali sorelle (le streghe che pronunciano la profezia) salutano Macbeth all’inizio della tragedia. 14. testimonianza: il sangue del re. 15. pugnali: i pugnali che debbono servire per accusare i servi. 16. Sento… Sud: è Macduff che viene in visita al re Duncan.

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17. com’è… dunque!: quando cadrà preda della follia, Lady Macbeth continuerà a vedere il sangue sulle proprie mani e a lavarle senza sosta. 18. Se... me stesso: Macbeth non riesce ad accettare quello che ha fatto: l’enormità del misfatto incombe su di lui. 19. Sveglia… potessi!: Macbeth vorrebbe non aver compiuto l’assassinio.

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inee di analisi testuale Macbeth, Lady Macbeth e l’ambizione L’ambizione trasforma e spinge all’orribile delitto i due coniugi, protagonisti della tragedia. Macbeth è combattuto tra la riluttanza a commettere il crimine e l’ambizione di essere re; Lady Macbeth, invece, non ha esitazioni: il re deve morire e ogni debolezza deve essere messa da parte. I ruoli poi si capovolgeranno: Macbeth, debole, insicuro, pieno di paure, alla fine non teme più niente. Al contrario, in Lady Macbeth riprendono il sopravvento la femminilità e il rimorso di coscienza: incapace di sopportare la pressione psicologica, la donna impazzisce e muore. La tragedia dell’antitesi Come sottolinea Giorgio Melchiori, l’antitesi è il carattere centrale della tragedia. Ne ritroviamo numerosi esempi, a cominciare dalle parole delle streghe proprio all’inizio del dramma: il bello è brutto, il brutto è bello; le stesse parole, per coincidenza non casuale, si ritrovano nella prima battuta di Macbeth – Non ho mai visto un giorno così brutto e così bello insieme – che lega così il destino del protagonista a quello della profezia. Importante è l’intreccio delle coppie di antitesi giorno/notte e bene/male: Duncan, il buono, è ucciso di notte, mentre Macbeth, il malvagio, verrà ucciso di giorno. Il tema del sonno Ricorrente è la contrapposizione tra dormire e vegliare: dopo aver ucciso il re, Macbeth scopre che non può più dormire perché il sonno è simbolo di innocenza (Mi parve di udire una voce gridare, “Non dormire più!” / “Macbeth assassina il Sonno” – il Sonno innocente; “Glamis ha assassinato il Sonno, e perciò Cawdor / non dormirà più, Macbeth non dormirà più”). Nel seguito della tragedia, Macbeth sarà preda di terribili incubi e la stessa Lady Macbeth, che in questa scena si mostra tanto sprezzante nei confronti dei timori del marito, sarà vittima di sonnambulismo e follia. Del destino di Lady Macbeth – che, delirante, cercherà invano di lavare la proprie mani dal sangue – abbiamo qui una premonizione quando, rientrando in scena dopo aver riportato le armi sul luogo del delitto, si rivolge a Macbeth dicendo: Le mie mani hanno lo stesso colore, ma io mi vergognerei / di avere un cuore così bianco.

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Comprensione 1. Riassumi la scena in non più di 15 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Da chi e quando viene commesso l’assassinio di re Duncan? b. Come lo viene a sapere il lettore (o il pubblico)? c. Quali sono le antitesi presenti nel testo? Quale ne è la funzione? Approfondimenti 3. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: Il dramma di Macbeth, tragico prezzo dell’ambizione.

Heinrich Füssli, Lady Macbeth sonnambula, 1784. Parigi, Museo del Louvre.

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T6 Il duca mago si congeda dal pubblico da La tempesta, IV, 1 Sembra che l’ispirazione per La tempesta – capolavoro degli ultimi anni di vita dell’autore – sia venuta a Shakespeare da un rapporto su un naufragio di marinai inglesi realmente avvenuto nel 1609 sulle isole Bermuda, nonché da un saggio di Michel de Montaigne che esaltava la vita degli indigeni dei Caraibi. Il monologo di Prospero è ripreso da un discorso di Medea nelle Metamorfosi di Ovidio. La trama dell’opera è fantastica e ha per protagonista Prospero, spodestato duca di Milano e mago, che insieme alla figliola Miranda approda su un’isola abitata da spiriti e dal bestiale Calibano, che sottomette con le sue arti ai propri voleri. Dopo dodici anni il mago suscita una tempesta e fa naufragare sull’isola una nave su cui si trovano il re di Napoli e suo figlio Ferdinando, nonché il fratello di Prospero, l’usurpatore del suo ducato, Antonio. Infine, con l’aiuto degli spiriti, Antonio si pente, Ferdinando e Miranda si innamorano, l’isola viene lasciata a Calibano e Prospero decide di tornare in Italia. PISTE DI LETTURA • Il tema barocco dell’intreccio fra esistenza e sogno • La vita reale e la recita in teatro • Tono elegiaco

PROSPERO Figlio mio1, sembri colpito da un grande sbigottimento. Ma sta’ di buon animo. Le nostre feste sceniche son finite. Questi nostri attori, come del resto avevo già detto, erano soltanto degli spiriti2, e si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile. E simili in tutto alla fabbrica senza fondamento di que5 sta visione, le torri incappucciate di nubi, gli splendidi palazzi, i sacri templi, lo stesso globo terrestre e tutto quel che vi si contiene s’avvieranno al dissolvimento, e, al modo di quello spettacolo senza corpo che avete visto3 pur ora dissolversi, non lasceranno dietro a sé nemmeno un solo strascico di nube. Noi siamo fatti della medesima sostanza di cui sono fatti i 10 sogni, e la nostra vita breve è circondata dal sonno. Io sono preoccupato, signore. Vogliate perdonare questa mia debolezza. La mia vecchia mente è inquieta4. Pure non vogliate prendervi pena per la mia infermità. Se così vi piace, ritiratevi nella mia grotta, ed ivi riposate. Io muoverò qualche passo qui fuori per acquietare il mio spirito turbato. da La tempesta, Rizzoli, Milano, 1997

1. Figlio mio: è Ferdinando, che sta per sposare la figlia di Prospero, Miranda. 2. erano soltanto degli spiriti: Prospero si riferisce agli spiriti dell’isola, cui aveva rivolto l’invito, ringraziandoli per la bella recita, ad andarsene, dopo aver inscenato il naufragio, la tempesta e la festa del fidanzamento tra Ferdinando e Miranda. 3. spettacolo senza corpo che avete visto: gli incantesimi evocati dagli spiriti dell’isola. 4. inquieta: la somiglianza tra la vita e il sogno turba la mente del vecchio Prospero.

William Hogarth, Particolare di una scena da La tempesta. Wakefield, Collezione St. Oswald. Nel dipinto si riconoscono Prospero, con la bacchetta magica, e la figlia Miranda, oltre a Calibano.

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inee di analisi testuale La vita è sogno Il monologo di Prospero è il punto più celebre della Tempesta: esso è apparentemente giocato sul tema barocco della vita come sogno (metafora che dà perfino il titolo a una celebre opera dello spagnolo Pedro Calderón de la Barca). Ma l’allusivo accostamento non si ferma a questo frequentato luogo poetico della letteratura seicentesca. Shakespeare, non dimentichiamolo, è sia autore di teatro sia attore. La magia del teatro Prospero avvicina gli spiriti dell’isola agli attori e gli incantesimi alle scenografie teatrali, quasi a suggerire allo spettatore la convinzione di Shakespeare – autore e attore – secondo cui il teatro è una magia che allieta la vita così come il sogno allieta il sonno notturno degli uomini. Ma non è tutto qui. Alcuni critici hanno voluto interpretare La tempesta shakespeariana come opera metateatrale, cioè di riflessione sul teatro stesso come forma d’arte. Quando Prospero afferma che i protagonisti sono fatti della stessa sostanza dei sogni, vuole spiegare al pubblico come le opere d’arte siano creazioni della fantasia umana, che di notte sviluppa prodotti onirici nelle menti di tutti e durante la veglia realizza prodotti artistici grazie a individui – maghi della penna nel caso del teatro – dotati di talenti particolari. Tali prodotti saranno fruiti come opere di teatro – incantesimi, scenografie – recitate da spiriti capaci di evocare emozioni.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del monologo di Prospero. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Chi sono gli attori che Prospero cita nel monologo? b. Dove sono andati? c. Da che cosa è circondata, secondo Prospero, la vita dell’uomo? d. Di quale materia Prospero dice di essere fatto? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il tema barocco che affiora nel breve monologo di Prospero? b. Qual è secondo Prospero la condizione dell’uomo? c. In quali passi si rivela che l’autore sta probabilmente parlando del teatro come forma d’arte? d. Quale funzione Shakespeare attribuisce ai sogni? Approfondimenti 4. Rifletti sul contenuto del monologo di Prospero riferendo le sue riflessioni al teatro come forma d’arte e alla recitazione come mestiere di artista: le concezioni della fiction e dell’attore che oggi attraggono tanti giovani ti sembrano vicine o lontane da quelle espresse da Shakespeare? Motiva la tua risposta. 5. Tratta sinteticamente in 30 righe il seguente argomento: La fiction odierna, fruita attraverso i canali di comunicazione attuali da milioni di persone ogni giorno, sembra obbedire per alcuni versi alla stessa funzione che Shakespeare attribuiva ai suoi tempi al teatro.

Iris, disegno di Inigo Jones per La tempesta. Collezione privata.

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Letteratura e cinema SHAKESPEARE IN LOVE Regia: John Madden Anno: 1998 Genere: commedia sentimentale L’argomento Londra, 1593: William Shakespeare si trova a corto di soldi e di ispirazione. Conteso tra due impresari teatrali, Philip Henslowe del teatro Rose e Richard Burbage del ricco Curtain Theatre, ha un impellente bisogno di una musa per portare a termine l’opera che ha iniziato e venderla al miglior offerente. Tuttavia, Henslowe, sull’orlo del fallimento, lo costringe a consegnargli la commedia su cui lavora, Romeo e Ethel, la Figlia del Pirata, dal momento che “l’ha già venduta” come garanzia al creditore Fennyman, che lo minaccia di morte. Ai provini per trovare gli attori si presenta un giovane, Thomas Kent, che cattura l’attenzione di Shakespeare. Ma Thomas altri non è che Viola De Lesseps, una bellissima e ricca dama, il cui più forte desiderio è quello di recitare (cosa che all’epoca potevano fare solo gli uomini) e vivere un vero amore, ma purtroppo è promessa sposa all’ottuso Lord Wessex. Ecco la musa: Shakespeare termina il lavoro – diventerà la tragedia Romeo e Giulietta – e si innamora perdutamente di Viola/Thomas, che ricambia il sentimento, di giorno, nei panni maschili di Romeo e, di notte, nella sue vere sembianze. Questa non è vita. È una stagione rubata: così mormora Viola a William, perché i due sono consapevoli che il loro amore è uno spazio e un tempo ritagliato al fluire delle cose, eppure lo vivono fino in fondo e con intensità. Dopo il debutto della tragedia e il suo successo, i due seguono i loro destini: Shakespeare alle prese con una nuova commedia per il teatro di corte e Viola con lord Wessex, diventato suo marito, verso i possedimenti oltreoceano. Il significato e il linguaggio Romeo e Giulietta e William e Viola: le due storie si intrecciano e corrono in parallelo, mostrando la prima le vere scene dell’opera shakespeariana, la seconda riferimenti di fantasia che non hanno corrispondenza con le reali (probabili) vicende di Shakespeare, di cui si hanno poche certezze biografiche. È un film diverso dalle molte trasposizioni filmiche di opere shakespeariane. Il critico Morando Morandini lo ha definito vicino a un dramma elisabettiano rivolto ai nobili (gli spettatori colti) e al popolo, all’intelligenza dei primi e al cuore del secondo che vi trova intreccio, avventura, amore. Il grande successo di pubblico e di critica ottenuto dà valore a questa lettura. Il film ha una costruzione perfetta, proprio come le opere di Shakespeare, grazie alla sceneggiatura di Tom Stoppard. Stoppard, con uno sguardo moderno, scompone e ricompone nella storia di William e Viola alcuni degli elementi cardine delle commedie del Bardo: il travestimento, il teatro nel teatro, la saggezza di alcuni personaggi opposta alla stupidità di altri, vivi che sembrano morti e morti che sembrano vivi, l’amore ostacolato. E non si prende troppo sul serio: divertente il “confessore” di Shakespeare che assomiglia a Sigmund Freud, o il piccolo cencioso che ama le uccisioni e che si chiama John Webster, come il drammaturgo seicentesco noto per le sue trame truculente. L’attrice Judi Dench interpreta la regina Elisabetta.

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Concetti chiave LA VITA William Shakespeare nasce nel 1564 a Stratford-on-Avon in una famiglia di ceto medio. Dopo aver frequentato la scuola locale, a diciotto anni si sposa con Anne Hathaway e poco dopo si trasferisce a Londra, dove vive ai margini del mondo teatrale. Non si hanno notizie precise sulla sua vita fino al 1594, quando entra a far parte in qualità di attore e poeta della compagnia dei Lord Chamberlain’s Men. In questi anni la sua fama di drammaturgo si consolida e la sua compagnia dapprima costruisce un nuovo teatro, il Globe; poi acquista il Blackfriars, il primo teatro al coperto. Grazie al patrocinio di re Giacomo I, i Lord Chamberlain’s Men diventano i King’s Men e alcuni drammi di Shakespeare vengono rappresentati a corte. Nel 1610 Shakespeare torna a Stratford, dove scrive le ultime opere teatrali; qui muore nel 1616. I SONETTI I 154 Sonetti, il capolavoro poetico di Shakespeare, sono pubblicati nel 1609. Protagonisti delle liriche sono un Mr. W. H. e una Dark Lady: di entrambi si è cercato invano di stabilire l’identità. Shakespeare si confronta con la tradizione linguistica e tematica di derivazione petrarchista, classicista e barocca rielaborandone i temi con profonda originalità: centrale nelle sue liriche è il tema della transitorietà della vita, cui si contrappone la possibilità di sconfiggere il tempo attraverso l’amore e la poesia. LE OPERE TEATRALI E LE LORO FASI Le opere teatrali shakespeariane sono raccolte e pubblicate in un’edizione del 1623, che costituisce la principale fonte e comprende trentasei fra commedie e tragedie: per il resto non si hanno notizie precise né sui testi originali, né sulla cronologia delle opere. Si è soliti dividere la produzione di Shakespeare in quattro fasi, che testimoniano l’evoluzione delle sue abilità tecniche e della sua visione del mondo. Nella prima (1590-1595) prevale

una forte sperimentazione di generi drammaturgici (Tito Andronico, La bisbetica domata e il capolavoro Romeo e Giulietta); alla seconda (1595-1600) appartengono le commedie più significative e i drammi storici sulla monarchia inglese (Sogno di una notte di mezza estate, Enrico IV); la terza (1600-1608) è di importanza fondamentale, e vi prevalgono le grandi tragedie, caratterizzate da profondo pessimismo (Amleto, Otello, Re Lear), mentre nelle tragicommedie della quarta fase (1608-1616) l’atmosfera tende a rasserenarsi (Racconto d’inverno, La tempesta). LA CONCEZIONE DEL MONDO E I PERSONAGGI I personaggi delle opere di Shakespeare – cui l’autore affida anche il compito di esprimere la propria complessa concezione del mondo – sono reali esseri umani, soggetti a trasformazioni e a forti contrasti interiori, di profondo spessore psicologico. Per questo assumono un valore universale ed esemplare, in quanto portano sulla scena le eterne problematiche dell’umanità, pur rappresentando sia il tramonto dei valori medievali della gerarchia (tradotti nella concezione elisabettiana della “catena degli esseri”), sia la crisi dell’ottimismo dell’uomo rinascimentale. Anche le contraddittorie concezioni dell’amore, il conflitto fra bene e male e la follia sono temi che compaiono nelle opere di un grande autore che, vissuto in un’epoca di transizione, tratta con straordinaria maestria soprattutto i contrasti che lacerano gli uomini e l’animo dell’individuo.

John Everett Millais, La morte di Ofelia, 1852. Londra, Tate Gallery.

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CAP. 6 - WILLIAM SHAKESPEARE

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E

sercizi di sintesi

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Della vita di Shakespeare nel 1592 a. non si ha alcuna notizia. b. si hanno poche notizie. c. si hanno informazioni attendibili grazie al suo diario. d. si sa per certo che vive a Londra. 2. Tra il 1591 e il 1594 Shakespeare a. cade malato per un’epidemia di peste. b. lavora come maestro di scuola. c. conosce un successo senza precedenti. d. esordisce come autore teatrale sulla scia di Marlowe. 3. I King’s Men sono a. una compagnia teatrale di corte. b. i dedicatari dei Sonetti di Shakespeare. c. gli amici londinesi di Shakespeare. d. le spie del re Giacomo I. 4. La prima fase compositiva di Shakespeare è a. basata su testi sperimentali poco comprensibili. b. poco chiara per problemi linguistici. c. caratterizzata da sperimentazione di generi. d. influenzata dal teatro spagnolo.

10. Amleto a. è pazzo e crede di aver visto il fantasma del padre. b. si finge pazzo per conquistare Ofelia. c. simula la pazzia per meglio cogliere l’inganno e per potersi vendicare. d. si atteggia a pazzo per divertire gli amici. 11. Essere, non essere, qui sta il problema a. sono le prime parole che Amleto rivolge ad Ofelia. b. è l’inizio del più famoso monologo di Amleto. c. è l’epigrafe della tragedia Amleto. d. sono le ultime parole che pronuncia Amleto morente. 12. Rosencrantz e Guildenstern sono a. i due fratelli di Ofelia. b. due vecchi amici del duca Prospero. c. due amici di Romeo Montecchi. d. due vecchi compagni di scuola di Amleto. 13. Prospero è a. il re di Danimarca. b. il fratello di Ofelia. c. il duca di Milano. d. il re di Britannia.

5. Alla seconda fase appartiene, tra le altre opere, a. Amleto. b. Otello. c. Giulio Cesare. d. La tempesta.

14. La tempesta è un’opera a. che narra di un naufragio alle Bermuda. b. di pura fantasia. c. giovanile di Shakespeare. d. dell’ultima fase dell’autore.

6. Il mondo di Shakespeare è a. ancora legato al pensiero medievale. b. già pienamente moderno. c. di transizione fra Medioevo e modernità. d. pienamente rinascimentale.

15. L’ultima fase della produzione shakespeariana si distingue per a. attenuazione del pessimismo. b. accentuazione del pessimismo. c. prevalenza di drammi storici sulla monarchia inglese. d. prevalenza di drammi storici di argomento classico.

7. I personaggi di Shakespeare a. hanno contrasti interiori e cambiano. b. non subiscono mutamenti. c. sono quasi sempre irreali. d. cercano solo il potere e la gloria. 8. Per Shakespeare la sorte a. è sempre favorevole all’uomo. b. aiuta chi è moralmente onesto. c. è spesso beffarda. d. colpisce gli uomini malvagi. 9. Macbeth è un’opera a. ispirata da vicende storiche modificate. b. frutto della fantasia shakespeariana. c. scoperta di recente. d. ispirata al ciclo bretone.

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2 Svolgi in forma scritta i seguenti argomenti (max 20 righe ciascuno). 1. I principali avvenimenti della vita di William Shakespeare. 2. Il ruolo della corte inglese nella vita e nell’opera teatrale di Shakespeare. 3. La cronologia e le caratteristiche delle quattro fasi della produzione di William Shakespeare e le opere principali che caratterizzano ogni fase. 4. I temi principali delle opere di Shakespeare. 5. Trama, significato e temi di una delle opere di Shakespeare che conosci e di cui hai letto uno o più passi.

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CAPITOLO

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Il secolo del teatro

Jacques Callot da Giulio Parigi, Il teatro mediceo degli Uffizi, 1617. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe.

La grande stagione del teatro europeo L’importanza del teatro nel Seicento è enorme, poiché la forma teatrale incarna lo spirito del tempo, in particolare il gusto per la scenografia, per l’apparenza e la finzione, che caratterizza sia i costumi di vita sia l’immaginario barocco, con i suoi continui riferimenti al mondo come un immenso palcoscenico. L’Europa di fine Cinquecento e del Seicento assiste a una grande fioritura del teatro, che ha come principali centri di diffusione, oltre all’Inghilterra elisabettiana, la Spagna, la Francia e l’Italia. In questi Paesi nascono luoghi appositamente destinati alle rappresentazioni e si affermano grandi figure di autori che spesso sono anche attori. I generi più praticati sono la tragedia, che, come già visto, raggiunge i vertici nel teatro inglese con Marlowe e Shakespeare e in Francia con Corneille e Racine, e la commedia, che trova la sua massima espressione negli autori spagnoli e nel maggiore commediografo del secolo, il francese Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière.

IL

TEATRO SPAGNOLO DEL SIGLO DE ORO

Nella ricca produzione che caratterizza, in tutti i generi letterari, il Seicento in Spagna, noto anche come siglo de oro (“secolo d’oro”), il teatro occupa un posto di primo piano. Il genere maggiormente coltivato è la commedia, cui si accompagnano i drammi sacri. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

CAP. 7 - IL

SECOLO DEL TEATRO

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Pubblico, temi, spettacolarità e tipizzazione

Il pubblico assiste alle rappresentazioni teatrali nei cortili all’aperto (corrales), mentre si sviluppa, nel contempo, anche una produzione destinata alle corti. I temi principali riflettono il pensiero predominante nella Spagna controriformista e barocca: dalle opere emergono la concezione cattolica del male e della via per la salvezza nel conflitto fra il libero arbitrio e la tentazione del peccato, i valori della nobiltà di sangue e dell’onore, il contrasto tra realtà e sogno. Intrecci e colpi di scena evidenziano il gusto per la spettacolarità; in personaggi e caratteri si rivela la preferenza per una forte tipizzazione.

Lope de Vega La vita

Le opere

Innovazioni e libertà d’invenzione

II principale drammaturgo, autore fra i massimi della letteratura spagnola di ogni tempo, è Lope Félix de Vega Carpio. Nato a Madrid nel 1562, dopo aver frequentato le scuole dei Gesuiti, Lope de Vega inizia a scrivere e, nel frattempo, conduce un’esistenza disordinata, fra relazioni amorose illecite, condanne penali, sventure e lutti familiari. Nel 1588 partecipa alla disastrosa spedizione di Filippo II contro Elisabetta d’Inghilterra; si dedica poi a servire nobili personaggi come segretario e consigliere. Nel 1614, dopo la morte per parto della seconda giovane moglie, in seguito a una profonda crisi esistenziale, viene ordinato sacerdote e come tale trascorre gli ultimi anni di vita, continuando tuttavia a coltivare passioni e relazioni amorose. Ammalatosi nel 1629, perde anche l’ultima compagna (1632) ed egli stesso muore in estrema povertà a Madrid nel 1635. Nessuno si assume l’onere economico del suo funerale, pertanto viene seppellito in una fossa comune. Durante la sua vita, dopo aver pubblicato circa tremila sonetti, di matrice barocca, si dedica soprattutto all’attività di drammaturgo. Della sua monumentale produzione, sono a noi pervenute 426 commedie e 42 drammi sacri. Tra le sue commedie ricordiamo Fuente Ovejuna (1612-1614), Il miglior giudice è il re (1620-1623), Il cavaliere di Olmedo (1620-1625) e il dramma sacro L’adultera perdonata. Di enorme importanza sono le innovazioni introdotte da Lope de Vega nel teatro spagnolo: ai canonici cinque atti del teatro tradizionale, nettamente distinto fra tragedia e commedia, egli sostituisce opere in tre atti e modifica i contenuti, spostando l’attenzione sull’intreccio e sull’azione. Notevole è la sua libertà d’invenzione, che guarda alle fonti classiche e alle tradizioni popolari; il suo teatro in versi usa misure metriche differenti e anche il suo linguaggio, in cui l’influenza barocca incide moderatamente, attinge dai più svariati modelli e registri.

Tirso de Molina Tirso de Molina è lo pseudonimo di Gabriel Téllez. Nato a Madrid nel 1584, a ventidue anni entra in convento, avviandosi alla carriera ecclesiastica. Compie numerose missioni, anche nelle Americhe; acquista intanto fama di poeta e drammaturgo e subisce il divieto di scrivere per il teatro da parte di un tribunale ecclesiastico; diventato poi superiore del convento di Soria, vi muore nel 1648. Degli oltre 300 commedie e drammi che la tradizione gli attribuisce, ne restano un’ottantina. Il capolavoro Indiscusso capolavoro è L’ingannatore di Siviglia, rappresentato per la prima vole il personaggio ta con successo nel 1630 nella Napoli spagnola. Protagonista dell’opera è il persodi Don Giovanni naggio di Don Giovanni, destinato a grande celebrità nella storia della letteratura e dell’arte nonché nell’immaginario collettivo. La vicenda è suddivisa in tre giornate: Don Giovanni Tenorio, privo di ogni principio morale e cinico seduttore, inganna due nobildonne e seduce due popolane, giungendo anche a uccidere un uomo. Per tali colpe il protagonista è dannato per l’eternità: sotto gli occhi dello spettatore, Don Giovanni è trascinato all’inferno dalla statua del gentiluomo che egli ha assassinato, statua che, per una macabra sfida a ogni norma morale, lo stesso Don Giovanni ha invitato a cena (da cui il secondo titolo dell’opera, Il convitato di pietra). I personaggi Come nella maggior parte delle opere di Tirso de Molina, i personaggi sono tisono tipi fissi pi fissi e diventano simboli di comportamenti morali; sulla scia di Lope de Vega, il dramma si presenta come una contaminazione fra tragedia e commedia, in cui versi, linguaggio e intreccio godono di grande libertà. Frequente è la presenza nei testi di elementi stilistici barocchi.

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Pedro Calderón de la Barca

Le opere e il capolavoro

Focus

Calderón de la Barca (1600-1681), il terzo grande drammaturgo del secolo d’oro spagnolo, si forma presso il collegio imperiale dei Gesuiti a Madrid; dopo una gioventù turbolenta, che lo vede accusato di omicidio e imprigionato, a trent’anni comincia ad allestire rappresentazioni teatrali pubbliche; il suo successo gli permette di conquistare la posizione di drammaturgo di corte sotto Filippo IV. L’inquietudine lo spinge a farsi soldato, ma nel 1650, diventato terziario francescano, prende stabilmente servizio presso la famiglia reale, incarico che conserverà fino alla morte. Di questo autore ci sono pervenute 120 commedie e 80 drammi sacri. Seguace di Lope de Vega, Calderón ne rielabora il teatro in forme più raffinate. Suo capolavoro è La vita è sogno (1635). La commedia intreccia due storie: quella di Sigismondo, principe di Polonia, e di Rosaura, una donna travestita da uomo che cerca il suo seduttore, Astolfo, per vendicare l’onore perduto. Sigismondo vive chiuso in una torre, perché alla sua nascita gli oroscopi hanno predetto al padre che egli sarebbe diventato un feroce tiranno. Condotto, addormentato, a corte, il giovane si rivela un selvaggio, per cui, mentre dorme, viene nuovamente segregato. Al risveglio, l’esperienza vissuta gli appare collocata all’incerto confine che separa la realtà dal sogno. Quando, però, una rivolta gli consegna il trono, il principe rinuncia ai propositi di vendetta e si riconcilia col padre, per inaugurare un regno saggio e giusto. Per suo ordine, Rosaura – che, sola, ha suscitato in Sigismondo sentimenti di dolcezza – sposerà il proprio seduttore, Astolfo, anziché lavare l’onta del suo disonore: in entrambi i casi l’impulso alla vendetta lascia dunque il posto alla crescita spirituale. Il tema che però più affascina Calderón è il contrasto fra apparenza e realtà, fra vita e sogno, fra finzione teatrale e vita quotidiana: un tema tipico del teatro barocco che sarà ripreso, nel XX secolo, anche da Luigi Pirandello.

STORIA DI UN MITO: DON GIOVANNI

Dell’eroe letterario Don Juan Tenorio conosciamo con precisione la data di nascita, il 1630, anno nel quale è rappresentato per la prima volta il dramma di Tirso de Molina intitolato El burlador de Sevilla y Convidado de piedra. Il personaggio di Tirso è un cinico seduttore, ma soprattutto è animato da una gioiosa passione per l’inganno: travestimenti, sostituzioni di persone, menzogne e finzioni caratterizzano i suoi comportamenti. Giovanni Macchia sintetizza il personaggio in questa frase: c’è come una pura voluttà della maschera, con l’annullare se stesso, il proprio io sociale, il proprio nome, nell’eterna anonima vicenda amorosa del mondo. In questo senso l’eroe di Tirso è un tipico personaggio barocco, affascinato dal gioco infinito delle finzioni e delle mascherature. Con Molière, Don Giovanni acquista, per così dire, una più lucida coscienza di sé, legata ad una esplicita empietà. Nel Dom Juan ou le festin de pierre (“Don Giovanni o il convitato di pietra”, 1665) il protagonista assume i tratti del calcolatore machiavellico, maestro di persuasione e scetticismo, un eretico, uno che non crede né al cielo né all’Inferno, come dice il suo servo Sganarello. Nella sua concezione materialistica dell’amore e nel suo irriverente ateismo (celebre è la scena nella quale Don Giovanni tenta con il denaro di far bestemmiare un mendicante) è possibile riconoscere alcuni tratti del pensiero libertino francese del tempo. Anche il Settecento è assai ricco di Don Giovanni, ma è Lorenzo Da Ponte (1749-1838) a dare al personaggio nuova vita, complice la musica di Wolfgang Amadeus Mozart. L’opera del 1787, capolavoro del melodramma classico, presenta un personaggio nel quale convivono dialetticamente il comico e il tragico, il riso e l’inquietudine, la giocondità e la paura; affascinante, immorale, crudele e spavaldo, il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte non risulta mai odioso, ma assume una sua grandezza, per quanto fosca e terribile. Il personaggio mozartiano ha un successo enorme e sollecita interrogativi e riflessioni profonde, come testimoniano non solo l’interpretazione filosofica di Sören Kierkegaard, ma tutta una serie di riletture (George Byron, Alfred de Musset, Aleksandr Puškin, Théophile Gautier, Charles Baudeleire, Prosper Mérimée, Alexandre Dumas padre) che arricchiscono la figura di Don Giovanni di altri aspetti e sviluppi narrativi. Nel Novecento quello di Don Giovanni è ormai un mito letterario consolidato; come tale viene ripreso e ulteriormente variato, ma anche criticato, demistificato e talora deliberatamente rovesciato: così, in Uomo e Superuomo (1901-1903) di George Bernard Shaw, non più seduttore ma sedotto; oppure angosciato reduce della Prima guerra mondiale in Don Giovanni ritorna dalla guerra di Ödön von Horváth (1936); nel Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati (1941) è un pigro quarantenne siciliano; in Don Giovanni o l’amore per la geometria di Max Frisch (1953) è un freddo studioso di geometria.

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SECOLO DEL TEATRO

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T1 Vivere è sognare da La vita è sogno, II, 19

Pedro Calderón de la Barca

Il principe Sigismondo, dopo la breve esperienza a corte, viene riportato in stato di incoscienza nel carcere in cui lo ha rinchiuso il padre, il re Basilio di Polonia, per sottrarlo ad una profezia infausta. Al risveglio crede che l’avventura a corte sia stata un sogno, che racconta a Clotaldo, il vecchio consigliere del padre, che funge da precettore ma anche da carceriere. Nel monologo Sigismondo medita da solo. PISTE DI LETTURA • Le riflessioni sulla consistenza della realtà • La vita come apparenza • Il tipico tema barocco del mondo come teatro

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SIGISMONDO È vero, sì, reprimiamo questa fiera condizione, quest’ira, questa ambizione, perché poi, forse, sogniamo; ed ormai so che esistiamo in un mondo singolare dove vivere è sognare, e l’esperienza mi insegna che l’uomo che vive sogna fino a farsi ridestare1. Sogna il re il suo trono, e vive nell’inganno, comandando, disponendo e governando, e l’applauso che riceve in prestito, al vento scrive, e in cenere lo converte la morte – sventura forte! Chi ancora vorrà regnare, dovendosi ridestare nel sogno della morte? Sogna il ricco la ricchezza, che continui affanni gli offre; sogna il povero, che soffre la miseria e la tristezza; sogna chi agli agi s’avvezza, sogna chi nell’ansia attende, sogna chi ferisce e offende, e nel mondo, in conclusione, sogna ognuno la passione ch’egli vive, e non lo intende. Io sogno la prigionia che mi tiene qui legato, e sognai che un altro stato mi rendeva l’allegria. Che è la vita? Frenesia. Che è la vita? Un’illusione, solo un’ombra, una finzione, e il maggior bene, un bisogno del nulla, la vita è un sogno, e i sogni sogni sono. da La vita è sogno, a cura di L. Orioli, Adelphi, Milano, 1993

1. vivere è sognare... ridestare: se la vita è un sogno, il risveglio corrisponde alla morte.

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inee di analisi testuale Realtà e apparenza Sigismondo è appena stato invitato da Clotaldo a tenere un comportamento virtuoso anche in sogno: infatti durante il soggiorno alla reggia – che Sigismondo considera un sogno – ha attaccato Clotaldo, accusandolo di tradimento nei suoi confronti. Da questo spunto muove il protagonista per motivare la necessità di reprimere ogni impulso violento. Ma le sue considerazioni portano a conseguenze estreme, fino a privare di consistenza reale qualunque esperienza umana. Il potere, la ricchezza, ma anche la povertà e la sofferenza, in una parola tutto il mondo percepito, non sono che gioco di apparenze, una specie di spettacolo teatrale che mostra la vanità di ogni cosa ad eccezione della morte. La vanità del reale non esime dalla fedeltà ai valori Come ha notato il filosofo tedesco Walter Benjamin (ne Le origini del dramma barocco tedesco), il teatro di Calderón è il luogo in cui vengono meno tutte le certezze dell’uomo. Come suggerisce la conclusione del dramma, questa coscienza della vanità del reale – che riecheggia l’idea seicentesca secondo cui le cose del mondo sono creazioni oniriche e fantasmi – non scardina però i valori tradizionali, anzi li conferma, pur considerandoli aleatori: infatti, dopo che è stato messo sul trono da una sommossa popolare, il principe Sigismondo, invece di piegare al proprio potere il padre, si sottomette a lui e ne riceve il riconoscimento e, fedele al principio post-tridentino della non liceità della ribellione, imprigiona nella torre colui che ha guidato la rivolta.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il monologo in non più di 10 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 4 righe per ogni risposta). a. A chi si rivolge Sigismondo? b. Che cosa sono per lui il potere e la ricchezza? Perché? c. Che cos’è il risveglio, se la vita è sogno? Approfondimenti 3. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: L’inconsistenza del reale e i suoi effetti.

IL Il classicismo della tragedia in Francia

TEATRO IN

FRANCIA

In Francia, nel corso del Seicento, la tragedia greca è il solo modello riconosciuto: le opere teatrali sono totalmente fedeli alle regole aristoteliche di tempo, luogo e azione. Il canone classicista seicentesco, definito da Nicolas Boileau (1636-1711) nell’Art poétique (“Arte poetica”, 1674), si basa su criteri di purezza, chiarezza e nitidezza. Tali fondamenti dello stile sono individuati dall’Académie Française, fondata nel 1635 e ispirata al progetto politico del cardinale Richelieu (1585-1642), primo ministro di re Luigi XIII e, per i primi anni del regno, di Luigi XIV (il Re Sole): poeti, artisti, intellettuali sono chiamati a contribuire al rafforzamento della monarchia assoluta, e devono indirizzare a questo fine i temi trattati e il linguaggio. I tragediografi più importanti del secolo sono Corneille e Racine.

Pierre Corneille

Corneille e le regole aristoteliche

Pierre Corneille, innovativo interprete di tale concezione del teatro, nasce a Rouen nel 1606. Educato dai Gesuiti, studia legge all’università di Caen. Fino al 1650 è funzionario regio nella magistratura della città natale. I suoi lavori teatrali sono apprezzati dal cardinale Richelieu, che, dal 1635, diventa suo mecenate. La prima opera di grande successo è la tragedia Il Cid (1636-37), ritenuto il suo capolavoro, dramma apprezzato dal pubblico e sottoposto invece alle critiche degli eruditi. Corneille è, infatti, favorevole al superamento delle regole aristoteli-

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La trama della tragedia Il Cid

che, in quanto è autore dotato di profonda e originale creatività, che malvolentieri accetta di essere imbrigliata. Le polemiche sul Cid sono di tale risonanza che anche Alessandro Manzoni ricorderà nella Lettera a M. Chauvet (1820), con toni indignati, la campagna di linciaggio morale ordita contro il tragediografo. Negli anni successivi al 1637, Corneille continua a scrivere per il teatro, alternando la stesura di alcune commedie alle tragedie, tra cui i capolavori Orazio (1640) e Poliuto (1641-1642). Nel 1647 diventa membro dell’Académie Française: in questa fase, nelle sue opere si manifestano i segni di una evidente decadenza. Nel 1662, anno del trasferimento a Parigi, Corneille sceglie definitivamente il silenzio, in concomitanza con il declinare del gradimento del pubblico. Muore a Parigi nel 1684. Esempio tipico del teatro di Corneille e suo capolavoro, la tragedia Il Cid, in cinque atti, è rappresentata nel 1636 con enorme successo. Rodrigo Diaz de Vivar, detto Cid campeador (“il Signore guerriero”), uccide in duello, per una questione d’onore legata a un affronto subito da suo padre, il genitore della sua promessa sposa Chimena. Costei, pertanto, rifiuta le nozze e promette di sposare chi ucciderà Rodrigo. Quando però crede, sbagliandosi, che il Cid sia stato ucciso, si abbandona alla disperazione, rivelando così il proprio amore. Il re, grato all’eroe per le sue epiche imprese guerriere, decreta allora il ricongiungimento dei due promessi sposi, imponendo loro tuttavia di attendere un anno prima delle nozze. La vicenda, ambientata alla corte di Castiglia nella fase delle prime grandi vittorie militari spagnole contro gli Arabi (XI-XII secolo), utilizza una serie di fonti tra le quali spiccano testi epici della tradizione iberica riguardanti il Cid Campeador, l’eroe della lotta contro il dominio arabo e della Reconquista cristiana della penisola iberica; rispetto alle fonti, però, Corneille opera un significativo ribaltamento di prospettiva, scegliendo di assegnare un ruolo centrale non alla vicenda epica, bensì a quella amorosa, che risulta invece, nei testi da cui egli attinge, soltanto uno tra i filoni narrativi marginali. La storia d’amore di Rodrigo e Chimena offre al drammaturgo la possibilità di riflettere sulla questione dei rapporti tra amore e dovere, tra sentimenti e ragione. Tali conflitti interiori non coinvolgono soltanto i personaggi, ma si inseriscono in un contesto sociale nel quale alla fine è il sovrano a dirimere i contrasti, incarnando un modello di monarchia assoluta paterna e attenta alle esigenze dei suoi migliori sudditi.

Jean Racine Il Giansenismo di Racine

Fedra, il capolavoro

La prevalenza dei drammi interiori

Jean Racine (1639-1699) appartiene a una generazione successiva rispetto a Corneille. Rimasto orfano, viene educato nell’istituto religioso di Port Royal, dove raggiunge una profonda religiosità, fondata però su una visione pessimistica dell’uomo, ispirata alla corrente religiosa del Giansenismo, che si ricollega al pensiero del teologo olandese Cornelio Giansènio (1585-1638), secondo il quale i discendenti di Adamo ed Eva sono radicalmente e drammaticamente fragili di fronte alla tentazione del peccato. Entrato a far parte dell’ambiente mondano di Parigi e raggiunto il successo teatrale (1664-1677), l’autore rinnega gli antichi valori e si abbandona a turbolente passioni sentimentali. Nel 1677 si sposa e rinuncia quasi del tutto all’attività di tragediografo, per dedicarsi a quella di storico di corte, alternandola con la composizione di opere sacre. Negli ultimi anni ritrova il fervore religioso della prima giovinezza, scrivendo la storia di Port Royal. Fedra (1677), opera risalente all’anno del matrimonio, è il capolavoro di Racine. La tragedia rielabora in forma originale la vicenda mitologica di Fedra, moglie di Teseo, che si innamora del figliastro Ippolito e, travolta dalla sua irresistibile passione, si uccide, mentre lo stesso Ippolito muore tragicamente. Nella versione di Racine, Fedra diventa un personaggio tormentato e drammaticamente problematico, simbolo della miseria e della fragilità umana. Lo scrittore stesso ha definito il proprio teatro, nella prefazione a Berenice (1670), un’azione semplice, sostenuta dalle passioni, dalla bellezza dei sentimenti e dall’eleganza dell’espressione. Dietro l’apparente compostezza classicista delle tragedie di Racine, infatti, turbinano i moti della passione: non è il Fato a schiacciare i personaggi, ma una incoercibile tendenza distruttiva e autodistrutti-

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va che nasce dalle profondità dell’anima. Tale caratteristica del teatro di Racine produce numerosi monologhi che mirano a esprimere lo sviluppo del dramma interiore e rallentano l’azione scenica, facendone un autore teatrale inquieto e inquietante, più psicologo e filosofo che narratore incalzante di eventi.

Le commedie di Molière

Molière: i difficili esordi

L’approdo a corte e il primo capolavoro

Le commedie d’occasione e quelle di costume

Trama e importanza de Il malato immaginario

Molière, il cui vero nome è Jean-Baptiste Poquelin (1622-1673), è il principale autore teatrale francese e uno fra i maggiori commediografi di ogni tempo. Figlio di un tappezziere del re, compie studi umanistici al Collegio gesuita di Clermont e segue poi corsi di diritto, scoprendo però che il mestiere di avvocato non gli è congeniale. Al nonno paterno deve le sue prime esperienze di spettatore e l’incoraggiamento a dedicarsi al teatro. Nel 1643 rinuncia al ruolo di fornitore del re e anche al proprio nome, per assumere quello di Molière, e fonda, con un gruppo di attori, la Compagnia dell’Illustre-Théâtre, che debutta a Parigi nel 1644. L’insuccesso e le difficoltà economiche convincono la compagnia a lasciare la capitale e, per tredici anni, Molière si assoggetta alle dure esperienze dei girovaghi di provincia, occupandosi del repertorio della compagnia, fondato su stesure ed elaborazioni di canovacci, nello stile della commedia dell’arte italiana. L’Illustre-Théâtre si conquista così una certa notorietà, che nel 1653 gli frutta la protezione e il sostegno economico del principe di Conti. Al 1655 risale la prima commedia “regolare” di Molière, Lo sventato, in cinque atti e in versi, cui seguirà, l’anno seguente, Il dispetto amoroso. Verso il 1657, dopo una recita alla presenza della corte (in cui rappresenta Nicomede di Corneille e l’applaudita farsa Il dottore innamorato), la compagnia si installa nella sala del Petit-Bourbon (1658), dividendola con gli attori della Comédie italienne, e prendendo il nome di Compagnia di Monsieur, cioè “Compagnia del Signore” (il nome si riferisce al duca di Orléans, fratello del re). La fortuna parigina di Molière deriva dallo straordinario successo del suo primo capolavoro, Le preziose ridicole (1659). Ribadita la propria qualità di attore e di autore comico con lo Sganarello o il cornuto immaginario (1660), Molière vuole tentare anche la tragedia, nel 1661, con il Don Garcia di Navarra, ma la noia con cui è accolta dal pubblico e le ironie dei rivali lo inducono a tornare sulla strada della commedia, con La scuola dei mariti (1661), in cui fonde insieme farsa e satira di costume. Da quel momento l’attività di Molière si svolge su due linee ben definite: da un lato le commedie d’occasione, spesso semplici pretesti per azioni danzate, che gli vengono commissionate dalla corte di Luigi XIV; dall’altro lato le grandi commedie di carattere e di costume, in cui il suo genio di drammaturgo trova la più autentica espressione, portando in scena i vizi e le virtù dei protagonisti e dei loro ambienti sociali. Alla prima serie appartengono diverse opere, dal Matrimonio per forza (1664) all’Anfitrione (1668), dal Borghese gentiluomo (1670, unico capolavoro di questo filone) a Psiche (1671, scritta con Corneille). Del secondo gruppo fanno parte La scuola delle mogli (1662), Tartufo (1664), Il misantropo (1666), George Dandin (1668), L’avaro (1668), Le donne sapienti (1672) e Il malato immaginario (1673). Completano la lista delle trentatré opere teatrali di Molière alcune commedie legate alla tecnica della farsa all’italiana e, inoltre, la straordinaria versione del mito di Don Giovanni (Dom Juan ou le festin de pierre, 1665). Lo scrittore muore nel 1673, dopo la quarta rappresentazione de Il malato immaginario, suo capolavoro assoluto. Il malato immaginario (1673) è una commedia-balletto in tre atti sul tema dell’incompetenza e avidità dei medici. Argan è un malato immaginario che si nutre di medicine e vive spiando i sintomi di possibili malattie. Della situazione approfitta la seconda moglie, Beline, che asseconda la mania del coniuge allo scopo di farsi nominare unica erede; alle spalle di Argan vivono anche i dottori Purgon e Diafoirus e il farmacista Fleurant. Il malato decide di far sposare la figlia Angélique con Diafoirus, per poter sempre avere un medico a portata di mano. La cameriera Toinette e il fratello di Argan, Beraldo, convincono però il protagonista

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La grandezza di Molière

Lieto fine, conflitti, efficacia dei ritratti

a fingersi morto: ciò che accade gli rivela l’ipocrisia e l’avidità della moglie Beline e la bontà della figlia. Commosso, Argan acconsente allora al matrimonio fra Angélique e il suo innamorato, Cleante. La forza della commedia sta nel fatto che in essa vivono, perfettamente amalgamati, lo spirito burlesco della commedia dell’arte, la lezione dei classici, la capacità di studiare caratteri individuali e difetti di gruppi sociali, la maestria nel guidare lo svolgimento della trama e l’arte di sfruttare i colpi di scena. Le ragioni della grandezza di Molière risiedono essenzialmente nella sua capacità di riassumere l’esperienza del teatro comico italiano, e in particolare della commedia dell’arte, utilizzandone quanto vi è di meglio, per fondare la moderna commedia di carattere e di costume. Lo straordinario genio comico e satirico di Molière lo porta spesso in conflitto con il conformismo imperante e al centro di accese polemiche, all’interno delle quali saprà sempre muoversi con estrema abilità, sfruttando il favore del re da un lato e l’appoggio del grande pubblico dall’altro. Le sue commedie aderiscono alla convenzione del lieto fine: ciò nonostante, profonde sono le rappresentazioni dei caratteri e il realismo dei conflitti drammatici, spesso attenti ai problemi più vivi del tempo, e anche rivolti a scandagliare i rapporti tra marito e moglie o i problemi dell’educazione delle giovani generazioni. Le opere di Molière si pongono ai vertici della letteratura teatrale di ogni tempo per la straordinaria efficacia dei ritratti individuali inseriti nel loro contesto sociale e per l’abilità dell’autore nel gestire l’intreccio in modo avvincente.

T2 Il litigio tra Valerio e Marianna da Tartufo, II, 4

Molière

Fin dalla sua prima uscita, nel 1664, Tartufo scandalizza gli ambienti benpensanti del clero francese e della buona società. Nonostante la protezione del re Sole, del principe di Condé e del cardinale Chigi, le rappresentazioni della commedia vengono interrotte a più riprese. Tartufo è un miserabile che, ostentando una devozione puramente esteriore, entra nelle grazie dell’ingenuo Orgone, nella cui dimora è accolto con affetto e fiducia, al punto da divenire ben presto il vero padrone di casa. Orgone vorrebbe dargli in moglie la figlia e non si accorge della vera natura di Tartufo neppure quando questi cerca di sedurre sua moglie Elmira. Infine, Orgone scopre l’ipocrisia del suo protetto, che, già da tempo ricercato dalla giustizia, viene incarcerato. Nella scena presentata Marianna, la figlia di Orgone, sebbene già promessa sposa di Valerio, è stata concessa a Tartufo dal padre. Valerio si reca dalla ragazza per avere chiarimenti. PISTE DI LETTURA • Marianna: un personaggio succube delle convenzioni sociali • Un dialogo che fa emergere carattere e sentimenti • Tono patetico e umoristico a sfondo didascalico

Scena quarta Valerio, Marianna, Dorina VALERIO 5

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Mi hanno riferito, signorina, una notizia che non mi sarei mai immaginata, e che è senza dubbio bellissima. E quale? Che voi sposate Tartufo. È vero che mio padre si è messo in capo quest’idea. Ma vostro padre, signorina... Già, ha proprio cambiato opinione: mi ha fatto lui stesso or ora la proposta.

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Come! Dite sul serio? Seriissimo. Egli vuole assolutamente che si faccia questo matrimonio. E che cosa pensate di fare, voi, signorina? Io non so1. Come risposta non c’è male: non lo sapete!? No. No? E voi che cosa mi consigliate? Io vi consiglierei, io, di accettare questo sposo2. Voi me lo consigliate? Sì. Davvero? Senza dubbio. La scelta è ottima e val la spesa3 di accettarla. Ebbene, signore, io seguirò il vostro consiglio. Sembra che lo seguirete senza fatica, a quanto vedo. Con la stessa facilità4 con la quale voi me l’avete dato. Io ve l’ho dato soltanto per farvi piacere. Ed io lo seguirò, soltanto per farvi piacere. (ritirandosi in fondo alla scena). Voglio vedere come va a finire. È così, dunque, che si ama? Era allora soltanto un inganno, quando voi... Lasciamo andare, lasciamo andare, ve ne supplico! voi mi avete detto chiaro e tondo ch’io devo accettare lo sposo che mio padre mi consiglia. Ed io dichiaro che lo farò, poiché voi stesso mi consigliate di fare così. Non state a scusarvi con le mie parole! Voi avevate già presa la vostra decisione ed ora pretendereste valervi di questo sciocco pretesto per autorizzarvi a venir meno alla vostra parola5. Giustissimo. È proprio così. Senza dubbio. E il vostro cuore non ha mai sentito per me un amore profondo e sincero. Ah...? Se volete credere così, fate pure. Sì, certo, che lo credo! Ma la mia anima esacerbata6 saprà forse prevenirvi7 in un simile tradimento; e so ben io a chi rivolgerò i miei desideri ed il mio cuore. Oh! Non ne dubito. E l’ammirazione che suscitano le vostre belle qualità... Mio Dio! Lasciamo andare le mie qualità. Io ne ho certo ben poche, e voi me ne date la prova8. Ma spero che qualcun’altra saprà essere più buona con me, e ne conosco una che consentirà senza dubbio ad accogliermi e consolarmi di quel che ho perduto. La perdita non è tanto grande: e in questo cambiamento troverete da consolarvi facilmente. Farò tutto il possibile, credetelo! Un simile tradimento risveglia tutto il mio orgoglio. Mi metterò d’impegno per dimenticarlo; e quand’anche non ci riuscissi, saprò bene fingerlo almeno. Sarebbe una viltà9 imperdonabile mostrarsi ancora innamorati di chi ci abbandona! Questi sentimenti, senza dubbio, vi fanno molto onore. Benissimo: e son sicuro che saranno approvati da tutti. Come! come? Pretendereste forse che io conservassi eternamente nel mio cuore tutti gli

1. Io non so: Marianna non sa, non deve sapere. La sua posizione di figlia e di donna, secondo la concezione del tempo, implica la completa accettazione del volere del padre, che detiene il diritto di combinarne le nozze a proprio piacimento. 2. Io… questo sposo: Valerio, alle parole remissive e al tono apparentemente sereno di Marianna, oppone un evidente sarcasmo. I due giovani si trincerano dietro atteggiamenti artefatti per nascondere la pena che stanno vivendo. 3. val la spesa: vale la pena. 4. Con la stessa facilità: Marianna rimprovera Valerio, suggerendogli, fra le righe, un comportamento più deciso

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e ribelle rispetto alla scelta di Orgone: un rifiuto che lei, in quanto figlia, non può opporre. 5. Non state… parola: il rimpallo di responsabilità fra i due giovani sembra motivato dalla volontà di trovare un pretestuoso motivo di litigio, al fine di accelerare la rottura e rendere meno penosa la separazione. 6. esacerbata: straziata. 7. prevenirvi: evitarvi. 8. me ne date la prova: me lo dimostrate, manifestando poco dolore per la mia perdita. 9. viltà: debolezza.

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MARIANNA VALERIO MARIANNA 65 VALERIO MARIANNA VALERIO MARIANNA VALERIO MARIANNA VALERIO MARIANNA 75 VALERIO MARIANNA VALERIO MARIANNA VALERIO 80 MARIANNA VALERIO MARIANNA DORINA 70

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ardori di questa passione, e che vi vedessi, sotto i miei occhi, gettarvi in braccio ad un altro, senza rivolgere altrove questo amore che voi avete disprezzato? Tutt’altro: ve lo auguro anzi di gran cuore; e vorrei già che la cosa fosse bell’e fatta. Lo vorreste? Sì. Basta, basta, è troppo, signorina; sarete contentata sull’istante. (Fa un passo per andarsene10). Benissimo. (tornando indietro). Ricordatevi almeno, ricordatevi bene che siete voi che costringete il mio cuore a questa estrema risoluzione. Sì. (tornando ancora indietro). E che questo progetto è soltanto per imitarvi. Per imitarmi, sia pure. (ritornando ancora). E va bene: sarete servita a puntino! Tanto meglio. (ritornando ancora). Voi lo vedete bene, è per la vita! Alla buonora! (se ne va, ma quando arriva alla porta, si volta indietro). Eh? Come? Non mi avete chiamato? Io? Voi sognate. Va bene. E allora me ne vado. Addio. (Se ne va lentamente). Addio. (a Marianna). Ma io credo proprio che voi siate ammattiti tutti e due! Vi ho lasciati litigare fin che avete voluto, per vedere fino a che punto sareste arrivati. Olà! Signor Valerio. (Prende Valerio per un braccio). (fingendo di resistere). Eh? Cosa vuoi Dorina? Venite un po’ qua. No, no, sono troppo infuriato. Lasciate ch’io faccia quello che essa desidera. Fermatevi. No, no, è deciso. Ma insomma! (a parte). La mia presenza è per lui un tormento, è chiarissimo, se ne vuole andare perché ci son io. Sarà meglio che lo lasci qui solo. (lasciando Valerio e inseguendo Marianna). A quest’altra! E voi dove andate? Lasciami. No, tornate indietro. No, no, Dorina: è tutto inutile. (a parte). Vedo bene che la mia vista è un supplizio per lei. Sarà meglio ch’io la liberi dalla mia odiosa presenza. (lasciando Marianna e inseguendo Valerio). Ancora? Che il diavolo vi porti! Insomma, ve lo ordino io! Finitela con queste chiacchiere e venite un po’ qui tutti e due. (Prende Valerio e Marianna per mano e li riporta in mezzo alla scena). (a Dorina). Ma qual è il tuo scopo? Che cosa pretendi? Oh bella! Rimettervi d’accordo, e togliervi dai pasticci! (A Valerio). Non siete mica matto, da litigare a questo modo? Ma non hai sentito come mi ha parlato? (a Marianna). E voi, siete matta, ad arrabbiarvi così?

10. Fa… andarsene: Valerio accenna ad andarsene più volte, in una sorta di buffo balletto. In realtà desidererebbe essere trattenuto da Marianna. Il sentimento dei due giova-

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ni è dunque contrastato: da una parte sentono il desiderio di separarsi per non soffrire, dall’altro quello di trovare un appiglio per risolvere la situazione e riconciliarsi.

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MARIANNA Ma vedi bene, come mi tratta, lui! (a Valerio). Mi sembrate stupidi tutti e due. Ma se lei non ha altro in cuore DORINA che di sposarvi ad ogni costo, ve lo giuro! (A Marianna). Ma se egli ama voi sola e non ha altro desiderio che di diventar vostro marito, ve lo garantisco sulla mia vita!11 MARIANNA (a Valerio). E perché allora venirmi a dare un simile consiglio? (a Marianna). E perché venirmi a chieder consiglio su una simile cosa? VALERIO Perché siete matti tutti e due. Qua la mano, su! (A Valerio). Su, qua la DORINA mano. (porgendo la mano a Dorina). E a che scopo? VALERIO (a Marianna). Orsù, datemi la vostra. DORINA MARIANNA (porgendo la mano anche lei). E perché tutta questa storia? Oh, Santo Dio! Su, venite un po’ qua. Ma se siete innamorati cotti e non lo DORINA sapete nemmeno. (Valerio e Marianna si tengono per mano qualche momento senza guardarsi). (voltandosi verso Marianna). Sì, ma non voglio che lo facciate così per VALERIO forza: non vi sentireste di guardarmi senza tanta ira? (Marianna si volta verso Valerio e gli sorride). A dir la verità gli innamorati sono proprio dei bei tipi! DORINA (a Marianna). Ma non ho forse ragione di lamentarmi di voi? Diciamo un VALERIO po’ la verità, non siete proprio cattiva? divertirvi a venirmi a raccontare tutti questi orrori... MARIANNA Ma voi, non siete l’uomo più ingrato12 del mondo? Sentite, rimandiamo a un altro momento la questione; per adesso pensiaDORINA mo a salvarci da questo stupido progetto. MARIANNA Dicci dunque che cosa dovremmo fare. Useremo tutti i mezzi. (A Marianna). Vostro padre vuol scherzare. (A VaDORINA lerio). E son tutte storie. (A Marianna). Ma, per adesso sarà meglio che voi facciate mostra di cedere alla sua stravaganza; e che fingiate di obbedirgli e sottomettervi: così, in ogni caso, vi riuscirà più facile tirare alla lunga questo matrimonio. E guadagnando tempo si trova sempre rimedio a tutto. Comincerete a scusarvi fingendo d’ammalarvi improvvisamente e d’aver bisogno di qualche ritardo; e poi direte che avete avuto dei cattivi presagi13: che avete incontrato un funerale, rotto uno specchio, o sognato dell’acqua torbida14. E infine, su questo siamo sicuri, non vi potranno mai dare a nessun altro che a Valerio, se voi non direte di sì. Ma per riuscirci meglio, credo sia bene che non vi si trovi qui tutti e due. (A Valerio). Uscite; e senza ritardo mettete in moto tutti i vostri amici per esigere che si mantenga la promessa: noi chiameremo in aiuto il fratello e ci guadagneremo l’appoggio della matrigna. Addio. (a Marianna). Per quanti sforzi noi possiamo fare, la mia più grande speVALERIO ranza, ve lo confesso, è tutta in voi. MARIANNA (a Valerio). Io non sono responsabile di quello che pensa mio padre, ma vi giuro che non sarò mai d’altri che vostra15. Ah, voi mi fate felice! E qualsiasi cosa vogliano tentare... VALERIO Uff! Gli innamorati non la finirebbero mai. Andatevene, vi dico. DORINA VALERIO (fa un passo e poi ritorna). Infine... Ma non la finirete più? Su, via presto per di là, e voi, via per di qua. (Li DORINA spinge tutti e due per le spalle e li obbliga a separarsi). da Il Tartufo. Il malato immaginario, a cura di M. Bonfantini, Mondadori, Milano, 1956

11. Mi sembrate… sulla mia vita!: l’intervento di Dorina vanifica la tensione fra i due giovani e ne riafferma il reciproco amore, meditando un piano per evitare le nozze di Marianna con Tartufo. 12. ingrato: in quanto incapace di leggere nelle parole di Marianna il grande amore che prova per lui. 13. presagi: segni del cielo, annunci di eventi futuri.

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14. funerale… acqua torbida: la superstizione di Orgone dovrà interpretare queste immagini come l’avversione del cielo alle nozze di Marianna e Tartufo. 15. Io… mai d’altri che vostra: con queste parole Marianna si libera dai lacci delle convenzioni, che fino a poco prima ha accettato passivamente, e rifiuta il volere iniquo del padre.

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inee di analisi testuale Il movimento Il brano illustra l’aspetto scenico più evidente del teatro di Molière: il movimento, esaltato dal sapiente uso del dialogo. Attraverso la rapida sequenza delle battute tra Valerio e Marianna, l’autore comunica il violento turbinio di sentimenti dei personaggi. Sapiente è anche l’indagine psicologica con cui Molière evidenzia gli atteggiamenti insinceri che i due ragazzi assumono di fronte alla drammatica situazione. Nel corso della discussione, dal simulato distacco emergono, di tanto in tanto, parole di accusa e provocazioni, che celano invece una disperata richiesta di aiuto, preparando la strada alla conclusiva dichiarazione di amore reciproco. La vivacità delle battute contribuisce al dinamismo complessivo della vicenda. Un umorismo moderno L’incalzante successione di risposte risentite e di teatrali dichiarazioni d’addio dei due ragazzi è patetica, così come è patetico, e un po’ grottesco, il movimento di Valerio, che continuamente finge di andarsene, come se volesse suscitare un ripensamento nell’amata, per riavvicinarsi subito dopo, di fronte al silenzio di lei. Questa sorta di “balletto” ravviva la scena e le conferisce una forte valenza umoristica, marcatamente moderna. La figura del servo scaltro L’intervento di Dorina è volto a evitare le nozze fra Tartufo e Marianna: ella istiga i due a fingere di obbedire alla volontà di Orgone, spinge la giovane a simulare una malattia per rinviare il matrimonio, addirittura la invita a inventarsi dei cattivi presagi. In tale macchinazione rivive la figura classica del servo scaltro e sfacciato delle commedie di Plauto. Emblematico è infine il fatto che la trama progettata dalla governante rimanga incompiuta: il mancato sviluppo del piano di Dorina esprime probabilmente la condanna, a sfondo didascalico, di Molière nei confronti della menzogna e della falsità, anche se a fin di bene.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto della scena proposta. 2. Qual è il ruolo di Dorina, inseritasi nella schermaglia tra Marianna e Valerio? Analisi e interpretazione 3. A quale genere letterario appartiene il testo di Molière e quali elementi lo evidenziano? 4. Nel testo si trovano frasi in corsivo e tra parentesi, dette didascalie. Trascrivi le più rilevanti e indica la funzione di ognuna di esse ai fini della rappresentazione teatrale. Approfondimenti 5. Il tema del matrimonio negato è presente in numerose opere letterarie. Facendo riferimento ad altri testi (o film) a te noti, confrontane le vicende con quella di Valerio e Marianna, mettendo in luce gli obiettivi degli autori nel trattare un simile tema. 6. Ti sembra che oggi, nella società europea, si possa ancora parlare di matrimoni contrastati? Per quali motivi? Come è cambiato il ruolo del matrimonio nella nostra società e perché? Scrivi una breve relazione basata sulle tue conoscenze e opinioni sul tema.

Charles-Antoine Coypel, Ritratto di Molière. Museo di Versailles.

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GENERI TEATRALI IN ITALIA E I PRINCIPALI AUTORI

Nell’Italia del Seicento, i generi della tragedia e della commedia non producono molti capolavori, ma tragedie “regolari” (rigidamente legate, cioè, al modello classico) e commedie piuttosto ripetitive. Le vere e proprie innovazioni in campo teatrale in Italia si introducono soprattutto nel genere del melodramma (in cui la musica conta quanto, se non più, della parola) e nella commedia dell’arte, in cui sono determinanti le doti d’improvvisazione degli attori.

La tragedia L’importanza del modello Della Valle e La reina di Scozia

Carlo de’ Dottori e l’Aristodemo

La tragedia italiana è comunque importante perché ha fornito un modello per i grandi tragediografi europei. I due autori che più meritano di essere ricordati sono Federigo Della Valle e Carlo de’ Dottori. L’astigiano Federigo Della Valle (1560 ca. – 1628) vive alla corte di Torino come amministratore fino al 1597, quando si trasferisce a Milano, al seguito degli Spagnoli, e vi rimane fino alla morte. La sua opera più significativa è La reina di Scozia (1591), dedicata a Maria Stuart, la sovrana cattolica decapitata nel 1587, dopo venti anni di prigionia, per ordine dell’anglicana Elisabetta d’Inghilterra. Temi principali sono la commozione per gli ultimi giorni di una condannata a morte e la polemica contro la malvagità imperante nelle corti, a causa delle ferree leggi della ragion di Stato. Altri temi sono la miseria della condizione umana e l’impenetrabilità di Dio che, come il Fato delle tragedie classiche, determina il destino degli uomini e i mutamenti della loro sorte, secondo disegni spesso inspiegabili. Le tragedie dello scrittore possono dunque definirsi ispirate a una sorta di pessimismo cristiano, che non s’inseriscono pienamente negli schemi post-tridentini e, a causa della profonda inquietudine religiosa che lasciano trasparire, non saranno mai rappresentate durante l’esistenza dell’autore. La vita del poligrafo e tragediografo padovano Carlo de’ Dottori (1618-1686) è nota grazie alla sua autobiografia (1696) in cui dipinge una gioventù violenta, terminata con il matrimonio (1644) e la scelta della professione letteraria. Avverso ai marinisti, a Padova fonda la libera accademia Fraglia dei Padrani e scrive componimenti in versi, che però rimarranno in gran parte inediti. Nel 1654 compone il suo capolavoro, la tragedia Aristodemo, pubblicata nel 1657, che tratta di un episodio della guerra fra Sparta e Messene, narrato da Pausania, ma si rifà anche all’Ifigenia in Aulide del tragediografo greco Euripide. Per conquistare il trono della Messenia, Aristodemo deve sacrificare la figlia Merope, ma la madre Amfia e il promesso sposo Policare affermano che è in attesa di un figlio. Accecato e infuriato per il disonore, Aristodemo uccide la figlia e ne fruga le viscere, ma scopre la sua innocenza, e per il rimorso si toglie la vita. La tragedia è apprezzabile per la rappresentazione del contrasto psicologico fra i personaggi che agiscono spinti da motivazioni politiche e quelli mossi dagli affetti. La tematica ripropone il drammatico contra-

Henri Serrur, Ritratto di Maria Stuarda. Museo di Versailles.

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sto fra dovere politico e affetti familiari, espresso nell’età classica in modo esemplare nell’Antigone del greco Sofocle (496-406 a.C.) e che si ritrova – trattato però a un livello molto superiore a quello di de’ Dottori – anche nelle opere di Shakespeare. Nel 1662 de’ Dottori compone il dramma per musica Ippolita, che apparirà postumo, e più tardi altri due drammi, Bianca de’ Rossi e Zenobia di Radamisto. Dopo le esperienze giovanili, lo scrittore desidera inserirsi a corte per trovarvi protettori e soggiorna a Mantova, a Roma e a Vienna, ospite dell’imperatore Leopoldo, ma finisce ogni volta per tornare a Padova. Gli ultimi anni della sua esistenza, funestata da sventure come la morte del figlio e il sopravvenire di tormentose malattie, sono caratterizzati da un ripiegamento intimistico e da una costante riflessione morale, di cui sono testimonianza l’autobiografia intitolata Confessioni.

La commedia

Buonarroti il Giovane e La Fiera

Le commedie di Maggi e il Meneghino

Condizionata dal clima controriformista – che si oppone alla rappresentazione di opere ritenute moralmente inaccettabili – la commedia italiana nel Seicento sopravvive in forme non eccelse, anche se alcuni autori sono senza dubbio degni di menzione. Il fiorentino Michelangelo Buonarroti, detto il Giovane (1568-1646), omonimo e nipote del grande artista, scrive numerose favole per musica, da rappresentare soprattutto come intermezzi in occasione di feste (da Un Natale d’Ercole del 1605 a Una favola di Siringa del 1634). Accademico della Crusca, nutre grande interesse per la tradizione linguistica e popolare toscana. Notevoli la commedia d’ambiente rustico La Tancia, rappresentata a corte nel 1612, e soprattutto La Fiera, messa in scena nel 1618, entrambe interessanti per l’uso di un vivace lessico toscano. La Fiera spicca anche per l’originalità della struttura: è infatti suddivisa in cinque “giornate”, ciascuna divisa in cinque atti. In migliaia di versi, dialogano fra loro decine e decine di uomini, donne e personaggi allegorici, ciascuno dei quali personifica un’arte o un mestiere. L’originale commedia è quindi una importante testimonianza della vita nel Seicento a Firenze. Il tema principale riguarda i molteplici aspetti positivi e negativi della vita economica, la quale viene però infine riscattata dalla Poesia, bugia che si fa verità poiché eleva moralmente gli uomini, a differenza dell’inganno dettato dallo scellerato interesse. Per esercitare la propria funzione, però, la Poesia deve essere guidata da princìpi etici: Tu se’ la poesia, / la poesia, che dello stato mio / talor l’esilio avesti, / colpa di quei poeti, / che correndo il Parnaso senza freno / ti desian briaca ed impudica. Nell’ambito della commedia dialettale, spicca il milanese Carlo Maria Maggi (1630-1699). Ingegno precoce, scolaro dei Gesuiti, dottore in lettere a soli diciannove anni, dopo un inquieto vagabondaggio in Europa, lo scrittore torna a Milano e nel 1662 diventa segretario del Senato, poi professore di Eloquenza latina e greca alle Scuole Palatine, infine sovrintendente all’Università di Pavia e alle Palatine stesse. Le cronache del Seicento ne lodano unanimemente la figura di gentiluomo, nell’ambito privato come in quello pubblico. Fra i primi aderenti all’Accademia dell’Arcadia, è autore di un’ampia produzione di versi italiani eleganti, aperti a un razionalismo di stampo già settecentesco. Opere principali di Maggi sono le commedie, nelle quali per la prima volta appare il personaggio di Meneghino – diminutivo dialettale di Domenico – che si trasformerà in maschera della commedia dell’arte, ed è l’incarnazione del popolano milanese ricco di arguzia e buon senso. La commedia più tipica è forse I consigli di Meneghino (1697), in tre atti e due prologhi. Meneghino, servo del protagonista, vi rappresenta il personaggio del popolano che commenta saggiamente e argutamente la vicenda: il vecchio Anselmo vuole far sposare il figlio Fabio a donna Alba, ma il giovane, nonostante i consigli del suo servo Meneghino, vuole intraprendere la carriera delle armi. Quando il fratello di donna Alba, offeso per il diniego al matrimonio, sfida Fabio a duello, il giovane, disgustato dal mondo, decide di farsi frate.

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Focus

DALLA COMMEDIA DELL’ARTE ALLA RIFORMA GOLDONIANA

Il termine commedia dell’arte è settecentesco: lo si trova documentato per la prima volta in un testo goldoniano del 1750, Il teatro comico, a indicare la commedia realizzata da gente del mestiere (tale è il significato antico della parola arte). La commedia dell’arte nasce però nel secondo Cinquecento, ed è inizialmente denominata commedia all’improvviso (commedia improvvisata): la data di fondazione della prima compagnia comica (un gruppo di professionisti veneti) viene fatta coincidere con il 1545. Spesso sono intere famiglie di teatranti che si dedicano al genere. Gli attori, itineranti o protetti da una corte, devono anzitutto creare uno spettacolo: poca importanza ha perciò il testo, determinante è invece la bravura degli interpreti. Le opere sono collettive e al loro centro sta la creazione di personaggi tipici, caratterizzati sul piano linguistico, sociale e psicologico: ad esempio, il Capitano, che rappresenta il prepotente gradasso, o il Dottore, che incarna la cultura presuntuosa, vuota e ingannatrice. La trama scritta si riduce a un semplice canovaccio (ossia, uno schema essenziale), che stabilisce entrate e uscite in scena dei personaggi e descrive grosso modo ciò che essi devono fare: il resto è lasciato all’improvvisazione degli attori, che si incentra su gesta acrobatiche, battute, scherzi verbali, spesso ripresi da un consolidato repertorio, frequentemente ispirato a giochi di parole di gusto barocco. Agli inizi del XVII secolo, gli attori tendono a fare di se stessi una maschera: così Carlo Cantù diventa Buffetto, Angelo Costantini è Mezzettino, Francesco Andreini è il Capitan Spaventa. La commedia dell’arte si colloca fra la cultura letteraria e le realistiche tradizioni teatrali popolari: in essa, con grande originalità, viene superata la separazione fra teatro scritto e teatro recitato. Infatti dalla commedia letteraria il nuovo teatro deriva temi e intrecci; spesso mette in scena un amore contrastato che si conclude col matrimonio; soprattutto ricava i ruoli tipici (gli innamorati, il vecchio avaro, il soldato sbruffone, il pedante, il servo astuto, il servo sciocco) che si cristallizzano in maschere, seguendo esempi già attuati nell’età rinascimentale (in particolare nelle commedie dialettali del Ruzante). Così, il servo astuto veste i panni del facchino bergamasco detto Zanni (Giovanni o Gianni, nei dialetti settentrionali), da cui derivano Arlecchino e il Bagatto; il vecchio burbero o assurdamente innamorato è Pantalone de’ Bisognosi, il “Dottore” bolognese è Graziano o Balanzone e così via. Ognuno di tali personaggi si esprime in un proprio linguaggio, dal bergamasco di Zanni al misto fra bolognese e latino di Balanzone. Celebre è il personaggio di Pulcinella, che appare nel teatro napoletano attorno al XVII secolo – con una maschera nera dal naso grosso e adunco e un abbondante vestito bianco – e il cui nome deriva probabilmente dalla forma dialettale partenopea polecino (“pulcino”), con cui venivano indicati i giullari che simulavano una voce chioccia. L’uso delle maschere nere indossate sul volto proviene dalla tradizione carnascialesca (ha forse lontane origini rituali, in quanto le maschere erano indossate, fin dall’antichità, per propiziare i defunti): lo stesso nome Arlecchino deriva da Herlequins o Hellequins, diavoli-buffoni del teatro medievale francese, da cui l’Alichino dantesco (Inferno, XXI). Esistono libri che raccolgono i canovacci della commedia dell’arte. La prima raccolta è edita nel 1611 ed è il Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala. Amplissima è la varietà dei generi raccolti: dal novellistico, imperniato sulla burla, al fiabesco di gusto barocco, dal comico-patetico all’amoroso. Fra i testi più rilevanti che vi sono racchiusi spiccano i canovacci di Francesco Andreini (1548 ca. – 1624): egli, infatti, possiede la consapevolezza che l’attore può incarnare in sé tutto il teatro, come autore, comico, capocomico (una sorta di regista) e scenografo. Fra gli altri canovacci che ci sono giunti, particolarmente interessanti sono quelli che recuperano il mito di Don Giovanni, già protagonista del capolavoro dello spagnolo Tirso de Molina. In tali testi, nei ruoli di servo, si incontrano sia Arlecchino sia Pulcinella. Un’altra novità della commedia dell’arte è la presenza di attrici (nel Rinascimento gli attori maschi impersonavano anche personaggi femminili), come la veneta Isabella Andreini o la romana Elena Balletti, detta Flaminia, nelle parti delle innamorate, delle serve o anche, travestite, in ruoli maschili. Le grandi compagnie teatrali iniziano a sorgere già alla fine del Cinquecento; sono protette dai principi e avversate dalla Chiesa, che le considera veicolo di immoralità, soprattutto per la presenza in scena delle donne. Il successo delle più affermate compagnie è tuttavia enorme e, dall’Italia, si estende a tutta l’Europa e soprattutto a Parigi. Il nome più importante è senz’altro quello dell’attore napoletano Tiberio Fiorilli detto Scaramuccia (1608-1694) che, a Parigi, interpreta le maschere del capitano Matamoros e di Pulcinella, riscuotendo straordinario successo. Entrata in crisi per la sua ripetitività, la commedia dell’arte tramonterà nel Settecento con la riforma teatrale di Carlo Goldoni (per cui cfr. pag. 274 e segg.), che ristabilirà il primato dell’autore e del testo scritto, eliminando gradualmente le maschere, sostituite da personaggi realistici.

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T3 La guerra di Meneghino da I consigli di Meneghino, I, 2

Carlo Maria Maggi

Meneghino, servo fedele e saggio consigliere del giovane Fabio, fa qui la sua comparsa in scena: in dialetto milanese e col buon senso che lo caratterizza, gli spiega l’insensatezza del suo progetto. Andare in guerra conviene a chi non ha altre fonti di guadagno o ai nobili, che devono combattere per dovere sociale; Fabio è ricco e figlio unico: deve solo preoccuparsi che la sua famiglia non si estingua. Schema metrico: endecasillabi e settenari liberamente alternati, sciolti o variamente rimati. PISTE DI LETTURA • La discussione sul tema della guerra • Una lezione didascalica esposta senza pedanteria • Il tono enfatico in italiano si contrappone al tono del buon senso in dialetto

Fabio e Meneghino FABIO 5

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Alla guerra, alla guerra! Voglio gustar anch’io la libertà di Marte1, veder popoli armati in ordinanza2, strugger3 paesi e desolar4 muraglie, depredar, far assedj e dar battaglie. Veder vuò anch’io ciò che vuol far fortuna del mio genio guerriero; non fa mai gran salita5 chi nell’ozio civil6 s’appiatta e serra. Alla guerra, alla guerra!

MENEGHINO Stà fort Sgiorsc7. Spart in mezz, c’al gh’è parolla. FABIO 15

MENEGHINO Comè? el vost Meneghin fà sbergna al patronscin? Maei no ’l farò. A i ho digg inscì par rid on pó. FABIO

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Come? Tu mi schernisci?

v. 13 Adagio, Biagio! Taglia in mezzo il tuo discorso perché c’è qualcosa da aggiungere in merito. vv. 15-17 Il vostro Meneghino prendere in giro il suo padroncino? Non lo farò mai. Ho detto così per ridere un po’.

Non ho donque ragion? Se vuol mio padre ch’io gl’illustri la casa8, or non dovria farmi una compagnia9? Che vuol fare alla fin de’ suoi contanti se non mette in camin lo spirto mio, sicché possa ancor io portarmi avanti?

1. Marte: il dio romano della guerra. 2. in ordinanza: schierati in battaglia. 3. strugger: distruggere. 4. desolar: abbattere. 5. fa… salita: sale in alto, ottiene onore e gloria. 6. ozio civil: nella tranquillità della vita civile, vivendo da privato cittadino.

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7. Stà fort Sgiorsc: “sta’ calmo, Giorgio”; modo analogo al nostro “adagio Biagio!”, dove il nome proprio è aggiunto per semplice amore di assonanza. 8. gl’illustri la casa: faccia onore al suo casato, lo renda glorioso. 9. compagnia: militare, di armati.

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MENEGHINO Sior Fabij chaer, sì pur che v’ho vist in fassoeura, e che son quel che ’v compagnaeva a scoeura. Son vegg de cà, ve port on’ affrizion che no ’s pò dì de pù, v’amij pesg10 che se fussev mè fioeù, e son quel che ve daeva el bon coccoeù. FABIO

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Ti ringrazio. Ancor11 io ti voglio bene.

MENEGHINO Demm donca a trà, che ve dirò d’i coss che vi faran servizij. son staè alla guerra an mì e so comè la va. Ve cuntarò tutta l’istoria de sta vitta braeva dalla raeva alla faeva. E no guardè che sia on taè badin che no sa lesg né scrivv; se ben no g’ho scricciura né latin in la cà della tegna12, chi paerla par amor, l’amor gh’insegna. In prumma, tràe i sparposet de quij che se conossen d’indarè13, l’è quel d’andà alla guerra e avegh danè. FABIO

vv. 24-30 Signor Fabio caro, sapete che vi ho visto in fasce, e io sono quello che vi accompagnava a scuola. Sono vecchio di casa, e vi sono così affezionato che di più non si può dire: vi amo più che se foste mio figlio, e io sono quello che vi dava il buon ovetto.

vv. 32-45 Datemi retta, che vi dirò delle cose che vi saranno utili. Anch’io sono stato alla guerra e so come vanno queste cose. Vi racconterò tutta la storia di questa vita difficile, dall’inizio alla fine. E non fate caso al fatto che io sia un ignorante che non sa leggere né scrivere: anche se non ho in zucca né scrittura né latino, chi parla per amore, amor gli insegna. Per prima cosa, tra gli spropositi che si conoscono col senno di poi c’è quello di andare alla guerra quando si hanno i soldi.

Guerreggiano pur tanti altri signori.

MENEGHINO I maggiorengh de cà ghe van per comandà o quij ch’inscì comporta i soeù interess o i soeù necessitàe: l’è on olter cunt. Ma on paer vost, fioeù sol con tanta robba, fass soldàe par avegh d’i post avolt, l’è on buttass in d’on pozz par fà on bell solt. El fà ’l soldaè, no negh ch’el sia mesté onoraet; l’è on grolios impiegh, ma domà par dù staet. Par i sbris, che no g’han nessuna sort de viament né d’art de guadagnass el pan per oltra part: costor l’è mei che vaeghen a buscass la vitta e resegà de fà passaeda o la mort onoraeda; l’è mei par lor che andà marabiand, con priguer, ben sovenz, d’ess inzighaè da i malconsei della necessitaè. Par quest quella sentenza avarì intes, La guerra l’è la purga del paes. L’olter staet par la guerra l’è quel d’i gentiromen. Quist chì sì c’han par obligazion el defend in campagna, com’ se dè, co’l valor del sò sangu, la patria e’l re.

10. pesg: “peggio” in luogo di “più”. 11. Ancor: anche. 12. la cà della tegna: perifrasi popolare per indicare la te-

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vv. 47-73 I maggiorenti di casa ci vanno per comandare o ci vanno quelli che sono spinti dai loro interessi o dalla necessità; è un altro discorso. Ma uno come voi, figlio unico con molti beni, farsi soldato per avere dei posti alti, è come buttarsi nel pozzo per fare un bel salto. Fare il soldato, non dico che non sia un mestiere onorato; è un impiego glorioso, ma solo per due condizioni, per due tipi di persone. Per i poveracci che non hanno né arte né parte per guadagnarsi il pane; questi è meglio che vadano a buscarsi la vita e a rischiare di far carriera o di morire con onore; è meglio per loro che vivere di stenti col pericolo di essere istigati dai cattivi consigli della necessità. Per questo avrete sentito il detto: La guerra è la purga del paese. Gli altri che possono andare in guerra sono i gentiluomini. Questi sì che hanno l’obbligo di difendere, come si deve, col valore del loro sangue, la patria e il re.

sta; la tigna è infatti una malattia che colpisce per lo più il cuoio capelluto. 13. d’indarè: arcaico per “da ultimo”.

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Chi no sa fà lusì la nobeltaè sott al stendart riael, no vaer on bobbel, ché la fortezza l’è vertù d’i nobel. Me regord che diseva mè messé che in del sò temp i gentiromen grand heven vergogna a mettes in guarnascia, né stimaeven impiegh par nobeltaè el zappà carimaè14. Mì no digh tant. So che par gent de spiret l’è dal paer bonna straeda e la penna e la spaeda. Ma no tugg hin nassù con la malmoria da tegnì a ment i lesg comè l’A, B15, né tanto guzza da scannà palpé. I gentiromen che non han par letter genij né abiritaè, coss’han da fà? Gironzà su e sgiò par i contraè, stravacchaè in d’on caless, incoeù zaccà ona rissa, doman mandà ona sfida16, marmorà, sbarloggià: basta, la lassij lì. Traè tugg i pest che hin dagn del publech, del privaè fan el bovesg, la nobeltaè oziosa l’è la pesg. Ora, vegnend a cà17, vù no sì né d’i prum né d’i segond; d’i dané ghe n’hì a sbacch, nobel no sì; sì fioeù sol, se ’v chaed ona desgrazia la vosta cà l’è andaè. Ve pò vegnì in del stomegh on bel micchin de ferr che maei pù no ve lassa degerì; pò suzzed che ve tocca on borlin fogorent, che della vosta carna, innanz al termen, faega ona rostiscianna18 par i vermen.

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FABIO

vv. 74-110 Chi non sa far risplendere la nobiltà sotto lo stendardo del re, non vale un soldo, perché la forza è la virtù dei nobili. Mi ricordo che mio nonno mi diceva che ai suoi tempi i grandi gentiluomini avevano vergogna di mettersi la guarnacca (una specie di toga), e non consideravano impiego adatto per la nobiltà quello di scrivere. Non dico tanto: so che per gente di spirito vanno bene sia la penna che la spada, ma non tutti hanno la memoria per ricordarsi le leggi come l’abicì, o sono così acuti da interpretare documenti. I gentiluomini che non hanno né inclinazione né capacità per gli studi, che cosa devono fare? Gironzolare su e giù per le vie, stravaccati sul calesse: oggi attaccare una rissa e domani lanciare una sfida, mormorare, sbirciare: basta, non dico di più. Tra tutte le pesti che sono danno del pubblico e fanno scempio del privato, la nobiltà oziosa è la peggiore. Ora, tornando al nostro discorso, voi non appartenete né ai primi né ai secondi; avete un mucchio di soldi, non siete nobile, siete il solo figlio maschio, se vi capita una disgrazia, il vostro casato è finito. Vi può arrivare nello stomaco un bel panino di ferro che non vi farà più digerire; può succedere che vi tocchi una palla infuocata che, prima del tempo, della vostra carne faccia una braciola per i vermi.

Si muore in ogni etade, in ogni stato, anco il codardo pere19, e al fin muore ciascun nel suo mestiere. da I consigli di Meneghino, a cura di D. Isella, Einaudi, Torino, 1965

14. zappà carimaè: “zappare calamai”; espressione burlesca che equivale a “lavorare di penna”. 15. A, B: da leggere abè, secondo l’alfabeto milanese (in rima con palpè) e come una sola parola. 16. doman mandà ona sfida: si noti come l’autore, con poche parole, metta in ridicolo e condanni le assurde sfide

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per fatui puntigli che Manzoni renderà celebri nel suo capolavoro. 17. vegnend a cà: ritornando al discorso precedente. 18. rostiscianna: espressione gergale che significa “macello”, “strage”. 19. anco… pere: muore anche.

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inee di analisi testuale Rifiuto della retorica e saggezza morale Nella visione di Meneghino, all’insegna del buon senso spicciolo, il rifiuto della retorica della guerra è unito alla saggezza morale. Essa non ha nulla di eroico: non procura onore e gloria, come crede Fabio, ma un “panino di ferro” nello stomaco; è un’insensata violenza, una vita breve che può ridurre a una bistecca per i vermi. La guerra è un dovere per la nobiltà oziosa e priva di valori – la visione di Maggi sarà anche quella di Parini – per difendere la proprietà della terra. Per distogliere Fabio, Meneghino non si appella a ragioni di astratto pacifismo, ma a motivazioni di ordine sociale ed economico: non ha senso andare in guerra per chi è ricco, come lui, ma solo per chi non ha altro modo di guadagnarsi da vivere se non fare il soldato. Il dialetto, lingua del buonsenso Il protagonista del dialogo è Meneghino, cui l’autore affida il compito di esporre senza pedanteria temi didascalici. Gli interventi di Fabio sono brevi e finalizzati a dare la battuta al servo, i cui eloqui invece sono sempre articolati e argomentati. L’opposizione fra i due è sottolineata dalla diversità delle rispettive lingue, l’italiano e il dialetto, qui specchio dell’antitesi tra superficialità e saggezza. Come osserva Dante Isella, il milanese di Meneghino rappresenta la voce del buonsenso e della profonda moralità dell’autore, contro la vuota enfasi dell’italiano di Fabio. Nelle parole di Meneghino, è frequente il ricorso ai proverbi e alle espressioni gergali. Tale scelta espressiva vuole sottolineare la saggezza dei semplici di cui Meneghino (anticipando i popolani del poeta dialettale Carlo Porta) si fa interprete.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto della scena in non più di 20 righe. 2. Quali sono i personaggi che compaiono nella scena e quali caratteri presentano? 3. Riassumi il contenuto delle battute di Meneghino, spiegandone il significato. Analisi e interpretazione 4. Analizza il testo dal punto di vista stilistico, evidenziando i caratteri salienti del linguaggio di Meneghino in opposizione a quello di Fabio. 5. Spiega il significato dei detti popolari usati da Meneghino nelle sue battute. 6. Qual è il messaggio sotteso al testo di Maggi? Approfondimenti 7. La figura del saggio servitore compare anche in altre opere letterarie. Facendo riferimento a quelle a te note, opera un confronto fra i loro protagonisti e la figura di Meneghino, così come è delineata da Maggi, e cerca di rilevarne l’originalità. 8. Sulla base delle tue informazioni sul ruolo di Maggi nella cultura milanese del Seicento, stendi una relazione in forma di articolo di giornale destinato alla pagina culturale di un periodico di biblioteca o a un giornale di istituto (max due colonne di metà foglio protocollo). 9. Il personaggio di Meneghino è diventato così famoso che il suo nome è ancora oggi utilizzato – come nome o aggettivo – nel linguaggio comune. Con quale significato e, a tuo avviso, perché?

Il melodramma Le origini del melodramma

Il mitico Orfeo

Il teatro per musica o melodramma (dal greco mélos, “canto musicato” e dráma, “azione teatrale”) si sviluppa in Italia dopo l’esperienza fiorentina della Camerata de’ Bardi – che, alla fine del Cinquecento, introduce la recita teatrale cantata – e conosce nel Seicento il periodo di più intenso splendore. Alle origini, i testi sono qualcosa di diverso da quello che diventerà il libretto d’opera subordinato alla musica. La formula del recitar cantando o, meglio, dell’imitar col canto chi parla (secondo la definizione utilizzata da Jacopo Peri nella prefazione del 1601 all’Euridice), che sta alle origini del melodramma italiano, presuppone un ruolo di pari dignità a poesia e musica. Non a caso il mitico poeta e cantore Orfeo è il simbolo del melodramma. Egli, scendendo nell’Ade per riavere l’amata Euridice, incarna la stretta simbiosi

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fra le due arti. Orfeo (sulla traccia dell’omonimo dramma pastorale di Angelo Poliziano) è protagonista dei più significativi melodrammi: l’Euridice del fiorentino Ottavio Rinuccini, musicata da Jacopo Peri e da Giulio Caccini e l’Orfeo del mantovano Alessandro Striggio, musicato dal compositore cremonese Claudio Monteverdi. Ottavio Rinuccini (1562-1621) è il primo e più importante autore di testi per Ottavio Rinuccini melodramma. Nato a Firenze da antica e nobile famiglia, in gioventù frequenta il sodalizio che si riunisce presso la casa del mecenate e uomo di cultura Giovanni de’ Bardi, conte di Vernio: ne fanno parte anche Giulio Caccini, Jacopo Peri, Vincenzo Galilei (padre di Galileo) e altri intellettuali e artisti, interessati a studiare e sperimentare il rapporto fra poesia e musica, con lo scopo di far rivivere il canto monodico in funzione drammatica. Divenuto familiare alla corte dei Medici, Rinuccini inizia a comporre madrigali da recitare cantando come intermezzi. Nel 1597 viene rappresentato il suo primo melodramma, Dafne, musicata da Jacopo Peri e Iacopo Corsi; il libretto è poi rimusicato da Caccini e da Marco da Gagliano e, in questa ultima versione, l’opera è rappresentata a Mantova nel 1608. A Palazzo Pitti a Firenze, nel 1600, in occasione delle nozze di Maria de’ Medici, viene messa in scena l’Euridice, musicata da Peri; l’anno successivo il testo viene musicato anche da Caccini. Per accostare maggiormente il genere alla tragicommedia pastorale dalla quale deriva, Rinuccini volge a lieto fine la vicenda. Nel 1608 a Mantova, in occasione del matrimonio di Francesco Gonzaga e Margherita di Savoia, va in scena, con testi di Rinuccini, l’Arianna, musicata da Monteverdi e, per i recitativi, da Peri: l’opera rappresenta un capolavoro del neonato melodramma. Negli ultimi anni di vita, Rinuccini, che in precedenza conduceva un’esistenza trasgressiva, si converte a una profonda fede e si dedica alla scrittura di rime spirituali. Il suo ultimo libretto, Narciso, che rappresenta un ritorno al dramma pastorale, è rifiutato da Monteverdi; le Poesie dello scrittore saranno stampate postume a Firenze nel 1622. La collaborazione Il mantovano Alessandro Striggio (1573 ca. – 1630), figlio dell’omonimo madrifra Striggio galista, deve il suo successo al fatto che il melodramma, battuto a Firenze dalla e Monteverdi concorrenza di altri generi teatrali accompagnati da musica, come i cosiddetti intermezzi, rifiorisce a Mantova, dove il duca Vincenzo I Gonzaga, che ha sposato Eleonora de’ Medici, dimostra vivo interesse per le esperienze culturali fiorentine. Grazie al mecenatismo dei Gonzaga a corte nel 1607 è poi rappresentato uno dei capolavori del musicista cremonese Claudio Monteverdi (1567-1643): Orfeo, con testo di Striggio. Quando, nel 1613, Monteverdi lascia Mantova per trasferirsi a Venezia, dove assume l’incarico di maestro di cappella di san Marco, il primato nella produzione del melodramma si trasferisce nella città lagunare, grazie anche all’apertura di teatri con spettatori paganti. A Venezia, Monteverdi inaugura il filone dell’opera buffa, opera lirica di argomento comico fondata su personaggi e vicende quotidiane, musicando La finta pazza Licori (1627) del poeta veneziano Giulio Strozzi (1583-1660). Il compositore cremonese si cimenta anche nel genere del melodramma storico I capolavori del compositore con L’incoronazione di Poppea (1642), su libretto di Gian Francesco Busenello (1598cremonese 1659), membro dell’Accademia veneziana degli Incogniti, nonché autore di satire. Monteverdi va inoltre ricordato per i Madrigali a più voci, pubblicati in otto libri: celebri i Madrigali guerrieri e amorosi, per voci e strumenti vari, apparsi a Venezia nel 1638. I testi di alcuni fra i più importanti poeti lirici della tradizione italiana (in particolare, Francesco Petrarca) e dei secoli XVI e XVII (in primo luogo, Torquato Tasso) vengono proposti da Monteverdi in forma cantata a più voci, realizzando mirabili risultati mediante l’incontro fra poesia e musica. In tali opere, Monteverdi considera la musica serva delle parole, subordinandola al tono emotivo dei temi espressi nei versi; lo dimostra in modo esemplare la celebre versione musicale del sonetto CCCX del Canzoniere di Francesco Petrarca (Zefiro torna e ’il bel tempo rimena). Il melodramma (che sarà detto anche opera in musica od opera lirica), conosce nel nostro Paese un vasto successo di pubblico ed è pronto ad affermarsi in tutta Europa.

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MELODRAMMA

COMMEDIA DELL’ARTE

COMMEDIA

TRAGEDIA

• Federico Della Valle, le cui opere si distinguono per un senso cupo e angosciato della vita. • Carlo de’ Dottori.

• Legata alla concezione aristotelica del teatro e al classicismo cinquecentesco.

• I contenuti riguardano la storia antica e il mito, ma anche la storia e la politica contemporanee.

• La struttura è caratterizzata dall’alternanza di recitativi e arie.

• Vuole fondere musica e poesia, ma nel Seicento il libretto diviene funzionale alla musica.

• I personaggi sono cristallizzati in maschere fisse.

• Determinante è la bravura degli attori, che improvvisano sulla base di un canovaccio.

• Dafne, Euridice, Arianna. • Orfeo.

• Flaminio Scala, Francesco e Isabella Andreini.

• Nasce nel secondo Cinquecento.

• Ottavio Rinuccini e Alessandro Striggio (testi di melodramma). • Claudio Monteverdi (musiche di melodramma).

• I consigli di Meneghino.

• Carlo Maria Maggi, le cui opere più significative sono le commedie dialettali.

• Censura della Chiesa verso i contenuti profani.

• Disaffezione del pubblico per testi lontani dalla vita reale del tempo.

• La Fiera, di intento moraleggiante, che tratteggia un animato quadro di vita cittadina.

• Aristodemo, in cui prevale l’opposizione tra senso del dovere e affetti personali.

• La Reina di Scozia.

OPERE PRINCIPALI

• Michelangelo Buonarroti il Giovane.

• Spesso ha una finalità etica e un intento moralistico.

AUTORI

CARATTERI

IL TEATRO ITALIANO NEL XVII SECOLO

Concetti chiave IL TEATRO SPAGNOLO Il teatro è importante – oltre che nell’Inghilterra di Shakespeare – in tutta l’Europa seicentesca. Il Seicento letterario spagnolo, in particolare, è detto siglo de oro (“secolo d’oro”) per l’abbondanza dei capolavori, in cui il teatro occupa un posto di primo piano. II principale drammaturgo spagnolo è Lope Félix de Vega Carpio, nato a Madrid nel 1562. L’autore conduce un’esistenza disordinata e nel 1588 partecipa alla disastrosa spedizione di Filippo II contro Elisabetta d’Inghilterra; diventa prima segretario e consigliere, poi sacerdote, morendo infine povero a Madrid nel 1635. Tra le sue commedie si ricordano Fuente Ovejuna (16121614), Il miglior giudice è il re (1620-1623), Il cavaliere di Olmedo (1620-1625) e il dramma sacro L’adultera perdonata. Le sue innovazioni sono le opere in tre atti e i contenuti d’intreccio e d’azione, nonché la libertà d’invenzione, che guarda alle fonti classiche e alle tradizioni popolari. Tirso de Molina, il cui vero nome è Gabriel Téllez, nasce a Madrid nel 1584, e presto abbraccia la carriera ecclesiastica. Nonostante la fama raggiunta, subisce il divieto di scrivere per il teatro da parte di un tribunale ecclesiastico; muore nel convento di Soria nel 1648. Il suo capolavoro è L’ingannatore di Siviglia, rappresentato la prima volta nel 1630 a Napoli. Il personaggio di Don Giovanni, cinico seduttore trascinato all’inferno dalla statua del gentiluomo che ha assassinato, da lui invitata a cena, sarà destinato a diventare celebre nella storia della letteratura. Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), dopo una gioventù turbolenta, a trent’anni diventa drammaturgo di corte sotto Filippo IV. Suo capolavoro è La vita è sogno (1635), commedia che intreccia la storia di Sigismondo, principe di Polonia, e di Rosaura, una donna travestita da uomo che cerca il suo seduttore, Astolfo, per vendicare l’onore perduto. Il tema che più affascina l’autore è il contrasto fra apparenza e realtà, fra vita e sogno, fra finzione teatrale e vita quotidiana, tipico del teatro barocco.

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IL TEATRO IN FRANCIA Sono due gli autori più importanti di tragedie francesi. Pierre Corneille nasce a Rouen nel 1606, studia legge e diventa magistrato regio; il cardinale Richelieu dal 1635 diventa suo mecenate. Il suo capolavoro è la tragedia Il Cid (1636-1637),in cui supera le tradizionali regole aristoteliche e, rispetto alle fonti, opera un significativo ribaltamento di prospettiva, scegliendo di assegnare un ruolo centrale non alla vicenda epica bensì a quella psicologica e amorosa. Corneille muore a Parigi nel 1684. Jean Racine (1639-1699) viene educato a Port Royal, dove subisce l’influsso del Giansenismo, secondo cui l’uomo è drammaticamente fragile a causa del peccato originale. Il suo capolavoro è Fedra (1677), in cui l’autore rielabora la vicenda mitologica della moglie di Teseo innamoratasi del figliastro Ippolito, presentandola come tragico simbolo della miseria e della fragilità umana. Molière, il cui vero nome è Jean-Baptiste Poquelin (1622-1673), è uno fra i maggiori commediografi di ogni tempo. Figlio di un tappezziere del re, studia legge ma il nonno paterno l’incoraggia a dedicarsi al teatro. Nel 1643 fonda la Compagnia dell’IllustreThéâtre, con cui per tredici anni percorre la provincia di Parigi, recitando e scrivendo canovacci nello stile della commedia dell’arte italiana. Verso il 1657, la compagnia si installa a corte sotto la protezione del duca di Orléans, fratello del re. Le sue opere più celebri sono il Borghese gentiluomo (1670), La scuola delle mogli (1662), Tartufo (1664), Il misantropo (1666), L’avaro (1668) e Il malato immaginario (1673). Molière muore nel 1673. Il suo capolavoro è Il malato immaginario (1673), commedia-balletto in tre atti sul tema dell’incompetenza e avidità dei medici. La grandezza di Molière risiede nella sua capacità di sintetizzare l’esperienza del teatro comico italiano, e in particolare della commedia dell’arte, utilizzandone quanto vi è di meglio, per fondare la moderna commedia di carattere e di costume.

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IL TEATRO IN ITALIA La tragedia italiana ha il solo rilevante merito di fornire un modello ai grandi tragediografi europei. L’astigiano Federigo Della Valle (1560 ca. – 1628) vive alla corte di Torino come amministratore fino al 1597 quando si trasferisce a Milano, al seguito degli Spagnoli, e vi rimane fino alla morte. La sua opera più significativa è La reina di Scozia (1591). Le sue tragedie si ispirano a un pessimismo cristiano, che non è gradito nel clima della Controriforma. Il padovano Carlo de’ Dottori (1618-1686) dopo una gioventù violenta, entra nella vita letteraria avversando i marinisti, e fondando la libera accademia Fraglia dei Padrani. Il suo capolavoro è la tragedia Aristodemo (1657), che tratta di un episodio della guerra fra Sparta e Messene narrato da Pausania, ma si ispira all’Ifigenia in Aulide di Euripide e l’Antigone di Sofocle, opera in cui si rappresenta il contrasto psicologico fra i personaggi che agiscono spinti da motivazioni politiche e quelli mossi dagli affetti familiari. La commedia in Italia è condizionata dal clima della Controriforma. Il fiorentino Michelangelo Buonarroti, detto il Giovane (1568-1646), omonimo e nipote del grande artista, accademico della Crusca, nutre grande interesse per la tradizione linguistica e popolare toscana. Il suo capolavoro è La Fiera (1618), che spicca per l’originalità della struttura in cui dialogano decine e decine di personaggi, ciascuno dei quali personifica un’arte o un mestiere a Firenze. Il milanese Carlo Maria Maggi (1630-1699), dopo un inquieto vagabondaggio in Europa, torna a Milano, diventa professore e aderisce all’Accademia dell’Arcadia.

Nelle sue commedie appare il personaggio di Meneghino, l’incarnazione del popolano milanese ricco di arguzia e buon senso. LA NASCITA DEL MELODRAMMA IN ITALIA Principale innovazione italiana del Seicento in ambito teatrale, insieme alla commedia dell’arte, è il teatro per musica o melodramma (dal greco mélos, “canto musicato”, e dráma, “azione teatrale”) che si sviluppa nella penisola per poi diffondersi in tutta Europa. La formula recitar cantando di Jacopo Peri ne sintetizza le caratteristiche. Il mitico poeta e cantore Orfeo è il simbolo del melodramma: scendendo nell’Ade per riavere l’amata Euridice, incarna l’unione fra le due arti. Orfeo è anche protagonista di melodrammi: l’Euridice del fiorentino Ottavio Rinuccini (1562-1621), musicata da Jacopo Peri e da Giulio Caccini, l’Orfeo del mantovano Alessandro Striggio (1573-1630), musicato dal compositore cremonese Claudio Monteverdi (15671643), che è un capolavoro del genere.

I personaggi del Don Giovanni di Molière. Stampa dell’epoca.

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CAP. 7 - IL

SECOLO DEL TEATRO

195

E

sercizi di sintesi

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Fra le innovazioni teatrali di Lope de Vega figura a. l’imitazione dei classici. b. lo scopo educativo dei drammi. c. l’abolizione delle opere in tre atti. d. la grande libertà di invenzione. 2. Don Giovanni è il protagonista di un’opera teatrale di a. Jean Racine. b. Pedro Calderón de la Barca. c. Tirso de Molina. d. Molière. 3. La vita è sogno di Calderón de la Barca verte a. sui drammi interiori dei potenti. b. sul contrasto fra apparenza e realtà. c. su tematiche religiose controriformiste. d. sulla figura di un cinico seduttore. 4. Il Cid è il capolavoro teatrale di a. Racine. b. Tirso de Molina. c. Corneille. d. Lope de Vega. 5. La vicenda rappresentata nella Fedra di Racine a. evidenzia l’importanza dell’amore. b. mette in luce l’estrema fragilità umana. c. esalta la forza dell’animo femminile. d. tocca i più tipici temi barocchi. 6. Fra i testi di Molière ci sono anche a. tragedie che hanno un grande successo. b. commedie di carattere e di costume. c.melodrammi. d. sacre rappresentazioni. 7. In genere, la tragedia italiana nel Seicento a. si sgancia dal principio di imitazione e dalla regola aristotelica delle tre unità. b. serve da modello ai tragediografi europei. c. si libera in maniera definitiva dal principio di imitazione. d. attraversa una profonda crisi e non è più composta né messa in scena. 8. Nelle tragedie italiane del Seicento predominano le tematiche a. mitologiche. b. fantastiche. c. politiche. d. religiose e morali. 9. Per le loro caratteristiche, le tragedie di Della Valle a. causano all’autore un processo da cui viene però assolto. b. sono pervase da un profondo ottimismo cristiano.

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c. ottengono grande successo di pubblico e di critica. d. non sono mai rappresentate durante le vita dell’autore. 10. La reina di Scozia di Della Valle tratta a. della regina Maria Stuarda. b. della regina Elisabetta I. c. della figlia di Maria Stuarda. d. della figlia di Elisabetta I. 11. L’Aristodemo di Carlo de’ Dottori è a. una commedia ricca di colpi di scena. b. una tragedia ricca di colpi di scena. c. una commedia che tratta il conflitto fra doveri politici e affetti. d. una tragedia che tratta il conflitto fra doveri politici e affetti. 12. La Fiera di Buonarroti il Giovane è a. una commedia ambientata a Firenze. b. una commedia erroneamente attribuita a Buonarroti. c. una farsa di irresistibile comicità. d. un capolavoro del genere del melodramma. 13. Ne I consigli di Meneghino a. il protagonista Meneghino parla in dialetto e Fabio in italiano. b. il protagonista Meneghino parla in italiano e Fabio in dialetto. c. sia il protagonista Meneghino sia Fabio parlano in dialetto. d. sia il protagonista Meneghino sia Fabio parlano in italiano. 14. Il melodramma nasce a. nel Seicento in Italia. b. nel Cinquecento in Italia. c. nel Cinquecento in Spagna. d. nel siglo de oro in Spagna. 15. L’Arianna di Rinuccini è musicata da a. Peri e Striggio. b. Monteverdi e Peri. c. Caccini e Peri. d. Striggio e Monteverdi.

2 Svolgi in forma scritta i seguenti argomenti (max 20 righe ciascuno). 1. Il teatro spagnolo del siglo de oro: i principali autori, i loro capolavori, le tematiche. 2. Il personaggio di Don Giovanni: la sua origine, la vicenda, le ragioni delle sue fortuna e celebrità. 3. Il teatro di Pierre Corneille e Jean Racine: le opere, le innovazioni, i personaggi, le tematiche. 4. Jean-Baptiste Poquelin detto Molière: uno dei maggiori commediografi di ogni tempo. 5. Il personaggio di Meneghino e il suo inventore.

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IMMAGINI SIMBOLO

Caravaggio, Madonna dei pellegrini, 1604-1606 ca. Roma, Chiesa di Sant’Agostino. La tela rappresenta due poveri al cospetto della Vergine, che come una popolana si affaccia sulla soglia di una casa; anche i capelli scuri raccolti sul capo e la veste senza pretese sottolineano l’origine umile di Maria. La Madonna presenta il bambino ai due anziani pellegrini: in primo piano risaltano i piedi gonfi e sporchi dell’uomo, che le fonti ricordano insieme alla cuffia sdrucita e sudicia della donna, colpiti dal fascio di luce che mette in risalto anche il bambino e il volto di Maria e dell’anziana in ginocchio. Ancora una volta la realtà degli umili irrompe con grande forza nell’opera di Caravaggio, artista che ha contribuito in modo radicale a orientare la pittura italiana ed europea verso un marcato realismo.

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Francesco Borromini, Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza. Veduta della lanterna esterna, 1642-1644. Roma. L’arte barocca nega lo spazio chiuso, prediligendo la dilatazione estrema. Per tale motivo a volte gli architetti “fingono” lo spazio, sottolineando gli aspetti teatrali delle proprie opere. La linea a spirale, come quella usata da Borromini per il coronamento della cappella annessa all’Università romana della Sapienza, svolge proprio questa funzione scenografica, creando effetti visivi in grado di suscitare stupore e meraviglia nell’osservatore.

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Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Fiumi (particolare), 1648-1651. Roma, Piazza Navona. Voluta da papa Innocenzo X e facente parte del più ampio progetto di sistemazione di Piazza Navona, la Fontana dei Fiumi presenta le personificazioni dei quattro corsi d’acqua più importanti e noti dell’epoca (il Danubio per l’Europa, il Gange per l’Asia, il Nilo per l’Africa e il Rio de la Plata per l’America), poste intorno a un obelisco del periodo romano. La fontana è un elemento sia scultoreo sia di arredo urbano che incarna il gusto barocco: il perpetuo scorrere e rinnovarsi dell’acqua, il continuo mutare dei suoi riflessi appaiono in perfetta sintonia con la poetica del Seicento, così sensibile alla mutevolezza, alla transitorietà e alla precarietà di tutte le cose.

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Diego Velázquez, Las meniñas, 1656. Madrid, Museo del Prado. La famiglia reale spagnola è la protagonista assoluta di questo quadro nel quadro. La tela raffigura infatti Velázquez intento a ritrarre sia l’infanta Margherita, posta al centro della composizione e circondata dalle dame di compagnia (le meniñas, appunto) e dai nani di corte, sia Filippo IV e la consorte Maria Anna d’Austria, che compaiono riflessi nello specchio posto in fondo alla stanza e che quindi, per lo meno idealmente, si trovano nello spazio dello spettatore. La tela porta all’attenzione dell’osservatore i sontuosi costumi e il rigido cerimoniale delle corti seicentesche, ma propone anche il ribaltamento degli spazi e delle situazioni, tracciando un labile confine tra davanti e dietro, interno ed esterno, spazio reale e spazio immaginario, secondo la poetica barocca.

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Il Settecento e l’età napoleonica Jean-Auguste-Dominique Ingres, Odissea, 1827. Lione, Musée des Beaux-Arts.

CAPITOLO

8

Il secolo della

ragione

TAVOLA SINOTTICA STORIA

CULTURA

LETTERATURA

1702 Scoppia la guerra di successione spagnola. 1709-1712 Luigi XIV perseguita i giansenisti e distrugge il monastero di Port-Royal. 1713 La pace di Utrecht pone termine alla guerra di successione spagnola. 1715 Pietro il Grande fonda la città di San Pietroburgo. 1748 La pace di Aquisgrana pone termine alla guerra di successione austriaca.

1700 Nasce l’Accademia delle scienze di Berlino. 1704 Newton pubblica l’Ottica, in cui sostiene la teoria corpuscolare della luce. 1705 Sulle navi si diffonde la ruota per la manovra del timone. 1709 Vengono scoperte le rovine di Ercolano. 1710 Berkeley pubblica il Trattato sui princìpi della conoscenza umana. 1714 Il tedesco Fahrenheit inventa il termometro a mercurio. 1717-1731 Juvarra costruisce la basilica di Superga (Torino). 1718 Viene brevettato il primo dispositivo meccanico per torcere la seta. 1718 Juvarra progetta la facciata di Palazzo Madama a Torino. 1724 Leibniz pubblica la Monadologia. 1724 Pietro il Grande fonda l’Accademia delle scienze di San Pietroburgo. 1725 Prima edizione della Scienza nuova di Vico. 1734 Voltaire pubblica le Lettere filosofiche. 1735 Appare la prima edizione del Systema naturae di Linneo. 1735-1764 Juvarra e Sacchetti realizzano il Palazzo reale di Madrid. 1737 Viene fondata la manifattura di ceramica Ginori. 1739-1740 Hume compone il Trattato sulla natura umana. 1748 Iniziano gli scavi a Pompei. 1748 Appare lo Spirito delle leggi di Montesquieu. 1748-1778 Piranesi lavora al ciclo di incisioni Vedute di Roma.

1704 Defoe fonda e dirige “The Review”. 1709-1711 Steele dirige “The Tatler”. 1711-1712 Steele e Addison fondano “The Spectator”. 1712 Pope scrive Il ricciolo rapito. 1719 Defoe pubblica Robinson Crusoe. 1721 Montesquieu pubblica le Lettere persiane. 1723 Giannone pubblica l’Istoria civile del Regno di Napoli. 1724 Metastasio compone la Didone abbandonata. 1726 Swift dà alle stampe I viaggi di Gulliver. 1740-1742 Richardson pubblica Pamela. 1749 Appare Tom Jones di Fielding.

17001750

202 CAP. 8 - IL SECOLO DELLA RAGIONE

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17511815

STORIA

CULTURA

LETTERATURA

1749-1759 Introduzione del nuovo catasto a Milano. 1755 Lisbona è distrutta dal terremoto. 1756-1763 Guerra dei Sette anni. 1773 Papa Clemente XIV decreta lo scioglimento della Compagnia di Gesù. 1776 Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. 1780 Giuseppe II diventa imperatore d’Austria alla morte di Maria Teresa. 1786 Leopoldo I di Toscana promulga il nuovo codice penale, che abolisce la tortura e la pena di morte. 1788 Ha inizio la colonizzazione britannica dell’Australia. 1789 Scoppia la Rivoluzione francese. 1793 In Francia Luigi XVI viene decapitato. 1796 Ha inizio la campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte. 1797 Trattato di Campoformio. 1798 Napoleone inizia la spedizione in Egitto. 1799 Napoleone è proclamato Primo Console. 1804 Napoleone è incoronato imperatore. 1805 Napoleone è incoronato re d’Italia. 1813 L’esercito napoleonico è sconfitto a Lipsia. 1814-1815 Congresso di Vienna. 1815 Napoleone è sconfitto a Waterloo ed esiliato a Sant’Elena.

1751-1753 Tiepolo affresca la residenza di Würzburg in Baviera. 1752 Benjamin Franklin inventa il parafulmine. 1752-1773 Vanvitelli progetta e realizza la Reggia di Caserta. 1753 Viene fondata a Firenze l’Accademia dei Georgofili. 1754 Condillac pubblica il Trattato delle sensazioni. 1755 Rousseau pubblica il Discorso sull’origine dell’ineguaglianza fra gli uomini. 1755 Winckelmann elabora quello che è considerato il manifesto del Neoclassicismo. 1762 Rousseau pubblica Il contratto sociale. 1765 Spallanzani confuta la teoria della generazione spontanea. 1769 Watt inventa la macchina a vapore. 1776-1778 Piermarini costruisce il Teatro alla Scala di Milano. 1781 Kant pubblica la prima edizione della Critica della ragion pura. 1783 Primo volo dei fratelli Montgolfier. 1784-1785 David dipinge Il giuramento degli Orazi. 1786 Gustavo III fonda l’Accademia svedese, che dal 1901 assegna i premi Nobel. 1787 Viene realizzato il primo telaio meccanico. 1788 Kant pubblica la Critica della ragion pratica. 1788-1793 Canova scolpisce Amore e Psiche. 1790 Kant pubblica la Critica del giudizio. 1790 L’Accademia francese delle scienze costruisce il metro campione, base del sistema metrico decimale. 1794 Fichte pubblica i Fondamenti dell’intera dottrina della scienza. 1799 Viene scoperta la Stele di Rosetta, che renderà possibile la decifrazione dei geroglifici. 1800 Volta costruisce la pila. 1807 Hegel pubblica la Fenomenologia dello spirito. 1814 George Stephenson collauda la sua prima locomotiva a vapore.

1751 Pubblicazione del primo volume dell’Enciclopedia. 1751 Gray compone l’Elegia scritta in un cimetero di campagna. 1753 Viene rappresentata per la prima volta La locandiera di Goldoni. 1759 Voltaire pubblica il Candido. 1763 Parini pubblica la prima parte del Giorno. 1763 Cesarotti traduce le Poesie di Ossian. 1764 Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene. 1764 I fratelli Verri fondano “Il Caffè”. 1767 Sterne pubblica il romanzo Vita e opinioni di Tristram Shandy. 1770 In Germania nasce la tendenza preromantica detta Sturm und Drang. 1774 Goethe pubblica I dolori del giovane Werther. 1782 Alfieri compone il Saul. 1784 Alfieri compone la Mirra. 1784 Monti compone l’ode Al signor di Montgolfier. 1785 Parini compone La caduta. 1787 Goldoni pubblica i Mémoires. 1794 Ann Radcliffe pubblica I misteri di Udolfo. 1798 Coleridge e Wordsworth pubblicano le Ballate liriche. 1798 In Germania appare la rivista romantica Athenäum. 1802 Foscolo pubblica le Ultime lettere di Jacopo Ortis. 1806-1807 Foscolo compone Dei sepolcri.

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CAP. 8 - IL

SECOLO DELLA RAGIONE

203

STORIA

STORIA LA RIVOLUZIONE L’ILLUMINISMO

DEL PENSIERO:

Nel corso del Settecento il mondo intero è investito da un’ondata di rivoluzioni che interessano ogni ambito della vita individuale e collettiva. Alla radice dei grandi cambiamenti che modificano radicalmente il modo di essere e di agire delle persone vi è il grande movimento culturale dell’Illuminismo. Dall’Inghilterra e dalla Francia, dove si manifestano già all’inizio del secolo, le idee dei filosofi illuministi si diffondono rapidamente grazie alla moltiplicazione di strumenti di comunicazione rivolti al grande pubblico – come giornali, gazzette e periodici – e alla fondazione di accademie, biblioteche pubbliche e sale di lettura.

Illuminismo e rivoluzione Alla base della riflessione illuminista circa la natura dell’uomo e i rapporti da instaurare nella società vi sono princìpi di libertà e uguaglianza. Gli esseri umani sono considerati per loro natura tutti liberi e uguali tra loro e perciò devono essere eliminati tutti i motivi di disuguaglianza o di sottomissione che fin dai tempi antichi condizionavano i rapporti tra le persone. Uno tra i maggiori interpreti di questa linea di pensiero è il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), il quale, nella sua opera intitolata Contratto sociale (1762), sostiene che la sovranità e il potere appartengono a tutto il popolo (sovranità popolare) e ad esso spetta il diritto di esercitarlo secondo le forme di una moderna democrazia, partecipando direttamente o indirettamente tramite i propri rappresentanti al processo di formazione delle leggi. I temi espressi da Rousseau e la sua idea di società democratica trovano vasta eco in tutto il mondo e costituiscono l’ispirazione di fondo dalla quale prendono avvio le due grandi rivoluzioni politiche del Settecento, quella che porta alla nascita degli Stati Uniti d’America e quella che scoppia in Francia nel 1789.

L’assolutismo illuminato La via rivoluzionaria non è comunque l’unica percorsa in campo politico per realizzare alme-

204 CAP. 8 - IL SECOLO DELLA RAGIONE - STORIA

no alcuni tra i più importanti ideali dell’Illuminismo. Alcuni sovrani europei, riconoscendo il valore di quelle intuizioni, tentano di avviare importanti programmi di riforma capaci di andare incontro almeno a certe esigenze dei sudditi, pur senza rinunciare al proprio potere: per questo si parla di dispotismo o assolutismo illuminato. Fra i protagonisti di questa importante stagione politica vi sono Federico II di Prussia, Caterina II di Russia, Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, che governano anche il territorio italiano lombardo. In generale, al di là dei princìpi di uguaglianza e libertà – che di fatto non vengono tradotti in azioni concrete, se non in maniera assai parziale –, l’obiettivo perseguito dall’azione riformatrice dei sovrani “illuminati” è il raggiungimento di una maggiore efficienza dell’apparato statale, al fine di esercitare un controllo più attivo sulla popolazione e sulla vita sociale ed economica. In Italia, Pietro Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana, per primo in Europa abolisce la pena di morte.

LA

RIVOLUZIONE DELL’ECONOMIA

Alla rivoluzione che investe l’economia europea nel corso del Settecento concorrono molti fattori, anche se, alla fine, gli esiti più vistosi si rivelano il passaggio a un nuovo sistema di produzione (quello industriale) e la profonda trasformazione dei rapporti sociali. Un primo elemento che contribuisce al processo di cambiamento è il forte incremento demografico che, nel corso del Settecento, porta la popolazione europea da 120 a 188 milioni di individui, con un aumento di circa il 60%. Questa straordinaria crescita (dovuta a cause diverse, come la diminuzione delle guerre, la scomparsa pressoché totale delle epidemie di peste, l’attenuazione delle carestie e la diminuzione della mortalità infantile) provoca un aumento della richiesta di beni di consumo e determina una ripresa dell’economia in tutti i settori: agricolo, artigianale e commerciale. Sia in agricoltura, sia nelle manifatture, si fa sempre più urgente l’esigenza di trovare nuovi sistemi per aumentare la produzione, per soddisfare la domanda di beni sempre crescente. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Nel processo di trasformazione in atto nel corso del Settecento, la Gran Bretagna emerge come il primo Paese nel quale si creano le condizioni favorevoli per lo sviluppo dell’industria. Tra i principali fattori che determinano il progresso industriale inglese vi sono: • il primato nei commerci conquistato a livello mondiale, che porta nel Paese ingenti capitali; • lo sviluppo delle attività finanziarie e bancarie; • l’abbondanza di materie prime; • l’eccedenza di manodopera provocata anche dalla rivoluzione agraria che, con le enclusers – la recinzione dei vecchi terreni di proprietà comune – aveva costretto molti contadini ad abbandonare le campagne e a cercare lavoro nelle città, che infatti vedono ora crescere notevolmente le loro dimensioni; • la libertà delle iniziative imprenditoriali, resa possibile anche dal tipo di governo monarchico costituzionale; • la quantità di innovazioni tecniche messe a punto dai numerosi inventori britannici. Tra queste, la macchina a vapore e la sua applicazione a tutti i settori produttivi: nelle miniere, nelle fabbriche tessili e manifatturiere, in campo siderurgico e in campo agricolo.

ritmi massacranti, scarsamente retribuiti e costretti a trascorrere le giornate in ambienti spesso assai nocivi per la salute. Le pessime condizioni di lavoro e di vita degli operai pongono sin dall’inizio problemi di carattere sociale (la “questione sociale”) destinati a rimanere irrisolti per molti anni e a tradursi talvolta in aspri conflitti tra nuova borghesia imprenditoriale e lavoratori salariati.

LA RIVOLUZIONE AMERICANA La ribellione delle colonie inglesi d’America

La nuova organizzazione del lavoro e le trasformazioni sociali

Gli ideali di libertà e di uguaglianza tipici dell’Illuminismo, insieme al desiderio di indipendenza economica e politica, sono alla base del movimento di protesta e di ribellione sorto nelle colonie inglesi del Nordamerica durante la seconda metà del XVIII secolo. Pur sottoposte al governo di Londra, queste colonie godono di un certo margine di autonomia a livello politico e amministrativo, ma sono soggette a un rigido controllo per quanto concerne l’economia, con l’obbligo di intrattenere rapporti commerciali esclusivamente con la Gran Bretagna. Nonostante i vincoli posti dal parlamento inglese ai commerci e alla formazione di industrie locali, le colonie del Nordamerica conoscono un forte sviluppo economico, anche grazie alle spregiudicate azioni di contrabbando che consentono ai produttori e ai mercanti americani di scambiare merci con altri Paesi.

L’introduzione delle macchine porta a una nuova organizzazione del lavoro, che viene concentrato nelle fabbriche, dove i nuovi macchinari svolgono automaticamente e in modo eccezionalmente più veloce le operazioni che precedentemente erano compiute a mano. Gli operai che lavorano nelle fabbriche devono però acquisire competenze e mentalità nuove, estranee a coloro che fino a quel momento avevano lavorato nelle manifatture tessili. Grazie alla nuova organizzazione industriale, la quantità di prodotti aumenta vertiginosamente in tutti i settori, innescando reazioni di tipo sociale destinate a provocare grandi trasformazioni. I primi e principali beneficiari della rivoluzione industriale sono il ceto borghese e tutti coloro che, intuendo le opportunità date dai profondi cambiamenti, investono i loro capitali nella costruzione delle fabbriche. Accanto a questo nuovo ceto di imprenditori capitalisti si impone quello, altrettanto nuovo, degli operai che lavorano nelle industrie (tra i quali vi sono anche donne e bambini), sottoposti a

I rapporti con la madrepatria degenerano a partire dal 1763, quando il re d’Inghilterra Giorgio III decide di imporre nuove tasse e provvedimenti che danneggiano gravemente gli interessi dei coloni, limitando ulteriormente le possibilità di scambio. Inizialmente, gli abitanti delle colonie cercano di trattare con il governo di Londra, chiedendo di essere rappresentati in parlamento. È rimasto famoso il motto No taxation without representation (“Niente tasse senza rappresentanza”): dal momento che erano tenuti a pagare le tasse, i coloni rivendicavano il diritto ad avere propri rappresentanti nell’assemblea in cui quelle tasse venivano decise e approvate. Diversamente, qualsiasi pretesa economica sarebbe stata respinta. La richiesta di rappresentanza politica e il rifiuto di sottomettersi ciecamente alle richieste di un sovrano ritenuto dispotico rivelano l’influenza esercitata sui coloni americani dalle idee illuministe. L’aspirazione a prendere attivamente parte alla vita politica e ai processi de-

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Il valore della rappresentanza

CAP. 8 - IL

SECOLO DELLA RAGIONE

- STORIA

205

STORIA

Le condizioni dello sviluppo industriale in Gran Bretagna

STORIA

cisionali rispecchiano ideali espressi dai grandi filosofi europei del tempo, con i quali i protagonisti della rivoluzione americana, come per esempio Thomas Jefferson o Benjamin Franklin, sono venuti a contatto.

Verso l’indipendenza e la Costituzione La situazione precipita nel 1773. Di fronte a un provvedimento che ancora una volta danneggia i loro interessi economici e pone in evidenza la condizione di totale subalternità di fronte al governo inglese, i coloni insorgono e, nel porto di Boston, un gruppo di patrioti americani travestiti da indiani getta a mare il carico di tè di una nave inglese. L’episodio passa alla storia come il Boston Tea Party: “festa del tè di Boston”. La dura reazione di Londra di fronte ai disordini di Boston scatena un altro, decisivo movimento di ribellione in tutte le colonie e, nel 1775, iniziano vere e proprie operazioni militari contro gli Inglesi da parte di soldati americani guidati dal generale George Washington. Il 4 luglio 1776 i rappresentanti delle colonie riuniti a Filadelfia approvano la Dichiarazione d’indipendenza: primo passo verso la costituzione degli Stati Uniti d’America. Nel trattato di pace, stipulato a Versailles nel 1783, la Gran Bretagna riconosce ufficialmente l’indipendenza delle tredici colonie. Successivamente, nel 1787, viene elaborata una Costituzione e sancita la nascita degli Stati Uniti d’America. La nuova carta costituzionale risulta ispirata ai princìpi illuministi della sovranità popolare e pone le basi per la difesa dei diritti umani fondamentali, quali la vita e la libertà, in tutte le sue diverse manifestazioni.

LA RIVOLUZIONE

FRANCESE

La Francia alla vigilia della Rivoluzione In Francia, dove il movimento illuministico aveva conosciuto il massimo sviluppo, le nuove idee di uguaglianza e libertà riescono a imporsi solo dopo un processo rivoluzionario lungo e violento, che provoca migliaia di vittime e genera conflitti che si propagano anche in altri Paesi europei. Alla fine del XVIII secolo, il sistema politico e sociale francese è ancora basato su un’organizzazione sociale di tipo medievale (il cosiddetto “Antico regime”), ispirato ai princìpi del più rigido assolutismo monarchico, rimasto inalterato dai tempi di Luigi XIV. La società francese rimane divisa in tre ordini rigidamente distinti (nobiltà, alto clero e

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Terzo stato) e l’aristocrazia, proprietaria di vastissimi latifondi, gode ancora di privilegi di natura economica e giuridica ormai ingiustificati. I nobili, per esempio, sono esentati dal pagamento delle tasse e hanno diritto a farsi giudicare da tribunali speciali nei quali i giudici e le giurie sono composti da persone appartenenti al medesimo ceto. Dal punto di vista economico, la Francia è ridotta in condizioni disastrose. Le ingenti spese sostenute da Luigi XIV e da Luigi XV per finanziare le guerre e la sfarzosa vita di corte a Versailles hanno prosciugato le casse dello Stato e il giovane sovrano Luigi XVI, salito al trono nel 1774, si trova a dover governare un regno ormai al collasso.

Il fallimento degli Stati generali Per far fronte a una situazione che va sempre più peggiorando, il re decide di convocare, per l’estate del 1789, gli Stati generali, ossia l’assemblea dei rappresentanti dei tre ordini che non veniva più riunita dal 1614. Il difficile avvio dei lavori, subito segnati dallo scontro fra i rappresentanti di nobiltà e alto clero (uniti nella difesa degli stessi interessi) e quelli del Terzo stato, porta presto a una situazione di stallo, che si risolve in modo drastico con l’iniziativa dei rappresentanti del Terzo stato di dar vita a una nuova assemblea: l’Assemblea nazionale. Da quel momento la situazione sfugge di mano a Luigi XVI, fino alla presa delle Bastiglia, il 14 luglio 1789, l’evento scatenante del movimento rivoluzionario. Nelle campagne di tutta la Francia scoppia una rivolta contadina: vengono assaltati i castelli dei signori e dati alle fiamme i documenti che sanciscono i diritti feudali, aboliti ufficialmente dopo pochi giorni dall’Assemblea nazionale che, nel frattempo, si era assunta l’incarico di redigere una Costituzione, divenendo Assemblea costituente.

Libertà, uguaglianza, fraternità Il motto dei rivoluzionari francesi, “Libertà, uguaglianza, fraternità”, rispecchia in pieno gli ideali dell’Iluminismo, come pure la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, vero manifesto della Rivoluzione francese, nella quale vengono solennemente affermati i princìpi di un nuovo ordine sociale e politico, basato sulla libertà e sulla sovranità della Nazione. In pochi mesi, i rivoluzionari francesi riescono a sbarazzarsi dell’assolutismo monarchico e della secolare divisione in ordini della società. La nuova Costituzione, approvata nel settembre 1791 e accettata da Luigi XVI, rende la Francia una monarchia costituzionale. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Gli eventi che scuotono la Francia a partire dal 1789 provocano la reazione da parte delle altre potenze – in particolare Austria e Prussia – decise a evitare che le idee rivoluzionarie si diffondano nel resto dell’Europa. Si forma così una coalizione che nel 1792 dichiara guerra alla Francia, dando inizio a un sanguinoso conflitto che però non sortisce altro esito se non quello di fare precipitare ancor più la situazione all’interno, con l’abolizione della monarchia e la proclamazione della repubblica (settembre 1792). Successivamente, Luigi XVI viene processato e condannato a morte (gennaio 1793). Il periodo del Terrore seguito a questi fatti (dal novembre 1793 al luglio 1794), dominato dalla figura di Robespierre, vede l’esecuzione di massa di aristocratici, intellettuali o persone anche solo sospettate di attività controrivoluzionaria e rappresenta, di fatto, la negazione degli ideali che avevano portato allo scoppio della stessa Rivoluzione. Anche dopo la fine del Terrore, però, il Paese non riesce a recuperare stabilità. La guerra contro le potenze europee prosegue, mentre all’interno si vanno rafforzando movimenti monarchici e controrivoluzionari che complottano contro la repubblica. Il governo del Paese viene affidato a un Direttorio composto da cinque membri dotati di ampi poteri, i quali a loro volta incaricano un giovane ufficiale, Napoleone Bonaparte, di ristabilire l’ordine stroncando la ribellione filomonarchica e di guidare la campagna militare in Italia nel contesto della guerra contro l’Austria.

Jacques Louis David, Napoleone al Gran San Bernardo, 1800. Parigi, Musée National du Château de Malmaison.

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Nel 1796 Napoleone entra vittorioso a Milano. Per bloccare l’avanzata francese, l’Austria è costretta a firmare la pace nel 1797 a Campoformio, pace che sancisce la rinuncia austriaca alla Lombardia; in cambio Napoleone consegna all’Austria i territori della Repubblica di Venezia. Di fatto, l’instaurazione del regime del Direttorio rappresenta l’ultima tappa del lungo cammino della Rivoluzione francese. I successi di Napoleone nell’arco di breve tempo portano a una nuova dittatura personale e alla nascita dell’Impero francese.

Dal Consolato all’Impero e alla sconfitta Mentre in Italia l’influenza francese si esprime con la costituzione di repubbliche, alcune di effimera durata, in Francia, con un colpo di Stato, il generale Bonaparte assume tutto il potere nelle sue mani autonominandosi primo console. Nel 1804 Napoleone è proclamato imperatore dei Francesi. Tra il 1805 e il 1809, con una serie di clamorose vittorie militari contro le coalizioni antifrancesi, Bonaparte consolida l’egemonia della Francia sul continente europeo. Tuttavia, dopo la disastrosa campagna di Russia (1812), l’esercito francese subisce una dura sconfitta a Lipsia (1813), che provoca il crollo dell’Impero e porta all’abdicazione di Napoleone nel 1814. Mentre le potenze europee sono riunite in congresso a Vienna per restaurare l’ordine politico dell’Europa, Napoleone tenta un’ultima disperata reazione e ritorna al potere, ma viene definitivamente sconfitto a Waterloo dalle potenze coalizzate (1815).

Andrea Appiani, Napoleone Primo Console, 1800. Bellagio, Villa Melzi, Collezione Gallarati-Scotti.

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Dalla guerra europea all’avvento di Napoleone

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CULTURA VERSO L’ILLUMINISMO Razionalismo e rinnovamento del sapere Sul piano filosofico e culturale, il Settecento porta a compimento il disegno che era stato delineato da figure come Galileo ed era stato organizzato razionalmente, già nella seconda metà del Seicento, da filosofi come Cartesio: la razionalità viene gradualmente riconosciuta come guida che fa luce su ogni aspetto dell’esperienza e che sola può dare spiegazione dei fenomeni naturali. Sulla base di questa concezione, la logica del vaglio razionale e dell’esperimento – che nel secolo precedente era stata introdotta nello studio della fisica e dell’astronomia – viene sempre più estesamente applicata a tutti i campi del sapere (la filosofia, la storia, la pedagogia, l’economia, il diritto, la politica, la medicina), in funzione di un rinnovamento culturale. Essa ispirerà perfino i canoni artistici e letterari. Nella prima parte del secolo, letteratura e musica costituiscono gli unici ambiti che, in parte, sfuggono ancora alla tendenza culturale razionalistica. Personalità come Ludovico Antonio Muratori vagheggiano, tuttavia, la fon-

dazione di una repubblica delle lettere su basi razionaliste; numerosi sono i poeti, gli scrittori e i musicisti che sognano la rinascita dell’Arcadia greca – contrapponendo al Barocco un nuovo accostamento al classicismo – mentre si diffonde la nuova poesia per musica del melodramma e si ricerca l’esperienza estetica nell’avventura da libertini (che cercano l’assoluta libertà di pensiero e azione). La prima metà del Settecento è, dunque, un periodo di transizione con tendenze non omogenee. Soprattutto nella seconda parte del secolo, invece, mentre a partire dalla Francia si affermano il razionalismo e il sensismo illuministici più maturi, nelle poetiche di alcuni autori, come Giuseppe Parini e Vittorio Alfieri, è già presente il rinvio a ciò che trascende la ragione, sia esso il senso del divino, il sentimento o la passione, in qualche modo anticipando la sensibilità romantica. Questi sentimenti svolgono, d’altra parte, una funzione centrale anche nel pensiero di un originale illuminista come Jean-Jacques Rousseau, pietra miliare della riflessione filosofica e pedagogica.

Il nuovo ruolo dell’intellettuale Nel corso del Settecento viene gradualmente abbandonata l’idea della centralità delle lettere

Étienne-Louis Boullée, Progetto per un tempio della Ragione o della Natura. Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe.

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L’interesse per la ricerca storica La nuova libertà di pensiero di cui gode l’intellettuale e il suo interesse per la storia sono al centro dell’attività di un pensatore eccentrico come Giambattista Vico (1688-1744), che limita la portata della ragione alla conoscenza di quello che egli considera il solo mondo dell’azione umana, cioè, appunto, la storia (storicismo vichiano), costruendo nella sua opera intitolata Scienza nuova una originale teoria dello sviluppo dell’umanità. Egli vi individua tre momenti fondamentali: l’età degli dei in cui gli uomini sentono senza avvertire (l’epoca del dominio dell’istinto), l’età degli eroi in cui avvertiscono con animo perturbato e commosso (il sorgere del sentimento, della fantasia e dell’arte) e l’età degli uomini, in cui si riflette con mente pura: è questa l’epoca del trionfo della razionalità. Nella prima metà del secolo emerge la figura di Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), il cui pensiero è in buona parte improntato a un’ottica pre-illuministica, poiché egli ritiene la ragione, basata sui dati di fatto, il migliore strumento di cui l’uomo dispone per distinguere il vero dal falso in ogni campo del sapere. Egli è considerato il fondatore della moderna storiografia, che testimonia l’interesse per la storia ed è basata su un metodo scientifico e documentaristico. Le sue opere rivolu© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

zionano il campo degli studi storici da diversi punti di vista: per la quantità e qualità del materiale documentario raccolto; per il metodo proposto, basato su un severo esame filologico e critico delle fonti e dei documenti; per l’attenzione posta sull’epoca medievale, prima assai poco studiata e conosciuta. Se l’attività storiografica di Muratori si propone di accertare la verità, quella del napoletano Pietro Giannone (1676-1748) muove soprattutto dalla polemica contro la curia pontificia e da istanze politiche che affondano le loro radici nella condizione, nei primi decenni del Settecento, dell’Italia meridionale, dove i privilegi ecclesiastici sono estesi e interferiscono sul potere civile. Contro questa situazione, nel suo trattato Istoria civile Giannone postula un’alleanza fra il sovrano illuminato, che deve rivendicare i diritti e i beni dello Stato laico, e la minoranza intellettuale progressista. In parallelo con questa riforma giurisdizionale, lo scrittore, nel Triregno, invoca anche una riforma religiosa che riporti la Chiesa alla primitiva povertà e purezza, delineando la successione di un triplice regno: il regno terreno retto da leggi pienamente umane e non rivelate, il regno celeste, cioè di Cristo, che si è manifestato nella purezza della Chiesa primitiva, e infine il regno papale che ha portato nella Chiesa l’ambizione temporale suscitando corruzione e conflitti con il potere statale. L’adesione di Giannone al razionalismo è piena e totale e il suo interesse per la ricerca storica viene confermato dai temi prevalenti nelle sue opere.

Progresso e ragione Il Settecento è il secolo della fiducia nello sviluppo dell’umanità, inteso come crescita e diffusione del benessere, come innalzamento del livello della conoscenza, come allargamento della coscienza morale e del senso democratico, in una parola come progresso basato sui lumi – ossia “le luci” – della ragione. Al centro della filosofia e della cultura settecentesca si colloca appunto l’esaltazione della ragione, che sviluppa e porta alle estreme conseguenze la tendenza razionalista ed empirista già evidenziatasi nel secolo precedente. La concezione si manifesta gradualmente: a una prima fase già definibile come classicista, che si accompagna alla fioritura della letteratura arcadica, ne segue una seconda, collocabile intorno alla metà del secolo: in essa, l’Illuminismo raggiunge la piena maturità; infine, il Neoclassicismo e i prodromi del Romanticismo (Preromanticismo) contrassegneranno, insieme all’ultimo Illuminismo, la cultura e l’arte di fine secolo. CAP. 8 - IL

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nella formazione culturale e nell’elaborazione del sapere. Si attua così un’alterazione del modello dell’intellettuale, che non è più il depositario della sapienza che proviene dall’antichità, ma assume spesso il nuovo ruolo dell’erudito, dedito anzitutto al duro lavoro di catalogazione e di verifica delle conoscenze di tutti i campi del sapere. Tale concezione è insita nei princìpi del nuovo orientamento culturale e dipende dall’importanza attribuita al raziocinio come guida nell’elaborazione di ogni teoria, e al riferimento ai dati provenienti dai sensi e dalla conoscenza empirica (tale concezione è appunto detta sensismo). Viene riconosciuta grande importanza alla raccolta di documentazione e alla catalogazione di scritti altrui (esemplare, in questo senso, il monumentale lavoro di Muratori) in quanto fonte di conoscenza sensibile indiretta. In una fase successiva, con la piena affermazione dell’Illuminismo, l’intellettuale settecentesco allarga ancora di più i propri orizzonti e si trasforma in philosophe (“filosofo”) impegnato nella divulgazione e nelle battaglie civili e politiche per l’affermazione dei princìpi del movimento. Non più dunque uomo colto e distaccato dalla realtà, chiuso in un mondo senza tempo, ma intellettuale aperto al dibattito e al servizio della società civile.

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L’ILLUMINISMO L’Illuminismo non è una corrente filosofica in senso stretto, ma piuttosto un orientamento culturale generale che permea di sé tutto il pensiero dell’epoca, dalla filosofia alla politica, dall’economia al diritto, dalla storia alla letteratura, basato sull’idea centrale secondo la quale la ragione è l’unica facoltà umana che può “fare luce”, portando a conoscenze certe sulla realtà, in un rapporto critico con i saperi e le tradizioni del passato. Nulla che appartenga al mondo umano sfugge allo stringente esame della facoltà logica della mente. L’Illuminismo intende, come affermano i più importanti esponenti della tendenza, a partire da Voltaire e da Denis Diderot, rischiarare ogni cosa con i lumi della ragione (perciò l’epoca è detta illuminista), basandosi sui dati conoscitivi certi e controllabili, nel tentativo di estirpare ogni tipo di falsa credenza e stabilire verità oggettive inconfutabili, provenienti in modo diretto o indiretto dai sensi. La verità viene ricercata mediante una critica serrata e severa delle tradizioni ereditate dal passato e un’attenta verifica, libera e razionale, di ciò che, in ogni cam-

po, le autorità del passato affermano. Gli Illuministi non ritengono le proprie conclusioni infallibili: da ciò deriva l’importanza che, in misura più o meno ampia, essi attribuiscono alla tolleranza. Le espressioni età dei lumi o età della ragione, introdotte dagli Illuministi stessi per indicare i tratti culturali distintivi del proprio tempo, dimostrano con chiarezza che gli enciclopedisti e gli intellettuali razionalisti della metà del Settecento sono pienamente consapevoli dell’originalità storica del loro movimento e del carattere di rottura con il passato che lo connota. La tendenza alla divinizzazione della ragione, voluta soprattutto dalle personalità più estremiste coinvolte nella Rivoluzione francese, esaspererà alla fine del secolo, in forme assai vicine al fanatismo, il messaggio illuministico, ma è assente dal pensiero dei maggiori illuministi, quali il filosofo tedesco Immanuel Kant (17241804), il quale, alle soglie dell’Ottocento, elabora per la prima volta un metodo di pensiero rigorosamente analitico e critico. Esso stabilisce, nel contempo, i limiti e i poteri della ragione, la quale – pur non essendo in grado di accedere a una conoscenza assoluta e incondi-

L’arte della bella scrittura: la posizione corretta del corpo. Tavola dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert.

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Origine e caratteri dell’Illuminismo L’Illuminismo nasce in Inghilterra già alla fine del Seicento e ne è precursore il filosofo empirista John Locke (1632-1704), nella cui opera si trovano le prime formulazioni di concetti fondamentali quali il liberalismo politico e il deismo religioso (concezione razionale della divinità, che ne rifiuta la rivelazione agli uomini). Dall’Inghilterra il movimento di pensiero si diffonde poi in Francia, dove trova il terreno più favorevole per il suo sviluppo e la sua vera e propria affermazione e da dove si espande nel resto del continente. La cultura illuminista ha un carattere cosmopolita, sia perché fondata sulla premessa che la ragione è universale, sia per le condizioni politiche del secolo, che favoriscono gli scambi economici e culturali. L’uomo razionale è dunque a buon diritto cittadino del mondo, che deve contribuire a rendere più consapevole e pacifico. L’Illuminismo ha carattere egualitario. Ogni intellettuale che applica i lumi della ragione al suo ambito di intervento o di studio è, di fatto, un illuminista, sia che analizzi le tecniche di coltivazione del suolo o gli interventi chirurgici, il diritto politico o la morale. Ciò non si traduce in una concezione élitaria del sapere, anzi: la ragione, infatti, è considerata come la facoltà conoscitiva naturale presente in ogni uomo, nel dotto e nell’incolto, nel bambino come nel selvaggio ed è il fondamento della concezione democratica e egualitaria dell’Illuminismo. Compito di chi possiede i lumi della ragione è illuminare, con gradualità e soprattutto con l’educazione e la divulgazione, la mente di chi ancora è prigioniero delle tenebre dell’ignoranza e della superstizione. Il sapere deve essere accessibile a tutti. Gli intellettuali illuministi, non rivolgendosi più solo alle élites, ma a tutti gli uomini, scrivono articoli di giornale, opuscoli, pamphlets polemici, romanzi filosofici a scopo didascalico, in un linguaggio semplice e chiaro, che vuole essere capito da tutti. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

A cambiare i modelli culturali e a diffondere una mentalità nuova, che favorisce la nascita di un’opinione pubblica, interviene la nascita della stampa periodica. Il giornalismo moderno nasce in Inghilterra: i primi periodici sono “The Tatler” (1709-1711) e “Spectator”(1711-1714), fondati, rispettivamente, da Richard Steele e Joseph Addison. In Italia, il giornalismo si afferma con la “Gazzetta Veneta” (1760-1761) del veneziano Gasparo Gozzi (1713-1786). L’Illuminismo affida alla divulgazione il compito di educare le masse, in special modo con la pubblicazione dell’Encyclopédie (1751-1772) – diretta da Denis Diderot e Jean-Baptiste d’Alembert – che vuole essere una catalogazione generale di tutte le conoscenze alla luce delle nuove concezioni. In campo filosofico ma, anche a livello di mentalità diffusa, si afferma, sulla linea di sviluppo dell’empirismo inglese, il sensismo, dottrina che fa derivare ogni conoscenza dalle sensazioni esterne recepite dai sensi. Principale teorico ne è l’abate francese Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), secondo il quale (nel Saggio sull’origine delle conoscenze umane del 1746 e nel Trattato delle sensazioni del 1754) la base della conoscenza e tutta la vita psichica sono riconducibili alla sensazione: non esistono, cioè, idee che non derivino dai sensi, anche se il linguaggio permette all’uomo di comporre e scomporre i pensieri, generando la ragione. Squisitamente illuminista è anche la rivalutazione della natura, sia sul piano metafisico, sia sul piano storico e sociale: lo stato di natura coincide, soprattutto in Rousseau, con una condizione di umana innocenza, che l’umanità deve raggiungere nuovamente, ma su basi razionali, attraverso l’educazione, cui gli Illuministi attribuiscono un’importanza straordinaria. Un altro cardine del pensiero illuministico è costituito dal principio della tolleranza, sostenuto con grande decisione da Voltaire e da tutti gli enciclopedisti, contro ogni tipo di preclusione ideologica e di clima inquisitorio, che frenano il libero esercizio della ragione e della scienza. La tolleranza si basa sulla convinzione che le differenze di opinione tra gli individui, soprattutto in ordine ai problemi morali, siano ineliminabili, al di là di alcuni princìpi comuni molto generali, poiché infinite sono le cause, le variabili, le prospettive che influenzano i giudizi dei singoli uomini. Data perciò l’impossibilità di conseguire verità assolute e incondizionate, il rispetto della dignità altrui e il riconoscimento della libertà di pensiero diventano non solo un atto di buona volontà, ma anche strumenti razionali di convivenza civile. CAP. 8 - IL

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zionata di ciò che sta oltre i fenomeni percepiti dai sensi – è però capace di comprendere scientificamente le leggi che regolano, sul piano dell’esperienza, la vita e i meccanismi della natura. A Kant è dovuta anche la definizione forse più appropriata dell’Illuminismo: L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi della propria ragione senza la guida di un altro. […] Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza! Questo è il motto dell’Illuminismo (da Scritti politici, trad. di G. Solari e G. Vidali, UTET, Torino, 1965).

Le opere più importanti dell’Illuminismo

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Fra le opere di maggiore importanza dei filosofi dell’età dei lumi vanno ricordate, oltre alla

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La difesa della tolleranza si accompagna a una concezione ottimistica dell’individuo e della società: gli Illuministi sono accomunati dalla convinzione che la luce della ragione, col tempo, finirà per trionfare sulle tenebre dell’ignoranza, assicurando, mediante l’educazione, il graduale progresso sociale e soprattutto consentendo l’individuale ricerca della felicità, inclusa come diritto anche nel Preambolo alla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti (1776), ispirata dallo scienziato illuminista Benjamin Franklin (1706-1790). Gli Illuministi sono anche i primi filosofi della storia occidentale a praticare un radicale laicismo, inteso come rivendicazione di una piena autonomia della morale, basata sulla ragione, nei confronti della dimensione religiosa: da tale loro caratteristica, e dalla conseguente opposizione con l’ortodossia cattolica e le autorità religiose, nasce quel divorzio fra ragione e fede che influenzerà per secoli la filosofia europea.

già citata Enciclopedia, il saggio teorico e politico Lo spirito delle leggi, pubblicato nel 1748 da Charles de Secondat barone di Montesquieu (1689-1755), che afferma che la separazione dei poteri – legislativo, giuridico, esecutivo – è il fondamento della democrazia moderna; il Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, vero e proprio manifesto della democrazia, edito nel 1762; i numerosi contes philosophiques (“romanzi filosofici” con intento didascalico) fra cui Candido o l’ottimismo di Voltaire (1759), che è forse il testo più famoso e più esemplare del periodo. Vanno inoltre ricordati il Trattato sulla tolleranza (1763) di Voltaire, pamphlet lucido e appassionato che prende spunto da un tragico episodio di intolleranza religiosa, e l’Emilio (1762) di Jean-Jacques Rousseau, un trattato di pedagogia che propone un modello educativo basato sulla fiducia nella bontà naturale dell’uomo. Accanto a queste opere si deve ricordare il trattato Dei delitti e delle pene (1764) dell’italiano Cesare Beccaria, lucido atto d’accusa contro la tortura e la pena di morte, che ottiene immediatamente risonanza internazionale e si colloca fra i testi fondamentali dell’Illuminismo.

RAGIONE Gli Illuministi ritengono che ogni problema vada analizzato alla luce della ragione. Denis Diderot scrive che è necessario abbattere tutte le barriere non imposte dalla ragione. Il termine ragione, però, è usato anche da filosofi di altre epoche, con sfumature diverse e in contesti assai differenti. La novità in questo senso è che gli intellettuali illuministi attribuiscono al vocabolo un preciso significato: rifacendosi a Cartesio, essi intendono per ragione, anzitutto, quella facoltà, uguale in tutti gli uomini, che li distingue dagli animali e permette loro di conoscere la realtà. Vi sono, tuttavia, diversi approcci alla conoscenza della realtà: quello razionale, cui si riferiscono gli Illuministi, prende le mosse dai dati sensoriali e dall’esperienza, la cui elaborazione consiste nell’ordinare idee e pensieri, stabilendo rapporti e connessioni tra le conoscenze, secondo criteri sequenziali, logici e matematici. La conoscenza razionale così intesa nasce dalla integrazione tra razionalismo logico-matematico ed empirismo, tra forme pure della conoscenza razionale e dati dell’esperienza. È Kant a distinguere nell’attività della ragione una componente a priori e universale (le categorie dell’intelletto) e una componente a posteriori (i dati dell’esperienza): dalla combinazione di questi due elementi scaturisce il duplice carattere – empirico (fenomenico, legato alle percezioni sensibili) e universale (logico) – della conoscenza razionale. Le più recenti scoperte della scienza del XX secolo intorno alla struttura del cervello (in particolare, gli studi del Premio Nobel per la medicina nel 1981, lo statunitense Roger Sperry) attribuiscono solo a una parte della “macchina per pensare” dell’uomo, concentrata principalmente nell’emisfero cerebrale sinistro, le facoltà analitiche esaltate dagli Illuministi; l’altra metà, le cui funzioni si identificano soprattutto con l’emisfero destro, sviluppa ed elabora invece principalmente l’immaginazione, la fantasia, il sogno, le pulsioni emotive e sentimentali, cioè proprio quelle caratteristiche della vita psichica che molti Illuministi considerano spesso come ostacolo al corretto funzionamento della ragione logicomatematica. All’Illuminismo succederà e si contrapporrà il Romanticismo, che esalta appunto tali facoltà, ignorate o considerate con diffidenza da molti filosofi razionalisti.

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Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert

Questo passo è tratto dal Discours préliminaire (“Discorso preliminare”, 1751), vera e propria introduzione all’Enciclopedia, di Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert – che, con Denis Diderot, è il primo direttore dell’opera – e mette in luce la superiorità della ragione su ogni altra facoltà umana. Grande fisico e matematico ancor prima che filosofo, d’Alembert, esaminando analiticamente le tre facoltà della mente, afferma che esse dànno luogo a una sintesi di conoscenza che parte dalla catalogazione delle esperienze connessa alla memoria, va verso una riflessione su di esse legata alla ragione e giunge infine alla rielaborazione creativa collegata all’immaginazione. Egli conclude che la pura facoltà razionale è l’attività più elevata. Gli oggetti dei quali la nostra mente si occupa sono spirituali o materiali, e la nostra mente se ne occupa mediante idee dirette1 o idee riflesse. Il sistema delle conoscenze dirette può consistere soltanto nella collezione puramente passiva e come meccanica delle conoscenze stesse; è ciò che si definisce memoria. La riflessione è di due tipi, l’abbiamo già osservato; o ragiona sugli oggetti delle idee dirette, oppure li imita. Cosicché la memoria, la ragione propriamente detta e l’immaginazione sono le tre diverse funzioni secondo le quali la nostra mente opera sugli oggetti dei propri pensieri2. Non consideriamo qui l’immaginazione in quanto facoltà rappresentativa degli oggetti, perché tale facoltà non è altro che la memoria di tali oggetti sensibili, memoria che sarebbe continuamente in esercizio, se non potesse giovarsi dell’invenzione dei segni. Consideriamo l’immaginazione in un senso più nobile e preciso, in quanto talento di creare imitando. Queste tre facoltà3 formano anzitutto le tre fondamentali suddivisioni del nostro sistema e i tre oggetti fondamentali delle conoscenze umane: la storia, che si riferisce alla memoria; la filosofia, che è frutto della ragione; e le belle arti, che sorgono dall’immaginazione. Se anteponiamo la ragione all’immaginazione, quest’ordine ci appare ben fondato e conforme al naturale progresso delle operazioni dello spirito: l’immaginazione è una facoltà creatrice, e lo spirito, prima di creare, comincia col ragionare su quanto vede e conosce. Un altro motivo che ci deve indurre ad anteporre la ragione all’immaginazione è che, in quest’ultima facoltà dell’anima, le altre due si trovano fin ad un certo punto congiunte, e la ragione vi si fonde con la memoria. Lo spirito non crea né immagina oggetti che non siano simili a quelli che ha conosciuto mediante idee dirette o mediante sensazioni: quanto più si allontana da tali oggetti, tanto più bizzarri e sgradevoli sono gli esseri ch’esso costruisce4. Così, nell’imitazione della natura, l’invenzione stessa è soggetta a certe regole, le quali costituiscono principalmente la parte filosofica delle belle arti, finora alquanto imperfetta, perché soltanto il genio può compierla, e il genio preferisce creare piuttosto che discutere5. da Enciclopedia, a cura di P. Casini, Laterza, Bari, 1968

1. idee dirette: l’autore si riferisce alle idee che si formano dal diretto rapporto della mente umana con il mondo circostante. Le idee riflesse sono invece prodotte dall’elaborazione delle prime e rappresentano uno stadio successivo di conoscenza. 2. Cosicché... pensieri: le grandi creazioni dell’uomo, la Storia, la Filosofia e il variegato mondo dell’Arte, proverrebbero da tre facoltà dell’uomo ben distinte: la memoria, che organizza meccanicamente le conoscenze dirette, la ragione, che riflette su di esse, e l’immaginazione che crea imitando. 3. facoltà: le funzioni sono qui identificate in facoltà, intendendo con questo termine capacità, potenzialità psichi-

ca dell’uomo. 4. Lo spirito... costruisce: dall’affermazione dell’autore emerge con fermezza la concezione illuministica della natura come criterio di verità. In questo caso, la natura viene considerata anche criterio estetico per eccellenza: se un artista se ne discosta, la bizzarria e la sgradevolezza saranno gli attributi delle sue rielaborazioni. 5. il genio... discutere: la riflessione sulle arti, secondo l’autore, non è ancora così qualificata perché anch’essa, al pari della scienza, necessita della riflessione di uno spirito alto e versatile. Se uno spirito però è di tal natura, preferisce creare e non si occupa di riflettere sulle sue creazioni.

Comprensione 1. Come d’Alembert definisce la facoltà della memoria e qual è il suo campo di impiego? 2. Come viene definita l’immaginazione e quale ruolo ha per l’uomo? 3. Come viene definita la facoltà della ragione e perché viene anteposta all’immaginazione?

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Le facoltà della mente

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PHILOSOPHES

L’Illuminismo maturo di metà secolo si impegna nella battaglia per condizionare o riformare la società del proprio tempo attraverso le opere e la presenza di numerosi philosophes (“filosofi” per antonomasia: così vengono chiamati al loro tempo gli intellettuali illuministi) nell’ampio movimento di critica alle istituzioni tradizionali.

La critica alle istituzioni tradizionali In campo politico, l’Illuminismo – pur nell’articolazione delle posizioni al suo interno – tende a rifiutare l’assolutismo (salvo che nella forma del dispotismo illuminato) e condanna la teocrazia. Per lo più, crede allo Stato di diritto, fondato sul contratto sociale e sul riconoscimento dei diritti naturali di tutti gli uomini alla libertà e all’eguaglianza. In questo campo, una conquista importante è l’affermazione del principio della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), per evitare abusi e prepotenze; tale principio, fondamento del liberalismo, è formulato da Charles de Montesquieu (1689-1755) ed è tuttora alla base delle democrazie parlamentari del mondo occidentale. In campo religioso, l’Illuminismo polemizza soprattutto contro le istituzioni ecclesiastiche, ritenute causa di fanatismo e intolleranza e alleate del potere politico tradizionale nel sostenere l’oppressione. Si afferma per contro il deismo, che sostiene la possibilità di riconoscere l’esistenza di Dio con la sola ragione e nega la rivelazione delle religioni storiche, considerate dogmatiche e chiuse al dialogo; prevale la tendenza a sostenere, invece, la tolleranza verso tutte le credenze religiose particolari. Alcuni intellettuali si spingono infine verso posizioni atee e materialiste (fra i più noti, Julien de La Mettrie e Paul Henry d’Holbach); altri, come il filosofo Condillac e, in Italia, il poeta Giuseppe Parini, si professano cristiani, pur interpretando il credo religioso in un’ottica razionalista e spogliando la fede da ogni tendenza mistica e irrazionalista. In campo economico si impongono la fisiocrazia (con François Quesnay), che ritiene la produzione agricola fondamento dello sviluppo, e il liberismo (con Adam Smith): le due teorie partono da premesse diverse ma insieme rivendicano la completa libertà dell’economia dai vincoli fiscali e dal controllo dello Stato.

L’Enciclopedia Il tentativo più compiuto per incidere sul cambiamento di mentalità e per favorire il

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cambiamento sociale è la pubblicazione dell’Enciclopedia (il significato del termine, derivante dal greco, richiama il concetto etimologico di sapere circolare). Nel 1751 viene pubblicato il primo volume della grande Enciclopedia (o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, opera collettiva di letterati ), sintesi e punto d’arrivo delle concezioni illuministiche, diretta dal filosofo Denis Diderot (1713-1784) e dallo scienziato Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783). La monumentale opera è composta da molte migliaia di voci, organizzate alfabeticamente, che si riferiscono a tutti i campi del sapere. Scopo dichiarato è infatti presentare una sintesi delle conoscenze umane del tempo, a dimostrazione del potere e delle capacità della ragione umana. All’impresa editoriale collaborano numerosi specialisti, oltre a filosofi come Voltaire e Jean-Jacques Rousseau, Étienne de Condillac e Paul-Henry d’Holbach, autori le cui posizioni sono assai diverse, ma che sono accomunati dal progetto di classificare e rendere accessibile al pubblico, attraverso un’azione di consapevole divulgazione, tutto il sapere dell’epoca, allo scopo di promuovere il progresso spirituale, politico e tecnico-scientifico grazie, soprattutto, ai “lumi della ragione”. Nelle voci compilate da Denis Diderot emerge con particolare evidenza la concezione della filosofia come religione della ragione, la cui diffusione si ritiene preparerà una nuova epoca di progresso spirituale e, soprattutto, politico. La critica delle religioni rivelate, che si spinge fino a rivendicare l’autonomia della morale (fondata su basi razionali) dai princìpi religiosi, determina lo scoppio del conflitto con la Chiesa cattolica; la polemica contro le istituzioni politiche alimenta il contrasto con la corte e il parlamento, che ne interrompono la pubblicazione nel 1752. L’Enciclopedia riappare nel 1753 con un terzo volume, e negli anni successivi diventa occasione di acceso dibattito e di aperto scontro fino alla seconda crisi del 1759, dopo la quale, per gli attacchi mossi da diverse realtà del mondo culturale del tempo, gli ultimi volumi sono pubblicati clandestinamente fino al 1772 (tavole e supplementi vedono la luce fino al 1780); nell’elaborazione della parte finale dell’opera prevalgono sempre più direttamente i temi politici e sociali.

I tentativi di riforma Dalla presenza al loro fianco dei filosofi illuministi come consiglieri, e dall’indirizzo politico-amministrativo che emerge dalle voci dei volumi dell’Enciclopedia, nasce l’ispirazione che conduce i sovrani europei ad attuare le © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

le della Francia negli ultimi decenni del Settecento, si separeranno l’uno dall’altro e soprattutto si allontaneranno dalla moderazione caratteristica del pensiero illuministico delle origini per contrapporsi frontalmente al potere politico e religioso, in quella Rivoluzione francese che, a partire dal 1789, porterà alle estreme conseguenze i presupposti del movimento, giungendo – nello scontro violento fra il potere monarchico e i suoi oppositori – ad abbandonare, nell’età della ghigliottina, proprio l’ideale di tolleranza che del pensiero degli enciclopedisti rappresentava il caposaldo.

L’origine della disuguaglianza tra gli uomini

Jean-Jacques Rousseau

I passi di questo brano sono tratti dal saggio Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini con cui Jean-Jacques Rousseau risponde al concorso bandito nel 1754 dall’Accademia di Digione sul tema “Qual è l’origine della disuguaglianza tra gli uomini e se sia consentita dalla legge naturale”. In esso Rousseau traccia, in una poderosa sintesi, il millenario percorso dell’uomo dal primitivo stato di natura allo stato di civiltà, mettendo in luce le sue idee sulla proprietà privata e sull’origine dello Stato. Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare “questo è mio”, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti”. Ma è molto probabile che allora le cose fossero già arrivate al punto di non poter durare così com’erano; infatti quest’idea di proprietà, dipendendo da parecchie idee antecedenti che non sono potute nascere se non in successione di tempo, non si formò tutt’a un tratto nello spirito umano […] Il primo sentimento dell’uomo fu quello della sua esistenza, la sua prima cura quella della sua conservazione. I prodotti della terra gli fornivano tutto ciò che gli occorreva; l’istinto lo portò a farne uso. La fame e gli altri appetiti1 facendogli provare volta a volta diverse maniere di esistere, una ve ne fu che lo trasse a perpetuare la sua specie; e questa cieca tendenza, priva di qualunque sentimento, del cuore, dava luogo soltanto a un atto puramente animale. Appagato il bisogno, i due sessi non si riconoscevano più e persino il bambino, appena poteva fare a meno di lei, non era più niente per la madre. […] Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si limitarono a cucire le loro vesti di pelli con spine di vegetali o con lische di pesce, a ornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca o qualche rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro; da quando ci si accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu introdotta la proprietà, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la miseria. […] Solo contro tutti, non potendo unirsi, per via delle scambievoli gelosie, con i suoi pari contro dei nemici uniti dalla speranza del comune saccheggio, il ricco, incalzato dalla necessità, finì con l’ideare il progetto più avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo; di usare cioè a proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, di fare dei propri avversari i propri difensori, di ispirare loro altre

1. appetiti: desideri istintivi.

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CAP. 8 - IL

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riforme nei decenni del cosiddetto dispotismo o assolutismo illuminato: nell’Impero austriaco di Maria Teresa e di Giuseppe II, come nella Prussia di Federico II o nella Russia della zarina Caterina II, molti Illuministi indirizzano l’opera dei sovrani trasferendosi da una nazione all’altra perché, secondo la concezione cosmopolita (da “cittadini del mondo”) dei philosophes, ciò che conta è la maturazione della ragione e delle decisioni razionali, in qualunque nazione ciò avvenga. Gli ideali illuministici di libertà e uguaglianza, nella tumultuosa situazione politica e socia-

CULTURA

massime e di dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il diritto naturale2 gli era contrario. In questa prospettiva, dopo avere esposto ai suoi vicini l’orrore di una situazione che li armava tutti gli uni contro gli altri, che rendeva i loro possessi altrettanto onerosi dei loro bisogni, dove nessuna condizione, né povera né ricca, offriva sicurezza, inventò facilmente speciose3 ragioni per trarli ai suoi scopi. “Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna sottomettendo senza distinzione il potente ed il debole a doveri scambievoli. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci in un’eterna concordia”. Bastava molto meno di un discorso del genere per trascinare degli uomini grossolani, facili da lusingare, che, d’altra parte, avevano troppe questioni da dirimere tra loro per poter fare a meno di arbitri, e troppa avarizia e ambizione per potere a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero incontro alle catene convinti di assicurarsi la libertà […] Questa fu, almeno è probabile, l’origine della società e delle leggi, che ai poveri fruttarono nuove pastoie4 e ai ricchi nuove forze, distruggendo senza rimedio la libertà naturale, fissando per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, facendo d’una accorta usurpazione un diritto irrevocabile, e assoggettando ormai, a vantaggio di pochi ambiziosi, tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria. da Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, in Scritti politici, trad. a cura di M. Garin, Laterza, Bari, 1971

2. diritto naturale: complesso delle leggi che regolano i rapporti sociali. Secondo l’autore, è ispirato alla Natura stessa.

3. speciose: pretestuose, false. 4. pastoie: impedimenti, ostacoli.

Comprensione 1. Secondo Rousseau qual è la causa che originò la disuguaglianza e la conflittualità? 2. L’uomo nello stato di natura secondo Rousseau è malvagio e irrazionale o buono? 3. Quali sono, secondo l’autore, le conseguenze dell’apparizione della proprietà privata?

La bottega dello stampatore. Tavola dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert.

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CULTURA

Focus

LA VOCE TOLLERANZA

Riportiamo qui la prima parte dell’ampia voce sulla tolleranza presente nell’Enciclopedia: Tolleranza. La tolleranza in generale è la virtù di tutti gli esseri deboli destinati a vivere insieme ai loro simili. L’uomo, così grande per intelligenza, è tuttavia così limitato da errori e passioni, che non si farà mai abbastanza per ispirargli verso gli altri la tolleranza e la sopportazione di cui ha tanto bisogno per se stesso e senza cui sulla Terra non vi sarebbero che conflitti e disordini. Proprio per avere proscritto le dolci e concilianti virtù della tolleranza e della sopportazione, molte epoche sono state la vergogna e la sventura dell’umanità. E non c’è da sperare che senza queste virtù possiamo mai riuscire a ristabilire fra noi la pace e la prosperità. Sono indubbiamente molte le sorgenti delle nostre discordie: in ciò siamo fin troppo fecondi. Ma giacché è soprattutto in materia di credenze e di religione che i pregiudizi distruttivi trionfano con il massimo di influenza e di apparenti buone ragioni, quest’articolo si impegnerà a combattere proprio queste cause di discordia. Innanzi tutto fonderemo sui princìpi più evidenti la giustizia e la necessità della tolleranza; su questa base individueremo i doveri dei principi e dei sovrani. Che triste compito dover dimostrare agli uomini verità così chiare e così importanti che gli uomini possono negarle solo avendo rinnegato la loro natura! Ma se ancora oggi v’è chi chiude gli occhi all’evidenza e il cuore all’umanità, dovremo noi forse in quest’opera osservare un vile e colpevole silenzio? No; qualunque sia l’esito, osiamo almeno reclamare i diritti della giustizia e dell’umanità, e tentiamo ancora una volta di strappare al fanatico il pugnale e la benda al superstizioso. Entro in argomento con una riflessione molto semplice e tuttavia molto favorevole alla tolleranza: la ragione umana non ha una misura rigorosa e determinata; ciò che è evidente per uno è spesso oscuro per l’altro; sappiamo bene infatti che l’evidenza è una qualità relativa, che può dipendere dalla luce sotto la quale vediamo gli oggetti, o dal rapporto fra gli oggetti e i nostri organi sensoriali, o da un’altra causa qualunque; perciò un certo grado di luce, sufficiente a convincere l’uno, è insufficiente per un altro, di spirito meno pronto o diversamente disposto; ne consegue che nessuno ha il diritto di imporre per regola la sua ragione né di pretendere di assoggettare gli altri alle proprie opinioni. Pretendere che io creda secondo il vostro giudizio sarebbe proprio come esigere che io guardi con i vostri occhi. Ciascuno di noi ha la sua maniera di vedere e di pensare, che dipende ben poco da lui. […] Abbiamo, è vero, dei princìpi comuni sui quali andiamo abbastanza d’accordo; ma tali princìpi primi sono pochissimi. […] Ciascuno s’illude sulla certezza della sua posizione, senza riuscire a persuaderne gli altri.

L’ILLUMINISMO

IN ITALIA

Rispetto a quello francese, l’Illuminismo italiano è caratterizzato da una maggiore concretezza: vi fioriscono in particolare gli studi di economia, di politica, di agronomia e di diritto. Sul piano ideologico e politico, le scelte degli illuministi italiani sono orientate verso posizioni moderate: più spesso riformisti che rivoluzionari, essi giungono, pur rilevandone i limiti, ad accettare l’assolutismo. Sovente sono dei nobili che rifiutano i privilegi della loro classe; non raramente, sul piano religioso, riescono a conciliare la fede cattolica con l’adesione ai princìpi del più rigoroso razionalismo. I principali centri dell’Illuminismo italiano sono anche quelli in cui, sul piano politico, viene affermandosi un assolutismo illuminato: in primo luogo Milano, ma anche Napoli e la Toscana.

Milano e “Il Caffè” Milano è il centro più importante dell’Illuminismo settecentesco italiano ed è la città che instaura i rapporti più significativi con la cultura francese. Sotto il regno di Maria Teresa d’Austria e poi di suo figlio Giuseppe II, la Lombardia attraversa un periodo di moderniz© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

zazione e di sviluppo, favorito dall’intelligente politica di riforme dei governi austriaci. L’aristocrazia lombarda asseconda in larga misura le trasformazioni (diversamente da quanto accade in altre regioni): molti appartenenti al ceto nobiliare si trasformano in imprenditori, iniziando a sfruttare in modo razionale e moderno le loro stesse proprietà terriere e svolgendo così un ruolo che in altri Paesi è proprio della borghesia; altri cooperano con il governo austriaco, portando a compimento, con abilità e intelligenza, gli incarichi amministrativi che vengono loro affidati. Dalla nobiltà colta, attiva e progressista provengono gli esponenti più illustri dell’Illuminismo milanese, come Cesare Beccaria – autore del fondamentale trattato Dei delitti e delle pene – e i fratelli Pietro e Alessandro Verri, che sono i fondatori e i principali animatori dapprima dell’Accademia dei Pugni (1761) e poi del periodico “II Caffè” (1764-1766), punto di riferimento dei circoli illuministi milanesi. “Il Caffè”, di cui escono complessivamente, con cadenza trimestrale, 74 numeri di otto pagine ciascuno, si ispira al modello del giornalismo inglese; con esso i fratelli Verri vogliono farsi promotori di una cultura moderna e dinamica, centrata sulla ricerca dell’utile e del CAP. 8 - IL

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CULTURA

nuovo, ma lontana da ogni pedanteria: a questa concretezza è ispirato anche il titolo della testata, che allude alle conversazioni tenute fra gli avventori di una bottega di caffè. Al giornale collaborano numerosi intellettuali illuministi, affrontando scottanti temi politici ed economici della società del tempo. Grande importanza, in particolare, è attribuita alla pedagogia: i collaboratori del giornale sono infatti certi che la natura umana sia fondamentalmente buona, ma traviata dalle distorte strutture sociali e dalle abitudini che ne derivano; una giusta educazione non potrà dunque che assecondare le inclinazioni naturali, producendo cittadini capaci di usare i lumi della ragione e rispettosi della libertà e dei diritti degli altri. “Il Caffè” è il primo giornale italiano in cui non si parli primariamente di letteratura, ma di temi pratici; non a caso il motto del periodico è: Non parole, ma cose. Anche le scelte stilistiche dei collaboratori, impegnati tutti nella ricerca della chiarezza e della linearità, si ispirano ad un’idea anticlassicista e soprattutto antipedantesca della letteratura. La nascita del “Caffè” segna una tappa importante nelle vicende della cultura italiana, anche al di là del contributo che la rivista dà alla politica dell’assolutismo illuminato, perché propone una forma di comunicazione letteraria e divulgativa che rompe con la tradizione sia nel contenuto sia nel linguaggio, ponendo con forza l’obiettivo di una cultura ancorata ai

Focus

problemi concreti della società. La pubblicazione diventa il centro di un’elaborazione teorica di vasto respiro, che prende spunto dalle più concrete questioni pratiche per discutere, sviluppare e far conoscere i temi di fondo del pensiero illuminista.

L’ILLUMINISMO NAPOLETANO

Le radici culturali dell’Illuminismo napoletano sono da ricercare nella tradizione di pensiero laico e giurisdizionalista degli intellettuali partenopei, il cui massimo esponente è Pietro Giannone (1676-1748), nel periodo in cui Carlo III di Borbone, con il suo ministro Bernardo Tanucci, avvia una coraggiosa politica di riforme giuridiche e amministrative per riformare una legislazione quasi interamente ancorata a presupposti di stampo feudale. Antonio Genovesi (1713-1769), uno dei fondatori dell’economia politica in Italia, auspica che una società possa sussistere, sul piano economico, senza dover dipendere dalle altre, ed afferma di conseguenza la necessità di adeguate politiche protezionistiche. L’abate Ferdinando Galiani (1728-1787) nei Dialoghi sul commercio dei grani (1770) spiega, correggendo le tesi radicalmente liberiste dei fisiocratici, che il grano non è una merce come le altre e deve essere quindi sottoposto ad una legislazione vincolistica, allo scopo di impedire eccessivi rincari e disordini civili. Gaetano Filangieri (1752-1788), nel trattato La scienza della legislazione (1782-1786), delinea gli elementi di una radicale riforma della procedura penale e di una nuova codificazione legislativa, volta ad eliminare gli ostacoli che impediscono agli uomini il raggiungimento della felicità. Sul piano economico Filangieri auspica la libertà del commercio, ma ritiene che la ricchezza della società sia fondata in primo luogo sulla produzione agricola. Mario Pagano (1748-1799), discepolo di Genovesi, muore giustiziato dopo la Rivoluzione napoletana del 1799, alla quale prende parte attiva. Nei suoi Saggi politici (1783-1785) si rifà sia al pensiero di Vico sia a quello di Rousseau, affermando che se gli Stati sono ciclicamente caratterizzati da nascita, crescita e morte, ciò avviene perché a un certo punto le leggi entrano inevitabilmente in contrasto con il desiderio di libertà individuale, fondato su un irrefrenabile anelito allo stato di natura.

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Pietro Verri

Con questo articolo di presentazione, scritto da Pietro Verri, il 1° giugno 1764 esce il primo numero del “Caffè”. Vi si danno informazioni sulla cadenza delle uscite del periodico e se ne annunciano i contenuti, lo stile e le finalità. Per spiegare le ragioni del titolo, poi, l’autore introduce un personaggio e la sua bottega del caffè, trasparenti allegorie della rivista stessa – come luogo di incontro e di utile e piacevole discussione – e dei suoi promotori. Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi fogli? Con ogni stile che non annoi. E sin quando fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio1. Se il pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta; se poi il pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini divertendoli, come già altrove fecero e Steele e Swift e Addisson e Pope2 ed altri. Ma perché chiamate questi fogli il Caffè? Ve lo dirò; ma andiamo a capo. Un greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea3 e Candia4, mal soffrendo l’avvilimento e la schiavitù in cui i Greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani5 hanno conquistata quella contrada, e conservando un animo antico6 malgrado l’educazione e gli esempi, son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse città commercianti, da noi dette le scale del Levante7, egli vide le coste del Mar Rosso e molto si trattenne in Mocha8, dove cambiò parte delle sue merci in caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno9 sen venne in Milano, dove son già tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè che merita il nome veramente di caffè; caffè vero verissimo di Levante e profumato col legno d’aloe10, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo11 della terra, bisogna che per necessità si risvegli e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tepida e profumata che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’irride negli specchi e ne’ cristalli12 sospesi intorno le pareti e in mezzo alla bottega; in essa bottega chi vuol leggere trova sempre i fogli di novelle13 politiche, e quei di Colonia e quei di Sciaffusa e quei di Lugano14 e vari altri; in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso e il Giornale enciclopedico15 e l’Estratto della letteratura europea16 e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco Europei; in essa bottega v’è di più un buon atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche; in essa bottega per fine17

1. spaccio: smercio. 2. Steele… Pope: gli scrittori e giornalisti Richard Steele (1672-1729) e Joseph Addison (1672-1719), fondatori del periodico “The Spectator” (“Lo spettatore”), che uscì fra il 1711 e il 1714 e fu un punto di riferimento per tutto il giornalismo europeo del Settecento; il celebre romanziere Jonathan Swift (1667-1745), autore dei Viaggi di Gulliver; il poeta Alexander Pope (1688-1744), noto soprattutto per il poemetto Il ricciolo rapito (tradotto anche in Italia). Tutti gli autori inglesi citati sono ritenuti da Pietro Verri modelli di prosa giornalistica polemica e vivace. 3. Morea: nome con cui nel Medioevo era conosciuta la regione greca del Peloponneso. 4. Candia: antico nome dell’isola di Creta. 5. Ottomani: i Turchi ottomani, che fra XV e XVI secolo hanno conquistato, con la Grecia, l’intera penisola balcanica. 6. antico: amante della libertà e fiero come quello dei suoi antentati. 7. scale del Levante: scali, porti del Levante.

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8. Mocha: Moca o Moka (in arabo al-Mukha), città dello Yemen, posta sulle coste del Mar Rosso, in cui si produce un caffè di grande pregio. 9. Livorno: all’epoca, scalo delle navi per l’Oriente. 10. aloe: essenza aromatica. 11. plombeo: plumbeo, cioè grigio e triste. 12. brilla… ne’ cristalli: i bordi degli specchi e i cristalli, riflettendo la luce delle candele, producono un effetto simile a quello di un prisma, con tutti i colori dell’iride. 13. fogli di novelle: giornali di notizie. 14. di Colonia… di Sciaffusa… di Lugano: si fa riferimento, rispettivamente, alla “Gazette de Cologne”, alla “Gazette allemande de Schaffouse” e ai “Fogli di novelle politiche di Lugano”. 15. Giornale enciclopedico: il “Journal Encyclopédique”, periodico francese, voce degli enciclopedisti. 16. Estratto della letteratura europea: periodico pubblicato in Svizzera in lingua italiana. 17. per fine: infine.

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“Il Caffè” e il suo programma

CULTURA

si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari, così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di caffè. da Il Caffè, 1764-1766, a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Bollati Boringhieri, Milano, 1993

Comprensione 1. Perché il nuovo giornale viene intitolato “Il Caffè”? 2. Quali sono gli scopi del giornale secondo Pietro Verri? 3. Quali sono i contenuti programmatici del periodico?

Contro la pena di morte e la tortura

Cesare Beccaria

Dei delitti e delle pene è un’opera che attesta la modernità dell’Illuminismo lombardo. Beccaria vi esprime una dura requisitoria nei confronti della legislazione del tempo, accusata di essere chiusa a qualsiasi “lume” dell’intelletto, e sostiene, con argomentazioni razionali, l’abolizione della pena di morte, ritenuta né utile, né necessaria, e della tortura, in quanto lesiva della dignità dell’uomo e, inoltre, inefficace. Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità1 di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile2, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione3. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei maggiori, massimamente quando l’impunità, che l’avarizia4 e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti; per fuggir la pena di un solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario5. Sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi. A misura che i supplicii diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che gli circondano6, s’incalliscono7, e la forza sempre viva delle passioni fa che, dopo cent’anni di crudeli supplicii, la ruota8 spaventi tanto quanto prima la prigionia. Perché una pena ottenga il suo effetto, basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male, deve essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico. [...] Due altre funeste conseguenze derivano dalla crudeltà delle pene, contrarie al fine medesimo di prevenire i delitti. La prima è che non è sí facile il serbare la proporzione essenziale tra il delitto e la pena, perché, quantunque un’industriosa crudeltà ne abbia variate moltissimo le specie9, pure non possono oltrepassare quell’ultima forza10, a cui è limitata l’organizzazione e la sensibilità uma-

1. infallibilità: efficacia, ma soprattutto certezza di una loro applicazione. 2. inesorabile: che non concede tregua al colpevole. 3. dolce legislazione: legislazione mite, non esageratamente severa né repressiva. 4. avarizia: avidità di denaro, che può portare un magistrato a lasciarsi corrompere. 5. I paesi… sicario: Beccaria stabilisce un sintetico paragone tra legislazione e costumi della nazione; egli sostiene che, quanto più la legislazione è feroce, tanto più i costumi

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degli uomini che la abitano si deteriorano. 6. come… circondano: osservazione mutuata dalla fisica: è il principio dei vasi comunicanti. 7. s’incalliscono: si induriscono. 8. la ruota: è uno strumento di tortura. Beccaria è convinto che l’uomo si abitui nel tempo alle pene previste dalla legislazione della sua nazione. 9. le specie: le tipologie della pena stessa. 10. quell’ultima forza: è l’estrema capacità di sopportazione della pena stessa.

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da Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965 11. Chi… eseguiti?: a questo punto si nota un brusco cambiamento di registro: da uno stile obiettivo, pacato, l’autore passa all’espressione di un sentimento di indignazione per gli errori legislativi del passato.

12. Chi… molti: è un attento richiamo dell’uomo di cultura illuminista al carattere ingiusto di molta legislazione, che sostiene i privilegi delle minoranze.

Comprensione 1. Quale significato preciso Beccaria dà ai termini di: pena, delitto, infallibilità, prevenzione, libertà? 2. Qual è, secondo Beccaria, la reazione psicologica del criminale nei confronti della paura della pena? 3. Quali sono le tesi principali che Beccaria sostiene nel brano?

I NODI CONCETTUALI DELL’ILLUMINISMO

PRINCÌPI GENERALI

• • • • • • • • • • • •

Critica della tradizione in tutti i campi culturali. Centralità della ragione nell’indagine sul mondo. Cosmopolitismo. Egualitarismo. Deismo. Sensismo. Ottimismo. Recupero del classicismo. Integrazione dei campi culturali. Sapere circolare. Positività dello stato di natura. Separazione dei poteri politici.

INTERESSE PER

• • • • • • • •

La realtà materiale. Le scoperte scientifiche. Il cambiamento della società. Le riforme. Le teorie politiche. La diffusione della cultura. La divulgazione. La letteratura sociale e pedagogica.

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CAP. 8 - IL

SECOLO DELLA RAGIONE

- CULTURA

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CULTURA

na. Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe a’ delitti più dannosi e più atroci pena maggiore corrispondente, come sarebbe d’uopo per prevenirgli. L’altra conseguenza è che la impunità stessa nasce dall’atrocità dei supplicii. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, sì nel bene che nel male, ed uno spettacolo troppo atroce per l’umanità non può essere che un passeggiero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi; che se veramente son crudeli, o si cangiano, o l’impunità fatale nasce dalle leggi medesime. Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti che da uomini, che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti?11 Chi può non sentirsi fremere tutta la parte la più sensibile nel vedere migliaia d’infelici che la miseria, o voluta o tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed oltraggiato i molti12, trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla timida ignoranza, o rei non d’altro che di esser fedeli ai propri principi, da uomini dotati dei medesimi sensi, e per conseguenza delle medesime passioni, con meditate formalità e con lente torture lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine?

LETTERATURA

LETTERATURA Sul piano letterario, il Settecento va suddiviso per grandi linee in due fasi: quella arcadica (che occupa, grosso modo, la prima metà del secolo) e quella illuministica. Nella letteratura arcadica e nel razionalismo erudito del primo Settecento si esprimono le nuove istanze dell’età post-barocca, mentre nel secondo Settecento acquista sempre più importanza la nuova corrente di pensiero diffusasi in tutta l’Europa, l’Illuminismo, che si aprirà, verso la fine del secolo, al gusto neoclassico e, infine, a tendenze che già anticipano la sensibilità romantica.

I

RAPPORTI TRA

ARCADIA

E

BAROCCO

L’Arcadia – che prende nome dall’Accademia romana dell’Arcadia, costituita nel 1674 dalla regina Cristina di Svezia e ufficialmente ribattezzata Accademia degli Arcadi nel 1690 – rappresenta la tendenza che si oppone sia al Barocco sia al Marinismo. Gli Arcadi si dichiarano

restauratori della poesia italiana, per liberarla dalla barbarie dell’ultimo secolo, e si dicono decisi a sconfiggere il malgusto dovunque si trovi. Essi contrappongono alle metafore, al concettismo e alle oscurità della lirica del Seicento un’attenzione semplice e spontanea per la realtà, che deve tradursi in un linguaggio limpido e preciso, ed individuano la via per il risanamento letterario e poetico in un ritorno alla tradizione classica che i Marinisti hanno avversato e che essi invece giudicano un esempio di equilibrio morale e di conseguente misura stilistica. L’Arcadia si differenzia però anche dal razionalismo del tempo soprattutto nella scelta dei contenuti, che si ricollegano ai temi e ai personaggi della poesia bucolica di Teocrito e di Virgilio. Il termine stesso di Arcadia assume il significato simbolico di serena e felice dimora di pastori, fuori dal tempo e deputato agli ozi poetici, il cui emblema è la zampogna pastorale di Pan, dio dei boschi.

Donato Creti, Scena campestre, 1720-1730 circa. Bologna, Pinacoteca Nazionale.

222 CAP. 8 - IL SECOLO DELLA RAGIONE - LETTERATURA

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L’EVOLUZIONE

DEL ROMANZO EUROPEO

Nato con il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes (1547-1616) o, secondo altri studiosi, già con il Gargantua e Pantagruele di François Rabelais (1494-1553), il romanzo moderno nel Settecento si evolve con il conte philosophique – la “narrazione filosofica” degli illuministi francesi, già anticipata in Inghilterra –, con il filone verosimile sentimentale, con la narrazione avventurosa, e si prepara alla grande fioritura dell’Ottocento. Rinasce, nel Settecento, il romanzo epistolare (in cui le lettere costituiscono il mezzo attraverso il quale il lettore conosce le vicende), che trova una compiuta espressione nelle Lettere persiane (1721) del francese Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu (16891755): due immaginari visitatori persiani, Usbek e Rica, giunti a Parigi durante il regno di Luigi XV, inviano agli amici delle lettere che descrivono in forma satirica gli usi parigini, le ingiustizie evidenti della vita politica e sociale, le incongruenze e assurdità del diritto, dei costumi, della moda di quella che, ai tempi, era la nazione più importante d’Europa. Il successo del romanzo epistolare e sentimentale è sancito da Pamela (1740) dell’inglese Samuel Richardson (1689-1761), mentre La nuova Eloisa (1761), del filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), narra dell’infelice amore del precettore Saint-Preux per la sua allieva Julie, nobile e di famiglia altolocata, ispirandosi alla tragica vicenda del filosofo medievale Abelardo innamorato della sua allieva Eloisa. In ambito già preromantico si situa I dolori del giovane Werther (1774) del tedesco Johann Wolfgang von Goethe © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

(1749-1832), al cui centro si colloca la vicenda dell’amore irrealizzabile del protagonista, che si conclude con il suo suicidio. Nell’ambito del conte philosophique, ideato dagli illuministi francesi per divulgare la propria concezione della realtà – il genere è praticato anche dal curatore dell’Enciclopedia, Denis Diderot – si distinguono i romanzi di Voltaire (1694-1778). Il capolavoro, la narrazione a tesi Candido o l’ottimismo, descrive l’educazione alla vita del giovane Candido. L’opera può essere letta come un romanzo di formazione, che racconta la lenta maturazione psicologica e intellettuale del protagonista: l’ottimismo di Pangloss e il pessimismo di Martino rappresentano i due estremi verso cui Candido oscilla, nella permanente e mai del tutto soddisfatta ricerca della verità in se stesso e nel mondo. Appartiene alle narrazioni a tesi anche l’Emilio o Dell’educazione (1762) del filosofo Jean-Jacques Rousseau, che, a metà fra romanzo e trattato pedagogico, propone in campo educativo la teoria del bon sauvage (“buon selvaggio”), sostenendo che la società fa degenerare l’uomo, originariamente innocente. Alcuni critici considerano narrazioni filosofiche anche i romanzi avventurosi, verosimili o fantastici, di molti autori inglesi. L’autore più celebre è Daniel Defoe (16601731), con il capolavoro Robinson Crusoe (1719). Inglese è anche Jonathan Swift (16671745), che nel celebre romanzo d’avventura, a sfondo fantastico e filosofico, I viaggi di Gulliver, pubblicato nel 1726, capovolge la concezione ottimistica di Defoe per mettere in luce i paradossi e le assurdità dell’esistenza umana e del vivere sociale. Henry Fielding (1707-1754) in Tom Jones (1749) inaugura il genere del moderno romanzo di formazione, ponendo al centro della narrazione la crescita psicologica del protagonista, che, cacciato ingiustamente dalla casa del ricco possidente Allworthy in cui è cresciuto, conosce mille disavventure, fra cui l’esperienza del carcere, prima di essere riconosciuto figlio della sorella di Allworthy, diventarne l’erede e sposare l’amata Sophia. Di straordinaria modernità è la narrativa di Laurence Sterne (1713-1768), che in trame ricche di divagazioni come Vita e opinioni di Tristram Shandy (1760-1767) e Viaggio sentimentale (1768) fa ampio uso dell’ironia per costruire opere in un certo senso sperimentali, fondate su un’intelligente parodia dei generi narrativi in voga.

LA

RIFORMA DEL TEATRO

Nel Settecento in Italia due sono le personalità che influenzano il teatro: il veneziano Carlo Goldoni (1707-1793), che applica alla commeCAP. 8 - IL

SECOLO DELLA RAGIONE

- LETTERATURA

223

LETTERATURA

L’Arcadia, pur distinguendosi dal razionalismo settecentesco, si pone tuttavia con esso in un preciso rapporto di continuità e complementarità. L’Illuminismo infatti si innesta sul razionalismo della prima metà del secolo; soprattutto, poi, l’imitazione del classicismo in funzione antibarocca, tipico degli Arcadi, implica un richiamo alla chiarezza razionale ed evolverà nel Neoclassicismo del tardo Settecento. Alcune posizioni estetiche dei teorici del periodo arcadico, come Ludovico Muratori o Gian Vincenzo Gravina, e soprattutto di un genio isolato come Giambattista Vico, oltre a intrecciarsi al pensiero illuministico anticipano addirittura aspetti del Preromanticismo tardo settecentesco. Nella seconda metà del secolo, infine, continueranno a scrivere poeti legati a posizioni arcadiche e influenze dell’Arcadia si possono rintracciare anche in autori di matrice illuminista come Giuseppe Parini.

LETTERATURA

dia le istanze razionali dell’Illuminismo, attuando un rinnovamento che chiuderà la stagione della commedia dell’arte e inaugurerà una nuova fase del teatro europeo, e l’astigiano Vittorio Alfieri (1749-1803), illuminista e al tempo stesso anticipatore di concezioni romantiche, tragediografo in versi che intreccia alcune caratteristiche del Neoclassicismo alla sensibilità individualista, libertaria e sentimentale che connoterà il nuovo movimento romantico, destinato a influenzare l’Ottocento europeo. Goldoni segna una svolta epocale nel teatro comico del suo tempo, in cui domina la commedia dell’arte, basata sull’improvvisazione del capocomico e sulla bravura degli attori, sulla presenza delle maschere, ormai ridotte a ripetitivi stereotipi. Lo scrittore veneziano introduce gradualmente un nuovo genere di commedia di impianto razionale e realistico, costruita sulla partizione in atti e scene ispirata al modello classico, sulla riproposizione del ruolo dell’autore, creatore del testo teatrale scritto (il copione, suddiviso in atti e scene e composto da battute e didascalie), su personaggi tratti dalla vita reale e vicende verosimili. La riforma goldoniana, fin dalla sua esplicita espressione nel 1750, è oggetto di molte critiche e non ha vita facile nella Venezia e nell’Italia settecentesca. I detrattori di Goldoni – fra i quali Carlo Gozzi (1720-1806), anch’egli autore di opere teatrali e convinto avversario dell’Illuminismo – la attaccano in nome della difesa della tradizione, di un teatro fondato su maschere e personaggi amati per abitudine dal pubblico e, soprattutto, in nome di contenuti favolistici. Goldoni si propone invece, coerentemente con la concezione pedagogica dell’arte tipica dell’Illuminismo, di educare, proponendo valori etici fondati sul senso della misura, sul sereno realismo, sull’indulgenza, la moderazione, la tolleranza e la comprensione per i difetti umani e, infine, sull’operoso ottimismo. Non solo per Venezia e l’Italia, ma per l’Europa intera, la riforma del teatro realizzata da Goldoni – che conclude la propria vita alla corte di Francia – rappresenta una pietra miliare per tutti gli autori che si cimenteranno nel genere dopo di lui.

LA

POESIA IN ITALIA

La poesia arcadica rispecchia i valori della società elegante e mondana del primo Settecento europeo: frivola e soddisfatta di sé, essa

224 CAP. 8 - IL SECOLO DELLA RAGIONE - LETTERATURA

vuole evitare di porsi grandi problemi, e nei versi cerca soprattutto uno svago edonistico. Esistono però anche autori di notevole spessore morale. In Italia, emerge il lombardo Giuseppe Parini (1729-1799), che esprime nei suoi versi le istanze dell’Illuminismo, integrate e non contrapposte alla tradizione classica e alla fede religiosa. La poetica di Parini si pone nella scia di grandi autori del passato – da Orazio a Virgilio, da Dante e Petrarca a Tasso – permeata, però, di concezioni sensistiche e cristiane. Per l’autore la poesia ha funzione edonistica e insieme pedagogica e di educazione morale: essa deve suscitare piacere e, contemporaneamente, educare. Maestro nell’uso dell’ironia, Parini – soprattutto nel suo capolavoro, il poemetto Il Giorno – può essere considerato uno dei maggiori poeti moralisti della letteratura moderna, dello stesso calibro degli autori satirici classici. Dopo una prima adesione al movimento arcadico, Parini sviluppa il classicismo in una direzione innovativa, intendendo il lavoro poetico come equilibrio fra la ricerca della perfezione formale e il conseguimento dell’utile come apertura, in chiave didascalica, a istanze e argomenti di carattere morale e civile, sulla base di una ispirazione umanitaria più che politica. Notevole è la sua capacità di sintesi fra lo spirito moderno con cui egli osserva le problematiche del suo tempo e l’espressione letteraria di carattere classicista, integrata con uno stile spesso finemente ironico. L’interesse nei confronti delle classi sociali si concentra soprattutto sulla nobiltà, al cui interno l’autore individua modelli esemplari di quel comportamento egoistico e frivolo che intende combattere. Pur senza assumere posizioni rivoluzionarie, Parini indirizza dunque la sua critica morale contro l’aristocrazia, ispirato sia dalle concezioni evangeliche sia da valori illuministici come il senso della giustizia e dell’onestà, il rispetto della laboriosità e dell’ingegno, l’apprezzamento dell’uguaglianza. La poesia in Parini diventa coscienza morale della società, che satireggia i costumi nella speranza di contribuire a cambiare i comportamenti individuali. L’intensità del senso etico e l’alta funzione che Parini affida alla poesia indurranno Ugo Foscolo e molti autori del secolo successivo a trasformare lo scrittore lombardo in simbolo del nuovo intellettuale.

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Giuseppe Parini

Quando legge il Discorso sopra la poesia all’Accademia dei Trasformati, Giuseppe Parini accoglie i princìpi del sensismo, conciliandoli con l’esigenza arcadica di buon gusto e con gli ideali classici della piacevole utilità e dell’eleganza formale: la poesia ha il compito di interessare il lettore per promuoverne l’educazione. Oggetto specifico del Discorso sono gli scopi della poesia. Essa, secondo Parini, deve operare alla luce della verità, in nome della ragione, senza trascurare l’aspetto formale, ponendosi come fine immediato il diletto e la bellezza, a loro volta fautori di verità, moralità e civiltà. Io credo, appoggiandomi all’autorità de’ migliori maestri, esser la poesia1 l’arte d’imitare o di dipingere in versi le cose in modo che sien mossi gli affetti2 di chi legge od ascolta, acciocché3 ne nasca diletto. Questo è il principal fine della poesia, e di qui ha avuto cominciamento4. […] Questa sola universalità adunque di essa, siccome dimostra non esser la poesia una di quelle arti che dall’uno all’altro popolo si sono comunicate, ma che sembra in certo modo appartenere all’essenza dell’uomo; così a me par bastevole per sé medesima a dimostrare che un vero, reale e fisico diletto produca la poesia nel cuore umano; non potendo giammai essere universale ciò che non è per sé bene, ma soltanto lo è relativamente. […] Che se altri richiedesse se la poesia sia utile o no, io a questo risponderei ch’ella non è già necessaria come il pane, né utile come l’asino o il bue; ma che, con tutto ciò, bene usata, può essere d’un vantaggio considerevole alla società. E, benché io sia d’opinione che l’instituto5 del poeta non sia di giovare direttamente, ma di dilettare, nulladimeno6 son persuaso che il poeta possa, volendo, giovare assaissimo. […] Egli è certo che la poesia, movendo7 in noi le passioni, può valere a farci prendere abborrimento8 al vizio, dipingendocene la turpezza, e a farci amar la virtù, imitandone la beltà. E che altro fa il poeta che ciò9, collo introdurre sulla scena i caratteri lodevoli e vituperevoli10 delle persone? Per qual altro motivo crediamo noi che tante ben regolate repubbliche mantenessero dell’erario comune i teatri?11 Solamente per lo piccolo fine di dare al popolo divertimento? Troppo male noi penseremmo delle saggie ed illuminate menti de’ loro legislatori. Il loro intento si fu di spargere, per mezzo della scena, i sentimenti di probità, di fede, di amicizia, di gloria, di amor della patria, ne’ lor cittadini; e finalmente di tener lontano dall’ozio il popolo, in modo che non gli restasse tempo da pensare a dannosi macchinamenti12 contro al governo, e perché, trattenuto in quelli onesti sollazzi, non si desse in preda de’ vizi alla società perniciosi13. […] Perciò non ognuno può esser poeta, come ognuno può esser medico e legista14. Non a torto si dice che il poeta dee nascere15. Egli dee aver sortito16 dalla natura una certa disposizione degli organi17 e un certo temperamento che il renda abile a sentire in una maniera, allo stesso tempo forte e dilicata, le impressioni degli oggetti esteriori; imperocché18 come potrebbe dilicatamente o fortemente dipingerli ed imitarli chi per un certo modo grossolano ed ottuso le avesse ricevute19? La poesia che consiste nel puro torno del pensiero20, nella eleganza dell’espressione, nell’armonia del verso, è come un alto e reale palagio che in noi desta la maraviglia ma non ci penetra al cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è un grazioso prospetto21 della campagna, che ci allaga e ci inonda di dolcezza il seno. da Poesie e prose, a cura di L. Caretti, Ricciardi, Milano-Napoli, 1951 1. esser la poesia: che la poesia sia. 2. affetti: sentimenti, emozioni. 3. acciocché: affinché. 4. cominciamento: origine. 5. instituto: compito. 6. nulladimeno: tuttavia. 7. movendo: suscitando. 8. abborrimento: disgusto, ripugnanza. 9. che ciò: se non questo. 10. vituperevoli: spregevoli. 11. ben regolate… i teatri?: allude alle antiche città greche, i cui governi utilizzavano parte del denaro pubblico (erario comune) per allestire spettacoli teatrali. 12. macchinamenti: congiure, piani sovversivi.

13. perniciosi: dannosi. 14. legista: esperto di diritto. 15. il poeta… nascere: poeta si nasce, si è per natura. 16. sortito: ricevuto in sorte. 17. disposizione degli organi: predisposizione degli organi di senso. 18. imperocché: infatti. 19. le avesse ricevute: cioè, avesse ricevuto le impressioni degli oggetti esteriori, della realtà circostante. 20. torno del pensiero: giro di pensiero, ragionamento; Parini vuol dire che la poesia non può consistere in un bel ragionamento fine a se stesso, per quanto di alto profilo logico. 21. prospetto: veduta, rappresentazione.

Comprensione 1. Quali sono, secondo Parini, le principali finalità della poesia? 2. Che cosa si dice nel brano a proposito del talento poetico?

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CAP. 8 - IL

SECOLO DELLA RAGIONE

- LETTERATURA

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LETTERATURA

L’utilità della poesia

LETTERATURA

IL NEOCLASSICISMO Nel 1764 viene pubblicata a Dresda la Storia dell’arte nell’antichità del tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), opera che risulta decisiva per l’affermazione di quella svolta nel gusto delle arti che è stata ribattezzata Neoclassicismo, tendenza destinata a condizionare lo sviluppo della civiltà, dell’arte, della letteratura e della cultura del tardo Settecento e del primo Ottocento in tutta Europa. Se, in senso lato, il termine neoclassico indica qualsiasi progetto di recupero della cultura del mondo antico, in senso storicamente determinato il Neoclassicismo settecentesco è un movimento che influenza non solo l’arte e la letteratura europee, ma anche i costumi, la moda, l’arredamento e le arti minori in genere. Il Neoclassicismo si oppone al Barocco proponendo una concezione classicista dell’arte, fondata sulla linearità, sulla misura, sull’armonia e sul decoro, secondo un’ispirazione che si ricollega soprattutto ai modelli greci. Il classicismo del secondo Settecento viene alimentato anche dallo straordinario interesse suscitato nell’opinione pubblica dagli scavi archeologici iniziati attorno al Vesuvio (nelle città di Ercolano, nel 1738, e Pompei, nel 1748). Dall’ammirazione per le opere riportate alla luce deriva un culto dell’antichità classica considerata, in chiave mitica, come epoca perfetta in cui l’arte espresse una bellezza superiore a quella di ogni altra; compito dei moderni è perciò assumerla come modello e imitarla, educando nel contempo i sentimenti ai valori della saggezza, dell’eroismo, alla stoica compostezza, indicati nelle lettere di Winckelmann come eterni esempi di virtù che salvano l’uomo dall’angoscia per la caducità e dal sentimento doloroso della brevità della vita. Al centro della concezione di Winckelmann sta la fondamentale tensione a rivalutare, nelle arti, la figura dell’uomo e la sua bellezza sublime, libera da ogni artificioso ornamento: da ciò deriva l’amore neoclassico per il nudo. L’uomo è il fulcro della rappresentazione artistica, in quanto espressione di una naturalezza bella e ideale, a condizione che la sua bellezza sia, come nei capolavori greci, nobilmente semplice, proporzionata, tranquillamente grande. I canoni del Neoclassicismo riaffermati da Winckelmann sono perciò la nobile semplicità e la quieta grandezza ottenute, se necessario, allontanandosi dalla verità piuttosto che dalla bellezza. Il bello e il buono dovranno coincidere per avvicinarsi a quella perfezione ideale che lo scrittore vede già raggiunta nelle opere greche: quale tipico esempio, egli menziona e descrive la statua dell’Apollo del Bel-

226 CAP. 8 - IL SECOLO DELLA RAGIONE - LETTERATURA

Apollo del Belvedere. Copia dell’età di Adriano da un presunto originale greco del IV secolo a.C. Roma, Museo Pio Clementino.

vedere, attribuita allo scultore greco Leocare (IV secolo a.C.) e conservata a Roma. Dalla bellezza neoclassica concepita da Winckelmann si distingueranno, pur nell’ambito della medesima tendenza, le versioni più severe e grandiosamente eroiche rappresentate, ad esempio, dai quadri del francese JacquesLouis David (1748-1825), nei quali il Neoclassicismo è ispirato a un ideale di grandezza morale eroica, sorretto dall’adesione politica ai valori dapprima rivoluzionari, poi – e soprattutto – napoleonici.

IL PREROMANTICISMO Il sogno neoclassico di nostalgia per civiltà, tempi e opere d’arte ritenuti perfetti non manca – pur fra nette diversità – di analogie con il cosiddetto Preromanticismo, che fiorisce, con intenti decisamente anticlassicisti, nella seconda metà del Settecento. È questo un movimento molto diverso ed eterogeneo, che colloca alcune aspirazioni in terre lontane ed esotiche e in epoche oscure e primitive: le due tendenze sono, dunque, accomunate dal© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

lare, stesi in prosa ritmica scritta fra il XII e il XVI secolo e ampiamente rielaborati e integrati dallo scrittore settecentesco. Il loro successo è enorme: in Italia vengono tradotti da Melchiorre Cesarotti nel 1763 e contribuiscono a diffondere il nuovo gusto poetico, fondato sul mito del mondo celtico contrapposto al classicismo greco-romano. In Germania I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang Goethe (17491832), opera fortemente connotata in chiave preromantica, dà inizio ad una vera e propria moda tra i giovani europei (il “wertherismo”), influenzando in seguito anche il celebre romanzo epistolare Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo (1778-1827), autore nella cui poetica si intrecciano temi dell’età dei lumi e dell’epoca romantica e aspetti stilistici sia neoclassici, sia romantici: la sua sensibilità preromantica entra però spesso in conflitto con il fondamento del suo pensiero materialista, ateo e sensista, determinando – come scrive lo stesso Foscolo – un doloroso e incessante contrasto fra cuore e ragione. La poesia preromantica in Italia diventa una moda che influenza persino la visione della vita, le espressioni del linguaggio quotidiano e il modo di vestire. L’autore più significativo della composita tendenza è Ippolito Pindemonte (1753-1828), cui oltre al poemetto La fata Morgana (1782) e alle Prose e poesie campestri, scritte fra il 1784 e il 1788, sul tema della melanconia cantata come ninfa gentile, si deve una pregevole traduzione dell’Odissea (1822).

Illustrazione per l’edizione italiana dei Canti di Ossian. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

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CAP. 8 - IL

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LETTERATURA

la nostalgia per tempi lontani e per realtà differenti da quella in cui si vive ma divergono nell’individuazione di tali realtà idealizzate. Il Preromanticismo non è un movimento o una scuola letteraria in senso stretto, quanto piuttosto un nuovo e sfumato atteggiamento poetico e filosofico, per molti versi opposto a quello razionalistico e sensistico. È la critica successiva ad aver imposto il nome “Preromanticismo” perché nel movimento, e negli autori ad esso riconducibili, sono state individuate le premesse del Romanticismo ottocentesco. Il Preromanticismo propone, in effetti, molti temi, aspetti e caratteri tipici del Romanticismo maturo: la rivolta contro il classicismo e il razionalismo illuministico, la critica radicale dell’ottimismo dell’età dei lumi, il culto del sentimento rispetto all’esaltazione eccessiva della fredda ragione, l’esaltazione della natura primitiva e grandiosa, il senso drammatico del mistero, del dolore e della morte, le tematiche dell’infinito, del sublime e della caducità della vita. I primi esempi di questa nuova sensibilità provengono dalle letterature nordiche. In Inghilterra, oltre alla poesia sepolcrale e notturna di Edward Young (1683-1765) e di Thomas Gray (1716-1771), James Macpherson (17361796) pubblica due poemi – Fingal e Temora – facendoli credere traduzioni di canti rinvenuti fra le montagne scozzesi del leggendario bardo gaelico Ossian. Divenuti famosi con il titolo Canti di Ossian nell’edizione unificata del 1765, i versi di Macpherson sono costituiti da frammenti appartenenti alla tradizione popo-

LETTERATURA

L’Apollo del Belvedere

Johann Joachim Winckelmann

Nell’opera Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura del 1755, il tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) sviluppa compiutamente la concezione dell’arte e dell’attività dell’artista che caratterizza e contraddistingue tutta l’esperienza neoclassica, rendendola in questo senso sostanzialmente unitaria dalla seconda metà del Settecento ai primi decenni dell’Ottocento. Tale concezione viene espressa descrivendo l’Apollo del Belvedere (ancora oggi visibile nei Musei Vaticani a Roma). In questa statua Winckelmann rintraccia i fondamenti del canone artistico classico. La statua dell’Apollo rappresenta il più alto ideale dell’arte tra le opere antiche che si sono conservate fino a noi. L’artista ha impostato la sua opera su di un concetto puramente ideale e si è servito della materia solo per quel tanto che era necessario ad esprimere il suo intento e a renderlo visibile. Questa statua supera tutte le altre immagini di Apollo, quanto l’Apollo di Omero supera l’Apollo descritto dagli altri poeti. La sua statura sopravanza ogni forma umana, e il suo atteggiamento riflette la grandezza divina che lo impronta. Una primavera eterna, come quella che regna nei beati Elisi1, versa sulle forme virili d’un’età perfetta la gentilezza e la grazia dell’età giovanile e scherza con tenera morbidezza sull’altera struttura delle sue membra. Entra, o lettore, con lo spirito nel regno delle bellezze incorporee e cerca di crearti l’immagine d’una natura divina, per poterti colmare l’anima con l’idea di bellezze soprannaturali: qui nulla ricorda la morte né le miserie terrene. Né vene né tendini riscaldano e muovono questo corpo, ma uno spirito celeste, simile ad un placido fiume, riempie tutti i suoi contorni. [...] Di tutte le immagini del padre degli dei, che ci sono rimaste e che hanno valore d’arte, nessuna esiste che si avvicini alla maestà intravista da Omero; maestà che appare qui nel volto del figlio, come se riunisse in sé, simile a Pandora2, le bellezze di tutte le altre divinità. Di Giove ha la fronte gravida della dea della sapienza3 e le sopracciglia che con un cenno solo manifestano il suo volere; ha gli occhi meravigliosamente arcuati della regina delle dee4 e la bocca che ricorda la voluttà da lui ispirata all’amato Branco5. La morbida chioma, simile a teneri virgulti d’una nobile vite, scherza intorno al capo divino come agitata da un dolce zefiro e pare cosparsa con l’olio degli dei e annodata sulla fronte dalle Grazie con amabile splendore. Quando mi trovo di fronte a questo prodigio artistico, dimentico ogni altra cosa e cerco d’innalzarmi al di sopra di me stesso per contemplarlo degnamente. Pieno di venerazione, mi si dilata il petto e mi si solleva come a chi è preso dallo spirito profetico, e mi sento trasportato a Delo6 e nelle selve della Licia7 che Apollo onorò con la sua presenza: mi sembra che l’immagine acquisti vita e movimento come la bella statua di Pigmalione8. Non la posso né dipingere né descrivere: avrei bisogno che l’arte stessa mi desse consiglio e mi guidasse la mano per condurre a termine questi primi accenni. Perciò depongo ai piedi di questa statua il concetto che di essa ho dato, come fa con la corona chi non giunge all’altezza del sacro capo che vorrebbe incoronare. Da questa mia descrizione e specie dall’espressione del volto della statua appare chiaro che non si tratta d’un Apollo cacciatore. Se qualcuno non trova abbastanza sublime immaginare qui ucciso dal dio il serpente Pitone, si figuri di vedere Apollo quando, quasi adolescente, uccise il gigante Tizio che aveva tentato di far violenza a Latona sua madre. da Il bello nell’arte. Scritti sull’arte antica, a cura di F. Pfister, Einaudi, Torino, 1973 1. beati Elisi: i campi Elisi, nel mondo classico, rappresentano la dimora ultraterrena degli dei e delle anime elette. Il riferimento sottolinea il carattere di insuperabile perfezione e bellezza ideale che l’autore attribuisce alla statua. 2. Pandora: nel mito classico, è la prima donna mortale, creata dal dio Efesto. Pandora riunisce in sé tutte le bellezze perché subito dopo la sua creazione tutti gli dei la ornarono di doni. 3. la fronte gravida… della sapienza: Pallade Atena, dea della sapienza, si riteneva nata dalla testa di Giove.

4. regina delle dee: Era (Giunone per i latini), sorella e moglie di Zeus (il sommo dio Giove dei Romani). 5. Branco: giovinetto amato da Febo (Apollo). 6. Delo: è l’isola natìa di Apollo, nell’arcipelago delle Cicladi. 7. Licia: è una regione dell’Asia minore. 8. Pigmalione: secondo il mito classico, lo scultore che si era innamorato della bellissima statua in avorio che aveva prodotto. Mossa a compassione, Afrodite (ossia, la latina Venere) trasformò la statua in fanciulla vivente e la diede in sposa all’artista.

Comprensione 1. Elenca e chiarisci i riferimenti mitologici presenti nel brano e motiva la ragione della loro abbondanza. 2. Quali sono i concetti fondamentali dell’arte classica e i principali elementi attraverso cui Winckelmann, nel descrivere la statua di Apollo, li afferma? 3. Quale emozione prova l’autore davanti alla statua?

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Tipologie e generi letterari La poesia La lirica di fine Seicento e inizio Settecento è dominata dal gusto arcadico e dal misurato classicismo di Pietro Metastasio. Al clima arcadico subentra, dopo la metà del secolo, la cultura illuminista – che lascia tracce nelle prime Odi di Giuseppe Parini – e poi quella neoclassica, come mostrano le ultime Odi pariniane. All’influenza del Neoclassicismo si affianca quella del nuovo gusto ossianesco-preromantico, reso popolare dalle Poesie di Ossian (1763), la versione italiana dei testi di Macpherson curata da Melchiorre Cesarotti. Caratterizzate da un classicismo già percorso da tensioni preromantiche sono le Rime (1789 e 1804) di Vittorio Alfieri. Nell’ultima parte del Settecento si sviluppano i sottogeneri dell’idillio (Poesie campestri di Ippolito Pindemonte, 1788) e dell’ode neoclassica (Al signor di Montgolfier di Vincenzo Monti, 1788). La poesia sepolcrale preromantica settecentesca (Edward Young e Thomas Gray) è tra le fonti del capolavoro di Ugo Foscolo, Dei sepolcri. Nell’ambito del poema, capolavoro del genere è Il Giorno di Giuseppe Parini, in endecasillabi sciolti, costituito da quattro poemetti: Il Mattino (1763) e Il Mezzogiorno (1765), Il Vespro e La Notte, incompiuti. In età napoleonica emerge la forma del carme, espresso nel capolavoro di impegno civile e politico Dei sepolcri (1807) – che integra elementi neoclassici e preromantici – e nel sottogenere mitologico, scritto in forma di inno, nelle Grazie (1812-1813), entrambi di Ugo Foscolo. Il romanzo La narrativa italiana del Settecento – di modesta importanza – subisce l’influenza dei differenti generi dei grandi romanzi europei del tempo, i cui principali autori sono, in Inghilterra, Fielding e Defoe e, in Francia, Voltaire – principale autore dei contes philosophiques, narrazioni che mirano a esporre una tesi filosofica – e Rousseau. In Inghilterra nasce a fine Settecento il romanzo gotico, caratterizzato da ambientazioni cupe, con le opere Il castello di Otranto (1764) di Horace Walpole e I misteri di Udolfo (1794) di Ann Radcliffe. In Italia compare il genere storico-archeologico di gusto neoclassico: Alessandro Verri scrive Le notti romane (1792) e Avventure di Saffo (1782). Dopo il successo del romanzo epistolare preromantico con I dolori del giovane Werther (1774) del tedesco Goethe, Ugo Foscolo scrive e pubblica in età napoleonica Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), in cui prevale la tematica politica e amorosa. La sensibilità già romantica dell’opera è messa in luce dalla passionalità del protagonista, che lo conduce alla morte per suicidio. L’autobiografia Fra il Settecento e l’epoca napoleonica il genere della narrazione autobiografica è ampiamente coltivato. Importanti autobiografie del periodo sono la Vita scritta da se medesimo (1728) di Giambattista Vico, la Vita (1736-1737), scritta in carcere dallo storico Pietro Giannone, le Memorie (1787) di Carlo Goldoni, scritte in francese, e la Storia della mia vita (1791-1798) di Giovanni Casanova. Il capolavoro dell’autobiografia settecentesca è la Vita di Vittorio Alfieri, pubblicata postuma nel 1806, in età napoleonica. La trattatistica La trattatistica, nella cultura razionalistica e arcadica del primo Settecento, ha il suo esponente principale in Ludovico Antonio Muratori, che si distingue in particolare nella raccolta di opere di storiografia, con le monumentali Antichità italiche del Medioevo (1738-1743), e nella saggistica letteraria, con Della perfetta poesia italiana (1706). Nasce in questo periodo la prima storia della letteratura italiana, dell’erudito Girolamo Tiraboschi, pubblicata in diversi tomi fra il 1772 e il 1794. Un’opera filosofica che avrà una grande influenza in epoca romantica è la Scienza nuova (1725) di Giambattista Vico, che interpreta in modo originale la storia umana, rivalutando le età barbariche, dominate, a parere dell’autore, dalla fantasia poetica. Il Triregno (1731-1736) di Pietro Giannone propone, invece, una riforma religiosa per riportare la Chiesa alla primitiva povertà. Importanti i saggi su temi economici di alcuni illuministi meridionali, come Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, di cui è da ricordare il trattato Della moneta (1751), e gli studi giuridici Origini del diritto civile (1708) di Gian Vincenzo Gravina. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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Per tutto il secolo si sviluppa la trattatistica scientifica di derivazione galileiana: fra gli autori principali vanno menzionati Lazzaro Spallanzani, Luigi Galvani e Alessandro Volta. Sempre nell’ambito della cultura illuministica, esprime un impegno diretto nel campo della riforma della giustizia Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria, mentre nel campo della storiografia locale va ricordata anche la Storia di Milano (1783) di Pietro Verri. Il ripensamento dell’esperienza delle repubbliche giacobine determina il fiorire di pamphlets di argomento storicopolitico, che preparano il terreno per i pensatori risorgimentali: Vincenzo Cuoco nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801) traccia un lucido bilancio del tentativo fallito; Francesco Lomonaco nel Rapporto al cittadino Carnot (1800) elabora per primo in età napoleonica il concetto di unità nazionale. Nell’epoca fiorisce la saggistica a tema estetico: nella Storia dell’arte nell’antichità (1764) Johann Joachim Winckelmann esprime le teorie estetiche fondate sulle scoperte archeologiche che ispireranno il Neoclassicismo; Edmond Burke in Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublime e al bello (1756) inaugura le tesi che caratterizzeranno il gusto romantico. La traduzione Praticata come opera letteraria originale, anche in versi, la traduzione di testi classici è ampiamente diffusa soprattutto nel Settecento classicista. Traduzioni dell’epoca sono ancora oggi lette e conosciute, come quella dell’Odissea di Pindemonte o quelle dell’Iliade di Foscolo e, soprattutto, di Monti. Da ricordare, inoltre, le traduzioni di Cesarotti dei Canti di Ossian e dell’Elegia scritta in un cimitero di campagna di Gray, e quella di Foscolo dell’originale romanzo Viaggio sentimentale di Sterne. Il teatro Il primo autore che cerca di riformare il melodramma, conferendo nuovo prestigio al testo letterario (il libretto), è il veneziano Apostolo Zeno, ma il più importante autore di melodrammi è il principale esponente dell’Arcadia, Pietro Metastasio. Carlo Goldoni opera un’importante riforma teatrale che si contrappone alla commedia dell’arte, abolendo le maschere e introducendo il testo scritto in sostituzione del canovaccio. Suo capolavoro è da molti ritenuta La locandiera (1753). Mentre Goldoni si muove in direzione di un moderato realismo, sostituendo alle maschere personaggi realistici, Carlo Gozzi esprime invece un gusto per il fantastico e il fiabesco. La tragedia è molto praticata in Italia già agli inizi del Settecento e raggiunge il culmine nelle opere di stampo classicista, ma anche già ricche di spunti romantici, di Vittorio Alfieri, come il Saul (1782) e la Mirra (1784-1786). In Europa, a partire dalla Germania, nella seconda metà del Settecento, al teatro classicista si sovrappone la drammaturgia preromantica, che apporta grandi innovazioni tematiche e stilistiche. Vanno ricordati, in proposito, almeno il dramma di Klinger Sturm und Drang (“Tempesta e Impeto”, 1776), da cui prende nome il principale movimento preromantico in ambito germanico, e le opere di autori destinati a grande importanza nel futuro Romanticismo, come Goethe e Schiller, anch’essi tedeschi.

Hubert Robert, La Grande Galerie, 1801-1805 circa. Parigi, Museo del Louvre.

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Concetti chiave STORIA Il Settecento è il secolo dell’Illuminismo che si diffonde da Francia e Inghilterra. Esso è basato sui princìpi di libertà e uguaglianza tra gli uomini e ispira l’assolutismo illuminato prima – Federico II di Prussia, Caterina II di Russia, Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, Pietro Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana – e poi le due grandi rivoluzioni del secolo. La prima è quella delle tredici colonie inglesi d’America che, dal 1763, si ribellano a Giorgio III, e che sfocia nell’indipendenza e nella promulgazione della Costituzione (1787) che sancisce la nascita degli Stati Uniti d’America; la seconda è la Rivoluzione francese che, dopo il fallimento degli Stati generali (1789) e la presa della Bastiglia, attraverso un processo lungo e violento giunge alla proclamazione della repubblica (1792) e alla fase del Terrore (1794), di carattere dittatoriale. In seguito, il potere in Francia passa nelle mani di un Direttorio e poi di Napoleone Bonaparte il quale, sull’onda di continui successi militari contro le coalizioni degli altri Stati europei, che vogliono impedire il dilagare della rivoluzione in Europa, viene proclamato imperatore dei Francesi. Nel 1796 Napoleone entra vittorioso a Milano. Per bloccare l’avanzata francese, l’Austria firma la pace di Campoformio (1797), che sancisce la rinuncia austriaca alla Lombardia in cambio dei territori della Repubblica di Venezia.

CULTURA VERSO L’ILLUMINISMO I fattori che preparano l’avvento della cosiddetta età dei lumi sono il razionalismo seicentesco, la nascita della scienza moderna, il sensimo in filosofia, l’interesse per la ricerca storica e il nuovo ruolo dell’intellettuale come catalogatore del sapere e promotore delle battaglie civili. L’INTERESSE PER LA RICERCA STORICA Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) è considerato il fondatore della moderna storiografia basata su un metodo scientifico e documentaristico. L’originale pensiero di Giambattista Vico (1688-1744) nella Scienza nuova costruisce

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una originale teoria dello sviluppo dell’umanità nei tre momenti successivi dell’istintualità, del sentimento e della razionalità. Pietro Giannone (1676-1748) postula un’alleanza fra il sovrano illuminato e la minoranza intellettuale progressista, invocando una riforma religiosa contro la Chiesa corrotta. L’ILLUMINISMO L’Illuminismo (il lume cui si riferisce il termine è quello della ragione) è un movimento culturale basato sull’idea centrale secondo cui la ragione è l’unica facoltà umana che può comprendere la realtà, in un rapporto critico con i saperi e le tradizioni del passato. Esso nasce in Inghilterra alla fine del Seicento e si sviluppa in Francia per poi diffondersi in tutta Europa. La cultura illuminista è cosmopolita (la ragione è universale, l’uomo razionale è cittadino del mondo), egualitaria (la ragione è presente in ogni uomo, sia dotto che incolto, il sapere deve essere accessibile a tutti), tollerante (in quanto non pretende di raggiungere verità assolute) e laica (perché fondata sulla libertà di pensiero); è inoltre ottimista (perché la luce della ragione finirà per trionfare sulle tenebre dell’ignoranza, assicurando, mediante l’educazione, l’emancipazione individuale e il progresso sociale). Inoltre l’Illuminismo sostiene la divulgazione (nascita del giornalismo moderno, pamphlets, romanzi filosofici) e si fonda sul sensismo (Condillac), secondo cui la conoscenza proviene dalle sensazioni e rivaluta lo stato di natura (Rousseau), condizione di felicità che l’uomo deve riconquistare su basi razionali. I PHILOSOPHES E L’ENCICLOPEDIA Gli intellettuali illuministi francesi vengono chiamati philosophes: essi si caratterizzano per lo spirito di critica alle istituzioni – Stato e Chiesa – dei loro tempi e per la carica riformatrice. La loro produzione più celebre è l’Enciclopedia edita, non senza opposizioni, a Parigi: si tratta di una monumentale opera in tutti i campi del sapere, composta da molte migliaia di voci, organizzate alfabeticamente, con l’obiettivo di dimostrare il potere e le capacità della ragione umana ed intenti di divulgazione per promuovere il progresso spirituale, politico e tecnico-scientifico. All’impresa, diretta da Diderot e d’Alembert, collaborano numerosi specialisti tra cui Voltaire, Jean-Jacques Rousseau, Étienne de Condillac e Paul-Henry d’Holbach.

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I philosophes ispirano, in un’ottica cosmopolita, i sovrani riformisti europei (assolutismo illuminato di Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, Caterina II di Russia, Federico II di Prussia). L’ILLUMINISMO IN ITALIA I principali centri dell’Illuminismo italiano sono Milano, Napoli e la Toscana. In particolare, a Milano, centro del riformismo illuminato asburgico, Cesare Beccaria e i fratelli Pietro e Alessandro Verri fondano l’Accademia dei Pugni (1761) e il periodico “II Caffè” (1764-1766), che propone una forma di comunicazione letteraria e divulgativa che rompe con la tradizione sia nel contenuto sia nel linguaggio, inaugurando una cultura legata ai problemi sociali.

LETTERATURA L’ARCADIA L’Accademia degli Arcadi, costituita nel 1690, si allontana dal Barocco contrapponendogli un ritorno alla tradizione classica e distinguendosi però anche dal razionalismo illuminista per la scelta dei contenuti bucolici ed idillici. La prima metà del Settecento italiano è influenzata dall’Arcadia, la seconda da Illuminismo maturo e, successivamente, Neoclassicismo e Preromanticismo. IL ROMANZO EUROPEO Il romanzo settecentesco prepara la fioritura del genere nel secolo successivo. Il genere epistolare è rappresentato fra l’altro dalle Lettere persiane (1721) di Montesquieu, satira della società parigina del tempo; da Pamela (1740) di Samuel Richardson; da La nuova Eloisa (1761) di Jean-Jacques Rousseau e dal preromantico I dolori del giovane Werther (1774) di Wolfgang Goethe. Il romanzo filosofico (conte philosophique) viene ideato dagli illuministi francesi per divulgare la propria concezione. Candido o l’ottimismo di Voltaire narra l’educazione alla vita di un giovane, mentre Emilio o Dell’educazione (1762) di Rousseau ripropone in campo educativo la teoria del buon selvaggio. In Inghilterra, non dissimili sono I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift , già apparsi nel 1726. Su una tematica avventurosa Daniel Defoe scrive Robinson Crusoe (1719) ed Henry Fielding Tom Jones (1749). Laurence Sterne in Vita e opinioni di Tristram Shandy (1760-1767) e Viaggio sentimentale (1768) scrive un’intelligente parodia dei generi narrativi in voga. IL TEATRO Il veneziano Carlo Goldoni (1707-1793) applica al teatro le istanze dell’Illuminismo, pro-

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ducendo non senza contrasti (ricordiamo qui la polemica con Carlo Gozzi) una riforma che supera la commedia dell’arte basata sull’improvvisazione per fondare un nuovo genere di commedia che restituisce all’autore il ruolo di creatore del testo teatrale, diviso in atti e scene e composto da battute e didascalie. L’astigiano Vittorio Alfieri (1749-1803), illuminista ma anche preromantico, realizza tragedie in versi di impianto classico di contenuto individualista, libertario e fortemente sentimentale. LA POESIA IN ITALIA Il lombardo Giuseppe Parini (1729-1799) esprime nella sua poesia le istanze morali dell’Illuminismo italiano, integrate e non contrapposte alla tradizione classica e alla fede religiosa. Recuperando gli autori del passato, lo scrittore crea una poesia in funzione edonistica e insieme pedagogica che deve suscitare piacere e, contemporaneamente, educare. IL NEOCLASSICISMO Il Neoclassicismo è un movimento che si oppone al Barocco proponendo una concezione dell’arte fondata sulla linearità, sulla misura, sull’armonia e sul decoro, secondo un’ispirazione che si ricollega soprattutto ai modelli classici greci e, in minor misura, romani. L’opera che risulta decisiva per l’affermazione del Neoclassicismo è la Storia dell’arte nell’antichità del tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768); il movimento viene alimentato anche dall’interesse suscitato dagli scavi archeologici iniziati a Ercolano (1738) e Pompei (1748). IL PREROMANTICISMO Il Preromanticismo è un atteggiamento culturale, poetico e filosofico, opposto al razionalismo, che anticipa il Romanticismo ottocentesco del quale presenta molti caratteri come la critica dell’ottimismo illuminista, il culto del sentimento anziché della ragione, l’esaltazione della natura, il senso del mistero, del dolore e della morte, le tematiche dell’infinito e del sublime. Il suo unico punto di contatto con il Neoclassicismo consiste nella comune aspirazione a un’epoca perfetta. Il Preromanticismo nasce in Inghilterra con la poesia sepolcrale di Edward Young (16831765) e di Thomas Gray (1716-1771), e con i Canti di Ossian di James Macpherson (17361796), tradotti in Italia nel 1763 da Melchiorre Cesarotti. Il romanzo epistolare I dolori del giovane Werther (1774) del tedesco Goethe dà inizio al “wertherismo”, che influenzerà Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo (1778-1827).

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sercizi di sintesi STORIA

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il Settecento è soprattutto il secolo a. dell’Arcadia. b. delle scoperte geografiche. c. dell’Illuminismo. d. delle scoperte scientifiche. 2. L’economia del Settecento è caratterizzata da a. una forte crisi industriale. b. l’inizio della Rivoluzione industriale. c. continue carestie ed epidemie. d. la quasi totale scomparsa del ceto piccolo-borghese. 3. La Rivoluzione americana termina con a. l’indipendenza delle colonie inglesi. b. la vittoria dell’Inghilterra. c. la festa del tè di Boston. d. la dichiarazione di Filadelfia.

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4. La Rivoluzione francese inizia a. nel 1779. b. nel 1789. c. nel 1799. d. nel 1792. 5. Il periodo del Terrore è dominato dalla figura di a. Napoleone Bonaparte. b. Robespierre. c. Luigi XVI. d. Luigi XVII. 6. Napoleone Bonaparte con il trattato di Campoformio a. firma la pace con la seconda coalizione. b. si proclama re d’Italia. c. cede Venezia all’Austria. d. ottiene Nizza dall’Austria.

CULTURA 2 Svolgi in forma scritta i seguenti argomenti (max 20 righe ciascuno). 1. Elenca e spiega quali sono i fattori culturali che preparano l’avvento dell’Illuminismo settecentesco. 2. Presenta in una trattazione sintetica gli autori che testimoniano l’interesse per la storiografia che rinasce nel Settecento e accenna ai loro intendimenti e alle loro teorie. 3 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il significato del termine Illuminismo deriva a. dal lume della fede che ravviva l’anima. b. dall’illuminazione della coscienza.

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c. dal lume della ragione che chiarisce la conoscenza. d. dall’invenzione della luce a gas avvenuta nell’epoca. Il carattere fondamentale dell’Illuminismo maturo è a. il culto del sentimento. b. la ricerca della fede. c. il culto della ragione. d. la ricerca del meraviglioso. Gli esponenti francesi dell’Illuminismo vengono chiamati a. sensisti. b. philosophes. c. arcadi. d. illuminati. Tra i caratteri generali dell’Illuminismo ci sono a. sensismo, deismo, tolleranza, pessimismo. b. riformismo, laicismo, assolutismo, sentimentalismo. c. cosmopolitismo, egualitarismo, tolleranza, ottimismo. d. razionalismo, deismo, laicismo, principio di autorità. “Il Caffè” è a. un periodico dei philosophes francesi. b. un giornale fondato dagli illuministi milanesi. c. un locale di ritrovo degli illuministi napoletani. d. un locale di ritrovo dei philosophes di Parigi. I principali illuministi italiani sono a. Cesare Beccaria, Alessandro Verri, Pietro Verri. b. Ippolito Pindemonte e Ugo Foscolo. c. Giambattista Vico e Giovanni Botero. d. Pietro Beccaria, Alessandro Verri, Melchiorre Cesarotti.

LETTERATURA 4 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Che cos’è l’Arcadia? 2. Quali sono le caratteristiche principali dell’Arcadia? 3. In che cosa l’Arcadia si differenzia dal Barocco? 4. Che cosa si intende per conte philosophique? 5. Che cos’è il romanzo epistolare e quali sono le opere più significative di questo genere scritte nel Settecento?

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6. Per quali tendenze del pensiero e genere di opere va ricordato Vittorio Alfieri? 7. In che cosa consiste la riforma del teatro avvenuta in Italia in questo periodo e chi la promuove? 8. Chi è il maggior poeta italiano del Settecento e come intende la poesia? 9. Che cosa si intende per Neoclassicismo e quali fattori ne originano lo sviluppo? 10. Che cosa si intende per Preromanticismo e quali ne sono le caratteristiche?

5 Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). 1. Quando e dove nacque l’Arcadia e chi ne fu iniziatore? 2. A quali poeti classici e a quale tipo di poesia antica si ispira l’Arcadia? 3. Di quale argomento trattano le Lettere persiane e chi ne è l’autore? 4. Chi sono Candido ed Emilio? 5. Quali sono i titoli dei capolavori di Daniel Defoe, Jonathan Swift ed Henry Fielding? 6. Quali sono le principali differenze fra la commedia goldoniana dopo la riforma e la commedia dell’arte e perché la riforma goldoniana può essere considerata illuministica? 7. Chi e perché polemizza contro la riforma goldoniana del teatro in Italia? 8. Chi era Johann Joachim Winckelmann, con quale opera favorisce l’affermazione del Neoclassicismo? 9. A che genere appartiene e di che argomento tratta I dolori del giovane Werther del tedesco Wolfgang Goethe e quale opera di quale grande autore italiano vi si ispira? 6 Indica con una x la risposta corretta. 1. Le due principali fasi letterarie del Settecento sono a. il Barocco e l’Arcadia. b. quella arcadica e quella neoclassica. c. il Classicismo e l’Anticlassicismo. d. il Neoclassicismo e il Romanticismo. 2. L’Arcadia, da cui prende nome l’Accademia, è a. una nave di cui si tratta in un mito greco. b. una regione montuosa dell’antica Grecia. c. una Musa dell’antica mitologia greca. d. un’importante città della Grecia. 3. Nel Settecento il romanzo a. è in momentaneo declino. b. si sviluppa in diversi generi e Paesi. c. si diffonde solo nella Francia illuminista. d. si diffonde solo in Spagna.

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4. La nuova Eloisa è a. un romanzo sentimentale del barone di Montesquieu. b. una commedia di Goldoni. c. una tragedia di Alfieri. d. un romanzo epistolare di Rousseau. 5. Pamela è a. la protagonista di un romanzo di Richardson. b. la protagonista femminile del romanzo Tom Jones. c. un personaggio di Daniel Defoe. d. la moglie del personaggio swiftiano di nome Gulliver. 6. Tristram Shandy è a. l’autore di Viaggio sentimentale. b. l’autore di un romanzo tradotto da Foscolo. c. il più noto biografo di Laurence Sterne. d. il protagonista di un romanzo di Sterne. 7. Carlo Goldoni è importante soprattutto a. per la riforma della commedia. b. per la riforma della tragedia. c. per le opere teatrali in dialetto veneto. d. per le maschere protagoniste di alcune sue opere. 8. Gli autori di teatro più importanti del Settecento sono a. Goldoni e Alfieri. b. Parini e Alfieri. c. Goldoni e Parini. d. Gozzi e Foscolo. 9. Giuseppe Parini nella sua poesia integra a. il Barocco con il Neoclassicismo. b. la fede religiosa e l’ateismo. c. l’Arcadia e il Preromanticismo. d. l’Illuminismo, la fede cristiana e il classicismo. 10. Il Neoclassicismo nasce anche per effetto a. delle scoperte archeologiche in Grecia. b. della rinata ammirazione per l’arte rinascimentale. c. degli scavi archeologici in Italia. d. dello sviluppo del Barocco. 11. Per Winckelmann, l’Apollo del Belvedere è a. la più importante scoperta archeologica di ogni tempo. b. l’esempio del canone classico. c. una statua che integra stile dorico e ionico. d. un modello di opera realizzata dai classicisti suoi contemporanei. 12. Il Preromanticismo è a. una tendenza che nasce dalle teorie di Winckelmann. b. un movimento organizzato attorno a una poetica. c. una corrente letteraria che fa capo a Vincenzo Monti. d. una variegata tendenza non classicista.

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CAPITOLO

9

L’Arcadia

e Metastasio

Nicolas Poussin, I pastori d’Arcadia, 1638-1640. Parigi, Museo del Louvre.

L’ARCADIA

Primo Settecento

Stile rococò e sensibilità arcadica

E IL SUPERAMENTO DEL

BAROCCO

Sul piano letterario, il Settecento italiano va diviso in due grandi fasi: quella arcadica e quella illuministica. Questa suddivisione però non va intesa in senso rigido e assoluto. I due periodi, pur contrassegnati da sostanziali differenze, sono infatti connessi da un preciso rapporto di continuità, che li rende fra loro complementari. Nella letteratura arcadica e nel razionalismo erudito del primo Settecento si esprimono le nuove istanze dell’età post-barocca. L’Arcadia esprime una tendenza esclusivamente letteraria, che come tale si distingue dal razionalismo filosofico proprio del secolo: eppure, come osserva la critica più recente, fra poesia arcadica e razionalismo illuministico esistono precisi legami. D’altronde, il tramonto del barocco non avviene solo in Italia. Molti hanno accostato alla sensibilità arcadica quella del cosiddetto Rococò, sviluppatosi soprattutto in Francia negli ultimi anni del regno di Luigi XIV, il re Sole (1638-1715) e anche durante il regno del successore Luigi XV (1710-1774). La tendenza rococò influenza la concezione artistica dell’Europa fino alla metà del

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CAP. 9 - L’ARCADIA

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METASTASIO

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Secondo Settecento

Settecento: dopo la metà del secolo il nuovo gusto – dapprima detto “nuovo stile” per distinguerlo dal Barocco – viene definito rocaille, dal nome di una pietra artificiale, a forma di conchiglia, spesso usata come elemento decorativo: il termine rococò è, appunto, una deformazione dispregiativa di rocaille, affermatosi in ambito romantico alla fine del XIX secolo. Principali caratteristiche dello stile rococò sono la ricercata e spesso leziosa grazia ornamentale, ottenuta attraverso forme curve e sinuose, contorni mossi, colori tenui, intarsi rari e preziosi, stucchi e scenografie. In pittura, arte in cui il principale esponente dello stile è il francese Jean Antoine Watteau (1684-1721), i soggetti prevalenti sono di carattere profano e attingono al repertorio della mitologia galante. In questo senso, il Rococò si può considerare, nell’architettura e nelle arti figurative, il parallelo dell’Arcadia letteraria italiana. Nel secondo Settecento l’Arcadia in Italia si esaurisce e acquista invece sempre più importanza la nuova corrente di pensiero dell’Illuminismo, che deriva dalla profonda svolta filosofica iniziata alla metà del secolo in Francia: nel contempo, la letteratura si apre al gusto neoclassico per lasciare infine spazio, verso la fine del secolo, anche agli spunti preromantici. L’Illuminismo si innesta però sul razionalismo della prima metà del secolo, mentre il ritorno al classicismo in funzione antibarocca, tipico degli arcadi, implica già un certo richiamo alla chiarezza razionale e si evolverà nel Neoclassicismo del tardo Settecento.

L’ACCADEMIA La fondazione dell’Arcadia

Il richiamo al classicismo

Il cerimoniale e le regole di Gravina

La diffusione delle colonie

DELL’ARCADIA

L’Accademia dell’Arcadia informa su larga scala il gusto del primo Settecento in Italia ed estende la sua influenza anche oltre la metà del secolo. L’Accademia viene fondata da alcuni letterati che avevano fatto parte del circolo culturale di Cristina, ex regina di Svezia, stabilitasi a Roma dopo aver abdicato al trono ed essersi convertita alla religione cattolica. Dopo la morte della sovrana, i letterati del circolo decidono nel 1690 di costituire un’accademia – denominata Arcadia – che si richiami, anche nel nome, alla tradizione classica. La regione greca dell’Arcadia, infatti, attraverso la tradizione bucolica classica (Teocrito, Virgilio) e moderna (Sannazaro, Tasso), si era ormai trasformata in un emblema del classicismo letterario. Essa richiamava l’immagine di una felice dimora di pastori, lontana da preoccupazioni e da affanni; un luogo fuori dal tempo e dalla storia, deputato solamente ai sereni ozi poetici. In particolare, già Jacopo Sannazaro, nel maturo Umanesimo napoletano, aveva intitolato Arcadia il suo capolavoro: l’opera letteraria che inaugura il moderno genere pastorale ricollegandosi alla tradizione classica. I membri della nuova accademia vogliono far rinascere il mito classico dell’Arcadia: si definiscono pastori e pastorelle, assumono fittizi nomi bucolici e organizzano riti e cerimoniali di tipo pastorale. Uno dei maggiori eruditi del tempo, Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), compone le regole dell’accademia in latino arcaico; custode (cioè presidente) è nominato il maceratese Giovan Mario Crescimbeni (1663-1728). L’accademia conosce ben presto larghissima diffusione: si fondano sedi in ogni parte d’Italia, cui viene dato il nome di colonie. Tale sviluppo produce nella penisola una certa omogeneità di gusto e di cultura. Inoltre l’accademia instaura al proprio interno una sorta di democrazia intellettuale, in quanto accoglie uomini di ogni estrazione sociale, considerando tutti uguali di fronte alla poesia e all’arte.

Il programma dell’accademia

I primi membri dell’accademia

Il programma dell’Arcadia, in polemica opposizione al gusto barocco, mira anzitutto ad un rinnovamento della poesia italiana basato su princìpi di buon gusto, ispirati a ragionevolezza, naturalezza, semplicità di espressione e limpidezza stilistica. Concorrono alla fondazione della nuova accademia, o le si avvicinano presto come primi membri, quasi tutti quei letterati che, alla fine del XVII secolo, si trovano in contrasto con la poetica barocca: classicisti come il fiorentino Vincenzo da Fili-

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La frattura tra Gravina e Crescimbeni

Il linguaggio e la chiarezza antimarinista

Il legame con la filosofia cartesiana

Focus

caia (1642-1707) e il pavese Alessandro Guidi (1650-1712), letterati di formazione galileiana, come il toscano Francesco Redi (1626-1698), e i cosiddetti prearcadi settentrionali, come il milanese Carlo Maria Maggi (1630-1699) e il lodigiano Francesco de Lemene (1634-1704). Gian Vincenzo Gravina è il principale teorico del movimento, ma ben presto si allontanerà dall’accademia in polemica con Crescimbeni. Mentre quest’ultimo, infatti, mira a fare dell’Arcadia il centro di produzione di una poesia leggera e raffinata, nell’ambito quasi esclusivamente del genere lirico, Gravina sostiene un più austero classicismo e la necessità di una riflessione razionale che investa anche i problemi morali e culturali della società del tempo. Lo scopo comune degli arcadi è programmaticamente polemico nei confronti del Barocco e del Marinismo. Essi si dichiarano, per usare le loro parole, restauratori della poesia italiana, guastata da quella che essi considerano la barbarie dell’ultimo secolo, e decisi a sconfiggere il malgusto dovunque si trovi. Contrappongono allo stile seicentesco e al suo sfoggio di metafore stravaganti ed eccessive la scelta di un linguaggio semplice, limpido e preciso. Individuano la via per questo risanamento letterario e poetico in un ritorno a quella tradizione classica che i marinisti avevano avversato e che essi invece giudicano un esempio di equilibrio non solo stilistico-letterario, ma anche morale. A determinare il gusto arcadico concorre, sia pure indirettamente, anche quel razionalismo, centrato su precise esigenze di chiarezza e distinzione logica, che era stato teorizzato dal filosofo francese René Descartes (1596-1650) – il cui cognome è italianizzato in Cartesio – e, diffusosi largamente in Europa, era penetrato anche in Italia: all’inizio del Settecento sono già numerosi, nella nostra penisola, i cenacoli di cultura cartesiana, fra cui famoso quello di Scalea in Calabria, formatosi attorno a Gregorio Caloprese (1650-1714), cugino di Gravina, e maestro del suo pupillo Metastasio. La razionalità e la chiarezza, la nitida evidenza e il senso della misura sono elementi comuni sia all’impostazione filosofica dei cartesiani sia alla poetica antibarocca degli arcadi.

IL DIBATTITO CRITICO SULL’ARCADIA

Il dibattito intorno all’Arcadia e al suo rapporto con l’Illuminismo ha impegnato per oltre due secoli, su posizioni anche polemicamente contrapposte, critici e studiosi. Fin da subito la poesia arcadica appare ad alcuni, nel pieno della stagione illuministica, incapace di aprirsi alla realtà politica e sociale: fra le prime stroncature, ad esempio, si distingue quella di Giuseppe Baretti, che nella sua Frusta letteraria definisce gli arcadi amanti d’inutili notizie e fanciulli che impiegano il tempo a imparar delle corbellerie. Un giudizio morale ugualmente risentito è quello di Francesco De Sanctis, che qualifica i poeti arcadici come aridi, insipidi, leziosi, affettati e falsi. Se l’Illuminismo, a parere di De Sanctis, inaugura una nuova stagione di impegno morale e politico, l’Arcadia sarebbe l’ultima espressione di una letteratura classicista ormai stantia e inattuale. In opposizione a questa interpretazione di stampo romantico, il poeta e critico Giosue Carducci, nella seconda metà dell’Ottocento, rivaluta l’Arcadia sul piano dei valori tecnico-stilistici e soprattutto metrici. È però solo nel Novecento che vengono sempre più chiarendosi i legami fra letteratura arcadica e Illuminismo, sulla base di una comune fiducia nella chiarezza e nella misura razionale: studiosi come Benedetto Croce e Mario Fubini, pur ammettendo che non esistono grandi poeti arcadici, sottolineano la continuità fra la poesia del primo Settecento e il razionalismo cartesiano, nonché la funzione dell’Accademia dell’Arcadia nel porre fine al gusto barocco e nell’anticipare certi aspetti delle poetiche classiciste e illuministiche del secondo Settecento. Frontespizio di un volume che raccoglie i numeri I-XII della rivista “La frusta letteraria”, pubblicata tra il 1763 e il 1765 da Giuseppe Baretti.

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METASTASIO

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La poesia arcadica I modelli poetici

Poesia d’occasione

Musicalità, cantabilità e degenerazione zuccherosa

Gli arcadi assumono come modelli da imitare i poeti greci e latini e, fra i moderni, in primo luogo Francesco Petrarca e Gabriello Chiabrera, considerati maestri di compostezza classica e buon gusto, da contrapporre alle bizzarrie dei poeti barocchi. Di Chiabrera in particolare gli arcadi riprendono l’interesse per la sperimentazione metrica e la preferenza per versi più brevi dell’endecasillabo, alla ricerca di effetti ritmici sempre più vari e musicalmente efficaci. La letteratura arcadica rispecchia in genere i valori della società elegante e mondana del primo Settecento, a volte frivola e superficiale, che nella poesia cerca soprattutto uno svago raffinato ed edonistico. La lirica arcadica, in effetti, è soprattutto poesia d’occasione, come tale legata a precise circostanze sociali, come nascite o matrimoni, ed è destinata innanzi tutto alla recitazione. Centrale, nella poesia arcadica, è l’ispirazione galante, che dà al tema amoroso, prevalente nelle opere, una lievità salottiera e mondana. Spesso persone e paesaggi vengono celati dietro travestimenti di ispirazione pastorale ed immersi in un’atmosfera idillica; all’assenza di intense passioni, giustificata in nome dell’esigenza di un controllo razionale sulle emozioni, corrisponde un linguaggio semplice e sobrio, impreziosito però da una versificazione abilmente ritmata e da una musicalità raffinata, che si spinge a volte verso il facile componimento cantabile, che spiega la predilezione settecentesca per il melodramma. Nei componimenti meno riusciti, come metterà presto in evidenza la dura critica di Giuseppe Baretti, il patetismo dà luogo sovente a toni melensi e degenera nel gusto eccessivamente sdolcinato che sarà detto zuccheroso.

Gli autori

Zappi

Frugoni

Rolli, precursore del Neoclassicismo

A parte Metastasio, il principale esponente della tendenza arcadica, nella poesia del primo Settecento non emergono figure di particolare spicco, benché numerosi siano i verseggiatori dotati di abilità tecnica e di una certa finezza di gusto e di ispirazione. Fra i più noti e più tipici poeti arcadici è l’imolese Giambattista Zappi (16671719), cofondatore nel 1690 dell’Accademia dell’Arcadia: è autore di sonetti, egloghe, canzonette e madrigali, che saranno raccolti in un volume di Rime pubblicato postumo nel 1723. Zappi, già definito inzuccheratissimo da Giuseppe Baretti, è forse l’esempio più chiaro di quel sentimentalismo sdolcinato che caratterizza in negativo certa sensibilità arcadica. Il genovese Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768) è un infaticabile sperimentatore metrico, che si cimenta in un gran numero di componimenti, dalle canzoni ai sonetti, dagli epitalami agli sciolti, dai madrigali alle egloghe. A lui si attribuisce il merito di aver introdotto nell’ambito della lirica l’endecasillabo sciolto, fino ad allora riservato all’epica e al genere tragico. Paolo Rolli (1687-1765) è considerato da molti il più significativo rappresentante della seconda generazione di poeti arcadi. Nato a Roma, allievo di Gravina e amico di Zappi, trascorre molti anni a Londra come maestro di italiano presso la corte. Conoscitore della lingua e della letteratura inglese, traduce Milton e Shakespeare. La sua fama poetica è affidata soprattutto alle musicali canzonette, pubblicate in varie raccolte, fra cui i tre volumi di Poetici componimenti (1753). Nei suoi versi Rolli si esprime con una languida e raffinata eleganza, che già prelude al gusto neoclassico del secondo Settecento.

Jean-Antoine Watteau, L’imbarco per Citera, 1718. Particolare. Berlino, Schloss Charlottenburg.

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T1 Solitario bosco ombroso

Paolo Rolli

Il poeta arcadico Paolo Rolli riprende il luogo poetico della lontananza della donna e della ricerca di conforto nella natura, riducendolo a pura traccia melodica (il testo proposto, composto per essere musicato, è assai popolare anche fuori d’Italia: è noto, fra gli altri, a Goethe, che dice di averlo sentito cantare da bambino dalla madre). Schema metrico: canzonetta costituita da otto quartine di ottonari (il primo e il terzo piani, il secondo e il quarto tronchi) a rima alternata: abab, cdcd ecc. PISTE DI LETTURA • La nostalgia della pastorella amata • La complicità della natura • Un facile testo cantabile Solitario bosco ombroso, a te viene afflitto cor per trovar qualche riposo fra i silenzi in quest’orror1. 5

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Ogni oggetto ch’altrui2 piace, per me lieto più non è: ho perduta la mia pace, son io stesso in odio a me. La mia Fille3, il mio bel foco4, dite, o piante, è forse qui? Ahi! la cerco in ogni loco; e pur so ch’ella partì. Quante volte, o fronde grate5, la vostr’ombra ne6 coprì! Corso d’ore sì beate7 quanto rapido fuggì! Dite almeno, amiche fronde, se il mio ben più rivedrò; ah! che l’eco mi risponde, e mi par che dica: No. Sento un dolce mormorio; un sospir forse sarà: un sospir dell’idol8 mio, che mi dice: Tornerà.

1. orror: oscurità. 2. altrui: agli altri. 3. Fille: la donna amata; anche questo è nome di tradizione bucolica. 4. mio… foco: oggetto della mia passione.

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5. grate: piacevoli. 6. ne: ci. 7. Corso… beate: felice trascorrere di ore. 8. idol: donna amata come una dea.

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Ah! ch’è il suon del rio, che frange tra quei sassi il fresco umor9; e non mormora, ma piange per pietà del mio dolor. Ma se torna10, vano e tardo ritorno, oh dèi! sarà; ché pietoso il dolce sguardo11 sul mio cener12 piangerà.

9. frange… umor: rompe le sue fresche acque, la sua corrente. 10. torna: il soggetto è Fille. 11. il dolce sguardo: i suoi dolci occhi; siamo di fronte a una metonimia. 12. cener: tomba; altra metonimia.

da Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, Ricciardi, Milano-Napoli, 1959

L

inee di analisi testuale Musicalità e patetismo Paolo Rolli svolge il tema della fuga del poeta dal mondo in cerca di conforto nella natura per la lontananza dell’amata, riprendendolo, attraverso la mediazione di Petrarca (il richiamo è anche a Chiare, fresche e dolci acque), dalla tradizione bucolica classica. Nella canzonetta non c’è dramma o contrasto interiore: la semplice e ragionevole nostalgia – tipica della moderazione arcadica delle passioni – è addolcita dalla regolare cadenza ritmica dei versi ottonari (con accenti fissi sulla terza e settima sillaba metrica), ulteriormente sottolineata dall’alternanza fra versi piani e versi tronchi, e dalla valenza musicale del testo (intessuto di figure retoriche di suono). Questo è, d’altronde, il senso del classicismo arcadico di Rolli, tutto risolto in termini formali e in imitazione tecnica dei modelli antichi, alla ricerca di una perfezione fatta di armonia compositiva e musicale.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Parafrasa la canzonetta di Rolli aiutandoti con le note. 2. Riassumi il contenuto della canzonetta in non più di 10 righe. Analisi e interpretazione 3. Analizza la canzonetta di Rolli dal punto di vista stilistico-formale, individuando in particolare le figure che riguardano il suono (fonetiche) e chiarendone la funzione. 4. Spiega, con esempi tratti dal testo, quale luogo poetico ricorre nella poesia (max 10 righe). Approfondimenti 5. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento: I caratteri tipicamente arcadici della poesia di Paolo Rolli.

Hendrik F. van Lint, Paesaggio laziale, 1746.

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PIETRO METASTASIO La vita e le opere Gravina e il giovane Metastasio

L’ingresso nell’Arcadia

I melodrammi e il successo

La parabola discendente

Pietro Trapassi nasce a Roma, da umile famiglia di commercianti, nel 1698. Le sue precoci capacità poetiche interessano Gian Vincenzo Gravina, erudito e membro dell’Arcadia, che lo prende sotto la propria tutela, gli muta il nome di Trapassi in quello, grecizzato, di Metastasio, lo avvia a rigorosi studi classici e poi lo manda a Scalea, in Calabria, alla scuola filosofica di Gregorio Caloprese, ispirata al razionalismo cartesiano. Rientrato a Roma, il giovane prende gli ordini minori e scrive le prime opere poetiche. Alla morte di Gravina (1718) Metastasio, che è appena divenuto membro dell’Accademia dell’Arcadia, eredita il cospicuo patrimonio del maestro. Entrato però in conflitto con gli arcadi avversari di Gravina, preferisce lasciare l’ambiente romano e spostarsi nel 1719 a Napoli, dove non tarda a farsi conoscere per la sua abilità poetica negli ambienti aristocratici: particolare successo ha la cantata Gli Orti Esperidi (1721), interpretata da una delle più note cantanti del tempo, Marianna Bulgarelli, detta la Romanina. Dalla Bulgarelli, con la quale intreccia una relazione sentimentale, Metastasio viene introdotto negli ambienti musicali napoletani; per lei compone il suo primo melodramma, la Didone abbandonata (1724), cui seguono altre opere di grande successo, come Catone in Utica (1728), Semiramide (1729) e Artaserse (1730). Nel frattempo il poeta, fra il 1724 e il 1730, si stabilisce dapprima a Venezia e poi di nuovo a Roma. La fama ormai conquistata e l’interessamento di un’altra amica e protettrice, Marianna Pignatelli contessa di Althan, gli valgono, nel 1730, la nomina a poeta cesareo alla corte di Carlo VI a Vienna, dove succede ad Apostolo Zeno e compone, specie nel decennio 1730-1740, nel pieno della maturità, i suoi migliori melodrammi: il Demetrio (1731), l’Olimpiade (1733), La clemenza di Tito (1734), l’Achille in Sciro (1736), il Temistocle (1736) e l’Attilio Regolo (1740). È questo un periodo di grande serenità e di felicità creativa per Metastasio, che è apprezzato dalla corte imperiale e celebrato da tutti come sommo poeta. Dopo la morte di Carlo VI nel 1740, tuttavia, la situazione comincia lentamente ad oscurarsi: il poeta cade vittima di una grave ipocondria e la sua ispirazione viene a poco a poco affievolendosi. Metastasio continua a scrivere numerosi melodrammi, come Il re pastore (1751) e Il trionfo di Clelia (1762), ma sempre meno originali e significativi: si fanno più evidenti, in queste opere dell’età avanzata, gli intenti pedagogici, mentre si va accentuando il rimpianto del passato, talvolta anche in chiave anti-illuministica. Metastasio muore a Vienna nel 1782.

Le rime

Gli scritti teorici

Il superamento del classicismo

Oltre che di melodrammi, Metastasio è autore di innumerevoli rime, di cui le più apprezzate sono le canzonette, che esprimono sentimenti misurati, senza punte drammatiche né gravi tensioni, in versi dalla delicata musicalità. Meritevoli di essere ricordate sono anche le azioni sacre, testi teatrali drammatici di argomento religioso, e le cantate, poesie per musica costituite da recitativi e arie. Agli ultimi anni di vita dello scrittore appartengono alcuni scritti teorici di poetica classicista: La poetica d’Orazio tradotta e commentata, l’Estratto dell’”Arte poetica” di Aristotele (1780-1782) e le Osservazioni sul teatro greco (apparse postume nel 1795). In queste opere l’ormai anziano scrittore chiarisce la poetica classicista che è alla base dei suoi melodrammi, prendendo tuttavia le distanze dall’aristotelismo: per un verso critica la regola delle tre unità, per altro verso osserva che la catarsi può essere determinata non solo da passioni violente, ma anche da teneri e delicati sentimenti d’amore. La riflessione dell’ultimo Metastasio sembra dunque invitare ad un superamento, sia pur misurato, dei più rigidi canoni classicisti.

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T2 Sogni e favole io fingo da Sonetti

Pietro Metastasio

Questo sonetto, il più famoso dei trentadue composti da Metastasio, è scritto a Vienna nel 1733, durante la composizione dell’Olimpiade, come suggerisce la didascalia chiarificatrice che introduce il testo. Schema metrico: sonetto, con rime ABAB, ABAB, CDC, DCD. PISTE DI LETTURA • La ripresa di un tema barocco • I sogni della vita e la verità della morte • Tono elegiaco

Scrivendo l’autore in Vienna l’anno 1733 la sua Olimpiade, si sentì commosso fino alle lagrime nell’esprimere la divisione di due teneri amici: e meravigliandosi che un falso e da lui inventato disastro potesse cagionargli una sì vera passione, si fece a riflettere quanto poco ragionevole e solido fondamento possano aver le altre, che soglion frequentemente agitarci nel corso di nostra vita. Sogni e favole io fingo1; e pure in carte mentre favole e sogni orno e disegno2, in lor, folle ch’io son, prendo tal parte3, che del mal che inventai piango e mi sdegno4. 5

10

Ma forse, allor che5 non m’inganna l’arte, più saggio io sono? È l’agitato ingegno6 forse allor più tranquillo? O forse parte da più salda cagion l’amor, lo sdegno?7 Ah che non sol quelle, ch’io canto o scrivo favole son; ma quanto temo o spero8, tutto è menzogna, e delirando io vivo! Sogno della mia vita è il corso intero9. Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo10, fa ch’io trovi riposo in sen del Vero11. da Opere, a cura di M. Fubini, Ricciardi, Milano-Napoli, 1968

1. fingo: invento; dal latino fingere, “plasmare”, “creare”. 2. pure… disegno: anche mentre adorno e disegno (con le parole) storie e sogni sulla carta (in carte); cioè, mentre scrivo. 3. in lor… tal parte: mi immedesimo a tal punto (prendo tal parte) in essi, pazzo che non sono altro (folle ch’io son). 4. mi sdegno: provo sdegno. 5. allor che: quando. 6. ingegno: temperamento, indole. 7. parte… lo sdegno?: l’amore e lo sdegno muovono (parte) da cause più concrete (più salda cagion)? 8. ma… spero: ma anche tutti i miei timori e le mie speranze. 9. Sogno… intero: l’intero corso della mia vita è sogno. 10. a destarmi arrivo: giungerò al momento del risveglio. 11. in sen del Vero: fra le braccia della Verità. Ritratto di Pietro Metastasio. Milano, Civica Raccolta di Stampe Bertarelli.

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inee di analisi testuale Una dichiarazione di poetica Il punto di partenza di Metastasio è la definizione della letteratura come “finzione” di sogni e favole (in linea con Gian Vincenzo Gravina): il poeta finge, in carte… orna e disegna, riconosce che lo inganna l’arte. Si tratta di una finzione che obbliga non solo i lettori ma lo stesso autore, che pure è conscio della propria invenzione, ad una partecipazione emotiva e patetica. È un coinvolgimento liberatorio, cioè funzionale alla catarsi, alla purificazione, che, nella fattispecie, porta alla presa di coscienza da parte del poeta dell’illusorietà di tutto il reale. Non solo il mondo creato dall’arte è finzione, ma tutto è menzogna: la vita intera è delirio e sogno. La letteratura, dunque, in quanto finzione consapevole, svela l’inganno della realtà e indirizza al Vero supremo di Dio. D’altronde, se la vita è finzione, anche le finzioni del poeta sono un legittimo specchio e rifugio della vita. Siamo dunque in presenza di una vera e propria dichiarazione di poetica. Caratteri formali Sul piano formale, è da notare la fittissima trama di rimandi letterari – da Virgilio a Petrarca, da Ariosto a Tasso, da Guarini a Marino – culminanti nel richiamo finale a La vida es sueño (“La vita è sogno”) del drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca, di cui Metastasio leggeva attentamente e annotava le commedie. È da notare anche la grande musicalità dei versi, dovuta in particolare all’attento uso delle figure di costruzione (ad esempio, il chiasmo Sogni e favole… / favole e sogni) e di quelle di suono (ad esempio le due rime equivoche parte:parte e sdegno:sdegno). Le interrogative della seconda quartina e il frequente ricorso alle dittologie (orno e disegno; piango e mi sdegno; l’amor, lo sdegno; canto o scrivo ecc.) sottolineano il legame fra finzione e realtà su cui si regge l’intero componimento.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi i temi del sonetto in non più di 8 righe. 2. Che cosa “finge” il poeta? Qual è il significato del verbo “fingere” nel contesto del sonetto? Analisi e interpretazione 3. Analizza il sonetto dal punto di vista stilistico-formale, individuando in particolare le figure di suono e quelle che vengono utilizzate nella originale costruzione del periodo. 4. Il sonetto si contrappone apertamente al gusto barocco, come altri testi arcadici, o se ne avvicina? Motiva la tua risposta. Approfondimenti 5. Partendo dal contenuto del sonetto Sogni e favole io fingo, rifletti sulla dichiarazione di poetica di Metastasio e, in generale, sulla poetica arcadica e scrivi sull’argomento un saggio breve che non superi le tre colonne di metà foglio protocollo. Indica una destinazione editoriale a tua scelta. Attribuisci al saggio un titolo coerente con la trattazione. 6. Tratta sinteticamente il seguente argomento (max 20 righe): La poesia come “finzione” nella poetica espressa da Metastasio nel sonetto Sogni e favole io fingo.

Jean-Honoré Fragonard, L’altalena, 1767. Londra, Wallace Collection.

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I melodrammi e la riforma del genere Le innovazioni nel melodramma

La nobilitazione del libretto d’opera

Le nuove caratteristiche del genere

Il primo libretto

I melodrammi più famosi della prima fase

La fama di Metastasio è in gran parte legata alla riforma del melodramma seicentesco: un merito che tradizionalmente gli è stato attribuito, nonostante anche Apostolo Zeno avesse già avviato una riforma analoga e l’influenza del nuovo gusto arcadico, fin dall’inizio del Settecento, avesse portato gli autori di libretti a perseguire una più nitida chiarezza espressiva ed una più semplice linearità narrativa. Con Metastasio il libretto acquista dignità letteraria e il rapporto fra parola e musica, che nel Seicento era a favore della musica, torna a comporsi in un equilibrio in cui la parola conquista una nuova intensità espressiva. La trama si semplifica, facendosi in genere più coerente e verosimile; gli argomenti appaiono più dignitosi e vicini a quelli della tragedia; le parti comiche, infine, vengono del tutto abolite. Le nuove caratteristiche dei melodrammi di Metastasio sono tendenzialmente costanti: le opere sono suddivise in tre atti; all’azione partecipano sei o più personaggi, combattuti tra passione e dovere, ma privi quasi sempre di credibilità psicologica e spesso di una plausibile verosimiglianza storica. Sul piano strutturale anche nei melodrammi metastasiani, come già in quelli seicenteschi, si alternano parti dialogate – i recitativi – e parti liriche – le ariette –, nelle quali il poeta meglio può effondere la sua delicata ispirazione, giocando su versi brevi, per lo più settenari, spesso sdruccioli e tronchi, e ottenendo effetti di lieve e squisita musicalità. La Didone abbandonata è il primo melodramma di Metastasio: rappresentato a Napoli nel 1724 con musica di Domenico Sarro (verrà poi musicato anche da Scarlatti e Händel), ripropone il famoso episodio dell’amore fra la regina di Cartagine ed Enea, narrato da Virgilio nel quarto libro dell’Eneide: la vicenda si conclude tragicamente con il suicidio di Didone, dopo che l’eroe troiano è costretto ad abbandonarla poiché gli dèi gli affidano la missione di fondare Roma. Il Demetrio, musicato da Antonio Caldara nella prima rappresentazione del 1731 e poi ripreso da altri musicisti, fra cui Gluck, affronta con grande semplicità ed eleganza il tema del contrasto fra amore e dovere: Cleonice, regina di Siria, ama un giovane di umili origini, che il suo rango le impedisce di sposare; ma, dopo drammatiche peripezie, la vicenda si scioglie con la scoperta che il giovane è in realtà figlio del precedente sovrano. L’Olimpiade, rappresentata per la prima volta a Vienna nel 1733 con musica di Antonio Caldara, si caratterizza per un accentuato patetismo e per la complessità dell’intreccio. L’azione è ambientata ad Olimpia, dove la bella Aristea è promessa in premio al vincitore dei giochi. Licida, innamorato di Aristea, fa gareggiare con le proprie insegne Megacle, che pure ama la giovane. Alla fine, dopo una serie di

LA PRODUZIONE LETTERARIA DI METASTASIO RIME

Sono caratterizzate da sentimenti misurati, espressi in versi ricchi di musicalità. Metastasio scrive 32 sonetti e numerose canzonette.

SCRITTI TEORICI

Composti negli ultimi anni di vita, in essi Metastasio chiarisce la propria poetica classicistica, distanziandosi dalla rigida applicazione dei canoni aristotelici.

MELODRAMMI

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• • • • •

Il libretto acquista dignità letteraria. La trama si semplifica e diventa più verosimile. Gli argomenti sono tratti dalla classicità o dalla storia biblica. Le opere sono suddivise in tre atti. I personaggi, solitamente sei o più, sono privi di credibilità psicologica. • Predomina il sentimento del patetico. • La parola poetica è armoniosa e cantabile: i versi sono dotati di una leggera e delicata musicalità.

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Le opere a sfondo classico

complicate vicende, si scopre che Licida è fratello gemello di Aristea, così che Megacle può sposare la donna amata. Con La clemenza di Tito (1734) Metastasio inaugura una seconda fase, caratterizzata da un ciclo di melodrammi dedicati alla celebrazione dell’eroismo patriottico e, soprattutto, dei valori dell’antichità greco-romana. Nella vicenda di due patrizi che cospirano contro l’imperatore Tito ma, scoperti, vengono da lui perdonati, il poeta esalta la figura del sovrano giusto, capace di guidare ed educare il popolo con il proprio esempio virtuoso. L’Attilio Regolo, ritenuto da molti il capolavoro dell’autore, viene scritto nel 1740 ma rappresentato soltanto dieci anni dopo, con musiche del compositore tedesco Johann Adolf Hasse. L’opera affronta il tema dell’amore per la patria, portando sulla scena la vicenda del console romano che, durante la prima guerra punica, dopo essere stato fatto prigioniero dai Cartaginesi, viene inviato a Roma per consigliare ai concittadini di chiedere la pace. Di fronte al senato, Attilio Regolo sconsiglia ai compatrioti una pace nociva per Roma; ritorna quindi a Cartagine, dove lo attendono la tortura e la morte.

T3 Il supremo sacrificio dell’eroe da Attilio Regolo, III, 10

Pietro Metastasio

Ritenuto il più riuscito tra i melodrammi del secondo periodo di Pietro Metastasio, caratterizzati da una struttura essenziale e poco articolata che tratta un tema patriottico su sfondo classico, l’opera narra l’eroica vicenda di Attilio Regolo, da anni prigioniero dei Cartaginesi, i quali, ormai allo stremo delle forze, per ottenere la tregua desiderata, lo inviano a Roma come ambasciatore ma, temendo che inciti i Romani a continuare la guerra, prima della partenza gli fanno giurare di tornare a Cartagine anche in caso di fallimento della sua missione. Giunto in patria, Regolo rivela la debolezza dei nemici ed esorta i concittadini a respingere le proposte di pace e a proseguire la guerra, poi sale sulla nave che lo ricondurrà a Cartagine, verso la morte. Nella scena conclusiva dell’opera, Regolo spiega al popolo romano i motivi per cui tiene fede al giuramento fatto ai Cartaginesi. Schema metrico: endecasillabi e settenari sciolti, liberamente alternati. PISTE DI LETTURA • La chiarezza razionale con cui l’eroe spiega la sua condotta • Il ruolo di contrappunto attribuito al personaggio di Licinio • Tono epico Atto terzo, scena ultima Regolo1 e seco2 tutti REGOLO 315

“Regolo resti!”3 Ed io l’ascolto! Ed io creder deggio a me stesso!4 Una perfidia5 si vuol? si vuole in Roma?

1. Regolo: Attilio Regolo ha deciso di tornare a Cartagine per mantenere fede alla parola data ai suoi nemici. Il popolo romano circonda il generoso eroe per impedirgli di partire, ma i consoli ordinano ai littori di facilitare il passo di Regolo verso la nave, anche usando le armi contro la folla. L’eroe, per impedire che scoppi un tumulto, prende la parola.

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2. seco: con lui. 3. “Regolo resti!”: Regolo inizia il suo discorso ripetendo le parole di incitamento urlategli dal popolo. 4. creder… stesso!: non oso credere a ciò che io stesso sento. 5. perfidia: sleale tradimento.

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si vuol da me? Quai popoli or produce questo terren! Sì vergognosi voti chi formò?6 chi nudrilli?7 Dove sono i nepoti de’ Bruti, de’ Fabrizi e de’ Camilli8? “Regolo resti!” Ah per qual colpa e quando meritai l’odio vostro? È il nostro amore, signor, quel che pretende franger10 le tue catene. E senza queste Regolo che sarà? Queste mi fanno de’ posteri l’esempio, il rossor de’ nemici11, lo splendor della patria: e più non sono, se di queste mi privo, che uno schiavo spergiuro12 e fuggitivo. A perfidi giurasti, giurasti in ceppi13; e gli àuguri... Eh lasciamo all’Arabo ed al Moro questi d’infedeltà pretesti indegni14. Roma a’ mortali a serbar fede insegni. Ma che sarà di Roma, se perde il padre suo? Roma rammenti che il suo padre è mortal; che al fin vacilla anch’ei sotto l’acciar; che sente al fine anch’ei le vene inaridir; che ormai non può versar per lei né sangue, né sudor; che non gli resta che finir da romano. Ah m’apre il Cielo una splendida via: de’ giorni miei posso l’annoso stame troncar con lode15; e mi volete infame! No, possibil non è: de’ miei Romani conosco il cor. Da Regolo diverso pensar non può chi respirò nascendo l’aure16 del Campidoglio. Ognun di voi so che nel cor m’applaude; so che m’invidia17 e che fra’ moti ancora di quel, che l’ingannò, tenero eccesso18 fa voti al Ciel di poter far l’istesso. Ah non più debolezza. A terra, a terra

6. Sì vergognosi… formò?: chi ha instillato nel popolo desideri così vergognosi? 7. chi nudrilli?: chi li ha alimentati? 8. Bruti, Fabrizi, Camilli: grandi e generosi eroi romani. 9. Licinio: tribuno del popolo. 10. franger: spezzare. 11. rossor de’ nemici: motivo di vergogna per i nemici. 12. spergiuro: chi vilmente non rispetta un giuramento. 13. A perfidi… ceppi: che vale un giuramento strappato con la forza, mentre eri tenuto prigioniero (in ceppi), da nemici ingannatori (perfidi), perché abituati a non rispettare la parola data? 14. e gli àuguri… indegni: il tribuno Licinio, per convincere Regolo a non partire, vuole appellarsi alla volontà de-

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gli àuguri, ossia coloro che si riteneva prevedessero il futuro, osservando le viscere degli animali. L’eroe però scoraggia immediatamente Licinio, dicendo che simili credenze – diffuse presso chi fa parte di un popolo ancora barbaro (Arabo e Moro) – sono indegni di un popolo colto ed evoluto come quello romano. 15. de’ giorni... con lode: mi è data la possibilità di porre fine alla mia già lunga vita (troncar lo stame significa tagliare il filo), in modo glorioso. 16. l’aure: l’aria. 17. m’invidia: mi ammira e vorrebbe essere al mio posto. 18. fra’ moti… eccesso: non essendo ancora spenti i sentimenti eccessivi (tenero eccesso) da cui ciascuno di loro era mosso.

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quell’armi inopportune: al mio trionfo più non tardate il corso, o amici, o figli, o cittadini. Amico, favor da voi domando; esorto, cittadin; padre, comando. (Oh Dio! Ciascun già l’ubbidisce). (Oh Dio! ecco ogni destra inerme)21. Ecco sgombro il sentier. Grazie vi rendo, propizi dei: libero è il passo. Ascendi, Amilcare22, alle navi; io sieguo i passi tui. (Al fin comincio ad invidiar costui). (Sale su la nave) Romani, addio. Siano i congedi estremi degni di noi. Lode agli dei, vi lascio, e vi lascio Romani. Ah conservate illibato23 il gran nome; e voi sarete gli arbitri della terra; e il mondo intero roman diventerà. Numi24 custodi di quest’almo terren25, dee protettrici della stirpe d’Enea26, confido27 a voi questo popol d’eroi: sian vostra cura questo suol, questi tetti e queste mura. Fate che sempre in esse la costanza, la fé28, la gloria alberghi29, la giustizia, il valore. E, se giammai minaccia al Campidoglio alcun astro maligno influssi rei30, ecco Regolo, o dei: Regolo solo sia la vittima vostra31; e si consumi tutta l’ira del Ciel sul capo mio: ma Roma illesa... Ah qui si piange! Addio. Onor di questa sponda, padre di Roma, addio. Degli anni e dell’oblio noi trionfiam per te32. Ma troppo costa il vanto33; Roma ti perde intanto; ed ogni età feconda di Regoli non è. da Opere, a cura di M. Fubini e E. Bonora, Ricciardi, Milano-Napoli, 1968

19. Attilia: figlia di Regolo. 20. Publio: uno dei consoli romani, incarnazione dei più alti e nobili valori civili e morali. 21. inerme: disarmata. 22. Amilcare: padre di Annibale Barca e ambasciatore dei Cartaginesi. 23. illibato: puro, senza macchie disonorevoli. 24. Numi: dèi. 25. almo terren: la terra che ci ha nutriti. 26. Enea: eroe troiano, che la leggenda ritiene capostipite del popolo romano. 27. confido: affido. 28. fé: fedeltà in senso molto lato; comprende, infatti, altri

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valori fondati sulla fiducia, come la lealtà, la rettitudine, la sincerità, l’onestà. 29. alberghi: abiti, risieda. 30. se… rei: se nel futuro un astro maligno manderà qualche minaccioso e perverso influsso (influssi rei). 31. vittima vostra: Regolo offre se stesso in sacrificio agli dei, come capro espiatorio per il bene della comunità. 32. Degli anni… per te: grazie a te, o Regolo, noi riportiamo una trionfante vittoria sul trascorrere del tempo e sulla dimenticanza. In altri termini: noi saremo famosi per molti secoli. 33. il vanto: tale gloria, di cui siamo orgogliosi, è conquistata ad un prezzo troppo alto: la morte di Attilio Regolo.

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inee di analisi testuale Regolo, inflessibile eroe della ragione Il tema di fondo dell’Attilio Regolo è il tragico contrasto tra impegni opposti, entrambi presi in nome del principio secondo cui non si può tradire la parola data. In questo caso gli impegni d’onore che si urtano tragicamente sono l’amore per la patria e la parola data ai Cartaginesi circa il proprio ritorno. Nel volerli onorare entrambi, Regolo diventa così contemporaneamente vittima di se stesso e delle circostanze. La sua mentalità razionale – settecentesca e non più barocca – non gli permette di creare differenze e distinguo interiori né di cercare vie di compromesso. Licinio, la flessibilità del sentimento Al personaggio di Licinio, invece, è attribuito un ruolo di contrappunto che esalta ancor più la coerenza del protagonista. Licinio dà voce a tali diverse interpretazioni morali più flessibili: il sentimento che si contrappone alla rigidità delle regole, il giuramento compiuto di fronte agli spergiuri Cartaginesi è inteso come la circostanza che lo invalida; l’utilità superiore della scelta di non tornare a Cartagine appare male minore rispetto alla morte dell’eroe, baluardo della patria. L’intransigenza dei princìpi razionali Tutto è comunque inutile davanti alla ferrea intransigenza dei princìpi razionali: le risposte di Regolo, taglienti e logiche, smontano i sentimenti, le domande, le giustificazioni di una ragione flessibile. Regolo non vuole rinunciare ai suoi princìpi ideali perché gli permettono di sentirsi de’ posteri l’esempio, il rossor de’ nemici, lo splendor della patria. Rifiuta l’appello agli àuguri – questa abitudine è sentita come troppo contraria alla razionalità – con una sentenza sprezzante. L’argomento opportunistico che vorrebbe conservarlo come padre della città viene smontato con un semplice ragionamento oggettivo: Roma rammenti / che il suo padre è mortal. Regolo si offre in sacrificio per la salvezza dello Stato. La rigidità di Regolo, il suo parlare per sentenze, anche se giuste, lo fanno sì ammirare per la forza d’animo e la rettitudine morale che incarna, ma non lo fanno amare, in quanto appare personaggio astratto, modello di un’umanità perfetta, ma irraggiungibile, eroe già proiettato nel secolo delle rivoluzioni fatte in nome della ragione grandi ma, anche, talora terribili e sanguinose per il rigore dei loro protagonisti.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Svolgi la parafrasi del testo di Metastasio. 2. Aiutandoti con le note, spiega il significato delle seguenti espressioni: a. È il nostro amore, / signor, quel che pretende / franger le tue catene; b. A perfidi giurasti, / giurasti in ceppi; c. ecco Regolo, o dei: Regolo solo / sia la vittima vostra; e si consumi / tutta l’ira del Ciel sul capo mio. Analisi e interpretazione 3. Sottolinea almeno dieci endecasillabi e dieci settenari presentando le caratteristiche che definiscono ciascuno dei due tipi di versi e le loro diverse funzioni ritmiche. 4. Individua le figure retoriche che ritieni più rilevanti a livello espressivo fra quelle presenti nella scena proposta (ad esempio anafore, allitterazioni, ossimori, metafore) e motiva la tua scelta. 5. Ricerca i riferimenti alla storia romana presenti nel testo e spiegane il significato. Approfondimenti 6. Facendo riferimento alle informazioni che possiedi sulla figura storica di Attilio Regolo e sulla vicenda di cui fu protagonista, confronta il personaggio storico con quello della tragedia di Metastasio e rilevane le differenze e le somiglianze. 7. Quali sono le opinioni dei giovani d’oggi sull’importanza del tenere fede alla parola data? Basandoti sulla tua esperienza, su esperienze di altri a te note, e anche su discussioni che hai avuto con i coetanei, stendi una breve relazione sull’argomento.

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Letteratura e cinema AMADEUS Regia: Miloš Forman Anno: 1984 Genere: drammatico L’argomento L’anziano Antonio Salieri, compositore alla corte di Vienna, ricoverato in manicomio per aver tentato il suicidio, riceve la visita di un sacerdote, il quale chiede se è vero che abbia provocato la morte di Mozart. In risposta alla domanda, Salieri suona dei brani al pianoforte e racconta la storia della sua ossessione per la musica e per Mozart. Forman trasporta al cinema l’omonima opera teatrale di Peter Shaffer, che immagina un tormentato rapporto tra Salieri (1750-1825) e Mozart (1756-1791), ambedue musicisti alla corte asburgica nella seconda metà del Settecento, mescolando elementi veri e romanzeschi come la leggenda, del tutto priva di fondamento, che Salieri abbia avvelenato per invidia Mozart. Il Salieri di Forman è ossessionato anche da un personalissimo e inquieto rapporto con Dio: da bambino, pur di diventare compositore, fa voto di castità e, una volta diventato famoso, brucia il suo crocifisso in spregio a Dio che permette a Mozart, un giovane volgare, una ridacchiante oscena creatura, di creare una musica così incantevole. La vitalità geniale e sregolata di Mozart travolge Salieri, che continua a mantenere il suo posto a corte, ma sente minacciata la sua carriera. Dopo la presentazione del Don Giovanni, da cui rimane incantato, Salieri ordisce un piano per eliminare il rivale: sotto false spoglie, gli commissiona una Messa da requiem, con l’intento di spacciarla come propria; una volta terminata la stesura vorrebbe addirittura avvelenare Mozart. Il compositore austriaco, invece, morirà tra gli stenti, povero, abbandonato dalla moglie, stremato dalla composizione di due tra le opere più famose della storia della musica: Il flauto magico e la Messa da requiem. A Salieri non rimane che il rimorso e la propria mediocrità vissuta come tragica grandezza. Il significato e il linguaggio Premettendo che la vera storia del rapporto tra Salieri e Mozart è assai diversa da quella raccontata da Shaffer (e da Forman) – ad esempio, la musica di Salieri all’epoca ebbe molto più successo di quella di Mozart –, il film ha una grande cura per la ricostruzione del periodo storico e della vita di corte, così come per la messa in scena delle opere mozartiane e per la scelta della colonna sonora, che riveste un ruolo fondamentale. La perfezione formale è stata sancita anche da otto premi Oscar e da numerosi altri riconoscimenti. Sono però forse troppo esasperate le figure dei due musicisti, l’uno nel suo cupo livore, l’altro “divino” per il suo talento artistico e, al contempo, molto “terreno” nella vita, al punto da diventare più maschere che personaggi. Alla base di tutto il film rimane una storia senza tempo sulle passioni umane, grazie alla quale ci si può interrogare su che cosa sia il vero talento, che cosa sia l’arte e quale importanza abbia la musica nella nostra vita.

L’attore americano Tom Hulce interpreta Mozart.

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Concetti chiave LA POESIA ARCADICA In opposizione al gusto barocco, nella prima metà del Settecento si diffonde una poesia caratterizzata da un linguaggio semplice e da uno stile limpido e basata su princìpi di ragionevolezza e naturalezza. Fulcro di questa nuova tendenza è l’Accademia dell’Arcadia, fondata nel 1690 a Roma da alcuni letterati che avevano fatto parte del circolo culturale di Cristina di Svezia. L’intento di questi intellettuali, evidente sin dal nome scelto per l’accademia (che rimanda all’omonima regione montuosa dell’antica Grecia), è quello di richiamarsi alla tradizione classica e pastorale: i partecipanti assumono infatti fittizi nomi bucolici, organizzano cerimonie di tipo pastorale e, soprattutto, prendono a modello i poeti greci e latini, ma anche Petrarca e Chiabrera, considerati maestri di compostezza classica e buon gusto. Di Chiabrera apprezzano inoltre le sperimentazioni metriche e l’uso di versi più brevi dell’endecasillabo, che favoriscono i più svariati e dolci effetti ritmici e musicali. La lirica arcadica è principalmente una poesia d’occasione, legata a precise circostanze sociali, come dimostrano le composizioni di Giambattista Zappi (1667-1719), Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768) e Paolo Rolli (1687-1765), tre dei principali esponenti del movimento.

PIETRO METASTASIO Pietro Metastasio (1698-1782) è avviato agli studi classici da Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), il quale è un erudito e membro dell’Accademia dell’Arcadia in cui svolge un’importante funzione prima di lasciarla per il contrasto con Crescimbeni. Metastasio frequenta inoltre la scuola di filosofia di Gregorio Caloprese, ispirata al razionalismo cartesiano. Dopo la morte di Gravina si trasferisce a Napoli, dove viene introdotto negli ambienti musicali della città e compone il primo melodramma, Didone abbandonata (1724). Grazie alla fama conquistata, nel 1730 è nominato poeta cesareo alla corte di Vienna, incarico che mantiene fino alla morte. Mentre le strutture drammaturgiche delle sue opere sono ordinate e razionali, il tono prevalente è quello patetico, caratterizzato da un’atmosfera sentimentale. Tra i suoi melodrammi della seconda fase va ricordato soprattutto Attilio Regolo (1740), tipico esempio di dramma eroico a tema patriottico, fondato su un razionalistico rigore morale e ambientato nel mondo classico. LA RIFORMA DEL MELODRAMMA Oltre a numerose rime, caratterizzate da una delicata musicalità, e ad alcuni scritti teorici che chiariscono la sua poetica, la fama di Metastasio è legata alla riforma del melodramma, sviluppata sulla scia delle variazioni introdotte nel genere già da Apostolo Zeno. Con Metastasio, i libretti acquistano dignità letteraria, mentre le trame si semplificano e diventano più verosimili.

Pietro Metastasio onorato da Maria Teresa in una cerimonia ufficiale nel 1758. Vienna, Österreichische Galerie Belvedere.

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sercizi di sintesi

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il Settecento italiano va diviso a. in tre periodi: Barocco, Arcadia e Illuminismo. b. in tre periodi: Arcadia, Illuminismo e Preromanticismo. c. in due grandi fasi nettamente distinte: arcadica e illuministica. d. in due grandi fasi complementari: arcadica e illuministica. 2. L’Arcadia viene fondata nel 1690 da a. letterati del circolo culturale di Cristina di Svezia. b. pittori e artisti amici di Pietro Metastasio. c. Crescimbeni e altri poeti che si contrappongono a Gravina. d. letterati dell’Accademia della Crusca. 3. L’Arcadia a. si propone di continuare nel solco della poesia barocca. b. intende rinnovare la poesia italiana. c. vuole imitare la poesia europea del periodo. d. si contrappone al gusto detto rococò. 4. Tra i principali poeti dell’Arcadia ci sono a. Gabriello Chiabrera, Paolo Rolli e Gian Vincenzo Gravina. b. Cristina di Svezia, Pietro Trapassi e Gregorio Caloprese. c. Pietro Metastasio, Paolo Rolli e Gabriello Chiabrera. d. Giambattista Zappi, Carlo Innocenzo Frugoni e Gregorio Caloprese. 5. In Solitario bosco ombroso Rolli cerca a. il conforto della natura per la lontananza dell’amata. b. il conforto della musica per un amore non corrisposto. c. di ottenere i favori dell’amata. d. di guadagnarsi la protezione di un nuovo mecenate. 6. Il primo melodramma di Metastasio è a. Semiramide. b. Didone abbandonata. c. Attilio Regolo. d. La clemenza di Tito. 7. Pietro Metastasio viene nominato a. poeta dell’Accademia della Crusca. b. senatore honoris causa. c. poeta cesareo alla corte di Carlo VI a Vienna. d. ciambellano alla corte di Carlo VI a Praga.

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8. Oltre che di melodrammi, Metastasio è autore di a. innumerevoli rime. b. tre poemi epici. c. nessun’altra opera. d. dipinti e affreschi in stile rococò. 9. Con Metastasio il libretto a. perde dignità letteraria. b. acquista dignità letteraria. c. inizia ad essere scritto in italiano. d. continua ad essere scritto in latino. 10. Nella scena IIII dell’Attilio Regolo il protagonista a. incita i Romani a porre fine alla guerra contro Cartagine. b. spiega ai Romani perché deve tornare a Cartagine. c. dichiara di volersi uccidere per ragioni d’onore. d. confessa di voler fuggire da Cartagine.

2 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Quale ruolo ebbe la regina Cristina di Svezia nell’origine dell’Accademia dell’Arcadia nell’Italia del primo Settecento? 2. Quali sono le caratteristiche principali della poetica espressa dagli autori appartenenti all’Accademia dell’Arcadia? 3. Quali sono gli aspetti che accostano lo stile figurativo e architettonico francese detto rococò all’Arcadia italiana? 4. Chi sono gli esponenti principali dell’Arcadia, quali sono le caratteristiche rilevanti della loro poetica e quali le opere più importanti? 5. Quali sono le vicende principali che caratterizzano la vita di Pietro Trapassi detto Metastasio? 6. Quali sono le caratteristiche particolari della poetica di Pietro Metastasio espressa nel suo sonetto Sogni e favole io fingo? 7. Quali sono i più importanti melodrammi di Metastasio e di quali argomenti trattano? 8. Quali sono le innovazioni più importanti che Pietro Metastasio apporta nell’ambito del melodramma italiano? 9. Di che cosa tratta la materia del libretto del melodramma Attilio Regolo di Pietro Metastasio? 10. Quali sono le caratteristiche della svolta nel pensiero, nella poetica e nella produzione letteraria degli ultimi anni di vita di Metastasio?

CAP. 9 - L’ARCADIA

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CAPITOLO

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Il romanzo

nel Settecento

Stampa di Londra del 1780. Milano, Civica Raccolta di Stampe Bertarelli.

L’EVOLUZIONE

I grandi autori inglesi e francesi Un romanzo anticipatore

DEL ROMANZO EUROPEO

Il romanzo nasce, come si è visto, con opere di grande originalità: il Gargantua e Pantagruele di François Rabelais (1494-1553), che inaugura con notevole vigore narrativo e ricchezza espressiva il filone avventuroso, fantastico e satirico, e, soprattutto, il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes (1547-1616), grande capolavoro seicentesco. Il romanzo moderno europeo viene perfezionato nel Settecento soprattutto grazie agli scrittori inglesi che ne sviluppano diversi generi – dal verosimile sentimentale al romanzo di formazione, dalla narrazione avventurosa a quella fantastica – e agli illuministi francesi e ai loro contes philosophiques (“narrazioni filosofiche”). I due principali romanzieri inglesi, Defoe e Swift, operano nella prima metà del Settecento: i loro capolavori si possono ricordare fra le fonti di ispirazione di grandi prosatori e pensatori francesi come Voltaire, Diderot e Rousseau, che ai testi degli scrittori britannici faranno sovente esplicito riferimento. Una delle opere narrative degli ultimi decenni del Seicento che si colloca alle origini del nuovo romanzo è La principessa di Clèves, pubblicato nel 1678 da Madame de La Fayette (1634-1692).

252 CAP. 10 - IL ROMANZO NEL SETTECENTO

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L’opera abbandona il modello del romanzo-fiume in voga, basato su lunghissimi intrecci inverosimili, per collocare la vicenda su uno sfondo storico, al cui interno si muovono i personaggi, ben delineati psicologicamente; la narrazione esclude dunque anche le interminabili digressioni tipiche del romanzo seicentesco. La vicenda è ambientata alla corte di Enrico II di Francia e narra la passione amorosa nata fra la sposa del principe di Clèves e l’affascinante duca di Nemours. La confessione della donna al marito viene per caso ascoltata anche dall’amato, ed entrambi gli uomini si abbandonano alla disperazione: il primo perché comprende che non potrà mai avere il cuore della moglie, l’altro perché capisce che la donna, di alti princìpi morali, non tradirà mai il coniuge. Infatti, alla morte del principe, la principessa rifiuta le profferte del duca di Nemours, per rispetto del marito defunto e per non provare più i tormenti dell’amore appassionato.

I sottogeneri del romanzo settecentesco

Il romanzo epistolare

Il romanzo filosofico

Sterne

Il romanzo d’avventura inglese

Il romanzo di formazione

Nel Settecento il romanzo si differenzia per la prima volta in diversi sottogeneri, riscuotendo un grande successo di pubblico e aprendo la strada alla grandissima stagione ottocentesca, il secolo d’oro del romanzo. Il romanzo epistolare, quello filosofico, il romanzo d’avventura e quello di formazione sono i sottogeneri che nel Settecento conoscono la diffusione più ampia. Il romanzo epistolare, in cui la trama viene costruita dall’autore attraverso lo scambio di lettere fra i protagonisti, trova i maggiori rappresentanti nel francese Montesquieu con le Lettere persiane (1721), nell’inglese Richardson con Pamela (1740) e nello svizzero Rousseau con La nuova Eloisa (1761). Nelle Lettere persiane di Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755) la divertente satira della vita di corte di Usbek e Rica, che appartengono a una cultura profondamente diversa da quella occidentale e osservano senza pregiudizi e con ironico stupore la società europea, lascia trasparire dalla narrazione l’ispirazione filosofica e politica dell’autore che, nel trattato Lo spirito delle leggi (1748), svilupperà il liberalismo moderno con la teoria della divisione dei poteri. In Pamela o la virtù premiata di Samuel Richardson (1689-1761) la narrazione è mossa da intenti didascalici e di edificazione morale. La trama racconta la storia di una servetta quindicenne, dotata di bellezza ma povera di mezzi, che riuscirà a sposare il padrone, un nobile che aveva tentato di abusare di lei e che – una volta respinto – si sente attratto dalle virtù della giovane. Ne La nuova Eloisa il filosofo Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), narrando l’amore negato tra Saint-Preux e Julie – un insegnante povero e la sua nobile allieva, che, costretta a sposare un altro, resta fedele al dovere coniugale e infine muore annegata – intende denunciare i valori di una società che nega il sentimento in nome del rango sociale, rifacendosi alla storica vicenda di Abelardo ed Eloisa. Il genere del romanzo filosofico compare come conte philosophique (“narrazione filosofica”) di cui si avvalgono i pensatori illuministi francesi del periodo per divulgare la propria filosofia (ad esempio Denis Diderot, Rousseau con l’Emilio e soprattutto Voltaire, con il Candido) e anche molti autori inglesi (ad esempio Swift) in aperta polemica con i valori e le ipocrisie della società del tempo. Di genere in parte affine – ma a sé stante per l’ironia e le abbondanti divagazioni – può essere considerata l’opera di Laurence Sterne (1713-1768), che in Vita e opinioni di Tristram Shandy (1760-1767) gioca con la struttura stessa del romanzo realistico. Nei romanzi inglesi del Settecento è comunque l’elemento avventuroso quello preponderante. I protagonisti, attivi e intraprendenti, riflettono, infatti, l’atteggiamento della classe sociale borghese che realizzerà la Rivoluzione industriale e condurrà all’ampliamento dell’Impero britannico. Daniel Defoe (1660-1731), con il Robinson Crusoe (1719) narra le vicende di un uomo civilizzato per sopravvivere nella natura selvaggia; Jonathan Swift (1667-1745) con I viaggi di Gulliver (1726) critica attraverso una narrazione fantastica gli aspetti deteriori della società in cui vive. Inglese è anche il primo romanzo moderno di formazione – detto anche, con un termine tedesco, Bildungsroman: Tom Jones (1749), di Henry Fielding (1707-

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CAP. 10 - IL

ROMANZO NEL

SETTECENTO

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1754), è costruito sullo sviluppo psicologico di un giovane costretto ad affrontare i colpi della malasorte. Anche il romanzo epistolare Pamela di Richardson racchiude alcuni aspetti del romanzo di formazione: ad esso però Fielding contrappone una visione del mondo più pessimistica. In una posizione intermedia può essere considerata la morale, in chiave filosofica, che conclude il Candido di Voltaire.

VOLTAIRE La vita e le opere

Le Lettere filosofiche e i viaggi

Parigi, la Prussia e la Svizzera

Voltaire, versatile scrittore e filosofo francese, coltiva e porta ai massimi vertici il genere del conte philosophique, ossia il romanzo filosofico. François-Marie Arouet, che nel 1718 assumerà il nome di Voltaire, nasce a Parigi nel 1694. Figlio di un ricco notaio, decide di non seguire la carriera del padre, preferendo frequentare il bel mondo, viaggiare e scrivere versi. Di carattere ironico e sferzante, compone pungenti satire, che lo portano alla permanenza per alcuni mesi nel carcere della Bastiglia. A partire dal 1718, per un decennio, egli si dedica alla composizione di tragedie e poemi epici di gusto classicista. Nel 1726, in seguito a contrasti con un esponente della nobiltà, viene nuovamente rinchiuso alla Bastiglia e poi costretto a partire in volontario esilio per l’Inghilterra. Nei tre anni trascorsi nell’isola, egli studia la filosofia inglese e incontra pensatori e letterati come Jonathan Swift. Nel 1733, a Londra, pubblica in inglese le Lettere filosofiche, da alcuni ritenuto il manifesto dell’Illuminismo francese. Tornato in Francia, nel 1734 ripubblica l’opera, che viene condannata al rogo dal parlamento. Lo scrittore si rifugia a Cirey, presso il marchese du Châtelet della cui moglie è l’amante e vi resta per dieci anni, alternando studi e pubblicazioni di opere a viaggi. Fra questi ultimi, il più importante è il viaggio in Germania, compiuto da Voltaire per incontrare Federico II il Grande (1712-1786), re di Prussia dal 1740, con cui è in corrispondenza dal 1736, per incoraggiarlo ad assumere una politica improntata alle istanze del dispotismo illuminato. Nel 1744 si stabilisce a Parigi con Madame du Châtelet e ottiene i favori della corte soprattutto grazie all’appoggio della favorita di re Luigi XV, Madame de Pompadour (1721-1764), protettrice degli Illuministi. Nominato storiografo di corte, scrive i romanzi filosofici Babouc (1746), Memnon (1747) e Zadig (1748). Il suo favore presso la corte va però declinando; Voltaire si trasferisce in Prussia presso Federico II, con il titolo di ciambellano e una cospicua pensione (1750). Fra gli scritti più significativi di questo periodo vanno ricordati il romanzo filosofico Micromégas (1752) e i primi articoli del Dizionario filosofico. Anche i rapporti con il sovrano prussiano, però, si guastano rapidamente e Voltaire lascia la Prussia; solo dopo qualche anno, la corrispondenza fra i due viene ripresa per protrarsi fino alla morte del filosofo. Deluso dalle corti, ormai sessantenne, Voltaire prende dimora nel 1754 in Svizzera presso Ginevra. In questo periodo incontra importanti personalità, fra cui Jean-Baptiste d’Alembert, con il quale si accorda per collaborare all’Enciclopedia illuminista; riprende inoltre a scrivere testi teatrali, poetici e saggi. Nel 1759 pubblica il suo capolavoro letterario: il romanzo filosofico Candido o l’ottimismo. Anche in Svizzera, Voltaire sostiene le tesi illuministe, affinando la propria filosofia deista, razionalista e sostenitrice della tolleranza e si batte per la riabilitazione di pensatori condannati per le loro opinioni. In questo clima naRitratto di Voltaire.

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La fama e la vecchiaia a Parigi

scono il Trattato sulla tolleranza (1763), il Dizionario filosofico (1764) e il Commentario al libro “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, le cui tesi su tortura e pena di morte vengono pienamente condivise. La popolarità di Voltaire cresce notevolmente con gli anni. Accogliendo l’invito degli amici, nel 1778, ultraottantenne, Voltaire parte per Parigi, dove viene accolto dalla folla osannante e visitato dai più illustri personaggi, fra cui lo scrittore, scienziato e politico americano Benjamin Franklin (1706-1790). Muore nel 1778.

Il Candido e gli altri romanzi filosofici

La trama

Il significato dell’opera

Zadig, romanzo sul destino

Micromégas: una satira affidata a due alieni

Il Candido o l’ottimismo, edito nel 1759, è, fra i romanzi filosofici di Voltaire, l’opera più matura. Protagonista è il giovane Candido, spirito ingenuo e bonario, allevato in un castello, al quale il filosofo ottimista Pangloss (le cui opinioni rappresentano una deformazione caricaturale dell’ottimismo del pensatore tedesco Gottfried Leibniz) ha insegnato che tutto è bene e che l’umanità vive nel migliore dei mondi possibili. Candido è però vittima di una serie di terribili disavventure: viene cacciato dal castello perché ama la giovane e bella baronessa Cunegonda; apprende poi che il castello stesso è stato saccheggiato e tutti gli abitanti uccisi; assiste al disastroso terremoto di Lisbona; crede di vedere impiccare Pangloss e scopre che Cunegonda è diventata una prostituta; infine, è costretto a uccidere due uomini. Solo in America meridionale, nell’Eldorado, dove si reca in seguito a molte peripezie, incontra buoni selvaggi, uomini privi di crudeltà ed egoismo. Accompagnato dal pessimista Martino, rintraccia a Costantinopoli Cunegonda, che porta i segni delle disavventure e delle sofferenze patite. A conclusione del romanzo, Candido, Martino, Cunegonda, Pangloss – in realtà scampato alla forca – e altri amici, si stabiliscono in una fattoria della Turchia, dove cercano di capire il senso dell’esistenza da un saggio monaco musulmano. Infine, traendo esempio dalla vita condotta da un vecchio turco e dalla sua famiglia, decidono di dedicarsi alla coltivazione di un piccolo orto. La conclusione – basata sull’affermazione di Pangloss secondo cui tutte le sciagure e le disavventure patite erano indispensabili per giungere a quel punto e dunque dimostrano che si vive nel migliore dei mondi possibili – a parere di molti interpreti ribadirebbe ulteriormente, con ironia, che bersaglio del conte philosophique sarebbe la concezione ottimistica a oltranza di Leibniz (1646-1716), secondo cui tutto ciò che accade è voluto da Dio e l’universo è quanto di più perfetto si potrebbe creare. Secondo altri, è invece ambigua; Candido, infatti, si trova costantemente in bilico tra il pensiero dell’ottimista Pangloss e quello del pessimista Martino sulla valutazione della vita e del mondo. Analoghe caratteristiche presentano altri contes philosophiques di Voltaire. Particolarmente riuscito, in quanto i personaggi sono dotati di una certa autonomia dalla tesi metafisica e morale da dimostrare, è Zadig o il destino, edito nel 1748. Il protagonista, Zadig, è un giovane abitante di Babilonia, virtuoso e saggio, convinto che necessariamente le sue qualità gli debbano assicurare la felicità. Tuttavia incorre in tante e tali sfortunate disavventure da indurlo a convincersi che il mondo sia governato da un destino crudele, che premia i malvagi e si accanisce sui buoni. Solo dopo aver incontrato un eremita, che gli dimostra che il caso non esiste e che tutto è prova, prevenzione, punizione o ricompensa, Zadig supera vittoriosamente le avversità e raggiunge la felicità e l’amore. Micromégas, edito nel 1752, ha per protagonista un gigantesco abitante di Sirio che intraprende un viaggio sul pianeta Saturno, dove incontra un nano. I due alieni giungono poi sulla Terra, scoprono che è abitata e riescono a comunicare con gli uomini. L’autore utilizza così il viaggio dei due extraterrestri come occasione di satira su quelle concezioni filosofiche del suo tempo, oggetto della sua pungente critica. In particolare, l’ironia si rivolge contro un gruppo di studiosi che discutono dell’anima: le loro tesi vengono giudicate, sia pure bonariamente, assurde e presuntuose, tranne quelle coincidenti con la filosofia razionalistica, sensistica e deista cui aderisce l’autore.

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T1 La conclusione del Candido da Candido, XXX

Voltaire

Il Candido è un romanzo filosofico ma rientra anche nel genere del romanzo di formazione, in quanto accompagna il percorso del protagonista che fa tesoro delle molteplici e complicate esperienze vissute per trovare una risposta soddisfacente alle proprie domande sul significato della vita, espresso in queste ultime battute della narrazione. PISTE DI LETTURA • Gli eterni interrogativi metafisici e morali • Una prudente accettazione della realtà • La preponderanza del dialogo

Interrogativi sulle sventure della vita

Le risposte del monaco turco

Candide, Martin e Pangloss qualche volta discutevan di metafisica e di morale. Spesso passavano sotto le finestre della masseria barche cariche di effendì, di pascià, di cadì1 che portavano in esilio a Lemno, a Mitilene, e Erzerum2. Si vedevan venire altri cadì, altri pascià, altri effendì che pigliavano il posto degli esiliati e che erano esiliati a loro volta. Si vedevan passare teste accuratamente impagliate3 da presentare alla Sublime Porta4. Tali spettacoli raddoppiavano le dissertazioni5; e quando non discutevano la noia era talmente intollerabile che un giorno la vecchia ardì dire: “Mi piacerebbe sapere cosa è peggio, se esser violentata cento volte dai pirati negri, se avere una chiappa tagliata, se passar per le verghe dei bulgari, se esser fustigato e impiccato in un autodafé6, lì siam passati tutti, oppure star qui a non far nulla”. “È un gran problema” disse Candide. Quel discorso fece nascere nuove riflessioni, e Martin concluse che l’uomo è fatto per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine7 o nel letargo della noia. Candide non era d’accordo, ma non affermava nulla. Pangloss ammetteva di aver sempre e orrendamente patito; ma siccome una volta aveva sostenuto che tutto andava benissimo, lo sosteneva ancora senza tuttavia crederci. […] C’era nei dintorni un dervì8 famosissimo, riputato il miglior filosofo di Turchia; andarono a consultarlo. Pangloss prese la parola e disse: “Maestro, veniamo a pregarti di dirci perché un animale strano come l’uomo è stato creato”. “Di che t’impicci?” disse il dervì “forse che ti riguarda?” “Ma, reverendo padre” disse Candide “è orribile il male che c’è al mondo”. “Cos’importa” disse il dervì “che ci sia male o bene? Quando Sua Altezza spedisce un vascello in Egitto, forse che s’inquieta se i topi che son sul vascello stanno bene o male?”9 “Cosa bisogna fare, allora?” disse Pangloss.

1. effendì... cadì: effendi, in turco, significa “signore”; pascià è un alto funzionario dell’amministrazione o dell’esercito; cadì è una personalità che somma le funzioni di magistrato, esattore e vescovo. 2. Lemno... Erzerum: Lemno e Mitilene sono isole dell’Egeo prossime alle coste turche; Erzerum è una località presso il fiume Eufrate. 3. impagliate: sono le teste dei dignitari caduti in disgrazia del Sultano ed esposte in processione al pubblico ludibrio. 4. Sublime Porta: Palazzo del Governo turco, residenza del Sultano. 5. dissertazioni: discussioni. 6. autodafé: è la cerimonia in cui, in Spagna, venivano

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eseguite le condanne a morte pronunciate dall’Inquisizione. Letteralmente significa “atto di fede”. 7. inquietudine: l’angosciata ricerca di una condizione ideale e irraggiungibile: il migliore dei mondi possibili sognato dall’ottimista Pangloss. 8. dervì: religioso musulmano, spesso con funzioni di saggio. È detto anche derviscio: il termine significa “mendicante”, in quanto il dervì è dedito a una vita umile, spesso nella povertà più assoluta. 9. “Cos’importa… bene o male?”: il saggio paragona la sorte degli uomini nel mondo a quella dei topi in un vascello e Dio a colui che ha varato la nave, incurante della sorte dei suoi occupanti.

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I sereni suggerimenti del vecchio contadino

Pangloss ritiene la grandezza pericolosa

La saggia conclusione di Candido

“Tacere10” disse il dervì. “Speravo” disse Pangloss “di ragionare un poco con te degli effetti e delle cause, del migliore dei mondi possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita”. A quelle parole il dervì gli sbatté la porta in faccia. Durante la conversazione si sparse la notizia che a Costantinopoli avevan strozzato due visir11 del banco e muftì12, e che avevano impalato vari loro amici. Quella catastrofe fece gran rumore per ogni dove durante qualche ora. Pangloss, Candide e Martin, tornando alla loro piccola masseria, incontrarono un buon vecchio che pigliava il fresco sulla porta di casa, sotto una pergola d’aranci. Pangloss, che non era meno curioso di quanto fosse ragionatore, gli domandò come si chiamava il muftì appena strozzato. “Non ne so nulla” disse il buon vecchio “non ho mai saputo il nome di nessun muftì né di nessun visir. Ignoro affatto il caso di cui parlate; suppongo che generalmente quelli che si immischiano nelle cose pubbliche periscono miseramente, e che gli sta bene; ma non mi interesso mai di quello che fanno a Costantinopoli; mi contento di mandarci a vendere i frutti del giardino che coltivo”. Detto questo, fece entrare gli stranieri in casa: due delle sue figlie e due figlioli presentaron loro varie qualità di sorbetti preparati in casa, caimac13 punteggiato di scorze di cedro candito, poi arance, limoni, melàngole, ananassi, pistacchi, e caffè di Moka non mescolato col cattivo caffè di Batavia e delle isole14. Dopo di che le due figliole del buon musulmano profumaron le barbe di Candide, di Pangloss e di Martin. “Dovete possedere” disse Candide al turco “una vasta e magnifica terra”. “Non posseggo che venti jugeri15” rispose il turco; “li coltivo coi miei figli; il lavoro ci tien lontano tre grandi mali: la noia, il vizio e la miseria”. Tornando alla masseria Candide fece grandi riflessioni sul discorso del turco. Disse a Pangloss e a Martin: “Quel buon vecchio mi pare si sia fatto una vita di gran lunga preferibile a quella dei sei re coi quali ebbimo l’onore di cenare16”. “Le grandezze” disse Pangloss “sono assai pericolose, secondo quanto riferiscono tutti i filosofi: perché insomma Eglon, re dei moabiti, fu assassinato ad Aod; Assalone fu appeso per i capelli e trafitto da tre lance; il re Nadab, figlio di Geroboamo, fu ucciso da Baasa; il re Ela, da Zambri; Ocosia da Geo; Atalia da Gioad; i re Gioachino, Ieconia, Sedecia furon schiavi. Sapete come perirono Creso, Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale, Giugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Ottone, Vitellio, Domiziano, Riccardo II d’Inghilterra, Edoardo II, Enrico VI, Riccardo III, Maria Stuarda, Carlo I, i tre Enrichi di Francia, l’imperatore Enrico IV17. Sapete…” “So anche” disse Candide “che bisogna coltivare il proprio giardino18”. “Hai ragione” disse Pangloss; “perché quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden, ci fu posto ut operaretur eum19, perché lo coltivasse; il che dimostra che l’uomo non è fatto per il riposo”.

10. Tacere: l’invito si può ritrovare in una missiva del 1757 dello stesso Voltaire a un suo conoscente, nella quale, disilluso del ruolo attivo del filosofo presso le corti e i principi, intravede un’alternativa nel tacere, vivere in pace [...] lasciar che il mondo vada per la sua strada. 11. visir: ministri. 12. muftì: personalità religiosa e giuridica, il cui compito è di garantire l’osservanza del culto ed emanare sentenze di natura dottrinale. 13. caimac: dolce di crema o di latte. 14. Batavia... isole: Batavia è l’odierna Jakarta, principale centro di Giava, isola dell’arcipelago della Sonda. 15. jugeri: uno iugero corrisponde a 2.500 metri quadrati. 16. sei re… cenare: i sei re sono i monarchi spodestati

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con i quali Candido ha cenato a Venezia (la vicenda è narrata nel capitolo XXVI del romanzo). 17. Eglon... Enrico IV: sono elencati personaggi storici o dell’Antico Testamento, tutti potenti monarchi il cui potere è stato per loro fonte di sventura. 18. coltivare il proprio giardino: probabilmente l’autore allude tanto al ruolo del filosofo quanto a una generica massima di saggezza, secondo cui gli uomini non dovrebbero proiettare le proprie mire e il proprio impegno oltre l’ambito che il destino ha loro assegnato. Secondo altri, l’espressione sottintende un invito a rinunciare alla vita pubblica. 19. ut operaretur eum: latino, “perché lo coltivasse”; è una citazione dall’Antico Testamento, libro della Genesi (2, 15).

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“Lavoriamo senza ragionare” disse Martin; “è l’unico modo di render la vita tollerabile”20. Tutta la minuscola compagnia condivise quel lodevole disegno; ciascuno si mise ad esercitare i propri talenti. La poca terra fruttò molto. Cunégonde in verità 75 era ben brutta, ma divenne un’ottima cuoca; Paquette ricamò; la vecchia badò alla biancheria. Persino fra Giroflée si rese utile; fu ottimo falegname e divenne addirittura galantuomo; e a volte Pangloss diceva a Candide: “Tutti gli eventi sono concatenati nel migliore dei mondi possibili21; perché insomma, non t’avessero cacciato da un bel castello a pedate nel sedere per amo- 80 re di madamigella Cunégonde, non fossi caduto nelle mani dell’Inquisizione, non avessi percorso l’America a piedi, non avessi dato un bel colpo di spada al barone, non avessi perduto tutte le pecore del buon paese di Eldorado, non saresti qui a mangiar cedro candito e pistacchi…” 85 “Ben detto” rispose Candide “ma dobbiamo coltivare il nostro orto”. da Candido, trad. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano, 1954

20. “Lavoriamo... tollerabile”: l’amara conclusione di Martin ne riflette la pessimistica visione del mondo; il suo invito a gettarsi nel lavoro trascurando l’impegno pubblico riflette il disincanto dell’autore durante gli anni del suo esilio in Svizzera, ma lo accentua esageratamente. 21. nel migliore dei mondi possibili: alla fine del racconto sembra che nulla sia mutato nelle convinzioni di

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Pangloss. Voltaire vuol così sottolineare l’esagerazione – opposta a quella di Martin – di quanti accolgono la tesi leibniziana secondo cui Dio ha creato il migliore dei mondi possibili: tale visione ottimistica della vicenda umana, cui pure Voltaire, come quasi tutti gli Illuministi, sembra avvicinarsi, è a sua volta qui accentuata fino a renderla caricaturale.

inee di analisi testuale Opinioni diverse sul senso della vita Nel romanzo, Pangloss incarna l’estremo ottimismo, Martino il pessimismo totale e Candido (alter ego di Voltaire) oscilla fra le due tendenze. L’inchiesta si conclude in Turchia, con il parere di un monaco mendicante – la sentenza paradossale: “Tacere” – e di un vecchio contadino che vive isolato e sereno, ignorando gli intrighi del mondo. I tre infine si trovano d’accordo sul fatto che il vecchio vive meglio dei potenti del mondo e, tornati nella loro fattoria, si mettono a lavorare senza più pensare, usando ognuno le proprie capacità. Il romanzo è concluso dalla celebre sentenza di Candido, divenuta successivamente un proverbiale modo di dire: coltiviamo il nostro orto. Voltaire e il terremoto di Lisbona Voltaire scrive il Candido dopo che il terremoto di Lisbona gli ha dimostrato l’impotenza dell’uomo di fronte ad alcune manifestazioni della natura e mentre è esule volontario in Svizzera, in preda a una profonda delusione, che lo induce a mutare la prospettiva della propria indagine filosofica. Guidare la mano e il cuore dei principi si è rivelato un compito impossibile per il filosofo, che ripiega perciò su un orientamento intellettuale più pragmatico e quotidiano: lontano dalle corti e dalla politica, egli si dedicherà più concretamente alla divulgazione degli ideali di tolleranza e libertà. Un progetto di tolleranza e libertà È forse questo il giardino del filosofo, lo spazio in cui egli può operare con maggiore libertà e incisività. L’orto che i protagonisti del racconto si ripromettono di coltivare è – secondo molti interpreti – il nuovo impegno del filosofo, che presuppone l’accettazione della propria fragile condizione, fondamento di quella tolleranza che, nell’omonima voce del suo Dizionario filosofico, Voltaire giustificherà con le seguenti parole: Che cos’è la tolleranza? È l’appannaggio dell’umanità. Noi siamo tutti pieni di debolezze e di errori: perdoniamoci a vicenda le nostre sciocchezze – questa è la prima legge della natura (da Gli illuministi francesi, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino, 1966).

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il capitolo finale del Candido in non più di 20 righe. 2. Elenca tutti i personaggi che compaiono nel brano del Candido qui proposto e delinea le loro opinioni sul senso della vita. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A quale genere di romanzo appartiene il Candido e quali caratteristiche lo evidenziano? b. Quali grandi del mito e della storia sono citati nel testo e a quale proposito? c. Quali potrebbero essere i significati metaforici della frase coltivare il nostro orto? Approfondimenti 4. Riassumi i testi di una o più canzoni moderne a te note in cui compare il tema della felicità legata a una vita semplice, lontana dagli intrighi del mondo; confrontane il testo con il brano sopra proposto ed evidenziane i punti di contatto; metti inoltre in luce l’influenza della filosofia sui testi scritti da uno o più fra gli odierni autori di testi per musica leggera. 5. Candido e i suoi amici decidono di dedicarsi alla coltivazione di un piccolo orto perché, come osserva Martino con l’assenso di Candido, lavorare senza ragionare (cioè senza porsi interrogativi insolubili) è l’unico modo per rendere sopportabile la vita. Sei d’accordo? Pensi che oggi sia comune questo modo di pensare? Esprimi le tue opinioni in proposito, confrontando tale concezione con altre diverse, parimenti sostenibili.

JONATHAN SWIFT La vita

Jonathan Swift nasce a Dublino nel 1667, in una famiglia inglese trasferitasi in Irlanda. Rimasto orfano, i parenti irlandesi gli assicurano un’ottima istruzione e trasferitosi in Inghilterra, diventa segretario di sir William Temple e conosce Esther Johnson, che chiamerà affettuosamente Stella e a cui sarà legato per tutta la vita. Nel 1694 decide di abbracciare la carriera ecclesiastica soprattutto per risolvere le difficoltà economiche: si occuperà sempre poco della parrocchia assegnatagli presso Belfast, e preferirà vivere ospite del suo nobile protettore. In seguito alla pubblicazione dei primi scritti e versi satirici, fra il 1704 e il 1710, la fama di Swift inizia a diffondersi a Londra, dove lo scrittore si trasferisce; nel frattempo, diventa amico del celebre intellettuale e poeta Alexander Pope (1688-1744). Nominato infine consigliere del governo, ne difende le posizioni dalle colonne dell’Examiner, periodico che egli dirige. A Esther Johnson dedica la testimonianza autobiografica del Diario a Stella (1710-1713), che verrà pubblicato postumo. Caduto il governo tory (cioè conservatore), lo scrittore abbandona la politica attiva e si trasferisce a Dublino (1714), dove si impegna come difensore dei diritti degli Irlandesi contro la monarchia britannica (Una modesta proposta, 1729). La sua personalità, intanto, assume tratti sempre più marcati di misantropia, che si accentuerà dopo la morte di Stella, avvenuta nel 1728.

I viaggi di Gulliver

La trama

Rinchiuso nel ritiro di Dublino, Swift si occupa quasi esclusivamente della stesura del suo capolavoro, I viaggi di Gulliver, pubblicato anonimo nel 1726, mentre, negli ultimi anni di vita, aumenta la sofferenza psichica. Muore nel 1745 a Dublino, lasciando il proprio patrimonio per la costruzione di un ospedale per malattie mentali. Tutte le opere di Swift sono percorse da un’aspra satira (spesso di carattere anche politico, come, del resto, in altri autori) e dal gusto della violenta polemica. Tale tendenza spesso diventa, soprattutto nel suo capolavoro, pessimismo amaro nei confronti di tutti gli esseri umani, espresso attraverso una narrativa a forte componente fantastica. Il protagonista de I viaggi di Gulliver è, appunto, Lemuel Gulliver, medico di bordo nel corso di spedizioni per mare che spesso finiscono con naufragi, occasioni per polemizzare con i difetti umani attraverso doppi sensi ironici. A Lilliput, do-

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La conclusione satirica e pessimista

ve Gulliver fa naufragio nella prima parte del romanzo, vivono uomini dodici volte più piccoli del normale, i rapporti sociali sono caratterizzati da guerre provocate da assurde motivazioni (ad esempio, i diversi metodi per rompere le uova). Attraverso la narrazione fantastica, Swift vuole far comprendere che stolte e inutili sono le guerre che da millenni gli uomini, schierati in campi avversi, continuano a combattere. Nella seconda parte, l’approdo a Brobdingnag, terra di giganti, è occasione per satireggiare il mondo umano e l’autore stesso; i giganti, infatti, si stupiscono che insetti striscianti come gli uomini abbiano pensato a inventare le armi da fuoco anziché badare ad aiutarsi reciprocamente, data la loro debolezza. La narrazione è anche occasione di polemica nei confronti dei difetti dei potenti. La terza parte ha come bersaglio, tra gli altri, soprattutto gli intellettuali, gli artisti e i teologi, facilmente riconoscibili nella satira degli abitanti dell’isola di Laputa, sciocchi filosofi, scienziati e inventori incapaci di affrontare la realtà, privi di senso pratico, perduti dietro sogni come costruire le case partendo dai tetti o estrarre raggi di sole dalle zucche. La quarta parte rappresenta il culmine del pessimismo e della satira: Gulliver visita il Paese dei cavalli, gli Houyhnhnm, che si lasciano governare dalla ragione, sono saggi e di animo nobile, ma costretti a convivere con gli Yahoo, esseri dall’aspetto umano, presuntuosi, bestiali e feroci, che abitano le foreste. Il ritorno a casa di Gulliver fa comprendere al lettore che gli Yahoo sono gli esseri umani: desidero che la compagnia di uno Yahoo inglese non mi riesca del tutto insopportabile; e quindi prego coloro che dell’assurdo vizio dell’orgoglio sono intinti magari leggermente, di starmi lontano più che possono.

T2 A Lilliput da I viaggi di Gulliver, I, IV

Jonathan Swift

Il brano che segue è tratto dal capitolo IV della prima parte del romanzo e racconta i problemi politici dello stato di Lilliput, dove Gulliver è approdato scampando a un naufragio. Gulliver aiuterà i suoi amici nella guerra contro l’isola di Blefuscu: per sventare l’invasione, andrà al di là del canale per allontanare la flotta nemica con un pezzo di spago. PISTE DI LETTURA • Da marinaio a supereroe dei lillipuziani • La satira contro le fazioni politiche inglesi e le guerre di religione • Tono favolistico

Il ministro Reldresal chiede udienza a Gulliver

Una mattina, due settimane dopo che avevo ottenuto la mia libertà1 Reldresal2, primo Segretario degli Affari privati, come lo si vuole denominare, venne a casa mia seguito da un solo servo. Dopo aver dato ordine che la carrozza lo stesse ad aspettare lontano, mi fece chiedere che volessi concedergli un’ora di udienza; al che io acconsentii immediatamente, sia per causa del suo grado e 5 dei suoi meriti personali, sia per i molti buoni uffici da lui interposti nella congiuntura della mia istanza all’Imperatore3. Gli proposi di stendermi giù sul pavimento, perché potesse nel modo migliore arrivare al mio orecchio, ma preferì che lo sostenessi sulla mia mano durante la nostra conversazione. Comin-

1. la mia libertà: Gulliver, dopo il naufragio sull’isola di Lilliput, era stato fatto prigioniero dai lillipuziani, che lo legano mentre sta dormendo. 2. Reldresal: dietro questo nome dall’approssimativo si-

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gnificato di “sognatore reale” forse si cela un uomo politico importante ai tempi di Swift: lord Townshend. 3. nella congiuntura... Imperatore: in occasione della mia richiesta all’imperatore.

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I problemi di Lilliput

I conflitti tra Tacchi Alti e Tacchi Bassi

I nemici dell’isola di Blefuscu

L’origine dell’inimicizia: come rompere le uova

ciò col rallegrarsi della libertà che avevo ricuperata; disse che un po’ di merito per essa non poteva negare che gli spettasse: ma, aggiunse, se la corte non si fosse trovata nelle condizioni in cui versava, la libertà io forse non l’avrei ottenuta così presto. ‘Poiché, continuò a dire, per quanto fiorente possa sembrare ai forestieri la condizione in cui ci troviamo, due grossi malanni ci affliggono: una violenta fazione all’interno, e il pericolo di una invasione da parte di un formidabile nemico esterno. Quanto al primo malanno, dovete sapere che da circa settanta lune due partiti lottano l’uno contro l’altro in questo impero. Il primo è quello dei Tramecksan, il secondo quello dei Slamckesan, nomi che loro vengono rispettivamente dai tacchi alti o bassi delle scarpe, e che li contraddistinguono. Asserzione generale è che i Tacchi Alti siano i più conformi alla nostra antica costituzione: ma è un fatto che Sua Maestà si vale solo dei Tacchi Bassi4 per l’amministrazione governativa e in tutti gli uffici5 che è privilegio della Corona distribuire, ciò che deve subito saltarvi agli occhi, insieme alla particolarità che l’Imperatore porta tacchi che sono di un drurr, cioè quattordicesimo di pollice, più bassi di quelli che si vedono a corte. I rancori fra queste due fazioni vanno fino al punto che chi appartiene alla prima disdegna di mangiare o bere o conversare con chiunque appartenga alla seconda. Calcoliamo che i Tramecksan, o Tacchi Alti, ci battono quanto a numero; ma il potere è interamente nelle nostre mani. Sua Altezza Imperiale, l’erede al trono, sembra, purtroppo, avere una certa propensione verso i Tacchi Alti; per lo meno è a tutti evidente che uno dei suoi Tacchi è più alto dell’altro, e ciò fa sì ch’egli zoppichi nel camminare. Orbene, mentre ci si dibatte in questi torbidi interni6, siamo minacciati dall’invasione dei nostri nemici, gli abitanti, cioè, dell’isola di Blefuscu7, la quale è l’altro grande impero dell’universo, quasi altrettanto ampio e potente quanto questo di Sua Maestà. Poiché i nostri savi hanno i maggiori dubbi circa quanto vi abbiamo udito affermare, che, cioè, esistano altri regni e stati nel mondo popolati da esseri umani grossi come voi, e preferiscono credere che voi siate caduto giù dalla luna o da qualche altro astro; e certo è che cento uomini della vostra mole distruggerebbero in breve spazio di tempo tutti i frutti e il bestiame di questi dominii di Sua Maestà. Oltre a ciò, le nostre cronache di seimila lune8 non menzionano altre regioni che non siano quelle dei due imperii di Lilliput e Blefuscu. Queste due gagliarde potenze, come appunto stavo per dirvi, guerreggiano ostinatamente fra loro dalla bellezza di trentasei lune. La lite cominciò nel seguente modo9. È ammesso da tutti che il sistema più antico di rompere le uova prima di mangiarle è quello di farne saltare l’estremità più grossa: sennonché il nonno di Sua Maestà regnante, volendo mangiare un uovo, e rompendolo secondo l’antico sistema, si tagliò per caso un dito. L’Imperatore suo padre non volle altro, e subito pubblicò un editto inteso ad imporre a tutti i suoi sudditi, sotto minaccia di gravi pene, di rompere le uova non altrimenti che con lo spiccarne10 l’estremità più piccola. Il popolo si sentì talmente offeso da questa legge che, a voler credere alle nostre cronache, ben sei ribellioni scoppiarono, durante le quali un Imperatore perdette la vita, e un altro la corona. Questi torbidi interni furono costantemente fomentati dai monarchi di Blefuscu; e quando si riuscì a sedarli, gli esiliati cercarono sempre rifugio in quell’impero. Da un computo fatto risulta che non meno di undicimila persone, nel corso delle varie ribellioni, preferirono d’essere giustiziate, piuttosto che sottomettersi a rompere le uova all’estremità più piccola. Centinaia di grossi volumi sono stati pubblicati su questa controversia: ma i libri dei Rompidallapartegrossa sono stati da lungo tempo proibiti e gli aderenti al partito dichiarati in massa interdetti dai pubblici

4. Asserzione... Tacchi Bassi: i Tacchi Alti sono la parodia dei conservatori inglesi o tories; i Tacchi Bassi sono i liberali o whigs. 5. uffici: incarichi, compiti. 6. torbidi interni: oscuri complotti. 7. Blefuscu: nella satira rappresenta la Francia, nemica sto-

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rica dell’Inghilterra. 8. le nostre... lune: i testi che descrivono la storia centenaria di Lilliput. 9. La lite... modo: arguta satira della futilità dei motivi che hanno condotto Inghilterra e Francia alla guerra. 10. con lo spiccarne: staccandone.

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uffici. Durante questi torbidi, gl’Imperatori di Blefuscu inviarono di frequente ambasciatori a protestare, accusandoci di essere autori d’uno scisma col fare onta da11 una dottrina fondamentale del nostro grande profeta Lustrog, contenuta nel cinquantaquattresimo capitolo del Brundecral, il loro Corano. Ma si tratta, evidentemente, d’una interpretazione forzata del testo, perché questo suona: 65 tutti i veri fedeli romperanno le uova dalla estremità conveniente: e quale sia l’estremità conveniente sembra, secondo mio modesto parere, doversi lasciare ai dettami della coscienza d’ogni singolo uomo, o, almeno, al responso della suprema magistratura. Frattanto gli esiliati Rompidallapartegrossa hanno trovato tale credito alla corte dell’Imperatore di Blefuscu e tanto appoggio ed incorag- 70 giamento presso i correligionari rimasti qui in patria, che fra i due imperi una Le vicende della guerra sanguinosa è infierita per lo spazio di trentasei lune col continuo alterlunga guerra narsi di vittorie e sconfitte: noi abbiamo perduto quaranta vascelli di linea, un numero anche maggiore di navi più piccole oltre a trentamila marinai e soldati fra i migliori che avevamo; e il nemico ha patito un danno che si vuole alquanto 75 maggiore del nostro. Ciò nonostante esso ha ora allestito una flotta numerosa, e appunto si prepara ad invaderci, e Sua Maestà l’Imperatore, riponendo massima fiducia nel vostro valore e nella vostra forza, mi ha ordinato di esporvi questo stato di cose.’ da I viaggi di Gulliver, a cura di C. Formichi, Mondadori, Milano, 1933

11. fare onta da: recare offesa a.

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inee di analisi testuale Narrazione fantastica e satira politica Il brano, basato su una narrazione inverosimile e fantastica, è lo strumento per una parodia della politica inglese del tempo di Swift. Gulliver riceve il Segretario Reldresal, che gli fa una relazione politica. Le sequenze L’episodio può essere diviso in sequenze: nella prima, il politico lillipuziano espone al protagonista la situazione interna, caratterizzata dalla divisione di classe tra Tacchi Alti e Tacchi Bassi (tories e wighs) e dall’oscillante posizione del re. Nella seconda, lo informa della situazione internazionale, caratterizzata dalla perenne guerra fra due imperi nemici, Lilliput e l’isola di Blefuscu (che sottendono Inghilterra e Francia). Nella terza, espone l’esilarante motivo della contesa: il sistema di rompere le uova prima di mangiarle (secondo gli uni dalla parte più grossa, secondo gli altri da quella più piccola); si tratta probabilmente di una parodia dei contrasti religiosi tra gli Stati (autori d’uno scisma col fare onta da una dottrina fondamentale del nostro grande profeta Lustrog, contenuta nel cinquantaquattresimo capitolo del Brundecral, il loro Corano). Nella quarta, infine, il lillipuziano rivela il motivo della sua visita: Blefuscu ha ora allestito una flotta numerosa, e appunto si prepara ad invaderci, e Sua Maestà l’Imperatore, riponendo massima fiducia nel vostro valore e nella vostra forza, mi ha ordinato di esporvi questo stato di cose. Il preilluminismo di Swift L’opinione preilluministica di Swift in proposito si rileva dalla frase: quale sia l’estremità conveniente sembra, secondo mio modesto parere, doversi lasciare ai dettami della coscienza d’ogni singolo uomo. I lillipuziani misurano Gulliver.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del brano in non più di 30 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe ogni risposta). a. Chi è l’interlocutore di Gulliver e che cosa gli racconta? b. In quali aspetti descritti nel testo si manifesta l’assurdità della contesa tra Tacchi Alti e Tacchi Bassi e fra Lilliput e Blefuscu? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A quali generi appartiene l’opera I viaggi di Gulliver e quali aspetti del testo lo rivelano? b. Quali realtà del suo tempo sono oggetto della satira di Swift, in particolare quando racconta della contesa fra Tacchi Alti e Tacchi Bassi e fra Lilliput e Blefuscu? c. Qual è la finalità educativa di Swift nello scrivere I viaggi di Gulliver? d. Per quali aspetti, a tuo avviso, alcuni critici hanno considerato il romanzo precursore dei contes philosophiques? Approfondimenti 4. Ne I viaggi di Gulliver sono presenti gli elementi della satira politica, dell’avventura di viaggio e della narrazione fantastica: quale, a tuo parere, predomina sugli altri nel passo proposto? Motiva con adeguati argomenti la tua risposta.

DANIEL DEFOE La vita

Daniel Defoe nasce a Londra nel 1660, da un negoziante puritano che non gli impartisce un’istruzione sistematica. Il giovane intraprende, senza successo, l’attività di mercante, che però gli permette di viaggiare. Nel 1700 ritorna a Londra e vive con i proventi dei propri scritti, inizialmente articoli giornalistici. Si appassiona alla politica, schierandosi attivamente dalla parte di Guglielmo d’Orange nello scontro con Giacomo II Stuart, infine deposto; nel 1702, nonostante la popolarità acquisita, subisce l’arresto e la gogna per la pubblicazione di un libello satirico in difesa dell’opposizione, Il metodo più rapido per liquidare i dissidenti. Scarcerato, si dedica con notevole abilità al giornalismo Daniel Defoe. e fonda il periodico The Review (1704-1713), tenendosi prudentemente in equilibrio fra le posizioni politiche del partito dei Tories e quello degli Wighs, per i quali svolgerà però incarichi di agente segreto. Defoe muore a Londra nel 1731.

Robinson Crusoe

La trama

Nel 1719, quasi sessantenne, Defoe pubblica il primo romanzo, il capolavoro Robinson Crusoe, che conosce un successo straordinario, tanto da spingerlo a prepararne in pochi mesi una continuazione (Ulteriori avventure di Robinson Crusoe). La trama del capolavoro Robinson Crusoe (il cui titolo integrale è La vita e le strane e sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, marinaio di York, scritte da lui stesso) narra le vicende del giovane Robinson Crusoe che, dopo varie avventure per mare, naufraga nei pressi di un’isoletta vicino alla foce del fiume Orinoco. Grazie alla propria intelligenza e intraprendenza, riesce a sopravvivere, ricostruendo il necessario, a partire dagli strumenti più primitivi. Dopo aver vissuto in solitudine e a contatto con la natura primitiva e selvaggia per venticinque anni, Crusoe salva dai cannibali un indigeno, al quale dà il nome di Venerdì, e lo educa,

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Un modello per le narrazioni d’avventura Gli altri romanzi

facendo di lui un fedele servitore e compagno. Pochi anni dopo, viene ritrovato e portato in salvo da una nave di passaggio. Il romanzo, narrato in prima persona, si ispira all’esperienza realmente vissuta dal marinaio Alexander Selkirk e diventerà il modello dei romanzi d’avventura, genere caratterizzato, appunto, dalle peripezie del protagonista e la cui origine viene fatta risalire al romanzo picaresco. Sulla scia della fama acquisita, il romanziere scrive altre opere. Fra queste merita di essere ricordata soprattutto Moll Flanders (1722), considerato il primo romanzo di costume, ispirato a una storia reale, in cui una donna, nata nella prigione di Newgate, racconta la propria vita avventurosa e travagliata di ladra e prostituta. La protagonista, dopo una vita sciagurata e immorale che le causa la deportazione in Virginia, infine diventa ricca, vive onestamente e muore penitente. Notevoli sono anche Lady Roxana (1724), storia di una spregiudicata cortigiana che, arricchitasi con l’inganno e il delitto, muore in miseria in carcere, pentendosi dei suoi peccati, e Giro attraverso tutta l’isola di Gran Bretagna (1724-1726), basato sui viaggi intrapresi dall’autore come agente segreto, che contribuisce a lanciare il genere della letteratura di viaggio.

T3 Operosità e intraprendenza da Robinson Crusoe

Daniel Defoe

Nella figura di Robinson Crusoe è più evidente che altrove la differenza tra il protagonista del moderno novel – il romanzo inglese – e quello del romance medievale: Robinson infatti è un nuovo eroe, non più cavaliere e combattente, ma pioniere e intraprendente. Nel brano che segue, Robinson comincia a ragionare e ad organizzarsi per far fronte al suo stato di naufrago.

PISTE DI LETTURA • La lode del senso pratico, dell’organizzazione e dell’ottimismo • Le nuove virtù richieste all’eroe • Il dialogo interiore Un elenco dei vantaggi e delle difficoltà

Incominciai allora a considerare seriamente la mia situazione e lo stato in cui ero ridotto, e feci per iscritto un bilancio dei miei affari, non tanto per lasciarlo a qualcuno che dovesse venire dopo di me, poiché non era probabile che avessi molti eredi, quanto per impedire ai miei pensieri di ricadere ogni giorno su questi argomenti e di angosciarmi l’anima; e poiché la ragione incominciava or- 5 mai a dominare lo scoraggiamento, presi a confortarmi meglio che potevo, e a contrapporre il bene e il male in modo da avere qualche argomento per distinguere il mio caso da altri peggiori; e così determinai con molta imparzialità, come fossero debiti e crediti, le consolazioni che avevo ricevuto e le disgrazie che 10 avevo sofferto, nel modo che segue:

I mali

MALE Sono stato gettato in questa orribile isola deserta, senza alcuna speranza di salvezza. Sono stato, in un certo senso trascelto e separato fra tutti gli uomini per essere 15 infelice. Sono stato diviso dal genere umano, segregato, bandito dal consorzio civile. Non ho vestiti per coprirmi. Non ho difesa o mezzi per resistere a qualsiasi violenza di uomo o di animale. Non ho nessuno con cui parlare o da cui ricevere conforto.

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I beni

Le nuove abitudini quotidiane del naufrago

La fortuna: la nave arenata lì vicino

Il ruolo della Provvidenza

20 BENE Ma sono vivo, e non affogato, come è successo a tutti i miei compagni. Ma sono stato scelto anche fra tutto l’equipaggio della nave per scampare la morte; e Colui che mi ha miracolosamente salvato dalla morte può anche liberarmi da questa situazione. Ma non sono alla fame e allo stremo, in un luogo arido e privo di qualsiasi pos- 25 sibilità di nutrimento. Ma sono in un clima caldo, dove non potrei indossare vestiti anche se ne avessi. Ma sono capitato in un’isola in cui non vedo belve che possano assalirmi, come ne ho viste in Africa; e come farei se fossi naufragato là? Ma Dio mi ha miracolosamente mandato la nave ad arenarsi abbastanza vicino 30 alla riva, cosicché ho potuto recuperare molte cose necessarie, tali da soddisfare i miei bisogni o da mettermi in condizione di soddisfarli io stesso per il resto della mia vita.

Questa era, in complesso, un’indubbia dimostrazione che l’infelicità del mio stato non aveva forse l’uguale nel mondo, ma che in esso c’era anche qualcosa di più o qualcosa di meno che meritava la mia gratitudine; e sia questo l’insegnamento che scaturisce dall’esperienza della più infelice condizione del mondo: che noi possiamo sempre trovare in essa qualcosa che ci conforta e che, nel bilancio del bene e del male, va messo all’attivo del conto. [...] Avevo ormai regolato la mia vita in modo da renderla molto più agevole adesso che non al principio, e questo anche per lo spirito, oltre che per il corpo. Mi sedevo spesso alla mia mensa con sentimenti di gratitudine, ammirando l’opera della Provvidenza divina che aveva ricolmato in tal modo la mia tavola in mezzo al deserto. Imparai a soffermarmi di più sugli aspetti felici della mia situazione e meno su quelli infelici, e a considerare piuttosto ciò di cui godevo che ciò di cui mancavo; da questo trassi a volte così grandi consolazioni interiori che non saprei esprimerle adeguatamente, e che voglio qui menzionare perché lo ricordino tutte le persone scontente, che non sanno godere serenamente ciò che Dio gli ha dato e che hanno lo sguardo e il desiderio fissi a ciò che Dio non gli ha dato. Tutta la nostra scontentezza per quello che ci manca mi apparve chiaramente scaturire dalla mancanza di gratitudine per ciò che abbiamo. Un’altra riflessione mi fu molto utile, e certo lo sarebbe a chiunque dovesse trovarsi in una situazione tragica come la mia; cioè il confronto fra il mio stato attuale e quello che avevo previsto al principio; anzi, quello che certamente si sarebbe verificato se la benigna provvidenza di Dio non avesse miracolosamente disposto che la nave si arenasse più vicino alla costa, dove non solo avevo potuto raggiungerla, ma avevo potuto portare a terra ciò che via via recuperavo su di essa, per averne soccorso e sollievo; senza di che sarei rimasto senza strumenti per lavorare, armi per difendermi, pallottole e polvere da sparo per procurarmi il cibo. Passai ore e ore, e potrei dire giorni e giorni, a rappresentarmi coi più vivi colori come avrei dovuto agire se non avessi recuperato nulla dalla nave. Come non avrei potuto procurarmi altro cibo che pesci e tartarughe, e come, essendoci voluto molto tempo per trovarle, sarei morto prima, e se non fossi morto, sarei vissuto esattamente come un selvaggio; come, se avessi ucciso una capra o un uccello con qualche espediente, non avrei avuto alcun mezzo per scuoiare o sbuzzare le mie prede, o dividere la pelle dalla carne e dai visceri, o tagliarle a pezzi, ma avrei dovuto azzannarle coi denti e sbranarle con le unghie come una belva. Queste riflessioni mi resero più consapevole della bontà della Provvidenza verso di me e più grato per la mia situazione attuale, pur con tutte le sue avversità e difficoltà; e anche questo debbo raccomandare alla riflessione di coloro che, nella disgrazia, sono portati a dire: “Esiste una tribolazione come la mia?”. Pensino quanto più gravi possono essere le disgrazie altrui, o avrebbe potuto essere la loro, se la Provvidenza lo avesse giudicato opportuno.

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da Robinson Crusoe, trad. di L. Terzi, Adelphi, Milano, 1963

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inee di analisi testuale Intelligenza e intraprendenza: le nuove virtù Il brano si fonda su due punti salienti. Il primo è l’originale elenco degli eventi negativi e positivi. Attraverso esso, si afferma la ragione illuministica che supera paure e sentimenti e plasma tutte le vicende del romanzo. Il secondo è la profusione di ringraziamenti alla Provvidenza divina per le opportunità positive, pur nella disgrazia del naufragio. Nell’eroe emergono l’intelligenza, l’intraprendenza e un nuovo tipo di coraggio sorretto dall’affermazione del principio ottimistico. La lettura sociologica Secondo una lettura sociologica proposta da alcuni studiosi, l’autore delinea la figura di Robinson in contrapposizione ai nobili, improduttivi e parassitari, fruitori passivi di benessere non creato da loro; l’uomo della nuova società industriale si distingue anzitutto per la sua laboriosità, la capacità di organizzazione e di risolvere i problemi che la conquista e la conoscenza del mondo gli pongono. Una nuova prospettiva Nel romanzo, il rapporto fra l’uomo bianco Robinson e il buon selvaggio Venerdì si risolve nella proposizione della superiorità della civiltà europea, il cui fascino non risiede più nelle imprese guerresche gloriose, ma nella capacità di dominare la realtà, utilizzare le risorse per i propri fini e prendere in mano il proprio destino. Tutto ciò rispecchia l’avvento di tempi nuovi: ben presto in Inghilterra si verificherà il radicale mutamento noto sotto la denominazione di Rivoluzione industriale, anch’esso fondato su quella capacità di intraprendere dimostrata, nel contesto del romanzo, da Robinson.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano di Robinson Crusoe in non più di 20 righe. Analisi e interpretazione 2. A quale genere di romanzo appartiene Robinson Crusoe e quali elementi del testo lo dimostrano? 3. In quali atteggiamenti descritti nel testo si manifesta la solida concretezza di Robinson? 4. Identifica le principali sequenze in cui è diviso il brano e sintetizzane i rispettivi contenuti. 5. Quale potrebbe essere – e perché – la finalità di Defoe nello scrivere il Robinson Crusoe? Approfondimenti 6. Robinson Crusoe può, a tuo parere, essere definito un romanzo di formazione, almeno in alcuni suoi aspetti? Facendo riferimento ad altre opere letterarie di questo genere – come ad esempio il Candido di Voltaire – esprimi la tua opinione in proposito. 7. Anche Gulliver, come il Robinson di Defoe, è un uomo di mare, un viaggiatore, ma con caratteristiche diverse; i due romanzi hanno inoltre una differente finalità narrativa e di genere. Rileva queste differenze.

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Illustrazione della prima edizione di Robinson Crusoe. Londra, Mansell Collection.

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SAMUEL RICHARDSON

L’attività letteraria

Samuel Richardson nasce nel 1689 a Mackworth, nel Derbyshire. Dopo aver appreso l’arte della stampa, nel 1720 apre una tipografia in proprio grazie al matrimonio con la figlia del suo ex datore di lavoro. Nominato direttore dell’ufficio londinese per la registrazione dei diritti d’autore, comincia anche l’attività di editore, producendo scritti di argomento politico e i periodici di parte conservatrice Daily Journal e Daily Gazeteer, nonché ristampando le opere di Daniel Defoe. Comincia a scrivere quasi sessantenne, quando gli viene commissionato un manuale di corrispondenza, composto da modelli di lettere su argomenti quotidiani. Da tale attività nasce l’ispirazione per il suo capolavoro, il romanzo epistolare Pamela (1740-1741), considerato, insieme con il Robinson Crusoe di Defoe, il capostipite del romanzo moderno. Richardson muore a Londra nel 1761.

Pamela Romanzo epistolare e modello del romanzo sentimentale

La trama

Gli obiettivi educativi Le interpretazioni

Le parodie dell’opera

Pamela riscuote subito un grande successo, sia per il talento narrativo dell’autore, sia per l’argomento assolutamente nuovo e gradito al pubblico dell’epoca: la sensualità messa in primo piano e l’identificazione con la domestica che sposa il suo padrone. L’importanza di Pamela sta però soprattutto nel fatto che lo schema della vicenda in esso narrata si ritroverà in tutta la narrativa “rosa” posteriore, per cui l’opera si può considerare anche come un primo modello per il romanzo sentimentale. La scelta della forma epistolare – adottata da Richardson anche in altri romanzi, come Clarissa (1747) e Ser Charles Grandison (1753) – permette all’autore di esprimere pensieri, sentimenti, emozioni e stati d’animo dei personaggi in modo analitico e immediato. La trama narra la storia della giovanissima Pamela Andrews, appartenente a una famiglia povera ma onesta, che viene presa a servizio e posta sotto la protezione di una vecchia nobile signora. Dopo la morte della benefattrice, Pamela viene insidiata – dapprima con regali, poi con molestie sempre più insistenti fino al sequestro nella casa di campagna – dal figlio di questa, il conte di Belfart, uomo affascinante e colto, ma gaudente e libertino. Pamela resiste alla persecuzione del padrone per difendere i suoi princìpi morali e perché non vuole cadere nel ruolo della serva sedotta o della mantenuta. Ma arrivato al culmine della persecuzione, il giovane s’intenerisce e davanti alle lacrime della giovane, cambia totalmente atteggiamento, finisce per innamorarsi delle sue virtù e infine la sposa, sfidando i conformisti e le differenze sociali. Scritto con intenti di formazione morale della gioventù, il romanzo di Richardson suggerisce come sia possibile conciliare i princìpi di onestà e moralità con le convenienze sociali. Se si vuole dare una lettura sociologica dell’opera, Pamela racchiude un modello di comportamento tipico della famiglia della società industriale, proponendo un modello di donna che si mantiene in posizione del tutto subordinata rispetto all’uomo e che si realizza solo nel matrimonio. Tuttavia, come altri osservano, l’opera esalta anche l’indipendenza che ciascuno può raggiungere grazie al proprio lavoro e la dignità morale. Il cambiamento del carattere del conte di Belfart mostra la presenza nell’opera anche di elementi tipici del romanzo di formazione. La grande fama di Pamela è segnalata anche dalle numerose parodie di cui è fatto oggetto il romanzo. La più famosa è l’opera d’esordio dell’autore di Tom Jones, Henry Fielding, che con Shamela (1741) fa il verso all’eroina di Richardson, trasformando la protagonista in un’abile arrampicatrice sociale.

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T4 La virtù di Pamela da Pamela, lettera XV

Samuel Richardson

Il romanzo Pamela è composto da 32 lettere della protagonista ai genitori e da un diario che Pamela scrive nel periodo della sua segregazione nella casa di campagna del padrone, nella speranza di trovare modo di farlo recapitare ai suoi cari e ricevere aiuto. La lettera proposta è una delle prime e racconta l’inizio delle molestie del giovane conte seduttore ai suoi danni.

PISTE DI LETTURA • Le mistificazioni che coprono l’aggressione sessuale • La narrazione in forma di lettera • Tono patetico

Il racconto di Pamela

Il rimprovero del signore

Mia cara Madre, Ho interrotto di colpo la mia ultima lettera perché temevo che lui stesse arrivando; e così è successo. Mi sono messa la lettera in seno, e ho preso in mano il lavoro che avevo accanto; ma sono stata così poco piena di risorse, come ha detto lui, che avevo una faccia confusa come se avessi commesso chissà che. “Resta seduta, Pamela”, ha detto lui, “e continua il tuo lavoro, anche se ci sono io. Non mi hai dato il benvenuto a casa dopo il mio viaggio nel Lincolnshire1.” “Sarebbe brutto, signore”, ho detto io, “se voi non foste sempre il benvenuto nella casa di vostra eccellenza.” Sarei andata via; ma lui ha detto: “Non scappare, ti dico. Ho da dirti una o due paroline”. Oh, come mi ha palpitato il cuore! “Quando sono stato un po’ gentile con te”, ha detto, “nel padiglione2, e tu in cambio ti sei comportata così scioccamente, come se avessi voluto farti chissà che, non ti ho detto di non parlarne con nessuno? E invece hai messo in giro dappertutto3 quella storia, senza considerare né la mia reputazione, né la tua.” “Io metterlo in giro, signore!” ho detto io. “Non ho nessuno con cui parlare, quasi...” Lui mi ha interrotta: “Quasi! piccola cavillatrice! che cosa vuoi dire con quel quasi? Voglio chiederti, non lo hai detto alla signora Jervis, tanto per fare un nome?” “Eccellenza, vi prego”, ho detto io, tutta agitata, “lasciatemi andare; perché non fa per me discutere con l’eccellenza vostra.” “Cavillatrice un altra volta!” e mi ha preso la mano, “perché dici discutere? Sarebbe discutere con me, rispondere a una domanda molto chiara? Rispondimi a quello che ho chiesto.” “O buon signore”, ho detto io, “lasciate che vi preghi di non insistere oltre, non vorrei perdere un’altra volta il controllo, ed essere impertinente4.” “Rispondimi allora, te lo ordino, lo hai detto alla signora Jervis sì o no? [...] E così devo essere denunciato, a quanto pare” ha detto lui, “dentro casa mia, e fuori da casa mia, a tutto il mondo, da una sfacciatella simile?” “No, buon signore”, ho detto io, “e prego la vostra eccellenza di non adirarsi con me; io non denuncio voi se non dico altro che la verità.” Allora si è adirato assai, e mi ha dato della temeraria; e mi ha ingiunto di ricordare con chi stavo parlando. “Vi prego signore” ho detto io, “da chi può riceve-

1. Lincolnshire: la seconda casa del conte di Belfart, dove la ragazza verrà trasferita con l’inganno, dopo aver manifestato la volontà di andarsene dal servizio per le continue molestie del padrone. 2. nel padiglione: dopo averle fatto dei regali per ingraziarsela, il conte aveva avvicinato Pamela nel padiglione del giardino, dove la ragazza stava ricamando, e l’aveva baciata. Alla reazione indignata della ragazza, le aveva offerto del denaro, dicendole di averla solo messa alla prova ed

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intimandole di non dire nulla a nessuno di quanto era successo. 3. messo in giro dappertutto: Pamela, terrorizzata, aveva raccontato del bacio in giardino in una lettera ai genitori (intercettata dal padrone, come a quei tempi era normale) e alla governante Jervis, donna di cuore che la proteggeva. 4. essere impertinente: nell’episodio del padiglione la ragazza aveva rimproverato l’uomo per il comportamento irrispettoso nei suoi confronti.

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Lo spavento di Pamela

La giovane sfugge al suo signore

re consigli una povera ragazza, se non da suo padre e da sua madre, e da una brava donna come la signora Jervis, che per solidarietà femminile me ne dà quando gliene chiedo?” “Insolente!” mi ha detto allora, e ha battuto il piede in terra. Io sono caduta in ginocchio, e ho detto: “Per amore del cielo, eccellenza, compatite una povera creatura che non sa niente, se non coltivare la sua virtù e il suo buon nome: io non ho altro cui affidarmi; e per quanto povera e senza amici qui, pure mi è stato sempre insegnato a mettere l’onestà al di sopra della mia stessa vita”. “Quale onestà, sciocca!” ha detto lui. “Non fa forse parte dell’onestà l’obbedienza e la gratitudine al tuo padrone?” “Certo, signore”, ho detto io, “è impossibile che io sia ingrata verso la vostra eccellenza, o anche disobbediente, o meritevole di quegli epiteti di ardita e insolente, che vi siete compiaciuto di attribuirmi, se non quando i vostri comandi sono contrari a quel primo dovere, che sarà sempre il principio della mia vita!” Lui è parso scosso, e si è alzato, ed è andato nella camera grande dove ha fatto due o tre giri, lasciandomi lì in ginocchio; e io mi sono gettata il grembiule sul viso, e ho posato la testa su una sedia, e ho pianto come se mi si fosse spezzato il cuore, ma non ho avuto la forza di andar via da lì. Da ultimo lui è rientrato, ma con la perfidia nel cuore! e rialzandomi in piedi ha detto: “Alzati, Pamela, alzati; tu sei la nemica di te stessa. La tua perversa follia sarà la tua rovina: io sono dispiaciutissimo delle libertà che ti sei presa sul mio nome con la mia governante, e anche con tuo padre e tua madre; e se vuoi danneggiare il mio nome per cause immaginarie, tanto vale che tu ne abbia di autentiche”. E, così dicendo, mi ha sollevata di peso, e ha fatto per posarmi sul suo ginocchio. Oh, come mi sono spaventata! Ho detto, come avevo letto in un libro un paio di sere prima: “Angeli santi, aiutatemi! Fatemi morire nel momento fatale in cui perderò la mia innocenza!” “Graziosa sciocchina!” ha detto lui, “come vuoi perdere la tua innocenza, se sei costretta a cedere a una forza superiore? Non mettere troppi ostacoli, perché, anche se succedesse il peggio, tu ne usciresti con il merito, e io con la colpa; e sarà un buon argomento per lettere a tuo padre e a tua madre, nonché una buona storia da raccontare alla signora Jervis.” Poi, benché io lottassi contro di lui, mi ha baciata, e ha detto: “Chi ha mai biasimato Lucrezia5? La vergogna è andata solo al violentatore: e io accetto di assumermi tutto il biasimo, dato che ne ho già sopportato una porzione troppo grande rispetto a quanto mi meritavo”. “E io potrò”, ho detto io, “come Lucrezia, giustificarmi con la morte, se sarò trattata in modo barbaro?” “Oh, mia brava ragazza!” ha replicato lui, canzonandomi, “vedo che hai fatto buone letture; fra tutti e due prima di aver finito metteremo insieme una bella trama per un romanzo.” Quindi ha fatto per baciarmi sul collo. L’indignazione ha raddoppiato le mie forze, mi sono svincolata da lui con un balzo improvviso, e sono corsa fuori dalla stanza; e essendo aperta la porta della camera adiacente, mi ci sono precipitata, e sbattendo la porta, me la sono chiusa dietro a chiave. Lui però mi seguiva così da vicino, che mi ha preso la sottana, e ne ha strappato un lembo, che è rimasto appeso fuori della porta; poiché la chiave era dal lato interno.

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da Pamela, Frassinelli, Milano, 1995

5. Lucrezia: personaggio leggendario della storia romana. Moglie virtuosa di Collatino, costretta con l’inganno a concedersi a Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo,

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dopo aver confessato l’accaduto alla famiglia, si uccise. Per vendicarla, il marito suscitò la rivolta che cacciò Tarquinio dal trono e instaurò a Roma la Repubblica.

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inee di analisi testuale Gli obiettivi educativi Negli intendimenti dell’autore, l’obiettivo del romanzo è divertire e intrattenere e allo stesso tempo istruire e migliorare gli animi dei giovani di ambo i sessi. Richardson, stampatore che non ha pretese artistiche, è convinto che il buon esempio sia contagioso e che l’innocenza converta i malvagi. Pamela dovrebbe semplicemente essere una figura esemplare, invece diventa un personaggio umano, rendendo vero artista il suo autore. Prima di lui, nessuno aveva eletto a protagonista letterario chi deve lavorare per vivere, e per di più di sesso femminile, e inoltre impegnata a difendere la dignità e il suo diritto a difendersi da un padrone seduttore. Aver nobilitato tale battaglia conferisce all’opera un carattere didascalico e progressista notevole. La struttura narrativa Gli elementi che rendono Pamela l’archetipo della narrativa sentimentale di ogni tempo e dell’odierna letteratura “rosa” sono la semplicità e la presa emotiva della situazione di base e la ripetitività dei brevi episodi che si possono leggere anche senza ricordare il riassunto delle “‘puntate” precedenti. L’ideologia morale, inoltre, è nettamente definita nella distinzione tra bene e male, e il trionfo finale del bene assicura il “lieto fine”, altra caratteristica di tale genere di opere. Pamela e Lucia Mondella Non si può evitare un accostamento tra il personaggio femminile di Richardson e Lucia, la protagonista dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, eroina anch’essa perseguitata dal nobile don Rodrigo, in seguito rapita e sequestrata da un potente – l’Innominato –, che davanti alle sue lacrime innocenti si pentirà e la rimanderà alla sua famiglia. Non è escluso che Manzoni abbia tratto in qualche modo ispirazione anche dal romanzo inglese.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano proposto in non più di 20 righe. 2. Traccia un breve ritratto di Pamela e del suo interlocutore, ricavandolo dal dialogo e dai comportamenti dei due personaggi descritti nel brano. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono a tuo parere gli obiettivi dell’autore di Pamela? b. Quale peso ha nella narrazione di Richardson l’analisi psicologica e che cosa lo dimostra? c. Su quali princìpi si basa il comportamento della protagonista del romanzo e quali passi lo evidenziano? d. Da dove proviene e quale significato ha la citazione dell’esempio di Lucrezia? Approfondimenti 4. Presenta molto sinteticamente le vicende narrate in una o più opere odierne – anche audiovisive – che basano la loro trama su un tema che ricalchi quello della Pamela di Richardson e metti in luce somiglianze e differenze con l’opera che viene considerata il primo modello del genere “rosa”.

Jean-Étienne Liotard, La bella cioccolataia, 1744. Dresda, Gemäldegalerie.

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LE PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEL ROMANZO INGLESE PRECEDENTE LETTERARIO

Don Chisciotte di Cervantes.

LUOGO DI PRODUZIONE

L’Inghilterra del Settecento, dove si è sviluppata una forte classe borghese intraprendente e dinamica.

PUBBLICO

Appartenenti alla borghesia, in cerca di intrattenimento e di valori in cui riconoscersi.

AUTORI

Daniel Defoe, Samuel Richardson e Henry Fielding per il romanzo realista; Jonathan Swift scrive invece un’opera di forte critica alla civiltà moderna, mentre Laurence Sterne apre la strada a nuove possibilità espressive, scardinando i canoni della narrativa a lui contemporanea.

ARGOMENTI

Con trame avvincenti, si presentano principalmente vicende legate a personaggi e ambienti realistici.

LINGUAGGIO

Semplice e mediamente popolare.

J. Highmore, Pamela che racconta le favole, secolo XVIII. Cambridge, Fitzwilliam Museum. Il dipinto si ispira al romanzo di Richardson.

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Concetti chiave L’EVOLUZIONE DEL ROMANZO EUROPEO Il romanzo moderno viene perfezionato nel Settecento dagli scrittori inglesi che sviluppano diversi generi – dal sentimentale, al romanzo epistolare, a quello di formazione, alla narrazione avventurosa e fantastica – e dagli illuministi francesi con i contes philosophiques (“narrazioni filosofiche”). IL ROMANZO FRANCESE Dopo La principessa di Clèves (1678) di Madame de La Fayette (1634-1692), apparso alla fine del Seicento, nel Settecento in Francia si diffonde il romanzo epistolare con le Lettere persiane (1721) di Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755), satira della vita parigina. Altro romanzo epistolare in francese è La nuova Eloisa (1761) del filosofo ginevrino JeanJacques Rousseau (1712-1778), che narra l’infelice amore di un precettore per la propria allieva, presentando personaggi di stampo romantico. Il romanzo filosofico è utilizzato dai pensatori illuministi per divulgare la propria filosofia: Diderot, Rousseau con l’Emilio e soprattutto Voltaire, che lo porta ai massimi vertici. Voltaire (1694-1778), che conduce una vita avventurosa, viaggia per l’Europa come consigliere di sovrani, diffondendo così le idee illuministe, delle quali si fa portavoce con le proprie opere. Il suo capolavoro è il romanzo filosofico Candido o l’ottimismo (1759), in cui critica l’ottimismo del filosofo tedesco Gottfried Leibniz, il quale ritiene che il nostro sia il migliore dei mondi possibili. A tale concezione, e al pessimismo più totale, Voltaire contrappone il realismo del coltivare il proprio orticello (espressione peraltro da alcuni variamente interpretata in chiave metaforica). IL ROMANZO INGLESE Il romanzo moderno ha le sue origini nell’Inghilterra settecentesca: qui, infatti, è attiva una borghesia che nelle vicende narrate si rispecchia e si riconosce. Caratterizzata da una sarcastica denuncia della società dei suoi tempi è l’opera di Jonathan Swift (1667-1745): con I viaggi di Gulliver (1726), attraverso la descrizione fantastica dei Paesi visitati dal medico e

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marinaio Lemuel Gulliver, opera una sintesi di narrazione e riflessione, letteratura e filosofia, dalla forte valenza satirica. Daniel Defoe (1660-1731) con Robinson Crusoe (1719) crea un personaggio che incarna lo spirito intraprendente e il senso pratico del ceto emergente inglese, attraverso la storia di un naufrago che, grazie alla propria intelligenza e intraprendenza, riesce a sopravvivere a contatto con la natura primitiva e selvaggia su un’isola quasi disabitata. Su una linea educativa si muove invece Samuel Richardson (1689-1761), il cui capolavoro è il romanzo epistolare Pamela o la virtù premiata (1740-1742), storia di una giovane domestica di buoni princìpi, la quale resiste alle molestie dell’aristocratico padrone, che alla fine si intenerisce e giunge a sposarla. L’opera è importante in quanto modello di tutta la narrativa sentimentale o “rosa” successiva. Da ricordare sono inoltre Henry Fielding (1707-1754), che in Tom Jones (1749) narra la vita di un giovane di umili condizioni che riesce ad integrarsi nella società borghese – primo romanzo di formazione – e Laurence Sterne (1713-1768), che, con La vita e le opinioni di Tristram Shandy (1760-1767), facendo uso di ampie divagazioni, ironizza e gioca con la struttura del romanzo realistico stesso.

Jonathan Swift.

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sercizi di sintesi

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il termine conte philosophique significa a. nobile filosofo. b. racconto filosofico. c. conto filosofico. d. romanzo filosofico. 2. Il romanzo moderno ha origine a. nella Spagna del Seicento. b. nell’Inghilterra del Settecento. c. nell’Italia del Seicento. d. nella Francia del Settecento. 3. Il principale autore di narrazioni filosofiche è a. Daniel Defoe. b. Voltaire. c. Samuel Richardson. d. Madame de La Fayette. 4. Candido è a. un allievo del filosofo Gottfried Leibniz. b. un giovane nobile vittima di disavventure. c. un filosofo francese in viaggio in Sudamerica. d. il figlio di un contadino turco. 5. A Lilliput, dove Gulliver fa naufragio all’inizio della storia, vivono a. uomini giganteschi. b. uomini dodici volte più piccoli del normale. c. sciocchi filosofi privi di senso pratico. d. esseri metà uomini e metà cavalli. 6. Daniel Defoe scrive a. Robinson Crusoe. b. Tom Jones. c. I viaggi di Gulliver. d. Zadig. 7. La protagonista del capolavoro di Samuel Richardson è a. Moll Flanders, una ricca vedova. b. Shamela, una povera donna di umili origini. c. Pamela, la domestica di una famiglia aristocratica. d. Cunegonda, una giovane nobildonna. 8. Il romanzo di Henry Fielding Tom Jones è la storia di a. un giovane di modesti natali che riuscirà ad integrarsi nella società borghese. b. un ricco seduttore che molesta la sua giovane domestica. c. un giovane nobile ingenuo vittima di numerose disavventure. d. un naufrago che resta a lungo su un’isola deserta.

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2 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Quali sono i più celebri romanzi epistolari europei del Settecento e quali i loro temi? 2. Quali sono le caratteristiche del conte philosophique e quali i maggiori autori che coltivano questo genere in Europa nel Settecento? 3. Quali sono il tema, la trama e il significato filosofico del Candido di Voltaire? 4. Chi è il pensatore tedesco indirettamente criticato da Voltaire nel suo principale romanzo filosofico e per quali motivi? 5. Perché il romanzo I viaggi di Gulliver può essere definito una critica della società inglese dei tempi e quali aspetti ne vengono criticati? 6. Chi è Robinson Crusoe, che cosa gli succede e perché si tratta di un personaggio nuovo nella narrativa europea? 7. Quali intendimenti si propone Samuel Richardson nello scrivere il suo romanzo, come esso s’intitola e di che cosa narra? 8. Quali sono le caratteristiche di Pamela che indicano come questa opera sia il modello di tutta la narrativa “rosa” successiva? 9. Quali sono le opere narrative settecentesche che si potrebbero definire, del tutto o in parte, romanzi di formazione e per quali ragioni? 10. Quali sono le principali opere di narrativa che si potrebbero definire romanzi d’avventura e quali le loro trame? 3 Svolgi una delle seguenti tracce. 1. Il ritiro di Voltaire a Ferney consiste in un disimpegno politico che non coinvolge la sua attività filosofica e divulgativa; il tramonto della prospettiva politica non implica la rinuncia all’impegno civile, che Voltaire continua a praticare con l’arma del libero pensiero. Perciò egli è un antesignano di tutti coloro che, fino ai giorni nostri, si sono impegnati nelle battaglie per l’uguaglianza sociale, la libertà, la tolleranza e i diritti civili, a prescindere dal “colore” dei loro ideali. Rifletti su questa affermazione, quindi sviluppa le tue argomentazioni in proposito. 2. Tutte le opere di Jonathan Swift sono percorse da un’aspra satira e dal gusto della polemica. Tale tendenza, che anticipa per alcuni aspetti le caratteristiche dei romanzi filosofici di Voltaire, diventa, ne I viaggi di Gulliver, pessimismo amaro nei confronti di tutti gli esseri umani, espresso attraverso una narrativa a forte componente fantastica. Commenta questa affermazione, rapportandola ai tempi odierni ed esprimendo il tuo personale parere in merito; verifica se, ai giorni nostri, ci sono scrittori che hanno una posizione simile a quella di Swift ed esprimi un motivato giudizio in merito alle loro opere.

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Carlo Goldoni Ritratto di Carlo Goldoni.

VITA E LE OPERE

Carlo Goldoni nasce a Venezia nel 1707. A causa di rovesci economici, il padre Giulio deve esercitare la professione di medico in modo precario, vagando da una località all’altra dell’Italia centrosettentrionale. Dopo la prima fanciullezza, nel 1719 Carlo segue nelle peregrinazioni il padre, trasferitosi a Perugia, dove il giovane studia retorica e grammatica presso i Gesuiti; nel 1720, viene inviato a Rimini, presso i domenicani, dove si dedica alla filosofia.

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LINEA DEL TEMPO: LA VITA E LE OPERE

1707 Carlo Goldoni nasce a Venezia

1730 Esordisce in teatro con due intermezzi

1737-1741 È direttore del teatro lirico di San Giovanni Crisostomo

1738 Momolo cortesan

1748 Contratto con l’impresario Medebach per il teatro Sant’Angelo

1750 Il teatro comico 1751 PUBBLICAZIONE DEL PRIMO VOLUME DELL’ENCICLOPEDIA DI DIDEROT E D’ALEMBERT

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La giovinezza e l’attrazione per il teatro

Sui palcoscenici dell’Italia settentrionale Dalle commedie a canovaccio a quelle scritte

L’anno successivo, sentendosi oppresso dall’ambiente e dagli studi a lui non congeniali, matura una delle prime decisioni della sua vita all’insegna dell’avventura: fugge dalla scuola approfittando del passaggio della compagnia di comici napoletani di Florindo Maccheroni, e al loro seguito torna via mare a Chioggia, dove risiede la madre. Recatosi successivamente a studiare giurisprudenza presso il collegio Ghislieri di Pavia (1723), ne viene espulso a causa di un componimento satirico, Il colosso, nel quale esprime pareri poco rispettosi nei confronti delle donne del luogo. Da questo momento, Goldoni scopre la propria irresistibile attrazione per il teatro e intraprende una vita itinerante sui palcoscenici di provincia. Si spinge a Udine e a Gorizia, poi ritorna a Chioggia, dove trova lavoro presso la cancelleria criminale del Podestà (1728). Prima del 1730 scrive Il buon padre e La cantatrice, appartenenti al genere dell’intermezzo accompagnato da musica, che Goldoni praticherà frequentemente anche in seguito. Dopo la morte del padre, Goldoni si trasferisce a Venezia e, nel 1731, si laurea in giurisprudenza. Nel 1733 fugge a Milano, per sottrarsi a un matrimonio indesiderato e ai creditori; riprende a calcare i palcoscenici dell’Italia settentrionale fino al 1734, quando torna a Venezia nella compagnia del capocomico Giuseppe Imer, per il quale scrive la tragicommedia in versi Belisario (1734). Nel 1736, sposa Nicoletta Connio e comincia a produrre opere per i teatri di Michele Grimani. Le sue commedie cominciano a essere rappresentate dal 1738: di tale anno è il Momolo cortesan, dell’anno successivo Il prodigo, del 1741 La bancarotta del mercante fallito e del 1743 La donna di garbo, prima commedia scritta per intero, in cui la maschera della domestica diventa il personaggio femminile realistico di Rosaura. Nelle quattro opere si nota il progressivo avvicinamento dal canovaccio al copione scritto battuta per battuta. Tra il 1745 e il 1748, nuovamente sommerso dai debiti, l’autore si trasferisce con la moglie a Pisa, dove esercita la professione di avvocato, senza però abbandonare il teatro: del 1745 è il canovaccio di una delle opere maggiori, Il servitore di due padroni (o Arlecchino servitore di due padroni): il lavoro gli viene commissionato dal celebre comico della commedia dell’arte Antonio Sacchi detto Truffaldino e la parte del protagonista è interamente scritta. Nel 1748, l’autore torna a Venezia, con un contratto della compagnia del romano Girolamo Medebach (17061790) al teatro Sant’Angelo.

La carriera teatrale Goldoni, professionista teatrale

1753 Stipula un nuovo contratto con Antonio Vendramin per il teatro San Luca

1753 La locandiera

Comincia a questo punto, poco dopo i trent’anni, la vita da professionista del teatro dello scrittore, che entro il 1753 realizza per Medebach una quarantina di commedie (un terzo della sua produzione). Nel 1748, Goldoni scrive La vedova scaltra, che egli stesso definisce commedia di carattere: è il primo passo signifi-

1762 Si reca a Parigi per dirigere la Comédie italienne

1760 I rusteghi

1762 Le baruffe chiozzotte

1761 La trilogia della villeggiatura

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1784 Incontra Vittorio Alfieri

1764-1766 PUBBLICAZIONE DE “IL CAFFÈ” A MILANO

1771 Le bourru bienfaisant

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1789 SCOPPIA RIVOLUZIONE FRANCESE

1793 Muore a Parigi

1787 Mémoires

1764 Il ventaglio

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Verso la riforma: l’abbandono delle maschere

Il teatro comico: un’operamanifesto

La locandiera

Il passaggio al teatro San Luca

cativo verso la riforma del teatro italiano, in cui vengono abbandonate le maschere tradizionali, per essere sostituite con personaggi più realistici. Seguono, nell’anno successivo, La putta onorata e poi La famiglia dell’antiquario (1750), opera in cui la figura di Pantalone viene sottratta al ruolo di maschera stereotipata per diventare un mercante veneziano, audacia innovativa che non manca di suscitare le prime polemiche. Per la stagione teatrale 1750-51, Goldoni progetta e realizza sedici commedie, a partire da Il teatro comico, che costituisce un vero e proprio manifesto del suo nuovo progetto teatrale e poetico; esse sono pubblicate presso l’editore Bettinelli di Venezia precedute da una fondamentale Prefazione, in cui Goldoni si rivela un commediografo ormai maturo. Risalgono a questo fecondo periodo capolavori come La bottega del caffè, La Pamela (tratta dal romanzo di Samuel Richardson), L’avventuriero onorato. Nel 1753 va in scena la commedia che da molti viene considerata il capolavoro di Goldoni, La locandiera, che più compiutamente incarna la riforma teatrale e la sua concezione filosofica ed estetica. Nello stesso 1753 Goldoni rompe con Medebach e stipula un contratto decennale con il teatro San Luca, di proprietà di Antonio Vendramin. Il primo quinquennio rappresenta un periodo di grande produttività creativa: l’autore mira ad assecondare ed elevare i gusti del pubblico, in concorrenza con l’abate bresciano Pietro Chiari (1712-1785), scritturato nel frattempo da Medebach. Le commedie di questo periodo si contraddistinguono per la comparsa di caratteri anomali e originali (L’amante di sé medesimo del 1756, il Cavaliere di spirito o sia la donna di testa debole dell’anno successivo, l’Apatista o sia l’indifferente del 1758) e per la ricerca dell’esotico (la Sposa persiana del 1753, Ircana in Julfa del 1755 e Ircana in Ispaan dell’anno successivo, il Filosofo inglese del 1754). Della produzione del periodo fanno parte anche commedie a sfondo storico, quali Terenzio (1754) e Torquato Tasso (1755), e vivaci opere di gusto popolaresco scritte in dialetto veneziano: Le massère (1755) e Il campiello (1756).

La polemica con Gozzi

Tra Roma e Venezia

Fra il 1758 e il 1762, Goldoni attraversa uno dei periodi più travagliati della sua vita di artista. Il veneziano Carlo Gozzi (1720-1806), autore di opere teatrali e convinto avversario dell’Illuminismo, inizia un’aspra polemica contro di lui, propugnando il ritorno alla commedia dell’arte. Goldoni, sofferente di depressione, prima della scadenza del contratto con il San Luca, lascia Venezia nel 1758 per Roma. Ritorna nel 1760 carico di energie e crea altre opere di alto livello, fra cui il capolavoro dialettale I rusteghi (1760), la trilogia sulla villeggiatura composta nell’anno successivo (Le smanie della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura e Il ritorno dalla villeggiatura) e infine Sior Todero brontolon o sia il vecchio fastidioso (1762), il cui bersaglio è la figura del rustego, ossia del vecchio veneziano dalle vedute ristrette, personaggio comico e patetico. Sempre nel 1762, Goldoni scrive, in dialetto veneziano, un altro capolavoro, Le baruffe chiozzotte, ambientato nel mondo dei pescatori di Chioggia. Il pubblico, però, gli sta preferendo Carlo Gozzi, che, con il titolo di Fiabe, ha iniziato a comporre una serie di fantasiosi canovacci tra cui l’Amore delle tre melarance del 1761.

Il soggiorno in Francia La delusione e il trasferimento a Parigi

Le opere in francese e la vecchiaia in povertà

Nel 1762 Goldoni accetta l’invito dalla Comédie italienne, sfiduciato per l’accoglienza riservata alla propria riforma teatrale, e parte con la moglie alla volta di Parigi. Nella capitale francese, però, l’ambiente teatrale è ancora completamente dominato dalla commedia dell’arte. In condizioni molto difficili, Goldoni produce alcune commedie che non incontrano il favore del pubblico: una sola di esse, Il ventaglio (1764), è di alto livello. Dal 1765 lo scrittore è nominato da re Luigi XVI insegnante di italiano delle principesse reali a Versailles: dal 1769 gli viene assegnata anche una modesta pensione. Nel 1771 compone, in francese, Le bourru bienfaisant (poi tradotta in italiano con il titolo “Il burbero benefico”), rappresentata trionfalmente. Dal 1784, si dedica, per tre anni, alla stesura in francese dei Mémoires (“Memorie”), documento autobiografico e di testimonianza sulla realtà del teatro nel corso del XVIII secolo.

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Goldoni muore a Parigi il 6 febbraio del 1793, dopo avere assistito, ormai vecchio, malato e in ristrettezze economiche, allo scoppio della Rivoluzione francese (1789) e aver subito la soppressione (1792) della sua pensione che, per ironia della sorte, gli sarà restituita un giorno dopo la sua morte.

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Un programma di stampo illuministico

I fondamenti della riforma goldoniana Il realismo e la psicologia sociale

I personaggi sono figure ben disegnate

I nodi tematici

Lo stile e la lingua

RIFORMA DEL TEATRO

In una delle opere giovanili, Il teatro comico (1750), una sorta di commedia nella commedia, attraverso l’artificio del teatro nel teatro, Goldoni espone il proprio programma, che si propone di mettere in scena la realtà contemporanea e vicende verosimili, di rendere realistica la recitazione e di attribuire una funzione educativa alla commedia, mettendo in ridicolo difetti di carattere e malcostume. Tale concezione è tipicamente illuministica. Goldoni si ispira infatti a un Illuminismo moderato e caratterizzato da un bonario intento pedagogico, attraverso un teatro a forte connotazione realistica, interessato soprattutto a rappresentare, in forme semplici e naturali, la concreta varietà della vita e le dinamiche sociali, psicologiche e morali del proprio tempo. La riforma teatrale goldoniana sviluppa una polemica di stampo razionalista contro la commedia dell’arte, i cui prodotti sono considerati senz’ordine e senza regola. Gli elementi fondamentali della riforma goldoniana sono infatti il testo scritto in prosa di stile “medio” – che assicura la prevalenza dell’autore su capocomico e attori –, l’equilibrata suddivisione in atti e scene e la sostituzione delle maschere con personaggi o caratteri verosimili e tratti dalla vita quotidiana. Alla base delle commedie Goldoni pone il realismo, che si basa su un profondo interesse dello scrittore verso gli avvenimenti della vita, la registrazione dei comportamenti quotidiani colti nella loro concretezza, l’analisi dei costumi e del modo di pensare diffusi nella società borghese, popolare e aristocratica veneziana. Notevole è l’interesse per la psicologia sociale, che verte intorno a una forte critica rivolta verso il mondo degli aristocratici, ritenuto immobile e cristallizzato per i tempi moderni; attenta è la rappresentazione della psicologia del mercante veneziano, talvolta lodato per il suo pragmatico ottimismo, talvolta criticato soprattutto per la sua avidità; infine bonario e ironico è il ritratto del mondo popolare, colto nella sua variopinta umanità. Più che espressione di ceti sociali, però, i personaggi goldoniani, non più statiche maschere, sono individui, e perciò diversi l’uno dall’altro. In particolare emerge la novità della psicologia femminile, sbarazzina ma infine legata ai sani valori della famiglia (Mirandolina nella Locandiera). Goldoni affronta anche i contrasti generazionali, affermando la necessità di superare la visione del mondo degli anziani ciecamente legati alle tradizioni, per far spazio a quella, più innovativa e moderna ma non trasgressiva, dei giovani (in modo esemplare nella commedia dialettale I rusteghi). Sia che – come accade nella fase iniziale, di transizione – presenti maschere riprese direttamente dal teatro tradizionale (ad esempio, Arlecchino o Pantalone), sia che metta in scena nuovi personaggi, come Mirandolina, Goldoni dà però vita a figure ben disegnate e realistiche. Gli argomenti delle commedie sono vari, ma si possono raggruppare attorno ad alcuni nodi tematici, che acquistano spessore nel momento in cui Goldoni mette in scena situazioni particolari, nelle quali di volta in volta prevalgono temi specifici e, nel contempo, universali: l’amore, la gelosia, l’avarizia, la sete di denaro, la furbizia, l’ambizione, l’onestà, la saggezza, lo scontro tra modi di pensare diversi, le piccole miserie quotidiane o gli oscuri gesti di coraggio compiuti nella vita di ogni giorno. Goldoni, a partire dalle dichiarazioni programmatiche contenute nell’opera Il teatro comico, procede gradualmente a cambiamenti sempre più radicali, fino a realizzare una vera rivoluzione nel modo di concepire l’opera, che ha profonda incidenza nel rapporto fra il pubblico e lo spettacolo e segna l’inizio di una nuova epoca per la commedia italiana. Riguardo allo stile, Goldoni raccoglie il meglio della tradizione del teatro dell’arte soprattutto per la brillantezza dei dialoghi e il ritmo e la vivacità delle azioni,

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Le critiche alla riforma

ma riconduce la commedia a una dimensione razionale e più equilibrata, più raffinata e adatta a un pubblico borghese, strutturando sempre più i testi e sviluppando contenuti verosimili e realistici. Al contrario di quanto accade nella commedia dell’arte, caratterizzata dalla contaminazione dei dialetti, Goldoni fa uso nell’opera di un’unica forma linguistica, che talora è la lingua italiana, talora il dialetto veneziano. Tale scelta è legata agli intenti di rappresentazione realistica di ambienti e personaggi, e di ricerca di un canale diretto di comunicazione con il pubblico. Goldoni evita perciò di usare una lingua colta e accademica, astratta e letteraria, ricorrendo a uno stile di carattere “medio”, fondato su lessico, frasi e forme sintattiche di immediata comprensione per il pubblico e di facile memorizzazione per gli attori. La lingua delle commedie goldoniane è in definitiva il parlato medio dell’Italia settentrionale, con alcuni influssi veneziani. Quando scrive in dialetto veneziano, l’autore valorizza invece una diversa lingua: musicale, duttile e ricca di sfumature, chiara nelle descrizioni di ambienti e caratteri, in quanto ai suoi tempi a Venezia tutti – anche dotti, scienziati e politici – usavano il dialetto. La riforma goldoniana, fin dalla sua esplicita espressione nel 1750, è oggetto di molte critiche e non ha vita facile nella Venezia e nell’Italia settecentesca. I detrattori di Goldoni, fra i quali Carlo Gozzi, la attaccano in nome della difesa della tradizione e di un teatro fondato sulle maschere, su personaggi amati dal pubblico per abitudine e su contenuti favolistici, cogliendo probabilmente anche il legame fra la riforma teatrale goldoniana e le innovazioni filosofiche e politiche sostenute dagli Illuministi, di cui, non a caso, Carlo Gozzi è tenace avversario.

LA COMMEDIA DELL’ARTE E LA COMMEDIA “RIFORMATA” DI GOLDONI COMMEDIA “RIFORMATA” GOLDONIANA

COMMEDIA DELL’ARTE

Gli intrecci sono complicati e basati su imbrogli, scambi di persona e continui equivoci.

TRAMA

Vicende concrete e verosimili; l’intreccio è misurato e privo di eccessive complicazioni.

Canovaccio in base al quale gli attori improvvisano, facendo ricorso al loro repertorio personale.

TESTO

Ha la priorità: l’autore scrive tutti i dialoghi, definendo la struttura scenica dell’opera e la psicologia dei personaggi.

Figure tipiche cristallizzate in maschere fisse.

PERSONAGGI

Individualità reali e irripetibili, nonostante siano dotati di forte esemplarità.

Adatta ad un pubblico popolare, basata su “lazzi”, mimi, gesti, battute oscene o a doppio senso.

COMICITÀ

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Più raffinata e misurata, adatta ad un pubblico borghese.

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T1 I miei due grandi libri, Mondo e Teatro da Prefazione alla prima raccolta delle commedie La Prefazione al volume delle sedici commedie del 1750, di cui si riportano degli stralci, è uno scritto teorico sugli obiettivi della riforma. Nella prima parte, Goldoni si sofferma sulla scoperta della propria passione teatrale. Nella seconda polemizza con il teatro del Seicento e dell’inizio del Settecento, considerato mediocre a causa della commedia dell’arte. Nella terza descrive la propria riforma, basata sull’introduzione del semplice e del naturale in sostituzione dell’artificiale e dell’inverosimile. Infine, nella quarta parte si sofferma sulle modalità operative di attuazione della propria poetica. PISTE DI LETTURA • Una dichiarazione di poetica • Il Mondo e il Teatro, le basi della riforma • Il pubblico sovrano

La commedia dell’arte abbruttisce il teatro italiano

I teatranti italiani hanno sfigurato anche capolavori stranieri

Era in fatti corrotto a segno1 da più di un secolo nella nostra Italia il comico Teatro, che si era reso abbominevole oggetto di disprezzo alle Oltramontane2 Nazioni. Non correvano sulle pubbliche scene se non sconce Arlecchinate3, laidi e scandalosi amoreggiamenti e motteggi4; favole5 mal inventate, e peggio condotte, senza costume6, senza ordine, le quali, anziché correggere il vizio, come pur è il primario, antico e più nobile oggetto della Commedia, lo fomentavano, e riscuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata, e dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene, le quali se frequentavan talvolta un così cattivo Teatro, e vi erano strascinate dall’ozio, molto ben si guardavano dal condurvi la famigliuola innocente, affinché il cuore non ne fosse guastato7 [...]. Molti però negli ultimi tempi si sono ingegnati di regolar8 il Teatro, e di ricondurci il buon gusto. Alcuni si son provati di farlo col produr9 in iscena Commedie dallo Spagnuolo o dal Francese tradotte. Ma la semplice traduzione non poteva far colpo in Italia. I gusti delle Nazioni son differenti, come ne son differenti i costumi e i linguaggi. E perciò i mercenari10 Comici nostri, sentendo con lor pregiudizio11 l’effetto di questa verità, si diedero ad alterarle, e recitandole all’improvviso12, le sfiguraron13 per modo, che più non si conobbero per Opere di que’ celebri Poeti, come Lopez di Vega14 e il Molière15, che di là da’ monti16, dove miglior gusto fioriva, le avevan felicemente composte. Lo stesso crudel governo17 hanno fatto delle Commedie di Plauto e di Terenzio18; né la risparmiarono a tutte le altre antiche o moderne Commedie ch’eran nate, o che andavan nascendo nell’Italia medesima, e specialmente a quelle della pulitissi-

1. a segno: a tal punto. 2. Oltramontane: situate al di là delle Alpi. 3. Arlecchinate: si riferisce, con tono dispregiativo, agli spettacoli della commedia dell’arte, spesso incentrati sulla maschera di Arlecchino. 4. motteggi: battute di spirito. 5. favole: intrecci. 6. senza costume: prive di decoro formale, contenutistico, morale. 7. il cuore... guastato: l’animo non ne fosse corrotto. 8. regolar: dare regole. 9. produr: mettere. 10. mercenari: nel senso di venali, cioè “il cui unico fine è il guadagno”. 11. pregiudizio: danno. 12. all’improvviso: improvvisando le battute.

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13. le sfiguraron: ne stravolsero il significato. 14. Lopez di Vega: Félix Lope de Vega (1562-1635), drammaturgo e poeta spagnolo assai prolifico che rivoluzionò gli schemi del teatro colto rinascimentale. 15. Molière: pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin (16221673), commediografo francese che operò sotto la protezione di Luigi XIV. Fra le sue commedie si ricordano Tartufo, L’avaro, Il malato immaginario. 16. monti: Alpi. 17. governo: trattamento. 18. Plauto... Terenzio: celebri commediografi latini. Tito Maccio Plauto (254-184 a.C.) scrisse una ventina di commedie, tra cui Anfitrione, Aulularia e Pseudolus; di Publio Terenzio Afro (190-159 a.C.) ci sono pervenute sei commedie complete, di ispirazione morale (ma non pesantemente moralistica) tra cui La suocera e I fratelli.

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L’uso di scenografie e musica e il disamore del pubblico

L’obiettivo di far rinascere il teatro: osservazioni e tentativi

Più che studio di autori passati, l’esperienza di Mondo e Teatro

ma scuola Fiorentina19, che andavan loro cadendo tra mano. Intanto i dotti fremevano: il popolo s’infastidiva: tutti d’accordo esclamavano contro le cattive Commedie, e la maggior parte non aveva idea delle buone. Avvedutisi i Comici di questo universale scontento, andaron tentoni cercando il loro profitto nelle novità. Introdussero le macchine20, le trasformazioni21, le magnifiche decorazioni; ma oltre al riuscir cosa di troppo dispendio, il concorso del popolo ben presto diminuiva. Andate però in fumo le macchine, hanno proccurato di aiutar la Commedia cogl’Intermezzi in musica; ottimo riuscì lo spediente22 per qualche tempo, ed io fui de’ primi a contribuirvi con moltissimi Intermezzi [...] Ma i Comici non essendo Musici, non tardò l’Uditorio a sentire quanto poca relazione colla Commedia abbia la Musica. Le Tragedie in ultimo luogo, o i Drammi composti per la musica, recitati dai Comici, han sostenuti i Teatri. In fatti si son recitate eccellenti Tragedie e bellissimi Drammi con lodevolissima forma23 da’ nostri valenti attori, che mirabilmente vi riuscirono. [...] Ma codesti applausi stessi, che riscuotevano i Drammi e le Tragedie rappresentate da’ Comici, erano appunto la maggior vergogna della Commedia, come la più convincente prova della estrema sua decadenza. Io frattanto ne piangea24 fra me stesso, ma non avea ancora acquistati lumi25 sufficienti per tentarne il risorgimento. Aveva per verità di quando in quando osservato, che nelle stesse cattive Commedie v’era qualcosa ch’eccitava l’applauso comune e l’approvazion de’ migliori, e mi accorsi che ciò per lo più accadeva all’occasione d’alcuni gravi ragionamenti26 ed istruttivi, d’alcun dilicato27 scherzo, d’un accidente ben annicchiato28, d’una qualche viva pennellata29, d’alcun osservabil carattere, o d’una dilicata critica di qualche moderno correggibil costume: ma più di tutto mi accertai che, sopra30 del maraviglioso, la vince nel cuor dell’uomo il semplice e il naturale. Al barlume31 di queste scoperte mi diedi immediate32 a comporre alcune Commedie. Ma prima di poter farne delle passabili o delle buone, anch’io ne feci delle cattive. Quando si studia sul libro della Natura e del Mondo, e su quello della sperienza33, non si può per verità divenire maestro tutto d’un colpo; ma egli34 è ben certo che non vi si diviene giammai, se non si studiano codesti libri. [...] Non mi vanterò io già d’essermi condotto a questo segno35, qualunque ei si sia, di miglior senso36, col mezzo di un assiduo metodico studio sull’Opere o precettive37, o esemplari38 in questo genere de’ migliori antichi e recenti Scrittori e Poeti, o Greci, o Latini, o Francesi, o Italiani, o d’altre egualmente colte Nazioni; ma dirò con ingenuità39, che sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti40 ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai d’essermi servito, furono il Mondo41 e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i segni, la forza,

19. pulitissima... Fiorentina: si riferisce ai drammaturghi toscani del periodo arcadico Giovan Battista Fagiuoli, Iacopo Angelo Nelli e Girolamo Gigli, i quali anticiparono la riforma goldoniana; pulitissima: raffinata, elegante. 20. macchine: congegni meccanici ideati al fine di produrre effetti speciali sulle scene. 21. trasformazioni: mutamenti scenografici. 22. spediente: espediente. 23. forma: prestazione, esibizione. 24. ne piangea: me ne rammaricavo. 25. lumi: conoscenze, mezzi, capacità. 26. gravi ragionamenti: discorsi seri. 27. dilicato: non volgare. 28. accidente ben annicchiato: imprevisto ben introdotto nella trama.

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29. viva pennellata: tratto vivace. 30. sopra: più. 31. barlume: luce. 32. immediate: immediatamente; termine latino. 33. sperienza: esperienza. 34. egli: soggetto pleonastico. 35. segno: meta. 36. di miglior senso: più ragionato. 37. precettive: precettistiche, cioè che forniscono norme per la composizione di opere letterarie. 38. esemplari: cioè utilizzabili come modelli. 39. ingenuità: schiettezza. 40. documenti: insegnamenti. 41. il Mondo: si intende la realtà.

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Il Mondo è una miniera di spunti

Il Teatro insegna come rappresentare

Occorre tener conto del gusto del pubblico

La lingua e lo stile da usare

gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede42 di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’instruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra Nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi co’ quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo, rivolgendolo43 sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che si sappia da chi44 vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentar sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli45 per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendon grati46 agli occhi dilicati de’ spettatori. Imparo insomma dal Teatro a distinguere ciò ch’è più atto a far impressione sugli animi, a destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore47, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale48, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ’l ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica49, in modo però che non urti troppo offendendo. Ho appreso pur dal Teatro, e lo apprendo tuttavia all’occasione delle50 mie stesse Commedie, il gusto particolare della nostra Nazione, per cui precisamente io debbo scrivere, diverso in ben molte cose da quello dell’altre. Ho osservato alle volte riscuotere grandissimi encomi alcune coserelle da me prima avute in niun conto, altre riportarne pochissima lode, e talvolta eziandio51 qualche critica, dalle quali non ordinario applauso io avea sperato; per la qual cosa ho imparato, volendo render utili le mie Commedie, a regolar talvolta il mio gusto su quello dell’universale52, a cui deggio53 principalmente servire, senza darmi pensiero delle dicerie di alcuni o ignoranti, o indiscreti e difficili, i quali pretendono di dar la legge al gusto di tutto un Popolo, di tutta una Nazione, e forse anche di tutto il Mondo e di tutti i secoli colla lor sola testa, non riflettendo che, in certe particolarità non integranti54, i gusti possono impunemente cambiarsi, e convien lasciar padrone il Popolo egualmente che delle mode del vestire e de’ linguaggi. [...] Ecco quanto ho io appreso da’ miei due gran libri, Mondo e Teatro. Le mie Commedie sono principalmente regolate, o almeno ho creduto di regolarle, co’ precetti che in essi due libri ho trovati scritti: libri, per altro, che soli certamente furono studiati dagli stessi primi Autori di tal genere di Poesia, e che daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di quest’Arte. La natura è una universale e sicura maestra a chi l’osserva. [...] Quanto alla lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi e voci Lombarde55, giacché ad intelligenza56 anche della plebe più bassa che vi concorre57, principalmente nelle Lombarde città dovevano rappresentarsi le mie Commedie. Ad alcuni vernacoli58 Veneziani, ed a quelle di esse che ho scritte apposta per Venezia mia Patria, sarò in necessità di aggiungere qualche notarella, per far sentire le grazie di quel vezzoso dialetto a chi non ha tutta la pratica. Il Dottore che recitando parla in lingua Bolognese, parla qui nella volgare Italiana59.

42. provvede: fornisce. 43. rivolgendolo: sfogliandolo. 44. da chi: da parte di chi. 45. ombreggiarli: utilizzando la tecnica pittorica del chiaroscuro. Nell’esposizione dell’argomento, continua la metafora tratta dall’arte del disegno. 46. grati: graditi. 47. dilettevole... cuore: la curiosità. 48. effigiati al naturale: rappresentati come sono in realtà. 49. si pratica: si frequenta. 50. tuttavia... delle: ancora oggi grazie alle. 51. eziandio: persino.

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52. dell’universale: del pubblico nel suo complesso. 53. deggio: devo. 54. in certe... integranti: in situazioni di secondaria importanza, che non hanno rilievo determinante. 55. Lombarde: dell’Italia settentrionale. 56. ad intelligenza: comprese, capite. 57. che vi concorre: che vi si reca. 58. vernacoli: termini ed espressioni dialettali. 59. Il Dottore... Italiana: quella del Dottore (solitamente denominato Balanzone) è una maschera che nella commedia dell’arte recita in bolognese (Bologna è infatti sede di una famosa università), mentre usa l’italiano nelle commedie scritte.

CAP. 11 - CARLO GOLDONI

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Lo stile poi l’ho voluto qual si conviene alla Commedia, vale a dir semplice, naturale, non accademico od elevato. Questa è la grand’Arte del comico Poeta, di attaccarsi in tutto alla Natura, e non iscostarsene60 giammai. I sentimenti deb- 115 bon esser veri, naturali, non ricercati, e le espressioni a portata di tutti. da Opere, a cura di G. Folena, Mursia, Milano, 1979

60. iscostarsene: distanziarsene.

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inee di analisi testuale I primi passi per una riforma del teatro Ben consapevole del decadimento del teatro italiano, Goldoni osserva le reazioni del pubblico e nota ciò che suscita l’applauso comune e l’approvazion de’ migliori: alcune scene edificanti, qualche scherzo dilicato, qualche situazione ben congegnata, qualche viva pennellata, e soprattutto gli aspetti collegati alla realtà e alla quotidianità (il semplice e il naturale). Spirito galileiano e sostanzialmente illuminista, il commediografo è guidato da queste scoperte. Mondo e Teatro Goldoni introduce un concetto fondamentale della sua poetica: la centralità del Mondo e del Teatro, i due libri su’ quali ho più meditato. Il Mondo gli offre una miniera di spunti realistici, una folla di personaggi, una vetrina ricchissima di umane passioni, avvenimenti curiosi, costumi, vizi, virtù. Dal Teatro impara il modo migliore per rappresentare tutto ciò sulle scene, per coinvolgere lo spettatore e suscitare emozioni e identificazione, nonché a regolare il proprio gusto sul pubblico medio cui i lavori sono destinati (convien lasciar padrone il Popolo), piuttosto che vincolare le opere al parere di alcuni o ignoranti, o indiscreti e difficili. Il pubblico sovrano Il personaggio principale delle commedie goldoniane diventa così anche il punto di riferimento artistico: il Popolo padrone è in realtà il pubblico in senso moderno, quel popolo che s’infastidiva... contro le cattive Commedie, e che aveva decretato il fallimento degli artifici scenici spettacolari e degli intermezzi musicali, i due espedienti con i quali si era inutilmente tentato di arginare la crisi della commedia dell’arte. In definitiva Goldoni ormai sa bene di rivolgersi principalmente a un pubblico concreto, che ha il potere di decretare il successo o il fallimento delle sue opere. La lingua Le scelte linguistiche di Goldoni sono guidate essenzialmente da una motivazione pratica: la comprensibilità da parte di tutti (ancora dunque il pubblico). D’altra parte, il Mondo non può diventare Teatro senza che ai contenuti realistici si accompagni un linguaggio altrettanto realisticamente semplice, spontaneo, vicino alla quotidianità e facilmente comprensibile.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi in non più di 30 righe i passi tratti dalla Prefazione. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Che cosa pensa Goldoni della situazione generale del teatro comico ai suoi tempi? b. Qual è, secondo l’autore, la reazione del pubblico di fronte alle commedie presentate? c. Quali sono i libri sui quali Goldoni ha appreso la sua arte e che significato ha la metafora proposta dall’autore? d. Nel testo è posto l’accento sull’importanza dell’osservazione della realtà: sulla base di quali argomentazioni? e. Quali sono le considerazioni di Goldoni sul linguaggio e lo stile da utilizzare? Analisi e interpretazione 3. I passi di Goldoni qui proposti possono essere definiti “testo teatrale”? Perché? 4. Individua ed elenca sinteticamente i principali messaggi dell’autore che emergono dalla lettura degli stralci presentati della Prefazione. 5. Quali considerazioni sono presenti nel testo della Prefazione a proposito del linguaggio e dello stile da utilizzare nelle commedie?

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Approfondimenti 6. Il testo comico è molto diffuso oggi, oltre che nel teatro, nel cabaret, negli spettacoli di intrattenimento televisivo e anche nelle canzoni e nella pubblicità. Riferendoti ad esempi a te noti, confronta la concezione della comicità in Goldoni con quella che traspare dai testi odierni, ed esprimi la tua opinione sui principali cambiamenti del gusto del pubblico avvenuti nel tempo. 7. Tratta sinteticamente il seguente argomento (max 20 righe), motivando la tua risposta con opportuni riferimenti al testo: Il Mondo e il Teatro nella poetica e nella riforma di Carlo Goldoni.

Focus

IL TEATRO NEL TEATRO: DA GOLDONI A PIRANDELLO

CARLO GOLDONI E IL TEATRO COMICO Nel 1750, nell’opera Il teatro comico, Goldoni decide di parlare della sua riforma del teatro non in un trattato teorico, bensì in una commedia, in cui rappresenta una compagnia teatrale durante le prove. L’arrivo del poeta Lelio e le discussioni tra capocomico e attori sono l’occasione per fare del metateatro, ovvero per confrontare le caratteristiche della commedia dell’arte con quelle della commedia riformata, come testimoniano ad esempio la scena decima dell’atto II e la battuta conclusiva dell’opera qui di seguito proposte. EUGENIO ORAZIO

EUGENIO ORAZIO

ORAZIO

Dunque s’hanno da abolire intieramente le commedie all’improviso? Intieramente no; anzi va bene, che gl’Italiani si mantengano in possesso di far quello, che non hanno avuto coraggio di far le altre nazioni. I Francesi sogliono dire, che i comici italiani sono temerari, arrischiandosi a parlare in pubblico all’improvviso; ma questa, che può dirsi temerità nei comici ignoranti è una bella virtù ne’ comici virtuosi; e ci sono tuttavia de’ personaggi eccellenti, che ad onor dell’Italia, e a gloria dell’arte nostra, portano in trionfo con merito e con applauso l’ammirabile prerogativa di parlare a soggetto, con non minor eleganza di quello che potesse fare un poeta scrivendo. […] Dalle nostre commedie di carattere non si potrebbero levar le maschere? Guai a noi, se facessimo una tal novità: non è ancor tempo di farla. In tutte le cose non è da mettersi di fronte contro all’universale. Una volta il popolo andava alla commedia solamente per ridere, e non voleva vedere altro che le maschere in iscena, e se le parti serie avevano un dialogo un poco lungo, s’annoiavano immediatamente; ora si vanno avvezzando a sentir volentieri le parti serie, e godono le parole, e si compiacciono degl’accidenti, e gustano la morale, e ridono dei sali, e dei frizzi, cavati dal serio medesimo, ma vedono volentieri anco le maschere […]. Andiamo pure: è terminata la prova, e da quanto abbiamo avuto occasione di discorrere, e di trattare in questa giornata, credo che ricavare si possa, qual abbia ad essere, secondo l’idea nostra, il nostro Teatro Comico. da C. Goldoni, Opere, a cura di G. Folena, Mursia, Milano, 1969

LUIGI PIRANDELLO E I SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE Capolavoro della produzione teatrale di Pirandello, i Sei personaggi in cerca d’autore dissolvono la struttura tradizionale dello spazio scenico, trasformando il teatro nel luogo in cui si svolge il vero dramma e svelando il contrasto tra finzione e realtà. Ancora una volta una compagnia di attori sta provando una commedia (in questo caso dello stesso Pirandello), quando nel teatro, dalla platea, irrompono sei personaggi, che dichiarano di essere frutto della fantasia di un autore che li ha poi rifiutati e, quindi, alla ricerca di un altro autore che porti a compimento la loro storia. Di seguito proponiamo la breve presentazione dei sei personaggi che Pirandello fa nella prefazione del dramma. Orbene questa mia servetta Fantasia ebbe, parecchi anni or sono, la cattiva ispirazione o il malaugurato capriccio di condurmi in casa tutta una famiglia, non saprei dire dove né come ripescata, ma da cui, a suo credere, avrei potuto cavare il soggetto per un magnifico romanzo. Mi trovai davanti un uomo sulla cinquantina, in giacca nera e calzoni chiari, dall’aria aggrottata e dagli occhi scontrosi per mortificazione; una povera donna in gramaglie vedovili, che aveva per mano una bimbetta di quattr’anni da un lato e con un ragazzo di poco più di dieci dall’altro; una giovinetta ardita e procace, vestita anch’essa di nero ma con uno sfarzo equivoco e sfrontato, tutta un fremito di gajo sdegno mordente contro quel vecchio mortificato e contro un giovane sui vent’anni che si teneva discosto e chiuso in sé, come se avesse in dispetto tutti quanti. Insomma quei sei personaggi come ora si vedono apparire sul palcoscenico, al principio della commedia. E or l’uno or l’altro, ma anche spesso l’uno sopraffacendo l’altro, prendevano a narrarmi i loro tristi casi, a gridarmi ciascuno le proprie ragioni, ad avventarmi in faccia le loro scomposte passioni, press’a poco come ora fanno nella commedia al malcapitato Capocomico. da Sei personaggi in cerca d’autore, in Letteratura Italiana Zanichelli

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CAP. 11 - CARLO GOLDONI

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LA Le caratteristiche della commedia

Mirandolina: una donna reale

La rivalutazione del ruolo femminile

Focus

LOCANDIERA

La locandiera è una commedia in prosa in lingua italiana, suddivisa in tre atti rispettivamente di 23, 19 e 20 scene; l’azione dura solo qualche ora, nel rispetto delle tre unità aristoteliche. Dedicata al nobile fiorentino Giulio Rucellai, un commediografo dilettante amico di Goldoni, viene rappresentata per la prima volta nel 1753, in occasione del carnevale, presso il teatro Sant’Angelo di Venezia, dalla compagnia di Girolamo Medebach; nello stesso anno viene pubblicata presso l’editore Paperini di Firenze. Goldoni scrive la parte di Mirandolina per la giovane Maddalena Marliani, che recita nel ruolo di domestica nella compagnia Medebach, scatenando le ire della primadonna Teodora Medebach, gelosa sia del legame tra i due sia del grande successo ottenuto dalla rivale. Il personaggio di Mirandolina si sostituisce alla maschera della domestica ereditandone alcuni caratteri (la laboriosità, l’abilità negli intrighi, l’arte culinaria, la civetteria, la furbizia), ma distanziandosene nettamente per diventare una donna viva, dalla psicologia complessa. Le piace giocare, civettare, sedurre; si diverte a ingannare, a recitare e a conquistare, ma nello stesso tempo dimostra intelligenza, capacità diplomatica, saggezza e bontà d’animo; inoltre, è attenta e ricca di senso pratico. Il suo fascino risiede proprio nell’unione di sensualità e razionalità. Mirandolina è una donna di metà Settecento e rappresenta anche un segnale importante della rivalutazione del ruolo femminile all’interno della società: alle classiche arti femminili aggiunge infatti alcune qualità tradizionalmente affinate dai maschi, come la capacità di calcolo, l’ingegno e il gusto imprenditoriale. La figura goldoniana simboleggia quindi la modernità, l’elasticità, la capacità di stare al passo con i tempi e di risolvere le situazioni. Del personaggio di Mirandolina sono state date letture diverse: si va dalle condanne senza appello (la donna è giudicata fredda, calcolatrice ed egocentrica) alle approvazioni incondizionate (viene giudicata onesta, laboriosa e intraprenden-

LA TRAMA DELLA LOCANDIERA

La vicenda è ambientata a Firenze, dove la giovane Mirandolina è proprietaria di una locanda ereditata dal padre, morto da pochi mesi. La bella locandiera è corteggiata da diversi pretendenti: il Marchese di Forlipopoli e il Conte d’Albafiorita tentano di conquistarla, il primo facendo sfoggio della sua nobiltà, il secondo – aristocratico arricchito – del suo denaro; il cameriere Fabrizio aspira invece a sposarla in quanto il padre di Mirandolina gliel’ha promessa prima di morire. Giunge alla locanda il Cavaliere di Ripafratta, noto misogino, la cui sprezzante indifferenza colpisce l’orgoglio femminile di Mirandolina, che si ripropone di stuzzicarlo. Nonostante le proprie convinzioni, costui comincia allora a sentirsi attratto dalla bella locandiera, che decide di vendicare non solo se stessa, ma tutte le donne, adoperandosi per conquistarlo con una sottile e intelligente seduzione. Il nobile cade nella trappola delle moine di lei e s’innamora. A questo punto, però, Mirandolina interrompe bruscamente il suo gioco e dichiara ai tre spasimanti di voler sposare il cameriere Fabrizio, lasciandoli stupiti e delusi: la giovane obbedisce in tal modo ai desideri del padre. Ecco come lo stesso Goldoni commenta la trama della sua commedia. Fra tutte le Commedie da me sinora composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la più istruttiva. [...] Mirandolina fa altrui vedere come s’innamorano gli uomini. Principia a entrar in grazia del disprezzator delle donne, secondandolo nel modo suo di pensare, lodandolo in quelle cose che lo compiacciono, ed eccitandolo perfino a biasimare le donne istesse. Superata con ciò l’avversione che aveva il Cavaliere per essa, principia a usargli delle attenzioni, gli fa delle finezze studiate, mostrandosi lontana dal volerlo obbligare alla gratitudine. Lo visita, lo serve in tavola, gli parla con umiltà e con rispetto, e in lui veggendo scemare la ruvidezza, in lei s’aumenta l’ardire. Dice delle tronche parole, avanza degli sguardi, e senza ch’ei se ne avveda, gli dà delle ferite mortali. Il pover’uomo conosce il pericolo, e lo vorrebbe fuggire, ma la femmina accorta con due lagrimette l’arresta, e con uno svenimento l’atterra, lo precipita, l’avvilisce. Pare impossibile, che in poche ore un uomo possa innamorarsi a tal segno: un uomo, aggiungasi, disprezzator delle donne, che mai ha seco loro trattato; ma appunto per questo più facilmente egli cade, perché sprezzandole senza conoscerle, e non sapendo quali sieno le arti loro, e dove fondino la speranza de’ loro trionfi, ha creduto che bastar gli dovesse a difendersi la sua avversione, ed ha offerto il petto ignudo ai colpi dell’inimico. da C. Goldoni, Opere, a cura di G. Folena, Mursia, Milano 1979

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La lingua

te), alle letture sociologiche (una donna piccolo-borghese, sensibile al tema della rispettabilità sociale, nonostante l’apparenza libera e scanzonata). Il linguaggio utilizzato da Goldoni per La locandiera dimostra le intenzioni anti-letterarie dell’autore. Si tratta infatti di una lingua basata sul fiorentino vivo, in cui vengono introdotti molti elementi delle parlate delle regioni dell’Italia settentrionale. Tutta la commedia è caratterizzata da dialoghi brevi, rapidi, incalzanti, animati da un’abbondante presenza di termini gergali e popolari e, talvolta, di francesismi; ogni personaggio è inoltre caratterizzato da particolari abitudini linguistiche.

T2 Il Conte, il Marchese e il Cavaliere da La locandiera, I, 1, 3 e 4 Nelle prime scene della commedia, compaiono gli ospiti della locanda di Mirandolina: dapprima il Marchese di Forlipopoli e il Conte d’Albafiorita, poi il Cavaliere di Ripafratta. PISTE DI LETTURA • Mirandolina: una preda amorosa • La misoginia settecentesca • Un dialogo che rivela i diversi caratteri dei personaggi

Scena prima Sala di locanda. Il Marchese di Forlipopoli ed il Conte d’Albafiorita MARCHESE Fra voi e me vi è qualche differenza1. Sulla2 locanda tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio. 5 CONTE MARCHESE Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni3, mi si convengono4 piú che a voi. Per qual ragione? CONTE MARCHESE Io sono il marchese di Forlipopoli. Ed io sono il conte d’Albafiorita. 10 CONTE MARCHESE Sí, conte! Contea comprata5. Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato. CONTE MARCHESE Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto. Chi ve lo perde6 il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parCONTE lando... 15 MARCHESE Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me. Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch’io amassi Mirandolina? CONTE Perché credete sia in Firenze? Perché credete ch’io sia in questa locanda? 20 MARCHESE Oh bene. Voi non farete niente. Io no, e voi sí? CONTE MARCHESE Io sí, e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione. Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione. CONTE 25 MARCHESE Denari?... non ne mancano.

1. differenza: diverso livello di estrazione sociale. 2. Sulla: nella. 3. distinzioni: riguardi particolari. 4. si convengono: si addicono.

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5. Contea comprata: quello del conte non è un titolo nobiliare ereditario, ma acquistato – grazie alla ricchezza – insieme alle terre. 6. perde: nega.

CAP. 11 - CARLO GOLDONI

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CONTE MARCHESE CONTE 30 MARCHESE CONTE MARCHESE 35

CONTE

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MARCHESE CONTE MARCHESE CONTE

Io spendo uno zecchino7 il giorno, signor Marchese, e la regalo8 continuamente. Ed io quel che fo non lo dico. Voi non lo dite, ma già si sa. Non si sa tutto. Sí! caro signor Marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti9 il giorno. A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio. Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che è morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata10. Per me, se si marita, le ho promesso trecento scudi11. Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io... E so io quello che farò. Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno. Quel ch’io faccio, lo faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è là? (chiama) (Spiantato! Povero e superbo!) (da sé)

[Nella seconda scena appare il cameriere Fabrizio. Il Marchese e il Conte dimostrano la loro superbia nei suoi confronti, insultandolo e umiliandolo; infine, però, il Conte gli dona uno zecchino per suscitare invidia nel Marchese con la propria ricchezza]. Scena terza Il Marchese ed il Conte

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MARCHESE Voi credete di soverchiarmi12 con i regali, ma non farete niente. Il mio grado13 val piú di tutte le vostre monete. Io non apprezzo quel che vale, ma quello che si può spendere. CONTE MARCHESE Spendete pure a rotta di collo. Mirandolina non fa stima di voi14. 50 CONTE Con tutta la vostra gran nobiltà, credete voi di essere da lei stimato? Vogliono esser15 denari. MARCHESE Che denari? Vuol esser protezione. Esser buono in un incontro16 di far un piacere. Sí, esser buoni in un incontro di prestar cento doppie17. CONTE 55 MARCHESE Farsi portar rispetto bisogna. Quando non mancano denari, tutti rispettano. CONTE MARCHESE Voi non sapete quel che vi dite. L’intendo meglio di voi18. CONTE Scena quarta II Cavaliere di Ripafratta19 dalla sua camera, e detti

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CAVALIERE Amici, che cos’è questo rumore? Vi è qualche dissenzione20 fra di voi altri? Si disputava sopra un bellissimo punto21. CONTE MARCHESE II Conte disputa meco sul merito22 della nobiltà. (ironico)

7. zecchino: moneta d’oro veneziana. 8. la regalo: le faccio regali. 9. paoletti: monete d’argento di valore molto inferiore allo zecchino. 10. imbrogliata: nei guai. 11. Per me... scudi: incoraggiando il matrimonio di Mirandolina con un altro uomo, il conte spera subdolamente di diventarne l’amante, in virtù della “dote” di trecento scudi (altra moneta circolante a Venezia e Firenze) di cui le farebbe dono. 12. soverchiarmi: vincermi.

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13. grado: titolo nobiliare. 14. non fa... di voi: non ha attenzioni per voi. 15. Vogliono esser: occorrono. 16. Esser... incontro: essere capace, quando si presenta l’occasione. 17. doppie: moneta d’oro che vale circa due scudi. 18. L’intendo... di voi: sottintende “come vanno le cose”. 19. Ripafratta: località nei pressi di Pisa. 20. dissenzione: motivo di discussione. 21. bellissimo punto: interessante questione. 22. merito: importanza.

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CONTE 65

CAVALIERE MARCHESE CAVALIERE CONTE 70 MARCHESE CONTE

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CONTE CAVALIERE

Io non levo il merito alla nobiltà: ma sostengo, che per cavarsi dei capricci23, vogliono esser denari. Veramente, Marchese mio... Orsú, parliamo d’altro. Perché siete venuti a simil contesa? Per un motivo il piú ridicolo della terra. Sí, bravo! il Conte mette tutto in ridicolo. Il signor Marchese ama la nostra locandiera. Io l’amo ancor piú di lui. Egli pretende corrispondenza24, come un tributo alla sua nobiltà. Io la spero, come una ricompensa alle mie attenzioni25. Pare a voi che la questione non sia ridicola? Bisogna sapere con quanto impegno io la proteggo. Egli la protegge, ed io spendo. (al Cavaliere.) In verità non si può contendere per ragione alcuna che lo meriti meno. Una donna vi altera? vi scompone26? Una donna? che cosa mai mi convien27 sentire? Una donna? Io certamente non vi è pericolo che per le donne abbia che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l’uomo una infermità28 insopportabile. In quanto a questo poi, Mirandolina ha un merito estraordinario. Sin qua il signor Marchese ha ragione. La nostra padroncina della locanda è veramente amabile. Quando29 l’amo io, potete credere che in lei vi sia qualche cosa di grande. In verità mi fate ridere. Che mai può avere di stravagante30 costei, che non sia comune all’altre donne? Ha un tratto31 nobile, che incatena32. È bella, parla bene, veste con pulizia33, è di un ottimo gusto. Tutte cose che non vagliono un fico. Sono tre giorni ch’io sono in questa locanda, e non mi ha fatto specie veruna34. Guardatela, e forse ci troverete del buono. Eh, pazzia! L’ho veduta benissimo. È una donna come l’altre. Non è come l’altre, ha qualche cosa di piú. Io che ho praticate le prime dame35, non ho trovato una donna che sappia unire, come questa, la gentilezza e il decoro. Cospetto di bacco36! Io son sempre stato solito trattar donne: ne conosco li difetti ed il loro debole37. Pure38 con costei, non ostante il mio lungo corteggio39 e le tante spese per essa fatte, non ho potuto toccarle un dito. Arte40, arte sopraffina. Poveri gonzi41! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla larga tutte quante elle sono. Non siete mai stato innamorato? Mai, né mai lo sarò. Hanno fatto il diavolo42 per darmi moglie, né mai l’ho voluta.

23. per cavarsi dei capricci: per togliersi degli sfizi. 24. corrispondenza: d’essere corrisposto. 25. attenzioni: favori. 26. vi scompone: vi turba. 27. mi convien: mi tocca. 28. infermità: disgrazia. 29. Quando: visto che; ha valore ipotetico. 30. stravagante: straordinario. 31. tratto: modo di fare. 32. che incatena: che rende succubi. 33. con pulizia: decorosamente. 34. specie veruna: nessuna impressione. 35. prime dame: nobildonne.

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36. Cospetto di bacco: esclamazione che equivale a “perbacco”. 37. debole: debolezze. 38. Pure: eppure. 39. corteggio: corteggiamento. 40. Arte: intende “l’arte della finzione” che le donne utilizzano, nell’ottica del Cavaliere, per soggiogare e ingannare gli uomini. 41. gonzi: sciocchi. In gergo teatrale il termine gonzo significa anche “amante”. 42. il diavolo: di tutto. Il ricorrere di espressioni tratte dalla lingua parlata conferisce al linguaggio del Cavaliere una forte espressività.

CAP. 11 - CARLO GOLDONI

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MARCHESE Ma siete unico della vostra casa43. Non volete pensare alla successione44? CAVALIERE Ci ho pensato piú volte, ma quando considero che per aver figliuoli mi converrebbe soffrire45 una donna, mi passa subito la volontà. Che volete voi fare delle vostre ricchezze? 110 CONTE CAVALIERE Godermi quel poco che ho con i miei amici. MARCHESE Bravo, cavaliere, bravo; ci goderemo. E alle donne non volete dar nulla? CONTE CAVALIERE Niente affatto. A me non ne mangiano46 sicuramente. Ecco la nostra padrona. Guardatela, se non è adorabile. 115 CONTE CAVALIERE Oh la bella cosa! Per me47 stimo piú di lei quattro volte un bravo cane da caccia. MARCHESE Se48 non la stimate voi, la stimo io. CAVALIERE Ve la lascio, se fosse piú bella di Venere. da Commedie, Arnoldo Mondadori, Milano, 1959

43. casa: casata, famiglia. 44. alla successione: a lasciare eredi. 45. mi converrebbe soffrire: dovrei sopportare.

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46. non ne mangiano: non scroccano denaro. 47. Per me: da parte mia. 48. Se: anche se (valore concessivo).

inee di analisi testuale Tre aristocratici e un cameriere Nel personaggio del Marchese vive la satira del nobile impoverito, patetico nel sostenere la propria ormai inconsistente superiorità per titolo nobiliare e casato. Il Conte, nobile non di sangue ma per denaro, è convinto della superiorità che la sua ricchezza gli conferisce: la sua figura evoca la parodia del parvenu e del nuovo ricco. Per loro Mirandolina, in quanto donna e di rango inferiore, è la preda amorosa. Il Marchese è convinto che l’amore della locandiera gli sia dovuto per diritto di casta, il Conte per il potere del denaro. Il cameriere Fabrizio per i due è solo un problema marginale: il Marchese teme la sua concorrenza, il Conte no: afferma anzi sprezzantemente che un matrimonio tra Fabrizio e Mirandolina potrebbe essere una buona copertura per amori extraconiugali. Il Cavaliere si pone al di fuori di ogni competizione amorosa, dichiarando a chiare lettere la sua misoginia: per quanto lo riguarda, un bravo cane da caccia vale quattro volte Mirandolina. In pochissime battute, Goldoni ha già tratteggiato – secondo i princìpi della sua riforma – alcuni personaggi indimenticabili. Personaggi diversi: come uomini e come nobili La critica contro la nobiltà che emerge dalla commedia non è indirizzata tanto contro la classe aristocratica in sé, quanto contro gli universali vizi umani che si accompagnano al potere o alla sua perdita; non esclude però una fine analisi sociologica. Il Marchese di Forlipopoli impersona, infatti, il rifiuto donchisciottesco della realtà, ma anche l’arroccamento in un potere avuto in passato, la rivendicazione patetica di privilegi ormai decaduti. Il Conte d’Albafiorita ha i difetti dell’arroganza e dell’ostentazione, tipici della nobiltà acquisita grazie alla disponibilità di denaro. Il Cavaliere di Ripafratta, che diventerà il bersaglio principale della vendetta di Mirandolina, simboleggia i vizi particolarmente presenti nel nobile ricco e potente: la superbia del privilegio di nascita, il disprezzo del parvenu e del rango inferiore, la diffidenza verso i sentimenti. La sua misoginia è in realtà paura del ceto inferiore femminile, che mira alla ricchezza e all’ascesa nella scala sociale.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi in non più di 30 righe il contenuto delle prime scene de La locandiera. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono i tre personaggi nobili che compaiono nelle scene che hai letto e per quali concreti atteggiamenti si distinguono? b. Conte e Marchese hanno interessi amorosi verso Mirandolina: di quale genere? Quali battute li rivelano? c. Quali sono le ragioni della misoginia del Cavaliere?

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Analisi e interpretazione 3. Analizza i dialoghi dal punto di vista stilistico-formale, evidenziando in quale modo il linguaggio esprima i caratteri di ogni personaggio. 4. Considera le didascalie, tipiche del testo teatrale, e, per le più significative fra esse, spiega il motivo per cui credi siano state introdotte. 5. Pensi che l’ambientazione a Firenze (anziché a Venezia) della commedia sia in relazione con le scelte linguistiche compiute dall’autore? Perché? 6. Le concezioni amorose espresse dai tre personaggi in scena ti sembrano apprezzabili o criticabili? Per quali ragioni? Approfondimenti 7. Le ragioni della misoginia del Cavaliere di Ripafratta emergono chiaramente dal testo goldoniano: esistono ancora, a tuo parere, persone misogine? Svolgi una relazione su tale argomento, basandoti anche sulle tue esperienze personali, in max quattro colonne di foglio protocollo. 8. Tratta sinteticamente il seguente argomento (max 20 righe): La satira sociale e individuale nei personaggi della Locandiera.

T3 L’ingresso della protagonista da La locandiera, I, 5 e 9 La quinta scena, ambientata nella sala comune della locanda, vede la prima comparsa di Mirandolina. La locandiera si intrattiene con il Conte e il Marchese e ha occasione di sperimentare l’atteggiamento sprezzante del misogino Cavaliere. La nona scena costituisce una prima pausa all’interno della dinamica della commedia, con il monologo di Mirandolina che, rimasta sola, riflette sulla condotta da tenere nei confronti dei suoi spasimanti e del nemico delle donne. PISTE DI LETTURA • La corte sfrontata del Marchese, la corte cauta del Conte • L’aggressività del misogino • Il monologo di riflessione

Scena quinta Mirandolina e detti MIRANDOLINA MARCHESE 5 MIRANDOLINA MARCHESE MIRANDOLINA

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MARCHESE CAVALIERE CONTE MIRANDOLINA

M’inchino a questi cavalieri. Chi mi domanda1 di lor signori? Io vi domando, ma non qui. Dove mi vuole, Eccellenza? Nella mia camera. Nella sua camera? Se ha bisogno di qualche cosa, verrà il cameriere a servirla. (Che dite di quel contegno?) (al Cavaliere) (Quello che voi chiamate contegno, io lo chiamerei temerità2, impertinenza). (al Marchese) Cara Mirandolina, io vi parlerò in pubblico, non vi darò l’incomodo di venire nella mia camera. Osservate questi orecchini. Vi piacciono? Belli.

1. mi domanda: chiede di me.

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2. temerità: impudenza, sfrontatezza.

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CONTE MIRANDOLINA CONTE CAVALIERE MIRANDOLINA 20 MARCHESE CONTE CAVALIERE MIRANDOLINA CONTE 25 MIRANDOLINA 15

CAVALIERE CONTE CAVALIERE 30

MARCHESE MIRANDOLINA 35

CAVALIERE MIRANDOLINA 40

CAVALIERE CONTE CAVALIERE MIRANDOLINA

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CAVALIERE

Sono diamanti, sapete? Oh, li conosco. Me ne intendo anch’io dei diamanti. E sono al vostro comando3. (Caro amico, voi li buttate via). (piano al Conte) Perché mi vuol ella donare quegli orecchini? Veramente sarebbe un gran regalo! Ella ne ha de’ piú belli al doppio4. Questi sono legati5 alla moda. Vi prego riceverli per amor mio. (Oh che pazzo!) (da sé) No, davvero, signore... Se non li prendete, mi disgustate6. Non so che dire... mi preme tenermi amici gli avventori della mia locanda. Per non disgustare il signor Conte, li prenderò. (Oh che forca7!) (da sé) (Che dite di quella prontezza di spirito?) (al Cavaliere) (Bella prontezza! Ve li mangia8, e non vi ringrazia nemmeno). (al Conte) Veramente, signor Conte, vi siete acquistato un gran merito. Regalare9 una donna in pubblico, per vanità! Mirandolina, vi ho da parlare a quattr’occhi, fra voi e me: son cavaliere. (Che arsura! Non gliene cascano10). (da sé) Se altro non mi comandano, io me n’anderò. Ehi! padrona. La biancheria che mi avete dato, non mi gusta. Se non ne avete di meglio, mi provvederò11. (con disprezzo) Signore, ve ne sarà di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere con un poco di gentilezza. Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti. Compatitelo. Egli è nemico capitale12 delle donne. (a Mirandolina) Eh, che non ho bisogno d’essere da lei compatito. Povere donne! che cosa le hanno fatto? Perché cosí crudele con noi, signor Cavaliere? Basta cosí. Con me non vi prendete maggior confidenza. Cambiatemi la biancheria. La manderò a prender pel13 servitore. Amici, vi sono schiavo14. (parte)

[Dopo che è uscito il Cavaliere, i due pretendenti consolano Mirandolina del cattivo trattamento subito (scena sesta). Appare, quindi, un gioielliere (scena settima) dal quale si reca il Conte per scegliere altri doni per la ragazza. Resta allora in scena, accanto a Mirandolina, solo lo spiantato Marchese (scena ottava), che tenta di giustificare in qualche modo il fatto che egli non le dona nulla. Ma l’opinione della ragazza è chiara: i regali non fanno male allo stomaco]. Scena nona Mirandolina sola MIRANDOLINA Uh, che mai ha detto! L’eccellentissimo signor marchese Arsura15 mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di16 sposarmi a 55 50

3. comando: disposizione. 4. de’ piú... al doppio: due volte più belli. 5. legati: incastonati. 6. disgustate: offendete. 7. forca: sfacciata; letteralmente, “pendaglio da forca”. 8. mangia: scrocca. 9. Regalare: far regali a. 10. Che arsura... cascano: che spilorceria! I quattrini non

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gli cascano certo dalle tasche. 11. mi provvederò: me ne procurerò da solo. 12. capitale: assoluto. 13. pel: dal. 14. vi sono schiavo: formula di saluto da cui deriva il nostro “ciao” (dal veneto “sciao”). 15. Arsura: spilorceria. 16. mi esibiscono di: si dichiarano pronti a.

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dirittura. E questo signor cavaliere, rustico17 come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto18 s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi cosí? è una cosa che mi muove la bile19 terribilmente. È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca20. Quei che mi corrono dietro, presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata21, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati22; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare23 quei cuori barbari24 e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura. da Commedie, Arnoldo Mondadori, Milano, 1959

17. rustico: scontroso, aspro; l’aggettivo darà il titolo a uno dei capolavori goldoniani: I rusteghi. 18. in un salto: da un momento all’altro. 19. bile: collera, rabbia. 20. di picca: con ostinato puntiglio.

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21. servita, vagheggiata: corteggiata, desiderata. 22. spasimati: che smaniano di passione. 23. conquassare: distruggere. 24. barbari: rozzi.

inee di analisi testuale Il ritratto di Mirandolina La locandiera si presenta affabilmente, da buona padrona (M’inchino a questi cavalieri. Chi mi domanda di lor signori?). Subito il Marchese, per dimostrare le virtù della ragazza all’incredulo Cavaliere, azzarda una proposta indecente (Io vi domando, ma non qui, aggiungendo poco dopo: Nella mia camera); Mirandolina replica pacatamente, dimostrando amabilità e contegno. Anche il Conte mette alla prova la giovane, offrendole in dono degli orecchini di diamanti; Mirandolina si fa pregare e li accetta solo per non disgustare il signor Conte. Il Cavaliere, tuttavia, non si lascia incantare; approfitta anzi della presenza della padrona per protestare sulla qualità della biancheria. Mirandolina promette di accontentarlo, ma lo invita a una maggiore gentilezza; il Cavaliere, allora, le ricorda di essere un cliente pagante e di avere diritto ad esprimersi come crede (Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti). I personaggi e il pubblico Sono indicativi, nella quinta scena, i commenti a parte del Cavaliere e di Mirandolina: entrambi si rivolgono al pubblico con espressioni gergali (Cavaliere: Oh che forca!; Mirandolina: Che arsura! Non gliene cascano), attraverso le quali gli spettatori possono conoscere la loro vera natura. Il Cavaliere, nonostante il mutamento di tono, sceso a livello più popolare, resta sostanzialmente se stesso; Mirandolina, invece, non solo muta tono e linguaggio, ma rivela anche una personalità e un pensiero ben diversi da quelli che lascia intendere a voce alta. Scompaiono il garbo e la compiacenza verso gli ospiti e svanisce pure l’allegra noncuranza verso la povertà del Marchese. Mirandolina si rivela nella sua vera natura di abile locandiera e astuta seduttrice. Nel monologo della nona scena, finalmente, Mirandolina è sola e può parlare con il linguaggio basso che le appartiene, coinvolgendo il pubblico nelle sue considerazioni e nelle sue scelte. Non è nei suoi desideri sposarsi: il suo piacere consiste nel vedersi servita, vagheggiata, adorata; in ogni caso, non sceglierebbe un nobile (La nobiltà non fa per me). È abituata a essere corteggiata da tutti (tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti) e il comportamento scontroso del Cavaliere proprio non le garba (è una cosa che mi muove la bile terribilmente). Sorge così, nella sua mente l’idea di vendicarsi del torto subìto.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto delle due scene in non più di 30 righe. 2. Quali sono i personaggi che compaiono nella quinta scena e quali tratti di carattere rivelano? Analisi e interpretazione 3. Svolgi un’analisi linguistica dei dialoghi della quinta scena ed evidenzia in particolare i cambiamenti di registro o di tono emotivo, riportando espressioni che li esemplifichino. 4. Svolgi l’analisi del monologo della nona scena, evidenziando le figure retoriche presenti nel testo che svolgono la funzione più rilevante. Elenca in particolare il significato dei detti popolari usati da Mirandolina. 5. Da quali elementi contenutistici e linguistici si desume, nel monologo, il carattere di Mirandolina? Approfondimenti 6. Al giorno d’oggi che cosa si pensa tra i giovani della figura della ragazza emancipata che lavora ed è padrona della propria vita e dei propri sentimenti? Svolgi un’inchiesta tra i conoscenti e riportane i risultati; rifletti inoltre sulla tua esperienza personale ed esprimi le tue opinioni in una breve relazione sull’argomento. 7. Tratta sinteticamente il seguente argomento (max 20 righe), corredando la tua trattazione con opportuni riferimenti al testo: Il comportamento e il carattere di Mirandolina e il sottinteso giudizio di Goldoni sulle donne a lei simili.

T4 Mirandolina all’attacco da La locandiera, II, 16 e 17 Dopo il breve monologo del Cavaliere nella sedicesima scena, il successivo dialogo con Mirandolina segna il trionfo della locandiera sul misogino. PISTE DI LETTURA • Il tentativo di fuga dai sentimenti del misogino • L’arte seduttiva femminile in primo piano • Il meccanismo della commedia

Scena sedicesima Il Cavaliere solo

5

Tutti sono invaghiti di Mirandolina. Non è maraviglia, se ancor io principiava a sentirmi accendere1. Ma anderò via; supererò questa incognita forza... Che vedo? Mirandolina? Che vuole da me? Ha un foglio in mano. Mi porterà il conto. Che cosa ho da fare? Convien soffrire2 quest’ultimo assalto. Già da qui a due ore io parto3. Scena diciassettesima Mirandolina con un foglio in mano, e detto

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MIRANDOLINA Signore. (mestamente) Che c’è, Mirandolina? CAVALIERE

1. se ancor... accendere: se anch’io iniziavo a sentirmi accendere dal desiderio.

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2. soffrire: resistere a. 3. Già... parto: fra due ore sarò già partito.

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MIRANDOLINA CAVALIERE MIRANDOLINA 15 CAVALIERE MIRANDOLINA CAVALIERE MIRANDOLINA CAVALIERE 20

MIRANDOLINA CAVALIERE

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MIRANDOLINA CAVALIERE MIRANDOLINA

CAVALIERE MIRANDOLINA 30 CAVALIERE MIRANDOLINA CAVALIERE 35

MIRANDOLINA CAVALIERE

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MIRANDOLINA 45

CAVALIERE

Perdoni. (stando indietro) Venite avanti. Ha domandato il suo conto; l’ho servita. (mestamente) Date qui. Eccolo. (si asciuga gli occhi col grembiale, nel dargli il conto) Che avete? Piangete? Niente, signore, mi è andato del fumo negli occhi. Del fumo negli occhi? Eh! basta... quanto importa il conto? (legge) Venti paoli? In quattro giorni un trattamento sí generoso: venti paoli? Quello è il suo conto. E i due piatti particolari che mi avete dato questa mattina, non ci sono nel conto? Perdoni. Quel ch’io dono, non lo metto in conto. Me li avete voi regalati? Perdoni la libertà. Gradisca per un atto di... (si copre, mostrando di piangere) Ma che avete? Non so se sia il fumo, o qualche flussione4 di occhi. Non vorrei che aveste patito, cucinando per me due preziose vivande. Se fosse per questo, lo soffrirei5... volentieri... (mostra trattenersi di piangere) (Eh, se non vado via!). (da sé) Orsú, tenete. Queste sono due doppie6. Godetele per amor mio... e compatitemi7... (s’imbroglia) (Senza parlare, cade come svenuta sopra una sedia) Mirandolina. Ahimè! Mirandolina. È svenuta. Che fosse innamorata di me? Ma così presto? E perché no? Non sono io innamorato di lei? Cara Mirandolina... Cara? Io cara ad una donna? Ma se è svenuta per me. Oh, come tu sei bella! Avessi qualche cosa per farla rinvenire. Io che non pratico8 donne, non ho spiriti, non ho ampolle9. Chi è di là? Vi è nessuno? Presto... Anderò io. Poverina! Che tu sia benedetta! (parte, e poi ritorna) Ora poi è caduto affatto10. Molte sono le nostre armi, colle quali si vincono gli uomini. Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento. Torna, torna. (si mette come sopra) (Torna con un vaso d’acqua) Eccomi, eccomi. E non è ancor rinvenuta. Ah, certamente costei mi ama. (la spruzza ed ella si va movendo) Animo, animo. Son qui, cara. Non partirò piú per ora. da Commedie, Arnoldo Mondadori, Milano, 1959

4. flussione: infiammazione. 5. soffrirei: sopporterei. 6. doppie: moneta d’oro che vale circa due scudi. 7. compatitemi: perdonatemi. 8. pratico: frequento. 9. spiriti... ampolle: gli spiriti sono soluzioni alcoliche ad alta gradazione, utilizzate per far riacquistare i sensi e contenute in ampolle di vetro. 10. affatto: del tutto.

Mirandolina e il Cavaliere di Ripafratta in un’illustrazione di Mantegazza per La locandiera.

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inee di analisi testuale La paura dei sentimenti Il Cavaliere ha resistito finora agli assalti di Mirandolina e ha deciso, per non soccombere ai sentimenti, di fuggire. Il sentimento amoroso, per l’uomo, è universalmente un’incognita forza che accende. Nella scena successiva, Mirandolina entra nella stanza del Cavaliere e muove le pedine vincenti della seduzione, che sono universali e uguali in ogni tempo. Tattiche di seduzione femminile Le tecniche di seduzione femminile di Mirandolina sono messe in luce magistralmente. Il parlare è pieno di vuoti, esitazioni, silenzi, scuse e pause che l’immaginazione del Cavaliere provvede a riempire. Il pianto simulatamente contenuto per la sua partenza è solo l’inizio della strategia: Niente, signore, mi è andato del fumo negli occhi… Non so se sia il fumo, o qualche flussione di occhi. Siamo di fronte al capolavoro di Mirandolina: dopo un così accorto assedio contro il terribile misogino, ora che questi è innamorato, la giovane perfeziona l’opera lasciando che sia proprio lui a vincere l’ultima sfida con se stesso. Una commedia nella commedia I silenzi di Mirandolina rappresentano, agli occhi dal Cavaliere, la migliore confessione dei suoi sentimenti, mentre sono astutamente calcolati. In realtà, egli sta assistendo (e soccombendo) a un riepilogo delle strategie di seduzione della ragazza: la modestia, la volontà di mantenersi rispettosamente all’interno del rapporto fra cliente e servitrice (Ha domandato il suo conto; l’ho servita); le piccole, tenere attenzioni per compiacere l’ospite (una cifra da pagare fin troppo onesta, il dono dei piatti prelibati); infine, l’apparente sforzo per non confessare il proprio amore, che culmina in un tipico espediente da commedia dell’arte: il finto svenimento. La capacità di recitazione di Mirandolina trova qui la sua massima espressione: il Cavaliere non esita a convincersi di essere amato dalla ragazza e, immediatamente, di amarla a sua volta. Finalmente preda dei sentimenti, la sua misoginia (che in realtà era paura di cedere ai sentimenti o di cadere nelle trame di una arrampicatrice sociale) svanisce.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto delle due scene in non più di 15 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali pensieri esprime il Cavaliere nel monologo della sedicesima scena? b. Con quali giustificazioni Mirandolina maschera il suo finto pianto e a che serve tale espediente psicologico nell’azione della commedia? c. Su che cosa verte il dialogo tra Mirandolina e il Cavaliere? d. Quale artificio mette in atto Mirandolina per convincere il Cavaliere e come Goldoni lo descrive nelle didascalie? e. Perché il Cavaliere non lascia la locanda? Analisi e interpretazione 3. Rileva nella scena diciassettesima la variazione di registro nella comunicazione di Mirandolina; riporta quindi gli elementi linguistici del dialogo che denotano tale cambiamento. 4. Qual è l’intento di Goldoni nel rappresentare il comportamento di Mirandolina? La figura della donna ti sembra presentare tratti lineari o complessi? Perché? Approfondimenti 5. La donna che mette in scena le sue arti di seduzione verso l’uomo compare spesso nelle opere letterarie. Fai riferimento ad alcune figure femminili di questo genere a te note ed opera un confronto tra esse e il personaggio di Mirandolina, mettendo in luce analogie e differenze (anche rispetto al contesto storico e all’evoluzione dei costumi).

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T5 Mirandolina si sposa da La locandiera, III, 18-20 Nelle tre scene conclusive della commedia, la vicenda si chiude: Mirandolina comunica la sua intenzione di sposare Fabrizio, il Cavaliere fugge dalla locanda, il Conte e il Marchese decidono di andare ad alloggiare altrove. PISTE DI LETTURA • La fine del gioco di Mirandolina • Ogni personaggio ha quel che si è meritato • La morale della commedia

Scena diciottesima FABRIZIO MIRANDOLINA 5 CAVALIERE MIRANDOLINA MARCHESE MIRANDOLINA CONTE 10 CAVALIERE MIRANDOLINA CONTE MARCHESE 15 CAVALIERE MARCHESE MIRANDOLINA 20

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CAVALIERE CONTE MARCHESE 30 CAVALIERE MARCHESE MIRANDOLINA 35

CAVALIERE

Mirandolina, Fabrizio e detti1

Alto2, alto, padroni. Alto, signori miei, alto. (Ah maledetta!) (vedendo Mirandolina) Povera me! Colle spade? Vedete? Per causa vostra. Come per causa mia? Eccolo lí il signor Cavaliere. È innamorato di voi. Io innamorato? Non è vero; mentite. Il signor Cavaliere innamorato di me? Oh no, signor Conte, ella s’inganna. Posso assicurarla, che certamente s’inganna. Eh, che siete voi pur3 d’accordo... Si sa, si vede... Che si sa? Che si vede? (alterato, verso il Marchese) Dico, che quando è, si sa... Quando non è, non si vede. Il signor Cavaliere innamorato di me? Egli lo nega, e negandolo in presenza mia, mi mortifica, mi avvilisce, e mi fa conoscere la sua costanza e la mia debolezza. Confesso il vero, che se riuscito mi fosse d’innamorarlo, avrei creduto di fare la maggior prodezza del mondo. Un uomo che non può vedere le donne, che le disprezza, che le ha in mal concetto4, non si può sperare d’innamorarlo. Signori miei, io sono una donna schietta e sincera: quando devo dir, dico, e non posso celare la verità. Ho tentato d’innamorare il signor Cavaliere, ma non ho fatto niente. È vero, signore? Ho fatto, ho fatto, e non ho fatto niente. (al Cavaliere) (Ah! Non posso parlare). (da sé) Lo vedete? Si confonde. (a Mirandolina) Non ha coraggio di dir di no. (a Mirandolina) Voi non sapete quel che vi dite. (al Marchese, irato) E sempre l’avete5 con me. (al Cavaliere, dolcemente) Oh, il signor Cavaliere non s’innamora. Conosce l’arte6. Sa la furberia delle donne: alle parole non crede; delle lagrime non si fida. Degli svenimenti poi se ne ride. Sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti?

1. detti: il Cavaliere, il Marchese e il Conte. 2. Alto: alt, fermatevi. 3. voi pur: anche voi. 4. che le ha in mal concetto: che di loro ha un’opinione

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negativa. 5. l’avete: ve la prendete. 6. l’arte: della seduzione, propria delle donne.

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MIRANDOLINA Come! Non lo sa, o finge di non saperlo? Giuro al cielo! Una tal finzione meriterebbe uno stile7 nel cuore. CAVALIERE MIRANDOLINA Signor Cavaliere, non si riscaldi, perché questi signori diranno ch’è innamorato davvero. Sí, lo è, non lo può nascondere. CONTE Si vede negli occhi. MARCHESE No, non lo sono. (irato al Marchese) CAVALIERE E sempre con me. MARCHESE MIRANDOLINA No signore, non è innamorato. Lo dico, lo sostengo, e son pronta a provarlo. (Non posso piú). (da sé) Conte, ad altro tempo8 mi troverete provveCAVALIERE duto di spada. (getta via la mezza spada del Marchese) Ehi! la guardia9 costa denari. (la prende di terra) MARCHESE MIRANDOLINA Si fermi, signor Cavaliere, qui ci va della sua riputazione. Questi signori credono ch’ella sia innamorato; bisogna disingannarli. Non vi è questo bisogno. CAVALIERE MIRANDOLINA Oh sí, signore. Si trattenga un momento. (Che far intende costei?) (da sé) CAVALIERE MIRANDOLINA Signori, il piú certo segno d’amore è quello della gelosia, e chi non sente la gelosia, certamente non ama. Se il signor Cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire10 ch’io fossi d’un altro, ma egli lo soffrirà, e vedranno... Di chi volete voi essere? CAVALIERE MIRANDOLINA Di quello a cui mi ha destinato mio padre. Parlate forse di me? (a Mirandolina) FABRIZIO MIRANDOLINA Sí, caro Fabrizio, a voi in presenza di questi cavalieri vo’11 dar la mano di sposa. (Oimè! Con colui? non ho cuor12 di soffrirlo). (da sé, smaniando) CAVALIERE (Se sposa Fabrizio, non ama il Cavaliere). (da sé) Sí, sposatevi, e vi CONTE prometto trecento scudi. Mirandolina, è meglio un ovo oggi, che una gallina domani. Sposatevi MARCHESE ora, e vi do subito dodici zecchini. MIRANDOLINA Grazie, signori, non ho bisogno di dote. Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d’innamorar persone di merito. Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo... Sí, maledetta, sposati a chi tu vuoi. So che tu m’ingannasti, so che CAVALIERE trionfi dentro di te medesima d’avermi avvilito13, e vedo sin dove vuoi cimentare14 la mia tolleranza. Meriteresti che io pagassi gl’inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch’io ti strappassi il cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere15, alle femmine ingannatrici. Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi. Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio16 imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo. (parte) Scena diciannovesima Mirandolina, il Conte, il Marchese e Fabrizio

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CONTE MARCHESE

Dica ora di non essere innamorato. Se mi dà un’altra mentita17, da cavaliere lo sfido.

7. stile: pugnale. 8. ad altro tempo: in un altro momento. 9. guardia: impugnatura. 10. soffrire: sopportare. 11. vo’: voglio. 12. cuor: coraggio.

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13. avvilito: umiliato. 14. cimentare: mettere alla prova. 15. lusinghiere: che attraggono con adulazioni. 16. a costo mio: a mie spese. 17. mentita: smentita.

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MIRANDOLINA Zitto18, signori, zitto. È andato via, e se non torna, e se la cosa passa cosí, posso dire di essere fortunata. Pur troppo, poverino, mi è riuscito d’innamorarlo, e mi son messa ad un brutto rischio. No ne vo’ saper altro. Fabrizio, vien qui, caro, dammi la mano. 90 FABRIZIO La mano? Piano un poco, signora. Vi dilettate di innamorar la gente in questa maniera, e credete ch’io vi voglia sposare? MIRANDOLINA Eh via, pazzo! È stato uno scherzo, una bizzarria, un puntiglio. Ero fanciulla19, non avevo nessuno che mi comandasse. Quando sarò maritata, so io quel che farò. 95 FABRIZIO Che cosa farete? Scena ultima Il Servitore del Cavaliere e detti Signora padrona, prima di partire son venuto a riverirvi. SERVITORE MIRANDOLINA Andate via? 100 SERVITORE Sí. Il padrone va alla Posta20. Fa attaccare21; mi aspetta colla roba, e ce ne andiamo a Livorno. MIRANDOLINA Compatite22, se non vi ho fatto... Non ho tempo da trattenermi. Vi ringrazio, e vi riverisco. (parte) SERVITORE MIRANDOLINA Grazie al cielo, è partito. Mi resta qualche rimorso; certamente è parti105 to con poco gusto23. Di questi spassi non me ne cavo mai piú24. Mirandolina, fanciulla o maritata che siate, sarò lo stesso per voi. CONTE Fate pur capitale della25 mia protezione. MARCHESE MIRANDOLINA Signori miei, ora che mi marito, non voglio protettori, non voglio spasimanti, non voglio regali. Sinora mi sono divertita, e ho fatto male, e 110 mi sono arrischiata troppo, e non lo voglio fare mai piú. Questi è mio marito... Ma piano, signora... FABRIZIO MIRANDOLINA Che piano! Che cosa c’è? Che difficoltà ci sono? Andiamo. Datemi quella mano. 115 FABRIZIO Vorrei che facessimo prima i nostri patti. MIRANDOLINA Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese. Vi darò la mano... ma poi... FABRIZIO MIRANDOLINA Ma poi, sí, caro, sarò tutta tua; non dubitare di me, ti amerò sempre, sarai l’anima mia. 120 FABRIZIO Tenete, cara, non posso piú. (le dà la mano) MIRANDOLINA (Anche questa è fatta). (da sé) Mirandolina, voi siete una gran donna, voi avete l’abilità di condur gli CONTE uomini dove volete. Certamente la vostra maniera obbliga26 infinitamente. MARCHESE 125 MIRANDOLINA Se è vero ch’io possa sperar grazie da lor signori, una ne chiedo loro per ultimo. Dite pure. CONTE Parlate. MARCHESE (Che cosa mai adesso domanderà?) (da sé) FABRIZIO 130 MIRANDOLINA Le supplico per atto di grazia, a provvedersi d’un’altra locanda. (Brava; ora vedo che la mi vuol bene). (da sé) FABRIZIO Sí, vi capisco e vi lodo. Me n’anderò, ma dovunque io sia, assicurateCONTE vi27 della mia stima. Ditemi: avete voi perduta una boccettina d’oro? MARCHESE 135 MIRANDOLINA Sí signore.

18. Zitto: silenzio. 19. fanciulla: nubile. 20. Posta: stazione dove si fermano cavalli e carrozze. 21. Fa attaccare: sottinteso “i cavalli alla carrozza”. 22. Compatite: scusate.

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23. gusto: piacere. 24. Di questi... mai piú: di questi svaghi non me ne prenderò mai più. 25. Fate pur capitale della: contate pure sulla. 26. obbliga: condiziona. 27. assicuratevi: siate sicura.

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MARCHESE MIRANDOLINA 140

Eccola qui. L’ho ritrovata, e ve la rendo. Partirò per compiacervi, ma in ogni luogo fate pur capitale della mia protezione. Queste espressioni28 mi saran care, nei limiti della convenienza e dell’onestà. Cambiando stato, voglio cambiar costume29; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore30; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera. da Commedie, Arnoldo Mondadori, Milano, 1959

28. espressioni: offerte. 29. Cambiando... costume: sposandomi, voglio cambiare

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stile di vita. 30. cuore: sentimenti.

inee di analisi testuale Il processo al Cavaliere misogino La scena diciottesima è strutturata da Goldoni come un dibattimento processuale (da giovane, l’autore aveva esercitato la professione di avvocato). L’imputato è il Cavaliere, accusato di essersi innamorato, incoerentemente con la propria convinzione misogina, della bella locandiera. Gli accusatori sono il Conte e il Marchese: il primo più spietato, il secondo più accomodante. Mirandolina è l’avvocato difensore, che si adopera in tutti i modi per difendere l’imputato, anche come testimone a carico, in quanto ha assistito ai fatti. Infine Mirandolina diventa giudice e carnefice calando la scure finale sul condannato: Se il signor Cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire ch’io fossi d’un altro, alludendo al fatto che Fabrizio non è un nobile, ma un semplice cameriere. Il Cavaliere, fuori di sé, esce dalla scena sconfitto. Il trionfo finale della moderazione Mirandolina tira un sospiro di sollievo dopo aver corso un brutto rischio, chiama Fabrizio e gli chiede di sposarla. Le resta qualche remora: non si potrà più concedere simili spassi alle spalle dei maschi. Ma si era spaventata e per qualche momento ha temuto che la situazione le sfuggisse di mano. Ora intende mettere giudizio e sposarsi, rinunciando a protettori, spasimanti e regali. La reticenza di Fabrizio – pur sempre maschio – è presto superata con piglio deciso e il lieto fine è annunciato. La morale educativa goldoniana La bella locandiera chiede ai suoi nobili spasimanti un ultimo favore: quello di provvedersi di un’altra locanda: sposandosi, Mirandolina vuole infatti cambiar costume. Nella chiusa emerge l’intento morale di Goldoni, che coincide con un trionfo della moderazione e della saggezza. Gli spettatori sono invitati a trarre profitto da quanto hanno veduto, a non cedere alle lusinghe, a non cadere in brutte avventure, a vantaggio e sicurezza del loro cuore. Come in molte opere di stampo illuministico di altri autori, anche alla commedia goldoniana viene così attribuito un fine in qualche modo educativo. Nel complesso dell’opera, però, esso appare di scarsa importanza.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto delle tre scene finali de La locandiera. 2. Riscrivi in lingua italiana odierna didascalie e battute di una delle tre scene a tua scelta. Analisi e interpretazione 3. Spiega quali caratteristiche presentano i personaggi che compaiono nelle tre scene e quali diversi sentimenti esprimono. 4. Qual è il messaggio conclusivo che Goldoni rivolge al pubblico attraverso la battuta finale di Mirandolina? Approfondimenti 5. Rifletti sui testi de La locandiera proposti in antologia e approfondisci l’argomento dei rapporti sociali e umani, analizzando comportamenti e psicologia dei personaggi della commedia di Goldoni. 6. Interpreta e commenta per scritto il seguente parere del critico letterario Attilio Momigliano: Nessuno come lui [Goldoni] seppe far arte grande di argomenti tenui: questo non è forse molto più agevole che far arte grande di argomenti gravi: per riuscirvi bisogna trovar sostanza dove i più non ne vedono.

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

L’egoismo di Mirandolina

Guido Davico Bonino

Il critico Guido Davico Bonino esamina le ragioni per cui La locandiera, andata in scena al teatro Sant’Angelo a Venezia nel gennaio 1753, piacque solo discretamente ai veneziani ma non li affascinò (come invece sarebbe avvenuto per il pubblico dei secoli successivi). Goldoni [...] servendosi dello stesso pretesto narrativo (una donna, ambita da due pretendenti, seduce il terzo che la rifiuta), scrive, in realtà, una commedia sull’egoismo ed egotismo umano, che tenta ad ogni costo di affermare se stesso, sopra e a spese degli altri. Non c’è bisogno di scomodare Freud per capirlo: basta rileggere il testo senza i paraocchi della manualistica più pigra, che si fece uno scrupolo di tessere l’elogio di Mirandolina come donna supremamente donna, mito dell’eterno femminino, adorabile seduttrice. Che Mirandolina seduca Ripafratta, è fuor di dubbio: ma il punto non è questo. La commedia non è l’apologia di una “regina di cuori” [...]. È, semmai, l’impietosa (nonostante il ben noto “tono medio” goldoniano) radiografia di quattro esistenze alla ricerca di una loro identità. L’uno, un nobile decaduto e spiantato, un certo Forlipopoli, la cerca nella stizzosa difesa di un “decoro” ridotto a pura espressione verbale; l’altro, un tal Albafiorita, crede di trovarla nel potere portentoso del denaro, da aristocratico dell’ultim’ora, da parvenu benestante; un terzo, Ripafratta, si ostina a riconoscerla nella sua altezzosa misantropia, nella sua sdegnata salvatichezza; la quarta, Mirandolina, se la attribuisce, quasi per scommessa, come impareggiabile seduttrice. Ma quel gran dispendio di egoismo, quella caparbia esibizione egotica non soddisfa nessuno. Usciti di scena, Albafiorita, Forlipopoli, Ripafratta entreranno in un’altra locanda per architettare un’analoga “fiera delle vanità”; rimasta sola in scena, Mirandolina, con quel suo marito-servo d’accatto, non ha altro compenso, per la sua funambolica esibizione, che una bella dose di sgomento, un’ombra di rimorso, l’assillo dell’amarezza. E qui tocchiamo lo strato più fondo della commedia, quello che non dovette piacere affatto ai contemporanei di Goldoni, che forse infastidì, addirittura, i più conservatori (si pensi a uno spettatore-tipo come il conte Gozzi). Come il titolo recita, nella sua polemica nudità, il motore di tutto questo ridicolo e patetico balletto di identità insoddisfatte è, dopotutto, una proprietaria di locanda. Non c’è bisogno, anche qui, di scomodare gli storici [...] per sapere che siamo davanti ad una piccolo-borghese: rappresentante di quella classe mercantile, onesta ed alacre, che è certo la spina dorsale della Repubblica, ma al suo livello più modesto, al livello appunto di quegli albergatori, caffettieri ed osti, che, a Venezia come nell’entroterra, avevano l’obbligo di garantire vitto e alloggio decoroso ai “forestieri nobili e civili”. Ora questa piccolo-borghese, sia pure nello spazio di una dichiarata finzione scenica (anzi, di una “finzione nella finzione”, giacché “recita”, all’interno della commedia, la parte, esibita, della seduttrice), tiene a bada due nobili e mortifica un “cittadino”: e lo fa con parole, accenti e toni di una certa qual spregiudicata franchezza, a tratti sembra sfogare chissà quale sopito livore, in altri istanti s’abbandona ad un’ira che ha tutta l’aria di non essere finta, di essere, insomma, poco “recitata”. Non appariva, tutto questo, ad occhi indiscreti o ad orecchie prevenute un poco troppo audace? Non rischiava di far credere ad uno spettatore giunto (poniamo) da paesi lontani che quella Firenze-Venezia fosse una città uscita dai cardini, se i suoi equilibri di classe risultavano, almeno a teatro, così sbilanciati? da Introduzione a La locandiera, Mondadori, Milano, 1983

Pagina iniziale dell’atto II della Locandiera di Goldoni, in un’edizione del XVIII secolo.

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Focus

LA TRAMA DE I RUSTEGHI

Due amici rusteghi – ossia zotici e retrogradi – Lunardo e Maurizio, hanno combinato in segreto il matrimonio dei loro rispettivi figli, Lucietta e Filippetto. Nel primo atto l’atmosfera festosa del carnevale cova repressa nel quieto interno della casa di Lunardo. La giovane Lucietta è intenta al lavoro in compagnia della matrigna, Margarita; entrambe provano risentimento verso il padre-marito tiranno, colpevole di tenerle segregate e di proibire loro ogni divertimento. Lucietta è incuriosita da un accenno al possibile matrimonio e interroga ansiosamente Margarita, senza riuscire a sapere nulla di preciso. Torna a casa Lunardo: ha invitato a cena Maurizio e gli altri due rusteghi Canciano e Simone, con le mogli Felice e Marina. Filippetto, informato del progetto matrimoniale e desideroso di vedere la sposa, si confida con la zia Marina, la quale, eludendo la scorbutica sorveglianza del marito, a sua volta chiede consiglio all’energica e intraprendente siora Felice, moglie di Canciano. Vincendo la paura di Margarita, Felice riesce a far incontrare (perché possano almeno conoscersi prima delle loro nozze) i due futuri sposi in casa di Lunardo, dove Filippetto compare travestito con una maschera femminile. Intanto, però, all’insaputa delle donne, i due padri hanno concluso l’accordo e Maurizio è tornato a casa per condurre Filippetto alle nozze; quando però Maurizio scopre che il figlio è uscito senza il suo permesso, e per di più in compagnia di un conte forestiero di nome Riccardo, amico di Felice, torna furibondo a casa di Lunardo, insultando il conte. Questi, offeso, svela tutta la verità. Maurizio se ne va indignato, portando via Filippetto. Gli altri tre rusteghi si riuniscono a consiglio per escogitare castighi contro le donne e i due ragazzi, che hanno loro disubbidito. La commedia avrà poi lieto fine: Felice dimostrerà ai rusteghi quanto siano assurde le loro pretese di falsi moralisti, poiché, in fondo, non è successo niente di grave: i due ragazzi si sono piaciuti e non è disonorevole che si siano conosciuti prima del matrimonio; anche l’inganno è stato compiuto per un fine onesto. La cosa migliore è festeggiare con una cena e tutti possono essere contenti, compresi i padri salvadeghi che alla fine, sia pure controvoglia, riconoscono i loro torti e si rassegnano ad accettare la nuova situazione.

T6 Interno veneziano con rusteghi da I rusteghi, III, 1 La commedia I rusteghi – posteriore di sette anni rispetto a La locandiera – in dialetto veneziano e in tre atti, è scritta e rappresentata nel 1760 con grande successo. Il rustego è un uomo zotico, nemico della civiltà, della cultura, del conversare. In questa scena i tre rusteghi padri di famiglia mettono subito in luce i loro caratteri. PISTE DI LETTURA • Un ambiente chiuso e conservatore • Il carnevale esterno, la chiusura all’interno della casa • Le caratteristiche del maschilismo settecentesco Scena prima Camera di Lunardo. Lunardo, Canciano e Simon LUNARDO 5

SIMON 10

CANCIANO 15

Se trata de onor, se trata, vegnimo a dir el merito, de reputazion de casa mia. Un omo de la mia sorte. Cossa dirai de mi? cossa dirai de Lunardo Cròzzola? Quietève, caro compare. Vu no ghe n’avè colpa. Xe causa le donne; castighèle, e tuto el mondo ve loderà. Sí ben, bisogna dar un esempio. Bisogna umiliar la superbia de ste muggier cusí altiere, e insegnar ai omeni a castigarle.

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Si tratta di onore, si tratta, entriamo nel merito della questione, della reputazione di casa mia. Un uomo della mia condizione. Cosa diranno di me? Cosa diranno di Lunardo Cròzzola? Calmatevi, caro compare. Voi non ne avete colpa. La causa è delle donne; castigatele, e tutti vi loderanno. Sì bene, bisogna dare un esempio. Bisogna umiliare la superbia di queste mogli così altezzose, e insegnare agli uomini a castigarle.

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SIMON CANCIANO LUNARDO SIMON 20 LUNARDO CANCIANO LUNARDO 25

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E che i diga pur, che semo rusteghi. E che i diga pur, che semo salvadeghi1. Mia muggier xe causa de tuto. Castighèla. E quela frasconazza la ghe tien drio. Mortifichèla. E vostra muggier ghe tien terzo. (a Canciano) La castigherò. E la vostra sarà d’accordo. (a Simon) Anca la mia me la pagherà. Cari amici, parlemo, consegiemose. Con custíe, vegnimo a dir el merito, cossa avémio da far? Per la puta xe facile, e gh’ho pensà, e ho stabilio. Prima de tuto, a monte el matrimonio. Mai piú, che no la parla de maridarse. La manderò a serar in t’un liogo, lontana dal mondo, tra quatro muri, e la xe fenía. Ma le muggier come le avémio da castigar? Disè la vostra opinion. Veramente, confesso el vero: son un pochetin intrigà. Se poderave ficarle anca éle in t’un retiro tra quatro muri, e destrigarse cussí. Questo, vegnimo a dir el merito, sarave un castigo piú per nu, che per éle. Bisogna spender, pagar le spese, mandarle vestíe con un pocheto de pulizia, e per retirae che le staga, le gh’averà sempre là drento piú spasso, e piú libertà, che no le gh’ha in casa nostra. Pàrlio ben? (a Simon) Disè benissimo. Specialmente da vu e da mi, che no ghe lassemo la brena sul colo, come mio compare Cancian. Cossa voleu che diga? gh’avè rason. Poderessimo tegnirle in casa, serae in t’una camera; menarle un pochetin a la festa con nu, e po tornarle a serar, e che no le vedesse nissun, e che no le parlasse a nissun. Le donne serae? senza parlar con nissun? Questo xe un castigo, che le fa crepar in tre dí.

CANCIANO Tanto meggio. LUNARDO Ma chi è quel omo, che voggia far l’aguzzin? e po se i parenti lo sa, i fa el diavolo, i mete soto mezzo mondo, i 65 ve la fa tirar fora, e po ancora i ve dise che sè un orso, che sè un tangaro, che sè un can. E co avè molà, o per amor, o per imSIMON pegno, le ve tol la man, e no sè piú pa70 ron de criarghe.

E che dicano pure che siamo rozzi. E che dicano pure che siamo selvatici. Mia moglie è la causa di tutto. Castigatela. E quella sventata di Lucietta le va dietro. Mortificatela. E vostra moglie la asseconda. La castigherò. E la vostra sarà d’accordo. Anche la mia la pagherà. Cari amici, parliamone, consigliamoci. Con costoro, entriamo nel merito della questione, cosa dobbiamo fare? Per la ragazza è facile, e ci ho pensato, e ho deciso. Prima di tutto, a monte il matrimonio. Che non parli mai più di sposarsi. La farò rinchiudere in un [convento], lontana dal mondo, tra quattro mura, e che sia finita così. Ma le mogli come dobbiamo castigarle? Dite la vostra opinione. Veramente, dico la verità: sono un po’ imbarazzato. Si potrebbe cacciare anche loro in un ritiro [convento] tra quattro mura e sbrigarsela così. Questo, veniamo al dunque, sarebbe un castigo più per noi che per loro. Bisogna spendere, pagare le spese, mandarle vestite con un po’ di decoro, e per quanto stiano ritirate, avranno sempre là dentro più divertimenti e più libertà di quanto ce ne siano in casa nostra. Ho parlato bene? Dite benissimo. Specialmente in casa vostra e in casa mia, dove non lasciamo loro la briglia sciolta sul collo, come il mio compare Canciano. Cosa volete che dica? Avete ragione. Potremmo tenerle in casa, chiuse in una camera; portarle un po’ con noi la domenica, e poi rinchiuderle di nuovo, e che non vedano nessuno, e che non parlino con nessuno. Le donne rinchiuse? senza parlar con nessuno? Questo è un castigo che le fa crepare in tre giorni. Tanto meglio. Ma quale uomo vorrebbe fare l’aguzzino? E poi se i parenti vengono a saperlo fanno il diavolo, coinvolgono mezzo mondo, ve la fanno tirar fuori, e per di più vi dicono che siete un orso, che siete un tanghero, che siete un cane. E quando avrete mollato, o per amore, o per l’impegno preso, vi prendono la mano e non siete più padroni di sgridarle.

1. salvadeghi: selvatici, scontrosi, rimasti allo stato primitivo, rozzi.

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CANCIANO Giusto cusí ha fato con mi mia muggier. LUNARDO La vera saria, vegnimo a dir el merito, doperar un pezzo de legno. Sí, da galantomo, e lassar che la zente SIMON diga. CANCIANO E se le se revolta contra de nu? Se poderave dar, savè. SIMON CANCIANO Mi so quel che digo. LUNARDO In sto caso, se troveressimo in t’un bruto cimento. E po? no saveu? Ghe ne xe dei omeni SIMON che bastona le so muggier, ma credeu che gnanca per questo i le possa domar? Oibò2; le fa pezo che mai; le lo fa per despeto; se no i le copa, no gh’è remedio. LUNARDO Coparle po no. CANCIANO Mo3 no, certo; perché po, vòltela, ménela, senza donne no se pol star. Mo no saravela una contentezza, aver SIMON una muggier bona, quieta, ubbidiente? No saravela una consolazion? LUNARDO Mi l’ho provada una volta. La mia prima, povereta, la giera un agnelo. Questa la xe un basilisco4. CANCIANO E la mia? Tuto a so modo la vol. E mi crio, strepito, e no fazzo gnente. SIMON LUNARDO Tutto xe mal, ma un mal che se pol soportar; ma in tel caso che son mi adesso, vegnimo a dir el merito, se trata de assae. Voria ressolver, e non so quala far. Mandèla dai so parenti. SIMON LUNARDO Certo! acciò che la me fazza smatar. CANCIANO Mandèla fora. Fela star in campagna. LUNARDO SIMON

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LUNARDO CANCIANO

LUNARDO SIMON 115 LUNARDO SIMON CANCIANO LUNARDO 120

Pezo! la me consuma le intrae in quatro zorni. Feghe parlar; trovè qualchedun che la meta in dover. Eh! no l’ascolta nissun. Provè a serarghe i abiti, a serarghe le zoggie, tegnirla bassa; mortifichèla. Ho provà; se fa pezo che mai. Ho capío; fe cusí, compare. Come? Godèvela, come che la xe. Ho pensier anca mi, che no ghe sia altro remedio che questo. Sí, l’ho capía che xe un pezzo. Vedo anca mi che, co l’è fata, no ghe xe piú remedio. M’aveva comodà el mio stomego de soportarla; ma questa che la m’ha fato, la xe tropo granda. Ruvinar-

2. Oibò: esclamazione che esprime disapprovazione. 3. Mo: ma.

302 CAP. 11 - CARLO GOLDONI

Giusto così ha fatto con me mia moglie. La cosa migliore sarebbe, diciamo la verità, adoperare un bastone. Sì, da galantuomo, e lasciare che la gente parli. E se si ribellano contro di noi? Potrebbe darsi, sapete. Io so quel che dico. In questo caso, ci troveremmo in un brutto guaio. E poi non lo sapete? Ci sono degli uomini che bastonano le loro mogli, ma credete che in questo modo possano domarle? Ohibò; fanno peggio che mai; lo fanno per dispetto; se non le accoppano non c’è rimedio. Ammazzarle poi no. Ma no, certamente; perché poi, giratela e rigiratela, senza donne non si può stare. Ma non sarebbe una contentezza, aver una moglie buona, tranquilla, ubbidiente? Non sarebbe una consolazione? Io l’ho provata una volta. La mia prima moglie, poveretta, era un angelo. Questa è un basilisco. E la mia? Vuole fare tutto a suo modo. E io grido, strepito, e non concludo niente. Tutto è male, ma un male che si può sopportare; ma il caso in cui mi trovo adesso, diciamo la verità, è assai peggiore. Vorrei risolvere il problema, e non so quale soluzione scegliere. Mandatela dai suoi parenti. Certo! Perché lei mi faccia dar del matto. Mandatela fuori casa, lontano. Fatela stare in campagna. Peggio! Mi consuma le entrate in quattro giorni. Fate che qualcuno le parli; trovate qualcuno che le faccia capire i suoi doveri. Eh! Non ascolta nessuno. Provate a tener rinchiusi i suoi abiti, i suoi gioielli, a umiliarla; mortificatela. Ho provato; è peggio che mai. Ho capito; fate così, compare. Come? Godetevela, com’è. Penso anch’io che non ci sia altro rimedio che questo. Sì, l’ho capito da un pezzo. Vedo anch’io che, quando è fatta, non c’è più rimedio. Faceva comodo alla mia salute sopportarla; ma questa che mi ha fatto è troppo grossa.

4. basilisco: rettile mitologico della tradizione medievale che pietrificava con lo sguardo.

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SIMON LUNARDO CANCIANO

me una puta de quela sorte? farghe vegnir el moroso in casa? Xe vero che mi ghe l’aveva destinà per mario, ma cossa savévela, vegnimo a dir el merito, la mia intenzion? Gh’ho dà qualche motivo de maridarla. Ma no me podévio pentir? No se podeva dar, che no se giustessimo? No podeva portar avanti dei mesi e dei ani? E la me lo introduse in casa? in maschera? da scondon? La fa che i se veda? la fa che i se parla? Una mia puta? una colomba inocente? No me tegno; la vôi castigar, la vôi mortificar, se credesse, vegnimo a dir el merito, de precipitar. Causa siora Felice. Sí, causa quela mata de vostra muggier. (a Canciano) Gh’avè rason. Mia muggier me la pagherà.

Rovinarmi una ragazza di quella condizione? Farle venire il fidanzato in casa? È vero che io glielo avevo già destinato per marito, ma lei cosa ne sapeva, diciamo la verità, della mia intenzione? Le ho dato qualche motivo perché lei capisse la mia intenzione di maritarla. Ma non potevo pentirmi? Non poteva darsi che non ci accordassimo? Non potevo portar avanti la cosa per mesi ed anni? E me lo introduce in casa? in maschera? di nascosto? Fa in modo che si vedano? fa in modo che si parlino? Mia figlia? una colomba innocente? Non mi trattengo; la voglio castigare, la voglio mortificare, se credesse, veniamo al dunque, di affrettare le cose. La causa è la signora Felice. Sì, la causa è quella matta di vostra moglie. Avete ragione. Mia moglie me la pagherà. da Commedie, Mondadori, Milano, 1959

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inee di analisi testuale “Maschilisti” e “retrogradi” del Settecento La satira del rustego “maschilista” e “retrogrado” (basata sulla brama di dominio di molti maschi sulle donne) evidentemente muoveva già al riso nel Settecento. È esilarante la meditazione sulle punizioni delle femmine e i contraccolpi svantaggiosi per il maschio. Non c’è soluzione. Ucciderle? No, senza donne no se pol star. Su questo tema Goldoni innesta un’altra tradizionale aspirazione maschile, che induce sempre al riso: il sogno di avere la moglie docile, bona, quieta, ubbidiente. Su tali argomenti, i rusteghi si fanno eco l’un l’altro spalleggiandosi reciprocamente. I dialoghi Nella commedia, i dialoghi si svolgono non tanto tra i singoli personaggi quanto tra due gruppi d’opinione (i rusteghi da un lato, le donne e i giovani dall’altro), all’interno dei quali esiste solidarietà e omogeneità d’intenti e di azione, nonché forti analogie nel linguaggio (anche se ogni personaggio si caratterizza per modi di dire peculiari, deliberatamente resi ripetitivi dall’autore). I rusteghi parlano naturalmente all’antica, mentre le donne e i giovani usano modi di dire più vivaci e mondani. Il linguaggio utilizzato è uno splendido veneziano cittadino. La morale La commedia sembra mirare solo a divertire; incide invece su un tema morale e sociale, oggetto di una importante battaglia di costume, tipica degli Illuministi: l’opposizione al dominio assoluto sulle mogli e – soprattutto, in materia di nozze – sui figli, che i mariti e padri rusteghi pretendevano di avere.

Xilografia dei Rusteghi.

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CAP. 11 - CARLO GOLDONI

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avoro sul testo

Comprensione 1. Leggi con attenzione la prima scena del terzo atto de I rusteghi e riassumine il contenuto. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono i personaggi che compaiono nella scena e quali concezioni e comportamenti li accomunano? b. Perché nel periodo carnevalesco il rapporto dei rusteghi con la città e con le donne si inasprisce? c. Che cosa hanno fatto le donne di cui parlano i rusteghi e perché, secondo loro, esse sono dalla parte del torto e vanno castigate? Analisi e interpretazione 3. Spiega il significato dell’uso del dialetto nell’ottica della concezione della commedia goldoniana. 4. Qual è il significato letterale del termine rustego e con quale connotazione Goldoni lo usa nella sua commedia? Approfondimenti 5. Il personaggio del vecchio retrivo e ottuso compare anche in altre opere letterarie. Facendo riferimento a una o più di queste figure fra quelle a te note, opera un confronto con quella dei quattro rusteghi di Goldoni e cerca di rilevarne punti di contatto e differenze. 6. Al giorno d’oggi è ancora presente una figura come quella della persona dalle idee retrograde rispetto al tema trattato nella commedia di Goldoni? È una figura molto diffusa o, a tuo parere, piuttosto rara da incontrare? Che cosa significa nello specifico, ai tempi nostri, accusare qualcuno di avere una mentalità arretrata? Quali critiche, invece, vengono rivolte ai giovani quando li si incolpa di atteggiamenti troppo trasgressivi e contrari alla tradizione? Qual è, in sintesi, il tuo punto di vista sulla questione?

T7 Una commedia corale da Le baruffe chiozzotte, I, 1 Le baruffe chiozzotte del 1762 è una commedia in dialetto, ambientata a Chioggia, basata su un vortice di battibecchi causati da incomprensioni, ripicche e gelosie che, per ritmo e vivacità, richiamano certe atmosfere della commedia dell’arte. I protagonisti sono un gruppo di pescatori, semplici popolani, ritratti con simpatia e umana partecipazione. L’intera vicenda si svolge all’aperto, sulla pubblica via. PISTE DI LETTURA • La comunità di pescatori e i loro interessi quotidiani • Un dialetto locale con molti elementi di veneziano e di italiano • Un dialogo vivacissimo, fatto di sussurri e litigi, battibecchi e scherzi

Scena prima Strada con varie casupole. Pasqua e Lucietta da una parte. Libera, Orsetta e Checca dall’altra. Tutte a sedere sopra seggiole di paglia, lavorando merletti sui loro cuscini, posti ne’ loro scagnetti. 5

LUCIETTA ORSETTA LUCIETTA PASQUA

Creature, cossa diseu1 de sto tempo? Che ordene xèlo? Mi no so, varè2. Oe, cugnà, che ordene xèlo? (a Pasqua) No ti senti che boccon de sirocco?

1. diseu: eu è desinenza della seconda persona plurale.

304 CAP. 11 - CARLO GOLDONI

Donne, che ne dite di questo tempo? Che vento tira? Guardate, non so proprio. Ehi, cognata, che vento tira? (a Pasqua) Non senti che vento di scirocco?

2. varè: letteralmente “guardate”.

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ORSETTA PASQUA LIBERA CHECCA

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CHECCA LIBERA CHECCA

LIBERA CHECCA LIBERA LUCIETTA CHECCA LUCIETTA 30 CHECCA 25

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CHECCA LIBERA CHECCA LIBERA 40 CHECCA PASQUA 45

CHECCA LUCIETTA CHECCA LUCIETTA

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CHECCA ORSETTA 55

Xèlo bon da vegnire de sottovento3? Sì ben, sì ben. Si i vien i nostri omeni, i gh’ha el vento in poppe. Ancùo o doman i doverave vegnire. Oh! bisogna donca che spessega a laorare: avanti che i vegna, lo vorave fenire sto merlo. Di’, Checca: quanto te n’amanca a fenire? Oh! me n’amanca un brazzo4. Ti laori molto puoco, fia mia (a Checca). Oh! quanto xè che gh’ho sto merlo su sto balon? Una settemana. Ben! una settemana? Destrìghete, se ti vuol la carpetta. Oe, Checca, che carpetta te fastu? Una carpetta niova de caliman5. Dasseno? Te mettistu in donzelon6? In donzelon? No so miga cossa che voggia dire. Oh che pandola! No ti sa che co una putta xè granda, se ghe fa el donzelon; e che co la gh’ha el donzelon, xè segno che i sói i la vuol maridare? Oe, sorella! (a Libera) Fia mia. Me voleu maridare? Aspetta che vegna mio mario. Donna Pasqua, mio cugnà Fortunato no xèlo andà a pescare co paron Toni? Sì, no lo sàstu che el xè in tartana7 col mio paron e co Beppe so fradelo? No ghe xè anca Titta Nane co lori? Sì ben: cossa voressistu dire? Cossa pretenderavistu da Titta Nane? (a Checca) Mi? gnente. No ti sa che xè do anni che mi ghe parlo8? E che col vien in terra, el m’ha promesso de darme el segno? (Malignaza culìa9! La i vol tutti per ela!). Via, via, Lucietta, no star a bacilare. Avanti che Checca mia sorella se maride, m’ho da maridare mi, m’ho da maridare. Co vegnirà in terra Beppe to fradello, el me sposerà mi, e se Titta Nane vorrà, ti te poderà sposare anca ti. Per mia sorela, gh’è tempo.

3. sottovento: così è chiamato il litorale da Chioggia ad Ancona. 4. un brazzo: un braccio. Si tratta di un’unità di misura equivalente a 60 cm. 5. caliman: tessuto di raso o seta. 6. in donzelon: l’espressione indica una ragazza in età da matrimonio che veste abiti particolari.

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È un bene che venga da Sottovento? Ma certo! Se arriva da lì, i nostri uomini hanno il vento in poppa. Dovrebbero arrivare oggi o domani. Oh! Allora bisogna che mi sbrighi a lavorare: prima che arrivino, lo vorrei finire, questo merletto. Di’, Checca: quanto te ne manca per finire? Oh! Me ne manca un braccio. Lavori poco, figliola mia. (a Checca) Oh! Da quanto tempo ho questo merletto sul cuscino? Una settimana. Ehi! Una settimana? Sbrigati, se vuoi la gonnella. Ehi, Checca: che gonnella ti fai? Una gonnella nuova di seta di calimano. Veramente? Ti sei vestita col donzelon. Col donzelon? Non so cosa significa. Oh, che sciocca! Non sai, che quando una ragazza è grande, le si fa il donzelon, e che quando porta il donzelon, vuol dire che i suoi la vogliono maritare? Ehi, sorella! (a Libera) Figliola mia. Mi volete maritare? Aspetta che torni mio marito. Donna Pasqua, mio cognato Fortunato non è andato a pescare con padron Toni? Sì, non lo sai che è sulla tartana con mio marito e con Beppe, suo fratello? Con loro non c’è anche Titta Nane? Certo: che vorresti dire? Che cosa pretendi da Titta Nane? (a Checca) Io? Niente. Non lo sai che sono due anni che “gli parlo”? E che appena torna a terra, ha promesso di darmi l’anello? (Accidenti a lei! Se li vuole prendere tutti.) Via, via, Lucietta, non ci pensare. Prima che mia sorella Checca si sposi, mi devo sposare io, mi devo sposare. Appena arriverà a terra tuo fratello Beppe, mi sposerà, e se Titta Nane vorrà, ti potrai sposare anche tu. Per mia sorella c’è tempo.

7. tartana: barca da pesca con due alberi. 8. ghe parlo: parlare è usato qui nel senso di “essere legato sentimentalmente”. Lucietta afferma di essere sul punto di fidanzarsi con il pescatore Titta-Nane. 9. culìa: letteralmente “colei”. La parentesi, nel testo teatrale, racchiude le battute pronunciate a parte, come se fossero rivolte al pubblico e non agli altri personaggi.

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CHECCA

LIBERA CHECCA LIBERA 65 CHECCA

Oh! vu, siora, no voressi mai che me maridasse (a Orsetta). Tasi là; tendi al to laoriere. Se fusse viva mia dona10 mare... Tasi, che te trago el balon in coste. (Sì, sì, me voggio maridare, se credesse de aver da tiòre un de quei squartai11 che va a granzi12).

Oh! Voi, signora, non vorreste mai che io mi sposassi. (a Orsetta) Taci, va’; e pensa a lavorare. Se fosse viva la mia signora madre… Taci, che ti tiro il cuscino nelle costole! (Sì, sì, mi voglio sposare; ma se quella crede che io mi prenda per marito uno di quei poveri disgraziati che vanno a pesca di granchi…). da Opere, a cura di G. Folena, Mursia, Milano, 1979

10. dona: dal latino domina, “signora”. 11. squartai: letteralmente “squartati”.

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12. va a granzi: i granchi venivano utilizzati come esca per pescare pesci più pregiati.

inee di analisi testuale Chiacchiere di donne del popolo La prima scena della commedia dialettale ritrae un gruppo di donne di Chioggia che ricamano sulla strada mentre aspettano il ritorno degli uomini dalla pesca. Da un lato siede Pasqua con la figlia Lucietta, dall’altro ci sono Libera, Orsetta e Checca. Le battute iniziali introducono il primo tema della commedia: l’assenza degli uomini, occupati a pescare. S’inizia, infatti, parlando del tempo: spira lo scirocco, che dà ai pescatori il vento in poppe. Quanto al lavoro delle donne, che rappresenta il secondo tema, Checca è in ritardo con i suoi ricami ed è rimproverata da Libera: deve affrettarsi se vuole la gonna nuova. Si introduce così il terzo – e decisivo – tema: le ragazze esprimono i loro crucci riguardo ai futuri matrimoni (Orsetta afferma che se Checca si mette in donzelon, vuol dire che i soi i la vuol maridare). Il quarto tema è la gelosia, che Checca suscita in Lucietta, la quale ha ricevuto da Titta Nane la promessa dell’anello: è questo sentimento l’anticipazione dello scoppio delle baruffe, che saranno legate inizialmente a rivalità femminili. Il crescendo che porterà alle baruffe Nel primo atto della commedia si può osservare un preciso schema narrativo, costituito da un crescendo di tensione: nella prima scena – qui proposta – l’autore presenta i personaggi e disegna il loro ambiente, anticipando i primi indizi delle gelosie che saranno alla base delle rivalità; nella seconda vengono sviluppati i motivi della gelosia e della vendetta; nella terza la tensione aumenterà ancora, finché i contrasti degenereranno in litigi generali che coinvolgono gli abitanti di Chioggia: di qui il titolo Le baruffe chiozzotte.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Svolgi il riassunto della scena in non più di 15 righe. 2. Elenca i personaggi che compaiono in scena e presentane il carattere. Analisi e interpretazione 3. Analizza il testo di Goldoni dal punto di vista stilistico-formale, evidenziando le particolarità del linguaggio dialettale dei personaggi. 4. Spiega il significato e la funzione delle battute collocate fra parentesi nel testo. 5. Da quali elementi nasce e si avverte, fin dalla prima scena, il conflitto fra i personaggi e fra quali donne soprattutto si manifesta? Approfondimenti 6. Il tema letterario della gelosia femminile compare anche in molte altre opere narrative moderne e contemporanee. Facendo riferimento a una o più di esse a te note, opera un confronto con Le baruffe chiozzotte di Goldoni e cerca di rilevarne somiglianze e differenze nella costruzione degli ambienti, delle motivazioni e dei caratteri individuali dei personaggi. 7. Al giorno d’oggi, tra giovani e tra adulti, si litiga ancora, anche in pubblico? Hai mai assistito a scene di tale genere? Tra i giovani che cosa se ne pensa? Svolgi un’inchiesta tra i conoscenti, rifletti sulla tua esperienza personale ed esprimi in forma di relazione scritta le tue opinioni in proposito.

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Concetti chiave LA VITA Carlo Goldoni nasce nel 1707 a Venezia in una famiglia borghese. Compie i primi studi di grammatica, retorica e filosofia e, nonostante i suoi interessi riguardino il teatro (legge i comici antichi e segue gli spettacoli della commedia dell’arte), si iscrive a giurisprudenza. Nel 1730 esordisce in teatro con due intermezzi, ma a causa della morte del padre, per provvedere alle proprie necessità economiche, esercita la professione di avvocato. Non abbandona comunque la sua passione per le scene e compie una tournée con la compagnia Imer. Tra il 1737 e il 1741 diventa direttore del teatro di San Giovanni Crisostomo e nel 1748 firma un contratto con Medebach, capocomico del teatro Sant’Angelo. Ha inizio in questi anni la polemica con Pietro Chiari, che accusa Goldoni di aver decretato la fine della commedia a soggetto in maschera. Nel 1753 stipula un nuovo contratto con Vendramin, proprietario e direttore del teatro San Luca e, tra difficoltà e successi, continua la sua opera di riforma della commedia. Nel 1762 si trasferisce a Parigi per dirigere la Comédie italienne, ma non trova un ambiente e un pubblico favorevoli alle sue innovazioni. Essendo ancora impegnato con il teatro San Luca di Venezia, mostra una grande versatilità: produce recite a soggetto per il pubblico francese e, partendo dai medesimi temi, testi interamente scritti per le scene veneziane. Grazie all’incarico a corte come precettore ottiene una pensione, che gli viene però revocata con lo scoppio della Rivoluzione francese. Muore in condizioni di povertà nel 1793, il giorno prima che venga approvata la reintegrazione del vitalizio. LA RIFORMA DELLA COMMEDIA DELL’ARTE Goldoni è un professionista del teatro, che vive dei proventi del proprio lavoro e le cui opere sono inserite in un circuito commerciale: andando a teatro e pagando il biglietto il pubblico decreta il maggiore o minore successo delle commedie. Per queste ragioni durante la sua lunga carriera Goldoni si impegna nella riforma della commedia tradizionale, dovendo ottenere il consenso del pubblico, ma anche degli impresari e

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degli attori, senza l’appoggio dei quali non sarebbe possibile introdurre alcuna novità. Goldoni affida il suo pensiero sul teatro a due testi del 1750. Ne Il teatro comico mette in scena una compagnia teatrale durante le prove di una commedia, illustrando così, con un esempio di teatro nel teatro, i princìpi della riforma: la sostituzione del canovaccio, in base al quale gli attori improvvisano, con un testo scritto per intero; la presentazione di luoghi e persone reali; la semplificazione della trama, non più costruita su equivoci, scambi di persone ecc. Questi concetti sono ribaditi nella Prefazione alla prima raccolta delle commedie, in cui Goldoni esplicita i suoi modelli di riferimento: il Mondo e il Teatro, cioè la realtà viva e autentica degli uomini e la finzione scenica. La soppressione della maschera è un processo lento, che il commediografo veneziano inizia già nel 1738 con il Momolo cortesan, per il cui protagonista scrive tutti i dialoghi. Allo stesso tempo opera il riscatto delle figure femminili, liberate dalla rigidità del ruolo fisso di “servetta”: emblema di questo percorso è Mirandolina, protagonista della Locandiera (1753). Goldoni, inoltre, ritrae spesso la borghesia veneziana, in cui il pubblico può riconoscersi; anche il popolo, però, specialmente dalla fine degli anni Cinquanta, diventa fonte di ispirazione: si pensi a Il campiello (1756) o a Le baruffe chiozzotte (1760). L’esigenza di realismo fa scegliere a Goldoni il veneziano come lingua privilegiata, tanto più che a Venezia tutti, dai ceti popolari alle classi più colte, si esprimono in dialetto. Ma non mancano testi in cui usa l’italiano o, negli anni trascorsi a Parigi, il francese. Maschera di Balanzone.

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sercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. La professione esercitata da Goldoni prima di dedicarsi al teatro è quella di a. medico. b. avvocato. c. tipografo. d. precettore. 2. La prima commedia di Goldoni interamente scritta è a. Momolo cortesan. b. La donna di garbo. c. Belisario. d. La vedova scaltra. 3. Girolamo Medebach è a. il capocomico del teatro Imer di Venezia. b. il padre di Nicoletta, moglie di Carlo Goldoni. c. il direttore della compagnia del teatro Sant’Angelo di Venezia. d. il marito della primadonna del teatro San Luca di Venezia. 4. Tra le opere che fanno parte delle sedici commedie del 1750-1751 figurano a. La famiglia dell’antiquario, La vedova scaltra, La putta onorata. b. Il ventaglio, Il burbero benefico, Sior Todero brontolon. c. La locandiera, Il campiello, Le baruffe chiozzotte. d. La bottega del caffè, La Pamela, L’avventuriero onorato. 5. Il commediografo veneziano che avversa la riforma di Goldoni dal 1758 è a. Carlo Gozzi. b. Pietro Chiari. c. Antonio Vendramin. d. Antonio Sacchi. 6. Nella Prefazione alle sedici commedie, Goldoni dice di fondare la sua riforma su a. Arte e Pubblico. b. Pubblico e Mondo. c. Mondo e Teatro. d. Classici e Teatro. 7. Fra gli elementi della commedia dell’arte eliminati dalla riforma goldoniana figurano a. il canovaccio e le maschere. b. le didascalie e l’accompagnamento musicale. c. i capocomici e i primi attori. d. le scene e gli atti.

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8. Gli elementi fondamentali della riforma goldoniana del teatro sono a. il canovaccio e le maschere. b. il testo scritto per intero e l’ambientazione realistica. c. il canovaccio e i personaggi realistici. d. le maschere e il testo scritto per intero. 9. Nelle sue commedie Goldoni non usa mai a. il dialetto veneziano. b. la lingua dell’Italia settentrionale con influssi veneziani. c. il fiorentino colto tipico dei puristi. d. il francese. 10. Ne La locandiera alla fine Mirandolina sposa a. il conte d’Albafiorita. b. il cameriere Fabrizio. c. il Cavaliere di Ripafratta. d. il Marchese di Forlipopoli. 11. Le ultime opere di Goldoni sono scritte a. a Venezia, in lingua italiana. b. a Venezia, in dialetto. c. in Francia, in lingua italiana. d. in Francia, in francese. 12. La condizione di povertà in cui Goldoni muore è dovuta a. all’insuccesso delle sue opere a Venezia. b. al fiasco di tutte le sue opere in Francia. c. all’esilio da Venezia cui è condannato. d. alla revoca della pensione dopo la Rivoluzione francese.

2 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. In quale opera Goldoni rende espliciti gli obiettivi della sua riforma e quali sono i punti principali della riforma stessa? 2. Quali aspetti del vecchio teatro della commedia dell’arte Goldoni critica? 3. Qual è la direzione verso cui si muove la riforma teatrale goldoniana? 4. Quali elementi illuministici animano la riforma goldoniana? 5. Quali sono gli elementi che caratterizzano il realismo delle commedie di Goldoni? 6. Quali sono i temi principali delle commedie goldoniane? 7. Quali elementi positivi della commedia dell’arte Goldoni accoglie e salva? 8. Che cosa sostituisce Goldoni al canovaccio della commedia dell’arte e perché? 9. Con quali tecniche il teatro di Goldoni trasforma i personaggi tipizzati e stereotipati della commedia dell’arte in personaggi dotati di spessore individuale e sociale? 10. La riforma goldoniana non ha vita facile: che cosa lo dimostra?

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ANALISI DEL TESTO

3 Leggi il testo e svolgi gli esercizi proposti. Il monologo di Mirandolina qui proposto è una sorta di confessione: i sentimenti che ha suscitato nel Cavaliere di Ripafratta con la sua strategia seduttiva sono molto più accesi di quanto avrebbe immaginato; se è stato un divertimento farsi correr dietro da quell’uomo superbo e disprezzator delle donne, ora si sente in pericolo. Cerca perciò l’aiuto di quel buon uomo di Fabrizio. Camera con tre porte. Mirandolina sola Oh meschina me! Sono nel brutto impegno! Se il Cavaliere mi arriva1, sto fresca. Si è indiavolato maledettamente. Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui. Voglio chiudere questa porta. (serra la porta da dove è venuta) Ora principio quasi a pentirmi di quel che ho fatto. È vero che mi sono assai divertita nel farmi correr dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro2 è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima. Qui mi convien risolvere qualche cosa di grande.3 Son sola, non ho nessuno dal cuore4 che mi difenda. Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in un tal caso mi potesse giovare. Gli prometterò di sposarlo... Ma... prometti, prometti, si stancherà di credermi... Sarebbe quasi meglio ch’io lo sposassi davvero. Finalmente con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto5 il mio interesse e la mia riputazione, senza pregiudicare alla mia libertà. da La locandiera, III, 13 1. mi arriva: mi raggiunge. 2. satiro: qui nel senso di “uomo dagli istinti lussuriosi”. Il satiro è propriamente una figura della mitologia classica. 3. Qui mi convien... grande: ora devo prendere una decisione risolutiva. 4. dal cuore: che mi voglia bene, che tenga veramente a me; è un’espressione veneziana. 5. al coperto: al sicuro.

Comprensione 1. Dopo aver riletto con attenzione il monologo, riassumilo in non più di 10 righe. 2. Indica quali sono i personaggi della commedia che Mirandolina evoca nel monologo e quali i ruoli che giocano nella vicenda. 3. Descrivi i sentimenti che esprime Mirandolina nel monologo. 4. Qual è l’errore che la donna dice di aver commesso? 5. A quale decisione arriva per togliersi dalla pericolosa situazione in cui si è messa?

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Analisi e interpretazione 6. Precisa, con riferimenti al testo, qual è il registro di questa scena. 7. Come definiresti il linguaggio usato da Goldoni nel monologo e per quali motivi? 8. Quali sono gli elementi che rivelano come quello proposto sia un testo che appartiene al genere teatrale? Approfondimenti 9. Le figure femminili celebri nella storia per la seduttività sono numerose: riporta alcune di esse che ti sembrano simili a Mirandolina e motiva la tua scelta. 10. A partire dal contenuto del monologo, rifletti sul rapporto tra uomo e donna in Goldoni nel contesto storico-culturale del Settecento. 11. Rifletti sul tema della seduttività femminile e approfondisci le differenze di forma e di contenuto tra i comportamenti dei tempi di Goldoni e quelli della donna moderna.

SAGGIO BREVE / ARTICOLO

4 Sviluppa uno dei seguenti argomenti in forma di saggio breve o di articolo di giornale e utilizza come materiali di consultazione le pagine dedicate a Goldoni di questo volume. Dai all’elaborato un titolo coerente con la trattazione e indicane una destinazione editoriale a tua scelta. Per entrambe le forme di scrittura non superare le tre colonne di metà foglio protocollo. 1. La formazione culturale e teatrale di Goldoni. 2. La riforma goldoniana del teatro comico.

TEMA DI ARGOMENTO STORICO

5 Svolgi la seguente traccia. Il Settecento veneziano dei tempi di Carlo Goldoni nel quadro delle vicende italiane ed europee.

TEMA DI ORDINE GENERALE

6 Svolgi la seguente traccia. Il teatro e i giovani di oggi. Ritieni che il teatro svolga un’importante funzione sociale e formativa? A quali spettacoli hai assistito? Li hai apprezzati? Quale interesse può riscuotere il teatro goldoniano presso i giovani della tua generazione? Rifletti su questi interrogativi e proponi le tue riflessioni, motivate con opportune argomentazioni.

CAP. 11 - CARLO GOLDONI

309

CAPITOLO

12 LA

Giuseppe Parini

VITA

Gli studi e l’attività di precettore L’infanzia e gli studi a Milano

LA

Giuseppe Parini nasce il 23 maggio 1729 a Bosisio (oggi Bosisio Parini), un paese lombardo a pochi chilometri da Lecco, ultimo di dieci fratelli; suo padre, Francesco Maria Parino – sarà lo stesso poeta a cambiare la desinenza del cognome – è filatore e mediatore nel commercio della seta. Nel 1738 il bambino è inviato a Milano presso un’anziana prozia, perché possa studiare dai Barnabiti. A rendere più ardui gli studi sono anche – come egli stesso racconterà in seguito – la salute cagionevole e il fatto che, unico sopravvissuto dei dieci fratelli, il giovane deve aiutare i genitori molto

Ritratto di Giuseppe Parini.

LINEA DEL TEMPO: LA VITA E LE OPERE

1729 Giuseppe Parini nasce a Bosisio

1738 Si trasferisce a Milano per studiare alla scuola dei Barnabiti

1753 Entra a far parte dell’Accademia dei Trasformati

1752 Alcune poesie di Ripano Eupilino 1751 PUBBLICAZIONE DEL PRIMO VOLUME DELL’ENCICLOPEDIA DI DIDEROT E D’ALEMBERT

310 CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

1754 È ordinato sacerdote e diventa precettore presso la famiglia Serbelloni

1757 Dialogo sopra la nobiltà

1761 Discorso sopra la poesia

1763 Il Mattino

1759 La salubrità dell’aria

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Le prime poesie ispirate all’Arcadia

L’Accademia dei Trasformati e la passione civile

Illuminista moderato, sacerdote e precettore

Il Mattino

1763-1768 È precettore di Carlo Imbonati

anziani, che si sono trasferiti a vivere con lui. Nel 1741 muore la prozia, lasciandogli una modesta rendita, a condizione che egli si avvii al sacerdozio. Nel 1752, terminati gli studi, Parini pubblica con discreto successo un volumetto di liriche di stampo arcadico: Alcune poesie di Ripano Eupilino (Ripano è l’anagramma del cognome; Eupilino è derivato da Eupili, il nome latino del lago di Pusiano, che si trova nelle vicinanze di Bosisio). La raccolta comprende 94 componimenti di ispirazione prevalentemente arcadica, ma anche sonetti amorosi e religiosi di stampo petrarchesco, rime burlesche sul modello di Berni ed egloghe piscatorie ispirate ai manieristi napoletani del Cinquecento. Nel 1752 il poeta entra a far parte dell’Accademia dei Trasformati, che raccoglie intellettuali lombardi di diversa provenienza, esponenti dell’Illuminismo e membri della nobiltà, che si collocano in un’area moderata, tra la veneziana Accademia dei Granelleschi, di spirito tradizionalista e conservatore, e le istanze più innovatrici e illuministiche dell’Accademia dei Pugni e della rivista “Il Caffè”. L’interesse per i problemi sociali e politici testimonia la volontà dei Trasformati di unire alla tradizione classica le tematiche civili più moderne. Quest’atmosfera risulta congeniale a Parini, che negli anni seguenti compone versi su temi assegnati dai Trasformati, liriche d’occasione, o testi in prosa su argomenti discussi nell’Accademia. Inserito ormai in un contesto culturale di Illuminismo moderato, Parini ne accoglie le istanze concrete di trasformazione e miglioramento della società, pur rifiutando le teorie più radicali, nei confronti delle quali resterà sempre vigile e sostanzialmente critico. Nel 1754 Parini è ordinato sacerdote: una scelta compiuta, forse, senza una solida vocazione, ma che verrà da lui sempre onorata con una condotta ineccepibile. Per fronteggiare la sua difficile situazione economica, il poeta accetta l’incarico di precettore presso la famiglia del duca Gabrio Serbelloni: un ambiente relativamente colto e all’avanguardia, soprattutto grazie all’amicizia che lega la duchessa Vittoria all’illuminista Pietro Verri. Negli otto anni passati al servizio dei Serbelloni, Parini ha modo di entrare in contatto con alcuni importanti intellettuali milanesi, nonché di conoscere da vicino i vuoti e sfarzosi rituali della vita nobiliare. Nel 1762, in segno di protesta per il comportamento della duchessa – che aveva schiaffeggiato la figlia del maestro di musica – il poeta lascia casa Serbelloni. Dal 1763 al 1768 è al servizio del conte Giuseppe Maria Imbonati come precettore del figlio Carlo, in seguito noto illuminista. Nel 1763, intanto, esce a Milano, anonimo, il poemetto Il Mattino, prima parte del poema Il Giorno, cui seguirà due anni dopo la seconda parte, Il Mezzogiorno: l’accoglienza è favorevole e il critico Giuseppe Baretti ne tesse le lodi sul primo numero della “Frusta letteraria”.

1769 È nominato docente di belle lettere presso le Scuole Palatine

1765 Il Mezzogiorno

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1780 MUORE MARIA TERESA D’AUSTRIA

1789 SCOPPIA LA RIVOLUZIONE FRANCESE

1785 La caduta

1796 Entra a far parte della nuova municipalità francese

1799 GLI AUSTRIACI RIENTRANO A MILANO

1799 Muore a Milano

1795 Alla Musa

CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

311

Gli incarichi ufficiali

Gli anni dell’insegnamento

La conoscenza degli artisti neoclassici L’adesione al riformismo illuminato

Nel 1768 Parini viene nominato poeta ufficiale del Regio Ducale Teatro dal conte Carlo Firmian, ministro plenipotenziario dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, e in questa veste cura diversi testi per rappresentazioni teatrali. Nel 1769 Firmian gli affida altri due incarichi prestigiosi: la direzione della “Gazzetta di Milano” e il ruolo di docente di belle lettere presso le Scuole Palatine. Il poeta si dedica con grande impegno all’insegnamento – ne sono testimonianza la prolusione Per la cattedra biennale di belle lettere (1769) e la raccolta di lezioni, pubblicata postuma, Dei princìpi fondamentali e generali delle belle lettere applicati alle belle arti –, anche se viene criticato da opposte direzioni: da una parte da Pietro Verri e dall’altra dai Gesuiti. Si difende in una relazione inviata a Carlo Firmian, Delle cagioni del presente decadimento delle belle lettere e delle belle arti in Italia e di certi mezzi onde restaurarle (1773), in cui imputa la crisi del sistema universitario italiano al fatto che molti insegnanti vi introducono il loro spirito corrotto e falso. Parini mantiene la cattedra anche dopo la trasformazione delle Scuole Palatine nel Regio Ginnasio di Brera (1773): la preparazione approssimativa degli studenti lo obbligherà allora a tenere lezioni meno impegnative, incentrate sulla lettura diretta dei classici. Durante il suo insegnamento, il poeta ha modo di conoscere grandi artisti, quali l’architetto Giuseppe Piermarini e il pittore Andrea Appiani, entrambi d’orientamento neoclassico, che contribuiscono al mutamento della poetica pariniana negli ultimi anni. In questo periodo Parini aderisce pienamente alle istanze del riformismo illuminato di Maria Teresa d’Asburgo: lo stesso conte Firmian è un ammiratore del poeta ed è tra quelli che promuovono la pubblicazione del Giorno.

La Rivoluzione francese e gli ultimi anni

Le Odi e l’iniziale simpatia per la Rivoluzione

Napoleone a Milano: dal sostegno al distacco

Il ritorno degli Austriaci e la morte

Quando, nel 1780, muore l’imperatrice Maria Teresa, a Parini viene affidato il compito di scriverne l’elogio funebre. A Maria Teresa succede il figlio Giuseppe II, a cui l’imperatrice aveva dato il titolo di coreggente già dal 1765. Le radicali e autoritarie riforme del nuovo sovrano non incontrano tuttavia il favore di Parini, che si allontana, deluso, dall’impegno sociale e politico, restringendo progressivamente il proprio campo di interesse alla sola letteratura. In particolare, si dedica alla composizione delle Odi, scritte in un ampio lasso di tempo che va dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Novanta. Allo scoppio della Rivoluzione francese Parini, che nel 1791 era stato nominato sovrintendente delle scuole pubbliche di Milano, si schiera a favore dei princìpi di libertà e di uguaglianza, fino a destare sospetti nel governo austriaco. Le violenze e la messa a morte di molti nobili a Parigi lo inducono però a prendere le distanze dalla Rivoluzione e sono anche causa del mancato completamento del poemetto Il Giorno. Quando, nella primavera del 1796, Milano è occupata dall’armata napoleonica, Parini, con Pietro Verri, entra a far parte della nuova municipalità e collabora con la Società di Pubblica Istruzione; ma dopo soli tre mesi lascia l’incarico (o forse è invitato a lasciarlo) in quanto non tollera gli abusi e le sopraffazioni dei Francesi. In particolare, mal sopporta alcuni atteggiamenti che offendono la religione cattolica (ad esempio, il provvedimento che impone di eliminare i crocifissi dalle aule pubbliche). Anche per l’aggravarsi di alcuni problemi di salute (ha la vista compromessa dalla cataratta e cammina con difficoltà), il suo impegno civile e politico si riduce ulteriormente. Nel 1799 gli Austriaci tornano a Milano, intenzionati a vendicarsi di chiunque avesse collaborato coi Francesi: Parini tuttavia, grazie alla sua notorietà e al suo moderatismo, non è coinvolto. Ormai il poeta è gravemente ammalato: si spegne il 15 agosto 1799. In base ad una sua precisa disposizione testamentaria, viene sepolto, dopo esequie semplicissime, in una fossa comune nel cimitero di Porta Comasina (l’attuale Porta Garibaldi).

312 CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

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IL Il Cristianesimo

L’Illuminismo

Parini e la nobiltà

Il classicismo

PENSIERO

Il pensiero di Parini si fonda su tre pilastri ideologici: Cristianesimo, Illuminismo e classicismo. I princìpi morali e religiosi del Cristianesimo costituiscono il fondamento primo della vita e del pensiero dello scrittore. È un Cristianesimo aperto e liberale, una religione fondata sulla natura e sulla ragione, capace di offrire all’uomo una serie di princìpi morali universalmente validi. Egli non condivide infatti nessuna forma di integralismo e si oppone con fermezza all’Inquisizione. Il Cristianesimo di Parini è estraneo sia agli aspetti teologici e dogmatici, sia alle esperienze di tipo mistico, e si configura piuttosto come apertura verso gli umili, come egualitarismo e senso di fratellanza e di carità. Parini si distacca però dalle posizioni antireligiose di tanti Illuministi, pur abbracciando con entusiasmo le idee della nuova filosofia che non si oppongano ai valori morali cristiani. Parini accoglie dell’Illuminismo il principio fondamentale dell’uguaglianza di tutti gli uomini: tutti meritano il medesimo rispetto; tutti, parallelamente, hanno i medesimi doveri verso la società, nel comune obbligo di combattere la sofferenza, la miseria e l’ignoranza. Lo scrittore condivide appieno con gli Illuministi anche l’esigenza di impegno concreto di ogni cittadino nelle attività politiche nella ferma convinzione che compito dell’intellettuale sia la partecipazione all’amministrazione pubblica. Tuttavia, pur essendo consapevole della necessità di profonde e radicali trasformazioni a livello sociale ed economico, egli rifugge da ogni intento rivoluzionario. In particolare, Parini rifiuta apertamente la violenza in quanto estranea alla sua natura e ai suoi princìpi cristiani. Lo scrittore non propone mai di distruggere la struttura classista della società né di abolire l’aristocrazia in quanto tale. Nel Dialogo sopra la nobiltà (1757), Parini afferma quanto poco sia fondata qualunque pretesa di nobiltà di sangue, ma riconosce all’aristocrazia una possibilità di riscatto come promotrice di riforme, che deve attuare recuperando le sue antiche virtù di lungimiranza, austerità, intraprendenza e cultura, e rinunciando alla pompa esteriore e ai privilegi. L’amore per i classici è un elemento centrale della cultura di Parini: naturale espressione del suo desiderio di chiarezza, di ordine e di rigore formale. Quello di Parini non è un classicismo rigido e retrivo, ma è aperto a modelli letterari assai diversi. Gli autori che il poeta predilige sono soprattutto i latini, innanzitutto Orazio e Virgilio, insieme ad alcuni scrittori greci letti in traduzione, come Pindaro e Plutarco. Nell’ambito della letteratura italiana egli guarda a Petrarca e in generale al Cinquecento, da Ariosto a Tasso, da Bembo a Berni; ma non trascura neppure di rivolgersi ad alcune fonti straniere, ad esempio alle opere del francese Nicolas Boileau e dell’inglese Alexander Pope.

LA Il Discorso sopra la poesia

Il riferimento oraziano: unire utile e dilettevole

POETICA

Letto all’Accademia dei Trasformati nel 1761, il Discorso sopra la poesia è il documento più significativo per comprendere la poetica pariniana. In tale scritto teorico il poeta intende chiarire gli scopi del far poesia. Partendo dall’esigenza ancora arcadica di promuovere e mantenere i princìpi universali del buon gusto, il poeta la sviluppa in senso antiarcadico, proponendo una letteratura non di evasione, ma che, pur attraverso la ricerca della bellezza, svolga una funzione educativa. Tuttavia lo scopo della poesia – l’utile e l’educazione – non deve mostrarsi immediatamente e direttamente, ma offrirsi attraverso quel particolare diletto che è legato alla contemplazione della bellezza; ed è questo piacere che finisce col produrre, indirettamente, un’essenziale utilità, perché si rivela fonte di civiltà, di moralità e di verità. Questa visione della poesia come sintesi di moralità e di diletto, di utile e di armonia, è espressa lucidamente nei versi finali dell’ode La salubrità dell’aria: Va per negletta via / ognor l’util cercando / la calda fantasia, / che sol felice è quando / l’utile unir può al vanto / di lusinghevol canto. L’ideale dell’utile unito al lusinghe-

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CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

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Parini e gli illuministi lombardi

L’integrazione tra classicismo e sensismo

L’accurata descrizione della realtà

vol canto risponde alla linea classica di un’arte allo stesso tempo didascalica ed edonistica, ispirata alla norma oraziana: miscere utile dulci (“mescolare l’utile al dilettevole”). Tale concezione poetica viene interpretata da Parini in chiave illuministica. L’utile ricercato dal poeta non deve infatti essere astrattamente moralistico, ma identificarsi con la giustizia sociale. Tra la concezione pariniana e le idee circolanti tra gli intellettuali della rivista “Il Caffè” ci sono peraltro importanti divergenze. Gli illuministi lombardi sostengono sì l’utilità della poesia, ma mettono in secondo piano i valori estetici e formali, cui invece Parini dà un rilievo centrale. Essi ritengono inoltre che la scienza contribuisca direttamente all’educazione, mentre Parini guarda con sospetto alla “moda” della scienza, che era diventata, nei salotti aristocratici, l’argomento di conversazioni tanto brillanti in apparenza quanto oziose e superficiali nella sostanza. Un altro importante elemento della concezione e della poetica pariniana è la tensione a una integrazione tra l’ideale classicista di una bellezza caratterizzata dall’armonia e dalla perfezione formale e la dottrina filosofica sensista, secondo cui la bellezza è qualcosa di concreto e positivo, che i nostri sensi apprendono direttamente. Il sensismo, che ha una grande influenza sulla cultura illuministica europea ed italiana, afferma che la sensazione è l’unica fonte di conoscenza; quindi anche l’arte vale in quanto sa generare sensazioni complesse in virtù dell’efficacia dei mezzi utilizzati. Parini concepisce la poesia, sensisticamente, come una rappresentazione degli oggetti della natura, tale da generare diletto e utilità morale. Questi princìpi garantiscono alla poesia di Parini una minuziosa e accuratissima capacità descrittiva della realtà, tenendola lontana da astrattezze e genericità; nel contempo la scelta di un classicismo raffinato impedisce al poeta di scadere in un realismo tutto volto alle cose e dimentico dei valori letterari.

LE ODI

Due categorie

La lode della campagna in chiave illuministica

La svolta neoclassica e i temi morali

Le Odi di Parini sono 19, composte a notevoli intervalli di tempo l’una dall’altra, fra il 1757 e il 1795. I metri sono diversi e i componimenti sono accomunati dalla prevalenza di temi civili e morali. Dopo la prima edizione del 1791, le Odi appaiono in edizione definitiva, postume, nel 1801. Le Odi, considerate nel loro complesso, si possono suddividere in due categorie. Nel gruppo di componimenti scritti fra il 1757 e gli anni Settanta, il poeta affronta prevalentemente temi sociali, facendo proprio lo spirito riformatore illuminista favorevole all’uguaglianza fra gli uomini, allo sviluppo della scienza, alla giustizia e al miglioramento delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti. Partecipe dei problemi del proprio tempo, Parini loda la campagna, non come idillico luogo di rifugio, ma come sede di un operare laborioso, contrapposto alla vita cittadina, esposta ai mali di un mondo che sta cambiando. Dall’abolizione della tortura all’esigenza di una maggiore giustizia sociale, dalla difesa della salubrità dell’ambiente all’esaltazione della scienza, tutti i principali temi illuministici sono presenti nelle prime odi, che uniscono realismo ed eleganza classica del linguaggio, anche se ravvivate spesso da un acceso tono polemico. Nel 1779 Parini è docente all’Accademia di Brera mentre compare a Milano la traduzione della Storia dell’arte nell’antichità del Winckelmann (1717-1768), che afferma i princìpi del Neoclassicismo. La conseguente svolta neoclassica del gusto pariniano inaugura una seconda fase delle Odi ed è testimoniata dal distacco dai temi sociali a vantaggio di quelli morali autobiografici (esemplare, in tal senso, La caduta, per cui cfr. pag. 316 e segg.). Il poeta, sempre più deluso dal crescente autoritarismo del governo austriaco, rifiuta di porre la propria arte al servizio dei potenti, come sovente accadrà invece ad altri artisti in età neoclassica. Tuttavia, in seguito, le notizie della rivoluzione sanguinosa che sconvolge la Francia lo spingeranno a distinguersi anche da coloro che allo strumento dell’educazione morale e dei lumi della ragione temperati di carità cristiana vanno sostituendo la ghigliottina.

314 CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

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L’isolamento e la raffinatezza formale

Parini si trova quindi, infine, isolato e i suoi ultimi anni sono dedicati a difendere la coerenza dei propri princìpi morali e a coltivare la poesia, praticata nell’ultimo periodo con una raffinatezza formale sempre più accurata e d’impronta classica. Le Odi testimoniano questo percorso umano e poetico di Parini.

Le odi principali: i contenuti La vita rustica (1757) rappresenta un elogio della vita agreste, tematica gravida di ricordi infantili, contrapposta alla turbolenta esistenza condotta in città. Evidente è il riferimento alle Satire di Giovenale. La salubrità dell’aria (1759) confronta la pulita e salubre aria della Brianza con quella malsana di Milano, denunciando le responsabilità di chi ha causato, per il proprio interesse, tale minaccia per la salute dei cittadini. L’impostura (1761), di impronta morale, ha come tema centrale l’esaltazione della verità e la condanna dell’uso della menzogna. L’educazione (1764), composta in occasione della guarigione dal vaiolo del giovane Carlo Imbonati, racchiude princìpi pedagogici e valori come il rispetto del prossimo, il primato della ragione, l’obiettivo dell’elevazione dell’animo, il senso della giustizia, la funzione educativa della poesia. L’innesto del vaiuolo (1764), dedicata al medico Giammaria Bicetti, che introduce il vaccino in Italia, loda la scienza e coloro che vi si dedicano per favorire il progresso. Il bisogno (1766) è dedicata a un giudice del tempo e sostiene la tesi secondo cui, per ridurre i reati, occorre migliorare le condizioni di vita dei ceti più poveri, poiché la miseria e il bisogno sono le cause prime dei delitti. La caduta (1785), la più celebre fra le Odi, narra come, caduto a causa dell’età avanzata e di una malattia, il poeta venga soccorso da un passante che gli consiglia di legarsi ai potenti per migliorare la propria condizione economica; l’autore rifiuta sdegnosamente e difende la propria coerenza e integrità morale di uomo e di scrittore. Il pericolo (1787) è un componimento galante, nel quale si tratta della pericolosa attrazione esercitata, anche sul poeta, dal fascino della bellezza femminile. Il dono (1790) è dedicato alla marchesa Castiglioni, che ha donato a Parini le tragedie di Vittorio Alfieri: l’ode esalta nel contempo la figura della donatrice e le opere del poeta astigiano. Il messaggio (1793) è dedicato alla nobildonna Maria Castelbarco e alla sua bellezza rasserenatrice, che addolcisce gli affanni degli ultimi anni di vita del poeta, povero e malato. Alla Musa (1795) è dedicata al marchese Febo d’Adda che era stato allievo di Parini e che aveva abbandonato la poesia per essere più vicino alla famiglia: Parini si rivolge alla Musa affinché induca la sposa, un tempo ispiratrice dei versi del marchese, a ricondurre il marito all’arte poetica. Sul vestire alla ghigliottina (1795) è un’ode intrisa di sdegno contro il secolo spietato e le atrocità della Rivoluzione francese, simboleggiate dal diffondersi fra le donne del nastro a collarino, a esaltazione delle decapitazioni in corso in Francia. Il poeta, che pure aveva criticato i nobili, inorridisce ora di fronte alla violenza e alle stragi compiute con la ghigliottina, che giungono a contaminare la grazia e la gentilezza femminili.

Frontespizio delle Odi di Parini, in un’edizione del 1791.

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CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

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T1 La caduta da Odi La caduta, composta verso la fine del 1785, è pubblicata nel 1786. Il titolo prende spunto da un incidente realmente accaduto per le vie di Milano al poeta in una fredda giornata invernale. Effettivamente Parini in quegli anni, a causa della gotta, era afflitto da reali problemi di deambulazione, al punto che non pochi scrittori – compresi Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni – faranno riferimento alla malattia (oltre che alla povertà) del poeta, caricando entrambe di significati simbolici. Schema metrico: 26 quartine, ciascuna costituita da 3 settenari e 1 endecasillabo, a rima alternata (abaB).

PISTE DI LETTURA • La condizione di malessere e pericolo del poeta • La lezione di vita del passante • Tono ora ironico, ora solenne e didascalico

Quando Orïon dal cielo declinando imperversa1; e pioggia e nevi e gelo2 sopra la terra ottenebrata versa, 5

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me3 spinto ne la iniqua stagione, infermo il piede, tra il fango e tra l’obliqua furia de’ carri la città gir4 vede;

vv. 1-12 Quando la costellazione di Orione tramonta in cielo portando il maltempo [invernale] e riversando pioggia, neve e gelo sopra la terra oscurata, la città [di Milano] mi vede andare in giro, costretto [a uscire di casa] nella brutta stagione, con il piede zoppo tra il fango e i carri in corsa rapida e scatenata; e spesso cadere a terra lungo il cammino a causa di un sasso nemico che sporge malamente fra gli altri, o per un tratto di strada scivoloso.

e per avverso sasso mal fra gli altri sorgente, o per lubrico passo lungo il cammino stramazzar sovente. Ride il fanciullo; e gli occhi tosto gonfia commosso, che il cubito o i ginocchi me scorge o il mento dal cader percosso. Altri accorre; e: oh infelice e di men crudo fato degno vate! mi dice; e seguendo il parlar, cinge il mio lato

vv. 13-24 Un ragazzino ride, ma subito la commozione gli gonfia gli occhi non appena mi vede per la caduta ferito al gomito, ai ginocchi o al mento. Un altro passante accorre e mi dice: “Oh, povero poeta, degno di un destino meno crudele” e continuando il discorso, mi prende al fianco con la mano pietosa, mi solleva da terra e raccoglie il cappello sporco e il bastone inutile dispersi nella via:

con la pietosa mano; e di terra mi toglie; e il cappel lordo e il vano baston dispersi ne la via raccoglie:

1. Quando Orïon... imperversa: è inverno; la costellazione di Orione, tramontando, provoca tempeste. 2. e pioggia e nevi e gelo: climax ascendente.

316 CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

3. me: è il complemento oggetto di vede dal verso 8. 4. gir: andare (dal verbo latino ire). Si tratta di uno dei numerosi latinismi lessicali e sintattici presenti nell’ode.

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te ricca di comune censo la patria loda; te sublime, te immune cigno da tempo che il tuo nome roda chiama gridando intorno; e te molesta incìta di poner fine al Giorno, per cui cercato a lo stranier ti addita5. Ed ecco il debil fianco6 per anni e per natura vai nel suolo pur anco fra il danno strascinando e la paura: né il sì lodato verso vile cocchio ti appresta, che te salvi a traverso de’ trivii dal furor de la tempesta. Sdegnosa anima7! prendi prendi novo consiglio, se il già canuto8 intendi capo sottrarre a più fatal periglio.

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vv. 25-32 “La città, ricca di denaro pubblico, ti loda; ti definisce, acclamandoti ovunque, poeta sublime, immune dal tempo che potrebbe cancellare la tua fama, e con insistenza ti incita a porre fine al Giorno, per il quale ti addita agli stranieri che vogliono conoscerlo.

vv. 33-48 Ed ecco che ancora tu vai trascinando sulla strada il corpo, debole per gli anni e per la malattia, tra il pericolo e la paura. La tua poesia, così lodata, non ti permette di possedere neppure una misera carrozza, che ti salvi, quando attraversi gli incroci, dal furore della tempesta. Anima sdegnosa! Prendi decisioni diverse, se vuoi sottrarre a un pericolo più grave la tua testa già bianca. Tu non hai parenti, non hai amiche, non hai ville, che ti possano far preferire a mille altri nell’assegnazione dei favori.

Congiunti tu non hai, non amiche, non ville, che te far possan mai nell’urna del favor preporre a mille9. Dunque per l’erte scale10 arrampica qual puoi; e fa gli atrj e le sale ogni giorno ulular de’ pianti tuoi. O non cessar di porte11 fra lo stuol de’ clienti12, abbracciando le porte de gl’imi, che comandano ai potenti;

vv. 49-60 Arrampicati dunque come puoi sulle scale ripide dei nobili; e fai risuonare ogni giorno dei tuoi lamenti gli ingressi e i saloni dei loro palazzi. Oppure non smettere di unirti alla folla dei clienti, abbracciando le porte delle persone di bassa condizione che ottengono ciò che vogliono dai potenti; e grazie a loro entra nelle stanze private dei grandi e diffondi barzellette e storielle per scacciare la loro livida noia.

e lor mercè penètra ne’ recessi de’ grandi; e sopra la lor tetra noja le facezie e le novelle spandi13.

5. te ricca... addita: il pronome (con funzione di complemento oggetto) te è in posizione di rilievo e costituisce un’anafora; il cigno è simbolo della poesia in quanto animale sacro ad Apollo; molesta è predicativo del soggetto patria. De Il Giorno erano state pubblicate vent’anni prima, e accolte con successo, solo le due parti iniziali, Il Mattino e Il Mezzogiorno. 6. debil fianco: sineddoche per “debole corpo”, complemento oggetto di vai... strascinando. L’uso di fianco per “corpo” è presente in Petrarca e attesta l’accostamento di Parini a gusti poetici classicisti. 7. Sdegnosa anima: l’espressione richiama le parole di lode che Virgilio rivolge a Dante dopo l’incontro con Filippo

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Argenti (in Inferno, VIII, 44): Alma sdegnosa. 8. canuto: espressione utilizzata anche da Petrarca. 9. che te far... a mille: non la sua poesia, ma un diverso stile di vita potrebbe far guadagnare al poeta il favore dei potenti e il successo mondano. 10. erte scale: sono le ripide (erte) scale dei palazzi dei nobili. 11. porte: collocarti. 12. clienti: nel mondo romano i clientes erano i cosiddetti “parassiti”, cioè coloro che ottenevano vantaggi economici e sociali adulando e servendo personaggi di rilievo. 13. le facezie... spandi: qui il ruolo del poeta è svilito ad autore di storielle d’argomento scurrile o di pettegolezzi.

CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

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O, se tu sai, più astuto i cupi sentier trova colà dove nel muto aere il destin de’ popoli si cova; 65

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vv. 61-72 Oppure, se ne sei in grado, cerca astutamente di penetrare nei nascosti luoghi della politica, là dove in segreto silenzio si prepara la sorte dei popoli; e, fingendo di aver ideato nuovi progetti per procurare denaro allo Stato, smuovi le acque e pesca nel torbido per procacciarti denaro con l’imbroglio. Ma chi potrebbe mai guarire la tua mente illusa, o far cambiare strada a te, ostinato amante della poesia?

e fingendo nova esca al pubblico guadagno, l’onda sommovi, e pesca insidïoso nel turbato stagno14. Ma chi giammai potrìa guarir tua mente illusa15, o trar per altra via te ostinato amator de la tua Musa16? Lasciala: o, pari a vile mima, il pudore insulti, dilettando scurrile i bassi genj dietro al fasto occulti17. Mia bile, al fin costretta già troppo, dal profondo petto rompendo, getta impetuosa gli argini; e rispondo: chi sei tu, che sostenti a me questo vetusto pondo18, e l’animo tenti prostrarmi a terra? Umano19 sei, non giusto.

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Buon cittadino, al segno dove natura e i primi casi ordinàr, lo ingegno guida così, che lui la patria estimi.

vv. 73-92 Lasciala perdere: oppure fa’ in modo che essa, simile a una mediocre commediante, diverta con espressioni triviali i bassi istinti dei grandi, nascosti dietro le loro ricchezze”. La mia ira infine, già troppo compressa, erompe dal profondo del petto travolgendo gli argini, e rispondo: “Chi sei tu che sostieni il peso del mio vecchio corpo, e tenti di abbattere il mio animo? Sei umano, ma non sei giusto. Il buon cittadino è guidato dal suo ingegno a quel traguardo a cui lo hanno disposto la natura e le prime vicende [della sua vita], così da meritare la stima dei compatrioti. Quando poi è carico di anni, se il bisogno lo costringe, chiede aiuto con discrezione e misura, con viso sincero nel quale si riflette la sua anima.

Quando poi d’età carco il bisogno lo stringe, chiede opportuno e parco con fronte liberal, che l’alma pinge. E se i duri mortali a lui voltano il tergo, ei si fa, contro ai mali, della costanza sua scudo ed usbergo20. Né si abbassa per duolo, né s’alza per orgoglio. E ciò dicendo, solo lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio.

14. più astuto... stagno: il passante invita il poeta a trovare le oscure vie per giungere là dove si decide (si cova) il destino dei popoli in segreto; lo esorta, cioè, a entrare nella vita politica, fondata sulla corruzione e sull’ingiustizia e, fingendo di aver escogitato un modo per incrementare le entrate dello Stato (pubblico guadagno), confondere le acque e trarre vantaggi con l’imbroglio (insidïoso). 15. illusa: perché persegue alti ideali di giustizia e onestà intellettuale. 16. Musa: la poesia, qui identificata con una delle divinità

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vv. 93-100 E se gli uomini crudelmente gli voltano le spalle, egli è coerente nella sua dignità ed è essa l’unica sua difesa contro i mali. Non diventa vile se la sorte gli è nemica né diventa superbo se gli è favorevole”. E così dicendo, lascio l’appoggio [del passante] e, pieno di sdegno, me ne vado.

classiche che proteggono le arti. 17. o, pari... occulti: il passante suggerisce un’altra alternativa: come una volgare attrice, la poesia dovrebbe insultare il pudore divertendo, con scurrilità, i bassi istinti nascosti dietro alla ricchezza. 18. vetusto pondo: vecchio peso (del corpo); è un latinismo. Si noti l’eleganza della rima interna con rispondo. 19. Umano: pietoso. 20. ei si fa... usbergo: egli si fa scudo e corazza della sua perseveranza contro i mali. Si tratta di una metafora.

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Così, grato ai soccorsi, ho il consiglio a dispetto; e privo di rimorsi, col dubitante piè torno al mio tetto21.

vv. 101-104 Così, grato per l’aiuto, disprezzo il consiglio ricevuto e, senza alcun rimorso, zoppicante, torno alla mia casa.

da Le Odi, a cura di D. Isella, Ricciardi, Milano-Napoli, 1975

21. tetto: sineddoche per “casa”. Anche l’ultima parola dell’ode è una figura retorica: si conclude così la serie di eleganti artifici retorici disseminati nel testo.

Manoscritto autografo dell’ode La caduta. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

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inee di analisi testuale Il contesto storico e autobiografico Il momento è particolare: dopo la morte di Maria Teresa d’Austria (nel 1780), il successore Giuseppe II compie riforme radicali; Parini si è impegnato nell’amministrazione milanese, ma non riceve alcun riconoscimento ed è deluso. Contro i nemici (la corruzione, la superficialità, il fanatismo) usa allora l’unica arma che gli rimane: l’esempio della propria vita. Parini nell’ode rappresenta metaforicamente il suo percorso umano esemplare: cade, ma si rialza; è tentato, ma resiste. La struttura dell’ode È possibile suddividere l’ode in tre sezioni: la prima (vv. 1-16) descrive la caduta di Parini per le strade di Milano; la seconda (vv. 17-76) racconta l’intervento del passante, le sue considerazioni e i suoi consigli; la terza (vv. 77104) contiene la sdegnata risposta del poeta. Nella prima – fondata sulla funzione del diletto estetico, in linea con il sensismo – il poeta dipinge l’ambiente: nella triste sera d’inverno è suggestiva la contrapposizione tra l’esile e malferma figura del poeta e l’imperversare degli elementi, nonché la confusione della grande città. Nella seconda compare il dialogo – fondato sulla componente emotiva – con le lodi, il riferimento a Il Giorno, i rimproveri, l’istigazione all’arrivismo a scapito della dignità. Nella terza – in cui prevale l’intento educativo – Parini, in contrapposizione al discorso del passante, elenca le virtù del buon cittadino, ed esalta la dignità che nasce da una coscienza sicura di sé e della validità del proprio impegno morale e artistico. La debolezza, la vecchiaia, i problemi economici non possono spingerlo a svendere i valori morali, che non hanno prezzo. Lo stile L’ode è caratterizzata da uno stile classicheggiante, come testimoniano immagini e metafore, latinismi e riferimenti letterari. Il tono è solenne, talvolta retorico, ma sostenuto sempre da una profonda coerenza morale: non mancano però anche passi ironici. La struttura metrica è inconsueta: gli enjambements hanno un ruolo importante nel rompere e nobilitare la cadenza ritmica, da canzonetta, dei settenari.

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CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi in non più di 20 righe il contenuto dell’ode La caduta. Analisi e interpretazione 2. Rileva e sintetizza il messaggio insito nell’ode di Parini. 3. Il testo si divide in tre parti: quali? Qual è il tema prevalente in ciascuna di esse? 4. Quali elementi stilistici e linguistici evidenziano la tendenza classicista dell’ode? 5. Nel testo sono presenti anche passi ironici: quale, fra gli altri? Approfondimenti 6. Ritieni che i fenomeni di malcostume e degenerazione morale denunciati nell’ode esistano tuttora – sia pure in forme diverse – o che siano ormai scomparsi? Motiva con adeguati argomenti la tua risposta.

IL GIORNO La struttura e il contenuto dell’opera

Le ragioni del titolo e dell’incompiutezza

La giornata del Giovin Signore

I contenuti

Il titolo Il Giorno viene usato per la prima volta nell’edizione postuma del 1801 che comprende due poemetti già pubblicati da Parini – Il Mattino (nel 1763) e Il Mezzogiorno (nel 1765) – insieme a due lunghi frammenti inediti, ricavati dal materiale autografo incompiuto, intitolati Il Vespro e La Notte. Parini menziona il titolo del poema nell’ode La caduta (1785) e in una lettera del 1791 al celebre tipografo piemontese Giambattista Bodoni. In una lettera del 1766, l’autore informa che l’opera è inizialmente prevista in tre parti (l’ultima avrebbe dovuto intitolarsi La Sera), ma, con il trascorrere degli anni, il progetto originale subisce variazioni per i mutamenti di ispirazione. L’opera rimane, infine, incompiuta, anche per il timore da parte di Parini di una strumentalizzazione, in un momento storico in cui la Francia postrivoluzionaria sta conducendo migliaia di nobili alla ghigliottina. Nelle due parti concluse e pubblicate (Il Mattino e Il Mezzogiorno), Parini racconta con intento satirico la giornata di un nobile fannullone, il Giovin Signore, cui, fingendo di esserne il precettore, si rivolge – spesso ironicamente – con il tu. Il protagonista rappresenta la tipica figura del benestante aristocratico viziato, ozioso, vacuo, vanitoso ed egoista, immerso nel proprio mondo di privilegio e di capriccio. Egli è dunque un antieroe, e il tono ironico e satirico sottolinea la vita da parassita del personaggio, di coloro che lo circondano e di quella parte di aristocrazia che in tale modello si identifica (scopo di Parini è, infatti, educare i nobili all’impegno riformatore; la sua critica all’aristocrazia è morale, non politica). Il Mattino è aperto da una dedica in prosa alla Moda, la dea che, secondo l’autore, governa la vita degli aristocratici e di tutto il secolo. Inizia poi la narrazione delle prime ore della giornata del Giovin Signore, che si è divertito tutta la notte e si è addormentato all’alba, quando il popolo comincia il lavoro. Egli si ridesta con il sole già alto e fa colazione facendosi raccontare gli ultimi pettegolezzi dai suoi maestri di ballo, di canto, di musica, di francese. Poi si veste e si dirige in carrozza dalla dama di cui è il cavalier servente – l’accompagnatore ufficiale, detto anche cicisbeo, di una nobildonna –, dalla quale è invitato a pranzo. Il Mezzogiorno narra le imprese che attendono il vacuo protagonista dall’ora di pranzo al tramonto. La dama lo accoglie e si intrattiene con lui, mentre il marito se ne sta in disparte e sorride. Durante il sontuoso pranzo, si narra la favola del Piacere, secondo la quale gli dèi diedero solo ai nobili organi sensibili grazie ai quali possono gustare il piacere stesso, a differenza della plebe. La dama ricorda poi il triste episodio occorso alla sua cagnetta (la vergine cuccia), che aveva ricevuto un calcio da un servo dopo che era stato morso. Tale oltraggioso comportamento era stato punito con il licenziamento che aveva portato tutta la famiglia del domestico sul lastrico. Sempre con la stessa ironia, Parini presenta le riflessioni dei

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nobili sull’arte, il commercio, l’industria e le scienze: esse esaltano il genio della Francia e deridono l’Italia, secondo la moda del tempo. Dopo il caffè, le coppie si appartano in dolci colloqui; altri si divertono con giochi da tavolo e divertimenti per trascorrere nell’ozio le ore del pomeriggio. Il Vespro mostra, con la consueta ironia, come la “fatica” del Giovin Signore prosegua al tramonto, con la preparazione per la sfilata dei cocchi sul corso. In questa occasione, egli si pavoneggia, corteggia un’altra donna, mentre la sua dama lo ripaga con la stessa moneta, ponendosi al centro dell’attenzione degli altri nobili di bell’aspetto. La Notte ha per protagonisti gli ospiti notturni tipici di una casa nobiliare del tempo, come il frequentatore dei caffè, un esperto nel far schioccare la frusta, il suonatore di corno, il costruttore di cocchi ed altri tipi ameni, abituati, come il Giovin Signore, a una vita da parassiti condotta alle spalle di chi lavora. In questa compagnia, incomincia il gioco, attività principale del gruppo, parodiato con toni sarcastici da Parini.

Le caratteristiche del capolavoro Il Giorno è un poema satirico in endecasillabi sciolti. L’io narrante si identifica con il precettore del Giovin Signore, al quale egli deve insegnare a trascorrere la giornata secondo i dettami della moda e dei costumi aristocratici. Narratore, La narrazione è condotta secondo una modalità che coniuga l’intento didascaintenti, ironia lico (la dichiarata volontà del narratore di fare da precettore al giovane nobile) e lo scopo polemico (la sostanziale finalità di ridicolizzare i costumi del mondo aristocratico): uno schema che scaturisce dallo stravolgimento in chiave parodistica del rapporto fra il precettore (l’io narrante) e l’allievo. Lo strumento cui ricorre Parini per ottenere l’effetto che si prefigge è l’ironia: ciò che il precettore insegna con serietà è l’opposto di ciò che l’autore pensa e, viceversa, ciò che viene disapprovato dal precettore coincide con ciò che il poeta ritiene che debba essere approvato. Non tutta l’opera, però, è caratterizzata dall’intento ironico: frequenti sono le descrizioni d’ambiente (che a volte evidenziano la fascinazione che Parini comunque subisce per la raffinatezza del mondo aristocratico) e gli interventi diretti che mirano ad esprimere l’indignazione o la commozione dell’autore. I personaggi de Il Giorno sono soprattutto simboli negativi di una condizione I personaggi negativi sociale e di una concezione morale, per lo più appartengono alle classi nobili o e la plebe privilegiate per ricchezza e ignorano e disprezzano la solidarietà umana. A tali filavoratrice gure negative Parini contrappone indirettamente la plebe lavoratrice, considerata portatrice di sana operosità e di valori degni di rispetto. Stile neoclassico L’opera, pur rientrando stilisticamente nel gusto neoclassico del secolo XVIII e e originalità richiamando a tratti le Satire degli autori latini Persio e Giovenale, propone una dell’opera concezione profondamente originale. Tutta la società patrizia del Settecento si specchia infatti nella limpida, elegante, classica poesia di Parini, che ritrae quel mondo nel suo fasto esteriore e nella sua miseria interiore. Le tre La satira pariniana ruota intorno a tre cardini. caratteristiche Anzitutto, l’intonazione epica del canto con frequenti citazioni mitologiche della satira mette in grottesco e comico risalto la frivolezza della vita dei protagonisti; in separiniana condo luogo, il ricordo degli antenati, i rudi aristocratici dalla forte virtù di un tempo, schiaccia sotto il peso del ridicolo gli squallidi discendenti, raffinati, vili e viziosi; infine, la rappresentazione commossa e cordiale dell’umile popolo sano, rassegnato ai gravi stenti, alla dura fatica, si risolve in un’indignata condanna della classe signorile corrotta e parassita, che disprezza e calpesta come schiavi coloro da cui riceve la vita, gli agi, gli onori. La duttilità Il tono duttile usato dall’autore passa dal lieve riso canzonatorio all’indignaziodel tono ne, attraverso una ricca gamma di sfumature, e non si sofferma solo sulla satira e sull’ironia, ma sa toccare ulteriori registri espressivi: esemplare, in tal senso, è il passaggio dal sarcasmo alla commozione nell’episodio della vergine cuccia (cfr. testo a pag. 328 e segg.). Un poema satirico

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CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

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IL GIORNO

COMPOSIZIONE

Nel 1763 e nel 1765 Parini pubblica due poemetti, Il Mattino e Il Mezzogiorno, a cui progetta di aggiungere una terza parte, La Sera (prima redazione). Decide poi di organizzare il materiale in un unico poema, Il Giorno, aggiungendo alle due parti già pubblicate Il Vespro e La Notte (seconda redazione).

CONTENUTO

Il narratore-precettore guida il Giovin Signore nei rituali della vita mondana della nobiltà, indicandogli in ogni momento il comportamento più conveniente.

FINALITÀ

Alla funzione apparentemente didascalica si accompagna quella morale e satirica, che sottende la critica alla vita frivola e oziosa della nobiltà del tempo.

FONTI

• Scrittori dell’antichità greco-latina. • Letteratura italiana classicista da Petrarca al Cinquecento. • Il ricciolo rapito dell’inglese Alexander Pope, che prende di mira la frivolezza degli aristocratici inglesi.

METRO

Endecasillabi sciolti, tipici dell’epica: ciò crea uno sdoppiamento tra la forma alta e solenne e la pochezza del contenuto.

STILE

Domina il registro ironico e antifrastico, per cui nella maggior parte dei casi il precettore afferma il contrario rispetto ai princìpi e ai valori dell’autore.

LINGUA

Alla forte componente classica si affiancano elementi realistici. Frequente l’uso di latinismi e il ricorso alla mitologia.

T2 La dedica da Il Mattino Nella prima edizione milanese, Il Mattino è preceduto da un breve testo in prosa – la dedica Alla Moda – in cui Parini definisce infatti la Moda il sommo Nume che ha vinto sulla Ragione, l’Ordine e il Buon Senso. PISTE DI LETTURA • Il rovesciamento della protasi classica • Il meccanismo del rovesciamento, chiave di lettura di tutto il poema satirico • Tono sarcastico

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Il secolo della moda e della vanità

Un’opera che passerà di moda

Lungi da queste carte1 i cisposi occhi già da un secolo rintuzzati2, lungi i fluidi3 nasi de’ malinconici vegliardi. Qui non si tratta di gravi ministerj4 nella patria esercitati, non di severe leggi, non di annojante domestica economìa misero appannaggio della canuta età5. A te vezzosissima Dea6, che con sì dolci redine oggi temperi, e governi7 la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo Libretto si dedica, e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume8 oggimai non riverisca, ed onori, poiché in sì breve tempo se’ giunta a debellar la ghiacciata9 Ragione, il pedante Buon Senso, e l’Ordine seccagginoso10 tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci11 questo secolo avventurato12? Piacciati adunque di accogliere sotto alla tua protezione, che forse non n’è indegno, questo piccolo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari13 ove le gentili Dame, e gli amabili Garzoni sagrificano14 a se medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago15, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in Versi Sciolti, sapendo, che tu di questi specialmente ora godi, e ti compiaci. Esso non aspira all’immortalità, come altri libri, troppo lusingati16 da’ loro Autori, che tu, repentinamente sopravvenendo17, hai seppelliti nell’oblìo. Siccome18 egli è per te nato, e consagrato a te sola, così fie pago19 di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti, e risorgere in più graziose forme20. Se a te piacerà di riguardare con placid’occhio21 questo Mattino forse gli succederanno il Mezzogiorno, e la Sera; e il loro Autore si studierà di comporli, ed ornarli in modo, che non men di questo abbiano ad esserti cari22.

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da Il Giorno, a cura di D. Isella, Ricciardi, Milano-Napoli, 1969

1. Lungi... carte: stiano lontani da questo poemetto. 2. da un secolo rintuzzati: indeboliti dall’età. 3. fluidi: colanti. 4. gravi ministerj: importanti incarichi. 5. appannaggio... età: privilegio della vecchiaia. 6. vezzosissima Dea: la Moda. 7. temperi, e governi: moderi ed educhi. 8. qual... Nume: come (se fossi) un’importantissima divinità. 9. ghiacciata: troppo fredda. 10. seccagginoso: noioso. 11. antichissimi lacci: così sono definiti ironicamente i limiti e le regole imposti dal buon senso e dal vivere civile. 12. avventurato: fortunato.

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13. il reca... altari: portalo sui tranquilli altari, cioè sui mobili a specchiera, utilizzati per il trucco mattutino. 14. sagrificano: dedicano. 15. vago: desideroso. 16. lusingati: lodati. 17. sopravvenendo: avanzando. 18. Siccome: così come. 19. fie pago: sarà contento. 20. che tu ti mostri... forme: in cui tu (Moda) ti mostri sotto lo stesso aspetto e hai già in mente di trasformarti e rinascere sotto un aspetto più grazioso. 21. placid’occhio: occhio benevolo. 22. cari: graditi.

inee di analisi testuale L’antifrasi Dedicando il poemetto alla vezzosissima Dea della Moda, Parini usa la protasi del poema classico, ossia l’invocazione alle Muse e la dedica, rovesciando – nella figura retorica dell’antifrasi – i ruoli dei valori tradizionali: la Musa della poesia eterna diventa infatti la Moda, dea dell’effimero e dell’apparenza. Fingendo di esaltare le virtù della Moda, in realtà Parini ne denuncia i guasti: essa devasta la brillante gioventù moderna, dopo aver vinto la ragione, il buon senso e l’ordine. Ristabilendo la scala dei valori (rovesciata dall’antifrasi), si possono riconoscere quelli che contano per Parini: la guida della lucida e imparziale razionalità, la moderazione tollerante e paziente, il rispetto dell’ordine e della buona tradizione. La sorte dell’opera di moda Essendo dedicato alla moda, il poemetto non deve aspirare all’immortalità: la moda infatti detesta i classici, perché si fonda sul cambiamento perenne, sul piacere del nuovo che sorprende per farsi ammmirare: Parini ribadisce dunque il principio estetico secondo cui un’opera che mira solo al successo è destinata a una breve gloria: solo l’opera d’arte sopravvive per lunga fama. La scelta del metro L’autore sceglie l’endecasillabo sciolto perché verso alla moda, di successo. Tale metro, infatti, viene utilizzato nei recitativi del melodramma – che ha largo seguito nel periodo – e Il Giorno ha spesso accenti da melodramma in chiave ironica, realizzando una tonalità epica applicata ad una materia tutt’altro che eroica. Ma il valore intrinseco de Il Giorno farà dell’endecasillabo sciolto la forma metrica principe della poesia successiva.

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avoro sul testo

Comprensione del testo 1. Riassumi la dedica Alla Moda in non più di 8 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 6 righe per ogni risposta). a. Perché Parini dedica il poema alla Moda? b. Quale valenza ha la figura dell’antifrasi in questo testo? c. Come è giustificata la scelta dell’endecasillabo sciolto? Approfondimenti 3. Scrivi ed intitola in modo adeguato una breve intervista immaginaria a Giuseppe Parini sul contenuto e lo scopo della dedica del Mattino. 4. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, inserendo opportuni riferimenti al testo: La vera gerarchia dei valori nella dedica del Mattino.

T3 Il Giovin Signore e il precettore da Il Mattino, vv.1-89 Nel brano iniziale de Il Mattino Parini presenta sia il Giovin Signore, protagonista del poemetto sia se stesso, nella veste di io narrante e precettore, e si colloca come tramite fra il lettore e il mondo aristocratico descritto nell’opera. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • Lo scopo del poemetto nella finzione letteraria e lo scopo didascalico reale • Il sentimento del poeta verso il popolo e la sua vita semplice • Una fine ironia che lascia trapelare profondo disgusto

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Giovin Signore, o a te scenda per lungo di magnanimi lombi ordine il sangue purissimo celeste, o in te del sangue emendino il difetto i compri onori1 e le adunate2 in terra o in mar ricchezze dal genitor frugale3 in pochi lustri, me Precettor d’amabil Rito ascolta4. Come ingannar questi nojosi e lenti giorni di vita, cui5 sì lungo tedio e fastidio insoffribile6 accompagna

1. o a te... onori: sia che il divino purissimo sangue arrivi a te da una lunga serie di nobili reni (lombi), sia che i titoli nobiliari acquistati (compri onori) correggano l’impurità del tuo sangue. Il titolo nobiliare poteva essere acquisito per via ereditaria o acquistato con i terreni appartenenti a un nobile. 2. adunate: accumulate.

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3. genitor frugale: padre avaro. 4. me... ascolta: ascolta me, maestro di un piacevole stile di vita. Il complemento oggetto si trova in posizione di rilievo all’inizio del verso, secondo una sintassi latineggiante e classicista. 5. cui: che. 6. insoffribile: insopportabile.

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or io t’insegnerò. Quali al Mattino, quai dopo il Mezzodì, quali la Sera esser debban tue cure7 apprenderai, se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta pur8 di tender gli orecchi a’ versi miei. Già l’are a Vener sacre e al giocatore Mercurio ne le Gallie e in Albione devotamente hai visitate, e porti pur anco i segni del tuo zelo impressi9: ora è tempo di posa10. In vano Marte11 a sé t’invita; che12 ben folle è quegli che a rischio de la vita onor si merca13, e tu naturalmente il sangue aborri. Né i mesti de la Dea Pallade studj14 ti son meno odiosi: avverso ad essi ti feron15 troppo i queruli ricinti16 ove l’arti migliori, e le scienze cangiate17 in mostri, e in vane orride larve18, fan le capaci volte19 echeggiar sempre di giovanili strida20. Or primamente odi quali il Mattino a te soavi cure debba guidar con facil mano21. Sorge il Mattino in compagnìa dell’Alba innanzi al22 Sol che di poi23 grande appare su l’estremo orizzonte a render lieti gli animali e le piante e i campi e l’onde. Allora il buon villan sorge24 dal caro letto cui25 la fedel sposa, e i minori suoi figlioletti intepidìr la notte26; poi sul collo recando i sacri arnesi che prima ritrovàr Cerere, e Pale27, va col bue lento innanzi al campo, e scuote lungo il picciol sentier da’ curvi rami il rugiadoso umor28 che, quasi gemma29, i nascenti del Sol raggi rifrange30. Allora sorge il Fabbro, e la sonante31

7. cure: occupazioni. 8. pur: anche. 9. Già l’are... impressi: secondo il costume del tempo, concorreva alla formazione del giovane aristocratico un viaggio in Europa (Gallie e Albione sono rispettivamente la Francia e l’Inghilterra), che comprendeva la visita compiuta con una tale devozione da lasciare impressi nel giovane dei segni duraturi: Parini qui probabilmente allude, con sarcastico doppio senso, a qualche malattia venerea contratta in quei luoghi di dissolutezza. Il passo abbonda di termini neoclassici: are significa “altari”; Mercurio è il dio latino del gioco; pur anco significa “ancora”; zelo è un latinismo e significa “impegno”. 10. posa: riposo. 11. Marte: dio della guerra e metafora della vita militare che il Giovin Signore evita certamente non per motivi ideali, ma per poter condurre indisturbato una esistenza viziosa. 12. che: perché. 13. si merca: si guadagna. L’espressione è usata da Dante nella Commedia. 14. i mesti... studj: i tristi studi della dea Pallade Atena. Atena, la Minerva latina, è la dea della sapienza.

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15. feron: resero. 16. queruli ricinti: l’espressione allude metaforicamente e ironicamente alle aule scolastiche piene di alunni in pianto. 17. cangiate: trasformate. 18. larve: fantasmi. 19. capaci volte: ampie aule. 20. giovanili strida: pianti degli alunni. 21. Or primamente... mano: ora, per prima cosa, ascolta quali piacevoli occupazioni il mattino debba guidare verso di te con piacevolezza (con facil mano). 22. innanzi al: prima del. 23. di poi: poi. 24. sorge: si alza. 25. cui: che. 26. intepidìr la notte: riscaldarono nella notte. 27. sacri arnesi... Pale: sono gli attrezzi per il lavoro dei campi che furono inventati, secondo la mitologia, da Cerere, dea delle messi, e da Pale, dea della pastorizia. 28. rugiadoso umor: gocce di rugiada. 29. quasi gemma: come se fossero gemme. 30. rifrange: riflettono. 31. sonante: rumorosa.

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officina riapre, e all’opre torna l’altro dì non perfette, o se di chiave ardua e ferrati ingegni all’inquieto ricco l’arche assecura32, o se d’argento e d’oro incider vuol giojelli e vasi per ornamento a nuove spose o a mense. Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo, qual33 istrice pungente, irti i capegli al suon di mie parole? Ah non è questo, Signore, il tuo mattin. Tu col cadente sol34 non sedesti a parca35 mensa, e al lume dell’incerto crepuscolo non gisti ieri a corcarti in male agiate piume, come dannato è a far l’umile vulgo36. A voi celeste prole37, a voi concilio di Semidei terreni38 altro concesse Giove benigno: e con altr’arti e leggi per novo calle39 a me convien guidarvi. Tu tra le veglie, e le canore scene, e il patetico gioco oltre più assai producesti la notte40; e stanco alfine in aureo cocchio, col fragor di calde precipitose rote41, e il calpestìo di volanti corsier42, lunge agitasti43 il queto aere notturno, e le tenèbre con fiaccole superbe44 intorno apristi45, siccome allor che il Siculo terreno dall’uno all’altro mar rimbombar feo Pluto col carro a cui splendeano innanzi le tede de le Furie anguicrinite46. Così tornasti a la magion47; ma quivi a novi studj48 ti attendea la mensa cui ricoprien pruriginosi cibi49 e licor lieti50 di Francesi colli, o d’Ispani, o di Toschi, o l’Ongarese bottiglia a cui di verde edera Bacco concedette corona51; e disse: siedi de le mense reina52. Alfine il Sonno

32. all’opre torna... assecura: torna alle opere rimaste incompiute (non perfette) il giorno precedente, sia che (o se) debba rendere sicure le casseforti (arche) al ricco timoroso con una chiave complicata e congegni di ferro. 33. qual: come un. 34. col cadente sol: al tramonto. 35. parca: povera. 36. e al lume... umile vulgo: e alla luce fioca (incerto) del crepuscolo non andasti (gisti) ieri a dormire su uno scomodo giaciglio (male agiate piume: sineddoche), come è condannato a fare il misero popolo. 37. celeste prole: figli di dei. 38. concilio... terreni: nobile famiglia di semidei sulla Terra. 39. novo calle: via diversa, privilegiata. 40. Tu tra le veglie... notte: tu hai prolungato la notte fino a tardi tra i banchetti, il teatro dell’opera e il gioco d’azzardo ricco di emozioni (patetico). 41. calde... rote: le ruote del cocchio sono calde a causa dell’attrito sul terreno provocato dall’alta velocità.

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42. volanti corsier: veloci cavalli. 43. lunge agitasti: hai turbato per largo tratto. 44. superbe: sollevate in alto. 45. apristi: hai rischiarato. 46. siccome... anguicrinite: così come accadde quando Plutone fece (feo) rimbombare il terreno della Sicilia dal Mar Tirreno al Mar Ionio con il carro a cui splendevano davanti le fiaccole (tede) delle Furie dai capelli di serpenti. È un allusione ironica al mito di Proserpina rapita in Sicilia da Plutone, dio degli inferi, il cui carro era guidato dalle Furie, che Parini paragona, con gusto parodistico, ai lacchè in parrucca alla guida delle carrozze dei nobili. 47. magion: palazzo. 48. studj: occupazioni. 49. cui... cibi: che cibi appetitosi ricoprivano. 50. licor lieti: vini che inebriano. 51. l’Ongarese... corona: è il Tokaj, vino ungherese che il dio Bacco ha premiato come il migliore. 52. reina: regina (il termine è riferito alla bottiglia di vino ungherese).

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ti sprimacciò le morbide coltrici53 di propria mano, ove, te accolto, il fido servo calò le seriche cortine54: e a te soavemente i lumi55 chiuse il gallo che li suole aprire altrui. da Il Giorno, a cura di D. Isella, voll. I-II, Ricciardi, Milano-Napoli, 1969

53. sprimacciò... coltrici: assestò il morbido letto. 54. seriche cortine: tende di seta. 55. lumi: occhi; metafora della tradizione letteraria così abusata da risultare qui anch’essa parodistica.

Fra’ Galgario, Gentiluomo con tricorno, 1737 circa. Milano, Museo Poldi Pezzoli. La preziosità degli abiti e la postura solenne sottolineano lo status sociale del personaggio ritratto.

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inee di analisi testuale Ironia e antifrasi Il Mattino si apre con un’invocazione al Giovin Signore, perché ascolti quanto il suo precettore gli insegnerà, ossia come ingannare i nojosi e lenti giorni di vita. Il tono è alto, il taglio linguistico degno di un poema eroico; la sintassi è complessa, con periodi ricchi di subordinate; abbondano gli artifici retorici. Questa scelta stilistica ha lo scopo di evidenziare l’ironia e di esaltare il tono canzonatorio. Tale raffinatezza contrasta volutamente con la figura del nobile allievo, tanto esteriormente appariscente quanto interiormente squallido. Insieme all’ironia, l’antifrasi – figura retorica della contrapposizione che consiste nell’usare un termine o un’espressione con significato opposto a quello proprio – si rivela subito protagonista dello stile dell’opera. Diversi ritmi di vita, diversi giudizi morali La prima inquadratura del poemetto non è per il mondo dei nobili, ma per gli anonimi personaggi del mondo popolare, ritratti con tenerezza e senza alcuna ironia. La realtà del lavoro contadino e artigianale è posta in primo piano – con la sua positiva normalità – allo scopo di sottolineare, per contrasto, la negatività del comportamento da parassita del Giovin Signore, che gode del suo ozio e detesta ogni attività socialmente utile. Le scelte lessicali con cui sono descritte le famiglie umili sottolineano la sensazione di calore umano e di gioia; il lavoro dona a chi lo compie onestà, virtù, moralità. Il Giovin Signore è presentato come inorridito per tanta fatica materiale: gli si sono rizzati irti i capegli sulla testa. Egli ha trascorso la notte tra le canore scene e il gioco; solo verso l’alba è tornato a casa. Nel palazzo, il Sonno in persona ha assestato le morbide coltrici di propria mano ed egli si è addormentato. Il sarcasmo è alto: solo a giorno fatto il precettore dovrà iniziare la propria opera presso l’ozioso fannullone.

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Comprensione 1. Aiutandoti con le note, svolgi la parafrasi del brano iniziale de Il Giorno. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il carattere del Giovin Signore che emerge dai primi versi de Il Mattino? b. Quali argomenti il precettore sviluppa nel primo dialogo con il Giovin Signore? Analisi e interpretazione 3. Definisci le figure retoriche dell’ironia e dell’antifrasi e chiarisci in quali passi dei versi proposti sono presenti in modo più evidente. 4. Individua e segnala i principali elementi stilistici (lessico e figure retoriche) e tematici (citazioni) di derivazione classica contenuti nel passo presentato e chiariscine la funzione. 5. Spiega la ragione per cui, all’inizio del poema dedicato al Giovin Signore, l’autore presenta figure umili come il buon villan e il Fabbro. Approfondimenti 6. L’ironia (dal greco eironéia, “dissimulazione”) consiste nell’affermare una cosa intendendo dire l’opposto. Essa è ampiamente diffusa anche nella comunicazione quotidiana: basti pensare a espressioni come “è un genio” riferite a persone che non brillano per intelligenza. Facendo riferimento alla tua esperienza, porta degli esempi dell’uso dell’ironia nella società contemporanea. 7. In letteratura, la parola “satira” indica un antico genere letterario di carattere parodistico, critico, polemico, che mette in luce i vizi e i difetti degli uomini, soprattutto dei potenti, molto coltivato nell’antica Roma da autori come Orazio, Persio e Giovenale. I versi di Parini si possono ricollegare a tale genere letterario: per quali loro caratteristiche? 8. Si parla di sarcasmo (dal greco sarkasmós: “morso”) quando il bersaglio della satira o dell’ironia è fatto oggetto di aperta e aspra derisione. Nell’ampio uso dell’ironia che contraddistingue l’episodio qui proposto, a tuo parere compare, e in che misura, anche il sarcasmo? Motiva la riL’educazione del Giovin Signore. Stampa del XVIII secolo. sposta. Milano, Civica Raccolta di Stampe Bertarelli.

T4 La vergine cuccia da Il Mezzogiorno, vv. 510-556 È questo uno dei passi più famosi del poema. Il Giovin Signore e la sua dama siedono a tavola in compagnia di vari commensali, intrattenendosi in piacevole conversazione e la signora introduce il ricordo dell’incidente occorso alla sua cagnetta. La vergine cuccia ha morso per gioco il piede di un servitore, che l’ha scalciata con il suo sacrilego piede. È stata però poi vendicata dalla stessa dama, che ha licenziato il dipendente, lasciandolo senza mezzi di sostentamento. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • L’aneddoto della dama • L’indignazione del poeta • L’alternanza fra tono ironico e patetico

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Tal ei parla1, o Signore; e sorge intanto al suo pietoso favellar dagli occhi de la tua Dama2 dolce lagrimetta pari a le stille tremule, brillanti che a la nova stagion gemendo vanno dai palmiti di Bacco entro commossi al tiepido spirar de le prim’aure fecondatrici. Or le sovviene il giorno, ahi fero giorno! allor che la sua bella vergine cuccia de le Grazie3 alunna, giovenilmente vezzeggiando, il piede villan del servo con l’eburneo dente segnò di lieve nota4: ed egli audace con sacrilego5 piè lanciolla: e quella tre volte rotolò; tre volte scosse gli scompigliati peli, e da le molli nari soffiò la polvere rodente6. Indi i gemiti alzando: aita aita7 parea dicesse; e da le aurate volte a lei l’impietosita Eco8 rispose: e dagl’infimi chiostri i mesti servi asceser tutti; e da le somme stanze le damigelle pallide tremanti precipitàro9. Accorse ognuno; il volto fu spruzzato d’essenze10 a la tua Dama; ella rinvenne alfin: l’ira, il dolore l’agitavano ancor; fulminei sguardi gettò sul servo, e con languida voce chiamò tre volte la sua cuccia: e questa al sen le corse; in suo tenor11 vendetta chieder sembrolle: e tu vendetta avesti vergine cuccia de le grazie alunna. L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo udì la sua condanna. A lui non valse merito quadrilustre12; a lui non valse zelo d’arcani uficj13: in van per lui14 fu pregato e promesso; ei nudo andonne dell’assisa spogliato ond’era un giorno

1. Tal ei parla: chi ha parlato è uno degli invitati alla tavola della dama, il vegetariano, che non si ciba di carne per un sentimento di pietà verso gli animali. 2. la tua Dama: il Giovin Signore è il cavaliere servente – o cicisbeo – della dama. 3. Grazie: divinità del mondo classico, ritenute dispensatrici di bellezza. Il punto di vista da cui è narrato l’episodio è quello della Dama. 4. segnò... nota: segnò con un leggero morso. L’ironia, che fin dai primi versi predomina nell’episodio, diventa qui anche sarcasmo: il piede di uno zotico (villan) servo può senza problemi essere morso a sangue (lieve nota) dalla divina cagnetta. La caratteristica ironicamente attribuita al servo viene riferita al suo piede: si tratta di una ipallage. 5. sacrilego: secondo il punto di vista della dama, il gesto del servo, essere inferiore, è un vero e proprio sacrilegio. Prosegue il crescendo di ironia. 6. e quella… rodente: l’espressione è tratta da Omero, che la riferisce però a guerrieri colpiti a morte: nel contesto dell’episodio, essa assume un significato decisamente parodistico.

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Così parla [il vegetariano], o Signore: e sentendo la sua voce che suscita pietà [per gli animali], sorge intanto, dagli occhi della tua Dama, una dolce piccola lacrima, simile alle gocce tremule e lucenti che, nella stagione primaverile, stillano dai tralci della vite cara al dio Bacco, come se gemessero commossi dai primi tiepidi soffi dei venti che alimentano la vita. Ed ella ricorda il giorno, ahi giorno atroce!, in cui la sua bella giovane cagnolina allevata dalle Grazie, scherzando come usano fare i giovani, con il dente bianco come avorio segnò con una lieve traccia [di sangue] il rozzo piede di un servo; ed egli, temerario, con quel piede sacrilego la allontanò [con un calcio]; ed ella per tre volte rotolò, per tre volte scosse i peli arruffati e dalle tenere narici soffiò la polvere che la irritava. Levando poi gemiti, pareva dicesse: “Aiuto, aiuto!”; e dalle volte dorate [della sala da pranzo] Eco, impietosita, le rispose. Dalle stanze situate nelle parti basse [del palazzo] tristi salirono i servi; dalle stanze dei piani superiori si precipitarono le damigelle pallide e tremanti. Tutti accorsero: il volto della tua Dama [svenuta] fu spruzzato di essenze: infine ella rinvenne. L’ira e il dolore la sconvolgevano ancora; gettò sul servo sguardi folgoranti [d’ira], e con languida voce chiamò tre volte la sua cagnetta: ella le corse in seno e nel suo linguaggio le sembrò chiedere vendetta. E vendetta avesti, giovane cagnolina allevata dalle Grazie. Il sacrilego servo tremò: con gli occhi a terra udì la sua condanna. A nulla gli servì il ventennale merito, a nulla lo zelo con cui aveva svolto compiti riservati; invano egli pregò e promise; fu scacciato senza alcun compenso, spogliato dalla livrea che un tempo lo rendeva rispettato

7. aita: aiuto! Il termine onomatopeico imita il guaito del cane. 8. Eco: la ninfa innamorata di Narciso, trasformata da Giunone in sasso e costretta a ripetere le ultime parole udite. Anche questo riferimento classico è parodistico. 9. e dagl’infimi… precipitàro: la servitù sale dalle stanze del piano inferiore, le damigelle scendono dai piani superiori. Ancora una volta l’autore contrappone le diverse condizioni sociali. 10. essenze: sostanze d’origine vegetale e d’odore acuto, usate un tempo in caso di svenimento. 11. in suo tenor: alla dama sembrò che la cagnolina le chiedesse, con i propri atteggiamenti e lamenti (in suo tenor), di vendicare il torto subito. La personificazione e la divinizzazione ironica dell’animale raggiungono qui il loro culmine. 12. quadrilustre: ventennale. Il lustro è un quinquennio. 13. zelo... uficj: l’impegno nello svolgere incarichi segreti. Riferimento sottinteso ai contatti e agli incontri, di cui il servo era affidabile intermediario, fra la dama e i suoi amanti. 14. per lui: da parte sua.

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venerabile al vulgo. In van novello signor sperò; ché le pietose dame inorridìro, e del misfatto atroce odiàr l’autore15. Il misero si giacque con la squallida prole, e con la nuda consorte a lato su la via spargendo al passeggiere inutile lamento: e tu vergine cuccia, idol placato da le vittime umane, isti superba16.

dalla plebe. Invano sperò di poter prendere servizio presso un nuovo signore, perché le pietose dame inorridirono [per ciò che egli aveva fatto] e odiarono il servo, autore di un così atroce gesto. Lo sventurato [infine] si ridusse, sulla via, con la misera prole e con la moglie vestita di stracci al fianco, a chiedere, lamentandosi inutilmente, l’elemosina ai passanti: e tu, giovane cagnolina, ne andasti superba come un idolo placato da vittime umane.

da Il Giorno, a cura di D. Isella, voll. I-II, Ricciardi, Milano-Napoli, 1969

15. le pietose… l’autore: l’autore ricorre qui ancora all’ironia: subito dopo, con un brusco cambiamento, il tono diventa commosso per la sorte del servo. Tale nuovo registro accompagna la descrizione della tragica sorte del misero e della sua famiglia. Si noti che l’espressione inutile lamento sottintende un’indifferenza generalizzata – qui senza di-

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stinzione di classe sociale – per la sorte altrui. 16. idol... superba: come una divinità, placata da un sacrificio umano, andasti superba. Più che di ironia, si deve qui parlare di amaro e dolente sarcasmo: un uomo e la sua famiglia sono stati sacrificati perché una cagnetta ha potuto azzannare impunemente a sangue il piede di un servo.

inee di analisi testuale Il gioco dei punti di vista Come ha sottolineato il critico Giuseppe Petronio, nell’episodio della vergine cuccia l’ironia è ottenuta rendendo dominante il punto di vista della dama. Ma la vicenda non è raccontata in prima persona da lei: lo fa il narratore-precettore. Tuttavia, calandosi completamente nella visuale della protagonista, fa assumere al calcio alla cagnetta da parte del servo morsicato un rilievo grottescamente sproporzionato alla reale entità del fatto. L’ironia ottenuta attraverso l’antifrasi In tal modo Parini attiva ancora una volta il meccanismo dell’antifrasi e ne ottiene effetti di particolare intensità: l’ironia è fatta nascere dall’interno stesso del comportamento e del modo di pensare del personaggio-dama. Verso la cagnetta, animale che dipende totalmente da lei, la nobildonna indirizza sentimenti di affetto e protezione che sono invece negati agli esseri umani di condizione sociale inferiore. L’animale sostituisce l’essere umano e ciò suscita ilarità, ma anche amarezza, nel lettore. L’elevazione della cagnetta al grado di divinità poi è segnale della risibile incapacità della dama di rapportarsi con il prossimo e con la realtà: al cane sono attribuiti pensieri umani e parole umane. Il mutamento di prospettiva Il verso l’empio servo tremò apre un quadro di desolata tristezza, in cui è rappresentata la condizione del servo colpevole. Il punto di vista ora non è più quello della dama, ma quello del narratore – aperto alla comprensione per il servo, un essere umano – che si rivolge direttamente alla cagnetta: tu vendetta avesti. Questo mutamento di prospettiva fa scontrare due mondi lontanissimi tra loro: quello della concreta vita quotidiana (il servo, il suo umile e fedele lavoro, un cane aggressivo) e quello delle assurde ritualità del mondo dei privilegiati (in cui un animale viene rivestito di valenze umane e superiori ai servi). Alla luce di tutto ciò, il banale incidente si tramuta in tragedia. Il servo gettato in strada senza speranza di un nuovo lavoro, con la squallida prole e la nuda consorte, sarà ridotto a mendicare: il tono della narrazione, ora dal punto di vista delle vittime umane, diventa commosso. Infine la vergine cuccia, che ottiene vendetta come un idol placato delle antiche religioni pagane, diventa figura che supera l’ironia e giunge al sarcasmo.

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Comprensione 1. Riassumi in non più di 20 righe il testo della vergine cuccia. 2. Individua i versi in cui l’autore abbandona il punto di vista della dama per fare proprio – con tono commosso – il punto di vista del servo. Analisi e interpretazione 3. Rileva il tono, le figure retoriche (anche onomatopeiche) e i riferimenti mitologici presenti nell’episodio proposto e individuane la funzione. 4. Quali sono i principali elementi attraverso i quali Parini evidenzia i caratteri psicologici della dama? 5. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Come si manifesta il cambiamento di punti di vista nell’episodio della vergine cuccia? b. Quali sono i princìpi morali che Parini evidenzia nel celebre passo de Il Giorno? c. Quali sono le caratteristiche principali della tecnica narrativa e dello stile di Parini nell’episodio della vergine cuccia? d. Quali sono le immagini tratte dal repertorio mitologico nell’episodio della vergine cuccia e quale funzione rivestono? e. Alcuni passi riprendono testi classici (ad esempio, il momento in cui la cagnetta rotola tre volte è una citazione omerica): con quale funzione? Approfondimenti 6. In merito all’animalismo oggi molto diffuso tra i giovani, indica quali sono i princìpi sui quali si fonda e precisa – con adeguate argomentazioni – se ti trova favorevole in modo incondizionato o con riserve. Individua poi il messaggio sottinteso al testo pariniano: ti sembra rivolto contro gli animali? Perché?

T5 La sfilata degli oziosi da La Notte, vv. 351-356 e 368-463 All’inizio della Notte il precettore si accinge a fornire gli ultimi insegnamenti al Giovin Signore. La notte è un momento sacro nel gran palazzo che viene contrapposto alle case dove il popolo cerca di riposarsi dalle fatiche. Gli invitati alla festa – che può protrarsi a lungo perché i nobili potranno poi dormire fino al mattino inoltrato – hanno la funzione di divertire i signori. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • Gli invitati, fannulloni pari all’ospite nella vacuità interiore • Una sfilata di eroi-mostri • Tono amaramente ironico

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Quanta folla d’eroi! Tu, che modello d’ogni nobil virtù, d’ogn’atto eccelso, esser dei1 fra’ tuoi pari2, i pari tuoi a conoscere apprendi; e in te raccogli quanto di bello e glorioso e grande sparse in cento di loro arte3 o natura. […]

1. dei: devi. 2. pari: si intende a livello sociale.

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3. arte: educazione.

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Questi è l’almo garzon, che con maestri da la scutica sua moti di braccio desta sibili egregi4; e l’ore illustra5 l’aere agitando de le sale immense, onde i prischi6 trofei pendono e gli avi7. L’altro è l’eroe, che da la guancia enfiata e dal torto oricalco8 a i trivj9 annuncia suo talento immortal, qualor dall’alto de’ famosi palagi emula il suono di messagger, che frettoloso arrive. Quanto è vago10 a mirarlo allor che in veste cinto spedita11, e con le gambe assorte in amplo cuoio12, cavalcando a i campi rapisce13 il cocchio, ove la dama è assisa e il marito e l’ancella e il figlio e il cane! Quegli14 or esce di là dove ne’ fori15 si ministran16 bevande ozio e novelle17. Ei v’andò mattutin, partinne18 al pranzo, vi tornò fino a notte: e già sei lustri volgon da poi che19 il bel tenor di vita giovinetto intraprese. Ah chi di lui può sedendo trovar più grati sonni o più lunghi sbadigli; o più fiate d’atro rapè solleticar le nari20; o a voce popolare21 orecchi e fede prestar più ingordo e declamar più forte? Ecco che il segue del figliuol di Maia il più celebre alunno, al cui consiglio nel gran dubbio de’ casi ognaltro cede22; sia che dadi versati, o pezzi eretti, o giacenti pedine, o brevi o grandi carte mescan la pugna23. Ei sul mattino le stupide micranie24 o l’aspre tossi molce giocando a le canute dame25. Ei, già tolte le mense, i nati or ora giochi a le belle declinanti26 insegna. Ei la notte raccoglie a sé dintorno schiera d’eroi, che nobil estro27 infiamma d’apprender l’arte28, onde l’altrui fortuna

4. Questi... egregi: questo è il giovane nobile che, con abili (maestri) movimenti del braccio, con la sua frusta produce ammirevoli schiocchi. 5. l’ore illustra: rende prezioso il tempo. 6. prischi: antichi. 7. avi: ritratti di antenati; metonimia. 8. torto oricalco: corno ricurvo (una sorta di trombetta); oricalco, “ottone”, è metonimia. 9. trivj: incroci. 10. vago: bello. 11. allor che... spedita: quando, vestito con un abito che non impedisce i movimenti; si tratta della divisa da cocchiere. 12. assorte... cuoio: nascoste in ampi stivali; cuoio è metonimia. 13. rapisce: fa correre velocemente. 14. Quegli: un altro. 15. fori: piazze.

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16. si ministran: si servono. 17. novelle: pettegolezzi. 18. partinne: se ne allontanò. 19. volgon... che: sono passati da quando. 20. o più fiate...nari: o più volte stuzzicare le narici con tabacco nero (da fiuto). 21. voce popolare: dicerie. 22. Ecco... cede: ecco che lo segue il più famoso alunno di Mercurio (figliuol di Maia), di fronte al consiglio del quale ogni altro cede nei momenti decisivi del gioco. Mercurio, dio del gioco, dà consigli ai propri seguaci. 23. dadi... pugna: dadi gettati, scacchi, pedine della dama, carte da gioco piccole o grandi provochino la battaglia. 24. stupide micranie: emicranie che intontiscono. 25. molce... dame: allevia col gioco alle vecchie dame. 26. declinanti: che invecchiano. 27. estro: desiderio, soggetto di infiamma. 28. arte: quella del gioco, ma soprattutto del baro.

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vincasi e domi; e del soave amico nobil parte de’ campi all’altro ceda29. Vuoi su lucido carro in dì solenne30 gir31 trionfando al corso? Ecco quell’uno, che al lavor ne presieda32. E legni e pelli e ferri e sete e carpentieri e fabbri a lui son noti: e per l’Ausonia33 tutta è noto ei pure. Il Càlabro34 di feudi e d’ordini35 superbo; i duchi e i prenci, che pascon Mongibello36; e fin gli stessi gran nipoti37 Romani a lui sovente ne commetton38 la cura: ed ei sen vola39 d’una in altra officina in fin che sorga, auspice lui40, la fortunata mole41. Poi di tele ricinta42, e contro all’onte de la pioggia e del sol ben forte armata43, mille e più passi l’accompagna ei stesso fuor de le mura; e con soave sguardo la segue ancor sin che la via declini44. Vedi giugner colui, che di cavalli invitto domator divide il giorno fra i cavalli e la dama. Or de la dama la man tiepida preme; or de’ cavalli liscia i dorsi pilosi45, ovver col dito tenta a terra prostrato i ferri e l’ugna46. Aimè misera lei47 quando s’indìce fiera altrove frequente!48 Ei l’abbandona; e per monti inaccessi49 e valli orrende trova i lochi remoti, e cambia o merca50. Ma lei beata poi quand’ei sen torna sparso di limo51; e novo fasto adduce di frementi corsieri52; e gli avi loro e i costumi e le patrie53 a lei soletta molte lune54 ripete! Or vedi l’altro, di cui più diligente o più costante non fu mai damigella o a tesser nodi o d’aurei drappi a separar lo stame55.

29. onde... ceda: con cui si possa vincere e dominare la fortuna altrui; e con cui si possa costringere un caro amico a spogliarsi (ceda) di una cospicua parte del suo patrimonio (nobil parte de’ campi). 30. solenne: festivo. 31. gir: andare. 32. Ecco quell’uno... presieda: ecco l’unico che possa dirigere i lavori; riferimento all’aristocratica mania di farsi costruire innumerevoli carrozze. 33. Ausonia: antico nome dell’Italia del Sud. Per sineddoche indica l’Italia intera. 34. Càlabro: nobile calabrese. 35. ordini: titoli nobiliari. 36. prenci... Mongibello: principi le cui greggi pascolano sull’Etna. Sono i nobili siciliani. 37. gran nipoti: discendenti. 38. commetton: affidano. 39. sen vola: se ne vola. 40. auspice lui: sotto la sua direzione; costrutto latineggiante, affine all’ablativo assoluto.

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41. la fortunata mole: la ben costruita mole (della carrozza). 42. ricinta: rivestita. 43. armata: protetta. 44. declini: svolti. 45. pilosi: pelosi. 46. tenta... l’ugna: chinandosi a terra, prova col dito i ferri e gli zoccoli, per assicurarsi che siano ben sistemati. 47. lei: la dama. 48. s’indìce... frequente!: viene allestita altrove una fiera frequentata. 49. inaccessi: inaccessibili. 50. cambia o merca: baratta o acquista. 51. sparso di limo: coperto di fango. 52. novo... corsieri: porta con sé il nuovo fastoso acquisto di cavalli che fremono. 53. patrie: luoghi di nascita. 54. molte lune: per molti mesi. 55. Or vedi... stame: l’ultimo nobile, quello dal comportamento più grottesco e paradossale, dedica il suo impegno a distruggere un arazzo; tesser nodi: intrecciare trame; stame: fili.

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A lui turgide ancora ambe le tasche son d’ascose materie56. Eran già queste prezioso tapeto, in cui distinti d’oro e lucide lane i casi apparvero d’Ilio infelice57: e il cavalier, sedendo nel gabinetto58 de la dama, ormai con ostinata man tutte divise in fili minutissimi le genti d’Argo e di Frigia59. Un fianco solo avanza de la bella rapita60; e poi l’eroe, pur giunto al fin di sua decenne impresa, andrà superbo al par d’ambo gli Atridi61. Ma chi l’opre diverse o i varj ingegni tutti esprimer poria62, poi che le stanze folte già son di cavalieri e dame? Tu per quelle t’avvolgi63. Ardito e baldo vanne, torna, ti assidi, ergiti, cedi64, premi65, chiedi perdono, odi, domanda, sfuggi, accenna, schiamazza, entra e ti mesci a i divini drappelli66; e a un punto empiendo ogni cosa di te, mira e conosci. da Il Giorno, a cura di D. Isella, Ricciardi, Milano-Napoli, 1969

56. ascose materie: sono i pezzi di stoffa e i fili che nasconde nelle tasche. 57. i casi... infelice: erano raffigurate le vicende (casi) della infelice Troia. 58. gabinetto: stanza. 59. le genti... Frigia: i popoli della Grecia e di Troia (raffigurati sull’arazzo). 60. la bella rapita: Elena, rapita da Paride.

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61. d’ambo gli Atridi: Agamennone, re di Micene, e Menelao, re di Sparta, figli di Atreo, che conquistarono Troia dopo 10 anni di guerra. 62. poria: potrebbe. 63. t’avvolgi: aggìrati. 64. cedi: indietreggia. 65. premi: spingi. 66. ti mesci... drappelli: mescolati ai gruppi di nobili.

inee di analisi testuale Il palazzo e la folla d’eroi Il precettore-narratore passa in rassegna la folla d’eroi che popolano il palazzo nobiliare, affinché l’alunno ne impari e riassuma in sé tutte le virtù. Anche qui opera il meccanismo antifrastico: l’ammirazione per questi personaggi è da rovesciare per comprendere il disprezzo e il ridicolo del poeta nel descriverli. La sfilata riguarda sette diverse “occupazioni”: sette, come i vizi capitali (dall’esperto in schiocchi di frusta al suonatore di trombetta, dal frequentatore trentennale di caffè al giocatore incallito, dall’intenditore di carrozze al domatore di cavalli e al distruttore di arazzi). I personaggi sono descritti con ricchezza di termini aulici, talvolta appaiati ad altri più prosaici che ne evidenziano, per contrasto, l’estrema miseria umana ed intellettuale. Abbondano le figure retoriche, finalizzate ad accentuare l’effetto ironico: perifrasi, antitesi, ripetizioni, anastrofi, metafore, iperboli ed ossimori. Fra il grottesco e il patologico Grottesca è l’assoluta serietà con cui questi eroi si dedicano alle proprie frivole e dementi imprese: e non a caso proprio sulla serietà dell’impegno il precettore insiste con l’alunno. C’è qualche analogia con la rassegna degli “occupati oziosi” del De brevitate vitae del poeta romano Seneca. Sembra esserci anche un accenno a vere e proprie patologie psicologiche, in particolare a quei fenomeni che nei manuali di psichiatria vengono definiti con i termini di manierismo e stereotipia (i manierismi sono gesti involontari ripetuti, goffi, simili ai tic; le stereotipie sono persistenti ripetizioni di movimenti, posizioni corporee o atteggiamenti mimici, oppure di parole o frasi inadeguate o senza senso apparente). Proprio verso la fine del Settecento, d’altronde, nasce la concezione della psichiatria come disciplina autonoma.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto dei versi in non più di 15 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 8 righe per ogni risposta). a. Quali aspetti della nobiltà sono qui maggiormente scherniti? Per quali ragioni? b. Quale funzione hanno i toni alti ed enfatici e le immagini eroiche? c. Che cosa rende grotteschi i personaggi? Approfondimenti 3. Nell’ambito della società attuale esistono ancora dei tipi come quelli ritratti ironicamente da Parini in questi versi? In caso affermativo, presentane una piccola galleria. 4. Nell’ambito dell’educazione dei giovani il problema del cattivo esempio è centrale: spiega di che cosa si tratta, quale attinenza ha con il testo di Parini che hai letto, e come intendeva risolverlo il poeta lombardo; accenna agli esempi del fenomeno che rilevi nella tua esperienza individuale e sociale e quali sono le tue idee per una soluzione in proposito. 5. In quali altri autori che hai incontrato e in quali opere – anche odierne ed eventualmente cinematografiche – ti sei imbattuto in una simile galleria di inetti? Presenta alcuni personaggi e indica le somiglianze e le differenze tra costoro e i protagonisti della rassegna pariniana.

L’INTERPRETAZIONE CRITICA

L’ironia come limite della poesia del Giorno

Domenico Petrini

Secondo Petrini, l’ironia – che, come la satira, attraversa il mondo poetico di Parini – rispecchia senza dubbio la forza della moralità pariniana, ma dal punto di vista artistico risulta piuttosto un impaccio, da cui si liberano via via le parti di sentito abbandono poetico. La vera ragion d’essere del Giorno è nei momenti puramente descrittivi, riguardanti le macchiette, i personaggi, le varie scene, che sono quelli artisticamente più riusciti. In questi momenti Parini si abbandona alle forme di un mondo raffinato ed elegante, spinto da un sentimento d’amore che, nonostante tutto, egli prova per l’aristocrazia, accompagnato da un velo di malinconia al pensiero che tutto quanto di raro e perfetto quel mondo contiene sta irrimediabilmente svanendo. Quel che meno vive nella poesia del Giorno è l’ironia. Il Giovin signore rimane un pretesto per raccogliere le fila dei motivi descrittivi: pretesto, perché non è uscita un’anima in cui tutto quel mondo si raccogliesse, si riflettesse, vivesse. E del resto un’anima in mezzo a questo mondo fatto di forme sarebbe stata una stonatura: l’unità più profonda del Giorno è proprio nella mobilità delle macchiette, dei personaggi, delle scene, e si risolve, si delinea, si ferma in una unità stilistica che è sempre uguale a se stessa. […] E nel Giorno è sempre così: i motivi morali cedono sempre dinanzi a quelli di colore1. […] L’ironia, non che esserne l’anima, è il limite della poesia del Giorno, che ne fa troppo spesso una cosa dell’età sua e non del mondo eterno dell’arte. È da essa che discendono e quella costruita contrapposizione di un’età eroica della nobiltà al decadimento presente; e quello spingere la descrizione, che si vorrebbe talora più rapida, ai limiti della virtuosità […]. I momenti puramente descrittivi sono quelli precisamente in cui meglio l’eleganza fine della letteratura del Giorno si fonde con un mondo con cui essa s’intona. Passa, a questo contatto, quello stridore rapido tra la perfezione dell’aggettivo, la rarità del periodo classicistico e la battuta da satira: non c’è più un Parini che orna e nasconde la mossa2 plebea, ma

1. i motivi… di colore: la varietà e l’eleganza delle descrizioni, in cui si risolve l’unità del poema, superano le ragio-

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ni morali e la funzione della satira. 2. mossa: atteggiamento, punto di vista.

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un Parini che s’incanta delle forme di un mondo che pienamente si cala nell’evidenza di una ricercatezza che è la sua stessa vita. Sono i momenti dell’oblio, ma insieme quelli dell’amore. Il riso di Parini, quel riso cupo e chiuso, scompare e nel ritmo dei versi questo mondo elegante trova una luce nuova che gli viene in pieno dalla squisita ricercatezza della forma artistica. La grazia di esso è tutta in questa perfezione di forme: l’eleganza dimentica la volgarità del mondo che velava e si ritrova forma di un mondo che la riconosce pienamente sua […]. Nascono trepidi, dai versi del Giorno, figurine e aspetti nuovi di vita, ritratti con l’incanto di un innamorato: non c’è più il plebeo che entra con le sue scarpe di contadino della Brianza e calpesta tappeti e costumi, ma c’è l’abate elegante e galante cui questo mondo sorride in rari momenti d’abbandono. La forza della moralità pariniana è in ciò, che questi momenti d’abbandono elegante nel Giorno restano echi e frammenti: la forza della sua poesia è che questi momenti ci sono. E la satira tenta invano di fermarli e sottometterli a sé: talora c’è un contrasto aspro tra i due motivi in un seguito breve di versi [...]. È che quando Parini si sente vicino a questo mondo dell’eleganza, lo vive come lontano, come stanco, con un sapore di momento che passa fuggevole nella sua delicata vivacità. È il motivo più profondo della poesia pariniana e del Giorno: bisogna coglierlo quando può districarsi dal complesso turbato della satira. da Dal Barocco al Decadentismo. Studi di letteratura italiana raccolti da Vittorio Santoli, vol. I, Le Monnier, Firenze, 1957

Pietro Longhi, Dama alla toeletta. Venezia, Museo Correr. La cipria, di cui Parini narra l’invenzione in una favola mitologica, è un elemento essenziale nella toeletta dei nobili del Settecento.

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Concetti chiave LA VITA Giuseppe Parini nasce nel 1729 a Bosisio, nei dintorni di Lecco, in Lombardia. A nove anni viene inviato a Milano a studiare presso i Barnabiti. L’anziana prozia che lo ospita vincola il lascito di una modesta rendita alla sua ordinazione a sacerdote. Nel 1752 pubblica un volume di liriche di stampo arcadico, Alcune poesie di Ripano Eupilino, ed entra nell’Accademia dei Trasformati, dove incontra nobili e illuministi lombardi, estendendo i propri interessi anche a questioni civili e sociali. Dopo più di un decennio trascorso come precettore presso le famiglie Serbelloni prima e Imbonati poi, Parini ricopre incarichi ufficiali per conto del governo austriaco, insegnando belle lettere presso le Scuole Palatine e a Brera. Dopo la morte di Maria Teresa d’Asburgo, però, il poeta si allontana dall’impegno sociale, dedicandosi sempre più alla sola letteratura. Quando nel 1796 l’armata napoleonica occupa Milano, Parini, favorevole ai princìpi egualitari della rivoluzione francese, entra a far parte della nuova municipalità di Milano, ma a causa della sua moderazione entra in contrasto con i Francesi e lascia ben presto l’incarico. Muore nel 1799, dopo il ritorno degli Austriaci a Milano. IL PENSIERO E LA POETICA Elementi chiave del pensiero di Parini sono un Cristianesimo aperto e rigoroso, l’Illuminismo moderato di cui accoglie il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini, e l’amore per i classici. Tali aspetti si ritrovano anche nella sua concezione della poesia, intesa come sintesi di moralità e diletto: la letteratura, attraverso la ricerca e la proposizione della bellezza, deve svolgere una funzione educativa. LE ODI La stesura delle Odi impegna Parini per più di un quarantennio, evidenziando l’evoluzione della sua poetica da un’iniziale impronta illuministica ad una sempre più marcata matrice neoclassica. Significativo è anche l’apporto del classicismo per quan-

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to riguarda la metrica e il linguaggio, prezioso e raffinato. Al primo gruppo di testi, composti tra il 1756 e il 1779 appartengono La salubrità dell’aria (1759), che denuncia le cattive condizioni igieniche di Milano, opponendo la vita di campagna a quella di città, e L’educazione (1764) che rievoca la mitica figura del centauro Chirone, il quale, rivolgendosi al suo allievo Achille, gli ricorda che la vera nobiltà non deriva dal sangue bensì dalle qualità morali. Del secondo gruppo fanno parte La caduta (1785), in cui Parini sottolinea con vigore la propria integrità e dignità morale e intellettuale e le odi che affrontano tematiche più personali, come Alla Musa (1795), in cui il poeta prega la dea perché torni ad ispirare un discepolo, Febo d’Adda, che ha abbandonato la poesia per prendersi cura della famiglia.

IL GIORNO Il capolavoro di Parini è un poema satirico in endecasillabi sciolti, il cui oggetto è la rappresentazione della vita frivola e oziosa degli esponenti dell’aristocrazia del tempo. Il narratore-precettore finge ironicamente di guidare il Giovin Signore nei rituali della vita mondana, indicandogli in ogni momento della giornata il comportamento più conveniente. Parini lavora dapprima a due poemetti separati, Il Mattino (1763) e Il Mezzogiorno (1765), a cui progetta di aggiungerne un terzo, La Sera. Decide poi di modificare la struttura, creando un unico poema, intitolato Il Giorno, e aggiungendo alle due sezioni già esistenti Il Vespro e La Notte, che rimarranno incompiuti. Parini usa l’ironia per mettere in ridicolo il comportamento del nobile, ma ci sono anche parti descrittive e interventi diretti che esprimono l’indignazione o la commozione dell’autore. I personaggi – figure di parassiti – sono soprattutto simboli di valori condannati dal poeta, cui egli contrappone indirettamente la plebe lavoratrice, considerata portatrice di sana operosità e di valori degni di rispetto. L’opera rientra nel gusto neoclassico del secolo XVIII e richiama a tratti le Satire degli autori latini Persio e Giovenale, pur risultando, per molti aspetti, profondamente originale.

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sercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il giovane Parini entra a far parte dell’Accademia a. dell’Arcadia. b. dei Pugni. c. dei Trasformati. d. della Crusca.

9. L’ode La salubrità dell’aria ha come tema centrale a. la denuncia delle condizioni igieniche di Milano. b. la difesa dell’integrità morale del poeta. c. la nostalgia dell’infanzia trascorsa in campagna. d. la lode delle riforme del governo milanese.

2. Nel 1762 Parini lascia il lavoro di precettore in casa Serbelloni perché a. diventa direttore della Gazzetta di Milano. b. viene ordinato sacerdote. c. diventa direttore di Brera. d. la duchessa schiaffeggia la figlia di un altro precettore.

10. Il tema dell’ode La caduta del 1785 è a. l’elogio della vita sana della campagna. b. la dignità e l’integrità morale dell’autore. c. l’esaltazione della verità e la condanna della menzogna. d. la pericolosità delle strade di Milano.

3. Quando Napoleone e i Francesi occupano Milano, Parini a. collabora, ma solo inizialmente, con loro. b. si ritira a vita privata. c. difende gli Austriaci. d. li contrasta decisamente. 4. La morte di Giuseppe Parini avviene a. nel 1799, dopo il ritorno degli Austriaci a Milano. b. nel 1799, durante l’occupazione francese di Milano. c. nel 1796, dopo il ritorno degli Austriaci a Milano. d. nel 1796, durante l’occupazione francese di Milano. 5. I tre cardini del pensiero di Parini sono a. Cristianesimo, Romanticismo e classicismo. b. anticlassicismo, Arcadia e Cristianesimo. c. classicismo, sensismo e petrarchismo. d. Cristianesimo, Illuminismo e classicismo. 6. Secondo Parini la funzione della poesia è a. edonistica in quanto mira al diletto. b. educativa in quanto mira alla formazione morale. c. finalizzata soprattutto al buon gusto e al piacere. d. sia edonistica, sia educativa. 7. La prima opera di Giuseppe Parini è a. un’ode sull’educazione. b. una raccolta di poesie d’ispirazione arcadica. c. una raccolta di poesie di ispirazione neoclassica. d. un componimento satirico contro i Barnabiti. 8. Nell’insieme delle Odi, la poetica pariniana a. rimane coerente e sempre immutata. b. evolve dall’Illuminismo al Neoclassicismo. c. rinuncia ai temi di educazione morale. d. evolve verso una sensibilità preromantica.

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11. Febo d’Adda è un poeta a. che polemizza in più occasioni con Parini. b. protagonista dell’ode Alla Musa. c. discepolo di Parini, del quale completa Il Giorno. d. di cui Parini scrive a lungo ne La caduta. 12. Il Giorno è a. un poema eroicomico incompiuto. b. un poema satirico in endecasillabi sciolti. c. un’ode in ottave di endecasillabi rimati. d. un poemetto incompiuto in tre parti. 13. Nella prefazione in prosa dell’edizione milanese, Parini dedica Il Giorno a. alla contessa Vittoria Serbelloni. b. alla Musa della Poesia. c. alla nobildonna Maria Castelbarco. d. alla dea Moda. 14. La vergine cuccia è a. la dama del Giovin Signore. b. una donna corteggiata dal precettore. c. una cagnolina trattata come una divinità. d. la cagnolina del Giovin Signore.

2 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Quali sono le principali vicende della vita di Parini? 2. Qual è la prima opera di Parini e di che cosa tratta? 3. In quale opera Giuseppe Parini spiega che cosa intende per poesia e quali sono le finalità della sua poesia? 4. Quali sono i capisaldi del pensiero e della poetica di Parini? 5. Quali sono i temi delle più significative Odi di Parini? 6. Qual è il bersaglio della satira de Il Giorno? 7. Qual è, in sintesi, il contenuto de Il Giorno? 8. A chi Parini dedica Il Giorno e perché? 9. Che cosa narra l’episodio della vergine cuccia?

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ANALISI DEL TESTO

3 Leggi il brano e svolgi gli esercizi proposti. Giuseppe Parini, nel Discorso sopra la poesia, letto all’Accademia dei Trasformati nel 1761, dichiara la propria adesione in generale alle dottrine poetiche del sensismo, conciliandole con il buon gusto arcadico e gli ideali del classicismo, e soprattutto sintetizza le argomentazioni che ispirano Il Giorno, in particolare e molto chiaramente nel celebre esordio. Egli è adunque certissimo che la poesia è un’arte atta per se medesima a dilettarci, coll’imitar ch’ella fa della natura e coll’eccitare in noi le passioni ch’ella copia dal vero. E questo è un pregio non vano, non ideale, non puerile dell’arte stessa. Le si aggiungono nondimeno altri pregi non manco reali di questo. La versificazione, lo stile, la lingua e simili, che formano la parte meccanica di lei, non meritano meno d’esser considerate; ma noi per ora le tralasceremo, bastandomi che sia chiaro come la poesia abbia facoltà di piacerne per via del sentimento, ch’è la parte più nobile, anzi l’anima e lo spirito di quest’arte. Che se altri richiedesse se la poesia sia utile o no, io a questo risponderei ch’ella non è già necessaria come il pane, né utile come l’asino o il bue; ma che, con tutto ciò, bene usata, può essere d’un vantaggio considerevole alla società. E, benché io sia d’opinione che l’instituto del poeta non sia di giovare direttamente, ma di dilettare, nulladimeno son persuaso che il poeta possa, volendo, giovare assaissimo. […] Egli è certo che la poesia, movendo in noi le passioni, può valere a farci prendere abborrimento al vizio, dipingendocene la turpezza, e a farci amar la virtù, imitandone la beltà. E che altro fa il poeta che ciò, collo introdurre sulla scena i caratteri lodevoli e vituperevoli delle persone? Per qual altro motivo crediamo noi che tante ben regolate repubbliche mantenessero dell’erario comune i teatri? [...] Il loro intento si fu di spargere, per mezzo della scena, i sentimenti di probità, di fede, di amicizia, di gloria, di amor della patria, ne’ lor cittadini; e finalmente di tener lontano dall’ozio il popolo, in modo che non gli restasse tempo da pensare a dannosi macchinamenti contro al governo, e perché, trattenuto in quelli onesti sollazzi, non si desse in preda de’ vizii alla società perniciosi. Ciò ch’io ho detto de’ componimenti teatrali, si può dir colla debita proporzione ancora d’ogni altro genere di poesia. da Tutte le opere edite e inedite di Giuseppe Parini, raccolte da G. Mazzoni, Barbera, Firenze, 1925

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Comprensione 1. Dopo aver riletto con attenzione il brano, riassumilo in non più di 10 righe. 2. Quali sono i pregi della poesia per Parini? 3. Descrivi i sentimenti che secondo Parini la poesia può evocare nei fruitori. 4. Qual è il ruolo sociale della poesia secondo l’autore? Analisi e interpretazione 5. Indica qual è il genere letterario cui appartiene questo brano. 6. Quali sono le due finalità della poesia secondo Parini e in quali passaggi del testo essi compaiono e sono esemplificati? 7. Quali elementi e quali obiettivi accomunano la poesia al teatro secondo Parini? Approfondimenti 8. La poesia per Parini è utile in quanto, pur non essendo indispensabile alla sopravvivenza, se ben usata è di grande vantaggio alla società. Tale concezione dell’uso sociale della poesia è ancora presente nella letteratura e nella cultura della nostra epoca. Indica in quali opere l’hai ravvisata. SAGGIO BREVE / ARTICOLO

4 Sviluppa uno dei seguenti argomenti in forma di saggio breve o di articolo di giornale, utilizzando come materiali di consultazione le pagine dedicate a Parini in questo volume (comprese le pagine antologiche e critiche). Dài all’elaborato un titolo coerente con la trattazione e indicane una destinazione editoriale a tua scelta. Per entrambe le forme di scrittura non superare le tre colonne di metà foglio protocollo. 1. La formazione culturale e letteraria di Parini. 2. La satira e l’impegno civile ne Il Giorno. TEMA DI ARGOMENTO STORICO

5 Svolgi la seguente traccia. Il Settecento lombardo nel quadro delle vicende italiane ed europee. TEMA DI ORDINE GENERALE

6 Svolgi la seguente traccia. La poesia e i giovani ai giorni nostri. Ritieni che la poesia sia ancora amata e coltivata dai ragazzi e svolga ancora una funzione sociale e formativa? Dopo aver riflettuto su questi interrogativi, esponi le tue opinioni.

CAP. 12 - GIUSEPPE PARINI

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CAPITOLO

13 LA

L’adolescenza trasgressiva

LA

Vittorio Alfieri

VITA E LE OPERE

Vittorio Alfieri nasce nel 1749 ad Asti, da nobili, agiati ed onesti genitori, come egli scrive nell’autobiografia. A neppure un anno di età rimane orfano di padre: la giovane madre, già vedova di un primo marito, si risposa per la terza volta. Il ragazzo trascorre l’infanzia legato affettivamente soprattutto alla madre e alla sorella maggiore, Giulia. Nell’antica dimora ad Asti, per il futuro poeta hanno rilievo il gusto del bello, la melanconia, la solitudine e un senso oscuro della morte, insieme alla tenerezza per le donne della famiglia a lui care. Iniziati gli studi con un precettore, nel 1758 lo zio e tutore Pellegrino Alfieri invia Vittorio alla Reale Accademia di Torino. Nella Vita, Alfieri si

Ritratto di Vittorio Alfieri.

LINEA DEL TEMPO: LA VITA E LE OPERE

1749 Vittorio Alfieri nasce ad Asti

1776 1766-1772 Viaggia in Italia e in Europa

1751 PUBBLICAZIONE DEL PRIMO VOLUME DELL’ENCICLOPEDIA DI DIDEROT E D’ALEMBERT

340 CAP. 13 - VITTORIO ALFIERI

DICHIARAZIONE D’INDIPENDENZA DEGLI STATI UNITI

1776-1798 Rime

1777 Conosce la contessa d’Albany, a cui rimarrà legato per tutta la vita

1778 Dona alla sorella tutti i propri beni in cambio di un vitalizio

1777 Scrive il trattato Della tirannide 1777 Virginia

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definisce come prigioniero in tale collegio militare, dove comincia a manifestare il proprio temperamento ribelle, dimostrando difficoltà ad accettare la realtà quotidiana. I suoi studi, privi di entusiasmo, sono orientati verso una superficiale cultura classicista, ispirata al modello francese. Nel 1763 muore il tutore e il ragazzo, quattordicenne, comincia a disporre delle proprie ingenti ricchezze; gli ultimi anni all’Accademia sono descritti dall’autore come un periodo di ozio totale e di dissipazione: la sua personalità individualistica, orgogliosa, attratta dalla sdegnosa solitudine, lo induce a cercare in modo esasperato l’indipendenza e a rifiutare ogni disciplina. La grandissima libertà di non far nulla, tuttavia, lo lascia insoddisfatto, ed egli cerca perciò di sottrarsi alla condizione in cui si trova. Quando esce dall’Accademia, il crescente senso di inquietudine e l’impulso alla ribellione che ne caratterizzano la personalità, e che esplodono a volte in atti impulsivi e inconsulti, sono già un chiaro segno della sua natura preromantica.

I viaggi e gli studi da autodidatta Gli inquieti vagabondaggi

La lotta con se stesso per studiare

La ripresa dei viaggi e delle avventure amorose

1781-1783 Soggiorna a Roma

Nel 1766, appena diciassettenne, Alfieri parte per un lungo viaggio in Italia, secondo la moda settecentesca del Grand Tour, in compagnia di due giovani e del loro precettore. A Napoli abbandona i compagni e prosegue da solo il vagabondaggio, spinto da una smania nemica della quiete: ovunque prova sazietà, noia, dolore. Dopo l’Italia, decide di esplorare l’Europa: risale verso Nord e si reca dapprima a Parigi, poi a Londra. Al ritorno, attraversando l’Olanda, ha una prima delusione amorosa per una donna sposata, che lo lascia addolorato al punto da meditare il suicidio. Tornato in Piemonte nel 1768, inizia a dedicarsi, da autodidatta, a profondi studi, ingaggiando un duello, basato sulla forza della volontà, contro il proprio temperamento ostile allo sforzo disciplinato. Fra le sue letture, prevalgono le opere degli illuministi francesi e le Vite parallele del biografo dell’età classica Plutarco, che ricorda come il libro che gli permette di ammirare le grandi individualità e virtù degli antichi, vissuti in un’età diversa da quella a lui contemporanea, che disprezza. Dopo un solo anno di sosta in patria, Alfieri, sempre inquieto, si rimette in viaggio verso l’Europa centrale e orientale e visita Vienna, Praga, Berlino, Stoccolma e Pietroburgo. Il suo atteggiamento di viaggiatore si fa più riflessivo: egli annota che è impossibile vivere liberi in Stati dispotici, per quanto governati in modo illuminato. In Austria, vedendo da lontano il poeta arcadico Pietro Metastasio (cfr. pag. 241 e segg.) genuflettersi di fronte a Maria Teresa d’Asburgo, Alfieri avverte il profondo distacco fra la propria concezione della vita e quella degli intellettuali illuministi e arcadici del suo tempo. Fuggendo dalla Prussia, che gli sembra un immenso

1788-1792 Soggiorna a Parigi

1782 1787-1789 Saul Pubblicazione 1784-1786 delle tragedie a Parigi Scrive il trattato Del principe e delle lettere

LA

1789 SCOPPIA RIVOLUZIONE FRANCESE

1789-1798 Misogallo

1792 Si stabilisce a Firenze

1790 Inizia a scrivere la Vita scritta da esso

1797 TRATTATO DI CAMPOFORMIO, CON CUI I FRANCESI CEDONO IL VENETO ALL’AUSTRIA

1803 Muore a Firenze

1800-1803 Commedie

1784 Mirra

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CAP. 13 - VITTORIO ALFIERI

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La poesia, gli schiavi e i tiranni

carcere (una universal caserma), Alfieri ripassa per l’Olanda e torna in Inghilterra, dove stringe una seconda relazione con una donna sposata: Penelope Pitt. La vicenda, fonte di pettegolezzi nei salotti di tutta l’Europa, si conclude con un duello fra il futuro scrittore e il marito della donna, cui segue un’altra delusione amorosa e un altro addio. Nel 1771, sempre più inquieto e malinconico, raggiunge la Spagna e il Portogallo. A Lisbona, le letture di versi, cui lo avvia un amico, provocano in lui un intenso entusiasmo per la poesia. Dopo aver conosciuto Luigi XV e Federico II, la Prussia e la Russia, il giovane abbandona gli ideali egualitari della filosofia illuministica: ritiene, infatti, l’umanità divisa in due schiere egualmente spregevoli: gli schiavi e i tiranni. Solo l’Inghilterra gli offre un’apparenza di maggiore libertà. Se ne va, tormentato e sdegnoso, vizioso e violento, dalla Svezia, che definisce orribile, come dalla Spagna, che gli appare deserta, provando rari e fuggevoli momenti di pace solo a contatto della natura mesta e solitaria, fra avventure amorose che lo lasciano sempre deluso.

Il rimpatrio e la conversione letteraria Il ritiro in se stesso

Le prime opere e il diario

L’attrazione per il teatro tragico

Il periodo senese e il trattato Della tirannide

L’incontro con la contessa d’Albany

Nel 1772, poco più che ventenne, rimpatria, e pone fine alla fase del suo giovanile vagabondare. Tornato a Torino, alterna la vita mondana alle letture dei classici latini e italiani. Gradualmente, però, abbandona la società elegante e si chiude in se stesso: va concependo per sé una figura di letterato inteso come uomo che risveglia, con i propri scritti, le coscienze assopite. Accasatosi nella capitale sabauda, si circonda di un piccolo gruppo di amici, per i quali scrive i primi testi. Preoccupato, fin dai primi anni di noviziato artistico, di analizzare le intenzioni umane su un piano morale – la sua prima operetta è etica, satirica e filosofica: l’Esquisse du jugement universel (“Bozzetto del giudizio universale”) del 1773 – e influenzato dal modello di scrittori dalla vita appartata come Michel de Montaigne (1533-1592), nel 1774 vive la propria conversione letteraria e comincia a tenere, nei Giornali, una registrazione in forma di diario dei propri pensieri. Pochi mesi prima, ha anche scritto una prima tragedia, Cleopatra. La sua esistenza gli appare tuttavia ancora oziosa e lo tormenta la tortuosa relazione amorosa con una nobildonna torinese. Dal 1773 al 1775 trascorre due anni in compagnia della donna amata, ma infine la lascia: nello stesso 1775, va in scena Cleopatra. Dopo la rappresentazione dell’opera, che ottiene un certo successo, Alfieri non abbandonerà più la vocazione di autore drammatico, scrivendo, in totale, altre venti tragedie. Esse saranno stampate in una prima edizione, comprendente solo dieci opere, a Siena, quindi in Francia: Filippo – che, a differenza delle opere maggiori, trasgredisce le unità aristoteliche di tempo e luogo –, Polinice, Antigone, Virginia, Agamennone, Oreste, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope, Saul, Maria Stuarda, La congiura de’ Pazzi, Don Garzia, Agide, Sofonisba, Mirra, Bruto primo, Bruto secondo, Alceste seconda (pubblicata postuma e così denominata in quanto seguito della traduzione dell’Alcesti di Euripide). Iniziano nel frattempo i contatti dello scrittore con la società letteraria italiana: nel 1776, egli lascia Torino per Siena, dove stringe amicizia col colto mercante Francesco Gori Gandellini. Frutto delle conversazioni fra i due è la stesura dell’importante trattato Della tirannide, che sarà stampato nel 1789, e del poemetto L’Etruria vendicata, che rievoca il tirannicidio di Alessandro de’ Medici da parte del cugino Lorenzino, nel 1537. A Firenze, nel 1777, Alfieri conosce la donna che amerà per sempre: Luisa Stolberg-Gedern, contessa d’Albany (1753-1824), sposata con Carlo Edoardo Stuart, ex pretendente di parte cattolica al trono d’Inghilterra. Dopo essersi stabilito per qualche tempo a Firenze, nel 1781 il poeta segue la contessa a Roma. Oltre a una parte delle tragedie, fra cui il Saul (1782), a Roma Alfieri compone quattro delle cinque odi che compongono L’America libera, scritte in lode dell’indipendenza dei futuri Stati Uniti d’America. Nel 1783 scoppia uno scandalo a causa della sua relazione con la contessa d’Albany, e Alfieri è costretto ad allontanarsi da Roma. Viaggia per l’Italia, vagando per molte città: incontra, fra gli altri, il preromantico Melchiorre Cesarotti (1730-

342 CAP. 13 - VITTORIO ALFIERI

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Le opere scritte in Alsazia

Le Rime

La Rivoluzione francese

L’autobiografia e la riflessione sulla natura umana

Focus

1808), del quale apprezza le traduzioni dei Poemi di Ossian, e conosce e ammira Giuseppe Parini. Dopo essersi recato in Francia e in Inghilterra, nel 1784 si ricongiunge, a Colmar in Alsazia, con la donna amata, e si stabilisce con lei nella città, fino alla fine del 1787, quando i due si trasferiscono a Parigi, ormai alla vigilia della Rivoluzione. Oltre a un altro gruppo di tragedie, in Alsazia il poeta compone varie opere in prosa: il rilevante trattato politico Del principe e delle lettere (che apparirà nel 1789), il Panegirico di Plinio a Traiano, il dialogo Della virtù sconosciuta e l’Abele, una tramelogedia, ossia l’esperimento di un nuovo genere di rappresentazione tragica, in parte recitata e in parte cantata. Nel 1789, a Parigi pubblica le Rime composte fino a quel momento (la raccolta completa apparirà postuma nel 1804) e assiste al crollo della monarchia e dell’Ancien régime, che egli ha attaccato in opere in prosa e tragedie. Inizialmente è entusiasta degli eventi rivoluzionari, che esalta nell’ode Parigi sbastigliato. La speranza di vedere nascere la libertà dalla rivoluzione viene però ben presto delusa; lo scrittore giunge a cercare di impedire la diffusione delle proprie opere, poiché non vuole essere accomunato ai rivoluzionari sanguinari e anch’essi tirannici: teme, infatti, di essere accusato di aver fatto io coro coi ribaldi, dicendo quel ch’essi dicono, e che pur mai non fanno. Nel 1790 termina la prima stesura della Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso, l’opera autobiografica. Negli anni successivi, insieme alla delusione per la Rivoluzione francese, si manifesta con particolare intensità in Alfieri il dramma di un uomo che riflette sul limite dell’umana natura, sempre infelice per una sorte avversa comune a tutti gli uomini. Sia i tiranni, sia gli eroi sono ora protagonisti di tragedie che riflettono la sua visione drammatica della realtà: gli uni e gli altri sono dei vinti. Egli guarda con crescente disgusto alle sanguinarie manifestazioni della rivoluzione dei plebei. Dopo l’assalto degli estremisti alle Tuileries nel 1792, con la Stolberg abbandona la capitale francese e, tornato a Firenze, si chiude in se stesso; si tiene in disparte dall’Italia rivoluzionaria e napoleonica e studia il greco.

LA VITA DI VITTORIO ALFIERI SCRITTA DA ESSO

Le informazioni intorno alla vita e all’opera di Vittorio Alfieri sono molto dettagliate e provengono, in gran parte, dallo scrittore stesso. Egli, infatti, stende un vivissimo ritratto di se stesso nella Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso, completata nel 1803. L’opera è divisa in due parti. La prima comprende quattro epoche: la Puerizia (nove anni), l’Adolescenza (otto anni di ineducazione), la Giovinezza (dieci anni dedicati ai viaggi e alle dissolutezze) e la Virilità (caratterizzata dallo studio e dalla letteratura). La seconda parte, che continua la quarta epoca, è costituita dal racconto degli anni dal 1790 al 1803. In questa autobiografia romanzata Alfieri ricostruisce lo sviluppo della sua personalità secondo uno schema letterario, ideale, ritenuto dalla critica poco attendibile sul piano informativo. I modelli letterari della Vita alfieriana sono i Mémoires di Carlo Goldoni e Le confessioni del filosofo Jean-Jacques Rousseau. La tradizionale interpretazione volontaristica della sua figura, nata sulla scorta di sue dichiarazioni (quale la celeberrima volli, sempre volli, fortissimamente volli), è superata dall’interesse per il dramma interiore del poeta. La Vita è un’approfondita autoconfessione e soprattutto un autoritratto ideale: per un verso vi sono narrati avvenimenti di vario tipo – incontri, amori, viaggi, letture –, per un altro vi sono riportate le sensazioni che luoghi ed eventi suscitano nell’animo dell’autore, personaggio principale e di fatto unico, presentato in una luce di eroismo, nella lotta senza sosta che lo impegna contro la società e contro il destino. Lo stile è contraddistinto da una grande varietà di toni, in sintonia anche con la diversità dei fatti narrati: a momenti più ricercati e letterari, dove si avvertono l’impronta dell’autore tragico e l’intenzione autocelebrativa, si alternano pagine più distese, scritte, come confessa lo stesso autore nell’introduzione, con spontanea naturalezza. Fra i caratteri linguistici e stilistici più rilevanti, si segnalano l’uso abbondante di suffissi alterativi (in particolare accrescitivi o vezzeggiativi), la copiosa e sempre originale aggettivazione e, soprattutto, la creazione di numerosi neologismi, come ad esempio odiosamata (coniato per un’amante), oltramontaneria (cioè “esterofilia”), sgoverno (termine che sarà ripreso da d’Annunzio) e disfranciolarsi, cioè liberarsi dall’influenza francese.

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Le ultime opere e la morte

In tale ultima fase si dedica alle satire, completandone diciassette, scrive il Misogallo (1793-1799), testo violentemente antifrancese, misto di prosa e sonetti, scrive sei commedie e compone, fino al 1799, altre Rime, cui pone termine con un’ode pindarica intitolata Teleutodia (“Canto della fine”). Muore all’improvviso nel 1803, mentre è impegnato a stendere la seconda parte della Vita. Da tempo si stava preparando alla propria fine, al punto che nell’autobiografia si riferisce a se stesso come ad un vulcano presso a spegnersi. La chiesa di Santa Croce, entro la quale, dinanzi alla tomba di Michelangelo, si era soffermato giovanissimo e che aveva ospitato le meditazioni degli ultimi anni, accoglie le sue ossa, in una tomba commissionata dalla Stolberg allo scultore neoclassico Antonio Canova.

IL Un artista difficilmente inquadrabile Elementi classicisti e illuministici

Individualismo e sensibilità preromantica

P

arole chiave

L’insofferenza per i tiranni e per le masse

PENSIERO E LA POETICA

Vittorio Alfieri, per molti aspetti estraneo alla cultura del proprio tempo, è una figura solitaria nel panorama del secondo Settecento: sia come uomo sia come letterato, egli presenta caratteristiche difficilmente inquadrabili nelle tendenze e nelle correnti di pensiero dell’epoca. Come poeta, è lontano dalle predominanti suggestioni dell’Arcadia e del Neoclassicismo, pur presentando caratteri profondamente classicisti nelle sue opere; come pensatore, sperimenta con profonda intensità la crisi degli ideali illuministici, che in lui si traduce in profonda delusione nei confronti della Rivoluzione francese, pur esaltata in un primo tempo come via da seguire per cambiare il mondo. Un elemento costante nella poetica di Alfieri è il riferimento ai modelli classici, non solo in senso stilistico, ma anche perché egli ritrova nell’antichità tutto un mondo di grandi e forti personalità, come Cesare, Bruto o Catone, delle quali non gli interessa tanto la concreta figura storica, quanto la forza morale e la tensione alla libertà, in cui egli stesso può riconoscersi. L’altro elemento, l’Illuminismo, pur assimilato entusiasticamente in giovinezza da Alfieri, viene politicamente rigettato, in quanto secondo il poeta non è stato in grado di educare gli uomini ad un forte sentire e ad una vera libertà; gli ideali di progresso e sviluppo dell’umanità attraverso la ragione gli appaiono dunque come inutili sogni: per questa via gli uomini non riusciranno mai a liberarsi da una condizione passiva e dall’abitudine al servilismo. Fortemente individualista, di natura appassionata – e anche in ciò lontano dall’Illuminismo e vicino alla sensibilità preromantica dello Sturm und Drang (cfr. pag. 393) – Alfieri elabora ideali politici e morali che nascono dal culto della libertà assoluta più che dalla riflessione e, spesso, si collocano deliberatamente al di fuori, o contro, il corso concreto della storia. Alfieri mostra una viva insofferenza nei confronti della tirannide; ma prova analogo fastidio anche nei confronti delle masse cieche e passive. Gli schiavi, in definitiva, son veramente nati a far concio, cioè a far da concime, mentre il libero scrittore, prescelto dalle Muse, ha il dovere di isolarsi dalle masse, dagli armenti, in una nobile e sdegnosa solitudine.

TITANISMO Il titanismo è uno degli atteggiamenti tipici dell’artista e dell’eroe romantico, consistente in una forma di ribellione e di sfida verso il destino, la natura, l’oppressione del potere costituito, in nome di valori assoluti e dell’affermazione senza limiti dell’individualità, fino al sacrificio della vita e al suicidio come estrema affermazione dell’ideale. Al titanismo degli eroi alfieriani fa riscontro quello di Leopardi, ad esempio nella canzone All’Italia (…io solo / combatterò, procomberò sol io, vv. 37-38) e nella Ginestra (cfr. pag. 809 e segg.: Nobil natura è quella…, v. 111 e segg.). Il termine fa riferimento alle figure mitologiche dei titani, che osarono sfidare gli dèi (fra questi, in particolare, Prometeo, che si oppose a Zeus per portare il fuoco e la civiltà agli uomini).

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Il primo spirito romantico italiano

Contraddizioni interne

Fra utopia politica e pessimismo

L’avversione per il potere L’eroe vinto dalla realtà

Il mito della poesia e la tragedia umana L’importanza dei due trattati

Alle masse costrette ad una ubbidienza servile e immerse nell’ignoranza e nella paura, Alfieri oppone aristocraticamente la grande personalità eroica, pronta a dare la vita pur di affermare la propria libertà. Il suo pensiero politico è appassionato, radicale ed astratto, espressione di un esasperato individualismo radicalmente antisociale: è ansia di totale realizzazione di sé, di integrale e illimitata affermazione del proprio io, cioè titanismo. Il motivo principale della suggestione di Alfieri consiste proprio nel fatto che egli è il primo poeta italiano che nutre in sé l’inquietudine romantica, prendendo le distanze dal pensiero settecentesco. Per questo, sul piano letterario, pur essendo considerato per molti aspetti un maestro del classicismo, può essere ritenuto il padre o il precursore della letteratura romantica in Italia. Vittorio Alfieri è anche un personaggio ricco di contraddizioni: egli si mostra aristocratico difensore dei valori del proprio mondo contro la plebe, ma anche come il primo esempio di poeta anticipatore del Romanticismo, che a tutto antepone la libertà e rifiuta ogni regola e obbligo sociale e mondano. Poeta austero e legato ad alti valori morali e civili, capace di imporsi una ferrea autodisciplina, è al tempo stesso, a volte, un avventuriero settecentesco, che trascorre gran parte della vita fra amori turbolenti, duelli e avventure. Grande è l’importanza che egli attribuisce al tema politico, ma in ultima analisi le sue tesi sono di carattere utopico e morale, e riguardano più l’individuo che la struttura sociale, verso il cui cambiamento egli nutre un radicale pessimismo, che si accentua dopo la delusione dell’esperienza della Rivoluzione francese, la quale, a sua avviso, sostituisce soltanto una tirannia con un’altra. Il pensiero alfieriano è fondato sul rifiuto dell’ottimismo illuministico, anche se illuministica è la sua prima formazione culturale, laica, antitirannica, fiduciosa nella forza illuminatrice del pensiero: egli tuttavia non attribuisce importanza all’impegno per la trasformazione della società – se si eccettua il breve periodo di entusiasmo per la Rivoluzione francese – e muta le aspirazioni progressiste degli enciclopedisti in esaltazione della assoluta libertà individuale, sulla base di un atteggiamento in cui confluiscono l’amore per i classici e i miti personali, preromantici, di eroismo e grandezza. Il mondo politico, intellettuale, morale e perfino psicologico di Vittorio Alfieri verte intorno a un tema centrale: l’avversione nei confronti della tirannide e della violenza del potere. Non emerge, però, un protagonista positivo in grado di far fronte al tiranno: la plebe oscilla fra l’accettazione della servitù e la ferocia che prepara nuove tirannidi e l’eroe stesso appare sovente un vinto, in quanto costretto a piegarsi di fronte a una realtà squallida e meschina, che impone all’individuo regole alle quali egli non può sottrarsi, se non ponendosi in disparte e ricercando la sola vera libertà: quella interiore. Di fronte a tale situazione che non consente vie d’uscita, all’individuo infatti non resta che compiere gesti esemplari: sopprimere il tiranno, uccidersi o isolarsi dalla società. Non tutti, però, sono in grado di compiere simili scelte: deriva da ciò il mito della poesia e del poeta, il cui compito è manifestare nei propri scritti l’angosciante verità della tragica condizione umana. Essa infatti, nelle opere dell’autore, oscilla sempre tra la tensione utopistica alla libertà e il pessimismo della disillusione. Fra le opere di carattere politico-filosofico di Vittorio Alfieri si distinguono i trattati Della tirannide (1777) – ispirato dalla lettura del Principe di Machiavelli, ma non privo di spunti preromantici – e Del principe e delle lettere (scritto in Alsazia, ma pubblicato nel 1789). Il pensiero di Alfieri emerge con chiarezza nelle due opere. Della tirannide presenta soprattutto i diversi aspetti del potere tirannico e i modi in cui è possibile opporsi ad esso, soffermandosi sul concetto di libertà, considerata valore assoluto, anche se le uniche soluzioni che prospetta sono l’isolamento, il suicidio o il tirannicidio. Nel trattato Del principe e delle lettere Alfieri affronta soprattutto la questione del rapporto fra intellettuale e potere, rivendicando l’autonomia solitaria del poeta e il primato della letteratura sulle altre arti.

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TERMINI CHIAVE DEL PENSIERO DI ALFIERI

LIBERTÀ

Prova insofferenza nei confronti della tirannide (che può manifestarsi sia in uno Stato assolutistico sia in uno oligarchico o democratico), ma anche verso le masse cieche e passive. La sua è un’aspirazione velleitaria alla libertà, priva di legami con situazioni storiche concrete.

NOBILTÀ

Inizialmente la ritiene corrotta dalla ricchezza e dal lusso e responsabile delle deviazioni tiranniche della monarchia illuminata, ma questa posizione radicale si attenua con il tempo.

ILLUMINISMO

Conosce il pensiero dei grandi illuministi durante i suoi viaggi in Europa, ma non ne condivide l’ottimismo politico che li spinge a collaborare con i monarchi illuminati e al loro astratto razionalismo antepone la forza delle passioni.

POETA

Compito del poeta – esaltato come figura eroica – è aiutare il popolo a prendere coscienza dei propri diritti, instillandovi il sentimento di libertà.

T1 Come vivere in un regime tirannico da Della tirannide, II, 3 Nel trattato in due libri Della tirannide (1777) l’autore, che considera la libertà un valore assoluto e illimitato, quasi anticipando le tesi anarchiche, sembra talora sottovalutare perfino la distinzione fra le diverse forme di governo: per lui non si tratta infatti di proporre riforme razionali o sostituire governi dispotici con governi costituzionali e democratici. Nel primo libro, Alfieri definisce il concetto di tirannide, individuando nella viltà e nel timore dei sudditi le condizioni che ne permettono l’esistenza; nel secondo, sostiene che l’uomo che voglia essere libero ha solo tre possibilità di fronte alla tirannide: il suicidio, il tirannicidio o l’isolamento. PISTE DI LETTURA • Come si deve comportare l’uomo libero in un regime di tirannia • Le ragioni del tenersi in disparte • La libertà interiore non può essere soppressa da alcun tiranno

Io dunque parlerò a quei pochissimi che, degni di nascere in libero governo fra uomini, si trovano dalla sempre ingiusta fortuna, direi balestrati1, in mezzo ai turpissimi armenti di coloro che nessuna delle umane facoltà esercitando, nessuno dei dritti dell’uomo conoscendo, o serbandone, si vanno pure usurpando 5 di uomini il nome2. Come vivere E, dovendo io pur dimostrare a que’ pochissimi, in qual modo si possa vivere sotto la tirannia quasi uomo nella tirannide, sommamente mi duole che io dovrò dar loro dei

1. balestrati: catapultati. La balestra è un’antica arma per il lancio di frecce o dardi. 2. turpissimi armenti... il nome: agli armenti, cioè le mandrie di buoi, appartengono coloro che, sottomettendo-

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si alla tirannide, perdono la libertà e la dignità che caratterizzano il pensiero e l’agire umano; il loro definirsi uomini è dunque un’appropriazione illecita del termine.

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Tenersi lontano da onori e lusinghe

Pensare, dire e scrivere

Non curarsi del disprezzo degli adulatori

precetti pur troppo ancora contrarj alla libera loro e magnanima natura. Oh quanto più volentieri, nato io in altri tempi e governi, m’ingegnerei di dar (non coi detti, ma coi fatti bensì) gli esempj del viver libero! Ma, poiché vano è del tutto il dolersi dei mali che sono o pajono privi di un presente rimedio, facciasi come nelle insanabili piaghe, a cui non si cerca oramai guarigione, ma solamente un qualche sollievo. Dico per tanto; che allorché l’uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno3, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un tempo stesso incapace di scuoterlo; dee allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre lontano dal tiranno, da’ suoi satelliti4, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche5, dai vizj, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura, terreno ed aria perfino, che egli respira, e che lo circondano. In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai esagerata abbastanza; in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo non tanto la propria sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo, e la purità della propria fama6; entrambe sempre, o più o meno, contaminate, allorché l’uomo in qualunque modo si avvicina alla pestilenziale atmosfera delle corti. Debitamente così, ed in tempo, allontanatosi l’uomo da esse, sentendosi egli purissimo, verrà ad estimare se stesso ancor più che se fosse nato libero in un giusto governo; poiché liber’uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile7. Se costui, oltre ciò, non si trova nella funesta necessità di doversi servilmente procacciare il vitto8, poiché la nobile fiamma di gloria non è spenta affatto nel di lui cuore dalla perversità de’ suoi tempi, non potendo egli assolutamente acquistare la gloria del fare, ricerchi, con ansietà, bollore ed ostinazione, quella del pensare, del dire, e dello scrivere9. Ma, come pensare, e dire, e scrivere potrà egli in un mostruoso governo, in cui l’una sola di queste tre cose diventa un capitale delitto10? Pensare, per proprio sollievo, e per ritrovare in quel giusto orgoglio di chi pensa un nobile compenso alla umiliazion di chi serve: dire, ai pochissimi avverati buoni11, e come tali, degnissimi di compassione, di amicizia, e di conoscere pienamente il vero: scrivere, finalmente, per proprio sfogo, da prima: ma, dove sublimi poi riuscissero gli scritti, ogni cosa allora sacrificare alla lodevole gloria di giovar veramente a tutti od ai più, col pubblicare gli scritti. L’uomo, che in tal modo vive nella tirannide, e degno così manifestasi di non vi essere nato, sarà da quasi tutti i suoi conservi12 o sommamente sprezzato, ovvero odiatissimo: sprezzato da quelli, che per non aver idea nessuna di vera virtù, stoltamente credono da meno di loro chiunque vive lontano dal tiranno e dai grandi; cioè da ogni vizio, viltà e corruzione: odiato da quegli altri, che avendo mal grado loro l’idea del retto e del bene, per esecrabile13 viltà d’animo, e reità14 di costumi, sfacciatamente seguono il peggio. Ma, e quello sprezzo di una gente per se stessa disprezzabilissima, sarà una convincente prova, che un tal uomo è veramente stimabile; e l’odio di questi altri per se stessi odiosissimi, indubitabil prova sarà, che egli merita e l’amore e la stima de’ buoni. Quindi non dee egli punto15 curare né lo sprezzo, né l’odio. Ma, se questo sprezzo e quest’odio degli schiavi si propaga fino al padrone, quel vero e solo uomo, che ne merita il nome, e i doveri ne compie, per via dello sprezzo può essere sommamente avvilito16 nella tirannide; e, per via dell’odio, può esservi ridotto a manifesto e inevitabil pericolo17. Questo libricciuolo

3. ingegno: qui il termine allude alla capacità di analizzare razionalmente la situazione. 4. satelliti: coloro che stanno intorno al sovrano per motivi di interesse. 5. onori... cariche: sono gli strumenti di corruzione di cui il sovrano si serve per ottenere obbedienza a qualsiasi costo. 6. la purità... fama: l’onestà del proprio agire. 7. poiché liber’uomo... servile: poiché ha saputo rendersi libero pur essendo vissuto in uno stato servile. 8. procacciare il vitto: guadagnarsi da vivere. 9. ricerchi... dello scrivere: il riscatto dalla sottomissione

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al potere tirannico è possibile soltanto sul terreno dell’attività intellettuale. 10. capitale delitto: perché punibile con la morte. 11. avverati buoni: accertati come persone oneste. 12. i suoi conservi: coloro che si trovano nella stessa condizione di schiavitù. 13. esecrabile: spregevole. 14. reità: empietà, malvagità. 15. punto: affatto. 16. avvilito: scoraggiato, umiliato. 17. ridotto... pericolo: considerato come un pericolo per lo Stato.

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non è scritto pe’ codardi. Coloro, che con una condotta di mezzo fra la viltà e la 55 prudenza, non se ne possono viver sicuri, venendo pur ricercati nella loro oscura e tacita dimora dalla inquirente18 autorità del tiranno, arditamente si mostrino tali ch’ei sono19; e basti per loro discolpa il poter dire, che non hanno essi ricercato i pericoli; ma che, trovatili, non debbono, né vogliono, né sanno sfuggirli. da Della tirannide, Del principe e delle lettere, a cura di A. Donati, Laterza, Bari, 1927

18. inquirente: inquisitrice.

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19. tali ch’ei sono: come sono in realtà, ossia capaci di rendersi liberi agendo coraggiosamente.

inee di analisi testuale Un messaggio di libertà assoluta ai pochissimi degni di essere detti uomini Alfieri non si rivolge alla generalità degli uomini, che sono da lui ritenuti in massima parte turpissimi armenti... che vanno pure usurpando di uomini il nome, e più avanti definiti codardi, ma solo a quei pochissimi che si possono considerare uomini degni. A opporsi al tiranno sono quindi singole individualità, anime grandi con virtù eccezionali, che vivono in una solitudine superumana. Alfieri si rammarica poi di non vivere in altri tempi e governi, dove potrebbe dare coi fatti esempi del viver libero; l’uomo libero, il nemico del tiranno, se non ha la forza sufficiente per rovesciare la tirannia, deve almeno procurarsi una severa total lontananza dalla pestilenziale atmosfera delle corti. L’utopia di Alfieri L’uomo libero di Alfieri è pensato sullo sfondo della realtà presente ma, nel ricercare il proprio io e la propria dignità, sfugge a qualunque situazione concreta. D’altronde, la gloria del fare, nella situazione attuale, è per lui impossibile. Perciò l’uomo libero deve dedicarsi al pensare, al dire e allo scrivere, ambiti che – come preciserà altrove nel trattato – sfuggono al potere del tiranno. Se i tempi li rendono utili, l’uomo libero deve pubblicare i suoi scritti, anche a rischio della vita, come sarà precisato altrove. Gli insegnamenti dell’autore non sono rivolti ai codardi, ma a coloro che, anche se sono in pericolo, hanno il coraggio di non fuggire e di mostrarsi arditamente come sono. Lo stile e il linguaggio Il linguaggio di questo brano – soprattutto a livello di scelte lessicali – è basato su un vocabolario astratto e indeterminato, da teorico puro più che da politico. I termini, le espressioni, i concetti sono privi di connotazioni storiche concrete e collocati su un piano di assolutezza, tipico di tutto il pensiero alfieriano. L’autore, ispirandosi a Machiavelli, argomenta per dilemmi astratti, procedimento che non è mai usato dai pensatori illuministi.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del testo alfieriano proposto. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A quali uomini si rivolge l’autore? b. Quali consigli offre Alfieri all’uomo libero, nel caso non possa abbattere il tiranno? Analisi e interpretazione 3. A quale genere letterario appartiene il testo proposto e quali elementi lo rivelano? 4. Quali sono le figure retoriche che maggiormente caratterizzano il testo? 5. Analizza l’uso degli aggettivi qualificativi contenuti nel brano, distinguendoli per tipologia grammaticale, frequenza e posizione rispetto al soggetto. Approfondimenti 6. Il pensatore austriaco Karl Popper (1902-1994) scrive: Io credo […] che, sotto una tirannide, può davvero non esserci alcuna altra possibilità [di scacciare il tiranno] e che una rivoluzione violenta può essere giustificata. Ma credo anche che qualsiasi rivoluzione del genere debba avere come scopo soltanto l’instaurazione di una democrazia (da La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996). Tenendo conto di tale affermazione, scrivi (in non più di tre colonne di metà foglio protocollo) e intitola opportunamente una intervista immaginaria a Popper, il cui argomento centrale riguardi i punti di contatto e le diversità fra la sua concezione e quella di Vittorio Alfieri a proposito della lotta alla tirannide.

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

Alfieri, uomo solitario e sradicato

Natalino Sapegno

Il critico Natalino Sapegno conduce un’analisi sociologica dell’ideologia alfieriana e conclude che essa è, in ultima analisi, una posizione antipolitica, inefficace dal punto di vista pratico e lontanissima, quindi, dalle idee politiche dell’Illuminismo. Il dilettantismo aristocratico, che sfiora, senza approfondirli e senza vagliarli alla prova di una situazione reale, i temi della problematica europea del ’700; la presenza di un temperamento orgoglioso e ribelle e al tempo stesso schivo e scontroso, scarsamente proclive1 ai contatti umani; la fedeltà infine aspramente e volitivamente conquistata a una tradizione letteraria, che è fra tutte la più “chiusa” e la più povera di radici popolari, si alleano in lui a costituire il prototipo di un radicalismo intellettuale esemplarmente coerente nei suoi limiti e ben definito nei suoi termini di estremo individualismo, di rivoluzionarismo astratto e di protesta meramente verbale. [...] È su questo terreno di cultura astratta che sorge e si sviluppa quella che fu chiamata l’antipolitica alfieriana; quel suo modo singolare di accogliere ed elaborare talune parziali risultanze della civiltà illuministica, di riprenderne ed isolarne taluni motivi di libertà, [...] elevandoli a quel grado di estrema purezza che li trasforma in idoli astratti e sublimi e al tempo stesso toglie ad essi ogni efficacia sul terreno pratico. Alla concezione fortemente politica [...] degli illuministi Alfieri contrappone la sua dialettica astratta fino all’assurdo di tirannide e libertà, in cui i due termini finiscono col confondersi e far tutt’uno; alla cauta e prudente riflessione dei “gelati filosofanti”, la prepotenza del suo sentimento; al loro ottimismo operante e articolato nella realtà, il suo eroico quanto infecondo pessimismo. Potrà così esaltarsi nella consapevolezza della sua fiera coerenza; concedersi l’illusione di una guerra combattuta in ogni tempo con il medesimo ardore, senza patteggiamenti e compromessi, contro ogni specie di tiranni. Di fatto la sua posizione è fin dal principio inconsapevolmente reazionaria. L’ignoranza e il rifiuto di ogni distinzione gli impediscono di scorgere nel processo reale le istanze veramente e concretamente progressive; più tardi la sua fedeltà, generosa e commovente fin che si vuole, a un ideale purissimo ed inattuabile e la sua inettitudine a rendersi conto delle contingenze e delle dure necessità di una lotta senza quartiere lo condurranno addirittura ad avversarle. Giustamente la critica più recente ha sottolineato il carattere fondamentalmente anarchico della sua polemica, che non è liberale, ma libertaria; e si tratta invero di quell’anarchismo, inteso in largo senso, che è sempre presente ed implicito nell’atteggiamento dell’intellettuale radicale. Giustamente si è insistito sulla sua totale incapacità di elaborare piani politici: invero egli non fa che esasperare un istinto primordiale di insofferenza e di rivolta, e il suo atteggiamento si esaurisce in un indeterminato anelito rivoluzionario che non trova posto nella storia terrestre degli uomini. La sua libertà è negazione della storia, può vivere solo fuori di essa, ovvero al suo limite. Non a torto infine si è parlato, nei suoi riguardi, di un’esigenza preromantica […]: Alfieri potrà giungere a contrapporre il cuore alla fredda ragione; “l’ignoranza e la poesia”, alla filosofia; all’uomo che riflette e misura le proprie azioni alla stregua della realtà, quello invece che si abbandona agli impulsi dell’estro e dell’entusiasmo, il poeta, l’“uomo vivissimamente sentente”, che “vive d’amore” e “l’amore lo fa Dio”. Ma proprio in questo irrazionalismo ed individualismo esasperato è la misura del suo distacco dalla realtà, del suo sterile orgoglio di letterato. da Alfieri politico, in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Laterza, Bari, 1963

Monumento a Vittorio Alfieri ad Asti.

1. proclive: propenso, incline.

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T2 Il divino impulso dello scrittore da Del principe e delle lettere, III, 6 Il terzo libro del trattato Del principe e delle lettere è dedicato alle ombre degli scrittori liberi dell’antichità, tra i quali Alfieri vive col desiderio e con la mente. Un analogo sentimento di estraneità al proprio tempo è prerogativa di uno dei modelli più amati da Alfieri, Francesco Petrarca, il quale, nell’epistola Posteritati, così si esprime: questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che […] sempre avrei preferito d’esser nato in qualunque altra età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in altre. Nel passo proposto, Alfieri, ponendo al centro del discorso il divino impulso dello scrittore, teorizza un’idea di letteratura libera, alta, assoluta, frutto di una grande passione e di un desiderio incontenibile di gloria ed eccellenza. Il suo scrittore ideale è un autentico eroe, dai contorni preromantici. PISTE DI LETTURA • Il desiderio di grandezza • Come riconoscere la propria natura • Tono didascalico

Annoverate ho finora tutte le diverse classi di uomini sommi, che siano da noi conosciute: letterati, scienziati, politici, legislatori, artisti, capitani, capi-setta, santi; e peranche v’ho incluso i principi stessi; per quanto mai possa essere grande questa specie, che tanti grandi uomini d’ogni sopraccennato genere impedisce1 e distrugge. Ma, di quanti ne ho annoverati, di tutti dico, che sommi veramente non furono mai, né sono, né saranno, né potranno mai essere in nessuna delle nomate2 classi coloro, che a divenir sommi non avranno avuto per prima base l’impulso naturale. È questo impulso un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace, né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto, e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non essere nulla. Più laudevole e maggiore debb’essere questo impulso, in proporzione della grandezza del fine che egli si propone, e della grandezza dei mezzi che adopera per conseguirlo. Ma da questo immoderato amore di giovare a se stesso con la gloria, non dee né può mai andarne disgiunto l’amore dell’utile altrui. Da questo utile, ampiamente provato coi fatti, si aspetta poi in premio quella testimonianza della propria superiorità, che spontaneamente uscendo dalle bocche degli uomini liberi, sola costituisce la vera fama e la gloria di chi n’è l’oggetto. […] Questo divino impulso è una massima cosa, senza la quale nessun uomo può farsi sommo davvero. […] La grandezza Ma, parlando io qui delle lettere più che d’ogni altro genere di umana grandezdegli scrittori za, mi conviene3 dimostrare quale e quanta influenza abbia sovr’esse questo naturale impulso negli scrittori. Ed è questo un raro e prezioso privilegio delle lettere sovra tutti gli altri rami dell’umana grandezza, che chi ha veramente questo impulso, e, avvedendosene in tempo, sottrar lo sa dalle ingiurie4 e danni che arrecare gli possono sì l’altrui autorità e protezione, come il proprio ozio, bisogno, e timore; quegli5 può fare ogni più eccellente e somma cosa da se stesso. Questa divina arte dello scrivere, ella è pure innegabilmente per se medesima la più indipendente di tutte, come già ho dimostrato nel libro secondo; e la più innocente ad un tempo, poiché a nessuno può recar danno, se non al L’impulso naturale

1. impedisce: ostacola. 2. nomate: nominate. 3. mi conviene: devo.

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4. ingiurie: offese. 5. quegli: lo scrittore.

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vizio; e la più utile in somma, poiché a tutti può, e dee voler sommamente giovare. […] Il primo obbligo dunque di chi si destina6 scrittore, egli è d’imparare a conoscere in se stesso questo sublime impulso, e, conosciuto, a dirigerlo. Appurando così i proprj suoi mezzi, ove egli senta vivamente in se stesso la evidente certezza di un tale impulso, fermamente dee credere che egli tutto farà da se stesso e che ogni protezione potrà nuocergli, e nessuna giovargli. La conoscenza Ma, come mai potrà il candidato scrittore conoscere se egli abbia, o no, questo di se stessi impulso? dai seguenti sintomi. Se egli, nel leggere i più sublimi squarci dei più sublimi autori, altro non sente nascere in sé che commozione e diletto, egli è come i molti che stupidi non sono: se vi si aggiunge la maraviglia, egli può giustamente riputarsi qualche cosa più; ma però ancora minore dello scrittore ch’egli ha fra le mani, e delle descritte cose; e quindi egli è nato soltanto per leggere, e pensare da sé: ma, se egli, in vece della semplice maraviglia, si sente a quella lettura accendere nel cuore come da improvvisa saetta un certo sdegno generoso e magnanimo, che in nulla sia figlio d’invidia, e che pure denoti assai più che emulazione7; costui chiuda il libro, si faccia libero se tale ei non è, che8 egli ben merita d’esserlo; e scriva costui, e non imiti, ch’ei sarà grande e imitato. Questa nobile ira non può nascere, se non da un tacito e vivissimo sentimento delle proprie forze, che a quel tratto di sublime9 si sviluppa e sprigiona dalle più intime falde dell’animo: ella è questa la superba e divina febbre dell’ingegno e del cuore, dalla quale sola può nascere il vero bello ed il grande.

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da Della tirannide, Del principe e delle lettere, a cura di A. Donati, Laterza, Bari, 1927

6. si destina: si propone di diventare. 7. che in nulla… emulazione: che non derivi affatto dall’invidia per l’autore che si sta leggendo, e che denoti qual-

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cosa in più di una semplice volontà di emulazione. 8. che: visto che. 9. a quel tratto di sublime: alla lettura di pagine sublimi.

inee di analisi testuale L’impulso naturale del genio Tra gli uomini, in qualunque campo si svolga la loro attività (sono citati, fra gli altri, letterati, politici, santi), nessuno può distinguersi se non grazie all’impulso naturale: una sorta di tensione continua verso le grandi imprese, che non ammette cedimenti. Anche nella letteratura il naturale impulso è fondamentale: chi lo possiede può fare ogni più eccellente e somma cosa da se stesso, a patto che lo riconosca per tempo e lo sappia salvaguardare dai danni che gli possono arrecare il potere costituito oppure l’ozio o il bisogno o il timore. Lo scrivere è ritenuto una divina arte, per sua natura la più indipendente, la più innocente, la più utile. Il sublime impulso si manifesta con precisi sintomi. Il primo compare quando si leggono gli scritti dei più sublimi autori. Quelle pagine – che suscitano commozione e diletto in molti, e meraviglia in un gruppo più ristretto di lettori – producono in pochi eletti l’improvvisa saetta di uno sdegno generoso e magnanimo, una nobile ira che è chiaro segnale di eccezionalità. Chi si trovi in questa rara condizione, deve mettere a frutto la propria superba e divina febre dell’ingegno e del cuore, tralasciare l’imitazione dei classici e dare avvio ad una nuova tradizione, scrivendo opere che, a loro volta, diventeranno classici per le generazioni future. Dall’Illuminismo al Preromanticismo L’eroe-genio teorizzato in queste pagine è lontano dalle teorie illuministe e ricorda da vicino l’immagine che il poeta costruisce di sé nella Vita. A formare questa eccezionale personalità di uomo e di artista concorrono elementi di diversa provenienza. Molto c’è di preromantico: l’idea dell’arte che nasce spontaneamente dall’impulso, non dalla ragione, e implica perciò stesso la figura del genio creatore; l’estetica del sublime; un sentimento che si potrebbe definire come insoddisfazione perenne che deriva dalla tensione verso l’alto, verso l’infinito.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riscrivi il brano in italiano moderno. 2. Riassumi il passo in non più di 15 righe. 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. In che cosa consiste, secondo Alfieri, l’impulso a diventare “grandi” che si distinguono dagli altri? b. In che modo l’individuo può scoprire se ha il talento dello scrittore? c. Quali sono i tipi di lettore e come si devono comportare? Analisi e interpretazione 4. Analizza il testo dal punto di vista stilistico-formale, ricercando in particolare le figure retoriche e motivandone l’utilizzo da parte dell’autore. 5. Quali sono le caratteristiche fondamentali dello stile di Alfieri nel passo proposto? 6. Qual è il registro del passo che hai analizzato? Approfondimenti 7. Per quali caratteristiche che si ricavano dal testo proposto il pensiero poetico di Vittorio Alfieri può essere considerato preromantico? 8. Leggendo i grandi classici tu personalmente hai provato commozione e diletto, meraviglia o quello che Alfieri nota: l’improvvisa saetta di uno sdegno generoso e magnanimo, una nobile ira, segno di una “superba e divina febbre dell’ingegno e del cuore”, oppure sei rimasto annoiato o indifferente? Analizza le tue reazioni alla lettura dei “grandi” e stendi una relazione dettagliata in proposito.

LE RIME Le Rime di Vittorio Alfieri rappresentano, secondo la critica, il miglior canzoniere del Settecento italiano. La raccolta è costituita da 351 fra sonetti, canzoni, odi ed epigrammi, composti fra il 1776 e il 1799. Una prima edizione delle Rime risale al 1789; la pubblicazione integrale, postuIl percorso delle Rime ma, è del 1804. Nelle prime Rime si può individuare e seguire passo passo l’apprendistato stilistico di Alfieri. In esse la misura classica è chiamata a filtrare e bilanciare sia le manierate raffinatezze di gusto arcadico, sia gli impeti passionali che contraddistinguono la personalità dell’autore. Le Rime della maturità, invece, sono spesso espressione di un profondo sentimento di solitudine e di malinconia. Rappresentano l’approdo a un ideale classico di pacata contemplazione, benché non privo di sensibilità preromantica: l’individualismo vi è dominante, ma spesso come segno di una raggiunta coscienza di integrità e coerenza morale, più che di una forte tensione eroica. I temi sono ampi e vari: il poeta sviluppa riflessioni in versi trattando di politica I temi delle liriche e di letteratura, dialoga con i grandi del passato e, soprattutto, esprime la propria vena malinconica e dà spazio a questioni di carattere autobiografico. L’espressione del sentimento si avvicina spesso all’anticipazione del gusto romantico, ma è il petrarchismo a fornire modelli stilistici, ritmici e lessicali. Il motivo Il motivo centrale delle Rime è la riflessione autobiografica, in una sorta di diacentrale rio interiore in versi, in cui si riflettono i tratti fondamentali della complessa e tormentata personalità dell’autore: D’ostinato rimar la fonte ignoro; / so, ch’io tacer non posso. Anche tale concezione sentimentale della poesia è di natura romantica. La riflessione Intensamente romantici sono alcuni fra gli ultimi versi, quali Malinconia dolcisautobiografica sima, che ognora / fida vieni e invisibile al mio fianco, / tu sei pur quella che vieppiù ristora / (benché il sembri offuscar) l’ingegno stanco, che culminano nel sonetto in cui Alfieri disegna un autoritratto che ha le caratteristiche di una vera e propria epigrafe: Uom di sensi, e di cor, libero nato, / fa di sé tosto indubitabil mostra. / Or co’ vizi e i tiranni ardito ei giostra, / ignudo il volto e tutto il resto armato; / […] Cede ei talor, ma ai tempi rei non serve; / aborrito e temuto da chi regna, / non men che dalle schiave

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alme proterve. / Conscio a sé di se stesso, uom tal non degna / l’ira esalar che pura in cor gli ferve; / ma il sol suo aspetto a non servire insegna. Il modello letterario petrarchesco e le varianti

Il principale modello letterario delle Rime è il Canzoniere di Petrarca, che Alfieri rilegge direttamente, senza la mediazione del petrarchismo rinascimentale e dell’imitazione arcadica. Dallo stile di Petrarca egli desume l’esigenza della misura, del rigore classico e dell’elaborazione formale, come strumenti imprescindibili per filtrare il magma confuso delle passioni e giungere ad esprimerle in maniera artisticamente composta. Alfieri si rifà però anche a Dante e in genere ai testi trecenteschi: ciò determina sia la particolare lingua delle Rime, che si caratterizza per il suo arcaismo, sia lo stile, che è spesso duro e comunque assai lontano dai modi armoniosi ed eleganti propri della poesia settecentesca. In tali modelli si innestano, come varianti principali, le particolarità stilistiche titaniche e preromantiche proprie dell’autore.

T3 In fuga da un’epoca vile da Rime, CLXXIII Questo sonetto viene composto il 26 agosto 1786, durante un viaggio che Alfieri compie in Alsazia per raggiungere la contessa d’Albany. Il poeta descrive se stesso sullo sfondo di un paesaggio: nei versi prevalgono le tinte forti e drammatiche. Schema metrico: sonetto, con rime ABBA, ABBA, CDC, DCD. PISTE DI LETTURA • La solitudine e il contatto con la natura danno pace e conforto • Il poeta si sente straniero al proprio tempo • Tono bucolico, malinconico e anche drammatico

Tacito orror1 di solitaria selva di sì dolce tristezza il cor mi bea2, che in essa al par di3 me non si ricrea4 tra’ figli suoi5 nessuna orrida6 belva. 5

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E quanto addentro più il mio piè s’inselva7, tanto più calma e gioja in me si crea; onde membrando8 com’io là godea, spesso mia mente poscia si rinselva9. Non ch’io gli uomini abborra10, e che in me stesso mende11 non vegga, e12 più che in altri assai; né ch’io mi creda al buon sentier13 più appresso14:

1. Tacito orror: silenzioso senso di orrore. 2. mi bea: mi rende lieto. 3. al par di: come. 4. si ricrea: si diletta. 5. figli suoi: gli animali che vivono nel bosco. 6. orrida: selvaggia. 7. s’inselva: si inoltra nel bosco.

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8. onde membrando: per cui ricordando. 9. poscia si rinselva: ritorna di nuovo nel bosco. 10. abborra: detesti, odi. 11. mende: difetti. 12. e: anzi. 13. buon sentier: si allude alla via della virtù. 14. appresso: vicino.

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ma, non mi piacque il vil mio secol mai: e dal pesante regal giogo15 oppresso16, sol nei deserti tacciono i miei guai17. da Rime, a cura di F. Maggini, Casa d’Alfieri, Asti, 1954

15. regal giogo: tirannide. 16. oppresso: può essere riferito al secol o al poeta stesso.

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17. sol… guai: soltanto nei luoghi solitari si placano le pene del mio cuore.

inee di analisi testuale Insofferenza titanica e dolce tristezza Il rapporto del poeta con l’ambiente naturale e la descrizione stessa del paesaggio sono, in questo sonetto, molto lontani dal gusto arcadico e anche, nei toni, dal modello petrarchesco. Alla base del sentimento alfieriano albergano infatti una sensibilità ribelle e tormentata e un’insofferenza titanica verso ogni limitazione e compromesso: non solo, dal punto di vista politico, nei confronti delle diverse forme di regal giogo e di dispotismo, ma anche, dal punto di vista personale, nei confronti dei vincoli imposti dall’esistenza terrena (anche se quest’ultimo aspetto, qui, è implicito). Nonostante l’orror dell’ambiente naturale (anzi, proprio grazie ad esso), il poeta vive un momento di dolce tristezza, di calma e gioja, un benessere più intenso di quello che può trovare una belva; l’ossimoro dolce tristezza sottolinea l’idea preromantica della nobiltà della sofferenza e della solitudine come unica soluzione per un uomo libero costretto a vivere in un “secolo vile”. Lo stile Nelle quartine predomina la descrizione dell’ambiente naturale e degli effetti da esso prodotti nell’animo del poeta; nelle terzine subentra un momento più meditativo, che culmina nel grido dell’animo alfieriano e nella sentenza finale. È significativa la presenza di suoni aspri (termini contenenti consonanti doppie – orror, tristezza, orrida, addentro, spesso, abborra, stesso, assai, appresso ecc. – potenziati nelle terzine dalla posizione in rima), alternati a suoni dolci (soprattutto nelle rime delle quartine), sottolineati da allitterazioni (solitaria selva di sì...) e mutamenti di ritmo, ora più inarcato ora più scorrevole. L’opposizione fra l’asprezza dell’ambiente e la dolcezza che esso comunque induce nell’animo del poeta è evidente soprattutto a livello lessicale, dove si contrappongono e si intrecciano termini negativi (orror, solitaria, tristezza, orrida) con termini positivi (tacito, dolce, mi bea). Numerosi sono i richiami alla tradizione lirica. In particolare, la solitaria selva, spaventosa e silenziosa, riprende un’immagine petrarchesca (Canzoniere, 176: un solitario orrore / d’ombrosa selva…), arricchita da una reminiscenza dantesca – la selva oscura – accentuata dall’insistenza sui termini in rima selva, belva, rinselva.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Svolgi la parafrasi del sonetto, aiutandoti con le note. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 6 righe per ogni risposta). a. In quante parti si può dividere il sonetto? b. Quali ne sono i temi salienti? c. Nel testo sono presenti richiami alla tradizione lirica: quali? Approfondimenti 3. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti ai versi: Alfieri in fuga da quello che egli ritiene un “secol vile”.

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LE

Caratteristiche comuni

Chiavi di lettura, ambientazione e temi

Filippo

Le tragedie di libertà

Le fasi della realizzazione

Caratteristiche stilistiche e strutturali

TRAGEDIE

Secondo i più recenti studi filologici, le tragedie di Alfieri sono ventuno, anche se nell’edizione parigina del 1789, curata dall’autore, ne risultano pubblicate diciannove, per l’assenza della Cleopatra, ripudiata, e dell’Alceste seconda (1788), apparsa postuma. Le tragedie hanno alcune caratteristiche comuni: sono scritte in endecasillabi sciolti e hanno una struttura che, salvo rare eccezioni – in ciò esemplare il Filippo – segue le regole aristoteliche, con divisione in cinque atti e rispetto delle unità di luogo, di tempo e d’azione. Le opere alfieriane si possono leggere sia in chiave autobiografica, quale rappresentazione dello scontro titanico fra l’io e il mondo, tra l’eroe poeta e il tiranno, sia in chiave universale, in quanto simbolo della lotta dell’uomo contro il potere, inteso a volte come destino. L’ambientazione storica delle vicende è estremamente varia e la materia può rifarsi al mondo greco o latino, a narrazioni bibliche, a episodi della storia medievale o rinascimentale. Comuni sono tuttavia i ricorrenti temi di fondo, che prendono spunto dagli eventi per sviluppare tematiche esistenziali. Il nodo principale è comunque sempre il conflitto fra l’aspirazione alla libertà dell’eroe e l’oppressione esercitata dalla tirannide, intesa in senso ampio (il destino, la costrizione sociale, la passione incontrollabile). La trama del Filippo (1775), ad esempio, è ispirata alla descrizione resa da Tacito delle vicende dell’imperatore Tiberio, ma ha per protagonista re Filippo II di Spagna. Egli, rimasto vedovo, sposa per ragioni di Stato Isabella di Valois, di cui suo figlio Don Carlos è profondamente innamorato. Filippo fa accusare Don Carlos di tradimento; il figlio si uccide, e Isabella ne segue il destino, trafiggendosi con il pugnale del marito. I personaggi sono storici, ma la vicenda, che avrà ampio credito in età romantica, è leggendaria e nasce dalla coincidenza storica della morte concomitante di Don Carlos e Isabella, avvenuta per entrambi nel 1568. Spesso quelle alfieriane sono tragedie di libertà – come Alfieri stesso le definisce – in cui alla figura del tiranno si contrappone la tensione verso la libertà dell’eroe: tale aspirazione non ha mai possibilità di realizzarsi e conduce al suicidio o, comunque, alla sconfitta del protagonista. Per quanto concerne le modalità di realizzazione delle tragedie, nella propria autobiografia lo scrittore individua tre fasi nella produzione: l’ideazione, consistente in una schematica elaborazione della sintesi della vicenda, suddivisa in atti e scene; la stesura, ossia la scrittura dei dialoghi sotto la spinta emotiva e creativa, che prevede la registrazione dei pensieri così come si presentano alla mente; la verseggiatura, vale a dire l’accurata e definitiva trasposizione in versi dei testi precedentemente scritti in prosa. Le caratteristiche stilistiche e strutturali essenziali delle tragedie alfieriane sono delineate dall’autore stesso in una lettera del 1783, e consistono nella concentrazione della vicenda su un unico tema e su pochi personaggi, con conseguente semplificazione dell’intreccio; nell’eliminazione di colpi di scena o digressioni che distraggano l’attenzione dalla vicenda principale; nell’assenza della verosimiglianza storica o ambientale; nel ritmo incalzante dell’azione e nella scelta di protagonisti di indiscussa grandezza, in quanto personaggi noti della storia o del mito. Tali elementi riconfermano che il principale tratto distintivo delle tragedie alfieriane consiste, in primo luogo, nella volontà dell’autore di mettere in scena un conflitto di carattere morale, psicologico o politico, del quale i personaggi diventano incarnazione. Nanine Vallain, La libertà, 1793-1794. Castello di Vizille, Museo della Rivoluzione francese.

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Focus

ALCUNE TRAGEDIE DI ALFIERI

Di seguito presentiamo brevemente alcune delle principali tragedie di Alfieri. Al Filippo (1775), di ambientazione storica, segue un gruppo di tragedie di argomento classico-mitologico. Il Polinice (1775) e l’Antigone (1776) sono ambientate a Tebe e ispirate alla vicenda dell’amore incestuoso tra Edipo e la madre Giocasta. Nel Polinice i due figli di Edipo, Polinice ed Eteocle, dominati da un’irrazionale brama di potere, istigati da Creonte, fratello di Giocasta, si scontrano a morte. La vicenda continua nell’Antigone, modellata sull’omonima tragedia di Sofocle: il tiranno Creonte ordina di non dare sepoltura a Polinice, ma Antigone, anche lei figlia di Edipo, gli disubbidisce, spinta da una disperata e assoluta ansia di libertà, e viene giustiziata. Ideate entrambe nel 1776, Agamennone e Oreste si ispirano all’Orestea di Eschilo e al Tieste e all’Agamennone di Seneca. Nell’Agamennone Clitennestra, moglie del re, durante la lunga assenza del marito per la guerra di Troia, è diventata l’amante di Egisto; quando Agamennone ritorna in patria, istigata dall’amante, lo uccide. Nell’Oreste il protagonista è invece Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, che cerca vendetta nei confronti di Egisto, usurpatore del trono paterno: giunto ad Argo, Oreste ucciderà lui e la madre Clitennestra. La Virginia, La congiura de’ Pazzi e il Timoleone sono tipiche tragedie della libertà, composte da Alfieri in un periodo di acceso furore antitirannico e libertario, fra il 1777 e il 1780, contemporaneamente al trattato Della tirannide. Virginia, la cui vicenda è tratta da Tito Livio, è ambientata nell’antica Roma repubblicana. La congiura de’ Pazzi prende spunto da un episodio storico del 1478 raccontato nelle Istorie fiorentine di Machiavelli: Raimondo de’ Pazzi, che si ribella a Lorenzo de’ Medici, e si uccide piuttosto che cadere nelle mani del tiranno. Nel Timoleone, il cui argomento è tratto dalle Vite di Plutarco, c’è lo scontro all’ultimo sangue fra un tiranno, Timofane, signore di Corinto, e un eroe della libertà, il fratello Timoleone: quando il tiranno è ferito a morte dai congiurati guidati da Timoleone, egli perdona il fratello, che a sua volta, disperato, si pente dell’omicidio.

I PRINCIPALI CARATTERI DELLE TRAGEDIE

ELABORAZIONE

Tre fasi di lavorazione: ideazione, stesura in prosa e verseggiatura.

STRUTTURA

Rispetta le convenzioni classiche del genere e le tre unità aristoteliche: in cinque atti, unica è l’azione principale, che si svolge in un solo luogo e nell’arco di ventiquattro ore.

ARGOMENTI

In prevalenza classico-mitologici (Polinice e Antigone, Agamennone e Oreste, Virginia, Mirra), ma anche tratti dalla Bibbia (Saul) o dalla storia (Maria Stuarda, Bruto).

PERSONAGGI

Fuori dai limiti della realtà quotidiana e ordinaria, sono uomini e donne eccezionali, spesso caratterizzati da profonda solitudine e oppressi da eventi di grande drammaticità.

TEMI

Vero fulcro di tutte le tragedie è la libertà, che può essere politica o esistenziale.

STILE

Solenne, severo e misurato, tiene imbrigliato il magma delle passioni e delle emozioni.

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T4 La composizione delle tragedie da Vita scritta da esso, IV, 4 Narrando il Secondo viaggio letterario in Toscana, compiuto per colmare le proprie lacune culturali e soprattutto linguistiche, Alfieri interrompe ad un certo punto il racconto e lascia spazio ad una digressione di fondamentale rilievo poetico, con cui spiega il proprio modo di operare nella stesura delle tragedie. PISTE DI LETTURA • Una digressione di argomento poetico • Gli esempi classici • Tono didascalico

Secondo viaggio letterario in Toscana

Ideare Stendere

Verseggiare

E qui per l’intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri1 con cui ho sempre dato l’essere alle2 mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo3, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia4 farne quasi l’estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della5 traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando6 in prosa come viene la tragedia intera7, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto8 badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere9 tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia10 non v’è nell’idearla e distenderla11, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori. Questo meccanismo io l’ho osservato in tutte le mie composizioni drammatiche cominciando dal Filippo, e mi son ben convinto ch’egli è per sé stesso più che i due terzi dell’opera. Ed in fatti, dopo un certo intervallo, quanto bastasse a non più ricordarmi affatto di quella prima distribuzione di scene, se io, ripreso in mano quel foglio, alla descrizione di ciascuna scena mi sentiva repentinamente affollarmisi al cuore e alla mente un tumulto di pensieri e di affetti che per così dire a viva forza mi spingessero a scrivere, io tosto riceveva12 quella prima sceneggiatura per buona, e cavata dai visceri del soggetto13. Se non mi si ridestava quell’entusiasmo, pari e maggiore di quando l’avea ideata, io la cangiava od ardeva. Ricevuta per buona la prima idea, l’adombrarla14 era rapidissimo, e un atto il giorno ne scriveva15, talvolta più, raramente meno; e quasi sempre nel sesto giorno la tragedia era, non dirò fatta, ma nata. In tal guisa16, non ammettendo io altro giudice che il mio proprio sentire, tutte quelle che non ho potuto scriver così,

1. respiri: fasi. 2. dato l’esser alle: dato vita alle, creato le. 3. il beneficio del tempo: il tempo trascorso tra una fase e l’altra è utile a riesaminare l’opera. 4. prosaccia: cattiva prosa, bozza. 5. a norma della: seguendo le indicazioni della. 6. dialogizzando: scrivendo i dialoghi. 7. intera: finita. 8. punto: minimamente.

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9. scernere: distinguere e scegliere. 10. tragedia: azione tragica. 11. distenderla: è equivalente di stendere spiegato prima. 12. riceveva: prendevo, consideravo. 13. cavata... soggetto: ricavata dal contenuto profondo, essenziale del progetto iniziale. 14. l’adombrarla: metafora per “trasporla in versi”. 15. e un atto... scriveva: e ne scrivevo un atto al giorno. 16. guisa: modo.

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di ridondanza e furore17, non le ho poi finite; o, seppur finite, non le ho mai Alcuni esempi poi verseggiate. Così mi avvenne di un Carlo Primo che immediatamente dopo il Filippo intrapresi di stendere in francese; nel quale abbozzo a mezzo il terz’atto mi si agghiacciò sì fattamente il cuore e la mano, che non fu possibile alla penna il proseguirlo. Così d’un Romeo e Giulietta, ch’io pure stesi in intero, ma con qualche stento, e con delle pause. Onde più mesi dopo, ripreso in mano quell’infelice abbozzo mi cagionò un tal gelo nell’animo rileggendolo, e tosto poi m’infiammò di tal ira contro me stesso, che senza altrimenti proseguirne la Il pregio di tediosa lettura, lo buttai sul fuoco. Dal metodo ch’io qui ho prolissamente volutale metodo to individuare, ne è poi forse nato l’effetto seguente: che le mie tragedie prese in totalità18, tra i difetti non pochi ch’io vi scorgo, e i molti che forse non vedo, elle hanno pure il pregio di essere, o di parere ai più, fatte di getto, e di un solo attacco collegate in sé stesse19, talché ogni parola e pensiero ed azione del quint’atto strettamente s’immedesima con ogni pensiero parola e disposizione20 del quarto risalendo sino ai primi versi del primo: cosa, che, se non altro, genera necessariamente attenzione nell’uditore, e calor nell’azione. Quindi è, che stesa così la tragedia, non rimanendo poi all’autore altro pensiere che di pacatamente verseggiarla scegliendo l’oro dal piombo21, la sollecitudine che suol dare alla mente il lavoro dei versi e l’incontentabile passione dell’eleganza, non può più nuocer punto al trasporto e furore a cui bisogna ciecamente obbedire nell’ideare e creare cose d’affetto e terribili22. Se chi verrà dopo me giudicherà ch’io con questo metodo abbia ottenuto più ch’altri efficacemente il mio intento, la presente disgressioncella potrà forse col tempo illuminare e giovare a qualcuno che professi quest’arte; ove io l’abbia sbagliato, servirà perché altri ne inventi un migliore.

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da Vita scritta da esso, I, a cura di L. Fassò, Casa d’Alfieri, Asti, 1951

17. di ridondanza e furore: spinto dall’esuberanza e dall’impeto poetico. 18. in totalità: nel complesso. 19. di un solo... sé stesse: con le varie parti legate fra loro

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da un unico piano di congiunzione. 20. disposizione: stato d’animo. 21. scegliendo... piombo: cioè le parti migliori. 22. cose... terribili: testi che muovano gli affetti e le angosce.

inee di analisi testuale I tre momenti e il fattore tempo I tre momenti della scrittura delle tragedie (ideare, stendere, e verseggiare) sono felicemente definiti respiri: come alleato indispensabile, infatti, Alfieri invoca il tempo, ovvero lo spazio cronologico che separa i diversi momenti della realizzazione e, in particolare, la pausa di riflessione che precede la terza fase (verseggiare), che deve essere effettuata col riposato intelletto assai tempo dopo. All’ideazione, subito fissata in due paginucce di prosaccia, può seguire uno stendere […] con impeto; ma il verseggiare deve avvenire a distanza di tempo, anche molti mesi dopo, quando il materiale è stato ben rielaborato e appare sotto una nuova luce, ossia come chiarificato. Un’anticipazione scientifica Il metodo alfieriano, dunque, si fonda non solo sul pensiero conscio, raziocinante, ma anche sull’elaborazione effettuata dalla mente durante le apparenti interruzioni del lavoro; l’esperienza artistica ha per Alfieri natura essenzialmente irrazionale. Il recupero della tradizione Nella descrizione dei tre momenti successivi, che Alfieri chiama rispettivamente ideare, stendere (in prosa) e verseggiare, seppur non dichiarato, è evidente però anche il richiamo alle prime tre “parti” della retorica antica: inventio (ideazione del soggetto), dispositio (suddivisione e organizzazione della materia) ed elocutio (elaborazione stilistica). Nel metodo è presente quindi anche un recupero della tradizione classica.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il passo della Vita in non più di 15 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 7 righe per ogni risposta). a. In che cosa consiste l’ideare? b. In che cosa consiste lo stendere? c. Quale ruolo ha il fattore tempo nel metodo di elaborazione dei testi alfieriano? Approfondimenti 3. Tratta sinteticamente il seguente argomento (max 20 righe), corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: Ideazione, stesura e versificazione nelle opere alfieriane, secondo l’autore stesso.

Il Saul

La trama

Il personaggio di Saul

Pubblicato nel 1782, il Saul, insieme alla Mirra, è l’opera più alta e complessa del teatro alfieriano. La materia è tratta dall’Antico Testamento, in particolare dal primo libro di Samuele. Alla storia del re israelita Saul e del suo successore David l’autore apporta però sostanziali modifiche, dettate da motivazioni prettamente letterarie. Ad esempio, condensa in sole ventiquattro ore e in un unico luogo la trama, la quale comprende una lunga serie di avvenimenti che, nel testo biblico, si svolgono in diversi anni. Inoltre attribuisce nuovi significati ai personaggi e alle situazioni della vicenda, che è rielaborata molto liberamente. L’azione si svolge nel campo degli Ebrei, guidati da re Saul, in guerra con i Filistei, contro i quali egli, valoroso guerriero di umili origini, ha già riportato numerose vittorie. Ora però l’anziano sovrano, abbandonato da Dio e tormentato dalla malinconia della vecchiaia e dalla sua ansia di dominio assoluto, sospetta che David, marito della figlia Micol, eroe giovane e puro, prediletto da Dio e dal popolo, aspiri a diventare re al suo posto. In preda a laceranti conflitti, Saul prima lo manda in esilio con ingiuste accuse, poi si rappacifica con lui; quindi, di nuovo accecato dall’angoscia e dalla diffidenza, ne ordina l’uccisione, costringendolo ancora alla fuga. Travolto dalla sua folle rabbia, l’anziano sovrano giunge a macchiarsi orrendamente le mani di sangue innocente, uccidendo il sacerdote Achimelec, che egli ritiene parteggi per David perché gli chiede di rispettare la volontà di Dio, e ordinando la distruzione e l’eliminazione di ogni essere vivente: armenti, e servi, madri, case, fanciulli e tutta l’empia stirpe di Nob, la città santa dei sacerdoti. Annullati infine per spregio gli ordini militari impartiti da David, Saul si prepara, con oscuri presagi di morte, alla battaglia. Quando però i Filistei attaccano il campo, l’esercito di Saul si sfalda e il re perde in battaglia Gionata e gli altri amati figli. Oppresso dai rimorsi e dal delirio, tormentato da angoscianti visioni, ordina al ministro Abner di portare in salvo Micol e infine si suicida, trafiggendosi con la propria spada. Saul è il protagonista incontrastato della tragedia. Nella Vita, Alfieri lo definisce il personaggio più caro in quanto, come lui, tormentato da ira e malinconia, oscillante fra impeti eroici e desiderio di quiete e di affetto (bramo in pace far guerra, in guerra pace), lacerato fra la volontà d’azione e il pessimismo che affiora dalla dolorosa constatazione dei limiti dell’uomo, soggetto al potere inspiegabile di forze a lui superiori. Più che in altre tragedie, Saul è personaggio e non semplice incarnazione di una tesi. Il Dio cui egli si rivolge non è – nella concezione alfieriana – il Dio biblico, ma il simbolo di una potenza invincibile che, comunque si manifesti, schiaccia l’uomo: il re, tiranno egli stesso, è insieme oppressore e vittima di tale sovrumana e misteriosa forza. La morte solitaria di Saul, vinto ma non piegato, testimonia nella forma tragicamente più alta il conflitto fra

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la grandezza dell’uomo e l’arcana forza che qui è chiamata Dio, altrove con altre denominazioni: essa rappresenta l’inesorabile tirannide che, secondo l’autore, si oppone all’inutilità dolorosa degli sforzi titanici dell’uomo. I grandi temi che Foscolo, Leopardi e, sull’opposto versante, Manzoni toccheranno sono già tutti racchiusi in questa tragedia. Sul piano stilistico, come in tutte le migliori tragedie alfieriane, l’endecasillabo vi si contraddistingue per l’asprezza delle scansioni e le rotture del ritmo, che conducono a una frantumazione del linguaggio, lontanissima dalla musicalità arcadica della lirica classicista settecentesca.

T5 I tormenti di Saul da Saul, II, 1 Il secondo atto della tragedia Saul è composto da tre scene: fin dalla prima (qui riportata) entra in campo il sovrano e protagonista. La notte sta per finire e inizia l’ultimo giorno di vita del vecchio re, ormai trascinato verso la follia. Mentre David rimane nascosto in una grotta in attesa del momento propizio per rivelarsi, il tormento di Saul è alimentato da Abner, suo consigliere, ambigua figura in cui prevale la sete di potere e di dominio. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • Saul dilaniato dai suoi dissidi interiori • Abner roso dall’invidia • Tono fortemente drammatico

Scena prima Saul, Abner SAUL

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ABNER

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Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto oggi non sorge il sole; un dì felice prometter parmi1. – Oh miei trascorsi tempi! Deh! dove sete or voi? Mai non si alzava Saùl nel campo da’ tappeti suoi, che vincitor la sera ricorcarsi certo non fosse2. Ed or, perché diffidi, o re? Tu forse non fiaccasti or dianzi la filistea baldanza?3 A questa pugna quanto più tardi viensi, Abner tel dice, tanto ne avrai più intera, e nobil palma4.

1. In sanguinoso... parmi: il sole non appare circondato da quell’alone color rosso sangue che è presagio di tempesta (e, metaforicamente, di eventi infausti); sembra promettere un giorno felice. 2. Mai... fosse: Saul nell’accampamento non si alzava mai dal suo giaciglio senza essere certo che la sera si sarebbe

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coricato vincitore. 3. Tu... baldanza?: tu non hai abbattuto forse di recente l’ardire dei Filistei? 4. A questa... palma: quanto più tardi si verrà a combattere questa battaglia, tanto più tu ne avrai una vittoria più piena e nobile.

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SAUL

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Abner, oh! quanto in rimirar le umane cose, diverso ha giovinezza il guardo, dalla canuta età!5 Quand’io con fermo braccio la salda noderosa antenna, ch’or reggo appena, palleggiava; io pure mal dubitar sapea6... Ma, non ho sola perduta omai la giovinezza... Ah! meco fosse pur anco la invincibil destra d’Iddio possente!7 ... e meco fosse almeno David, mio prode! E chi siam noi? Senz’ esso più non si vince or forse? Ah! non più mai snudar vorrei, s’io ciò credessi, il brando, che per trafigger me. David, ch’è prima, sola cagion d’ogni sventura tua8. Ah! no: deriva ogni sventura mia da più terribil fonte9... E che? celarmi l’orror vorresti del mio stato?10 Ah! s’io padre non fossi, come il son, pur troppo! di cari figli,... or la vittoria, e il regno, e la vita vorrei11? Precipitoso già mi sarei fra gli inimici ferri scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca così la vita orribile, ch’io vivo12. Quanti anni or son, che sul mio labro13 il riso non fu visto spuntare? I figli miei, ch’amo pur tanto, le più volte all’ira muovonmi il cor, se mi accarezzan14... Fero, impazïente, torbido, adirato sempre; a me stesso incresco ognora, e altrui; bramo in pace far guerra, in guerra pace: entro ogni nappo, ascoso tosco io bevo; scorgo un nemico, in ogni amico, i molli tappeti assiri, ispidi dumi al fianco mi sono; angoscia il breve sonno; i sogni terror15. Che più? chi ’l crederia? spavento m’è la tromba di guerra; alto spavento è la tromba a Saùl16. Vedi, se è fatta vedova omai di suo splendor la casa

5. quanto... età!: come l’occhio dei giovani valuta diversamente le cose umane da quello del vecchio! 6. Quand’io... sapea: quando maneggiavo col braccio deciso la lancia sicura e nodosa che ora appena reggo, anch’io non dubitavo della vittoria. 7. meco... possente!: fosse ancora con me la destra invincibile di Dio potente! 8. non più mai... tua: se io credessi ciò (cioè che non si può più vincere senza l’aiuto di David) vorrei snudare la spada solo per uccidermi. Il perfido ministro – consanguineo di Saul e dunque aspirante a ereditarne il trono – soggiunge poi che David è la principale e unica ragione di ogni disgrazia del sovrano. 9. deriva... fonte: ogni mia disgrazia deriva da una causa più terribile. Saul allude alla maledizione divina, chiarita nei versi seguenti, alla quale risalgono le profonde angosce interiori del re. 10. celarmi... stato?: vorresti nascondermi l’orrore della mia situazione? 11. s’io... vorrei: se io non fossi, come sono, padre dei miei cari figli io non vorrei, ora, la vittoria, né il regno e

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neppure la vita. 12. Precipitoso... vivo: mi sarei gettato precipitosamente fra le armi (ferri è metonimia) nemiche già da tanto tempo: avrei già così troncata la vita orribile che sto vivendo. 13. labro: labbro. Sineddoche per “bocca”. 14. I figli... accarezzan: i miei figli, che pure amo tanto, muovono il mio cuore all’ira se mi accarezzano. Il personaggio di Saul, preda di sentimenti profondamente contraddittori, anticipa il modello dei tormentati eroi romantici. 15. Fero... terror: sono sempre feroce, senza pazienza, irascibile, infuriato, addoloro me stesso e gli altri, desidero fare la guerra in tempo di pace, e viceversa (il chiasmo, rafforzato dall’ossimoro, evidenzia la contraddittorietà e l’insofferenza come tratti distintivi del carattere di Saul); ho l’ossessione di bere in ogni calice del veleno nascosto, vedo un nemico in ogni amico, i morbidi tappeti assiri sono per i miei fianchi irsuti rovi; il poco sonno è angoscioso; i sogni sono incubi. 16. spavento... Saùl: chi potrebbe credere che la tromba di guerra spaventa a morte Saul?

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di Saùl; vedi, se omai Dio sta meco17. E tu, tu stesso, (ah! ben lo sai) talora a me, qual sei, caldo verace amico, guerrier, congiunto, e forte duce, e usbergo di mia gloria tu sembri; e talor, vile uom menzogner di corte, invido, astuto nemico, traditore18. [...]

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David?... Io l’odio... Ma, la propria figlia gli ho pur data in consorte... Ah! tu non sai. – La voce stessa, la sovrana voce che giovanetto mi chiamò più notti, quand’io, privato, oscuro e lungi tanto stava dal trono e da ogni suo pensiero; or, da più notti, quella voce istessa fatta è tremenda, e mi respinge, e tuona in suon di tempestosa onda mugghiante19: “Esci Saùl; esci Saulle”. Il sacro venerabile aspetto del profeta che in sogno io vidi già, pria ch’ei mi avesse manifestato che voleami Dio re d’Israèl, quel Samuèle, in sogno, ora in tutt’altro aspetto io lo riveggo20. Io, da profonda cupa orribil valle, lui su raggiante monte assiso miro: sta genuflesso Davide a’ suoi piedi: il santo veglio sul capo gli spande l’unguento del Signor; con l’altra mano, che lunga lunga ben cento gran cubiti fino al mio capo estendesi, ei mi strappa la corona dal crine; e al crin di David cingerla vuol21: ma, il crederesti? David pietoso in atto a lui si prostra, e niega riceverla; ed accenna, e piange, e grida, che a me sul capo ei la riponga22... – Oh vista! Oh David mio! tu dunque obbediente ancor mi sei? genero ancora? e figlio? e mio suddito fido? e amico?... Oh rabbia! Tormi dal capo la corona mia? Tu che tant’osi, iniquo vecchio, trema23...

17. se è fatta... meco: la casa di Saul è rimasta priva della sua magnificenza; Dio non è più con lui. 18. tu stesso... traditore: Abner sembra a Saul talvolta un affettuoso, sincero amico, un parente guerriero, un generale forte, scudo della sua gloria, altre volte gli sembra un vile e bugiardo cortigiano invidioso, astuto, nemico e traditore. 19. La voce... mugghiante: la voce di Dio che chiamava di notte Saul da ragazzo, quando era uno sconosciuto – prima di essere eletto re Saul era un semplice pastore – e tanto lontano dal trono e da ogni preoccupazione per esso, quella stessa voce ora tutte le notti si ripresenta terribile, e lo respinge, tuona come un’onda rumorosa di mare in tempesta. Tale voce gli ripete che deve lasciare il trono. 20. Il sacro... riveggo: Saul rivede in sogno il profeta Samuele (che il futuro sovrano sognò anche da giovane prima che andasse da lui a dirgli che Dio lo voleva re di Israele) con un aspetto del tutto diverso e in atto di rimprovero. 21. Io... vuol: Saul racconta il suo incubo: egli si vede in

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una valle cupa e orribile; il profeta Samuele è seduto su una montagna luminosa e David sta in ginocchio ai suoi piedi. Il santo vecchio cosparge il capo del giovane con l’unguento di Dio; con l’altra mano, che estende lunghissima fino al capo di Saul, il profeta gli strappa la corona dal capo e vuole porla sulla testa di David. Un cubito corrisponde a mezzo metro circa, quindi la mano di Samuele si estende nel sogno per circa cinquanta metri: la rappresentazione è potentemente iperbolica. 22. David... riponga: nel sogno di Saul, David si getta ai piedi del profeta e rifiuta di ricevere la corona, implorando Samuele, con pianti e grida, di ricollocarla sul capo del re. 23. tu dunque... trema: Saul per un attimo torna in sé e, con una serie di domande retoriche, manifesta il pensiero che forse David lo ama; ricade però subito nel delirio opposto, pervaso dall’ossessione che David voglia togliergli (tormi) la corona e che Samuele sia un vecchio malvagio (iniquo).

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Chi sei?... Chi n’ebbe anco il pensiero, pera….– Ahi lasso me! ch’io già vaneggio!24 Pera25, David sol pera: e svaniran con esso, sogni, sventure, vision, terrori. da Saul, a cura di V. Branca, Rizzoli, Milano, 1980

24. Ahi... vaneggio!: Saul si rende conto per un attimo del suo stato. Ma subito dopo il malvagio Abner gli suggerisce di obbedire alla sua idea e uccidere David, perché solo con

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la sua morte spariranno tutte le visioni e le angosce che tormentano l’animo di Saul. 25. Pera: perisca, muoia.

inee di analisi testuale La vita orribile di Saul Lo stato d’animo di Saul è profondamente turbato. Nel proprio autoritratto mostra di conoscersi profondamente, sapendo dipingere i tratti più oscuri del proprio carattere: l’iracondia, la diffidenza verso tutto e tutti, l’inquietudine, che gli fa desiderare sempre il contrario di quello che ha, e la paura della guerra, ora che Dio l’ha abbandonato. Il passo dimostra come si traduca in acuta analisi interiore di Saul l’autobiografismo di Alfieri, capace di descrivere fino in fondo il proprio animo. I timori di Saul e il suo stato allucinato – in cui predominano le sensazioni sonore – sono espressi in forma di antitesi fra passato e presente: la voce di Dio, che da giovane lo chiamava con affetto, ora è tremenda. Il sogno e la figura di Abner Del sogno in cui il re vede il profeta Samuele che sta per strappargli la corona per darla a David, che la rifiuta, non c’è traccia nella Bibbia; è invenzione letteraria di Alfieri per meglio rappresentare l’ambivalente sentimento di Saul verso il genero: di rivalità e odio da un lato, di affetto e consapevolezza della sua lealtà dall’altro. Con i suoi interventi Abner lusinga l’orgoglio guerresco di Saul, gli suggerisce di rimandare la battaglia, gli insinua diffidenza verso David, vuole indurre Saul ad agire senza pietà contro il giovane: con la sua morte, svaniran sogni, sventure, visïon, terrori del re e – s’intende – potranno spalancarsi per Abner le porte del potere. Anche nei confronti di Abner l’atteggiamento del re è mutevole: ora lo vede come un caldo verace amico, ora gli sembra vile / uom menzogner di corte, invido, astuto / nemico, traditore. L’uso della punteggiatura Il sostegno retorico è componente fondamentale della tragica densità dei contenuti. La sintassi è complessa e abbonda la punteggiatura (tratto distintivo dell’endecasillabo di Alfieri): sono più di trenta i punti, le virgole e i due punti (nelle ultime tre scene della tragedia, in poco più di 100 versi, ce ne sono circa 50). L’uso serrato della punteggiatura determina una successione di pause ritmico-sintattiche che agiscono come veri e propri evidenziatori di battute, toni e significati.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto della scena in non più di 20 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 7 righe per ogni risposta). a. Perché Saul ha perduto il favore divino? b. A tuo parere, si può dire che in Saul convivano due personalità, una razionale e una folle? Perché? c. Da quali battute meglio si capisce che Saul è consapevole di essere caduto in un abisso? Approfondimenti 3. Scrivi e intitola opportunamente un’intervista immaginaria ad Alfieri in merito alle caratteristiche che egli attribuisce al personaggio di Saul (max 3 colonne di metà foglio protocollo). Specificane inoltre la destinazione editoriale. 4. Tratta sinteticamente il seguente argomento (max 20 righe), corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: L’autoritratto di Saul.

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CAP. 13 - VITTORIO ALFIERI

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T6 Saul contro Achimelec da Saul, IV, 4 Nel quarto atto Saul è rappresentato nel pieno e folle esercizio della sua tirannica ferocia. Ordinata l’uccisione di David, che ormai considera solo un nemico, si scatena contro i sacerdoti, che, a suo giudizio, non lo approvano e hanno favorito l’ascesa di David. In questa scena, quando Abner conduce al cospetto di Saul il sacerdote Achimelec, l’ira folle del re esplode in tutta la sua violenza. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • La perdita di contatto con la realtà • L’ordine indiscriminato di uccidere • Tono tragico

Scena quarta Saul, Gionata, Abner, Achimelec, soldati ABNER

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ACHIMELEC SAUL

Re, s’io ti torno innante, anzi che rivi scorran per me dell’inimico sangue, alta cagione a ciò mi sforza1. Il prode Davidde, il forte, in cui vittoria è posta, non è chi il trovi2. Un’ora manca appena alla prefissa pugna: odi, frementi d’impaziente ardore, i guerrier l’aure empier di strida; e rimbombar la terra al flagellar della ferrata zampa de’ focosi destrieri: urli, nitrìti, sfolgoreggiar d’elmi e di brandi, e tuoni da metter core in qual più sia codardo3; David, chi ’l vede? – ei non si trova. – Or, mira, (soccorso in ver del ciel!) mira chi in campo in sua vece si sta. Costui, che in molle candido lin sacerdotal si avvolge, furtivo in campo, ai Beniamìti accanto, si appiattava tremante4. Eccolo; n’odi l’alta cagion, che a tal periglio il guida5. Cagion dirò, s’ira di re nol vieta6. Ira di re? tu dunque, empio, la merti? Ma, chi se’ tu? Conoscerti ben parmi.

1. s’io... sforza: Abner dice al re che è tornato al suo cospetto, prima di aver compiuto strage di nemici, perché spinto da una importante ragione. 2. Il prode... il trovi: nessuno trova il valoroso David, in cui è riposta la speranza di vittoria. Abner accusa subdolamente David di aver abbandonato il luogo della battaglia. 3. Un’ora... codardo: manca un’ora al momento prefissato per la battaglia, si sentono i soldati che riempiono l’aria di grida e la terra rimbomba ai colpi degli zoccoli ferrati dei cavalli impazienti: urla, nitriti, scintillare di elmi e spade, sono rumori che danno coraggio anche al guerriero più vile. 4. Or mira... tremante: ora guarda: davvero un aiuto

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mandato dal cielo! (l’espressione, che si riferisce alla presenza, sul campo di battaglia, del sacerdote Achimelec, ha tono sarcastico); guarda chi sta sul campo della battaglia invece di David. Abner indica a Saul il sacerdote vestito di bianco e aggiunge che Achimelec si era nascosto (si appiattava) presso le tende dei Beniamiti (tribù israelita di Beniamino, alla quale appartiene anche Saul), timoroso di essere scoperto (tremante). 5. n’odi... guida: ascolta da lui l’importante ragione che lo spinge ad affrontare tale pericolo. 6. Cagion... vieta: ne dirò il motivo, se me lo permetterà l’ira del re.

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Del fantastico altero gregge sei de’ veggenti di Rama?7 Io vesto l’Efod: io, dei Leviti primo, ad Aròn santo, nel ministero a che il Signor lo elesse, dopo lungo ordin d’altri venerandi sacerdoti, succedo8. All’arca presso, in Nobbe, io sto: l’arca del patto sacra, stava anch’ella altre volte al campo in mezzo: troppo or fia, se vi appare, anco di furto, il ministro di Dio: straniera merce è il sacerdote, ove Saulle impera: pur non l’è, no, dove Israèl combatte; se in Dio si vince, come ognor si vinse9. – Me non conosci tu? qual maraviglia? e te stesso conosci? – I passi tuoi ritorti hai dal sentier, che al Signor mena; ed io là sto, nel tabernacol, dove stanza ha il gran Dio; là dove, è già gran tempo più Saùl non si vede10. Il nome io porto d’Achimelèc. Un traditor mi suona tal nome: or ti ravviso11. In punto12 giungi al mio cospetto. Or di’, non sei tu quegli, che all’espulso Davidde asilo davi, e securdate, e nutrimento, e scampo, ed armi? E ancor, qual arme! il sacro brando del Filisteo, che appeso in voto a Dio stava allo stesso tabernacol, donde tu lo spiccavi con profana destra. E tu il cingevi al perfido nemico del tuo signor, del sol tuo re?13 – Tu vieni, fellone14, in campo a’ tradimenti or vieni: qual dubbio v’ha?… [...]

ACHIMELEC E tu, che sei? re della terra sei: ma, innanzi a Dio, chi re? – Saùl rientra 105 in te; non sei, che coronata polve15. –

7. tu... Rama?: tu dunque la meriti, malvagio? Chi sei? Mi sembra di conoscerti: tu fai parte della superba schiera dei profeti (fantastico altero gregge) della città di Rama (dove in passato era situato il più grande tempio ebraico, prima che Salomone costruisse il suo a Gerusalemme) che spacciano per vere finte profezie. Il termine gregge ha evidente tono dispregiativo. Abner aveva inculcato nella mente di Saul (atto II, scena I) l’idea che le sue angosce derivassero da questi sacerdoti e dai loro passati intrighi, mascherati da decreti divini. 8. Io vesto... succedo: Achimelec dice di portare l’Efod, la tunica dei sacerdoti (Leviti) ebrei, poiché egli, loro capo, è successore del santo Aronne nel ministero per cui il Signore lo scelse, dopo una lunga serie di altri venerabili sacerdoti. Aronne, fratello di Mosè, fu il primo gran sacerdote e capostipite della tribù sacerdotale di Levi. 9. All’arca... si vinse: io custodisco l’arca santa nel villaggio di Nob (l’arca dell’alleanza racchiudeva le tavole della Legge date da Dio a Mosè sul monte Sinai): in altre occasioni, l’arca sacra del patto (l’alleanza tra il popolo d’Israele e Dio) veniva portata sul campo di battaglia (per proteggere gli Israeliti e favorire l’intervento divino); ora sarebbe (fia) anche troppo se io, ministro di Dio, comparissi sul

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campo (vi), seppur di nascosto (di furto); il sacerdote è un estraneo (straniera merce) dove Saul comanda; tuttavia (pur) non lo è nel campo dove combattono gli Israeliti, visto che ancora si vince nel nome di Dio, come sempre abbiamo vinto. La presenza del sacerdote e dei simboli sacri era, per gli Ebrei, garanzia di vittoria. 10. I passi tuoi... vede: hai deviato i tuoi passi dal cammino che porta a Dio; io sto là, nel santuario (tabernacol) dove ha sede il grande Dio, là dove da gran tempo Saul non si vede più. Così si presenta Achimelec. 11. ravviso: riconosco. 12. In punto: al momento giusto. 13. Or di’... tuo re?: ora dimmi, tu non sei colui che dava rifugio, protezione, cibo, salvezza e armi a David esiliato? E che arma gli hai dato: la spada del gigante filisteo, Golia, che era appesa come voto nel santuario dell’arca, da dove tu l’hai staccata con mani sacrileghe e l’hai data da cingere al perfido nemico del tuo signore, dell’unico tuo re? 14. fellone: traditore. 15. coronata polve: efficace brachilogia (metaforica espressione sintetica) che sottolinea la precarietà della condizione dell’uomo, che è comunque destinato a diventare polvere, anche se porta la corona di re.

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SAUL

Io, per me nulla son; ma fulmin sono, turbo, tempesta io son, se in me Dio scende: quel gran Dio, che ti fea; che l’occhio appena ti posa su; dov’è Saùl?16 – Le parti d’Agàg mal prendi; e nella via d’empiezza mal tu ne segui i passi17. A un re perverso gastigo v’ha, fuor che il nemico brando? E un brando fere, che il Signor nol voglia?18 Le sue vendette Iddio nel marmo scrive e le commette al Filisteo non meno, che ad Israèl19. – Trema, Saùl: già in alto, in negra nube, sovr’ali di fuoco veggio librarsi il fero angel di morte: già, d’una man disnuda ei la rovente spada ultrice; dell’altra, il crin canuto ei già ti afferra della iniqua testa20: trema Saùl. – Ve’ chi a morir ti spinge: costui; quest’Abner, di Satàn fratello; questi, che il vecchio cor t’apre a’ sospetti; che, di sovran guerrier, men che fanciullo ti fa21. Tu, folle, or di tua casa il vero saldo sostegno rimovendo vai22. Dov’è la casa di Saùl? nell’onda fondata ei l’ha; già già crolla; già cade; già in cener torna: è nulla già23. – Profeta de’ danni miei, tu pur de’ tuoi nol fosti. Visto non hai, pria di venirne in campo, che qui morresti: io tel predico; e il faccia Abner seguire24. – Abner mio fido, or vanne; ogni ordin cangia dell’iniquo David; che un tradimento ogni ordin suo nasconde25.

16. Io, per me... Saùl?: io da solo non sono niente, ma se Dio entra in me sono fulmine, turbine, tempesta; quel grande Dio che ti creò, che ti guarda, dov’è, o Saul? 17. Le parti... passi: tu hai preso le difese di Agag e ne segui i passi sulla strada della malvagità. Agag, come narra anche l’Antico Testamento (I, Samuele 15, 33), era il re del popolo nemico degli Amalechiti, che Saul, disobbedendo a Dio, non uccise e che fu trafitto dal profeta Samuele. Secondo la narrazione biblica, Saul era stato consacrato primo re di Israele intorno al 1020 a.C. ad opera del profeta Samuele, ultimo dei Giudici di Israele; aveva poi peccato d’orgoglio e di superbia: dopo avere sconfitto gli Amalechiti, si era dato al saccheggio e aveva rifiutato di uccidere il loro re, Agag, contravvenendo alla volontà divina. Il vecchio Samuele, perciò, unse re il giovane David, della tribù di Giuda, destinandolo a succedergli. 18. A un re... voglia?: per un re miscredente – Agag – vi è forse un castigo diverso dall’uccisione ad opera della spada di un nemico? E spada può ferire se Dio non vuole? Gli Amalechiti erano un popolo idolatra: Achimelec ricorda a Saul che l’uccisione di Agag – che egli rifiuta di compiere – era voluta da Dio. 19. Le sue vendette... Israèl: Dio incide nel marmo le sue vendette e ne affida il compimento non solo a Israele ma anche ai Filistei. Il sommo sacerdote profetizza a Saul la sua sconfitta ad opera dei Filistei, quale punizione della disobbedienza a Dio.

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20. già... testa: già vedo il feroce angelo della morte volare in alto su una nuvola nera sopra ali di fuoco: con una mano già sfodera l’infuocata spada vendicatrice; con l’altra egli ti afferra i capelli bianchi del capo scellerato. Il passo è solenne, di tono apocalittico. Lo stile, come in tutta la tragedia, è “alto”. 21. Ve’... fa: guarda chi ti spinge alla morte: questo Abner, fratello di Satana; è costui che rende sospettoso il tuo vecchio cuore, che ti trasforma da re guerriero in meno che un bambino. 22. or di tua casa... vai: tu stai distruggendo il forte sostegno della tua famiglia. L’espressione può alludere a David o a Dio stesso. 23. nell’onda... già: Saul ha fondato la sua casa sull’acqua, ormai sta crollando, cadendo, tornando cenere. La metafora indica la precarietà della condizione materiale ed esistenziale di Saul e sottintende il riferimento evangelico alla fede in Dio come costruzione sulla roccia della propria dimora. 24. Profeta... seguire: tu hai profetizzato le mie disgrazie e tuttavia non le tue; non hai previsto, prima di venire qui, sul campo di battaglia, che saresti morto; te lo profetizzo io e faccia eseguire Abner la tua condanna a morte. 25. or vanne... nasconde: ora vai, cambia l’ordine degli eventi stabilito da David (per la battaglia), poiché egli nasconde un tranello in ogni suo ordine. David aveva predisposto che la battaglia avrebbe avuto inizio al calar del sole.

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GIONATA SAUL ABNER 150

SAUL

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SAUL

Doman si pugni, al sol nascente; il puro astro esser de’ mio testimon di guerra26. Pensier maligno, io ’l veggio, era di David, scegliere il sol cadente a dar nell’oste quasi indicando il cadente mio braccio27: ma, si vedrà. – Rinvigorir mi sento da tue minacce ogni guerrier mio spirto; son io ’l duce domane; intero il giorno, al gran macello ch’io farò, fia poco28. – Abner, costui dal mio cospetto or tosto traggi, e si uccida29. Oh ciel! padre, che fai? Padre… Taci. – Ei si sveni30; e il vil suo sangue su’ Filistei ricada. E già con esso morte… Ma, è poco a mia vendetta ei solo. Manda in Nob l’ira mia, che armenti, e servi, madri, case, fanciulli uccida, incenda, distrugga, e tutta l’empia stirpe al vento disperda31. Omai, tuoi sacerdoti a dritto dir ben potranno: “Evvi un Saùl”32. Mia destra, da voi sì spesso provocata al sangue, non percoteavi mai: quindi sol, quindi, lo scherno d’essa33. A me il morir da giusto niun re può torre: onde il morir mi fia dolce non men, che glorïoso34. Il vostro, già da gran tempo, irrevocabilmente Dio l’ha fermato35. Abner, e tu, di spada, ambo vilmente; e non di ostile spada, non in battaglia36. – Or vadasi. – D’Iddio parlate all’empio ho l’ultime parole, e sordo ei fu: compiuto egli è il mio incarco: ben ho spesa la vita37. Or via, si tragga a morte tosto; a cruda morte, e lunga38. da Saul, a cura di V. Branca, Rizzoli, Milano, 1980

26. Doman... guerra: domani si combatta all’alba, il sole deve essere mio testimone di guerra. 27. Pensier... braccio: la scelta di attaccare il nemico (dar nell’oste) al tramonto (sol cadente) fu, lo so bene (io ’l veggio), un’idea perversa di David, come per indicare la vecchiaia del mio braccio. Accecato dalla gelosia, Saul, ormai delirante, cambia le decisioni di Davide: ciò causerà la disfatta del suo esercito. 28. Rinvigorir... poco: sento rinforzare il mio spirito di combattimento dalle tue minacce; domani sarò io il comandante dell’esercito; l’intera giornata sarà poca, non basterà per il grande massacro che farò. 29. costui... uccida: porta via subito da me questo uomo – Achimelec – e ordina che egli sia ucciso. 30. si sveni: gli siano tagliate le vene. 31. Manda... disperda: invia la mia ira a Nob (luogo ove si trovava il tempio sacro a Dio): che uccida, incendi, distrugga animali, servi, madri, famiglie, bambini e disperda nel vento tutto quel malvagio popolo.

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32. Omai... Saùl: così i tuoi sacerdoti potranno dire a buon diritto: c’è ancora un Saul. 33. destra... essa: la mia mano, da voi tanto spesso provocata al sangue, non vi colpì mai: da qui, solo da qui nasce il vostro disprezzo per me. Il pronome essa è riferito a destra. 34. A me... glorïoso: nessun re mi può impedire di morire da uomo giusto: perciò, morire sarà per me dolce non meno che glorioso. 35. Il vostro... fermato: la vostra morte, già da molto tempo e irrevocabilmente Dio l’ha decisa. 36. Abner... battaglia: tu e Abner morirete colpiti da una spada, entrambi senza onore, e non per mano di una spada nemica, e nemmeno in battaglia. La profezia di Achimelec anticipa la conclusione della tragedia. 37. D’Iddio... la vita: ho detto al malvagio le ultime parole di Dio ed egli fu sordo ad esse. Il mio compito è finito; ho speso bene la vita. Egli è un pleonasmo. 38. si tragga... lunga: lo si porti a morte subito; una morte crudele e lenta, che segue a lunghi supplizi.

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inee di analisi testuale La follia persecutoria Nella quarta scena del quarto atto, la follia di Saul si rivela interamente come un effetto della mania di persecuzione vera e propria. Tale ossessione si concretizza nell’assassinio legalizzato del sacerdote Achimelec, custode della sacra “arca dell’alleanza”, colpevole solo di essersi presentato sul campo di battaglia per portare la presenza del Dio degli Ebrei. Achimelec attribuisce lo stato alterato del re alla sua ribellione a Dio e gli profetizza una fine orribile e tragica. Ma Saul è ormai completamente perso nella propria pazzia e ordina di distruggere il villaggio di Nob e di uccidere uomini, donne, bambini e animali. Rilievi stilistici A livello lessicale si può notare come vengano amplificate – attraverso l’aggettivazione – le espressioni relative ai guerrieri (focosi destrieri; rovente spada ultrice) e, in antitesi, sottolineati negativamente i costumi di vita dei sacerdoti (molle candido lin). Saul visualizza in tale opposizione gli orizzonti della propria ormai irrimediabile lacerazione interiore.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Con l’aiuto delle note, svolgi la parafrasi del testo. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Chi è Abner e che cosa dice nelle prime battute della scena? b. Chi è Achimelec e perché viene condannato a morte? c. Su quali argomenti verte l’autodifesa di Achimelec? Analisi e interpretazione 3. Analizza i finali dei singoli versi ed evidenzia l’eventuale presenza di rime, quindi motiva quali possono essere, a tuo avviso, le ragioni delle scelte dell’autore in questo ambito. 4. Sottolinea tutti gli enjambements che rilevi nel testo e spiegane la funzione espressiva. 5. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ciascun quesito). a. Qual è il registro prevalente nei dialoghi del testo? b. Quali sono le più significative figure retoriche presenti nel testo? c. In quali tempi e luoghi si svolge la scena? d. Quali sono le espressioni che mettono maggiormente in luce la ferocia tirannica di Saul? e. Qual è la funzione dell’abbondanza della punteggiatura nel dialogo? Approfondimenti 6. Ricerca – a casa, in Internet o in biblioteca – il brano biblico dell’Antico Testamento di cui è protagonista Saul e confrontane il personaggio con quello alfieriano: vi trovi più somiglianze o più differenze? Motiva la risposta.

Franz Xaver Schmaedl, Re Davide suona l’arpa, XVIII secolo. Rottenbuch, Chiesa degli Agostiniani.

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T7 Il suicidio da Saul, V, 4-5 La battaglia contro i Filistei si è ormai conclusa con la sconfitta di Israele. Nella quarta e quinta scena del quinto atto, alla tenda del sovrano giungono Abner e alcuni scampati alla strage, i quali riferiscono che i figli del re sono tutti morti. Rimane solo Micol; ma il re sa che ella è destinata a David, suo sposo. L’ossessione lo riprende, ma, con un estremo atto di valore e di amore, Saul ordina ad Abner di portare in salvo Micol. Infine, il re si uccide. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • L’antitesi dei sentimenti • Il tema del suicidio • Tono altamente tragico Scena quarta Saul, Micol, Abner, con pochi soldati fuggitivi ABNER SAUL ABNER 5

SAUL ABNER

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SAUL MICOL SAUL ABNER SAUL

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MICOL ABNER SAUL

Oh re infelice!... Or dove, deh! dove corri? Orribil notte è questa. Ma, perché la battaglia? Di repente1, il nemico ci assale: appien2 sconfitti siam noi. Sconfitti? E tu fellon, tu vivi? Io? per salvarti vivo. Or or qui forse Filiste inonda: il fero impeto primo forza è schivare: aggiornerà frattanto3. Te più all’erta quassù, fra i pochi miei, trarrò4… Ch’io viva, ove il mio popol cade?5 Deh! vieni... Oimè! cresce il fragor: s’inoltra6... Gionata,... e i figli miei,... fuggono anch’essi? mi abbandonano?... Oh cielo!... I figli tuoi,... no, non fuggiro... Ahi miseri! T’intendo: morti or cadono tutti7. Oimè!... I fratelli?... Ah! più figli non hai. – Ch’altro mi avanza? Tu sola omai, ma non a me, rimani8. – Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo9: e giunta è l’ora. – Abner, l’estremo è questo de’ miei comandi. Or la mia figlia scorgi in securtà10.

1. Di repente: all’improvviso. 2. appien: completamente. 3. Or... frattanto: in questo momento forse i Filistei invaderanno il nostro campo: bisogna evitare per forza il loro primo assalto feroce; intanto farà giorno. 4. Te... trarrò: ti porterò quassù in alto, fra i pochi miei fedeli. 5. Ch’io viva... cade?: devo io sopravvivere se il mio popolo viene sconfitto?

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6. cresce... s’inoltra: il rumore aumenta, si avvicina. 7. T’intendo... tutti: ti capisco: ora cadono tutti morti. 8. Tu... rimani: Saul si rivolge alla figlia Micol, dicendole che le rimane lei sola; ma non rimane a lui, bensì al marito, David. 9. Io... fermo: io da molto tempo ho già deciso tutto nel cuore. 10. Abner... securtà: Saul rivolge ad Abner l’ultimo dei suoi ordini: portare al sicuro la figlia Micol (scorgi qui significa “fai da scorta”).

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MICOL SAUL 25

ABNER 30

MICOL SAUL MICOL

No, padre; a te dintorno mi avvinghierò: contro a donzella il ferro non vibrerà il nemico11. Oh figlia!... Or, taci: non far, ch’io pianga. Vinto re non piange. Abner, salvala, va’: ma, se pur mai ella cadesse infra nemiche mani, deh! non dir, no, che di Saulle è figlia; tosto di’ lor, ch’ella è di David sposa; rispetteranla12. Va’; vola… S’io nulla valgo, fia salva, il giuro; ma ad un tempo te pur13… Deh!... padre... Io non ti vo’, non voglio lasciarti… Io voglio: e ancora il re son io. Ma già si appressan l’armi: Abner, deh! vola: teco, anco a forza, s’è mestier, la traggi14. Padre!... e per sempre?...

Scena quinta 35

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SAUL

Oh figli miei!… – Fui padre. – Eccoti solo, o re; non ti resta dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga, d’inesorabil Dio terribil ira?15 – Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo, fido ministro, or vieni16. – Ecco già gli urli dell’insolente vincitor: sul ciglio già lor fiaccole ardenti balenarmi veggo, e le spade a mille17... – Empia Filiste, me troverai, ma almen da re, qui *... morto18.

* Nell’atto che ei cadde trafitto su la propria spada, soprarrivano in folla i Filistei vittoriosi con fiaccole incendiarie, e brandi insanguinati. Mentre costoro corrono con alte grida verso Saul, cade il sipario. da Saul, a cura di V. Branca, Rizzoli, Milano, 1980

11. No, padre... nemico: No, padre, mi stringerò a te: contro una donna il nemico non vibrerà colpo di spada. Ferro è metonimia per spada. 12. ma, se... rispetteranla: se ella cadesse nelle mani del nemico, non dire che è la figlia di Saul, subito di’ loro che è la moglie di David; la rispetteranno. 13. S’io... pur: se io conto qualcosa, sarà salva, lo giuro, ma anche tu... 14. teco... traggi: se è necessario, portala con te anche con la forza. 15. Sei... ira?: sei soddisfatta, ira di un Dio inesorabile? Il tema sviluppato dalla tragedia si rivela, nel finale, sempre più tipicamente alfieriano: la divinità cui Saul si rivolge non è, se non per nome, il Dio ebraico e cristiano, bensì la mi-

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steriosa forza che governa l’universo e che Giacomo Leopardi, pochi decenni dopo, denominerà Natura. 16. tu... vieni: mi rimani tu, o spada: vieni ora, fedele aiutante, all’ultimo servizio. 17. Ecco... mille: ecco sento già le grida del vincitore che travolge tutto (insolente): vedo già balenare nei miei occhi le loro fiaccole infuocate e le loro mille spade. 18. Empia Filiste... morto: Filistei maledetti, mi troverete qui, morto da re. “Empio” è un latinismo ed è termine opposto a “pio”, che significa “obbediente alla divinità e moralmente buono”. Il suicidio di Saul sancisce la sua resa di fronte a una realtà ormai riconosciuta come superiore al suo desiderio di potere e libertà assoluti.

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inee di analisi testuale I molteplici conflitti Dalle scene finali della tragedia si comprende come la follia di Saul si fondi su una serie di conflitti sovrapposti. Il vecchio Saul si oppone al Saul della gioventù, la cui immagine il sovrano vede rispecchiata nella figura di David. Una parte dell’animo di Saul desidera la battaglia, mentre un’altra prova la vergogna della paura e teme la morte. Saul re è opposto a Saul padre, in un’antitesi che distrugge entrambi. In Saul convivono due personalità, una razionale ed una preda di follia e delirio. Il suicidio Anche la scelta di morire, alla fine, porta con sé una contraddizione estrema: suicidandosi, Saul distrugge per sempre la follia che è in lui, ma nel contempo riafferma, in un’ottica tipicamente alfieriana, la propria libertà di scelta e il proprio inesauribile orgoglio. Il tema del suicidio è teorizzato da Alfieri nel trattato Della tirannide ed è presente anche in altre sue tragedie (Filippo, La congiura de’ Pazzi, Mirra, Timoleone), oltre che in molta letteratura sette-ottocentesca (I dolori del giovane Werther di Goethe, Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo), in quanto tema tipicamente romantico. Il suicidio alfieriano è un estremo atto di ricerca della libertà; nel Saul, però, è soprattutto motivato dalla superbia. Protagonista fino in fondo, Saul ribadisce infatti il proprio orgoglio smisurato sfidando Dio. Riscontri stilistici Alfieri, per rappresentare la tragica fine di Saul, mette in campo al massimo grado tutte le risorse del suo stile. Battute spezzate, ellissi, pause, iperbati, anastrofi, enjambements, gravità di intonazione, solennità di linguaggio: ad ogni livello – dal lessico alla sintassi, dalla metrica alle figure – i versi alfieriani scolpiscono le scene come bassorilievi, caricano di speciale espressività i moti interiori, le parole e i gesti del protagonista, fino all’atto estremo del suicidio.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Trasforma in prosa in italiano corrente il contenuto delle due scene. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 8 righe per ogni risposta). a. Quali dissidi interiori dilaniano Saul? b. Quali personaggi, oltre al protagonista, compaiono nelle scene e qual è il loro ruolo nei confronti del re folle? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 8 righe per ogni risposta). a. Quali sono le più significative figure retoriche che rilevi nel testo? b. Perché il suicidio di Saul rivela caratteristiche di atto di superbia? c. Quali sono i più evidenti enjambements presenti nei versi? d. Qual è il tono dell’ultimo monologo? Approfondimenti 4. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento: La tragedia che lacera la personalità di re Saul e il suo estremo compimento. 5. Per quali ragioni re Saul può essere considerato un personaggio con caratteristiche in parte già romantiche?

Guercino, Saul contro David. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica.

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La Mirra

La fonte: Ovidio

Una giovane in preda all’angoscia

La tragedia Mirra è, insieme al Saul, il risultato più alto della produzione drammaturgica alfieriana. L’ideazione, la stesura in prosa e la versificazione dell’opera risalgono al 1784 (in Alsazia, a Wettolsheim, nel castello di Martinsbourg, dove il poeta vive alcuni anni con la contessa d’Albany); la versione definitiva si ha però solo nel 1789, per l’edizione parigina di tutte le tragedie. La tragedia – la cui materia è tratta dalle Metamorfosi dell’autore latino Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 d.C.) – narra il dramma di una giovane, Mirra, che si innamora del padre Ciniro, re di Cipro, a causa dell’intervento di Venere (che si vendica così di un’offesa ricevuta da Cecri, moglie di Ciniro). Mirra si tormenta per questo sentimento. I genitori e la fedele nutrice Euriclea, insieme al tenero innamorato Peréo, circondano la ragazza di cure e affetto, tentando di scoprire la causa della sua infelicità; la spingono a sposarsi con Peréo, ma la giovane si sottrae alle nozze: il promesso sposo, rendendosi conto di non essere amato, si suicida. Infine Mirra stessa confessa al padre la propria colpa e si uccide, disperandosi per avere causato, per volere di un incomprensibile destino, la fine di Peréo e macchiato la propria innocenza. Lo spettatore è reso partecipe di tutte le manifestazioni dell’inquietudine e dell’angoscia che attanagliano la protagonista. La giovane dimagrisce, sospira, si confonde, trema; tenta in ogni modo di soffocare i propri incestuosi sentimenti, imponendosi di non raccontare a nessuno la causa della sua disperazione. Riesce a nascondere a tutti la verità, ma non il suo stato di agitazione; in Mirra la ragione non riesce a soffocare i sentimenti. Confesserà la verità e porrà fine alla sua vita solo quando alla colpa dell’amore incestuoso verso il padre si aggiunge la consapevolezza di essere stata la causa della morte dell’innocente Peréo.

T8 Il dramma di un sentimento inconfessabile da Mirra, V, 2 Nella seconda scena del quinto atto, il re Ciniro è solo con la figlia. Mirra ha tentato in ogni modo di nascondere il proprio sentimento incestuoso verso il padre e, tormentata dal senso di colpa, ha addirittura chiesto ai genitori di ucciderla. Entrambi hanno rifiutato con fermezza; insistono invece perché la figlia sveli finalmente che cosa la tormenta così atrocemente. Incalzata da Ciniro, Mirra svela quindi la causa dei suoi tormenti. Nel dichiarare a voce alta la sua empietà, è sopraffatta dall’enormità della sua colpa e si uccide con la spada dell’atterrito genitore. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • Il sentimento del padre: dalla dolcezza all’orrore • Un segreto terribile • Argomento e tono da tragedia greca Scena seconda Ciniro, Mirra MIRRA CINIRO

Io?... d’amor?... Deh! nol credere... T’inganni. Più il nieghi tu, più ne son io convinto. E certo in un son io (pur troppo!) omai, ch’esser non puote altro che oscura fiamma, quella cui tanto ascondi1.

1. Più il nieghi... ascondi: il padre dice a Mirra che più lei nega di essere preda della furia amorosa e più lui se ne convince, e che ormai è certo purtroppo che quella che

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nasconde non può essere altro che una oscura fiamma, cioè un amore sbagliato, proibito.

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Oimè!... che pensi?... Non vuoi col brando uccidermi;... e coi detti... mi uccidi intanto2... E dirmi pur non l’osi, che amor non senti? E dirmelo, e giurarlo anco ardiresti, io ti terria spergiura. – Ma, chi mai degno è del tuo cor, se averlo non potea pur l’incomparabil, vero, caldo amator, Peréo? – Ma, il turbamento cotanto è in te;... tale il tremor; sì fera la vergogna; e in terribile vicenda, ti si scolpiscon sì forte sul volto; che indarno il labro negheria3... Vuoi dunque... farmi... al tuo aspetto... morir... di vergogna?... E tu sei padre? E avvelenar tu i giorni, troncarli vuoi, di un genitor che t’ama più che se stesso, con l’inutil, crudo, ostinato silenzio? – Ancor son padre: scaccia il timor; qual ch’ella sia tua fiamma, (pur ch’io potessi vederti felice!) capace io son d’ogni inaudito sforzo per te, se la mi sveli. Ho visto, e veggo tuttor, (misera figlia!) il generoso contrasto orribil, che ti strazia il core infra l’amore, e il dover tuo. Già troppo festi, immolando al tuo dover te stessa: ma, più di te possente, Amor nol volle. La passíon puossi escusare; ha forza più assai di noi; ma il non svelarla al padre, che tel comanda, e ten scongiura, indegna d’ogni scusa ti rende4. O Morte, Morte, cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda sempre sarai?... Deh! figlia, acqueta alquanto, l’animo acqueta: se non vuoi sdegnato contra te più vedermi, io già nol sono più quasi omai; purché tu a me favelli. Parlami deh! come a fratello. Anch’io conobbi amor per prova: il nome5. Oh cielo!... Amo, sì; poiché a dirtelo mi sforzi; io disperatamente amo, ed indarno.

2. Non vuoi... intanto: Mirra risponde al padre che egli non vuole ucciderla con la spada, ma la uccide con le parole. 3. E dirmi pur... negheria: Osi pure dirmi che non sei innamorata? Se anche tu avessi il coraggio di dirmelo e di giurarlo, io ti reputerei bugiarda. Ma chi è mai colui che è degno del tuo amore, se non era Peréo, ineguagliabile, caldo amante? Il turbamento, la paura, la feroce vergogna sono così scolpiti nel tuo volto in questa storia che invano le tue parole potrebbero negare. 4. E avvelenar... ti rende: il senso del discorso di Ciniro alla figlia è che essa non può avvelenare o troncare la vita del padre, che l’ama, con un silenzio inutile, crudele e ostinato. Ciniro si protesta padre, la prega di scacciare la paura; qualunque sia il suo amore, pur di vederla felice,

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egli si sente capace di fare ogni sforzo per lei, se gli rivelerà l’oggetto di tale sentimento. Egli dice di aver indovinato l’orribile contrasto che dilacera il cuore della figlia tra l’amore e il dovere. Ella ha già fatto troppo sacrificandosi per il dovere accettando di sposare Peréo, ma Amore, più potente di lei, non ha voluto. Si può scusare la passione, più forte degli uomini, ma non è scusabile il fatto di non rivelarla al padre che la prega di farlo, per poterla aiutare. 5. Deh! figlia... il nome: l’assedio di Ciniro continua. Raccomanda alla figlia di calmarsi: se non vuole vederlo adirato, egli non lo è quasi più, purché gli parli, gli parli come a un fratello; anch’egli ha conosciuto prove d’amore: che gli dica il nome dell’uomo che ama.

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Ma, qual ne sia l’oggetto, né tu mai, né persona il saprà: lo ignora ei stesso... ed a me quasi io ’l niego6. Ed io saperlo e deggio, e voglio. Né a te stessa cruda esser tu puoi, che a un tempo assai nol sii più ai genitori che ti adoran sola. Deh! parla; deh! – Già, di crucciato padre, vedi ch’io torno e supplice e piangente: morir non puoi, senza pur trarci in tomba. – Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ’l vo’ far tuo. Stolto orgoglio di re strappar non puote il vero amor di padre dal mio petto. Il tuo amor, la tua destra, il regno mio, cangiar ben ponno ogni persona umíle in alta e grande: e, ancor che umíl, son certo, che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami7. Te ne scongiuro, parla: io ti vo’ salva, ad ogni costo mio. Salva?... Che pensi?... Questo stesso tuo dir mia morte affretta... Lascia, deh! lascia, per pietà, ch’io tosto da te... per sempre... il piè... ritragga... O figlia unica amata; oh! che di’ tu? Deh! vieni fra le paterne braccia. – Oh cielo! in atto di forsennata or mi respingi? Il padre dunque abborrisci? e di sì vile fiamma ardi, che temi8... Ah! non è vile;... è iniqua la mia fiamma; né mai... Che parli? iniqua, ove primiero il genitor tuo stesso non la condanna, ella non fia: la svela9. Raccapricciar d’orror vedresti il padre, se la sapesse... Ciniro10... Che ascolto! Che dico?... ahi lassa!... non so quel ch’io dica... Non provo amor... Non creder, no... Deh! lascia, te ne scongiuro per l’ultima volta, lasciami il piè ritrarre11. Ingrata: omai col disperarmi co’ tuoi modi, e farti del mio dolore gioco, omai per sempre perduto hai tu l’amor del padre.

6. Amo, sì... niego: poiché mi costringi a dirtelo, io amo, disperatamente e invano; ma l’oggetto del mio amore né tu né nessun altro mai lo saprà: colui che amo lo ignora e lo nascondo quasi anch’io a me stessa. 7. Ed io saperlo... che ami: io devo e voglio saperlo; non puoi essere crudele verso te stessa senza esserlo, allo stesso tempo e ancora di più, verso i tuoi genitori, che adorano solo te. Parla! Da padre adirato vedi che torno supplicante in lacrime; non puoi morire senza trascinare anche noi genitori alla morte. Chiunque sia colui che ami, voglio dartelo in sposo. L’ambizione di vedere la propria figlia legata a un uomo degno e di condizione sociale elevata non può strappare dal mio cuore il vero amore di un padre. Il tuo amore, la tua mano, il mio regno possono cambiare in nobile qualsiasi

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persona di umile condizione, anche se io sono certo che l’uomo che tu ami non possa essere una persona ignobile. 8. in atto... temi: come una pazza ora mi respingi? Hai in odio dunque tuo padre? E sei preda di una passione così ignobile che hai paura... Ciniro pensa che la figlia lo respinga perché è innamorata di un uomo ignobile. 9. iniqua... la svela: la tua passione non sarà perversa e colpevole prima che tuo padre stesso non l’abbia condannata: rivelamela. 10. Raccapricciar... Ciniro: è il momento della confessione di Mirra, che alla fine svela il nome dell’uomo che ama di passione incestuosa: suo padre. 11. lasciami il piè ritrarre: lasciami tornare indietro. Mirra vuole ritrattare.

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Oh dura, fera orribil minaccia!... Or, nel mio estremo sospir, che già si appressa,... alle tante altre furie mie l’odio crudo aggiungerassi del genitor?... Da te morire io lungi?... Oh madre mia felice!... almen concesso a lei sarà... di morire... al tuo fianco12... Che vuoi tu dirmi?... Oh! qual terribil lampo, da questi accenti!...Empia, tu forse?13... Oh cielo! che dissi io mai?... Me misera!... Ove sono? Ove mi ascondo?... Ove morir? – Ma il brando tuo mi varrà14... (a) Figlia... Oh! che festi? il ferro... Ecco,... or... tel rendo... Almen la destra io ratta ebbi al par che la lingua15. ... Io... di spavento,... e d’orror pieno, e d’ira,... e di pietade, immobil resto. Oh Ciniro!... Mi vedi... presso al morire... Io vendicarti... seppi,... e punir me... Tu stesso, a viva forza, l’orrido arcano... dal cor... mi strappasti... ma, poiché sol colla mia vita... egli esce... dal labro mio,... men rea... mi moro16... Oh giorno! Oh delitto!... Oh dolore! – A chi il mio pianto?... Deh! più non pianger;... ch’io nol merto... Ah! sfuggi mia vista infame;... e a Cecri... ognor... nascondi17... Padre infelice!... E ad ingojarmi il suolo non si spalanca?... Alla morente iniqua donna appressarmi io non ardisco;... eppure, abbandonar la svenata mia figlia non posso18...

NOTA DI ALFIERI (a). Rapidissimamente avventatasi al brando del padre, se ne trafigge.

da Agamennone-Mirra, a cura di V. Branca, Rizzoli, Milano, 1981

12. Oh dura... al tuo fianco: davanti alla dura, feroce e orribile minaccia di perdere per sempre l’amore paterno, Mirra rivela che non sopporterebbe – vicina al suo ultimo respiro che ormai si avvicina (ella ha già deciso di uccidersi) – che l’odio del padre si aggiunga alle sue altre, tante angosce. E aggiunge una seconda confessione: oh, felice mia madre alla quale sarà almeno concesso di morire al tuo fianco. 13. qual terribil lampo... forse?: Ciniro intuisce la verità, in un terribile lampo, dalle ultime parole della figlia ed esplode in una domanda di cui teme la risposta. 14. il brando... varrà: la tua spada mi servirà. È il momento decisivo: dopo la confessione, Mirra si dà la morte con la spada del padre. 15. Almen... lingua: almeno ho avuto la mano veloce co-

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me la lingua. Mirra rende al padre la spada dopo essersi trafitta. 16. Mi vedi... mi moro: mi vedi vicina alla morte; io seppi insieme vendicare te e punire me stessa; tu stesso mi hai strappato dal cuore a viva forza l’orrendo segreto; ma poiché esce dalle mie labbra insieme alla mia vita, io muoio meno colpevole. Labro è sineddoche per “bocca”. 17. più non pianger... nascondi: non piangere più, che non lo merito, fuggi la mia orribile vista e nascondi sempre tutto ciò a mia madre Cecri. 18. Alla morente... non posso: il padre infelice è dilacerato; non osa avvicinarsi alla donna colpevole che sta morendo, e non può abbandonare sua figlia. In un mescolarsi di sgomento, rabbia e pietà, Ciniro è annichilito dal dolore.

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inee di analisi testuale Materia da tragedia greca Ciniro non sa che sta per provocare la tragedia. L’insistenza del padre porta all’ammissione di Mirra che la sua è una pena d’amore, ma rifiuta di dire il nome dell’amato: è un segreto che quasi nega anche a se stessa. Ciniro crede che Mirra ami un uomo di umile estrazione. Quando la figlia pronuncia il nome del padre, il re non comprende che si tratta di una confessione, e la minaccia pensando che la figlia si stia prendendo gioco del suo dolore. Mirra non può, però, sopportare il suo odio né morire lontano dall’amato padre; e la sua confessione giunge infine, indirettamente, quando nomina la madre, felice almeno lei, perché potrà morire al fianco di Ciniro. Il re inorridisce: rapida, Mirra afferra la spada di suo padre e si uccide. Ciniro è combattuto tra lo spavento, l’orrore, l’ira e la pietà. Ha strappato l’orrido arcano alla figlia e ne ha decretato la morte. Mirra supplica Ciniro di nascondere la verità alla madre. Ma Ciniro non ne regge il peso: nella scena seguente rivelerà alla moglie il terribile segreto, e Mirra (nell’ultima scena) morirà con la sola compagnia della nutrice Euriclèa: i genitori, straziati, si sono allontanati, a morire di vergogna e di dolore altrove. Mirra contro la tirannia del destino Questa condanna all’esclusione totale da ogni consorzio sociale, umano, affettivo è, per la giovane, una tragedia nella tragedia. Solo apparentemente in Mirra non compare il drammatico conflitto fra essere umano libero e tiranno: esso, in realtà, è presente al massimo livello e si esprime nella lotta disperata della giovane contro la tirannica volontà del destino che, senza alcuna ragione comprensibile, l’ha resa schiava di una orribile passione incestuosa nei confronti del padre. La fragile eroina, fin dall’inizio del dramma, è vittima dei propri impulsi passionali: non c’è alcuna punizione della dea Venere – come nel passo delle Metamorfosi di Ovidio da cui Alfieri trae spunto – a fornire una parvenza di giustificazione a ciò che accade. Per tali motivi, gli eroi tragici alfieriani sono emblemi della crisi degli ideali illuministici e del tramonto della visione ottimistica settecentesca.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Aiutandoti con le note, svolgi la parafrasi della scena proposta. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il carattere di Ciniro? b. Come Ciniro strappa la confessione alla figlia? c. Qual è il carattere di Mirra? d. Quali eventi concludono il brano? Analisi e interpretazione 3. Rileva il registro prevalente nel passo presentato e documentalo con adeguati esempi. 4. Indica le più significative figure retoriche e fonetiche presenti nel testo. Approfondimenti 5. In quali forme, a tuo parere, è presente in Mirra il tema della lotta alla tirannia e all’aspirazione alla libertà individuale? Dopo aver trattato l’argomento, fai riferimento ad altre opere di Alfieri a te note per mostrare gli aspetti diversi, e non solo politici, che il concetto di tirannide assume nell’autore.

Johann Heinrich Füssli, L’incubo, 1790-1792. Francoforte, Museo Goethe.

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LetteraturaLetteratura e societàe Società IL GRAND TOUR Le origini Durante il XVII secolo appare una nuova figura di viaggiatore: dall’Inghilterra elisabettiana partono giovani aristocratici diretti verso il continente, spinti dal desiderio di conoscere altri Paesi e altre culture, di allacciare rapporti con le famiglie importanti nei luoghi visitati, di allargare i confini della propria formazione prima di affrontare la vita. La Corona inglese finanzia questi viaggi, che diventano la tappa finale di un lungo e articolato tirocinio, atto a formare la classe dirigente del Paese. Tra i tanti artefici e sostenitori di tale consuetudine – Thomas Hobbes, John Milton, Robert Boyle – Francis Bacon (1561-1626), facendo tesoro delle proprie esperienze, nel trattato Of travel (“Sul viaggio”) presenta le regole e i consigli del viaggio di formazione: Se volete che il giovane apprenda il più possibile durante il viaggio dovrete così comportarvi. Primo egli deve conoscere qualcosa della lingua del paese in cui si reca; poi deve avere un servo o un tutore come guida del paese. Dategli da portare qualche libro che descriva i paesi che visiterà; fate che egli tenga un diario. Non fate che rimanga troppo tempo in un paese o in una città; fate in modo che cambi spesso dimora da una parte all’altra delle città: ciò contribuirà a renderlo più pratico della città, ma fate che frequenti il miglior ambiente della città dove si trova; procurategli delle lettere di presentazione per persone che abitino nei paesi che visita: queste gli serviranno per facilitarlo nelle visite che più gli interessano. da C. De Seta, L’Italia nello specchio del «Grand Tour», in Storia d’Italia. Annali, 5, Il paesaggio, Einaudi, Torino, 1982

Gli itinerari Se Montaigne nel XVI secolo parla di voyage, ben presto tra questo termine e gli altri sinonimi, come travel o journey, si fa strada quello di tour, che designa in maniera specifica il “giro” di Paesi continentali con partenza ed arrivo nella medesima città, senza soluzione di continuità. L’Italia riveste una posizione preminente all’interno del Grand Tour, arrivando a costituire una sorta di “compendio d’Europa” per la diversità del paesaggio, del clima, dei sistemi politici ed economici, della varietà delle popolazioni. Il percorso dei giovani aristocratici europei segue le vie di comunicazione più agevoli tra il Nord, Roma e Napoli (raramente ci si spinge oltre) per poi risalire. Di solito l’inizio e la fine del viaggio sono rappresentati dal Moncenisio e dal Brennero, o da Genova per chi giunge per mare. I diversi itinerari si snodano rincorrendo anche feste civili e religiose, come i carnevali e le fastose cerimonie sacre romane, e quasi tutti includono nel percorso o il Carnevale di Venezia o la Settimana Santa a Roma. Nella scelta delle varie tappe, un ruolo importante è ricoperto dalla ricerca delle testimonianze dell’antichità greca e romana. Ma l’Italia è una tappa imprescindibile anche per gli appassionati musicofili, che considerano Venezia e Napoli capitali musicali dell’Europa. Le motivazioni Non mancano comunque i detrattori della pratica del Grand Tour: qualcuno fa leva sui rischi del viaggio, legati anche al pericolo, più temuto che reale, di incappare nelle maglie dell’Inquisizione, o sulla giovane età dei viaggiatori, di solito appena diciottenni, anche se non mancano ragazzi che affrontano il viaggio già a quattordici e persino a undici anni. Nonostante le critiche, la fortuna del Grand Tour non accenna a diminuire: sul finire del XVII secolo John Locke (1632-1704) espone chiaramente, nel saggio Some Thoughts Concerning Education (“Pensieri sull’educazione”, 1693), l’idea che tramite l’esperienza del “grande giro” il giovane possa acquisire quelle doti di intraprendenza, coraggio, attitudine al comando, capacità di rapide decisioni, conoscenza di costumi e lingue straniere, che sono necessarie ai futuri membri della classe dirigente, borghesi o nobili, sia che operino nel campo delle libere professioni o dell’amministrazione pubblica, sia che siano destinati a gestire il proprio patrimonio. La © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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curiosità che spinge il viaggiatore, infatti, non è mai fine a se stessa, ma rivolta ad acquisire l’esperienza necessaria per vivere nel mondo degli adulti. Montesquieu (1689-1755), che compie il viaggio in Italia nel 1728, è interessato al Paese “reale”: la tappe principali del suo viaggio sono Firenze e Roma, ma nel corso del suo itinerario osserva anche le infrastrutture militari e commerciali. A Venezia presta attenzione ai macchinari usati per dragare la laguna, in ogni regione visitata raccoglie dati sulla produzione agricola, sulle rendite di ciascuna coltura, sui sistemi di irrigazione, sul controllo della rete fluviale, sul commercio, sulla popolazione presente, a volte mettendo in discussione le informazioni ricevute, spesso compiendo comparazioni tra le diverse regioni. Nel Settecento il tour assume i caratteri di maggiore cosmopolitismo: con gli uomini viaggiano e si diffondono le idee, contribuendo così alla formazione di un’idea partecipata di Europa, intesa come condiviso patrimonio ideale e civile. L’entusiastica scoperta dei tesori di Ercolano (1738) e Pompei (1748) spostano verso sud il baricentro di questi viaggi alla scoperta delle radici della civiltà. È grazie agli scavi di Pompei ed Ercolano e al lungo soggiorno a Roma che Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) porta a termine la sua fondamentale Storia dell’arte nell’antichità (1764). Il viaggio degli Italiani Gli Italiani spesso intraprendono lo stesso itinerario degli stranieri in senso opposto: dopo aver visitato Roma, Napoli, Firenze, varcano le Alpi e si dirigono a nord. Se gli stranieri scendono nella penisola per imparare la storia dell’arte antica e del Rinascimento e per immergersi nella natura e nel sole, gli Italiani salgono verso l’Europa mossi dalla ricerca di istituzioni politiche sagge e ordinate, di corti favolose e munifiche, desiderosi di conoscere riforme economiche da imitare, sollecitati dalla fama di migliori condizioni di igiene e di trasporto e di decorosi servizi pubblici. Ma non sempre la realtà dei fatti è all’altezza delle aspettative. Esemplare in tal senso è la vicenda di Vittorio Alfieri, che si mette in viaggio per soddisfare la sua smania di conoscenza, per uscire dall’oppressione di una “provincia” asfittica e mortificante, per sfuggire a quella insofferenza nello stare che lamenta nella sua autobiografia. Dopo aver girato l’Italia in compagnia di un olandese e un fiammingo che stanno compiendo con il loro precettore il Grand Tour, Alfieri attraversa Francia, Inghilterra, Olanda, Austria, Germania, Danimarca, Svezia, Finlandia, Russia, Spagna e Portogallo. Da questi continui spostamenti, lo scrittore ricava le impressioni fissate nella Vita: le corti principesche gli appaiono ridicole, così come ridicola appare la genuflessioncella di uso fatta con faccia servilmente lieta e adulatoria da Pietro Metastasio a Maria Teresa a Vienna. Piacevoli e accoglienti risultano invece l’Olanda e l’Inghilterra, per l’aria di libertà che vi si respira e per il buon governo che consente un benessere generalizzato. La Prussia ha l’aspetto di una universal caserma dalla quale fuggire al più presto, così come Caterina II gli appare come una sanguinaria autocrate e i Russi barbari mascherati da Europei. Nel paesaggio nordico di Svezia e Finlandia, Alfieri trova un mondo fatto di silenzio e deserti congeniali alla propria indole, in cui concepire idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi di essere fuor del globo (Vita, Epoca terza, IX).

Johann Zoffany, La Tribuna degli Uffizi, 1772-1778. Windsor, Royal Collection. I musei e i siti archologici d’Italia sono le mete preferite dei giovani aristocratici che intraprendono il Grand Tour.

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Concetti chiave LA VITA E LE OPERE Vittorio Alfieri nasce nel 1749 ad Asti in una famiglia nobile e agiata. A nove anni è iscritto all’Accademia militare di Torino, dove studia di malavoglia e mostra un temperamento ribelle. Dal 1766, grazie all’ingente fortuna ereditata dallo zio tutore, viaggia, secondo la moda settecentesca del Grand Tour, in Italia e per tutta Europa: rivela però già un temperamento inquieto. Rientrato a Torino nel 1772, scopre la propria vocazione e comincia a scrivere trattati, poesie, un diario e le tragedie. A Firenze conosce la contessa d’Albany, a cui rimarrà legato per tutta la vita, seguendola a Roma e all’estero. Lo scoppio della Rivoluzione francese sorprende Alfieri a Parigi: dopo i primi entusiasmi, nel 1792 si allontana deluso dalla Francia e con la contessa d’Albany si stabilisce a Firenze, dove trascorre gli ultimi anni di vita fino al 1803. Le opere maggiori di Alfieri sono due trattati politico-filosofici, la raccolta delle Rime, alcune satire, una autobiografia e, soprattutto, le 21 tragedie. IL PENSIERO E LA POETICA Nonostante alcuni legami con il modo di pensare e scrivere del Settecento, la personalità di Alfieri presenta già alcune caratteristiche romantiche, quali la forte inquietudine, le accese passioni e l’aspirazione alla libertà assoluta, estranea alle concrete vicende storiche e sociali del periodo. Contrastato è il suo rapporto con l’Illuminismo, al cui ottimismo politico e alla razionalità antepone la forza delle passioni. La sua insofferenza verso ogni forma di tirannide – intesa sia in senso politico sia come potere del destino che schiaccia l’uomo – si unisce al fastidio nei confronti delle masse, a cui oppone l’individualismo eroico, pronto a dare la vita pur di affermare la propria libertà. Testo fondamentale per comprendere il pensiero politico di Alfieri è il trattato Della tirannide, che risente dell’influsso delle teorie illuministiche, ma si ispira anche al Principe di Machiavelli e non è privo di spunti preromantici. L’opera presenta i diversi aspetti del potere tirannico e i modi in cui è possibile opporsi ad esso, soffermandosi sul concetto di libertà: ma le uniche so© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

luzioni che prospetta sono l’isolamento, il suicidio o il tirannicidio. Nel trattato Del principe e delle lettere Alfieri affronta invece la questione del rapporto fra intellettuale e potere, rivendicando l’autonomia solitaria del poeta e il primato della letteratura sulle altre arti. LE RIME E LA VITA Pubblicate in parte nel 1789 e postume nel 1804, le Rime esprimono, dopo una prima fase di apprendistato classicista, sentimenti di solitudine, malinconia, angoscia. Una ferma norma stilistica si contrappone all’urgenza delle passioni, spesso dettate da motivi autobiografici. Il principale modello letterario è Petrarca, ma è presente anche l’influsso di Dante e di altri autori trecenteschi, come emerge dalla lingua spesso arcaica e dallo stile duro; a livello sia tematico, sia stilistico, spesso si evidenzia inoltre una sensibilità preromantica. Iniziata nel 1790 e conclusa solo nel 1803, La vita di Vittorio Alfieri scritta da lui stesso è un lungo testo autobiografico, in cui l’autore fornisce di sé un autoritratto ideale, attraverso il racconto delle esperienze e del suo percorso interiore. LE TRAGEDIE Opere maggiori di Alfieri sono le 21 tragedie, scritte in endecasillabi sciolti. Le opere alfieriane si possono leggere sia in chiave autobiografica, quale rappresentazione dello scontro titanico fra l’io e il mondo, tra l’eroe poeta e il tiranno, sia in chiave universale, in quanto simbolo della lotta dell’uomo contro il potere, politico o inteso come destino. I personaggi sono uomini e donne eccezionali, immersi in una solitudine smisurata, impegnati in una battaglia contro il crudele tiranno (Timoleone, Polinice), contro indomabili passioni o contro la propria follia (come Mirra e Saul) e a favore della libertà, politica o esistenziale. Tali violente emozioni sono rappresentate in una forma solenne e severa e sono strutturate secondo le convenzioni classiche e il rispetto delle tre unità aristoteliche. Gli argomenti sono ripresi dalla classicità e dal mito (Mirra, Polinice, Oreste), ma anche dalla Bibbia (Saul) e dalla storia (Filippo, La congiura de’ Pazzi). CAP. 13 - VITTORIO ALFIERI

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sercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Vittorio Alfieri nasce nel 1749 a. a Torino, da ricca famiglia borghese. b. ad Asti, dove il padre si è rifugiato dopo la fuga da Torino. c. ad Asti, da Monica Maillard e dal padre che morirà dopo un anno. d. a Torino, dove il padre si è trasferito dopo il matrimonio con Monica Maillard. 2. Alfieri fin da piccolo mostra un temperamento a. riservato e timido. b. amante dello studio e dei poeti classici greci e latini. c. ribelle, insofferente allo studio e desideroso di autonomia e libertà. d. portato alla disciplina militare. 3. In gioventù Alfieri si dedica a. allo studio approfondito dei poeti classici greci e latini. b. allo studio delle opere preromantiche dello Sturm und Drang. c. ai viaggi, prima in Italia e poi in tutta l’Europa. d. alla dilapidazione dell’eredità lasciatagli dal padre. 4. La conversione letteraria del poeta data dal a. soggiorno in Francia presso Luigi XV. b. soggiorno a Venezia nel 1774. c. soggiorno in Inghilterra, che gli sembra il paese più libero. d. rimpatrio a Torino nel 1774. 5. Alfieri si dichiara deluso dalla Rivoluzione francese perché a. era stato amico del re Luigi XV. b. non aveva portato alle conquiste sociali e popolari da lui desiderate. c. l’Inghilterra gli era sembrata il paese più libero d’Europa. d. anche i rivoluzionari gli sembravano sanguinari tiranni. 6. La nobildonna amata da Alfieri si chiama a. Luisa Stolberg, contessa d’Albany. b. Penelope Pitt. c. Monica Maillard di Tournon. d. Madame de La Fayette. 7. Vittorio Alfieri venne sepolto a. a Roma, nel Pantheon, nel 1803. b. ad Asti, dove era nato, nel 1749. c. a Firenze, in Santa Croce, nel 1803. d. a Torino, in Santa Croce, nel 1803. 8. Sul piano letterario Alfieri viene considerato a. un maestro del Barocco e un continuatore dell’Illuminismo francese. b. un amante ed imitatore dei tragediografi classici greci e latini.

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c. maestro del classicismo e precursore del Romanticismo in Italia. d. continuatore dell’Arcadia e dello spirito morale di Parini. 9. Vittorio Alfieri scrive a. tragedie, liriche, trattati, satire e una autobiografia. b. tragedie e un trattato politico-filosofico. c. un canzoniere e trenta tragedie. d. rime, poemi epici e ventuno tragedie. 10. La Vita di Vittorio Alfieri scritta da lui stesso è a. un lungo monologo sui contrasti interiori del poeta. b. una autobiografia piena di notizie precise sulla vita del poeta. c. un racconto denso di colpi di scena, digressioni e dal ritmo incalzante. d. un ritratto ideale per fare di se stesso un personaggio. 11. Le Rime di Vittorio Alfieri sono a. il miglior canzoniere del Settecento. b. una specie di autobiografia del poeta. c. una raccolta di sonetti di stampo arcadico e manieristico. d. un poema satirico della società del suo tempo. 12. Nelle situazioni in cui predomina la tirannide, secondo Alfieri l’uomo degno deve a. progettare un tirannicidio. b. progettare il proprio suicidio. c. ritirarsi a vita privata a pensare, dire e scrivere contro il tiranno. d. secondo i casi: uccidere il tiranno, suicidarsi o dedicarsi alla scrittura. 13. La libertà cui aspira Alfieri si configura come a. un diritto democratico. b. la tensione verso un valore assoluto. c. un sentimento d’amore romantico. d. l’utopia velleitaria di un folle. 14. Il tema centrale delle tragedie di Alfieri è a. l’avversione per la tirannide e per la violenza di ogni potere. b. l’avversione per l’autorità del re e del clero. c. l’odio contro la classe dominante. d. l’odio contro le masse servili e i contadini. 15. Le tre fasi della realizzazione della tragedia secondo Alfieri sono a. l’ideazione, la stesura e la sceneggiatura. b. l’ideazione, la sceneggiatura, la stesura dei dialoghi e la verseggiatura. c. la scelta del tema, l’ideazione della storia, la creazione dei dialoghi in versi. d. l’ideazione, la stesura e la verseggiatura.

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16. La struttura delle tragedie di Alfieri salvo rare eccezioni segue a. le regole aristoteliche: cinque atti e unità di luogo, tempo e azione. b. le regole anticlassiciste dei commediografi del Cinquecento. c. le regole dei commediografi latini Plauto e Terenzio. d. il modello delle tragedie di William Shakespeare. ANALISI DEL TESTO

2 Leggi il testo e svolgi gli esercizi proposti. La lirica alfieriana qui di seguito proposta, scritta a Pisa il 4 gennaio 1785, ha come motivo di fondo la solitudine. Non potendo essere accanto alla donna amata, il poeta trova l’unico conforto nell’isolarsi in un luogo selvaggio e nell’affidarsi all’immaginazione, che, in un’improvvisa visione, gliela fa apparire. Qui Alfieri si richiama a Petrarca e sarà ripreso da Foscolo. Solo, tra i mesti miei pensieri, in riva al mar, là dove il Tosco fiume ha foce, con Fido il mio destrier pian pian men giva1; e muggìan l’onde irate in suon feroce. Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva il cuor (cui2 fiamma inestinguibil cuoce) d’alta malinconia: ma grata3, e priva di quel suo pianger, che pur tanto nuoce. Dolce oblio di mie pene e di me stesso nella pacata fantasia piovea; e senza affanno sospirava4 io spesso: quella5, ch’io sempre bramo, anco parea cavalcando venirne a me dappresso… Nullo error6 mai felice al par mi fea7. da Rime, in Opere di Vittorio Alfieri da Asti, a cura di F. Maggini, Casa di Vittorio Alfieri, Asti, 1954 1. men giva: me ne andavo. 2. cui: che. 3. grata: gradita. 4. sospirava: sospiravo. 5. quella: la donna amata; Luisa Stolberg-Gedern, contessa d’Albany, compagna del poeta dal 1777. 6. Nullo error: nessuna illusione. 7. fea: fece.

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del sonetto in non più di 5 righe. 2. Svolgi la parafrasi del testo con l’aiuto delle note. Analisi e interpretazione 3. Individua e presenta il metro della composizione.

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4. Analizza i rapporti fra metro e sintassi, ovvero le figure metrico-sintattiche. 5. Elenca e spiega le più rilevanti figure retoriche presenti nel testo. 6. Individua e illustra i motivi tematici della lirica e le relative parole chiave. 7. Metti in luce le reminiscenze classiche che caratterizzano la lirica. Approfondimenti 8. La lirica ha come motivo di fondo la solitudine, che viene espressa attraverso l’evocazione di emozioni cui la natura presta immagini e sensazioni. Quali sono? In quali altri grandi artisti – anche nel campo delle arti visive – hai ritrovato un simile modo di espressione? Svolgi a tal proposito una relazione che non superi le 30 righe. 9. Sono molti i richiami a livello lessicale e formale che suggeriscono di accostare questo sonetto di Alfieri a Petrarca, Dante e Tasso: trovali, spiegali e inseriscili in una relazione sul confronto tra questi poeti. SAGGIO BREVE / ARTICOLO

3 Sviluppa il seguente argomento in forma di saggio breve o di articolo di giornale, utilizzando come materiali di consultazione le pagine dedicate ad Alfieri di questo volume (comprese le pagine antologiche e critiche). Dai all’elaborato un titolo coerente con la trattazione e indicane una destinazione editoriale a tua scelta. Per entrambe le forme di scrittura non superare le tre colonne di metà foglio protocollo. L’utopistica libertà di Alfieri: una tragica lotta contro ogni forma di costrizione nei confronti dell’individuo. TEMA DI ARGOMENTO STORICO

4 Svolgi la seguente traccia. Il Piemonte sabaudo ai tempi di Vittorio Alfieri, nel quadro della storia europea del Settecento e del primo Ottocento. TEMA DI ORDINE GENERALE

5 Svolgi la seguente traccia. Prendendo spunto dalla Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso, rifletti sull’autobiografismo e sul peso che esso ha talvolta nelle opere letterarie e nelle altre forme di produzione artistica (compreso il cinema). Quali aspetti della vita di Alfieri hanno suscitato il tuo interesse? Quali biografie di altri autori, artisti o registi conosci? In generale, che cosa ti stupisce, ti coinvolge, ti turba di più della vita degli altri?

CAP. 13 - VITTORIO ALFIERI

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CAPITOLO

14

Fra Neoclassicismo

e Preromanticismo

Antonio Canova, Paolina Borghese Bonaparte raffigurata come Venere vincitrice, 1808. Roma, Galleria Borghese.

IL NEOCLASSICISMO

I caratteri del movimento

La tendenza artistica dominante dagli ultimi decenni del Settecento all’età napoleonica è il Neoclassicismo, un movimento culturale che si ispira ai modelli romani e – soprattutto nella prima fase – greci, di cui vuole recuperare l’equilibrio, la proporzione, la semplicità e l’armonia. Esso nasce in contrapposizione agli eccessi di bizzarria del Barocco e alla leziosità del Rococò. Appoggiandosi ai ritrovamenti archeologici e a una migliore conoscenza dell’arte classica, ritorna a forme più composte e severe, nobilmente dignitose e regolate da princìpi di ordine e di simmetria, in accordo con le istanze dell’età illuminista. Se l’intento generale originario è quello di superare l’esausta e artificiosa esperienza barocca in nome di una composta, semplice e meditata concezione della bellezza, intesa come fusione di natura e di intelligenza, di passione ed equilibrio razionale, secondo gli insegnamenti dell’età classica, il Neoclassicismo maturo però accoglie anche alcuni elementi dell’Arcadia – la semplicità di linguaggio – e dello stesso Rococò (in particolare, il recupero come decorazioni di elementi dell’arte romana). Il termine Neoclassicismo viene introdotto solo verso la fine dell’Ottocento, ossia oltre un secolo dopo l’origine della tendenza: gli artisti dell’epoca non avevano infatti piena consapevolezza della loro originale identità rispetto agli altri momenti storici del classicismo. Anche l’arte di altre età, in particolare quella dell’epoca umanistica e rinascimentale, si ispira al mondo classico; ma il tratto che caratterizza il Neoclassicismo settecentesco è un senso di nostalgia per il passato classico, l’ammirazione per un modello di perfezione avvertito come irraggiungibile.

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L’opera di Winckelmann

Il mito della Grecia classica

Roma, cuore del primo Neoclassicismo Gli scavi archeologici

Napoli e i nuovi valori

Il sogno di Winckelmann

La teoria estetica neoclassica

Il modello ideale e i canoni neoclassici

L’opera che segna la data di nascita del Neoclassicismo in Europa è universalmente riconosciuta come la Storia dell’arte nell’antichità di Johann Joachim Winckelmann, pubblicata a Dresda nel 1764. Insieme ad altri scritti di Winckelmann – e ai saggi di Anton Raphael Mengs (17281779), artista boemo attivo in Italia – la nuova tendenza neoclassica influenza in modo molto ampio lo sviluppo della cultura, dell’arte figurativa, del teatro, della letteratura e della civiltà dell’ultimo scorcio del Settecento e degli inzi dell’Ottocento in tutto il continente europeo e anche negli Stati Uniti (dove assume la denominazione di Rinascimento americano). Il Neoclassicismo di Winckelmann, affermando il ritorno a una concezione classicista dell’arte fondata sulla linearità (forme semplici), sulla misura (euritmia e simmetria) e sulla bellezza come armonia, si ricollega soprattutto ai modelli greci. Nasce così il mito della Grecia classica, luogo e momento ideale dell’arte, utopia che domina nell’immaginario europeo nei primi decenni del secolo, che ha come esponenti principali il francese André-Marie de Chénier (1762-1794), il tedesco Friedrich Hölderlin (1770-1843) e l’inglese John Keats (1795-1821), e influenza anche poeti italiani come Vincenzo Monti e Ugo Foscolo. Il cuore del Neoclassicismo è la Roma di papa Pio VI, ammiratore del Rinascimento e mecenate, che attira intellettuali e artisti da tutta Europa. Il Neoclassicismo si diffonde in tutto il vecchio continente grazie ai viaggi degli artisti venuti in Italia a visitare e studiare i reperti degli scavi archeologici. Essi, dal 1738, riportano alla luce i resti di Ercolano e di Pompei, le città che emergono miracolosamente quasi intatte dal passato perché sepolte dalle ceneri dell’eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 d.C., nonché la villa Adriana di Tivoli (1742) e l’antica Paestum (1750). I tesori riemersi dal tempo vengono esposti a Napoli, città che diventa il secondo centro d’irradiazione del Neoclassicismo. I nuovi valori individuati nelle opere esposte sono l’amore del bene e del bello, la saggezza, l’eroismo, la serenità e la stoica compostezza: essi sono riaffermati nelle opere di Winckelmann come eterni princìpi etici che elevano l’uomo dall’angoscioso confronto con la morte e la caducità, tipico del Barocco, e diventano i capisaldi della cultura del periodo. Johann Joachim Winckelmann, nato in Prussia nel 1717 e morto a Trieste nel 1768, fin da giovane coltiva il sogno di recarsi in Italia a studiare le opere degli antichi. Insegna e scrive diversi saggi prima di ottenere da Augusto III di Sassonia una pensione che, nel 1755, gli rende possibile realizzare il suo obiettivo. Nominato prefetto per le antichità di Roma nel 1763, scrive numerosi resoconti sulle scoperte di Ercolano e Pompei, e lettere ai potenti europei su tematiche neoclassiche. Reduce da un riconoscimento ottenuto da Maria Teresa a Vienna, viene assassinato da un rapinatore mentre sta ritornando a Roma. Nell’opera Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura del 1755, egli sviluppa compiutamente la sua teoria estetica. L’arte, a suo parere, deriva da una prima imitazione, quella della “bella natura”. Successivamente a questa prima operazione avviene l’atto creativo vero e proprio, che si manifesta quando l’intelletto sviluppa l’idea. L’idea consiste in una sorta di bello ideale, una fusione in un unico soggetto, detto appunto ideale, operata dall’artista, che sintetizza le varie bellezze individuali presenti nelle persone o negli oggetti concreti. Al centro della teoria di Winckelmann c’è l’ideale classico, che mira a rivalutare la figura dell’uomo e la sua bellezza sublime, libera da ogni artificio. Da questa concezione, tra l’altro, proviene la predilezione degli artisti neoclassici per il nudo, inteso come espressione di purezza. L’uomo di per se stesso è la fonte primaria dell’ispirazione e della rappresentazione d’arte, in quanto espressione di una natura bella e ideale, quando la sua bellezza è – come nei capolavori greci – nobile, semplice, proporzionata, serena e grande. I canoni del Neoclassicismo sostenuti da Winckelmann sono la nobile semplicità e la serena grandezza, qualità artistiche che devono venir conseguite in modo assoluto, anche allontanandosi dal realismo e dalla verità, se occorre, pur di salvaguardare la bellezza. L’esempio perfetto di questa idea è per Winckelmann la celebre sta-

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tua dell’Apollo del Belvedere, attribuita allo scultore greco Leocare (IV secolo a.C.) e conservata a Roma: qui il bello e il buono si integrano per realizzare la perfetta bellezza ideale tipica delle opere classiche (cfr. fotografia a pag. 226).

Il secondo teorico: Giovanni Battista Piranesi

Gli artisti più insigni

Grazie alla diffusione delle opere del secondo grande teorico del Neoclassicismo, l’italiano Giovanni Battista Piranesi (1720-1778), attivo a Roma, l’ammirazione per l’arte del passato si sposta maggiormente verso la latinità. In Della magnificenza ed architettura de’ Romani del 1761, Piranesi esalta l’arte romana e il suo senso del solenne e dell’eroico, ponendo in luce soprattutto la gloria e la storia. Dall’ammirazione per le opere riportate alla luce, ma anche per quelle da sempre visibili – come i resti dell’antica Roma, la Domus aurea, i Fori, il Colosseo – nasce il mito della Roma imperiale, che contagerà anche Parigi, nel periodo napoleonico, con lo sviluppo del cosiddetto stile impero, che dalla pittura tracimerà nelle arti applicate, nell’arredamento e nella moda. Gli artisti più significativi del Neoclassicismo in Europa, oltre al già citato Anton Raphael Mengs, saranno Jacques-Louis David (1748-1825), autore ispirato dalla grandezza morale eroica; Antonio Canova (1757-1833), che mostra la variante più raffinata e morbida della bellezza ideale; Dominique Ingres (1780-1867) e lo scultore danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844).

La concezione neoclassica e l’Italia

I teorici italiani

Focus

Le concezioni e le poetiche neoclassiche si riflettono in Italia dapprima soprattutto nell’attività di numerosi eruditi, di cui l’esponente più significativo è il marchigiano Luigi Lanzi (1732-1810), che nel 1795 pubblica la Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle belle lettere fin presso al fine del XVII secolo, al cui interno la preminenza viene attribuita all’arte greca e, fra i moderni, a Raffaello. Il più originale risultato si ritrova però nella produzione del pugliese Francesco Milizia (1725-1798), importante teorico d’arte italiano dell’epoca illuministica e neoclassica. Nei suoi numerosi trattati, nel difendere il gusto classicista, egli fa ricorso a una passione ideale, che lo spinge spesso anche alla polemica. Il suo temperamento lo discosta dagli aspetti più aggraziati dell’arte greca per indurlo all’ammirazione per i Romani, delle cui superbe rovine egli avverte il fascino in termini di grandiosità, prima ancora che di armonioso equilibrio. Scrive le opere Vite de’ più celebri architetti d’ogni nazione e d’ogni tempo (1768) e il Dizionario delle belle arti del disegno (1797). Nei Principii di architettura civile (1781), opera di forte impronta illuministica, destina la nuova architettura e urbanistica neoclassica a un popolo illuminato dalla ragione, e considera l’architetto necessariamente filosofo e buon cittadino oltre che artista. Milizia, come Winckelmann, colloca al centro dell’arte neo-

GLI SCAVI ARCHEOLOGICI E LA PASSIONE PER LE ROVINE

Momento iniziale del rinnovato interesse per l’arte classica sono gli studi archeologici, che si traducono in campagne di scavi senza precedenti. Dopo quelli di Bianchini al Palatino (1720), Carlo di Borbone promuove gli scavi di Ercolano (1738; ma la scoperta della città risale al 1709), di Villa Adriana a Tivoli (1742), per finire con quelli più celebri di Pompei (1748). La riscoperta delle città sepolte di Ercolano e Pompei, distrutte nel 79 d.C. da una violenta eruzione del Vesuvio, suscita una grande impressione, perché dà la sensazione di poter recuperare l’immagine fedele del mondo romano del I secolo d.C. A rinnovare gli entusiasmi, giunge verso la metà del secolo la scoperta, nella pianura del Sele, della città di Paestum. Nasce così una vera e propria moda per le rovine antiche, declamate spesso nei versi dei poeti o effigiate nelle opere dei pittori. A Roma, ad esempio, hanno grande successo le incisioni di Giovanni Battista Piranesi, che riproducono i resti archeologici della città. Se da un lato il rovinismo, inteso come gusto per le vestigia delle civiltà antiche, nasce in seguito all’entusiasmo per i ritrovamenti archeologici di questi anni, dall’altro esso molto presto si unisce ad un preromantico senso di angoscia e di rimpianto per le civiltà del passato irrimediabilmente scomparse. Tale atteggiamento ambivalente in Italia è ampiamente presente nell’opera di Ugo Foscolo, ma è possibile riscontrarlo anche nel profondo dolore per la scomparsa dei grandi popoli antichi espresso da Giacomo Leopardi nella Sera del dì di festa (cfr. materiali on line del capitolo 21).

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classica la figura umana; egli usa lapidarie espressioni, alcune delle quali rimaste celebri: l’uomo è la cosa più preziosa per l’uomo. […]. Non è limitarsi il restringersi alla imitazione dell’uomo; è dare all’arte l’oggetto il più bello.

Il Neoclassicismo e le poetiche letterarie

Il concorso dell’Accademia virgiliana

La contrapposizione con i Preromantici

I meriti del Neoclassicismo letterario

La questione della lingua

Sul piano del dibattito intorno alle poetiche letterarie, il Neoclassicismo in Italia si trova in contrasto soprattutto con le nascenti tendenze preromantiche, considerate inizialmente come mode straniere, estranee alla tradizione classica della cultura greca e romana e animate dal sentimentalismo e da colori tetri e malinconici. Nel 1781, tale dibattito emerge in modo esemplare in relazione al quesito posto in un concorso bandito dall’Accademia virgiliana di Mantova: Qual sia presentemente il gusto delle belle lettere in Italia e come possa restituirsi se in parte depravato: nelle risposte alla domanda emergono con chiarezza le distinzioni fra la tendenza neoclassica e quella preromantica. Fra i più accesi oppositori della nuova corrente preromantica va ricordato il roveretano Clemente Vannetti (1754-1795), che nei suoi Dialoghi dell’eremita deride e satireggia ogni variante del nuovo gusto, che accusa di incapacità di produrre stile raffinato, di essere in balia di sentimentalismo, disordine e furore e di trattare soggetti morbosi e malinconici, proponendo invece l’imitazione della poesia greca e latina e della natura. Il merito principale del Neoclassicismo letterario italiano consiste nell’aver ravvivato – dopo l’esaurimento del Barocco – le forme della bellezza, usando i modelli classici con una sensibilità vicina al pubblico contemporaneo, pur continuando però a rivolgersi a una ristretta fascia di lettori e a concepire la poesia come espressione artistica aristocratica. Molti scrittori neoclassici italiani hanno tuttavia anche il merito di occuparsi a fondo della questione linguistica. In particolare, Vincenzo Monti afferma che la questione della lingua è fondamentale per una nazione in formazione che non vuol essere, come sostiene la contemporanea dominazione austriaca, una semplice “espressione geografica”. Un Paese si definisce a partire dalla cultura delle persone che ne fanno parte: la produzione di opere letterarie destinate a tutto il pubblico italiano, come sostiene Monti, è viva espressione dello spirito nazionale, poiché la lingua letteraria comune è il principale tratto di fisionomia che conserva agli Italiani l’aspetto di una ancor viva e sola famiglia. Per tale motivo, il dibattito intorno alla questione linguistica acquista, fra i letterati della penisola, un peso che non trova riscontro in nessuna altra nazione europea. In tale ambito i puristi – l’abate veronese Antonio Cesari (1760-1828), che cura la ristampa del Vocabolario della Crusca; il napoletano Basilio Puoti (1782-1847), maestro del critico Francesco De Sanctis, nemico dei gallicismi; Luigi Fornaciari (1798-1858), il cui Esempi di bello scrivere in prosa e poesia (1835) forma generazioni di Italiani – auspicano il ritorno alla lingua pura dei grandi scrittori fiorentini del Trecento. Vincenzo Monti propone invece l’uso di una lingua non solo fiorentina ma “italiana”, modellata sul linguaggio dei grandi scrittori di tutto il Paese, da Dante a Vittorio Alfieri. La sua tesi è sostenuta dal piacentino Pietro Giordani (1774-1848), tra i fondatori della rivista milanese “Biblioteca italiana” (1816) e collaboratore de “L’Antologia”(1821-1833) del fiorentino Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863).

VINCENZO MONTI La vita e le opere

Dall’ammissione all’Arcadia agli anni romani

Nato nel 1754 ad Alfonsine, presso Ravenna, nello Stato della Chiesa, Vincenzo Monti è l’ottavo figlio di una famiglia di agiati proprietari terrieri. Studia nel seminario di Faenza e poi all’Università di Ferrara, dove frequenta i corsi di giurisprudenza e medicina. Dimostrando talento nel comporre versi in occasione di eventi pubblici e privati, inizia a dedicarsi alla letteratura e nel 1775, poco più che ventenne, viene ammesso all’Accademia dell’Arcadia.

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Le opere neoclassiche e la Bassvilliana

Da poeta dell’aristocrazia a cantore di Napoleone

La produzione encomiastica e la traduzione dell’Iliade

A partire dal 1778, protetto dal cardinale Scipione Borghese, Monti si stabilisce a Roma e inizia a comporre opere celebrative di tipico gusto neoclassico. Nel 1781, assunto come segretario dal duca Luigi Braschi, nipote di papa Pio VI, si dedica esclusivamente alla poesia, diventando cantore ufficiale dell’aristocrazia romana. Fra le numerose opere del periodo romano, spesso di carattere apologetico ed encomiastico, sono da ricordare soprattutto: la Prosopopea di Pericle (1779), ode neoclassica sul ritrovamento di un busto di Pericle in una villa di Tivoli, che esalta il mecenatismo pontificio; La bellezza dell’universo (1781), poemetto per le nozze del duca Braschi, in cui si cantano la creazione del mondo e lo splendore della natura; gli Sciolti al principe Don Sigismondo Chigi (1783) e i Pensieri d’amore (1782), di gusto preromantico, ispirati dall’infelice passione del poeta per la giovane Carlotta Stewart. Opera principale del periodo è la celebre ode Al signor di Montgolfier, in cui si paragona il primo volo in aerostato alla spedizione dei mitici Argonauti dell’antica Grecia. Nel 1791, Monti sposa Teresa Pikler, che gli darà due figli. Nel 1793, compone la Bassvilliana (o In morte di Ugo di Bassville), un poemetto in terzine dantesche che a Roma, ambiente tradizionalmente conservatore, riscuote grande successo, in quanto giustifica l’uccisione di Nicolas-Jean Hugo de Bassville, segretario della legazione francese a Napoli, assassinato in città dalla plebe ostile alla Rivoluzione francese. Nei versi, si narra come l’anima di Bassville venga salvata da un angelo che, prima di condurlo in Purgatorio, gli mostra le stragi commesse dai giacobini in Francia, di cui il rivoluzionario si pente. Nello stesso anno, il poeta inizia la composizione della Musogonia, un poemetto in ottave, rimasto incompiuto, in cui esalta il valore della poesia e narra la nascita delle Muse (temi che Ugo Foscolo porrà al centro de Le Grazie). Negli anni successivi, Monti viene attratto dagli ideali repubblicani; entusiasmato dalle vittorie francesi, invia sonetti bonapartisti agli amici bolognesi, invitandoli a pubblicarli con uno pseudonimo, poiché teme rappresaglie nell’ambiente romano dove c’è chi lo sospetta di simpatie per Napoleone. Nel 1797, Monti abbandona Roma per trasferirsi prima a Bologna e subito dopo a Milano, dove ostenta il proprio appoggio a Bonaparte nell’incompiuto poemetto di impronta fra neoclassica e ossianica, Prometeo. Lo scritto piace a Napoleone: Monti accede a importanti cariche nella Repubblica Cisalpina e diventa amico di Ugo Foscolo, che lo difende da chi lo critica per l’improvviso mutamento di opinione politica, accusandolo di opportunismo. Nel 1798 Monti compone tre cantiche antipapali e antimonarchiche, intitolate Il fanatismo, La superstizione e Il pericolo. Nel 1799, un suo inno viene intonato al Teatro della Scala in occasione dell’anniversario del regicidio di re Luigi XVI (Il tiranno è caduto. Sorgete, / genti oppresse; natura respira: / re superbi, tremate, scendete; / il più grande dei troni crollò): i versi del poeta sono concepiti come esplicita ritrattazione della Bassvilliana. In seguito alla riconquista dell’Italia settentrionale da parte degli Austro-Russi, il poeta deve rifugiarsi a Parigi. Ritorna a Milano dopo la vittoria di Napoleone a Marengo (1800) e ottiene la cattedra di eloquenza a Pavia; sarà poi nominato poeta ufficiale e, nel 1805, storiografo del Regno d’Italia creato da Napoleone. La sua successiva produzione, nel periodo del dominio napoleonico in Italia, è di tipo encomiastico. Più interessanti sono la traduzione dell’Iliade (1810), ritenuta da molti il suo capolavoro, e le lezioni universitarie, in cui Monti tenta di intrecciare la tradizionale poetica neoclassica dell’imitazione, basata sull’equilibrio e il decoro, con la nuova poetica romantica del sentimento, intesa non come libertà sfrenata, ma come educazione del filosofo che nutra di idee e non di sola crusca (vale a dire, abilità retorica) la poesia. Si guastano, intanto, i rapporti con Foscolo, che, in uno scambio di invettive in versi, accusa Monti di servilismo verso i potenti, venendo a sua volta etichettato da lui come uomo immorale; ma a Monti non mancano sostenitori, come il linguista Pietro Giordani, il romanziere francese Stendhal, la scrittrice romantica Madame de Staël e soprattutto i giovani Alessandro Manzoni, che esordisce scrivendo poesie in stile neoclassico e lo considera proprio maestro, e Giacomo Leopardi, che gli dedica le prime canzoni.

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Il ritorno degli Austriaci e gli ultimi anni

Dopo il definitivo ritorno degli Austriaci in Lombardia (1815), il poeta tenta di conquistare il favore dei nuovi governanti con Il mistico omaggio (1815), Il ritorno d’Astrea (1816) e L’invito a Pallade (1819). Ma gli Asburgo diffidano di lui. Emarginato e privato quasi interamente della propria pensione, Monti pone mano al poema mitologico in endecasillabi sciolti Feroniade, iniziato nel 1784 per celebrare la bonifica pontificia delle paludi pontine; in seguito, nel Sermone sulla mitologia (1825), difende la bellezza dei miti classici, criticando il gusto per l’orrido che accompagna il diffondersi del Romanticismo transalpino e in Per il giorno onomastico della mia donna, Teresa Pikler (1826) esprime sentimenti personali con versi sobri e sinceri. Gli ultimi anni dello scrittore, amareggiati dai lutti, dalla solitudine e dalle malattie, sono però importanti per la raggiunta consapevolezza che la questione della lingua sia fondamentale nella formazione della cultura nazionale. All’argomento Monti dedica il saggio Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (pubblicato in sette tomi fra il 1817 e il 1826): egli vi si dichiara convinto sostenitore di una mediazione fra purismo classicista e modernità del linguaggio. Lungo tale ipotesi, a suo modo, si muoverà nei Promessi sposi anche Alessandro Manzoni. Proprio Manzoni, negli ultimi due anni di vita di Monti, ormai dimenticato da tutti, lo visita regolarmente, sentendo il dovere di rendere omaggio a una figura discussa sul piano politico ma punto di riferimento per la poesia di tutta una generazione. Vincenzo Monti si spegne il 13 ottobre del 1828.

T1 Al signor di Montgolfier

Vincenzo Monti

L’ode Al signor di Montgolfier è una delle opere più famose di Vincenzo Monti. Scritta nel 1784 per celebrare il primo esperimento di volo con un aerostato a idrogeno – effettuato in Francia dai non meglio identificati signori Robert e Charles, come riportato dal “Giornale delle Belle Arti” di Roma –, l’ode è però dedicata a Joseph Montgolfier (1740-1810) che, con il fratello Etienne (1745-1799), fu il primo a ideare e a realizzare il pallone inizialmente ad aria calda e senza pilota, che proprio da loro prenderà il nome di mongolfiera. Schema metrico: ode composta da quartine di settenari alternati sdruccioli e piani. PISTE DI LETTURA • Lo stile classico usato per trattare eventi contemporanei • La mitologia esalta la scienza • Tono encomiastico e stile tipicamente classicista

Quando Giason dal Pelio1 spinse nel mar gli abeti2, e primo corse a fendere co’ remi il seno a Teti3, 5

vv. 1-8 Quando Giasone spinse nel mare gli abeti del monte Pelio trasformati in navi e corse a solcare con i remi le onde del mare, regno di Teti, sull’alta poppa la Grecia vide salire, insieme al fiore del sangue acheo, Orfeo, giovinetto senza paura.

su l’alta poppa intrepido col fior del sangue acheo vide la Grecia ascendere il giovinetto Orfeo4.

1. Quando… Pelio: Giasone (figlio di Esone, re di Iolco in Tessaglia) è il mitico eroe greco che guidò la spedizione degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro. 2. abeti: metonimia per navi. 3. fendere… a Teti: altra metonimia, in quanto Teti, dea greca del mare, indica il mare in generale. L’immagine che

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ne scaturisce è ardita: i remi degli Argonauti solcano il seno di Teti, ossia le profondità del mare. Come molte altre nell’ode, l’espressione è di derivazione omerica. 4. Orfeo: il mitico Orfeo, figlio di Apollo e della musa Calliope, ritenuto inventore della poesia, fu il cantore dell’impresa degli Argonauti.

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Stendea le dita eburnee sulla materna lira5; e al tracio suon chetavasi6 de’ venti il fischio e l’ira.

vv. 9-20 Egli stendeva le dita d’avorio sulla cetra donata dalla madre e al canto del poeta originario della Tracia il fischio e l’ira dei venti si calmavano. Accorsero stupefatte le Nereidi figlie di Doride; Nettuno lasciò cadere le briglie dei suoi verdi cavalli alati. Intanto Orfeo, profeta odrisio, cantava la gloriosa impresa della nave Argo, e si udiva il dolce canto aleggiare sulle anime dei Greci.

Meravigliando accorsero di Doride le figlie7; Nettuno ai verdi alipedi8 lasciò cader le briglie. Cantava il Vate odrisio9 d’Argo la gloria intanto, e dolce errar sentivasi sull’alme greche il canto. O della Senna, ascoltami, novello Tifi10 invitto: vinse i portenti argolici l’aereo tuo tragitto.

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vv. 21-32 Ascoltami, [Montgolfier,] nuovo invincibile Tifi della Senna: il tuo viaggio nell’aria ha vinto le imprese degli Argonauti. Sfidare le onde del mare è forse così grande pensiero come occupare il cielo, il regno mai percorso dei fulmini? Ah! perché il favorevole Destino non ha dato al nostro secolo la cetra di un altro Orfeo, se ci ha dato Montgolfier?

Tentar del mare i vortici forse è sì gran pensiero, come occupar de’ fulmini l’invïolato impero? Deh! perché al nostro secolo non diè propizio il Fato d’un altro Orfeo la cetera, se Montgolfier n’ha dato?11 Maggior del prode Esonide12 surse di Gallia il figlio. Applaudi, Europa attonita, al volator naviglio.

vv. 33-44 Il figlio di Francia si innalzò al di sopra del prode Giasone, figlio di Esone. Stupefatta, Europa applaudì la nave volante. Mai la Natura, legata all’ordine delle sue leggi, sopportò dalla potenza della chimica una offesa più bella. Scienza mirabile, da dove è salita la celebrità di Giorgio Stahl e di Giuseppe Black, possa perire lo stolto filosofo incredulo che ti definisce follia.

Non mai Natura, all’ordine delle sue leggi intesa, dalla potenza chimica soffrì più bella offesa. Mirabil arte, ond’alzasi di Sthallio e Black13 la fama, pèra lo stolto Cinico che frenesia ti chiama.

5. materna lira: lo strumento musicale era stato dato in dono a Orfeo dalla madre, la musa Calliope. 6. e… chetavasi: Orfeo era originario della Tracia, ed è qui rappresentato, secondo la tradizione mitica, come il poeta che domina attraverso il suo canto le belve feroci e i fenomeni naturali. Il riferimento del termine tracio a suon anziché a Orfeo è un’ipallage. 7. di Doride le figlie: le Nereidi, così dette in quanto ninfe marine figlie di Nereo e di Doride. 8. verdi alipedi: i cavalli alati del dio Nettuno, che sono detti verdi perché ricordano il colore del mare.

9. odrisio: la Tracia era detta anche Odrisia poiché era stata invasa dagli Odrisi. 10. Tifi: il nocchiero degli Argonauti. 11. Deh! perché al nostro secolo… n’ha dato?: è sottintesa ma evidente l’allusione di Monti a se stesso come a novello Orfeo. 12. Esonide: Giasone, figlio di Esone. 13. Sthallio e Black: Georg Stahl (1660-1734) era un chimico bavarese; Joseph Black (1728-1799) un chimico scozzese: furono autori di scoperte a quel tempo assai importanti in numerosi ambiti.

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De’ corpi entro le viscere tu l’acre sguardo avventi, e invan celarsi tentano gl’indocili elementi.

vv. 45-64 Tu lanci lo sguardo acuto dentro le viscere dei corpi e invano gli elementi ribelli tentano di nascondersi. Tu facesti uscire la verità dalle persistenti tenebre, e ponesti tregua al furore delle ipotesi senza più voce. La conoscenza brillò più lucente vestita del tuo splendore e sono apparse chiare le cause dei fenomeni del mondo. Il terribile soffio infuocato, che sotto il suolo profondo alimenta i terremoti, e scuote le fondamenta del pianeta, reso innocuo ora lo vedi uscire dai corpi di ferro [che riscaldano l’aria della mongolfiera] e ormai domato, utile, lo vedi servire al suo domatore.

Dalle tenaci tenebre la verità traesti, e delle rauche ipotesi14 tregua al furor ponesti. Brillò Sofia15 più fulgida del tuo splendor vestita, e le sorgenti apparvero, onde il creato ha vita. L’igneo terribil aere16, che dentro il suol profondo pasce i tremuoti, e i cardini fa vacillar del mondo, reso innocente or vedilo da’ marzii corpi17 uscire, e già domato ed utile al domator servire.

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Per lui del pondo immemore, mirabil cosa! in alto va la materia, e insolito porta alle nubi assalto.

vv. 65-84 Grazie a lui, dimentica del peso, cosa stupefacente! la materia [dell’aerostato] va in alto, e porta un sorprendente assalto alle nuvole. Il grande prodigio lascia immobili gli spettatori, e un fremito di sgomento attraversa ogni cuore. La terra rimane in silenzio, e risuonano le vie del cielo: si fermano mille volti pallidi, e mille bocche aperte. Il divertimento e la gioia sorgono nello spavento, e i piedi malfermi desiderano andare dietro allo sguardo attento. Ah, venti impetuosi, restate in pace e in silenzio! Non offendetevi se corpi umani oltrepassano il regno delle tempeste.

Il gran prodigio immobili i riguardanti lassa, e di terrore un palpito in ogni cor trapassa. Tace la terra, e suonano del ciel le vie deserte: stan mille volti pallidi, e mille bocche aperte. Sorge il diletto e l’estasi in mezzo allo spavento, e i piè mal fermi agognano ir dietro al guardo attento. Pace e silenzio, o turbini: deh! non vi prenda sdegno se umane salme varcano delle tempeste il regno.

14. rauche ipotesi: sono le teorie, cioè, senza più voce (rauche) del passato: si tratta di una personificazione. L’autore, con entusiasmo illuministico, esalta l’opposizione della scienza sperimentale alla tradizione precedente, alchimistica. Da notare l’uso degli aggettivi: acre, indocili, tenaci, rauche, che danno una resa antropomorfa della situazione e quasi un senso di epica battaglia.

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15. Sofia: la scienza (in greco, sophía significa “scienza, sapienza”). 16. L’igneo… aere: l’idrogeno, che si credeva essere causa dei terremoti. 17. marzii corpi: in quanto il ferro è sacro a Marte, dio della guerra. L’espressione allude alle strutture metalliche della mongolfiera.

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Rattien la neve, o Borea, che giù dal crin ti cola; l’etra sereno e libero cedi a Robert che vola18.

vv. 85-104 O vento di Borea, trattieni la neve che ti scende dai capelli; lascia a Robert che sta volando [sulla mongolfiera] il cielo sereno e libero. Egli non viene a insidiare le passioni di Orizia: tentare la moglie di un dio costa rimorsi e lacrime. Teseo mise il piede nelle stanze del dio dell’oltretomba, Dite: il fato lo punì, e ora sta in catene nell’Erebo. Ma il Dedalo francese è già lontano nel mare del cielo: lo porta leggero il vento Zefiro e l’occhio appena lo raggiunge. La terra che si allontana diventa confusa e sfuggente allo sguardo, e città, foreste e fiumi sembrano ombre.

Non egli vien d’Orizia19 a insidïar le voglie: costa rimorsi e lacrime tentar d’un Dio la moglie. Mise Tesèo nei talami dell’atro Dite il piede: punillo il Fato, e in Erebo fra ceppi eterni or siede20. Ma già di Francia il Dedalo21 nel mar dell’aure è lunge: lieve lo porta Zeffiro, e l’occhio appena il giunge. Fosco di là profondasi il suol fuggente ai lumi, e come larve appaiono città, foreste e fiumi.

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Certo la vista orribile l’alme agghiacciar dovria; ma di Robert nell’anima chiusa è al terror la via.

vv. 105-124 Certo la paurosa visione dovrebbe agghiacciare l’anima; ma nell’anima di Robert è chiusa la via al terrore. E già il suo audace esempio conquista i più contrari; già cento palloni salgono a conquistare il cielo. O coraggio umano, pacifica e sicura scienza, quale forza, quale limite potrà mai competere con il tuo potere? Rubasti i fulmini al cielo, che privi di pericolo ti caddero davanti con le ali troncate, e ti sfiorarono i piedi. Il calcolo guidato dal tuo pensiero ardito misurò il moto e le orbite dei pianeti e delle stelle, l’Olimpo e l’infinito.

E già l’audace esempio i più ritrosi acquista; già cento globi ascendono del cielo alla conquista. Umano ardir, pacifica filosofia sicura, qual forza mai, qual limite il tuo poter misura? Rapisti al ciel le folgori, che debellate innante con tronche ali ti caddero, e ti lambîr le piante22. Frenò guidato il calcolo dal tuo pensiero ardito degli astri il moto e l’orbite, l’Olimpo e l’infinito23.

18. Rattien… vola: Borea, il vento di tramontana, che porta tempesta, è invitato a lasciare libero il cielo a Robert, uno dei due protagonisti del volo in mongolfiera. 19. Orizia: la sposa di Borea, rapita da lui al re Eretteo. 20. Mise Tesèo… or siede: Teseo aveva tentato di rapire Proserpina, moglie di Plutone, scendendo fino agli oscuri Inferi (atro Dite) e venne per questo rinchiuso negli inferi (l’Erebo). 21. di Francia il Dedalo: il mitico personaggio Dedalo fuggì volando col figlio Icaro, primo tra gli uomini, dal la-

birinto di Creta in cui, secondo la leggenda greca, era stato rinchiuso da Minosse. 22. Rapisti… le piante: allusione all’invenzione del parafulmine ad opera di Benjamin Franklin (1706-1790). 23. Frenò… e l’infinito: l’autore qui allude alla scoperta dell’insieme delle leggi sulla gravitazione universale. Olimpo fa riferimento al regno invisibile degli dei, il cosmo; infinito al calcolo infinitesimale matematico: i riferimenti sono alle scoperte di Isaac Newton (1642-1727).

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Svelaro24 il volto incognito le più rimote stelle, ed appressâr le timide lor vergini fiammelle.

vv. 125-140 Le stelle più distanti svelarono il loro volto sconosciuto, e le loro piccole e mai viste luci si avvicinarono. Hai osato dividere i raggi del sole, hai osato pesare l’aria; hai domato la terra, il fuoco, il mare, le belve e l’uomo. Oggi il tuo valore è giunto a navigare le nuvole, e le leggi di natura restarono impotenti e mute. Che cosa ti rimane ancora? Spezzare anche la freccia della Morte e bere il nettare della vita in cielo con Giove.

Del Sole i rai dividere, pesar quest’aria osasti25; la terra, il foco, il pelago, le fere e l’uom domasti. Oggi a calcar le nuvole giunse la tua virtute, e di natura stettero le leggi inerti e mute. Che più ti resta? Infrangere anche alla Morte il telo, e della vita il nettare libar con Giove in cielo.

da Opere, a cura di C. Muscetta e M. Valgimigli, Ricciardi, Milano-Napoli, 1953

24. Svelaro: il riferimento è alle scoperte astronomiche di Friedrich Wilhelm Herschel (1738-1822), in particolare a quella del pianeta Urano, una delle rimote stelle, avvenuta nel 1781. Appressâr... fiammelle allude all’introduzione di telescopi sempre più potenti. 25. Del Sole... osasti: riferimento alla scomposizione della luce bianca (spettro solare) avviata da Francesco Maria

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Grimaldi (1618-1663) e da Newton, e al barometro di Evangelista Torricelli (1606-1647), grazie al quale è possibile misurare la pressione atmosferica. L’ultima parte dell’ode è un’esaltazione delle scoperte scientifiche, che si conclude con l’iperbolica affermazione secondo cui l’unica cosa che manca alla scienza è la vittoria sulla morte.

inee di analisi testuale Un intreccio fra classicismo e Illuminismo L’ode Al signor di Montgolfier è un esperimento di intreccio tra la lode illuministica della scienza moderna e il gusto classicistico di esaltazione del mito antico, riuscito grazie all’abilità dell’autore. La grande perizia di Monti si manifesta nello scrivere di imprese e fenomeni chimici e fisici con linguaggio, stile e contenuti di matrice classica. In primo luogo, egli riesce a meravigliare il lettore nel confronto tra l’immaginario neoclassico e il suo opposto, la scienza, due mondi ritenuti lontani e tra loro incommensurabili, che invece qui si valorizzano reciprocamente. In secondo luogo, riconduce l’apporto razionalista “enciclopedico” nell’ambito dei canoni neoclassici, coniugandolo con i grandi miti del passato (il volo della mongolfiera e la nave Argo, Orfeo e se stesso, Robert e Dedalo, navi nel mare e navi nel cielo). Analoga tendenza ad accoppiare quelle che saranno definite le “due culture” – classica e scientifica – governa le metafore finali sulle scoperte dell’elettricità, della fisica astronomica, dell’ottica e della medicina. Le sezioni dell’ode Si possono riconoscere nel testo quattro sezioni principali: – la comparazione centrale, perno della lirica, tra il viaggio degli Argonauti e il volo della mongolfiera; – l’allusione – sottintesa e in forma negativa – a se stesso come al nuovo Orfeo; – l’esaltazione del volo come caduta dell’ultima barriera delle conquiste umane; – l’inno alla scienza che renderà l’uomo simile agli dei. I contenuti morali anticipatori Monti, infine, sviluppa nell’ode contenuti originali e introduce accenni alla prudenza morale: la sua esaltazione positiva e razionale delle possibilità umane non si disgiunge dallo stupore e dal timore reverenziale di fronte alla “violazione” della natura, per finire in una previsione ambigua che – attenuata dalla prudente sostituzione del Dio dei cristiani con Giove – anticipa le presunzioni scientiste, ma anche le angosce odierne che emergono nei dibattiti su confini estremi della scienza, come l’ingegneria genetica o la clonazione umana.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi in non più di 20 righe il contenuto dell’ode Al signor di Montgolfier. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A chi è indirizzata l’ode di Monti? b. Quale impresa umana intende celebrare? c. Quali sono i principali richiami mitologici nel testo? d. Qual è il concetto su cui si chiude l’ode? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quale intreccio realizza Monti con questa ode? b. Quali sono il raffronto e la figura retorica più importanti dell’ode e perché? c. In quante e quali sezioni può essere divisa l’ode? d. Qual è l’atteggiamento di Monti verso il mondo classico e verso la scienza moderna? e. Quali sono gli elementi di contenuto e di stile che permettono di definire neoclassica l’ode? Approfondimenti 4. Il contenuto dell’ode, l’argomento scelto e il tono dei versi sono assai particolari. Precisa, con riferimenti al testo, l’atteggiamento di Monti nei confronti della scienza e del mito classico e chiarisci – con adeguati riferimenti al testo – se il poeta tenda a contrapporre o a integrare questi due ambiti conoscitivi.

Focus

LA TRADUZIONE DELL’ILIADE

La traduzione dell’Iliade è generalmente riconosciuta come il capolavoro di Monti e come la punta più alta del Neoclassicismo letterario italiano. Il primo tentativo, limitato ai canti primo e ottavo, risale alla fine degli anni Ottanta del Settecento, un periodo di acuta insofferenza per l’ambiente romano: inizialmente il metro prescelto è l’ottava, quasi subito abbandonato in favore dell’endecasillabo sciolto. Il lavoro di traduzione viene ripreso nel 1807, su sollecitazione di Foscolo. La traduzione completa esce nel 1810, presso l’editore Bettoni; ma il lavoro di revisione e di limatura si protrarrà ancora a lungo, fino all’edizione definitiva del 1825. Fondamentali sono i suggerimenti e i confronti con numerosi amici letterati, soprattutto Andrea Mustoxidi e Ennio Quirino Visconti. L’opera è da subito oggetto di aspre critiche; in particolare si rimprovera a Monti di aver lavorato di seconda mano, sulle traduzioni latine già esistenti: Foscolo lo definisce gran traduttor de’traduttor d’Omero. Monti in effetti non conosce bene il greco; ma il suo progetto è chiaro sin dall’inizio. Nelle Considerazioni del 1807, egli dichiara esplicitamente di non voler fare una traduzione letterale: il suo scopo è quello di reinterpretare una cultura, quella “omerica”, attraverso la propria cultura neoclassica, di esprimere cioè il proprio mondo attraverso il mondo di altri. La traduzione di Monti è volutamente lontana dalla semplicità e dalla linearità del verso di Omero. I versi greci sono caratterizzati da una netta prevalenza della paratassi: ciò dà all’azione un andamento concitato e drammatico. Monti al contrario tende a legare le frasi, a renderle subordinate tra loro, puntando a un tono composto e controllato, di solenne gravità. Evita di riprodurre l’andamento sintetico della lingua omerica (che tanto preoccupa Foscolo) e sceglie invece l’abbandono alla dilatazione, seppure controllata, dei sentimenti, che perdono così di urgenza, ma acquistano in composta solennità e páthos, anche attraverso il ricorso a frequenti figure di inversione (anastrofi e iperbati soprattutto). Si pensi soltanto al famoso inizio del poema. Omero scrive: Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelìde, / rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei (traduzione di Rosa Calzecchi Onesti). Monti interpreta: Cantami, o Diva, del Pelide Achille / l’ira funesta che infiniti addusse / lutti agli Achei. Il verso ne risulta più sereno e maestoso, i personaggi appaiono giganteschi, statuari, il mondo che emerge si delinea come perfetto, imperturbabile. È l’ideale stesso della Grecia classica quale è concepita da Winckelmann che trova qui una delle sue massime espressioni. Oltre all’Iliade, Monti traduce anche le Satire di Persio, pubblicate nel 1803 con dedica a Francesco Melzi d’Eril, e soprattutto la Pulcella d’Orléans di Voltaire, oggi celebrata da critici come Gennaro Barbarisi e Giorgio Bárberi Squarotti soprattutto per la scelta del metro, l’ottava ariostesca, capace di trasformare la polemica illuministica dell’originale in un compiaciuto e sapiente gioco letterario, in cui acquistano singolare evidenza i motivi erotici e scherzosi.

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IL PREROMANTICISMO

L’origine del termine

Preromanticismo e Neoclassicismo

Gli elementi della sensibilità preromantica

Contemporaneamente al Neoclassicismo, si sviluppa in Europa una tendenza che investe soprattutto la letteratura, ma influenza anche le arti figurative e il costume: il Preromanticismo. Tale tendenza, tuttavia, non si presenta come movimento o scuola letteraria in senso stretto, quanto piuttosto un nuovo e sfumato atteggiamento poetico e filosofico, che si contrappone a razionalismo e sensismo, ma senza una consapevolezza compiuta e una chiara formulazione teorica. Il termine Preromanticismo è stato introdotto solo nel Novecento – prima nella critica letteraria tedesca, poi da Benedetto Croce (che parla di un Alfieri protoromantico) – in quanto in esso, e negli autori ad esso riconducibili, sono state viste le premesse del Romanticismo ottocentesco. Il Preromanticismo mostra infatti molti temi, aspetti e caratteri che saranno tipici del Romanticismo: la critica radicale del razionalismo illuministico e del suo ottimismo, il rifiuto del classicismo, il culto del sentimento contrapposto alla fredda ragione, il mito della natura, l’attrazione per il mistero e la ricerca del sublime. Tuttavia in molti autori preromantici gli elementi romantici e quelli neoclassici sono compresenti e si alternano (come in Wolfgang Goethe, che scrive sia i Dolori del giovane Werther, opera già romantica, sia il Viaggio in Italia, in cui prevale l’esaltazione dell’arte classica) o sono sempre compresenti – come nel Foscolo dei Sepolcri – o presentano, in una produzione neoclassica come quella di Friedrich Hölderlin, una nostalgia per l’antico che si può definire anche romantica. In generale, la sensibilità preromantica si concretizza soprattutto in un individualismo esasperato (che esalta il sentimento e le passioni e sfocia talvolta nel titanismo), nel gusto per il mistero e per il sublime (che talora vede la grandiosità anche nel male), nel contrasto tra aspirazione all’infinito e consapevolezza della caducità delle cose umane, in un senso di insoddisfazione profonda e di tensione inappagata verso l’assoluto (in tedesco Sehnsucht). La rappresentazione della natura non appare più in forme ordinate ed eleganti, ma con un aspetto primitivo e selvaggio, in analogia con l’emozione istintiva umana. La nuova corrente si sviluppa in un primo momento soprattutto in Germania e in Inghilterra.

Il Preromanticismo tedesco Lo Sturm und Drang

La grandezza di Goethe: il Werther

L’ossianismo di Klopstock

Il Preromanticismo si impone in Germania, verso il 1770, con il gruppo dello Sturm und Drang (“Tempesta e Impeto”), di cui fanno parte scrittori come Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) e Johann Gottfried Herder (1744-1803). Il nome stesso del movimento rivela un gruppo di giovani artisti animati da un violento spirito di polemica contro l’epoca in cui vivono, a loro parere dominata dalla fredda ragione e dall’interesse economico. L’opera di Johann Wolfgang Goethe comprende il romanzo epistolare I dolori del giovane Werther (1774), che è fortemente connotato in senso preromantico: Werther si innamora perdutamente di Carlotta, fidanzata dell’amico Alberto ma attratta verso di lui; la passione arriva fino al bacio, ma il giovane, straziato, si uccide sparandosi dopo averle detto addio. L’opera riscuote un successo enorme e dà inizio ad una vera e propria moda tra i giovani europei (il “wertherismo”), influenzando in seguito anche il celebre romanzo epistolare Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. Goethe è uno dei massimi scrittori mondiali: dopo aver aderito allo Sturm und Drang si spingerà oltre gli stessi orizzonti del Romanticismo ottocentesco, secondo una originale visione, umanistica e classica, dell’uomo e della natura, che rende impossibile collocarne rigidamente la figura all’interno di un qualsiasi movimento. Tra le altre componenti dello spirito preromantico si ravvisano anche tendenze di carattere mistico o visionario e l’ammirazione per la natura incontaminata. Della prima è esemplare l’opera, fortemente influenzata dall’ossianismo inglese, di Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803), la cui lirica è fondata su metri e contenuti innovativi; il tema centrale cantato da Klopstock riguarda la fragilità della na-

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Gli Idilli di Gessner

tura umana, incapace di opporsi al dilagare del male nell’universo; la sua opera più significativa è il poema epico sacro Messiade, ispirato all’onniprenza di Dio nel mondo e alle gesta del Messia da lui inviato fino alla resurrezione. La passione per la bellezza della natura, ispirata agli idilli del poeta classico greco Teocrito e al bucolicismo virgiliano, trova invece la migliore espressione negli Idilli dello svizzero Salomon Gessner (1730-1788), anche pittore e incisore di paesaggi, la cui lirica più celebre è La morte di Abele, da cui emerge la sofferenza per la contaminazione moderna dell’ambiente pastorale. L’insieme di tali tendenze confluirà nel vero e proprio Romanticismo, la cui origine viene fatta coincidere con la fondazione, in Germania, della rivista “Athenäum” (1798-1800; cfr. anche pagg. 498 e 516), con la quale la nuova sensibilità diventa consapevole portatrice di una visione del mondo e di una poetica diversa e spesso contrapposta al Neoclassicismo.

T2 Il suicidio d’amore da I dolori del giovane Werther

Johann Wolfgang Goethe

Siamo nella parte conclusiva del Werther, quando il giovane protagonista dichiara lucidamente all’amata Carlotta la propria volontà di suicidarsi. Il brano è strutturato alternando le lettere di Werther alla narrazione dei fatti da parte dell’amico Wilhelm, elemento che allontana il testo dalla tradizione del romanzo epistolare settecentesco e ne accentua il carattere innovativo. PISTE DI LETTURA • Il contrasto preromantico tra io e mondo • La lacerazione dei sentimenti • La contaminazione del romanzo epistolare classico

La lettera di Werther a Lotte

Ho deciso, Lotte, voglio morire, te lo scrivo senza romantiche esaltazioni, calmo, la mattina del giorno che ti vedrò per l’ultima volta. Quando leggerai queste righe, o carissima, la fredda tomba avrà già accolto gli irrigiditi resti dell’inquieto sciagurato che negli estremi istanti della sua esistenza non conosce maggior dolcezza che intrattenersi con te. Che orrenda notte, e, ahi! che benefica notte! Ha confermato e fissato il mio proposito: voglio morire! Ieri, quando mi strappai da te, con tutti i sensi in spaventosa ribellione, e il cuore oppresso e il sentimento – orrendo gelo – della mia vita squallida e disperata accanto a te... raggiunsi a pena la mia camera, fuori di me mi gettai ginocchioni e, o Dio! tu mi accordasti l’estremo conforto delle lagrime amarissime! Mille idee, mille progetti mi turbinavano nell’anima, e finalmente quel pensiero si presentò, saldo, intero, unico: voglio morire!... Mi coricai e stamattina, nella calma del risveglio, è ancora qui saldo e fortissimo nel mio cuore: voglio morire! Non è disperazione, è coscienza d’aver compiuto il mio corso e di sacrificarmi per te. Sì, Lotte, perché dovrei tacere? Uno di noi tre deve scomparire, e voglio essere io quello. Carissima! in questo cuore dilaniato s’è insinuato il furibondo pensiero... spesso... di uccidere tuo marito!... te!... me!... E così sia!... Quando salirai sulla montagna, in una bella sera estiva, ricordati di me, di quando risalivo la valle, poi guarda il cimitero e cerca la mia tomba, come il vento

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culla l’erba al sole morente... Ero tranquillo cominciando; ora, ora piango come 25 un bambino, ogni cosa si fa così viva e vera intorno a me... La narrazione di Wilhelm

Verso le dieci Werther chiamò il servo, e mentre si vestiva gli disse che tra qualche giorno sarebbe partito: gli mettesse perciò gli abiti in ordine e preparasse ogni cosa per far le valige; gli ordinò pure di chiedere i conti dappertutto, di farsi restituire alcuni libri prestati e di distribuire elemosine per due mesi a certi poveri ai quali ogni settimana era solito dare qualche cosa. Si fece portare il pranzo in camera, dopo il pasto andò a cavallo dal podestà1, ma non lo trovò in casa. Passeggiò pensieroso in giardino, e parve volersi caricare una volta ancora di tutta la mestizia dei ricordi. I bambini2 non lo lasciarono a lungo in pace, gli corsero dietro, gli saltarono addosso, gli dissero che trascorsi domani e poi ancora domani e un altro giorno sarebbero andati da Lotte a prendere i regali di Natale, e gli narrarono le meraviglie che la loro ingenua immaginazione si riprometteva. “Domani!” esclamò Werther “e poi ancora domani! e un giorno ancora!...” Li baciò tutti affettuosamente, e stava per lasciarli, quando il più piccolo volle confidargli ancora qualcosa all’orecchio. Gli disse che i fratelli più grandi avevano già scritto bellissimi auguri di capodanno, grandi così! uno per il nonno, uno per Alberto e Lotte, e uno anche per il signor Werther; e li avrebbero recapitati a capodanno di buonora. Werther si sentì sopraffatto dall’emozione, regalò qualcosa a tutti, montò a cavallo, lasciò saluti per il vecchio e cavalcò via con le lagrime agli occhi. Giunse a casa verso le cinque, ordinò alla serva di badare al fuoco e di tenerlo acceso fino a notte. Al servo ordinò di mettere i libri e la biancheria in fondo al baule, e di preparare gli abiti. Poi scrisse probabilmente il seguente passo della lettera a Lotte.

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Tu non mi aspetti! tu credi che ti ubbidirò e che non ti rivedrò se non la notte 50 di Natale3. O Lotte! oggi o mai! La notte di Natale terrai questo foglio tra le tue mani, tremando lo bagnerai delle tue care lagrime. Voglio, devo! Oh, come mi sento bene, ora che ho deciso. Lo stato d’animo di Lotte

Frattanto Lotte era caduta in uno strano stato d’animo. Dopo l’ultimo colloquio con Werther aveva sentito quanto le sarebbe costato staccarsi da lui, quanto lui avrebbe sofferto allontanandosi da lei. Presente Alberto era stato accennato di sfuggita che Werther non sarebbe tornato prima della vigilia di Natale; Alberto era andato a cavallo da un funzionario col quale collaborava, avrebbe trascorso la notte presso di lui. Lotte era sola, nessuno dei fratellini le stava intorno, si lasciò trasportare dai suoi pensieri, che erravan taciti intorno alla sua condizione. Si sentiva legata per la vita a un uomo di cui conosceva l’amore e la fedeltà, al quale era devota con tutto il cuore, la cui tranquilla fermezza pareva fatta apposta dal cielo perché una brava donna vi fondasse sopra la felicità della sua vita; sentiva che cosa quell’uomo sarebbe sempre stato per lei e per i suoi figli. D’altra parte Werther le era diventato così caro, fin dal primo sguardo la simpatia delle loro anime s’era rivelata così bella, la lunga consuetudine con lui, tante situazioni vissute insieme avevano prodotto incancellabili impressioni nella sua anima. Era avvezza a confidargli tutto quanto di interessante provava o pensava, l’assenza di lui minacciava di lasciare in tutta la sua esistenza un vuoto da non più potersi colmare.

1. podestà: si tratta del padre di Lotte. 2. bambini: sono i figli del podestà e dunque i fratelli di Lotte. 3. non ti rivedrò se non la notte di Natale: come era stato pattuito tra di loro; ma Werther vuole dire addio a Lotte e

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si reca prima del previsto a casa sua. Qui i due leggono i Canti di Ossian (i celebri canti che James Macpherson compose nel 1765, presentandoli come antiche liriche scozzesi e che Goethe parzialmente tradusse) e dopo un ultimo disperato abbraccio si separano definitivamente.

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Oh, avesse potuto sul momento trasformarlo in fratello! che felicità!... lo avesse potuto sposare a un’amica sua, avesse potuto sperare di ristabilire l’armonia dei rap75 porti di lui con Alberto! Aveva passato in rassegna le sue amiche, ma a ognuna trovò qualcosa da ridire, non ne trovò una alla quale concederlo pienamente. A queste considerazioni ella sentì profondamente per la prima volta, senza tuttavia averne chiara coscienza, che il suo segreto e profondo desiderio era di tenerselo per sé; e insieme si diceva che non poteva, che non le era lecito tenerselo; 80 la sua anima pura, bella e solitamente così facile a rimettersi in equilibrio, sentì il peso d’una tristezza alla quale non è concessa speranza di felicità. Aveva il cuore oppresso, una cupa nube gravava sui suoi occhi. da I dolori del giovane Werther, trad. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano, 1976

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inee di analisi testuale La ribellione alla vita onesta e tranquilla Werther non cerca in alcun modo di opporsi alla passione, cui attribuisce anzi un valore assoluto e totalizzante. Il proposito del suicidio non è vissuto come un atto di debolezza, ma come la rivendicazione orgogliosa, un sacrificio di sé per assicurare a Lotte (Carlotta) la felicità, dunque come un supremo gesto d’amore. Soltanto nella morte, del resto, l’inquietudine interiore del personaggio, il suo ondeggiare tra sentimenti e propositi diversi, sembra placarsi nell’annullamento. L’importanza dei sentimenti è ancora più evidente nei pensieri di Lotte, attraverso la contrapposizione fra la tranquilla esistenza che la attende al fianco di Albert, pervasa di un affetto devoto e rispettoso, ma privo di slanci, e le incancellabili impressioni che le ha fatto vivere Werther. Tra abbandono lirico e controllo delle passioni L’urgenza delle passioni è espressa attraverso il ricorso, nei biglietti di Werther, ad uno stile fortemente lirico, concitato e drammatico, in cui sono frequenti le esclamazioni, gli improvvisi cambiamenti di concetti, le reticenze. Tuttavia lo stesso personaggio si sente in dovere di precisare che sta scrivendo senza romantiche esaltazioni: per Goethe l’aggettivo romantico ha dunque ancora una connotazione negativa, ed è legato ad un’idea di falsa esasperazione.

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Comprensione 1. Riassumi il brano in non più di 20 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 4 righe per ogni risposta). a. Quali sono le due voci narranti del testo e quale rapporto c’è tra loro? b. Quali elementi stilistici diversi caratterizzano il modo di esprimersi di ciascuna delle due voci narranti? c. Come si può riconoscere, seppure in maniera mediata, il modo di esprimersi di Lotte? Che cosa lo caratterizza? d. Quale valore ha l’aggettivo romantico in questo testo? Approfondimenti 3. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando l’elaborato con opportuni riferimenti al testo: La sofferenza del giovane Werther.

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Il Preromanticismo inglese I Canti di Ossian e i miti celtici

Young

Gray

Il romanzo gotico: da Walpole alla Radcliffe

Le teorie di Burke

In Gran Bretagna il nuovo gusto trova la sua prima espressione nei Canti di Ossian, una rielaborazione di antichi cantari ad opera dello scozzese James Macpherson (17361796), fondamentale per la creazione del mito della poesia popolare. Macpherson scrive due poemi, intitolati Fingal e Temora, pubblicandoli come traduzioni dei canti del leggendario bardo gaelico Ossian, rinvenuti tra le montagne scozzesi. Nell’edizione unificata del 1765, essi vengono intitolati Canti di Ossian. L’opera è costituita da frammenti della tradizione popolare, stesi in prosa ritmica scritta fra il XII e il XVI secolo e ampiamente rimaneggiati da Macpherson in una forma poetica ispirata alla Bibbia in inglese. L’enorme successo dei poemi ossianici (tradotti in Italia da Melchiorre Cesarotti nel 1763) contribuì a diffondere in tutta Europa il gusto poetico delle visioni notturne, dei paesaggi crepuscolari o lunari, delle malinconiche evocazioni della morte che si contrappongono alla sensibilità del classicismo greco e romano. La poesia sepolcrale, che ha i principali esponenti in Young e Gray, e il romanzo gotico costituiscono i due momenti fondamentali del Preromanticismo. Edward Young (1683-1765) è famoso soprattutto per il poemetto in blank verse (decasillabi sciolti) intitolato Il lamento o Pensieri notturni, più volte tradotto in italiano nel corso del Settecento. In un paesaggio notturno, il poeta medita su una tomba a proposito della vanità dell’esistenza umana, in versi che anticipano la malinconica sensibilità romantica. Ancora più importante è il londinese Thomas Gray (1716-1771), la cui esistenza trascorre appartata, nello studio sia dei classici latini e italiani sia dell’antica poesia celtica e scandinava, alla quale il poeta si ricollega in odi come Il bardo (1757) e La discesa di Odino (1761), che preludono all’interesse romantico per la mitologia nordica. La sua meditazione sulla morte e sul sepolcro è espressa nella celebre Elegia scritta in un cimitero di campagna (1751), da cui trarrà ispirazione anche Foscolo per i Sepolcri. La lirica di Gray, pur vertendo intorno al tema romantico della morte, è caratterizzata da una purezza stilistica di gusto neoclassico. Nell’ambito della narrativa, l’invenzione del romanzo gotico – così definito per l’ambientazione medievale, cui si accompagna il gusto per luoghi sinistri e vicende orride e soprannaturali – viene generalmente attribuita a Horace Walpole (17171797), uomo politico e collezionista d’arte. Ne Il castello di Otranto (1764), egli narra una vicenda ambientata nel Duecento che ha per protagonista il cupo usurpatore Manfredo, signore di Otranto, vittima di una funesta profezia, che, fra delitti, apparizioni di spettri e vicende terrificanti, si realizza nel finale. Il romanzo di Walpole ha un grande successo e funge da stimolo per altri autori, tra i quali Ann Radcliffe (1764-1823), il cui capolavoro è considerato I misteri di Udolfo (1794). In questo genere di romanzo sono ormai delineate le caratteristiche della narrativa gotica, ben remunerata dagli editori e di sicuro successo: ambientata nel Medioevo e in Italia – considerata dal pubblico britannico terra di passioni e delitti – la vicenda ha solitamente per protagonista un personaggio maschile torbido e malvagio, ma al tempo stesso satanicamente attraente, che tormenta, in ambienti orridi (per lo più cupi e sinistri castelli) e fra vicende magiche e soprannaturali, una fanciulla innocente. La conclusione coincide con la sconfitta del perfido protagonista. Lo schema non mancherà di suggerire modelli alla più varia letteratura del tempo e persino ad Alessandro Manzoni per la vicenda dell’Innominato nei Promessi sposi o per l’episodio della monaca di Monza quale è narrato nel Fermo e Lucia. Il contributo teorico più importante alla nascita del Romanticismo inglese è senza dubbio quello offerto dalle opere di Edmund Burke (1729-1797). Fondamentale è il suo saggio del 1756, Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublime e al bello. Burke, opponendosi alle tesi del critico francese Nicolas Boileau (1636-1711), che attribuiva al sublime e al bello caratteristiche oggettive, per primo ricerca nella psicologia dell’autore e del lettore l’origine del valore estetico attribuito all’opera d’arte, muovendo da un procedimento di indagine empirica di carattere quasi sperimentale. Secondo Burke, la contemplazione del sublime ispira nell’uomo un senso di profondo mistero, di tensione, di smarrimento e paura.

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SUBLIME Il termine sublime deriva dal latino sublimen, composto da sub, “sotto”, e lı¯mus, “obliquo”: quindi vorrebbe propriamente dire “che sale obliquamente”. Il concetto è documentato per la prima volta nel trattato Del sublime attribuito allo Pseudo-Longino e probabilmente databile al I secolo d.C.: l’autore studia il fenomeno in relazione al fruitore, ovvero in rapporto agli effetti che l’opera d’arte produce sull’animo umano. Tale trattato è riscoperto nel XVI secolo e tradotto dal francese Nicolas Boileau nel secolo successivo; ma è solo nel Settecento e poi nell’Ottocento che la distinzione tra bello e sublime assume un rilievo fondamentale nell’estetica. Nella concezione moderna, sviluppata nel 1757 dall’inglese Edmund Burke, sublime è tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore. Ma si tratta pur sempre di uno spavento moderato, controllabile, di un orrore dilettevole, “godibile” rimanendo al sicuro: molteplici sono gli spettacoli della natura in grado di suscitare tali emozioni, dal mare in tempesta alle cime innevate, da un’eruzione vulcanica ai deserti, fino alle rovine. Questa tesi è ripresa da Immanuel Kant nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764) e nella Critica del giudizio (1790); il filosofo tedesco precisa che il sublime deriva dal rapporto conflittuale che si stabilisce tra sensibilità e ragione e compie inoltre una distinzione fra sublime matematico, che riguarda la grandezza – e quindi l’immensità dell’universo, i cieli stellati, la serie infinita dei numeri, l’illimitatezza del tempo ecc. –, e sublime dinamico, relativo ai grandi sconvolgimenti naturali, che risvegliano nell’uomo il senso di fragilità e finitezza.

T3 Elegia scritta in un cimitero di campagna

Thomas Gray

Thomas Gray introduce nella poesia inglese il gusto sepolcrale, caratterizzato da cupi scenari notturni, macabri silenzi, o suoni radi e suggestivi, come ad esempio i lugubri rintocchi delle campane. Esemplare la sua più famosa lirica, l’Elegia scritta in un cimitero di campagna, che fissa i cardini di tale tendenza poetica almeno sino ai Sepolcri (1807) di Foscolo. Viene qui presentata la parte iniziale della celebre traduzione di Melchiorre Cesarotti, pubblicata a Padova nel 1772. Schema metrico: nella traduzione italiana, endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • La natura in sintonia con il sentimento • Il cimitero, luogo d’incontro tra la vita e la morte • Tono elegiaco

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Parte languido il giorno; odine il segno che il cavo bronzo1 ammonitor del tempo al consüeto rintoccar diffonde. Va passo passo il mugolante armento2 per la piaggia3 avviandosi: dal solco move all’albergo4 l’arator traendo l’affaticato fianco5, e lascia il mondo alle tenebre e a me. Già scappa al guardo gradatamente, e più e più s’infosca

1. cavo bronzo: la campana, che con i suoi rintocchi regolari ricorda il tempo che passa. 2. mugolante armento: la mandria di buoi. 3. piaggia: pendio.

4. albergo: dimora. 5. traendo l’affaticato fianco: trascinando il corpo (fianco è sineddoche: la parte per il tutto) stanco, camminando a fatica.

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la faccia della terra, e l’aer tutto silenzio in cupa mäestade ingombra6. Se non che alquanto lo interrompe un basso ronzar d’insetti e quel che il chiuso gregge tintinnio soporoso al sonno alletta7. E là pur anco da quell’erma8 torre, ch’ellera abbarbicata ammanta e stringe9, duolsi alla luna il pensieroso gufo di quei che al muto suo segreto asilo d’intorno errando, osan turbare i dritti del suo vetusto solitario regno10. Sotto le fronde di quegli olmi, all’ombra di quel tasso funèbre, ove la zolla in polverosi tumuli s’inalza, ciascun riposto in sua ristretta cella, dormono i padri del villaggio antichi. Voce d’augello annunziator d’albori11, auretta del mattin che incenso olezza12, queruli lai13 di rondinella amante, tonar di squilla14 o rintronar di corno non gli15 alzeran dal loro letto umile. Più per essi non fia16 che si raccenda il vampeggiante focolar; per essi non più la fida affacendata moglie discorrerà per la capanna, intesa di scarso cibo ad apprestar ristoro17. Non correran festosi i figliuoletti al ritorno del padre, e balbettando vezzi indistinti aggrapperansi a prova18 sul ginocchio paterno, a côrre19 il bacio, della dolce famiglia invidia e gara. Quante volte cadeo20 sotto i lor falci la bionda messe! l’ostinata zolla quante dei loro vomeri taglienti cesse all’impronta!21 come lieti al campo traean22 cantando gli aggiogati bovi! come al colpir delle robuste braccia gemeano i boschi disfrondati e ignudi!23 da Poesia del Settecento, a cura di C. Muscetta e M. R. Massei, Einaudi, Torino, 1967

6. e l’aer… ingombra: il silenzio nella sua cupa grandezza invade tutto il cielo. 7. e quel… al sonno alletta: e quel sonnacchioso (soporoso: soporifero) tintinnio di campanelli, che induce al sonno il gregge rinchiuso nel recinto o nella stalla. 8. erma: solitaria. 9. ch’ellera… stringe: che l’edera avvinghiata copre come un mantello e stringe. 10. duolsi... solitario regno: il gufo pensieroso si lamenta verso la luna di quegli animali che, vagando intorno al suo silenzioso e segreto nido, osano turbare i diritti del suo antico e solitario regno. 11. annunziator d’albori: che annunci l’alba. 12. che incenso olezza: che diffonde un profumo come d’incenso.

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13. queruli lai: versi lamentosi. 14. squilla: campana. 15. gli: li (i padri: non li faranno alzare). 16. fia: non accadrà. 17. intesa… ristoro: impegnata a preparare ristoro con poco cibo. 18. a prova: a gara. 19. côrre: cogliere. 20. cadeo: cadde. 21. l’ostinata zolla… cesse all’impronta!: quante volte il terreno tenace cedette al solco del loro aratro (vomere è la lama dell’aratro che taglia il terreno). 22. traean: conducevano. 23. disfrondati e ignudi!: privati delle fronde e spogliati dal lavoro dei taglialegna.

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inee di analisi testuale La rappresentazione preromantica della natura L’Elegia fornisce il modello per tutta la successiva rappresentazione della campagna notturna: la luna, il rintocco lento delle campane, la torre solitaria coperta di edera, gli uccelli notturni, il cimitero saranno gli ingredienti che, diversamente organizzati dai differenti autori, torneranno in tanta parte della produzione preromantica europea, ad evocare un’atmosfera di malinconia o di lugubre struggimento. Nel testo di Gray mancano però del tutto dettagli macabri o orridi: formatosi alla scuola del classicismo, egli infatti usa una linea di composta dignità, che privilegia piuttosto un senso di dolente tristezza e delicata nostalgia malinconica che sembra pervadere gli animali, la vegetazione e tutte le cose. Il cimitero come luogo letterario Al sentimento dell’inesorabile trascorrere del tempo, si affianca l’idea del cimitero come luogo dell’identità della comunità e del persistere della memoria degli avi, che poi sarà caratteristica del Romanticismo: del resto, Gray era appassionato cultore della storia, delle tradizioni e del folclore celtico, come documenta la celebre ode Il bardo (1757), ispirata alla figura di quegli antichi poeti, fieri cantori con l’arpa celtica, che secondo la concezione romantica erano anche profeti del popolo e si battevano a morte contro i tiranni.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Parafrasa il testo aiutandoti con le note di cui è corredato. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Per quali aspetti questa elegia può essere considerata un modello? b. Che cosa rappresenta il cimitero per l’autore? Approfondimenti 3. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando l’elaborato con opportuni riferimenti al testo: La poesia sepolcrale di Thomas Gray.

Il Preromanticismo in Italia

Ippolito Pindemonte

Le opere

In Italia, in ambito letterario, sulla scia della poesia sepolcrale inglese si pongono i versi del toscano Salomone Fiorentino (1743-1815), che riprende fra l’altro il tema del suicidio, e della poetessa torinese Diodata Saluzzo Roero (17741840), che della nuova poesia coglie soprattutto il tema della nostalgia e il gusto del paesaggio popolato di rovine, collocato in un contesto medievale e non più di antichità classica. L’autore più importante del Preromanticismo italiano è comunque Ippolito Pindemonte (1753-1828). Nato a Verona da nobile famiglia, Pindemonte alterna i soggiorni in campagna con la frequentazione dell’ambiente veronese e con lunghi viaggi, compiuti fra il 1778 e il 1790 in Italia e all’estero. A Parigi diventa amico di Vittorio Alfieri e del poeta francese Andrea Chénier (1762-1794), i cui versi, di ispirazione illuministica e classicista, presentano spunti romantici, e che verrà condannato alla ghigliottina nel periodo del Terrore. Ritornato in Italia, Pindemonte assume una posizione sempre più apertamente critica nei confronti delle teorie illuministiche, considerandole radici della sanguinosa politica rivoluzionaria. Le sue opere più significative sono il poemetto La fata Morgana (1782) e le Prose e poesie campestri, scritte fra il 1784 e il 1788, in cui canta la melanconia come una ninfa, all’interno di un ambito mitologico che integra con grazia spunti neoclassici e preromantici (Melanconia, / ninfa gentile, / la vita mia / consegno a te. / I tuoi piaceri / chi tiene a vile, / ai piacer veri / nato non è). In seguito Pindemonte, influenzato da Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, produrrà da un lato testi rigorosamente neoclassici (tutti inferiori alla sua bella traduzione dell’Odissea, pubblicata nel 1822), dall’altro poemetti e tragedie preromantiche che ricalcano la vena ossianica e cimiteriale.

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Rilevante è il ruolo di Pindemonte nella genesi del carme Dei sepolcri (1807) di Ugo Foscolo, scritto in seguito a una discussione sull’editto napoleonico di SaintCloud, che impone il divieto di sepoltura nelle chiese e nelle aree urbane (per ragioni di ordine igienico-sanitario) e prescrive tombe uguali ed epigrafi semplici per tutti. Nel 1807, a proposito del celebre poemetto, Pindemonte indirizzerà a Foscolo una epistola in versi contrapponendo alla concezione materialistica di Foscolo il proprio idealismo: la fede cristiana nella resurrezione della carne e nell’onnipotenza di Dio è ciò che Pindemonte contrappone alla religione della memoria che anima il carme foscoliano. Unici autori significativi di narrativa preromantica in Italia sono il riminese AureLa narrativa preromantica lio De’ Giorgi Bertola (1753-1798), con il delicato e patetico Viaggio sul Reno e in Italia ne’ suoi contorni (1795), e il milanese Alessandro Verri (1741-1816), fratello minore dell’illuminista Pietro, con Notti romane, ispirato dal ritrovamento delle tombe degli Scipioni avvenuto nel 1780. La trattatistica La sensibilità preromantica non riguarda solo la produzione artistica, ma anche la preromantica trattatistica: esemplare, in tal senso, è il saggio Dell’entusiasmo delle belle arti (1769) del mantovano Saverio Bettinelli (1718-1808), che non pone più al centro dell’elaborazione il sensismo illuministico ma il sentimentalismo romantico, fondato sull’emozione. Altrettanto importante è il Discours sur Shakespeare et monsieur de Voltaire (“Discorso su Shakespeare e Voltaire”, 1777) del torinese Giuseppe Baretti (1719-1789), testo nel quale il critico prende le difese della sregolatezza del genio drammatico dell’inglese contro le critiche del filosofo illuminista, che in tale insofferenza alle regole e alla razionalità crede di cogliere un segno di disordine, primitivismo e barbarie. Sia Bettinelli, sia Baretti sono autori di numerose altre opere, che attestano la nuova sensibilità dell’epoca di transizione fra Illuminismo, Neoclassicismo ed età del Romanticismo. Pindemonte e Foscolo

NEOCLASSICISMO E PREROMANTICISMO • Ritrovamenti archeologici. • Migliore conoscenza dell’arte classica. • Esigenza di chiarezza razionale.

RADICI

• Esaltazione del sentimento e della natura già presente nella Nuova Eloisa e nelle Fantasticherie di un passeggiatore solitario di Rousseau.

• Equilibrio, proporzione, semplicità e armonia. • Nostalgia per il mondo classico greco e romano, inteso come luogo utopico, perduto per sempre.

CARATTERI

• Opposizione al classicismo e al razionalismo illuministico. • Nostalgia. • Rappresentazione della natura con un aspetto primitivo e selvaggio. • Individualismo che esalta sentimento e passioni. • Gusto per il mistero e il sublime. • Tensione all’assoluto. • Polemica contro il mondo contemporaneo per lo Sturm und Drang.

• Roma. • Parigi. • Milano.

CENTRI CULTURALI

• Inghilterra. • Germania con lo Sturm und Drang.

LETTERATI E ARTISTI

• James Macpherson. • Edward Young. • Thomas Gray. • Horace Walpole. • Edmund Burke. • Johann Wolfgang Goethe.

• Johann Joachim Winckelmann. • Vincenzo Monti. • Anton Raphael Mengs. • Antonio Canova. • Jacques-Louis David.

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T4 L’amore per Evirallina da Poesie di Ossian, Fingal, IV, 1-77

Melchiorre Cesarotti

Melchiorre Cesarotti (1730-1808) – importante letterato preromantico italiano – ha tradotto i Canti di Ossian di James Macpherson (1736-1796). Ossian è un leggendario guerriero e bardo gaelico (dell’area irlandese e scozzese) del III secolo d.C. Figlio dell’eroe Fingal, il bardo sarebbe autore di un ciclo incompiuto di poemi scritti fra il XII e il XVI secolo: Macpherson ne riprende i frammenti, li rielabora ampliandoli e li pubblica come opera di Ossian. Nei Canti si narra che Cuthullin, capo delle tribù irlandesi, è aggredito da Swaran, re della Scandinavia, e invia a chiedere l’aiuto del re scozzese Fingal. Dopo una sconfitta, Cuthullin si rifugia su un monte ad ascoltare i canti del bardo Carril, che esaltano le gesta di Fingal. Questi sbarca poi in Irlanda e sconfigge Swaran; nella notte, impone una tregua che suo figlio, il bardo Ossian, trascorre rievocando il proprio amore per Everallin, la sposa mortagli prima della spedizione in Irlanda (a ciò si riferisce il brano qui riportato). All’alba Fingal fa strage di nemici e infine cattura Swaran, che in seguito libererà in cambio del suo impegno a non tornare mai più in Irlanda. Prima di ripartire per la Scozia, Fingal raggiunge Cuthullin sul monte e lo conforta. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • L’amore e la morte • L’ambientazione celtica • Tono commosso

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Chi dal monte ne vien, bella a vedersi siccome il variato arco che spunta di sopra il Lena? La donzella è questa dalla voce d’amor; la bella figlia del buon Toscàr, dalle tornite braccia1. Spesso udisti il mio canto2; e spesso hai sparse lagrime di beltà: vieni alle pugne del popol tuo? vieni ad udir l’imprese del tuo diletto Oscarre?3 E quando mai cesseranno i miei pianti in riva al Cona? Tutta la mia fiorita e verde etade4 passò tra le battaglie, ed or tristezza i cadenti anni miei turba ed oscura.

1. Chi… braccia: splendida come l’arcobaleno (variato arco) che spunta sopra il fiume Lena, la giovane dalle belle braccia che si avvicina è Malvina, figlia di Toscàr e sposa di Oscar, figlio di Ossian. 2. Spesso… canto: i canti di Ossian sono spesso dedicati a Malvina, in quanto moglie di Oscar, giovane figlio del cantore ed eroe protagonista di molte battaglie.

3. vieni alle pugne… Oscarre?: vieni a vedere le battaglie del tuo popolo e ad ascoltare le imprese di Oscar, tuo amato sposo? 4. Tutta… etade: tutta la giovinezza del bardo trascorse tra le battaglie ed ora la tristezza turba e oscura la sua vecchiaia.

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Vezzosa figlia dalla man di neve, non ero io già così dolente e cieco, sì fosco, abbandonato allor non ero, quando m’amò la vaga Evirallina5: Evirallina, di Corman possente dolce amor, bruna il crin, candida il petto6. Mille eroi ne fur vaghi, e a mille eroi ella niegò ’l suo core: eran negletti i figli dell’acciar, perch’Ossian solo grazia trovò dinanzi agli occhi suoi. Alle nere del Lego onde n’andai, per ottener la vaga sposa. Avea dodeci meco valorosi figli dell’acquosa Albion7. Giungemmo a Brano, amico dei stranieri8. – E donde – ei disse – son quest’arme d’acciar? Facil conquista non è la bella vergine che tutti spregiò d’Erina gli occhi-azzurri duci. Benedetto sii tu, sangue verace del gran Fingallo9! avventurata sposa ben è colei che del tuo cor fai degna. Fossero in mia balia dodeci figlie d’alta beltà, che tua fora la scelta, o figlio della fama. – Allora aperse la stanza della vergine romita10, d’Evirallina. A quell’amabil vista, dentro i petti d’acciar corse a noi tutti subita gioia e ci sorrise al core. Ma sopra noi sul colle il maestoso, Cormano11 apparve, ed un drappel de’ suoi traea pronto alla pugna. Otto i campioni eran del duce, e fiammeggiava il prato del fulgor di lor arme. Eravi Cola, Durra dalle ferite eravi, e Tago e’l possente Toscarre e’l trionfante Frestallo e Dairo il venturoso e Dala,

5. Vezzosa… Evirallina: Ossian, ormai triste e solitario, sofferente e cieco, si rivolge a Malvina, la graziosa fanciulla dalle mani bianche come la neve, per ricordare la propria fiorente gioventù, quando fu amato da Evirallina, che sarebbe divenuta sua sposa preferendolo – come si aggiunge nei versi successivi – a mille eroi innamorati di lei, guerrieri (figli dell’acciar) da lei trascurati (negletti). La cecità di Ossian, oltre a ricordare l’antecedente omerico, consente all’autore di trapassare più agevolmente dal mondo della realtà a quello del ricordo e dell’immaginazione. 6. Evirallina… petto: la dolce Evirallina, dai capelli bruni e dal petto candido, amata dal forte Corman. La futura sposa di Ossian era figlia di Brano, nobile signore irlandese. 7. Alle nere… Albion: andai fino alle nere acque del Lego, per ottenere la graziosa Evirallina in sposa. Portai con me dodici valorosi figli della Gran Bretagna (Albion), isola circondata dalle acque.

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Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson, Ossian riceve i fantasmi degli eroi francesi, 1801-1802. Rueil-Malmaison, Museo Nazionale dei Castelli di Malmaison e di Bois-Préau.

8. amico… stranieri: arrivarono da Brano, il padre di Evirallina, che era ospitale con i forestieri. 9. Benedetto… Fingallo: Brano, dopo aver ricordato a Ossian che Evirallina aveva rifiutato di sposare i più forti e belli condottieri dell’Irlanda (Erina), lo benedice in quanto figlio e vero discendente dell’eroe Fingal, re della Scozia, e gli annuncia il suo desiderio di concedergli la fanciulla in moglie. 10. avventurata... vergine romita: fortunata la sposa che ritieni degna del tuo amore; avessi dodici figlie bellissime, vorrei che tua ne fosse la scelta, o famoso eroe. Dette queste parole, Brano aprì la stanza dov’era Evirallina, la fanciulla solitaria. Alla vista della fanciulla, come si dice nei versi successivi, dentro i cuori d’acciaio dei guerrieri entrarono la gioia e il sorriso. 11. Cormano: Corman, nobile signore irlandese, pretendente alla mano di Evirallina. Egli si presenta con un gruppo (drappel) di otto guerrieri pronti alla battaglia (pugna).

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rocca di guerra12. Scintillava il brando di Corman nella destra, e del guerriero lento volgeasi e grazioso il guardo. D’Ossian pur otto erano i duci: Ullino figlio di guerra tempestoso e Mullo dai generosi fatti ed il leggiadro Sélaca e Oglano e l’iracondo Cerda e di Dumarican l’irto-vellute ciglia di morte. Ove te lascio, Ogarre, sì rinomato sugli arvensi colli?13 Ogàr si riscontrò testa con testa col forte Dala: era il conflitto un turbo sollevator della marina spuma. Ben del pugnale rammentossi Ogarre, arme ad esso gradita; egli di Dala nove fiate lo piantò nel fianco. Cangiò faccia la pugna: io sullo scudo del possente Corman ruppi tre volte la mia lancia, ei la sua. Lasso, infelice garzon d’amore! io gli recisi il capo, e per lo ciuffo il sanguinoso teschio crollai ben cinque volte: i suoi fuggiro14. Oh chi m’avesse allor detto, chi detto m’avesse allor, vaga donzella, ch’io egro, spossato, abbandonato e cieco trarrei la vita, avria costui dovuto usbergo aver ben d’infrangibil tempra, petto di scoglio e impareggiabil braccio15. da Poesie di Ossian, a cura di E. Bigi, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960

12. rocca di guerra: fermo nelle battaglie come una torre inespugnabile. Il poeta elenca i nomi degli otto campioni che facevano fiammeggiare il prato con lo splendore delle loro armi. La metafora è di grande efficacia visiva, come spesso si verificherà nella poesia romantica. 13. D’Ossian… colli?: anche i campioni di Ossian erano otto: l’irruente figlio della guerra, Ullino, Mullo generoso nelle imprese, il bel Sélaca, Oglano, il furioso Cerda e Dumaricano, dagli occhi con le ciglia irte e ispide (vellute deriva da vello, mantello di pelo animale: si tratta di un latinismo) che minacciano morte. E devo forse dimenticare te, Ogar, famosissimo fra i monti della Scozia (arvensi colli)? La frase in-

terrogativa è retorica, in quanto ha risposta negativa sottintesa. 14. Ogàr... fuggiro: nel mondo preromantico di passioni impetuose predominante nei versi ossianici, si trapassa immediatamente dalla pietà (lasso significa “sventurato”) per il nemico morto per amore alla truce e sanguinosa scena dello scontro con i suoi uomini, messi in fuga dalla decapitazione di Corman. 15. Oh… braccio: in questi versi si esprime il tema dell’imprevedibilità del destino e del precipitare di ogni cosa verso la vecchiaia e la morte, che non risparmia neppure i più forti eroi, come Ossian. Anche tale tematica sarà spesso presente nei testi romantici.

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inee di analisi testuale La fedeltà al modello inglese Il testo rimane fedele all’ispirazione dell’autore inglese, abile – per ottenere l’effetto voluto – a contaminare il modello epico antico (come Omero, Ossian è cieco; gli eroi in battaglia ricordano i guerrieri dell’Iliade) con i poemi del ciclo medievale bretone e germanico: Artù, Tristano, i Nibelunghi ispirano la descrizione della dama, i particolari truci del combattimento, le magie. Temi già romantici Il passo mostra alcuni temi tipici della poesia romantica: i motivi ispiratori dell’amore e della morte, la figura dell’eroe, poeta malinconico e colpito dalla sventura, il ruolo di protagonisti dei valorosi guerrieri che si battono per il proprio popolo e la loro terra, l’ambientazione nel mondo medievale o, come in questo caso, nelle civiltà, ritenute “barbariche” dai classicisti, delle tribù celtiche, germaniche e nordiche. Significativi sono anche l’esaltazione della bellezza della donna, paragonata a quella della natura, l’attenzione riservata ai sentimenti, rivelata anche dal tono commosso della narrazione e, infine, l’interesse per il misterioso mondo degli spiriti. La fama di Cesarotti presso i contemporanei L’influenza di Cesarotti sulla successiva poesia italiana, oltre che dalla diffusione dei temi ossianici, è testimoniata dal fatto che interi suoi versi o frammenti saranno ripresi da grandi poeti del primo Ottocento: come nel caso di vergine romita, che Ugo Foscolo riprenderà in uno dei più suggestivi frammenti delle Grazie. La traduzione di Melchiorre Cesarotti, che attinge a modelli illustri come Petrarca e si ispira sia ai classici sia ai barocchi, adotta gli endecasillabi sciolti, scelta che avrà ampio seguito nella poesia romantica.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Aiutandoti con le note, parafrasa il componimento. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Chi è il cantore che narra l’episodio e a quale donzella si rivolge nei primi versi? b. Quali sono le ragioni che rendono triste Ossian in età avanzata? c. Quale vicenda risalente alla gioventù di Ossian viene cantata dal bardo? d. Come si conclude lo scontro e qual è la fine di Corman? e. Quale espressione contenuta nel testo rivela la pietà del narratore per il nemico sconfitto? Analisi e interpretazione 3. Individua e chiarisci i principali riferimenti contenutistici e stilistici ai poemi dei cicli nordici medievali che trovi nel testo. 4. Evidenzia ed elenca le principali metafore contenute nel testo, chiarendone il significato. 5. Indica da quali principali elementi tematici e testuali emergono caratteri preromantici. 6. Chiarisci in quale metro Cesarotti sceglie di tradurre l’opera di Macpherson e spiega quale significato ha tale scelta. Approfondimenti 7. Una delle caratteristiche della letteratura illuministica è la convinzione – propria, in particolare, dei filosofi e romanzieri – del fatto che le opere devono essere non solo belle ma anche e soprattutto socialmente utili. Ritieni che il passo dei Canti di Ossian risponda a tale caratteristica? Perché? A tuo personale e motivato giudizio, quale o quali funzioni principali devono svolgere le grandi opere letterarie? 8. I personaggi dei poemi nordici medievali continuano a ispirare anche le opere moderne, specialmente cinematografiche e, in parte, del genere fantasy. Citane almeno una e sintetizzane brevemente la trama, rilevando poi gli elementi che dimostrano l’influenza sui personaggi e sulle trame esercitata ancora oggi dalla letteratura preromantica.

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CAP. 14 - FRA NEOCLASSICISMO

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PREROMANTICISMO

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Concetti chiave IL NEOCLASSICISMO La miglior conoscenza dell’arte antica e le scoperte archeologiche favoriscono il sorgere del Neoclassicismo, che stabilisce un nuovo ideale di bellezza – contrapposto all’estetica barocca – basato sull’armonia, l’equilibrio, la semplicità delle forme, il controllo razionale delle passioni. Il maggior teorico del movimento è il tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) e la capitale culturale Roma. Questa nuova forma di classicismo – che prende le distanze oltre che dal Barocco anche dall’Arcadia e dal Rococò – è caratterizzata dall’ammirazione per i modelli greci, da una nostalgica consapevolezza dell’impossibilità del ritorno all’antico e da una tensione utopistica. Nel secondo Settecento il Neoclassicismo recupera anche i modelli e le forme dell’arte romana, repubblicana prima e imperiale poi, trasformandosi spesso in arte celebrativa del potere politico in epoca napoleonica. I nomi più significativi del Neoclassicismo sono, oltre a Winckelmann, i teorici italiani Giovanni Battista Piranesi (1720-1778) e Francesco Milizia (1725-1798) e gli artisti Jacques-Louis David (1748-1825), Antonio Canova (1757-1833), Dominique Ingres (17801867) e Bertel Thorvaldsen (1770-1844). VINCENZO MONTI Nella biografia di Vincenzo Monti (17541828) e nella sua produzione si possono riconoscere tre momenti. Il periodo romano (1778-1797), in cui l’autore compone opere neoclassiche, è caratterizzato dall’opposizione alla Rivoluzione francese (lo attesta la Bassvilliana), dall’interesse per le scoperte archeologiche e dalla celebrazione delle conquiste moderne attraverso i miti classicisti (Al signor di Montgolfier). Nel primo periodo milanese (1797-1815) Monti si trasforma nel cantore della Rivoluzione francese prima e di Napoleone poi (cantiche antipapali e antimonarchiche, traduzione dell’Iliade). Al ritorno degli Austriaci, nel 1815, offre il proprio omaggio agli Asburgo, ma viene emarginato e le ultime opere più interessanti sono dedicate al tema degli affetti domestici (Per il giorno onomastico della mia donna, Teresa Pikler) e alla questione della lingua (Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca). Si spegne solo e dimenticato, assistito unicamente da Alessandro Manzoni.

IL PREROMANTICISMO EUROPEO Nell’ultimo quarto del secolo XVIII nasce una nuova sensibilità, che la critica chiama preromantica, caratterizzata dall’importanza attribuita al sentimento, da tematiche gotiche, da una concezione estetica basata sul sublime, dall’interesse per la natura (spesso inquieta e tempestosa) e per il recupero del folclore e delle tradizioni nazionali. In questo contesto in Germania il gruppo dello Sturm und Drang, formato da giovani in rotta con la società, si riunisce intorno alla figura di Goethe (con I dolori del giovane Werther nasce la moda del wertherismo). Neoclassicismo e Preromanticismo sono spesso compresenti nei medesimi autori, come Gottfried Herder (1744-1803), Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803), Salomon Gessner (1730-1788): li accomunano il sentimento della nostalgia per un mondo di perfezione perduta, la passione per la natura incontaminata e tendenze mistiche e visionarie. In Inghilterra, James Macpherson (17361796) crea il mito della poesia popolare con i Canti di Ossian, dopo di che si sviluppano la poesia sepolcrale, con le opere di Edward Young (1683-1765) e Thomas Gray (17161771), e il romanzo gotico, che narra le vicissitudini di eroine innocenti in una cornice inquietante. Il primo esempio del genere è Il castello di Otranto di Horace Walpole (1717-1797). IL PREROMANTICISMO IN ITALIA In Italia Ippolito Pindemonte (1753-1828) assume una posizione in contrasto con le idee illuministe, considerate responsabili delle violenze rivoluzionarie. Le sue opere più significative sono il poemetto La fata Morgana e le Prose e poesie campestri, una bella traduzione dell’Odissea (1822) e poemetti e tragedie preromantiche. La narrativa preromantica è rappresentata da Alessandro Verri (17411816), fratello minore dell’illuminista Pietro, con Notti romane, ispirato dal ritrovamento delle tombe degli Scipioni avvenuto nel 1780. I principali saggisti del periodo sono Saverio Bettinelli (1718-1808), che pone al centro dell’estetica il sentimentalismo romantico, fondato sull’emozione, e Giuseppe Baretti (17191789), che esalta genio e sregolatezza. Notevole è anche la personalità di Melchiorre Cesarotti, autore, fra l’altro, della traduzione in endecasillabi sciolti dei Canti di Ossian.

406 CAP. 14 - FRA NEOCLASSICISMO E PREROMANTICISMO

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sercizi di sintesi

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il Neoclassicismo a. si ispira ai modelli greci e romani. b. si ispira al Barocco. c. si oppone all’arte antica. d. si oppone al Manierismo.

8. Thomas Gray introduce nella poesia inglese a. un originale schema di rime. b. un gusto per la poesia sepolcrale. c. una grande varietà formale. d. una grande rigidità formale.

2. L’Apollo del Belvedere è a. il modello esemplare dell’estetica neoclassica secondo Winckelmann. b. l’esempio dei canoni dell’arte barocca secondo Mengs. c. il luogo letterario ideale secondo Vincenzo Monti. d. il modello ideale dell’arte romana secondo Piranesi. 3. Johann Joachim Winckelmann a. è uno dei teorici minori del Neoclassicismo. b. è il massimo teorico del Neoclassicismo. c. è un teorico del Preromanticismo. d. è il teorico principale dello Sturm und Drang. 4. Nell’ambito del Neoclassicismo, Giovanni Battista Piranesi a. propone l’antica Grecia come sede di valori e di forme ideali da emulare. b. considera l’antica Grecia come un luogo utopistico, perduto per sempre. c. critica come anticlassicista l’arte romana antica. d. recupera il primato dell’arte romana antica. 5. Il Preromanticismo si presenta come a. un movimento formalmente riconosciuto. b. un’alternativa al Romanticismo. c. un gruppo di intellettuali pienamente consapevoli della loro estetica. d. un mutamento di gusto e sensibilità. 6. La natura per i Preromantici è a. selvaggia. b. ordinata. c. elegante. d. poco interessante. 7. Il romanzo gotico è così definito a causa a. dell’ambientazione medievale e del gusto per vicende sinistre. b. dell’ambientazione medievale in terra tedesca. c. delle vicende soprannaturali ambientate in Estremo Oriente. d. delle storie d’amore vissute dai protagonisti, di origine tedesca.

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9. Il Castello di Otranto di Horace Walpole è ambientato in a. Inghilterra. b. Germania. c. Italia. d. Spagna. 10. Gli autori più significativi del Preromanticismo italiano sono a. Ugo Foscolo e Vincenzo Monti. b. Ugo Foscolo e Pietro Verri. c. Ippolito Pindemonte e Alessandro Verri. d. Ippolito Pindemonte e Cesare Beccaria.

2 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Chi è e quale ruolo ha ricoperto Johann Joachim Winckelmann nello sviluppo del Neoclassicismo del primo Settecento? 2. Quali sono le caratteristiche principali dell’estetica neoclassica del primo Settecento e di quella della seconda metà del secolo? 3. Chi sono i principali esponenti del Neoclassicismo in Italia e quali tematiche in particolare hanno trattato? 4. Chi è il signor di Montgolfier e qual è la caratteristica più originale dell’ode che a lui viene dedicata da Vincenzo Monti? 5. Quali sono le vicende principali che caratterizzano la vita di Vincenzo Monti e in quanti e quali periodi può essere divisa? 6. Quali sono le tematiche più originali introdotte dal gusto preromantico che si diffonde in Europa nel Settecento? 7. Quali sono gli aspetti particolari che caratterizzano il Preromanticismo inglese, quello tedesco e quello italiano? 8. Chi è il giovane Werther, quale vicenda nell’opera a lui dedicata da Johann Wolfgang Goethe scatena una vera e propria moda in Europa e perché? 9. Di che cosa tratta l’Elegia scritta in un cimitero di campagna di Thomas Gray? 10. Chi è Evirallina, in quale opera compare, chi ne è l’autore e che importanza essa riveste per la nascita del Preromanticismo inglese?

CAP. 14 - FRA NEOCLASSICISMO

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PREROMANTICISMO

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CAPITOLO

15

Ugo Foscolo, un poeta tra due epoche

François-Xavier Fabre, Ugo Foscolo, 1813. Firenze, Collezioni Parronchi.

Tra Neoclassicismo e Romanticismo

L’interiorizzazione del contrasto IlluminismoRomanticismo

LA

Vissuto in un’epoca di profondi conflitti, segnata dalla Rivoluzione francese, dagli sconvolgimenti delle guerre napoleoniche – che hanno per teatro anche l’Italia, dove ritornano poi gli Austriaci – e dall’inizio della Restaurazione, Ugo Foscolo riflette in sé il tormentato passaggio non solo fra due secoli – il Settecento e l’Ottocento – ma anche fra due culture profondamente diverse. Foscolo vive sul crinale tra due epoche e tra due concezioni della vita e dell’arte. Il Neoclassicismo, che influenza la seconda metà del Settecento, è da lui – nato in un’isola greca appartenente, fino al 1797, alla Repubblica di Venezia – particolarmente amato; il richiamo ai miti dell’antica Grecia è intimamente legato al ri-

LINEA DEL TEMPO: LA VITA E LE OPERE

1778 Ugo Foscolo nasce a Zante

1789 RIVOLUZIONE FRANCESE

1793 Raggiunge la madre a Venezia

1797 TRATTATO DI CAMPOFORMIO Fugge a Milano

DI

1802 Ultime lettere di Jacopo Ortis

408 CAP. 15 - UGO FOSCOLO, UN POETA TRA DUE EPOCHE

1804 EDITTO SAINT-CLOUD

1802-1803 Poesie

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L’integrazione del dissidio nella poesia

cordo della terra natia e della madre greca; l’affinamento della capacità di scrivere in stile neoclassico è inoltre facilitato dall’amicizia con Vincenzo Monti. Potente è in lui anche l’attrattiva per il Preromanticismo, affine al suo carattere e al suo modo di vivere. Alcune opere saranno influenzate dal gusto romantico (ad esempio, l’Ortis o il sonetto Alla sera), altre dallo stile neoclassico (le Odi e Le Grazie). Ma in quelle migliori, come nel capolavoro Dei sepolcri o nel sonetto A Zacinto, i due aspetti contrastanti si armonizzano. Nel pensiero, nel gusto letterario e nelle opere di Ugo Foscolo si intrecciano, come in altri autori, temi dell’età dei lumi e dell’epoca romantica, aspetti stilistici sia neoclassici sia romantici. La sua peculiarità però è che in lui la sensibilità preromantica entra in conflitto con il pensiero razionale e illuminista. Infatti, fin dalle prime poesie giovanili di impianto ancora neoclassico, Foscolo accoglie molte tematiche romantiche – l’importanza del sentimento e dell’amore, l’ideale politico patriottico, la tendenza alla malinconia, il gusto del notturno, il tema dell’eroe bello… di sventura, l’inquietudine e la nostalgia per la morte – ma non riesce a fondere il nuovo pensiero, di ispirazione spiritualistica e, in senso lato, religiosa, con i punti di partenza illuministi, atei, materialistici e sensisti: le due tendenze compresenti in lui – come egli stesso scrive – generano un aperto contrasto fra cuore e ragione. Partendo da premesse razionali sensistiche e materialistiche, che lo portano a concepire la morte come dissoluzione nel nulla eterno, Foscolo arriva a concepire il sentimento e l’arte – la poesia innanzitutto – come forze in grado di eternare l’uomo, permettendogli di sopravvivere alla morte nel ricordo dei suoi simili. L’elaborazione filosofica di Foscolo non è né sistematica né coerente: la contraddittorietà del pensiero, dei sentimenti e della stessa vicenda personale dell’autore trovano composizione solo nella poesia, che egli stesso definisce sintesi di passione divorante e di pacata meditazione.

LA

VITA E LE OPERE

Niccolò Foscolo, che successivamente cambia il proprio nome in Ugo, nasce nel 1778 a Zacinto (Zante), allora appartenente alla Repubblica di Venezia. La madre del poeta, Diamantina Spathis, è greca, il padre Andrea è un medico veneziano. Egli trascorre un’infanzia felice nella piccola isola, che resterà per lui simbolo di un mondo di incantevole bellezza e di legame con la civiltà e i miti classici della Grecia. Il trasferimento a Spalato, dove frequenta la scuola del seminario arcivescovile, e l’improvvisa scomparsa del padre lo trasformano, come egli stesso scrive in una lettera, in un giovane infermo spesso per malinconia, e talvolta feroce ed insano per ira.

1808 Ottiene la cattedra di eloquenza all’università di Pavia

1806-1807 Dei sepolcri

1815 NAPOLEONE È SCONFITTO A WATERLOO 1811 Si trasferisce a Firenze

1812-1813 Le Grazie

Va in esilio in Svizzera e in Inghilterra

1821 NAPOLEONE MUORE SULL’ISOLA DI SANT’ELENA

1827 Muore in un sobborgo di Londra

1813 Notizia intorno a Didimo Chierico

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CAP. 15 - UGO FOSCOLO,

UN POETA TRA DUE EPOCHE

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Il trasferimento a Venezia e l’impegno politico L’iniziazione politica e letteraria

La giovanile passione napoleonica

Trasferitosi con la famiglia a Venezia (1792), l’ideale politico rivoluzionario e la passione amorosa irrompono nella vita del poeta, insieme all’interesse per lo studio delle opere letterarie e filosofiche e alla frequentazione di scrittori di alto livello, fra cui Melchiorre Cesarotti, Saverio Bettinelli, Ippolito Pindemonte. Nel 1797, poco più che ventenne, è accolto nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi e se ne invaghisce. Nello stesso periodo, sul modello umano e letterario di Vittorio Alfieri, Foscolo fa rappresentare la tragedia antitirannica Tieste, che gli procura la schedatura come sovversivo negli archivi della polizia della Serenissima. Per evitare l’arresto, ripara nella filofrancese Repubblica Cispadana, dove compone l’ode A Bonaparte liberatore. Torna a Venezia quando la città si proclama repubblica democratica e giacobina; vi assume incarichi politici e si batte per l’unione della sua città alle altre repubbliche della penisola che hanno innalzato il tricolore, simbolo dell’unità italiana.

La disillusione politica La delusione e l’esilio a Milano I maestri e il primo abbozzo dell’Ortis

L’attività di ufficiale e le Odi

Tra Firenze e Milano: l’Ortis

Pubblicazione delle Poesie

Ma con il trattato di Campoformio (1797), Napoleone cede Venezia (e Zacinto) all’Austria, in cambio di territori più appetibili per la Francia, suscitando una profondissima delusione politica nel giovane scrittore. Da allora Foscolo considererà illusioni del cuore gli ideali politici e la fiducia riposta nei grandi uomini. Per sfuggire alla polizia austriaca, il poeta si reca in volontario esilio nella Repubblica Cisalpina a Milano, dove incontra importanti scrittori come Giuseppe Parini, che considera maestro di dirittura morale, e il caposcuola italiano della poesia neoclassica, Vincenzo Monti, che lo aiuta e di cui ama la moglie, Teresa Pikler. Ma si inimica il Consiglio Cisalpino per essersi opposto, in un sonetto, all’abolizione del latino nelle scuole, e nel 1798 si trasferisce a Bologna, dove collabora a giornali e riviste e realizza – con il titolo Laura, lettere – un primo abbozzo del romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis. Ripresa la guerra fra Napoleone e gli Austriaci (1799), Foscolo si arruola nella Guardia Nazionale e, fino al 1812, svolge incarichi di ufficiale negli eserciti delle Repubbliche filofrancesi. Mentre a Bologna viene pubblicata, a sua insaputa, un’edizione dell’Ortis, monca e rimaneggiata al fine di ottenere il visto della censura austriaca, Foscolo ristampa l’ode A Bonaparte liberatore, con una lettera critica nei confronti del suo antico idolo, e compone l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (1799). Tornati i Francesi al potere dopo la battaglia di Marengo (1800), Foscolo viene inviato a Firenze, dove si innamora di Isabella Roncioni, già destinata al matrimonio con il marchese Bartolommei; da questa sfortunata passione nasce la figura di Teresa nella stesura definitiva dell’Ortis (precedentemente, la protagonista femminile del romanzo era, infatti, una matura vedova, figura forse ispirata a Teresa Pikler). Rientrato a Milano, fra il 1801 e il 1803, compone l’ode di stile neoclassico All’amica risanata (1802) per l’amante Antonietta Fagnani, moglie del conte Marco Arese, e pubblica la seconda e completa versione dell’Ortis (1802). Nello stesso periodo, giuntagli notizia del suicidio di suo fratello, commesso dopo un furto per debiti di gioco, compone uno dei suoi più celebri sonetti, In morte del fratello Giovanni. Nel frattempo, con il titolo Poesie di Ugo Foscolo, egli pubblica a Pisa i pochi versi da lui stesso approvati: l’ode A Luigia Pallavicini e otto sonetti, scritti e rielaborati fra il 1797 e il 1802; l’anno successivo esce a Milano l’edizione ampliata delle Poesie, composta da due odi e dodici sonetti (1803).

Le peregrinazioni in Europa Nel 1804, in gravi ristrettezze economiche, lo scrittore riprende la vita militare e ottiene di essere trasferito, col grado di capitano, in Francia e poi nelle Fiandre, tra le truppe napoleoniche che preparano uno sbarco – che in realtà non sarà mai attuato – in Inghilterra.

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Il personaggio di Didimo Chierico

Negli anni trascorsi in Francia, Foscolo traduce il Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia di Laurence Sterne (1713-1768), che gli ispirerà un nuovo personaggio autobiografico, presentato nella Notizia intorno a Didimo Chierico, edita alcuni anni dopo: figura di un intellettuale più disingannato che rinsavito, che allo spirito passionale e al temperamento tragico sostituisce la capacità di distaccarsi e sorridere amaramente dei difetti umani. Nei medesimi anni, Foscolo invia a Vincenzo Monti alcuni saggi per una versione dell’Iliade. Intanto, da una relazione a Valenciennes con l’inglese Sofia Hamilton (o, secondo altri biografi, Sofia Emerytt), gli nasce una figlia, Mary, che lo scrittore abbandonerà insieme alla madre. La ritroverà solo negli ultimi anni di vita, in Inghilterra, quando la chiamerà col nome, probabilmente immaginario, di Floriana.

Il rientro in Italia Il ritorno in patria e l’ispirazione per i Sepolcri

L’esperienza di docente

L’abbozzo delle Grazie

Nel 1806 il poeta rientra in patria, dopo aver incontrato, a Parigi, il giovane Alessandro Manzoni, che vi risiede con la madre Giulia Beccaria. Stabilitosi di nuovo a Milano, Foscolo si reca a Venezia, dove ancora vive la vecchia madre, e incontra anche Melchiorre Cesarotti, Ippolito Pindemonte e Isabella Teotochi Albrizzi. Dalla riflessione sulle conversazioni avvenute nel corso di tali incontri nasce il carme Dei sepolcri, suo capolavoro, ultimato e pubblicato nel 1807 a Brescia. Dal 1808 Foscolo ottiene la cattedra di Eloquenza all’Università di Pavia, dove pronuncia, nel 1809, la mirabile orazione inaugurale Dell’origine e dell’ufficio della letteratura. La cattedra è però presto soppressa per gli atteggiamenti antinapoleonici dello scrittore ed egli deve lasciare la città, in cui ha avuto due relazioni sentimentali: con Maddalena Bignami e con Francesca Giovio, che rifiuta di sposare per non renderla infelice. Ancora a Milano, Foscolo rompe l’amicizia con Vincenzo Monti con uno scambio di sarcastici sonetti in cui lo accusa di servilismo verso il potere. Nel 1811, quando alla Scala è rappresentata la sua tragedia Ajace, che si conclude con il suicidio del protagonista, molti vedono Napoleone nella figura del tiranno Agamennone: le recite vengono proibite e gli incarichi affidati a Foscolo nel Regno d’Italia sospesi. Ospitato a Bologna, nel corso degli amorosi colloqui con la contessa Cornelia Rossi Martinetti, Foscolo medita in questi anni e abbozza il mai ultimato poemetto Le Grazie. Fra il 1812 e il 1813, stabilitosi presso Firenze, il poeta frequenta il salotto di Luisa d’Albany, compagna di Vittorio Alfieri, corteggia la fiorentina Eleonora Nencini e la senese Quirina Mocenni. In questo periodo Foscolo scrive molti frammenti delle Grazie e una terza tragedia di ispirazione alfieriana, Ricciarda, rappresentata a Bologna nel 1813; pubblica inoltre la traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne e la Notizia intorno a Didimo Chierico.

L’esilio e gli ultimi anni di vita Il rapporto con gli Austriaci

L’esilio: dalla Svizzera all’Inghilterra

Quando gli Austriaci rientrano in possesso dell’Italia del Nord, Foscolo si trova a Milano. Nonostante lo scrittore sia ormai considerato dalla polizia un sovversivo, il feldmaresciallo Bellegarde gli offre un importante ruolo all’interno della “Biblioteca Italiana”, periodico letterario con il quale gli Austriaci mirano a riacquistare consenso fra i sudditi. Foscolo collabora alla stesura del progetto con Monti e Giordani ma, al momento di giurare fedeltà al governo austriaco, il 31 marzo 1815, parte improvvisamente per l’esilio. Le ragioni della scelta e, soprattutto, il rimpianto per ciò che lascia in Italia e l’angoscia per il destino tragico che l’attende sono espresse in passi di drammatiche lettere raccolte nell’Epistolario, uno dei più significativi della nostra letteratura. In Svizzera, dove l’Ortis è pubblicato con la celebre lettera contro Napoleone, inizia il tormentato esilio, ultimo periodo della sua vita. Foscolo ben presto deve fuggire per la richiesta di estradizione degli Austriaci. Raggiunge allora l’Inghilterra nel 1816 e a Londra, dopo un primo periodo di cal-

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CAP. 15 - UGO FOSCOLO,

UN POETA TRA DUE EPOCHE

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La morte

da accoglienza da parte degli esuli italiani e delle autorità, a causa del suo carattere scontroso e della vita disordinata, viene emarginato e si ritrova in miseria e malato. Ad aiutarlo negli ultimi anni di vita rimarrà Floriana, la figlia naturale. Nel 1827, non ancora cinquantenne, muore nel villaggio di Turnham Green, presso Londra, dove si è rifugiato per sfuggire ai creditori. Le sue ossa, nel 1871, saranno trasferite a Firenze; oggi si trovano fra i sepolcri dei “grandi” di Santa Croce cantati dallo scrittore nei Sepolcri.

IL Le matrici culturali

La passione politica

Le concezioni di fondo

Il contrasto fra realtà e ideali

La religione delle illusioni Evoluzione del pensiero e ultimo approdo

PENSIERO

La cultura di Foscolo, di formazione classica (scrittori particolarmente prediletti erano i greci Omero e Plutarco, e i latini Lucrezio e Callimaco), accoglie ben presto anche il pensiero degli illuministi francesi (il sensismo, il razionalismo e l’ateismo), dei Preromantici inglesi e tedeschi (il gusto delle atmosfere crepuscolari e della morte) e dei maggiori letterati italiani (Vittorio Alfieri, per la tensione alla libertà e la lotta alla tirannia, Giuseppe Parini, per l’impegno civile e il valore della dignità, e Giambattista Vico, per la concezione ciclica della storia e del progresso umano). Intensamente partecipe alle vicende storiche del proprio tempo, Foscolo manifesta inizialmente entusiasmo per la funzione liberatrice della Francia rivoluzionaria e napoleonica, ma dopo il trattato di Campoformio una profonda disillusione e una concezione pessimistica, che non abbandonerà più, circa la concreta possibilità di realizzazione dei propri ideali politici. Pur continuando la sua militanza nell’esercito napoleonico e a sognare un’Italia indipendente e libera, Foscolo perde fiducia in ogni forma di potere politico e nella possibilità di vedere attuati i propri sogni nella storia. Egli, però, conserverà sempre tali ideali come riferimenti di vita e di pensiero, anche a costo di subire emarginazione, esilio e miseria. Alcune concezioni di fondo si distinguono nel pensiero di Foscolo. Soprattutto a livello razionale, egli accoglie una visione meccanicistica, atea e sensista del mondo. L’universo gli appare un ciclo eterno e infinito di trasformazione, al cui interno l’individuo, che ignora le ragioni del suo esistere, è destinato a dissolversi nel nulla dopo la morte. Restano per lui insoluti i grandi interrogativi sul significato dell’esistenza e sulla causa del dolore e della sofferenza, le cui risposte sfuggono all’indagine della ragione e dei sensi. La vita è intesa come sofferenza, idea espressa dalla metafora del viaggio nel mare in tempesta, fra angosce tormentose, il cui approdo è la morte, vista romanticamente come porto in cui trovare quiete, concezione su cui si fonda il suo pessimismo. I valori sono intesi come grandi illusioni nutrite solo dal sentimento. Il cuore cerca costantemente i motivi che diano un senso all’esistenza: l’amore, la bellezza, la poesia, la passione politica, gli affetti; anche se la spietata analisi della ragione rivela l’illusorietà di tali valori. L’acuto conflitto fra realtà e ideali si riflette, dunque, in Foscolo nel contrasto fra la fedeltà alle concezioni filosofiche razionalistiche e sensiste dell’Illuminismo e il profondo legame, di stampo romantico, con le grandi passioni nate dal cuore; benché esse si rivelino, all’analisi della fredda ragione, come illusioni destinate a infrangersi contro la realtà, continuano, tuttavia, ad essere considerate necessarie dal poeta per dare un senso all’esistenza umana. Molti critici ritengono pertanto che una sorta di religione delle illusioni sia il fondamento del pensiero dello scrittore, il quale non riesce ad armonizzare le contrastanti spinte della ragione e del sentimento. Si può comunque parlare di una evoluzione del pensiero di Foscolo, attraverso il graduale abbandono delle punte più pessimistiche espresse nell’Ortis, se si considera in particolare l’opera incompiuta composta nei suoi ultimi anni di vita. Nel poemetto Le Grazie – suo ultimo approdo – l’autore sottolinea infatti il pericolo per l’uomo derivante dalla sua natura spesso preda di istinti violenti e passioni amorose incontrollate, e indica nei valori neoclassici dell’armonia e della bellezza, che si incarna soprattutto nella donna e nell’arte, della pietà e – tema inedito – del focolare domestico, i rimedi contro il “male di vivere”.

412 CAP. 15 - UGO FOSCOLO, UN POETA TRA DUE EPOCHE

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Un letterato di tipo nuovo La personalità contraddittoria

Tra classicismo e Romanticismo

Il rifiuto dell’imitazione e l’esaltazione della libertà

La funzione della poesia

POETICA Foscolo rappresenta un letterato di tipo nuovo, privo di mecenati e protettori, un libero pensatore che per essere poeta si mantiene con professioni diverse (soprattutto in ambito militare, ma fu anche professore e funzionario). Anche il suo carattere e la sua personalità appaiono diversi e particolari. Egli incarna il personaggio romantico per eccellenza, l’eroe fascinoso, il genio sregolato sia per l’esistenza peregrina e i molti viaggi, sia per le diverse attività intraprese, sia per le numerose relazioni amorose. Di stampo romantico sono anche le decisioni improvvise e spesso trasgressive prese durante la sua vita. Un altro fattore di novità è che l’elemento autobiografico è sempre presente nella sua opera, come ispirazione e come supporto. L’autore stesso riconosce però di avere una personalità contraddittoria, in cui forte si leva anche la voce della ragione. Che il conflitto interiore sia alla base della personalità di Foscolo è bene illustrato dalle differenze tra i due personaggi più cari al poeta, Jacopo Ortis e Didimo Chierico: il primo combattente passionale, irruento, idealista e libertario, il secondo erudito ironico e realista disincantato. Essi sono gli emblemi delle due anime di Foscolo. Scrittore di transizione, Foscolo mostra nella sua poetica e nella sua opera sia le conquiste del Neoclassicismo, che si innestano su una base illuministica, sia i nuovi caratteri del Romanticismo nascente. Aspetti classici in Foscolo sono infatti l’esaltazione della Grecia antica, il riferimento alla mitologia, la ricerca della bellezza e dell’armonia, la fede nella funzione eternatrice della poesia, il lessico alto e la compostezza stilistica nello scrivere, la metrica tradizionale e le concezioni razionaliste. Le principali tendenze romantiche presenti nella poetica e negli scritti dell’autore sono, invece, il patriottismo e l’amore per il proprio paese, la concezione della letteratura come impegno civile, la passionalità e il culto del sentimento e dell’amore, l’autobiografismo, la fede nelle grandi illusioni e negli ideali, il pessimismo e il rifugio nell’arte, il mito del genio e dell’eroe sventurato e infelice, l’attenzione ai temi sepolcrali e ai notturni. In questo contesto assume rilevanza fondamentale la funzione attribuita alla poesia, che Foscolo descrive in una celebre prolusione pronunciata all’Università di Pavia e nei Princìpi di critica poetica. L’autore ritiene anzitutto che il poeta debba essere un genio creativo, che non debba fare uso di alcuna forma di imitazione né della natura né dei maestri del passato. Tutto deve scaturire dalla sua natura, dal talento, dalle esperienze di vita e dalle sue emozioni. Anche in questo ambito, Foscolo aspira alla libertà. In particolare, polemizza sul ruolo dei critici letterari, denunciando la loro arroganza nell’ergersi a giudici che emanano leggi poetiche, in virtù delle quali ingabbiano la creatività del genio, esercitando, in questo modo, una sorta di tirannia culturale. Alla poesia Foscolo attribuisce una funzione eternatrice. La principale illusione umana riguarda la sopravvivenza alla morte: benché, infatti, la fine dell’esistenza individuale rappresenti, secondo la concezione materialista dello scrittore, l’annientamento nel nulla eterno, l’uomo, in qualche modo, continua a vivere dopo la propria fine se, avendo bene operato, potrà essere ricordato dalle persone care o, come è accaduto ai grandi personaggi della storia italiana o dell’antichità, da un intero popolo. I sepolcri e la poesia, che sopravvive anche alla distruzione delle tombe causata dall’incessante trascorrere dei millenni, hanno tale funzione eternatrice: possono salvare il genio dalla dimenticanza cui lo condannano la morte e il tempo che tutto cancella. La grande poesia del genio creatore, infatti, vince di mille secoli il silenzio. Questa concezione della memoria e della poesia che tramanda il ricordo in eterno fra gli uomini è il nodo tematico, in particolare, del carme Dei sepolcri. La poesia possiede anche una funzione civilizzatrice. Il poeta e l’uomo che opera per il bene – Giuseppe Parini e i grandi italiani del passato ne diventano simboli esemplari – svolgono, attraverso la poesia che li ricorda, un’indispensabile funzione di educazione e civilizzazione, in quanto si trasformano in esempi che animano e alimentano la parte migliore degli individui e dei popoli, dai quali saranno perciò perennemente ricordati con gratitudine, continuando così, in qualche modo, a vivere in loro.

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Una poetica subordinata a un ampio progetto

In definitiva Foscolo subordina la propria poetica anzitutto a un progetto di ampia portata, in cui la poesia assolve a una funzione universale in quanto il suo scopo è morale (accendere gli animi al valore e alle virtù), antropologico (accompagnare gli uomini verso la civiltà), politico (promuovere l’ideale dell’indipendenza), estetico (accedere al bello). I fondamenti della poetica foscoliana sono contenuti, oltre che indirettamente nelle opere maggiori, soprattutto nella Prolusione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, tenuta all’Università di Pavia nel 1808: in essa, coerentemente con la concezione prevalente nel pensiero e nell’opera dell’autore in quel periodo, Foscolo sottolinea con forza la funzione civile del poeta, considerato educatore dei popoli alla libertà. In relazione al carme Dei sepolcri, determinante è invece la Lettera a Monsieur Guillon (per cui cfr. pag. 441). Zaccaria Re, Interno dell’Università di Pavia nel 1794. Pavia, Museo Storico dell’Università.

FOSCOLO: UOMO E AUTORE

PERSONALITÀ

• Inquietudine interiore: continui spostamenti e amori tempestosi. • Individualismo, inteso non come fuga, ma come scontro con la realtà. • Contrasto fra “cuore” e “ragione”.

FORMAZIONE CULTURALE

• Cultura classica: Omero, Plutarco e gli autori greci soprattutto, ma anche Lucrezio. • Alfieri: individualismo, rifiuto dell’ignavia contemporanea, atteggiamento libertario e antitirannico. • Parini: poesia impegnata, intento educativo, stile arduo. • Illuminismo e Sensismo: visione materialistica dell’uomo e della storia, interpretata però in chiave pessimistica. • Vico: concezione ciclica della storia.

PENSIERO

• Sul piano politico: adesione agli ideali rivoluzionari, giacobinismo. • Pessimismo fondato sulla ragione, che svela la caducità della vita umana e il dominio della forza nella storia. • Recupero dei valori (le illusioni: amore, bellezza, pietà, giustizia, ecc.) attraverso il sentimento e la poesia.

POETICA

• Valore del genio, inteso come libertà creativa, e rifiuto delle regole e dell’imitazione. • Funzioni della letteratura: • − estetica: la poesia suscita il piacere estetico attraverso lo straniamento; • − catartica: la poesia libera dal dolore e consola; • − la poesia fonda attraverso la parola e la tradizione la società; • − etica e politica: la poesia guida ai valori (illusioni) e svela i disvalori della società, stimola alla libertà e suscita l’amor di patria: di qui il suo carattere militante; • − mitopoetica: la poesia conferisce durata alle illusioni e vince il tempo, attraverso la creazione di nuovi miti. • Superiorità della poesia sulle altre forme di espressione artistica. • Ambizione alla sintesi delle arti attraverso la parola. • Poesia come sintesi armonica di cuore e ragione: compresenza di motivi neoclassici e preromantici.

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LE ULTIME L’ispirazione al Werther

L’opera più romantica Genesi, abbozzi ed edizioni

La trama

LETTERE DI

JACOPO ORTIS

La prima opera significativa composta da Ugo Foscolo è il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, la cui ispirazione, sul piano strutturale e narrativo, risale principalmente a I dolori del giovane Werther (1774), di Johann Wolfgang Goethe. L’Ortis è però opera originale, integrata da numerosi riferimenti autobiografici e che dedica ampio spazio al tema politico. Fra le opere di Foscolo, l’Ortis appare la più tipicamente romantica, per la figura del protagonista, eroe appassionato e di profondi sentimenti, i cui ideali si scontrano con la realtà storica ed esistenziale nel segno della sconfitta. Gran parte della prima versione viene composta e pubblicata a Bologna nel 1798, nell’anno successivo all’emanazione del trattato di Campoformio, che influenza in modo determinante le idee politiche di Foscolo e la trama dell’opera. L’idea di partenza compare nel Piano degli studi del 1796, dove Foscolo parla di un abbozzo dal titolo Laura, lettere, la cui protagonista è però una matura vedova. Per il nome del protagonista, sembra che il poeta abbia preso spunto dal suicidio – realmente avvenuto – di uno studente padovano di nome Girolamo Ortis. L’edizione bolognese, completata da un letterato di nome Angelo Sassoli per conto dell’editore Marsigli e pubblicata all’insaputa di Foscolo, risulta ampiamente incompleta, ed è intitolata Vera storia di due amanti infelici ossia Ultime lettere di Jacopo Ortis; molti riferimenti politici sono omessi, per ottenere l’assenso alla pubblicazione da parte della censura austriaca. Nel 1802, a Milano, Foscolo completa la stesura del romanzo e lo pubblica a proprie spese, apportandovi notevoli modifiche. La protagonista femminile, Teresa, diventa una diciottenne, ispirata alla figura della giovane Isabella Roncioni; il fidanzato della donna, Odoardo, viene trasformato in un uomo dall’esistenza ordinaria, la cui ricchezza e il cui potere gli permettono di strappare Teresa all’amore di Jacopo; la vicenda assume toni assai più drammatici, passionali e, per molti versi, romantici; ampio spazio è riservato al tema politico (a differenza di quanto accade nel Werther). Il successo del romanzo è notevole: fra il 1802 e il 1814, sarà ristampato ben quattordici volte. La terza edizione, edita a Zurigo nel 1816, si distingue soprattutto per una revisione linguistica che rende più fluido lo stile, e per l’aggiunta di una lunga lettera (datata 17 marzo 1798), nella quale vengono espresse apertamente, tramite Jacopo, critiche a Napoleone ed è esposta la concezione pessimistica della politica che Foscolo è andato maturando. Limitati ritocchi vengono introdotti nell’edizione londinese del 1817. Nel romanzo epistolare – che è composto da lettere del protagonista commentate dall’amico Lorenzo Alderani – il giovane Jacopo Ortis, divenuto un perseguitato politico dopo il trattato di Campoformio (che cede all’Austria il controllo di Venezia), si rifugia sui colli Euganei, deluso dal tradimento di Napoleone, e inizia la corrispondenza con l’amico Lorenzo. Nel luogo in cui si è trasferito conosce una fanciulla, Teresa, che è fidanzata con il nobile e facoltoso Odoardo. Jacopo se ne innamora e, durante una gita ad Arquà per visitare la casa di Petrarca – in cui fra l’altro si rivela la mediocrità di Odoardo –, Teresa confessa a Jacopo di non esserne innamorata. Dopo un breve viaggio a Padova, Jacopo ritorna e scrive all’amico lettere sul tema dell’amore impossibile e contrastato. Una sera, sotto la luna, Teresa e Jacopo si baciano, ma si rendono conto che il loro è un amore impossibile. Il giovane allora parte, sperando che le bellezze dell’Italia plachino il suo animo e lo aiutino a maturare: la visita alle tombe dei grandi italiani a Santa Croce a Firenze gli fa comprendere il legame fra letteratura, scienza e identità nazionale, così come il resto del viaggio gli rende evidente la debolezza morale e politica degli Italiani. Dopo un incontro a Milano con Giuseppe Parini, che accentua la sua disillusione politica, giunto a Ventimiglia, anziché varcare il confine, Jacopo decide di tornare in Veneto, ma Venezia è sotto il giogo austriaco e Teresa si è sposata. Jacopo, angosciato e incapace di trovare un senso alla vita, si suicida.

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La struttura con due narratori interni

L’autobiografismo e il conflitto cuore-ragione I temi principali

Il confronto tra Jacopo e Werther

Il pessimismo cosmico del protagonista I diversi stili e l’urgenza delle passioni

L’Ortis è un romanzo epistolare, in quanto costituito da una serie di lettere che l’autore finge siano state scritte dal protagonista Jacopo Ortis all’amico Lorenzo Alderani, che talvolta le commenta con le sue riflessioni nel corso del romanzo. L’espediente consente, fra l’altro, la presenza di due narratori interni: uno fortemente passionale (Jacopo), l’altro partecipe alle vicende ma in modo più razionale (Lorenzo). L’impianto autobiografico del romanzo si riflette, oltre che nella trama, anche nell’ambientazione: i Colli Euganei richiamano il soggiorno di Foscolo a Padova, dove a lungo frequenta Melchiorre Cesarotti. Il conflitto fra cuore e ragione (Jacopo-Lorenzo, partenze e ritorni, vita-morte) è il tema centrale dell’opera. Un altro dei motivi centrali dell’opera – poiché Foscolo, perduta la fede religiosa, non crede nella sopravvivenza ultraterrena, ma nella precarietà della condizione umana – è la continua ricerca di ragioni per vivere. Le più importanti, nel romanzo come nella vita stessa dell’autore, sono l’amore e la passione politica. Analizzate freddamente dalla ragione materialista, esse si rivelano illusioni, ma il cuore, che ha in esse una fede quasi sacra, non vi può rinunciare. Se vengono meno, la vita perde infatti ogni significato, come dimostra il suicidio finale del protagonista. Per l’interpretazione del romanzo è particolarmente utile un confronto con il Werther di Goethe (autore cui l’Ortis fu inviato da Foscolo). Nella Notizia bibliografica allegata all’edizione del 1816, Foscolo sottolinea tuttavia le differenze fra i due romanzi, precisando che mentre il suicidio di Werther è dovuto a una vicenda individuale (la delusione amorosa), quello di Jacopo è dettato da ragioni di portata epocale, che coincidono con il crollo del grande ideale di un’intera generazione. Nella modalità stessa del suicidio – una pugnalata al cuore, come gli eroi dell’antichità classica, anziché un colpo di pistola, come per Werther – Ortis incarna tragicamente l’eroe solitario, il titanico “grande sconfitto” romantico in vana lotta contro il destino, l’universo, le regole della storia e della società umana. La dimensione cosmica raggiunta dal pessimismo di Ortis poco prima del suicidio fa dell’eroe una delle più esemplari figure di ribelle che rifiuta la realtà intera. Tale modello è presente nelle opere classiche come nell’arte del XX secolo ed ha un evidente risalto sia nell’Ortis sia nel romanzo di Goethe. La scrittura del romanzo assume spesso un tono lirico, ma mostra sostanzialmente stili diversi, che aderiscono alle esigenze della narrazione, attingendo ora all’oratoria, ora all’invettiva, assumendo toni ora tragici, ora patetici, ora bucolici. Dominano la paratassi, la ripetizione, l’iterazione sinonimica; spesso il discorso si rapprende in brevi e secche sentenze o fulminanti antitesi, per cui la critica ha spesso parlato di uno stile tacitiano. È comunque uno stile adatto soprattutto a ritrarre l’urgenza delle passioni – elemento centrale nell’opera – che produce risultati di drammaticità e vivacità in opposizione alla prosa accademica e tradizionale.

T1 La dedica da Ultime lettere di Jacopo Ortis La dedica si compone di due periodi: nel primo Lorenzo Alderani, amico ed editore, dichiara le motivazioni che lo hanno indotto a raccogliere e pubblicare le lettere di Jacopo, legando fortemente poesia e memoria, morte e virtù; nel secondo si rivolge direttamente al lettore. PISTE DI LETTURA • La poesia come conforto e incitamento alla virtù • Un pubblico di persone sensibili agli ideali e lontane dall’ipocrisia • Il tema dell’eroismo

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Al lettore Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare1 alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura2. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino3 stessi capaci, 5 darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto. Lorenzo Alderani da Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di W. Binni e L. Felici, Garzanti, Milano, 1974

1. consecrare: consacrare. 2. che ora... sepoltura: Lorenzo – che è stato esiliato –

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non può piangere sulla tomba dell’amico Jacopo. 3. eglino: essi; si tratta di un arcaismo.

inee di analisi testuale Un’anticipazione dei temi del romanzo La dedica Al lettore contiene in forma estremamente condensata e allusiva i temi principali del romanzo: • il motivo della gloria e dell’eternità della poesia, sulla base di una consolidata tradizione letteraria greca e latina; Tucidide aveva definito la sua opera “eterna, per sempre” e Orazio aveva affermato di “avere eretto un monumento più duraturo del bronzo”: l’espressione foscoliana erigere un monumento li richiama allusivamente; • il motivo dell’eroismo, con un significativo richiamo al modello di Vittorio Alfieri, figura esemplare dell’uomo che tenta di realizzare il suo ideale di virtù in un mondo ostile che disprezza i valori; • il motivo della tomba e dell’esilio come separazione dai luoghi natii e come preclusione della memoria; • il motivo della poesia come consolazione e come incitamento alla virtù; • il motivo della contrapposizione fra l’ipocrisia e la sincerità dei sentimenti e delle passioni (su cui si incentra il contrasto fra Odoardo e Jacopo); • l’ispirazione autobiografica dell’opera. La letteratura come luogo degli esempi Le parole monumento e lagrime sono inoltre indicative della sintesi tentata da Foscolo fra gli influssi del Preromanticismo europeo (poesia sepolcrale) e il modello alfieriano (connotato da un lirismo eroico-tragico). In questa dedica Al lettore Foscolo esplicita la sua idea di letteratura: egli la considera, al pari del sepolcro, come un luogo di memoria, con il duplice compito di offrire all’umanità consolazione ed esempi da imitare.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto della dedica in non più di 3 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 2 righe per ogni risposta). a. Chi è l’autore della dedica? b. Per quale ragione l’autore della dedica decide di pubblicare le lettere di cui parla? c. Chi sono mittente e destinatari delle lettere? Approfondimenti 3. Dopo aver accuratamente riletto la dedica, spiega (in non più di 30 righe) in quale modo il testo alluda ai principali temi del romanzo. 4. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando l’esposizione con opportuni riferimenti al testo: L’Ortis e la poesia della memoria. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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T2 La delusione politica: Napoleone cede Venezia all’Austria da Ultime lettere di Jacopo Ortis La lettera – la prima del romanzo – porta la data dell’11 ottobre 1797, giorno che coincide significativamente con l’inizio delle trattative fra Napoleone e l’Austria: queste si concluderanno con la cessione all’Austria della Repubblica veneta, sancita dal trattato di Campoformio (17 ottobre 1797). PISTE DI LETTURA • L’annuncio solenne della perdita della libertà di Venezia • L’ignavia degli Italiani e la disperazione dei patrioti • Tono tragico da’ colli Euganei, 11 ottobre 1797. Il sacrificio della patria nostra è consumato1: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione2, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito?3 Consola mia 5 madre: vinto dalle sue lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica4, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; Il giudizio quanti sono dunque gli sventurati5? E noi, pur troppo, noi stessi italiani ci lavia- 10 sugli Italiani mo le mani nel sangue degl’italiani. Per me segua che può6. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri. 15

Conseguenze della cessione di Venezia

da Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di W. Binni e L. Felici, Garzanti, Milano, 1974

1. sacrificio… consumato: notare la solennità stilistica con l’enfatica e classicheggiante posposizione dell’aggettivo al sostantivo (patria nostra). 2. lista di proscrizione: strumento politico in uso nell’antica Roma che consisteva in un avviso affisso pubblicamente in cui si notificava la messa all’asta dei beni dei debitori insolventi, ma anche sanzioni quali l’esilio e la condanna a morte. 3. ma vuoi… tradito?: vuoi che per salvarmi dall’oppres-

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sore austriaco mi affidi ai Francesi che hanno tradito? Nella realtà Foscolo non seguirà l’intransigenza di Jacopo, ma cercherà più realisticamente una mediazione, tanto che si arruolerà nell’esercito francese. 4. solitudine antica: il podere paterno sui colli Euganei; l’aggettivo antica denota in tono solenne il luogo dei padri, delle radici esistenziali di Jacopo. 5. sventurati: i patrioti perseguitati dagli Austriaci. 6. Per me... può: quanto a me, accada quel che vuole.

inee di analisi testuale La morte come scelta politica La vicenda personale di Jacopo si inquadra in quella generale dell’Italia; la lettera si apre e si chiude all’insegna del richiamo alla morte, tema centrale della poetica foscoliana: alla soppressione della libertà di Venezia corrisponde il desiderio di morte di Jacopo. A tale destino l’autore attribuisce un valore positivo, in quanto consente a Jacopo di affermare, seppure a prezzo della vita, la propria libertà personale e l’amore per la patria, che si esprime con la scelta di morire nella terra dei padri. Il protagonista è presentato come un modello positivo di libertà e coraggio, che si contrappone all’ignavia degli Italiani: egli rifiuta l’esilio come forma di viltà. Pochi piangeranno sulla sua tomba: egli si considera parte di una schiera di pochi eletti. La sua figura eroica incarna la ribellione alle aride leggi della politica e dell’interesse. Una struttura simmetrica Questa prima lettera del romanzo è costruita in modo simmetrico: al sacrificio (ossia caduta e schiavitù) della patria corrisponde in parallelo la decisione di morire di Jacopo, e, per antitesi, al naturale amore filiale per la madre corrisponde l’innaturale odio e la lotta fratricida fra gli Italiani, che dovrebbero invece essere uniti nel segno della patria.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi la lettera in non più di 5 righe. Analisi e interpretazione 2. Analizza il testo dal punto di vista delle strutture sintattiche: prevale la paratassi o l’ipotassi? Quali effetti produce questa strutturazione del periodo? 3. Indica quali sono gli elementi tematici e stilistici che conferiscono al testo un carattere neoclassico e quali invece lo configurano come appartenente all’area del Romanticismo. Approfondimenti 4. Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis è evidente l’influsso del modello alfieriano, soprattutto nell’ambito del tema politico-civile e nei tratti della personalità del protagonista. Illustra, anche alla luce di questo testo, l’importanza della figura di Vittorio Alfieri per il Foscolo dell’Ortis (in un testo di max 20 righe).

T3 Il bacio di Teresa da Ultime lettere di Jacopo Ortis Le lettere dal 4 al 14 maggio riguardano tutte il tema amoroso. Nelle prime, Jacopo scrive di sentirsi combattuto tra il suo amore e il senso di colpa: la fanciulla è promessa ad un altro; egli non potrebbe assicurarle un futuro; inoltre, non può tradire il conte T***; eppure non sa staccarsene. Quando la vede addormentata e sta per baciarla (12 maggio), si ritrae angosciato; invoca il suo nome piangendo nel boschetto dei pini, accanto al piccolo cimitero di campagna (13 maggio). Nello stesso bosco, come racconta il 14 maggio, Jacopo viene raggiunto da Teresa con Isabellina; passeggia al suo braccio fino a un laghetto, dove si fermano a guardare la luna, e lei immagina Petrarca che sospira per Laura; poi gli stringe la mano e lo porta sulla collina dove, seduti sotto un gelso, egli le recita le odi di Saffo. Teresa gli dice di amarlo e lo bacia. I due tornano a casa in silenzio e infine si dicono addio sul cancello del giardino. Questa è la lettera del successivo 15 maggio.

PISTE DI LETTURA • La concezione dell’amore romantico su uno sfondo neoclassico • La religione delle illusioni, alimento del cuore contrastato dalla ragione • Tono patetico 15 Maggio 1798. Gli effetti del bacio e la lode dell’Amore

Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi: il lamentar degli augelli e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ 5 miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia1. Il mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io,

1. Le mie idee... sembra mia: Jacopo descrive la trasformazione emotiva indotta dal sentimento amoroso, che rende l’uomo divino. Il pensiero s’innalza, l’aspetto si rallegra, si diventa migliori. La natura sembra più bella: più dolci il cinguettio degli uccelli e il vento (zefiri) tra gli alberi; la vegetazione sembra più rigogliosa e colorata; Jacopo non fugge più gli uomini, e tutta la Natura gli sembra sua. L’importanza attribuita alle passioni è tema romantico, come pure

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l’individualistica solitudine dell’eroe: anche Teresa, la giovane da lui profondamente amata, appare solo sullo sfondo. Nella prima parte della lettera, il tema centrale riguarda i prodigi compiuti dal sentimento d’amore, cui viene attribuito il potere di rendere gioioso e compassionevole l’uomo, stupendo e ridente il paesaggio, e di fare apparire la bellezza ovunque (è questa una conseguenza che Jacopo Ortis ha verificato in sé dopo aver ricevuto il bacio di Teresa).

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Un mitico incanto di gusto classicista

Il contrasto fra ragione e illusioni del cuore

sdegnando ogni modello terreno, la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animi generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e co’ pensieri spirati dal Cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà, per cui sorride talvolta il labbro dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri senza del quale tutto sarebbe caos e morte2. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco malefico; e il Mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. – O Lorenzo! sto spesso sdrajato su la riva del lago de’ cinque fonti3: mi sento vezzeggiare la faccia e le chiome dai venticelli che alitando sommovono l’erba e allegrano i fiori, e increspano le limpide acque del lago. Lo credi tu? io delirando deliziosamente mi veggo dinanzi le Ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le Muse e l’Amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti, le Najadi, amabili custodi delle fontane4. Illusioni! grida il filosofo. – Or non è tutto illusione? Tutto. Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il BELLO ed il VERO accarezzando gli idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza; e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele5.

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da Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di W. Binni e L. Felici, Garzanti, Milano,1974

2. O Amore!... morte: Foscolo introduce qui una lode all’amore personificato. In queste righe – e nella parte di lettera immediatamente successiva – l’io narrante (qui, Jacopo) sviluppa alcune considerazioni più riflessive: le arti e la poesia, che permettono all’uomo di esprimere la bellezza, sono considerate figlie dell’amore; senza amore non ci sarebbero né la pietà né i legami fra gli uomini: non esisterebbe, anzi, neppure la vita, e il mondo diventerebbe selvaggio e inospitale. In tutta questa parte del brano, il tema romantico dell’esaltazione dell’amore si integra armoniosamente col tema neoclassico della lode della bellezza. Il tono, però, è prevalentemente romantico: spesso ci si riferisce all’esperienza dei sentimenti, e le numerose esclamazioni evidenziano il carattere emotivo dell’espressione. L’accoppiamento dei termini amore e morte è tipicamente romantico. 3. lago de’ cinque fonti: il piccolo lago che ricorda a Jacopo il bacio di Teresa. 4. io delirando... fontane: inciso mitologico di gusto neoclassico. Jacopo fantasticando vede Ninfe ignude che danzano, con corone di rose, e le Muse e l’Amore; immagina di veder uscire dalle spuma le Najadi, ninfe custodi delle fontane, con i capelli gocciolanti sulle spalle bagnate e gli occhi ridenti. 5. Illusioni!... infedele: la ragione (il filosofo) ammonisce Jacopo che egli si riferisce a illusioni, ma il protagonista si

risponde che tutto è illusione, e che gli antichi erano felici, perché credevano agli dei e ai baci delle dee e facevano sacrifici alla Bellezza e alle Grazie e coprivano le imperfezioni umane pensando esistessero divinità perfette, trovando infine bellezza e verità attraverso la creazione di opere d’arte (accarezzando gli idoli della lor fantasia). Jacopo afferma che, senza queste illusioni, la sua vita sarebbe piena di dolore o di gelida apatia (rigida e nojosa indolenza). Se il suo cuore non potesse più emozionarsi, vorrebbe strapparselo dal petto, cacciarlo come un servo infedele (la lettera si conclude con tale metafora). L’ultima parte della lettera esprime un conflitto interno al personaggio di Jacopo Ortis (e, poiché il romanzo è autobiografico, anche all’autore). La ragione, assimilata a un filosofo – ovviamente, illuminista – ritiene illusioni, cioè sogni che non reggono a un’analisi razionale, i sentimenti d’amore: ma a questa obiezione un’altra parte della personalità – il cuore – risponde che tutto è sogno, giacché gli antichi si illudevano coi loro miti e le loro fantasie, ma, credendo in essi, erano, proprio per questo, felici; inoltre, senza le illusioni e senza profondi sentimenti del cuore, la vita sarebbe solo dolore o indifferenza. La conclusione del brano, attraverso questo passo riflessivo, approda a una concezione decisamente romantica, apertamente contrapposta alle tesi illuministiche: il cuore e l’immaginazione sono ritenuti qui, infatti, assai più importanti della ragione.

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inee di analisi testuale Il mito dell’amore Le lettera del 15 maggio 1798 racchiude in sé la poetica di Foscolo sull’amore, che rappresenta una originale sintesi, spesso contraddittoria, tra la concezione neoclassica, quella romantica e la filosofia dell’Illuminismo. Della prima sono elementi la personificazione del dio greco (O Amore! le arti belle sono tue figlie) e l’idillio del sogno al laghetto dove, dopo quel bacio, Jacopo è fatto divino, con Ninfe, Najadi, Muse. Il Romanticismo emerge dalle evocazioni emotive (il mio cuore più compassionevole; Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; non fuggo più gli uomini; raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà; dimentico le mie sventure; rido delle minacce della fortuna; rinunzio alle lusinghe dell’avvenire). Le concezioni illuministe sono racchiuse nei ragionamenti (per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri; Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata). Fondamentale è l’espressione: Illusioni! grida il filosofo – ossia, per antonomasia, il pensatore razionale illuminista – cui viene poi contrapposto il legame fra vita e sentimento. La religione delle illusioni La sintesi del conflitto è, qui, la resa di Jacopo al sentimento, che coincide con il soffocamento delle istanze puramente razionali, in nome del significato profondo della vita che nasce dal cuore. Emozione e sentimento sono illusioni, ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore; se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani. È questo un primo abbozzo di quella religione delle illusioni che troverà coronamento nella tematica dei Sepolcri.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Trascrivi in italiano odierno il contenuto del brano. Analisi e interpretazione 2. Quali aspetti connotano la concezione dell’amore di Jacopo Ortis? 3. Quali sono gli elementi neoclassici, romantici e illuministi presenti nella lettera del 15 maggio sull’amore? Approfondimenti 4. Ai nostri giorni scrivere e comunicare attraverso le lettere non è più così frequente, tuttavia esiste ancora la corrispondenza scritta, soprattutto tra i più giovani (basti pensare agli sms o alla posta elettronica). Confronta per stile e contenuto le forme odierne di comunicazione scritta a distanza con quella di Foscolo ed esprimi la tua opinione sui vantaggi e gli svantaggi dei nuovi mezzi di comunicazione che hanno sostituito la lettera. 5. Le concezioni dell’amore, dell’uomo, della politica e dell’arte espresse nell’Ortis di Foscolo ti sembrano simili o lontane da quelle di oggi? Esprimi le tue motivate opinioni in proposito. Honoré Fragonard, Le confessioni d’amore, 1771. New York, Frick Collection.

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CAP. 15 - UGO FOSCOLO,

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T4 L’incontro con Parini da Ultime lettere di Jacopo Ortis Nella seconda parte del romanzo, a partire dal luglio 1798, a Lorenzo giungono le lettere di Jacopo in viaggio per l’Italia. Dopo Bologna, il giovane, in cerca di un senso per la propria esistenza, si reca a Firenze, dove visita le tombe dei grandi nella chiesa di Santa Croce, e la Toscana. Poi da Parma giunge a Milano, dove incontra il poeta Giuseppe Parini che, in ottobre, descrive ormai vecchio e malato. In una lunga lettera del 4 dicembre, Jacopo racconta il suo dialogo con Parini, durante il quale il giovane ascolta e fa propria l’ormai totalmente disillusa visione del potere politico del poeta. Nella prima parte di questa lettera, qui omessa, Jacopo ha polemizzato contro il letterato di corte, che tace la verità per non inimicarsi i potenti, dichiarando di non essere disposto, per un po’ di denaro, a sopportare rimorsi e infamia.

PISTE DI LETTURA • L’esaltazione titanica contrapposta al pessimismo cristiano di Parini • Il giudizio sulla politica, sul potere e sulla natura umana • Il pessimismo foscoliano 4 dicembre 1798. Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza1. Le lettere prostituite; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione; non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l’amore figliale – e poi mi tesseva gli annali recenti, e i delitti di tanti uomiciattoli ch’io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d’animo, non dirò di Silla e di Catilina2, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e’ si vedano presso il patibolo – ma ladroncelli3, tremanti, saccenti – più onesto insomma è tacerne. – A quelle parole io m’infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando: Ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore4. – Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con aria minaccevole – io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: Non avremo salute5 mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, non servirebbero sì vilmente. – Il Parini non apria bocca; ma stringendomi il braccio, mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse, come accennandomi perch’io tornassi a sedermi: E pensi tu, proruppe, che s’io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta6 della mia inferma vecchiaia, in questi vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale, ché non lo volgi ad altre passioni? La disperazione Allora io guardai nel passato – allora io mi voltava avidamente al futuro, ma io del protagonista errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur mai stringere nulla; e conobbi tutta tutta la disperazione del mio stato. Narrai a quel generoso Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que’ geni celesti7 i quali par che discendano a illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte soConstatazione della miseria dell’Italia

1. per le antiche… licenza: per le precedenti tirannie e per le attuali. Il soggetto sottinteso è Giuseppe Parini, con cui Ortis scrive di essersi incontrato la sera precedente nel sobborgo orientale di Milano in un boschetto di tigli. 2. Silla e Catilina: personaggi della storia romana, esemplari per la loro scelleratezza. 3. masnadieri... ladroncelli: criminali e ladruncoli (il termine è dispregiativo). Parini è angosciato per la triste si-

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tuazione della patria. 4. frutterà... vendicatore: citazione letteraria dall’Eneide di Virgilio. Jacopo si lancia qui in una esortazione alla lotta per salvare la patria. 5. salute: salvezza. 6. ad onta: a dispetto. Parini non mostra alcuna speranza in un’azione politica che possa cambiare la situazione. 7. geni celesti: angeli.

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Il disincanto sulla politica nelle parole di Parini

spirò dal cuore profondo. – No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: sono figlio di madre affettuosa e benefica; spesse volte mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi8, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell’aria – essa afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva, ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure – s’ella spiasse tutti gli occulti miei guai, implorerebbe ella stessa dal Cielo il termine degli ansiosi miei giorni. Ma l’unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo, è la speranza di tentare la libertà della patria. – Egli sorrise mestamente; e poiché s’accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: Forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese; ma – credimi; la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l’altro quarto a’ loro delitti9. Pur se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? I gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco10 insegnato che non si dee aspettare libertà dallo straniero? Chiunque s’intrica nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava per l’universo un nemico al popolo Romano? – Né ti sarà dato di essere giusto impunemente. Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d’ingegno quale sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso, o la vittima del potente11. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro12. – Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri e la malignità de’ tuoi concittadini e la corruzione de’ tempi, potessi aspirare al tuo intento; di’? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune?13 ma se tu cadi tra via, vediti esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno14. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall’intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre15. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la libidine del supremo potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e della conoscenza

8. vederla... diruparmi: vederla seguire i miei passi (pedate) impaurita fino alla cima del monte dove volevo gettarmi nel vuoto dall’alto. 9. la fama... delitti: la gloria degli eroi, secondo Parini, presuppone che essi commettano delitti, perciò egli sconsiglia a Jacopo di seguire la sua passione politica. 10. per anco: ancora, finora. 11. Un giovine... potente: Parini emette una serie di sagge sentenze: esse iniziano, pur non nominandolo, da Napoleone (lo straniero non interviene fuori dai propri confini se non per interesse e ne riporta danno), ma ampliano poi la riflessione sul potere (che, per essere conservato, esige l’uso della violenza e del crimine). L’ultima considerazione è rivolta a Jacopo: un giovane giusto e passionale (bollente di cuore) ma povero e imprudente come lui sarà sempre o lo strumento di violenza di chi opera non per la giustizia, ma per gli obiettivi di una fazione (l’ordigno del fazioso), oppure diventerà la vittima del potente. 12. E dove... sospiro: l’anziano poeta soggiunge che, se anche Jacopo riuscisse a esercitare il potere politico in modo diverso dagli altri, ugualmente sarebbe calunniato e poi abbandonato da tutti nella disgrazia.

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13. spargerai... fortune?: con una serie di interrogative retoriche, Parini mostra a Jacopo le azioni violente che dovrebbe scatenare per una causa giusta: spargere il sangue, suscitare il fuoco (le faci) della guerra civile, instaurare la dittatura, fare stragi in nome dell’uguaglianza economica (fortune). Si tratta di una chiara allusione alle sciagurate conseguenze del periodo del Terrore, culmine della Rivoluzione francese: secondo Parini, questo è il prezzo di ogni azione politica rivoluzionaria. 14. ma se tu... tiranno: se tu mancherai l’obiettivo, verrai deplorato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. 15. giudica... sempre: la moltitudine giudica il risultato più che l’intenzione, chiama valore la violenza quando le porta utile, e delitto l’onestà che le porta svantaggio: per avere il suo favore bisogna o atterrirla o ingrassarla, comunque sempre ingannarla. Il giudizio di Parini (e, per bocca sua, di Foscolo) sul comportamento delle moltitudini è profondamente negativo: esse sono ritenute facile preda dell’inganno dei demagoghi e schiave dei propri interessi e impulsi irrazionali. Non dissimile sarà il giudizio sottinteso all’azione delle moltitudini nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni.

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Il giudizio sulla natura umana e sul potere

Il pessimismo di Ortis, la speranza cristiana di Parini

del comune avvilimento?16 I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno; e per pochi anni di possanza e di tremore, avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. – Ti avanza ancora un seggio fra’ capitani; il quale si afferra per mezzo di un ardire fero- 70 ce, di una avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà per cui si lambe la mano che t’aita a salire. Ma – o figliuolo! l’umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara17. Tacque – ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva18! tu alme- 75 no sapevi morire incontaminato. – Il vecchio mi guardò: – Se tu né speri, né temi fuori di questo mondo – e mi stringeva la mano – ma io! – Alzò gli occhi al Cielo19, e quella severa sua fisonomia si raddolciva di soave conforto come s’ei lassù contemplasse tutte le tue speranze. – Intesi un calpestio che s’avanzava verso di noi; e poi travidi gente fra’ tigli: ci rizzammo, e l’accompagnai sino al- 80 le sue stanze. da Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di W. Binni e L. Felici, Garzanti, Milano, 1974

16. Potrai tu... avvilimento?: Parini mette in guardia Jacopo anche dalla tentazione del potere: se egli fosse sufficientemente crudele da raggiungerlo e non riuscisse a reprimere in sé il piacere (la libidine) del dominio sugli altri, indotto (fomentata) dall’emozione del sentirsi superiore a tutti e dalla consapevolezza della viltà comune, diventerebbe un tiranno. 17. Ti avanza ancora... bara: ti manca solo di considerare di mirare a un posto di militare, che si conquista con ferocia, rubando per pagare e spesso con la viltà di baciare (lambe) la mano che ti aiuta a salire. Parini conclude la sua pessimistica analisi delle possibilità di azione politica sostenendo che l’umanità piange al nascere di un conquistatore e spera solo di sorridere sulla sua tomba. 18. Cocceo Nerva: la fonte è Tacito (Annales, VI, 26), il quale narra che Cocceio Nerva (30 ca. – 98 d.C.), nonostante le insistenze dell’imperatore Tiberio, si suicidò per non rimanere coinvolto nella decadenza morale e politica

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di Roma. Jacopo Ortis si identifica qui con Nerva, che si suicidò per non commettere colpe: l’idea del suicidio – essendosi spenti i suoi ideali politici e la possibilità di realizzare il proprio amore – balena ormai nella sua mente. 19. Se tu... Cielo: se tu non speri né temi ci sia qualcosa oltre questo mondo... Parini fa comprendere che la questione si pone in modo completamente diverso per credenti e non credenti: egli, infatti, alza gli occhi al Cielo. L’anziano poeta, credente, vuole far comprendere a Jacopo che il suicidio non è una soluzione, poiché comporta il venir meno ai propri doveri morali e la trasgressione ai comandamenti cristiani, con rischio di punizione nell’aldilà, oltre la vita terrena. Dopo il congedo da Parini, la lunga lettera prosegue: Jacopo – riprendendo un tema sviluppato da Vittorio Alfieri – invita gli Italiani del suo tempo, se non possono agire, almeno a scrivere per i posteri, denunciando la miseria di quel tempo.

inee di analisi testuale La decadenza della letteratura La lettera del 4 dicembre è un interessante e innovativo esempio di incontro fra un personaggio storico e un personaggio di invenzione. Nella prima parte, dopo che Jacopo si è scagliato contro il servilismo dei letterati verso il potere, anche Parini li condanna, insieme alla mediocrità morale e al deterioramento sia dei costumi privati, che non si fondano sui valori dell’amore familiare e dell’altruismo, sia dei costumi pubblici, calpestati da politici di bassa caratura. Il titanismo foscoliano Jacopo manifesta sdegno – egli intende lottare fino alla morte – con un linguaggio improntato a un eroismo titanico. A Parini, che lo esorta a volgere la sua passionalità verso altri obiettivi, Jacopo risponde dichiarando di essere stato colpito anche in una sfera più personale, alludendo alla sua delusione d’amore. Il pessimismo e il tema alfieriano Il lucido pessimismo di Parini convince e disillude Jacopo: se si decide di fare politica, si devono accettare le regole del gioco, che contemplano l’uso della violenza, della sopraffazione e la natura perversa degli uomini, che sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi; Jacopo stesso, se vincesse la propria battaglia, diventerebbe come loro. Il tema è profondamente alfieriano. Davanti all’impossibilità di tradurre in realtà i miti dell’Illuminismo, Jacopo propone infatti la soluzione del suicidio, secondo il modello di Alfieri. Solo in seguito Foscolo, che non è credente – a differenza di Parini, la cui speranza si proietta oltre la vita terrena – troverà un’alternativa, nei Sepolcri, nei valori della poesia, della gloria, del ricordo e della memoria.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto della lettera in non più di 15 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande. a. Quali concetti fondamentali sono espressi in questa lettera, rispettivamente da Jacopo Ortis e da Giuseppe Parini? b. In quale momento Jacopo realizza la disperazione del suo stato e sulla base di quali argomentazioni? c. A cosa lo conduce la disperazione e perché? Approfondimenti 3. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: Il colloquio tra Jacopo e Parini, ovvero fra la passione e la ragione.

T5 L’ultimo messaggio di Jacopo da Ultime lettere di Jacopo Ortis Il romanzo si avvia alla conclusione. Nelle lettere del febbraio 1799, Jacopo informa Lorenzo di essere in attesa del passaporto per la Francia e si dice pronto a partire. Scrive poi dalla Liguria, proseguendo nella sua fuga disperata. Arrivato a Ventimiglia scrive due lunghissime lettere in cui riconduce l’oppressione politica alla natura umana. Egli afferma che i suoi tormenti vengono attribuiti alla condizione degli uomini, che la Natura considera come vermi o insetti, non dalle vicende politiche, e decide di restare in Italia. La successiva lettera del 5 marzo giunge da Rimini; Jacopo ha saputo che Teresa si è sposata con Odoardo e lascia ormai intendere che si ucciderà. Disperato, torna sui colli Euganei: Lorenzo e la madre, ma anche Teresa e suo padre, che l’hanno incontrato per strada, sono molto preoccupati. Egli resta chiuso in casa a scrivere, a bruciare le sue carte e a pensare alla morte. Il 20 marzo scrive una lettera a Lorenzo, raccontandogli l’ultimo incontro con Teresa che, piangendo, gli dona il suo ritratto e gli dice addio, credendo che intenda ripartire. Le ultime ore di Jacopo sono narrate da Lorenzo, che tenta di ricostruire l’accaduto attraverso le letture e gli scritti lasciati dall’amico, tra cui questo significativo appunto, che rappresenta un ultimo messaggio del protagonista. PISTE DI LETTURA • Il testamento dell’eroe romantico • Tra titanismo e fragilità • Tono altamente drammatico Ma il passo seguente, non so se suo o d’altri quanto alle idee, bensì di stile tutto suo, era stato da lui scritto in calce al libro delle “Massime” di Marco Aurelio1 sotto la data 3 Marzo 1794 – e poi lo trovai ricopiato in calce all’esemplare del Tacito Bodoniano2 sotto la data 1 Gennaro 1797 – e presso a questa la data 20 5 Marzo 1799, cinque dì innanzi ch’egli morisse. – Eccolo: “Io non so né perché venni al mondo, né come, né cosa sia il mondo, né cosa io stesso mi sia. E s’io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spaventosa3. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l’anima 1. Marco Aurelio: imperatore romano (121-180), scrittore e filosofo appartenente all’indirizzo stoico. L’espressione in calce significa “in fondo alla pagina”. 2. Tacito Bodoniano: un volume di Tacito stampato a caratteri bodoniani. Giambattista Bodoni (1740-1813) è un

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celebre tipografo che diede nome a un carattere di stampa in voga nel Settecento. 3. E s’io corro... spaventosa: se io mi affanno a indagare su queste domande, mi ritraggo confuso, trovandomi in una ignoranza che mi spaventa sempre di più.

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Il culmine del pessimismo cosmico del protagonista

mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò che io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misu- 10 rare con la mente questi immensi spazj dell’universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato ad un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell’eternità, che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da 15 tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo4.” da Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di W. Binni e L. Felici, Garzanti, Milano,1974

4. atomo: il pensiero di Jacopo è modernissimo e rivela l’angoscia dell’uomo non credente davanti alla insignificante casualità e drammaticità della sua condizione esistenziale, che non gli permette di conoscere la sua origine,

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ciò che è fuori di lui (l’universo), ciò che ha dentro di sé (la mente) e il significato della propria esistenza e di quella della realtà in cui si trova.

inee di analisi testuale La condizione umana L’ultimo frammento riportato, in forma di appunto scritto da Jacopo, rispecchia la concezione metafisica di Foscolo: un materialismo che spesso si trasforma in agnosticismo (Io non so...) sentimentale (ritorno confuso...), e in cui l’individuo oscilla tra il titanismo (corro ad investigarlo... tento di misurare con la mente) e la lucida consapevolezza dell’estrema fragilità umana, espressa da quel sentirsi come un atomo tra le realtà infinite dell’interiorità (questa stessa parte di me che pensa ciò che io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa) e dell’universo (questi immensi spazj dell’universo che mi circondano), ugualmente insondabili e impossibili da conoscere. Lo scacco degli ideali porta al suicidio L’angoscia arriva al culmine nella constatazione dell’effimera casualità dello spazio (attaccato ad un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile) e del tempo (perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell’eternità, che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno). La negatività totale attribuita alla condizione umana conduce, nell’Ortis, di fronte allo scacco degli ideali (la politica e l’amore) e al suicidio. Solo attraverso una faticosa costruzione, di cui protagonista sarà la riscoperta dei valori umani e, al loro interno, dell’arte, l’autore supererà, nell’evoluzione del suo pensiero, tale tragica deriva.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Trascrivi in italiano moderno e con parole tue il frammento di lettera a tema filosofico. Analisi e interpretazione 2. Quali concetti fondamentali sono espressi nell’appunto del 20 marzo 1799? Sintetizzali in forma di elenco. 3. Quali sono gli elementi neoclassici, gli aspetti profondamente romantici e gli spunti illuministi che riconosci in questo breve testo? 4. Qual è la concezione filosofica espressa da Ortis sulla condizione umana? Approfondimenti 5. Rileggi tutte le lettere dell’Ortis riportate in questa sezione antologica e le relative Linee di analisi testuale. Scrivi quindi un saggio breve sulla vicenda di Jacopo. Dai all’elaborato un titolo coerente con la trattazione e indicane una destinazione editoriale a tua scelta. Non superare le 4 colonne di metà foglio protocollo.

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SCARNO CANZONIERE: LE

POESIE

Le odi e i sonetti di Foscolo costituiscono uno scarno canzoniere cui l’autore lavora fra il 1802 e il 1803. La prima raccolta da lui approvata appare nel 1802 a Pisa, nel “Giornale dei letterati”: vi troviamo l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e otto sonetti. L’anno successivo, a Milano, Foscolo dà alle stampe l’edizione definitiva delle liriche. La raccolta, intitolata Poesie, comprende due odi – A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata – e dodici sonetti, alcuni dei quali costituiscono capolavori della letteratura italiana di tutti i tempi.

Le odi L’ispirazione neoclassica

Il contenuto

L’evoluzione stilistica e tematica

La scelta della forma strofica dell’ode non è casuale: nei due componimenti prevalgono infatti poetica, tematiche e stile neoclassici. Il legame con le odi di Vincenzo Monti è evidente. Nell’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (1799), il poeta si rivolge alle Grazie affinché prestino il loro aiuto alla gentildonna rovinosamente caduta, ne esalta la bellezza, descrive e depreca l’incidente e le augura di guarire e ritornare ancora più bella, per l’invidia delle rivali. Nell’ode All’amica risanata (1802) sviluppa il paragone fra la bella contessa Antonietta Fagnani Arese da lui amata, che lascia il letto dopo la malattia, e la stella Venere che sorge dal mare mentre le Ore la circondano e la adornano; la bellezza è fugace, ma l’amica non deve rattristarsene, perché i versi che lo scrittore le dedica la eterneranno. Le due odi sviluppano temi omogenei: • celebrano la bellezza femminile, considerata, secondo la concezione neoclassica, rasserenatrice e rimedio a ogni male; • tale bellezza ideale è identificata con il mondo del mito, classico o ricreato dalla poesia, lontano dalla vita reale e perciò inattaccabile dal trascorrere del tempo e dai rischi cui la bellezza è costantemente esposta. In particolare, nel finale dell’ode All’amica risanata, Foscolo affronta e propone il tema della poesia eternatrice, che sarà alla base del carme Dei sepolcri. I componimenti, di stampo tipicamente neoclassico, rivelano però un’evoluzione che reca l’impronta dell’autore: dall’ode di tipo arcadico, celebrativa e occasionale, all’ode di tipo pariniano, incentrata su una problematica civile o etico-filosofica. L’impianto e lo stile della prima ode risentono, infatti, del modello della poesia dell’Arcadia, caratterizzato dalla musicalità delle rime e dagli abbondanti richiami mitologici; la seconda assume invece i più sobri toni propri di Parini e ha come tema, di grande importanza filosofica, quello del rapporto fra l’uomo e il tempo. Esse rappresentano un’importante testimonianza della capacità dell’autore di rinnovare dall’interno la cultura neoclassica, piegandola alle nuove esigenze spirituali, ai temi e alle riflessioni problematiche dello spirito moderno.

Antonio Canova, Venere Italica, 1804-1812. Firenze, Galleria Palatina. Foscolo descrive Antonietta Fagnani Arese come una dea in terra.

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T6 All’amica risanata da Poesie L’ode All’amica risanata viene scritta da Foscolo nel 1802, in occasione del rientro in società, dopo una malattia, della donna a quel tempo amata, Antonietta Fagnani Arese. Foscolo supera qui il genere del tributo galante, che era proprio dell’ode arcadica e, grazie allo studio delle odi di Parini, punta alla costruzione di immagini che raffigurino un mondo ideale. Schema metrico: sedici strofe di sei versi ciascuna, di cui cinque settenari e un endecasillabo, secondo lo schema abacdD. Alternanza di settenari piani e settenari sdruccioli, il primo e il terzo piani e in rima, il secondo e il quarto sdruccioli e non in rima.

PISTE DI LETTURA • Il tema centrale della bellezza • La funzione eternatrice della poesia • Gli elementi neoclassici del lessico, volutamente elegante e arcaico

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Qual dagli antri marini l’astro più caro a Venere co’ rugiadosi crini fra le fuggenti tenebre appare, e il suo vïaggio orna col lume dell’eterno raggio1;

vv. 1-18 Come dai profondi abissi del mare la stella preferita da Venere appare, fra le tenebre che fuggono, con i suoi raggi che sembrano capelli bagnati, e adorna il suo cammino con i raggi dell’eterno sole, così il tuo corpo divino si alza dal letto dove hai trascorso la malattia e in te rifiorisce la bellezza, l’aurea bellezza da cui soltanto ebbero conforto gli uomini, nati per seguire illusioni. Vedo ritornare il colore roseo della salute sul viso adorato; ritorna il sorriso nei grandi occhi ammaliatori che affascinano; nuovamente le madri timorose per i loro figli e le innamorate gelose non riescono a prendere sonno.

sorgon così tue dive membra2 dall’egro talamo3, e in te beltà rivive, l’aurea beltate4 ond’ebbero ristoro unico a’ mali le nate a vaneggiar5 menti mortali. Fiorir sul caro viso veggo la rosa6, tornano i grandi occhi al sorriso insidïando7; e vegliano per te in novelli pianti trepide madri, e sospettose amanti.

1. eterno raggio: il sole, simbolo di vita, è spesso in Foscolo connesso ai temi dell’amore e della bellezza. L’astro più caro a Venere è l’omonimo pianeta, la stella del mattino. 2. dive membra: l’enjambement, separando aggettivo (dive) e sostantivo (membra), rimarca la compresenza di corporeità e divinità. La donna cui il poeta si rivolge – senza mai citarla – è Antonietta Fagnani in Arese, da lui amata. 3. egro talamo: letto malato; è un’ipallage (cioè uno scambio), figura retorica che qui consiste nell’attribuzione di un aggettivo a un sostantivo contiguo diverso da quello cui dovrebbe essere riferito; infatti non è malato (egro) il letto (talamo), ma la donna che vi giace. 4. aurea beltate: Foscolo, qualificando come aurea la bellezza, richiama il mito dell’età dell’oro e il modello di Petrarca (Laura ha i capei d’oro, anzi è oro in virtù dell’analogia fonica Laura-auro); infine, assimila la bellezza della donna allo splendore del sole e quindi associa la bellezza femminile alla vitalità.

5. vaneggiar: molti interpretano il verbo vaneggiare come “seguire beni ingannevoli scambiati per veri”. Secondo altri, invece, ciò sembra poco coerente con l’ode e con la poetica foscoliana; essi preferiscono pensare che l’espressione nate a vaneggiar menti mortali alluda alla caratteristica degli uomini, nati per inseguire illusioni. Il tema delle illusioni è infatti fondamentale nella poetica foscoliana. 6. Fiorir… rosa: l’espressione è ripresa dall’incipit dell’ode L’educazione di Parini (Torna a fiorir la rosa / che pur dianzi languia). L’ode pariniana, anch’essa partendo dal motivo occasionale della guarigione di Carlo Imbonati, tratta poi di valori quali l’amor patrio e la nobiltà interiore che non coincide con la nobiltà di sangue: Foscolo si vuole collocare nella tradizione pariniana come poeta che affronta temi di ampio respiro (si ricordi l’importanza dell’incontro con Parini nell’Ortis). 7. insidïando: il gerundio, dilatato dalla dieresi (ï), conferisce al verso un ritmo melodico e sognante.

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Le Ore che dianzi meste ministre eran de’ farmachi, oggi l’indica veste e i monili cui gemmano effigïati Dei inclito studio di scalpelli achei8,

vv. 19-42 Le Ore, che prima tristi scandivano i tempi della somministrazione delle medicine, oggi portano gli abiti di seta indiana e le collane in cui risplendono raffigurazioni di divinità, illustre lavoro di scultori greci, e i bianchi stivaletti e i gioielli portafortuna per cui nelle feste notturne i giovani trascurano il ballo, ammirando te, o Dea, causa di tormenti e speranze: sia quando rendi più attraente l’arpa con nuove melodie e con le morbide linee delle tue forme che il leggero velo fa risaltare, mentre il tuo canto vola fra il sommesso e affascinato mormorio dei presenti, e li seduce; sia quando nel ballo delinei figure e, affidando all’aria il tuo corpo snello, riveli sconosciute grazie che traspaiono attraverso il vestito e il velo drappeggiato con noncuranza sul seno ansimante.

e i candidi coturni e gli amuleti recano, onde a’ cori notturni te, Dea, mirando obliano i garzoni le danze, te principio d’affanni e di speranze: o quando l’arpa adorni e co’ novelli numeri9 e co’ molli10 contorni delle forme che facile bisso11 seconda, e intanto fra il basso sospirar vola il tuo canto più periglioso; o quando balli disegni, e l’agile corpo all’aure fidando, ignoti vezzi sfuggono dai manti, e dal negletto velo scomposto sul sommosso petto. All’agitarti, lente cascan le trecce, nitide per ambrosia recente, mal fide all’aureo pettine e alla rosea ghirlanda che or con l’alma salute April12 ti manda. Così ancelle d’Amore a te d’intorno volano invidïate l’Ore. Meste le Grazie mirino chi la beltà fugace ti membra, e il giorno dell’eterna pace.

vv. 43-60 Al tuo movimento, lentamente, si sciolgono le trecce e, lucide per il balsamo, sfuggono al pettine d’oro e alla corona di rose che Aprile ti manda insieme con la vitalità e la salute. Così le Ore, schiave d’Amore, volano intorno a te invidiate. Le Grazie guardino tristemente e non accordino il loro favore a colui che ti ricorda che la bellezza è passeggera e che dovrai morire. La vergine Artemide, nella sua vita mortale, guidatrice di ninfe dell’oceano, abitava il monte Parrasio e faceva vibrare le corde dell’arco cretese terrorizzando i cervi.

Mortale guidatrice d’oceanine vergini, la parrasia pendice tenea la casta Artemide, e fea terror di cervi lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.

8. Ore… achei: rilevante la frequenza di figure retoriche: la prosopopea (le Ore sono personificate come ancelle, come sarà anche nei Sepolcri), la metonimia (per cui è nominato lo strumento al posto di chi lo adopera: gli scalpelli sta per “scultori che usano lo scalpello”). Tutto ciò si colloca in un complessivo travestimento della realtà quotidiana e dei relativi oggetti con parole che riconducono all’antica Grecia e al mito classico. 9. numeri: melodie.

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10. molli: morbide. 11. bisso: tessuto molto delicato e leggero. 12. April: è segnale della primavera che è il corrispettivo, nella simbologia delle stagioni, dell’età dell’oro. Si riprende qui il motivo del poeta latino Ovidio, utilizzato anche da Dante (Purgatorio, XXVIII, 143) per la descrizione dell’eterna primavera dell’Eden; Foscolo vuole suggerire la dimensione edenica della poesia e della bellezza, tema che tornerà a richiamare alla fine dell’ode (perpetua… primavera).

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Lei predicò la fama Olimpia prole; pavido Diva il mondo la chiama, e le sacrò l’elisio soglio, ed il certo telo, e i monti, e il carro della luna in cielo. Are così a Bellona, un tempo invitta amazzone, die’ il vocale Elicona; ella il cimiero e l’egida or contro l’Anglia avara e le cavalle ed il furor prepara13. E quella a cui di sacro mirto te veggo cingere devota il simolacro, che presiede marmoreo agli arcani tuoi lari ove a me sol sacerdotessa appari14, regina fu, Citera e Cipro ove perpetua odora primavera regnò beata, e l’isole che col selvoso dorso rompono agli Euri e al grande Ionio il corso.

vv. 61-96 La leggenda creata dai poeti la disse figlia di Giove; gli uomini, intimoriti, la venerano come Dea e le attribuiscono il trono dei campi elisi [nell’oltretomba], la freccia infallibile e la signoria dei monti e il carro della luna in cielo. Nello stesso modo il musicale monte Elicona [cioè il canto dei poeti antichi] consacrò altari alla dea Bellona, amazzone nella sua vita terrena, la quale ora prepara l’elmo, lo scudo, i cavalli e i soldati [per la spedizione napoleonica] contro l’avida Inghilterra. E la dea [Venere], di cui ti ho visto incoronare con il sacro mirto la statua di marmo che vigila sulle tue più segrete stanze dove a me appari unica sacerdotessa d’amore, fu regina e regnò felicemente su Citera e Cipro, dove sempre profuma la primavera, e sulle isole che con le loro montagne boscose infrangono i venti e le onde del grande mare Ionio. Io nacqui in quel mare, dove vaga lo spirito della donna di Faone [la poetessa Saffo] e, quando il vento notturno soffia dolcemente sulle onde, le spiagge risuonano come di un pianto di cetra: per cui io, ispirato dal vento sacro del mio paese natale [la Grecia], trasporto per te corde greche sulla solenne cetra italica: avrai così, tu che appari divina nelle mie poesie, le lodi delle tue discendenti lombarde.

Ebbi in quel mar la culla, ivi erra ignudo spirito di Faon la fanciulla, e se il notturno zeffiro blando sui flutti spira, suonano i liti un lamentar di lira: ond’io15, pien del nativo aër sacro, su l’itala grave cetra derivo per te le corde eolie, e avrai divina i voti fra gl’inni miei delle insubri nepoti. da Opere, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano, 1956

13. contro l’Anglia… prepara: Napoleone aveva intenzione di compiere una spedizione militare (che poi non fu attuata) contro l’Inghilterra. 14. ove... appari: la ripresa di un verso di Petrarca (che solo a me par donna, da Chiare, fresche e dolci acque) è significativo dell’importanza di questa affermazione che non è banale omaggio galante, ma riconoscimento – centrale nella poetica foscoliana – della funzione della donna e dell’amore come ispiratori della poesia.

15. ond’io: come i poeti antichi (indicati attraverso la metafora del monte Elicona, dimora delle Muse) trasformarono in dee Artemide, Bellona, Venere, cantandone le doti e rendendole eterne, così Foscolo, che pure è nato presso il mare su cui si affaccia la Grecia, canterà la donna che ama, trasformandola in una dea ed eternandone la memoria fra le discendenti. Faone, secondo la leggenda classica, è l’uomo invano amato dalla poetessa greca Saffo (secolo VII-VI a.C.).

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inee di analisi testuale La donna diventa dea attraverso la poesia La prima parte dell’ode descrive la donna, senza mai menzionarla, come una dea in terra (è paragonata al pianeta Venere). Al centro del discorso è il concetto di tempo, evidenziato dall’insistente personificazione delle Ore, ancelle di Amore e quindi della protagonista. I versi successivi sono incentrati sul problema della caducità della bellezza e, insieme, sulla volontà del suo superamento: le dee, prima di essere tali, erano donne mortali che vivevano sulla terra, ed è stato il canto dei poeti, che ne celebrarono virtù e bellezza, a donare loro l’immortalità. Diana rappresenta l’universo femminile come depositario dei valori della purezza, della bellezza e dell’armonia (era adorata anche come divinità degli Inferi col nome di Ecate, e del cielo col nome di Selene o Luna); Bellona e Venere sono legate l’una alla guerra, l’altra all’amore e rappresentano, simbolicamente, l’universo dell’autore, che ruota attorno a tali poli. Venere, inoltre, essendo stata regina di Cipro, terra dell’eterna primavera, allude all’eternità – e, dunque, alla funzione eternatrice – della poesia. Amore (Venere) e poesia (Saffo) consentiranno al poeta, che ricorda la sua origine greca, di rendere immortale la bellezza della donna amata. L’impronta neoclassica I principali caratteri formali neoclassici dell’ode sono l’uso sistematico dell’enjambement in tutte le strofe e le numerosissime inversioni di costruzione. Sul piano lessicale, numerosi i latinismi (dive, egro, coturni, numeri, alma, telo, are, simolacro), gli arcaismi (talamo, beltà-beltate, veggo, dianzi, obliano, periglioso, membra), troncamenti, elisioni, sincopi (eran, de’, a’, co’, tenea, terror, die’), l’uso di un’aggettivazione in funzione decorativa e pittorica (rugiadosi, fuggenti, eterno, dive, egro, aurea, caro, grandi, trepide, sospettose, meste, inclito, candidi). Sul piano tematico, di gusto classicista è il ricorso a immagini e motivi propri del repertorio mitologico: l’apparizione della stella Venere dagli abissi del mare; la personificazione delle Ore; i molteplici riferimenti che caratterizzano i versi dedicati alla storia delle tre dee, Diana, Bellona, Venere: le oceanine vergini, la parrasia pendice, l’arco cidonio, l’elisio soglio. Sul piano stilistico, infine, sono neoclassici i molteplici riferimenti letterari (talora vere e proprie citazioni di autori classici antichi o della tradizione italiana) e l’abbondanza di figure retoriche.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto dell’ode All’amica risanata (max 20 righe). 2. A chi e con quali espressioni è paragonata all’inizio del componimento l’amica cui Foscolo rivolge l’ode? Analisi e interpretazione 3. Rileva i temi fondamentali proposti nell’ode. 4. Elenca le principali caratteristiche neoclassiche dell’ode, in particolare a livello stilistico. 5. Individua i principali riferimenti mitologici presenti nel testo e spiegane il contenuto e la funzione. Approfondimenti 6. Scrivi e intitola opportunamente un’intervista immaginaria (max tre colonne di metà foglio protocollo) ad Antonietta Fagnani Arese sull’ode a lei dedicata da Ugo Foscolo, in cui la nobildonna esprima il suo parere sui contenuti, lo stile e le finalità del componimento. Nella stesura di domande e risposte, utilizza le notizie contenute nel profilo biografico di Foscolo, nella presentazione e nel testo dell’ode. Specifica la destinazione editoriale dell’intervista (un periodico di biblioteca o un giornale di istituto).

I sonetti L’integrazione tra Neoclassicismo e Romanticismo

Nei dodici sonetti di Foscolo si intrecciano in modo magistrale le tematiche illuministiche, neoclassiche e romantiche. La distinzione fra le componenti del Neoclassicismo e del Romanticismo – e anche dell’Illuminismo – non è mai rigida, anzi l’originalità di Foscolo risiede anche nella capacità di integrare originalmente le diverse istanze culturali e poetiche. Le passioni vi sono cantate in una prospettiva autobiografica che però si eleva a valore universale.

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Le fonti

La struttura

Le innovazioni ritmiche

I temi principali

I sonetti sono tutti senza titolo, anche perché Foscolo voleva che non fossero delle composizioni isolate, ma costituissero un flusso continuo, una sorta di racconto autobiografico in versi (per tale ragione operò mutamenti e varianti nel loro ordine, che nell’edizione delle Poesie non è cronologico). Soprattutto negli ultimi quattro sonetti, Foscolo mira e riesce a tradurre i sentimenti in mito. Sul piano tematico e stilistico, essi si richiamano a tutta la tradizione lirica italiana, dall’autobiografismo interiore di Petrarca, alla maestria virtuosistica di Marino, allo struggimento del Tasso, fino al preromanticismo di Alfieri, il cui titanismo viene rielaborato da Foscolo nei temi e nei motivi romantici dell’amore della patria, dell’esilio, della melanconia, del conflitto delle passioni e della meditazione sulla morte. Foscolo esprime, generalmente, un contrasto fra passione e razionalità utilizzando, spesso, la struttura bipartita del sonetto (due quartine e due terzine): nella prima parte del sonetto, infatti, spesso predomina l’intento di produrre immagini, nella seconda quello di esporre spunti argomentativi. Notevoli sono le innovazioni riguardanti il tipo di rapporto che Foscolo realizza fra ritmo metrico e sintassi, nuovo rispetto sia alla tradizione sia alle sue stesse composizioni precedenti, basate ancora su un ritmo di tipo petrarchesco e sulla coincidenza di verso e sintassi. Foscolo raggiunge tale risultato anche attraverso la frattura dei versi: non è più il singolo verso ad avere coesione, in quanto esso è frequentemente spezzato a livello sintattico, così che la sua seconda parte si leghi con la prima del verso successivo: si tratta di una amplificazione dell’effetto del singolo enjambement. In generale, i temi trattati negli otto sonetti riguardano: • la sofferenza individuale, che diventa canto universale in cui ogni uomo può identificarsi e che si traduce anzitutto nella guerra interiore fra ragione e cuore (ad esempio in Alla Musa, il poeta rivolgendosi alla sua ispiratrice lamenta il trascorrere degli anni verso la fine della gioventù e verso la morte che sente vicina, concludendo che il dolore non può essere placato neppure dalla poesia); • l’esilio, come simbolo della lontananza da ciò che è caro e, dunque, della condizione umana stessa, legata a illusioni irraggiungibili e destinata a non trovare giustificazioni razionali all’esistenza (in Meritamente, però ch’io potei, l’esilio, dovuto agli obblighi della vita militare, genera il rimpianto per la lontananza della patria: la conclusione introduce anche, con tono violento e drammatico, il tema amoroso); • il desiderio di morte, considerata come porto di pace (in Non son chi fui; perì di noi gran parte, dopo aver lamentato la situazione di violenza cui la vita militare l’ha condotto, dichiarandosi schiavo di se stesso, degli altri e della sorte, il poeta afferma che egli sa invocare la morte ma non darsela); • il mito della classicità, che nella bellezza senza tempo delle cose che ha lasciato consola della sofferenza di vivere e del mondo (E tu ne’ carmi avrai perenne vita è la lode di Firenze e della memoria del suo passato che ricordano il puro splendore del mito classico); • l’amore per la patria e l’odio per la dominazione straniera di ogni tipo (in Te nutrice alle Muse, ospite e Dea, polemizzando contro la proposta del Consiglio Legislativo Cisalpino nel 1798 di abolire il latino nelle scuole della repubblica filofrancese, esalta la gloria di Roma e della sua lingua, considerando barbari sia la dominazione, sia il linguaggio straniero in Italia); • il sepolcro, come possibilità di ricongiungimento nell’affetto e nel ricordo dei familiari (in Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo la tomba come luogo del pianto materno, in Né più mai toccherò le sacre sponde la prevista sepoltura in luogo lontano dalle persone care); • la poesia, eternatrice della bellezza e unica via in grado di vincere il nulla eterno cui – secondo l’autore – l’uomo è destinato (in Che stai? già il secol l’orma ultima lascia, dopo aver tracciato un bilancio senza luci della propria vita, definendosi figlio infelice, amante disperato e uomo privo di una patria, il poeta invita se stesso a cercare almeno di conquistare la fama attraverso la letteratura). La sintesi stilistica fra sentire romantico e compostezza formale classica colloca i migliori sonetti al livello più alto della tradizione lirica italiana ed europea.

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T7 Alla sera da Poesie, sonetto I

In Forse perché della fatal quïete (noto anche come Alla sera), il poeta si rivolge, personificandola, alla sera, che gli appare cara in quanto simbolo della morte e del nulla eterno, verso cui ogni cosa si dirige: solo allora la dolcezza scende nel suo cuore angosciato e trova pace lo spirito di rivolta e di lacerazione interiore che ruggisce in lui. Composto fra il 1802 e il 1803, ma collocato all’inizio della raccolta nell’edizione definitiva, il sonetto è stato ritrovato in prima stesura fra le pagine di una copia del De rerum natura di Lucrezio (98-55 a.C. circa) appartenente a Foscolo. L’ispirazione rinvia – in chiave materialistica e non religiosa – agli Inni alla notte scritti pochi anni prima dal romantico tedesco Novalis (1772-1801). Le ultime terzine si ricollegano alla concezione della fine della vita come porto di quïete espressa nel sonetto In morte del fratello Giovanni. Schema metrico: sonetto con rime ABAB ABAB CDC DCD. PISTE DI LETTURA • L’analogia tra la sera, il sonno e la morte • La notte scura e silenziosa come riflesso della malinconia interiore ma anche della pace • Tono lirico Forse perché della fatal quïete tu sei l’immago a me sì cara vieni o sera!1 E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni2, 5

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e quando dal nevoso aere inquïete tenebre e lunghe all’universo meni3 sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni4. Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno5; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme

1. Forse... sera!: forse perché è simbolo e immagine (immago) della morte (fatal quïete), la sera è tanto cara al poeta. L’espressione fatal quïete definisce la pace eterna voluta dal destino (fatal è termine neoclassico: il fato, per Greci e Romani, è il destino, i cui decreti sono superiori alla volontà degli dei). Il termine quïete ha la dieresi per rispettare le undici sillabe del verso endecasillabo, ma anche per dare rilievo al termine tra gli altri del verso. Immago è arcaismo (“immagine”) e assume il significato di “evocazione, simbolo” più che di visione. La sera è personificata come una divinità classica: a lei direttamente si rivolge il poeta. Fin dall’inizio del sonetto, si manifesta il tipico stile dell’autore, con ampio uso dell’enjambement e dell’inversione sintattica dei termini. 2. quando... sereni: prima parte della correlativa introdotta da quando: sia nella bella stagione, quando la sera giunge con la sua lieta corte di nuvole e di venti (zeffiri) lieti. Sono personificati anche nubi e vento. 3. quando... meni: seconda parte della correlativa introdotta da quando: sia in inverno, quando la sera conduce al mondo, dal cielo che minaccia neve (nevoso aere), tenebre

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notturne buie e tempestose. Enjambements, inversioni e ipallagi (spostamenti sul piano dell’ordine sintattico, del ritmo e del contenuto) come inquïete / tenebre e lunghe sono esempi della capacità di Foscolo di far corrispondere i significati (qui, l’inquietudine) ai significanti (qui, le strutture ritmiche intricate e mosse). 4. sempre... tieni: la sera giunge sempre desiderata dal poeta, perché è dolcemente padrona dei sentimenti segreti del suo cuore. Secondo alcuni interpreti, l’autore intende dire che di sera si sente più libero di esprimere le sue emozioni o – più probabilmente – che esse sono più consone all’oscurità. Come l’autore scriverà successivamente, però, la sera gli porta pace perché gli ricorda la morte e il nulla eterno e ciò attenua la sua angoscia. 5. Vagar... eterno: mi fai vagare, con i miei pensieri, lungo le tracce (orme) che conducono alla morte e al nulla eterno. La riflessione sulla morte, intesa dal poeta – e dai materialisti illuministi – come annullamento totale della vita, attenua la sua inquietudine. Il tema ha aspetti simili a quelli che verranno proposti da Giacomo Leopardi nell’Infinito.

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delle cure onde meco egli si strugge6; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge7. da Opere, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano, 1956

6. intanto... strugge: in questo contesto di meditazione sulla morte e sull’annullamento cui è destinata ogni cosa, dal poeta si allontana (fugge) il presente, definito tempo malvagio (reo tempo), e, con esso, la turba (torma) delle angosce (cure) con cui (onde) esso si consuma (si strugge) insieme a lui (meco). 7. mentre... rugge: mentre il poeta contempla la pace della sera, si acquieta il carattere combattivo (spirto guerrier) che ruggisce (rugge, come una belva) dentro di lui. Secondo una più recente e probabile interpretazione, però, spir-

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to guerrier potrebbe essere inteso, invece, come “animo lacerato da una guerra interiore”. In più occasioni – a partire dal sonetto in cui traccia il proprio autoritratto – Foscolo (come, a suo tempo, Petrarca, autore non a caso da lui amato) dimostra di essere consapevole del fatto che le proprie angosce derivano da opposte tendenze che lo dilaniano ed egli non riesce a comporre in unità. Si noti, infine, come la personificazione domini nel sonetto, mostrando indirettamente al lettore un io poetante in balia di realtà che lo dominano.

inee di analisi testuale Conflittualità interiore e petrarchismo Il sonetto è posto all’inizio della raccolta per iniziare il percorso interiore mettendo in primo piano il tema romantico del conflitto delle passioni. Ma, come in molti dei sonetti di Petrarca, gli opposti coesistono: la morte e l’amore, le nubi e il sereno, la luce e le tenebre, la pace e la guerra, l’insonnia e il sonno, l’angoscia e la contemplazione. Petrarchesco è altresì il tema dell’analogia tra sera, sonno e morte. La disposizione dei contenuti L’incipit del sonetto è caratterizzato dall’avverbio dubitativo Forse e dall’invocazione alla sera come divinità neoclassica personificata, all’interno della figura della domanda retorica (sul perché la sera calmi il tormento interiore). Nelle terzine il poeta si risponde: pensando al nulla eterno, scompare la realtà (questo reo tempo) insieme a tutte le sue angosce e ai suoi affanni. Il tema della morte Il sonetto è di impronta decisamente romantica, poiché il poeta vi dichiara la sua particolare sintonia con la sera in quanto immagine della morte. Però la morte, di cui la sera è evocazione simbolica, figurazione romantica, è anche identificazione con l’annullamento totale, secondo la concezione materialista di alcuni illuministi; inoltre, in modo contrastante e nel contempo armonioso, la morte come annullamento e scomparsa totale e irreversibile appare con il rivestimento neoclassico della personificazione. Lo stile A livello stilistico, il sonetto si divide in due parti, che corrispondono ai contenuti: nelle quartine predominano enjambements, inversioni sintattiche, ipallagi che – a livello di ritmo e di significanti – traducono l’inquietudine della domanda iniziale. Nelle terzine, quando il poeta chiarisce il motivo per cui la sera placa i suoi conflitti, anche la struttura sintattica e ritmica diventa più lineare, anche se le forti e aggressive allitterazioni e consonanze dell’ultima terzina – strugge, rugge, spirto guerrier – suggeriscono che l’equilibrio raggiunto è effimero.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del sonetto Alla sera (max 5 righe). 2. Aiutandoti con le note, svolgi la parafrasi del sonetto. Analisi e interpretazione 3. Optando per il sonetto, Foscolo sceglie la forma metrica più cara alla tradizione italiana: analizza la poesia dettagliatamente e forniscine lo schema indicando il tipo di verso, i tipi di strofa e le rime. 4. Il sonetto di Foscolo presenta numerosi enjambements. Individuali e spiega quale funzione ha la loro sovrabbondanza nel testo.

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5. Indica i principali esempi di personificazione presenti nel testo. 6. Quali allitterazioni e consonanze predominano nell’ultima terzina e qual è la loro funzione espressiva? 7. Il sonetto proposto ha una struttura bipartita: spiega come e perché sia il contenuto sia lo stile sono differenti nelle quartine rispetto alle terzine. 8. A tuo avviso, nel sonetto prevalgono gli aspetti illuministici, neoclassici o romantici oppure le tre componenti si equilibrano? Motiva la tua risposta con precisi riferimenti al testo. Approfondimenti 9. Nel sonetto Alla sera, Ugo Foscolo indica una via per placare le angosce interiori. Dopo averla illustrata, esponi altri e diversi possibili rimedi alle condizioni di sofferenza derivanti dall’assenza di serenità e, infine, esponi, argomentandola, la tua personale opinione sul migliore rimedio a tale condizione.

T8 Autoritratto da Poesie, sonetto VII Nel sonetto Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, noto anche come Autoritratto e scritto nel 1802, il poeta attesta la lucida visione che ha di se stesso. Con questo sonetto si apre la seconda parte della raccolta, che inizia con la significativa citazione in epigrafe di un verso di Petrarca (il CCCXI del Canzoniere, Quel rossignol, che allude alla dialettica fra tempo terreno ed eternità) per sottolineare la svolta essenzialmente lirica della raccolta. Ma a Petrarca, che afferma la vanità dei piaceri e dei valori terreni, Foscolo risponde con la ferma convinzione della facoltà eternatrice della poesia. Schema metrico: sonetto con rime ABAB, BABA, CDE, DEC.

PISTE DI LETTURA • Un ritratto sia esteriore sia interiore • L’immagine come metafora dell’anima e del conflitto fra ragione e cuore • Tono epico

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Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto labbri tumidi, arguti, al riso lenti, capo chino, bel collo, irsuto petto;

Ho fronte solcata dalle rughe, occhi incavati e attenti, capelli rossi, guance pallide, aspetto coraggioso; labbra grosse, argute, difficili al riso, capo chino, bel collo, petto irsuto;

membra esatte; vestir semplice eletto; ratti i passi, il pensier, gli atti, gli accenti; prodigo, sobrio; umano, ispido, schietto; avverso al mondo, avversi a me gli eventi.

membra ben proporzionate; abiti semplici ed eleganti; [sono] rapido nel camminare, nel pensare, nel muover[mi, nel parlare; [sono] generoso, sobrio; umano, ruvido, sincero; [sono] nemico del mondo, gli eventi [sono] nemici a me.

Mesto i più giorni e solo; ognor pensoso; alle speranze incredulo e al timore, il pudor mi fa vile; e prode l’ira:

Per la maggior parte del tempo sono triste e solo; [sono] sempre pensoso; non credo alle speranze e alla paura;

cauta in me parla la ragion; ma il core, ricco di vizi e di virtù, delira. Morte, tu mi darai fama e riposo.

il pudore mi rende vile; e l’ira coraggioso: la ragione mi suggerisce la prudenza; ma il cuore, ricco di vizi e di virtù, delira. Morte, tu mi darai fama e riposo. da Opere, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano, 1956

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inee di analisi testuale Un ritratto interiore Il sonetto, proemiale della seconda parte della raccolta di Foscolo, con il tema dell’autoritratto vuole convogliare l’attenzione del lettore sull’io del poeta. Nel sonetto – forse il più importante fra quelli pubblicati già nel 1802 – il poeta presenta sia il proprio aspetto sia, con lucida capacità di autoanalisi, il conflitto fra la ragione e il sentimento che caratterizza la propria tormentata sensibilità (come, del resto, l’epoca di transizione in cui vive). Dopo aver dipinto l’aspetto esteriore, il poeta analizza la propria interiorità, individuando in sé un insanabile conflitto fra la cauta… ragion e il core / ricco di vizi e di virtù che delira: un dissidio che riflette il contrasto fra valori illuministici e romantici. Foscolo, Alfieri e la poesia Nell’ultimo verso, l’autore afferma che solo la morte potrà dargli fama e riposo. Con questa allusione, Foscolo implicitamente risponde all’interrogativo con cui Alfieri – suo maestro e modello – aveva chiuso il proprio sonetto d’autoritratto (A se stesso), con un’affermazione in cui lega indissolubilmente la morte e la gloria raggiunta grazie alla poesia. Il tema della funzione eternatrice della poesia è ripreso anche nel sonetto Che stai? già il secol l’orma ultima lascia, in cui Foscolo ricapitola i temi fondamentali della sua produzione e della sua vita: lo scorrere del tempo, la separazione dalla famiglia, le delusioni d’amore, l’esilio politico; un bilancio che proietta il poeta verso il futuro impegno di scrittura, in una significativa coincidenza fra il passaggio del secolo e il personale momento di transizione.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Fai il riassunto del sonetto (max 5 righe). Analisi e interpretazione 2. Quali sono le figure retoriche nelle due quartine in cui Foscolo traccia il proprio autoritratto? 3. Analizza gli aggettivi relativi all’autoritratto e spiegane la funzione. 4. Quali elementi ed espressioni del sonetto possono considerarsi romantiche? 5. Su quale figura retorica si basa l’ultimo verso? Approfondimenti 6. Rileva negli altri sonetti di Foscolo che hai letto gli stessi tratti di personalità che il poeta ha descritto nell’autoritratto ed elencali. 7. Nel sonetto proposto sono presenti aspetti neoclassici ed aspetti romantici. Rilevali, con riferimento al testo, e motiva la tua risposta.

T9 A Zacinto da Poesie, sonetto IX In Né più mai toccherò le sacre sponde, sonetto noto anche come A Zacinto, il poeta si rivolge all’isola in cui nacque – a quel tempo appartenente a Venezia, ma legata alla tradizione greca – situata nel mare da cui sorse Venere, ed evoca un sogno legato al ricordo dell’infanzia felice. Ma il ricordo di Ulisse, con cui si identifica, lo riconduce alla realtà: al contrario dell’eroe, egli prevede che non tornerà mai alla sua isola, perché il destino ha deciso per lui una sepoltura in luogo lontano dalle persone care. Scritto fra il 1802 e il 1803, il sonetto è di gusto e stile neoclassici e si fonda sulla proiezione delle esperienze e delle passioni personali nel mito greco: negli ultimi versi, però, prevale la figura dello sventurato eroe romantico. Schema metrico: sonetto con rime ABAB, ABAB; CDE, CED.

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PISTE DI LETTURA • Il mito delle origini: l’isola, la madre, l’infanzia • Venere, Omero, Ulisse: miti della bellezza, della poesia e dell’esilio • Il mito romantico della morte

Né più mai toccherò le sacre sponde1 ove il mio corpo fanciulletto giacque2, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar3 da cui vergine nacque 5

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Venere4, e fea5 quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali6, ed il diverso esiglio per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse7. Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura8. da Opere, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano, 1956

1. le sacre sponde: le sacre rive di Zante (o Zacinto, come l’isola è definita dal poeta con un grecismo). Le rive sono definite sacre in quanto luoghi del mito classico e della poesia. Si noti come il Né più mai (con inversione dei termini: “mai più non”) iniziale prepari a una conclusione tragica il lettore, che pure, per un periodo ininterrotto di undici versi, verrà accompagnato – attraverso il moto ondulatorio dei fluidi enjambements – in un sogno nostalgico del passato, evocato dai miti classici e dal mare. 2. ove… giacque: dove riposò (giacque) il mio corpo, quand’ero fanciullo. Nei primi otto versi, le rime sono costituite dai suoni -onde e -acque; deliberatamente o inconsciamente, il poeta circonda l’isola amata con rime che richiamano le onde e le acque del mare. 3. Zacinto… mar: come nel sonetto Alla sera, la lirica è rivolta a una realtà femminile personificata secondo il gusto neoclassico: qui è l’isola di Zante (Zacinto è un grecismo) nel Mar Ionio (greco mar), in cui il poeta nacque e trascorse i primi felici anni di vita. 4. da cui… Venere: secondo il mito classico, Venere – dea dell’amore e della bellezza – nacque dalla schiuma del Mar Ionio e rese le isole di quei luoghi ricche di stupenda vegetazione (feconde) con il suo primo sorriso. Il sonetto sviluppa con dolce musicalità l’intreccio fra il ricordo del poeta e il mito classico. In questa parte della poesia il gusto è neoclassico. 5. fea: fece, rese. 6. onde… fatali: per cui (onde) menzionò (non tacque) il tuo cielo limpido (limpide nubi è una metonimia) e i tuoi boschi (fronde è un’altra metonimia) il sublime (inclito è latinismo) poema (l’Odissea: verso è metonimia) di colui (Omero) che cantò le peregrinazioni lungo i mari volute

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dal destino (l’acque … fatali). Il poeta allude alla narrazione dell’esilio in luoghi diversi – o, secondo altri, alla diversità dell’esilio – di cui fu protagonista per dieci anni l’eroe greco Ulisse, di ritorno dalla guerra di Troia. La perifrasi non nomina Omero per creare un clima di sacralità, che ben si addice all’esaltazione del mito della poesia, attraverso la quale il poeta greco rese belli ed eterni i luoghi e le persone da lui cantati. Si noti la funzione melodica della rima interna onde:fronde (vv. 6-7). 7. per cui… Ulisse: per mezzo dei quali (per cui) Ulisse, reso bello dalla gloria e dalle sventure (bello di fama e di sventura), ritornò alla patria isola (la sua petrosa Itaca) e ne baciò il suolo. Il punto fermo che conclude il lungo periodo, iniziato nel primo verso, comporta una profonda svolta nel sonetto: il poeta si identifica con Ulisse (come lui, si immagina reso bello dalla gloria e dalla sventura: tema, questo, romantico). A differenza dell’eroe greco, però, egli è certo che il destino (il fato dell’ultimo verso) gli impedirà di tornare nella materna… terra in cui nacque. 8. Tu non altro… sepoltura: la conclusione è disperatamente romantica. O Zacinto, terra materna, tu avrai solo la poesia da tuo figlio: il destino (fato) per me (noi: ma l’uso della prima persona plurale trasporta su un piano universale la vicenda autobiografica) ha decretato (prescrisse) una sepoltura in terra straniera, senza il pianto di persone care (illacrimata). Il sonetto, che fino al termine della prima terzina appariva di gusto neoclassico e verteva sull’area semantica dell’acqua marina, diventa di impronta romantica e si conclude utilizzando termini tratti da un’area antitetica: terra, sepoltura, illacrimata (non è più concessa neppure la pietosa goccia d’acqua di una lacrima).

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inee di analisi testuale Le due parti del sonetto Il sonetto si divide in due parti ben distinte, separate dall’unico punto: una prima parte di stampo neoclassico e un’ultima parte (la terzina conclusiva) di stampo romantico. Alle due parti corrispondono, rispettivamente, l’area semantica delle parole acqua e terra. Nella prima parte del sonetto l’armoniosa atmosfera di sogno è evocata anche dal ripetersi delle rime -onde / -acque e dai numerosi enjambements (ad esempio, nacque / Venere) che trasportano il lettore in un soave ritmo ondulatorio. Nell’ultima terzina, dominata dalla più totale aridità (terra... illacrimata sepoltura), attraverso il paragone introdotto dal poeta fra Ulisse e se stesso (noi significa “me”, benché in qualche modo alluda anche al comune destino umano), diventa dominante il tema romantico dell’eroe destinato alla sconfitta e alla solitudine, anticipato, del resto, fin dal verso iniziale: Né più mai toccherò le sacre sponde. Ulisse: tra classicismo e Romanticismo Il mito classico di Ulisse funge da raccordo fra le due parti: egli è romanticamente bello… di sventura (oltre che di fama) come l’autore, ma ha potuto baciare il suolo di Itaca, l’isola in cui nacque: ciò non sarà possibile per il poeta, il cui sogno si infrange. L’esilio e la illacrimata sepoltura su cui verte l’ultima terzina trasportano così la vicenda autobiografica e la sua prevista, amara conclusione al livello di un inspiegabile, doloroso destino (fato) degli uomini: tema, anch’esso, tipicamente romantico. Lo stile Il sonetto è caratterizzato da una continuità melodica prodotta, oltre che dagli enjambements, dalle congiunzioni sintattiche, che articolano un ampio periodo che occupa lo spazio delle due quartine e della prima terzina. Il crescendo di tensione ritmica prodotto dalla catena delle subordinazioni si scioglie e si placa nel ritmo largo ma teso dell’ultima terzina.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del sonetto A Zacinto (max 5 righe). 2. Scrivi la parafrasi del sonetto, aiutandoti con le note. Analisi e interpretazione 3. Il sonetto di Foscolo può essere diviso in due parti ben distinte: quali sono e per quali aspetti di contenuto e forma si distinguono? 4. Quali elementi biografici relativi alla vita dell’autore sono presenti nel testo? 5. Nel sonetto si distinguono aspetti neoclassici e romantici. Quali? Motiva la tua risposta con precisi riferimenti al testo. Approfondimenti 6. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: Ulisse e Foscolo: due eroi a confronto nel sonetto A Zacinto.

T10 In morte del fratello Giovanni da Poesie, sonetto X Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo (noto anche come In morte del fratello Giovanni) è un sonetto dedicato al fratello del poeta, suicida per debiti di gioco. La morte vi è considerata un porto di pace, dopo il viaggio tempestoso della vita che, per entrambi, sembra contrassegnato da un destino sventurato. L’unica speranza di Foscolo, che nella sorte dell’infelice Giovanni vede prefigurata la propria, è che dopo la morte i suoi resti siano restituiti alla pietà materna. Il sonetto è scritto nel 1802. Giovanni, tenente a Bologna, aveva rubato una forte somma dalla cassa di guerra per rifondere il debito e, quando il furto viene scoperto, fugge a Venezia dove, per sottrarsi al disonore del processo, si toglie la vita nel dicembre 1801. Schema metrico: sonetto con rime ABAB, ABAB; CDC, DCD.

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PISTE DI LETTURA • Il dialogo tra i vivi e i morti • La separazione dal fratello e dalla madre • La morte come porto di pace Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, mi vedrai seduto1 su la tua pietra2, o fratel mio, gemendo il fior de’ tuoi gentili anni caduto3. 5

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La madre or sol, suo dì tardo traendo4, parla di me col tuo cenere muto: ma io deluse5 a voi le palme tendo; e se da lunge i miei tetti saluto6, sento gli avversi Numi, e le secrete cure7 che al viver tuo furon tempesta, e prego anch’io nel tuo porto quïete8. Questo di tanta speme oggi mi resta!9 Straniere genti, l’ossa mie rendete allora al petto della madre mesta. da Opere, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano, 1956

1. Un dì… seduto: il poeta si rivolge al fratello morto e, quasi potesse ancora parlargli, gli comunica il desiderio – se un giorno potrà porre fine alla propria esistenza di esule fra genti straniere (s’io non andrò sempre fuggendo / di gente in gente) – di recarsi presso il suo sepolcro. Qui, seduto significa “fermo in raccoglimento” (secondo l’uso classico; non in ginocchio, secondo l’uso cristiano). 2. pietra: tomba. È significativo l’uso combinato della metonimia (pietra per “tomba”) e della metafora (fior de’ tuoi gentili anni), che ha la funzione di sottolineare la drammatica antitesi fra morte e vita, rappresentate l’una attraverso l’immagine della terra arida (pietra), l’altra attraverso l’immagine della natura feconda (fior rinvia alla rigoglio della vita). 3. fior... caduto: il fiore reciso della tua nobile e giovane vita, ossia “la tua morte avvenuta nel pieno della giovinezza”. 4. suo... traendo: trascinando i suoi giorni (suo dì) lentamente (tardo), perché ormai anziana e stanca. Le espressioni elegantemente letterarie o di gusto neoclassico (più oltre, ad esempio, il latinismo cenere muto per “corpo senza vita nella tomba”, che richiama l’uso greco della cremazione) si integrano nel tono profondamente commosso e di sensibilità romantica che caratterizzano il testo, e lo rafforzano anziché turbarlo. 5. deluse: disilluse (nella speranza di tornare in patria). La figura è un’ipallage: la disillusione, anziché al poeta, è attribuita alle palme delle sue mani, tese come in un disperato abbraccio. 6. e… saluto: e, mentre (se) da lontano (da lunge) saluto le case (tetti) della mia terra natia. L’uso di tetti per “case” è una metonimia. 7. sento… secrete cure: sento l’avverso destino (Numi è un latinismo) e le angosce interiori (secrete / cure). 8. che… quïete: il poeta riprende qui la metafora, ampiamente sviluppata già nei sonetti di Francesco Petrarca, della vita come viaggio per nave reso tormentoso dal destino e dalle tempeste delle angosce interiori (i Numi e le secrete cure):

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qui, il metaforico porto della morte, già raggiunto dal fratello Giovanni, è però ritenuto – in quanto annullamento totale – desiderabile traguardo di pace (quïete), cui l’autore aspira. 9. Questo… resta!: ciò mi rimane di tanta speranza (speme). L’espressione è da alcuni riferita a ciò che il poeta ha scritto nella terzina precedente, da altri al contenuto degli ultimi due versi, in cui il sonetto si conclude con la preghiera agli stranieri – dopo la propria morte, che l’autore prevede vicina – di rendere il suo corpo, per la sepoltura, alla madre addolorata (mesta).

Antonio Canova, Stele funeraria.

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inee di analisi testuale Gli elementi illuministi, neoclassici e romantici Nel sonetto si intrecciano elementi di materialismo illuminista (la morte come annullamento), romantici (la vita come viaggio tempestoso, il suicidio, l’esilio e la patria), suggestioni neoclassiche (il potere del destino, gli avversi Numi, l’ispirazione al carme CI di Catullo e il lessico). L’identificazione con il fratello Il centro del sonetto è però l’identificazione del poeta con il fratello suicida, come dimostra il parallelismo fra le due esistenze tracciato nella prima terzina e il fatto che l’impossibilità di rendere omaggio alla tomba del fratello si leghi al timore dell’autore per una propria sepoltura lontano dalla patria e dalla madre. Il tema della madre Il tema della madre spesso ricorre nei sonetti foscoliani. La figura materna è il tramite per il ricordo della famiglia, dell’infanzia, del fratello defunto, ma anche del legame con il mondo classico (Diamantina Spathis è greca). Inoltre richiama i temi della materna terra natia e, soprattutto, il tema dell’esilio da essa. È anche simbolo della poesia, che l’autore ritiene la più alta espressione della facoltà generatrice e creatrice dell’uomo; è, infine, la pace (quïete), raggiunta nella dissoluzione della morte e nel ritorno al grembo materno della terra. La madre, in conclusione, è sinonimo di una mai raggiunta pienezza personale, culturale e poetica, che Foscolo – precocemente orfano di padre – rincorre per tutta la vita. Il gioco dell’intreccio dei tempi La prima quartina e l’ultima terzina sono proiettate sul futuro (Un dì e allora), ma con uno squarcio sul presente (questo di tanta speme oggi mi resta), all’insegna della perdita della speranza; il blocco centrale del sonetto riguarda il presente (or), incentrato sulla solitudine della madre (sol) e sulla disillusione del poeta (ma io deluse a voi le palme tendo). Questo intreccio di piani temporali, che fa avvertire al lettore il rapporto e lo scontro fra immaginazione e realtà, fra morte e vita, trova una raffigurazione nell’immagine del fratello il quale, benché morto, vede (mi vedrai seduto) e del dialogo della madre con il figlio defunto (parla di me col tuo cenere muto). Tale dialogo illusorio fra vivi e morti è un’evidente anticipazione del tema della prima parte dei Sepolcri.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del sonetto In morte del fratello Giovanni (max 5 righe). 2. Scrivi la parafrasi del sonetto, aiutandoti con le note. Analisi e interpretazione 3. Il sonetto di Foscolo racchiude elementi risalenti alla filosofia materialista illuminista, spunti neoclassici e parti che rinviano alla sensibilità romantica: quali sono, rispettivamente? 4. Come si sviluppa l’identificazione fra il poeta e il fratello e qual è la metafora di derivazione petrarchesca che più chiaramente la esplicita? Approfondimenti 5. Sintetizza le vicende biografiche che hanno condotto Giovanni Foscolo alla morte e, rileggendo il sonetto, evidenzia l’unica allusione ad esse presente nel testo; ricava da tale allusione, infine, l’interpretazione del poeta sulla vera causa del suicidio del fratello.

DEI

SEPOLCRI

Il carme Dei sepolcri, pubblicato a Brescia nel 1807, è un’ampia composizione poetica di 295 versi. Esso è dedicato all’amico poeta Ippolito Pindemonte, al quale il testo direttamente si rivolge. Già in un frammento databile poco oltre l’inizio del 1800, Della poesia, dei tempi e della religione di Lucrezio, Foscolo abbozza una nuova poetica, che attribuisce alla poesia il compito di trattare temi di ampio respiro e di testimoniare la storia, la morale e la politica.

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La conversazione sull’editto di Saint-Cloud

La Lettera a Guillon

La sintesi del contenuto illustrata dall’autore

Come Foscolo definisce temi e stile

Le quattro funzioni del sepolcro

L’innovazione stilistica

Lo spunto per la realizzazione di tale concezione giunge nel 1806, in seguito a una conversazione in casa Teotochi Albrizzi a proposito dell’editto di Saint-Cloud (1804), nel quale Napoleone, per ragioni igieniche e ugualitarie, proibisce le sepolture nelle chiese e nelle aree urbane e prescrive tombe uguali ed epigrafi semplici per tutti. Ateo e materialista, Foscolo resta dapprima indifferente alle critiche mosse da Pindemonte, basate su considerazioni religiose e affettive. Poi riflette a lungo sull’argomento e infine, in una lettera a Isabella Teotochi Albrizzi, annuncia la nascita del carme Dei sepolcri, che si rivolge a Pindemonte in quanto rappresenta un’ideale prosecuzione della conversazione. La sintesi dell’opera è tracciata da Foscolo nella Lettera a Monsieur Guillon sulla sua incompetenza a giudicare i poeti italiani (1807), che il poeta scrive in risposta alla stroncatura del carme che l’abate francese Aimé Guillon pubblica sul milanese “Giornale italiano”. La lettera è di fondamentale importanza, perché l’autore chiarisce anche altri aspetti della propria poetica e del proprio stile. • Secondo la sintesi foscoliana, i versi 1-40 del carme sostengono che i monumenti, inutili ai morti, giovano ai vivi, perché destano affetti virtuosi lasciati in eredità alle persone dabbene. • I versi 41-90 affermano che solo i malvagi, che vogliono essere dimenticati, non si danno pensiero dei propri sepolcri; a torto dunque la legge accomuna le sepolture de’ tristi [malvagi] e de’ buoni, dell’illustri e degl’infami. • Nei versi 91-150, che il poeta suddivide in cinque parti, si tratta dell’istituzione delle sepolture nata col patto sociale, della religione degli estinti derivante dalle virtù domestiche, dell’erezione dei mausolei agli eroi derivante dall’amor di patria, delle usanze funebri dei popoli, dell’inutilità dei monumenti per nazioni corrotte e vili. • I versi 151-154 sviluppano la tesi secondo cui le reliquie degli Eroi destano a nobili imprese, e nobilitano le città che le raccolgono. • I versi 154-212, prendendo spunto dai sepolcri dei grandi italiani riuniti nella chiesa fiorentina di Santa Croce, esortano il popolo a trarne ispirazione per nutrire l’amor di patria e compiere nobili gesta, così come le tombe di Maratona nutrìano ne’ Greci l’aborrimento a’ Barbari. • I versi 213-295, che la sintesi del poeta suddivide in cinque parti, sviluppano dapprima il concetto secondo cui anche i luoghi ov’erano tombe de’ Grandi, pur se non ne rimane traccia, infiammano la mente de’ generosi, quindi la convinzione secondo cui, anche se gli uomini di egregia virtù sono perseguitati vivendo e i loro sepolcri sono distrutti dal tempo, la loro memoria vive immortale negli scrittori e nei poeti. Lo testimonia la tomba d’Ilo: essa protesse il corpo di Elettra, da cui discese la stirpe dei Dardanidi sovrani di Troia, che, tramite Enea, furono autori dell’origine di Roma e della prosapia [discendenza] de’ Cesari signori del mondo. Con un episodio riguardante i sepolcri dei grandi re ed eroi troiani si chiude il carme. Nella stessa lettera, inoltre, Foscolo chiarisce che il carme è di natura civile e si discosta perciò dalla poesia sepolcrale di Thomas Gray, che ha lo scopo di persuadere l’oscurità della vita e la tranquillità della morte. La poesia è qui concepita come mezzo per proporre, in particolare agli Italiani, un messaggio etico e politico riguardante i grandi valori dell’umanità. Il sepolcro ha quattro grandi funzioni: assicurare la sopravvivenza, nel ricordo delle persone care, di chi ha vissuto operando bene; educare le nazioni civili tramandando miti, valori, esempi e modelli positivi da imitare; spingere i popoli a riscattare le sorti della patria, ispirandosi al ricordo de’ forti; ispirare i poeti, eternando attraverso il loro canto la grandezza degli eroi. L’autore afferma che l’innovazione stilistica principale contenuta nella sua opera consiste nel fatto che essa è un’argomentazione realizzata per grandi quadri che, afferrando le idee cardinali lascia a’ lettori la compiacenza e la noia di desumere le intermedie (vale a dire, le transizioni). Le quattro argomentazioni cardinali del carme coincidono, in ultima analisi, con l’affermazione delle quattro sopra citate funzioni positive del sepolcro.

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Lo sviluppo dei temi e il raccordo attraverso transizioni Le transizioni

Lo scheletro e la tessitura del carme

La prima metà Morte, sepolcro e ricordo

La nuova legge sui sepolcri

Lo sviluppo di temi collegati sequenza dopo sequenza nei Sepolcri non avviene secondo una successione logica o narrativa, ma come in un ciclo pittorico o in un poema sinfonico, ossia, come evidenzia Foscolo nella Lettera a Monsieur Guillon, attraverso transizioni. I temi si susseguono, cioè, come onde musicali in una scrittura che è basata sulla cesura e sul raccordo: la separazione per ottenere effetti di chiaroscuro, l’unione per creare un’armonia. Ciò viene ottenuto mediante le transizioni (così definite da Foscolo stesso) che sono versi o espressioni di passaggio brevi, bruschi e rapidi – come quelli usati dal poeta greco Pindaro – che separano un’onda poetica dall’altra. Tali stacchi sono rappresentati a livello formale da avversative, inversioni, interiezioni, vocativi enfatici. Per chiarire ulteriormente la struttura del carme, Foscolo introduce, sempre nella sua Lettera, la distinzione fra scheletro e tessitura dell’opera: lo scheletro è la struttura sintattica esterna; la tessitura è invece la struttura tematica interna, che è volutamente sotterranea, articolata per mezzo delle transizioni, e costituisce l’anima, l’organicità di fondo del discorso. Nella prima metà del carme (vv. 1-150), il poeta esplora soprattutto la funzione del sepolcro come istituzione storica e per il suo valore sociale. Dapprima viene però introdotto il tema della funzione del sepolcro in rapporto all’idea di morte sia da un punto di vista oggettivo (cioè nella visuale razionalistica e materialistica), sia da un punto di vista soggettivo (cioè secondo la prospettiva sentimentale, idealistica). Da un punto di vista oggettivo, in senso razionalistico e materialistico, la morte – tema centrale del carme – è totale negazione di vita; tutte le cose sono precarie, destinate alla distruzione e all’oblio: dunque, per chi è morto, il sepolcro non ha alcun significato e alcuna utilità pratica. L’autore svolge tale argomentazione attraverso una prima interrogativa retorica, una seconda interrogativa retorica a ripresa e sviluppo della prima, una risposta-conclusione negativa. Da un punto di vista soggettivo, in senso sentimentale, il sepolcro rappresenta invece una possibilità di illusione: l’uomo può sperare di sopravvivere nel ricordo di chi rimane. Il sepolcro funge dunque da nodo d’affetti. Fra morti e vivi è possibile una corrispondenza d’amorosi sensi, a patto che il morto abbia lasciato una eredità d’affetti. L’argomentazione viene svolta, parallelamente alla prima, attraverso una prima interrogativa retorica, una seconda interrogativa retorica, una conclusione-risposta positiva. In coda è aggiunta la condizione vincolante (la celeste corrispondenza è possibile solo se c’è eredità d’affetti). Si passa poi a un discorso sulla nuova legge dei sepolcri: l’editto di SaintCloud non tiene in alcun conto la funzione soggettiva del sepolcro, imponendo sepolture lontane dai centri abitati e negando ai morti il loro nome. Non è giusto confondere i sepolcri dei buoni con i sepolcri dei malvagi. Segue un inserto lugubre, fondato sul caso esemplare di Parini, un “grande” senza tomba. In coda, la conclusione, riguardante l’importanza del sepolcro e dell’affetto per chi è scomparso. Inizia poi la storia dell’istituzione del sepolcro: il culto dei morti è considerato fra le istituzioni che segnano l’avvio della civiltà e i sepolcri hanno avuto carattere sacro lungo tutto il corso della storia umana. Il modello del sepolcro nell’antichità classica era positivo, mentre il sepolcro nel culto cristiano medievale fu una parentesi negativa (le sepolture nelle chiese, caratterizzate da immagini macabre e paurose della morte, erano dettate da una concezione terrificante della morte stessa). L’autore qui contrappone il modello positivo delle sepolture antiche al modello negativo delle sepolture medievali: nell’antichità classica i cimiteri erano luoghi gradevoli; il culto dei morti era legato a riti di alto valore simbolico e serviva a rinsaldare il legame affettivo fra vivi e morti. I cimiteri inglesi sono il modello positivo moderno: in essi è ripreso l’esempio dei cimiteri antichi; essi sono gradevoli giardini suburbani, capaci di custodire gli affetti familiari e le virtù civili (qui appare un primo accenno al valore civile-patriottico del sepolcro). Dopo un sarcastico accenno al predominio della ricerca della ricchezza, alla viltà e alla decadenza dei ceti sociali nobili e potenti del Regno italico, l’affermazione

442 CAP. 15 - UGO FOSCOLO, UN POETA TRA DUE EPOCHE

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La seconda parte: la tomba come luogo di memoria

Le tombe di Santa Croce e dei Greci Il tempo distrugge i sepolcri

Il tema conclusivo della poesia eternatrice

conclusiva, in negativo, constata l’inutilità dei sepolcri presso i popoli schiavi e corrotti: nelle società prive di virtù civili, i sepolcri non sono che inutili ostentazioni di ricchezza e malaugurate immagini di morte. A questo punto un inserto personale (in parallelo con il passo dedicato prima a Parini e a quello che sarà dedicato in seguito ad Alfieri): Foscolo auspica per sé un sepolcro da cui gli amici possano raccogliere un’eredità di affetti e un esempio di poesia libera. Nella seconda metà del carme (vv. 151-295), il poeta canta il sepolcro come luogo di memoria ispiratore di poesia: il sepolcro è cioè custode di valori umani e civili e le sue funzioni sono “eternate” dall’arte. Lo sviluppo dei temi parte dalle tombe dei grandi personaggi che sono luoghi sacri della storia civile dei popoli, in quanto ispirano a compiere grandi imprese, perpetuando il ricordo delle opere e delle azioni degli uomini forti del passato, conservano la memoria e i valori costitutivi dell’identità storica di una nazione e fungono da modello e da stimolo per il presente e per il futuro. Tale tema si sviluppa nell’esempio delle tombe dei grandi italiani nella chiesa di Santa Croce a Firenze o, sul piano storico-letterario, delle tombe dei Greci caduti nella battaglia di Maratona. Le funzioni dei sepolcri (conservare e suscitare affetti, memoria storica e virtù civili) sono, infine, accolte e portate a compimento dalla poesia. Anche i sepolcri, in quanto oggetti materiali, sono sottoposti alla forza distruttiva del tempo; ma il loro “messaggio” può essere fatto proprio dalla poesia e, grazie ad essa, conservato e trasmesso per l’eternità. Tale tema si sviluppa nell’esempio straordinario dell’opera di Omero. I sepolcri di Troia hanno serbato il ricordo delle imprese degli eroi greci e troiani fino all’arrivo del grande poeta, il quale, facendone l’oggetto della propria poesia, lo ha reso eterno. Lo sviluppo formale prende le mosse dalla rievocazione di alcuni grandi personaggi italiani sepolti in Santa Croce (Machiavelli, Michelangelo, Galileo, Alfieri) e della funzione storica e civile del loro ricordo, attraverso l’affermazione lapidaria secondo cui le urne de’ forti spingono a egregie cose i forti animi. Procede quindi con l’esaltazione della chiesa di Santa Croce, gloria di Firenze e dell’Italia (le tombe dei grandi in Santa Croce sono definite come le sole glorie rimaste all’Italia), una digressione per recuperare le figure di Dante e Petrarca e un epilogo dedicato a Vittorio Alfieri, ultimo grande sepolto in Santa Croce. Il tema della celebrazione delle virtù eroiche dei Greci che hanno combattuto e sono morti per la patria a Maratona è costruito per analogia: la voce sacra (un Nume) che parla dalla tomba di Alfieri è la stessa che guidò i Greci contro i Persiani a Maratona; segue il dipinto della visione notturna della battaglia di Maratona (grazie alla poesia, che ne ha eternato il ricordo, la battaglia di Maratona continua ad accadere) e la suggestiva allusione all’arcana potenza dei sepolcri anche là dove il tempo ne ha distrutto il simulacro (grazie alla poesia, i luoghi nei quali sorgevano i sepolcri dei grandi continuano a parlare ai visitatori); infine, un omaggio alla poesia dell’amico Ippolito Pindemonte (con un cenno al suo viaggio giovanile in Grecia come poeta moderno in visita ai luoghi delle leggende e dei miti antichi, che gli ha permesso di rivivere il mito della tomba di Aiace e delle armi di Achille). La chiusura del carme avviene sul tema che illustra come la poesia sia erede dei sepolcri, in quanto ne accoglie e rende eterno il messaggio. L’autore vuole che anche la propria opera svolga questa funzione, esercitando la forza eternatrice della poesia dimostrata dall’esempio di Omero. Tale tema si articola allacciandosi al precedente: come l’amico Pindemonte, anche Foscolo è chiamato dalle Muse a evocare gli eroi. Viene ribadita l’importanza della funzione del poeta: la poesia raccoglie l’eredità dei sepolcri spazzati via dal tempo, come è avvenuto per la vicenda di Troia eternata dalla poesia di Omero. Lo sviluppo di questo ultimo tema costituisce la chiusa, in gradazione o climax ascendente, del carme: la tomba di Elettra era luogo sacro per i Troiani, e sacro ancora oggi grazie al mito e alla poesia; presso la tomba di Elettra, cioè nel cimitero di Troia, sulle tombe degli antichi eroi troiani, vennero le donne di Troia a pregare per la salvezza dei loro mariti; presso la tomba di Elettra, la sacerdotessa Cassandra si recò

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Il finale: Omero, Cassandra e la lode di Ettore

Una suddivisione didattica

a profetizzare la fine di Troia, narrando nel contempo le antiche glorie della città, e pregò le palme e i cipressi di quel cimitero di custodire le tombe dei padri fino all’arrivo di Omero, che le avrebbe interrogate e ne avrebbe trasferito il racconto, immortalandolo, nella sua poesia. Il carme si chiude con la lode – che l’autore pone in bocca a Cassandra, all’interno del lungo discorso della profetessa – dell’eroismo di Ettore, simbolo del sangue versato per la patria, e con la commossa proiezione al di là dei tempi dell’onorato ricordo che di lui, reso eterno dalla poesia, sarà conservato finché il Sole / risplenderà sulle sciagure umane. Nel quadro della presentazione didattico-antologica, il carme è stato suddiviso in quattro parti, che dopo il prologo sono segnalate dall’allocuzione a Pindemonte: • un prologo, dal verso 1 al 15; • la prospettiva storico-antropologica del sepolcro, dal verso 16 al 150; • la prospettiva storico-civile, dal verso 151 al 212; • la prospettiva poetico-mitica, dal verso 213 al 295.

La religione delle illusioni

Il punto d’arrivo della riflessione foscoliana Ragione, sentimento e valori etico-civili

I Sepolcri cantano la lotta dell’uomo, anche se non credente in un’aldilà, come Foscolo, contro l’oblio e la morte. Nel carme, la fede illuministica nelle leggi della natura e la relativa concezione materialistica della vita si scontrano e, infine, si integrano, con la fiducia romantica nei valori delle illusioni e della memoria, il cui vertice è la poesia. In questa tematica, subito in primo piano nelle sequenze iniziali del carme, consiste il principale nucleo filosofico dei Sepolcri, ovvero l’espressione più alta di quella religione delle illusioni che può essere considerata la sintesi dell’ideologia foscoliana, in quanto luogo di incontro fra ragione e sentimento, nella mediazione dell’ideale classico della fama che rende immortali. Considerata dal punto di vista razionalistico e materialistico, la vicenda individuale e collettiva degli uomini appare all’autore segnata da un destino ineluttabile di distruzione, morte, oblio; da un punto di vista sentimentale e ideale, tuttavia, un sistema di valori (che il razionalismo materialistico chiama illusioni) consente la sopravvivenza e la speranza di attribuire all’uomo un significato. Questi valori o illusioni sono il fondamento stesso della storia, della civiltà classica di cui siamo eredi, del progresso umano: sono l’amore, il patriottismo, la poesia, gli affetti familiari e tutti gli ideali che, come questi, sono capaci di dare indirizzo e senso all’esistenza. Il sepolcro, e in particolare quello di Ettore, nel finale del carme, rappresentato dalla eterna poesia, è il simbolo che tutti li contiene e li rappresenta. In questo messaggio di valori positivi che animano la vita e la storia – ritenuti significato dell’esistenza, per quanto definiti “illusori” – consiste il contenuto etico e civile dei Sepolcri.

Il genere e le innovazioni Genere lirico ed epico Il tono e le novità

Fra intento didattico e tecnica evocativa

L’autore attribuisce al proprio componimento poetico, in endecasillabi sciolti, la denominazione classicheggiante di carme per collocarlo a metà strada fra il genere poetico lirico e quello epico. Il tono di fondo è elevato e solenne, ma, all’interno di un impianto classico e di un periodare ampio e austero, spiccano momenti, intuizioni e immagini che anticipano i temi romantici dell’infinito e del sublime, esprimono in forme desolate e lugubri i paesaggi della poesia sepolcrale preromantica, conciliano e pongono in tensione continua i temi della vita e della morte, della fede e del nichilismo, dello spiritualismo e del materialismo, del pessimismo e dell’indignazione civile. La novità dell’opera è notevole anche perché essa si presenta come un genere misto in cui si riscontrano il dialogo, il monologo con aperture dialogiche ed esclamazioni che avvicinano al teatro: un’opera che raggiunge toni drammatici ed epici che la rendono diversa dalla lirica classicista e da quella romantica. Nel carme, Foscolo cerca di coniugare in una commistione l’oratoria e il sotterraneo intento didattico ed esortativo con la tecnica evocativa basata sull’associazione delle immagini che ha sperimentato nelle Poesie. La definizione dei Sepolcri come carme indica anche che Foscolo si ispira all’ode pindarica, dalla quale riprende sia i passaggi improvvisi e i repentini cambia-

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menti (in cui si coniugano passato e presente, storia e mito), sia i violenti stacchi in funzione della condensazione di immagini e ritratti.

La struttura metrica e ritmica L’endecasillabo sciolto L’uso ripetuto dell’enjambement

Il parallelismo tra forma e sviluppo dei temi

La struttura metrica del carme, interamente costituito da endecasillabi sciolti, si ricollega a quella dei poemi epici (le traduzioni di Omero e dei Canti di Ossian) e della lirica (per il ruolo dell’endecasillabo nel sonetto). A livello di versificazione, la tecnica dell’enjambement ripetuto, sperimentata ampiamente nei sonetti e qui usata sistematicamente, oltre a dare leggerezza al verso, attua in sé una fusione di logica, argomentazione, passionalità e fluida melodia, che sollecitano nel lettore un’integrazione tra fattori emotivi, razionali e di godimento estetico (i tre elementi derivano dalla poetica e dalla poesia di Foscolo, basata sull’integrazione perfetta tra ispirazione neoclassica, romantica e illuminista). L’autore è estremamente attento ai valori della parola e della sintassi allo scopo di raggiungere risultati di melodia e armonia legati non a una superficiale “cantabilità”, ma allo sviluppo argomentativo tramite transizioni. La melodia e l’armonia sollecitano la partecipazione emotiva, la parola e la sintassi chiamano in causa la razionalizzazione concettuale. Fra i due aspetti Foscolo costruisce un magistrale intreccio, in modo che il loro impasto provochi il totale coinvolgimento del lettore. Il risultato è, insomma, il raggiungimento di una musicalità e di un ritmo affascinanti che, però, non offuscano, ma esaltano la comprensione del messaggio.

T11 Il prologo da Dei sepolcri, vv. 1-15 I primi versi del carme pongono la domanda se il sepolcro possa risarcire l’uomo della morte. Le due interrogative che sottendono una risposta negativa, sembrano chiudere ogni possibilità di sviluppo. Ma ciò che è negato sul piano della ragione, sarà in seguito recuperato sul piano del sentimento. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • L’eco della discussione tra Foscolo e Pindemonte • Le interrogative retoriche • Tono alto e solenne DEORUM MANIUM IURA SANCTA SUNTO1

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All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte2 men duro? Ove3 più il Sole per me alla terra non fecondi questa bella d’erbe famiglia e d’animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l’ore future4, nè da te, dolce amico5, udrò più il verso

1. Deorum… sunto: siano sacri i diritti degli dèi Mani (le anime degli estinti). È una delle prescrizioni delle leggi greche di Solone, dette delle XII Tavole, riportata da Cicerone nel De legibus (Le leggi). 2. morte: l’enjambement sonno/della morte ha la funzione di mettere in rilievo la metaforica uguaglianza fra sonno e morte, tema centrale del sonetto Alla sera. 3. Ove: quando, dal momento in cui.

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vv. 1-15 È forse il sonno della morte meno crudele sotto l’ombra dei cipressi e dentro i sepolcri consolati dal pianto? Quando il Sole non alimenterà più per me questa bella famiglia di piante e di animali, e quando il futuro non eserciterà il suo fascino fatto di belle speranze, e quando non sentirò più, dolce amico [Ippolito Pindemonte], i tuoi versi caratterizzati da una tri-

4. vaghe… future: il tempo futuro è rappresentato attraverso la personificazione classica delle Ore (come nell’ode All’amica risanata). 5. dolce amico: Ippolito Pindemonte (1753-1828), autore teatrale e di poemetti, traduttore dell’Odissea. La sua opera più famosa sono le Prose e poesie campestri (1784-1788), di tono preromantico; al centro della sua poetica è il tema della malinconia.

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e la mesta armonia6 che lo governa, nè più nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini Muse e dell’amore, unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte?

ste armonia, e quando non parlerà più nel mio cuore lo spirito delle Muse [della poesia] e dell’amore, unico stimolo e consolazione della mia esistenza di esule, quale conforto potrà mai essere una lapide che ricordi il mio nome e che distingua le mie spoglie dalle altre innumerevoli che la morte dissemina per mare e per terra?

da Poesie e carmi, a cura di F. Pagliai, G. Folena, M. Scotti, Le Monnier, Firenze, 1985 6. mesta armonia: l’espressione allude alla melodia della versificazione dell’amico e al tema della melanconia, definita da Pindemonte dolce ninfa.

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inee di analisi testuale Il carme come epistola in versi L’eco della conversazione nel salotto Teotochi Albrizzi si può cogliere nelle coppie di interrogative che, pur entro un impianto fondamentalmente retorico, hanno un carattere di colloquialità e familiarità, soprattutto perché chiamano in causa direttamente il dedicatario-interlocutore del carme, il dolce amico Pindemonte, facendone un personaggio “presente” e pienamente coinvolto nel discorso. L’intero carme si rivolge, riprendendo spesso la seconda persona singolare, a Pindemonte. Per questa ragione i Sepolcri sono stati avvicinati dalla critica al genere dell’epistola in versi. Almeno per le prime due sequenze, tuttavia, si potrebbero piuttosto definire un dialogo filosofico in versi, nel quale si pongono a confronto e si discutono opinioni diverse. L’antitesi tenebre-luce Il carme inizia con una domanda ripetuta sulla morte. Per Foscolo la morte, intesa in chiave materialistica, significa privazione della luce e della vita, della speranza del futuro, della lettura e della scrittura – cioè del lavoro del poeta – e dell’amore. La centralità dei temi della morte e del sepolcro e la relativa espressione in sistemi di campi semantici e metaforici antitetici (tenebre-luce, morte-vita, memoria-oblio) è qualcosa di profondamente radicato nella mente e nella psiche di Foscolo. L’autore (con un etimo fantastico) faceva derivare il suo nome da phos (“luce”) e cholos (“bile”). La bile nera, l’atra bilis, l’umore malinconico è tipico, secondo la fisiologia aristotelica – in particolare nella reinterpretazione romantica – dell’uomo di genio. Quindi l’etimologia del nome Foscolo rimanderebbe alla lotta fra l’ardore delle passioni e la melanconia, fra luce e tenebre, fra vitalità e pulsioni di morte. Il sepolcro, in qualche misura, si identifica con la poesia: come la pietra tombale attiva il ricordo dei defunti e si oppone all’oblio, così la poesia, ricordando gli eroi e i miti del passato, alimenta le illusioni che aiutano l’uomo a dare un senso alla vita. Amore e poesia nel poeta ramingo Le congiunzioni negative (né), disposte simmetricamente all’inizio dei versi, sottolineano i valori, centrali in Foscolo, dell’amore (e quindi delle passioni) e della poesia. Amore e poesia sono i valori positivi che si riscontrano con quello negativo dell’esilio (unico spirto a mia vita raminga), motivo centrale nella letteratura italiana, come per Dante e Petrarca: il primo si firmò exul immeritus (innocente esule) e il secondo affermò di essere nato ad Arezzo in esilio (Arretii in exilio natus sum).

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi in non più di 8 righe il contenuto dei primi versi dei Sepolcri. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 4 righe per ogni risposta). a. Qual è il metro dei Sepolcri e quale motivazione ne può giustificare l’adozione? b. Qual è il significato dell’interrogazione retorica dei primi versi? c. Qual è il significato complessivo del prologo del carme di Foscolo e quali temi vi sono enunciati? Approfondimenti 3. Rifletti sul prologo del carme, rileggi le relative Linee di analisi testuale e scrivi ed intitola opportunamente, in non più di tre colonne di metà foglio protocollo, un saggio breve sul seguente argomento: I presupposti ideologici, letterari e storico-politici dei Sepolcri. Indicane, poi, una precisa destinazione editoriale (il fascicolo scolastico di ricerca e documentazione oppure la rassegna di argomento culturale).

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T12 Antropologia del sepolcro da Dei sepolcri, vv. 16-150 I quattro temi fondamentali del carme sono: il valore affettivo delle tombe, il loro valore civile, il loro valore politico e morale, il loro valore poetico. Di questi temi il primo e il secondo vengono affrontati nei versi che seguono. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • La corrispondenza di sensi amorosi tra vivi e morti • L’iniqua legge napoleonica sulle sepolture • La tomba come testimonianza di civiltà

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Vero è ben1, Pindemonte! Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri2; e involve tutte cose l’obblio nella sua notte; e una forza operosa le affatica di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe e l’estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo. Ma perché pria del tempo a sé il mortale invidierà3 l’illusïon che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla4 con soavi cure nella mente de’ suoi? Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi5, se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva, nel suo grembo materno6 ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda

1. Vero è ben: la verità cui si riferisce Foscolo è quella secondo cui, in base alla teoria del materialismo illuministico accolta dall’autore, una legge meccanicistica governa il corso della natura e della storia; questa consapevolezza diventerà però, nel carme, il punto di partenza per attribuire un senso all’eterno divenire attraverso la poesia. La transizione Vero è ben segna il passaggio da una considerazione personale a una di carattere universale. 2. Anche… sepolcri: l’espressione risale al poeta Teognide (VI-V secolo a.C.): Tutti i Numi salendo all’Olimpo gli infelici mortali abbandonarono: la Speranza sola rimane buona dea. La Speme (“Speranza”) foscoliana, a differenza della speranza cristiana proiettata nell’aldilà, sopravvive sulla terra grazie al ricordo e alla poesia. 3. invidierà: si priverà (dal latino invidere sibi “privarsi”). Questa seconda sequenza del carme che qui si apre è simmetrica alla prima. La transizione fra l’una e l’altra è costituita dall’avversativa ma, con cui Foscolo introduce una nuova interrogativa retorica parallela alla prima del carme. 4. destarla: può riferirsi sia all’illusione, sia all’armonia,

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vv. 16-22 È ben vero, Pindemonte! Anche la Speranza, ultima dea, abbandona i sepolcri; e la dimenticanza avvolge tutte le cose nella sua profonda oscurità; l’instancabile energia della natura le fiacca con il suo eterno movimento e il tempo trasforma gli uomini e i loro sepolcri e gli ultimi lineamenti fissati nella morte e i resti della terra e del cielo. vv. 23-40 Ma perché prima del tempo gli uomini dovrebbero privarsi dell’illusione che, anche da morti, li trattiene sulla soglia dell’oltretomba? Non vive forse il defunto anche sottoterra, quando l’armoniosa luce della vita sarà spenta, dal momento che può risvegliarla nel pensiero dei suoi cari attraverso il culto pietoso [dei sepolcri]? È divina questa corrispondenza di sentimenti amorosi, è una dote divina negli uomini; in virtù di essa si continua a vivere con l’amico scomparso ed egli con noi, se la pietosa terra che lo ha accolto e nutrito da bambino, offrendo il suo grembo materno quale ultimo rifugio, rende inviolabili le spoglie dalle offese

ma è preferibile riferire il verbo al sostantivo armonia per motivi strutturali: l’armonia del giorno richiama la mesta armonia della poesia; il sonno della buia morte è, all’inizio del carme, a stretto contatto, per opposizione, con l’immagine del sole; l’ossimoro muta armonia (della luce, ossia del giorno) stabilisce l’equazione fra buio della morte e silenzio della voce poetica. 5. celeste… noi: l’anafora dell’aggettivo celeste (che qui deriva da “cielo”) indica la possibilità, anche sulla terra, di un afflato divino: il chiasmo (fra con l’amico estinto e l’estinto con noi) allude a un dialogo al di là delle leggi fisiche e naturali, che il razionalismo materialistico nega ma che il sentimento accetta, benché come illusione. La conclusione ribadisce il tema delle precedenti interrogative, centrale nel carme, e lo fissa nell’immagine della corrispondenza d’amorosi sensi fra vivi e morti. 6. se pia… materno: è qui importante la circolarità fra terra-madre / terra-morte: la terra genitrice del bambino è la stessa terra della tomba, che è anch’essa genitrice di un’altra vita dopo la morte.

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dall’insultar de’ nembi e dal profano piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica7 le ceneri di molli ombre consoli. Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioja ha dell’urna; e se pur mira dopo l’esequie, errar vede il suo spirto fra ’l compianto de’ templi Acherontei8, o ricovrarsi sotto le grandi ale del perdono d’Iddio: ma la sua polve lascia alle ortiche di deserta gleba ove né donna innamorata preghi, né passeggier solingo oda il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura9. Pur nuova legge10 impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti contende. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia11, che a te cantando nel suo povero tetto12 educò13 un lauro con lungo amore, e t’appendea corone14; e tu gli ornavi del tuo riso i canti che il lombardo pungean Sardanapalo15 cui solo è dolce il muggito de’ buoi che dagli antri abdüani e dal Ticino lo fan d’ozi bëato e di vivande. O bella Musa, ove sei tu? Non sento spirar l’ambrosia16, indizio del tuo Nume, fra queste piante17 ov’io siedo e sospiro il mio tetto materno. E tu venivi e sorridevi a lui sotto quel tiglio ch’or con dimesse frondi va fremendo perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio cui già di calma era cortese e d’ombre.

7. arbore amica: il latinismo, per cui Foscolo fa di albero un sostantivo femminile, ha la funzione di evocare l’immagine di una donna pietosa che prega sulla tomba. 8. templi Acherontei: latinismo, tratto dall’espressione Acherousia templa di Lucrezio; qui, come annota Foscolo stesso, templi significa, in senso etimologico, luoghi circoscritti, limitati e, di conseguenza, zone, regioni. L’Acheronte è il fiume che separa l’oltretomba classico dal mondo dei vivi. L’argomentazione sviluppata nei vv. 41-46 è dunque di impronta materialistica ed è rivolta contro coloro (cristiani o pagani) che, in vita, concepiscono la sopravvivenza come un’altra vita nell’oltretomba: l’autore contrappone loro la propria “illusione”, che implica una sopravvivenza terrena e laica nel ricordo degli uomini, conquistata con i meriti acquisiti in vita. 9. che dal… Natura: l’espressione richiama l’epigrafe posta sulla tomba di Jacopo Ortis nel romanzo foscoliano: Naturae clamat ab ipso vox tumulo (“la voce della natura chiama proprio dal sepolcro”) ed è ripresa da un verso dell’Elegia scritta in un cimitero di campagna di Thomas Gray. 10. Pur nuova legge: l’autore allude all’editto di SaintCloud, ma anche a precedenti leggi vigenti in Lombardia; una disposizione del 1787, in materia di igiene pubblica, prescrive ad esempio: È proibito il seppellire i cadaveri umani in altri luoghi che nei cimiteri: questi saranno necessariamente collocati fuori dell’abitato dei comuni. Anche questa sequenza, come le due precedenti, è tripartita: il discorso sulla legge di Saint-Cloud, i suoi effetti attraver-

delle tempeste e dal sacrilegio degli uomini e purché una lapide conservi il nome, e i resti mortali siano confortati dalla gradita e dolce ombra di un albero amico, odoroso di fiori. vv. 41-50 Soltanto colui che non lascia un’eredità di affetti non ricava alcun motivo di gioia e di conforto dall’avere una tomba, e questi, se potesse vedere dopo il suo funerale, scorgerebbe la sua anima vagare fra i lamenti del regno dei morti, oltre l’Acheronte [nell’oltretomba] o cercare rifugio sotto le grandi ali della clemenza divina; ma [qui nel mondo dei vivi] abbandona la sua salma alle ortiche che nascono nelle zolle di una terra incolta, dove non c’è preghiera di una donna innamorata, né viandante solitario che ascolti il richiamo melanconico che la natura ci invia dalla tomba. vv. 51-69 Eppure una nuova legge ingiunge oggi che i sepolcri siano lontani dalla pietosa attenzione [dei propri cari] e contesta ai defunti il diritto di avere il proprio nome sulla lapide. Così senza una tomba stanno le spoglie del tuo sacerdote [Giuseppe Parini], o [Musa] Talia, il quale scrivendo poesie [satiriche] nella sua dimora sobria e modesta fece crescere per lungo tempo con amore un alloro e ti onorava con i suoi versi; e tu fornivi la tua eleganza e il tuo spirito satirico ai versi che ferivano il [vizioso] Sardanapalo lombardo, uomo sensibile solo al muggito dei buoi che stanno nelle stalle delle zone dell’Adda e del Ticino e che gli permettono di vivere di rendita e gli assicurano abbondanza di cibo. O bella Musa dove sei? Non sento diffondersi il profumo dell’ambrosia, segno della tua divinità, fra queste piante dove io siedo e ripenso con nostalgia alla mia casa materna. E tu [Talia] venivi e sorridevi al poeta [Parini] sotto il tiglio che ora con le fronde abbassate è sdegnato e turbato, o Dea, perché non protegge la tomba del vecchio a cui in vita offriva cortesemente tranquillità e ombra.

so il caso di Parini, l’importanza del sepolcro di chi è compianto. 11. Talia: la musa della commedia e anche della satira, genere di cui Parini è maestro. Parini è qui anche simbolo, come poi Alfieri e Omero, di Foscolo stesso. 12. povero tetto: Foscolo fa notare, attraverso i suoi magistrali accenni nei versi, la differenza fra la tracotanza e la ricchezza del giovin signore de Il Giorno e l’umiltà e povertà del poeta. Anche Foscolo, come Parini, è poeta ed è povero. 13. educò: fece crescere l’alloro, cioè la poesia, in quanto l’alloro è la pianta sacra ad Apollo e alle Muse. Il verbo educò è latinismo (dal latino educere “far crescere”); da tale etimo deriva il termine “educare” tuttora in uso. 14. t’appendea corone: ti onorava con i suoi versi. Si tratta di una metafora. 15. Sardanapalo: mitico re assiro, emblema della dissolutezza e della corruzione connesse alla grande ricchezza. Il dissoluto e immorale per antonomasia, Sardanapalo, qui sta per il nobile e lombardo giovin signore, protagonista de Il Giorno di Parini. 16. Non… ambrosia: non sento diffondersi il profumo dell’ambrosia, segno della tua divinità. 17. fra queste piante: come Foscolo stesso annota, si tratta di un boschetto di tigli nel sobborgo di Porta Orientale a Milano; è il medesimo luogo in cui è ambientata la lettera dell’incontro con Parini (4 dicembre 1798) nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

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Forse tu fra plebei tumuli guardi vagolando, ove dorma il sacro capo del tuo Parini? A lui non ombre pose tra le sue mura la città, lasciva d’evirati cantori allettatrice18, non pietra, non parola; e forse l’ossa col mozzo capo gl’insanguina il ladro che lasciò sul patibolo i delitti. Senti raspar fra le macerie e i bronchi la derelitta cagna ramingando su le fosse e famelica ululando; e uscir del teschio, ove fuggia la Luna, l’ùpupa, e svolazzar su per le croci sparse per la funerea campagna, e l’immonda accusar col luttüoso singulto i rai di che son pie le stelle alle obblïate sepolture. Indarno sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti non sorge fiore ove non sia d’umane lodi onorato e d’amoroso pianto. Dal dì che nozze e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di sé stesse e d’altrui, toglieano i vivi all’etere maligno ed alle fere i miserandi avanzi che Natura con veci eterne a sensi altri destina19. Testimonianza a’ fasti eran le tombe, ed are a’ figli; e uscian quindi i responsi de’ domestici Lari, e fu temuto su la polve degli avi il giuramento: religïon che con diversi riti le virtù patrie e la pietà congiunta tradussero per lungo ordine d’anni20.

18. città… allettatrice: la città dissoluta è qui Milano, che blandisce i poeti eunuchi (letteralmente “castrati”, cioè abili nel canto ma privi di virilità e di nerbo etico) contro i quali Parini polemizza nell’ode La musica. I successivi ultimi versi dedicati a Parini sono caratterizzati da un inserto lugubre, forte ed espressivo, che segue la moda sepolcrale e preromantica: vi appaiono, in un paesaggio notturno e orrido, la derelitta cagna, l’ùpupa (uccello considerato di malaugurio), la desolazione di tombe anonime (che Foscolo, nelle sue note, precisa essere “i cimiteri suburbani di Milano”). Il tema sviluppato dall’autore è polemico: se si portasse fino alle estreme conseguenze la logica dell’editto di Saint-Cloud, un uomo come Parini – cui la città non ha donato degna tomba – finirebbe nella stessa fossa con un criminale cui fu mozzato il capo per i suoi delitti. La conclusione riprende il tema centrale: negare la tomba, il fiore, le umane lodi e l’amoroso pianto (vv. 89-90) all’estinto significa, per l’autore, negare a chi ne è degno la possibilità di sopravvivere nel ricordo. 19. Dal dì... destina: la transizione introduce ora il discorso della tomba come istituzione e del suo valore storico. Il passo fa riferimento alla concezione di Giambattista Vico che individua, nella storia umana, una prima fase in cui gli uomini sono in preda agli istinti; ad essa seguono la fase in

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vv. 70-90 Forse tu cerchi, errando, fra le tombe della plebe il luogo in cui riposa la sacra testa del tuo Parini? Per lui la città dissoluta che attrae poeti vili non piantò ombrose piante, non lasciò una lapide né un’iscrizione funebre e forse i suoi resti [in una fossa comune] vengono macchiati dal sangue della testa tagliata del malfattore condannato a morte per i suoi delitti. Tu [o Dea] senti la cagna solitaria e randagia scavare fra gli sterpi e le rovine e ululare avida e affamata e [vedi] l’upupa che esce dal teschio, dove si era rifugiata per sfuggire alla luce della luna, e volare in mezzo alle croci sparpagliate nella lugubre campagna, così che l’immondo animale sembra protestare con il suo verso simile a un tetro e funebre singhiozzo contro i raggi con cui pietosamente le stelle illuminano le tombe dimenticate. Invano per il tuo poeta, o Dea, invochi le rugiade della triste notte. Ah! sulle tombe dei defunti non nascono fiori se non sono alimentati dalla lode, dall’onore e dalle lacrime d’amore degli uomini.

vv. 91-103 Dal giorno che l’istituzione sociale della famiglia e le istituzioni giuridiche e religiose consentirono agli uomini primitivi di esercitare la pietà nei confronti di se stessi e dei propri simili, fu consuetudine dei viventi sottrarre alle offese del cielo [in tempesta] e alle bestie selvagge le misere spoglie dei defunti che la Natura perennemente trasforma in altra materia. Le tombe erano luogo di ricordo delle gesta gloriose e luogo di venerazione per i figli; dalle tombe si traevano le risposte dei Lari protettori delle case e si temeva di non rispettare il giuramento fatto sulle ceneri degli antenati. La tradizione civile e religiosa e l’amor di patria per moltissimi secoli tramandarono questa usanza con diverse cerimonie e diverse liturgie.

cui l’arte e la poesia elevano gli uomini a un secondo stadio e l’ultima fase della civilizzazione, caratterizzata dalla nascita delle istituzioni: l’ossimoro umane belve allude all’evoluzione dell’uomo dello stato ferino secondo la concezione di Vico. In questa sequenza, l’alto numero di espressioni che fanno riferimento alla storia (dal dì, umane belve, veci eterne, fasti, avi, lungo ordine d’anni), nell’ambito delle istituzioni sociali (nozze, tribunali, responsi, giuramento, virtù patrie) e in quello morale e religioso (are, pietose, Lari, religïon, riti, pietà), serve a sottolineare come il culto dei morti si intrecci con l’idea stessa di storia, di civiltà, di religione. In antitesi ad esso è la forza sorda e tremenda della Natura, che, con mutamenti perenni (con veci eterne), decompone i cadaveri (i miserandi avanzi) per destinarli ad altri cicli di vita materiale (a sensi altri destina). 20. Testimonianza... d’anni: le tombe erano in età classica testimonianze di onori e ricchezze. In numerose note, relative a questa parte del carme, Foscolo supporta le proprie affermazioni con citazioni da testi di autori classici. Se storia, istituzioni e culti nulla possono contro la Natura, possono però, all’interno dei suoi meccanismi implacabili, creare una sacra illusione (religïon) di progresso nella cultura e nella civiltà, una suprema illusione di durata attraverso il sepolcro e la poesia.

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Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi fean pavimento; né agl’incensi avvolto de’ cadaveri il lezzo i supplicanti contaminò; né le città fur meste d’effigïati scheletri21: le madri balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono nude le braccia su l’amato capo del lor caro lattante onde nol desti il gemer lungo di persona morta chiedente la venal prece agli eredi dal santuario. Ma cipressi e cedri di puri effluvj i zefiri impregnando perenne verde protendean su l’urne per memoria perenne, e prezïosi vasi accogliean le lagrime votive22. Rapían gli amici una favilla al Sole23 a illuminar la sotterranea notte perché gli occhi dell’uom cercan morendo il Sole; e tutti l’ultimo sospiro mandano i petti alla fuggente luce. Le fontane versando acque lustrali amaranti24 educavano e vïole su la funebre zolla; e chi sedea a libar latte e a raccontar sue pene ai cari estinti, una fragranza intorno sentía qual d’aura de’ beati Elisi25. Pietosa insania, che fa cari gli orti de’ suburbani avelli alle britanne vergini dove le conduce amore della perduta madre, ove clementi pregaro i Genj del ritorno al prode che tronca fe’ la trïonfata nave del maggior pino, e si scavò la bara26. Ma ove dorme il furor d’inclite geste e sien ministri al vivere civile l’opulenza e il tremore, inutil pompa e inaugurate immagini dell’Orco sorgon cippi e marmorei monumenti27.

21. né... scheletri: le usanze cimiteriali cristiane sono considerate una tappa negativa nella storia dei riti funebri e sepolcrali. La transizione tramite l’avverbio temporale sempre, marcata dal segno negativo non, vuole evidenziare l’antinomia tra il rito classico della cremazione e conservazione delle ceneri nell’urna e quello cristiano, ritenuto cupo e angosciante, del Medioevo. 22. Ma… votive: l’avversativa ma ha la funzione di transizione nel contrapporre all’antico uso cristiano, fondato sul terrore della morte, la serenità che l’autore attribuisce ai cimiteri dei pagani antichi e all’usanza inglese moderna (ulteriormente precisata, nelle note di Foscolo, con riferimento a uno studio di Ercole Silva sull’argomento, nel quale si afferma che in molte città britanniche i campi santi sono usati come giardini). 23. una favilla al Sole: gli amici ponevano lampade sepolcrali, quasi luci rubate al sole, scintille per illuminare l’oscurità della morte. L’immagine metaforica rappresenta la possibilità di vita nella morte grazie al culto e alla memoria dei vivi. I versi 119-123 delineano una scena di grande intensità emotiva, che traduce la morte in nostalgica ricerca (l’ultimo sospiro) della luce del sole, richiamando le immagini dei versi 3-15.

vv. 104-129 Non sempre i defunti furono sepolti nelle chiese e non sempre il tanfo dei cadaveri misto all’odore d’incenso ammorbò i fedeli; né le città furono intristite da scheletri dipinti sui muri: [a causa di tale usanza,] madri si svegliano dal sonno terrorizzate e stringono nelle nude braccia la amata testa del loro caro bambino affinché non sia destato dagli insistenti lamenti del defunto che dalla tomba chiede la preghiera che si commissiona al sacerdote in cambio di denaro. Invece [un tempo] cipressi e cedri, riempiendo l’aria di odori, distendevano i loro rami perennemente verdi sulle tombe a eterna memoria, e urne pregiate raccoglievano le lacrime dei parenti che pregavano. Gli amici, per illuminare il buio della tomba, rapivano una scintilla di luce al sole [accendendo lampade sul sepolcro], perché gli occhi dell’uomo che muore cercano il chiarore del sole e tutti indirizzano l’ultimo respiro alla luce che si spegne. Le fontane, spandendo acque purificatrici, facevano crescere fiori di amaranti e viole sulla tomba; e chi sedeva a versare latte [secondo l’uso classico] e a confidare le sue pene ai cari defunti, sentiva intorno un soave odore simile all’aria profumata dei sereni Elisi [dell’oltretomba].

vv. 130-141 Pietosa illusione che rende cari i giardini cimiteriali, situati nella periferia della città, alle giovani inglesi che vi si recano per amore della defunta madre, dove pregano gli dèi protettori per favorire il ritorno dell’eroe [Orazio Nelson] che fece tagliare l’albero maestro della nave [francese] conquistata in battaglia per farne la sua bara. Ma nei Paesi in cui è sopito il coraggio e l’ardore per le azioni gloriose e in cui invece sono a fondamento della società la ricchezza e la bassezza d’animo e l’acquiescenza ai potenti, busti scolpiti e sepolcri marmorei costituiscono solo una forma di sfarzo esteriore e rappresentano malaugurate immagini di morte.

24. amaranti: piante ornamentali con fiori rossi a forma di spiga, simbolo di immortalità. 25. Elisi: il luogo dell’aldilà che il mondo classico riserva agli eroi e ai giusti. 26. prode… bara: l’esempio dell’Inghilterra nasconde un intento polemico nei confronti della Francia, anche perché la figura dell’ammiraglio Orazio Nelson (il prode) è legata alla battaglia di Aboukir del 1798, nella quale la flotta francese fu sconfitta; in tale occasione Nelson fece tagliare l’albero maestro della nave francese Orient per ricavarne la propria bara (l’episodio è ricordato nelle note di Foscolo al carme). La transizione pietosa insania è un ossimoro in cui si racchiude la sintesi della poetica di Foscolo sui sepolcri: pietosa rappresenta il lato romantico, insania, illusione folle, quello illuminista. Il terzo elemento foscoliano, neoclassico, emerge dal contenuto: i cimiteri inglesi vengono accostati alla classicità antica. 27. Ma ove dorme... monumenti: ancora una transizione avversativa per introdurre l’esempio negativo dell’Italia, paese dove non c’è memoria di grandi gesta e perciò le tombe sono solo ostentazione di ricchezza o simboli di paura della morte (l’Orco è l’Ade degli antichi Greci).

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Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, decoro e mente al bello Italo regno, nelle adulate reggie ha sepoltura già vivo, e i stemmi unica laude28. A noi morte apparecchi riposato albergo ove una volta la fortuna cessi dalle vendette, e l’amistà raccolga non di tesori eredità, ma caldi sensi e di liberal carme l’esempio29.

vv. 142-150 Ormai la massa degli intellettuali, dei possidenti e dei nobili, vanto e fondamento culturale del bel regno italico, è sepolta nelle regge ancora viva, nei luoghi del potere che essa è solita adulare, e l’unico suo titolo di vanto sono gli stemmi nobiliari [ereditati dagli avi]. A me la morte possa preparare un quieto rifugio, in cui infine la sorte cessi di perseguitarmi e in cui gli amici raccolgano non l’eredità dei beni materiali, ma affettuosi sentimenti e la voce di una poesia libera.

da Poesie e carmi, a cura di F. Pagliai, G. Folena, M. Scotti, Le Monnier, Firenze, 1985

28. Già il dotto... laude: la classe dominante italiana è già morta ancora viva, e il suo unico vanto sono gli stemmi degli avi. Il passo è costruito sulla figura retorica dell’ironia. 29. A noi morte... esempio: è un inserto di collegamento, una sorta di cerniera, con cui si conclude la prima parte dei

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Sepolcri. Il poeta si pone decisamente in primo piano con la transizione A noi / morte apparecchi, sottolineata dall’enjambement, inserto a carattere personale, che va posto in parallelo con i passi dedicati a Parini e ad Alfieri (vv. 5388 e 188-197): il noi non è casuale.

inee di analisi testuale La transizione che segue il prologo La transizione Vero è ben Pindemonte! segna il passaggio da una prima riflessione di tipo personale contenuta nel dialogo con un amico all’esposizione di una concezione alta, amara, di carattere universale: la conclusione, che pure si rivelerà temporanea e provvisoria, dell’ineluttabilità dell’azione distruttiva del tempo nel contesto del meccanicismo materialistico che domina la vita umana e l’universo. La forma poetica, come per far percepire l’incalzare del tempo inesorabile, usa il polisindeto (e involve… / e una forza… / … e l’uomo e le sue tombe / e l’estreme... e le reliquie), nel crescendo concettuale dal piano psicologico (l’obblio) a quello filosofico (una forza operosa...), dal piano individuale e storico (l’uomo e le sue tombe) al piano cosmico (della terra e del ciel). La corrispondenza d’amorosi sensi La seconda transizione è costituita dall’avversativa ma (v. 23), con la quale il poeta introduce un’altra domanda, che ribalta il senso negativo della precedente – in cui veniva dichiarata la verità della ragione – e che afferma la verità del sentimento e del cuore, per cui il culto pietoso delle tombe può sconfiggere la morte. Esso rappresenta una speranza (un’illusïon) di sopravvivenza attraverso il ricordo di coloro che restano e che, con la loro memoria, coltivano una corrispondenza d’amorosi sensi col defunto. La forma ancora corrisponde al contenuto: compare un nuovo polisindeto (e spesso… / e l’estinto… / … e lo nutriva / … e dal profano / … e serbi); un chiasmo rende il rapporto fra vivo e defunto (per lei si vive con l’amico estinto / e l’estinto con noi); i parallelismi dànno un ritmo di pace e serenità (Celeste… corrispondenza – celeste dote); il lessico è latineggiante (arbore reso femminile, alla latina, comunica il senso della pietà femminile). Dalla memoria privata all’istituzione civile La transizione Pur nuova legge introduce l’inserto lugubre dedicato a Parini, che si ipotizza lasciato senza tomba dall’editto di Saint-Cloud: si tratta di una magistrale ripresa di temi e figure della poesia cimiteriale inglese. I cimiteri inglesi sono indicati anche come il modello positivo moderno. La transizione del fiore che nasce dal pianto sulla tomba di chi è amato introduce alla riflessione sui sepolcri come istituzione civile, in cui Foscolo si riallaccia alla concezione vichiana del progresso delle età umane (dalla ferinità delle umane belve, al contratto sociale della razionalità). Lo stacco esprime la speranza personale – già espressa, ma in chiave negativa, alla fine del sonetto Un dì s’io non andrò sempre fuggendo – in una tomba che raccolga affetti e pianto.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi i contenuti dei versi proposti in non più di 30 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Che cosa intende Foscolo per corrispondenza d’amorosi sensi? b. Quale giudizio esprime il poeta, e per quali motivazioni, riguardo alla nuova legge sui sepolcri e a quale editto fa riferimento? c. Quale grande poeta viene ricordato nei versi che hai letto e per quale motivo? d. Quali sono le transizioni che hai rilevato nella parte del carme proposta e quale funzione svolgono? Approfondimenti 3. In un passaggio del carme, Foscolo mostra di avvicinarsi al pensiero di Giambattista Vico: indicane il contesto ed esponi i cardini del pensiero del filosofo citato e i punti di contatto tra le sue concezioni e quelle di Foscolo.

T13 Aspetti storico-civili della tomba da Dei sepolcri, vv. 151-212 In questa celebre parte del carme, Foscolo prende spunto da una visita compiuta nella storica chiesa di Santa Croce a Firenze e rievoca i grandi italiani che lì hanno le loro tombe: i sepolcri provocano emozioni profonde, destando il ricordo ammirato nelle persone semplici e accendendo l’emulazione all’eccellenza negli spiriti forti. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • Le tombe dei grandi nelle città destinate alla grandezza • I modelli del passato e gli uomini del presente • Tono aulico

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A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta1. Io quando il monumento vidi ove posa il corpo di quel grande che temprando lo scettro a’ regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue2;

1. A egregie... ricetta: la transizione alla seconda parte del carme presenta un marcato valore asseverativo, ossia di sentenza decisa e lapidaria. Significativi il ripetersi dell’aggettivo forte e il chiasmo tra forte animo e urne de’ forti. 2. quel grande… sangue: il primo grande di Santa Croce

vv. 151-158 Le tombe dei grandi accendono a nobili e gloriose azioni i magnanimi, o Pindemonte; e rendono magnifica e sacra la terra che le accoglie agli occhi del pellegrino. Io, quando vidi la tomba di quel grande [Machiavelli] che forgiando lo scettro ai regnanti ne mette a nudo le crudeltà e rivela agli uomini quanto sangue e quanta sofferenza si celino dietro questa gloria;

è Machiavelli. La lettura data da Foscolo a Machiavelli, come autore di un testo (Il Principe) portatore di un duplice messaggio, uno tecnico rivolto ai principi, ai quali offre lezioni di scienza politica, e uno morale, rivolto al popolo, a cui svela l’immoralità e le abiezioni della politica, è presente anche in altri autori.

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E l’arca di colui che nuovo Olimpo alzò in Roma a’ Celesti3; e di chi vide sotto l’etereo padiglion rotarsi più mondi, e il Sole irradïarli immoto, onde all’Anglo che tanta ala vi stese gombrò primo le vie del firmamento4; te beata, gridai, per le felici aure pregne di vita, e pe’ lavacri che da’ suoi gioghi a te versa Apennino! Lieta dell’äer tuo veste la Luna di luce limpidissima i tuoi colli per vendemmia festanti, e le convalli popolate di case e d’oliveti mille di fiori al ciel mandano incensi: e tu prima, Firenze, udivi5 il carme che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco6, e tu i cari parenti7 e l’idïoma desti a quel dolce di Calliope8 labbro che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma d’un velo candidissimo adornando, rendea nel grembo a Venere Celeste9: Ma più beata ché in un tempio accolte serbi l’Itale glorie, uniche forse da che le mal vietate10 Alpi e l’alterna onnipotenza delle umane sorti armi e sostanze t’invadeano ed are e patria e, tranne la memoria, tutto.

3. E l’arca… Celesti: la tomba di Michelangelo, che progettò la basilica di San Pietro a Roma. L’Olimpo è il monte su cui i Greci collocavano la dimora degli dèi. 4. e di chi… firmamento: si allude qui a Galileo, che Foscolo, nelle proprie note, definisce precursore di Newton (cui dobbiamo la legge della gravitazione universale). 5. e tu… udivi: Foscolo, come afferma nelle proprie note, accoglie qui la notizia (la cui fonte è Boccaccio) secondo cui i primi canti dell’Inferno erano stati scritti a Firenze. La digressione su Firenze, nei vv. 165-179, ha tre funzioni: citare Dante e Petrarca, che, non essendo sepolti in Santa Croce, sarebbero altrimenti esclusi dal discorso; delineare una cornice naturale di particolare bellezza (le felici aure, i lavacri, la luce limpidissima, i colli festanti di vendemmie, le case e gli oliveti, i fiori dell’impareggiabile panorama fiorentino) intorno alla chiesa-cimitero di Santa Croce; allargare l’obiettivo dalla chiesa alla città e al suo paesaggio circostante in funzione di un’ulteriore apertura sull’Italia, sostenendo poi la tesi che i luoghi in cui sono sepolti i “grandi” hanno bellezza e funzione particolari. L’argomento sarà sviluppato successivamente. 6. Ghibellin fuggiasco: Dante Alighieri è qui definito ghibellino, mentre era guelfo bianco: la definizione, inesatta,

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vv. 159-185 e la tomba di [Michelangelo] colui che progettò ed edificò a Roma la cupola di San Pietro, tanto bella da essere paragonabile alla stessa sede degli Dèi sull’Olimpo; e la tomba di [Galileo] colui che vide più mondi ruotare nella volta celeste illuminati dal sole, immobile e loro centro, per cui per primo indicò la strada corretta dell’osservazione astronomica all’inglese [Newton], che tanto importanti scoperte compì nel campo astronomico; te beata, gridai [o Firenze], per la tua aria salutare, fecondatrice e per le acque che dalle montagne l’Appennino riversa su di te! La luna, felice per questa tua aria, illumina di luce nitida e luminosa i tuoi colli, rigogliosi di vigneti, e le vallate piene di case e di oliveti emanano mille profumi di fiori. E tu per prima, Firenze, hai ascoltato i versi con i quali l’esule ghibellino [Dante] alleviò il suo sdegno, e hai dato anche genitori e lingua al dolce poeta [Petrarca] ispirato dalla Musa Calliope, il quale, spiritualizzando l’amore pagano e sensuale proprio della cultura greca e romana, lo affidò alla Venere spirituale, dea celeste dell’amore; ma sei ancor più felice perché conservi in un unico tempio le glorie italiane, forse le uniche vere glorie, da quando l’incapacità di difendere i confini delle Alpi e l’alternarsi delle sorti che esercitano il loro potere sugli uomini, resero l’Italia preda degli invasori che si impadronirono delle armi, della ricchezza, dei monumenti, del patrio suolo e di ogni cosa tranne la memoria [della passata grandezza].

accentua polemicamente il senso della posizione politica di Dante, fautore dell’impero, della monarchia universale e autore del trattato De monarchia, in cui distingue le sfere di competenza dei due istituti universali della Chiesa e dell’Impero, assegnando alla prima il compito di guida spirituale dell’umanità e al secondo quello di guida politica. 7. parenti: genitori (dal latino parens). Petrarca, come ricorda Foscolo nelle proprie note, era nato ad Arezzo da genitori fiorentini esiliati. 8. Calliope: musa della poesia epica, ma qui della poesia in generale; è questo un riconoscimento alla lirica petrarchesca, considerata da Foscolo poesia “alta”. 9. Venere Celeste: Petrarca interpretò in senso spirituale l’amore, che era stato cantato come passione nella letteratura classica, greca e romana. Infatti, il Canzoniere di Petrarca si chiude con la canzone alla Vergine Maria, secondo molte interpretazioni definita qui da Foscolo Venere Celeste. Foscolo, però, smentisce nelle proprie note tale interpretazione, scrivendo: Gli antichi distingueano due Veneri: una terrestre e sensuale, l’altra celeste e spirituale. A tale Venere spirituale, citata da Platone nel Convito, egli afferma di riferirsi. 10. mal vietate: mal difese.

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Che ove speme di gloria agli animosi intelletti rifulga ed all’Italia, quindi trarrem gli auspicj. E a questi marmi venne spesso Vittorio11 ad ispirarsi. Irato a’ patrii Numi, errava muto ove Arno è più deserto, i campi e il cielo desïoso mirando; e poi che nullo vivente aspetto gli molcea la cura qui posava l’austero; e avea sul volto il pallor della morte e la speranza. Con questi grandi abita eterno: e l’ossa fremono amor di patria. Ah sì! da quella religïosa pace un Nume parla: e nutría contro a’ Persi in Maratona12 ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi, la virtù greca e l’ira. Il navigante13 che veleggiò quel mar sotto l’Eubea, vedea per l’ampia oscurità scintille balenar d’elmi e di cozzanti brandi, fumar le pire igneo vapor, corrusche d’armi ferree vedea larve guerriere cercar la pugna; e all’orror de’ notturni silenzi si spandea lungo ne’ campi di falangi un tumulto e un suon di tube, e un incalzar di cavalli accorrenti scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

vv. 186-195 Perché da qui [da Firenze], se la speranza di gloria risplenderà per i coraggiosi e per l’Italia, potremo trarre il presagio del riscatto e l’ispirazione e la forza per riconquistare la libertà. Vittorio [Alfieri] venne a visitare proprio queste tombe per trarne ispirazione. Sdegnato contro il destino della patria e per la condizione di servitù dell’Italia, si aggirava silenzioso lungo le rive più deserte dell’Arno, scrutando, desideroso [di un segno di cambiamento], la campagna e il cielo, e dal momento che nessun essere vivente poteva alleviare le sue preoccupazioni e i suoi affanni, qui solenne e severo si fermava; e sul suo volto c’erano un pallore mortale e la speranza. vv. 196-212 Ora insieme a questi magnanimi dimora per l’eternità e i suoi resti vibrano di amor patrio. Ah sì! Da quella pace eterna e sacra un Nume parla: la stessa voce che alimentava il valore e la combattività, l’ardore bellico dei Greci nella battaglia contro i Persiani a Maratona, dove Atene consacrò i sepolcri per i suoi eroi caduti. Il marinaio che si trovava a navigare per quel mare presso la penisola dell’Eubea vedeva lampeggiare nella vasta oscurità le scintille che sprizzavano dall’urto degli elmi e delle spade, il fumo infuocato dei roghi, vedeva sagome di guerrieri con i ferri delle armi rilucenti correre alla battaglia, e nello spaventoso silenzio della notte, lungamente si diffondeva nella campagna un concitato movimento di schiere armate e il suono delle trombe di guerra e un veloce galoppo di cavalli che risuonava sugli elmi dei caduti, il canto del vincitore e il canto di morte delle Parche.

da Poesie e carmi, a cura di F. Pagliai, G. Folena, M. Scotti, Le Monnier, Firenze, 1985

11. Vittorio: Vittorio Alfieri. Commenta Foscolo: Così io scrittore vidi Vittorio Alfieri negli ultimi anni della sua vita. Alfieri è qui connotato come patriota e come poeta melanconico, nel quale si coniugano senso della morte e sentimento della speranza, ciò che riflette il contrasto drammatico tipico di Foscolo fra illusioni e disincanto; è importante che proprio Alfieri, in quanto proiezione di Foscolo, impersoni la continuità fra l’antico e il moderno, sulla base della voce cui viene attribuito un valore sacro (un Nume parla). Vittorio Alfieri è simbolo di Foscolo per il suo temperamento passionale, malinconico (errava muto) e angosciato (la cura), per la sua ricerca spasmodica di ideali (desïoso mirando), la sua intransigenza (l’austero) e per la sua passione politica (Irato a’ patrii Numi). Il passo che fa riferimento all’alterna / onnipotenza delle umane sorti rinvia alla concezione del filosofo Giambattista Vico, che ipotizza l’esistenza di un eterno avvicendarsi di cicli storici che può comportare la decadenza o il crollo di grandi civiltà. 12. Maratona: la battaglia vittoriosa dei Greci contro i Persiani nel 490 a.C.; una battaglia di difesa e quindi legittima, secondo l’ideologia romantico-risorgimentale, in quanto combattuta contro lo straniero invasore. La transizione affermativa Ah sì! lega l’amore di patria di Alfieri – e quindi di Foscolo – alla battaglia di Maratona. Questo è uno snodo decisivo dei Sepolcri, attraverso il quale si pongono le premesse di tutta la parte finale del

carme, nel segno della poesia erede del sepolcro ed eternatrice di memoria. Dall’attualità (la situazione italiana, le tombe di Santa Croce), attraverso la figura di Vittorio Alfieri (l’amor patrio e la poesia), Foscolo passa, per analogia, a Maratona e subito dopo, con uno scarto improvviso, allo spazio-tempo del mito, in cui la battaglia continua a essere combattuta, simbolo perenne della lotta per la libertà. 13. Il navigante: la battaglia è vista, raccontata e fissata nella memoria dal navigante che ha solcato il mare dinanzi alla costa di Maratona: nelle proprie note, Foscolo si riferisce a Pausania (II secolo d.C.), lo scrittore greco che accenna nella sua opera alla tradizione secondo cui la battaglia di Maratona si rinnova ogni notte, con apparizione – come precisa l’autore – di fantasmi di combattenti. A livello interpretativo, ciò è dovuto alla straordinaria capacità di conservazione della memoria che è propria dei sepolcri (le tombe degli eroi caduti a Maratona) e ancor più della letteratura (Pausania) e della poesia (Pindemonte). Il passo della visione notturna di Maratona, di gusto romantico, è di grande effetto emotivo, per il ritmo incalzante delle scene di battaglia, che si susseguono vertiginosamente ritmate dal polisindeto (e… e… e…) e dalle allitterazioni delle liquide, delle nasali e delle dentali sorde e sonore (incalzar di cavalli accorrenti / scalpitanti su gli elmi a’ moribondi). Essa si conclude con l’immagine, fortemente emblematica, del canto delle Parche, che rappresentano il destino umano.

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inee di analisi testuale Un attacco solenne La celebre sequenza dei Sepolcri dedicata ai “grandi” (i forti) sepolti in Santa Croce inizia nel segno della solennità oratoria. Le costruzioni sono ricche di inversioni e di iperbati, di vocativi enfatici (o Pindemonte; te beata; e tu… Firenze), il lessico e lo stile sono ricercati (arca, Celesti, etereo padiglion, lavacri, äer, ecc.) come – nel verso introduttivo – il ricorso all’endecasillabo sdrucciolo (accendono). I primi due versi, che fungono da transizione, hanno un marcato valore asseverativo, rinforzato dall’enfasi evidenziata dall’enjambement (egregie, forte / forti) e dal chiasmo (forte animo / urne de’ forti). Di particolare significato la ripetizione del termine forte: il sepolcro funziona da trasmettitore di valori morali e civili se il morto e il vivo sono dotati di un animo forte. Tra i grandi di Santa Croce Dopo Michelangelo, celebrato come il simbolo dell’arte del Rinascimento, Machiavelli e Galileo vengono messi in evidenza in quanto rappresentano momenti ed espressioni culturali di grande importanza per Foscolo: Machiavelli – del cui pensiero viene proposta una rilettura personale dell’autore – è il simbolo della politica, che tanta parte ha nella sua vita; Galileo rappresenta la scienza che rifiuta l’accademismo e l’aristotelismo dogmatico in nome della ricerca laica e indipendente. Dopo la transizione dell’invocazione a Firenze, Foscolo introduce il canone dei grandi che più ama, i poeti. La passione politica e quella amorosa, i due temi fondamentali nella poesia di Foscolo, sono personificate dai grandi fiorentini per eccellenza, Dante e Petrarca: Foscolo non li nomina direttamente, per sottolineare quanto la fama e le opere li rendano noti con un solo accenno (il ghibellin fuggiasco, l’Amore purificato...) a ogni italiano. Il primo è considerato poeta dalle forti passioni civili; il secondo, poeta lirico, cantore dell’amore e del sentimento. Alfieri compare – citato solo per nome – come una sorta di alter ego di Foscolo, che unisce in sé le caratteristiche di Dante e Petrarca: l’ira (cioè l’amor patrio, lo sdegno contro l’acquiescenza ai tiranni stranieri) e la melanconia (la poesia lirica). Foscolo fissa i momenti significativi del genio italiano: le origini con gli scrittori toscani (Dante e Petrarca); il Rinascimento delle arti e delle scienze (Michelangelo, Machiavelli, Galileo); l’età moderna, che vede rappresentata da Parini e Alfieri, fautori di una poesia eticamente e civilmente impegnata.

Monumento a Ugo Foscolo. Firenze, Basilica di Santa Croce. I resti di Foscolo sono stati portati in Santa Croce molti anni dopo la sua morte in Inghilterra.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Quali sono i luoghi geografici citati in questa sezione del carme e quale funzione rivestono? 2. Quali sono i grandi personaggi ricordati da Foscolo e quale ruolo viene loro attribuito? Analisi e interpretazione 3. Quali sono le caratteristiche formali e stilistiche dei primi versi di questa celebre sezione dei Sepolcri? 4. Analizza alcune delle figure retoriche presenti nel testo e illustrane la funzione. 5. Spiega da quali elementi contenutistici si riconoscono Dante e Petrarca nei versi di Foscolo e chiariscine le ragioni poetiche e storiche. Approfondimenti 6. Se sei stato a visitare Santa Croce a Firenze o hai avuto occasione di accostarti – magari nella tua città – alle sepolture di personaggi significativi a livello nazionale o locale, spiega perché sono diventati celebri e descrivi le emozioni che hai provato davanti ai monumenti, confrontandole con i versi di Foscolo che hai letto.

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T14 La creazione del mito poetico della tomba da Dei sepolcri, vv. 213-295 Nell’ultima parte del carme, Foscolo dispiega la prospettiva poetico mitica del sepolcro, che sopravvive alla stessa scomparsa del monumento materiale. Questa estrema sopravvivenza è affidata alla funzione eternatrice della poesia. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • Il riferimento alla poesia eternatrice di Omero • La parola profetica di Cassandra e l’eroismo di Ettore • Tono epico e commosso

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Felice te che il regno ampio de’ venti, Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!1 E se il piloto2 ti drizzò l’antenna oltre l’isole Egée, d’antichi fatti certo udisti suonar dell’Ellesponto3 i liti, e la marea mugghiar portando alle prode Retée4 l’armi d’Achille sovra l’ossa d’Ajace5: a’ generosi giusta di glorie dispensiera è morte; né senno astuto, né favor di regi all’Itaco le spoglie ardue serbava, ché alla poppa raminga le ritolse l’onda incitata dagl’inferni Dei. E me che i tempi ed il desio d’onore fan per diversa gente ir fuggitivo, me6 ad evocar gli eroi chiamin le Muse del mortale pensiero animatrici. Siedon custodi de’ sepolcri e quando il tempo con sue fredde ale vi spazza fin le rovine, le Pimplée7 fan lieti di lor canto i deserti, e l’armonia vince di mille secoli il silenzio.

1. Felice te... correvi!: la transizione Felice te è una ripresa del dialogo con l’amico Ippolito Pindemonte, un richiamo all’inizio del carme e alla sua natura colloquiale; è altresì l’anello di congiunzione con la sequenza precedente. 2. piloto: nocchiero, timoniere della nave. 3. Ellesponto: il mare dello stretto dei Dardanelli, vicino a Troia. 4. prode Retée: il mare delle rive del promontorio Reteo, vicino a Troia. Queste acque, personificate, hanno raccontato al poeta amico le loro storie mitiche. 5. Ajace: Foscolo, nelle proprie note, rievoca dettagliatamente la vicenda delle armi di Achille, assegnate ad Aiace Telamonio poiché era il più forte dei Greci dopo Achille, e di cui si era impossessato Ulisse con l’astuzia; in un naufragio Ulisse perse le armi, che furono riportate dal mare sulla tomba di Aiace, situata sul promontorio Reteo. Ippolito, al tempo del suo viaggio in Grecia, ha potuto assistere alla vicenda delle armi di Achille sottratte alla nave di Ulisse e trasportate dalle onde sulla tomba di Aiace perché è un poeta, e la poesia si nutre di miti ed è continuatrice della

vv. 213-225 Felice te, Ippolito, che negli anni della gioventù navigavi per il vasto mare [della Grecia] attraversato dai venti! Se il timoniere ha fatto rotta verso le isole dell’Egeo, certo hai udito riecheggiare dalle coste dell’Ellesponto gli antichi eventi e il rumore cupo della marea che trasportava verso il promontorio Reteo le armi di Achille per depositarle [lì,] sulla tomba di Aiace: la morte è giusta distributrice di gloria ai magnanimi; né l’intelligenza e l’astuzia, né l’appoggio dei potenti poterono assicurare a Ulisse le armi di Achille difficili da ottenere, perché alla nave in viaggio le sottrasse un’onda scagliata dagli dèi dei morti [e le trasportò sulla tomba di Aiace]. vv. 226-234 E me che la malvagità dei tempi presenti e il desiderio di gloria fanno peregrinare esule fra diversi popoli, me le Muse [della poesia], che suscitano il pensiero degli uomini, investano del compito di evocare le gesta degli eroi. Esse stanno a custodia dei sepolcri e quando la morte con le sue ali fredde cancella anche le loro macerie, le [Muse] Pimplèe allietano con il loro canto i deserti, e l’armonia [della loro voce] prevale sul silenzio di innumerevoli secoli.

memoria dei sepolcri (in questo caso, la tomba di Aiace). 6. E me... me: la transizione con l’enfatica ripetizione del pronome me sottolinea la figura del poeta esule e patriota (desio d’onore… fuggitivo) in controtendenza con la bassezza dei tempi, e segna un prepotente ritorno alla ribalta dell’io dell’autore, il cui compito è di tramandare le gesta dei magnanimi. Come Ippolito (cui allude il valore rafforzativo della transizione: E me significa “e anche me”), Foscolo si sente chiamato dalle Muse a evocare gli eroi. 7. Pimplée: le Muse, abitatrici del monte Pimpla. Anche le tombe sono sottoposte alla forza distruttiva del tempo, ma il messaggio che racchiudono può essere fatto proprio dalla poesia e, grazie ad essa, conservato e trasmesso per l’eternità. Il motivo dello stretto legame fra tomba e poesia è espresso dall’immagine delle Muse (le Pimplée) che cantano mentre siedono a custodia dei sepolcri (immagine che richiama quella della madre presso la tomba del fratello Giovanni). Il canto delle Muse che allietano i deserti e vincono di mille secoli il silenzio è splendida metafora della poesia che supera la distanza storica, l’oblio e la morte.

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Ed oggi nella Tróade inseminata eterno splende a’ peregrini un loco eterno per la Ninfa8 a cui fu sposo Giove, ed a Giove die’ Dárdano figlio onde fur Troja e Assáraco e i cinquanta talami e il regno della Giulia gente. Però che quando Elettra udì la Parca9 che lei dalle vitali aure del giorno chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove mandò il voto supremo: E se, diceva, a te fur care le mie chiome e il viso e le dolci vigilie, e non mi assente premio miglior la volontà de’ fati, la morta amica almen guarda dal cielo onde d’Elettra tua resti la fama. Così orando moriva. E ne gemea l’Olimpio; e l’immortal capo accennando piovea dai crini ambrosia su la Ninfa e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba. Ivi posò Erittonio10, e dorme il giusto cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando da’ lor mariti l’imminente fato; ivi Cassandra11, allor che il Nume in petto le fea parlar di Troja il dì mortale, venne; e all’ombre cantò carme amoroso, e guidava i nepoti, e l’amoroso apprendeva lamento a’ giovinetti. E dicea sospirando: Oh, se mai d’Argo12, ove al Tidide13 e di Laérte al figlio14 pascerete i cavalli, a voi permetta ritorno il cielo, invan la patria vostra cercherete! Le mura opra di Febo15 sotto le lor reliquie fumeranno.

8. Ninfa: Elettra, sposa di Zeus, con il quale procreò Dardano, avo a sua volta di Troo, il quale, fra gli altri, ebbe due figli: Assaraco, capostipite della stirpe di Enea e quindi della gens Iulia e di Roma, e Ilo, fondatore di Troia e padre di Priamo, padre di cinquanta figli sposati (cinquanta talami). 9. Parca: le Parche erano tre, Cloto, Lachesi e Atropo: loro funzione era tessere, misurare e recidere il filo della vita. La narrazione della vicenda di Troia inizia nel segno di Elettra, la cui preghiera di morente a Giove è riportata in discorso diretto, così come sarà in discorso diretto, per bocca di Cassandra, il finale dei Sepolcri, come per far risuonare la voce stessa della poesia che nasce dal sepolcro. La tomba di Elettra è stata un luogo sacro per i Troiani (...fe’ sacro quel corpo e la sua tomba) e lo è ancora oggi (eterno splende a’ peregrini un loco) grazie al mito (d’Elettra tua resti la fama) e alla poesia (l’ambrosia che cade dai capelli di Giove va interpretata come simbolo dell’origine divina della poesia e della sua forza eternatrice). Inoltre, Foscolo annota notizie riguardanti viaggiatori che, ai suoi tempi, avrebbero scoperto le reliquie del sepolcro d’Ilo antico Dardanide. 10. Erittonio: figlio di Dardano e padre di Troo, uno dei

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vv. 235-253 E nella terra in cui sorgeva Troia, oggi abbandonata e deserta, riluce per sempre ai viaggiatori un luogo reso eterno dalla Ninfa [Elettra], amata da Giove, madre di Dardano, fondatore di Troia, da cui ebbero origine Troia e i cinquanta figli sposati di Priamo, Assaraco e l’impero di Roma attraverso la stirpe Giulia [discendente da Enea]. Infatti, quando Elettra sentì [vicina la morte e] che la Parca la richiamava dall’esistenza terrena alle danze dell’Eliso, elevò la sua estrema e sublime preghiera [a Giove]: “Se - diceva - ti furono cari i miei capelli, il mio volto e le dolci veglie d’amore, e se il Fato non mi concede il sommo premio [dell’immortalità], almeno proteggi dall’alto dei cieli la tua amica morta, affinché resti la fama della tua Elettra”. Così moriva pregando. E Giove ne piangeva; e, scuotendo la testa immortale, faceva piovere dai capelli ambrosia sulla Ninfa, e rese sacro quel corpo e la sua tomba. vv. 254-268 Lì in quella tomba giace Erittonio [figlio di Dardano] e riposa il corpo del giusto Ilo [suo figlio]; lì le donne troiane andavano a pregare [sciogliendosi i capelli], invano, ahimè! tentando di scongiurare l’incombente prossimo destino dei loro sposi; lì [la profetessa troiana] Cassandra giunse quando il dio [Apollo], da cui era posseduta, le faceva predire il giorno della caduta e della distruzione di Troia; e cantò per i defunti un canto pietoso e guidava i nipoti e insegnava ai giovani l’affettuoso lamento funebre. E diceva sospirando: “Oh, se il cielo vi consentirà di tornare dalla Grecia dove sarete stallieri di Diomede figlio di Tideo e di Ulisse figlio di Laerte, invano cercherete la vostra patria! Le mura, opera di Apollo, giaceranno incenerite sotto le rovine.

primi re di Troia, fu sepolto con Elettra in quanto Foscolo, nelle proprie note, rifacendosi ad autori greci e latini, fa risalire l’origine di Dardano, e dunque della stirpe dei re troiani, da Giove e da Elettra figlia di Atlante. La tomba di Elettra è dunque nel cimitero dei grandi di Troia, dove l’iliache donne durante la guerra vennero a pregare per la salvezza dei loro mariti. Essa è la replica, sul piano del mito e della poesia, di ciò che la chiesa di Santa Croce rappresenta sul piano storico-culturale per l’Italia. 11. Cassandra: una delle figlie di Priamo, dotata di capacità profetiche, ma destinata, per la maledizione di Apollo, a non essere creduta. La figura di Cassandra simboleggia la stessa difficoltà che incontrano i poeti a essere creduti e incarna la sacralità della poesia, cui Foscolo attribuisce una funzione profetica. 12. d’Argo: dalla Grecia. Argo era una importante città dell’antica Grecia: si tratta di una metonimia. 13. Tidide: Diomede, figlio di Tideo, eroe greco che partecipò alla guerra di Troia. 14. Laérte al figlio: Ulisse, figlio di Laerte. Cassandra profetizza ai giovinetti nipoti il loro destino di vinti e di prigionieri. 15. Febo: Apollo.

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Ma i Penati16 di Troja avranno stanza in queste tombe; ché de’ Numi è dono servar nelle miserie altero nome. E voi, palme e cipressi17 che le nuore piantan di Priamo, e crescerete ahi presto di vedovili lagrime innaffiati, proteggete i miei padri: e chi la scure asterrà pio dalle devote frondi men si dorrà di consanguinei lutti e santamente toccherà l’altare. Proteggete i miei padri. Un dì vedrete mendico un cieco18 errar sotto le vostre antichissime ombre, e brancolando penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne, e interrogarle. Gemeranno gli antri secreti, e tutta narrerà la tomba Ilio raso due volte e due risorto splendidamente su le mute vie per far più bello l’ultimo trofeo ai fatati Pelidi19. Il sacro vate, placando quelle afflitte alme col canto, i Prenci Argivi eternerà per quante abbraccia terre il gran padre Oceáno20. E tu onore di pianti, Ettore21, avrai ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole risplenderà su le sciagure umane22.

vv. 269-295 Ma i Penati [divinità protettrici] di Troia resteranno nelle loro tombe; perché è prerogativa degli dei conservare gloriosa fama anche nella più totale e miseranda rovina. E voi, palme e cipressi che le nuore di Priamo ora piantano e che crescerete in fretta in quanto irrorati dalle lacrime delle vedove troiane, proteggete i miei antenati: e colui che con atto di religiosa pietà rispetterà l’integrità degli alberi sacri meno dovrà dolersi di lutti familiari e sarà degno di avvicinarsi all’altare. Proteggete i miei antenati. Un giorno vedrete un cieco mendicante [Omero] vagare sotto le vostre ombre secolari e a tentoni addentrarsi nei sepolcri e abbracciare le urne funerarie e interrogarle. Le profonde cavità risuoneranno dei lamenti dei sepolti i quali tutti narreranno la storia di Troia due volte distrutta e due volte risorta magnificamente, sulle sue strade silenziose e deserte, allo scopo di rendere più prestigiosa la vittoria finale dei discendenti di Peleo [Achille e Pirro], stabilita dal destino. Il sacro poeta [Omero], rasserenando quelle anime addolorate con il canto, consegnerà all’eternità la fama dei principi greci in tutte le terre delimitate dal grande padre Oceano. E tu, Ettore, sarai onorato e pianto dovunque sarà considerata sacra e sarà compianta la vita sacrificata per la patria e finché il Sole risplenderà sulle sventure umane”.

da Poesie e carmi, a cura di F. Pagliai, G. Folena, M. Scotti, Le Monnier, Firenze, 1985

16. Penati: gli antichi eroi venerati come dèi della patria. Cassandra profetizza che Troia sarà distrutta fino al punto di non poter più essere ritrovata dai Troiani reduci dalla schiavitù in terra greca (invan la patria vostra / cercherete!) ma anche, per contro, la durata delle tombe troiane (i Penati di Troia avranno stanza / in queste tombe), chiamate a conservare la memoria dei padri (servar nelle miserie altero nome). 17. palme e cipressi: il culto dei morti è officiato all’ombra dei cipressi e delle palme; i primi, simbolo di morte; le seconde, simbolo della gloria che nella morte si può realizzare attraverso la poesia. La profetessa aggiunge una maledizione contro chi profanerà le tombe. Le palme e i cipressi del cimitero di Troia custodiranno le tombe dei padri fino all’arrivo di Omero, che le interrogherà per trasferirne il racconto nella propria poesia e, dunque, per rendere eterna la memoria degli eroi greci e troiani tratta da quelle tombe. 18. mendico un cieco: Omero, anch’egli poeta esule, e non nominato se non per perifrasi, come nel sonetto In morte del fratello Giovanni, a indicarne la sacralità. L’immagine di Omero mendico (dunque, esule) e cieco (fisicamente cieco, ma autore di una poesia che va ben oltre la vista fisica), che entra brancolando nelle tombe e le abbraccia, le interroga, le placa e le consola con il suo canto, è di suprema commozione. Nel commentare il proprio passo, Ugo Foscolo cita uno stralcio – che tratta di Omero – del Carme in morte di Carlo Imbonati di Alessandro Manzoni, aggiungendo: Poesia di un giovane ingegno nato alle lettere e caldo d’amor patrio: la trascrivo per tutta lode, e per mostrargli quanta me-

moria serbi di lui il suo lontano amico. 19. Pelidi: Achille e suo figlio Pirro, figlio e nipote di Peleo. Le tombe narrano al poeta tutta la storia di Troia, superbo trofeo degli eroi greci, per inspiegabile volontà del destino. I due precedenti distruttori di Troia, come annota anche Foscolo, rifacendosi a Pindaro e all’Iliade, sono Ercole e le Amazzoni. Il passo sottintende un’analogia con la misera condizione dell’Italia dei tempi di Foscolo, vittima della inspiegabile alterna / onnipotenza delle umane sorti (vv.182-183). 20. Oceáno: gli antichi credevano che la terra fosse circondata dal fiume Oceàno. Di grande suggestione il richiamo finale all’immensità dello spazio. La figura di Omero riporta, per parallelismo, a quella di Foscolo: come la poesia di Omero ha eternato gli eroi della guerra di Troia, così anche Foscolo è chiamato a evocare gli eroi e a eternarli. 21. Ettore: il più forte degli eroi troiani, figlio di Priamo e marito di Andromaca, ucciso da Achille con cui accettò di battersi in difesa di Troia, pur sapendo che il Fato aveva stabilito che, in quel duello, avrebbe trovato la morte. Significativo il fatto che Foscolo citi Ettore – sconfitto e ucciso – come il vero eroe dell’Iliade (Omero nel proemio dichiara invece che il tema dell’opera è l’ira di Achille). Un forte parallelismo lega Foscolo a Ettore, esempio di tutti gli uomini che sacrificano la vita per la patria (il sangue / per la patria versato) e legato al mito romantico dell’eroe bello… di sventura (A Zacinto). 22. finché il Sole... umane: di grande suggestione il richiamo finale allo spazio e al tempo in cui vivono gli esseri umani, in una condizione di perenni sofferenze (sciagure).

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inee di analisi testuale Pindemonte in Grecia: poesia e mito La transizione che inizia con le parole Felice te è una ripresa della natura colloquiale-epistolare del dialogo ideale con Pindemonte e funge da congiunzione con la sequenza successiva del carme: il viaggio dell’amico Ippolito in Oriente richiama la tomba di Aiace cui il mare riportò le armi di Achille e poi l’affermazione della propria funzione di poeta eternatore dei sepolcri. I monumenti vivono anche al di là della loro stessa durata: la tomba di Aiace non esiste più, ma, grazie al mito e alla poesia, continua a trasmettere i suoi valori. Così i luoghi nei quali sorgevano i sepolcri dei grandi continuano a “parlare” ai visitatori. Perciò il mito della tomba di Aiace ha continuato a rivivere agli occhi di Pindemonte, poeta moderno in viaggio nei luoghi delle leggende e dei miti antichi. E come Pindemonte, un altro poeta moderno, a maggior ragione e con maggiori titoli, può compiere quel “viaggio”: Foscolo stesso. Omero e la poesia eternatrice Il quadro finale del carme richiama il poeta più antico e più grande della cultura occidentale e il suo più celebre poema guerriero, risolvendosi in una sintesi della personalità, della poetica e dell’ideologia di Foscolo. Significativo l’ultimo nome, quello di Ettore, un eroe sconfitto – così come il suo cantore Omero è povero e cieco –, tipica figura del “grande” romantico, che finisce per essere simbolo dell’integrazione tra classicismo e Romanticismo nella poesia foscoliana. L’uso delle figure retoriche Nel carme Foscolo non usa la figura retorica della similitudine, che sostituisce con le metafore e le personificazioni. In quest’ultima parte esse appaiono ardite e affascinanti, come quella dell’armonia che vince di mille secoli il silenzio, epico trionfo della parola poetica sul tempo, personificato come la forza che trasforma in silenzio ogni cosa; soprattutto la grande metafora finale del Sole che risplende sulle sciagure umane, la quale suggerisce una impossibile illuminazione di sentimenti, che sono invece realtà del tutto interiori. La potenza evocativa delle immagini La forza immaginifica di Foscolo, evidenziatasi nei molti quadri indimenticabili – quello rapido di apertura, divenuto proverbiale (All’ombra de’ cipressi), il lugubre notturno cimiteriale dedicato a Parini, le tetre sepolture medievali di contro alla solarità dei riti funebri classici, il paesaggio dei colli intorno Firenze (Lieta dell’aer tuo veste la Luna / di luce limpidissima i tuoi colli...), la battaglia di Maratona – in questa parte conclusiva fa dono delle visioni sotto le palme e dipinge i cipressi del cimitero di Troia.

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Comprensione 1. Riassumi il finale del carme in non più di 20 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Quale valore assume la figura di Omero nel contesto del carme? b. Che cosa si intende per transizioni e in quali versi dell’ultima parte del carme sono presenti? c. Perché Foscolo ha attuato la scelta di non usare similitudini nel testo? d. Quali sono i più rilevanti esempi di metafore presenti nel testo e quale ne è la funzione? e. Quali sono gli aspetti e i passi di tendenza romantica nel finale del carme? f. Quali sono gli elementi che derivano da idee illuministe nel contesto generale dell’opera? g. Quali sono i passi e gli aspetti del carme in generale – e in particolare nel finale – che maggiormente si accostano al classicismo? Approfondimenti 3. Il critico Giovanni Getto ha osservato come il sentimento dello spazio e il sentimento del tempo costituiscano i due principali motivi conduttori dei Sepolcri, che danno unità e continuità tematica al carme. Essi chiamano in causa tutte le loro dimensioni, dalla più piccola alla più grande: dall’angolo di camposanto da cui inizia il carme (All’ombra de’ cipressi), agli spazi ampi della natura; dai luoghi della storia a quelli del mito; da una chiesa e da una città si arriva ad abbracciare la terra intera; dal tempo breve della vita e della memoria individuale si passa a quello più ampio della storia e della civiltà, e a quello cosmico della natura. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento: Lo spazio e il tempo nei Sepolcri.

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

Il mondo pieno e concreto dei Sepolcri

Francesco De Sanctis

Francesco De Sanctis inquadra con chiarezza, pur nella linea degli indirizzi risorgimentali ottocenteschi, il rapporto società-storia-uomo-opera in Foscolo, sottolineando la sintesi che egli crea tra la “forma” e un “contenuto” ricco per profondità di sentimento e di ideali. In tale prospettiva, De Sanctis individua una linea evolutiva che, partendo dall’Ortis, attraversa le Odi e i Sonetti e giunge a compimento nei Sepolcri, indicati come capolavoro. Con la definizione di Foscolo come “poeta dei Sepolcri”, De Sanctis consegna alla critica successiva il tema centrale della convergenza nella cultura e nella poetica foscoliana di Illuminismo, Romanticismo e Neoclassicismo, e della loro conflittualità o armonica fusione. In questo carme Foscolo sviluppa tutte le sue forze, e in quel grado di verità e di misura che è proprio di un ingegno già maturo. Quel suo sentimentalismo petrarchesco della prima giovinezza, quel suo fosco lezioso e caricato alla maniera di Rousseau o di Young, è appena un velo di mestizia sparso sopra il pensiero, che gli dà un raccoglimento e una solennità quasi religiosa. Ti par di essere in un tempio, e che la tua anima si apra ai sentimenti più elevati. Quella energia tribunizia, un po’ declamatoria, che senti nelle imprecazioni di Jacopo, qui acquista il tono pacato di una forza sicura e misurata. Quel suo filosofismo, malattia del secolo, e che è anche malattia di Jacopo, il quale prima di uccidersi ti dà una filosofia del suicidio, qui è altezza di meditazione profondata nelle più intime regioni della moralità umana. Quel suo classicismo di obbligo, una specie di abbellimento convenzionale, entro il quale la vita perde la purità dei suoi lineamenti, qui lascia la sua faccia mitologica e diviene umano. Ilio e la Troade1 ci è così vicino, come Firenze e Santa Croce. Quella sua vasta erudizione, quel mondo del pensiero umano sigillato nella sua memoria, quei riti religiosi, quei costumi di popoli, quelle sentenze di oratori e filosofi, quei frammenti poetici, qui gli ritornano avvivati nel foco della sua immaginazione, attratti nell’armonia del suo mondo, e gli galleggiano innanzi come natura vivente; fantasmi di tutte l’età e di tutte le genti, penetrati e fusi da un solo spirito e divenuti contemporanei. Quella sua abilità tecnica, che nelle Odi mostra ancora le sue punte e le sue reminiscenze, qui è l’eco immediata e armonica di un mondo superiore e in lontananza, di cui, non sai come, ti giungono i riflessi, le ombre e i susurri. Tutte queste forze sparpagliate, esitanti, che non avevano ancora trovato un centro, sono raccolte e riconciliate in questo mondo pieno e concreto, dove ciascuna trova nelle altre il suo limite o la sua misura. L’Italia non avea ancora visto niente di simile. La lirica, quale te la dava Monti o Cesarotti, era “cadenza melodrammatica”, un prolungamento di Metastasio. Sotto forme dantesche il fondo rimaneva sempre arcadico, puramente letterario. La coscienza era estranea a quel lavoro dell’immaginazione: malattia dello spirito italiano da gran tempo. Quella vuota forma, dopo di aver per più secoli esaurita se stessa, finiva cantabile e musicabile, mera sonorità. Quando la forma non era vuota, era falsa e ipocrita, esprimendo sentimenti non partecipati dall’anima, amori senza amore, e un patriottismo senza patria, una religione senza fede, e uno sfoggio di sentenze nobili e morali senza moralità. Il mondo poetico era tutto superficie, un mondo esterno formato dall’immaginazione, senza alcuna eco di dentro: indi quel suo carattere convenzionale e rettorico. Bisognava rifare un mondo interiore, ricostituire la coscienza. Questo lavoro iniziato nelle lettere da Parini e Alfieri era continuato in Foscolo, non senza un po’ di orpello e di rettorica perché, anch’essi, si dimenavano nel vuoto; quel loro mondo, patria, libertà, scienza, virtù, gloria era ancora in idea, semplice aspirazione. Ne’ Sepolcri apparisce2 per la prima volta nel suo carattere d’intimità, come un prodotto della coscienza e del sentimento. Questa prima voce della nuova lirica ha non so che di sacro, come un Inno: perché infine ricostituire la coscienza è ricostituire nell’anima una religione. La pietà verso i defunti, il culto delle tombe è prodotto da’ motivi più elevati della natura umana, la patria, la famiglia, la gloria, l’infinito, l’immortalità: tutto è collegato, tutto è una corda sola nel santuario della coscienza. Una poesia tale annunziava la risurrezione di un mondo interiore in un popolo oscillante tra l’ipocrisia e la negazione. Non è già che Foscolo smentisca sé stesso. C’è sempre in lui del vecchio Jacopo. La sua filosofia è in aperta contraddizione col suo cuore. Jacopo diceva: – A che serve la scienza? a che serve la vita? –. Foscolo dice: – A che servono i sepolcri? “è forse men duro il sonno della morte all’ombra de’ cipressi e dentro le urne confortate di pianto?”. Come la scienza e come la vita, così la pietà dei defunti non è che una illusione. Ma in Jacopo si sente l’amarezza del disinganno che gli fa rifiutare ogni consolazione e cacciar da sé tutte le sue illusioni. Foscolo si è riconciliato con la vita, e di quel sentimento amaro non gli rimane che un: pur troppo! “Vero è ben, Pindemonte!” E non respinge le sue illusioni, ma

1. Ilio e la Troade: la città di Troia e la regione in cui essa era situata.

2. apparisce: forma meno nota per “appare”.

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le cerca, le nutre, le difende in nome della natura umana contro la dura verità. La nuova legge che contende il nome a’ morti e vuole in una fossa comune Parini e il ladro, offende in lui l’“homo sum3”, il suo sentimento di uomo. Sia pure un’illusione; anzi purtroppo è una illusione; ma, come Diogene4, ha l’aria di dire a quei nuovi legislatori: – “Lasciatemi libere le mie illusioni!” –. Il culto delle tombe era fondato sulla credenza dell’immortalità dello spirito, della risurrezione dell’uomo in un altro mondo: ivi attinge Young le sue aspirazioni. Pur troppo questo non è: mancata è questa illusione. Ma potete voi distruggermi la natura umana? E nella natura umana cerca Foscolo la nuova poesia delle tombe. Il nulla eterno, quel pensiero che rode Jacopo e lo affretta alla morte, qui si riempie di calore e di luce; le urne gemono, le ossa fremono, i morti risorgono nell’affetto e nell’immaginazione dei vivi. – E tu perché lasci sulla terra una famiglia, una patria, la tua memoria, scendi consolato nella tomba, sicuro di sopravvivere. Quella tomba sei tu: e là, cenere muto, vivi ancora, operi, hai un’azione sull’umanità. Là, tu parli ancora a’ tuoi, tu raccomandi a’ concittadini la santità della vita, tu ispiri i fatti magnanimi; là vengono a interrogarti i secoli, a evocarti i poeti e gli eroi; e tu produci ancora, tu generi di te i grandi uomini. – Su questa base generale della natura umana sorge la fraternità de’ secoli e delle nazioni, e i fantasmi d’Ilio e di Maratona5 si confondono con le ombre di Galileo e di Alfieri: mitologia, antichità, tempi moderni sono inviluppati in una stessa atmosfera, parlano la lingua universale delle tombe, e la pietà delle prime “umane belve” e la “pietosa insania” delle vergini britanne ti par contemporanea. Mondo delle ombre e delle illusioni, da cui esce rifatto il mondo interiore della coscienza, esce l’uomo restituito nella sua fede, ne’ suoi affetti e ne’ suoi sentimenti; perché solo chi ha viscere umane, che ha coscienza d’uomo, può trovare ne’ sepolcri quelle ombre e quelle illusioni. I monumenti marmorei sono inutile pompa a quelli che non hanno vita interiore, e che ancor vivi sono già uomini morti e seppelliti. Tale è questo mondo di Foscolo, il risorgimento delle illusioni, accanto al risorgimento della coscienza umana. L’immaginazione non ci sta per sé, e non lavora dal di fuori, come è in Vincenzo Monti; ma è il prodotto della coscienza, è fatta attiva da’ sentimenti più delicati e più virili della vita pubblica e privata. O piuttosto non è semplice immaginazione, è fantasia, che è nell’arte quello che nella vita è la coscienza, il centro universale e armonico dello spirito. da Ugo Foscolo, poeta e critico, in Saggi critici, a cura di L. Russo, III, Laterza, Bari, 1952

3. homo sum: espressione latina che significa “sono un uomo”. 4. Diogene: filosofo greco vissuto tra il 400 e il 325 a.C. circa.

LA NOTIZIA La traduzione da Sterne e la Notizia

Caratteristiche del Viaggio sentimentale

La Notizia come educazione sentimentale

INTORNO A

5. Maratona: città dell’antica Grecia, celebre per la vittoria riportata dagli Ateniesi nel 490 a.C. sull’esercito persiano di Dario.

DIDIMO CHIERICO

A Firenze, nel 1812, Foscolo completa la traduzione del Viaggio sentimentale di Laurence Sterne, iniziata negli anni 1804-1806, e la pubblica con il titolo Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, corredandola di note, e con l’aggiunta dello scritto Notizia intorno a Didimo Chierico, nome fittizio del curatore e traduttore dell’opera, sotto cui si cela lo stesso Foscolo. Il libro viene stampato a Pisa nel 1813. Il Viaggio sentimentale è l’ultima opera di Laurence Sterne (1713-1768). Si tratta del primo esempio di un genere letterario che avrà grande successo in tutta Europa: una narrazione di viaggio basata non sui grandi avvenimenti, sulla descrizione dei paesaggi e dei monumenti celebri, sugli incontri con personaggi importanti della storia e della cultura, ma sulle circostanze più minute, gli incontri con la gente comune, la realtà della vita quotidiana del paese visitato. L’opera si basa su due aspetti fondamentali: un umorismo misurato e un sentimentalismo che non consiste soltanto nella simpatia per gli uomini e nella indulgente comprensione per le loro debolezze e manie, ma nella capacità di immedesimarsi negli altri condividendone le emozioni. La Notizia – che per molti aspetti è omogenea al testo inglese tradotto – segna una tappa importante nel percorso foscoliano in quanto è una sorta di educazione sentimentale che l’autore-traduttore rivolge non solo ai lettori, ma anche a

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La figura di Didimo

Foscolo traduttore: fedeltà e stile personale

Focus

se stesso, in funzione di una ricerca dell’autocontrollo, del dominio delle passioni e del distacco. L’opera, infatti, è stata scritta in un arco di tempo (1804-1812) che coincide con la maturazione completa di Foscolo: si può in questo senso dire che Didimo Chierico – alter ego di Foscolo – rappresenta l’opposto di Jacopo Ortis, la sua maturazione dalla passionalità incontrollata al distacco; in effetti anche l’opera di Sterne è la ricerca di sé attraverso il rapporto di empatia con gli altri e il mondo circostante. Questa conquistata maturità, segnata non dalla rinuncia ai valori propugnati da Jacopo, ma dalla disillusione e dalla consapevolezza dell’impossibilità di realizzarli nella storia (il personaggio è definito più disincantato che rinsavito), si esprime sul piano stilistico attraverso il ricorso all’ironia. L’ironia, di cui Foscolo trova il modello proprio in Sterne, è lo strumento del giudizio, del distacco dalle cose. L’opera è anche un’importante occasione di verifica delle qualità delle traduzioni di Foscolo e del suo modo stesso di concepire l’opera del traduttore. Il lavoro di perfezionamento, testimoniato dai continui rifacimenti, l’incontentabilità di Foscolo dimostrano quanto stretto fosse il legame fra poeta e traduttore, fra creatività poetica e traduzione. Celandosi dietro la falsa identità di Didimo, Foscolo dice di aver tradotto quanto meno letteralmente e quanto meno arbitrariamente: l’intento è quello di non tradire gli intendimenti dell’autore, ma di volerli esprimere secondo uno stile personale, non pedissequamente aderente all’originale.

JACOPO ORTIS E DIDIMO CHIERICO

La Notizia intorno a Didimo Chierico (1813) è un’appendice che Foscolo pospone alla sua traduzione del Viaggio sentimentale dell’inglese Laurence Sterne (1713-1768), narratore profondamente ironico e satirico. Il nome del personaggio immaginario, Didimo, deriva da un antico erudito alessandrino famoso per la sua pedanteria; ha inoltre in sé la radice del termine greco che significa “doppio”. Chierico si riferisce al fatto che il protagonista dello scritto viene introdotto nei panni di un ecclesiastico che, come uno studioso medievale, è caratterizzato da un austero moralismo e da un’esasperata serietà nel sostenere le proprie convinzioni culturali. Lo pseudonimo è una evidente parodia di Foscolo nei confronti di se stesso, dei propri studi eruditi e dei propri nobili ed elevati princìpi intellettuali. Didimo viene dipinto come una persona capace di ridere ironicamente dei molti mali del mondo: egli stimava fra le doti naturali all’uomo primamente la bellezza, poi la forza dell’animo, ultimo l’ingegno; ma anche di queste sue sentenze filosofiche finiva per sorridere, con spirito disincantato anche se non del tutto “guarito” dalle proprie illusioni. Attraverso Didimo Chierico, Foscolo dipinge un altro autoritratto: il protagonista è un Ortis più disingannato che rinsavito. Gli ideali di questo personaggio sono simili a quelli del giovanile eroe romantico, ma allo spirito tragico di Jacopo, che lo conduce al suicidio, qui si sostituisce l’amaro sorriso di un uomo distaccato e disilluso, che scuote il capo saggiamente sui difetti del mondo e anche sui propri, senza abbandonare il proprio pessimismo. È evidente l’influenza di Sterne, che non è un romantico, ma piuttosto guarda ai mali della vita e ai difetti umani con un sorridente, anche se malinconico, umorismo. Foscolo, nella vita e negli scritti, oscillerà sempre fra i due estremi: la passionalità sfrenata di Jacopo Ortis, la disincantata razionalità di Didimo.

Inizio della traduzione autografa di Ugo Foscolo dell’opera di Laurence Sterne Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia. Firenze, Biblioteca Marucelliana.

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T15 Il ritratto interiore di Didimo da Notizia intorno a Didimo Chierico Il personaggio di Didimo Chierico, letterato e sacerdote nato a Inverigo, riassume in sé le figure di Giuseppe Parini e Laurence Sterne: in questa fase della sua vita, Foscolo tende a connotarsi come un autore che unisce all’impegno morale e satirico di Giuseppe Parini il distacco ironico di Laurence Sterne. Didimo-Foscolo afferma di avere lavorato sul testo di Sterne prima per sé, poi, dopo un lungo processo di maturazione, per pubblicarlo, dichiarando cioè di aver fatto propri i consigli e le ammonizioni di Sterne e di essere di conseguenza cambiato nel carattere e nel comportamento. PISTE DI LETTURA • La qualità umoristica e satirica della letteratura • Una concezione più realistica del mondo e un atteggiamento psicologico meno irruento • Tono ironico

Teneva irremovibilmente strani sistemi1; non però disputava a difenderli; e per apologia a chi gli allegava evidenti ragioni, rispondeva in intercalare: opinioni. Portava anche rispetto a’ sistemi altrui, o fors’anche per non curanza, non muovevasi a confutarli; certo è ch’io in sì fatte controversie, lo ho veduto sempre tacere, ma senza mai sogghignare, e l’unico vocabolo, opinioni, lo proferiva con serietà religiosa. […] Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva amicizia, lasciava intendere che la colla cordiale per cui l’uno s’attacca all’altro, l’aveva già data a que’ pochi ch’erano giunti innanzi. Rammentava volentieri la sua vita passata, ma non m’accorsi mai ch’egli avesse fiducia ne’ giorni avvenire o che ne temesse. […] La prudenza Insomma pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall’indoconquistata le sua naturale, s’accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana2. E forse aveva più amore che stima per gli uomini, però non era orgoglioso né umile. Parea verecondo, perché non era né ricco né povero. Forse non era avido né ambizioso, perciò parea libero. Quanto all’ingegno, non credo che la natura l’avesse moltissimo prediletto, né poco. Ma l’aveva temprato in guisa da non potersi imbevere degli altrui insegnamenti; e quel tanto che produceva da sé, aveva certa novità che allettava, e la primitiva ruvidezza che offende3. Quindi derivava in esso per avventura quell’esprimere in modo tutto suo le cose comuni; e la propensione di censurare i metodi delle nostre scuole. Inoltre sembravami, ch’egli sentisse non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo: non però lo diceva. Dalla sua operetta greca si desume quanto meritamente egli si vergognasse della sua querula intolleranza. Ma pareva, quando io lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noja agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare, che di toccare4 la meta. Queste ad ogni modo sono tutte mie congetture.

La tolleranza di Didimo

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da Opere, a cura di F. Gavazzeni, Einaudi-Gallimard, Torino, 1994

1. strani sistemi: opinioni del tutto originali, dissimili da quelle della maggioranza. 2. prudenza mondana: le consuetudini della società.

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3. offende: colpisce. 4. toccare: raggiungere.

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inee di analisi testuale Un ritratto fatto da dettagli Didimo non viene descritto nella sua esteriorità, ma secondo angolazioni parziali e particolari. Lo stile della presentazione è più allusivo che descrittivo e lascia al lettore il compito di ricostruire l’immagine del personaggio. Didimo si differenzia da Jacopo Ortis, dal momento che è mosso dalla volontà non di esibirsi, ma di nascondersi; Didimo, infatti, non si descrive, ma è descritto, non parla mai di sé e ciò che si dice di lui è espresso in forma di congettura e di ironico distacco. Ne emerge il ritratto di un intellettuale che, disilluso della vita e degli uomini, ha raggiunto il disincanto e il controllo del magma passionale (si avverte in lui un calore di fiamma lontana). La poesia come libertà di espressione ed eredità di affetti Il ritratto di Didimo assomma le qualità ideali dello scrittore e del poeta, che sono anche altrettanti punti fermi della poetica foscoliana: libertà del pensiero, originalità e inventiva, acutezza intellettuale (tutto questo si esercita contro la vanità del potere, il moralismo di facciata, l’accademismo e la cortigianeria degli intellettuali). Nel testo si evidenzia anche una concezione dell’opera letteraria come testamento, lascito all’umanità e capace di trasmettere valori. A differenza di Jacopo, però, Didimo non lotta nella vita per difendere i propri ideali, che pure non ha abbandonato (non è cioè rinsavito, come don Chisciotte nella parte finale del romanzo di Cervantes): affida tuttavia la propria visione delle cose alla scrittura. Inoltre, pur non stimando gli altri uomini, prova verso di loro amore: importante è l’insistenza sul motivo della pietà, l’unica virtù non usuraia – cioè non interessata – ritenuta centrale anche nelle Grazie.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano in non più di 10 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Che cosa sono gli strani sistemi di Didimo? b. Che cosa si deve intendere per querula intolleranza? c. Quale funzione assolve la poesia secondo quanto afferma Foscolo in queste righe? Approfondimenti 3. Svolgi in forma scritta il seguente argomento (max 20 righe), corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: Le differenze fra Didimo Chierico e Jacopo Ortis.

LE GRAZIE Un’opera incompiuta in endecasillabi sciolti

Struttura e contenuti dei tre inni

I frammenti, pubblicati postumi, del poema allegorico Le Grazie, rappresentano le parti ultimate di un’opera incompiuta in endecasillabi sciolti, scritta in gran parte a Firenze negli anni 1812-1813. Nelle intenzioni originarie di Foscolo, doveva configurarsi come un organico poema composto da tre inni. In esso il poeta si propone di esaltare tre dee della mitologia classica: • Venere, la dea dell’amore (ossia, la Natura universale che ha generato ogni cosa), alla quale spesso le Grazie si accompagnano; • Vesta, la dea del focolare domestico; • Pallade Atena, la divinità simbolo dell’ingegno. Nei frammenti del primo inno, Foscolo immagina di consacrare un altare in onore delle tre dee sul poggio di Bellosguardo presso Firenze e invita al rito lo scultore neoclassico Antonio Canova (autore del gruppo marmoreo Le tre Grazie) cui l’opera è dedicata; narra poi la nascita delle Grazie, divinità intermedie fra il cielo e la terra, simbolo di bellezza e bontà, cui attribuisce una funzione civilizzatrice: la loro apparizione, infatti, permise ai primitivi, schiavi degli istinti violenti e della passione animalesca, di ingentilirsi.

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I nuovi valori dell’opera

Le finalità

L’originalità dello stile

Nei frammenti del secondo inno, è descritto un rito a Bellosguardo: le tre donne che il poeta ama in quel tempo (Cornelia Martinetti, Eleonora Nencini e Maddalena Bignami, che possiedono beltà, virtù, ingegno e simboleggiano la musica, la poesia e la danza) offrono alle Grazie tre doni: rispettivamente, un suono d’arpa e un canto all’armonia del creato, un favo di miele, simbolo della dolcezza della poesia che dona mitezza, un cigno, simbolo della perfezione nella danza. Del terzo inno restano solo due brevi frammenti e una più ampia parte dedicata a Pallade. Esteso è il passo in cui si descrive il velo tessuto per le Grazie per proteggerle dalle passioni: esse sono infatti fuggite in Atlantide perché minacciate dalla forza d’Amore. Nel velo, che dovrà permettere loro di ritornare fra gli uomini, sono rappresentati i valori cui il poeta approda negli ultimi anni: fra essi particolarmente innovativi sono la riscoperta dell’importanza degli affetti familiari, dell’amore non solo passionale ma anche coniugale, della solidarietà e dell’amicizia. In tale senso, indirettamente, il carme incompiuto rappresenta un nuovo autoritratto di Foscolo. Negli incompiuti Abbozzi della ragion poetica, del sistema e dell’architettura del Carme, scritti da Foscolo in Inghilterra nel 1822, il poeta fa comprendere lo scopo dell’opera. Attraverso essa si propone, sull’esempio dei cantori mitici come Orfeo, di educare, mediante il sentimento e la bellezza dell’arte, al vero e al bello morale, cantando vicende che racchiudono allegorie morali e teologiche. In sostanza, Foscolo intende raggiungere il fine con nuovi mezzi, fondati sulla poesia di genere allegorico, che mescola il classico e il moderno, il poetico, lo storico e il metafisico. L’opera si presenta però disorganica, come una serie di splendidi nuclei lirici, non raccordati, o forse addirittura non raccordabili in un omogeneo tessuto complessivo. In alcuni frammenti Foscolo raggiunge, sul piano formale, una suggestiva capacità di evocare e creare una mirabile armonia ritmico-musicale, ispirata a un gusto neoclassico rielaborato in modo assai innovativo e originale, che anticipa la sensibilità artistica dei secoli successivi.

Antonio Canova, Psiche e Amore, 1796-1800. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

T16 A Vesta da Le Grazie, II, 97-125 Il secondo inno, 595 versi divisi in tre parti, si apre con l’intenzione del poeta di consacrare tre sacerdotesse alle Grazie. La prima sacerdotessa (identificabile, a livello biografico, con la toscana Eleonora Nencini) è descritta come una bellissima giovane, vestita di seta leggera, che siede all’ara e suona l’arpa, dedicando alla dea un canto. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • La fusione di musica e paesaggio • L’arte e la bellezza femminile • Tono elegiaco

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Già del pié delle dita e dell’errante estro, e degli occhi vigili alle corde ispirata sollecita le note1 che pingon come l’armonia dié moto agli astri, all’onda eterea e alla natante terra per l’oceàno, e come franse l’uniforme creato in mille volti co’ raggi e l’ombre e il ricongiunse in uno, e i suoni all’aere, e dié i colori al sole, e l’alterno continüo tenore alla fortuna agitatrice e al tempo2; sì che le cose dissonanti insieme rendan concento d’armonia divina e innalzino le menti oltre la terra3. Come quando più gaio Euro4 provòca sull’alba il queto Lario5, e a quel sussurro canta il nocchiero6 e allegransi i propinqui lïuti7, e molle il fläuto si duole d’innamorati giovani e di ninfe su le gondole erranti8; e dalle sponde risponde il pastorel con la sua piva9: per entro i colli rintronano i corni terror del cavrïol10, mentre in cadenza11 di Lecco il malleo domator del bronzo12 tuona dagli antri ardenti13; stupefatto perde le reti il pescatore, ed ode14. Tal dell’arpa diffuso erra il concento per la nostra convalle; e mentre posa la sonatrice, ancora odono i colli15. da Opere, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano, 1956

1. Già... note: la fanciulla suona l’arpa (con il piede, le dita e gli occhi attenti alle corde) e con estro ispirato improvvisa le note di una dolce musica. 2. che pingon... tempo: la musica racconta come l’armonia mise in moto le stelle, le onde del mare e la terra che naviga (natante) sull’Oceano, e come spezzò l’unità del creato in mille aspetti e le ridiede armonia; come creò i suoni e i colori e diede inizio al divenire casuale della fortuna e al tempo. 3. sì che... la terra: la finalità della musica è quella di ricondurre le cose dissonanti all’unico suono di una armonia divina, per innalzare le menti degli uomini oltre l’orizzonte terrestre. 4. Euro: nella mitologia greca, uno dei venti. Inizia qui la similitudine tra il vento che porta i rumori del lago e la musica dell’arpa. 5. queto Lario: il tranquillo lago lombardo, denominato anche lago di Como. 6. il nocchiero: il timoniere della barca lacustre.

7. propinqui lïuti: i vicini violini. 8. gondole erranti: le barche che percorrono il lago. 9. piva: strumento musicale campestre. 10. cavrïol: il capriolo, che teme i corni dei cacciatori. 11. in cadenza: con rumori sincroni. 12. il malleo domator del bronzo: il martello che forgia il metallo. 13. antri ardenti: le officine roventi per il fuoco delle colate. 14. ed ode: e resta ad ascoltare. 15. Tal dell’arpa... i colli: secondo termine dell’ampia similitudine: “così la musica vaga diffusa per la vallata e, mentre la suonatrice cessa di suonare l’arpa, le colline ne ascoltano ancora l’eco”. Il brano è costruito sulle due sequenze della similitudine, di cui la prima è molto più estesa. Essa rimanda a paesaggi della Brianza lombarda amati da Foscolo: il Lario, le barche, i rumori del luogo, che gli ricordano il suono dell’arpa (il timbro dello strumento è dolce e melanconico come il paesaggio lacustre).

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inee di analisi testuale La struttura circolare I tre incompiuti inni del carme Le Grazie hanno una struttura circolare: Foscolo parte dalle origini mitiche e primitive della poesia (ossia, dal passato) per giungere, attraverso la celebrazione del rito antico nella contemporaneità (il presente), ad Atlantide, il luogo dell’utopia e dell’ideale (il futuro). Queste tre fasi corrispondono ai tre livelli indicati dallo stesso Foscolo: la prima corrisponde al livello poetico; la seconda al livello storico; la terza a quello metafisico. Questa struttura circolare consente all’autore di indicare il percorso che, dallo studio del passato, attraverso la trasformazione del mito in rito (la scrittura poetica), porta al concepimento di un mondo ideale: può dunque essere inteso come percorso dal mito, attraverso la letteratura, all’utopia. Il linguaggio e lo stile Nelle Grazie il linguaggio tende alla musicalità e al colorismo, a sollecitare nel lettore percezione uditiva e, soprattutto, percezione visiva: significativo è, in proposito, il riferimento continuo alle arti figurative. A livello retorico, va notato che nelle Grazie, a differenza dei Sepolcri, Foscolo fa grande uso della similitudine. Ciò indica che la sintesi di illusione e realtà che caratterizza i Sepolcri non esiste più e che, ora, il disinganno e il distacco hanno comportato per Foscolo la separazione del mondo reale da quello ideale: il mito, a differenza dell’illusione, comporta la costruzione di un sovramondo che si può paragonare con il mondo, appunto attraverso la figura retorica della similitudine, ma che non si integra con esso. Il significato dell’amore di Vesta Il momento centrale del testamento poetico di Foscolo è, nel secondo inno, il dono della suonatrice alla dea Vesta: un garofano, che la donna prega venga inserito nella corona per l’anniversario della morte di Laura, la donna di Petrarca, e che diventa simbolo dell’amore fedele per tutta la vita. L’inno è infatti appunto dedicato a Vesta, la custode del fuoco e quindi dea preposta alla conservazione delle tradizioni familiari del focolare, nido dell’amore che permane: è questo il valore che Foscolo vuol celebrare con il suo carme. Se Venere, infatti, è simbolo della passione amorosa assoluta, Vesta rappresenta l’amore consolidato che comprende la responsabilità e la maturità del sentimento (che consente di formare la famiglia umana). Il terzo gradino sarà Pallade, Minerva, la dea della ragione. Foscolo sembra indicare la missione delle Grazie come quella di portare nel mondo, allegoricamente, l’amore inteso come liberazione dalle passioni e sentimento che conduce alla serenità interiore e all’armonia.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto dei versi (max 10 righe). 2. Dove è ambientato il rito descritto nei frammenti del secondo inno del carme? 3. Chi sono le sacerdotesse che il poeta consacra alle Grazie e che cosa rappresentano, nel mito classico e negli inni foscoliani, le Grazie stesse? Analisi e interpretazione 4. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Quali sono i riferimenti mitologici presenti nel testo e quale funzione hanno? b. Come si deve interpretare la scelta foscoliana di usare spesso similitudini nel testo? c. Quali sono gli aspetti neoclassici del passo? d. Quale interpretazione simbolica può essere proposta delle principali allegorie presenti nel passo? Approfondimenti 5. Afferma lo scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749-1832): Non c’è via più sicura per evadere dal mondo che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte (Massime e riflessioni, XIII, 3). Interpreta e commenta questa sentenza, confrontandola con l’idea di Foscolo dell’arte, espressa ne Le Grazie, e con la sua concezione della poesia. 6. Rivedi il materiale proposto su Foscolo e seleziona le indicazioni a tuo parere utili per una tesina sul seguente argomento: Foscolo e la scultura neoclassica. 7. Foscolo rende protagonista del carme, come aveva fatto con Pindemonte nei Sepolcri, lo scultore neoclassico Antonio Canova. Informati sull’opera di Canova, compila l’indice di una “tesina” sull’argomento (ricordando che esso consiste nell’elenco dei titoli di tutti i capitoli, i paragrafi o le eventuali altre parti da cui è composto lo scritto) e realizza il lavoro.

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

Le Grazie come poema da interpretare anche in chiave politica Vitilio Masiello Secondo Masiello, il poema Le Grazie nasce dalla profonda delusione per il fallimento storico della Rivoluzione francese e dell’esperienza napoleonica. Il riferimento al presente rappresenta non soltanto lo stimolo alla fuga nel mito e nell’utopia, nell’impossibilità di concrete alternative politiche, ma soprattutto il presupposto di una poetica che delega alla letteratura e alla poesia il compito di configurare un universo alternativo di più umani valori che permetta di commisurarne e compensarne gli orrori. Direi che questo riferimento assiduo al presente come termine dialettico della mitologia poetica delle Grazie, tale è la sua incidenza sia quantitativa sia qualitativa nell’economia dell’opera, costituisca una delle strutture portanti del poema: sia che il Foscolo, rappresentando l’iperborea Erinni1 come espressione sintomatica della incapacità dei poeti moderni di recepire il valore serenamente, liberatorio e salvifico dell’antica mitologia, veda la Furia-simbolo dei tempi presenti calpestare per le campagne di Russia invase da Napoleone “armi e vessilli, / e d’itali guerrier corpi in compianti” (I, vv. 261-262); sia che faccia profetizzare a Venere reduce al suo cielo l’avvento di nuove sventure e di nuovi dolori per le Grazie, con esplicita allusione alla ritornante barbarie umana (“Daranno a voi dolor novello i Fati / e gioia eterna”, I, vv. 302-303); sia che, in apertura del secondo inno, Foscolo convochi al sacro rito i giovani risparmiati dalle guerre napoleoniche (“Qui e voi che Marte non rapì alle madri / correte”, II, v. 6); sia che, introducendo la terza sacerdotessa, lamenti l’inasprirsi della guerra dopo la battaglia di Lützen2, l’intensificarsi dei preparativi militari in Italia, e l’impossibilità, quindi, di trovare un luogo propizio per celebrare i riti della pace e della pietas religiosa (“E già tornava / questa gentile al suo molle paese; / così imminente ormai freme Bellona / che al Tebro, all’Arno, ov’è più sacra Italia / non un’ara trovò, dove alle Grazie / rendere il voto di una regia sposa”, II, vv. 488-493); sia che, infine, imposti con estrema decisione e consapevolezza su un rapporto cosiffatto, e cioè in termini di fuga dall’orrore del presente, tutto il mito-chiave di Atlantide. Comunque, non è certo a questo livello, più vistoso ma più esterno, che cercheremo il senso o la testimonianza più probante dell’opposizione foscoliana alla degenerazione violenta e bellicistica del regime napoleonico, quale s’esprime nelle Grazie e ne garantisce la rappresentatività storica e la pregnanza etica e ideale. Ciò che, infatti, ci premeva di sottolineare era la base di “attualità”, il fondo di amara esperienza storico-politica a cui si ancora l’invenzione del rarefatto poema, e più ancora, l’assolutizzarsi di quella esperienza nei termini di una sociologia “negativa” di aspro sapore hobbesiano3 (“Ahi tali / forse eran tutti i primi avi dell’uomo! / Quindi in noi serpe, ahi miseri, un natio / delirar di battaglia”), la quale racchiude proprio nel suo radicalismo pessimistico la garanzia della sua efficacia conoscitiva e demistificatrice4 nei confronti della società contemporanea e delle ideologie postrivoluzionarie su cui andava stabilizzandosi l’egemonia delle classi borghesi uscite vittoriose dalla rivoluzione. Non solo: ma s’avviava da quest’esperienza negativa della realtà contemporanea e dalla generale prospettiva pessimistica che la fondava, l’istanza di un superamento che per il suo necessitato svolgersi in termini di “fuga dal presente”, di evasione-consolazione, di individuale risarcimento […] prefigurava emblematicamente quello che sarà poi il destino dell’intellettuale déraciné 5 all’interno della società borghese, quando sarà caduta, con la solidarietà ideologica fra l’intellettuale e la sua classe, la “missione” di vaticinio e di guida che da quella solidarietà l’intellettuale ripeteva. Ed è un destino che, pour cause6, s’avvia appunto fra quella generazione che consuma le sue esperienze o si forma tra la crisi del regime napoleonico e gli anni più bui della restaurazione, in relazione all’esplodere di una profonda crisi politica e sociale, e che trova nel Foscolo delle Grazie il suo precursore e nella filosofia “negativa” di Giacomo Leopardi la più alta e tragica testimonianza. da V. Masiello, Il mito e la storia. Analisi delle strutture dialettiche delle “Grazie” foscoliane, in “Angelus Novus”, 1968, n. 12-13

1. iperborea Erinni: le Erinni (le latine Furie) erano le divinità greche della contesa e della guerra; gli iperborei erano mitici abitanti dell’estremo nord. L’espressione allude quindi alle guerre e alle violenze della campagna di Russia. 2. battaglia di Lützen: in Germania, ebbe luogo il 2 maggio 1813 e si concluse con la vittoria di Napoleone sulle truppe russe e prussiane. 3. di aspro sapore hobbesiano: il filosofo inglese Thomas Hobbes rappresentò lo stato di natura come una situa-

zione di conflittualità permanente (bellum omnium contra omnes) in cui gli uomini sono simili a belve feroci (homo homini lupus). 4. demistificatrice: che svela il reale contenuto della realtà e della politica contemporanee, al di là delle apparenze e delle immagini che ufficialmente ne sono date. 5. déraciné: sradicato, privo di identità (in francese). 6. pour cause: con ragione, non senza motivo (in francese).

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Letteratura e arte FOSCOLO, CANOVA E LA BELLEZZA Le Grazie di Ugo Foscolo sono state interpretate anche come una riflessione filosofica, morale e civile sul tema della bellezza nella società moderna. In questa prospettiva il poema rappresenterebbe tre momenti cruciali della storia della civiltà umana: la nascita della civiltà, come prodotto del potere della bellezza in grado di liberare l’uomo dallo stato selvaggio originario; il passaggio delle Grazie dalla Grecia, culla della civiltà, a Firenze, culla del Rinascimento italiano; e infine la fuga delle Grazie dal mondo contemporaneo imbarbarito e incapace di bellezza. Nel proemio dell’inno a Venere, il primo dei tre che costituiscono il poema, Foscolo dedica l’opera ad Antonio Canova, autore di una Venere che era stata collocata nella Galleria degli Uffizi il 29 aprile 1812 (la Venere italica, per cui cfr. pag. 427), dichiarata ispiratrice dell’opera: […] Al cor men fece / dono la bella Dea che in riva d’Arno / [tu Canova] sacrasti alle tranquille arti custode; / ed ella d’immortal lume e d’ambrosia / la santa immago sua tutta precinse (Le Grazie, I, vv. 16-20). La grazia elegante, la purezza delle superfici, l’essenzialità delle forme, la morbidezza della scultura di Canova rappresentano alla perfezione quell’ideale neoclassico di bellezza che Foscolo, nella sua poesia, tende a riprodurre attraverso un linguaggio che ricerca l’ineffabile, la rarefazione, la fragilità delle sensazioni con il ricorso all’analogia e alla musicalità. Il richiamo al gruppo de Le Grazie (I, 21-23) realizzato da Canova per l’imperatrice Giuseppina, moglie di Napoleone, di cui il poeta avrebbe visto a Woburn Abbey una copia realizzata dallo stesso scultore per il duca di Bedford, rafforza il confronto tra i due artisti: nell’opera dello scultore le tre figlie di Zeus, Aglaia, Eufrosine e Talia, che accompagnano Venere e rappresentano la castità, la bellezza e l’amore, appaiono abbracciate in corrispondenza d’amorosi sensi, a formare un leggero movimento circolare a spirale. Sono figure pure, ma palpitanti di morbida luminosità, di soffusa sensualità, sculture nelle quali il perfetto equilibrio delle forme e la loro levigatezza esprimono una bellezza classica, l’armonia che regna sulle passioni.

Antonio Canova, Le tre Grazie, 1815-1817. Woburn Abbey.

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UN POETA TRA DUE EPOCHE

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LE OPERE PRINCIPALI DI FOSCOLO

PROSA

POESIA

TITOLO

GENERE

TEMI

Tieste (1797)

Tragedia

Contro la tirannia

Poesie (1798-1803)

• Odi • Sonetti

• Autobiografico • Bellezza femminile e poesia

Dei sepolcri (1807)

Carme

La poesia eternatrice

Le Grazie (1803-1825)

Poema allegorico

Poesia e civiltà

Aiace (1811)

Tragedia

Contro la tirannia

Ultime lettere di Jacopo Ortis (1798-1817)

Romanzo epistolare

La delusione politica e amorosa

Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (1809)

Orazione

La funzione della letteratura

Notizia intorno a Didimo Chierico (1813)

Epistolario (1796-1826)

Introduzione in prosa a una traduzione

Lettere

La maturazione di carattere e di pensiero dell’autore

Autobiografico

Antonio Canova, Danza delle Grazie e Cupido.

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Concetti chiave valori ideali (le illusioni del cuore: l’amore, la virtù, lo spirito patriottico, la bellezza, la sopravvivenza oltre la morte nel ricordo) vengono recuperati dal sentimento e dalla poesia, cui viene attribuita una funzione eternatrice.

LA VITA Ugo Foscolo nasce a Zacinto, isola dello Ionio appartenente a Venezia, nel 1778: il legame con la tradizione classica greca, legata anche all’origine della madre, sarà per lui il simbolo di una vocazione alla poesia, destinata a far rivivere i miti antichi nel mondo moderno, integrando elementi del Neoclassicismo e del Romanticismo all’interno di una filosofia improntata alla concezione del materialismo illuminista. La campagna d’Italia di Napoleone stimola i suoi entusiasmi giovanili rivoluzionari, ma dopo il trattato di Campoformio (1797), con la cessione di Venezia all’Austria, subentra in lui la delusione. In volontario esilio a Milano, conosce Giuseppe Parini e Vincenzo Monti. Scrittore impegnato, frequenta salotti intellettuali, si arruola come ufficiale nell’esercito francese per mantenersi, scrive e insegna. Durante la sua vita compie numerosi viaggi, si trasferisce in diverse città (tra cui Venezia, Milano, Bologna, Firenze) e intreccia molte e sempre effimere relazioni amorose. Infine, nel 1815, sceglie l’esilio per non prestare giuramento di fedeltà agli Austriaci tornati in Lombardia e dopo un periodo trascorso in Svizzera termina la sua vita a Londra, povero e dimenticato, nel 1827, assistito dalla figlia naturale Floriana.

ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS Ultime lettere di Jacopo Ortis è un romanzo epistolare, modellato sui Dolori del giovane Werther di Wolfgang Goethe: Jacopo, giovane passionale e amante dell’arte, perseguitato politico in seguito al trattato di Campoformio, si rifugia sui colli Euganei, dove si innamora della giovane Teresa. Questa è però destinata dal padre in sposa a Odoardo, freddo e arido possidente. Dopo un vagabondaggio attraverso l’Italia, sopraffatto dalla duplice delusione, politica e sentimentale, Jacopo si suicida. All’atmosfera romantica dell’opera vanno ricondotti l’individualismo, il carattere autobiografico, l’importanza della natura come proiezione dei sentimenti, il rifiuto del potere e del denaro, la scrittura impetuosa e passionale. Rispetto a Goethe, alla tematica amorosa si affianca quella politica: Jacopo è un eroe di libertà alfieriano, e il suo suicidio di protesta va inteso non come sconfitta, ma come affermazione dei valori traditi.

IL PENSIERO E LA POETICA La formazione culturale illuministica di Ugo Foscolo ne determina l’ateismo e il materialismo; dalla filosofia di Giambattista Vico trae la visione ciclica della storia. I modelli letterari principali sono Vittorio Alfieri, per lo spirito libertario e antitirannico, e Giuseppe Parini, per il suo impegno civile e sociale. Vivendo in un’epoca di passaggio tra il razionalismo illuministico e l’abbandono romantico nel sentimento, tra Neoclassicismo e Romanticismo, in Foscolo le istanze opposte, in particolare, ragione e cuore, si trovano compresenti in modo conflittuale oppure variamente si combinano e si integrano in quella che si definisce religione delle illusioni: per la ragione la vita umana è parte insignificante di un perenne ciclo di nascita e distruzione, ma i

POESIE Le Poesie sono un brevissimo canzoniere composto da due odi e dodici sonetti. Nei sonetti si integrano magistralmente elementi neoclassici e romantici (questi ultimi nutriti dal temperamento passionale di Foscolo). I temi principali sono autobiografici: l’amore per la patria perduta, il conflitto delle passioni, la malinconia, l’esilio, la morte, l’amore, la letteratura. I modelli principali sono – oltre ai classici della tradizione – Vittorio Alfieri e Francesco Petrarca, dalla cui lirica Foscolo riprende e innova l’uso dell’enjambement, che insieme con il periodare ampio determina il tratto stilistico fondamentale. Nelle odi (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata), di sapore neoclassico, è celebrata la bellezza, cui la poesia dona immortalità.

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DEI SEPOLCRI I Sepolcri, scritti nel 1806-1807 in seguito all’editto di Saint-Cloud (che imponeva cimiteri suburbani con tombe uguali) e al dibattito con Pindemonte, dedicatario dell’opera, sono un carme in endecasillabi sciolti che amalgama in modo originale epica e lirica, dando origine a uno stile solenne, scandito dalle transizioni – espressioni di separazione fra quelle che si possono definire onde poetiche – e segnato dalla presenza di numerosi latinismi, in cui si alternano e intrecciano temi e motivi romantici con temi e motivi neoclassici. Il contenuto è sintetizzato e commentato direttamente dall’autore nella Lettera a Monsieur Guillon. A livello didattico, il testo si può suddividere in un prologo e tre parti, introdotte ciascuna dall’allocuzione al destinario, Pindemonte. Nel prologo, Foscolo riconosce l’inutilità delle tombe nella prospettiva razionalistica dell’Illuminismo. Nel seguito, tuttavia, viene ad esse riconosciuta un’importanza decisiva a tre livelli: a livello privato, mantengono vivo, attraverso una corrispondenza d’affetti, il legame con chi non c’è più (prospettiva storico-antropologica); a livello sociale e politico, conservando il ricordo dei grandi del passato, favoriscono l’identità nazionale e stimolano l’amor patrio e l’impegno civile (prospettiva storico-civile); a livello universale, ispirando i grandi poeti, consacrano per l’eternità i valori (prospettiva poetico-mitica).

NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO La Notizia intorno a Didimo Chierico, posta in appendice alla traduzione del Viaggio sentimentale attraverso l’Italia e la Francia dell’inglese Laurence Sterne, offre un nuovo ritratto di Foscolo, quasi opposto a quello giovanile dell’Ortis: Didimo, l’immaginario e autobiografico autore della traduzione, è distaccato e ironico, controlla le proprie passioni e, anche se non ha mutato giudizio sulla società (si dice “più disingannato che rinsavito”), e crede negli stessi valori, ha perduto ogni speranza di poterli realizzare nella storia. LE GRAZIE Le Grazie è un poema incompiuto, cui Foscolo lavora per tutta l’ultima parte della sua vita, articolato in tre inni intitolati a Venere, Vesta e Pallade, in endecasillabi sciolti e dedicato allo scultore neoclassico Antonio Canova. In esso Foscolo afferma la funzione del poeta creatore di miti, che attraverso la poesia conferisce eternità ai valori e compone nell’armonia le inquietudini e le contraddizioni del reale e propone nuovi valori, quali il focolare domestico. Lo stile, di ascendenza neoclassica, è profondamente originale. L’opera non presenta carattere organico, ma appare una sequenza di splendidi frammenti.

Antonio Canova, Venere Italica (particolare), 1804-1812. Firenze, Galleria Palatina, Palazzo Pitti.

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E

sercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. In Foscolo e nella sua opera sono presenti istanze a. profondamente romantiche, sebbene legate a residui di concezioni illuministiche. b. profondamente romantiche, sebbene legate a residui di un’estetica classicista. c. dell’Illuminismo, del Neoclassicismo e del Romanticismo, intrecciate in vario modo. d. legate solo all’Illuminismo e al Neoclassicismo, tranne nell’Ortis. 2. I principali modelli letterari, a lui temporalmente vicini, cui Foscolo si riferisce sono a. Monti e Cesarotti. b. Monti e Pindemonte. c. Pindemonte e Alfieri. d. Parini e Alfieri. 3. La vita interiore di Foscolo può essere definita a. dominata dal ferreo controllo della ragione. b. principalmente passionale e tumultuosa. c. oscillante fra opposte tendenze. d. in dissidio fra ragione e sentimento. 4. La madre e il padre di Foscolo sono a. un medico veneziano e una donna greca, che muore quando Ugo è bambino. b. una donna greca e un medico veneziano, che muore quando Ugo è bambino. c. di origine veneziana: il padre, medico, si suiciderà per debiti contratti al gioco. d. di origine greca: dopo la loro separazione, Ugo vivrà con la madre e il fratello. 5. La fase di entusiasmo di Foscolo per Napoleone, testimoniata dall’ode A Bonaparte liberatore, cessa a. nel 1801, in quanto Bonaparte occupa Venezia ma la cede all’Austria. b. nel 1796, perché occupando l’Italia i Francesi si rivelano dominatori autoritari. c. nel 1799: infatti, sconfitto a Campoformio, Bonaparte cede Venezia all’Austria. d. nel 1797, quando Bonaparte cede Venezia all’Austria in cambio di altri territori. 6. All’inizio dell’Ottocento, durante il primo soggiorno a Milano, Foscolo pubblica fra l’altro a. le Poesie, i Sepolcri e la Notizia intorno a Didimo Chierico. b. le Poesie e la seconda edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. c. la prima edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e le Poesie. d. l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, le Poesie e le Grazie. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

7. Nell’Ortis la voce narrante è a. duplice e rappresentata da Jacopo Ortis e Lorenzo Alderani. b. una sola e rappresentata da Jacopo Ortis. c. rappresentata da Lorenzo Alderani. d. duplice e rappresentata da Jacopo Ortis e Didimo Chierico. 8. Foscolo nei Sepolcri si rivolge a. a Vincenzo Monti. b. al lettore. c. ai grandi italiani. d. a Ippolito Pindemonte. 9. Il carme Dei sepolcri viene pubblicato a. nel 1812 a Milano, durante un periodo trascorso dall’autore in città. b. nel 1807 a Brescia, durante il soggiorno dell’autore a Milano. c. nel 1808, durante un soggiorno a Venezia presso la madre. d. nel 1813, durante il soggiorno nella villa di Bellosguardo a Firenze. 10. Tornato a Milano dopo il crollo di Napoleone, Foscolo rifiuta a. la nomina a vicedirettore di un libero periodico letterario. b. di entrare a far parte del nuovo governo. c. il giuramento di fedeltà all’Austria, obbligatorio per gli ufficiali del Regno Italico. d. un incarico di prestigio, subordinato alla stesura di una lode per gli Asburgo.

2 Rispondi alle seguenti domande (max 20 righe per ogni risposta). 1. Quali sono le principali opere in prosa di Ugo Foscolo e quando le ha composte? 2. Quali sono le principali opere in versi di Foscolo, che temi hanno e a chi sono dedicate? 3. Quali sono i due personaggi foscoliani che rappresentano meglio la dilemmatica personalità dell’autore e quali le loro caratteristiche? 4. Quali elementi illuministici, quali neoclassici e quali preromantici sono compresenti nel pensiero e nella poetica di Foscolo? 5. Che cosa si intende per “funzione eternatrice della poesia” in Foscolo e in quali opere compare più apertamente tale concezione? 6. Quali sono i nodi tematici delle sequenze del carme Dei sepolcri? 7. Quali sono le caratteristiche del carme Dei sepolcri dal punto di vista stilistico-formale? 8. Quali sono i sonetti più significativi di Foscolo, a chi sono dedicati, quali ne sono i temi, i contenuti e lo stile? 9. Qual è la trama delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e quali il genere, il modello e il tema dell’opera? 10. Quale è stata la genesi del poemetto incompiuto Le Grazie, quali personaggi vi compaiono e quali sono gli intenti di Foscolo?

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c. L’immagine della memoria qui tracciata è corrispondente o contrapposta a quanto scritto da Foscolo altrove? Per quali ragioni?

ANALISI DEL TESTO

3 Leggi attentamente il testo e svolgi gli esercizi proposti. Nel sonetto XI Alla musa il poeta, a colloquio con la musa della poesia, accenna alla bipartizione della sua vita in un primo periodo della giovinezza, caratterizzato dalla speranza, e in quello della maturità, caratterizzato dalla disillusione e dal disincanto. I momenti di stasi creativa e di crisi dell’ispirazione preludono di fatto a un salto qualitativo della scrittura e a una maturazione poetica: l’insoddisfazione sembra proiettare Foscolo verso una forma di poesia più organica e complessa, che sarà realizzata nel carme Dei sepolcri. Pur1 tu copia2 versavi alma3 di canto su le mie labbra un tempo, aonia Diva4, quando de’ miei fiorenti anni fuggiva la stagion prima5, e dietro erale intanto questa, che meco per la via del pianto scende di Lete ver la muta riva6: non udito or t’invoco; ohimè! soltanto una favilla del tuo spirto è viva. E tu fuggisti in compagnia dell’ore, o Dea! tu pur mi lasci alle pensose membranze7, e del futuro al timor cieco. Però mi accorgo, e mel ridice Amore, che mal pônno8 sfogar9 rade, operose10 rime il dolor che deve albergar11 meco. da Opere, a c. di G. Bezzola, Rizzoli, Milano, 1956

1. Pur: eppure. 2. copia: abbondanza. 3. alma: nutrice, sacra alimentatrice del canto. 4. aonia Diva: Musa dei monti Aonii in Beozia, dove si trova la dimora delle Muse. 5. de’ miei… stagion prima: il primo periodo della mia giovinezza. 6. muta riva: il silenzio della morte e della poesia. 7. pensose membranze: pensierosi ricordi. 8. pônno: possono. 9. sfogar: esprimere. 10. operose: laboriose. 11. albergar: dimorare; notare un significativo richiamo al sonetto per il fratello Giovanni (sonetto X), che testimonia la proiezione da parte del poeta della propria condizione su quella del fratello: de’ miei fiorenti anni = fior de’ tuoi… anni.

Analisi e interpretazione 3. Rileggi con attenzione il sonetto e analizzalo dal punto di vista stilistico-formale, ricercando in particolare le più rilevanti figure retoriche e motivandone l’uso da parte dell’autore. 4. Spiega in quale modo passato e presente sono posti in antitesi nel testo. Approfondimenti 5. Svolgi in forma scritta il seguente argomento (max 30 righe), corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: Le particolarità del tema principale di Alla musa rispetto a quello degli altri sonetti foscoliani. SAGGIO BREVE / ARTICOLO

4 Sviluppa uno dei seguenti argomenti in forma di saggio breve o di articolo di giornale e utilizza come materiali di consultazione tutte le pagine dedicate a Ugo Foscolo di questo libro di testo (comprese le pagine antologiche e critiche). Dai all’elaborato un titolo coerente con la trattazione e indicane una destinazione editoriale a tua scelta. Per entrambe le forme di scrittura non superare le tre colonne di metà foglio protocollo. 1. La formazione culturale, il pensiero e la poetica di Ugo Foscolo, un grande tra due epoche. 2. Il mito della poesia e della tomba nelle opere di Ugo Foscolo. TEMA DI ARGOMENTO STORICO

5 Svolgi la seguente traccia. Il periodo tra il Settecento e l’Ottocento in cui visse Foscolo è considerato, specie per l’Italia del Nord, molto vivace e contrastato, perché ha conosciuto l’occupazione napoleonica e poi la Restaurazione. Dopo averne chiariti i motivi, spiega perché, a tuo avviso, queste alterne e drammatiche vicende abbiano influito sulla vita degli Italiani, sulla storia d’Italia e, in particolare, sulla poetica di molti artisti del tempo, compreso l’autore dei Sepolcri. TEMA DI ORDINE GENERALE

Comprensione 1. Svolgi la parafrasi di questo sonetto aiutandoti con le note. 2. Rispondi in forma scritta alle seguenti domande. a. A chi si rivolge Foscolo in questo sonetto e perché? b. Quale immagine viene tratteggiata della memoria in questi versi?

6 Svolgi la seguente traccia. Le delusioni politiche di Foscolo e il suo rapporto con la figura di Napoleone ci possono indurre a riflettere sul conflitto fra istituzioni e politica, sul decadimento degli ideali, sul ruolo della cultura e della libertà degli intellettuali: tutti aspetti, più o meno evidenti e preoccupanti, dell’attuale crisi italiana. Proponi le tue riflessioni in merito.

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Filippo Juvarra, Veduta della Palazzina di caccia di Stupinigi, 1729-1733. Vittorio Amedeo II di Savoia attua in Piemonte riforme amministrative, finanziarie e giudiziarie, seguendo i princìpi illuministici e conferendo allo Stato sabaudo una dimensione europea. Il sovrano, inoltre, invita a Torino Filippo Juvarra, il cui progetto architettonico più importante è la Palazzina di caccia di Stupinigi. La parte centrale della villa è destinata a ricevimenti, feste e balli, mentre nei corpi laterali vengono realizzati ambienti come il salone da gioco, il gabinetto cinese, la sala delle prospettive, con funzione di svago e intrattenimento. Il grande corpo di fabbrica, inserito in un vasto parco, è una testimonianza del carattere internazionale del gusto rococò, che accomuna le grandi regge europee del periodo.

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Giacomo Ceruti, Portarolo seduto con cesta, uova e pollame, 1740 ca. Milano, Pinacoteca di Brera. Mentre in Europa la scena di genere si diffonde già nel Seicento, in Italia si deve aspettare il secolo successivo perché prenda effettivamente piede. I soggetti sono presi dalla strada, dalle taverne, ma un rilevante apporto a tale genere pittorico è offerto anche dalla commedia dell’arte. Ceruti è soprannominato Pitocchetto per l’umanità povera e derelitta che spesso ritrae: personaggi abbigliati con vesti lacere o rappezzate, che si guadagnano da vivere portando ceste o chiedendo l’elemosina, ma che possiedono un’estrema dignità.

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Francesco Guardi, Veduta del Canal Grande verso Rialto, 1769-1770. Milano, Pinacoteca di Brera. Nel Settecento l’Italia è meta privilegiata di artisti e viaggiatori europei, attratti dal clima e dal ricco panorama artistico: proprio dall’usanza del Grand Tour nasce il Vedutismo, un tipo di pittura che riproduce scorci urbani con grande verità topografica e che richiede competenze scenografiche e quadraturistiche. Uno dei primi vedutisti è Gaspard van Wittel, attivo tra l’altro a Roma, ma il centro più importante per questo genere di pittura è Venezia, dove si distinguono Canaletto, Guardi e Bellotto. I committenti sono spesso turisti inglesi che giungono nella città lagunare durante il loro viaggio in Italia e che desiderano avere un ricordo degli scorci più suggestivi.

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Jacques-Louis David, Marat assassinato, 1793. Bruxelles, Musée Royaux des Beaux-Arts. Jean-Paul Marat è uno dei protagonisti della Rivoluzione francese che mette tutte le proprie energie al servizio della causa, senza cedere a compromessi; il suo assassinio, da parte di un’aristocratica girondina, suscita nell’opinione pubblica una profonda emozione, che David, sincero ammiratore dell’uomo politico, traduce in questa tela. Marat è raffigurato come un martire della Rivoluzione, impegnato fino all’ultimo per il bene comune dei nuovi cittadini, nonostante la malattia della pelle che lo costringeva a trascorrere lunghe ore dentro una vasca per lenire il dolore.

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Jean-Auguste-Dominique Ingres, Napoleone I sul trono imperiale, 1806. Parigi, Musée de l’Armée. L’iconografia napoleonica segue gli sviluppi delle vicende politiche e si accompagna al passaggio dall’immaginazione rivoluzionaria a una sempre più ufficiale e imperiale. I numerosi ritratti di Bonaparte svolgono una funzione propagandistica e apologetica e servono a rafforzare il consenso intorno alla sua personalità, trasformandola in una vera e propria icona del tempo. Dall’immagine del condottiero eroico di David (cfr. pag. 207) a quella dell’uomo di Stato di Appiani (cfr. pag. 207). in cui il pittore evidenzia la dignità e la forza interiore del soggetto, si giunge infine al ritratto imperiale, ove Napoleone è raffigurato in posa ieratica, con lo scettro di Carlo V, la “mano di giustizia” e la spada che si riteneva fossero di Carlo Magno.

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Antonio Canova, Amore e Psiche, 1788-1793. Parigi, Museo del Louvre. Con questo gruppo marmoreo Canova si ispira alla favola mitologica narrata da Apuleio nell’Asino d’oro: Psiche, durante il suo viaggio nell’Ade, cade svenuta, ma Amore, impietositosi di lei, la ridesta pungendola con una delle sue saette e baciandola teneramente. Lo scultore rappresenta il momento in cui Amore si appresta a baciare la fanciulla, creando diverse geometrie compositive attraverso l’intrecciarsi delle due figure. La delicata sensualità che emanano i personaggi risponde agli ideali neoclassici di una bellezza pura, non turbata dalle passioni, secondo i valori proposti da Winckelmann.

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L’Ottocento: Romanticismo e Realismo

Alessandro Milesi, In lettura. Venezia, Collezione Becher-Milesi.

CAPITOLO

16

L’età

del Romanticismo e del Realismo

TAVOLA SINOTTICA STORIA

LETTERATURA

1818 La Spagna cede la Florida agli Stati Uniti.

1818 Friedrich dipinge Viandante sul mare di nebbia.

1820-1821 Primi moti insurrezionali in Italia.

1818 Géricault dipinge La zattera della medusa.

1821 Napoleone muore a Sant’Elena.

1819 Schopenhauer pubblica Il mondo come volontà e rappresentazione.

Gennaio 1816 Madame de Staël pubblica Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni. Aprile 1816 Giordani pubblica la risposta all’articolo di Madame de Staël.

1820 Ampère inaugura l’elettrodinamica.

1816 Berchet pubblica la Lettera semiseria di Grisostomo al figlio.

1821 Hegel pubblica i Lineamenti di filosofia del diritto.

1816-1819 Manzoni compone Il Conte di Carmagnola.

1831 Il Belgio ottiene l’indipendenza dall’Olanda.

1824 Carnot anticipa il secondo principio della termodinamica.

1817 Leopardi inizia a scrivere lo Zibaldone.

1831 Mazzini fonda la Giovine Italia.

1830-1842 Comte pubblica il Corso di filosofia positiva.

1818 Mary Shelley scrive Frankenstein.

1831 Statuto Albertino.

1830 Delacroix dipinge La libertà che guida il popolo.

1818-1819 Pubblicazione del “Conciliatore”.

1834 Braille mette a punto il suo sistema di lettura per i non vedenti.

1818-1819 Porta compone la poesia Il Romanticismo, manifesto della nuova corrente.

1835-1840 Alexis de Tocqueville scrive La democrazia in America.

1818-1849 Belli compone i sonetti in dialetto romanesco.

1837 Daguerre mette a punto il procedimento della dagherrotipia.

1820 Scott pubblica Ivanhoe.

1821 In Grecia insurrezione contro il dominio turco. 1830 Moti rivoluzionari costituzionalisti in tutta Europa.

1832 Indipendenza della Grecia.

18151870

CULTURA

1833 Abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche. 1837 In Inghilterra inizia il regno della regina Vittoria, che durerà fino al 1901. 1848 Nuovo movimento insurrezionale che investe tutta l’Europa. 1848 Cinque giornate di Milano.

1821-1823 Pubblicazione de “L’Antologia”.

1839 Inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana (Napoli-Portici).

1821-1823 Manzoni compone l’Adelchi. 1823 Manzoni termina il Fermo e Lucia.

1848 Inizio della “corsa all’oro” in California.

1840 Morse brevetta il telegrafo elettromagnetico e ne inventa il codice.

1848-1849 Prima guerra d’indipendenza.

1840 Le poste inglesi introducono l’uso del francobollo.

1827 Manzoni pubblica la 1a edizione dei Promessi sposi.

1852 Napoleone III è proclamato imperatore.

1841 Proudhon pubblica il pamphlet Che cos’è la proprietà?

1827 Hugo pubblica il dramma storico Cromwell.

1853 Scoppia la guerra di Crimea.

1843 Gioberti pubblica Il primato morale e civile degli italiani.

1830 Hugo termina Notre-Dame de Paris.

1857 Spedizione di Pisacane a Sapri.

1844 Turner dipinge Pioggia, vapore e velocità.

1831 Leopardi pubblica la 1a edizione dei Canti.

482 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO

1827 Leopardi pubblica la 1a edizione delle Operette morali.

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STORIA 1859-1860 Seconda guerra d’indipendenza.

CULTURA

LETTERATURA

1847 Prime applicazioni dell’elettricità per l’illuminazione pubblica.

1832 Pubblicazione della seconda parte del Faust di Goethe.

1848 Marx e Engels pubblicano il Manifesto del partito comunista.

1832 Pellico pubblica Le mie prigioni.

1860 Garibaldi guida la spedizione dei Mille.

1849 Courbet dipinge Gli spaccapietre.

1839 Cattaneo fonda la rivista “Il Politecnico”.

1861 Proclamazione del Regno d’Italia.

1851 Prima Esposizione universale a Londra.

1862 Otto von Bismarck è nominato cancelliere di Prussia.

1855 Esposizione universale di Parigi.

1840 Manzoni pubblica l’edizione definitiva dei Promessi sposi.

1860 Annessione di Toscana, Emilia e Romagna al Regno di Sardegna.

1864 Prima Internazionale dei lavoratori a Londra. 1864 Prima Convenzione di Ginevra e fondazione della Croce Rossa Internazionale. 1865 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. 1866 Terza guerra d’indipendenza.

1859 Darwin pubblica L’origine delle specie. 1859 Hayez dipinge Il bacio. 1862 Il dipinto Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta di Giovanni Fattori viene premiato a Firenze, primo riconoscimento pubblico dello stile dei Macchiaioli.

1870 Presa di Roma.

1863 Manet dipinge La colazione sull’erba.

1870 Inizia la guerra franco-prussiana.

1863-1880 Antonelli realizza la Mole di Torino. 1866 Mendel enuncia le leggi dell’ereditarietà. 1867 Marx pubblica il primo libro de Il capitale. 1869 Mendeleev costruisce il sistema periodico di classificazione degli elementi chimici. 1869 Viene inaugurato il canale di Suez.

1840 Tommaseo pubblica Fede e bellezza. 1849 Dickens inizia la pubblicazione a dispense di David Copperfield. 1851 Melville pubblica Moby Dick. 1854 Dickens pubblica Tempi difficili. 1857 Flaubert pubblica Madame Bovary. 1857-1858 Nievo lavora alle Confessioni di un italiano. 1862 Victor Hugo pubblica I miserabili. 1865 Tolstoj inizia a pubblicare Guerra e pace. 1866 Dostoevskij pubblica Delitto e castigo. 1867 Zola pubblica Thérèse Raquin. 1868-1870 Zola elabora il ciclo di romanzi dei Rougon-Macquart. 1869 Pubblicazione postuma del romanzo Fosca di Tarchetti.

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CAP. 16 - L’ETÀ

DEL

ROMANTICISMO

E DEL

REALISMO

483

STORIA

STORIA L’ETÀ

DELLA

RESTAURAZIONE

Il tentativo di restaurazione del Congresso di Vienna Negli ultimi anni del Settecento e durante i primi dieci dell’Ottocento, tutta l’Europa è sconvolta dalle campagne militari intraprese da Napoleone Bonaparte, il quale per un breve periodo riesce a estendere il proprio dominio su una larga parte del continente, insediando sul trono dei diversi Paesi alcuni membri della sua famiglia. Per anni Austria, Russia, Prussia e Gran Bretagna si oppongono alle mire espansionistiche dell’imperatore dei Francesi, sconfiggendolo infine a Waterloo, nel giugno del 1815. Dopo la sconfitta di Napoleone, i rappresentanti delle potenze vincitrici si incontrano a Vienna per ristabilire gli equilibri politici europei, con l’intenzione di restaurare la situazione precedente al 1789. Questo tentativo segna tutta la prima metà dell’Ottocento: un periodo conosciuto come “età della Restaurazione”. I vincitori, nel ridisegnare i confini dell’Europa, si ispirano soprattutto a due princìpi: • il principio di legittimità, secondo il quale hanno diritto a tornare sul trono i legittimi sovrani deposti dalla Rivoluzione francese e da Napoleone (a partire dal fratello di Luigi XVI, che sale al trono con il nome di Luigi XVIII); • il principio di equilibrio, secondo il quale risulta prioritario fare in modo che nessuna grande potenza possa più imporre il proprio dominio sull’Europa a danno di altri Stati. In Italia, grazie al principio di legittimità, tornano sul trono i monarchi deposti da Napoleone. Gran parte della penisola, tuttavia, si trova sottoposta al controllo diretto o indiretto dell’Austria. Unica eccezione apprezzabile è il Regno di Sardegna, governato dalla dinastia dei Savoia.

Un impossibile ritorno al passato L’applicazione rigida dei princìpi di legittimità e di equilibrio stabiliti dal Congresso di Vienna determina di fatto il fallimento del tentativo di restaurazione, perché non tiene in alcun conto i sentimenti nazionalisti – tipici della nuova cultura romantica – diffusi ormai presso molte popolazioni, che rivendicano il diritto ad avere una propria nazione autonoma e indipendente. So-

prattutto, però, non è più possibile ristabilire un ordine politico e sociale ignorando gli ideali imposti dalla Rivoluzione francese (libertà, uguaglianza, sovranità popolare, libertà di iniziativa in campo economico) che, anche grazie alle campagne napoleoniche, si sono ormai diffusi e radicati nella cultura europea e in particolare nel ceto borghese, che ha guadagnato il primato non solo nel campo economico, ma anche in quello politico.

Il pensiero liberale Contro qualsiasi tentativo di restaurazione dell’Antico regime, si fa strada la corrente di pensiero del liberalismo, ispirata alle idee dell’Illuminismo e fondata sulla convinzione che lo Stato debba limitare i propri poteri e assicurare la libertà degli individui, garantendo allo stesso tempo la pacifica convivenza civile. Fra i teorici del liberalismo vi sono i fautori della sovranità popolare, per i quali il potere deve scaturire da una sorta di patto stipulato tra il popolo e il sovrano, il quale è chiamato a rispettare alcune regole fondamentali condivise con i sudditi e contenute in una Costituzione. L’applicazione della dottrina del liberalismo comporta anche una partecipazione da parte del popolo alla vita politica del Paese, attraverso un parlamento eletto dai cittadini. Sul piano economico, i medesimi ideali di libertà trovano espressione nella teoria del liberismo, proposta per la prima volta dall’economista scozzese Adam Smith (1703-1790), che sostiene i princìpi di libertà di impresa, di concorrenza e di commercio, fondamentali per il progresso della nascente civiltà industriale e capitalistica.

Le potenze reazionarie Naturalmente, le stesse potenze che durante il Congresso di Vienna vogliono orientare la politica europea verso la restaurazione dell’Antico regime, tentano in ogni modo di ostacolare la diffusione del pensiero liberale. La reazione al liberalismo si esprime con la repressione e la censura messe in atto soprattutto nei confronti degli ambienti intellettuali, dei circoli degli studenti e della stampa. Al fine di contrastare qualsiasi nuova iniziativa rivoluzionaria, all’indomani del Congresso di Vienna, Austria, Russia e Prussia stipulano il trattato della Santa Alleanza, basato sul principio di intervento, con il quale i sovrani

484 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO – STORIA

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STORIA L’Europa dopo il Congresso di Vienna.

si impegnano a prestarsi reciprocamente aiuto nel caso di insurrezioni interne. L’unica grande potenza che non aderisce al patto è la Gran Bretagna, dove le libertà fondamentali (a partire dalla libertà di stampa) sono ormai da tempo riconosciute e che, con la propria tradizione ormai consolidata di monarchia costituzionale, diventa uno dei centri di maggiore sviluppo del pensiero liberale.

LE TRASFORMAZIONI ECONOMICHE E SOCIALI Un’epoca di grandi trasformazioni L’Europa del XIX secolo è anche teatro di profondi cambiamenti, sotto il profilo sociale ed economico. La rivoluzione agraria che aveva coinvolto molte regioni del continente alla fine del Settecento e la progressiva espansione dell’industria provocano una crescita della popolazione generalizzata, che passa dai 140 milioni di individui della metà del XVIII secolo ai 270 milioni di metà Ottocento. In particolare, il fattore che più di ogni altro influisce sulle trasformazioni in atto è proprio la diffusione dei nuovi sistemi di produzione, tanto che gli storici parlano di una “seconda Rivoluzione industriale”, che coinvolge i Paesi europei in tempi e in modi diversi. Dopo la Gran Bretagna, per esempio, gli Stati che per primi e più rapidamente intraprendono la stra© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

da dell’industrializzazione sono i Paesi Bassi e il Belgio, ai quali poco dopo si aggiunge la Francia. Austria e Germania seguono con maggiore lentezza, mentre Stati come la Russia, la Spagna e l’Italia conoscono gravi ritardi. Fuori dall’Europa, invece, negli Stati Uniti il nuovo sistema industriale si sviluppa in modo più rapido e intenso, accompagnato da un incremento demografico elevatissimo, tanto che in breve tempo il nuovo grande Stato americano si trasforma da paese agricolo a potenza industriale. Fra i settori che, grazie alle innovazioni tecniche, conoscono maggiore sviluppo, vi è quello dei trasporti – soprattutto con la diffusione delle ferrovie –, che a sua volta favorisce la circolazione delle merci e delle materie prime destinate all’industria, e quindi diviene esso stesso un importante fattore di crescita.

La “questione sociale” L’allargamento del sistema di fabbrica porta con sé conseguenze importanti anche dal punto di vista dei rapporti tra le diverse componenti della società. Nel corso dell’Ottocento, si inasprisce ovunque il conflitto tra la classe borghese imprenditoriale e commerciale (protagonista dello sviluppo industriale attraverso l’investimento di risorse e capitali) e la classe operaia, fonte della “forza-lavoro” senza la quale quello stesso sviluppo non sarebbe possibile. A fronte di un arricchimento della classe

CAP. 16 - L’ETÀ

DEL

ROMANTICISMO

E DEL

REALISMO – STORIA

485

STORIA

borghese, che trae dall’industria profitti sempre maggiori, non migliorano le condizioni di vita e di lavoro degli operai: i salari continuano a essere bassi, e ancor più misere sono le paghe destinate a donne e bambini, che svolgono mansioni meno pesanti ma non meno pericolose e nocive rispetto a quelle riservate agli uomini, con turni di lavoro che possono raggiungere le 12 o le 14 ore giornaliere. Il XIX secolo vede la nascita di organizzazioni operaie che hanno come obiettivo quello di migliorare le condizioni dei lavoratori, anche attraverso iniziative tese a promuovere la solidarietà reciproca. Nascono così le prime società di mutuo soccorso, che sostengono le famiglie in caso di malattia, di infortunio sul lavoro e di licenziamento. Le stesse organizzazioni sono anche protagoniste di lotte per l’approvazione di leggi a tutela degli operai: vengono attuati i primi scioperi, finalizzati al raggiungimento di un salario maggiore o al miglioramento delle condizioni del lavoro nelle fabbriche. Da queste associazioni operaie – che in Gran Bretagna danno vita alle Trade Unions – sorgeranno in seguito i primi sindacati.

Il movimento socialista e il pensiero di Marx ed Engels Lo sviluppo delle organizzazioni degli operai e la promulgazione, in Gran Bretagna, delle prime leggi a tutela dei lavoratori sono favoriti dalla diffusione delle idee socialiste, espresse da pensatori che sostengono la necessità non solo di aiutare gli operai, ma di modificare la struttura stessa della società. I teorici del socialismo propongono l’abolizione della proprietà privata,

considerata fonte di ingiustizie sociali e di sfruttamento, e promuovono l’ideale di un nuovo ordine sociale fondato sulla proprietà comune e sui valori di uguaglianza e solidarietà. I primi teorici socialisti sono Robert Owen, Charles Fourier, Louis Blanc e Pierre-Joseph Proudhon, destinati a passare alla storia come “socialisti utopisti”, perché le loro idee e i loro modelli di produzione industriale risultano di fatto irrealizzabili. Un nuovo tipo di socialismo, conosciuto come “socialismo scientifico”, è invece quello proposto dai filosofi tedeschi Karl Marx e Friedrich Engels, fondato su un’attenta (e scientifica) analisi della realtà. Marx ed Engels sostengono la necessità di una vera e propria lotta di classe, che sia in grado di promuovere il riscatto della classe operaia e un profondo rinnovamento economico e sociale. Queste teorie trovano espressione nel Manifesto del Partito comunista, del 1848, e vengono poi maggiormente sviluppate ed elaborate da Marx nella più vasta opera intitolata Il capitale, punto di riferimento per il movimento comunista sviluppatosi nei decenni successivi.

I diversi orientamenti del socialismo e la dottrina sociale della Chiesa Nell’arco di pochi anni, i movimenti socialisti sorti nei diversi Paesi si strutturano in veri e propri partiti politici, che nel 1864 si coordinano tra loro nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (nota come Prima Internazionale). Tra i partiti socialisti sorti in Europa emergeranno due fondamentali orientamenti: uno mira a ottenere le riforme politiche e sociali attraverso

Adolf von Menzel, Fonderia o laminatoio, 1785. Berlino, Gemäldegalerie.

486 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO – STORIA

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Karl Marx in una fotografia di John Mayall del 1875.

l’azione parlamentare (il cosiddetto socialismo riformista); l’altro è orientato verso soluzioni che prevedono anche la lotta armata per rovesciare il potere economico della borghesia (socialismo rivoluzionario). Nel dibattito intorno alla “questione sociale” si inserisce anche la Chiesa, che, seppure in ritardo, prende posizione rispetto ai problemi sociali emergenti e alle risposte offerte dal movimento socialista. Nel 1891 papa Leone XIII (1878-1903) promulga l’enciclica Rerum novarum (cfr. pag. 489), nella quale vengono riconosciuti i diritti sindacali e le aspirazioni dei lavoratori a condizioni di vita più dignitose, ponendosi in una posizione intermedia tra i due estremi rappresentati dal marxismo da un lato e dal liberismo economico incontrollato dall’altro.

LE RIVOLUZIONI OTTOCENTESCHE E IL RISORGIMENTO ITALIANO Le insurrezioni del 1820-1821 Sul fronte politico, il nuovo equilibrio imposto dal Congresso di Vienna si rivela subito fragile e ben presto in tutta Europa scoppiano insurrezioni che si pongono come obiettivo non solo quello di conquistare una maggiore libertà, ma anche di ottenere l’indipendenza e realizzare l’unità nazionale dei territori sottoposti al dominio straniero. I sostenitori di que© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

I moti del 1830-1831 Fra il 1830 e il 1831 l’Europa viene investita da una seconda ondata insurrezionale, partita questa volta dalla Francia, in rivolta contro il regime reazionario e dispotico di Carlo X, che viene costretto ad abdicare. Il successore, Luigi Filippo d’Orléans (1830-1848), dà vita a un governo di indirizzo borghese e liberale, che prende le distanze dalle azioni repressive della Santa Alleanza. Il nuovo orientamento della Francia sarà decisivo per la conquista dell’indipendenza di Paesi come il Belgio e per la svolta costituzionale di importanti monarchie come la Spagna e il Portogallo. Anche in Italia nuove insurrezioni scoppiano a Modena, a Parma, a Bologna e in altri centri dello Stato pontificio. Gli iniziali successi si rivelano però effimeri a motivo dell’intervento degli Austriaci, che ancora una volta reprimono i moti, restaurando le monarchie deposte.

CAP. 16 - L’ETÀ

DEL

ROMANTICISMO

E DEL

REALISMO – STORIA

487

STORIA

sti princìpi politici operano quasi sempre in clandestinità, attraverso società segrete come la Massoneria e, in Italia, la Carboneria. Le prime rivolte scoppiano in Spagna nel gennaio del 1820 (rivolta di Cadice) e si estendono presto anche al Portogallo, dove però vengono represse duramente dall’intervento delle potenze della Santa Alleanza. Un esito diverso, invece, sortiscono le insurrezioni scoppiate in Grecia: il comune interesse all’indebolimento dell’Impero ottomano da parte di Stati come Francia, Russia e Gran Bretagna condurranno, infatti, nel 1832, al riconoscimento dell’indipendenza del Paese. In Italia, l’insurrezione scoppiata in Piemonte nel marzo del 1821 porta all’abdicazione di Vittorio Emanuele I, in favore del fratello Carlo Felice (1821-1831). Nei momenti di incertezza seguiti all’evento, il giovane principe Carlo Alberto viene spinto dai liberali a concedere una Costituzione, che però il nuovo re si rifiuta di riconoscere, chiedendo anzi l’aiuto dell’Austria che interviene per ristabilire l’ordine anche nel Lombardo-Veneto. Con i moti del 1820-1821 prende avvio in Italia la stagione del Risorgimento. Sarà un periodo segnato non solo dalle guerre, ma anche dal confronto tra diverse posizioni riguardo alla forma da dare al nuovo Stato ancora vagheggiato: dal modello repubblicano di Giuseppe Mazzini, a quello federalista di Carlo Cattaneo a quello neoguelfo di Vincenzo Gioberti. Tutte ipotesi superate, peraltro, dal rapido precipitare degli eventi, che porterà alla nascita di un regno che per certi aspetti si caratterizzerà per l’estensione delle leggi del Regno di Sardegna a tutto il territorio della penisola.

STORIA

Il 1848 L’anno che più di ogni altro simboleggia gli sconvolgimenti che segnano l’Europa dell’Ottocento è il 1848. Tra febbraio e marzo di quell’anno, infatti, insorgono gli abitanti di Parigi e di Vienna e analoghe rivolte divampano anche in altre importanti città, come Berlino, Budapest, Venezia e Milano. In Francia, l’ondata rivoluzionaria porta alla caduta della monarchia e alla nascita della seconda Repubblica e in seguito, nel 1852, alla nascita del Secondo impero con Napoleone III (1852-1870). In Italia, il 1848 è segnato dallo scoppio di rivolte a Palermo, a Napoli, a Firenze e a Roma, dove il pontefice Pio IX (1846-1878), inizialmente salutato come difensore degli ideali liberali, si rivela conservatore e poco disposto a concedere riforme significative. A seguito dell’ondata insurrezionale, i sovrani italiani sono costretti a concedere la Costituzione. A Torino, Carlo Alberto, divenuto re nel 1831, promulga lo Statuto Albertino, mentre a Milano la rivolta della popolazione durante le famose “Cinque giornate” (18-22 marzo) costringe alla fuga gli Austriaci comandati dal maresciallo di campo JohannJoseph-Franz-Karl Radetzky. Le insurrezioni del 1848 innescano la Prima guerra d’indipendenza, che vede l’impegno diretto del Regno di Sardegna nel processo di liberazione nazionale. L’iniziale sostegno da parte degli altri sovrani italiani viene però meno proprio nel momento in cui Carlo Alberto sta ottenendo i primi successi. La sconfitta subita a Custoza dall’esercito piemontese contro le truppe austriache obbliga il sovrano ad abdicare (1849) in favore del figlio Vittorio Emanuele II, che sarà uno dei protagonisti dell’unificazione politica della penisola.

di Camillo Benso conte di Cavour, abilissimo nell’intessere relazioni diplomatiche con gli Stati europei in diversi modi interessati all’indebolimento dell’Impero d’Austria. La Seconda guerra d’indipendenza, che vede l’intervento della Francia accanto alle truppe piemontesi, si conclude con il passaggio della Lombardia al Regno di Sardegna. Nel marzo del 1860, in seguito a plebiscito, anche Toscana, Emilia, Romagna, Parma e Modena entrano a far parte del Regno sabaudo. Le regioni meridionali vengono invece annesse in seguito alle azioni militari condotte da Giuseppe Garibaldi, mentre Umbria e Marche, appartenenti allo Stato della Chiesa, sono annesse dopo le insurrezioni del 1859. Il 17 marzo 1861 nasce ufficialmente il Regno d’Italia, con capitale a Torino. L’unificazione della penisola si compie definitivamente tra il 1866 e il 1870, prima con la conquista del Veneto, durante la Terza guerra d’indipendenza, poi con l’annessione del Lazio e di Roma, nel 1870. Nel 1871, Roma viene proclamata capitale del Regno d’Italia.

Il processo di unificazione dell’Italia Dopo la Prima guerra d’indipendenza il Regno di Sardegna si pone ormai in modo deciso come lo Stato-guida del processo di unificazione dell’Italia, grazie soprattutto all’azione

L’Italia risorta, stampa popolare con in basso i principali protagonisti del Risorgimento italiano.

488 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO – STORIA

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Papa Leone XIII

La Rerum novarum (letteralmente “Delle novità”) di Leone XIII rappresenta la risposta ufficiale della Chiesa a tutti i progetti socialisti nati nel corso dell’Ottocento e, in particolare, al socialismo scientifico di Marx. In essa si trovano affermati, per la prima volta, alcuni princìpi che stanno alla base del pensiero sociale della Chiesa cattolica. Riportiamo qui di seguito alcuni stralci dell’enciclica che Leone XIII scrive nel 1891. L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. […] Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda1 della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. […] Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa. […] Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento […]. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l’opera propria. Quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. […] Tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini, osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva. […] È quindi giusto che il governo s’interessi dell’operaio, facendo sì che egli partecipi in qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato. da Rerum novarum

1. in balda: in balia.

Comprensione 1. Quali sono i doveri dei capitalisti? 2. Gli operai hanno degli obblighi nei confronti del datore di lavoro? 3. Secondo la Rerum novarum, qual è la funzione del lavoro?

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CAP. 16 - L’ETÀ

DEL

ROMANTICISMO

E DEL

REALISMO – STORIA

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STORIA

I princìpi della Rerum novarum

CULTURA

CULTURA LA

CRISI DEL RAZIONALISMO SETTECENTESCO E LE NUOVE TENDENZE FILOSOFICHE

La cultura dell’età romantica trae origine dalla crisi della filosofia razionalistica del Settecento, provocata dal fallimento degli ideali illuministi di uguaglianza, fratellanza e libertà in seguito alla deriva violenta e dispotica della Rivoluzione francese, che aveva portato al Terrore e alla guerra di conquista napoleonica, stravolgendo i lineamenti dell’Europa. Secondo la nuova filosofia, la ragione intesa in senso illuministico ha storicamente dimostrato che non è in grado, da sola, di spiegare il mondo e di cambiarlo. Il pensiero dell’età romantica rifiuta la sistematicità e il rigore logico-scientifico, si volge e si affida agli slanci dell’intuizione e dell’immaginazione, indicando la chiave per avvicinarsi alla felicità e alla verità in ciò che è più lontano dalla logica, dalla scienza e dalla razionalità: la fede mistica, il sentimento, il patrimonio della stirpe, la geniale e indefinibile ispirazione e immaginazione poetica e artistica. Contraddistinguono dunque l’ideologia e la sensibilità romantica valori diametralmente opposti ai princìpi illuministi: • la filosofia idealistica viene contrapposta al materialismo, lo spirito alla materia e l’infinito al finito, la religiosità e il misticismo all’ateismo e al deismo, e la ricerca dell’assoluto all’azione pratica per cambiare il mondo; • a livello della conoscenza, si privilegia l’intuizione rispetto all’indagine scientifica, la dialettica al sensismo, la natura come specchio della coscienza umana alla natura come meccanismo da indagare; • a livello della società, la difesa della tradizione dei singoli popoli viene contrapposta al cosmopolitismo, l’amore per la storia allo studio delle forme di società (sociologia), la rivalutazione del Medioevo all’attenzione per il presente e la contemporaneità e l’impulso libertario al senso di appartenenza alla struttura sociale; • a livello della persona, la tendenza individualista si sovrappone al senso di appartenenza a un gruppo, l’eroismo del singolo all’azione di massa, l’unicità dell’individuo all’egualitarismo, il genio al buon senso comune, la trasgressione al conformismo e il soggettivismo al collettivismo. L’eroe romantico si considera in perenne lotta nei confronti della realtà (titanismo) e

disposto a sacrificare la vita (vittimismo) in questa battaglia in cui si vede inevitabilmente destinato, prima o poi, alla sconfitta. Il pensiero romantico presenta caratteristiche molto articolate e, in qualche caso, contraddittorie, tanto che sul piano politico in alcuni casi tende ad assumere una connotazione conservatrice, in altri ad ispirare i movimenti progressisti liberali e nazionali, sulla base di una rinnovata lettura dei princìpi di libertà e democrazia della tradizione illuministica. Vicini al Romanticismo si possono considerare sia scrittori come il tradizionalista cattolico francese Joseph de Maistre (1753-1821), tra i primi a rivalutare il Medioevo e ad anticipare il moderno nazionalismo, sia pensatori e scrittori come Anne Louise Germaine Necker, nota come Madame de Staël (1766-1817), che, nel suo giudizio sulla Rivoluzione francese, distingue il positivo culto della libertà dalla degenerazione dittatoriale giacobina, sia, ancora, l’inglese George Gordon Byron (1788-1824), che spinge il proprio amore per il patriottismo dei popoli oppressi al punto di perdere la vita nella lotta per l’indipendenza greca contro il dominio dell’Impero ottomano.

490 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO – CULTURA

Ritratto di George Gordon Byron.

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L’IDEA DI NAZIONE

L’idea di nazione (etimologicamente: “nascita, origine, luogo della nascita”, dal latino natio) intesa come comunità indipendente (non sempre coincidente con uno Stato) che condivide una lingua, una storia, una cultura, una tradizione e vive all’interno di confini più o meno chiaramente definiti, a parere di molti studiosi prende forma soltanto con la Rivoluzione francese del 1789. Secondo tale tesi, lo Stato assoluto, che si identifica con la persona del sovrano, manca infatti di una caratteristica essenziale della nazione: l’unificazione e l’uguaglianza del diritto sul territorio nazionale. Il retaggio feudale contrappone privilegi e servigi che, creando gruppi distinti, rendono impossibile un vero senso di appartenenza nazionale. Solo dopo l’Ottantanove si determina in Francia una situazione razionale di amministrazione del territorio secondo un unico corpus di leggi, la cui legittimità è frutto del consenso popolare. Fondamentale in questo senso è l’apporto di Jean-Jacques Rousseau, che concepisce lo Stato come corpo morale e collettivo, espressione della volontà generale di una comunità di cittadini. L’idea di nazione nel Romanticismo tedesco presenta invece caratteristiche assai più legate all’appartenenza di sangue ed è destinata, nel corso dell’Ottocento, a influenzare il concetto di patria come “terra dei padri”. Essa non si basa, infatti, sull’identificazione con un popolo legato dai comuni diritti dei cittadini, ma a un’etnia legata da un’unione mistica che fa riferimento al sangue e al suolo. Tale principio viene definito nella Tavolata Cristiano Tedesca, organizzazione politico-culturale fondata verso il 1811 dallo scrittore romantico Ludwig Achim von Arnim (1781-1831); uniti dall’ostilità nei confronti di Napoleone, gli adepti di questa associazione sono ostili ai non prussiani, agli ebrei, alle donne, e cercano di ritrovare il proprio spirito nazionale nel legame irrazionale con la tradizione atavica, rifacendosi a una particolare rilettura del pensiero del filosofo idealista Johann Gottlieb Fichte. Questa concezione “naturalistica” e conservatrice del nazionalismo convive, nel corso dell’Ottocento, con quella democratica e rivoluzionaria che si può far risalire a Rousseau: esse sono, in qualche modo, compresenti nel pensiero patriottico di buona parte degli intellettuali del Risorgimento italiano. Una svolta fondamentale si verifica negli ultimi decenni del XIX secolo, in particolare dopo la guerra francoprussiana del 1870 e l’unificazione nazionale tedesca, quando il nazionalismo, abbandonando molti capisaldi del patriottismo, allenta in tutta Europa i suoi legami con la tradizione democratica e tende ad assumere connotati autoritari, militaristi e imperialistici, in qualche caso fondati sul mito della “purezza e superiorità biologica” di una nazione rispetto a tutte le altre. L’identificazione del nazionalismo con elementi apertamente irrazionali e la sua fusione con il razzismo condurranno, nella storia del Novecento, a sanguinarie derive, il cui punto d’approdo saranno la guerra di sterminio e il genocidio, di cui la lucida follia hitleriana teorizzata nel Mein Kampf (“La mia battaglia”, 1925) rappresenterà il più tragico epilogo. Il problema della fondazione dell’identità nazionale resta però tuttora aperto perché l’appartenenza puramente “razionale”, fondata sulla sola eguaglianza formale dei diritti, può apparire insufficiente a suscitare una forte coesione collettiva, soprattutto in situazioni di grave crisi economica, come è dimostrato da gran parte delle vicende storiche del Novecento.

Eugène Delacroix, La libertà guida il popolo, 1830. Parigi, Museo del Louvre.

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CAP. 16 - L’ETÀ

DEL

ROMANTICISMO

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REALISMO – CULTURA

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CULTURA

Focus

CULTURA

IL ROMANTICISMO ITALIANO S’INTRECCIA CON LA POLITICA Il Romanticismo in Italia si intreccia con le istanze di libertà e di indipendenza nazionale del Risorgimento. Il periodico letterario milanese “Il Conciliatore”, nato nel 1818, è l’organo più importante che accoglie e rispecchia queste istanze. Esso funge da centro di elaborazione culturale e da strumento di collegamento fra i patrioti; tratta argomenti letterari, economici, scientifici, intrecciando il razionalismo e il riformismo economico di stampo illuministico con gli emergenti presupposti romantici. Inoltre acuisce la polemica contro il classicismo, ampliando la ricerca delle radici storiche e linguistiche comuni del popolo italiano. Le correnti ideologiche che si schierano per l’indipendenza e l’unità nazionale nel periodo risorgimentale sono due: • quella liberale moderata, fra i cui sostenitori vanno annoverati uomini politici e intellettuali come Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Massimo Taparelli d’Azeglio e Camillo Benso conte di Cavour, tutti nati a Torino e vissuti nel Regno di Sardegna; • quella democratico-rivoluzionaria, alla quale appartengono il genovese Giuseppe Mazzini, il nizzardo Giuseppe Garibaldi, il napoletano Carlo Pisacane, i milanesi Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo. Prima del 1848, la corrente liberale moderata opera soprattutto per influenzare l’opinione pubblica ed è composta dai cosiddetti neoguelfi, che fanno capo a Vincenzo Gioberti e si propongono di realizzare, con mezzi diplomatici, una confederazione monarchico-costituzionale di Stati italiani presieduta dal ponte-

fice, e da coloro che fanno riferimento a Cesare Balbo, i quali auspicano, invece, che la presidenza di tale confederazione vada alla dinastia dei Savoia. Del tutto diverso è il programma democratico di Giuseppe Mazzini, che, tramite l’associazione Giovine Italia da lui fondata in Francia nel 1831, mira all’educazione del popolo per instaurare un’Italia unita, indipendente e repubblicana, attraverso l’azione insurrezionale. Mazzini, che in Svizzera fonderà la Giovine Europa, è anche precursore dell’idea europeista. All’interno dell’area democratica, operano anche il repubblicano federalista Carlo Cattaneo nella Milano soggiogata dal dominio austriaco, e Carlo Pisacane, vicino alle posizioni anarchiche e socialiste e sostenitore di una guerriglia (la guerra per bande) che prenda avvio dal Meridione. Dopo il fallimento delle insurrezioni tentate a più riprese dai mazziniani contro Carlo Alberto di Savoia in Piemonte (1833), nella Savoia e a Genova (1834), e dai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera (1844) in Calabria, si rafforza la tendenza moderata, che, infine, attraverso l’opera politica del liberale Camillo Benso conte di Cavour, riuscirà a conseguire l’obiettivo dell’indipendenza e dell’unità nazionale. Problemi come la questione meridionale, il brigantaggio, l’arretratezza economica, l’emigrazione, la spaccatura ideologica dell’élite culturale caratterizzeranno a lungo la vita del nuovo Paese. In tale contesto storico, è facilmente comprensibile perché cultura, arte e letteratura dell’Ottocento in Italia siano influenzate dal dibattito e dalle lotte politiche assai più di quanto non avvenga in altre nazioni.

Che cos’è la Giovine Italia

Giuseppe Mazzini

Nel brano, tratto da uno dei numerosi proclami intorno alla costituzione della Giovine Italia, Giuseppe Mazzini mostra chiaramente i caratteri della passione politica che pervadono profondamente il Romanticismo in Italia, dovuti alla condizione di frammentazione nazionale e alla dominazione straniera che opprime la penisola nel primo Ottocento. Noi lo dichiariamo solennemente: – Per Giovine Italia noi non intendiamo che un SISTEMA1, voluto dal secolo: quando noi combattiamo la vecchia, noi non intendiamo combattere che un SISTEMA, rifiutato dal secolo! Le denominazioni giovine e vecchia Italia non sono nostre; e perché vorremmo noi gravarci l’anima d’un rimorso, creando una divisione, dove i fatti non ci sforzassero a riconoscerla, dove il progresso inerente alle umane cose non ci soggiogasse col mostrarcela inevitabile? Abbiamo dieci secoli d’oltraggi a vendicare: abbiamo a distruggere un servaggio di cinque secoli. I

1. sistema: Mazzini si serve di questo termine per indicare un’istituzione politica.

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da Scritti politici, a cura di F. della Peruta, Einaudi, Torino, 1976 2. Crescenzio… Menotti: Crescenzio è lo pseudonimo di Luigi Tinelli, milanese, mazziniano della prima ora e costretto nel 1836 ad andare in esilio in America. Ciro Menotti è il patriota giustiziato nel 1831 per i moti di Modena. 3. Jungendbund… gioventù: la Lega della gioventù tedesca, attiva in Prussia durante i moti europei del 1820-1821. 4. Lelewel: Joachim Lelewel, storico e politico polacco rivoluzionario. 5. l’impresa di luglio: la rivoluzione di luglio a Parigi, che

rovesciò Carlo X e portò al potere Luigi Filippo, favorevole alle riforme. 6. Cousin: Victor Cousin (1792-1867), filosofo e storico francese, da giovane progressista e in seguito seguace della Restaurazione, fondatore della storiografia francese. La frase cui Mazzini si riferisce, all’inizio del proclama, risale alla gioventù del Cousin ed afferma che vi è un periodo nella vita dei popoli come in quello degli uomini, in cui le nazioni si affacciano alla libertà come i giovani all’amore.

Comprensione 1. Quali sono i passi del brano che con maggiore evidenza mettono in luce gli elementi di passione politica che caratterizzano il Romanticismo di Giuseppe Mazzini, e per quali ragioni? 2. Quali sono gli oltraggi che – secondo Mazzini – la Giovine Italia deve lavare? 3. Che giudizi dà l’autore sui moti rivoluzionari giovanili in Europa?

Giuseppe Mazzini in una stampa del XIX secolo. Roma, Museo Centrale del Risorgimento.

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CAP. 16 - L’ETÀ

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CULTURA

padri, i padri de’ padri e gli avi remoti ebbero tutti la loro parte in quell’oltraggio: tutti hanno bevuto a quel calice che Dio serbava all’Italia, e del quale la fortuna assegnava a noi l’ultime goccie – e le più amare forse. E noi gemiamo per tutti, fremiamo per tutti; e se a rigenerare una terra guasta da cinquecento anni di servitù muta bastasse levarsi e combattere, gli uomini del passato, quanti insorsero e morirono per la patria da Crescenzio fino al Menotti2, sarebbero nostri fratelli alla pugna, dove alcuno potesse evocarli dalla loro polvere. – Ma il sangue solo santifica, non rigenera una nazione. Stanno contro di noi non le sole baionette straniere, ma le discordie cittadine inveterate per lunga memoria di stragi, rieccitate sordamente dalla tirannide, artificiosamente ineguale e corrompitrice: stanno i vizi che si generano nelle catene, e la intolleranza di freno, ottimo elemento per distruggere, pessimo per fondare, e più ch’altro sta la mancanza di fede: di quella fede che sola crea le forti anime e le grandi imprese, di quella fede che sorride tranquilla nel sagrificio, perché trae seco sul palco, o nel campo la promessa della vittoria nell’avvenire. [...] Le denominazioni Giovine e vecchia Italia non sono nostre: noi non le abbiamo create: le ha create una tal potenza, contro la quale non valgono né ciance d’uomini, che sentono sfuggirsi di mano una influenza già consumata da’ fatti, né rancori e sospetti d’inetti maligni, che vorrebbero occupare il secolo delle loro meschine ambizioni e della loro vita incognita al mondo. È la potenza de’ fatti: – la potenza che mutava alcuni anni addietro nella Germania il Tugenbund (fratellanza della virtù) in Jungenbund (fratellanza di gioventù)3: – la potenza che concentrava in Polonia, poco tempo avanti la rivoluzione, le molte società patriottiche nella grande associazione della gioventù, condotta da Lelewel4: – la potenza, che commettendo alla giovine Francia l’impresa di luglio5 e i fati Europei, strappava di bocca a Cousin6 le parole che noi ponemmo in capo allo scritto – e Cousin, eccitatore un tempo della gioventù francese, è pure in oggi un di que’ tanti che s’industriano a distruggere l’opera loro, tentando confinare nel cerchio angusto d’una dottrina immutabile e inapplicata gli uomini del progresso; ma la verità vuole il suo dritto, e si fa via tra’ sistemi. La verità si rivela continua e progressiva attraverso gli eventi; e se gli eventi ci sono propizi d’ispirazioni politiche: – se il secolo ci suggerisce una nuova via di successo, perché rifiuteremo noi di seguirla? perché diremo al secolo: tu se’ diseredato di mente: trascorri inutile alla umanità?

CULTURA

SOCIALISMO

UTOPISTICO E SOCIALISMO SCIENTIFICO

Per socialismo, in senso lato, si intende ogni teoria politica ed economica che abbia come scopo la realizzazione della giustizia sociale attraverso la statalizzazione o la socializzazione delle risorse economiche, teoria che per molti aspetti si colloca al polo opposto rispetto al liberalismo e, più ancora, al liberismo. Queste ultime, infatti, sono concezioni che mirano a limitare il ruolo dello Stato e che ritengono fondamenti del benessere la libera iniziativa individuale e la competizione del libero mercato. Il termine socialista appare per la prima volta nei tempi moderni nel 1827, sulla “Rivista della cooperazione” dell’inglese Robert Owen (17711858) e, pochi anni dopo, su “Globe”, organo dei socialisti francesi che fanno riferimento al parigino Claude-Henry de Rouvroy conte di Saint-Simon (1760-1825). Owen, imprenditore illuminista, ritiene che l’ambiente plasmi gli uomini e cerca di creare fabbriche modello e colonie socialiste (un cotonificio in Scozia e la New Harmony nell’Indiana, in America) in cui educare le masse lavoratrici sfruttate e abbrutite dall’alcol, dalla prostituzione e dalla delinquenza minorile. Saint-Simon espone le proprie più mature concezioni nell’opera Nuovo cristianesimo (1825), in cui pone come fine ultimo della riforma della società il miglioramento delle condizioni della nuova categoria sociale degli operai, intesi come classe più numerosa e più povera, e si propone di raggiungerlo attraverso la costruzione di una società industriale pianificata e tecnocratica. Fra i numerosi altri riformatori socialisti che Karl Marx definirà “utopisti”, ossia sognatori, vanno ricordati almeno i francesi Fourier e Proudhon. Secondo Charles Fourier (1772-1837), causa dei conflitti sociali sono il commercio e la famiglia, che schiavizza la donna; la famiglia può essere sostituita dai falansteri, piccole comunità autosufficienti di non più di 1500 membri. Pierre Joseph Proudhon (1809-1865) nel saggio Che cos’è la proprietà? del 1840 afferma provocatoriamente che la proprietà privata è un furto e sviluppa il suo pensiero in senso cooperativistico e anarchico più che socialista: egli, infatti, è contrario a ogni statalismo e collettivismo. A metà dell’Ottocento diventa palese e drammatica la “questione sociale”. Le condizioni di vita delle classi lavoratrici e i problemi causati dall’industrializzazione si fanno sempre

più pressanti: spopolamento delle campagne, masse di disoccupati, mancanza di ogni regola nella determinazione degli orari, dell’età, delle condizioni di lavoro, assenza di forme di assistenza per i lavoratori colpiti da malattie, infortuni e licenziamenti, abbrutimento degli operai e delle loro famiglie. Mentre nascono le prime organizzazioni dei lavoratori quali le società di mutuo soccorso, che sostengono, spesso anche con l’aiuto finanziario di benestanti, gli operai e le loro famiglie in difficoltà, e gli embrioni del sindacato, la “questione sociale” diventa oggetto dell’azione della Chiesa, e, in forma politica, della riflessione e dell’attività socialista. Ben presto, fra le teorie che si ispirano all’idea socialista si afferma, a livello internazionale, la concezione sinteticamente espressa nel Manifesto del partito comunista (1848), nel quale il tedesco Karl Marx (1818-1883), con l’amico inglese Friedrich Engels (1820-1895), delinea i cardini di quella che egli definisce “teoria del socialismo scientifico”, destinata a influenzare la storia mondiale nei successivi decenni e nel XX secolo. Secondo Marx – che critica i socialisti utopisti perché ritiene irrealizzabili le loro teorie – è attraverso l’analisi scientifica delle leggi soprattutto economiche della storia e della società che si perviene alla comprensione della necessità e della inevitabilità dell’avvento del socialismo, che non si affermerà per l’azione di utopisti isolati, ma con la lotta (“rivoluzione”) della classe operaia. Essa – guidata dal suo partito – sconfiggerà, sul piano politico, i rappresentanti della classe capitalistica e, sul piano economico, eliminerà il capitalismo con l’abolizione della proprietà privata e l’instaurazione del collettivismo socialista, premessa alla progressiva scomparsa delle classi e con esse – secondo il pensiero del filosofo – di tutti i mali della società. In Italia, il socialismo si organizza in partito solo alla fine del XIX secolo. Già nel corso del Risorgimento, però, appaiono pensatori e politici le cui teorie si accostano alle concezioni degli utopisti e degli anarchici o che possono essere considerati i primi sostenitori del socialismo. Il più importante fra loro è indubbiamente il mazziniano dissidente Carlo Pisacane (1818-1857), ucciso a Sanza dopo essere sbarcato in Campania con poche centinaia di uomini, nell’intento di dare vita a una lotta rivoluzionaria che egli pensava dovesse essere sostenuta anzitutto dai contadini meridionali, la classe più povera dell’Italia del tempo.

494 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO – CULTURA

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Carlo Pisacane

Carlo Pisacane è considerato uno degli intellettuali di riferimento del movimento risorgimentale. Egli individua nelle masse contadine del Mezzogiorno d’Italia la leva della rivoluzione, in un programma di lotta libertario e socialista. Perde infatti la vita durante un tentativo di far insorgere i contadini, che invece consegnano i patrioti all’esercito borbonico. Il suo saggio La Rivoluzione, da cui è tratto il brano che segue, è incentrato sull’idea di progresso sociale, concretizzato nella coesistenza dei valori di libertà e uguaglianza, che il progresso meramente tecnico-scientifico non riesce a salvaguardare. Pisacane è ritenuto – nonostante le venature libertarie del suo pensiero – il primo pensatore socialista italiano: nel testamento politico scritto prima di partire per Sapri, egli afferma: io credo che il socialismo, espresso nella formola “Libertà ed associazione”, sia il solo avvenire non lontano dell’Italia e, forse, dell’Europa. La parola progresso suona nella bocca degli uomini di ogni condizione, d’ogni partito, ma è da pochissimi, anzi quasi da nessuno compresa. I sorprendenti trovati1 della scienza, che, applicati all’industria, al commercio, al vivere in generale, trasformano in mille guise i prodotti, sono fatti innegabili: noi vediamo ove erano gruppi di capanne sorgere superbe città; vediamo campi aspri e selvaggi squarciati dall’aratro e resi fecondi; selve, monti, mari superati; rozzi velli trasformati in finissime stoffe; le intemperie vinte con l’arte, le tenebre cacciate da fulgidissima luce, il navigare contro i venti, il percorrere con portentosa celerità sterminate distanze, perfino il fulmine reso rapido messaggiero dell’uomo2; l’immensità dei cieli, le viscere della terra esplorate, gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali tutti studiati, classificati, misurati... Se questo è il progresso, niuno può negarlo o non comprenderlo3. Ma cotesto accrescimento continuo della ricchezza, e dell’umano sapere, spande egualmente la prosperità su tutti? Suscita nell’uomo il sentimento del proprio diritto, della dignità? Garantisce la libertà, garantisce il popolo dall’usurpazione di pochi, rende forse impossibile, sotto ogni forma, la schiavitù, ed assicura l’indipendenza dell’uomo dall’uomo, o almeno ne libra su giuste lance i rapporti?4 Ogni uno che vuol manifestare francamente la propria opinione, ogni uno che studia la Storia, che osserva il presente, risponderà: No, l’apogèo della civiltà romana, il secolo d’Augusto fu il perigèo della libertà; i rozzi italiani dell’undicesimo secolo erano liberi, e vilissimi piaggiatori5 quelli del civilissimo secolo di Lorenzo De’ Medici; i Francesi dello splendido secolo di Luigi XIV non furono che spregevoli cortigiani. Ove riscontrasi, adunque, il continuato miglioramento delle umane condizioni? Quale sarebbe il tipo ideale d’una società perfetta? Quella in cui ciascuno fosse nel pieno godimento de’ proprii diritti, che potesse raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità o d’umiliarsi innanzi al suo simile, o di sopraffarlo; quella società, insomma, in cui la libertà non turbasse l’uguaglianza; quella in cui in ogni uomo il sentimento fosse d’accordo con la ragione, e in cui niuno fosse mai costretto di operare contro i dettati di questa, o soffocare gl’impulsi di quello. In tal caso l’uomo manifesterebbe la vita in tutta la sua pienezza, e però potrebbe dirsi perfetto. Ma chi trovasi più lontano da questo ideale, il mercante e il dottrinario moderno, o il cittadino romano, il greco, e lo stesso italiano dell’XI secolo? La risposta non è dubbia, e facendo paragone del presente col passato, saremmo indotti a credere che i miracoli del vantato progresso nascondano il continuo peggioramento del genere umano6. Libera la mente da idee preconcette o da sistemi faremo ricerca di questa legge del progresso, e del modo come essa opera. da Saggio su La Rivoluzione, a cura di G. Pintor, Einaudi, Torino, 1942 1. trovati: ritrovati. 2. fulmine… uomo: la metafora si riferisce al telegrafo, inventato nel 1837. 3. Se questo... comprenderlo: nessuno può negare o non comprendere che questo è davvero progresso. 4. Ma cotesto... i rapporti?: l’interrogativo di fondo di Pisacane è: questo progresso rende gli uomini più liberi? Fa-

vorisce davvero l’uguaglianza? 5. piaggiatori: adulatori. 6. facendo paragone... umano: i riferimenti storici dell’autore convergono su tale affermazione. A suo avviso, il progresso scientifico e tecnico comporta un regresso delle condizioni umane, per le ragioni che ha poco sopra accennato.

Comprensione 1. Che cosa intende l’autore per progresso e su quali valori si basa la sua società ideale? 2. Basandoti sul contenuto del brano, annovereresti Carlo Pisacane tra i socialisti utopisti o lo giudicheresti più vicino al socialismo teorizzato da Karl Marx? Motiva la tua risposta. 3. Il progresso scientifico, secondo Pisacane, è garanzia di miglioramento per la società? Perché?

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CAP. 16 - L’ETÀ

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CULTURA

Progresso scientifico e progresso sociale

LETTERATURA

LETTERATURA IL ROMANTICISMO

LETTERARIO

I prodromi del Romanticismo in Europa Il Romanticismo è preceduto da un periodo in cui si diffondono le concezioni che abbiamo già definito preromantiche, come quelle alla base della poesia sepolcrale inglese di Edward Young e Thomas Gray, del successo dei Canti di Ossian di James Macpherson, e la moda del wertherismo, sorta in seguito alla pubblicazione de I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe. Alla fine del Settecento nasce in Germania il movimento dello Sturm und Drang (“Tempesta e Impeto”), che prende il nome dal titolo di un passionale dramma di Friedrich Maximilian Klinger (1752-1831): nell’opera, che risale al 1776, e nella tendenza che ne deriva, sono già implicite tutte le fondamentali caratteristiche del Romanticismo. In Italia la sensibilità preromantica si esprime, come abbiamo già visto, nell’opera di Vittorio Alfieri, Melchiorre Cesarotti e soprattutto di Ugo Foscolo, nella cui poetica convivono elementi neoclassici e grande passionalità romantica.

Caratteri e temi del Romanticismo Le concezioni fondamentali del Romanticismo letterario sono: • l’esaltazione del sentimento e la diffidenza verso ogni forma di razionalismo e di sensismo; • il primato dell’immaginazione e della fantasia rispetto al rigore razionale e alla logica; • l’individualismo, inteso come esaltazione dell’unicità, della creatività e della libertà dell’individuo, in particolare grazie alle sue facoltà più elevate e nobili, che si esprimono principalmente nell’arte; questo soggettivismo, talvolta esasperato, trova sbocco nella teoria del genio e nei tipici slanci drammatici e patetici dell’eroe romantico, i cui ideali di libertà, spesso senza limiti (titanismo) e sostenuti fino alla morte (vittimismo), sono sentiti con il cuore e non elaborati razionalmente; • il rifiuto di regole, convenzioni e norme che soffocano uomini e popoli, concepite dagli intellettuali romantici come ostacoli o vincoli contro cui battersi: prima di tutto, sul piano artistico, il principio di imitazione degli antichi proprio del classicismo; • la rivalutazione della storia (o storicismo) e, in particolare, dell’epoca medievale – considerata radice delle tradizioni e delle moderne

Caspar David Friedrich, Abbazia nel querceto, 1809-1810. Berlino, Alte Nationalgalerie.

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P

arole chiave

tradizionali, sia come slancio spiritualistico verso il mistero e l’ignoto, sia come misticismo panteistico rispetto alla natura, sia come tensione a fuggire in luoghi e tempi lontani o esotici, sia, infine, come contrasto fra realtà, spesso vissuta come una prigione, e ideale, ossia tra finito e infinito. Il dualismo della cultura romantica – tra reale e ideale, finito e infinito, ragione e sentimento, natura e storia, individuo e società – si traduce spesso, soprattutto nel Romanticismo anglosassone e tedesco, in una concezione drammatica e pessimistica della vita, in cui predomina un indefinito e oscuro senso di malinconia, una lacerante compresenza di desiderio e insoddisfazione, di aspirazione all’assoluto e di insofferenza dell’effimero e della quotidianità; la realtà sensibile, infine, è spesso considerata non come fonte di certezze, ma come apparenza illusoria da oltrepassare, per tentare di svelare il mistero dell’assoluto. Un tema tipico del Romanticismo è il sentimento dell’infelicità umana. Il dolore, secondo molti scrittori romantici, nasce dalla convinzione che l’uomo non è in grado di dare risposte certe ai grandi interrogativi riguardanti il mistero che lo circonda: può reagire con la ribellione titanica o con il lamento, con la fuga dal mondo o con la scelta del martirio, ma non può sfuggire alla condizione da cui la sofferenza nasce e si acuisce tanto più quanto maggiore è la sensibilità dell’individuo.

L’AGGETTIVO ROMANTICO Il termine romantico deriva dall’aggettivo inglese romantick o romantic, usato già nel Seicento in senso spregiativo con il significato di “bizzarro, sorprendente, irreale” e con particolare riferimento a opere d’arte estranee e anzi antitetiche ai princìpi del classicismo. Tale accezione deriva dagli antichi romances cavallereschi, spesso colmi di avventure fantastiche e irreali (così chiamati – a loro volta – per antonomasia, in quanto genere caratteristico delle letterature romanze, cioè derivate dal latino, e soprattutto di quella francese). Proprio in Francia, nel corso del Settecento, nasce la distinzione tra romanesque (“inverosimilmente romanzesco, esagerato”) e romantique (“sentimentale, malinconico”): mentre il primo termine conserva il significato originario, e in tale accezione si diffonde anche in Italia, il secondo viene usato da Rousseau per indicare il nuovo sentimento del paesaggio, dove il gusto del pittoresco si accompagna al sorgere nell’animo di uno stato di indefinita e vaga malinconia (come ne La nuova Eloisa o in Fantasticherie di un passeggiatore solitario). Solo in Germania, però, nella seconda metà del Settecento, romantisch acquista un valore totalmente positivo e viene usato in riferimento ad una letteratura caratterizzata dal rifiuto del classicismo, dall’esaltazione del sentimento e della spontaneità, da uno stato d’animo indefinito di struggente malinconia. È nell’opera di Friedrich von Schlegel (1772-1829) che si incontra per la prima volta la puntuale definizione di una nuova concezione estetica, posta poi in chiara contrapposizione al classicismo dal fratello August Wilhelm (1767-1845).

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CAP. 16 - L’ETÀ

La poetica romantica Nell’ambito del Romanticismo l’estetica, o filosofia dell’arte, ha grande rilievo. L’elaborazione della teoria romantica dell’arte avviene nell’ambito del cosiddetto gruppo di Jena, soprattutto a opera di Friedrich Schlegel e Friedrich Schelling, nel primo decennio dell’Ottocento. Il concetto fondamentale è espresso nell’affermazione secondo cui l’arte deve tendere a esprimere una realtà universale in cui si trovano unite poesia, filosofia e religione. L’artista che interpreta in modo esemplare in pittura tale concezione è Caspar David Friedrich (17741840), autore del celebre dipinto Viandante sopra il mare di nebbia (1818; cfr. pag. seg.). In ambito letterario, la rivolta romantica contro l’autorità si indirizza anzitutto contro i classici e, più ancora, contro la teoria dell’imitazione, cui viene contrapposta l’aspirazione a una poesia nuova e spontanea. Il milanese Giovanni Berchet, che pure non ama il folclore “primitivo” caro a molti Romantici europei, nella Lettera semiseria di Grisostomo scrive che Omero e gli autori classici furono in certo modo romantici, perché non cantarono le cose degli Egizi o de’ Caldei, ma quelle dei Greci, loro contemporanei. DEL

ROMANTICISMO

E DEL

REALISMO – LETTERATURA

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LETTERATURA

nazioni europee – contro la concezione illuminista della cultura, che ritiene le vicende umane, nei loro caratteri essenziali, non soggette a divenire, e che comporta quindi l’ammirazione della civiltà classica, vista in passato come modello immutabile e perfetto di umanità; • l’amore di patria e la coscienza nazionale, contrapposti al cosmopolitismo illuminista, che convergono nell’esaltazione delle letterature popolari e nella ricerca e valorizzazione delle antiche storie; • l’esaltazione della passione amorosa, intesa come forza primigenia e misteriosa, centro di una vita spesso inquieta, tormentata, avventurosa, priva di punti di riferimento stabili e, talora, in balia di impulsi laceranti e contraddittori; tale passione si sostituisce alla ricerca del piacere settecentesca e alla concezione della bellezza espressa da forme equilibrate e armoniche, propria della tradizione classicista; • la tensione verso l’assoluto e l’infinito, che si realizza in forme eterogenee e spesso contraddittorie: sia come ritorno alle religioni

LETTERATURA

La poetica romantica, radicalmente innovativa, concepisce l’arte come libera e spontanea creatività del sentimento e della fantasia, dell’individuo o di un popolo. Tale teoria viene codificata in Germania dalla rivista “Athenäum” (1798-1800), pubblicata da August Wilhelm von Schlegel (1767-1845) e dal fratello Friedrich (1772-1829). Centrale nella poetica del Romanticismo è la concezione dell’artista, individuo d’eccezione e personaggio anticonformista sia nella veste di eroe che in quella di genio (sintesi tra le due figure si può considerare Lord Byron, il poeta inglese morto a Missolungi per l’indipendenza della Grecia), sempre in balia della passione amorosa insidiata dalla morte, sempre in bilico tra il titanismo di chi si contrappone a tutto e a tutti e il vittimismo di chi si abbandona alla solitudine della sconfitta.

Un altro tema molto presente nella letteratura romantica – legato alle tensioni verso l’infinito, la fuga e l’annullamento – è la predilezione per il passato, per l’esotismo di paesi lontani, ma anche per i mondi fantastici come quello dello spiritismo, dell’orrore, o comunque diversi da quello quotidiano. Sul piano delle forme letterarie, la nuova tendenza romantica utilizza i più diversi generi e stili, rinnovandoli liberamente. Non c’è tema, stile o genere letterario che non venga esplorato dagli scrittori romantici. Ogni autore, inoltre, ha proprie caratteristiche peculiari: l’esaltazione dell’individualismo e della libertà si manifesta anche in ambito creativo, rendendo ogni opera diversa dall’altra. Inoltre, in ogni nazione europea, la sensibilità romantica si esprime con caratteristiche specifiche, legate alla tradizione e alla condizione storica locale.

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818. Amburgo, Kunsthalle.

498 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO – LETTERATURA

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William Wordsworth

Nella Prefazione dell’edizione del 1800 delle Ballate liriche, Samuel Taylor Coleridge (1772-1834) e William Wordsworth (1770-1850), autori tra i principali del Romanticismo inglese, dichiarano l’intenzione di riaffermare il legame con la tradizione popolare e la natura, intesa non in modo realistico ma quasi magico, con l’intento di penetrarne i misteriosi segreti. Nello stesso scritto, Wordsworth afferma, fra l’altro, il principio fondamentale del nuovo indirizzo secondo cui la poesia è lo spontaneo traboccare di forti emozioni e ribadisce, come i Romantici di tutta Europa, che essa non nasce dai sensi ma dall’immaginazione e dall’incontro fra la mente e la natura, intesa come supremo mistero. Lo scopo principale che ho avuto scrivendo queste poesie è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente ma non forzatamente, le leggi fondamentali della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione. La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza; perché il comportamento della vita rurale nasce da questi sentimenti elementari, e, dato il carattere di necessità delle attività rurali, è più facilmente compreso ed è più durevole; e, finalmente, perché in questa condizione le passioni degli uomini fanno tutt’uno con le forme stupende e imperiture della natura. Si è pure adottato il linguaggio di questi uomini (certo purificato da quelle che appaiono le sue reali improprietà e da tutte le permanenti e ragionevoli cause di avversione o di disgusto), perché proprio essi comunicano continuamente con le cose migliori, dalle quali proviene originariamente la parte migliore della lingua, e anche perché, a causa della loro posizione sociale e della uniformità e ristrettezza dei loro rapporti interpersonali, soggiacendo in minor misura all’azione della vanità sociale, essi comunicano i loro sentimenti e le loro idee con espressioni semplici e non elaborate. [...] Le poesie di questo volume si distingueranno almeno per un elemento, cioè per il fatto che ciascuna di esse ha un nobile intento. Non dico d’aver ogni volta cominciato a scrivere con un chiaro progetto compiutamente delineato, ma credo che la mia propensione meditativa abbia a tal punto plasmato i miei sentimenti, che la mia descrizione di quegli oggetti che suscitano questi intensi sentimenti recherà con sé, assieme ad essi, un intento. Se in ciò mi sbaglio ho allora ben pochi diritti di chiamarmi un poeta. Tutta la buona poesia è infatti spontaneo traboccare di forti emozioni, ma benché ciò sia vero, nessuna poesia di un qualche valore fu mai scritta su un qualsivoglia argomento se non da un autore che, dotato di una sensibilità organica superiore al comune, avesse anche pensato a lungo e profondamente. Le nostre ininterrotte effusioni di sentimento sono infatti modificate e guidate dai nostri pensieri, che sono invero i rappresentanti di tutti i nostri passati sentimenti. da Ballate liriche, a cura di A. Brilli, trad. di F. Marucci, Mondadori, Milano, 1979

Comprensione 1. Quali intenti persegue Wordsworth nella composizione delle sue poesie? 2. Come spiega Wordsworth le proprie scelte linguistiche? 3. Come l’autore definisce la poesia?

John Constable, Il mulino di Flatford. Londra, Tate Gallery. Anche se nella pittura romantica inglese la natura è spesso rappresentata nei suoi momenti di sconvolgimento, Constable ritrae anche il volto pacifico del paesaggio, volgendo il suo interesse all’osservazione diretta del vero.

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CAP. 16 - L’ETÀ

DEL

ROMANTICISMO

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REALISMO – LETTERATURA

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LETTERATURA

Il manifesto del Romanticismo inglese

LETTERATURA

I CARATTERI DELL’ILLUMINISMO E DEL ROMANTICISMO ILLUMINISMO

ROMANTICISMO

Primato della ragione.

Primato del sentimento.

Interesse per la razionalità.

Interesse per l’irrazionale.

Interesse per la vita pratica.

Interesse per il sogno.

Ottimismo e fiducia.

Pessimismo e malinconia.

Ricerca del realismo.

Ricerca del fantastico.

Tensione alla divulgazione.

Intimismo letterario.

Prevalenza della prosa.

Prevalenza della poesia.

Polemica contro la tradizione.

Recupero della tradizione.

La natura come ambito d’indagine.

La natura come specchio dello stato d’animo.

Primato della logica.

Primato della fantasia.

Culto delle scienze.

Culto delle arti.

Interesse per il mondo materiale.

Interesse per la spiritualità.

Empirismo.

Misticismo.

Ricerca delle leggi dei fenomeni naturali.

Ricerca dell’ignoto e dell’indefinito.

Tensione verso le riforme sociali.

Desiderio di fuga dalla società.

Interesse per il conoscibile.

Interesse per il mistero.

Culto della modernità.

Culto del Medioevo.

Primato dell’uguaglianza fra gli uomini.

Primato della libertà individuale.

Cosmopolitismo.

Nazionalismo patriottico.

500 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO – LETTERATURA

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Letteratura e arte LA PITTURA ROMANTICA Nell’ambito della filosofia romantica acquista grande rilievo l’estetica. L’elaborazione dei princìpi teorici su cui si fonda l’arte romantica avviene nell’ambito del gruppo di Jena, di cui fanno parte Friedrich Schlegel (1772-1829) e Friedrich Schelling (1775-1854). L’opera d’arte, in opposizione al principio classicistico dell’imitazione, vi emerge come realtà simbolica che unisce anima e corpo, da un lato rendendo visibile la spiritualità insita nella realtà della Natura rappresentata nel dipinto, dall’altro cogliendo la forza creatrice della Natura che si manifesta nell’inteCaspar David Friedrich, Monaco in riva al mare, 1808-1809. Berlino, Palazzo di Charlottenburg. riorità delle cose. L’uomo romantico contempla la vastità e la maestosità del paesaggio Il pittore che per primo e in modo che si stende davanti ai suoi occhi, sperimentando in prima persona esemplare interpreta tale concezioil sentimento del sublime: fenomeni naturali, quali le bufere ne è il tedesco Caspar David Friee le tempeste, spaventano ma al contempo affascinano, drich (1774-1840) che in molti difacendo sentire la sproporzione tra l’immensità della natura e la piccolezza dell’uomo ed evocando l’infinito. pinti, ed in particolare in Monaco in riva al mare (1808-1809) e in Viandante sopra il mare di nebbia (1818), rappresenta un personaggio di spalle, intento a contemplare un paesaggio che si estende verso l’infinito: si determina così un rapporto parallelo fra il venir meno del limite interiore dell’individuo e del limite esterno del cosmo che permette il tipico rispecchiamento romantico fra animo del personaggio e paesaggio naturale. In Inghilterra la pittura romantica si manifesta soprattutto attraverso paesaggi grandiosi e sconvolti, visionari e fantastici, che suscitano inquietudine: il principale esponente della tendenza è il pittore e poeta William Blake (1757-1827). Negli acquerelli di Joseph Mallord William Turner (1775-1851) il paesaggio si stempera in colore acquistando una luminosità ed una carica psicologica e spirituale che a tratti paiono anticipare l’Impressionismo. In Francia, dopo un momento iniziale in cui gusto classico e romantico si intrecciano intorno al mito di Napoleone (incarnato dalle opere della prima fase di Jean-Auguste Dominique Ingres), emergono le figure di Jean Louis Théodore Géricault (17911824) ed Eugène Delacroix (1798-1863), che ritraggono la lotta dell’uomo contro la violenza della natura e la disperata, spesso vana, battaglia contro gli eventi, condotta dall’individuo per tentare di realizzare i propri ideali.

Joseph M. William Turner, Pioggia, vapore e velocità, 1844. Londra, National Gallery.

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CAP. 16 - L’ETÀ

DEL

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REALISMO – LETTERATURA

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LETTERATURA

Caratteri e temi del Romanticismo italiano In Italia, il Romanticismo si afferma tardivamente, in seguito alla polemica innescata dalla pubblicazione sulla rivista “Biblioteca italiana” di una lettera di Madame de Staël (Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni), che invita i letterati italiani a mettersi al passo con i tempi, abbandonando la ripetitiva imitazione dei classici, antiquata e retorica, e aprendosi alle più vive espressioni dello spirito moderno, traducendo e studiando gli autori inglesi e tedeschi loro contemporanei. L’origine del Romanticismo italiano viene fatta convenzionalmente risalire al 1816, anno in cui, sulla base di questo articolo, scoppia la polemica fra classicisti e Romantici. Le posizioni dei classicisti vengono difese soprattutto da Pietro Giordani (1774-1848), che sostiene la tradizione letteraria italiana come fattore di prestigio della patria divisa, e da Vincenzo Monti che, in contrapposizione alla scrittrice francese, elabora il Sermone sulla mitologia, pubblicato nel 1825. Molti giovani intellettuali romantici si schierano invece a fianco di Madame de Staël, convinti della necessità di prendere atto della decadenza artistica e morale del Paese, di riconoscerne le cause e battersi per il riscatto. Nel 1816, tre esponenti della tendenza – il torinese Ludovico di Breme (1780-1820) e i milanesi Giovanni Berchet (1783-1851) e Pietro Borsieri (1788-1852) – pubblicano alcuni testi che si configurano come veri e propri manifesti del Romanticismo italiano e ne evidenziano la specificità. La polemica dei primi romantici italiani è, infatti, rivolta contro il classicismo, ma non contro gli illuministi lombardi, con i quali vengono mantenuti buoni rapporti, sulla base del comune ideale indipendentista, patriottico e costituzionalista. In particolare Berchet, nella Lettera semiseria di Grisostomo, afferma che l’arte deve essere spontanea, ovvero libera da regole, romantica, vale a dire ispirata alla natura e non all’imitazione dei classici, educativa, cioè atta a formare una coscienza morale e nazionale, e infine popolare, dato che la disposizione alla poesia è presente in ogni essere umano. La particolare interpretazione del Romanticismo proposta da Madame de Staël (secondo cui la letteratura è espressione della società) e la situazione risorgimentale influenzano la specificità dei caratteri e dei temi del Romanticismo italiano, che si riassumono: • nella continuità (e non nella rottura) con l’Illuminismo, in particolare lombardo;

• nella scarsa presenza dei temi tipici del Romanticismo sia tedesco sia inglese, ad esempio il lirismo fantastico; • nella prevalenza dei temi patriottico-nazionalisti, riguardanti la rivalutazione della nazione, della sua cultura e tradizione, della sua storia; • nell’importanza attribuita alla questione della lingua. La più importante rivista del Romanticismo italiano è il già citato periodico milanese “Il Conciliatore” (1818-1819), animato da Silvio Pellico ed Ermes Visconti e soppresso dalla censura austriaca per i contenuti nazionalistici. La sua azione letteraria sarà poi continuata dall’“Antologia” (1821-1833), rivista nata a Firenze e curata da Gino Capponi e Niccolò Tommaseo. Principali esponenti del Romanticismo italiano, seppure con caratteristiche che li accomunano solo in parte alla tendenza europea, sono Alessandro Manzoni (1785-1873) e Giacomo Leopardi (1798-1837). Dopo la proclamazione del Regno d’Italia (1861) il movimento romantico andrà esaurendosi, avendo, fra i suoi ultimi esponenti, poeti minori come Giovanni Prati (1814-1884) e Aleardo Aleardi (1812-1878).

Prima pagina del numero uno del “Conciliatore”. Milano, Museo del Risorgimento.

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Dopo il 1848, l’enorme interesse suscitato dalla questione sociale, il declino del Romanticismo e l’avvento del Positivismo determinano, nell’ambito culturale, artistico e letterario europeo, il prevalere del Realismo. La crisi del Romanticismo deriva in parte anche dalla sconfitta dei moti rivoluzionari di metà secolo, che spegne lo slancio ideale che anima le lotte patriottiche, costituzionali e indipendentiste delle forze liberali e democratiche europee. Per effetto del rapido sviluppo scientifico e tecnico, si diffonde in Europa la filosofia del Positivismo, i cui principali esponenti sono i francesi Auguste Comte (1798-1857) e Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893), oltre all’inglese Herbert Spencer (1820-1903). Quest’ultimo, in particolare, applica all’ambito sociale la teoria evoluzionista – formulata dal naturalista britannico Charles Robert Darwin (18091882) – che rappresenta, in ambito scientifico, una rivoluzione di importanza paragonabile a quella copernicano-galileiana del Seicento. La filosofia positivista torna ad esaltare la scienza, ritenuta unico strumento per raggiungere la verità in ogni campo del sapere, e a nutrire entusiastica fiducia nel progresso umano, ritenuto possibile grazie ai successi della scienza stessa, della tecnica e dell’industrializzazione, fattori che nelle nazioni più avanzate d’Europa – l’Inghilterra e la Francia – favoriscono il miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia, facendo sorgere la speranza di risolvere la questione sociale, attenuando la violenza dei conflitti civili e gettando le basi della cosiddetta seconda Rivoluzione industriale. Tutta la cultura europea conosce una svolta in senso realistico. L’arte e la letteratura si

Caratteri e temi del Realismo Con il termine realismo si intende, in senso lato, qualsiasi tendenza culturale, artistica e letteraria, che si propone di rappresentare la realtà in modo quanto più possibile fedele, oggettivo, concreto, e, dunque, verosimile. In questo senso molto generale, è possibile reperire esempi di opere di carattere realistico pressoché in tutte le epoche e culture, ad esempio nel Decameron (1348) di Giovanni Boccaccio o nella narrativa inglese del Settecento. Il Realismo in senso stretto è quella corrente artistica e letteraria, molto ampia e articolata, diffusasi in Europa alla metà dell’Ottocento, in concomitanza con lo sviluppo scientifico e tecnico e con l’affermazione dell’industrializzazione, con le sue esigenze di concretezza e pragmatismo, e spesso influenzata dall’interesse suscitato intorno alla questione sociale dalla Rivoluzione industriale, dal pensiero politico socialista e, in particolare, marxista. I narratori realisti si propongono, infatti, di analizzare ed esplorare i modi d’essere degli individui e le condizioni di vita delle classi sociali, borghesi e proletarie, del tempo in cui scrivono, attraverso soprattutto il romanzo di ambientazione verosimile. Sviluppi specifici e successivi del Realismo vanno considerati il Naturalismo in Francia e il Veri-

André Collin, Poveri. Tournai, Museo di Belle Arti.

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DEL

ROMANTICISMO

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orientano verso una rappresentazione concreta, obiettiva, analitica della realtà storica e sociale contemporanea, abbandonando il sentimentalismo romantico e confermando il definitivo superamento della concezione eroica del mondo propria del classicismo: il romanzo è il veicolo letterario di queste istanze realistiche e l’uomo concreto del tempo, con le sue virtù, le sue contraddizioni e i suoi limiti, ne è il nuovo protagonista.

IL REALISMO

LETTERATURA

smo in Italia, le cui esigenze di fondo verranno riprese, in un contesto storico profondamente mutato, nel Neorealismo italiano novecentesco. I caratteri del Realismo del secondo Ottocento sono: • la verosimiglianza; • l’oggettività; • la rappresentazione della vita e dei costumi del tempo; • l’ambientazione fedele delle storie nel presente; • l’interesse per il dettaglio; • i personaggi popolari; • gli affreschi sociali corali; • lo stile semplice, medio ma analitico. I temi ricorrenti del Realismo sono: • la denuncia sociale; • la vita della classe media; • la vita di provincia; • l’emarginazione o l’ascesa sociale.

Il romanzo realistico Il romanzo realistico si propone di descrivere la realtà sociale, mostrandone gli aspetti più crudi e denunciandone le ingiustizie. Secondo la tesi comunemente accettata dello studioso ungherese György Lukács, esposta nel saggio Il romanzo storico (1938), il passaggio dal romanzo storico romantico al romanzo realistico si realizza con il cospicuo numero delle opere, raggruppate nel ciclo della Commedia umana, del francese Honoré de Balzac (1799-1850), che nei suoi romanzi intende esplorare la vita di tutti i ceti sociali della Francia della Restaurazione.

La distinzione di Lukács fra romanzo storico e realistico differenzia le opere rispetto all’ambientazione nel passato (romanzo storico) o nel presente contemporaneo allo scrittore (romanzo realistico). Tale criterio distintivo si dimostra comunque eccessivamente rigido. Il capolavoro di Alessandro Manzoni I promessi sposi, ad esempio, si considera romanzo storico e non realistico, in quanto scritto nel XIX secolo e ambientato nel XVII secolo. Se però si prescinde da tale caratteristica e si concentra l’attenzione soprattutto sull’analisi dei ceti sociali e sugli affreschi che pongono al centro dell’azione la popolazione – l’assalto ai forni o i capitoli ambientati a Milano durante l’epidemia di peste – non si può negare che la prosa manzoniana presenti, anche stilisticamente, molte caratteristiche del romanzo realistico. Il genere in Italia non conoscerà altri grandi rappresentanti e troverà espressione solo, a fine secolo, in autori come il milanese Emilio De Marchi (1851-1901), il cui capolavoro, Demetrio Pianelli, verrà pubblicato nel 1890. Il Realismo letterario europeo ottocentesco annovera fra le sue fila autori come i francesi Honoré de Balzac (1799-1850), Stendhal (1783-1842) – in parte ancora legato alla poetica romantica – e Gustave Flaubert (18211880), che, invece, già anticipa il Naturalismo; importanti sono le opere narrative dell’inglese Charles Dickens (1812-1870), che eccelle anche nella narrativa umoristica, e del russo Lev Nikolaevicˇ Tolstoj (1828-1910), soprattutto con il grande affresco a sfondo storico Guerra e pace (ultimato nel 1869).

La città fabbrica

Charles Dickens

Il realismo di Charles Dickens (1812-1870) potrebbe dirsi pittorico. La sua penna, che non esita a scandagliare la realtà, ama infatti le tinte forti, a volte patetiche, nel tentativo di commuovere e di coinvolgere il lettore. Alcuni suoi capolavori sono umoristici, anche se la sua opera è sempre improntata all’impegno sociale. Ne sono esempio David Copperfield (1849-1850), Tempi difficili (1854) – da cui è tratto il brano seguente – e Grandi speranze (1860-1861), nei quali la critica sociale si approfondisce e diventa tenebrosa, rispetto a un mondo che l’autore ritiene assista impotente e disinteressato allo sfruttamento degli umili e alla devastazione delle città in nome del profitto. Coketown, verso la quale si stavano dirigendo Gradgrind e Bounderby1, era un trionfo del fatto, poiché non si era lasciata corrompere dalla fantasia2 più della signora Gradgrind. Accenniamo dunque la nota dominante, Coketown, prima di continuare la nostra aria3. 1. Gradgrind e Bounderby: si tratta di due delle famiglie protagoniste del romanzo. Il signor Gradgrind, seguace accanito della filosofia utilitaristica, ha educato in questo clima i figli Tom e Louisa, dando coerentemente quest’ultima in sposa all’industriale Bounderby, della stessa età del suocero. Naturalmente il matrimonio è destinato al fallimento. Tale fatto, insieme ad una serie di altre circostanze dram-

matiche, porteranno infine Gradgrind a ripensare il suo terribile modello di vita. Nella scena qui presentata suocero e genero si recano nella città di Coketown, dove sono le fabbriche di quest’ultimo. 2. fantasia: nell’educazione utilitaristica di Gradgrind ogni traccia di fantasia, di immaginazione e di gioco è bandita. 3. aria: discorso.

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4. Aveva... venire: l’autore sottolinea come a Coketown regnassero sovrane l’omologazione e la spersonalizzazione. Sincera polemica rispetto alla devastante industrializzazione. 5. raffinatezze... eleganti: ironicamente Dickens rappresenta la tipica mentalità borghese del tempo, attenta ai valori materiali e all’apparire. 6. epigrafi: iscrizioni. 7. La prigione… la prigione: la città di Coketown è osservata con uno stile asciutto e preciso allo stesso tempo. Tra

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le righe si nota anche un aspetto paradossale. Ogni costruzione si basa su identici canoni architettonici, al punto che la funzione dei vari edifici è difficilmente distinguibile. 8. Fatto, fatto, fatto: l’architettura di Coketown risponde a criteri assolutamente funzionali, cioè a “fatti”. Qualsiasi aspetto simbolico o decorativo degli edifici è bandito. 9. Società della Temperanza: è una allusione satirica alle tante associazioni filantropiche e perbeniste sviluppatesi nell’Inghilterra del tempo per contrastare i sempre più diffusi fenomeni di degrado sociale.

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Era una città di mattoni rossi, o meglio di mattoni che sarebbero stati rossi se il fumo e la cenere lo avessero permesso; ma, così come stavano le cose, era una città di un rosso e nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio. Era una città di macchine e di alte ciminiere dalle quali uscivano senza soluzione di continuità interminabili serpenti di fumo che mai riuscivano a svolgersi. Aveva un canale nero, un fiume color porpora per le vernici maleodoranti, e vasti gruppi di edifici pieni di finestre dove tutto il giorno era un continuo battere e tremare, dove gli stantuffi delle macchine a vapore si muovevano in su e in giù, monotoni, come la testa di un elefante in preda a una pazzia melanconica. Aveva molte strade larghe, tutte eguali una all’altra e molte viuzze ancor più simili una all’altra, abitate da persone egualmente simili le une alle altre, che uscivano e rientravano tutte alla stessa ora, con lo stesso scalpiccio sugli stessi selciati, per fare lo stesso lavoro, persone per le quali ogni giorno era eguale al giorno precedente e all’indomani, ogni anno il duplicato dell’anno trascorso e dell’anno a venire4. Tali attributi di Coketown erano inseparabili dall’industria che l’aveva fatta nascere; ma, a contrappeso, c’erano le comodità di vita che si diffondevano per il mondo, le raffinatezze di vita che contribuiscono tanto a fare le signore eleganti5, le quali sopporterebbero appena di sentir nominare il luogo che abbiamo ricordato. Le altre caratteristiche di Coketown erano meno severe, ed eccole. Nulla avreste visto a Coketown che non fosse severamente lavorativo. Se i membri di una setta religiosa si costruivano lì una chiesa – come avevano fatto i membri di diciotto sette – la facevano come un pio deposito di mattoni rossi, sormontata qualche volta (ma solo negli esempi più altamente ornamentali) da una campana in una specie di gabbia da uccelli. Tutte le epigrafi6 della città erano scritte allo stesso modo, in severi caratteri bianchi e neri. La prigione avrebbe potuto essere l’ospedale, l’ospedale avrebbe potuto essere la prigione7, il municipio avrebbe potuto essere l’una o l’altro o tutti e due, o non importa quale altra cosa, dato che i rispettivi accorgimenti architettonici non indicavano nulla in contrario. Fatto, fatto, fatto8 dappertutto nell’aspetto materiale della città; fatto, fatto, fatto dappertutto in quello immateriale. La scuola di M’Choakumchild non era che un fatto, la scuola di disegno non era che un fatto, i rapporti fra padrone e operaio non erano che un fatto, non c’erano che fatti fra l’ospedale della maternità e il cimitero, e quello che non poteva figurare in cifre, che non si poteva comperare al prezzo più basso per essere rivenduto al più alto non era e non sarebbe mai stato, fino alla fine dei secoli, Amen. Una città così consacrata al fatto, così lieta di farlo trionfare, era certo felice, non è vero? Be’, non precisamente. No? Oh, povero me. Veniva poi la Società della Temperanza9, la quale si lamentava perché quella stessa gente si ubriacava, dimostrando, tabelle statistiche alla mano, che si ubriacava davvero e provando (all’ora del tè), che nessuna considerazione umana e divina (salvo una medaglia) l’avrebbe indotta a smettere di ubriacarsi. Veniva poi il chimico e farmacista il quale, tabelle statistiche alla mano, dimostrava che quella gente non si ubriacava, ma prendeva l’oppio. Seguiva l’abilissimo cappellano della prigione il quale, con altre tabelle statistiche che annullavano tutte le precedenti tabelle statistiche, dimostrava che quella medesima gente se la spassava in ignobili covili, nascosti all’occhio del pubblico, dove si cantavano canzoni ignobili e si ballavano danze oscene, i partecipanti alle quali qualche volta erano numerosissimi [...]. Venivano poi i signori Gradgrind e Bounderby, i due gentiluomini che in questo momento stanno attraversando Coketown, entrambi eminentemente pratici, che, al bisogno, potrebbero fornire altri rapporti e altre statistiche derivate dalla loro personale esperienza ed avvalorate da casi da loro stessi conosciuti e visti, rapporti e statistiche dai quali derivava chiaramente – ed era la sola cosa chiara di tutta la faccenda – che quella stessa gente era un branco di canaglie, signori; che mai vi sarebbe stata grata per quello che avreste fatto a suo vantaggio, signori; che era sempre in agitazione, signori; che non sapeva che cosa voleva; che viveva con quanto c’e-

LETTERATURA

ra di meglio e comperava burro fresco; che insisteva per un caffè Moka e rifiutava la carne che non fosse di prima scelta, e pure si dimostrava sempre insoddisfatta e intrattabile. In breve, era la morale della vecchia ninna-nanna10: C’era una vecchierella, chi mai lo crederebbe? Che di cibi e bevande penuria mai non ebbe; D’ogni bevanda e cibo consisté la sua dieta, Eppure la vecchietta non fu mai sazia e lieta. da Tempi difficili, trad. di B. Tasso, Rizzoli, Milano, 1990

10. In breve… ninna-nanna: morale paternalistica: più elemosina si dà (lesinando magari sui veri diritti) più i bene-

ficiari di tale atteggiamento filantropico si dimostrano ingrati. La satira di Dickens raggiunge un livello pungente e amaro.

Comprensione 1. Dove si svolge l’azione? 2. Qual è la caratteristica principale della cittadina in cui si svolge l’azione? 3. Come definiresti il tono assunto dall’autore nella narrazione?

I PRINCIPALI CARATTERI DEL REALISMO

TEMI

• Ispirati alle dinamiche sociali. • Denuncia delle contraddizioni sociali. • Interesse per i ceti borghesi e popolari. • Presentazione della parabola sociale dei personaggi.

STILE

• Descrizione fedele della realtà. • Interventi del narratore a commento delle vicende presentate. • Ambientazione contemporanea. • Interesse per il dettaglio. • Attenzione alla psicologia dei personaggi. • Linguaggio medio.

Gustave Courbet, Gli spaccapietre, 1849. Già a Dresda, Gemäldegalerie. L’opera è andata distrutta durante la Seconda guerra mondiale.

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Tipologie e generi letterari La poesia Nel periodo romantico la poesia – soprattutto lirica – si sviluppa in tutta Europa, sperimentando diverse e innovative forme metriche. Un profondo rinnovamento della canzone tradizionale, detta anche petrarchesca, ha luogo in Italia con Giacomo Leopardi, le cui canzoni non hanno più un uguale e simmetrico numero di versi né un sistema di rime obbligato (canzone libera). In genere, la poesia romantica predilige una maggiore libertà e, già con il carme Dei sepolcri di Ugo Foscolo, i versi sciolti. Più legati alla metrica tradizionale sono, invece, inni e componimenti poetici di Alessandro Manzoni. In Italia, dopo l’Unità (1861), cessa la vasta produzione poetica a tema risorgimentale, che predilige la forma dell’inno, come Fratelli d’Italia di Mameli. Tipologie e generi poetici simili a quelli del primo Romanticismo europeo si trovano infine, nel secondo Ottocento, nei versi degli autori del tardo Romanticismo, quali Prati e Aleardi. Il romanzo Nella prima metà del secolo in Europa si diffonde il romanzo storico, di cui sono espressione autori come Scott (Ivanhoe, 1820) in Inghilterra e Manzoni (I promessi sposi, 1824 e 1840) in Italia. Sempre in Italia, Tommaseo con Fede e bellezza (1840) si pone all’origine del romanzo intimista, mentre per Le confessioni di un italiano (1867) di Nievo si può parlare di romanzo di formazione. In Francia, Hugo realizza, soprattutto con I miserabili (1862), un’integrazione fra romanzo romantico e realista. Il romanzo sociale realista – diffuso soprattutto in Francia e Inghilterra – si impone con Balzac (Papà Goriot, 1834) e Dickens (Oliver Twist, 1838), mentre le opere di Stendhal (Il rosso e il nero, 1830; La Certosa di Parma, 1839) e del russo Tolstoj (Guerra e pace, 1863-1869) si possono definire romanzi a sfondo storico, pur con elementi realistici. In Italia il primo vero e proprio romanzo realista è Demetrio Pianelli (1890) di De Marchi, anche se non mancano aspetti realistici nel capolavoro manzoniano. Il romanzo psicologico, con il francese Flaubert (Madame Bovary, 1857) e il russo Dostoevskij (Delitto e castigo, 1866), assume caratteristiche particolari: nel primo caso, di narrazione realistica impersonale che precorre il Naturalismo di Zola; nel secondo, di scavo introspettivo e psicologico che anticipa la narrativa novecentesca. Sono inoltre da ricordare Frankenstein (1818) di Mary Shelley, che porta a compimento la stagione del romanzo gotico o “nero” iniziata da Walpole e Radcliffe, e i racconti dell’orrore dell’americano Poe. Il romanzo umoristico ha grande successo in Inghilterra e ne è maestro Dickens con Il Circolo Pickwick (1838). A sé stante è, infine, Moby Dick (1851), capolavoro dell’americano Melville. La narrativa breve Nella prima metà dell’Ottocento la novella e il racconto sono caratterizzati da elementi non realistici, soprattutto in ambito anglosassone. Poe ne è maestro indiscusso. In età romantica, inoltre, il recupero di materiali della letteratura orale e del folclore si manifesta anche nelle raccolte o rielaborazioni di fiabe; esemplari quelle dei fratelli Grimm, in Germania. L’autobiografia L’interesse romantico per l’individuo determina, in Europa come in Italia, un ampio sviluppo del genere. Vicino all’autobiografia è anche il genere memorialistico, cui in Italia si dedicano molti autori risorgimentali: è il caso de Le mie prigioni (1832) di Silvio Pellico, ma anche de I miei ricordi (1867) di Massimo d’Azeglio e delle Ricordanze della mia vita pubblica (pubblicate postume nel 1879-1880) di Luigi Settembrini. Costituiscono un vero e proprio filone le opere relative alla spedizione dei Mille. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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REALISMO – LETTERATURA

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La saggistica Notevole importanza assume in questo periodo la saggistica, con opere che pongono le basi dell’estetica romantica: ricordiamo il saggio Difesa della poesia (1821) di Percy Bysshe Shelley e, in Francia, la prefazione al Cromwell (1827) di Hugo. La saggistica romantica italiana si sviluppa soprattutto sulle pagine del “Conciliatore” (18181819), nelle numerose opere teoriche di Alessandro Manzoni e, dopo l’unificazione, nella critica letteraria di ispirazione risorgimentale di Francesco De Sanctis. Importanti sono anche le opere che vertono su temi politici e patriottici e, in particolare, sulla questione dell’unificazione. Nella parte centrale del secolo la trattatistica europea affronta soprattutto temi sociali – nei saggi dei socialisti utopisti (Owen, Saint-Simon, Fourier, Proudhon) e soprattutto nelle opere di Marx e Engels (in primo luogo, il Manifesto del 1848) – e temi politici ed economici. Il teatro Il teatro romantico si sviluppa nei primi decenni dell’Ottocento con tragedie come l’esemplare Hernani (1830) di Victor Hugo. In Italia, il modello di Manzoni, con le tragedie in versi Il Conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822), è seguito da numerosi imitatori. I Romantici aspirano alla commistione dei generi, che si spinge fino alla fusione delle diverse forme di espressione artistica, sicché la letteratura spesso gareggia con la musica e le arti figurative. Non per nulla, l’età del Romanticismo è anche, soprattutto in Italia, l’età d’oro dell’opera lirica. Ricordiamo solo i nomi di Rossini, Bellini, Donizetti e, più tardi, Verdi.

Il teatro della Canobiana di Milano in una stampa dell’Ottocento, conservata a Napoli nella biblioteca del Conservatorio S. Pietro e Maiella. Al Teatro della Canobiana il 12 maggio 1832 è rappresentata la prima dell’Elisir d’Amore, melodramma di Donizetti.

508 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO – LETTERATURA

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Concetti chiave STORIA Il Congresso di Vienna (1815) apre il periodo della Restaurazione, nel quale, con la Santa Alleanza, Austria, Russia e Prussia cercano di riportare e mantenere in Europa la situazione precedente al 1789, anno di inizio della Rivoluzione francese. Le prime rivolte, ben presto soffocate, scoppiano nel 1820-1821 in Spagna, in Grecia e in Italia, dove danno inizio al Risorgimento. Dopo i moti del 1830-1831, che accompagnano la nascita del governo liberale di Luigi Filippo d’Orléans in Francia, nel 1848 nuove insurrezioni si verificano in tutta Europa. In Italia i movimenti insurrezionali di Venezia e Milano innescano la Prima guerra d’indipendenza, che pone il Regno sabaudo alla guida del processo di unificazione nazionale. Il tentativo di Carlo Alberto si conclude, però, con la sconfitta e l’abdicazione (1849). Con Vittorio Emanuele II e il suo ministro Camillo Benso conte di Cavour, in seguito all’alleanza con Napoleone III – diventato imperatore in Francia dal 1852 –, il processo risorgimentale porta, dopo la Seconda guerra d’indipendenza (1859) e l’impresa dei Mille di Giuseppe Garibaldi (1860), alla nascita del Regno d’Italia (1861). La Terza guerra d’indipendenza (1866) si conclude con l’annessione del Veneto. La presa di Roma avviene nel 1870, e l’anno successivo la città viene proclamata capitale.

CULTURA L’ORIGINE DEL ROMANTICISMO Il crollo della fiducia nella ragione illuminista, dovuto agli eccessi della Rivoluzione francese e alla conquista napoleonica, determina il nascere del Romanticismo, che trasmette valori opposti a quelli illuministi: la filosofia idealistica viene contrapposta al materialismo e al sensismo, la religiosità all’ateismo, la ricerca dell’assoluto all’azione pratica per cambiare il mondo; l’intuizione all’indagine scientifica; il nazionalismo al cosmopolitismo, la storia alla sociologia, e la rivalutazione del Medioevo all’attenzione al presente, l’impulso libertario al senso di appartenenza sociale, l’individualismo al collettivismo.

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ROMANTICISMO ITALIANO E POLITICA Il Romanticismo in Italia si intreccia con le istanze di libertà e di indipendenza nazionale proprie del Risorgimento. In questo periodo svolge un ruolo fondamentale il periodico scientifico-letterario milanese “Il Conciliatore” (1818-1819). Due sono le tendenze che combattono per l’indipendenza e l’Unità e, nel frattempo, si contrappongono fra loro: quella liberale moderata (che ha tra i suoi rappresentanti Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio e Camillo Cavour) e quella democratico-rivoluzionaria (i cui principali esponenti sono Giuseppe Mazzini, fondatore della Giovine Italia, Giuseppe Garibaldi, Carlo Pisacane, di idee anarco-socialiste, Giuseppe Ferrari e il federalista Carlo Cattaneo). SOCIALISMO UTOPISTICO E SOCIALISMO SCIENTIFICO I problemi che vertono intorno alle drammatiche condizioni di vita delle classi lavoratrici e i problemi sociali causati dall’industrializzazione (urbanizzazione, disoccupazione, assenza di legislazione sul lavoro e di assistenza medica) sono noti come “questione sociale”. Il socialismo utopistico è espresso dalle teorie dell’inglese Robert Owen (17711858), che tenta di fondare industrie modello, dei francesi Claude-Henry de Saint-Simon (1760-1825), che teorizza una società industriale pianificata e tecnocratica; Charles Fourier (1772-1837), che ipotizza la creazione di comuni o falansteri, e Pierre Joseph Proudhon (1809-1865), che ritiene la proprietà privata un furto ed è contrario a ogni statalismo e collettivismo. Le teorie del socialismo scientifico sono enunciate nel Manifesto del partito comunista (1848) di Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), secondo cui dall’analisi scientifica della storia e della società deriva la scoperta dell’inevitabilità del socialismo, che deve essere instaurato attraverso la lotta di classe, cioè la rivoluzione della classe operaia, il cui partito, conquistato il potere, porterà alla caduta del sistema capitalistico con l’abolizione della proprietà privata e l’instaurazione del collettivismo socialista.

CAP. 16 - L’ETÀ

DEL

ROMANTICISMO

E DEL

REALISMO

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LETTERATURA IL ROMANTICISMO LETTERARIO Il Romanticismo (termine che deriva dall’aggettivo inglese romantic, sinonimo di fantastico) poggia i suoi cardini nell’esaltazione dell’immaginazione e della fantasia di contro al razionalismo e al sensismo; nell’individualismo come esaltazione dell’unicità, della creatività e della libertà dell’individuo e nella teoria del genio artistico e dell’eroe romantico che segue i propri ideali fino alla morte (titanismo e vittimismo); nel rifiuto di regole, convenzioni e norme che soffocano uomini e popoli; nella polemica contro il classicismo; nella rivalutazione della storia (o storicismo) e in particolare del Medioevo; nel patriottismo contrapposto al cosmopolitismo illuminista; nell’esaltazione della passione amorosa, spesso fonte di tormento e illusioni; nell’ansia di assoluto e nella tensione al misticismo religioso; nell’interesse per il mistero e l’ignoto; nel desiderio di fuga nello spazio e nel tempo; nella concezione pessimistica della vita e della società di contro all’ottimismo e alla fiducia nel progresso della concezione illuminista. LA POETICA ROMANTICA La polemica romantica si indirizza contro i classici e la teoria dell’imitazione, cui viene contrapposta l’aspirazione a una poesia nuova e spontanea, la creatività del sentimento e della fantasia dell’individuo o di un singolo popolo. Tale poetica viene codificata in Germania dalla rivista Athenäum (17981800), pubblicata dai fratelli Schlegel. Altri temi centrali della poetica romantica espressa in ambito letterario sono la concezione dell’eroe romantico (combattente per la libertà o artista-genio, come Lord Byron, il poeta inglese morto a Missolungi per l’indipendenza della Grecia), i miti della fuga e dell’annullamento, la predilezione per il passato, il gusto per l’esotico e per il fantastico. CARATTERI E TEMI DEL ROMANTICISMO ITALIANO L’inizio del Romanticismo italiano risale al 1816, anno in cui scoppia la polemica fra classicisti e Romantici, innescata da una lettera di Madame de Staël che invita gli Italiani a tradurre e studiare gli autori inglesi e tedeschi abbandonando la retorica del classicismo.

Le posizioni classiciste vengono difese da Pietro Giordani e da Vincenzo Monti in nome della tradizione letteraria italiana. Invece Giovanni Berchet (1783-1851) è a favore di Madame de Staël e nella Lettera semiseria di Grisostomo afferma che l’arte deve essere spontanea, libera da regole, romantica, cioè ispirata alla natura e non all’imitazione dei classici, educativa, per formare una coscienza morale e nazionale, e popolare. Le specificità del Romanticismo italiano sono la continuità con l’Illuminismo lombardo, la scarsa presenza dei temi del Romanticismo sia tedesco sia inglese, i temi patriottici e l’importanza della questione della lingua. Le riviste più importanti sono il milanese “Il Conciliatore” (1818-1819) e la fiorentina “Antologia” (1821-1833). I principali esponenti sono Alessandro Manzoni (1785-1873) e Giacomo Leopardi (1798-1837). IL REALISMO Dopo il 1848, l’industrializzazione e la questione sociale, la filosofia positivista e il declino del Romanticismo determinano l’avvento del Realismo, movimento artistico che si orienta verso una rappresentazione concreta, obiettiva, analitica della realtà storica e sociale contemporanea. Veicolo letterario privilegiato del Realismo è il romanzo. I caratteri principali del Realismo letterario del secondo Ottocento sono l’oggettività, la rappresentazione della vita e dei costumi del tempo, l’interesse per il dettaglio, i personaggi popolari, lo stile semplice. Temi cari al Realismo sono la denuncia sociale, la vita della classe media e della provincia, l’emarginazione o l’ascesa sociale. IL ROMANZO REALISTA Il passaggio dal romanzo storico al romanzo realista si ha con il ciclo della Commedia umana, del francese Honoré de Balzac (1799-1850). Presente in forma tardiva in Italia o con autori minori (come Emilio De Marchi), a causa dei ritardi nello sviluppo economico e sociale − e diverso dal particolare realismo romantico di Alessandro Manzoni −, il romanzo realista europeo è rappresentato dalle opere dei francesi Honoré de Balzac, Stendhal (1783-1842), Gustave Flaubert (1821-1880), dall’inglese Charles Dickens (1812-1870) e dal russo Lev Nikolaevicˇ Tolstoj (1828-1910).

510 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO

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E

sercizi di sintesi STORIA

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Il Congresso di Vienna ha l’obiettivo a. di liberare l’Europa dalle monarchie. b. di restaurare in Europa l’ordine vigente prima del 1789. c. di mantenere l’Europa nella situazione del 1815. d. di liberare l’Europa dalle repubbliche. 2. La Santa Alleanza è a. un accordo sancito a Vienna fra tutti i sovrani partecipanti al Congresso. b. un patto fra tutte le monarchie europee. c. un trattato economico fra Austria, Inghilterra e Russia. d. un patto militare fra Austria, Russia e Prussia. 3. Per Risorgimento si intende a. il processo di unificazione italiana. b. la lotta per l’indipendenza condotta da Mazzini e Garibaldi. c. la lotta dei patrioti europei contro l’Austria. d. la liberazione della Lombardia. 4. La Prima guerra d’indipendenza si svolge a. nel 1858-1859. b. nel 1866. c. nel 1848-1849. d. nel 1860. 5. Camillo Benso conte di Cavour è a. un esponente della tendenza risorgimentale repubblicana. b. un ministro di Vittorio Emanuele II di Savoia. c. il fondatore dell’associazione della Giovine Italia. d. un sostenitore di Mazzini e Garibaldi. 6. La presa di Roma avviene a. nel 1871. b. nel 1860. c. nel 1870. d. nel 1861.

9. Il fondatore del socialismo scientifico è a. Robert Owen. b. Claude-Henri de Saint-Simon. c. Karl Marx. d. Jean-Jacques Rousseau.

CULTURA 2 Indica con una x la risposta corretta. 1. La filosofia prevalente nella cultura del Romanticismo è a. il posivitismo. b. il sensismo. c. l’idealismo. d. il razionalismo. 2. Tra i caratteri della cultura romantica ci sono a. il culto della razionalità, della logica e della scienza. b. il primato dell’emotività, dell’intuizione e dell’arte. c. il cosmopolitismo e l’attenzione alla contemporaneità. d. l’egualitarismo e il collettivismo. 3. Madame de Staël è a. la moglie di Joseph de Maistre, promotrice del suo salotto. b. l’autrice romantica francese Anne Louise Germaine Necker. c. l’amica del poeta inglese George Gordon Byron. d. l’autrice del romanzo Tempi difficili. 4. L’obiettivo della Giovine Italia di Mazzini è a. l’avvento della monarchia sabauda in Italia. b. una confederazione di Stati sotto la presidenza del papa. c. una nazione unita, indipendente e repubblicana. d. una confederazione sotto la presidenza dei Savoia.

7. L’economia dell’Ottocento si caratterizza per a. continue crisi. b. un grande sviluppo industriale. c. numerose carestie. d. una rapida industrializzazione dell’agricoltura.

5. La rivista più importante che nel 1818 accoglie le istanze romantiche e risorgimentali in Italia è a. “Il Caffè”. b. “Il Conciliatore”. c. “La Biblioteca italiana”. d. ”L’Antologia”.

8. Il liberalismo è a. una corrente di pensiero politico. b. una dottrina economica. c. una teoria artistica. d. una tendenza di orientamento anarchico.

6. Esponenti del socialismo scientifico sono a. Owen e Fourier. b. Marx ed Engels. c. Saint-Simon e Marx. d. tutti i filosofi positivisti francesi.

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CAP. 16 - L’ETÀ

DEL

ROMANTICISMO

E DEL

REALISMO

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3 Svolgi in forma scritta i seguenti argomenti (max 20 righe ciascuno). 1. Quali sono le principali differenze tra Illuminismo e Romanticismo? 2. Spiega perché in Italia il Romanticismo assume forti venature ideologico-politiche e quali sono i nomi e le teorie più importanti delle correnti risorgimentali italiane. 4 Scrivi e intitola opportunamente una intervista immaginaria a Madame de Staël (max 3 colonne di metà foglio protocollo) sulle principali differenze fra il modo di pensare illuminista e quello romantico la cui destinazione editoriale sia il periodico scolastico.

LETTERATURA 5 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Quali sono le caratteristiche e i temi del Romanticismo letterario? 2. Contro quale principio, caro ai classicisti, si battono gli artisti romantici e perché? 3. Chi è Lord Byron e quale ideale incarna per i Romantici europei? 4. Che cosa si intende per tensione verso l’infinito e di quale tendenza culturale essa è tipica? 5. Quali sono le caratteristiche che distinguono il Romanticismo letterario italiano rispetto a quello europeo? 6. Che cosa si intende per Realismo? 7. Quali sono i fattori che determinano il passaggio dalla cultura romantica al Realismo? 8. Quali sono le caratteristiche principali del Realismo in letteratura? 9. Quali sono le principali differenze nel modo in cui il Realismo si manifesta in Europa e in Italia e quali ne sono le cause? 10. Quali sono i principali autori del Realismo? 6 Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). 1. Qual è il significato del termine romantico? 2. Come il Romanticismo intende la natura, a differenza dell’Illuminismo? 3. Che cosa si intende per storicismo e quale tendenza culturale ne è caratterizzata? 4. Che cos’è l’amore per i Romantici e per quale aspetto soprattutto si distingue dall’amore illuministico? 5. Di chi è opera e di che cosa tratta la Lettera semiseria di Grisostomo?

512 CAP. 16 - L’ETÀ DEL ROMANTICISMO E DEL REALISMO

6. In quale anno e in seguito a quale evento si innesca la polemica sulla letteratura fra classicisti e Romantici in Italia? 7. Quali sono le più importanti riviste del Romanticismo italiano? 8. Quali sono i principali autori italiani romantici e quali particolarità li distinguono dai più tipici scrittori romantici europei?

7 Indica con una x la risposta corretta. 1. Per “estetica” si intende a. una poetica edonistica. b. la filosofia dell’arte. c. la teoria del sensismo. d. la ricerca della bella forma scritta. 2. Al centro della poetica romantica stanno a. razionalità e moderazione. b. creatività, sentimento e fantasia. c. intuizione, religiosità e cosmopolitismo. d. ragione, armonia e semplicità. 3. L’artista romantico è fra l’altro concepito come a. un genio e un eroe. b. un cultore della razionalità. c. uno scienziato della letteratura. d. un rivoluzionario e uno studioso. 4. Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni è a. un articolo di Pietro Giordani. b. una lettera di Giovanni Berchet. c. uno scritto di Alfieri. d. un articolo di Madame de Staël. 5. Fra le specificità del nascente Romanticismo italiano del primo Ottocento figura a. l’interesse per il tema del mistero. b. l’integrazione con la tendenza realistica. c. il disinteresse per i temi politici. d. l’integrazione con temi illuministici. 6. Giovanni Prati e Aleardo Aleardi sono a. esponenti del primo Romanticismo. b. esponenti del secondo Romanticismo. c. autori di romanzi storici. d. autori di romanzi veristi. 7. Il Realismo ottocentesco è ispirato e influenzato soprattutto a. dalla questione morale e dal Positivismo. b. dal dibattito sulla questione sociale. c. dall’urgenza di una riforma linguistica. d. dai valori e dalle lotte risorgimentali. 8. La forma letteraria preferita dagli autori realisti è a. il saggio. b. il poema. c. il romanzo. d. la poesia lirica.

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CAPITOLO

17

Il Romanticismo

europeo

Théodore Géricault, Mazzeppa, 1823 circa. Parigi, Collezione privata.

I L’origine del termine

CARDINI E LO SVILUPPO DEL

ROMANTICISMO

EUROPEO

Il termine inglese romantic – da cui l’italiano “romantico”, parola entrata successivamente a far parte del linguaggio comune e tuttora usata anche nel lessico quotidiano – indica in letteratura uno stato d’animo legato alla fantasia e all’espressione del sentimento. Esso è per lo più suscitato dalla rappresentazione artistica del suggestivo, dell’indeterminato, del nostalgico, del misterioso, del lontano e irraggiungibile, del dolcemente malinconico. Il Romanticismo, dato che non cerca fondamenti razionali ben definiti, non costituisce un fenomeno unitario e coerente: esso si sviluppa con caratteristiche originali e in tempi diversi nei vari Paesi europei, anche a seconda delle diverse condizioni sociali e culturali.

Lo sviluppo del Romanticismo in Europa Un più precoce sviluppo si ha nel mondo germanico, dove più vivo è il sentimento dell’identità culturale nazionale e della sua originalità rispetto al razionalismo illuministico e al classicismo greco-latino. Nel Romanticismo tedesco, come in quello anglosassone, sono particolarmente significative le componenti irrazionali, una religiosità non convenzionale e il senso del magico. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

CAP. 17 - IL ROMANTICISMO

EUROPEO

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La particolarità dell’Italia

In Francia e in Italia, in seguito al persistere di una forte tradizione in senso rispettivamente illuministico e classicistico e al maggior peso storico e culturale del Cristianesimo, il Romanticismo si sviluppa in ritardo, come imitazione e rielaborazione del modello tedesco, e presenta caratteri più moderati, più vicini a forme di realismo. Il Romanticismo italiano, in politica, è connotato dall’impronta liberale, mentre in Francia è dominato da istanze di tipo conservatore. Gli aspetti fondamentali della nuova sensibilità romantica sono in opposizione a quelli dell’Illuminismo e del Neoclassicismo. La contrapposizione all’Illuminismo tuttavia è meno radicale di quanto sembri a prima vista, soprattutto in Italia, dove, ad esempio in autori come Alessandro Manzoni, si manifesta la particolarità di una integrazione fra Illuminismo e Romanticismo. Infatti l’aspirazione a una cultura popolare e la diffusione di princìpi democratici sono comuni ad entrambi i movimenti, e la teoria sensistica della fruizione dell’opera d’arte come sorgente di piacere influenza l’idea romantica del rapporto di simpatia (cioè comunanza di passioni e di emozioni) tra autore e lettore.

La sfiducia nella ragione e la rivalutazione della religione La filosofia dell’età romantica postula come unica certezza non l’esistenza della ragione, ma quella dell’interiorità, del sentimento. Nulla di sicuro può essere detto, secondo i pensatori romantici, circa la realtà percepibile attraverso i sensi, ritenuti ingannatori dai filosofi europei del Settecento (Locke, Berkeley, Hume). Poiché per la nuova filosofia la ragione intesa in senso illuministico non è in grado, da sola, di spiegare il mondo, nasce la rivalutazione del sentimento religioso. La rivalutazione Assai meno attratto dal rigore logico-scientifico e più fondato sugli slanci deldell’idea l’intuizione e dell’immaginazione, il pensiero dell’età romantica si indirizza pere della fede ciò verso quelle teorie che considerano l’idea – e non il mondo materiale e sensibile – come principio primo (Idealismo) e, da Fichte a Hegel, elabora ipotesi metafisiche per interpretare la Natura come riflesso del pensiero o, più frequentemente, indica la chiave per avvicinarsi alla verità in ciò che è più lontano dalla logica matematica e razionale: la fede mistica nata dal sentimento, il patrimonio della stirpe, la geniale e indefinibile ispirazione ed immaginazione estetica, artistica, poetica.

Il sentimento della Sehnsucht La malinconia romantica

Il dualismo romantico e l’esito pessimistico

Centrale in ambito letterario romantico si rivela il sentimento dominante che si suole indicare con il termine tedesco Sehnsucht (“malinconia romantica”). All’ottimistica fiducia illuminista circa la possibilità di educare gli uomini sulla base della ragione, il Romanticismo contrappone un’ansia di assoluto e di infinito che si realizza in forme varie come ritorno alle religioni tradizionali, come slancio spiritualistico verso il mistero e l’ignoto, come misticismo panteistico, come contrasto fra la realtà, spesso vissuta come una prigione, e l’ideale. Il dualismo di fondo della cultura romantica – tra reale e ideale, finito e infinito, ragione e sentimento, natura e storia, individuo e società – ha spesso come esito, soprattutto nel Romanticismo germanico, una concezione drammatica e pessimistica del vivere, in cui predomina un indefinito e oscuro senso di malinconia, una lacerante compresenza di desiderio e insoddisfazione, di aspirazione all’assoluto e di insofferenza per l’effimero e la quotidianità. Ne derivano due atteggiamenti opposti, ma complementari: la ribellione titanica alla realtà e il vittimismo che spesso giunge all’esaltazione dell’eroe sconfitto.

La nuova poesia romantica La contrapposizione fra antichi e moderni

Molti poeti romantici europei contrappongono antichi e moderni. Negli antichi sarebbe stata presente una naturale sintonia tra uomo e natura, un’accettazione serena della condizione umana e della vita semplice, fondata sulla materialità e sugli istinti. Nei moderni, invece, tale stato di armonia sarebbe venuto meno, con il sorgere della consapevolezza della propria effimera condizione, del tormento causato dalla tensione inappagata verso l’infinito e l’assoluto.

514 CAP. 17 - IL ROMANTICISMO EUROPEO

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Poesia ingenua e poesia sentimentale: da Schiller a Leopardi

Il rifiuto del classicismo e teoria dell’imitazione

Questa diversa sensibilità trova espressione in due diversi generi di poesia: la poesia ingenua degli antichi, oggettiva in quanto concentrata sul racconto e sulle immagini (i miti), e la poesia sentimentale dei moderni, soggettiva in quanto fondata sull’espressione diretta dei sentimenti e sulla riflessione filosofica. Tale distinzione, che si affaccia per la prima volta nel mondo tedesco nella corrispondenza epistolare fra Goethe e Schiller (autore quest’ultimo anche del celebre saggio Della poesia ingenua e sentimentale, del 1800), viene elaborata filosoficamente dai fratelli Schlegel, e attraverso di essi giunge a Giacomo Leopardi, che – nel suo originale pensiero – la reinterpreta in accordo con la filosofia di Giambattista Vico. Tale filosofo distingueva nella storia dell’umanità e del singolo individuo tra un momento aurorale, naturalmente poetico, e l’età adulta della ragione e della filosofia. È in questa prospettiva che va considerato il rifiuto romantico del classicismo e la rivolta contro la teoria dell’imitazione, cui viene contrapposta l’aspirazione ad una poesia immediata e spontanea. Ma non si tratta di un rifiuto della letteratura antica: anzi, per i Romantici gli autori più grandi sono quelli che stanno alle origini, i fondatori e gli innovatori della letteratura, come evidenzia la celebre triade dei poeti da essi prediletti: Omero, Dante e Shakespeare.

Il nuovo artista: il genio Un nuovo modello di artista

Il mito personale

Il modello dell’intellettuale romantico non è più il letterato chiuso nel suo studio, che si è formato attraverso l’assidua lettura dei classici, impegnato in un paziente lavoro di ricerca, di revisione e limatura dei testi, nel pieno controllo dei propri sentimenti, emozioni e volontà, ma è l’artista passionale, il genio individualista che ha ricevuto il dono della poesia dalla natura, che si muove negli spazi aperti del mondo, che scrive sull’onda delle emozioni e non si cura delle regole e della perfezione formale, mirando piuttosto all’intensità e alla sincerità. Negli artisti romantici europei si assiste spesso alla creazione di un autentico mito personale, che si spinge fino al gusto dell’autoritratto: Foscolo rappresenta in poesia la propria corporeità come specchio del contrasto tra il cuore e la ragione e Lord Byron si fa raffigurare con la chioma scomposta e abbigliato in maniera anticonformistica, sdegnoso delle miserie e della meschinità del mondo quotidiano.

Arte, poesia e popolo L’aspirazione a una letteratura popolare

Molti degli autori romantici europei dichiarano di aspirare a una letteratura popolare. Per essi popolare è la letteratura sul popolo – cioè quella che ne esprime i sentimenti, le idee, le tradizioni, i valori (e perciò il Romanticismo recupera le fiabe, i canti popolari, le leggende) – e, in qualche caso, anche la letteratura per il popolo, non priva di intento educativo e didascalico. Per i Romantici, tutta la grande poesia non può che essere popolare: l’italiano Berchet afferma che l’istinto poetico è presente in tutti gli uomini, a prescindere dalla condizione sociale. La poesia è per i Romantici patrimonio originario e comune di un popolo e di una nazione, inizialmente espresso in forma orale, che gli scrittori non fanno altro che trascrivere e rielaborare. È per questo che nell’Ottocento si afferma la convinzione che i poemi omerici siano il prodotto di una elaborazione collettiva. La poesia, insomma, è presente in forme diverse e originali sia negli individui, sia nelle nazioni.

La parabola del Romanticismo in Europa In tutta Europa il movimento tende ad esaurire la propria fase migliore attorno alla metà del secolo, per poi lasciare il passo alla letteratura realista. Il cosiddetto secondo Romanticismo – o tardo Romanticismo – della seconda metà dell’Ottocento si presenta come una ripetizione in tono minore del grande Romanticismo, la cui eredità più viva è ormai assorbita dalle nuove tendenze realistiche e decadenti. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

CAP. 17 - IL ROMANTICISMO

EUROPEO

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IL ROMANTICISMO

TEDESCO

La periodizzazione e gli autori Lo Sturm und Drang

L’“Athenäum” e il gruppo di Jena

La seconda fase

Fichte

La riscoperta delle tradizioni, del Medioevo e dell’eroismo L’idea di nazione

Il misticismo di Brentano

L’interesse per la fiaba

La terza fase

I primi ad esprimere una consapevolezza teorica della contrapposizione fra la nuova sensibilità e l’Illuminismo sono gli intellettuali tedeschi riuniti nel movimento dello Sturm und Drang (“Tempesta e Impeto”, significativa espressione derivante dal titolo di un’opera di Maximilian Klinger). Al suo interno si situano le prime esperienze di Johann Wolfgang Goethe, di Friedrich Schiller (1759-1805) – che con I masnadieri (1781) introduce nella drammaturgia il tema della lotta del genio contro la minaccia di dimensioni cosmiche che sovrasta l’uomo – e di Gottfried August Bürger (1747-1794), traduttore di Omero e di Shakespeare e autore delle celebri ballate tragiche Leonora (1774) e Il cacciatore feroce (1778), esempi della nuova poesia interprete della vita di tutto un popolo, con i suoi usi, le sue credenze e i suoi sentimenti. Ma il momento culminante della definizione teorica della nuova poetica, e dunque l’inizio per così dire ufficiale del Romanticismo, si colloca fra il 1798 e il 1800, quando il cosiddetto gruppo di Jena si raccoglie attorno alla rivista “Athenäum”: lo compongono il poeta Novalis, i fratelli Schlegel – fondatori della rivista –, i filosofi Fichte e Schelling, il teologo Schleiermacher, il narratore Ludwig Tieck. Essi assumono il termine romantico come bandiera della lotta al classicismo e diffondono le nuove teorie dapprima a Berlino quindi nel mondo tedesco e in tutta Europa. Una seconda fase di elaborazione del Romanticismo tedesco prende vita ad Heidelberg, fra il 1804 e il 1808. Il gruppo di Heidelberg annovera tra gli altri Achim von Arnim, Clemens Maria Brentano e i fratelli Grimm. Il gruppo si caratterizza per l’orientamento politico antinapoleonico, per la decisa impostazione nazionalista, per il Cattolicesimo di tipo tradizionale e per l’interesse per le tradizioni popolari. Nei celebri Discorsi alla nazione tedesca tenuti nel 1807-1808 a Berlino, il filosofo idealista Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), criticando il materialismo illuminista, anticipa il nazionalismo otto-novecentesco, sostenendo, tra l’altro, la superiorità del popolo tedesco sugli altri popoli, sulla base, anzitutto, del mantenimento di lingua e tradizione, indizio di forza nei confronti dello straniero. Da tale concezione, ormai in piena età romantica, Ludwig Achim von Arnim (1781-1831), la moglie Bettina (1785-1859) e il cognato Clemens Maria Brentano (1778-1842) traggono spunto per la riscoperta delle tradizioni e dei miti popolari germanici, della religiosità, e per la rivalutazione dell’epoca medievale, fondata sulla sacralità dell’obbedienza gerarchica e sull’eroismo guerriero. L’idea di nazione nel Romanticismo tedesco si lega, così, all’appartenenza di sangue, al concetto di patria come “terra dei padri” e di etnia cementata da un’unione mistica che fa riferimento al sangue e al suolo. Tale principio viene definito nella Tavolata Cristiano Tedesca, organizzazione politico-culturale antinapoleonica fondata verso il 1811 da Ludwig Achim von Arnim, i cui adepti si dichiarano ostili ai non prussiani, agli ebrei e alle donne, e cercano di ritrovare il proprio spirito nazionale nel legame irrazionale con la tradizione atavica: una concezione che influenzerà l’ideologia nazista. Brentano, nazionalista e cattolico tradizionalista, autore di liriche e racconti fiabeschi, dopo la morte della moglie vive per anni al capezzale di una monaca segnata dalle stigmate, Katharina Emmerich, e ne annota le visioni nell’opera mistica La dolorosa passione di Nostro Signore Gesù Cristo (1833). Ai fratelli Jakob (1785-1863) e Wilhelm Grimm (1786-1859), si deve invece la celeberrima raccolta Fiabe per bambini e famiglie, in tre volumi (1812, 1815 e 1822), tratte dal patrimonio folclorico tedesco e rielaborate secondo l’ideale e lo stile romantici. Una terza fase, caratterizzata dal prevalere dell’inquietudine sull’affermazione dei valori soggettivi, con l’affiorare dei fantasmi onirici e delle allucinazioni, di una percezione sensoriale distorta e del sentimento della disgregazione del reale, vede come protagonisti i narratori Hoffmann e Chamisso e il poeta Heine.

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Hölderlin, un anticipatore del Novecento

A sé stante, anche per la particolare collocazione a metà fra Romanticismo e nostalgia neoclassica dell’antico, è la complessa figura di Friedrich Hölderlin (17701843), che, dopo avere fatto parte del gruppo di Jena, si abbandona a un’esistenza nomade che si concluderà nella follia, producendo testi di grande modernità, il cui valore sarà riscoperto solo nel Novecento, delle cui concezioni è considerato un anticipatore. Egli fonde nelle sue opere motivi classici con atteggiamenti spirituali tipicamente romantici: verso la Grecia antica prova un sentimento acuto di nostalgia, come luogo perfetto, ma lontano e perduto per sempre, sentendosi in una condizione di esilio e solitudine esistenziale. Il suo bisogno di armonia, serenità, eternità trova appagamento solo nella poesia, considerata la voce stessa dell’Assoluto. Il poeta diventa quindi un profeta che può indicare all’umanità la via per la rigenerazione, per la riconquista dell’antica fusione dell’uomo con la natura, dell’individuale con l’universale, del sentimento con la coscienza. Formatosi su Kant e Rousseau, compagno di studi di Schelling e Hegel, amico dei poeti Schiller e Goethe, Hölderlin è un ispiratore dell’Idealismo tedesco.

Johann Wolfgang Goethe La ricerca di sintesi

La vita

I capolavori: il Werther… …e il Faust

Le affinità elettive e l’interesse per la poesia orientale

Scrittore di indiscusso valore universale, Johann Wolfgang Goethe porta a sintesi di altissimo livello le grandi tematiche dell’esistenza e le spinte culturali del suo tempo, alla ricerca di un difficile equilibrio tra Illuminismo, Romanticismo e classicismo. Egli cerca inoltre una sintesi fra Rivoluzione francese e valori liberali e nazionali: in altri termini, fra ragione e sentimento, fra Settecento e Ottocento. Goethe è l’ideatore dei due personaggi simbolo dell’eroe romantico: il giovane Werther e Faust. Nato nel 1749 a Francoforte sul Meno nella famiglia di un consigliere imperiale, Goethe mostra precoce genialità, apprende parecchie lingue, dipinge e, dedicandosi in tenera età al teatro delle marionette, rimane affascinato dalla figura del dottor Faust, mago e alchimista rinascimentale. Nel 1770, a Strasburgo per completare gli studi, conosce la poesia ossianica, l’opera di Shakespeare, il filosofo Johann Gottfried Herder (1744-1803), già legato allo Sturm und Drang, e scrive Götz von Berlichingen (1771-1773), storia di un cavaliere dell’età luterana in lotta contro la società del proprio tempo. La figura libera ed eroica di Götz affascina i giovani dello Sturm und Drang, con cui Goethe prende contatto progettando e realizzando le opere giovanili della fase detta titanica del suo pensiero, che esprime la ribellione dell’individuo contro la natura. Nel 1771 una delusione sentimentale ispira il romanzo epistolare I dolori del giovane Werther (1774), che ottiene grande successo, permettendogli di viaggiare per l’Europa e di entrare in relazione con i più grandi scrittori dell’epoca. Scrive nel frattempo l’Urfaust (“Primo Faust”), prima parte del capolavoro Faust (poi ultimato nel 1832) e infine si ritira a Weimar (1775-1786), dove si dedica alle scienze, alla politica, all’educazione sentimentale dell’amante Charlotte von Stein e alla stesura di altre opere, tra cui la celebre ballata Il re degli Elfi (1782), sulla morte di un figlio fra le braccia del padre per volontà del misterioso sovrano delle magiche creature. Nel 1786 Goethe compie il famoso viaggio in incognito in Italia, che rievocherà anni dopo nell’opera Viaggio in Italia (1828), lasciandosi affascinare dalla bellezza delle opere antiche. Nel 1808 Goethe pubblica la prima parte del Faust, il suo capolavoro. Ma la morte dell’amico Schiller e il successo dell’acceso Romanticismo tedesco, lontano dalla sua ormai pacata sensibilità, fanno sentire Goethe sempre più estraneo alla propria patria. Nel 1809 scrive il romanzo Le affinità elettive, in cui affronta il tema del rapporto tra attrazione amorosa e morale sociale. Dopo il 1814, si dedica allo studio della poesia orientale e in particolare persiana, pubblicando i dodici libri delle liriche del Divano occidentale-orientale (1819), densi di poesia mistica e cosmica. Goethe ha così anche il merito di favorire l’incontro culturale fra Occidente e Oriente. Nel 1830, pubblica la propria autobiografia e negli ultimi anni di vita un intreccio di racconti dal titolo Anni di peregrinazione di Wilhelm Meister, il cui tema è la rinuncia alla felicità del singolo per il bene comune. Pochi mesi prima della morte, avvenuta nel 1832, porta a termine il Faust.

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Faust: contenuto e interpretazioni

Capolavoro goethiano, e tuttora fonte di dibattiti interpretativi, il dramma Faust (1773-1831) ha per protagonista un tipico eroe romantico, mago e scienziato, che stringe un patto con il diavolo Mefistofele, vendendogli l’anima in cambio del potere di penetrare i misteri della natura e di conservare l’eterna giovinezza. Proprio quando sta per diventare preda di Mefistofele, Faust viene salvato dagli angeli per volontà di Dio. I critici che riflettono sul capolavoro si dividono riguardo alla risposta a un interrogativo tipicamente romantico: se la tensione all’assoluto, che caratterizza il personaggio di Faust, si debba intendere, nel pensiero dell’autore, come una forma di superbia, di arroganza, o come meritevole audacia conoscitiva spinta fino al sacrificio di sé, che suscita l’ammirazione e l’aiuto di Dio.

Il gruppo di Jena: i fratelli Schlegel e Novalis Di grande importanza è il contributo all’elaborazione teorica e alla produzione di opere romantiche del gruppo di Jena, alla cui formazione, attorno all’inizio del secolo, viene fatto risalire l’inizio del vero e proprio Romanticismo. Friedrich von Schlegel (1772-1829) è il fondatore della rivista “Athenäum”, sulla La teoria del romanzo quale pubblica i Frammenti (1798), brevi meditazioni filosofiche e politiche, riflessioni sulla poesia antica e moderna, considerazioni sulla traduzione. In essi si trova delineata la teoria romantica del romanzo moderno, la cui nascita è messa in relazione con l’opera di Cervantes e di Shakespeare, e l’idea del Romanticismo come poesia universale progressiva, che si distingue dalla serena poesia degli antichi per il lacerante conflitto tra finito e infinito e per il senso del limite e del divenire. L’estetica August Wilhelm von Schlegel (1767-1845) è noto soprattutto come critico e dei fratelli storico della letteratura: i suoi saggi, raccolti nelle Lezioni sulla letteratura e le belSchlegel le arti (1801-1804) e nelle Lezioni sull’arte e la letteratura drammatica (18091811), divulgano i canoni della nuova estetica romantica, fissati dal fratello, e stimolano l’interesse per l’epica tedesca medievale. Notevole il suo ruolo nella promozione degli studi del sanscrito, antica lingua dell’India, la cui cultura e religione, legata alla convinzione che la realtà sensibile sia solo apparenza ingannevole (il “velo di Maya”), fornisce importanti contributi all’ideologia romantica. Novalis Novalis (pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardenberg, 1772-1801) è la fie la poesia gura più importante del gruppo di Jena. Figlio di un proprietario terriero, di dedella notte bole costituzione fisica, viene educato in un ambiente religioso: i due aspetti influiscono sulla sua opera, in cui predominano i temi romantici della malattia e della morte, espressa simbolicamente dalla notte. Dopo aver studiato filosofia a Jena, dove ha come maestro Fichte, nel 1791 si trasferisce a Lipsia e inizia a frequentare i fratelli Schlegel. A Wittenberg, dove studia giurisprudenza, si innamora della giovanissima Sophie von Kühn, che muore di tisi nel 1797, subito dopo il fidanzamento. Distrutto dal dolore, Novalis trova conforto nella poesia; colpito a sua volta dalla tisi, muore nel 1801, prima di aver compiuto i trent’anni. Novalis La poesia – evocata attraverso il suggestivo simbolo del fiore azzurro – appare a e Schelling Novalis il sacro punto d’incontro fra visibile e invisibile, ed in tal senso la poetica dell’autore è legata alla filosofia di Schelling. Fra le sue opere, si distinguono il poema in prosa ritmica Inni alla notte (1800), dedicato alla morte di Sophie, che diventa simbolo della Passione di Cristo, cantata con accenti paganeggianti e identificata con il desiderio di annullamento, e i Canti spirituali (1799), che celebrano in Cristo il mediatore tra infinito e finito. Di straordinaria profondità sono i Frammenti (1795-1800), in cui Novalis, in un Il misterioso e l’ignoto intreccio senza precedenti fra filosofia, religione e lirica, getta le basi della nuova sensibilità, affermando che è romantico e poetico tutto ciò che è lontano e ignoto ed evoca il misterioso e l’infinito, considerando la malattia via privilegiata per giungere a Dio e ritenendo il pensiero figlio del sogno. Il rapporto Con il saggio Cristianità o Europa (1799) Novalis afferma che il Cristianesimo è con Cristianesimo fondamento della cultura europea ed esalta il Medioevo. Di grande importane Medioevo za sono anche i due romanzi incompiuti: I discepoli di Sais (1799), in cui predomina una concezione magica e fiabesca della natura; e Enrico di Ofterdingen (1801), nel quale i canti dei Minnesänger (il corrispettivo tedesco dei trovatori francesi) sono considerati un esempio di poesia popolare.

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T1 La poetica romantica da Frammenti, 116

Friedrich von Schlegel

Lo scrittore e critico tedesco Friedrich von Schlegel, fondatore della rivista “Athenäum”, vi pubblica i Frammenti (1798), riflessioni sulla poesia antica e moderna oltre che sulle traduzioni. In questo frammento propone la propria idea di poesia, qui non nel senso di mera composizione in versi, ma in quello di opera letteraria di valore, basata sull’espressione del sentimento. PISTE DI LETTURA • Che cos’è la poesia • Un’interpretazione dei princìpi fondamentali del Romanticismo • Tono asseverativo

La definizione di poesia romantica

La poesia come specchio della sua epoca

La poesia romantica è una poesia universale progressiva1. Il suo compito non è soltanto quello di riunificare nuovamente tutti i generi separati della poesia e di mettere in contatto la poesia con la filosofia e la retorica. Essa vuole, e deve anche, ora mescolare, ora fondere poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia naturale, rendere la poesia vivente e socievole e la vita e la società poetiche, poetizzare lo spirito arguto e riempire e saturare le forme dell’arte con puro materiale culturale di ogni genere, animandole attraverso le vibrazioni dello humour2. Essa abbraccia tutto quanto sia soltanto poetico, dal più grande sistema dell’arte (che a sua volta contiene in sé più sistemi) fino al sospiro, al bacio, che il fanciullo poeta emana in un canto naturale. Essa può perdersi a tal punto nell’oggetto rappresentato, da far quasi credere che caratterizzare individui poetici di ogni genere sia per essa l’uno e il tutto; e tuttavia non esiste ancora alcuna forma che sia fatta per esprimere compiutamente lo spirito dell’autore: così che parecchi artisti, che volevano scrivere soltanto un romanzo, hanno senza volerlo rappresentato se stessi. Soltanto essa può diventare, come l’epica, uno specchio dell’intero mondo circostante, un’immagine della sua epoca. E tuttavia anche essa può benissimo librarsi, sulle ali della riflessione poetica, a metà tra l’oggetto rappresentato e il soggetto rappresentante3, libera da ogni interesse reale e ideale, potenziando continuamente questa riflessione e moltiplicandola come in una serie infinita di specchi. Essa è capace della più alta e della più universale cultura – non soltanto dall’interno verso l’esterno, bensì anche dall’esterno verso l’interno –, organizzando in maniera analoga tutte le parti di ciò che nei suoi prodotti deve essere una totalità, in modo tale che le venga aperta la prospettiva su una classicità in crescita illimitata. La poesia romantica è tra le arti ciò che lo spirito arguto è per la filosofia, e la società, le relazioni, l’amicizia e l’amore sono nella vita. Altri tipi di poesia sono finiti e possono essere ora completamente analizzati. La poesia di tipo romantico è ancora in divenire4; anzi questa è la sua vera e propria essenza, che essa può soltanto eternamente divenire, mai essere compiuta. Non può essere esaurita da alcuna teoria, e solo una critica divinatoria potrebbe ardire di caratterizzare il suo ideale.

1. poesia universale progressiva: il termine poesia qui non si riferisce solo alle composizioni in versi, ma a ogni opera che abbia le caratteristiche indicate nel brano e sintetizzate dai successivi due termini: la poesia è detta universale perché l’autore le affida il compito di unificare le cose più diverse e opposte e progressiva in quanto è in continuo mutamento. I concetti sono ampiamente chiariti nel brano.

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2. humour: umorismo. 3. a metà… rappresentante: la definizione sottolinea il carattere indefinito dell’espressione romantica. 4. in divenire: in continuo mutamento; il concetto ben chiarisce il termine progressivo attribuito dall’autore alla poesia romantica.

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La libertà della poesia

Essa soltanto è infinita, così come essa sola è libera, e riconosce quale sua regola fondamentale che l’arbitrio del poeta non tollera alcuna legge al di sopra di sé. La poesia di tipo romantico è l’unica a essere più che un genere di poesia, a essere per così dire l’arte poetica stessa, poiché in un certo senso tutta la 35 poesia è oppure dovrebbe essere romantica. da Frammenti, in I romantici tedeschi, a cura di G. Bevilacqua, vol. III, Rizzoli, Milano, 1996

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inee di analisi testuale Un ossimoro concettuale Secondo Schlegel, la poesia romantica è – secondo un ossimoro concettuale – una poesia universale progressiva: mira, cioè, a raggiungere e a esprimere la totalità dell’essere, e dunque, come tale, è universalmente valida (a prescindere dai condizionamenti spazio-temporali), ma contemporaneamente muta di continuo, in quanto strettamente legata al divenire storico e alla realtà del tempo in cui nasce. La poesia universale Il primo aggettivo, universale, sottolinea l’ambizione, tipicamente romantica, alla sintesi di tutte le forme espressive e addirittura di tutte le forme del sapere e di tutte le arti: la poesia per l’autore vuole riunificare nuovamente tutti i generi separati e si propone di abolire le barriere esistenti tra il verso e la prosa. Deve essere anche una forma di filosofia e deve interagire con la società, risultandone il prodotto, ma pure trasformandola. Nel delineare tale opera d’arte totale, Schlegel pensa all’epica classica, in cui si sono fusi armoniosamente il sapere, le conoscenze materiali, l’organizzazione sociale, i culti e le tradizioni della società greca arcaica (specchio dell’intero mondo circostante). Il critico tedesco suggerisce anche, seppure in modo implicito e dubitativo, quello che potrebbe essere il corrispettivo moderno dell’antico poema epico, laddove afferma che molti artisti, che sembravano accontentarsi di scrivere un romanzo, sono andati ben oltre. La poesia progressiva Il secondo aggettivo, progressiva, sottolinea la forte esigenza romantica di storicità: per Schlegel non può esistere una forma di poesia sempre uguale, valida in assoluto, a prescindere dal divenire; l’arte deve tener conto delle esigenze del tempo e del luogo dove è prodotta e, comunque, muta con il trascorrere del tempo. I poeti classici esprimevano la società e la vita del loro tempo, in assoluta libertà, e non imitavano: in questo senso erano romantici. Le regole del classicismo sono nate successivamente, e devono essere rifiutate in nome della libertà dell’individuo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano di Friedrich von Schlegel in non più di 20 righe. Analisi e interpretazione 2. A quale genere letterario appartiene il brano che hai letto? 3. Su quale figura retorica è costruita la prima frase del brano? 4. Quali sono gli elementi romantici che caratterizzano la poetica illustrata nel passo? Approfondimenti 5. Dopo aver riletto attentamente il testo, considera se al giorno d’oggi conosci delle espressioni artistiche che si avvicinino alle teorie poetiche romantiche enunciate da Schlegel; illustra uno o più esempi a te noti e indica la ragione per cui ti sembrano avvicinarsi ai canoni romantici. 6. È evidente che Schlegel non intende la poesia solo come un insieme di versi, ma in un senso molto più generale, che va dalla grande opera d’arte al sospiro del fanciullo poeta: presenta, con l’aiuto del dizionario, altre possibili definizioni del termine poesia e chiarisci per quali aspetti l’ampia interpretazione del vocabolo proposta dallo scrittore romantico differisca da essi.

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T2 La notte, la morte, il desiderio di amore eterno da Inni alla notte, VI, vv. 1-12; 49-66

Novalis

Nel sesto degli Inni alla notte (1800), il conclusivo – che ha per titolo Desiderio di morte –, la notte dell’anima diventa per Novalis l’oscurità eterna della morte, dove si realizza l’unione ultraterrena e il ricongiungimento con la persona amata. Gli Inni sono composti, nell’originale tedesco, parte in prosa lirica, ossia in una prosa caratterizzata da elementi tipici del testo poetico, parte in versi. Schema metrico: nella traduzione italiana, testo in versi liberi, con rime occasionali.

PISTE DI LETTURA • Il desiderio di annullamento • Romanticismo e morte • Tono elegiaco e drammatico

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Giù nel grembo della terra, lontano da dove la luce regna, si scontrano i crucci in furioso contrasto, segno di lieta partenza. Veniamo dentro la barca stretta1 alla proda del cielo, in fretta, lodata sia tu, eterna notte, lodato sia l’eterno sonno. Se il giorno ci ha dato calore, ci ha avvizziti il lungo affanno. Non ci attirano più terre lontane, vogliamo tornare a casa dal Padre. [...]

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Che cosa ritarda il nostro ritorno, i più cari riposano già da lungo2. Ci sbarra la vita il loro sepolcro, ci assale l’ansia e il cruccio. Ogni nostro cercare è senza scopo – il cuore è sazio – il mondo è vuoto.

Caspar David Friedrich, Croce nel bosco (Croce in montagna), 1812. Particolare. Düsseldorf, Kunstmuseum.

Infinito e misterioso sento un dolce brivido che ci percorre – la nostra mestizia manda una eco, mi sembra, da lontananze profonde. Anche i cari si struggono, l’alito della nostalgia ci hanno mandato3.

1. barca stretta: riferimento mitologico alla barca di Caronte che traghetta le anime nell’aldilà, attraversando, da una riva all’altra, il fiume Acheronte. 2. riposano già da lungo: si tratta di Sophie von Kühn, la

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fidanzata quindicenne, e del fratello del poeta, Erasmus, morti entrambi nel 1797. 3. Anche i cari… mandato: il poeta si riferisce alle persone care già trapassate nell’eternità.

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Laggiù verso la sposa soave, verso Gesù, il diletto4 – coraggio, spunta l’ombra serale per gli amanti, gli afflitti. Un sogno rompe ogni nostro legame e ci immerge nel grembo del Padre. da Inni alla notte. Canti spirituali, a cura di V. Cisotti, trad. di R. Fertonani, Mondadori, Milano, 1982

4. sposa... diletto: la giovanissima fidanzata (sposa soave) Sophie, morta di tisi a soli quindici anni, e l’amato (diletto) Gesù rappresentano le due stelle degli Inni alla Notte di Novalis.

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inee di analisi testuale La morte come traguardo positivo Il poeta esprime in questa lirica un sentimento molto complesso: il suo significato non è un invito al suicidio, a fuggire dal mondo, ma è la gioia di aver terminato finalmente l’esistenza e di affrontare l’evento decisivo. Per l’autore, infatti, il raggiungimento dell’aldilà cristiano è la meta dell’uomo e il culmine della storia dell’umanità, e sono le persone care che hanno già fatto l’esperienza della morte a infondere nei vivi l’accettazione e il desiderio dell’ingresso nell’eternità. Malinconia romantica, nostalgia dell’eternità Il sentimento dominante è quello della malinconia romantica (Sehnsucht). In questo caso, la nostalgia si rivolge alla casa del Padre cui Novalis anela a tornare. La terra, luogo di affanni, viene contrapposta all’approdo del cielo. La notte eterna, il sonno della morte vengono lodati (con una celebre anastrofe) in contrapposizione al calore e alla fatica del giorno, alla vita che consuma. L’aspirazione al ritorno è sostenuta dalla mancanza delle persone care: il mondo è vuoto perché l’amata Sophie e il fratello Erasmus non sono più fra i vivi, separati da essi dalla tomba. Il tema della morte Benché quella di Novalis sia una religiosità sincera, essa è intrisa di tristezza e di una specie di voluttà del dolore, in cui la morte è l’occasione del ricongiungimento con le persone care, l’appagamento del desiderio e la fine di quel sentimento di profonda malinconia che nella fantasia di Novalis coinvolge non soltanto i viventi, ma le stesse anime dei già morti che desiderano essere di nuovo insieme. Il tema del desiderio di morte, già presente nella letteratura religiosa medievale (in Agostino, nel dolorismo di Jacopone da Todi, in san Francesco), diventa nelle strofe di Novalis centro del totale capovolgimento romantico rispetto alle concezioni illuministiche: la morte è ciò cui si aspira, la vita ciò da cui si desidera fuggire.

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto della lirica di Novalis (max 10 righe). Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Qual è il significato del componimento di Novalis? b. Su quali principali figure retoriche è costruita la lode della notte e del sonno? c. Quali valenze assume la morte nel testo e per quali ragioni? d. Quale riferimento mitologico appare nel testo? e. Quali concezioni contrappongono diametralmente il testo di Novalis al pensiero illuminista? Approfondimenti 3. Novalis scrive: il pensiero è solo un sogno del sentimento. Vuole così affermare che solo il sentimento, esprimendosi attraverso la fantasia, è in grado di cogliere e rappresentare l’”enigma” della natura. Di conseguenza l’arte, e non la scienza, è capace di penetrare il mistero della realtà. Esponi le tue considerazioni in merito a tale affermazione, tenendo presente la temperie culturale romantica in cui si colloca.

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IL ROMANTICISMO

INGLESE

Il Romanticismo inglese nasce dall’incontro fra l’influsso tedesco e la tradizione culturale dei popoli anglosassoni. Le differenze più marcate consistono nel venir meno, salvo in alcuni poeti, delle più accentuate punte mistiche del Romanticismo. La nascita dei due movimenti si colloca all’incirca negli stessi anni.

Coleridge, Wordsworth e Blake L’inizio del Romanticismo inglese

Coleridge

La realtà come apparenza e la poesia visionaria

Wordsworth

Il sodalizio con Coleridge

La data che i critici fanno convenzionalmente coincidere con l’inizio del Romanticismo inglese è il 1798, anno in cui sono pubblicate le Ballate liriche di Samuel Taylor Coleridge e William Wordsworth. La prefazione all’edizione del 1800 delle Ballate liriche, di carattere programmatico, dichiara infatti l’intenzione dei due poeti di legarsi alla tradizione popolare e alla natura, intesa non in modo realistico ma quasi magico, con l’intento di penetrarne i misteriosi segreti. Samuel Taylor Coleridge (1772-1834) studia a Cambridge, ma abbandona l’università senza laurearsi. Di orientamento rivoluzionario in gioventù, plaude alla Rivoluzione francese, ma rimarrà successivamente deluso da ogni ideale politico. Nel 1796 incontra William Wordsworth, con il quale pubblica le Ballate liriche (1798), composte da quattro testi suoi e diciannove dell’amico. Nel 1800 si trasferisce con la moglie e con Wordsworth a Keswick, nel “distretto dei laghi”. Durante una grave malattia, in quello stesso anno, diventa dipendente dall’oppio. Nel 1816 pubblica il componimento visionario Kubla Khan, scritto sotto l’effetto della droga, inaugurando la tendenza fra gli artisti a fare uso di stupefacenti per acuire quelle percezioni che permettono di andare oltre alla realtà apparente. I capolavori di Coleridge sono i componimenti delle Ballate liriche, fra cui La ballata del vecchio marinaio (1798), la sua opera più celebre, che narra la storia di un vecchio marinaio che, avendo ucciso senza motivo un misterioso albatro che gli faceva da guida, è condannato a viaggiare in eterno, dopo che un naufragio ha causato la morte di tutti i membri dell’equipaggio. Il testo ha un carattere simbolico e visionario e può essere interpretato in vari modi, come un’allegoria allucinatoria di punizione e redenzione di carattere cristiano e morale o una metafora della facoltà profetica del poeta. L’opera si incentra comunque sul significato dell’esperienza creativa, intesa non come rappresentazione compiuta e oggettiva del mondo, ma come tentativo di traduzione in parole dell’esperienza individuale in quanto tensione verso l’inesprimibile. William Wordsworth (1770-1850) nasce a Cockermouth, nella regione dei laghi. Laureatosi a Cambridge, nel 1791 soggiorna in Francia, dove aderisce agli ideali della Rivoluzione. Ben presto, però, inorridito dalla violenza del Terrore giacobino, fa ritorno in Inghilterra, conducendo una vita appartata e solitaria con la sorella e abbandonando i sogni di gioventù. A tale periodo risale il poema Preludio, pubblicato postumo, che doveva essere la prima parte di una vasta opera mai ultimata. Il sodalizio con Coleridge porta alla pubblicazione delle Ballate liriche (1798) e, nel 1800, della prefazione che espone i concetti cardinali del primo Romanticismo inglese; nello scritto, Wordsworth afferma, fra l’altro, il principio fondamentale del nuovo indirizzo secondo cui la poesia è lo spontaneo traboccare di forti emozioni e ribadisce, come i Romantici di tutta Europa, che essa non nasce dai sensi, ma dall’immaginazione e dall’incontro fra la mente e la natura, intesa come supremo mistero. Il rapporto fra i due poeti è complementare: Coleridge è geniale, intuitivo, dispersivo, ma anche capace di scrivere testi di grande forza suggestiva; Wordsworth è metodico, professionale, forse meno valido sul piano artistico ma capace di elaborare con efficacia teorica la poetica del nascente indirizzo romantico. A partire dal 1802, dopo il matrimonio di Wordsworth, le diversità fra le concezioni dei due poeti emergono con una certa evidenza. Negli anni successivi, infatti, Wordsworth espone in vari sonetti il proprio concetto di indipendenza di stampo conservatore ed entra in collisione con i poeti della seconda generazione romantica inglese.

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I versi visionari e simbolici di Blake

Nel 1810 scoppia un litigio fra i due amici e le loro strade si separano definitivamente. Wordsworth si converte al Cristianesimo e di ciò portano traccia le sue opere in poesia e prosa, che esprimono un Romanticismo moderato e sereno. Significativa è anche la figura dell’incisore e poeta William Blake (1757-1827). Nella sua bottega, egli pubblica personalmente le poesie e le incisioni realizzate di suo pugno; fra le opere maggiori, si distinguono Canti dell’innocenza e Canti dell’esperienza. La poesia di Blake è un originalissimo intreccio di ritmi popolari e toni profetici; le immagini simboliche che vi predominano corrispondono a visioni che l’autore sostiene di avere avuto e che ritiene più reali del mondo reale. Influenzato da teorici del Neoplatonismo, Blake avanza la tesi, affine a quella del tedesco Novalis, secondo cui il poeta è un profeta, in quanto può accedere a mondi preclusi agli altri uomini: tale concezione troverà ampio spazio nel Decadentismo e nel Simbolismo di fine secolo.

L’estetica romantica Pur senza una riflessione sistematica dell’ampiezza di quello tedesco, anche il Romanticismo inglese elabora una propria concezione estetica. Il concetto Edmund Burke (1729-1797) è il teorico del concetto di sublime e il massimo sodi sublime stenitore del regime costituzionale inglese e del gradualismo politico. Egli, a difdi Burke ferenza di molti artisti romantici della sua epoca, condanna la Rivoluzione francese, considerata causa di un inutile bagno di sangue. Il suo capolavoro nell’ambito della riflessione sulla poetica è il saggio Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublime e al bello (1756), che si colloca all’interno del dibattito sull’estetica avviato dal trattato Del sublime del filosofo neoplatonico Cassio Longino (213-273), le cui tesi erano state già riprese, fra gli altri, dal trattato Arte poetica del letterato classicista francese Nicolas Boileau (1636-1711). Il soggettivismo Burke, opponendosi alle tesi di Boileau, che attribuisce al sublime e al bello caestetico ratteristiche oggettive, per primo ricerca nella soggettiva psicologia dell’autore e del lettore l’origine del valore estetico attribuito a un’opera. All’elaborazione di Burke si collegherà, nella parte centrale del secolo, l’originale figura di John Ruskin (1819-1900), anch’egli estimatore del gotico medievale e ispiratore della pittura preraffaellita.

La seconda generazione romantica

Lord Byron: un’anima ribelle

L’influsso maggiore del Romanticismo inglese sulla letteratura europea viene tuttavia esercitato dai grandi poeti della cosiddetta seconda generazione, fra i quali si distinguono George Gordon Byron e Percy Bysshe Shelley, entrambi in stretta relazione con l’Italia. I poeti della seconda generazione romantica sono accomunati anzitutto da un atteggiamento ribelle e titanico, sia sul piano politico sia sul piano della riflessione letteraria. George Gordon Byron (1788-1824) trascorre un’infanzia tormentata e nel 1812, dopo un viaggio in Spagna e in Oriente, pubblica la sua più celebre opera, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo. Si trasferisce poi in Svizzera e, in seguito all’incontro con Shelley, in Italia. Negli ultimi anni di vita, sconfortato per la morte di Shelley, del quale è intimo amico, dopo essere tornato alla poesia satirica attaccando i poeti romantici ormai inseriti, come Wordsworth, negli ambienti letterari ufficiali inglesi, Byron decide di partecipare a una spedizione armata per preparare l’insurrezione indipendentista dei Greci dall’Impero ottomano. Ammalatosi di febbre a Missolungi, vi muore a soli trentacinque anni. Di temperamento complesso e portato agli eccessi, Byron sperimenta, in numerose opere, opposte concezioni e forme della letteratura romantica: dal compiacimento per la propria condizione di sradicato all’impegno politico, dalla più cupa malinconia all’esibizionismo, dalla violenta invettiva al delicato lirismo, dal patriottismo al nomadismo inquieto e senza pace. Sul piano stilistico, la sua ampia e complessa produzione oscilla dall’eleganza sentimentale al gusto per l’aspra polemica e per l’aggressivo sarcasmo.

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Shelley e il titanismo idealistico

Una lirica esemplare

Il saggio Difesa della poesia La figura e l’opera di Keats

Percy Bysshe Shelley (1792-1822), di famiglia aristocratica e conservatrice, compie gli studi ad Oxford, ma viene espulso nel 1811, sospettato di aver scritto e diffuso un opuscolo a favore dell’ateismo. Nello stesso anno sposa una giovinetta sedicenne, che abbandona dopo tre anni di viaggi in giro per l’Europa. Nel 1814 fugge in Francia con Mary Godwin, che sposa nel 1816, dopo il suicidio della prima moglie. Nello stesso anno stringe amicizia con George Byron. Nel 1818, inimicatosi la società inglese per le proprie idee anarchiche e occultiste, si trasferisce in Italia, dove è ospite di Byron. Nel 1820 i coniugi Shelley si stabiliscono a Pisa e, successivamente, nei pressi di Livorno. Nel 1822 il poeta muore annegato in un naufragio nel golfo di La Spezia. La raccolta delle sue opere viene pubblicata, postuma, dalla moglie. Dal 1816 alla morte, Shelley è autore di testi poetici di alto livello, tipicamente romantici, tra cui spiccano: le liriche Ode al vento dell’Ovest (1820); La nuvola (1820); A Jane: il ricordo (1822); l’apologo La sensitiva (1820); la tragedia I Cenci (1819); il dramma lirico Prometeo liberato (1820), massima espressione del titanismo idealistico dell’autore; il poemetto di esaltazione dell’amore Epipsychidion (1821); e il componimento elegiaco Adonais (1821), in morte del poeta John Keats. Nell’esemplare lirica Ode al vento dell’Ovest è evidente come l’immaginazione del poeta abbia carattere cosmico e simbolico. Gli elementi della natura – in questo caso, il vento – cantati con mirabile abilità stilistica, diventano simboli del poeta, della sua interiorità, del suo tormento, dovuto soprattutto al contrasto fra il mondo reale – percepito come una prigione – e l’aspirazione alla libertà ideale, assoluta e illimitata; un drammatico conflitto che spesso approda a soluzioni di intensa religiosità, espressa dal bisogno, tipicamente romantico, di essere sollevati fino a intuire l’ignoto mistero dell’universo. Di notevole importanza è anche il saggio Difesa della poesia (1821), nel quale egli attribuisce al poeta il ruolo di guida spirituale dell’umanità e descrive in modo magistrale la concezione creativa romantica. Al Romanticismo inglese si lega anche l’opera di John Keats (1795-1821): londinese, di modeste origini, egli approda alla poesia affascinato dal classicismo, ma ben presto, nelle grandi odi come A un usignolo e Alla melanconia, rivela una profonda sensibilità romantica, espressa in versi dotati di mirabile senso dell’armonia. La sua vita, tragicamente breve e piena di sofferenze a causa di una gravissima malattia, si conclude poco oltre i venticinque anni a Roma, dove il poeta si trasferisce nella vana speranza di ritrovare la salute.

T3 L’albatro da La ballata del vecchio marinaio, I, vv. 41-82; II, vv. 25-40

Samuel Taylor Coleridge

Quella qui proposta è la parte iniziale de La ballata del vecchio marinaio, in cui si narra come il protagonista, spinto dalla tempesta verso il Polo Sud, abbia ucciso un grande albatro bianco il cui spirito lo perseguiterà. Il tema dell’albatro sarà ripreso ne I fiori del male dal francese Charles Baudelaire, precursore della sensibilità detta decadente. Schema metrico: nella traduzione italiana, ballata in endecasillabi e settenari, con rime libere. PISTE DI LETTURA • Il mare, simbolo della lotta fra vita e morte • Lo smarrimento dell’uomo davanti a un destino misterioso • Tono fra epico e lirico © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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Il vascello è spinto dalla tempesta verso il polo Sud.

“E si levò in quel punto la TEMPESTA furiosa, prepotente; percossi dalle sue ali ci spinse lungamente nel sud. 45

50

Con le antenne inclinate e con la prora, come chi se inseguito con grandi urla calpesti ancora l’ombra del nemico1, china avanti la testa, la nave si rubava2 alla tempesta e fuggivamo sempre verso sud. Poi vennero nel cielo nebbia e neve e un freddo tanto saldo che il ghiaccio a blocchi andava galleggiando verde come smeraldo. La terra del ghiaccio e dei rumori sinistri dove non si scorgeva essere vivente.

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Picchi3, di là dal turbine nevosi mandavano un bagliore triste – non ombra d’uomo o d’animale – ghiaccio, soltanto ghiaccio e il suo nitore. Il ghiaccio era dovunque, era qua, là, era tutto all’intorno; crepitava, gemeva ed ululava come, svenuti, s’ode un vano rombo. Finché un grande uccello di mare, chiamato l’Albatro, venne attraverso la nebbia nevosa, e fu accolto con grande gioia e ospitalità.

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E finalmente un Albatro passò, attraverso la nebbia era venuto; come se fosse un’anima cristiana in nome del Signore gli demmo il benvenuto. Mangiò il cibo non mai prima mangiato, con lunghi giri ci ruotò sul capo. Il ghiaccio si spaccò con un boato; il timoniere ci guidò fra mezzo. Ed ecco, l’Albatro si rivela uccello di buon augurio e segue il vascello come questo ritorna verso nord fra la nebbie e i ghiacci galleggianti.

Da sud il vento si levò propizio; l’Albatro ci seguiva e ogni giorno per cibo o per diletto al richiamo dei marinai veniva. 1. calpesti… nemico: non riesca cioè a distanziarlo fuggendo.

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2. si rubava: cercava di sfuggire. 3. Picchi: cime isolate e acuminate.

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Con nebbia o nube, all’albero o alle vele venne per nove sere; le notti intere al bianco fumigare scintillava il riverbero lunare”. Il vecchio marinaio contro la legge dell’ospitalità uccide il sacro uccello di buon augurio.

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“Che Dio ti salvi, vecchio marinaio, dai demoni che tanto ti tormentano! – Perché guardi così?” – “Con la balestra io stesi morto l’ALBATRO.” [...] Improvvisamente la nave è fermata dalla bonaccia.

25

30

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Cadde la brezza, caddero le vele, fu triste quanto può cosa esser triste; noi parlavamo solo per spezzare il silenzio del mare. In un cielo cocente, arso, di rame stava il sole sanguigno a mezzogiorno a picco sopra l’albero e il sartiame non più grande che luna. Giorni e giorni, l’un giorno dopo l’altro, stemmo fermi, non vento o movimento; immoti come una dipinta nave in un mare dipinto. E l’Albatro comincia a esser vendicato.

40

Acqua soltanto, acqua d’ogni parte, e le tavole aride e contorte4; acqua soltanto, acqua d’ogni parte, non una goccia per la nostra arsura. da Poesie e prose, a cura di M. Luzi, Mondadori, Milano, 1973

4. tavole… contorte: i legni secchi e contorti della barca.

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inee di analisi testuale Simbolismo metafisico e visionario Molteplici sono state le interpretazioni del testo di Coleridge, di carattere fortemente polisemico e simbolico. Il viaggio per mare è simbolo dell’esperienza del mondo e delle cose: un’esperienza che in Coleridge è vissuta come fonte di inquietudine e di angoscia. L’apparizione dell’albatro sulla nave trascinata dalla tempesta verso la distruzione, ha una valenza religiosa e salvifica in senso lato. La rappresentazione del poeta procede per immagini fortemente visionarie (la tempesta, il ghiaccio, l’albatro, la bonaccia), che generano nel lettore emozioni elementari: di paura, di fronte alla violenza della tempesta; di sollievo, all’apparizione dell’albatro; di sospeso orrore, all’immobilità della nave, perduta nel nulla. Lingua essenziale e metafore potenti Anche il linguaggio e le scelte stilistiche sono funzionali al perseguimento di tale obiettivo. La lingua è essenziale, quasi elementare. Sono completamente assenti gli aggettivi indeterminativi, per dare alla vicenda un carattere universale: non di una tempesta qualsiasi si tratta, ma della TEMPESTA per antonomasia (infatti, è scritta in maiuscolo). La straordinaria forza espressiva si fonda sulle metafore, mai dirette, ma allusive: ad esempio quella della tempesta come gigantesco uccello infernale, che spinge la nave verso i ghiacci del Polo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto dei versi in non più di 10 righe. Analisi e interpretazione 2. Indica le metafore che hai rilevato nel testo e interpreta il loro significato nel contesto della lirica. 3. Interpreta i possibili significati simbolici dell’albatro, della nave, della tempesta e della bonaccia finale. Approfondimenti 4. Tratta sinteticamente (in max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: La narrazione simbolica nella Ballata del vecchio marinaio.

T4 Aroldo e il gregge degli uomini da Il pellegrinaggio del giovane Aroldo

George Gordon Byron

L’enorme attrazione esercitata sul pubblico da Byron e il successo delle sue opere sono strettamente connessi al mito che circonda la sua vita. Fortemente autobiografica, come in quasi tutte le sue opere, è infatti la figura del protagonista del poema Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, che incarna la figura dell’eroe romantico. In questo testo il protagonista, dopo una vita dedita ai piaceri, intraprende un viaggio e trascrive, in prima persona, le emozioni e le riflessioni ispirate dai diversi soggiorni. Lo stralcio qui di seguito proposto ne è un esempio. Schema metrico: traduzione italiana in versi liberi. PISTE DI LETTURA • L’eroe romantico si estranea dal gregge della gente comune • La natura, unico interlocutore • Il tema della fuga 12

Ma si riconobbe presto come il meno adatto tra gli uomini a entrare nel gregge dell’Uomo, col quale ebbe poco in comune; incapace di sottoporre i suoi pensieri ad altri, sebbene la sua anima fosse soffocata in giovinezza dai suoi stessi pensieri; spontaneo ancora, non voleva concedere il dominio della sua mente a spiriti a cui il suo si ribellava; orgoglioso nella sua solitudine, sapeva trovare una vita in se stesso, per esistere fuori dall’umano1.

13

Dove si elevano i monti, là aveva amici; dove rombava l’oceano, là era la sua dimora; dove un cielo s’offre azzurro, e un clima raggiante, sentiva la passione e la forza di girovagare; il deserto, la foresta, la caverna, la schiuma dei frangenti gli facevano compagnia; parlavano un linguaggio comune, più limpido del volume della lingua della sua terra, a cui spesso rinunciava per le pagine della Natura dai raggi del sole riflesse sul lago2.

1. orgoglioso… dall’umano: il protagonista vive chiuso in se stesso, isolato dal mondo, incapace di trovare affinità con gli altri uomini, che ritiene inferiori a sé (gregge).

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2. parlavano… sul lago: la natura è la sua compagna, parla un linguaggio comprensibile, dà ristoro e sollievo alla inquietudine che lo porta a girovagare senza una meta precisa.

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[...] 15

Ma nella dimora dell’Uomo divenne una cosa irrequieta e estenuata, e severo e tedioso, disperato come un falcone nato libero che si spezzi le ali al quale solo l’aria illimitata fosse dimora: gli tornò allora quel parossismo3 e per superarlo, come l’uccello in gabbia suole battere con ardore il petto e il rostro contro la volta metallica finché il sangue non gli lorda4 il piumaggio, così la collera della sua anima reclusa gli devastava il petto.

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Aroldo esule volontario vagabonda ancora, di ogni speranza privo, ma con minore tristezza; la stessa consapevolezza di vivere invano, giacché tutto era compiuto al di qua della tomba, aveva fatto assumere alla Disperazione un’aria sorridente, sebbene fosse feroce – come sul relitto saccheggiato quando i marinai resi folli vanno incontro al loro destino con sorsi sfrenati sul ponte che affonda – pure ispirava un’allegrezza, che lui si asteneva dal contenere5. da Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, in Opere scelte, a cura di T. Kemeny, Mondadori, Milano, 1993

3. gli tornò... parossismo: l’espressione è ripresa dal Macbeth di Shakespeare; qui è usata nel senso di “massimo impeto”. 4. lorda: sporca.

L

5. Aroldo… contenere: incapace di stare tra gli uomini, Aroldo girovaga senza meta, convinto dell’insensatezza del vivere e, quindi, rassegnato.

inee di analisi testuale Un Romanticismo aristocratico Nella prima strofa, Byron offre un ritratto di Aroldo che vive da solo, separato dal gregge dell’Uomo. Orgoglioso, Aroldo vive nella tipica condizione di isolamento dell’individuo romantico, già prefigurata da Alfieri in Italia, ma ne accentua un aspetto: il disprezzo verso i propri simili, espresso attraverso il termine gregge. La natura amica Nella seconda strofa, Byron rivela i veri amici e interlocutori dell’uomo romantico: la natura nei suoi paesaggi più solitari ed estremi (i monti, l’oceano, il deserto, la foresta, la caverna). Prevale qui il tipico tema romantico della solitudine nella natura, che rispecchia le passioni umane. Da notare la metafora del libro della natura, le cui pagine sono paesaggi riflessi nell’acqua del lago. Byron e Baudelaire Nella strofa successiva, Byron descrive la condizione di sofferenza dell’eroe romantico nella vita comune. Egli soffre nella quotidianità; la sua condizione è espressa dalla similitudine dell’uccello in gabbia che si scaraventa contro le sbarre fino a sanguinare (Charles Baudelaire, precursore del Decadentismo, dopo la seconda metà del secolo, nella raccolta I fiori del male, attribuirà una condizione simile all’albatro, simbolo del poeta). La soluzione è fuggire, vagabondare per il mondo, sempre oppresso e infelice, per evitare la disperazione, personificata con un sorriso feroce e con il paragone dei marinai che si ubriacano – per dimenticare l’angoscia – sulla nave che affonda, simbolo dell’esistenza umana.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto delle strofe (max 10 righe). 2. Chi è il protagonista del testo poetico di Byron e quali sono i suoi rapporti con il resto degli uomini? Analisi e interpretazione 3. Individua le più significative figure retoriche (similitudini, metafore, personificazioni) presenti nel testo e interpretane il significato. 4. Quali sono i più evidenti elementi romantici che hai rilevato nelle strofe? 5. Come si motiva nel testo il fatto che il linguaggio della natura sia più comprensibile al protagonista di quello degli uomini? Approfondimenti 6. Dopo aver presentato le caratteristiche che contraddistinguono il personaggio di Aroldo e, attraverso di lui, anche il suo autore (il testo ha ampi sottintesi autobiografici), esponi la tua opinione riguardo all’esistenza, nel mondo attuale, di persone il cui rapporto con i loro simili – seppure in un contesto storico totalmente diverso – assomiglia a quello del protagonista dell’opera di lord Byron. Ipotizza inoltre le cause (storiche, politiche, sociali, psicologiche, morali o d’altro genere) che, a tuo avviso, inducono a fare propria tale concezione ed esprimi infine un ampio e motivato giudizio personale su di essa.

La narrativa romantica Le origini del romanzo storico

Walter Scott

Ivanhoe: trama e rapporto con i Promessi sposi

Nell’ambito della narrativa romantica, l’autore più importante è lo scozzese Walter Scott (1771-1832), che, con il capolavoro Ivanhoe (1820) e numerose altre opere, inaugura il genere, destinato a grande fortuna, del romanzo storico. Avvocato scozzese, in seguito alla lettura del Götz von Berlinchingen di Goethe e spinto dall’interesse per le tradizioni e il folclore della patria, Scott compone ballate ispirate ai romantici tedeschi, che gli procurano notorietà e successo. Messo in ombra dalla fama di Byron, Scott abbandona la poesia e si dedica alla composizione di racconti a Lady Rowena in una litografia del 1828. sfondo storico, inserendo in ambientazioni Milano, Civica Raccolta Stampe Bertarelli. fedelmente ricostruite, trame avventurose, peripezie, efficaci descrizioni e mantenendo un ritmo narrativo serrato e coinvolgente. Scott si rivela nei suoi romanzi un attento interprete del gusto romantico, per il vivo spirito nazionale e il radicato senso della storia, per l’ampio impegno riservato alla ricostruzione psicologica dei personaggi e all’analisi dei rapporti sociali. Per quanto riguarda la trama, il romanzo Ivanhoe è ambientato nell’Inghilterra del XII secolo, all’epoca dello scontro fra Sassoni e Normanni, e ha per protagonista il giovane cavaliere sassone Wilfred d’Ivanhoe che, dopo aver seguito Riccardo Cuor di Leone nella crociata in Terra Santa e molte avventure in cui storia e invenzione si mescolano, riesce a sposare l’amata lady Rowena. Il romanzo storico creato da Scott – che ha per protagonisti personaggi d’invenzione e figure storiche, compresenti in uno scenario in cui la verità storica si mescola a una creazione fantastica verosimile – avrà un successo straordinario nell’Europa ottocentesca, ispirando non solo il Manzoni dei Promessi sposi, ma

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anche i romanzi d’appendice – in francese, feuilletons – pubblicati a puntate sui giornali, di cui sarà maestro il francese Alexandre Dumas, autore, fra l’altro, del celebre I tre moschettieri. Mary Shelley Nella letteratura romantica inglese trova posto una figura femminile: la moglie e il genere di Shelley, Mary Godwin Wollstonecraft o Mary Shelley, autrice del celebre rodell’orrore manzo Frankenstein. Godwin, il padre, è un noto filosofo socialista; Mary Wollstonecraft, la madre, è una pensatrice e scrittrice che già si batte per l’emancipazione della donna. Nel 1814 Mary fugge in Francia con il poeta Shelley, iniziando un burrascoso rapporto che si concluderà solo nel 1822, con la tragica morte di lui. Frankenstein Frankenstein ovvero il moderno Prometeo (1818) fu scritto su proposta di Byron, dopo che i tre amici, insieme con il dottore di quest’ultimo, John Polidori, nella casa ginevrina degli Shelley, decidono di sfidarsi nella scrittura di una storia “nera” particolarmente terrificante. Il romanzo, a differenza delle altre opere del genere gotico, è di ambientazione contemporanea e riprende, in chiave moderna, il mito di Prometeo, l’eroe greco che ruba il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini, e che già in opere di Byron e Shelley dà vita agli uomini contro il divieto degli dèi. Le Per certi versi, il romanzo di Mary Shelley inaugura la moderna fantascienza, e interpretazioni può essere letto come la denuncia delle aberrazioni cui può condurre la scienza non del romanzo assogettata a limiti morali e dell’uomo che nel suo delirio tecnologico vuole sostituire Dio nell’attività creatrice. Notevole è la presenza nell’opera di tre narratori interni. Di carattere fantascientifico è L’ultimo uomo (1826), ambientato nell’Inghilterra del XXI secolo, in cui l’autrice narra la distruzione della specie umana.

IL ROMANTICISMO L’importanza di Madame de Staël Chateaubriand, controrivoluzionario e cristiano

Il cenacolo di Nodier e la poetica di de Musset

FRANCESE

Il Romanticismo francese ruota inizialmente intorno alla figura di Madame de Staël (1766-1817), soprattutto in quanto divulgatrice delle teorie del nuovo movimento; la pubblicazione, nel 1810, di La Germania è determinante per la diffusione delle idee, anche in Italia. Cronologicamente tardivo rispetto agli sviluppi tedeschi e inglesi, il movimento romantico francese è rappresentato già dalle inquiete opere del romanziere cristiano François-René de Chateaubriand (1768-1848). Nato da nobile famiglia bretone, viene avviato alla carriera militare e, a Parigi, assiste allo scoppio della Rivoluzione. Dopo un viaggio negli Stati Uniti nel 1791, ritorna in patria e si unisce allo schieramento controrivoluzionario; costretto a rifugiarsi in Inghilterra nel 1793, vi rimane, esule, fino al 1800, pubblicando a Londra il Saggio storico sulle rivoluzioni (1797), di impronta razionalista, ma già aperto all’inquietudine religiosa che si tradurrà nella conversione religiosa. Le opere successive sono tutte improntate alla lode del Cristianesimo: da Il genio del Cristianesimo (1802), completato dopo il ritorno in patria, che all’anticlericalismo fondato sulla ragione oppone la bellezza poetica e morale della fede cristiana, ai romanzi brevi Atala e René (1802), che narrano l’uno la storia d’amore, a contatto con la natura, di due indiani della Louisiana, l’altro l’esistenza annoiata e solitaria del protagonista, personaggio autobiografico. Nel 1809, con I martiri, lo scrittore mira a dimostrare la superiorità del meraviglioso cristiano su quello pagano e classico e assume il ruolo di punto di riferimento per tutti coloro che in Europa, nell’area romantica, si accostano al Cristianesimo. Dominata dal culto della bellezza e dall’incanto della natura immensa e melanconica, la particolarità dell’opera di Chateaubriand consiste nell’integrare la sensibilità romantica al Cristianesimo, al fascino delle età antiche e del genere gotico, alla conoscenza sentimentale e al contempo lucida dei moti dell’anima. L’inizio ufficiale del Romanticismo francese viene fatto coincidere con la fondazione (1823-1824) del cenacolo di Charles Nodier (1780-1844), frequentato da poeti come Alfred de Musset (1810-1857), autore fra l’altro di Non si scherza con l’amore (1834) in cui l’enfasi romantica è corretta dall’ironia e dalla caricatura, che come poeta si sente figlio di un “secolo senza speranza” e avverte il dramma del-

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La nascita della stagione romantica

l’assenza di una fede, che l’amore non basta a colmare, elaborando in molte opere una sorta di poetica del dolore. La grande stagione del Romanticismo transalpino si inaugura però solo nel 1827, quando Victor Hugo, riconosciuto caposcuola della tendenza, nella Prefazione al suo dramma Cromwell, espone le nuove teorie e fonda un proprio cenacolo artistico. Ne fanno parte alcuni autori significativi. Gérard de Nerval (1808-1855) nella prosa lirico-narrativa de Le figlie del fuoco (1853-1854) e nei versi delle Chimere (1853) crea un mito personale di iniziazione, un viaggio verso la luce attraverso il sogno. Alphonse de Lamartine (1790-1869) scrive dei versi caratterizzati da acceso lirismo che presenta come il rimedio per il suo cuore che si crogiola nei propri dolori. Alfred de Vigny (1797-1863) affronta ne I destini. Poemi filosofici il dramma dell’uomo sotto la duplice ottica storico-politica (la tirannia, la colonizzazione, la guerra dei sessi, la disparità delle condizioni sociali) e filosofico-esistenziale (il silenzio della divinità, il destino, la necessità di sopportare coraggiosamente le sventure). Théophile Gautier (1811-1872), con la raccolta Smalti e cammei del 1852, raggiungerà una levigatezza e limpidezza di stile che, superando l’espressione emozionale tipica dei Romantici, avvierà la poesia francese verso una nuova tendenza detta Parnassianesimo.

Victor Hugo, il caposcuola romantico

L’esordio

Dal conservatorismo al socialismo utopistico

Notre Dame de Paris

I miserabili e l’evoluzione verso il Realismo

Figura di straordinaria importanza nella letteratura del secolo, Victor Hugo (1802-1885) esordisce precocemente, ottenendo anche riconoscimenti da parte della restaurata monarchia borbonica. Nel 1822 Hugo pubblica Odi e poesie varie, si converte e sposa Adèle Foucher. Autore fecondo, anche per esigenze economiche, Hugo si riavvicina al padre, exgenerale napoleonico, ed assume un nuovo indirizzo di pensiero, allontanandosi dall’ala conservatrice della tendenza romantica. Lo attesta soprattutto il Cromwell (1827), dramma storico preceduto da una fondamentale Prefazione. Le idee di fondo della Prefazione – vero e proprio manifesto romantico – vengono poi portate in scena con il dramma Hernani (1830). Nel 1829, con Gli ultimi giorni di un condannato a morte, lo scrittore si accosta a una concezione umanitaria che lo avvicina al socialismo utopistico. Nel 1830, dopo aver caldeggiato l’ascesa al trono di Luigi Filippo, Hugo ultima Notre-Dame de Paris, pubblicandola l’anno successivo. Il romanzo, che figura fra i suoi capolavori, trasforma la cattedrale nello scenario della disperata storia d’amore del campanaro gobbo Quasimodo per la bellissima zingara Esmeralda, la quale, fatta oggetto dei torbidi desideri dell’arcidiacono, sarà giustiziata; Quasimodo getterà nel vuoto il rivale, che non ha voluto salvare la ragazza, e andrà a morire con il corpo di Esmeralda fra le braccia. I successivi, numerosi romanzi dello scrittore si allontanano gradualmente dalla tendenza romantica e si orientano sempre più decisamente verso la “questione sociale” e verso il Realismo. Sotto Napoleone III, dopo i moti rivoluzionari del 1848, Hugo è costretto all’esilio in Belgio, dove scrive il suo capolavoro, I miserabili (1862), grande affresco, fra Romanticismo e Realismo, della Francia dalla Restaurazione a Luigi Filippo. Il filo conduttore del romanzo è la vicenda dell’ex forzato Jean Valjean, che riscatta la sua esistenza grazie al gesto d’amore di un vescovo, simbolo della superiorità del bene su ogni forma di male. Tornato in Francia dopo la caduta di Napoleone III, Hugo cerca, in L’anno terribile (1872), di narrare obiettivamente i sanguinosi eventi della Comune di Parigi del 1870, primo tentativo, soffocato nel sangue, di realizzare una forma di socialismo reale. Le sue ultime opere sono dedicate alla ricostruzione storica. Si spegne nel 1885.

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T5 El desdichado da Chimere

Gérard de Nerval

Le Chimere sono dodici sonetti di eccezionale concentrazione espressiva e complessità (per spiegarli sono state scritte migliaia di pagine), anche perché Nerval vi riassume per brevi allusioni la storia della propria famiglia, le ricerche storiche e antropologiche, gli studi dedicati all’occultismo e al simbolismo mistico. La raccolta disegna un itinerario ideale che va dalla condizione del poeta “diseredato”, privo di una precisa identità, oppresso dalla malinconia e proiettato in direzione del sogno (nel sonetto iniziale, qui proposto), al conclusivo inno all’eterna sapienza pitagorica (Versi dorati), con la celebrazione del potere della letteratura, capace di vincere la nostalgia ed elaborare un mito di salvezza in cui antichità e mondo moderno si fondono. Il titolo, El desdichado (“Il diseredato”), è ripreso da un episodio del romanzo Ivanhoe di Walter Scott. Schema metrico: nella traduzione italiana, sonetto a rime libere in due quartine e due terzine di doppi settenari (detti anche martelliani o alessandrini). PISTE DI LETTURA • Il poeta come diseredato del mondo • Il poeta come eroe oltre il tempo • Tono tragico ma anche lirico Io sono il Tenebroso1, – Vedovo2, – Sconsolato, principe d’Aquitania dalla Torre abolita3: l’unica Stella è morta, – e sul liuto4 stellato è impresso il Sole nero della Malinconia5. 5

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Nel buio del Sepolcro, Tu che mi consolasti, a me rendi Posillipo e l’italico mare6, il fiore prediletto dal cuore desolato, la pergola che intreccia il Pampine alla Rosa7. Sono Amore o son Febo8?... Lusignano9 o Birone10? Rossa ho ancora la fronte del bacio della Dama; sognai nella Grotta che la Sirena solca... Due volte vincitore traversai l’Acheronte11: modulati alternando sulla lira d’Orfeo della Santa i sospiri e della Fata i gridi12. da Chimere e altre poesie, a cura di D. Grange Fiori, Einaudi, Torino, 1972

1. Tenebroso: per Georges Le Breton, si tratterebbe del Plutone alchimico (rappresentazione della pietra filosofale, ancora nascosta sotto il colore nero): È dunque Plutone che parla in prima persona nel primo verso del sonetto, e che afferma: io sono il Tenebroso. In tal modo Nerval simboleggia la chiave dell’Opera, o inizio dell’operazione alchimica. 2. Vedovo: perché rimasto privo della sua unica Stella (v. 3), la donna amata, nella biografia Jenny Colon, morta nel 1842, ma trasfigurata da Nerval come simbolo del mito dell’eterno femminino. 3. principe… abolita: riferimento alla convinzione del poeta di essere discendente di una famiglia nobile dell’Aquitania, il cui stemma, costituito da tre torri, sarebbe simbolicamente ridotto a due per la sua condizione decaduta. 4. liuto: simbolo della poesia. 5. il Sole nero della Malinconia: il sole saturniano della Malinconia, considerata dai neoplatonici, cui tanto spesso Nerval si riferiva, come uno stadio quasi divino, indispensabile premessa a ogni creazione artistica e filosofica, ma anche agli stati “eccezionali” di visione, veggenza e simili.

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6. Posillipo e l’italico mare: dove Nerval era stato nel 1834 e poi nel 1843. 7. la pergola… alla Rosa: in francese, la treille où la Pampre à la Rose s’allie; che non è soltanto memoria paesistica, ma criptico riferimento a santa Rosalia, la santa tanto venerata dai palermitani, in cui Nerval riconosce una delle manifestazioni dell’unico mito femminile che in tutte le sue opere cerca di evocare. 8. Febo: Apollo. 9. Lusignano: riferimento alla leggenda relativa a una famiglia nobile francese, tutelata dallo spirito della fata Melusina. 10. Birone: il duca di Biron (1562-1602), giustiziato per tradimento. 11. Due volte vincitore… Acheronte: due volte ritornai dall’Acheronte, fiume infernale. 12. della Santa… i gridi: secondo quanto afferma il critico J. Richer, Nerval si riferisce ai due grandi aspetti che assume il principio femminile nella sua opera e nella sua vita, Afrodite e Artemide. Fata non è qui la creatura benefica, ma la maga dai poteri inquietanti.

CAP. 17 - IL ROMANTICISMO

EUROPEO

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inee di analisi testuale Una composizione di difficile interpretazione Del polisemico sonetto sono state fornite decine di interpretazioni diverse, che fanno riferimento all’alchimia, all’astrologia, ai tarocchi (i primi tre versi alluderebbero agli arcani XV-XVII dei tarocchi: il Diavolo, la Torre e la Stella), al mito personale della famiglia e degli antenati dello stesso Nerval. Il testo rimane uno degli esempi più alti di un Romanticismo proteso in direzione del mistero, del mito, del valore magico della parola poetica. Il mistero di un mito femminile di salvezza A prescindere dagli innumerevoli riferimenti esoterici in esso presenti, El desdichado è il tentativo di Nerval di ricostruire miticamente la propria vicenda personale, dalla condanna alla morte, alla solitudine, alla privazione, fino alla salvezza resa possibile dalla poesia, in grado di fargli attraversare per ben due volte – nuovo Orfeo – l’Acheronte. Ruolo essenziale in tale esperienza ha la presenza femminile, che è insieme la protettrice Rosalia e la pericolosa Sirena, la santa e la maga: la donna, nella duplicità ambigua dei suoi aspetti e dei suoi attributi, riassume per il poeta le contraddizioni stesse della realtà.

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Con l’aiuto delle note riassumi il contenuto del sonetto di Nerval. Analisi e interpretazione 2. Analizza il sonetto dal punto di vista simbolico e spiegane i possibili significati. 3. Quali finalità si pone Gérard de Nerval con questo componimento? 4. Spiega per quali motivi secondo Nerval il poeta è desdichado. Approfondimenti 5. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: La polisemia e il mito personale nel sonetto El desdichado.

Théodore Géricault, La zattera della Medusa, 1818. Parigi, Museo del Louvre. Géricault è uno dei principali pittori romantici francesi. In questo quadro fa riferimento a un episodio di cronaca verificatosi nel 1816: il naufragio della nave Medusa, i cui superstiti vanno alla deriva per molti giorni prima di essere salvati.

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IL ROMANTICISMO EUROPEO ROMANTICISMO TEDESCO

GLI AUTORI

LE FASI

• Sturm und Drang • Gruppo di Jena • Gruppo di Heidelberg

I TEMI

• Goethe • Fratelli Schlegel • von Arnim • Schiller • Novalis • Brentano • Fratelli Grimm

• • • • • • • •

Malinconia Individualismo Sentimentalismo Contrasto fra l’eroe e la realtà Spiritualismo Senso del mistero Nazionalismo Culto delle tradizioni popolari

I CAPOLAVORI

OBIETTIVO

• Faust, Werther (Goethe) • Inni alla notte (Novalis) • Fiabe (Grimm)

Una poesia che susciti sentimenti ed emozioni sublimi

ROMANTICISMO INGLESE

LE FASI

• Prima generazione • Seconda generazione

• • • • • • • •

GLI AUTORI

I TEMI

I CAPOLAVORI

OBIETTIVO

Coleridge Wordsworth Blake Lord Byron Shelley Keats Walter Scott Mary Shelley

• Ispirazione fantastica, sentimentale e visionaria • Fascino della natura • Senso del mistero • Identificazione di poeta e profeta • Storicismo • Titanismo

• Ballate liriche (Wordsworth e Coleridge) • Frankenstein (Mary Shelley) • Ivanhoe (Scott)

Una poesia che integri ispirazione fantastica e legame emotivo con la natura

ROMANTICISMO FRANCESE

LE FASI

• Cenacolo di Nodier • Cenacolo di Hugo

GLI AUTORI

I TEMI

I CAPOLAVORI

OBIETTIVO

• Madame de Staël • Chateaubriand • De Musset • Hugo • Nerval • Lamartine • Vigny • Gautier

• Spiritualismo e Cristianesimo • Senso del mistero • Sentimentalismo • Contrasto fra individuo, realtà e società

• Cromwell, Notre Dame de Paris (Hugo) • Réné (Chateaubriand) • Chimere (Nerval)

Integrare il sentimentalismo moderato con gli apporti della fantasia

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CAP. 17 - IL ROMANTICISMO

EUROPEO

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

Mito e patologia del genio

Giovanni Macchia

Genio è uno dei termini più usati e osannati dai Romantici europei. Secondo il critico Giovanni Macchia, il Romanticismo rifonda il concetto di genio in senso creativo, profetico, carismatico e visionario. In una rivoluzione del gusto, era prevedibile che il concetto di “genio” dovesse subire le sue trasformazioni. Concetto di genio, mito del genio, patologia del genio: l’epoca romantica procede all’accelerazione sempre più frenetica dei tratti di questo eccezionale personaggio, tanto che fin dai tempi dello Sturm si pensò di correre ai ripari. [...] Per i primi romantici l’uomo era una creatura che partecipava dell’infinito, e il genio non s’identificava certo con colui che mette ordine nelle cose: tutt’altro. Tendeva ad infiammarle: ad infiammarle per ricrearle. Per un Balzac1 il genio-romanziere non farà soltanto concorrenza allo stato civile: farà concorrenza a Dio. Ma assai prima di lui, gli Stùrmer avevano visto nel genio creatore una non del tutto imperfetta immagine di Dio. [...] Investito da un clima tempestoso che il vento sconvolge, non so quale fine stia facendo la linda e ordinata parrucca dal codino che scendeva sul collo di un poetino settecentesco, mentre, in una sala di ricevimento, dalle lesene dorate, seduto su una bergère Louis XVI2, leggeva i propri versi. Quel poeta di lì a poco si farà ritrarre con i capelli al vento, con la cravatta nera svolazzante, quasi sempre di tre quarti: non in conversazione, brillante espositore di una sua poetica spirituale e sottile, ma solo; non tra i libri, ma in mezzo alla natura di cui egli è il profeta. Così si faranno ritrarre Byron, Shelley e anche Chateaubriand: e così si farà ritrarre, parecchi decenni dopo, qualche borghese arricchito, che, ahimè, amava la poesia. Anche qui il pittore porrà in evidenza il vigore naturale, non la raffinatezza cortese e la grazia. Chi più chi meno, tenderebbero tutti a rassomigliare non a un “homme d’esprit”3, a un “homme de lettres”4, ma ad un rude bardo scozzese, sognatore, viaggiatore. E il paesaggio dietro la figura non fa pensare affatto alla natura primaverile. “Odio la primavera: m’allontano dalle gaie scene di maggio in fiore...”, aveva detto Young. E non sarebbe meglio allora scoprire il paesaggio interno all’uomo, nella luce degli occhi, nella smorfia del viso? Perché tutto si svolge nell’interno del poeta. Cos’è la cultura? La cultura può non uccidere ma a patto che venga utilizzata, e poi distrutta. Per Coleridge il poeta è una sorta di mago, che innalza un edifìcio con mezzi invisibili. Lo spirito poetico deve incarnarsi per divenire visibile; ma un corpo vivo è necessariamente un corpo organico, e non hanno amato Shakespeare coloro che hanno confuso la regolarità meccanica con la forma organica. La poesia, in più di un paese, giaceva ancora immersa sott’acqua, con gli occhi sigillati da dure incrostazioni. Si ragionava di poesia. Ma essa sarebbe ritornata tra gli uomini quando si fosse operato pienamente un altro risveglio: il risveglio della natura, come di un Dio non più pagano. Da Scève5, dai poeti cosmogonici del Rinascimento, Dio era stato concepito come un geometra, un architetto, un supremo ordinatore, forse anche un fabbriciere o uno scienziato. Dio era ora un poeta, “il poeta all’origine dei tempi” (Hamann), e i poeti erano interpreti del potere divino. Mai come nel primo romanticismo essi furono gratificati di termini altrettanto osannanti. Iddii in forma di uomini. Creatori. Distruttori. Rivelatori dei misteri di Dio e degli uomini. Interpreti della natura. Rivelatori delle cose inesprimibili. Profeti. Sacerdoti. Su questa strada Shelley rincarerà la dose: “Non merita nome di creatore se non Iddio o il Poeta.” “La poesia è al tempo stesso il centro e la circonferenza della conoscenza. Essa comprende ogni scienza e ogni scienza è ad essa che deve riferirsi.” da Storia della letteratura italiana, L’Ottocento, Garzanti, Milano, 1981

1. Balzac: romanziere francese realista dell’Ottocento. 2. una bergère Louis XVI: una sedia in stile settecentesco. 3. “homme d’esprit”: uomo di spirito, in francese: definizione del genio data dagli Illuministi. 4. “homme de lettres”: uomo di lettere, in francese, altra

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definizione illuminista del genio, che l’autore contrappone a quella romantica. 5. Scève: Maurice Scève (1501-1564), poeta umanista e petrarchista francese che pretese di aver scoperto ad Avignone la tomba di Laura, la donna cantata da Petrarca.

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IL ROMANTICISMO

ITALIANO

La polemica classico-romantica Le origini della polemica

L’invito della Staël agli scrittori italiani

Le reazioni dei classicisti e del “Conciliatore”

L’opinione di Pietro Giordani

L’articolo di Anne-Louise-Germaine Necker Staël-Holstein, detta Madame de Staël, intitolato Lo spirito delle traduzioni – tradotto da Pietro Giordani con il titolo Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni e pubblicato sul primo numero della rivista “Biblioteca italiana” nel gennaio 1816 –, innesca la polemica tra classicisti e Romantici, che segna anche la nascita tardiva del Romanticismo italiano. Tramite gli incontri e le discussioni presso i salotti letterari, Madame de Staël costruisce una rete di relazioni intellettuali che favorisce l’incisività della sua azione culturale, volta alla divulgazione in Italia del Romanticismo tedesco. A questo fine contribuiscono anche altri importanti strumenti, come le corrispondenze epistolari e la pubblicazione di articoli su periodici culturali. La Staël invita gli scrittori italiani a tradurre e perciò leggere, divulgare, comprendere le novità letterarie prodotte dal Romanticismo europeo, denunciando, nel contempo, l’arretratezza della cultura italiana dell’epoca, connotata da esasperato classicismo e formalismo. I classicisti interpretano le tesi della Staël come un invito ad abbandonare la tradizione per imitare le letterature straniere e rispondono difendendo la tradizione greco-latina e romanza. Una diversa posizione viene invece assunta da un gruppo di giovani legati al periodico milanese “Il Conciliatore”, dando avvio alla suddetta polemica. È Pietro Giordani (1774-1848), che fa parte dell’ambiente milanese legato alla “Biblioteca italiana”, a intervenire per primo nel dibattito, schierandosi a favore dei puristi e dei classicisti. Egli scrive un articolo, pubblicato nel secondo numero della rivista (aprile 1816), in risposta a quello della Staël, che egli stesso aveva tradotto. Nella propria replica, Giordani accoglie alcune critiche mosse ai letterati italiani (come il consiglio di abbandonare la mitologia o, meglio, di farne un uso misurato e appropriato). Difende, però, lo studio dell’antichità e l’erudizione come fonti di arricchimento culturale. D’altro canto dissente totalmente sull’invito a intraprendere traduzioni di opere tedesche o inglesi, affermando che la letteratura nazionale non si nutre della novità, caratteristica che non rappresenta un va-

Friedrich Overbeck, Italia e Germania, 1815-1828. Monaco, Neue Pinakothek.

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CAP. 17 - IL ROMANTICISMO

EUROPEO

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Le tesi di Ludovico di Breme

Un nuovo fronte romantico Il manifesto di Borsieri

Il manifesto di Berchet: la Lettera semiseria

Il principio della libertà e della popolarità dell’arte

Le posizioni di Manzoni e Leopardi

lido criterio estetico. Giordani, inoltre, non ritiene opportuno mescolare le idee e i testi della letteratura romantica straniera ai caratteri della letteratura italiana, la quale deve piuttosto, per rinnovarsi, rivolgersi ai classici latini e greci, da cui può trarre validi apporti, in quanto da essa deriva. Tuttavia, nel giugno 1816, appare l’opuscolo Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani del nobile piemontese Ludovico di Breme (1780-1820), che cerca di contemperare il razionalismo illuministico con le nuove istanze romantiche, che fanno così la loro tardiva comparsa anche in Italia. Al di là della polemica, Breme mantiene un atteggiamento moderato, attento a salvaguardare la specificità della tradizione italiana, considerata superiore ad ogni altra, e a rinvenire i caratteri fondamentali del Romanticismo – la libera imitazione della natura e il patetico – nelle opere letterarie di ogni tempo e Paese. La novità maggiore consiste, però, nell’affermazione del legame tra situazione politica e letteratura. Dall’esame della situazione francese, Ludovico di Breme trae la convinzione che lo scontro fra classicismo e Romanticismo è una questione civile e nazionale e non soltanto letteraria, e che la nuova letteratura romantica sarà in grado di incidere profondamente sulla coscienza civile degli Italiani. Verso la fine del 1816 comincia a delinearsi in maniera più netta e consapevole un nuovo fronte romantico, soprattutto grazie agli interventi di Pietro Borsieri e di Giovanni Berchet, che rappresentano veri e propri manifesti del Romanticismo italiano. Nelle Avventure letterarie di un giorno, o Consigli di un galantuomo a vari scrittori, comparse anonime, Pietro Borsieri (1788-1852) prende posizione contro Giordani, e rivendica la necessità di una nuova forma di letteratura di cui individua i principali caratteri nell’utilità sociale e nella popolarità. Borsieri auspica la diffusione anche in Italia di due generi molto di moda nel resto d’Europa, il dramma e il romanzo. L’opera più significativa al riguardo, tuttavia, è il libretto di Giovanni Berchet (1783-1851) dal titolo Sul “Cacciatore feroce” e sulla “Leonora” di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo. Berchet ricorre all’artificio dell’antifrasi (rovesciamento): finge di sostenere le posizioni dei classicisti, ma solo per farne emergere l’inconsistenza e metterle in ridicolo. Nella finzione letteraria, a parlare è Grisostomo, un convinto classicista (il nome in greco significa “bocca d’oro”, ed era un soprannome attribuito a scrittori particolarmente eloquenti), che esorta il figlio collegiale a tenersi lontano dalle opere romantiche. A tale scopo, gli invia la traduzione in prosa di due ballate liriche o “romanze” del poeta tedesco Gottfried August Bürger, facendole precedere da un’ampia esposizione delle teorie romantiche, conclusa da una loro radicale sconfessione. I princìpi esposti da Berchet si possono ricondurre a due idee fondamentali. La prima è l’affermazione della libertà dell’arte; essa ha come conseguenze il rifiuto delle regole e dell’imitazione dei classici (che peraltro debbono essere letti non in maniera esclusiva, ma insieme agli autori moderni, anche stranieri), l’affermazione del valore dell’ispirazione come fonte della poesia, la convinzione che stile e metro non debbano costituire obblighi artificiosi, ma originare dalla materia e dalle esigenze espressive. La seconda è il principio che la letteratura debba essere popolare, cioè rivolta al pubblico contemporaneo, e trattare argomenti in grado di risvegliarne l’interesse (dunque principalmente argomenti di attualità), di migliorarne l’indole e la condotta (e dunque avere uno scopo educativo), di stimolarne la fantasia, fondandosi sull’umanità dei sentimenti e delle emozioni. Alessandro Manzoni partecipa, seppure non apertamente, al dibattito, scrivendo l’ode L’ira di Apollo (1817), in cui prende le difese di Berchet e dei giovani romantici. Giacomo Leopardi, invece, scrive il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), indirizzato alla rivista “Biblioteca italiana” ma mai pubblicato. Il grande recanatese, pur su posizioni originali e a sé stanti, sviluppa tesi che si accostano maggiormente alle concezioni classiciste (non a caso Pietro Giordani diventerà poi suo corrispondente e amico).

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EUROPEO

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Necessità di una nuova forma di letteratura, che sia caratterizzata da utilità sociale e popolarità.

Pietro Borsieri, Avventure letterarie di un giorno (fine del 1816).

Alessandro Manzoni, L’ira di Apollo (1817).

Ode inedita, in difesa di Berchet.

Finge di sostenere le posizioni dei classicisti, ma solo per metterle in ridicolo.

Atteggiamento moderato, consapevole del legame fra situazione politica e letteratura.

Ludovico di Breme, Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani (giugno 1816).

Giovanni Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo (fine 1816).

Necessità di leggere e tradurre le opere contemporanee.

Madame de Staël, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni (gennaio 1816).

ROMANTICI

Vincenzo Monti, Sermone sulla mitologia (1825).

Giacomo Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818).

Pietro Giordani, Risposta al discorso di Madame de Staël (aprile 1816).

LA POLEMICA CLASSICO-ROMANTICA

Difesa ad oltranza del classicismo, pubblicata quando ormai la polemica è finita da tempo.

Mai pubblicato, è schierato, su posizioni originali a sé stanti, dalla parte dei classicisti.

Il rinnovamento della letteratura italiana deve venire dalla tradizione classica.

CLASSICISTI

T6 Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni

Madame de Staël

L’articolo di Madame de Staël Lo spirito delle traduzioni (1816) è di particolare importanza per comprendere il dibattito culturale che accompagna la fine dell’età napoleonica (1815) e del Neoclassicismo ad essa legato e l’inizio – tra le polemiche – del Romanticismo italiano. Il testo, di cui qui si riporta uno stralcio centrale, contiene l’invito rivolto dall’autrice agli Italiani a studiare il Romanticismo europeo abbandonando ogni forma di provincialismo culturale. PISTE DI LETTURA • L’elogio della traduzione come scambio di cultura e conoscenze • Una dotta lezione agli Italiani colti • Tono didascalico

La traduzione arricchisce la conoscenza e lo scambio Le ragioni dell’uso del latino

Una buona traduzione aggiunge piacere al testo

Trasportare da una ad altra favella1 le opere eccellenti dell’umano ingegno è il maggior benefizio che far si possa alle lettere; perché sono sì poche le opere perfette, e la invenzione2 in qualunque genere è tanto rara, che se ciascuna delle nazioni moderne volesse appagarsi delle ricchezze sue proprie, sarebbe ognor3 povera: e il commercio de’ pensieri è quello che ha più sicuro profitto. I dotti e anche i poeti, in quella età che gli studi risorsero, pensarono a scriver tutti in una medesima lingua, cioè latino, perché non volevano che ad essere intesi lor bisognasse di venire tradotti. Il che poteva giovare alle scienze, le quali non cercano le grazie dello stile per esprimere i loro concetti. Ma da ciò accadde che il più degl’Italiani ignorasse quanta dovizia di scienze abbondasse nel paese loro, perché il maggior numero di quelli che potevano leggere non sapeva latino. E d’altra parte, per adoperare questa lingua nelle scienze e nella filosofia bisogna creare vocaboli che ne’ romani scrittori ci mancano. Laonde i dotti d’Italia venivano ad usare una lingua che era morta, e non antica. I poeti non uscivano dalle parole né dalle dizioni de’ classici: e l’Italia, udendo tuttavia sulle rive del Tevere e dell’Arno e del Sebeto e dell’Adige la favella de’ Romani, ebbe scrittori che furono stimati vicini allo stile di Virgilio e di Orazio, come il Fracastoro, il Poliziano, il Sannazaro4: dei quali però se non è oggidì spenta la fama, giacciono abbandonate le opere, che dai soli molto eruditi si leggono: tanto è scarsa e breve la gloria fondata sulla imitazione. E questi poeti di rinnovata latinità furono rifatti italiani dai lor concittadini: perocché è opera di natura che la favella, che è compagna e parte continua di nostra vita, sia anteposta a quella che da’ libri s’impara, e si trova solamente ne’ libri. So bene che il miglior mezzo per non abbisognare di traduzioni sarebbe il conoscere tutte le lingue nelle quali scrissero i grandi poeti, greca, latina, italiana, francese, spagnuola, inglese, tedesca. Ma quanta fatica, quanto tempo, quanti aiuti domanda un tale studio! Chi può sperare che tanto sapere divenga universale? e già all’universale dée por cura chi vuol far bene agli uomini. Dirò di più: se alcuno intenda compiutamente le favelle straniere, e ciò non ostante prenda a leggere nella sua propria lingua una buona traduzione, sentirà un piacere per così dire più domestico ed intimo provenirgli da que’ nuovi colori, da que’ modi insoliti, che lo stil nazionale acquista appropriandosi quelle forestiere bellezze. Quando i letterati d’un paese si vedono cader tutti e sovente nella repetizione delle stesse imagini, degli stessi concetti, de’ modi medesimi; segno è mani-

1. Trasportare... favella: tradurre da una lingua a un’altra. 2. invenzione: originalità, novità. Si tratta di una caratteristica tipica del nuovo gusto romantico. 3. ognor: pur sempre. 4. Fracastoro... Sannazaro: l’autrice si riferisce alla

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produzione in latino di questi intellettuali. Girolamo Fracastoro (1478-1553), veronese, era noto poeta in latino, medico e filosofo; Angelo Poliziano (1454-1494) e Jacopo Sannazaro (1455-1530) furono, com’è noto, poeti umanisti.

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festo che le fantasie impoveriscono, le lettere isteriliscono: a rifornirle non ci è 35 migliore compenso5 che tradurre da poeti d’altre nazioni. [La scrittrice prosegue affermando che l’italiano è, tra le lingue del suo tempo, la più adatta a tradurre Omero dal greco: infatti la traduzione del Monti è la migliore per bellezza e semplicità. Gli Italiani dovrebbero tradurre però anche le recenti poesie inglesi e tedesche per proporre qualche novità ai compatrioti, che conoscono solo l’antica mitologia che, in altri Paesi d’Europa, è stata ormai dimenticata. Gli Italiani dovrebbero occuparsi di quanto avviene oltralpe, abbandonando i loro eruditi classicisti, che guardano solo al passato e ripropongono scritti dal suono armonioso ma vuoti di significato. Bisogna invece suscitare una emulazione attiva, la tensione a inventare qualcosa di nuovo e una letteratura basata sulla verità. Occorre anche approfittare del fatto che in Italia piace il dramma teatrale per renderlo utile alla crescita culturale, senza impedire il divertimento.] Gl’Italiani hanno nelle belle arti un gusto semplice e nobile. Ora la parola è pur una delle arti belle, e dovrebbe avere le qualità medesime che le altre hanno: giacché l’arte della parola è più intrinseca all’essenza dell’uomo; il quale può rimanersi piuttosto privo di pitture e di sculture e di monumenti, che di quelle 40 imagini e di quegli affetti ai quali e le pitture e i monumenti si consacrano. Gl’IGli Italiani e la taliani ammirano ed amano straordinariamente la loro lingua, che fu nobilitata loro lingua da scrittori sommi: oltreché la nazione italiana non ebbe per lo più altra gloria, o altri piaceri, o altre consolazioni se non quelle che dava l’ingegno. Affinché l’individuo disposto da natura all’esercizio dell’intelletto senta in sé stesso una 45 cagione di mettere in atto la sua naturale facoltà, bisogna che le nazioni abbiano un interesse che le muova. Alcune l’hanno nella guerra, altre nella politica: gl’Italiani deono acquistar pregio dalle lettere e dalle arti; senza che giacerebbero in un sonno oscuro, d’onde neppur il sole potrebbe svegliarli. da I manifesti romantici, a cura di C. Calcaterra, Utet, Torino, 1951

5. compenso: rimedio.

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inee di analisi testuale Tradurre è necessario, utile e bello Gli argomenti fondamentali contenuti nell’articolo rispecchiano la concezione moderatamente romantica di Madame de Staël. A suo avviso, tradurre le grandi opere fa bene alla letteratura, perché lo scambio culturale arricchisce. Gli Italiani sono ritenuti in difficoltà: il latino era la lingua della comunità intellettuale, ma in Italia si continuò ad usarlo in ambito letterario e così gli scrittori non vennero più compresi. L’autrice sottolinea che la cosa migliore sarebbe leggere le opere in lingua originale, ma per la maggioranza non è possibile: ci vuole perciò la traduzione; una buona traduzione apporta alla propria lingua la gradevolezza della novità e dell’insolito. Le traduzioni rinnovano la letteratura La Staël espone poi la sua tesi centrale: quando una letteratura diventa ripetitiva (come, a suo avviso, il classicismo italiano) bisogna tradurre poeti stranieri per rinnovarla. Gli Italiani dovrebbero perciò tradurre i nuovi poeti inglesi e tedeschi (ossia, i poeti romantici) non per imitarli, ma per conoscere il nuovo. Introduce infine il concetto secondo cui il teatro è il mezzo migliore per una operazione simile, perché molto amato dal suo pubblico. La Staël consiglia quindi di tradurre opere teatrali, come è appunto avvenuto all’estero (in particolar modo con le traduzioni di Goethe in Francia e Inghilterra). La critica ai letterati italiani fermi al passato e cultori di uno stile retorico e vuoto giunge all’acme quando Madame de Staël, non senza acre spirito polemico, afferma che le lettere sono l’unico punto forte del talento della nazione italiana (e quindi sottintende che dovrebbero essere particolarmente curate).

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del testo di Madame de Staël in non più di 10 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Qual è il ruolo delle traduzioni, secondo Madame de Staël? b. Quali sono i passi in cui la polemica di Madame de Staël verso i letterati italiani appare più accentuata e sulla base di quali argomentazioni essa si sviluppa? c. Perché, secondo l’autrice, sono necessarie le traduzioni, in particolare dei recenti autori europei? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. A quale genere letterario appartiene il brano che hai letto e quali aspetti lo dimostrano? b. In quale contesto e con quale scopo l’autrice introduce il discorso sul teatro? c. Quali sono le principali concezioni romantiche presenti nel testo? Approfondimenti 4. Nell’Italia di oggi il dibattito sulla contrapposizione tra cultura nazionale e straniera è ancora all’ordine del giorno? Dopo aver risposto all’interrogativo in modo sintetico ma argomentato, esprimi la tua opinione personale.

T7 Per una poesia universale e popolare da Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo

Giovanni Berchet

Giovanni Berchet si cela dietro il personaggio di Grisostomo (pseudonimo che l’autore utilizza anche per firmare articoli pubblicati su “Il Conciliatore”), un intellettuale progressista che, nella forma della lettera inviata al figlio, propone alcuni suggerimenti sulla letteratura europea e italiana. Grisostomo cita autori romantici quali Goethe, Schiller, Schlegel, si interroga sul ruolo del poeta, rivendica una concezione etica della letteratura; simula, però infine, ironicamente, idee classiciste, per non suscitare l’intervento della censura. PISTE DI LETTURA • Il rapporto fra poesia e popolo • Come avvicinare il pubblico alle nuove tendenze letterarie • Tono didascalico ma ricco di ironia E non occorre dire che la lingua nostra non si pieghi ad una prosa robusta, elegante, snella, tenera quanto la francese. La lingua italiana non la sapremo maneggiare con bella maniera né io, né tu1; perché tu sei un ragazzotto, ed io un vecchio dabbene e nulla più; ma fa ch’ella trovi un artefice destro ed è materia da cavarne ogni costrutto2. Ma questa materia non istà tutta negli scaffali delle 5 biblioteche. Ma non là solamente la vanno spolverando quei pochi cervelli acuti che non aspirano alla fama di messer lo Sonnifero. I pedanti In Italia qualunque libro non triviale esca in pubblico, incontra bensì qua e là meritano una qualche drappelletto minuto di scrutinapensieri, che pure non lo spaventano severa critica mai con brutto viso, perché genti di lor natura savie e discrete. Ma, poveretto! 10

1. La lingua… né tu: nella finzione del testo l’autore è Grisostomo, che si rivolge al figlio.

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2. ma fa… costrutto: la lingua italiana, per la sua ricchezza, può dare origine a una grande quantità di costruzioni.

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Tutti sono uguali davanti alla letteratura

Anche Tasso era un poeta romantico

eccolo poi dar nel mezzo ad un esercito di scrutinaparole, infinito, inevitabile, e sempre all’erta, e prodigo sempre d’anatemi. Però io, non avuto riguardo per ora alla fatica che costano i bei versi a tesserli, confesso che qui tra noi, per rispetto solamente alla lingua, chiunque si sgomenta de’ latrati dei pedanti piglia impresa meno scabra d’assai se scrive in versi e non in prosa. Confesso che, per rispetto solamente alla lingua e non ad altro, tanto nel tradurre come nel comporre di getto originale, il montar su’ trampoli e verseggiare costa meno pericoli. Confesso che allo scrittore di prose bisogna studiare e libri e uomini e usanze; perocché altro è lo stare ristretto a’ confini determinati di un linguaggio poetico, altro è lo spaziarsi per l’immenso mare di una lingua tanto lussuriante ne’ modi, e viva e parlata ed alla quale non si può chiudere il Vocabolario, se prima non le si fanno le esequie. Ma lo specifico vero per salire in grido letterario è forse l’impigrire colle mani in mano, e l’inchiodar sé stessi sul Vocabolario della Crusca, come il Giudeo inchioda sul travicello i suoi paperi perché ingrassino? No no, figliuolo mio, la penuria che oggidì noi abbiamo di belle prose non proviene, grazie a Dio, da questo che la lingua nostra non sia lingua che da sonetti. […] Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ci fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia3. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva; non è che una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima. La natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti, e gli antichi pregiudizi sui miracoli loro, e l’“est Deus in nobis”4. Di qui il più vero dettato di tutti i filosofi: che i Poeti fanno classe a parte, e non sono cittadini di una sola società ma dell’intero universo. E per verità chi misurasse la sapienza delle nazioni dalla eccellenza de’ loro poeti, parmi che non iscandaglierebbe da savio. Né savio terrei chi nelle dispute letterarie introducesse i rancori e le rivalità nazionali. […] La repubblica delle lettere non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti indistintamente. La predilezione con cui ciascheduno di essi guarda quel tratto di terra ove nacque, quella lingua che da fanciullo imparò, non nuoce mai, né alla energia dell’amore che il vero poeta consacra per istinto dell’arte sua a tutta insieme la umana razza, né alla intensa volontà, per la quale egli studia colle opere sue di provvedere al diletto ed alla educazione di tutta insieme l’umana razza. […] Se i poeti moderni d’una parte della Germania menano tanto romore di sé in casa loro, e in tutte le contrade d’Europa, ciò è da ascriversi alla popolarità5 della poesia loro. E questa salutare direzione ch’eglino diedero all’arte fu suggerita loro dagli studi profondi fatti sul cuore umano, sullo scopo dell’arte, sulle storie di lei e sulle opere ch’ella in ogni secolo produsse: fu suggerita loro dalla divisione in classica e romantica ch’eglino immaginarono nella poesia. Però sappi, tra parentesi, che tale divisione non è un capriccio di bizzarri intelletti, come piace di borbottare a certi giudici, che senza processare sentenziano; non è un sotterfugio per sottrarsi alle regole che ad ogni genere di poesia convengono; da che uno de’ poeti chiamati romantici è il Tasso. E fra le accuse che si portano alla Gerusalemme, chi udì mai messa in campo quella di trasgressione delle regole? Qual altro poema più si conforma alle speculazioni algebraiche degli Aristotelici?6

3. Tutti… alla poesia: la poesia, nel democratico spirito romantico, è una inclinazione propria di tutta l’umanità. Benché l’autore affermi che sia meglio evitare di rivolgersi ai due estremi degli zotici Ottentotti e dei troppo raffinati Parigini, qui egli sostiene che anche il più umile calzolaio la avverte.

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4. “est Deus in nobis”: c’è in noi una componente divina; l’espressione è latina. 5. alla popolarità: alla sua rispondenza ai valori popolari. 6. Qual altro… Aristotelici?: la Gerusalemme liberata fu criticata dagli aristotelici alla fine del Cinquecento per non aver rispettato le regole del genere epico.

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[Giunto a questo punto, Berchet chiarisce i princìpi della poesia romantica osservando che, dopo il periodo oscuro delle invasioni barbariche seguite al crollo dell’impero romano, la poesia risorse in Europa grazie ai Trovatori, che non si ispiravano né ai Greci, né ai Romani. In seguito vennero riscoperti i classici. I poeti europei moderni percorsero allora vie diverse. Alcuni si volsero all’imitazione dei classici e alla mitologia; altri interrogarono direttamente la natura, la cultura popolare, la religiosità del Cristianesimo, l’animo umano. I critici tedeschi scrissero che la poesia dei primi è classica, quella dei secondi è romantica. Berchet giudica la prima poesia de’ morti e la seconda poesia de’ vivi. Aggiunge poi che Omero e i grandi autori classici al tempo loro furono in certo modo romantici, perché non cantarono il passato, ma il loro presente: vanno perciò criticati non i classici, ma i loro imitatori.]

Il poeta non deve fare imitazioni delle imitazioni

Allorché tu vedrai addentro in queste dottrine, e ciò non sarà per via delle gaz- 60 zette, imparerai come i confini del bello poetico siano ampi del pari che quelli della natura, e che la pietra di paragone, con cui giudicare di questo bello, è la natura medesima e non un fascio di pergamene; imparerai come va rispettata davvero la letteratura de’ Greci e de’ Latini; imparerai come davvero giovartene. Ma sentirai altresì come la divisione proposta contribuisca possentemente a sga- 65 bellarti7 dal predominio sempre nocivo della autorità. Non giurerai più nella parola di nessuno, quando trattasi di cose a cui basta il tuo intelletto. Farai della poesia tua una imitazione della natura, non una imitazione di imitazione. A dispetto de’ tuoi maestri, la tua coscienza ti libererà dall’obbligo di venerare ciecamente gli oracoli di un codice vecchio e tarlato, per sottoporti a quello della 70 ragione, perpetuo e lucidissimo. E riderai de’ tuoi maestri che colle lenti sul naso continueranno a frugare nel codice vecchio e tarlato, e vi leggeranno fin quello che non v’è scritto. da I manifesti romantici, a cura di C. Calcaterra, Utet, Torino, 1951

7. sgabellarti: liberarti.

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inee di analisi testuale Poesia del cuore e della fantasia Dal brano emerge come per il romantico Berchet nella poesia siano fondamentali i valori sentimentali ed emotivi rispetto a quelli tecnici: le virtù che presiedono ad essa sono la fantasia e il cuore, mentre un ostacolo insormontabile è costituito dai raziocini, ossia dalla fredda riflessione intellettuale. Berchet riprende la concezione della storia di Giambattista Vico, secondo cui gli uomini sono prima poeti e poi filosofi, ma la rovescia. La natura e la lingua Emerge dal testo anche l’ammirazione romantica per il naturale e il primitivo: è la natura, non l’imitazione dei classici, che detta i contenuti della poesia, ed è nel Medioevo – con i trovatori, che non imitavano i classici – che sono nate le nuove letterature europee, dopo la crisi culturale determinata dalle invasioni germaniche. Per raggiungere l’emozione, la lingua della letteratura non può essere quella, selezionata ed elitaria, del purismo: deve essere una lingua più ricca e più varia, capace di confrontarsi con tutti gli aspetti della realtà; soprattutto, deve essere una lingua viva e parlata. Gli avversari: gli scrutinaparole Tuttavia, per lo scrittore milanese, il problema della letteratura italiana è un problema di contenuti più che di lingua; e del resto, seppure implicitamente, egli afferma la superiorità dei contenuti sulla forma, che è stata fino a quel momento l’oggetto privilegiato dell’attenzione dei classicisti. La minaccia per le nuove opere romantiche non sono gli scrutinapensieri, ma gli scrutinaparole. Proprio questi due neologismi, coniati dall’autore, rivelano la concezione di Berchet, che integra il sublime poetico con il prosaico quotidiano, nella convinzione che il primo possa inglobare al proprio interno il secondo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del testo di Berchet. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A quale genere letterario appartiene il brano di Berchet e quali aspetti lo rivelano? b. Quali caratteristiche presentano stile e linguaggio dell’autore? c. Quali neologismi sono presenti nel testo e quale ne è il significato? Approfondimenti 3. Leggi il brano della Lettera semiseria riportato di seguito: Ma, ad onta degli studi e della erudizione, i poeti che dal risorgimento delle lettere giù fino a’ dì nostri illustrarono l’Europa, e che portano il nome comune di moderni, tennero strade diverse. Alcuni, sperando di riprodurre le bellezze ammirate ne’ Greci e ne’ Romani, ripeterono, e più spesso imitarono modificandoli, i costumi, le opinioni, le passioni, la mitologia de’ popoli antichi. Altri interrogarono direttamente la natura: e la natura non dettò loro né pensieri né affetti antichi, ma sentimenti e massime moderne. Interrogarono la credenza del popolo, e n’ebbero in risposta i misteri della Religione cristiana, la storia di un Dio rigeneratore, la certezza di una vita avvenire, il timore di una eternità di pene. Interrogarono l’animo umano vivente: e quello non disse loro che cose sentite da loro stessi e da’ loro contemporanei; cose risultanti dalle usanze, ora cavalleresche, ora religiose, ora feroci, ma, o praticate e presenti, o conosciute generalmente; cose risultanti dal complesso della civiltà del secolo in cui vivevano. La poesia de’ primi è classica, quella dei secondi è romantica. [...] Omero, Pindaro, Sofocle, Euripide ec. ec., al tempo loro furono in certo modo romantici, perché non cantarono le cose degli Egizi o de’ Caldei, ma quelle dei loro Greci. da I manifesti romantici, a cura di C. Calcaterra, Utet, Torino, 1951

Svolgi quindi in forma scritta il seguente argomento (max 30 righe): I cardini dello sviluppo della letteratura secondo Giovanni Berchet.

Romanticismo e Risorgimento: le riviste letterarie La “Biblioteca italiana”

La svolta in senso censorio

“Il Conciliatore”: le istanze romantiche e risorgimentali

Nel 1816, il governo austriaco, dopo aver rioccupato il Lombardo-Veneto, per aumentare il consenso intorno alla politica della Restaurazione, promuove e finanzia la pubblicazione di una rivista letteraria, artistica e scientifica che, nelle intenzioni, dovrebbe coinvolgere gli intellettuali di tutta Italia, la “Biblioteca italiana”. Attraverso trattative segrete, il feldmaresciallo Bellegarde ne offre la direzione a Ugo Foscolo, che tuttavia esita ad accettare per ragioni ideologiche, e infine abbandona Milano scegliendo l’esilio. A dirigere la rivista è chiamato allora Giuseppe Acerbi (1773-1846), scrittore e archeologo, che si avvale della collaborazione di alcune tra le firme più prestigiose della cultura del tempo, come Vincenzo Monti e Pietro Giordani. Nonostante l’impostazione ideologica di fondo, conservatrice in politica e classicista in letteratura, agli inizi la rivista è aperta al libero dibattito intellettuale, al punto da ospitare l’intervento di Madame de Staël che, come abbiamo visto, dà il via alla polemica classico-romantica, e un articolo di Pietro Giordani sull’uso del dialetto in letteratura. Soltanto dopo l’uscita de “Il Conciliatore” e lo scontro tra Acerbi da una parte e Monti e Giordani dall’altra, conclusosi con l’allontanamento di questi ultimi, si registra una chiusura in senso censorio. La rivista continuerà comunque a uscire, con contributi dignitosi, fino al 1840. Come già detto, in Italia il Romanticismo si incontra e si lega con le istanze di libertà e di indipendenza nazionale del Risorgimento. Un ambito culturale in cui si registra questo intreccio di interessi si coagula nel settembre del 1818, quando alcuni intellettuali e patrioti risorgimentali a Milano dànno vita a “Il Conciliatore”, rivista bisettimanale, finanziata dal conte Luigi Porro Lambertenghi e il cui capo redattore è lo scrittore piemontese Silvio Pellico (1789-1854).

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Le caratteristiche della rivista

La soppressione della rivista

Le mie prigioni di Silvio Pellico

Il periodico funge da punto di raccordo per tutti coloro che sostengono l’idea nazionale e l’autonomia politica, ma evidenzia anche, nella sua linea editoriale, le particolarità del primo Romanticismo italiano. Le caratteristiche de “Il Conciliatore” – cui collaborano anche importanti intellettuali e patrioti con una formazione di stampo illuministico – possono essere sintetizzate in questi punti essenziali: • moderazione; • rifiuto del senso del mistero, dell’orrido e del fantastico, tipici delle correnti nordiche e germaniche; • impegno di carattere patriottico e risorgimentale. Quest’ultimo aspetto affonda le sue radici nella tradizione civile dell’Illuminismo lombardo, che ha sempre mirato, come scrive Giovanni Berchet, a evitare gli estremi, per raggiungere un pubblico composto prevalentemente da intellettuali e individui del ceto medio e orientarlo verso posizioni riformiste e indipendentiste. La pericolosità per il governo austriaco del disegno de “Il Conciliatore” appare subito chiara alla polizia, che nell’ottobre 1819 ordina la soppressione del periodico e ne fa arrestare per cospirazione carbonara i responsabili. Processato l’anno successivo per la sua adesione alla Carboneria e condannato a morte, Silvio Pellico vede poi la pena commutata in quindici anni di carcere duro nella fortezza dello Spielberg, in Moravia. Graziato nell’agosto 1830, pubblica a Torino il suo capolavoro, Le mie prigioni, opera invisa agli Austriaci per la denuncia delle condizioni cui sono sottoposti i patrioti incarcerati, ma poco gradita anche ai rivoluzionari risorgimentali, che giudicano “moralistica” la fiducia che l’autore, anche nelle condizioni più mortificanti, dimostra verso gli uomini. La narrazione, che rivela un forte intento educativo, ricostruisce infatti, in modo semplice e diretto, il percorso di sofferenza fisica e morale e di maturazione interiore del prigioniero, a partire dal suo arresto nel 1820 fino alla liberazione avvenuta nel 1830. Dopo la liberazione, Pellico assume uma posizione moderata, ispirata alla fede e al pensiero cristiano.

Caratteristiche specifiche e problematiche del Romanticismo italiano Specificità nazionali

La collocazione di Manzoni, Foscolo e Leopardi

Verso il tramonto del Romanticismo

Come si è visto, una chiara coscienza romantica si sviluppa in Italia con sensibile ritardo rispetto ad altri Paesi europei. Tra le molteplici ragioni, abbiamo individuato il forte radicamento della tradizione classicistica, che rende difficile la penetrazione di posizioni moderniste, e una motivazione di natura politica; la frantumazione del Paese e l’ingerenza delle potenze straniere, che causano una mancata identità culturale su cui il Romanticismo possa far leva. Ciò determina anche i caratteri specifici del Romanticismo italiano: il rifiuto delle tendenze irrazionalistiche e fantastiche, la moderazione, la continuità con l’Illuminismo e l’importanza attribuita alle istanze politiche risorgimentali. Se è possibile indicare un inizio piuttosto preciso per il Romanticismo italiano, assai meno agevole è stabilire quali grandi autori si possano definire romantici. Come si vedrà anche nei capitoli seguenti, in effetti, della triade romantica dei manuali scolastici tradizionali – Foscolo, Leopardi, Manzoni – si dovrebbe considerare romantico il solo Manzoni. Ugo Foscolo, infatti, scrive la maggior parte delle proprie opere prima del 1816, e non manifesta per la tendenza romantica alcun tipo di interesse; anche in seguito, rimane del tutto estraneo (e talvolta ostile) ai nuovi intellettuali che nel Romanticismo si riconoscono. Ancora più complesso il discorso su Leopardi, che dichiaratamente si schiera sul fronte dei classicisti. Se è pur vero che nella sua produzione compaiono temi caratteristici della letteratura romantica – la tensione all’infinito, ad esempio, o la memoria –, il nucleo centrale intorno a cui essi si organizzano risponde a un sistema materialistico e razionalistico, fondato su componenti ampiamente illuministiche. Inoltre, Leopardi, per la sua originalità, va considerato un autore che sfugge a una precisa classificazione. Quanto al tramonto del movimento, già verso la metà del secolo le istanze più vive ed originali tendono ad esaurirsi. Gli autori più significativi hanno ormai concluso la loro stagione creativa, come Manzoni, o hanno indirizzato i loro interessi

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ad altri ambiti della cultura, come Niccolò Tommaseo. Molti degli intellettuali di secondo piano sono scomparsi nel corso delle persecuzioni austriache e delle battaglie risorgimentali (Mameli, Poerio) o hanno cambiato posizione in ambito letterario (Pellico, Settembrini). Tra le opere davvero importanti, solo le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo si collocano oltre lo spartiacque del 1850.

Il secondo o tardo Romanticismo Caratteri del tardo Romanticismo

Il patetico e il “lacrimoso”

Aleardi: ispirazione sentimentale e patriottismo

Prati: intimismo, pessimismo e senso del mistero

Per i motivi sopra chiariti, si suole parlare, per la produzione successiva al 1850, di secondo Romanticismo, in cui i temi della prima metà del secolo sono ripresi in maniera meno sentita e con una forte accentuazione della componente sentimentale. Verso la metà del secolo, infatti, tramontato l’entusiasmo nazionalistico dopo l’unificazione, la produzione lirica e sentimentale mostra caratteristiche e modalità espressive tipiche del Romanticismo europeo, fino a quel momento quasi ignorate in Italia: visioni e atmosfere sognanti, concezioni misteriose e magiche della natura, gusto per il vago e l’ignoto, misticismo, irrazionalismo, nostalgia per il lontano passato. La sottolineatura dell’elemento patetico e la ripetitività dei temi (la passione amorosa e l’amor di patria), creano una moda del tono “lacrimoso” (definita arcadia romantica da Francesco De Sanctis). Il secondo o tardo Romanticismo trova i suoi migliori rappresentanti in Aleardo Aleardi e Giovanni Prati. Due sono gli aspetti fondamentali della produzione del veronese Gaetano Maria Aleardi (1812-1878), che in seguito cambierà nome in Aleardo: l’ispirazione sentimentale malinconica e il fervore patriottico. La prima è evidente nell’opera con cui si impone al pubblico, le Lettere a Maria (1846), colloquio patetico con la giovane amata. Del secondo sono permeate le raccolte forse più significative, Triste dramma (1853), nel quale la condanna a morte di un patriota è cantata come tragica vicenda d’amore tradito e di eroico sacrificio; Le città marinare e commercianti (1856), che in qualche tratto fanno presagire la poesia civile di Carducci; e il poemetto Il monte Circello (1856), in cui la rievocazione del paesaggio del Circeo e della leggenda omerica della maga Circe si intreccia con il ricordo della vicenda duecentesca di Corradino di Svevia, tradito e consegnato agli Angioini, che lo condannano a morte in un castello nei pressi del monte. Definito da Croce poeta di bontà e malinconia, Aleardi si ispira e rappresenta in modo sincero e dignitoso il dolore umano, a volte al confine con la retorica o il patetismo. I testi di tono sentimentale sono caratterizzati da un’atmosfera di mistero, dal fascino musicale dei versi, dall’eleganza delle metafore e dal clima di nostalgia che accompagna la rievocazione del passato. Le raccolte poetiche del trentino Giovanni Prati (1814-1884) sono numerose: fra le altre, i Canti lirici (1843), i Canti politici (1852), i poemetti Rodolfo (1853) e Armando (1868), i sonetti di Psiche (1876) e i Canti di Iside (1878), che nella commistione di motivi classici e romantici sono il risultato più originale. Nella sua poesia, l’intimismo e il sentimentalismo malinconico si vanno accentuando gradualmente e giungono, negli ultimi anni, a cantare il mistero dell’universo e la vanità di ogni speranza umana. La poesia di Prati è espressione dei sentimenti, dell’ideologia e delle delusioni che portano al pessimismo molti Italiani della sua epoca. Animato da entusiasmo patriottico, ma su posizioni moderate, celebra nei suoi versi i valori fondamentali della triade Patria, Dio, umanità, in cui la patria si identifica con lo Stato unificato dalla monarchia sabauda e il fondamento della società umana è riconosciuto nella famiglia. Un notevole merito dell’autore consiste nell’aver fatto conoscere, attraverso le sue imitazioni, alcuni grandi autori romantici europei – da George Byron a Victor Hugo –, in precedenza trascurati in Italia.

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Focus

LA QUESTIONE DELLA LINGUA NELLA PRIMA METÀ DELL’OTTOCENTO

LE RAGIONI DELLE DISCUSSIONI LINGUISTICHE OTTOCENTESCHE Nell’età napoleonica prima e nel Risorgimento poi, la questione della lingua acquista, fra gli intellettuali italiani, un peso che non trova riscontro in nessun’altra nazione europea. Ciò è dovuto alla particolare condizione politica del nostro Paese, frantumato in tanti piccoli Stati, spesso sotto il controllo straniero; in tale prospettiva, la lingua assume un ruolo fondamentale nella formazione di un’identità nazionale. Una seconda ragione è connessa all’esigenza di trovare una lingua comune per le nuove opere letterarie, destinate al pubblico di tutta l’Italia. Quest’esigenza è avvertita soprattutto nell’età romantica, quando si afferma l’idea di una letteratura popolare, tale cioè da poter essere compresa almeno dal pubblico borghese dell’intera penisola, che usa come abituale strumento di espressione il dialetto e non conosce il toscano della tradizione letteraria. IL PURISMO LETTERARIO: IL GUSTO ARCAIZZANTE DI ANTONIO CESARI La prima posizione sulla questione della lingua vede allineati gli intellettuali puristi, che auspicano il ritorno alla lingua pura dei grandi scrittori fiorentini del Trecento. Almeno in parte, il loro sdegno verso la corruzione dell’italiano ad opera del francese è dovuto anche all’ostilità verso la dominazione della Francia napoleonica, sicché il condizionamento linguistico e culturale viene avvertito come corrispettivo dell’oppressione politica. Caposcuola del purismo è l’abate veronese Antonio Cesari (1760-1828), che espone le proprie tesi nella Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (1810) e cura la ristampa riveduta e corretta del Vocabolario della Crusca (1806-1809), oltre a numerose edizioni di testi religiosi del Trecento. Cesari è convinto che non solo la letteratura, ma anche la lingua parlata abbia raggiunto il suo apice nel Trecento, e che si sia poi consumato un progressivo tradimento della purezza originaria. IL PURISMO SCOLASTICO: LA POLEMICA DI BASILIO PUOTI CONTRO I FORESTIERISMI Il principale esponente del purismo, è il napoletano Basilio Puoti (1782-1847), secondo il quale non ci si deve limitare agli scrittori del Trecento, ma si può giungere almeno fino al Seicento: l’allontanamento dalla purezza originaria si situa infatti nel Settecento, quando Baretti sostiene uno stile “naturale” e antiboccacciano, e Alessandro Verri sul “Caffè” si fa fautore di un’apertura incondizionata ai forestierismi. Aspra e vivace è la battaglia contro i francesismi, che, sull’onda del predominio filosofico, letterario e politico della Francia, tendono a dilagare nella lingua italiana. Importante merito del purismo è quello di indicare la necessità di un codice linguistico di riferimento sicuro e stabile, non soggettivo, sulla base del quale istituire il rapporto tra chi scrive e il pubblico. IL CLASSICISMO LINGUISTICO DI VINCENZO MONTI La principale opposizione alle teorie dei puristi viene da Vincenzo Monti, che fin dal 1813 pubblica articoli satirici contro l’abate Cesari. Si dedica poi più intensamente agli studi linguistici dal 1817 al 1824, quando pubblica la Proposta di alcune aggiunte e correzioni al Vocabolario della Crusca. Quattro sono le ragioni di dissenso rispetto alla Crusca. La prima è l’ostracismo dei cruscanti nei confronti di autori fondamentali della letteratura italiana, primo fra tutti Ariosto. La seconda è la presenza nel Vocabolario di troppe voci antiquate e peregrine: per Monti, invece, sarebbe opportuno separare il vocabolario de’ morti da quello de’ vivi. La terza è l’accoglienza a deformazioni del linguaggio della tecnica, della medicina, della scienza, usate soltanto dagli ignoranti e il rifiuto delle corrispettive forme colte: Monti auspica invece una massiccia presenza della lingua della scienza e della filosofia. L’ultima – e più importante – è l’esclusiva predilezione della Crusca per il toscano: per Monti, il toscano è soltanto un dialetto e non ha senso raccogliere idiotismi toscani, riboboli (ovvero frasi sagaci proprie della parlata fiorentina) e proverbi che sono incomprensibili alla stragrande maggioranza degli Italiani. A fronte di queste considerazioni polemiche, la proposta di Monti va in direzione di una lingua razionale e ordinata, da cui siano escluse tutte le forme basse e popolari, comprensibile e accettabile dai dotti di tutta Italia. UNA POSIZIONE INTERMEDIA: PIETRO GIORDANI Intermedia tra le precedenti è la tesi sostenuta da Pietro Giordani, che unisce a una decisa opposizione ai barbarismi un purismo moderato e flessibile, mirante ad integrare lingua del Trecento e stile classico modellato sull’eleganza degli antichi Greci. IL ROMANTICISMO E LA QUESTIONE DELLA LINGUA Almeno in un momento iniziale, le proposte di Monti suscitano l’approvazione degli scrittori romantici; ma si tratta più di un consenso in chiave antipuristica, che di un’adesione alle proposte montiane. Già gli scritti sulla lingua pubblicati sul “Conciliatore” da Ludovico di Breme denotano piuttosto un’attenzione verso la tradizione riformatrice dell’Illuminismo e verso Cesarotti; guardano alle novità della linguistica francese e si dichiarano avversi all’eccesso di cultura classica presente nella tradizione italiana. A fianco della letteratura, compare come fondamento della lingua l’uso, che sarà alla base di tutta la riflessione linguistica manzoniana (per cui cfr. pag. 628).

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Focus

LA POESIA DIALETTALE DI PORTA E BELLI

La categoria della poesia dialettale è stata, da un lato, negata dal critico Gianfranco Contini, il quale privilegia l’aspetto estetico a discapito di quello linguistico, dall’altro è stata invece rivendicata come fondamentale da Pier Paolo Pasolini, che la considera un vero e proprio genere letterario autonomo. Sulla scia di Pasolini, si può affermare che la poesia in dialetto costituisce un genere letterario in quanto è caratterizzata da testi che sono legati tra loro da una rete di relazioni tematiche e formali. Mentre si sviluppa nella cultura italiana dell’Ottocento l’impegno a favore di una unità nazionale, di cui la questione della lingua è aspetto di primaria importanza, il dialetto viene assumendo un ruolo altrettanto rilevante, sia per i suoi esiti letterari (i due maggiori poeti dialettali, Carlo Porta e Giuseppe Gioachino Belli, raggiungono livelli di assoluto valore letterario e linguistico) sia per la sua capacità di coniugare due aspetti centrali per la cultura romantica del tempo: la modernità e la popolarità. Rispetto alla lingua letteraria, il dialetto, nella sua immediatezza, è infatti uno strumento linguistico più aderente al reale, che stabilisce un rapporto più diretto fra poesia e lingua quotidiana e, soprattutto, tra poesia e popolo. Carlo Porta riprende la tradizione dialettale milanese, già affermata nel Settecento – con poeti come Carlo Antonio Tanzi e Domenico Balestrieri –, la potenzia e la nobilita. Giuseppe Gioachino Belli, invece, si inserisce in uno scenario più discontinuo, utilizzando, come dice lui stesso, una favella tutta guasta e corrotta [...] non italiana e neppur romana, ma “romanesca”. Il progressismo lombardo con cui si confronta Porta diverge dall’ambiente culturale di Belli, quello della Roma papale in cui egli si sente di fatto un isolato. CARLO PORTA Nato a Milano nel 1775 da un funzionario dell’amministrazione austriaca, Carlo Porta conduce, salvo una breve e gaudente giovanile parentesi veneziana, l’intera esistenza nella città lombarda, lavorando come impiegato. Sposatosi nel 1806, conduce un’esistenza tranquilla. La professione svolta gli permette di conoscere le vicende vissute e il modo di pensare di persone appartenenti ad ogni classe sociale e, soprattutto, dei poveri e degli emarginati, verso cui simpatizza; entrato, infatti, in contatto con le idee democratiche durante il periodo napoleonico, lo scrittore conserva tale orientamento anche dopo il ritorno degli Austriaci (1814). Pur continuando a servire come funzionario l’amministrazione asburgica, il poeta promuove, nella propria celebre camaretta, incontri con gruppi di amici, fra cui Giovanni Berchet e il romanziere Tommaso Grossi (1790-1853), intimo amico di Alessandro Manzoni. Nel 1816, Porta rischia di incorrere nella censura austriaca quando gli viene attribuita la composizione della Prineide, satira antiaustriaca il cui titolo deriva dal cognome del ministro filonapoleonico delle finanze linciato alla caduta dei Francesi: in realtà, autore dell’opera è Grossi. A partire dal 1812, intanto, il poeta, che precedentemente ha scritto soprattutto in lingua italiana, si dedica alla stesura di componimenti poetici in dialetto milanese, i cui protagonisti sono in genere personaggi del mondo popolare della città – I desgrazi de Giovannin Bongee (1813), La Ninetta del Verzee (1814), El lament del Marchionn di gamb avert (1816) ed altre figure, dipinte con affettuoso lirismo – o nobili ed ecclesiastici, oggetto, invece, di satira nelle opere Ona vision (1812) e La preghiera (1820). Negli anni che precedono la morte, avvenuta nel 1821, lo scrittore si avvicina al “Conciliatore” e alla corrente romantico-risorgimentale milanese. La poesia Il Romanticismo da lui composta negli anni 1818-1819 è da alcuni considerata un vero e proprio manifesto della nuova tendenza in Italia. Erede della tradizione dei cantastorie popolari lombardi, i cui prodotti erano detti “bosinade”, Porta, pur rimanendo deliberatamente legato alla loro tradizionale espressione dialettale, innalza il genere a un buon livello espressivo, trasformandolo anche in strumento di denuncia delle ingiustizie sociali. Il poeta sa toccare le corde del sentimento, senza mai però essere patetico o “lacrimoso”, quando ritrae con realismo ma anche con partecipazione emotiva gli emarginati e i popolani; parimenti fa abile uso della satira, attenuata dal ricorso a un’ironia tipicamente pariniana, nel mettere a nudo la mancanza di valori, la superbia e l’indifferenza verso i poveri di una nobiltà altera benché ormai avviata ad essere posta ai Giuseppe Bossi, Ritratto di Carlo Porta. Milano, Civiche Raccolte Storiche.

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margini della storia, e di figure di ecclesiastici ipocriti, sempre pronti a legarsi al potere e agli aristocratici. Vere e proprie “novelle in versi”, le poesie dialettali di Carlo Porta sono vividi affreschi della vita sociale milanese del tempo. Condannate a una circolazione semiclandestina, le opere dello scrittore vengono apprezzate da acuti ingegni come Carlo Cattaneo che, dopo aver definito Porta l’inarrivabile derisore di tutte le nostre debolezze, aggiunge: spero che un giorno saremo capaci di accorgerci dell’infinito beneficio che quell’acerba flagellazione ci recava (Sui milanesi e il loro dialetto, 1836). Il recupero del valore dell’opera di Porta sarà, però, molto più tardivo: l’edizione critica delle opere dell’autore, interrotta alla morte, risale alla fine dell’Ottocento; bisognerà attendere il primo decennio del Novecento perché la lucida lettura di Attilio Momigliano apra al poeta l’accesso alla storia letteraria. GIUSEPPE GIOACHINO BELLI Nato a Roma nel 1791, Giuseppe Gioachino Belli perde il padre durante l’infanzia e trascorre anni in povertà. Nel 1807, morta anche la madre, il sedicenne Belli vive di precari impieghi ed espedienti finché, nel 1816, si unisce in matrimonio a Maria Conti, una ricca vedova, e ottiene un impiego stabile presso la curia papale che conserverà fino al 1826. Dopo il matrimonio, compie molti viaggi in Italia. A contatto con il poeta dialettale milanese Carlo Porta e con il gruppo fiorentino raccolto intorno all’“Antologia” di Giovan Pietro Vieusseux, elabora la propria concezione del mondo e una poetica, precisata nell’Introduzione ai sonetti (1831), in cui indica come fine della propria opera lasciare un monumento di quello che è [...] la plebe di Roma. Dal 1824, nel frattempo, inizia a compilare lo Zibaldone, nel quale mette in luce, in chiave autobiografica, la propria personalità, delinea il suo itinerario intellettuale ed evidenzia le motivazioni sottese alla sua produzione satirica e dialettale, ispirata all’opera di Porta ma espressa nel sonetto, in uno stile volutamente gretto e realistico ed anche foneticamente aspro. Negli anni fra il 1830 e il 1837 e, successivamente, fra il 1842 e il 1847, scrive gran parte dei suoi oltre duemila sonetti in dialetto romanesco. La morte della moglie, nel 1837, costringe però il poeta a far fronte nuovamente a gravi problemi economici: egli rientra allora nell’Accademia tiberina, da cui si è dimesso dieci anni prima, e riprende la vita stentata tipica della propria gioventù. Gradualmente, si abitua a una sorta di doppia vita, presentandosi come un fedele suddito delle autorità in pubblico e scrivendo, nel frattempo, sonetti che circolano solo clandestinamente, in cui esprime la sua vena sarcastica e pessimistica. Sospettato di essere un oppositore dei democratici in occasione dell’insurrezione mazziniana del 1848, che porta alla formazione della Repubblica a Roma, quando ritorna al potere il pontefice, Belli assume fino alla morte – avvenuta nel 1863 – l’incarico di addetto alla censura, che eserciterà con scrupolosa severità. Pubblica, nel frattempo, alcuni dei propri sonetti in dialetto romanesco, 23, fra i più celebrativi; gli altri saranno in parte pubblicati postumi, in quanto salvati alla distruzione da un amico, nonostante la richiesta di bruciarli contenuta, per scrupoli morali e religiosi, nel testamento di Belli. Solo nel 1952, a cura di Giorgio Vigolo, sarà pubblicata l’opera pressoché completa. L’insieme dei versi del poeta rappresenta uno straordinario ritratto realistico della società romana del tempo, vista dagli occhi del popolo (di qui la scelta del dialetto romanesco e il tono satirico). Benché ispirato nella propria poetica da Porta, Belli si distingue per la visione pessimistica della società e per la tendenza a cogliere con amarezza e ironico umorismo i difetti presenti in ogni classe sociale. Non sfuggono alla sua satira gli ecclesiastici, i nobili e i corrotti, ma, spesso, neppure la miserabile plebe ora ribelle, ora vile e rassegnata, pronta alla derisione e allo sberleffo, priva di dignità. Benché talora la miseria susciti la sua commossa partecipazione, nell’opera del poeta prevale un’atmosfera cupa, che ritrae una Roma nel contempo fastosa e disperata. A tale realismo, sospeso fra dramma e umorismo, corrisponde una concezione tragica dell’esistenza, in cui è spesso presente l’incombere della fine del mondo, dipinto come teatro. La sua filosofia è espressa esemplarmente nel celebre sonetto Er caffettiere fisolofo: gli uomini che invano si affannano sono paragonabili a chicchi che, nner mascinino (“nel macinino del caffè”) si agitano o ppiano, o fforte, inutilmente, pe ccascà infine tutti, potenti e umili, nne la gola de la morte (“per cadere [...] nella gola della morte”).

Monumento a Gioachino Belli a Roma, in Trastevere.

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Concetti chiave IL ROMANTICISMO TEDESCO Il nuovo movimento romantico nasce in Germania, come sviluppo dello Sturm und Drang: la data d’inizio, 1798, coincide con la pubblicazione della rivista “Athenäum”, fondata dai fratelli Schlegel. Con loro si uniscono nel gruppo di Jena i filosofi Fichte e Schelling, e il poeta Novalis, che esplora attraverso la poesia il mistero. Di orientamento conservatore e interessato al folclore popolare è il gruppo di Heidelberg, di cui fanno parte von Arnim, Brentano e i fratelli Grimm. A sé sta la figura di Friedrich Hölderlin. IL ROMANTICISMO INGLESE La nascita del Romanticismo in Inghilterra coincide con la pubblicazione delle Ballate liriche (1798) di Coleridge e Wordsworth, incentrate sul rapporto con la natura e tese a conciliare ispirazione fantastica e concretezza realistica. Gli autori della seconda generazione romantica sono accomunati da un atteggiamento ribelle e titanico: Byron crea un proprio mito personale di eroe inquieto e alla continua ricerca della libertà; Shelley fonda la propria produzione lirica sul contrasto tra i vincoli sociali e l’aspirazione alla libertà assoluta. Nella prosa, si affermano i generi del romanzo storico e dell’orrore. Mary Shelley rinnova profondamente il romanzo dell’orrore con Frankenstein (1818), mentre Walter Scott offre con Ivanhoe (1820) lo schema per il romanzo storico, con personaggi reali e di invenzione che si mescolano in un’ambientazione medievale. IL ROMANTICISMO FRANCESE Il movimento romantico si diffonde in Francia nel 1810, con la pubblicazione del trattato La Germania di Madame de Staël. La sua prima fase coincide con le opere di François-René de Chateaubriand, in cui l’inquietudine esistenziale trova pace nella fede. La Prefazione al dramma Cromwell (1827) di Victor Hugo è considerato il manifesto del più maturo Romanticismo transalpino. Nei drammi storici e nei romanzi dello scrittore (tra cui Notre-Dame de Paris e I miserabili), l’interesse verso i deboli e i diseredati viene espresso attraverso un graduale avvicinamento al realismo. Le tendenze romantiche più estreme sono rappresentate da Alfred de Musset, che mescola enfasi sentimentale e ironia, e soprattutto da Gé© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

rard de Nerval, che in versi esoterici crea un personale mito di iniziazione al mistero. IL ROMANTICISMO ITALIANO In Italia il Romanticismo nasce con quasi vent’anni di ritardo rispetto al mondo anglosassone e germanico. Ciò è dovuto soprattutto al peso della tradizione classicistica e all’assenza di unità e indipendenza nazionali. Questa situazione ne determina anche i caratteri specifici: il rifiuto delle tendenze irrazionalistiche e fantastiche, la moderazione, la continuità con l’Illuminismo e l’importanza attribuita alle istanze risorgimentali. LA POLEMICA CLASSICO-ROMANTICA Nel 1816, Madame de Staël pubblica nella rivista “Biblioteca italiana” l’articolo Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, in cui lamenta l’arretratezza culturale del nostro Paese e la necessità di tradurre le opere della letteratura straniera moderna. L’intervento suscita la reazione dei maggiori classicisti (tra cui Pietro Giordani, che riconosce nella letteratura l’unico motivo di unità della patria) e la nascita della polemica tra classicisti e Romantici. Tra questi ultimi, emergono Ludovico di Breme, Pietro Borsieri e Giovanni Berchet, che stilano i manifesti programmatici del nuovo movimento. In particolare Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo sostiene che la letteratura deve essere popolare e sottolinea il rifiuto delle regole e dell’imitazione, indicando nell’ispirazione spontanea la fonte della poesia. LE RIVISTE DEL PRIMO ROMANTICISMO Oltre alla “Biblioteca italiana”, è “Il Conciliatore”, pubblicato a Milano dal 1818 al 1819, la rivista più importante del periodo. Essa raggruppa gli intellettuali progressisti, nell’intento di conciliare tradizione illuministica e nuovi impulsi romantici. “Il Conciliatore” è inoltre animato da una forte volontà educativa. Direttore della rivista è Silvio Pellico. IL SECONDO ROMANTICISMO Dopo la fine dell’epopea risorgimentale (1861), nel secondo Romanticismo i temi patriottici declinano e vengono sostituiti dai temi tipici del Romanticismo europeo, trattati però con toni patetici e sentimentali al punto da risultare “lacrimosi”. I principali esponenti sono Aleardo Aleardi e Giovanni Prati.

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E

sercizi di sintesi

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. L’inizio ufficiale del Romanticismo in Germania si colloca fra il a. 1790 e il 1798. b. 1798 e il 1800. c. 1799 e il 1812. d. 1800 e il 1850. 2. La prima fase del Romanticismo tedesco vede all’opera a. il gruppo di Jena. b. Goethe. c. il gruppo di Heidelberg. d. i fratelli Grimm. 3. Le affinità elettive è un’opera di a. Goethe. b. Schelling. c. Schiller. d. Heine. 4. Il gruppo di Heidelberg si caratterizza per a. la violenza. b. il moderatismo. c. la pacatezza. d. il nazionalismo. 5. Gottfried August Bürger è tra i primi a a. riproporre l’antica ballata popolare. b. tornare alla tradizione. c. tradurre le opere straniere. d. criticare la poesia romantica. 6. Nel VI Inno di Novalis a. vi è un invito a fuggire dalla vita. b. si avverte la nostalgia per la patria. c. non si avverte un messaggio definito. d. si percepisce la paura della morte. 7. Nel Romanticismo inglese, gli autori della seconda generazione a. entrano in polemica con i classicisti. b. sono accomunati da un atteggiamento ribelle e titanista. c. avversano Coleridge e Wordsworth. d. disapprovano l’individualismo di Byron. 8. La prima fase del Romanticismo francese a. comprende le opere di Chateaubriand. b. si apre con i romanzi di Victor Hugo. c. anticipa gli scritti di Madame de Staël. d. fonde Illuminismo e Romanticismo. 9. La grande fase del Romanticismo francese comprende a. Madame De Staël, Hugo, Baudelaire. b. Hugo, Chateaubriand, de Musset, Gautier. c. Hugo, Nerval, Lamartine, Vigny. d. Madame De Staël, Lamartine, Charles Baudelaire. 10. Rispetto alla Germania e all’Inghilterra, una chiara coscienza romantica a. si sviluppa in Italia con sensibile ritardo. b. si sviluppa in Italia con netto anticipo. c. non si sviluppa mai nel nostro Paese. d. emerge negli stessi anni.

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11. Il Romanticismo italiano manifesta nei riguardi dell’Illuminismo a. una aperta rottura. b. una certa integrazione. c. aspetti di competizione. d. identità di pensiero. 12. Il Romanticismo italiano coincide con a. il Risorgimento. b. il Rinascimento. c. la Restaurazione. d. la Controriforma. 13. Madame de Staël invita i letterati italiani a a. curare maggiormente la forma. b. tradurre le opere straniere. c. preservare la tradizione. d. ignorare le letterature straniere. 14. Pietro Giordani a. rivendica il valore del classicismo. b. critica l’arte classica. c. è un sostenitore di Madame de Staël. d. si estranea dalla polemica suscitata da Madame de Staël. 15. La Lettera semiseria di Grisostomo è a. contenuta nell’Ortis di Ugo Foscolo. b. un’opera di Giovanni Berchet. c. un’opera di Pietro Giordani. d. un’epistola di Pietro Borsieri. 16. Alla polemica classico-romantica prende apertamente parte soprattutto a. Manzoni. b. Foscolo. c. Monti. d. Berchet. 17. Le principali riviste degli anni della polemica classico-romantica italiana sono a. “Il Conciliatore” e “Il Caffè”. b. La “Biblioteca italiana” e “Il Caffè”. c. “Il Caffè” e l’“Antologia italiana”. d. “Il Conciliatore” e la “Biblioteca italiana”. 18. Il primo Romanticismo italiano termina a. dopo la Prima guerra d’indipendenza. b. dopo l’Unità d’Italia. c. agli inizi del Novecento. d. alla fine dell’età napoleonica. 19. Esponenti del secondo Romanticismo sono a. Giordani e Berchet. b. Aleardi e Prati. c. Borsieri e Pellico. d. Manzoni e Leopardi. 20. Francesco De Sanctis definisce il secondo Romanticismo italiano a. “impegnato sul piano politico”. b. “superiore al primo Romanticismo”. c. “lacrimoso”. d. “patriottico”.

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CAPITOLO

18

La grande

stagione del romanzo

Victor Hugo, Il serpente in esilio, 1863. Parigi, Biblioteca Nazionale.

IL I grandi autori

Gli altri generi del romanzo

ROMANZO NELL’OTTOCENTO

L’Ottocento è il secolo del massimo sviluppo del romanzo, che, ampliando e articolando i modelli e i generi diffusi nel Settecento, conosce grande fortuna. All’inizio del secolo in Francia la letteratura romantica apre spiragli di introspezione e realismo nei romanzi di Stendhal e di Victor Hugo. In Gran Bretagna Walter Scott introduce il genere del romanzo storico, che influenza tutta la narrativa europea del secondo Romanticismo attraverso opere come I promessi sposi (1823) di Alessandro Manzoni in Italia, e Guerra e pace (1863-1869) di Lev Tolstoj in Russia. Nell’Europa dell’età romantica, anche se il consenso principale degli scrittori e del pubblico va al romanzo storico, notevole è l’affermazione di romanzi di impronta sentimentale, come le opere delle sorelle Charlotte ed Emily Brontë, cui si riallaccia, con grande capacità di analisi psicologica, George Eliot. In Inghilterra, dopo la pubblicazione del Castello di Otranto (1764) di Horace Walpole, si apre la lunga stagione del romanzo “gotico”o “nero”, genere coltivato soprattutto da Ann Radcliffe e che culmina nel celebre Frankenstein (1818) di Mary Shelley, che presenta anche aspetti fantascientifici e filosofici. Un grande maestro è anche lo statunitense Edgar Allan Poe, precursore e creatore oltre che della narrativa dell’orrore, del genere poliziesco, del fantasy e della narrativa fantascientifica.

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CAP. 18 - LA

GRANDE STAGIONE DEL ROMANZO

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La svolta realista in Europa

Il romanzo realistico

Verso il Naturalismo

L’elemento fondamentale che caratterizza la straordinaria stagione del romanzo nell’Ottocento è l’analisi della realtà, portata avanti sul piano macroscopico, cioè della società, e su quello microscopico, vale a dire dell’individuo e della sua psicologia, con una spiccata preferenza per la verosimiglianza della vicenda narrata, anche se non mancano opere fantastiche e inverosimili. A metà dell’Ottocento si afferma in Europa il romanzo realistico, di ambientazione contemporanea e a forte connotazione sociologica, con le opere del ciclo della Commedia umana, del francese Honoré de Balzac. Maestri europei del romanzo realistico sono anche l’inglese Charles Dickens, autore di David Copperfield (1850), e il russo Lev Tolstoj. Madame Bovary (1857) di Gustave Flaubert già anticipa, come vedremo, la narrativa naturalista francese di Émile Zola, caratterizzata, rispetto al romanzo realista, soprattutto dalla narrazione impersonale.

Verso il romanzo moderno Verso molteplici e moderne tipologie narrative

Soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento compaiono, avendo sempre come principale punto di riferimento la letteratura in lingua francese e inglese, molte altre tipologie narrative, fra cui il romanzo di formazione, che verte sull’evoluzione psicologica del protagonista, coltivato dai realisti Balzac e Flaubert; il romanzo d’avventura, in cui emerge il britannico Robert Louis Stevenson (1850-1894) con L’isola del tesoro; il romanzo di fantascienza, i cui modelli sono codificati nelle opere del francese Jules Verne (1828-1905) e dell’inglese Herbert George Wells (1866-1946); il romanzo di formazione per ragazzi, di cui celebre esempio è il visionario Alice nel paese delle meraviglie dell’inglese Lewis Carroll (1832-1898), oltre al popolare Pinocchio dell’italiano Carlo Collodi. Come si è accennato, l’americano Edgar Allan Poe è, nei suoi racconti, precursore del romanzo poliziesco, che a fine secolo, con il personaggio di Sherlock Holmes, viene definito in forma esemplare nelle opere dell’inglese Arthur Conan Doyle (1859-1930), la cui produzione rappresenta una pietra miliare per tutti coloro che, nel Novecento, si cimenteranno in questa tipologia narrativa. Il genere introspettivo, ampiamente coltivato per tutto il secolo, sia in età romantica, sia in molte pagine di narrazioni realistiche, confluisce infine nelle opere di uno dei più grandi romanzieri: il russo Fëdor M. Dostoevskij, la cui narrativa ha un ruolo determinante sia sul piano filosofico sia a livello tematico e stilistico, poiché racchiude e rielabora molti generi del romanzo ottocentesco e apre la strada al romanzo del Novecento, che esplorerà tutte le possibilità combinatorie dei cosiddetti generi narrativi. Anticipatrice del Novecento, a sé stante e originale è anche l’opera dello statunitense Herman Melville, soprattutto con lo straordinario Moby Dick, che sta a metà tra filosofia ed avventura e presenta anche aspetti del romanzo di formazione.

Manzoni e I promessi sposi

Il più importante narratore dell’Ottocento italiano è Alessandro Manzoni, per cui si veda anche pag. 620 e segg. Il suo capolavoro, I promessi sposi, è il romanzo più celebre della letteratura italiana; esso si considera romanzo storico, in quanto scritto nel XIX secolo e ambientato nel XVII secolo. Tuttavia, poiché la narrazione si basa anche sull’analisi dei ceti sociali e pone al centro il mondo degli umili, l’opera presenta le caratteristiche del romanzo realistico, che, in Italia, non conosce rappresentanti di rilievo. L’opera di Manzoni contiene inoltre elementi gotici (gli episodi della monaca di Monza, la fine di don Rodrigo), patetici (l’addio ai monti di Lucia, la madre di Cecilia), umoristici (spesso legati al personaggio di don Abbondio) e soprattuto d’introspezione psicologica, ma anche caratteri propri del romanzo di formazione. Non manca l’aspetto educativo e didascalico, che anzi l’autore – nella conclusione, o “sugo” del romanzo – indica come principale chiave di lettura dell’opera. Nella letteratura italiana, il primo romanzo di formazione è rappresentato dalle Confessioni di un italiano (1858) di Ippolito Nievo, che innesta la tradizione narrativa del genere sul romanzo storico.

Il romanzo in Italia

La narrativa di Nievo e Tommaseo

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La prima opera in cui l’introspezione psicologica prevale sull’elemento storico e su quello realistico è invece il romanzo Fede e bellezza (1852) di Niccolò Tommaseo.

IL Il romanzo storico romantico

L’evoluzione da Scott a Manzoni

ROMANZO STORICO

Il romanzo storico ottocentesco fonde due elementi tipici della cultura romantica: il senso della storia e il sentimento nazionale; si rivela inoltre utile strumento formativo per i lettori, grazie alle trame spesso basate su episodi fondamentali della storia della nazione; quando narra vicende lontane nel tempo, avventurose e avvolte nel mistero, prevale l’intento di proporre al lettore pagine di evasione. Alla ricerca dell’origine del sentimento nazionale e lontani dal cosmopolitismo illuminista, gli scrittori di romanzi storici individuano soprattutto nel Medioevo l’epoca a cui far risalire la nascita dell’identità nazionale, e in tale epoca ambientano le vicende narrate. Per taluni autori, infine, la necessità di narrare gli eventi nel modo più fedele possibile alla storia diviene il carattere predominante: le loro opere sono dunque anche il frutto di studi storici e documentaristici importanti, che fanno assumere ai romanzi tratti realistici. Walter Scott si serve della storia come sfondo generale in cui ambienta avventure immaginarie e vicende straordinarie di protagonisti che presentano una psicologia semplice e, quando sono storicamente esistiti, vengono trattati con estrema libertà inventiva, romanzando le loro vicende. Manzoni, nel saggio Del romanzo storico (1845), riflette sulla difficoltà di conciliare l’aspetto storico (che è, o dovrebbe essere, veritiero) e l’aspetto riguardante i fatti e i personaggi di invenzione (che, invece, sono verosimili, ma non veri), sostenendo che nei romanzi di Scott la storia ha un ruolo secondario e l’intreccio è eccessivamente fantastico. Manzoni propone un proprio modello, in cui afferma la fedeltà storica degli eventi sulla base di una rigorosa documentazione d’epoca, la finalità della formazione civile e politica, la proposta di valori religiosi e il rilievo dell’analisi psicologica dei personaggi.

Caspar David Friedrich, La rovina di Eldena, 1824-1825. Berlino, Staatliche Museen, Alte Nationalgalerie. Il monastero cistercense di Eldena fu fondato nel 1199 e costruito fra il XII e il XIV secolo. Venne distrutto a metà del Seicento dagli Svedesi.

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CAP. 18 - LA

GRANDE STAGIONE DEL ROMANZO

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L’accentuazione di temi sociali e realistici in Francia

L’originale romanzo storico di Tolstoj

Il modello manzoniano subisce una ulteriore trasformazione in senso realista e sociale negli autori francesi (Stendhal, Balzac, Hugo). Con Notre-Dame de Paris (1831) e ancor più con I miserabili (1862), Hugo caratterizza il romanzo storico come affresco di un’epoca, epopea e ritratto di popolo, denunciando soprattutto lo sfruttamento dei più deboli, il degrado sociale e il cinismo delle classi dominanti. Nella seconda metà dell’Ottocento il romanzo storico, sulla strada indicata da Manzoni e Hugo, si modifica e si contamina, dando origine a generi più complessi e sempre meno definibili attraverso categorie precise, come nel caso del celebre Guerra e pace (1863-1869) di Lev Tolstoj. Il romanzo, pure narrando gli avvenimenti storici della Russia tra il 1803 e il 1813, che culminano nell’invasione napoleonica, è opera profondamente formativa, di fine analisi psicologica e fondata su una tesi morale pacifista. Esso presenta inoltre caratteri di epopea e di decisa denuncia della guerra, della violenza e della sopraffazione, anticipando alcuni aspetti della narrativa novecentesca.

Walter Scott e Ivanhoe La vita e le opere di Scott

I motivi del successo

Ivanhoe

La trama del romanzo

Walter Scott (1771-1832) nasce a Edimburgo da ricca famiglia. Dopo aver tradotto dal tedesco Bürger e Goethe, acquista una tipografia e pubblica poemetti tra cui Il lamento dell’ultimo menestrello (1805) e La signora del lago (1810). Nel 1811 lascia la professione di avvocato per dedicarsi alla scrittura, che gli porta ben presto notorietà e successo. Nel 1813 il fallimento della tipografia lo costringe a un lavoro intenso e incessante per fare fronte ai debiti. Nascono in questo modo i suoi romanzi storici. Nel 1814 pubblica il primo, Waverley, storia di un nobile inglese coinvolto nella rivolta dei clan scozzesi a favore degli Stuart soffocata nel sangue. Seguono Guy Mannering e L’antiquario, che fanno parte della cosiddetta trilogia scozzese, in quanto ambientati in quella terra. I suoi romanzi più celebri sono La sposa di Lammermoor (1819) e Ivanhoe (1820). Dopo essere stato nominato baronetto e aver composto circa 30 opere, Scott muore nel suo castello di Abbotsford nel 1832. Il successo dei suoi romanzi è legato a una vivace capacità di intreccio narrativo: l’autore inserisce, in sfondi ben ricostruiti, trame avventurose, efficaci descrizioni, il folclore locale, dialoghi suggestivi, mantenendo un ritmo narrativo serrato e coinvolgente. Scott si rivela, nei suoi romanzi storici, un attento interprete del gusto romantico: alla fedele ricostruzione delle ambientazioni si affiancano un vivo spirito nazionale e un radicato senso della storia, mentre ampio spazio è conferito alla descrizione della psicologia dei personaggi e all’analisi attenta dei rapporti sociali. Le opere di Scott restano lontane dal proposito esplicitamente educativo di romanzi come quello manzoniano, e non presentano gli aspetti più tormentati della sensibilità propria del Romanticismo. Ivanhoe è considerato il capolavoro dell’autore ed è ritenuto il primo esemplare modello di romanzo storico. Ambientata in Inghilterra, sul finire del XII secolo, l’opera ricostruisce la rivalità fra i Sassoni indigeni e i Normanni provenienti dalla Francia. A personaggi storici (quali re Riccardo I, detto Cuor di Leone, e il fratello Giovanni, usurpatore del trono dopo la partenza di Riccardo per la crociata, che partecipano in prima persona alle vicende del romanzo) se ne affiancano molti altri di invenzione, primo tra tutti lo stesso Ivanhoe. Wilfred di Ivanhoe, figlio del nobile sassone sir Cedric, ama lady Rowena che lo ricambia teneramente. Sir Cedric però, per riportare al trono un sovrano di stirpe sassone, intende sposarla ad Athelstane di Coningsburgh, ultimo discendente di sangue reale; poiché Ivanhoe si oppone, lo disereda e lo bandisce. Ivanhoe parte per la crociata insieme all’amico re Riccardo Cuor di Leone. In assenza del re, i nobili capeggiati da Giovanni Senzaterra, fratello del sovrano, spadroneggiano con prepotenza, seminando malcontento, e la situazione del regno si fa drammatica. Il romanzo inizia quando Ivanhoe torna dalla crociata. Egli partecipa in incognito – sul suo scudo c’è solo la scritta Diseredato – al torneo di Ashby, indetto da Giovanni. Qui sconfigge, con l’aiuto di un misterioso Cavaliere Nero, i campioni normanni

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amici di Giovanni, e nomina regina della lizza la bella Rowena, che lo riconosce solo al momento dell’incoronazione, quando gli viene tolto l’elmo. Ma nel combattimento Ivanhoe è rimasto gravemente ferito e durante il ritorno da Ashby viene catturato, con il padre e lady Rowena, dal feroce cavaliere normanno Reginald Front-deBoeuf, alleato di Giovanni. Imprigionato nelle segrete del suo castello, Ivanhoe viene curato e salvato da Rebecca, la bellissima figlia dell’ebreo Isaac di York, la quale si innamora di lui. Front-de-Boeuf e il suo amico templare Brian de Bois-Guilbert tentano di farsi finanziare da Isaac, minacciandolo. Ma il castello viene attaccato dal Cavaliere Nero – che in realtà è re Riccardo – sostenuto dai Sassoni e dai banditi di sir Locksley (figura che corrisponde a quella del leggendario Robin Hood). Essi liberano tutti i prigionieri, ma Rebecca resta nelle mani del templare che, essendosi invaghito di lei, la porta con sé a Templestone. Di fronte al rifiuto della ragazza, il cavaliere per vendicarsi, pur amandola, lascia che venga accusata di stregoneria. La sorte della giovane viene affidata al giudizio di Dio per mezzo di un duello. Venutone a conoscenza, Ivanhoe, benché ferito, si presenta come campione di Rebecca e affronta Brian de Bois-Guilbert. Quest’ultimo, nello scontro finale, muore improvvisamente, stroncato dal violento contrasto tra i suoi opposti sentimenti. Re Riccardo riprende il trono, Ivanhoe sposa Rowena; Rebecca, con il padre Isaac, lascia l’Inghilterra. Ivanhoe in una litografia del 1838. Milano, Civica Raccolta Stampe Bertarelli.

L’EVOLUZIONE DEL ROMANZO STORICO

AMBITO CULTURALE

CARATTERISTICA DOMINANTE

PERSONAGGI

FINALITÀ

SCOTT

HUGO

Romanticismo.

Romanticismo e Realismo.

Realismo.

Vicende fantasiose e pittoresche.

Vicende umane drammatiche.

Vicende esemplari storiche e individuali.

A psicologia semplice e romanzati.

Esemplari e popolari.

Di alto spessore psicologico.

Avventura ed evasione.

Denuncia sociale.

Formazione morale e denuncia sociale.

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TOLSTOJ

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T1 Il cavaliere normanno, il templare e l’ebreo da Ivanhoe

Walter Scott

Fra i nemici di Riccardo Cuor di Leone si distingue il feroce cavaliere normanno Reginald Front-de-Boeuf, il quale ha imprigionato, nel suo castello di Torquilstone, Ivanhoe ferito, lady Rowena, Athelstane, sir Cedric e l’ebreo Isaac di York con la sua bella figlia Rebecca. In questo brano, Front-de-Boeuf chiede denaro al vecchio Isaac. PISTE DI LETTURA • La prepotenza dei potenti • Tono prevalentemente epico

Isaac offre denaro in cambio della figlia

Il dolore del padre

I pregiudizi medievali verso gli Ebrei

“Non mi importa ciò che fece”, disse Front-de-Boeuf; “la questione è questa: quando avrò ciò che mi spetta? Quando avrò i sicli1, Isaac?”. “Mandate mia figlia Rebecca a York2”, rispose Isaac, “con un vostro salvacondotto, nobile cavaliere, e nel tempo necessario a un uomo a cavallo per fare ritorno, il tesoro...”, e qui fece un profondo sospiro, ma dopo pochi secondi di pausa continuò, “il tesoro sarà contato su questo stesso pavimento”. “Tua figlia!”, esclamò Front-de-Boeuf con aria sorpresa, “per il cielo, Isaac, vorrei averlo saputo prima. Pensavo che quella ragazza dalle sopracciglia nere fosse la tua concubina e l’ho data come ancella a Sir Brian de Bois-Guilbert3 secondo l’usanza dei patriarchi e degli eroi dei tempi antichi, che ci hanno lasciato degli ottimi esempi”. L’urlo che Isaac lanciò nell’udire questa crudele notizia fece risuonare la volta e sbalordì a tal punto i due saraceni4 che lasciarono andare l’ebreo, il quale ne approfittò per gettarsi a terra e abbracciare le ginocchia di Front-de-Boeuf. “Prendete tutto quello che avete chiesto”, disse, “signor cavaliere, prendete dieci volte tanto... mandatemi in rovina, riducetemi alla mendicità, se volete, trafiggetemi col pugnale, bruciatemi in quella fornace, ma risparmiate mia figlia, rilasciatela salva e onorata! Voi che siete nato da donna, risparmiate l’onore di una fanciulla indifesa. È l’immagine della mia defunta Rachel, l’ultimo dei suoi sei pegni d’amore5. Volete privare un vedovo dell’ultimo conforto rimastogli? Volete ridurre un padre a desiderare che la sua unica figlia vivente sia deposta accanto alla madre morta nella tomba dei nostri avi?”. “Vorrei averlo saputo prima”, disse il normanno alquanto impietosito. “Credevo che la vostra razza non amasse altro che il denaro”. “Non giudicateci tanto vili, anche se siamo ebrei”, disse Isaac, intenzionato ad approfittare di quel momento di apparente simpatia; “la volpe braccata, il gatto selvatico torturato amano i loro piccoli... la disprezzata e perseguitata razza di Abramo ama i suoi figli!”. “Sarà anche così”, disse Front-de-Boeuf; “d’ora in poi ci crederò per amor tuo, Isaac, ma adesso è inutile; non posso rimediare a ciò che è accaduto o sta per

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1. sicli: moneta dell’epoca. Front-de-Boeuf, per proseguire la guerra, esige un cospicuo prestito da Isaac. 2. Mandate... York: il vecchio Isaac esige che la figlia Rebecca, che si trova nel castello, possa ritornare nella propria casa a York. Come si vedrà, ciò è ormai impossibile: tale ostacolo impedisce la realizzazione delle macchinazioni di Front-de-Boeuf, che ha bisogno di denaro per attuare i propri scopi. 3. Pensavo... de Bois-Guilbert: Front-de-Boeuf, credendo che Rebecca sia moglie illegittima (concubina) di

Isaac, ne ha fatto dono a de Bois-Guilbert come schiava (ancella). Si noti come, nel romanzo, a cristiani nobili e cavallereschi come re Riccardo e Ivanhoe, si oppongano cristiani malvagi come Front-de-Boeuf. Feroce, ma interiormente più tormentato, è de Bois-Guilbert. Fra i personaggi positivi si incontrano, viceversa, figure come l’ebrea Rebecca. 4. i due saraceni: i due arabi al servizio di Front-de-Boeuf. 5. È l’immagine... amore: Rebecca, ultima dei sei figli di Isaac e Rachel, assomiglia alla defunta madre.

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accadere; ho dato la mia parola al mio compagno d’armi e non vi verrei meno neanche per salvare dieci ebrei e dieci ebree per giunta. E inoltre perché pensi che possa capitare qualcosa di male alla ragazza, anche se è diventata preda di Bois-Guilbert?”. “Le capiterà, è sicuro!”, esclamò Isaac torcendosi le mani dalla disperazione; “quando mai un Templare6 non ha portato sventure agli uomini e disonore alle donne!”. “Cane infedele”, disse Front-de-Boeuf con occhi fiammeggianti e forse non dispiaciuto di cogliere un pretesto per infuriarsi, “non insultare il Santo Ordine del Tempio di Sion, e pensa invece a pagarmi il riscatto promesso o sarà peggio per la tua pelle di ebreo!”. “Ladro e canaglia!”, esclamò l’ebreo rispondendo agli insulti del suo oppressore con una furia che, per quanto impotente, non riusciva più a frenare, “non vi pagherò nulla, non una singola moneta d’argento vi darò, se mia figlia non mi sarà restituita salva e onorata!”. “Sei ammattito, israelita?”, disse con aria severa il normanno. “La tua carne e il tuo sangue hanno forse un incantesimo contro il ferro rovente e l’olio bollente?”. “Non me ne importa!”, disse l’ebreo spinto alla disperazione dall’affetto paterno; “fate ciò che volete. Mia figlia è la mia carne e il mio sangue, mi è mille volte più cara di quelle membra che la vostra crudeltà minaccia. Non vi darò argento se non per farvelo scendere fuso nella vostra gola avida... no, non vi darò neanche una moneta d’argento, nazareno7, foss’anche per salvarvi dalla dannazione che l’intera vostra esistenza vi ha meritato! Prendete la mia vita, se volete, e dite che l’ebreo, in mezzo alle torture, è riuscito a deludere il cristiano». L’ira “Questo lo vedremo”, disse Front-de-Boeuf, “perché per la croce benedetta che del potente è l’abominio della tua maledetta razza, tu sentirai gli estremi tormenti del ferro e del fuoco! Spogliatelo, schiavi, e incatenatelo su quelle sbarre”.

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da Ivanhoe, trad. di Laura Ferruta, Garzanti, Milano, 1979

6. Templare: cavaliere dell’ordine religioso, militare del Tempio di Sion (Gerusalemme), fondato nel 1119 per la difesa dei luoghi santi. L’ordine dei Templari, diventato potentissimo, fu abolito nel 1312 da papa Clemente V, su

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pressione di Filippo IV di Francia, con il quale tali cavalieri erano entrati in aperto conflitto. 7. nazareno: cristiano. Il termine deriva da Gesù di Nazareth.

inee di analisi testuale I personaggi del romanzo In Ivanhoe l’autore intreccia due elementi fondamentali: la ricostruzione storica e l’invenzione. L’intreccio è basato sui personaggi che ruotano intorno a Ivanhoe (lady Rowena, la bella ebrea Rebecca, suo padre Isaac, sir Cedric, Front-de Boeuf, il templare de Bois-Guilbert, re Riccardo) ed è collocato sullo sfondo dei conflitti in atto nell’Inghilterra del XII secolo fra Sassoni e Normanni. In realtà Ivanhoe è protagonista solo all’inizio, nel torneo di Ashby, in cui rimane ferito. Scompare poi, prigioniero nel castello, per tutto il romanzo, per ricomparire solo nel duello finale. Anche nel brano conclusivo viene chiamato in causa in modo indiretto. Il romanzo è popolato in realtà da tutti gli altri personaggi, quelli storicamente esistiti (le cui vicende reali risultano però romanzate) e quelli di invenzione, nonché una folla di figure minori, descritte con rapidi tratti ma in modo tale da renderli indimenticabili, sia per la pittoresca rievocazione dell’abbigliamento e dei costumi sociali, sia per le pur solo rapidamente accennate caratteristiche psicologiche. Fra di loro c’è Isaac. Gli influssi romantici Nel romanzo sono presenti profondi influssi romantici (essi emergono, oltre che nella centralità delle vicende amorose e della storia medievale, nel modo in cui, fin dal primo capitolo, è descritto il paesaggio). Qualche traccia anche del romanzo “gotico” si individua nello schema della persecuzione delle fanciulle innocenti (lady Rowena e, soprattutto, Rebecca) a opera dei malvagi. La voce narrante Il narratore è esterno e onnisciente – come quello dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni – e il suo racconto integra con abilità la ricostruzione storica e la presentazione dell’intreccio avventuroso e amoroso.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del dialogo tra Front-de-Boeuf e Isaac, mettendo in luce le diverse caratteristiche dei due personaggi. 2. Quale espressione del brano in cui il personaggio è presentato permette di affermare che Front de Boeuf talora prova pietà, ma se ne vergogna? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Di quale tipo è la voce narrante nel romanzo di Scott e quali passi ad esempio lo rivelano chiaramente? b. Qual è il genere cui appartiene il romanzo Ivanhoe e quali elementi del testo lo rivelano? c. Quali sono gli elementi romantici presenti nell’opera di Scott e anche nel passo? d. Sulla base della lettura del brano, si può dire che i personaggi del romanzo sono stereotipi o vivono contraddizioni interiori? Che cosa lo dimostra? Approfondimenti 4. Ai nostri giorni, autori anche italiani – come Valerio Massimo Manfredi – hanno riproposto una nuova forma di romanzo storico. Se ne hai letto uno, illustralo sinteticamente e confrontane le caratteristiche con quelle di Ivanhoe.

Victor Hugo e I miserabili

La trama de I miserabili

Victor Hugo (1802-1885), del cui ruolo come figura del Romanticismo francese si è già parlato (cfr. pag. 532), è anche un maestro del romanzo storico e realistico. Dopo aver aderito, nel 1829, a una concezione umanitaria che lo avvicina al socialismo utopistico, Hugo pubblica una serie di romanzi esemplari come NotreDame de Paris (1831), I miserabili (1862), I lavoratori del mare (1866), L’uomo che ride (1869). Rientrato in patria nel 1870 dopo il volontario esilio per ragioni ideologiche, Hugo rimane per i Francesi l’icona del progressismo fino alla sua morte, avvenuta nel 1885. Viene sepolto nel Pantheon di Parigi. L’ambientazione storica del suo capolavoro, I miserabili, è collocata negli anni della Restaurazione, dal 1815 al 1848: la vicinanza fra data di pubblicazione e ambientazione accosta l’opera, che presenta anche elementi romantici, al genere del romanzo realista più che a quello storico, di cui pure presenta alcune caratteristiche. Jean Valjean, un operaio che è stato condannato per aver rubato un po’ di pane, evaso di prigione dopo vent’anni di lavori forzati a Tolone, ha l’animo indurito e cinico. Nella città di Digne viene ospitato dal vescovo Myriel, che vuole convertirlo e aiutarlo, ma Valjean gli ruba l’argenteria. Quando i gendarmi lo prendono e lo riportano dal vescovo con la refurtiva, questi lo discolpa dichiarando di avergli regalato lui quegli oggetti. Valjean, colpito, decide di cambiare vita. Dopo alcuni anni, ritoviamo Valjean diventato imprenditore e sindaco di Montreuil sotto il falso nome di Madeleine. L’ispettore Javert però, che era stato secondino a Tolone, sospetta la sua vera identità. Un’operaia e ragazza madre della sua manifattura, Fantine, sta per essere licenziata: la poveretta, ex prostituta e malata, ha affidato la sua bambina, Cosette, ai Thénardier, una sordida coppia di osti che la fanno vivere in condizioni disumane. Madeleine promette di aiutarla, ma viene a sapere che ad Arras la polizia ha catturato un uomo che si ritiene essere Jean Valjean, e va a costituirsi. Fantine muore. Valjean è condannato all’ergastolo, ma poco dopo riesce ad evadere. Per prima cosa va a liberare Cosette dai Thénardier, poi fugge con lei a Parigi, dove dapprima si nasconde in un convento di clausura, lavorando come giardiniere sotto il falso nome di Fauchelevent. Quando Cosette diventa adolescente, i due escono dal convento. La ragazza incontra Marius Pontmercy, studente universitario favorevole alla democrazia e al progresso, in lite con il ricco nonno monarchico. Dopo essere sfuggito ancora una volta a Javert e a Thénardier, diventato capo di una banda di delinquenti, Valjean decide di fuggire in Inghilterra con Cosette. Disperato, Marius partecipa alla rivol-

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ta che culmina con gli scontri sulle barricate erette all’inizio degli anni Trenta. Quando Valjean scopre che i due giovani si amano, si precipita in suo aiuto, appena in tempo per salvare la vita a Marius ferito, ma alla fine incontra Javert e si costituisce. L’integerrimo ispettore, riconosciuto il comportamento morale del forzato evaso, gli permette di riportare Marius dal nonno e lo lascia libero; poi, però, si getta nella Senna, suicidandosi per aver mancato al suo dovere. Marius e Cosette si sposano; Valjean rivela loro il suo passato da galeotto e va a vivere da solo per non turbare la loro vita. Rivedrà l’amata Cosette solo poco prima di morire, quando Marius apprende che gli deve la vita e vorrebbe che tornasse a vivere con loro.

Focus

ROMANTICISMO E REALISMO NARRATIVO IN FRANCIA

Il percorso dal romanzo romantico al romanzo realista in Francia si sviluppa attraverso alcune opere e autori fondamentali. Ancora pienamente romantico è il romanzo Adolphe (“Adolfo”, 1816) di Benjamin Constant (1767-1830), il cui protagonista è lacerato fra gli ideali e i puri sentimenti amorosi e il tentativo di adeguarsi alla prosaica realtà: scegliendo la seconda alternativa, Adolphe tradirà la sua donna e causerà, con la morte di lei, il proprio stesso fallimento. Henri Beyle detto Stendhal (1783-1842), nei capolavori Le rouge et le noir (“Il rosso e il nero”, 1830) e La chartreuse de Parme (“La Certosa di Parma”, 1839), attraverso l’intreccio fra narrazione romantica, introspezione e realismo nella presentazione dei personaggi compie un passo decisivo nella direzione del romanzo realistico. Non a caso, nel 1842, Honoré de Balzac – poco prima della morte di Stendhal – pubblicherà una lunga ed entusiastica recensione della Certosa di Parma. Honoré de Balzac (1799-1850) è il maggiore esponente della narrativa realistica: le numerose opere della sua Comédie humaine (“Commedia umana”), e, in particolare, capolavori come Eugénie Grandet (1833) e Le père Goriot (“Papà Goriot”, 1834), sono modelli cui si ispireranno – rendendo sempre più impersonale la narrazione – Gustave Flaubert (1821-1880) con il romanzo Madame Bovary (1851-1856) e soprattutto Émile Zola (1840-1902), con il ciclo dei romanzi Les Rougon-Macquart, iniziato nel 1870 e ambientato nel secondo Impero.

Il salotto di Victor Hugo nel 1875. Disegno dal vero di Adrien Marie, tratto da “La chronique illustrée” del 18 ottobre 1875. Hugo è rappresentato nel suo salotto circondato da scrittori e uomini politici.

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T2 Il furto dell’argenteria da I miserabili

Victor Hugo

In questo brano, tratto dall’inizio del romanzo, Hugo introduce, dopo aver tratteggiato l’ambientazione storico-politica, il protagonista con una indimenticabile vicenda che dà il colore, il tono emotivo e l’impronta ideologica a tutta l’opera. Si tratta del celebre episodio del furto dell’argenteria. PISTE ISTE DI DI LETTURA LETTURA P •• ???? La figura del galeotto e quella del vescovo •• ????? Dal cinismo alla conversione morale: l’impronta romantica • Tono drammatico e didascalico Jean Valjean stette in ascolto: nessun rumore1. Spinse la porta; la spinse con la punta del dito; leggermente, con quella circospezione furtiva2 e inquieta d’un gatto che vuole entrare. L’uscio cedette alla pressione ed ebbe un movimento impercettibile e silenzioso che allargò un po’ lo spiraglio; egli aspettò un momento, poi lo spinse una seconda volta con più coraggio. Esso continuò a cedere in silenzio; l’apertura era già abbastanza larga per potervi passare: ma accanto alla porta c’era un tavolino che formava con quella un angolo incomodo e sbarrava l’entrata. Jean Valjean riconobbe la difficoltà; bisognava a ogni costo allargare ancora lo spiraglio; si decise e spinse una terza volta la porta con maggior energia che le precedenti; questa volta un cardine mal unto gettò improvvisamente nel buio un cigolio rauco e prolungato. Jean Valjean trasalì; il rumore di questo cardine gli suonò all’orecchio rimbombante formidabile come la tromba del giudizio finale. Nell’amplificazione fantastica del primo istante, si immaginò quasi che esso si animasse improvvisamente di una vita terribile e abbaiasse come un cane per avvertire tutti e svegliare le persone addormentate3. Si fermò tremante, smarrito, e dalla punta dei piedi ricadde sui calcagni; sentiva le arterie pulsare nelle tempie come due martelli di fucina e gli pareva che il respiro gli uscisse dal petto con lo stesso rumore del vento quando soffia da una caverna. Gli sembrava impossibile che l’orrendo strepito di quel cardinale irato4 non avesse fatto tremar tutta la casa, come una scossa di terremoto; la porta spinta da lui s’era allarmata5 e aveva chiamato; il vecchio si sarebbe alzato; le due donne avrebbero strillato; qualcuno sarebbe corso in loro aiuto; di lì a un quarto d’ora la città sarebbe stata a rumore6 e i gendarmi pronti; per un attimo si credette perduto. Rimase dov’era, impietrito come una statua di sale, non osando muoversi. Trascorsero alcuni minuti; la porta si era spalancata; egli si arrischiò a gettar un’occhiata nella camera; qui tutto era immobile. Tese l’orecchio; nulla si agitava in casa; il rumore del cardine arrugginito non aveva svegliato anima viva. Era passato questo primo pericolo, ma ancora restava in lui un tremendo tumulto7, tuttavia non indietreggiò, anche quando s’era sentito perduto non aveva indietreggiato; non pensò più che a sbrigarsela in fretta; fece un passo ed entrò nella stanza; vi regnava una perfetta calma; si distinguevano qua e là forme vaghe e confuse che, alla luce, eran carte sparse su un tavolo, in

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1. Jean… rumore: il carcerato evaso entra, per rubare, nella stanza del vescovo Myriel, che l’ha generosamente ospitato. 2. circospezione furtiva: prudenza di chi agisce di nascosto. 3. Nell’amplificazione… addormentate: nella fantasia del ladro il rumore del cardine pare divenire l’abbaiare di un cane da guardia. L’accurata analisi psicologica è di stampo romantico. 4. irato: arrabbiato. Il cardine (cardinale) stesso sembra

ora trasformarsi in una persona, che condanna Valjean per il suo gesto. 5. allarmata: messa in allarme. La porta si personifica e sembra voler chiedere aiuto contro il ladro. A differenza di quanto si verifica in altri passi del romanzo, fortemente realistici, qui prevale l’elemento immaginativo. 6. sarebbe stata a rumore: sarebbe stata messa sottosopra. 7. un tremendo tumulto: un terribile sconvolgimento.

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folio8 aperti, volumi accatastati su uno sgabello, un seggiolone ingombro di abiti, un inginocchiatoio; ma a quell’ora erano soltanto un alternarsi di angoli tenebrosi e macchie biancastre. Jean Valjean avanzò con precauzione badando di non urtarsi ai mobili; in fondo alla camera sentiva il respiro calmo e uguale del vescovo addormentato. Il turbamento Improvvisamente si fermò; si trovava vicino al letto; vi era giunto prima di queldi Valjean lo che avesse creduto. Talvolta la natura mescola alle nostre azioni i suoi effetti e i suoi spettacoli con una specie di opportunità cupa e intelligente, quasi per costringerci a riflettere9. Da circa mezz’ora un nuvolone copriva il cielo; nel momento in cui Jean Valjean si fermò in faccia al letto, esso si squarciò, quasi a farlo apposta, e un raggio di luna, attraversando la lunga finestra, venne subitamente a rischiarare il pallido volto del vescovo. Egli dormiva placido; era nel suo letto, vestito quasi completamente a causa delle rigide notti delle Basse Alpi d’un abito di lana bruna che gli copriva le braccia fino ai polsi; il capo era rovesciato sul guanciale nell’atteggiamento abbandonato del sonno; egli lasciava penzolar fuori dal letto la mano adorna dell’anello pastorale10, la quale aveva sparso tante buone azioni e opere sante. Tutto il suo viso era illuminato da una vaga espressione di soddisfazione, di speranza e di beatitudine. Era più che un sorriso e quasi una viva esultanza11; c’era sulla sua fronte l’inesprimibile riflesso d’una luce invisibile; l’anima dei giusti durante il sonno contempla un cielo misterioso. Un riflesso di quel cielo si posava sul vescovo. Ma al tempo stesso era una trasparenza luminosa perché quel cielo era in lui; quel cielo era la sua coscienza. Nel momento in cui il raggio di luna venne a sovrapporsi, per così dire, a quella chiarità interiore12, il vescovo dormiente apparve quasi in un’aureola dolcemente velata in una mezza luce ineffabile13: la luna in cielo, la natura assopita, il giardino senza un fremito, la casa così calma, l’ora, il momento, il silenzio aggiungevano un non so che di solenne e d’indicibile al venerando14 riposo di quel saggio, e avvolgevano d’un nimbo15 maestoso e sereno quei capelli bianchi e quegli occhi chiusi, quel viso dove tutto era speranza e fiducia, e quella testa di vegliardo16 e quel sonno di fanciullo. Qualcosa di divino era in quell’uomo così maestoso a sua insaputa. Jean Valjean invece era nell’ombra, col candeliere di ferro in mano, diritto, immobile, sgomento di quel vecchio cinto di luce. Mai aveva veduto nulla di simile. Quella fiducia lo spaventava. Il mondo morale non ha spettacolo più grande di questo: una coscienza turbata e inquieta, giunta alle soglie di un’azione malvagia, in contemplazione del sonno di un giusto. Quel sonno, in quell’isolamento, e con un vicino come lui, aveva qualcosa di sublime17 ch’egli sentiva confusamente ma imperiosamente18. Nessuno avrebbe potuto dire quel che avvenisse in lui, neppure egli stesso; per cercar di rendersene conto bisogna immaginarsi l’estrema violenza di fronte all’estrema dolcezza; sul suo viso stesso nulla si sarebbe potuto discernere19 con certezza; era una specie di stupore selvaggio. Egli guardava; ecco tutto. Ma qual era il suo pensiero? Impossibile indovinarlo: certo però era commosso e sconvolto; ma quale la natura di questa emozione? Il suo sguardo non si staccava dal vecchio; la sola cosa che il suo

8. in folio: libri di formato particolare, i cui fogli risultavano piegati una sola volta. 9. la natura… riflettere: la natura sceglie il momento più adatto (opportunità) per indurci a riflettere sulle nostre azioni. La luna, illuminando il volto sereno del vescovo, induce Valjean a sentirsi colpevole per il male che intende fargli. Il tema centrale dell’episodio si rivela essere di carattere morale: esso verte sul contrasto fra bene e male nell’animo di Jean Valjean. Il narratore fa proprio il punto di vista del protagonista. 10. anello pastorale: l’anello proprio dei vescovi, simbolo della loro funzione di “pastori delle anime”. 11. esultanza: gioia, derivante dalla fede. 12. chiarità interiore: luce interiore, segno di purezza e serenità d’animo.

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13. ineffabile: indescrivibile a parole. 14. venerando: degno di rispetto, per l’età e la grandezza d’animo. 15. nimbo: aureola di luce. 16. vegliardo: persona anziana degna di particolare rispetto. 17. aveva… sublime: dava il senso di qualcosa di nobile ed elevato. 18. imperiosamente: fortemente. In questa parte del brano, l’esaltazione e la sublimazione della spiritualità del vescovo esemplificano con chiarezza l’idealismo che contraddistingue la narrativa romantica. 19. discernere: distinguere.

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contegno e la sua fisionomia rivelassero chiaramente era una strana indecisione, quasi ch’egli esitasse tra i due abissi della perdizione e della salvazione. Sembrava pronto a spaccar quel cranio e a baciar quella mano. Dopo qualche momento, sollevò lentamente il braccio sinistro verso la fronte e si tolse il berretto, poi il braccio ricadde con la stessa lentezza e Jean Valjean si reimmerse nella contemplazione, il berretto sulla sinistra, la mazza20 nella destra, i capelli irti sulla testa selvaggia. Il vescovo seguitava a dormire in una pace profonda sotto quello sguardo spaventevole. Un riflesso di luna rendeva confusamente visibile al di sopra del caminetto il crocifisso che pareva aprir le braccia a entrambi, benedicendo l’uno e perdonando l’altro. A un tratto Jean Valjean si calcò il berretto sulla fronte, poi camminò rapido lungo il letto, senza guardare il vescovo, dritto all’armadio che intravedeva presso il capezzale, alzò il candeliere di ferro come per forzar la serratura, ma c’era la chiave; aprì e subito gli apparve il paniere dell’argenteria; lo prese, attraversò la camera a grandi passi senza preoccuparsi del rumore, raggiunse la porta, rientrò nell’oratorio, afferrò il bastone, aprì la finestra, scavalcò il parapetto del pianterreno, mise l’argenteria nello zaino, buttò via il paniere, attraversò il giardino, saltò al di là del muro come una tigre e fuggì. Il perdono L’indomani, al sorgere del sole, monsignor Bienvenu21 passeggiava in giardino, quando la signora Magloire22 corse verso di lui tutta sconvolta. – Monsignore, monsignore – gridò. – Vostra Eccellenza sa dov’è il paniere dell’argenteria? – Sì – disse il vescovo. – Gesùddio sia benedetto! Non sapevo dove fosse andato a finire. Il vescovo aveva raccolto allora il paniere in una aiuola: lo porse alla signora Magloire. – Eccolo. – Ebbene? – disse quella. – È vuoto, e l’argenteria? – Ah, – replicò il vescovo – dunque è l’argenteria che vi preoccupa? Non so dove sia. – Gran Dio, è stata rubata; è l’uomo di ieri sera che l’ha rubata! In un batter d’occhio, con tutta la sveltezza di una vecchietta in gamba, la signora Magloire corse all’oratorio, entrò nella camera da letto e ritornò dal vescovo; questi si era curvato e sospirando esaminava una pianta di coclearia23 dei Guillons che il paniere cadendo attraverso l’aiuola aveva spezzata. Si drizzò alle grida della signora Magloire. – Monsignore, l’uomo se n’è andato! L’argenteria è stata rubata. Mentre gettava queste esclamazioni, i suoi occhi caddero su un angolo del giardino dove si vedevan tracce di scalata. Il coronamento del muro era stato divelto24. – Guardate! è scappato per di là; è saltato nel vicolo Cochefilet. Ah, che vergogna! Ci ha rubato la nostra argenteria! Il vescovo rimase un momento in silenzio, poi sollevò il suo sguardo serio e disse alla signora Magloire con dolcezza: – Prima di tutto, quell’argenteria era proprio nostra? La governante restò interdetta25; vi fu ancora un silenzio, poi il vescovo continuò: – Madame Magloire, io mi tenevo a torto e da troppo tempo quell’argenteria; apparteneva ai poveri. Chi era quell’uomo? Un povero, evidentemente. – O Gesù! – rispose la donna. – Non è per me né per madamoiselle26. Per noi fa lo stesso, ma per monsignore; con che cosa mangerà monsignore d’ora innanzi?

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20. il berretto... la mazza: il lacerante contrasto interiore del personaggio è espresso dai suoi gesti: da un lato toglie il berretto in segno di rispetto, dall’altro brandisce la mazza, cioè il candeliere, che potrebbe essere usato come arma. 21. monsignor Bienvenu: è questo il nome del vescovo Myriel.

22. la signora Magloire: è la governante del vescovo. 23. coclearia: pianticella dalle proprietà medicinali. 24. Il coronamento… divelto: la parte superiore del muro di cinta era stata danneggiata dal ladro in fuga. 25. interdetta: senza parole per la sorpresa. 26. mademoiselle: “signorina” in francese. Si tratta della sorella del vescovo.

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Il vescovo la guardò stupito. – Diamine, non ci son le posate di stagno? La signora Magloire scrollò le spalle. – Lo stagno ha un odore... – Allora, posate di ferro. L’altra fece una smorfia significativa. – Il ferro ha un sapore... Ebbene, – disse il vescovo – posate di legno. [...] Fratello e sorella stavano per alzarsi da tavola, quando bussarono alla porta. – Avanti – disse il vescovo. L’uscio si aprì; un gruppo strano e violento apparve sulla soglia: tre uomini ne tenevano stretto un quarto per il bavero; tre erano gendarmi; il quarto era Jean Valjean. Un brigadiere di gendarmeria, che sembrava comandare il gruppo, era vicino alla porta; entrò, si avvicinò al vescovo salutando militarmente. – Monsignore... – disse. A questa parola, Jean Valjean, che era tetro27 e sembrava abbattuto, rialzò il capo con aria stupita. – Monsignore! – mormorò – Allora non è il curato…28 – Silenzio! – fece un gendarme. – È monsignor vescovo. Intanto questi si era accostato con tutta la sveltezza concessagli dall’età avanzata. – Ah! Eccovi! – esclamò guardando Jean Valjean – Sono lieto di vedervi. Ma come! Vi avevo regalato anche i candelieri che son d’argento come il resto e dai quali potete ricavare almeno duecento franchi. Perché non li avete presi con le vostre posate? Jean Valjean spalancò gli occhi e guardò il venerando vescovo con un’espressione che nessun linguaggio umano potrebbe rendere. – Monsignore, – disse il brigadiere di gendarmeria – allora quel che quest’uomo diceva era vero? L’abbiamo incontrato; se ne andava come qualcuno che scappa; l’abbiamo arrestato per assicurarvi, aveva quest’argenteria... – E vi ha detto – interruppe sorridendo il vescovo – che gli era stata regalata da un vecchio bonomo di prete da cui aveva passata la notte? Capisco. E l’avete ricondotto qui? È un equivoco. – Se è così, – rispose il brigadiere – possiamo lasciarlo andare? – Senza dubbio – rispose il vescovo. I gendarmi liberarono Jean Valjean, che indietreggiò. – Davvero, sono libero? – disse con voce quasi inarticolata29 e come se parlasse nel sonno. – Sì, sei libero, non senti? – disse un gendarme. – Amico mio, – ripigliò il vescovo – prima di andarvene, ecco i vostri candelieri. Prendeteli. Si accostò al caminetto, prese i due candelieri d’argento e li portò a Jean Valjean; le due donne lo guardavano agire senza una parola, senza un gesto, senza uno sguardo che potesse disturbarlo. Jean Valjean tremava in tutte le membra; prese i candelieri macchinalmente con aria smarrita. – Ora – disse il vescovo – andate in pace. A proposito: quando ritornerete, amico mio, è inutile passare dal giardino; potrete sempre entrare e uscire per la porta della strada; è chiusa soltanto col saliscendi30, giorno e notte. Poi, volgendosi ai gendarmi: – Signori, potete ritirarvi. Questi si allontanarono. Jean Valjean, era come uno che stia per svenire. Il vescovo si accostò a lui e gli disse a voce bassa: – Non dimenticate, non dimenticate mai che mi avete promesso di adoperar

27. tetro: cupo, angosciato. 28. allora non è il curato: Valjean non conosce l’identità del vescovo e crede sia un semplice prete. 29. con voce quasi inarticolata: con voce che, per il

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grande stupore, a fatica riesce ad articolare parole. 30. saliscendi: serratura molto semplice, formata da una sbarretta che viene fermata in un apposito appiglio.

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questo denaro per diventare un galantuomo31. Jean Valjean, che non si ricordava affatto di aver promesso qualche cosa, restò interdetto. Il vescovo aveva calcato su queste parole mentre le pronunziava: 185 poi, quasi con solennità, continuò: – Jean Valjean, fratello, non appartenete più al male, ma al bene; io compro la vostra anima; la sottraggo ai pensieri neri e allo spirito di perdizione32, e la dono a Dio. da I miserabili, Mondadori, Milano, 2004

31. galantuomo: uomo onesto. Il vescovo chiede a Jean Valjean di mutare vita in cambio della salvezza che il ladro gli deve e dei doni ricevuti. Il realismo di Hugo, qui come altrove, si lega a una concezione che spesso ante-

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pone l’elemento morale ai fattori sociali. 32. spirito di perdizione: volontà di fare il male, che conduce l’anima alla rovina.

inee di analisi testuale Lo scenario esterno e quello interiore I miserabili è indubbiamente anche un romanzo storico, tuttavia le parti più significative ed emozionanti lasciano in secondo piano l’ambientazione e il quadro ideologico e concentrano l’attenzione del lettore, come nel passo presentato, sui personaggi e sulla loro interiorità, rivelando la forte presenza di una sensibilità romantica. L’ambiente è infatti qui ridotto al minimo: sono evidenziati soprattutto la porta che non si vuole aprire e il letto del vescovo illuminato dalla luna. Due anime opposte Nel brano si evidenzia principalmente lo stato d’animo interiore dell’ex galeotto Valjean, dal cuore indurito, cinico e teso unicamente alla sopravvivenza, anche a scapito dei suoi simili. Gli fa da contraltare la figura del vescovo, uomo un tempo ricco e appartenente alla classe dominante, ma che è diventato povero al punto da avere come unica ricchezza l’argenteria. Tra questi due opposti, compare la governante, figura di popolana perbenista. La voce narrante Il narratore nell’opera di Hugo è esterno ed onnisciente, soprattutto poiché riferisce spesso i pensieri dei suoi personaggi. Anche se narra in terza persona, interviene a commentare e giudicare direttamente le vicende e le azioni dei protagonisti.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano di Hugo in non più di 20 righe. 2. Elenca i personaggi presenti nel testo, indicando le loro principali caratteristiche fisiche e morali. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Di che tipo è la voce narrante nel romanzo di Victor Hugo? b. Qual è il sottinteso contenuto educativo del brano e in quale passaggio soprattutto si evidenzia? c. Quali sono gli elementi romantici presenti nel passo proposto? Approfondimenti 4. Commenta la seguente affermazione: I miserabili rappresentano il modello della visione del mondo di vari strati di lettori del tempo di Hugo, che nello spiritualismo dello scrittore trovano il cardine della propria condotta morale.

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Ippolito Nievo e Le confessioni di un italiano

La vita e le opere

Il capolavoro

La trama dell’opera

Nato nel 1831 a Padova e morto appena trentenne nel 1861, Ippolito Nievo, dopo Manzoni, è il più significativo romanziere italiano dell’epoca. Laureatosi in legge e di idee mazziniane, Nievo si arruola fra i garibaldini, partecipa alla Seconda guerra d’indipendenza fra i Cacciatori delle Alpi, poi alla spedizione dei Mille. Mentre fa ritorno dalla Sicilia, dove ha svolto la funzione di vice-intendente, muore nel naufragio della nave che lo riporta a casa. Fra le sue opere minori, vanno ricordati i sette racconti del Novelliere campagnolo (1855-1856), ambientati nel mondo contadino; le raccolte di versi Lucciole (1858) e Amori garibaldini (1860), l’incompiuto saggio Sulla rivoluzione nazionale (1860), in cui la realizzazione della riforma agraria viene ritenuta compito centrale del goverIppolito Nievo. no, e Venezia e la libertà d’Italia (1860); alcune tragedie (Gli ultimi anni di Galileo Galilei, I Capuani), romanzi minori (Il conte pecoraio, 1857; Angelo di bontà, 1856; Il barone di Nicastro, 1860) e un vasto epistolario. Il capolavoro di Nievo è il romanzo Le confessioni di un italiano, scritto nel 1859 e pubblicato postumo nel 1867 col titolo Le confessioni di un ottuagenario. La vicenda è narrata in prima persona dal vecchio protagonista, Carlo Altoviti, che, nel 1858, ripercorre le vicende della sua vita, intrecciandole con quelle della storia italiana. Nonostante la vicinanza cronologica degli eventi narrati, il libro può quindi essere considerato anche un romanzo storico a sfondo risorgimentale, con caratteristiche romantiche. Questa, in sintesi, la trama. Rimasto orfano, Carlino Altoviti viene accolto per carità dalla zia, moglie del conte di Fratta, nell’omonimo castello in Friuli. Qui gli dimostrano affetto solo Martino, un vecchio servitore sordo, e, a suo modo, la cugina Pisana, bimba bizzarra e insofferente alle regole, che lo tiranneggia ma non lo emargina come tutti gli altri. Carlino ne diventa il felice schiavo. L’angelica sorella maggiore della Pisana, Clara, è amata da un medico, Lucilio Vianello, ma i genitori impediscono il matrimonio perché l’uomo è un patriota; Clara si fa monaca. La Pisana invece, le cui eroine sono i personaggi da romanzo, anche per fare dispetto a Carlino, sposa Mauro Navagero, un ricco e vecchio nobile di Venezia. Si invaghisce poi di Ascanio Minato, un ufficiale corso cui chiede di schierarsi contro Napoleone per liberare Venezia; di fronte al rifiuto dell’ufficiale, la Pisana abbandona sia il vecchio marito sia Ascanio Miniato e si rifugia presso Carlino, studente a Padova al tempo del trattato di Campoformio (1797). Quando il giovane, politicamente compromesso, deve fuggire prima a Milano e poi a Firenze, i due si separano. Combattendo per la Repubblica partenopea, Carlo è fatto prigioniero in Puglia dall’armata avversa dei sanfedisti, ma viene fatto fuggire dalla Pisana e da Lucilio Vianello. La vicenda prosegue poi a Bologna e a Venezia, dove Carlo s’ammala gravemente: lo risana solo il ritorno della Pisana, che lo accompagna convalescente sui luoghi della loro infanzia. Carlo, su pressione della Pisana, sposa Aquilina, una brava ragazza che gli vuol bene e gli darà dei figli. Dopo la caduta di Napoleone, nel 1820, Carlo, ripreso dalla passione politica, parte per unirsi con i soldati del carbonaro Guglielmo Pepe nei moti napoletani,

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Caratteri e stile

ma viene fatto prigioniero dagli Austriaci e condotto a Napoli per il processo. La principessa Santacroce, di cui la Pisana è amica, gli evita la forca; in carcere, Carlino perde la vista e gli viene commutata la pena in esilio. Con l’aiuto della Pisana, parte per Londra, dove la donna se ne prende cura, lavorando e chiedendo l’elemosina per lui. Grazie al medico Lucilio Vianello, anch’egli esule, Carlo riacquista la vista, ma la Pisana si ammala e muore. Tornato a Venezia, Carlo si ricongiunge poi alla famiglia. Uno dei suoi figli segue Lord Byron che combatte per l’indipendenza della Grecia, poi emigra in America, dove troverà la morte. Durante le vicende della Prima guerra d’indipendenza, Carlo assiste all’insurrezione di Venezia, nel corso della quale gli muore il figlio minore. Infine, il colera uccide anche l’amico Lucilio Vianello. La figlia – che Carlo ha chiamato Pisana – si sposa e dà al padre dei nipoti. Ormai alla fine della vita, nel 1858, Carlo ripensa al secolo di storia che ha vissuto e scrive le proprie memorie. Il romanzo storico di Nievo è di rilevante importanza anche perché non segue il modello manzoniano, che ambienta la vicenda narrata nel Seicento. Nievo presta più attenzione alla contemporaneità e si apre spesso verso il romanzo di formazione e psicologico. Affresco di oltre mezzo secolo di recente storia italiana, Le confessioni di un italiano intreccia, con gusto realistico, le vicende del Paese e la storia d’amore dei due protagonisti. Il ritratto della Pisana è estremamente vivo e ne fa il personaggio femminile la cui caratterizzazione psicologica è forse la meglio riuscita nella narrativa italiana ottocentesca. Inoltre, nelle Confessioni, risaltano anche la passione risorgimentale e l’esaltazione dell’impegno politico. Sul piano stilistico, il romanzo è stato giudicato a volte disomogeneo, ma il vivace ritmo narrativo e la lingua vicina al parlato, che alterna – con effetti quasi di pastiche linguistico – colti latinismi e forme quasi dialettali, lo rendono un significativo punto di riferimento nella transizione dal romanzo storico e realistico alla produzione verista, e, secondo alcuni, anche un tentativo di sperimentazione sul linguaggio.

T3 La Pisana si rifugia da Carlino da Le confessioni di un italiano, XIV

Ippolito Nievo

Le confessioni di un italiano viene scritto di getto in otto mesi, nel 1858. La narrazione, condotta in prima persona dal protagonista Carlino Altoviti, intreccia insieme motivi del romanzo storico, realistico autobiografico, d’avventura e di formazione, collocandosi fra la sensibilità romantico-risorgimentale e quella verista. Alla ricostruzione di un’epoca, affianca la storia di un’esistenza narrata con i modi del romanzo di formazione e della memorialistica. Dopo aver sposato Mauro Navagero, un vecchio e nobile benestante veneziano, la Pisana si invaghisce di Ascanio Miniato, un ufficiale nativo della Corsica, cui invano chiederà di schierarsi contro Napoleone per liberare Venezia, ceduta dai Francesi agli Austriaci. L’io narrante Carlino Altoviti intende restare a Venezia per aiutare la Pisana, ma, mentre i Francesi lasciano la città, viene a sapere che la donna corteggia l’ufficiale corso. PISTE DI LETTURA • L’io narrante rivela il carattere del protagonista • Il legame fra Carlino e la Pisana • L’anticonformismo della principale figura femminile dell’opera

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Il suono del campanello suscita paura

Il racconto delle disavventure

In quel momento né la lettura degli Enciclopedisti1 né la frenesia della libertà2 me la scusavano di quel subito invagarsi d’uno sbarbatello in assisa3. Mi chiusi in casa e poi in camera a rosicchiare come la vigilia un tozzo di pane ammuffito; in tre giorni era diventato magro come un chiodo, ma neppur la fame mi induceva a capitolare. Così alla superficie del mio cervello era un pelago4 di sdegni patriottici, d’elegie funerarie, e di aerei disegni; a guardar sotto si sarebbe trovato il mio pensieruccio5 di sedici anni addietro vigile e tenace come una sentinella. Quell’allontanarmi dalla Pisana, Dio sa per quanto tempo, senza vederla, senza parlarle, senza aiutarla del mio consiglio contro i pericoli che la circondavano, mi dava uno sgomento così grande, che piuttosto avrei arrischiato il collo per rimanere. E questi rischi che io correva infatti, rimanendo anche dopo lo sloggio dei Francesi, servivano a puntellarmi contro la coscienza che di tanto in tanto mi faceva memore di coloro che m’attendevano a Milano6. Peraltro cominciava nell’animo qualche avvisaglia d’un prossimo conflitto. Le parole di mio padre7 m’intronavano le orecchie, vedeva lontano lontano quell’occhiata severa e fulminante di Lucilio8... Oimè! credo che soltanto il timore di questa mi facesse correre pel baule; ma nel mentre appunto ch’io lo spolverava, ed aveva acceso un lume per vedere in un camerone buio e profondo, ecco scrollarsi una gran tirata di campanello. “Chi può essere?” pensai. E i buli9 degli Inquisitori, e le guardie di sicurezza francesi, e gli scorridori10 tedeschi mi si ingarbugliarono dinanzi la fantasia. Volli piuttosto scender la scala che tirare la corda11, e per le fessure dell’uscio diedi uno strepitoso: – Chi va là? Mi rispose una voce tremante di donna: – Son io; apri, Carlino! Ma perché ella fosse tremante non la conobbi meno, e mi precipitai ad aprire col petto in angoscia così profonda che appena bastava a frenarmi. La Pisana vestita a nero, coi suoi begli occhi rossi di sdegno e di lagrime, coi capelli disciolti e il solo zendado12 sul capo mi si gettò fra le braccia gridando che la salvassi. Credendo che l’avessero insultata per istrada, io feci per balzar fuori della porta a vendicarla contro chi che si fosse, ma ella mi fermò per un braccio, e appoggiandovisi sopra mi menò verso la scala e su per essa fino alla stanza di ricevimento, come se appunto la conoscesse tutti i buchi della casa; e sì che a mio credere non la ci era mai stata. Quando fummo seduti l’un vicino all’altro sul divano turchesco di mio padre, e si fu sedato in lei il respiro affannoso che le affaticava il petto, non potei ristare dal chiederle tosto cosa significasse quello smarrimento, quel tremore e quella subitanea apparizione. – Cosa significa? – rispose la Pisana con una vocina rabbiosa che si arrotava contro i denti prima di uscir dalle labbra. – Te lo spiego ora io cosa significa! Ho piantato mio marito, sono stanca di mia madre, fui respinta dai miei parenti. Vengo a stare con te!... – Misericordia!

1. Enciclopedisti: gli autori dell’Enciclopedia, il massimo prodotto editoriale dell’età dell’Illuminismo (cfr. pag. 214). 2. la frenesia della libertà: l’impegno nella lotta politica per l’unità nazionale. Gli avvenimenti narrati in questo passo sono ambientati nel 1797, quando le truppe austriache prendono possesso di Venezia in seguito al trattato di Campoformio. Carlino, nonostante il suo fervore patriottico, rimane in città per non abbandonare la Pisana, rifiutandosi di raggiungere Milano, capitale della Repubblica giacobina. 3. sbarbatello in assisa: ragazzino (sbarbatello, ossia “senza barba”, è derisorio) in uniforme. Carlino è venuto a sapere di una relazione della Pisana con il giovane ufficiale Ascanio Minato, nativo della Corsica, e ne è irritato. 4. pelago: mare (latinismo, dal latino pelagus). 5. pensieruccio: l’amore per la Pisana, sbocciato nell’infanzia.

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6. coloro… Milano: patrioti veneziani che, dopo la cessione della città agli Austriaci, si sono rifugiati a Milano. 7. Le parole… padre: il padre esortava Carlino a battersi per gli ideali politici. 8. Lucilio: Lucilio Vianello, medico, innamorato della sorella della Pisana ai tempi del castello di Fratta, patriota ed esempio di rettitudine, contrario alla decisione presa da Carlino di rimanere a Venezia per amore; compare più volte nei punti salienti del romanzo a salvare la vita a Carlino. 9. buli: sgherri. 10. scorridori: soldati in servizio di avanscoperta. 11. tirare la corda: aprire la porta tirando una cordicella. 12. zendado: scialle ampio e nero, usato dalle donne veneziane. Voce veneta, che deriva dal greco sindòn (da cui anche “sindone”).

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Fu proprio questa la mia esclamazione: me la ricordo come fosse ora; del pari mi ricordo che la Pisana non se ne adontò13 per nulla, e non si ritrasse d’un atomo dalla sua risoluzione. Quanto a me non mi maraviglio punto che il precipizio d’un cotal cambiamento di scena mi fosse cagione d’una penosa confusione, maggiore pel momento d’ogni gioia e d’ogni paura. Comunque fosse, mi sentii sbalzato tanto fuori dall’aria solita a respirarsi, ch’ebbi alla gola una specie di strozzamento; e soltanto dopo qualche istante mi venne fatto di rinsennare14 e di chiedere alla Pisana qual fosse la ventura che me le rendeva utile in qualche modo. – Ecco, – soggiunse ella – già sai che a sbalzi io sono anche troppo sincera, come son bugiarda alcune altre volte, e chiusa e riservata per costume. Oggi non posso tacerti nulla: ho tutta l’anima sulla punta della lingua, e buon per te che imparerai a conoscermi a fondo. Io mi maritai per far dispetto a te e piacere a mia madre, ma son vendette e sacrifizi che presto vengono a noia, e col mio temperamento non si può voler bene ventiquattr’ore ad un marito decrepito, magagnato15, e geloso. Dal signor Giulio16 io avea sofferto17 qualche omaggio per tua intercessione, ma era stizzita contro di te; figurati poi col tuo raccomandato!... Per giunta io aveva l’anima riboccante d’amor di patria e di smania di libertà; mentre mio marito veniva colla tosse a predicarmi la calma, la moderazione; ché non sapeva mai come potessero volger le cose. Figurati se andavamo d’accordo ogni giorno meglio!... Io m’accontentava sulle prime di veder mia madre gustare saporitamente i manicaretti di casa Navagero, e perdere alla bassetta18 i zecchini del genero; ma poco stante mi vergognai di quello che innanzi mi appagava, e allora tra mio marito, mia madre e tutti gli altri vecchi, mediconzoli e barbassori19 che mi si stringevano alle coste, mi parve proprio di essere la pecora in mezzo ai lupi. Mi annoiava, Carlino, mi annoiava tanto, che fui le cento volte per iscriverti una lettera, buttando via ogni superbia; ma mi tratteneva... mi tratteneva per paura di un rifiuto. – Oh che ti pensi ora? – io sclamai. – Un rifiuto da me?... Non è cosa neppur possibile all’immaginazione! Carlino Come si vede, durante il discorso della Pisana io aveva cercato e trovato il filo accoglie per uscire dal laberinto; questo era di amarla, di amarla sopratutto, senza cercala Pisana re il pelo nell’uovo, e senza passare al lambicco20 della ragione il voto eterno del mio cuore. – Sì, temeva un rifiuto, perché non ti aveva dato caparra21 di condotta molto esemplare; – ella soggiunse – ed ora voglio dartene una col mettere a nudo tutte le mie piaghette22, e stomacartene, se posso. Io feci un gesto negativo, sorridendo di questa sua nuova paura; ella racconciandosi i capelli sulle tempie, e puntandosi qualche spillo malfermo nel corsetto, continuò a parlare. – In quel torno23 fu alloggiato in casa di mio marito un officiale francese, un certo Ascanio Minato... – Lo conosco – diss’io. La confessione: – Ah! lo conosci?... Bene! non potrai dire che non sia un bel giovine, d’aspetto la donna amava maschio e generoso, benché lo abbia poi trovato al cimento un perfido, uno un altro... spergiuro, un disleale, un vero capo d’oca col cuore di lepre... Io ascoltai con molto malgarbo questa infilzata d’improperi che, secondo me, chiariva anche troppo la verità di quanto Giulio Del Ponte mi avea raccontato il giorno delle feste per la Beauharnais24. E la Pisana non si vergognava di confes-

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13. non se ne adontò: non si risentì. 14. rinsennare: rinsavire. 15. magagnato: pieno di magagne, ossia di acciacchi. 16. Giulio: Giulio Del Ponte, innamorato non corrisposto della Pisana, aiutato in passato da Carlino. 17. sofferto: sopportato. 18. bassetta: gioco d’azzardo con le carte. 19. barbassori: coloro che si danno arie da persona sapiente (settentrionalismo, derivante da “valvassore”).

20. passare al lambicco: passare all’alambicco, cioè distillare; in questo caso, vagliare scrupolosamente. 21. caparra: garanzia. 22. piaghette: difetti. 23. In quel torno: in quell’epoca. 24. Beauharnais: Giuseppina Beauharnais, la moglie di Napoleone, che nel settembre 1797 si era recata a Venezia; in tale occasione Carlino aveva saputo da Giulio Del Ponte che un ufficiale corso (Ascanio Minato) corteggiava la Pisana.

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...e voleva convertirlo alla causa patriottica

sare sfacciatamente la propria scostumatezza; e non si accorgeva del dolore che mi avrebbe recato la sua importuna sincerità. Io mi mordeva le labbra, mi rosicchiava le unghie, e rimproverava la Provvidenza che non mi avesse fatto sordo come Martino25. – Sì – tirava innanzi ella – mi pento e mi vergogno di quel poco di fede che aveva riposto in lui. Credeva che i Còrsi fossero animosi e gagliardi, ma vedo che Rousseau26 aveva torto di aspettarsi dalla loro schiatta qualche grande esempio di fortezza e di sapienza civile!... “Rousseau, Rousseau!” pensava io. Queste filippiche27 e queste citazioni m’infastidivano; avrei voluto giungere alla fine e saperla tutta senza tante virgole; laonde28 mi dimenava sui cuscini e pestava un po’ i piedi, presso a poco alla maniera d’un ragazzo ch’è stufo della predica. – Cosa gli chiedeva io? cosa pretendeva da lui? – riprese con maggior impeto la Pisana – forse cose soprannaturali, o impossibili, o vili?... Non gli chiedeva altro che di farsi il benefattore dell’umanità, il Timoleone29 della mia patria!... Voleva renderlo l’idolo il padre il salvatore d’un popolo intero; e in aggiunta a questo dono gli prometteva anche il mio cuore, tutto quello ch’egli avrebbe voluto da me!... Codardo, scellerato!... E mi si inginocchiava dinanzi, e giurava e spergiurava d’amarmi più della sua vita, più del suo Dio!... Oh cosa credeva? ch’io volessi offrirmi al primo capitato pei suoi begli occhi, pei suoi lucenti spallini?... S’accontenti allora di portar impressi sul viso i segni d’uno schiaffo di donna. Già dove non ci sono uomini, tocca proprio alle donne. – Calmati, Pisana, calmati! – le andava dicendo dubbioso ancora di non aver capito a dovere – racconta le cose per ordine: dimmi da che nacquero queste tue ire col signor Minato... cosa egli chiedeva da te, e cosa tu di rimando pretendevi da lui? – Cosa egli mi chiedeva?... Che facessimo all’amore insieme, sotto gli occhi del geloso che avrebbero finto di dormire per troppo rispetto alla furia francese!... Cosa pretendeva io da lui?... Pretendeva che egli persuadesse, che egli eccitasse i suoi commilitoni a un atto di solenne giustizia, a contrapporsi concordi alle spergiure concessioni del Direttorio e di Bonaparte, ad unirsi con noi, e a difendere Venezia contro chi domani ne diverrà impunemente il padrone!... Tuttociò ognuno di essi anche il più imbecille anche il più pusillanime sarebbe tenuto a farlo senz’altra persuasiva che la rettitudine della coscienza, e l’abborrimento di comandi ingiusti e sleali!... Ma uno che amasse una donna, e si udisse profferta da lei questa nobile impresa, non dovrebbe anzi fare di più?... Non dovrebbe adottare la patria di quella donna e ripudiare la propria vergognosamente colpevole d’un tanto misfatto?... Ogni francese che udisse simili esortazioni dalla bocca di colei ch’egli giura di amare, non dovrebbe alzar la visiera come Coriolano30, e dichiarare un odio eterno e avventarsi furibondo contro questa Medea31 che divora i propri parti? – Che resta la patria senza umanità e senza onore?... Manlio32 condannò a morte i figliuoli, Bruto33 uccise il proprio padre! Ecco gli esempi per chi ha cuore e polsi da imitarli!... Vi confesso ch’io non avrei avuto né cuore né polsi da sfoderare una tirata così violenta come questa della Pisana; ma aveva cuore e intendimento bastevole per comprenderla, onde ammirando piucché altro quei fieri moti d’un’indole ardente e generosa, mi pentii di averla assai mal giudicata dalle prime parole.

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da Le confessioni di un italiano, in Opere, a cura di S. Romagnoli, Ricciardi, Milano-Napoli, 1952

25. Martino: servitore sordo che, nel castello dei conti di Fratta, aveva allevato con affetto Carlino. 26. Rousseau: Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che nella sua opera Il contratto sociale ha stigmatizzato il carattere degli abitanti della Corsica, ostili alla dominazione sia genovese sia francese. 27. filippiche: tirate retoriche (il termine fa riferimento ai discorsi dell’oratore greco Demostene contro Filippo di Macedonia). 28. laonde: per ciò. 29. Timoleone: personaggio delle Vite parallele di Plutar-

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co; aveva ucciso il fratello, tiranno di Corinto, per ripristinare la libertà. 30. Coriolano: eroe romano che, accusato ingiustamente, divenne condottiero dell’esercito dei Volsci, ma infine si pentì e salvò Roma. 31. Medea: maga della mitologia greca che uccise i propri figli per vendicarsi del tradimento del marito Giasone. 32. Manlio: Manlio Torquato Tito, romano che per amor di patria fece uccidere il proprio figlio. 33. Bruto: assassino di Cesare, suo padre adottivo.

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inee di analisi testuale La moderna psicologia dei personaggi I due protagonisti sono caratterizzati da Nievo con grande finezza psicologica. Nella donna di nome Pisana, l’autore ha tratteggiato un personaggio indimenticabile, con un lato trasgressivo e moderno, la sua ansia di libertà, i suoi tradimenti, e, d’altro canto, l’istinto materno che la induce a proteggere Carlino in ogni situazione difficile e, infine, a sacrificare la vita per lui. La donna mostra un carattere complesso: l’anticonformismo e la modernità prevalgono nei suoi ideali. In Carlino, invece, è evidente il contrasto tra l’ideale politico e le ragioni della vita privata: tale conflitto lo attanaglia in molte circostanze e il protagonista non lo risolverà mai fino in fondo. Differenze con il romanzo manzoniano Rispetto al capolavoro di Manzoni, che cronologicamente lo precede, il romanzo di Nievo rivela diversità e originalità – oltre che nella più moderna caratterizzazione psicologica dei personaggi – nella presenza di elementi culturali contemporanei e nell’impegno politico attivo dei protagonisti. Sia Carlino sia la Pisana, patrioti risorgimentali, hanno in comune la lettura degli Enciclopedisti e la frenesia della libertà. La ragazza cita Rousseau e, nella sua tirata violenta, chiama in difesa gli eroi dell’antichità e cita il personaggio di Medea. Dalla vicenda si comprende come la storia contemporanea s’inserisca direttamente nelle vicende quotidiane, soprattutto attraverso l’impegno politico del protagonista, condiviso anche dalla Pisana. Lo stile Le scelte linguistiche sono diverse da quelle manzoniane. Il linguaggio accosta registri differenti, dall’aulico al dialettale, con un ritmo veloce tipicamente moderno. Nel brano, ad esempio, i contrasti fra latinismi come pèlago e settentrionalismi come barbassòre producono un effetto ironico e introducono quella sperimentazione del pastiche linguistico che sarà uno dei fili conduttori della narrativa novecentesca.

L

avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano proposto in non più di 20 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il carattere della Pisana e quali passi del testo lo evidenziano? b. Quali sono i personaggi storici citati nel testo e a quale proposito? c. Quale personaggio mitologico è assimilato alla Francia e a quale proposito? d. Quale scrittore viene citato e per quale ragione? e. Quali avvenimenti storici si verificano a Venezia nei giorni in cui è ambientato il passo e come reagiscono a tali avvenimenti i due protagonisti? Analisi e interpretazione 3. Analizza il tipo di voce narrante e indica i passi che maggiormente ne evidenziano il punto di vista. Approfondimenti 4. Leggi, qui di seguito, l’incipit e il passo finale de Le confessioni di un italiano ed elabora un saggio breve che metta in luce – facendo riferimento ai testi – l’enunciazione, da parte dell’autore, delle caratteristiche principali del romanzo. Ipotizza, come destinazione editoriale, il fascicolo scolastico di ricerca e documentazione oppure la rassegna di argomento culturale. Non superare le tre colonne di metà foglio protocollo. – Io nacqui Veneziano ai 18 Ottobre del 1775, giorno dell’Evangelista San Luca; e morrò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l’hanno fatta, così mi venne in mente, che descrivere ingenuamente quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare utilità a coloro, che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati. – O primo ed unico amore della mia vita, o mia Pisana, tu pensi ancora, tu palpiti, tu respiri in me e dintorno a me! [...] Oh tu sei ancora con me, tu sarai sempre con me; perché la tua morte ebbe affatto la sembianza d’un sublime ridestarsi a una vita più alta e serena. Sperammo ed amammo insieme; insieme dovremo trovarci là dove si raccolgono gli amori dell’umanità passata e le speranze della futura. Senza di te che sarei io mai?... Per te per te sola, o divina, il cuore dimentica ogni suo affanno, e una dolce malinconia suscitata dalla speranza lo occupa soavemente. da Le confessioni di un italiano, in Opere, a cura di S. Romagnoli, Ricciardi, Milano-Napoli, 1952

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La svolta culturale di metà secolo

Realismo e ideologia liberale

La “questione sociale”

Le varianti del romanzo realista

Il Realismo in Italia

ROMANZO REALISTA L’Ottocento europeo conosce una grande fioritura di autori e di romanzi realisti. Nei decenni centrali del secolo, alla svolta storica e culturale si accompagna, infatti, un radicale cambiamento nelle poetiche narrative. Dopo il 1848, tranne che nelle nazioni impegnate, come l’Italia, nella lotta per l’indipendenza e l’unificazione, si attenua o si spegne lo slancio idealistico e si afferma una tendenza al pragmatismo che ai miti romantici in crisi sostituisce l’aspirazione al successo economico, alla sicurezza e all’ordine. Nelle nazioni europee più avanzate si afferma la civiltà industriale, che si accompagna a profondi mutamenti nella struttura materiale, sociale e politica, nei costumi, negli stili di vita e nella mentalità. Concretezza, individualismo, utilitarismo sono i tratti distintivi della nuova visione del mondo che si va affermando. All’interno dell’ideologia liberale si impone il modello dell’uomo che riesce ad avere successo anche provenendo da umili classi sociali, attraverso l’intraprendenza individuale vincente di fronte alle difficoltà della vita. Le trasformazioni economiche che si succedono, soprattutto in Inghilterra e, con minore rapidità, in Francia, dopo la metà del secolo determinano la rapida crescita della classe operaia e la centralità della “questione sociale”. Anche gli intellettuali e gli artisti ne prendono coscienza, ponendola al centro della propria riflessione. Proprio nel 1848, viene pubblicato il Manifesto del partito comunista dei tedeschi Karl Marx e Friedrich Engels (per cui cfr. anche pagg. 486 e 494). Nelle loro opere, essi sostengono anche la tesi secondo cui solo l’arte realista sarebbe vera arte, contribuendo all’affermazione di tale tendenza. Questi fattori culturali influenzano anche il romanzo: l’analisi della realtà, già affrontata come analisi dell’individuo e della sua psicologia da Goethe e Stendhal, viene sempre più frequentemente estesa a livello dell’intera società. È il trionfo dell’approccio realistico che porterà al romanzo moderno. Le varianti del romanzo realista sono molteplici. Ad esempio, sono notevoli le differenze fra due grandi romanzieri realisti come Dickens e Tolstoj. L’inglese Charles Dickens, con la sua vasta produzione letteraria – tra cui i celebri David Copperfield (1849-1850) e Oliver Twist (1837-1839) – propone un realismo che potrebbe dirsi pittorico, con episodi spesso patetici, che mirano a commuovere e a coinvolgere il lettore. Il russo Lev Tolstoj, nel grande affresco a sfondo storico Guerra e pace (18631869), inserisce, invece, l’elemento realista soprattutto nella descrizione dei personaggi e dei travagli sociali del tempo. In Italia la corrente non conoscerà grandi rappresentanti. Oltre agli spunti offerti da Manzoni – che per altro ne fornisce una versione originale, inserita nel romanzo storico romantico e intrisa di religiosità – troverà espressione solo a fine secolo in autori minori di forte tempra morale come il milanese Emilio De Marchi, il cui capolavoro, Demetrio Pianelli, verrà pubblicato nel 1890.

Honoré Daumier, Giocatori di scacchi, 1863. Parigi, Musée du Petit Palais.

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Letteratura e arte LA PITTURA REALISTA FRANCESE La nascita del Realismo Nella Francia di metà Ottocento, alla cultura romantica viene sostituendosi quella positivista, fondata su una valutazione più analitica e concreta della realtà. Già negli artisti romantici era presente una certa aspirazione al realismo, che si esprimeva in una maggiore aderenza al vero nella rappresentazione del paesaggio e nelle accurate ricostruzioni dei quadri di argomento storico. Ma a tale aspetto si sovrapponeva poi una lettura di carattere più idealizzante, che, ad esempio, faceva riconoscere nella natura il riflesso degli stati d’animo dell’artista o l’immagine stessa della divinità. Dalla metà del secolo, invece, i pittori iniziano a dipingere direttamente davanti alla natura, assegnandole una nuova dignità ed autonomia, ma anche dedicando maggiore attenzione alle condizioni di vita e di lavoro delle classi più povere e disagiate. La pittura – come del resto la letteratura – diventa così uno strumento di denuncia, assumendo anche una precisa valenza politica, come per Gustave Courbet (1819-1877), che allestisce le proprie opere, rifiutate all’Esposizione universale del 1855, in un Padiglione del Realismo appositamente costruito.

Il vagone di terza classe Anche Honoré Daumier (1808-1879), oltre a dedicarsi ad opere di satira politica e di costume, mostra un forte interesse per la vita degli strati più umili della popolazione. Nella tela sotto riprodotta il pittore si concentra sull’interno dello scompartimento di un treno popolare, fiocamente illuminato dalla luce che entra dai finestrini, e si sofferma sulle persone che lo affollano. In primo piano ritrae una giovane che allatta il proprio bambino, un’anziana donna che tiene in grembo una cesta e un ragazzino addormentato che le si appoggia al fianco. Altre due file di individui che occupano il vagone del treno si scorgono dietro questi tre personaggi. Se alcuni aspetti, quali una certa deformazione fisiognomica delle figure, possono far pensare ad una lettura satirica dell’opera, in realtà sembra prevalere un sentimento di solidarietà nei confronti dell’anonimo gruppo di viaggiatori, segnati dalla fatica e dai disagi.

Honoré Daumier, Il vagone di terza classe, 1862. Ottawa, National Gallery of Canada.

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Stendhal e La Certosa di Parma Un romantico anticipatore del Realismo

L’attività letteraria

Il realismo di Stendhal

La trama de La Certosa di Parma

Uno stile oggettivo, da Codice civile

Fra gli scrittori romantici anticipatori del Realismo in Francia va ricordato il francese Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle (1783-1842). Lo scrittore nasce a Grenoble, da una famiglia benestante. Orfano di madre all’età di sette anni, si dedica alla carriera militare, diventando ufficiale dell’armata napoleonica e alto funzionario dell’amministrazione imperiale, ma la disfatta di Waterloo (1815) cambia totalmente la sua vita. Rimasto infatti senza lavoro, l’autore cade in miseria. Inviso agli Austriaci, nel 1821 viene espulso da Milano, ove risiedeva dal 1814. Torna allora in Francia, a Parigi, sino al 1831. Qui comincia la sua carriera letteraria. Nel 1827 pubblica il suo primo romanzo, Armance, e nel 1830 dà alle stampe Il rosso e il nero. Nel frattempo viaggia attraverso l’Europa, prima a Londra, quindi a Roma, ed è protagonista di frequenti avventure amorose. Nel 1831, è nominato console di Francia presso lo Stato pontificio e qui risiede sino al 1840. In questi anni scrive opere di notevole importanza, fra cui il capolavoro La Certosa di Parma (1839), dettata nel 1838 in soli 52 giorni. Nel 1841, in seguito a un attacco di apoplessia, si trasferisce a Parigi, dove morirà di lì a poco. Stendhal è maestro nel rappresentare realisticamente il contrasto interiore tra ideale e realtà, ancora tipico dell’eroe romantico. Egli però cala le vicende dei suoi personaggi nella situazione storica, quella successiva alla Rivoluzione francese, e in ciò è ritenuto – come si è detto – un anticipatore del Realismo. Della situazione generale, egli mira a cogliere le cause che sono alla base delle grandi trasformazioni. Per ciò che riguarda gli individui, le loro coscienze e il loro agire, la sua penna è alla ricerca delle sfumature, nel tentativo di ridisegnare figure a tutto tondo, non eroiche ma umane. Tutto ciò è ben visibile nei suoi due capolavori, Il rosso e il nero e, soprattutto, La Certosa di Parma, romanzo che disegna con attenzione un mondo in crisi, dove i vecchi valori (come la nobiltà d’animo e la lealtà) sembrano ormai essere perduti. Protagonista dell’opera (che va anche accolta nel genere del “romanzo di formazione”) è il perplesso, indeciso e contraddittorio Fabrizio Del Dongo, giovane marchese comasco che fugge dalla famiglia filoaustriaca per partecipare alla battaglia di Waterloo, affascinato da Napoleone. Dopo aver assistito alla disfatta del suo eroe, Fabrizio torna in Italia e si rifugia a Parma, alla cui corte, tra vagabondaggi e una rapida carriera ecclesiastica, si trova circondato da un ambiente corrotto, simbolo di una ugualmente corrotta società. Bandito dal padre, il reazionario marchese Del Dongo, a Parma viene accolto dalla zia Gina, sposata con l’anziano duca Sanseverino, al centro degli interessi dei personaggi più potenti della corte, a partire dal conte Mosca. Fabrizio, a causa della sua passione verso la giovane Marietta, durante un litigio, per difendersi, uccide l’attore comico Giletti. In carcere, si innamora di Clelia, figlia di Fabio Conti, governatore della fortezza. Gina Sanseverino, temendo che Fabrizio possa essere avvelenato, ne prepara l’evasione con l’aiuto di Clelia, ma durante la fuga Fabio Conti rischia la morte e sua figlia fa voto alla Madonna di non vedere più Fabrizio e di sposare – secondo la volontà del padre – il ricchissimo marchese Crescenzi. Quando Fabrizio, ormai al sicuro, apprende che Clelia sta per sposare un altro, si riconsegna volontariamente, facendosi nuovamente rinchiudere nella torre Farnese. Nella parte successiva del romanzo, densa di avvenimenti, Gina Sanseverino è oggetto delle attenzioni del principe di Parma, che vorrebbe barattare la libertà di Fabrizio con i favori della donna. Ottenuto il suo scopo, Gina poco dopo però lascia Parma con il conte Mosca. Fabrizio si è intanto impegnato nella carriera ecclesiastica, diventando arcivescovo grazie agli appoggi dei potenti amici di Gina, ma Clelia, a lungo combattuta fra amore e dovere, cede infine alla passione per lui. Tormentata dai rimorsi, dovuti anche alla morte del figlio Sandrino, malato e trascurato, Clelia perde ogni desiderio di vivere e muore fra le braccia di Fabrizio, il quale si ritira nella certosa di Parma. Anche lui e Gina moriranno poco dopo, a qualche mese di distanza. Anche nella narrazione degli episodi più patetici, lo stile di Stendhal elimina ogni lirismo romantico. L’autore intende, infatti, lasciare spazio a un’esattezza oggettiva cui non sfugge il contrasto fra ideale e reale, fra volontà di realizzarsi e

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accettazione della mediocre esistenza che inchioda ogni ambizione. Quello di Stendhal è uno stile da Codice civile, come egli stesso lo definì: per evitare eccessi romantici, infatti, l’autore, prima di iniziare a scrivere, era solito leggere pagine di testi giuridici per restarne influenzato. La narrazione è però anche estremamente attenta alla vita interiore dei personaggi, alla cui lucida analisi viene spesso data più rilevanza che agli eventi esterni.

T4 Il monologo introspettivo di Fabrizio da La Certosa di Parma

Stendhal

Il carattere di Fabrizio Del Dongo è dubbioso e indeciso, lacerato da idee e sentimenti contraddittori. Un carattere simile ben si presta all’analisi interiore che interessa Stendhal: nel monologo qui presentato, il protagonista è visto “dall’interno”, in una lucida esplorazione della mentalità, della psicologia e dei comportamenti in relazione al contesto storico-sociale. Fabrizio, durante il vagabondaggio per l’Italia, attratto dalle più diverse ipotesi attorno a cui costruire la propria vita, ritorna a Como – pur sapendosi ricercato dai gendarmi – e, nella casa in cui è nascosto, si abbandona a uno dei monologhi introspettivi che costituiscono l’aspetto più tipico dello stile di Stendhal. PISTE DI LETTURA • Il dubbio tra gli impulsi passionali e la vita ecclesiastica • Il monologo introspettivo • Tono oggettivo ma a sfondo elegiaco

Proprio sotto il campanile, una quantità di ragazze vestite di bianco e divise in gruppi erano dietro a comporre dei disegni con fiori rossi, azzurri e gialli, lungo Il paesaggio e le vie che la processione doveva percorrere. Ma v’era uno spettacolo che parlala nostalgia va all’animo di Fabrizio in modo assai più vivido: dal campanile, i suoi sguardi spaziavano sui due rami del lago a una distanza di molte leghe1, e quella vista sublime gli fece tosto scordare tutte le altre; essa risvegliava in lui i più elevati sentimenti. Tutte le memorie della sua infanzia s’affollarono nel suo pensiero; e quella giornata passata da prigioniero nel campanile fu forse una delle più felici della sua vita. La felicità lo sollevò ad una altezza di pensiero alquanto inusuale per il suo carattere; considerava gli eventi della vita, lui, così giovane, come se fosse giunto all’estremo passo. Bisogna convenirne, si disse alfine, dopo essersi perso per molte deliziose ore in quel trasognamento, dacché sono giunto a Parma non ho mai avuto una gioia tranquilla e perfetta come quella che avevo a Napoli, galoppando sui sentieri del Vomero o correndo sulla spiaggia di Miseno. Tutti i complicati interessi di quella piccola e perfida corte2 mi hanno reso cattivo... Non provo alcun piacere a odiare, credo perfino sarebbe per me una ben triste felicità umiliare i miei nemici, se ne avessi; ma io non ho nemici... Alto là! si disse ad un tratto, ho Giletti3 per nemico... Questo sì ch’è strano! si disse: ma il piacere che proverei a vedere quel brutto ceffo andarsene alla malora, sopravvive all’attrazione un po’ leggera che provavo per la piccola Marietta... La Marietta

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1. Fabrizio... leghe: Fabrizio Del Dongo è il protagonista del romanzo. I rami cui si accenna sono quelli del lago di Como; le leghe sono misure di distanza, in uso al tempo degli eventi narrati. 2. piccola... corte: la corte di Parma, dei cui feroci intrighi

Fabrizio è stato testimone. 3. Giletti: attore comico e nemico personale a Parma di Fabrizio del Dongo, anche per motivi amorosi riguardanti la giovane Marietta, cui si accenna poco oltre. In seguito, per difendersi da lui, Fabrizio finirà per ucciderlo.

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La difficile scelta tra diverse prospettive di vita

La vista dei gendarmi riporta Fabrizio alla realtà

non vale certo la duchessa d’A...4, che a Napoli dovevo amare solo perché le avevo detto d’essermi innamorato di lei. Santo cielo! che noia in quei lunghi incontri che la bella duchessa mi accordava! Niente del genere, invece, nella camera scalcinata che serviva da cucina, dove la piccola Marietta mi ha ricevuto due volte, e due minuti ogni volta. Ma sant’Iddio! cosa mangia quella gente! È cosa da far pietà! Avrei dovuto offrire, a lei e alla sua mammuccia, una pensione di tre bistecche al giorno... La piccola Marietta, aggiunse, mi distraeva dai cattivi pensieri che mi venivano a stare nei paraggi di quella corte. Forse avrei fatto meglio a darmi alla vita dei caffè, come dice la duchessa; lei sembrava propendere per quella scelta, ed ha più genio di me. Con il suo aiuto, o anche soltanto con la pensione di quattromila franchi e il deposito di quarantamila franchi a Lione che mia madre mi assegna, potrei sempre avere un cavallo e qualche scudo in tasca per fare i miei scavi e creare una raccolta5. Siccome a quanto pare non mi è dato conoscere l’amore, per me le grandi fonti di contentezza saranno sempre in queste cose. Vorrei, prima di morire, andare a rivedere il campo di battaglia di Waterloo, e cercar di ritrovare quei prati dove mi tirarono allegramente giù da cavallo e mi misero a sedere per terra. Fatto quel pellegrinaggio, tornerò spesso su questo lago sublime; non c’è niente di altrettanto bello al mondo, almeno per il mio cuore. Perché andar tanto lontano a cercare la felicità? è qui sotto i miei occhi! Eh! si disse Fabrizio a mo’ di obiezione, la polizia qui sul lago di Como mi dà la caccia; ma io son più giovane di quelli che dirigono le battute della nostra polizia. E qui aggiunse ridendo, non troverei duchesse d’A...; troverei una di quelle fanciulle laggiù che dispongono i fiori per terra, e, a dire il vero, l’amerei non di meno; l’ipocrisia mi agghiaccia anche in amore, e le nostre grandi dame mirano a effetti troppo sublimi. Napoleone ha messo loro in testa tutte quelle idee di costumatezza e di costanza. Per la miseria! si disse d’un tratto ritirando il capo dalla finestra come temendo d’essere riconosciuto malgrado lo schermo dell’enorme gelosia di legno che proteggeva le campane dalla pioggia, ecco che arrivano dei gendarmi in alta uniforme! Difatti dieci gendarmi, di cui quattro sottufficiali, stavano spuntando in capo alla strada principale del villaggio. II sergente li disponeva a cento passi di distanza uno dall’altro, sul tragitto che la processione doveva percorrere. Qui tutti mi conoscono; se mi vedono, volo come una palla di schioppo dal lago di Como allo Spielberg6, dove mi attaccheranno a ogni gamba una catena che pesa centodieci libbre: e che dispiacere per la duchessa! Fabrizio ebbe bisogno di qualche minuto per rammentarsi che prima di tutto si trovava a più d’ottanta piedi d’altezza, che il luogo in cui si trovava era relativamente buio, che gli occhi della gente che avrebbe potuto guardare erano abbagliati da un sole accecante, e che infine tutti si aggiravano laggiù sgranando gli occhi nelle strade imbiancate di calce a celebrare la festa di San Giovita. Nonostante queste chiarissime riflessioni7, l’anima italiana di Fabrizio non sarebbe più riuscita a provare alcun piacere, s’egli non avesse posto tra sé ed i gendarmi un vecchio pezzo di tela che inchiodò contro la finestra, facendovi poi due buchi per gli occhi.

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da La Certosa di Parma, trad. di G. Celati, Feltrinelli, Milano, 1993

4. la duchessa d’A...: uno dei numerosi personaggi femminili con cui, durante i suoi viaggi, Fabrizio Del Dongo intrattiene relazioni amorose. 5. fare... raccolta: un’altra fra le numerose ambizioni del protagonista, la cui fragilità e la cui indecisione sono efficacemente testimoniate dalle contraddizioni che emergono – e non solo in questo passo – fra i suoi pensieri.

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6. Spielberg: fortezza della Moravia, in cui venivano rinchiusi coloro che cospiravano contro l’Austria. La prigione è nota, fra l’altro, perché vi fu destinato Silvio Pellico. 7. chiarissime riflessioni: l’espressione usata dal narratore è ironica, in quanto i pensieri di Fabrizio attestano l’abituale contraddittorietà dei suoi pensieri e sentimenti. Il narratore attribuisce però il fatto all’anima italiana del protagonista.

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inee di analisi testuale L’originalità del protagonista Il personaggio Fabrizio Del Dongo è stato variamente giudicato. Alcuni lo ritengono, a livello sociologico, la finestra sulla realtà della nuova nobiltà del primo Ottocento, incapace di proporre valori e ormai solo intrigante e parassita. Altri, viceversa, vedono in Del Dongo un personaggio che ritrova la sua identità spirituale più profonda quando, proprio in seguito a raggiri cortigiani, finisce in prigione. Qui, isolato dal resto del mondo, può scoprire la vera libertà, che esiste solo nell’animo. Altri ancora lo considerano un concreto e realistico modello di uomo indeciso o, viceversa, incapace – nonostante la propria religiosità – di combattere la propria spinta al piacere. Narrativa di introspezione e di formazione L’originalità della figura del protagonista dipende comunque dalla natura stessa dell’opera narrativa di Stendhal, interessata sì alla realtà sociale, ma soprattutto all’introspezione e all’analisi interiore. Fabrizio Del Dongo è spesso visto – come nel passo qui proposto – “dall’interno”, e ci appare uomo dal temperamento incerto, lacerato da alternative diametralmente opposte: per citare solo le principali, il fascino della vita militare, la passione amorosa e l’attrazione (talora percepita come vocazione, talora come mezzo per emergere in una società e in una realtà da lui disprezzata) per la carriera religiosa. Tra gusto romantico e realismo Il brano rende evidente la tecnica adoperata dall’autore nel comporre le sue opere. Tutto in Stendhal è imprevedibile: le azioni scaturiscono quasi improvvise. L’autore è, però, generalmente molto attento al colloquio interiore del personaggio. Qui il narratore dedica ampio spazio ai pensieri del protagonista e propone invece una sintesi sorprendentemente sintetica degli eventi esterni. La morte di Clelia, di Gina e del protagonista stesso sono presentate in poche righe alla fine dell’opera. Stendhal, insomma, muove dall’autobiografismo e dallo studio psicologico romantico, ma scrive con lucidità e oggettività. La sua lucida esplorazione delle idee, della psicologia e dei comportamenti umani in relazione al contesto storico-sociale, fa di lui un precursore dei romanzieri realisti; tuttavia, la sua matrice romantica emerge nell’interesse prevalente per l’analisi interiore.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi in non più di 10 righe il monologo di Fabrizio. 2. Spiega chi è e quali caratteristiche presenta il protagonista. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Quali sono le caratteristiche principali dello stile di Stendhal? b. A quale genere di romanzo appartiene La Certosa di Parma e perché? c. Quali particolarità del romanzo e dello stile di Stendhal vengono evidenziate nel testo? d. Quali aspetti caratterizzano il rapporto fra realtà esterna e interiore nel romanzo? e. Quali sono i principali motivi per cui il romanzo può essere definito anticipatore del Realismo, ma anche di formazione e in parte ispirato dalla sensibilità romantica? Approfondimenti 4. Concorda con il tuo insegnante una data entro la quale leggerai e presenterai – analizzando le caratteristiche salienti del testo narrativo e sintetizzandole in un’apposita scheda – uno o più capitoli de Il rosso e il nero di Stendhal.

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J.O. Södermark, Ritratto di Stendhal, 1840. Museo di Versailles.

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Balzac e Papà Goriot Il maestro del romanzo realistico

La vita e le opere

Il significato e la struttura della Commedia umana

Con Papà Goriot (1834) e le altre numerose opere narrative di Honoré de Balzac (1799-1850), il romanzo si avvia alla narrazione realistica nella sua forma più esemplare, caratterizzata dalla presenza del narratore onnisciente e dallo sviluppo di intrecci collocati sullo sfondo di quadri sociali di epoca recente o contemporanea, con interventi della voce narrante che commenta e giudica. Per tali caratteristiche delle sue numerose opere narrative, Balzac è ritenuto dalla critica iniziatore e maestro del romanzo realistico ottocentesco. Balzac nasce a Tours in una famiglia del ceto medio. La madre, che gli preferisce un fratello, lo manda a studiare nel Collegio oratoriano di Vendôme. Dal 1814 Balzac prosegue gli studi abitando a Parigi in una pensione e poi in una soffitta. Nel 1820 conosce Laure de Berry – che egli chiama la Dilecta –, più anziana di lui di ventidue anni, che gli sarà amante, amica e anche madre per sedici anni. Il giovane tenta di fare fortuna con varie imprese che si rivelano fallimentari e si ritrova così carico di debiti, per pagare i quali dovrà lavorare, scrivendo incessantemente romanzi per tutta la vita. Nel 1829 pubblica Gli Sciuani, primo di una serie di oltre ottanta romanzi; nel 1830 Scene di vita privata, sei novelle che costituiscono il primo nucleo della Commedia umana, il suo vastissimo ciclo di opere narrative. Diventato celebre con La pelle di zigrino (1831), cede all’amore per il lusso e abbandona le idee progressiste. Fra i capolavori di quegli anni vanno annoverati Eugénie Grandet (1833) e Papà Goriot (1834). Dopo la morte di Dilecta (1836), Balzac viaggia molto per l’Europa e in Italia incontra Alessandro Manzoni. Conosce la contessa polacca Eveline Han´ska con la quale convivrà. Alla fine del 1842, egli organizza la vasta trama della Commedia umana, firmando un contratto con quattro editori associati per portare a termine il pesante impegno. I romanzi escono a getto: Balzac vuole assicurare alla contessa un tenore di vita degno di lei. Nel 1845 ella gli partorisce un figlio nato morto, provocando nel marito un grande dolore. Balzac acquista una casa e si indebita ulteriormente. Negli stessi anni pubblica gli ultimi capolavori, lascia Parigi per Kiev, sposa la donna e, infine, torna a Parigi dove, malato, muore nel 1850. La decisione di Balzac di denominare Commedia umana – titolo ispirato al capolavoro di Dante – il proprio monumentale ciclo di racconti e romanzi corrispon-

Alcuni personaggi della Commedia umana di Balzac: a sinistra, la grande Nanon (da Eugénie Grandet); a destra Pons e Schmucke (da Il cugino Pons). Parigi, Biblioteca Nazionale, Gabinetto delle Stampe.

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Papà Goriot

Il “romanzo sociale” di Balzac già anticipa Zola

de all’intenzione di fornire un quadro realistico della Francia del Primo Impero, della Restaurazione e di Luigi Filippo, tracciando affreschi sociali recenti o contemporanei, dipingendo vicende, ritraendo personaggi, pensieri e passioni e giudicando esplicitamente tale mondo e coloro che in esso agiscono. Nella Prefazione Balzac definisce lo scrittore come un pittore di tipi umani e un narratore di drammi della vita. Egli paragona la società alla natura perché, come gli ambienti naturali, le classi sociali, sulla cui analisi verte il suo interesse, creano uomini diversi. Opera secondo alcuni già influenzata dal Positivismo – la filosofia che attribuisce grande importanza all’ambiente e alla scienza – la Commedia umana prevedeva quasi 150 romanzi: ne sono pervenuti 85 conclusi e 50 incompiuti, oltre a sei non previsti nel piano. I personaggi delle prime opere spesso si ripresentano nelle successive, in un grandioso e articolato affresco sociale. Papà Goriot, scritto nel 1834 e pubblicato nel 1835, è ritenuto il capolavoro di Balzac e il più tipico esempio di romanzo realistico. Ne sono protagonisti un vecchio commerciante a riposo, Goriot, le due figlie, Anastasie e Delphine, ed Eugène de Rastignac, studente di legge, di famiglia nobile ma povero, venuto dalla provincia e deciso a emergere nella società parigina. Il giovane diventa amico di Goriot come suo coinquilino nella misera pensione parigina della signora Vauquer. Se l’unica aspirazione di papà Goriot è quella di essere un genitore generoso – si è rovinato per far sposare le figlie a un conte e a un barone –, le giovani hanno come scopo quello di scalare i gradini della bella società, e per farlo non esitano a scatenare un vortice di tradimenti e cinismi, anche a danno dell’anziano genitore, accecato dall’affetto paterno. Rastignac diventa anche amante di Delphine e dovrà scegliere tra i due modi opposti di intendere la vita. Alla fine, quando, alla presenza del padre, le figlie, che entrambe tradiscono i mariti, si abbandonano a un furibondo litigio, il buon vecchio Goriot è colto da un colpo apoplettico. Durante l’agonia, in preda al delirio, il vecchio crede che le amate figlie siano presso il suo letto: esse, invece, sono a un ballo. Goriot, benedicendo nel suo delirio Anastasie e Delphine, muore fra le braccia di Rastignac, che sarà l’unico, insieme ai becchini e a Christophe – un dipendente della pensione –, a seguire il funerale. Alla morte del buon Goriot, che gli indicava i valori dell’onestà e del bene, Rastignac seppellisce insieme alla salma del vecchio amico la sua ultima lacrima di ragazzo, e si dispone ad affrontare la città con la frase di epilogo rimasta celebre ad essa rivolta: A noi due, adesso! Rastignac ricomparirà in successivi romanzi del ciclo come uomo ricco e potente. Proseguendo sulla strada già imboccata da Stendhal, Balzac realizza un nuovo genere di “romanzo sociale” che, con la sua attenzione per gli elementi esterni e oggettivi, vuol rendere con evidenza la dimensione sociale dei protagonisti. La tecnica narrativa di Balzac si basa ancora sulla voce narrante onnisciente, ma per il resto, a iniziare dalla polemica contro la prosa sentimentale romantica, ritenuta lacrimevole, è già tutta protesa verso un realismo che anticipa il “romanzo sperimentale” naturalista di Émile Zola.

T5 Le riflessioni di Rastignac da Papà Goriot

Honoré de Balzac

Dopo aver conosciuto Goriot nella modesta e squallida pensione Vauquer, il giovane Rastignac scopre che il vecchio padre ha impegnato tutti i risparmi di una vita per poter maritare le figlie: Anastasie con il conte de Restaud e Delphine con il barone de Nucingen. Rastignac le ha conosciute: la frivola Delphine – che si è intanto trovata in difficoltà economiche per l’acquisto dei propri innumerevoli vestiti – piange sulla spalla del giovane per sfogare la propria preoccupazione e lo induce a giocare alla roulette col proprio denaro. Rastignac vince una notevole somma: i due si spartiscono il denaro e, infine, Delphine si invaghisce di lui. Il brano qui di seguito proposto ha come protagonista appunto Eugène de Rastignac, il quale, mentre fa ritorno alla pensione, riflette sulle possibilità che tale situazione gli offre.

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PISTE DI LETTURA • Quando l’amore paterno acceca • La pena del protagonista • Gli interventi della voce narrante

I sentimenti di Rastignac

La reazione di papà Goriot

Rastignac per pietà consegna mille franchi

Incamminandosi a piedi, sotto un bel chiar di luna, Eugène s’immerse nelle sue riflessioni. Era insieme felice e scontento: felice di un’avventura il cui probabile esito gli offriva una delle donne più belle e più eleganti di Parigi, oggetto dei suoi desideri1; scontento di vedere buttati all’aria i suoi progetti di far fortuna. Fu allora che si rese conto di come fossero stati vaghi i pensieri cui si era abbandonato due giorni prima. L’insuccesso ci rivela sempre la forza delle nostre pretese. Più Eugène godeva della vita parigina, meno voleva restare povero e oscuro. Si sgualciva in tasca il biglietto da mille franchi, facendosi mille ragionamenti capziosi per decidere che gli apparteneva2. Giunse infine in rue Neuve-SainteGeneviève3, e quando fu in cima alle scale vide una luce. Papà Goriot aveva lasciato la porta aperta e la candela accesa perché lo studente non dimenticasse di raccontargli sua figlia, come diceva lui. Eugène non gli nascose niente. “Ma allora”, esclamò con violenza papà Goriot in un disperato accesso di gelosia, “mi credono rovinato, mentre ho ancora milletrecento lire di rendita! Mio Dio! Povera bambina, perché non è venuta qui! Avrei venduto i miei titoli, avremmo prelevato una parte del capitale, e con il resto mi sarei costituito un vitalizio. Perché non è venuta a confidarmi le sue difficoltà, mio caro vicino? Come ha avuto il coraggio di rischiare al gioco i suoi miseri cento franchi? C’è da sentirsi spezzare il cuore. Ecco che cosa sono i generi. Oh! Se li avessi tra le mani, li strozzerei4. Mio Dio! Piangere... la mia figliola ha pianto?”. “Con la testa sul mio gilè”, confermò Eugène. “Oh, me lo dia!”, supplicò papà Goriot. “Come! Lo hanno bagnato le lacrime di mia figlia, della mia cara Delphine, che da piccola non piangeva mai! Oh! Gliene comprerò un altro, non lo porti più, me lo lasci. Secondo il contratto di matrimonio, lei deve disporre dei suoi beni. Ah! Domani stesso andrò a trovare Derville, un legale. Esigerò che il suo patrimonio venga investito. Io conosco le leggi: sono una vecchia volpe, mostrerò di nuovo i denti”. “Tenga, papà, questi sono mille franchi della vincita che lei ha voluto darmi. Glieli conservi nel gilè”. Goriot guardò Eugène e tese la mano per prendere la sua, facendovi cadere una lacrima. “Lei riuscirà nella vita”, gli disse il vecchio. “Dio è giusto, capisce? Io me ne intendo di probità, e le posso assicurare che pochissimi uomini le assomigliano. Vuol essere anche lei un caro figliolo per me? Su, vada a dormire. Può dormire, non è ancora padre. Delphine ha pianto, ecco che cosa vengo a sapere, io che me ne stavo qui tranquillamente a mangiare come un idiota, mentre lei soffriva; io, che venderei il Padre il Figlio e lo Spirito Santo per evitare a entrambe una lacrima”. ‘In verità’, si disse Eugène coricandosi, ‘credo che rimarrò onesto per tutta la vita. Si

1. felice... desideri: Rastignac considera l’avventura amorosa con Delphine de Nucingen, figlia di papà Goriot, come un’occasione di ascesa sociale, in quanto essa appartiene all’alta società parigina. 2. Si sgualciva... apparteneva: in seguito a una serie di circostanze, Rastignac si è ritrovato con mille franchi, che costituiscono una parte della sua vincita al gioco con i soldi di Delphine; ora strofina la banconota con le dita (sgualciva) in tasca, cercando con ragionamenti ingannevoli (capziosi) di convincere se stesso che quel denaro – che Delphine gli ha ambiguamente donato o prestato – sia meritatamente suo. 3. rue Neuve-Sainte-Geneviève: è la via in cui si trova la

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pensione in cui alloggiano sia Rastignac, sia papà Goriot, insieme ad altri personaggi minori (ognuno dei quali è mirabilmente tratteggiato dall’autore ed ha un preciso ruolo nell’intreccio). 4. Ma allora... strozzerei: Goriot, dopo aver appreso da Rastignac che la frivola figlia si dice in difficoltà economiche, vorrebbe impegnare i suoi pochi residui averi per aiutarla ad acquistare altri vestiti; inoltre, si adira con il genero – il barone de Nucingen – alla cui incapacità imputa l’insoddisfazione della figlia. In realtà, il barone ha limitato le spese della moglie a causa degli sprechi voluttuari di Delphine.

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Delphine si invaghisce del giovane

Il compiacimento di Rastignac

prova una certa soddisfazione nel seguire le ispirazioni della propria coscienza’5. Forse, solo chi crede in Dio compie il bene segretamente e Eugène credeva in Dio6. L’indomani, all’ora del ballo, Rastignac si recò dalla signora de Beauséant che lo condusse con sé per presentarlo alla duchessa di Carigliano, da cui fu accolto con la massima cortesia. Dalla duchessa ritrovò la signora de Nucingen. Delphine si era fatta bella nell’intento di piacere a tutti, per piacere ancor di più a Eugène, dal quale attendeva impazientemente un’occhiata, convinta di riuscire a nascondere la propria impazienza7. Per chi sa intuire le emozioni di una donna, quello è un momento pieno di delizie. Chi non si è spesso compiaciuto di far attendere la propria opinione, di mascherare con civetteria il proprio piacere, di cercare una confessione nell’inquietudine suscitata, di godere dei timori che un sorriso basterà a dissipare? Durante quella festa, lo studente valutò all’improvviso l’importanza della sua posizione e capì di avere un posto in società come cugino riconosciuto della signora de Beauséant. La conquista della signora de Nucingen, che già gli veniva attribuita, lo poneva in posizione di spicco, tanto che tutti i giovanotti gli lanciavano sguardi invidiosi. Sorprendendone alcuni, assaporò i primi piaceri della fatuità8. Passando da una sala all’altra, attraverso i vari gruppi, sentì decantare la sua fortuna. Tutte le donne gli predicevano il successo. Delphine, temendo di perderlo, gli promise di non rifiutargli quella sera il bacio che gli aveva ostinatamente negato due giorni prima. A quel ballo, Rastignac ricevette numerosi inviti.

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da Papà Goriot, trad. di E. Klersy Imberciadori, Garzanti, Milano, 1999

5. In verità... coscienza: dopo una lotta interiore, Rastignac ha consegnato a Goriot i mille franchi che meditava di tenere per sé. Le lodi del vecchio sembrano convincerlo poi che fare il bene dia più soddisfazione che agire per il proprio interesse: ma il giovane, in successive occasioni, smentirà tale pensiero. 6. Forse... Dio: l’intervento personale del narratore esterno (frequente, fra gli altri, anche in Manzoni) è tipico so-

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prattutto dei romanzieri realisti come Balzac, e li contraddistingue dagli autori naturalisti e veristi, la cui poetica presuppone la narrazione impersonale. 7. Delphine... impazienza: Delphine de Nucingen cerca invano di nascondere la propria infatuazione per Rastignac che, approfittando di tale situazione, mira a compiere ulteriori passi nell’ascesa sociale. 8. fatuità: leggerezza.

inee di analisi testuale I personaggi Il personaggio di Goriot è dipinto come uomo a una sola dimensione: egli non è altro che padre, e per le figlie è disposto a sacrificare ogni cosa. Il sentimento paterno in lui diventa però un’ossessione (egli stesso lo definisce vizio), perché tutto ciò che le figlie fanno – anche le azioni più fatue o immorali – trovano, da parte sua, giustificazione. All’estremo opposto di Goriot si collocano le figlie. Incoraggiate all’ascesa sociale, Anastasie e Delphine hanno fatto dell’obiettivo di emergere a ogni costo lo scopo della vita, manifestando il proprio cinismo verso i mariti (che tradiscono) e verso lo stesso padre. Rastignac fra le pecore e i lupi L’amicizia con papà Goriot e il rapporto amoroso con Delphine diventano per Rastignac simboli di due opposti modi di intendere la vita. Egli, che non vuole finire fra i perdenti, esita a lungo: lo attesta la lotta interiore che precede la consegna dei mille franchi, che intendeva tenere per sé, al vecchio Goriot. Il suo conflitto è alimentato dalla presenza, nella stessa pensione di Vautrin, di un forzato in incognito che, con argomenti opposti a quelli di Goriot, intende convincerlo della ferocia della società e del fatto che non esiste via di mezzo fra il diventare pecore o lupi, coinvolgendolo in azioni ignobili allo scopo di fare denaro. La decisione definitiva di Rastignac verrà presa dopo l’esperienza della misera morte di Goriot, l’uomo buono. Il narratore Balzac Anticipando alcuni tratti distintivi del Naturalismo, sul piano espressivo lo scrittore utilizza un linguaggio che si conforma, di volta in volta, alle caratteristiche e alla condizione sociale dei personaggi. Sul piano della tecnica narrativa, però, Balzac fa ancora uso della voce narrante onnisciente, intervenendo nelle vicende con commenti personali. Il narratore di Zola – e, spesso, anche di Flaubert – è invece impersonale, ed evita di commentare ciò che racconta.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano del romanzo Papà Goriot in non più di 10 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. In quale epoca e luogo è ambientato il romanzo? b. Quali espressioni del brano fanno più chiaramente comprendere che Rastignac è un personaggio interiormente contraddittorio? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali aspetti caratterizzano come realistico il romanzo Papà Goriot? b. A quale ciclo di romanzi di Balzac appartiene Papà Goriot? c. In quale epoca e luogo è ambientato il romanzo? d. Qual è il genere cui appartiene il romanzo Papà Goriot e quali elementi del testo lo dimostrano? e. Papà Goriot è stato da molti ritenuto anche un “romanzo di formazione”: quali aspetti del brano sembrano confermarlo? Approfondimenti 4. Facendo riferimento al passo che hai letto, tratta sinteticamente (max 30 righe) il seguente argomento: I riflessi delle concezioni di Balzac negli interventi diretti del narratore in Papà Goriot. 5. Concorda con il tuo insegnante una data entro la quale leggerai, secondo modalità stabilite, e presenterai (analizzando le caratteristiche salienti del testo narrativo e sintetizzandole in un’apposita scheda) il romanzo Papà Goriot (o un altro romanzo di Honoré de Balzac). 6. Nel romanzo Papà Goriot di Honoré de Balzac emergono elementi che riguardano i rapporti fra genitori e figli, in un contesto caratterizzato dall’avidità di denaro. Dopo aver presentato la questione in riferimento al romanzo e, eventualmente, ad altri testi – anche di altre epoche – che affrontano la tematica, esponi le tue conoscenze, esperienze e opinioni personali sull’argomento.

Flaubert e Madame Bovary

La vita e le opere

La nascita della narrativa naturalista

Il romanzo giunge a una dimensione oggettiva nella rappresentazione del mondo con Madame Bovary (1857) del francese Gustave Flaubert. Flaubert nasce a Rouen nel 1821. Al padre, chirurgo, anatomista e professore di chimica all’ospedale cittadino, deve la precisione scientifica e alla madre la sensibilità: in collegio a dieci anni soffre, come il protagonista del suo principale romanzo, per la crudeltà dei compagni. Quindicenne, s’innamora di Elisa Foucault e dal ricordo della passione adolescenziale nascerà il romanzo d’amore autobiografico L’educazione sentimentale (1869), ritenuto uno dei modelli del romanzo naturalista per il modo impersonale con cui viene narrata una vicenda di profondo contenuto romantico. Gustave Flaubert. Nel 1849, dopo altri amori e abbozzi di opere minori, Flaubert parte per l’Oriente e al ritorno si ritira a Croisset, accanto alla madre. Da allora conduce vita solitaria, comunicando principalmente attraverso lettere – le sue Corrispondenze sono affascinanti – e affidando il proprio pensiero alle opere. Negli ultimi anni di vita Flaubert assiste al successo degli scrittori che pubblicano, nel 1880, la raccolta di racconti Le serate di Médan, i quali, da Zola a Maupassant, lo considerano loro maestro. Dal volume nasce la nuova narrativa naturalista, di cui Flaubert può essere considerato precursore. Infatti, mentre scrittori come Stendhal e Balzac intervengono nella narrazione con commenti e giudizi, o identificano il proprio punto di vista con quello di un personaggio, Flaubert si limita a narrare le vicende, azzerando la funzione di interprete del narratore. Lo scrittore muore nel 1880.

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Madame Bovary

La trama

Madame Bovary, capolavoro frutto di fatiche durate oltre quattro anni, appare su rivista, negli anni 1851-1856. Flaubert subisce un processo per immoralità e oltraggio alla religione per le caratteristiche liberali e antinapoleoniche del periodico Revue de Paris, sul quale il romanzo vede la luce; l’autore viene assolto. Nel 1857, il romanzo appare in volume con il sottotitolo Costumi di provincia. Esso si colloca, secondo molti critici, fra romanzo realista e narrazione naturalista; altri, però, lo considerano un ponte fra romanzo romantico psicologico e romanzo realista; altri ancora, ne sottolineano invece la funzione radicalmente innovatrice e anticipatrice della letteratura del Novecento per la concezione dell’esistenza priva di valori positivi. Modernissima risulta anche, fra l’altro, la motivazione di Flaubert alla scrittura: Io scrivo per il solo piacere di scrivere, per me solo, senza alcun secondo fine di denaro o pubblicità. Nella mia povera vita, così piatta e tranquilla, le frasi sono delle avventure (da Lettera a Madame Schlesinger, 1857). In Madame Bovary Flaubert mette in scena il crollo di ogni aspirazione “romantica” di fronte alla realtà, e lo fa presentando il tragico scontro tra Emma Bovary, le sue aspirazioni ad avvenimenti eccezionali, e il grigiore della quotidianità. L’opera inizia presentando Charles Bovary. Egli, persona buona ma impacciata e poco brillante, studiando a fatica riesce infine a diventare modesto medico di provincia. Dominato dalla madre, Charles sposa dapprima una donna che le assomiglia; rimasto vedovo, sposa Emma Rouault, figlia di un proprietario terriero che ha conosciuto durante una visita medica. La giovane, nutrita di letture romantiche, accetta il matrimonio per lasciare la casa paterna in cui si annoia, ma aspira a una vita da eroina romantica. Ben presto, però, torna ad annoiarsi e ad intristirsi per il grigiore della vita di provincia e la delusione per l’esistenza monotona di Charles, che pure la ama teneramente. Preoccupato per la malinconia della moglie, il medico si trasferisce con lei nella più grande Yonville e, nel tentativo di emergere per soddisfare le aspirazioni di prestigio sociale della donna, applica una terapia sperimentale a un ragazzo claudicante: il risultato è fallimentare e il paziente si trova, infine, con l’arto amputato e una gamba di legno. Ciò pregiudica per sempre la carriera di Charles. Nel frattempo Emma viene corteggiata dal giovane avvocato Léon, che però, sul punto di averla, parte per Parigi. Emma aspetta un bambino da Charles e sogna di avere un maschio: quando invece nasce una bambina, Berthe, la sua delusione è profonda. Mentre il marito proietta tutti i propri sogni su un sereno futuro della famiglia, la donna si dibatte sempre più tra insoddisfazione e tristezza, fantasticando grandi amori, lunghi viaggi e una vita diversa. Emma intreccia poi una relazione con Rodolphe Boulanger, un proprietario terriero, e vorrebbe fuggire con lui, ma il bellimbusto la lascia, disperata e in preda a sintomi di malattie nervose. Avendo incontrato

Paul Gavarni, Il valzer. Litografia per Madame Bovary. Parigi, Biblioteca Nazionale, Gabinetto delle Stampe.

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di nuovo Léon a teatro, Emma inizia una relazione con lui. Anche tale rapporto si rivela, però, di breve durata. Inoltre, a causa delle spese voluttuarie sostenute con il bel giovane, Emma si è intanto indebitata con un usuraio, all’insaputa del marito, e non sa come appianare il debito. Dopo aver chiesto invano aiuto sia a Léon sia a Rodolphe (nel frattempo riapparso), Emma si procura un micidiale miscuglio velenoso a base di arsenico e inghiotte la pozione, credendo di morire istantaneamente. Muore invece solo dopo una lunghissima e atroce agonia, senza rivelare le ragioni del proprio gesto al marito. Rimasto nuovamente vedovo, Charles Bovary scopre le lettere degli amanti di Emma, perdona sia lei sia loro, ma, in preda a una forte depressione, poco dopo muore a sua volta.

T6 Emma a teatro da Madame Bovary

Gustave Flaubert

Dopo la fine della relazione con Boulanger, Charles Bovary, preoccupato per la salute della moglie, per distrarla la porta a teatro, a Rouen: l’episodio, riportato di seguito, segnerà una nuova svolta nel romanzo. L’opera rappresentata è la Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, tratta da un romanzo di Walter Scott, che narra la tragica vicenda d’amore di Edgardo e Lucia e che si conclude con la morte di entrambi i giovani. PISTE DI LETTURA • La vera malattia che consuma Emma • La dabbenaggine di Charles • Un dialogo stringente ed essenziale L’innamorato offeso1 brandiva la spada nuda; il collaretto di pizzo si sollevava a scatti, secondo i movimenti del petto, e lui a grandi falcate2 andava da destra a sinistra facendo cozzare sul tavolato gli speroni dorati degli stivali flosci, svasati alla Le fantasie caviglia. Doveva avere, Emma pensava, un’inesauribile riserva d’amore per riverdi Emma sarlo sul pubblico in effluvi tanto potenti. Ogni sua velleità denigratoria3 sfumava 5 sul cantante di fronte alla poesia di quel ruolo che la prendeva tutta; e, l’illusione del personaggio spingendola verso l’uomo, cercò d’immaginarne la vita, quella vita strepitosa, straordinaria, splendida, ma che sarebbe stata anche sua, se il caso l’avesse voluto. Si sarebbero conosciuti, si sarebbero amati4! Con lui avrebbe viaggiato di capitale in capitale per tutti i reami d’Europa, condividendo fatiche e orgoglio, 10 raccogliendo i fiori che gli buttavano, ricamandogli lei stessa i costumi di scena; e ogni sera, sul fondo di un palco, dietro la rete d’oro della grata, a bocca aperta, lei avrebbe raccolto le espansioni di quell’anima che soltanto per lei avrebbe cantato; dal palcoscenico, recitando, lui l’avrebbe guardata. Ma l’afferrò un’idea pazza: lui la guardava davvero! Ebbe l’impulso di corrergli fra le braccia per rifugiarsi 15 nella sua forza come nell’incarnazione stessa dell’amore, e di dirgli, di esclamare: “Rapiscimi, portami via, partiamo! A te, a te, tutti i miei ardori e tutti i miei sogni!”. 1. L’innamorato offeso: Edgardo, protagonista della Lucia di Lammermoor; pazzo d’amore, egli ha sfidato a duello il marito della donna che ama, il quale l’ha offeso. Solo per tali eroi, i cui sentimenti sono incomprensibili al marito, si risveglia la passione di Emma Bovary. 2. a grandi falcate: con rapidi e lunghi passi. L’espressione rivela un tono sottilmente ironico, soprattutto se messa a confronto con l’esagerata reazione emotiva di Emma Bovary e con il diametralmente opposto disinteresse del marito. 3. velleità denigratoria: intenzione di denigrare la rappresentazione, ossia di coglierne i punti deboli. L’espres-

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sione si riferisce all’atteggiamento precedente di Charles Bovary, che aveva affermato che Edgardo perseguitava inutilmente Lucia, la donna amata, dato che ella era ormai sposata – seppure solo per uno scherzo della sorte – con un altro uomo (Ashton). 4. Si sarebbero... amati: l’episodio ritrae in modo esemplare il temperamento di Emma Bovary. Il suo sentimento, esageratamente romantico, risalta per antitesi: il marito, infatti, poco prima, era stato da lei ripetutamente zittito perché, nei suoi commenti, aveva dimostrato assoluta incomprensione per la passione amorosa del protagonista.

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Gli errori del maldestro Charles

Emma rivede Léon: si riaccende la fiamma amorosa

Calò il sipario. L’odore del gas5 si fondeva agli aliti; l’aria dei ventagli rendeva l’atmosfera più soffocante. Emma volle uscire; i corridoi traboccavano di gente, e lei ricadde nella poltrona con palpitazioni che la opprimevano. Charles, nel timore di vederla svenire, corse alla buvette6 per portarle un’orzata. A gran fatica riuscì a ritornare al suo posto. A ogni passo infatti gli urtavano i gomiti, per via di quel bicchiere che stringeva tra le mani, e ne versò addirittura tre quarti sulle spalle di una rouennese7 in maniche corte che, sentendo il liquido freddo scorrerle lungo la schiena, gettò strida da pavone, nemmeno l’avessero assassinata. Il marito, che era un filandiere, s’infuriò con quel maldestro, e mentre lei con il fazzoletto andava asciugandosi le macchie sul bel vestito di taffetà ciliegia, lui bofonchiava con tono aspro parole come indennizzo, spese, danni. Charles riuscì finalmente a raggiungere sua moglie, e trafelato le disse: “Ho creduto di restarci, parola d’onore! C’è una ressa... una ressa...”. Aggiunse: “Indovina un po’ chi ho incontrato lassù? Il signor Léon!”. “Léon?” “Lui in persona! Verrà subito a salutarti.” E mentre finiva la frase, l’antico praticante di Yonville8 fece il suo ingresso nel palco9. Tese la mano con una disinvoltura da gentiluomo e madame Bovary porse la sua, con gesto meccanico probabilmente obbedendo all’attrazione di una volontà più forte. Non l’aveva sentita da quella sera di primavera in cui pioveva sulle foglie verdi, e s’erano detti addio, in piedi accanto alla finestra10. Ma subito richiamandosi alle convenienze del caso, lei si sforzò di scuotere da sé il torpore dei ricordi e si mise a balbettare rapidamente: “Ah, buonasera... Come! siete qui?” “Silenzio!” gridò una voce dalla platea. Il terzo atto stava cominciando. “Dunque siete a Rouen?” “Sì.” “E da quando?” “Uscite! uscite!” Si voltavano verso di loro. I due fecero silenzio. Ma da quel momento, lei non ascoltò più; e il coro dei convitati, la scena di Ashton e del servitore, grande duetto in re maggiore, tutto si svolse per lei come in lontananza, quasi gli strumenti fossero meno sonori e i personaggi più distanti11. Ricordava le partite a carte dal farmacista e quella passeggiata dalla balia, le letture sotto il pergolato, le confidenze davanti al camino, tutto quel povero amore così quieto e lungo, così discreto e tenero, che pure aveva dimenticato. Perché mai ritornava? Quale combinarsi di eventi lo riportava nella sua vita? Lui stava dietro di lei, con la spalla appoggiata alla parete; e ogni tanto lei si sentiva rabbrividire sotto il tepore del suo alito che le scendeva nei capelli. “Vi divertite?” disse lui chinandosi tanto che la punta dei suoi baffi le sfiorò la guancia. Lei rispose con noncuranza: “Oh, mio Dio, no! Non molto.” Allora lui avanzò la proposta di lasciare il teatro e di andare a prendere il gelato da qualche parte. “Ah! non ancora! restiamo! – disse Bovary. – Lei ha la chioma sciolta: promette d’essere tragico.” Ma la scena della follia12 non attirava Emma. La prestazione della cantante le parve esagerata. “Grida troppo” disse volgendosi a Charles che era tutt’orecchi.

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5. gas: a quel tempo, era usato per illuminare. 6. buvette: bar del teatro. Il vocabolo è francese. 7. rouennese: abitante di Rouen, città presso cui si trova il teatro. 8. l’antico... Yonville: Léon, che in gioventù era praticante in uno studio legale di Yonville, città in cui abitano i coniugi Bovary, ma si era poi trasferito a Parigi. Con l’ingenuità e il candore che lo connotano, Charles Bovary attira l’attenzione della moglie sul bel giovane. 9. palco: da esso si assiste agli spettacoli. 10. Non l’aveva... finestra: in passato, prima di partire per Parigi, Léon aveva corteggiato Emma ed era stato suo intimo amico.

11. Silenzio!... distanti: gli spettatori vicini zittiscono Emma e Léon, invitandoli poi a uscire dal teatro; madame Bovary ormai ascolta solo il giovane e ricorda il suo tenero corteggiamento di un tempo lontano, dimentica della presenza di Charles. Ashton è il marito di Lucia di Lammermoor ed è il rivale di Edgardo. Si osservi con quale abilità l’autore, senza esplicitarlo con commenti, abbia trasferito anche nella realtà il triangolo amoroso su cui si fonda l’opera romantica di Donizetti, in cui Ashton è lo sgradito coniuge di Lucia ed Edgardo è il suo ardente e desiderato amante. 12. la scena della follia: nella parte conclusiva dell’opera, Lucia di Lammermoor impazzisce.

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I tre escono dal teatro per conversare

L’ingenuo suggerimento di Charles alla moglie

“Sì... forse... un po’” rispose lui, incerto fra la schiettezza del suo piacere e il rispetto che provava per le opinioni della moglie. Poi Léon disse con un sospiro: “C’è un’afa...” “Davvero insopportabile.” “Non ti senti bene?” domandò Bovary13. “Soffoco. Andiamocene.” Léon le posò delicatamente il lungo scialle di pizzo sulle spalle14, e andarono tutti e tre a sedersi sul porto, all’aperto, davanti alla vetrata di un caffè. Per cominciare parlarono della malattia di lei, benché ogni tanto Emma interrompesse Charles temendo, diceva, di annoiare il signor Léon. E Léon raccontò di essere venuto a Rouen per passare due anni in uno studio importante ed esercitarsi negli affari, diversi in Normandia da quelli trattati a Parigi. Poi s’informò di Berthe, della famiglia Homais, di mamma Lefrançois15; e dal momento che in presenza del marito non avevano nient’altro da dirsi, ben presto la conversazione si arenò. Sul marciapiede passò gente che usciva dallo spettacolo; canticchiavano o strillavano a squarciagola: O bell’alma innamorata! Allora Léon, per mostrarsi un appassionato, prese a parlare di musica. Aveva visto Tamburini, Rubini, Persiani e la Grisi; e al loro confronto Lagardy non valeva niente, nonostante i suoi do di petto16. “Eppure – interruppe Charles mordicchiando il sorbetto al rum, – si dice che all’ultimo atto sia davvero insuperabile; mi spiace di essere uscito prima della fine, cominciavo proprio a divertirmi17”. “Del resto – riprese il praticante, – presto darà un’altra rappresentazione.” Ma Charles rispose che il giorno dopo partivano. “A meno che – aggiunse volgendosi alla moglie, – tu non voglia restare sola, gattina mia?” E con un colpo di timone davanti a quell’inattesa occasione che si offriva alla sua speranza, il giovane passò a magnificare Lagardy nel pezzo finale. Qualcosa di straordinario, di sublime! Allora Charles insistè: “Torneresti domenica. Suvvia, deciditi! hai torto, se appena senti che ti può far bene18”.

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da Madame Bovary, trad. di Maria Luisa Spaziani, Mondadori, Milano, 2001

13. Sì... Bovary: l’episodio evidenzia in modo esemplare – senza che il narratore lo commenti – il rapporto usuale fra Charles ed Emma Bovary, fonte della tragedia senza colpevoli che incombe su di loro. Egli è sempre pronto a sacrificarsi per accontentare i desideri della moglie, ma non è in grado di capire ciò che Emma realmente desidera. 14. Léon... spalle: ancora una volta, senza che siano necessari commenti del narratore, un gesto rivela tutto. Léon ed Emma si stanno sempre più innamorando. 15. Poi... Lefrançois: Léon ed Emma non hanno nulla da dirsi in presenza di Charles Bovary: da ciò si intuisce che la loro decisione è già presa. Il dialogo fra i due futuri amanti, per il momento, riguarda le condizioni di alcuni abitanti di Yonville. Di particolare rilievo è il farmacista Homais (importante personaggio minore) che ha apparentemente scelto di accontentarsi della propria condizione e della vita di provincia; è un illuminista anticlericale e, rispetto ai coniugi Bovary, rappresenta il ritratto dell’“uomo medio” francese nei tempi in cui è ambientato il romanzo. Di lui si tornerà a parlare nelle ultime battute del romanzo.

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16. O bell’alma... do di petto: l’aria O bell’alma innamorata! è tratta dalla Lucia di Lammermoor e viene intonata da chi ha assistito alla rappresentazione. I cognomi elencati da Léon sono di cantanti di melodramma; do di petto significa “virtuosismo canoro”. 17. cominciavo... divertirmi: dalla battuta emerge il rapporto fra Charles Bovary con l’opera lirica e, più in generale, con gli eroi e le concezioni cari al mondo romantico e alla moglie Emma. Il canto conclusivo, divertente per Charles (cominciavo a divertirmi), riguarda il suicidio della protagonista, impazzita per amore. Nel capolavoro di Flaubert, l’umorismo e l’ironia, come si vede, talora si intrecciano al tono drammatico e allo stile impersonale di narrazione realistica. 18. Torneresti... bene: Charles Bovary, ingenuo come sempre, senza rendersene conto, consegna la moglie all’amore di Lèon. In modo del tutto analogo, fiducioso di Emma, si era comportato anche in precedenza, invitandola a recarsi a cavalcare con il primo futuro amante, Rodolphe Boulanger.

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inee di analisi testuale Una tragedia con due vittime Madame Bovary si potrebbe definire una tragedia di provincia con due protagonisti, vittime entrambe della loro natura: l’autore non parteggia per nessuno dei due personaggi, ma lascia parlare gli eventi. Figura tra le più suggestive e inquietanti della letteratura moderna, vittima e responsabile della sua banale e tragica vicenda personale e dell’irrisolto conflitto tra sogno e realtà, Emma Bovary, grazie anche all’obiettività antiromantica, impersonale e quasi “clinica” con cui Flaubert ne tratteggia le contraddizioni, diventa l’emblema dell’insoddisfazione umana e del contrasto tra realtà e fantasia, tra abitudine ed evasione sentimentale. In questa lacerazione tra la mediocrità attribuita alla vita quotidiana e l’aspirazione a mete impossibili da conseguire, il filosofo francese Jules Gaultier de Laguionie (1858-1942) individua i sintomi di una vera e propria malattia dello spirito a cui, in un famoso saggio del 1902, ha significativamente dato il nome di bovarismo. Non minore importanza ha l’altro protagonista, il marito Charles: egli appare accompagnato – nonostante l’assenza di interventi del narratore – dalla costante pietà di Flaubert: dal momento in cui, nell’incipit, è deriso dai compagni, all’episodio centrale qui riportato, in cui si dimostrano insieme il suo profondo amore e la sua totale incomprensione della moglie, alla propria morte, che avviene mentre stringe nella mano una ciocca dei capelli di Emma. Reso timido e impacciato da una madre troppo autoritaria e dominatrice, nell’ultima parte del romanzo Charles Bovary, il cui sogno, ancorato alla vita quotidiana, è una famiglia tranquilla e felice, dimostra il suo eroismo “minimo” quando, incontrando Rodolphe, il bellimbusto con cui Emma l’ha tradito, dichiara di non serbargli rancore, e si allontana affermando che tutto fu una fatalità, ossia una decisione del destino. Identificazione dell’autore e stile Flaubert pronunciò la celebre frase: La Bovary c’est moi (“La Bovary sono io”); ma egli è anche Charles, nel momento in cui il medico (sempre definito buono da tutti, Emma compresa), dichiara che ciò che è accaduto è dovuto al destino e al caso e che nessuno ne ha colpa, anticipando così concezioni novecentesche. Sul piano espressivo, è mirabile la capacità di Flaubert di far comprendere al lettore tutto ciò che egli vuole sottolineare senza interventi espliciti del narratore, ma solo facendo parlare gli eventi, i gesti e i personaggi. Straordinario è anche l’intreccio, che talora si sviluppa fra tono tragico e tono ironico-umoristico: anche in ciò, Flaubert raggiunge un livello che non solo precorre ma, per molti aspetti, supera la narrazione impersonale di Zola.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano in non più di 20 righe. 2. Descrivi le caratteristiche salienti dei tre personaggi del brano. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali caratteristiche presenta il modo di narrare di Flaubert e quale tendenza narrativa si ritiene esso precorra? b. Quali caratteristiche e ruolo ha il narratore in Madame Bovary? c. Quali sono i principali elementi che contraddistinguono il narratore presente nell’opera di Flaubert dal narratore del romanzo realista Papà Goriot di Balzac? d. I due protagonisti del romanzo hanno caratteristiche simili o contrapposte? Il narratore presenta l’uno o l’altro come antagonista e colpevole del dramma? Che cosa lo dimostra? e. Quale ti sembra essere il rapporto fra il narratore e il personaggio di Charles Bovary? Approfondimenti 4. Concorda con il tuo insegnante una data entro la quale leggerai, secondo modalità stabilite, e presenterai (sintetizzandolo in un’apposita scheda) il romanzo Madame Bovary. 5. Flaubert ha dichiarato: La Bovary c’est moi (“La Bovary sono io”). Dopo aver letto notizie sulla sua vita e sul suo capolavoro, spiega il senso di tale affermazione.

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LE

ALTRE FORME DELLA NARRATIVA OTTOCENTESCA La grande stagione del romanzo ottocentesco si configura come la fucina in cui si formano tutti i generi che la narrativa svilupperà nelle epoche successive. La panoramica che qui si può offrire ovviamente non può esaurirli tutti, ma deve forzatamente operare una scelta tra i sottogeneri più frequentati e innovativi, gli autori più significativi e le opere esemplari destinate a influenzare la letteratura del Novecento.

Charles Dickens e la narrativa umoristica

La poliedricità di Dickens La vita e l’opera

Focus

Nell’ambito della narrativa, i generi umoristico, comico e satirico hanno sempre goduto largo consenso di pubblico. Nel romanzo ottocentesco è assai ricca la presenza sia dell’umorismo, sia della comicità, sia della satira, quasi sempre accompagnati all’ironia. Maestro della narrativa umoristica è l’inglese Charles Dickens (1812-1870), in particolare con l’opera che gli assicura il successo, Il Circolo Pickwick. Dickens, che raggiunge il successo come umorista, diventa anche, e soprattutto, autore di romanzi realisti. Si può perciò considerare uno dei grandi narratori poliedrici dell’Ottocento, in quanto eccelle in generi narrativi diversi. Il principale romanziere realista inglese nasce presso Portsmouth nel 1812. Durante l’infanzia, si appassiona alla letteratura attraverso la lettura, disordinata ma appassionata, di grandi romanzi. Quando il padre viene arrestato per debiti, il dodicenne Charles deve trovarsi un impiego in una fabbrica di lucido per scarpe, in

LA NASCITA DEL ROMANZO NATURALISTA

In contrapposizione alle tendenze della narrativa fantastica, legata alle concezioni romantiche e decadenti, nella seconda parte dell’Ottocento, il “culto dei fatti” e la loro analisi oggettiva e scientifica incidono fortemente sull’arte e sulla letteratura, sviluppando tendenze già presenti nella pittura e nella corrente narrativa realista. In particolare, un momento importante della storia della narrativa, profondamente influenzato dal Positivismo (filosofia nata in Francia che esalta la scienza, la tecnica e il progresso industriale), è segnato dalla nascita e dallo sviluppo, appunto in Francia, tra la metà e la fine dell’Ottocento, del Naturalismo che fa capo a Émile Zola, la cui lezione poetica e metodologica condizionerà poi, in modo diretto ed evidente, il Verismo di Luigi Capuana e Giovanni Verga, movimento letterario che, con sue specificità, si affermerà in Italia nel periodo a cavallo fra i due secoli. Il romanziere, secondo la concezione di Émile Zola, deve perseguire il compito di documentare le tipologie dei personaggi significativi dei vari strati sociali e delle loro storie, raccontate nel modo il più possibile impersonale, oggettivo e verosimile. Il ruolo che Zola assegna al narratore esclude – come per lo scienziato che studia, osserva e rileva la realtà biologica – interventi di commento ai fatti documentati. Non è certo un caso se, oltre che grande narratore e saggista, Zola è abile amatore anche della fotografia, che si va diffondendo a fine Ottocento dopo la scoperta, nel 1835-1841, della stampa su carta fotosensibile con processo negativo-positivo, a opera dello scienziato inglese William Talbot (1800-1877). Dal 1877 al 1880, nella casa di campagna di Émile Zola a Médan, nei pressi di Parigi, si riuniscono alcuni amici dello scrittore, fra cui si distinguono, in particolare, i narratori Guy de Maupassant (1850-1893) e Joris-Karl Huysmans (18481907). Il comune denominatore, all’interno del gruppo, è rappresentato dall’unanime riconoscimento di Gustave Flaubert come maestro, che ha già spinto a un avanzato limite di oggettività la propria prosa. Gli scrittori di Médan, inoltre, sono influenzati dal clima positivista che si diffonde nella Francia del tempo e si riconoscono nell’approccio “scientifico” alla narrativa che Zola ha già iniziato a introdurre nelle proprie opere. Dalle conversazioni e dalla sperimentazione della nuova poetica nasce una raccolta collettiva di sei novelle, intitolata Les soirées de Médan (“Le serate di Médan”), che viene pubblicata nel 1880: tutti i racconti sono basati su un crudo realismo e trattano, in chiave certamente non patriottica, vicende della guerra franco-prussiana del 1870. Dalla pubblicazione, e dalle riflessioni di poetica di Zola, nasce la nuova tendenza letteraria. Importante, però, è anche il contributo del filosofo Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893), che già dal 1858 utilizza il termine naturalismo in chiave materialistica, considerando l’essere umano come entità biologica determinata dall’ambiente, dalla società e dalla natura: di qui il termine inteso come possibilità di studiare l’essere umano con gli stessi metodi che si applicano agli altri oggetti dell’osservazione scientifica.

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Le vicende de Il Circolo Pickwick

Focus

condizioni durissime, tali da incidere sulla sua futura concezione della società. Un’eredità permette alla famiglia di tornare a vivere con un certo agio; il giovane Charles si diploma e trova lavora presso uno studio legale. Dedicatosi al giornalismo, Dickens diventa, però, un affermato cronista parlamentare e pubblica, nel 1833, il primo racconto su una rivista. Inizia così l’attività di narratore. I racconti scritti e pubblicati a dispense dal giovane cronista tra il 1836 e il 1837 vengono poi raccolti ne Il Circolo Pickwick (1838) – capolavoro del genere satirico e umoristico – la cui tiratura sfiora in breve tempo le quarantamila copie. Successivamente, egli inizia a scrivere romanzi realistici – da Oliver Twist (1838) a David Copperfield (1850), in cui sono riconoscibili anche tratti del romanzo di formazione. Successivamente inizia a compiere viaggi negli Stati Uniti e divorzia da Catherine Hogarth (1858), da cui ha avuto dieci figli. Le successive opere sono caratterizzate da un maggiore interesse per l’approfondimento psicologico e da un crescente pessimismo. Negli ultimi anni, infine, il romanziere si dedica all’attività di conferenziere in Inghilterra e in America. La morte lo coglie nel 1870. Il Circolo Pickwick narra le vicende dei membri che costituiscono il circolo del titolo, con sede a Londra. Presidente è un bonario e benestante cittadino di mezza età, Samuel Pickwick, che, giunto a un certo punto della sua vita, decide, insieme ai tre soci del sodalizio (Tracy Tupman, Nathaniel Winkle e Augustus Snodgrass) di darsi ai viaggi. Nelle peripezie del bizzarro quartetto emergono, come comiche figure di antagonisti, Alfred Jingle, una sorta di attore, in realtà un truffatore, e il compare che gli fa da domestico, Job Trotter. Con la sua abilità oratoria, il furfante trascina i pickwickiani in ogni sorta di guai. I protagonisti saranno però aiutati da Sam Weller, un lustrascarpe furbo e simpatico, che si mette al servizio di Pickwick come suo domestico. Episodio centrale del romanzo è il momento in cui la padrona di casa di Pickwick lo cita in tribunale, accusandolo falsamente di mancata promessa di matrimonio. Indignato per l’ingiusta condanna, il protagonista non paga il risarcimento e finisce in prigione. La vicenda permette all’autore di prendere come bersaglio della satira, in questa parte del romanzo, l’ambiente giudiziario del tempo e di dipingere le terribili condizioni dei detenuti in carcere per debiti. Nel corso del romanzo, infine, si formano due famiglie: Snodgrass sposa Emily Wardle, la cui amica Arabella si marita con Winkle. L’attività del circolo termina: il protagonista si trasferisce nella cittadina di Dulwich, con il fedele Sam; Sam sposa la bella e giovane cameriera Mary, che gli dà due figli; Pickwick si prepara così a una serena vecchiaia, accanto alla felice famigliola.

IL FEUILLETON

Lo sviluppo impetuoso dell’industrializzazione in Europa nella seconda metà dell’Ottocento e la parallela crescita del giornalismo e dell’editoria favoriscono il successo di romanzi rivolti al grande pubblico, detti romanzi d’appendice perché pubblicati a puntate come “code”, cioè appendici, di giornali e periodici. Queste opere sono chiamate anche feuilletons (dal francese feuille, “foglio”, in questo caso, a grandi dimensioni). I cultori più celebri del genere sono i francesi Eugène Sue (1804-1857), con I misteri di Parigi (1842), e Alexandre Dumas padre (1803-1870) con I tre moschettieri (1844). In Italia, molte caratteristiche del genere – rivolto anche ai ragazzi – saranno più tardi riprese nei romanzi d’avventura del veronese Emilio Salgari (1862-1911), in particolare con I pirati della Malesia (1896). La vendita a puntate dei romanzi d’appendice, che permette al lettore di completare l’acquisto e la fruizione dell’opera in un periodo variabile da uno a due anni, è un fenomeno importantissimo e incoraggia la produzione narrativa di gusto popolare. Tali romanzi sono considerati gli antenati della letteratura di consumo o “commerciale”, cui oggi appartengono molti best-seller. In Inghilterra, la pubblicazione a puntate viene praticata anche da autori di ottimo livello, che spesso scrivono opere impegnate sul fronte della riflessione sociale-sociologica o sul fronte della critica satirica dei costumi.

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T7 La campagna elettorale da Il Circolo Pickwick

Charles Dickens

L’ingresso in scena del signor Wardle, gentiluomo di campagna che è in gita con la sorella nubile Rachele e le graziose figlie Emily e Isabella, permette a Dickens di introdurre nel suo romanzo umoristico il tema amoroso, cui si intrecciano altre peripezie e vicende di personaggi minori. Nel brano qui riportato – tratto dalla prima parte del romanzo – il gruppetto si ferma a Eatanswill, cittadina non lontana da Londra, in cui i viaggiatori assistono ai divertenti, e a volte surreali, rituali della campagna elettorale. PISTE DI LETTURA • La satira contro il conformismo • La critica contro il malcostume in politica • Tono satirico e ironico

La logica assurda dei Blu e dei Gialli

Sembra dunque che i cittadini di Eatanswill1, non diversi in questo dai loro colleghi di tante altre piccole città, si considerassero oltremodo importanti, e che pertanto ogni uomo di Eatanswill, consapevole della responsabilità che gli pesava sulle spalle di essere d’esempio ai compatrioti, reputasse suo dovere aderire anima e corpo a uno dei due grandi partiti che dividevano gli elettori, quello dei Blu e quello dei Gialli2. Ne derivava che i Blu non si lasciavano sfuggire alcuna occasione di opporsi ai Gialli, e che i Gialli non ne perdevano alcuna per contrastare i Blu, e quindi ogni volta che gli antagonisti s’incontravano nella sede comunale, alla fiera al mercato, scoppiavano dispute e volavano parole di fuoco. Inutile dire che in seguito a tale insanabile dissidio, a Eatanswill tutto diventava argomento di lotta politica. Se i Gialli avanzavano proposta di inserire un nuovo lucernario nel tetto del mercato coperto, i Blu indicevano un pubblico comizio per denunciare la malvagità di quell’intenzione; se i Blu proponevano la costruzione di una nuova pompa lungo la via principale, i Gialli si ribellavano compatti contro la mostruosità di un progetto del genere. Vi erano i negozi per i Blu e i negozi per i Gialli, le locande per i Blu e quelle per i Gialli e perfino dentro la chiesa vi era la navata riservata ai Blu e quella riservata ai Gialli. Era senza dubbio necessario e indispensabile che ciascuno di quei due potenti partiti avesse un suo proprio organo di stampa, vi erano perciò nella cittadina due quotidiani, la Gazzetta di Eatanswill e l’Indipendente di Eatanswill, il primo dei quali sosteneva il partito dei Blu, mentre il secondo seguiva le direttive dei Gialli.

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[Nella parte omessa, con bonario ma incisivo tono satirico, il narratore chiarisce il fatto che scopo dei due quotidiani è accusarsi e insultarsi reciprocamente per il fatto di pubblicare notizie false o tendenziose: e in effetti, uno dei due giornali presenta le informazioni solo se sono utili ai Gialli, l’altro viceversa. I cittadini trovano nella lettura dell’uno o dell’altro quotidiano motivo di indignazione o di gioia].

1. Eatanswill: cittadina non lontana da Londra, meta di una spedizione del gruppetto (le peregrinazioni descritte ironicamente non si allontanano che per pochi chilometri dalla capitale); essa è in preda ai divertenti, e a volte surreali, rituali della campagna elettorale. Il romanzo è composto da 57 capitoli: il passo qui proposto si trova nel XIII capitolo, il quale è così umoristicamente presentato dall’autore: Qualche notizia su Eatanswill e sulle condizioni

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locali dei partiti nonché sulle elezioni del deputato che dovrà rappresentare in parlamento questa antica, fedele e patriottica cittadina. 2. dei Blu... Gialli: il riferimento riguarda la tradizionale struttura bipartitica del parlamento inglese; quanto qui viene scritto a proposito delle esagerazioni e del malcostume nei conflitti politici, però, non vale certamente solo per quel luogo e per quel tempo.

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La descrizione del comizio

Le reazioni della folla e il commento di Pickwick

Con l’abituale chiaroveggenza e sagacia il signor Pickwick aveva scelto per la sua visita nella cittadina un momento straordinariamente propizio, perché mai si era vista una lotta di tale ampiezza3. Il candidato dei Blu era l’onorevole Samuel Slumkey di Slumkey Hall, mentre il signor Horatio Fizkin di Fizkin Lodge, nei pressi di Eatanswill, si era lasciato convincere dagli amici a rappresentare gli interessi dei Gialli. La Gazzetta avvertiva gli elettori di Eatanswill che su di loro si fissavano, non solo gli occhi di tutta l’Inghilterra, ma anche quelli dell’intero mondo civile4; e l’Indipendente chiedeva in maniera brusca se gli elettori di Eatanswill erano i personaggi di grande levatura che tutti ritenevano che fossero, oppure semplici e vili strumenti, indegni di essere chiamati inglesi e di godere le benedizioni della libertà. Mai, prima d’allora, la città era stata così agitata da contrasti tanto accaniti5. Era il tardo pomeriggio quando il signor Pickwick e i suoi compagni di viaggio, aiutati da Sam, scesero dall’imperiale della diligenza6 di Eatanswill. Grandi bandiere di seta azzurra sventolavano alle finestre della locanda con l’insegna delle Armi della Città, e a ogni telaio di finestra stavano appesi manifesti che a caratteri di scatola informavano come il comitato dell’onorevole Samuel Slumkey sedesse in permanenza in quell’edificio. Nella via si assiepava una folla di oziosi, i quali erano tutti rivolti al balcone da cui un uomo con la voce rauca e con la faccia congestionata teneva la sua arringa in favore del signor Slumkey, ma la forza e la pertinenza dei suoi argomenti rimanevano alquanto danneggiate dall’incessante fragore di quattro grandi tamburi che il comitato del signor Fizkin aveva appostato all’angolo della strada. Vi era però accanto all’oratore un ometto molto vivace che di tanto in tanto si levava il cappello e faceva segno alla folla di applaudire, il che tutti facevano con grandissimo entusiasmo, e siccome il signore dalla faccia congestionata seguitava a parlare, diventando sempre più rosso, pareva che il sistema funzionasse benissimo, certo non meno bene di quanto avrebbe funzionato se qualcuno fosse riuscito ad afferrare le parole di quella allocuzione7. Non appena scesi a terra i pickwickiani8 si trovarono circondati da una sezione laterale della folla di cittadini onesti e indipendenti, i quali lanciarono immediatamente tre assordanti acclamazioni, che subito riprese dal grosso dell’assembramento (come tutti sanno, una folla non deve necessariamente sapere a che cosa stia inneggiando) si gonfiarono fino ad assumere le proporzioni di un tremendo ruggito di trionfo9, il quale ebbe addirittura l’effetto di far ammutolire l’uomo dalla faccia congestionata che si era tanto sgolato dal balcone. – Evviva! – urlò la folla a mo’ di conclusione. – Un altro applauso! – urlò dal balcone il piccolo organizzatore e la folla tornò a gridare come se tutti i singoli componenti fossero forniti di polmoni in ferro battuto rinforzati in acciaio10.

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3. un momento… ampiezza: si dispiega qui tutta la sottile e divertente ironia di Dickens: Pickwick diviene così un individuo straordinariamente sagace e la lotta politica in un minuscolo borgo di campagna una epica battaglia dalla quale sembra debbano dipendere le sorti dell’umanità. 4. su di loro... civile: l’uso dell’iperbole in chiave ironica è qui uno strumento di quella comicità che fa appello all’intelligenza e che, ancora oggi, è detta “umorismo inglese”. 5. Mai... accaniti: la satira di costume dell’autore è rivolta a fenomeni riscontrabili nell’Inghilterra dell’epoca; è però evidente che essa prende di mira il riproporsi della situazione in altri luoghi e tempi. Infatti, i riferimenti – come in questo caso – sono generici e non legati a una specifica realtà storica e sociale. L’intero romanzo, del resto, nel mettere in luce i molteplici difetti umani, presenta analoghe caratteristiche. 6. dall’imperiale della diligenza: l’imperiale è la parte superiore delle carrozze, dove si collocano i bagagli, e che talvolta può anche ospitare passeggeri. Sam è il simpatico ex lustrascarpe Sam Weller, che è stato assunto come domestico da Pickwick e che lo protegge: è una delle figure meglio riuscite del romanzo.

7. allocuzione: importante discorso. Bersaglio della satira di Dickens è qui la folla, quando si schiera in modo irrazionale e per partito preso per l’una o l’altra persona o parte (e non solo in politica). In termini molto simili, l’umorismo di Manzoni presenta il comportamento della folla a Milano nei Promessi sposi, in particolare durante l’assalto ai forni e alla casa del Vicario di Provvisione e nei confronti del demagogo Ferrer (cfr. pag. 708 e segg.). 8. pickwickiani: i compagni di viaggio, appartenenti al Circolo Pickwick. 9. cittadini... trionfo: l’effetto umoristico è qui ottenuto attraverso una sorta di ossimoro. I cittadini, infatti, sono definiti indipendenti ma applaudono e acclamano in modo assordante (ruggito di trionfo è una divertente iperbole) l’oratore, del cui discorso non hanno udito una sola parola. 10. il piccolo... acciaio: l’umorismo qui nasce dall’antitesi fra il piccolo oratore, e le urla della folla, i cui polmoni sono paragonati al ferro battuto [...] rinforzato in acciaio; essa si comporta come se dalle elezioni di Eatanswill dipendessero le sorti dell’intero mondo civile, come precedentemente si è detto.

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– Evviva Slumkey! – ruggirono quei cittadini onesti e indipendenti11. – Evviva Slumkey! – ripeté il signor Pickwick agitando il cappello. 65 – Abbasso Fizkin! – ruggì la folla. – Abbasso! – gridò il signor Pickwick. – Viva! – e seguirono altri tre urli poderosi come il coro di un intero serraglio dopo che l’elefante ha fatto squillare il campanello che annuncia l’arrivo del pranzo per tutti i presenti12. 70 – Chi è Slumkey? – chiese a bassa voce il signor Tupman. – Non so – gli rispose il signor Pickwick senza alzare la voce – zitto, non fate domande. In circostanze come questa è sempre meglio fare quello che fa la folla. – E nel caso che vi siano due folle? – s’informò con interesse il signor Snodgrass. 75 – Gridare con quella più numerosa – gli rispose il signor Pickwick13. E non avrebbe potuto dire di più nemmeno con le parole contenute in chissà quanti volumi. da Il Circolo Pickwick, trad. di Frida Ballini, Mondadori, Milano, 1997

11. ruggirono... indipendenti: la ripetizione voluta di un elemento umoristico ne rafforza la comicità. 12. seguirono… presenti: il serraglio è il luogo in cui si tengono chiusi gli animali del circo: l’allusione riguarda la folla di Eatanswill, che, comportandosi come un branco che segue ciecamente il capo, trasforma in rito animalesco la politica (parola, questa, che, nell’etimo greco, significa invece “arte di buon governo della città”).

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13. Non so... Pickwick: Pickwick spiega ai compagni che, di fronte a una folla eccitata, è pericoloso assumere atteggiamenti di contrapposizione. A conclusioni identiche giungerà infine Renzo, nei Promessi sposi. Va rilevato il fatto che Dickens, per bocca del protagonista, non deride l’una o l’altra parte politica, ma un diffuso atteggiamento di conformismo che può degenerare in intolleranza, dovunque e comunque si manifesti.

inee di analisi testuale Un romanzo anche picaresco Sam Weller, che affianca Samuel Pickwick, è stato spesso paragonato a un moderno e saggio Sancho Panza, che affianca un Don Chisciotte rinsavito, ma pur sempre ingenuo e piuttosto sprovvisto di senso pratico. Il romanzo presenta caratteristiche, oltre che satiriche e umoristiche, anche simili a quelle del genere picaresco. Ognuno dei 57 capitoli del romanzo di Dickens, infatti, può essere considerato a sé stante (anche per le necessità imposte dalla pubblicazione a puntate) e invita alla lettura già con le gustose presentazioni, quali, ad esempio: Vi si dimostra come un attacco di dolori reumatici possa stimolare il talento inventivo (capitolo 17), Storia degli spiriti che portarono via il becchino (capitolo 29) e simili. L’umorismo e la satira L’alternarsi di passi umoristici e satirici nel romanzo coincide, rispettivamente, con il racconto di vicende che narrano disavventure personali o del piccolo gruppo dei personaggi e vicende che riguardano comportamenti sociali (ad esempio, quelli messi in ridicolo nel brano qui riportato). Il sentimentalismo e la ricchezza stilistica Già nel Circolo Pickwick, si rivelano quei tratti di sentimentalismo e moralismo che, apprezzati da alcuni critici, da altri sono ritenuti difetti della narrativa dell’autore, presenti anche nei successivi romanzi. Nonostante alcuni limiti dovuti a una certa frammentarietà, notevoli sono i pregi del testo, che derivano dalla ricchezza e varietà dei temi e dello stile, dal dinamismo narrativo e dalla capacità di superare il dato realistico in direzione dell’assurdo, del grottesco, dell’umoristico e della critica caustica e mordace dei difetti degli individui e della società.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del brano in non più di 20 righe. Analisi e interpretazione 2. Perché, a differenza di altri romanzi di Dickens, Il Circolo Pickwick non può essere definito tipicamente realistico? Quali aspetti del testo proposto lo confermano? 3. Evidenzia le tecniche usate dall’autore per rendere umoristico il passo. 4. Contro quali principali difetti è rivolta la satira dell’autore nel capitolo ambientato a Eatanswill? Approfondimenti 5. Confronta un testo narrativo umoristico a te noto con Il Circolo Pickwick ed evidenzia punti di contatto e differenze, anche di carattere stilistico. 6. Nel passo del Circolo Pickwick ambientato a Eatanswill vengono messe in luce alcune caratteristiche negative della partecipazione alla vita politica. Evidenziale ed esprimi il tuo pensiero in proposito; quindi, riferendoti alle tue conoscenze e alla tua esperienza, precisa se, a tuo avviso, tali difetti sono circoscritti ai tempi e ai luoghi in cui visse l’autore o se invece sono presenti anche nella vita politica dei nostri giorni. Infine, in relazione alla questione, chiarisci ed esprimi la tua personale opinione sul seguente pensiero del filosofo austriaco Karl Popper (1902-1994): È assolutamente sbagliato imputare alla democrazia le carenze politiche di uno Stato democratico. Dobbiamo piuttosto imputarle a noi stessi, cioè ai cittadini dello Stato democratico (da La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996). 7. Concorda con il tuo insegnante una data entro la quale leggerai e presenterai alla classe Il Circolo Pickwick oppure un altro romanzo di Charles Dickens.

Illustrazioni di H. K. Browne per Il Circolo Pickwick. Londra, Mansell Collection.

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Letteratura e cinema OLIVER TWIST Regia: Roman Polanski Anno: 2005 Genere: drammatico/avventura L’argomento Il film è la trasposizione dell’omonimo romanzo di Charles Dickens. L’orfano Oliver, di nove anni, viene riportato all’orfanotrofio, dove fu accolto da neonato, per imparare un mestiere. L’orfanotrofio pensa di sbarazzarsi di lui, cedendolo come apprendista prima a uno spazzacamino, poi a un impresario di pompe funebri. Oliver rimane per qualche tempo con quest’ultimo, ma poi scappa a Londra. Arrivato nella capitale, viene adocchiato da Dodger, un ladruncolo che come tanti altri “lavora” per il vecchio Fagin: Oliver viene così introdotto nella banda dei piccoli truffatori. Un giorno, mentre assiste al furto di due compagni, fugge per evitare l’arresto, ma viene atterrato dal pugno di un passante ed è portato davanti al giudice. Un testimone lo scagiona dall’accusa di furto e il derubato, il ricco signor Brownlow, lo porta a casa con sé. Apparentemente al sicuro, Oliver viene accudito da Brownlow, ma il socio di Fagin, Bill Sykes, lo rapisce e lo riconsegna a Fagin. Insieme a Crackit, un altro furfante, progetta di derubare la casa di Brownlow con l’aiuto di Oliver. La sera del furto, appena arrivati in casa di Brownlow, Twist si mette a urlare. Bill si spaventa e ferisce per sbaglio Oliver. Crackit riporta Oliver da Fagin, che se ne prende cura fino alla guarigione, ma Bill pensa di ucciderlo per impedire che li denunci. Nel frattempo, la fidanzata di Bill, Nancy, che vuole sinceramente bene a Oliver, racconta l’accaduto a Brownlow ed egli informa la polizia. Fagin, avvisato della “soffiata” di Nancy, cerca di scappare, ma alla fine vengono arrestati tutti. Oliver ritorna a vivere con Brownlow e chiede di andare a trovare Fagin in prigione prima che venga giustiziato, per dimostrargli la sua riconoscenza per essersi preso cura di lui. Fagin, che è caduto in uno stato di delirio, riconosce Oliver, ma quando egli lo invita a recitare insieme una preghiera, riprende a farneticare. I buoni sono premiati, i cattivi puniti, ma a Oliver sembra non bastare. Il significato e il linguaggio Classico della letteratura inglese, la storia di Oliver Twist è resa da Polanski con una regia altrettanto classica e lineare. Tra gli attori, bravi ma poco noti al grande pubblico a parte Ben Kingsley irriconoscibile, spicca Oliver molto “sobrio”. Hanno scritto, relativamente alla scelta di questo soggetto, che Polanski, privato da piccolo dei genitori, deportati a causa della loro origine ebraica, ha capito meglio di altri lo smarrimento di Oliver. L’esperienza personale, però, non gli fa enfatizzare i parallelismi biografici, né lo fa precipitare nel sentimentalismo. Oliver è un piccolo eroe che dimostra sempre un sentimento di riconoscenza verso chi lo ha aiutato, anche quando è un personaggio moralmente riprovevole come Fagin.

Il piccolo Oliver con Fagin.

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Edgar Allan Poe e la narrativa dell’orrore

Poe, maestro dell’orrore e “inventore” di generi

La vita e le opere

Teorie che precorrono il Decadentismo

La china della follia

Derivante dal romanzo gotico inglese di fine Settecento il genere dell’orrore produce nell’Ottocento tre dei più celebri romanzi inglesi: Frankenstein (1818) di Mary Shelley, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson (18501894) e, a fine secolo, Dracula (1897) di Bram Stoker (1847-1912). È però a uno statunitense, Edgar Allan Poe (18091849), e al romanzo Le avventure di Gordon Pym (1838) e ai numerosi racconti, che va riservato un posto particolare nella storia del genere, per la capacità di sondare le zone più profonde e inesplorate della psiche umana. Inoltre Poe deve essere considerato, oltre che maestro della narrativa dell’orrore, anche l’inventore e il precursore di generi come il fantastico, il poliziesco – perfezionato a fine secolo Allan Poe in un dagherrotipo dall’inglese Arthur Conan Doyle (1859-1930), che Edgardel fotografo statunitense crea il celebre personaggio di Sherlock Holmes – e il Mathew Brady o di un suo collaboratore. fantascientifico, il cui inventore a tutti gli effetti è però ritenuto il francese Jules Verne (1828-1905). L’opera di Poe, anticipatore del Decadentismo e del Simbolismo novecenteschi, non viene compresa né apprezzata dai contemporanei, soprattutto negli Stati Uniti. Nato a Boston da attori girovaghi, il futuro scrittore perde la giovane madre a due anni e il padre, di origine irlandese e alcolista, lo abbandona, procurandogli quella instabilità emotiva che lo perseguiterà per l’intera esistenza. Secondo una lettura psicologica dei suoi scritti, ciò gli farà inseguire il fantasma della perfetta bellezza – simbolo della figura materna – congiunto all’immagine della morte (in La filosofia della composizione del 1846, Poe scriverà: La morte di una bella donna è senza alcun dubbio il soggetto più poetico che vi sia al mondo), nonché l’ossessiva ricerca di certezze inattaccabili, che influenza il suo pensiero tanto sul piano logico quanto su quello della costruzione poetica e narrativa. Allevato dalla famiglia di John Allan, commerciante di tabacco della Virginia, viene espulso dall’università per gioco d’azzardo. Nel 1830, il nuovo matrimonio di John Allan e la nascita di due gemelli e l’espulsione di Poe dall’Accademia di West Point (1831) inducono l’autore a rompere definitivamente i rapporti con la famiglia d’adozione e a trasferirsi a Baltimora, presso i parenti del vero padre. Qui la nonna provvede al sostentamento con la modesta pensione, la zia vedova Mary Poe Clemm fa da madre al giovane e la figlia di quest’ultima, Virginia, appena tredicenne, diventa segretamente la moglie dello scrittore nel 1835. Fra il 1829 e il 1831, Poe collabora a periodici sui quali inizia a pubblicare i racconti dell’incubo e del mistero che costituiscono i suoi capolavori, insieme a pregevoli pagine di critica letteraria in cui, per la prima volta, viene affermata la piena autonomia dell’arte da ogni considerazione di ordine religioso, morale, politico, filosofico. Anche in ciò, come in altri aspetti, Poe si rivela anticipatore della sensibilità decadente e simbolista che inizierà ad affermarsi in Europa con il francese Charles Baudelaire (1821-1867), ammiratore e traduttore dello statunitense, per culminare nella poesia e nella prosa di fine secolo. Sono anche gli anni in cui appare il “romanzo dell’incubo” intitolato Le avventure di Gordon Pym (1838), mentre nel 1845 – nella celebre lirica Il corvo – Poe sperimenta in poesia suggestive corrispondenze fra contenuto e suono (nevermore – “mai più” – in rima ossessiva con Lenore, il nome di una giovane defunta, simboleggiante la moglie Virginia, attaccata pochi anni prima dalla tubercolosi). Già da tempo dedito in modo incontrollabile all’alcol, Poe, dopo la morte della moglie (1847), rasenta la follia, con attacchi violentissimi di malinconia e angoscia, che nelle opere si traducono in descrizioni di allucinazioni e incubi. Nel 1849, all’uscita di una taverna, viene trovato moribondo in una via di Baltimora, in preda a una crisi di delirium tremens, e muore quarantenne.

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T8 Il crollo della casa Usher da Racconti

Edgar Allan Poe

Il racconto Il crollo della casa Usher viene composto nel 1839 e pubblicato nello stesso anno su una rivista di Filadelfia. Si tratta di uno dei più sconvolgenti viaggi nel terrore e nella profondità del subconscio. Il protagonista, e narratore, si dirige a casa dell’amico Roderick Usher, il quale lo ha pregato di raggiungerlo urgentemente. Roderick è affetto da morboso nervosismo e abita in un antico palazzo; ultimo rappresentante maschile della casata, l’uomo afferma che la scomparsa della sorella, lady Madeline, segnerebbe anche la propria fine. La giovane è affetta da una malattia incurabile che le procura attacchi catalettici. Nei giorni seguenti, la sorella di Usher muore e l’uomo decide di seppellirla in una cripta all’interno dell’edificio. Una settimana dopo, in una notte di tempesta, il narratore viene chiamato da Usher, visibilmente sconvolto, che gli chiede di leggergli un romanzo che lo aiuti a calmarsi. Durante la lettura, il narratore ha in più occasioni l’impressione che rumori e suoni descritti nel romanzo si odano realmente nell’abitazione. Sempre più teso e turbato, l’amico di Roderick Usher giunge al punto in cui il libro evoca un fioco grido. PISTE DI LETTURA • La lettura e la suggestione • Il delirio di Usher • Tono che mira a suscitare terrore

Leggendo la storia del drago, sembra di sentirne l’urlo

Il rumore della caduta dello scudo del cavaliere

E qui di nuovo bruscamente mi arrestai, in preda ad un estremo stupore poiché non v’era possibile dubbio che avessi udito (sebbene non potessi dire da che parte provenisse) un grido fioco e apparentemente lontano, ma aspro e prolungato e affatto1 insolito, riproduzione esattamente corrispondente al suono che la mia fantasia aveva evocato, come urlo innaturale del drago, quale il narratore l’aveva descritto. Turbato, come certamente ero, per questa seconda, straordinaria coincidenza, da mille sensazioni contrastanti, in cui predominavano stupore e terrore estremi, conservai sufficiente presenza di spirito per evitare con una osservazione di turbare la sensibilità nervosa del mio amico. Non ero affatto certo che egli avesse udito quel suono; sebbene, non v’era dubbio, negli ultimi minuti la sua espressione avesse subito una singolare trasformazione. Prima mi stava seduto di fronte; ora aveva gradualmente spostato la sedia, così da star seduto con il volto in direzione della porta; e solo parzialmente potevo scorgerne i lineamenti, sebbene vedessi le sue labbra tremare, come in un segreto mormorio. La testa era caduta ripiegata sul petto, ma sapevo che non dormiva, poiché scorgevo in profilo l’occhio spalancato e immobile. Tuttavia stranamente muoveva il corpo, facendolo ondeggiare, da un fianco all’altro con un moto lieve e tuttavia costante e uniforme. Rapidamente notai tutto ciò, dopo di che ripresi la narrazione di Sir Launcelot:

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“Ed ora il campione, salvatosi dalla furia terribile del dragone, rammentandosi dello scudo metallico, e dello scioglimento dell’incantesimo che su quello gravava, tolse di mezzo la carcassa e procedette valorosamente sul pavimento argenteo del castello, in direzione dello scudo appeso alla parete; e questo senza attenderne il suo arrivo cadde ai suoi piedi sull’argenteo pavimento, con gran- 25 dissimo rumore, e una terribile eco metallica”. Avevo appena pronunciato quelle sillabe che – proprio come se uno scudo metallico fosse pesantemente caduto su di un pavimento argenteo – avvertii nitidamente un’eco cava, e tuttavia soffocata, metallica, risonante. Sconvolto mi levai

1. affatto: decisamente.

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Usher dice di aver sepolto viva la sorella e di sentirne i rumori nella bara

Compare Lady Madeline e si getta sul fratello

Alle spalle del narratore in fuga, crolla la casa degli Usher

in piedi; ma Usher continuò a fare oscillare il suo corpo, quasi imperturbato. Mi precipitai verso la sua sedia. Guardava innanzi a sé, e l’espressione era di una rigidità impietrita. Ma, come collocai la mano sulla spalla, un violento brivido scosse la sua persona: un sorriso tristo gli tremò sul labbro e vidi che parlava, un mormorio sommesso, rapido, insensato, quasi non si accorgesse della mia presenza. Chinato sopra di lui, mi dissetai all’orrore delle sue parole. – Io non lo odo? Sì, lo odo, e non da adesso. Da gran tempo, da molti minuti, molte ore, molti giorni lo odo, e tuttavia non ho osato... (abbiate pietà di me, miserabile sciagurato!) non ho osato parlare! Noi l’abbiamo messa nella tomba ancora viva!2 Non ho detto che i miei sensi sono acuti? Io ti dico che ho sentito i suoi primi deboli movimenti nella cavità della bara. Li ho sentiti, molti, molti giorni or sono, e tuttavia non ho osato parlare! E stanotte, Ethelred... ah, ah! la porta dell’eremita fatta a pezzi, l’urlo del dragone morente, il frastuono dello scudo! Ma no, di’ piuttosto, la bara spezzata, lo stridore dei cardini di ferro del suo carcere, e lei che si dibatte entro la volta coperta di rame della segreta! Oh, dove mai fuggirò? Non sarà lei appunto qui tra poco? Non sta affrettandosi per rimproverarmi la mia precipitazione? Non ho forse udito or ora il suo passo per le scale? Non riconosco forse il greve, orribile battito del suo cuore? Pazzo! – E furioso balzò in piedi, e urlò, sillabando le parole, come se nello sforzo stesse per rendere l’anima: – Pazzo, io ti dico che ora sta là, dietro quella porta! Come se nell’energia sovrumana del suo urlo fosse racchiusa l’efficacia di un incantesimo, gli enormi pannelli antichi che egli indicava, lentamente spalancarono le poderose mascelle di ebano. Era opera dell’impetuoso vento – ma oltre quella porta stava l’altera figura di Lady Madeline di Usher, chiusa nel sudario. C’era sangue sulle vesti bianche, e su tutto il suo corpo emaciato i segni di una disperata lotta. Per un istante, ella sostò, tremando, barcollando, sulla soglia, poi con un gemito sommesso cadde pesantemente sul corpo del fratello, e nei violenti, terminali spasimi dell’agonia, lo trascinò al suolo cadavere, vittima dei terrori che aveva previsto. Da quella stanza, da quella dimora fuggii sconvolto. La tempesta si scatenava in tutto il suo furore mentre ripercorrevo la vecchia strada. D’improvviso una strana luce balenò sul sentiero, e mi volsi a vedere donde poteva provenire una luminosità così inconsueta; giacché alle mie spalle avevo solo la grande casa e le sue ombre. La luminosità veniva da una rossa luna piena al tramonto, che ora splendeva vivida attraverso quella fessura una volta appena visibile, che dal tetto scendeva a zig zag fino alla base. Mentre guardavo, la fessura rapidamente si dilatò, fieramente mulinò il vento, la sfera lunare si svelò tutta alla mia vista – con la mente sconvolta vidi le poderose mura scindersi – vi fu un lungo tumultuoso fragore, quasi fosse la voce di molte acque, e la profonda, torbida pozza ai miei piedi si chiuse, silenziosa e cupa, sulle macerie della “Casa degli Usher”.

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da I racconti, traduz. di G. Manganelli, Einaudi, Torino, 1983

2. Noi... ancora viva!: il riferimento è alla sorella di Usher, Madeline, che i due amici hanno sepolto nella cripta.

Johann Heinrich Füssli, Il silenzio, 1799-1801. Zurigo, Kunsthaus.

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inee di analisi testuale Dal “gotico” al moderno horror Nel testo si intrecciano tutti gli ingredienti tipici della narrativa gotica: il palazzo spettrale, la cripta, il fantasma, l’uragano durante il quale la vicenda precipita. Le caratteristiche del genere divengono però qui perfetta cornice per l’innovazione di Poe, che consiste nello scavo nei meandri dell’inconscio e dei suoi incubi, suscitando terrore nel lettore attraverso l’evocazione di elementi inquietanti. Secondo una lettura psicologica, gli Usher vivono nella loro dimensione “separata”, invischiati in un oscuro, torbido rapporto. Il senso di colpa che devasta Roderick, intrecciato sia al legame morboso con la sorella, sia al tentativo di “liberarsene” con l’azione della sepoltura prematura, riemerge e si materializza. Il significato del crollo A questo punto la vicenda si conclude con una scena spettacolare, il crollo della casa, intesa come scrigno che racchiude il male, e che non a caso sprofonda nell’oscuro stagno che vi si apre davanti (che è – si pensi solo al Cocito dantesco – simbolo dell’abisso infernale più profondo). Notevole è il significato evocativo e conoscitivo che Poe attribuisce alla letteratura. Il suo interesse si concentra sull’essere umano e non sulle questioni sociali. Scrivere ha per Poe la funzione di svelare, far emergere, dunque conoscere gli incubi, le zone più misteriose di noi stessi, allo scopo di limitarne il pericolo, nel tentativo di non finire intrappolati nelle loro acque stagnanti.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il passo proposto de Il crollo della casa Usher in non più di 20 righe. 2. Che legame c’è tra il racconto letto dal narratore a Roderick e la vicenda che nel frattempo sta accadendo? Che funzione ha nel testo questo gioco di specchi? 3. Perché infine la casa crolla? Analisi e interpretazione 4. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Il narratore è onnisciente? Che cosa lo dimostra? Quale funzione ha questa scelta narrativa? b. Quali sono gli elementi che contribuiscono a creare un clima di tensione? c. Quale corrispondenza c’è tra la casa e Roderick Usher? d. Il personaggio di Roderick Usher è uno stereotipo o la sua psicologia è accuratamente delineata? Che cosa, nel testo, lo dimostra? 5. Evidenzia le caratteristiche per cui si può dire che il testo derivi in parte dal genere gotico. Approfondimenti 6. I racconti di Poe e di altri autori che sanno suscitare paura sono stati e sono tuttora apprezzati da molti lettori, anche giovani. Perché, a tuo avviso? 7. Concorda con il tuo insegnante una data entro la quale leggerai, secondo modalità stabilite, e presenterai (sintetizzandolo in un’apposita scheda) un racconto di Poe.

Melville, l’avventura e il simbolismo filosofico

La vita e le opere

Moby Dick, giudicato nel secolo successivo un capolavoro della letteratura mondiale, è un romanzo a sé stante; al momento della sua pubblicazione viene accolto dall’incomprensione del pubblico e dei critici americani, fra cui c’è perfino chi giudica il romanzo il parto di una fantasia malata e folle. Herman Melville nasce nel 1819 a New York. Dopo aver perso il padre e interrotto gli studi, a diciassette anni attraversa per la prima volta l’Atlantico sulla nave Highlander diretta a Liverpool; nei successivi otto anni, compie numerosi viaggi per mare, recandosi in Polinesia e, successivamente, a bordo di una baleniera, alle isole Marchesi, dove trascorre alcuni mesi fra gli indigeni Taipi. Tornato a New York, rielabora la propria esperienza nel suo primo romanzo, Taipi (1846), che scandalizza per la narrazione dell’amore dell’indigena Faiawai, ma ottiene notevole successo. Il pubblico apprezza anche Omoo (1847), in cui pure è presente una denuncia dell’azione degli Europei nei confronti delle popolazioni primitive. Al

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Moby Dick: livelli di lettura e trama

culmine della popolarità, Melville sposa, nel 1847, la figlia di un celebre giudice e, nel 1849, pubblica Mardi, complessa opera in cui si intrecciano metafisica, simbolismo e satira politica e che si rivela un clamoroso fiasco. Pressato da esigenze economiche, lo scrittore torna alla narrativa marinaresca e autobiografica. Nel 1851, a Pittsfield, località isolata nella campagna del Massachusetts, compone il suo capolavoro, l’originale romanzo Moby Dick (1851), accolto freddamente; l’insuccesso si aggrava con le opere successive. Per l’autore è un periodo di miseria, malattia, disgrazie coniugali. Uno dei personaggi più emblematici di questa fase è lo scrivano Bartleby, protagonista del racconto omonimo (1853), che esprime il proprio rifiuto della civiltà attraverso l’espressione “Preferirei di no”, preannunciando il tema dello scacco esistenziale che sarà proprio della grande narrativa del Novecento. Nel 1866, Melville decide infine di accettare un’occupazione alle Dogane di New York. Dopo un lungo silenzio, nel 1891 – anno della sua morte – completa un altro capolavoro, il lungo racconto Billy Budd, marinaio, che, pubblicato postumo nel 1924, contribuirà ad alimentare il mito letterario di Melville nel Novecento. Protagonista dell’opera è il giovane marinaio Billy Budd che, arruolato con la forza nella marina da guerra inglese, viene perseguitato senza alcun motivo dal maestro d’armi Claggart; per una serie di circostanze il protagonista viene infine condannato a morte, ma l’ingiusta esecuzione lo trasforma, agli occhi dell’equipaggio, in martire e in vittima dell’incomprensibile potenza del male. L’interpretazione dell’ultima opera di Herman Melville evidenzia la presenza del tragico senso di impotenza nei confronti delle oscure, incontrollabili forze che dominano l’esistenza. Il tema è centrale anche in Moby Dick. La balena che dà titolo alla narrazione è un simbolo del mistero inafferrabile per la mente e incarnazione del male che l’uomo non può sconfiggere. L’opera principale di Melville ha un duplice livello di lettura: di romanzo avventuroso (non a caso ne sono state ricavate innumerevoli riduzioni per ragazzi) e di complessa, polisemica e modernissima narrazione simbolica e filosofica. La trama del romanzo è apparentemente lineare. Il giovane Ismaele – testimone dei fatti in quanto narratore interno – salpa con la baleniera Pequod, capitanata da Achab (il cui nome è identico a quello di un empio re biblico), uomo terribile, taciturno e misterioso, il cui unico scopo nell’esistenza è vendicarsi di un mostro del mare: la balena bianca Moby Dick, che in un precedente viaggio gli ha troncato una gamba. L’inseguimento del diabolico mostro attraverso gli oceani si protrae per gran parte del romanzo: l’equipaggio, come soggiogato, segue il capitano attraverso innumerevoli avventure, alla ricerca del nemico. Fra i membri dell’equipaggio emergono alcuni personaggi: in particolare, il ramponiere indigeno Tashtego e l’indiano Queequeg (unico vero amico di Ismaele), il quale si costruisce una bara su cui intarsia strani geroglifici. Il viaggio del Pequod si conclude tragicamente, con un ultimo, epico scontro con la balena e la morte di tutto l’equipaggio. Mentre scompaiono, inghiottiti dal mare, la nave, le lance e i marinai, l’ultima tragica apparizione di Achab lo mostra al lettore crocifisso dagli arpioni e dalle corde al dorso della balena, che si inabissa con lui. Solo Ismaele infine sopravviverà per raccontare la storia.

Ritratto di Herman Melville.

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T9 L’avvistamento della balena bianca da Moby Dick

Herman Melville

L’episodio qui di seguito riportato è centrale nel romanzo: situato nella parte finale, narra l’avvistamento di Moby Dick da parte dell’equipaggio, cui farà seguito l’epico e tragico scontro conclusivo tra il mostro e l’implacabile Achab. PISTE DI LETTURA • La furia di Moby Dick • L’esaltazione di Achab • Tono epico

Le reazioni dei marinai alla vista della balena bianca

– La balena, la balena!1 Barra a sopravvento, barra a sopravvento2! Oh, voi tutte, potenze buone dell’aria, tenetemi stretto! Che Starbuck non muoia, se deve morire, in un deliquio da donna. Barra a sopravvento, vi dico... idioti, le mascelle, le mascelle! È questa la fine di tutte le mie ferventi preghiere? delle mie lunghe fedeltà? Oh, Achab, Achab, guarda l’opra tua. Alla via! timoniere, alla via! No, no! Barra a sopravvento di nuovo! Si volta per incontrarci! La sua fronte implacabile viene alla volta d’uno cui il dovere dice che non può allontanarsi. Oh, Dio! stammi accanto ora. – Macché starmi accanto3, stammi sotto: chiunque tu sia che aiuterai ora Stubb; perché anche Stubb non si muove di qua. Ti ghigno in faccia, o balena che ghigni! Chi ha mai aiutato Stubb, o tenuto sveglio Stubb, all’infuori del tuo occhio vigilante? E adesso il povero Stubb va a letto su un materasso che è anche troppo soffice: fosse soltanto riempito di sterpi. Ti ghigno in faccia, balena che ghigni! Badate, sole, luna e stelle! Vi dichiaro assassini del miglior compagnone che abbia mai sfiatato l’anima. Con tutto questo, toccherei ancora con te il bicchiere, se tu soltanto porgessi la tazza! Oh, oh! Oh, oh! balena che ghigni, ma presto ci saranno dei bei glu-glu! Perché non scappi, Achab? Quanto a me, via le scarpe e la giacca; che Stubb muoia in mutande! Una morte muffosa e troppo salata, però: ciliegie! ciliegie! ciliegie! Oh, Flask, averci una ciliegia rossa prima di morire! – Ciliegie4? Vorrei soltanto che fossimo là dove crescono. Oh, Stubb, spero che la mia povera mamma abbia già riscosso la mia parte di paga; altrimenti pochi quattrini le toccheranno più, perché il viaggio è finito. Sulla prora della nave quasi tutti i marinai restavano ora inerti: martelli, pezzi di tavola, lance e ramponi stretti macchinalmente in mano, nell’atto appunto in cui

1. La balena, la balena!: chi urla è il secondo comandante Starbuck, dalla nave. Il lungo inseguimento a Moby Dick si avvia al suo fatale compimento. Il terzo giorno di caccia, dopo scontri tremendi avvenuti nei due precedenti, Achab scende in mare come al solito con la sua scialuppa, insieme a quella comandata dai suoi due ufficiali, Flask e Stubb. Il secondo in comando, Starbuck, rimane al comando della nave, il Pequod. A un primo scontro con la balena queste due ultime lance hanno la peggio e sono costrette a fare ritorno alla nave: solo Achab con i suoi uomini rimane a inseguire la terribile balena bianca. Ma essa, inavvertitamente, cambia direzione e si scaglia, pur ferita, contro il Pequod, tra la sorpresa e il terrore di Achab. A questo punto l’angolatura visiva dell’azione cambia. Non è più Achab a guardare la scena, ma gli uomini che sono sulla nave. È Starbuck, il vice comandante, il primo a parlare, e qui si manifesta un’innovazione tipica del romanzo: Starbuck dà ordini all’equipaggio con un linguaggio pratico e concreto

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ma, nel contempo, dà voce a pensieri del tutto diversi (È questa la fine di tutte le mie ferventi preghiere? [...] Oh Achab, Achab, guarda l’opra tua). Melville non rispetta le regole della narrazione: è infatti inverosimile che il narratore interno Ismaele, che si trova sulla lancia con Achab, possa udire le parole dei membri dell’equipaggio rimasti sulla nave. 2. barra a sopravvento: timone dalla parte da cui soffia il vento. 3. Macché starmi accanto: ora tocca all’ufficiale Stubb, nel suo colorito e immaginifico linguaggio, dare l’addio alla vita. 4. Ciliegie: le ultime parole dell’altro ufficiale, Flask, sono invece brevi e concrete: si concludono con l’espressione il viaggio è finito. In questo modo, stilisticamente molto innovativo, con grandissima efficacia, Melville, sostituendosi improvvisamente al narratore interno Ismaele, dà il congedo a tre dei personaggi più interessanti del suo romanzo.

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L’attacco furioso di Moby Dick al Pequod

Il lamento di Achab sulla lancia

Il capitano è trascinato in mare dal rampone

La balena bianca affonda il Pequod

erano accorsi dalle loro occupazioni; e tutti gli occhi affascinati erano fissi alla balena5 che, vibrando stranamente da parte a parte la testa predestinata, si cacciava innanzi, nella corsa, un largo nastro di schiuma che s’allargava a semicerchio. Retribuzione, pronta vendetta e malvagità eterna si mostravano in tutto il suo aspetto e, ad onta di tutto ciò che i mortali potessero fare, il solido contrafforte bianco della sua fronte picchiò sulla destra della prora della nave, tanto che uomini e bagli balenarono. Qualcuno cadde a toccare la faccia per terra. Come pomi d’albero spostati, le teste dei ramponieri traballarono su quei colli taurini. Attraverso lo squarcio udirono l’acqua rovesciarsi, come torrenti montani in un burrone. – La nave! Il carro funebre!... il secondo carro funebre!6 – gridò Achab dalla lancia. – Il suo legno non poteva essere che americano! Tuffandosi sotto la nave affondante, la balena percorse la chiglia che rabbrividì, ma, voltandosi sott’acqua, si precipitò di nuovo rapida alla superficie, al largo dell’altro fianco di prora; e, a poche jarde dalla lancia d’Achab, qui per un momento stette calma. – Io volterò la schiena al sole. Oè, Tashtego! Fammi sentire il tuo martello.7 Oh voi, mie tre guglie indomabili, tu chiglia intatta, oh scafo, maltrattato soltanto da un dio! tu, sicura coperta, tu, barra superba, tu, prora dritta al cielo: nave gloriosa fino alla morte! devi dunque perire, e senza di me? Mi è tolto anche l’ultimo caro orgoglio del più meschino capitano naufrago? Oh, una morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia maggiore grandezza sta nel mio maggior dolore. Olà, olà! dai più lontani confini rovesciatevi ora quaggiù, flutti audaci di tutta la mia vita trascorsa, e ammucchiatevi in questo grande cavallone della mia morte! A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci; fino all’ultimo lotto con te; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio respiro. Che ogni bara e ogni carro affondi in un pozzo comune! e poiché queste cose non sono per me, che io ti trascini in pezzi, dandoti la caccia, benché legato a te, balena dannata! Così! Lancio il lancione! Il rampone venne scagliato; la balena colpita filò innanzi, e con velocità da far faville la lenza scorse nella scanalatura: s’imbrogliò. Achab si piegò a disimpegnarla, la disimpegnò; ma la volta volante lo prese intorno al collo e, senza una parola, come i Muti turchi strangolano la vittima, venne strappato dalla lancia prima che l’equipaggio si accorgesse che non c’era più. L’istante dopo, la pesante gassa8 impiombata in cima al cavo volò fuori della tinozza vuota, abbatté un rematore e, staffilando il mare, scomparve nei gorghi. Per un momento, l’equipaggio incantato della lancia stette immobile, poi si volse. – La nave? Gran Dio, dov’è la nave? – Presto, attraverso un mezzo fosco e confuso, ne videro il fantasma inclinato che svaniva, come nei vapori della Fata

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5. alla balena: l’ultima scena prima della distruzione del Pequod è osservata dalla parte dell’equipaggio, colto nell’estremo, sospeso istante prima dell’impatto con Moby Dick che si dirige contro la nave. La balena è qui esplicitamente presentata come simbolo (Retribuzione, pronta vendetta e malvagità eterna si mostravano in tutto il suo aspetto). Nell’epico momento della catastrofe imminente, il lessico intreccia espressioni poetiche (balenarono, ossia “biancheggiarono come lampi”, nella luce abbagliante dello schianto) a termini tecnici marinareschi (quali bagli e ramponieri, ossia “le parti dello scafo” e “i marinai addetti agli arpioni”). 6. La nave!… carro funebre!: il punto di vista della narrazione torna ad Achab, che si trova con Ismaele sulla lancia, e alla sua visione quasi profetica dell’intera vicenda. Il tutto viene reso con una tecnica di descrizione visiva che quasi anticipa il montaggio cinematografico. Qui Achab si riferisce alla profezia che gli ha fatto, prima della caccia finale a Moby Dick, Fedallah, un misterioso Parsi (appartenente cioè a un popolo originario dell’antica Persia) che faceva parte dell’equipaggio personale della sua lancia. L’uomo gli ha profetizzato che egli stesso sarebbe morto per primo, e che

sarebbe riapparso prima della fine di Achab stesso, facendo inoltre riferimento a due carri funebri. In effetti, dopo aver distrutto le altre due lance, Moby Dick era riapparsa in superficie, mostrando sul suo fianco, martoriato da vecchi ramponi e lenze del giorno prima, il cadavere imbrigliato del Parsi, con gli occhi fissi su Achab: la macabra scena rappresentava dunque la riapparizione e il primo carro funebre. Il secondo carro funebre è la nave squarciata: il Pequod stesso, cui ora allude Achab, consapevole di dover morire. 7. Oè, Tashtego!... martello: Tashtego, un indiano del Capo Allegro, è uno dei ramponieri indigeni imbarcati sul Pequod; gli altri due sono Queequeg e Daggoo. Nel momento in cui le altre lance danneggiate hanno fatto ritorno sul Pequod, Achab ha ordinato a Tashtego di salire sull’albero di maestra e di inchiodare una nuova bandiera rossa mostravento, essendo l’altra volata via. Moby Dick è nelle vicinanze della lancia del capitano e il Pequod intanto affonda, suscitando il lamento di Achab lontano, che non può scendere nei flutti con la sua nave. 8. gassa: anello di ferro. Achab ha colpito con l’arpione (lancione) la balena, ma viene trascinato via da essa, impigliato nella fune.

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Morgana9, con soltanto gli alberetti fuori acqua; mentre fissi, per infatuazione o fedeltà o destino, ai posatoi un tempo tanto alti, i ramponieri pagani10 mantenevano le vedette affondanti nel mare. E allora cerchi concentrici afferrarono anche la lancia solitaria e tutto l’equipaggio e ogni remo fluttuante e ogni palo e, facendo girare le cose vive e quelle inanimate, tutto intorno in un vortice, trascinarono anche il più piccolo avanzo del Pequod fuori vista. Ma mentre gli ultimi rovesci si mescolavano sul capo sommerso dell’indiano alla testa di maestro, lasciando ancora visibili alcuni pollici del bastone eretto, insieme a lunghe jarde sventolanti della bandiera che ondeggiava tranquilla con ironico accordo alle onde distruggitrici che quasi la toccavano; in quell’istante un braccio rosso e un martello sorsero tesi all’indietro, nell’aria libera, in atto d’inchiodare ancora la bandiera al bastone affondante. Un falco del cielo che aveva beffardamente seguito il pomo di maestra giù dalla sua naturale dimora tra le stelle, dando beccate alla bandiera e molestando Tashtego, cacciò per caso ora la sua larga ala palpitante tra il legno e il martello; e contemporaneamente sentendo quel brivido etereo, il selvaggio sommerso là sotto, tenne, nel suo Il falco anelito di morte, il martello rigidamente piantato; in modo che l’uccello celeste, e la nave con strida d’arcangelo, col rostro imperiale teso in alto e il corpo prigioniero avvolto nella bandiera di Achab, andò a fondo con la nave, che, come Satana, non volle scendere all’inferno finché non ebbe trascinata con sé, per farsene elmo, una parte vivente del cielo. Piccoli uccelli volarono ora, strillando, sull’abisso ancora aperto; un tetro frangente bianco si sbatté contro gli orli in pendio; poi tutto ricadde, e il gran sudario del mare tornò a stendersi come si stendeva cinquemila anni fa11.

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da Moby Dick o la Balena, traduz. di C. Pavese, Frassinelli, Torino, 1941 9. Fata Morgana: si tratta di un miraggio causato dalla rifrazione ottica derivante dagli strati dell’atmosfera in particolari condizioni di temperatura elevata. La Fata Morgana, originariamente, è però un personaggio dei poemi cavallereschi del medievale ciclo bretone, che ingannava gli eroi con i propri incantesimi basati anche sull’uso di vapori magici. 10. i ramponieri pagani: Tashtego, Queequeg e Daggoo si sono disposti di vedetta sui posatoi, i punti più alti della nave,

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e ora sono gli unici ad affiorare dalle acque. Sono detti pagani in quanto provengono da terre primitive e non sono cristiani. 11. Un falco... anni fa: la scena del naufragio e della scomparsa dell’ultimo marinaio, Tashtego, insieme al falco (definito arcangelo) avvolto nella bandiera della nave di Achab, assume, anche attraverso il riferimento al male (Satana), una valenza profondamente simbolica, che rinvia, attraverso la lontananza nel tempo, a eventi biblici.

inee di analisi testuale Opera filosofica e allegorica In Moby Dick la narrazione si alterna a digressioni di carattere filosofico: l’opera mostra una seconda chiave di lettura che si potrebbe definire simbolica o allegorica, il cui senso non è ancora stato interamente decodificato dalla critica moderna. La lotta fra Achab e la balena bianca sottintende una concezione tragica della realtà: la balena è forse il male che, infine, non viene sconfitto. Achab non è l’eroe positivo che spesso la narrativa ottocentesca propone, ma è una figura ambigua, in cui bene e male si mescolano e che è destinata alla sconfitta. I personaggi e le interpretazioni L’unico sopravvissuto, l’io narrante Ismaele, figura minore – impotente di fronte alle grandiose e oscure forze che dominano la realtà e la vita e all’ambiguità della linea di demarcazione fra bene e male – è forse l’autore stesso. Altri hanno visto in Ismaele l’antieroe, l’uomo senza risposte che viaggia nel tentativo di trovarne. In Achab viene invece visto l’essere demoniaco, l’uomo ormai privo di ragione, l’essere superbo che invano tenta di dominare la natura, il mistero o il soprannaturale. Nella balena, infine, c’è chi ha voluto identificare il simbolo della natura incontrollabile, o l’allegoria di ciò che è oltre l’uomo, o, ancora, di qualcosa che nel suo misterioso biancore rimanda al regno della morte o al mistero insondabile. I significati velati nel romanzo avventuroso Moby Dick è comunque un’opera sfuggente, proprio come la sua contorta struttura, che, sotto il velo del romanzo avventuroso, cela profonde allegorie filosofiche, attingendo ai grandi modelli della cultura occidentale: dalla Bibbia a Shakespeare, da Dante ai grandi scrittori romantici. Melville usa l’avventura per proporre significati polisemici di alto livello e, attraverso il simbolo, narra l’impossibilità di conoscere e dominare la natura (il mare, la balena) e la mente umana (la follia di Achab). Sul piano narrativo e stilistico, il romanzo propone innovazioni che saranno assunte a modello per l’intero secolo successivo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano in non più di 20 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta): a. Quale peso hanno, a tuo parere, le vicende biografiche dell’autore sui temi sviluppati nella sua opera? b. Chi è il narratore nel testo e quali passi lo dimostrano? c. Che rapporto esiste fra Ismaele, Achab e Moby Dick? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta): a. Quali particolari caratteristiche presenta il modo di narrare di Melville? b. Quali interpretazioni si possono dare della figura di Moby Dick? c. Il narratore è onnisciente? Quali elementi del passo lo rivelano? d. Quali sono gli indizi testuali che fanno ritenere allegorico e non solo avventuroso il romanzo e quali sono le possibili principali simbologie che la vicenda cela? Approfondimenti 4. Scrivi (max tre colonne di metà foglio protocollo), intitolandolo opportunamente, un saggio breve sul seguente argomento: Achab e Moby Dick: personaggi di un romanzo d’avventura ma, soprattutto, figure simboliche. Fai riferimento a materiali e documenti proposti nelle pagine precedenti e ai passi critici riportati di seguito, ed, eventualmente, integrali con altri da te reperiti, indicandone le fonti. [Achab] insegue Moby Dick per sete di vendetta, è chiaro, ma, come succede in ogni infatuazione d’odio, la brama di distruggere appare quasi una brama di possedere, di conoscere, e nella sua espressione, nel suo sfogo, non è sempre distinguibile da questa. Se poi ricordiamo che Moby Dick assomma in sé la quintessenza misteriosa dell’orrore e del male dell’universo [...] avremo senz’altro capito come le tante didascalie digressive, raziocinanti e scientifiche, non si contrappongano al reverente timor sacro puritano, ma piuttosto l’avvolgano in un lucido alone di sforzo, d’indagine, di furore conoscitivo [...]. Elogeremo a questo punto la finezza di cui diede prova Melville lasciando indefinito il senso della sua allegoria. I commentatori hanno potuto sbizzarrirsi a vedere simboleggiati nel mostro infiniti concetti. Ciò è indifferente. La ricchezza di una favola sta nella capacità ch’essa possiede di simboleggiare il maggior numero di esperienze da Cesare Pavese, Moby Dick o la Balena, Frassinelli, Torino, 1941

[Achab] vorrebbe [come l’Ulisse dantesco] fare esperienza “di retro al sol, del mondo sanza gente”; penetrare in un nuovo universo, sconosciuto, impersonale, non più umano, al di là del bene e del male [...]. Nel suo sforzo di andare “di là”[...], nel rappresentare la sua preordinata parte di esecutore di una distruttiva necessità suicida, Achab riassume il repertorio dei gesti morali e drammatici che erano stati creati dai suoi antenati, i progenitori e gli eroi dell’immaginazione occidentale, nel loro attuarne, una dopo l’altra, le possibilità drammatiche e morali. Edipo prima di lui si era accanito davanti al segreto della Sfinge, i Titani avevano assunto il classico atteggiamento di sfida, l’Ulisse di Dante aveva concepito il sogno del mondo senza gente di là del sole da Stanley Geist, Dizionario letterario, vol. VIII, Bompiani, Milano, 1964

Oggi nessuno può più fingere di ignorare come, a parecchie tese sotto la superficie del racconto di avventure, in Melville c’è lo studio complesso dell’eterna lotta dell’uomo contro una natura indifferente e implacabile, e contro il male che ognuno si porta dentro, nascosto in fondo all’anima da Richard Freedman, Il romanzo dal 1740 ad oggi, Mondadori, Milano, 1978

5. Concorda con il tuo insegnante una data entro la quale leggerai e presenterai (sintetizzandolo in un’apposita scheda) il romanzo Moby Dick di Melville.

Scena di caccia alla balena in una stampa del XIX secolo. Particolare.

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Tolstoj e il romanzo realistico a tesi

Guerra e pace, romanzo realistico a tesi

La trama

Nato a Jasnaja Poljana, in Russia, nel 1828, in una famiglia nobile, Lev Nikolaevicˇ Tolstoj, rimasto presto orfano, ha una giovinezza disordinata, non consegue la laurea e nel 1852 è nominato allievo ufficiale di cavalleria. Partecipa alla guerra di Crimea (1855) e poi si congeda per tornare nelle sue proprietà a Jasnaja Poljana, dove offre l’emancipazione dalla servitù ai suoi contadini. Alterna in seguito viaggi in Europa e nel 1862 sposa Sofja Bers, dalla quale avrà tredici figli. Nello stesso anno, inizia la pubblicazione della rivista “Jasnaja Poljana” e intraprende la svolta che farà di lui il primo apostolo del movimento nonviolento, che nel Novecento avrà fra i più rilevanti esponenti Gandhi e Martin Luther King. Tolstoj svolge una intensa propaganda pacifista, rinuncia alla caccia, al fumo e all’alcol, adotta una dieta vegetariana e si dedica per lungo tempo al lavoro manuale, assumendo una posizione di condanna nei confronti di ogni guerra. Nel 1910, ottantenne e malato, Tolstoj sale su un treno e si allontana nel gelido inverno russo: muore alla stazione di Astapovo. Il suo capolavoro è il romanzo Guerra e pace (ultimato nel 1869, sulla traccia di una prima redazione del 1864, intitolata Il Milleottocentocinque); numerose le altre opere narrative, tra cui Anna Karenina e Resurrezione. Guerra e pace, ambientato fra il 1805 e il 1820, – con caratteristiche realistiche su sfondo storico – è un grande affresco della vita e della società russa nell’età napoleonica: le forze che rappresentano la natura si identificano con i personaggi che incarnano il temperamento del popolo, dal mite contadino Karataev al generale Kutúzov, a Nataša Rostòva; la sconfitta di Napoleone nella campagna di Russia (1812) è presentata come conseguenza morale dell’orgoglio e della volontà di sopraffazione che animano l’esercito francese. I due protagonisti, Pierre Bezùchov e Andréj Bolkonskij, sono personaggi problematici, ma trovano la pace rinunciando a se stessi per identificarsi con il popolo e i suoi valori morali: al contrario di quanto sosterrà l’arte decadente, per Tolstoj vi è infatti coincidenza fra bontà e bellezza, fra i valori religiosi e morali e l’arte. Guerra e pace è anche un’opera narrativa a tesi, perché l’autore tende esplicitamente a dimostrare alcune tesi fondamentali nel suo pensiero. Il romanzo narra la storia di due famiglie dell’aristocrazia russa, i Bolkonskij e i Rostòv, durante gli anni delle guerre napoleoniche, dalla disfatta della coalizione antinapoleonica ad Austerlitz in Prussia (1805) sino all’invasione della Russia da parte di Napoleone e alla sconfitta del suo esercito (1812). In questo quadro le vicende delle famiglie si intrecciano con la storia di un popolo e con gli eterni dilemmi dell’uomo: l’amore, la morte, il dolore, la speranza. I personaggi di maggiore rilievo sono descritti nel ricevimento all’inizio dell’azione: il conte Pierre Bezùchov, sensibile e timido, appena ritornato da un soggiorno di istruzione all’estero; il vecchio principe ed ex generale Bolkonskij, che vive con la figlia Marja, ormai non più giovane ma di grande bellezza spirituale; il principe Andréj Bolkonskij, fratello di Marja, forte, intelligente, ma deluso dall’esistenza; la giovane e vitale Nataša Rostòva, ideale di purezza, bellezza e amore per la vita; suo fratello Nicolàj Rostòv, dalla natura spontanea e genuina, il cui sogno è diventare un buon marito e padre; il bellimbusto Anatole Kuràghin. Lo scoppio della guerra sconvolge l’equilibrio dei personaggi, i loro rapporti e la loro vita. Nelle battaglie, a Napoleone si contrappone il generale Kutùzov, personaggio storicamente esistito. Pierre Bezùchov resta in città e, improvvisamente diventato oggetto di stima dopo il suo arricchimento, si unisce alla bella Hélène Kuràghin, che si rivela però infedele, immorale e corrotta. Andréj Bolkonskij partecipa in Prussia alla battaglia di Austerlitz, si comporta eroicamente e, ferito, ottiene una licenza. Quella stessa sera, sua moglie muore, dando alla luce un figlio. Il principe precipita in una condizione angosciosa, finché, a un ballo, si innamora di Nataša Rostòva. I due decidono di sposarsi e Andréj riparte per la guerra. Nell’attesa Nataša, ingenua e scoraggiata, si lascia abbagliare da Anatole Kuràghin, rompendo il fidanzamento con Andréj. Nella battaglia di Borodino sulla Moscova, Bolkonskij, gravemente ferito, riconosce Kuràghin – cui è stata amputata una gamba – e lo perdona. Durante la grande ritirata che precede l’incendio di Mosca, Andréj incontra di nuovo Nataša, che

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si prende amorevolmente cura di lui finché muore per la ferita infetta. Pierre Bezùchov, intanto, rimasto a Mosca per uccidere Napoleone, viene fatto prigioniero dai Francesi che occupano la città. In prigione, incontra il contadinosoldato Platon Karataev, che gli indica la via del pacifismo cristiano. Nell’ultima parte dell’opera, dopo la sconfitta francese, Pierre incontra Nataša a Mosca. Hélène è nel frattempo morta e il giovane trova il coraggio di dichiararle il suo amore. Nataša accetta, mentre il fratello Nicolàj Rostòv sposa Marja Bolkonskij.

T10 Il principe Andréj alla battaglia di Austerlitz da Guerra e pace

Lev Tolstoj

Il romanzo di Tolstoj è suddiviso in quattro Libri, ciascuno composto da più Parti, e in un Epilogo, composto da due Parti, la seconda delle quali rappresenta una sorta di introduzione posticipata al romanzo, ed è un testo saggistico. Il brano si riferisce alla prima parte, in cui il principe Andréj Bolkonskij partecipa ad Austerlitz in Prussia alla grande “battaglia dei tre imperatori”, che vedrà la sconfitta della coalizione degli austro-russi di Francesco I d’Asburgo e dello zar Alessandro I, e la vittoria di Napoleone. Il passo riporta il momento dello sfondamento improvviso delle linee austro-russe da parte delle truppe francesi: è coinvolto il generale Kutúzov e il suo stato maggiore, del quale fa parte il principe Andréj. PISTE DI LETTURA • La tragedia e le violenze della guerra • La baldanza giovanile di Andréj • Dal tono epico a quello elegiaco

Lo stato maggiore austro-russo avvista i Francesi

Kutúzov1, accompagnato dai suoi aiutanti, se ne andò al passo dietro ai carabinieri. Dopo aver percorso mezzo miglio in coda alla colonna, si fermò presso una casa solitaria e abbandonata (forse era stata un’osteria) di dove partivano due strade. Tutt’e due le strade scendevano dall’altura e su tutt’e due marciavano truppe. La nebbia cominciava a dissiparsi, e a due miglia di distanza già si 5 distinguevano confusamente le truppe nemiche sulle alture opposte. Giù, a sinistra, la fucileria diventava più intensa. Kutúzov si fermò, discorrendo con un generale austriaco2. Il principe Andréj3, che stava un po’ indietro, li osservava e, volendo chiedere il cannocchiale a un aiutante, si rivolse a costui. – Guardate, guardate, – disse l’aiutante, fissando non le truppe lontane, ma il 10 fianco del monte in basso, davanti a sé. – Sono i francesi4. I due generali e gli aiutanti si misero ad osservare col cannocchiale, strappandoselo l’uno all’altro. Tutti i visi a un tratto mutarono e tutti espressero lo sgomento. Si credeva che i francesi fossero a due miglia da noi ed essi ci appariva15 no a un tratto, inaspettatamente, davanti. – È il nemico?... No!... Sì, guardate, è lui!... di sicuro!... Come mai?... – si udirono voci intorno. II principe Andréj, ad occhio nudo, vide giù, a destra, una folta colonna di francesi che saliva contro al reggimento di Apsceròn5, non più di cinquecento passi lontano dal punto dove stava Kutúzov.

1. Kutúzov: Michail Illarionovicˇ Golenišcˇev Kutùzov (17451813), generale in capo dell’esercito russo. In questo episodio, egli comanda le truppe russe nella battaglia di Austerlitz (1805) fra gli Austro-russi e i Francesi di Napoleone. 2. con un generale austriaco: le truppe austriache e russe sono alleate (la battaglia di Austerlitz fu perciò detta anche “dei tre imperatori”, vale a dire, oltre a Napoleone, lo

zar Alessandro I Romanov di Russia e l’imperatore Francesco I degli Asburgo d’Austria). 3. Il principe Andréj: si tratta di uno dei protagonisti del romanzo, il principe Andréj Bolkonskij. 4. i francesi: l’esercito nemico di Napoleone Bonaparte. 5. reggimento di Apsceròn: uno dei reggimenti di fanteria pesante dell’esercito russo.

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I Russi sono travolti dall’impeto nemico

Il generale Kutúzov cerca di frenare la rotta e viene ferito

Il principe Andréj si lancia verso il nemico

“Eccolo, è giunto il momento decisivo! È venuta la mia volta” pensò il principe Andréj e, spronando il cavallo, si avvicinò a Kutúzov. – Bisogna fermare il reggimento di Apsceròn, Eccellenza! – gridò. Ma in quel medesimo istante tutto si coprì di fumo, la fucileria echeggiò vicina, e una voce ingenuamente spaventata gridò a due passi dal principe Andréj: – Eh fratelli è finita! – E parve che quella voce fosse un comando. Udendo quella voce tutti si misero a scappare. Una folla confusa, che andava sempre crescendo, fuggiva indietro verso il posto dove cinque minuti prima le truppe erano sfilate davanti agl’imperatori6. Non soltanto era difficile arrestare quella folla, ma era impossibile non lasciarsi trascinare indietro insieme con essa. Bolkonskij cercava solo di non rimanere separato dalla folla e si guardava intorno perplesso, incapace di capire ciò che accadeva davanti a lui. Nesvitskij7, con una faccia rabbiosa, irriconoscibile, gridava a Kutúzov che, se non se ne fosse andato subito, sarebbe stato certamente fatto prigioniero. Kutúzov rimaneva immobile e, senza rispondere, tirò fuori il fazzoletto. Dalla guancia gli colava sangue. Il principe Andréj si aprí un varco fino a lui. – Siete ferito? – domandò reprimendo a stento il tremito della mascella inferiore. – La ferita non è qui, ma ecco dov’è! – disse Kutúzov, premendo il fazzoletto sulla guancia ferita e indicando i fuggiaschi. – Fermateli! – gridò, e nello stesso momento, convincendosi che era impossibile fermarli, frustò il cavallo e andò verso la destra. Di nuovo la folla irrompente di fuggiaschi lo afferrò e lo trascinò indietro. Le truppe fuggivano in una massa così compatta che una volta capitati in mezzo a quella folla, era difficile uscirne. Chi gridava: – Muoviti! Perché ti fermi? – chi, voltandosi, sparava in aria, chi batteva perfino il cavallo che montava Kutúzov. Strappandosi con un grandissimo sforzo da quella fiumana di gente che andava a sinistra, Kutúzov, col suo seguito, diminuito di più della metà, corse verso il rumore dei vicini tiri di cannone. Districatosi dalla folla dei fuggiaschi, il principe Andréj, cercando di non restare indietro a Kutúzov, vide sulla china della montagna, nel fumo, una batteria russa che tirava ancora e dei francesi che correvano ad essa. Un poco più in su stava la fanteria russa, che non si muoveva né in avanti, per andare a soccorrere la batteria, né indietro nella stessa direzione dei fuggiaschi. Un generale a cavallo si staccò da quella massa di fanteria e si avvicinò a Kutùzov. Del seguito di Kutúzov restavano soltanto quattro persone. Tutti erano pallidi e si guardavano tra loro in silenzio. – Fermate quelle canaglie! – gridò affannosamente Kutúzov al comandante del reggimento, indicando i fuggiaschi; ma in quello stesso istante, come a punizione di quelle parole, le palle fischiando volarono come uno stormo di uccellini sul reggimento e sul seguito di Kutúzov. I francesi attaccavano la batteria e, vedendo Kutúzov, avevano tirato su di lui. A quella scarica, il comandante del reggimento si portò le mani a una gamba; alcuni soldati caddero e il portabandiera lasciò cader di mano il vessillo8: questo vacillò e cadde, trattenuto dai fucili dei soldati vicini. I soldati, senza averne l’ordine, cominciarono a sparare. – Oooh! – ruggiva Kutúzov, con un’espressione disperata, e si guardò intorno. – Bolkonskij, – mormorò con voce tremante per la consapevolezza della sua senile impotenza9, – Bolkonskij, – mormorò, mostrando il battaglione in rotta e il nemico, – che è mai questo? Ma prima che avesse finito di pronunziare queste parole, il principe Andréj, sentendosi salire in gola delle lacrime di vergogna e di rabbia, già era saltato giù da cavallo e correva verso la bandiera. – Ragazzi, avanti! – gridò con voce giovanilmente acuta. “Eccoci!” pensava il principe Andréj, afferrando l’asta della bandiera e sentendo con voluttà il fischio delle palle, evidentemente dirette contro di lui. Alcuni soldati caddero.

6. imperatori: gli imperatori alleati contro Napoleone, ossia lo zar Alessandro I e l’imperatore Francesco I d’Austria. 7. Nesvitskij: è un generale russo.

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8. vessillo: bandiera. In una battaglia, è il simbolo dell’intero esercito. 9. senile impotenza: impossibilità di combattere come un giovane, dovuta alla vecchiaia.

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Andréj è colpito e cade con gli occhi rivolti al cielo

– Urrà! – gridò il principe Andréj, tenendo a stento fra le mani la pesante bandiera, e corse avanti, sicuro che tutto il battaglione gli sarebbe corso dietro. Difatti, soltanto per pochi passi egli procedette solo10. Un soldato si mosse, poi un altro, e tutto il battaglione al grido di “urrà!” si mise a correre avanti e l’oltrepassò. Un sottufficiale del battaglione, correndo, afferrò la bandiera che, per il peso vacillava fra le mani del principe Andréj, ma fu subito ucciso. Il principe Andréj afferrò di nuovo la bandiera e, trascinandola per l’asta, seguitò a correre insieme al battaglione. Egli vedeva innanzi a sé i nostri artiglieri, dei quali alcuni si battevano, altri abbandonavano i cannoni e correvano verso di lui; vedeva anche i soldati della fanteria francese che prendevano i cavalli degli artiglieri e voltavano i cannoni. Il principe Andréj col battaglione era già a venti passi dai pezzi. Si sentiva sul capo il fischio incessante delle palle, e senza tregua, a destra e a sinistra, vedeva soldati che cadevano gemendo. Ma egli non li guardava: fissava soltanto ciò che avveniva davanti a lui, dov’era la batteria. Vedeva già chiaramente la figura di un artigliere dai capelli rossi, col chepì11 gettato da una parte, che tirava a sé uno scovolo12, mentre un soldato francese lo tirava in senso contrario. Il principe Andréj già vedeva nettamente l’espressione smarrita e insieme rabbiosa di quei due uomini, che di certo non capivano quel che facevano. “Che cosa fanno? – pensò il principe Andréj, guardardoli: – Perché l’artigliere dai capelli rossi non scappa, visto che non ha armi? Perché il francese non l’uccide? Appena vorrà fuggire, il francese si ricorderà di avere un’arma e l’ucciderà”. Difatti, un altro francese, con un fucile puntato, accorse verso i due che lottavano, e già stava per decidersi la sorte dell’artigliere dai capelli rossi, che ancora non capiva ciò che lo attendeva e si era trionfalmente impadronito dello scovolo. Ma il principe Andréj non vide come finì la cosa. Gli parve che uno dei soldati più vicini, con tutta la forza del suo braccio, lo colpisse sul capo con un grosso bastone. Non sentì molto dolore, ma piuttosto dispetto, perché quel dolore lo distraeva e gl’impediva di vedere quello che stava guardando. “Che cos’è? sto cadendo? le gambe mi vacillano”, pensò, e cadde supino13. Aprì gli occhi, sperando di vedere come fosse finita la lotta dei francesi con gli artiglieri e col desiderio di sapere se l’artigliere dai capelli rossi fosse stato ucciso o no, se i cannoni fossero stati presi o salvati. Ma non vedeva nulla. Sopra di lui non c’era più nulla, se non il cielo: un cielo alto, non sereno, ma pure infinitamente alto, con nuvole grige che vi strisciavano sopra dolcemente. “Che silenzio! che quiete! che solennità! Non è più come quando correvo, – pensò il principe Andréj, – non è più come quando correvamo gridando e battendoci; non è più come quando l’artigliere e il francese si strappavano l’un l’altro lo scovolo con visi rabbiosi e spaventati; non è così che le nuvole scorrono su questo cielo alto, infinito. Come non lo vedevo prima, questo cielo così alto? E come sono felice di averlo finalmente conosciuto. Sì! Tutto è vuoto, tutto è inganno, fuori che questo cielo infinito. Non c’è niente, niente all’infuori di esso. Ma anch’esso non esiste, non c’è nulla all’infuori del silenzio e della tranquillità. E Dio ne sia lodato!...14”

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da Guerra e pace, trad. di E. Carafa d’Andria e L. Ginzburg, Einaudi, Torino, 1990

10. soltanto... solo: l’eroico gesto di Bolkonskij induce i soldati russi a rianimarsi e a seguirlo. Tolstoj sottolinea la nobiltà d’animo di Bolkonskij, che viene presentato come soldato, ma anche e soprattutto come uomo di alti valori morali e di grande coraggio. L’autore passa poi dall’azione del singolo a quella della massa, dal particolare al generale, servendosi di una tecnica quasi cinematografica che visualizza il campo di battaglia come attraverso una macchina da presa. 11. chepì: copricapo militare rigido con visiera di cuoio. 12. scovolo: sorta di lunga spazzola utilizzata per pulire l’interno delle bocche di fuoco dei cannoni. La descrizione continua a essere portata avanti sia sul piano macroscopico (la realtà della battaglia), sia sul piano microscopico (la

realtà individuale e psicologica del singolo). Il duplice approccio realistico di Tolstoj conferisce al brano tratti di grande modernità. 13. supino: con la schiena a terra e gli occhi rivolti al cielo. 14. Sopra di lui... lodato: risulta di grande effetto l’immagine che, dal campo di battaglia, passa al cielo, trasmettendo al lettore un nuovo senso di calma e quiete dopo l’incalzante rappresentazione dell’azione. La scena qui proposta è una delle più alte e più belle della letteratura di tutti i tempi. Contrapposta agli affanni inutili dell’uomo, il principe Bolkonskij scopre la parte più azzurra e limpida del cielo, e l’immagine di Dio, della pace, del senso di tutte le cose, riempie il suo animo.

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inee di analisi testuale Il significato storico e umano di Austerlitz La grande battaglia di Austerlitz, che secondo gli storici rappresentò il trionfo del genio militare di Napoleone, è presentata da Tolstoj come un disastro, dettato dalle leggi della storia che, a suo avviso (il concetto è espresso nella Seconda parte, saggistica, dell’Epilogo) dominano sulla libertà degli individui. Ad Austerlitz i destini dei singoli, piccoli o potenti, e i destini dei popoli, delle civiltà, si scontrano violentemente. Nella battaglia si innesta la personale vicenda del principe Andréj Bolkonskij, che nel tentativo di arrestare la fuga dei suoi soldati, si lancia alla riconquista delle batterie di cannoni che stanno per cadere in mano al nemico, raccogliendo la bandiera per dare l’esempio del contrattacco. Lo stile: la tecnica dello straniamento Sul piano stilistico – con un innovativo procedimento quasi cinematografico, come in una scena al rallentatore – la corsa di Andréj, nel fragore della battaglia che al lettore sembra sempre più lontano e ovattato, si arresta bruscamente: a quel punto il silenzio prende definitivamente il sopravvento. Lo sguardo del personaggio in corsa (che è il punto di vista attraverso cui il lettore vede l’intera scena) si restringe poco a poco e rallenta fino alla fissità. Si tratta di quel procedimento, sviluppato poi diffusamente nel Novecento, che il critico e narratore formalista russo Viktor Šklovskij definirà dello straniamento: un modo, cioè, di mostrare le cose facendo loro assumere una luce diversa, come se le si vedesse per la prima volta. La scena della lotta tra i soldati per il controllo del cannone (in cui due uomini tentano di uccidersi per il possesso di uno scòvolo), denuncia tutta l’assurdità della guerra e dello spargimento di sangue. Il cielo che Andréj guarda quando viene colpito e resta a terra è simbolo dell’intuizione di Dio, che dà un senso all’assurdo caos delle vicende umane e della storia, sul quale Tolstoj costantemente nel romanzo si interroga. Al di là dei toni apparentemente epici, qui Tolstoj mostra il vero aspetto della sua scrittura, straordinariamente moderna.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano di Guerra e pace in non più di 20 righe. 2. In quale periodo è ambientato il romanzo e quali principali personaggi storici e di invenzione vi compaiono? 3. Riassumi le vicende presentate nel brano, distinguendo gli avvenimenti storici da quelli che riguardano i personaggi di invenzione. 4. Quali caratteristiche del personaggio di Kutúzov e del personaggio di Andréj Bolkonskij emergono dal brano? Analisi e interpretazione 5. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è la concezione della guerra che emerge dalla lettura del testo e quali aspetti la evidenziano? b. In che cosa consiste la tecnica dello straniamento, che sarà ampiamente usata nel Novecento, e in quale passo riportato essa è anticipata? Approfondimenti 6. Scrivi in circa due pagine una relazione sulle vicende storiche e sociali della Russia tra 1805 e 1812. 7. Confronta i tratti principali di Jacopo Ortis, il protagonista del romanzo epistolare di Ugo Foscolo, e di Andréj Bolkonskij – sono entrambi vissuti in età napoleonica – ed evidenzia punti di contatto e differenze fra le due figure. 8. Esponi le tue conoscenze sui princìpi e gli esponenti della teoria della nonviolenza, di cui Tolstoj è fra i primi sostenitori. 9. Concorda con il tuo insegnante una data entro la quale leggerai e presenterai oralmente altri brani di Guerra e pace.

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CAP. 18 - LA

GRANDE STAGIONE DEL ROMANZO

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Dostoevskij e il romanzo introspettivo

La modernità della narrativa di Dostoevskij La vita e le opere

La poetica e la complessità narrativa

Focalizzata sul versante dell’interiorità e delle profondità più oscure dell’anima è la narrativa del russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881), il cui capolavoro, I fratelli Karamazov (1879-1880), già anticipa l’inquieta sensibilità novecentesca. Molti sono i tratti di modernità delle sue opere. Uno di essi riguarda l’inscindibile intreccio fra la propria vita e la scrittura, elemento che si ritroverà in molti autori del XX secolo: l’autore, infatti, rielabora e trasforma nei propri romanzi l’esperienza biografica e, soprattutto, il percorso di maturazione interiore. Dostoevskij è figlio di un medico militare – tirannico aristocratico decaduto – e di una madre malata, che morirà quando egli è ancora un ragazzo. Iscritto alla scuola del Genio militare di Pietroburgo, presto scopre la propria vocazione per la letteratura. Lottando contro le difficoltà economiche e la salute mentale cagionevole, pubblica il primo romanzo, Povera gente (1846), di stampo realistico, che rivela il suo interesse per le persone di animo buono, incomprese e schiacciate dalla società. Nel 1846 pubblica Il sosia, romanzo che ha come protagonista un uomo vittima di un incubo che si manifesta come sdoppiamento di personalità. Ne Le notti bianche (1848), invece, un sognatore allucinato si innamora di una giovane incontrata per caso. La modernità dei testi li rende sgraditi al pubblico e ai critici. Nel 1849, avvicinatosi al socialismo utopistico, viene condannato a morte a causa di una lettera ritenuta sovversiva, ma sul patibolo gli giunge la grazia dello zar e la commutazione della pena in quattro anni di lavori forzati in Siberia. Durante la durissima esperienza – rievocata in Memorie di una casa di morti (1862), che descrive l’umanità presente anche nel più incallito delinquente – emergono nello scrittore sia il contrasto fra l’orgoglio razionale e l’umiltà sia il primo incontro con la Bibbia, da lui usata per insegnare a leggere e scrivere ai detenuti. Scontata la condanna, Dostoevskij nel 1862 pubblica uno dei suoi capolavori, Umiliati e offesi, che si avvicina al realismo di Charles Dickens. Nel 1864, muoiono la giovane vedova, che aveva sposato sette anni prima, e il figlio di lei. Angosciato, scrive Memorie del sottosuolo (1865), storia della fallita riabilitazione di una prostituta, importante soprattutto perché – anticipando il pensiero di Sigmund Freud e le tematiche psicanalitiche novecentesche – individua l’esistenza di una parte inconscia della mente – il sottosuolo – che non è possibile indagare né dominare. Nel 1866 appare Delitto e castigo, che indaga sul male e sul rimorso in un individuo; nell’anno successivo, dopo aver sposato la propria dattilografa, Dostoevskij pubblica Il giocatore, che ha per protagonista un uomo travolto dalla passione per il gioco d’azzardo. Il romanzo è autobiografico: per sfuggire ai creditori di gioco, Dostoevskij e la moglie viaggiano per cinque anni in Germania, Italia e Svizzera, sperperando tutti i guadagni. L’autore pubblica, intanto, L’idiota (1869), il cui protagonista – che come lui soffre di epilessia – è un uomo totalmente innocente e buono, che viene perciò trattato dagli altri come un incapace. Tornato in Russia, nel 1873, dà alle stampe I demoni, romanzo basato sulla condanna del terrorismo nichilista e contemporaneamente, su una rivista vicina agli ambienti zaristi, inizia la pubblicazione del Diario di uno scrittore, che si trasforma poi in un periodico a sé stante, nel quale appaiono anche alcuni fra i suoi migliori racconti. Dopo il romanzo L’adolescente (1875), che ha per protagonista un giovane che vince il proprio rifiuto nei confronti del mondo abbracciando l’umanitarismo cristiano, lo scrittore scrive e pubblica – nel 1880, un anno prima di morire – l’ultimo e, secondo molti, massimo capolavoro narrativo: I fratelli Karamazov. Di straordinaria complessità, la narrativa di Dostoevskij conosce molteplici fasi e ha molte finalità: dalla denuncia sociale all’analisi psicologica dei personaggi, dallo studio degli intricati meccanismi – anche inconsci – della psiche umana all’indagine sui fenomeni inspiegabili che la mente produce, dalla riflessione sulla presenza minacciosa del male nel mondo a un’inquieta ma profondissima religiosità, dall’opposizione all’industrializzazione spersonalizzante al rifiuto della rivoluzione intesa come strumento violento di rivendicazione politico-sociale. Molti lo considerano l’inventore del romanzo di idee e della contaminazione fra generi, ma tutto ciò si incarna in testi aperti a più interpretazioni e caratterizzati da potenti chiaroscuri, improvvisi capovolgimenti, eventi misteriosi e delittuosi. Assai inno-

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I fratelli Karamazov

vativo è anche lo stile, in quanto il narratore, non più onnisciente, alterna la propria voce al punto di vista dei diversi personaggi. Nei Fratelli Karamazov Dostoevskij inserisce i suoi temi ricorrenti – il conflitto tra bontà e malvagità, l’ansia religiosa, l’analisi dell’animo umano – all’interno di una struttura da romanzo apparentemente poliziesco. La trama è ricca di eventi e personaggi: in sintesi, la vicenda ruota attorno a un padre, Fëdor Karamazov, un vecchio privo di valori morali, e ai suoi quattro figli, che si dibattono fra malvagità, rancori e sospetti. Il tenente Dmitrij è soggetto alternativamente a slanci di crudele violenza e di generosità; egli odia il padre perché mantiene la stessa donna che egli ama, Agrafena Grušenka. Ivan, intellettuale razionalista e filosofo con tendenze atee ma nostalgico della fede, ha scritto un poema, Il Grande Inquisitore, e odia Dmitrij, perché il fratello ha abbandonato Katerina Ivanovna, la donna che egli ama inconsciamente. Aleksej (Alëša), il fratello minore, è novizio nel convento di padre Zosima, il quale però lo incita a tornare nel mondo, affermando che c’è bisogno di persone altruiste. Nella casa abita anche il figlio illegittimo di Fëdor, il malato Smerdjakov, che vive con la servitù ed è trattato come tale: egli odia profondamente il padre. Tranne Aleksej, gli altri tre figli aspirano al denaro che il padre intende usare per sposare la mantenuta Grušenka. La svolta si verifica quando il vecchio Karamazov viene trovato ucciso. Tutti gli indizi sono contro Dmitrij ed egli, benché difeso da Agrafena Grušenka, è ritenuto colpevole dagli altri fratelli. Alla fine Smerdjakov confessa a Ivan di essere l’assassino del padre, attribuendone la responsabilità alle teorie libertarie e sataniste del fratellastro e affermando di avere soddisfatto il desiderio inconscio dello stesso Ivan. Poi si suicida, impiccandosi. Ma Ivan, al processo, non può provare questa confessione e Dmitrij viene ritenuto colpevole e condannato ai lavori forzati. Ivan – che in un incubo ha visto il diavolo – si ammala di una grave forma di febbre cerebrale e precipita in un folle delirio. Solo il puro Alëša si salva dalla rovina della famiglia.

T11 La confessione di Smerdjakov a Ivan da I fratelli Karamazov

Fëdor Dostoevskij

Le oltre mille pagine de I fratelli Karamazov costituiscono un capolavoro della letteratura mondiale. Il tormentoso percorso filosofico, tematico e artistico di Dostoevskij si colloca all’interno di un realismo in cui – e in ciò consiste la sua modernità – non è centrale l’analisi della società, ma quella dell’interiorità dell’uomo, considerata, a causa della presenza di strati oscuri e inconsci (il sottosuolo), sfuggente a ogni definizione razionale. Per Dostoevskij, scrittore realista è l’indagatore del groviglio di pensieri e sentimenti che si agitano nei più profondi recessi dell’anima. Inquieta è anche la pur profonda religiosità che verte sul dilemma fra la vittoria del bene o del male nell’uomo. Il passo proposto è fondamentale nel romanzo: si tratta di un decisivo dialogo fra Ivan e Smerdjakov, in cui quest’ultimo consiglia al fratellastro di andarsene via da casa per quel periodo. Il senso degli oscuri discorsi di Smerdjakov verrà compreso dal lettore solo alla fine del romanzo, quando costui confesserà all’incredulo Ivan di avere ucciso il padre secondo le sue intenzioni segrete, cioè le sue idee libertarie e sataniste, la repulsione verso il padre e il desiderio di non perdere l’eredità. PISTE DI LETTURA • L’introspezione espressa attraverso il dialogo e la mimica • L’importanza del non detto • Tono drammatico ma anche ambiguo © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

CAP. 18 - LA

GRANDE STAGIONE DEL ROMANZO

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Smerdjakov insinua che a Dmitrij farebbe comodo la morte del padre

Ivan sembra intuire perché Smerdjakov lo incita ad andarsene per un po’

Ivan è lacerato dal sospetto su ciò che ha in mente il fratellastro

“Fandonie!” gridò Ivan Fëdorovic, quasi furibondo. “Dmitrij non ci verrà, a rubar del danaro, e meno che mai a uccidere il babbo per questo! Iersera sarebbe stato capace di ucciderlo per Grusˇenka, come un imbestialito, incattivito imbecille: ma per rubare no, non ci verrà!” “Egli ha presentemente1 gran necessità di danaro, necessità estrema, signor Ivan. Voi non vi figurate neppure in quale necessità si trovi” con tranquillità straordinaria e con notevole precisione spiegò. “Questi tremila rubli, oltre tutto, lui li tiene in conto quasi di roba sua, e in questo senso me ne ha parlato lui stesso: ‘Con me’ dice ‘mio padre è in debito di tremila rubli tondi tondi’. E da ultimo considerate, Ivan Fëdorovic, un altro fatto ch’è pura verità: le cose, nevvero? stanno in questi termini, che Agrafena Aleksandrovna Grusˇenka, sol che le piaccia, può senz’altro indurlo a sposarla, il padrone intendo, Fëdor Pavlovic in persona: basta che piaccia a lei; e sapete, può anche darsi che l’affare le piaccia. Vedete, io dico giusto per dire, che lei non verrà: ma chissà che appunto a questo non miri lei, ossia a diventare, dritta dritta, una signora. So in modo sicuro che il suo mercante, Samsonov, le ha detto con grande franchezza che un simile affare sarebbe tutt’altro che sciocco, e così dicendo rideva. E lei stessa, quanto a comprendonio, è tutt’altro che sciocca. Per lei, andare in moglie a un pezzente come Dmitrij Fëdorovic è una cosa che convien poco. E così, considerato tutto questo, potete giudicar da voi, Ivan Fëdorovic, che se si desse un caso simile, né a Dmitrij Fëdorovic, né parimenti a voi e a vostro fratello Aleksej Fëdorovic, dopo la morte del babbo, non rimarrebbe uno zero spaccato, non un solo rublo, giacché apposta Agrafena Aleksandrovna lo avrebbe sposato, per farsi intestare ogni cosa a suo nome, e tutto quanto c’è di capitale, farlo passare in mano sua. Mentre invece, se vostro padre morisse ora, che di questa faccenda non se n’è ancora fatto niente, a ciascuno di voialtri toccherebbero subito, più o meno, quaranta biglietti da mille, e altrettanto anche a Dmitrij Fëdorovic, che il padrone ha tanto in odio, dato che il testamento egli non l’ha mica fatto... Queste son tutte cose che Dmitrij Fëdorovic sa perfettamente.” Sembrò che qualcosa si contraesse e vibrasse2 sul viso d’Ivan Fëdorovic. Di colpo egli arrossì. “Sicché dunque con quale scopo” aggredì a bruciapelo Smerdjakov “tu, dopo tutto questo, a Cermasnja mi consigli di andare? Che cosa hai voluto dire? Io me n’andrò, e qui da voi, ecco, qualche cosa accadrà!” Ivan Fëdorovic aveva il respiro affannato. “È più che verosimile, signore” in tono pacato e giudizioso sentenziò Smerdjakov: ma teneva ben intento su Ivan Fëdorovic lo sguardo. “Come, più che verosimile?” ribatté Ivan Fëdorovic, frenandosi a forza e sfavillando minaccioso dagli occhi3. “Io vi ho parlato per un senso di compassione. Al posto vostro, se io fossi in voi4, piglierei e senza indugio lascerei perdere tutto... A che scopo restarsene in vicinanza d’una faccenda di questo genere...” rispose Smerdjakov, e con l’aria della più profonda franchezza guardava agli occhi sfavillanti d’Ivan Fëdorovic. Entrambi restarono in silenzio. “Tu, a quanto pare, sei un grande idiota e, tutto sommato... un sinistro figuro5!” si rizzò d’improvviso su dalla panca Ivan Fëdorovic. E senz’altro fece l’atto di passar oltre verso l’usciolo: ma tutt’a un tratto si fermò, e si rigirò a Smerdjakov. Avvenne qualcosa di strano: Ivan Fëdorovic, repentinamente, in una specie di convulso, si morse il labbro, strinse i pugni6 e... ancora un attimo, e senza dub-

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1. presentemente: attualmente, in questo periodo. 2. si contraesse e vibrasse: si noti la capacità di Dostoevskij di cogliere la profondità dell’animo dei personaggi anche attraverso la gestualità. In ciò va ricercato un elemento di grande modernità dell’autore. 3. sfavillando... occhi: con lo sguardo acceso; in senso figurato, è espressione di uno stato d’animo intenso. Il dialogo fra Smerdjakov e Ivan è un esempio tipico del groviglio insondabile di pensieri e sentimenti che si agita nel sottosuolo mentale dei personaggi dostoevskiani. 4. Al posto vostro... voi: i personaggi sfidano se stessi e al

tempo stesso si sfidano l’un l’altro attraverso un dialogo incalzante che ne esalta la psicologia e le sue oscure profondità, ignote agli stessi protagonisti. 5. figuro: uomo losco, persona poco raccomandabile. 6. si morse... i pugni: come, in seguito, si ritrasse con tutto il corpo all’indietro, è un’espressione fortemente realistica che coglie perfettamente il personaggio nella particolare azione e nel particolare stato d’animo. Il linguaggio corporeo è sempre al centro della caratterizzazione dei personaggi del romanzo.

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Smerdjakov crede di aver avuto un tacito assenso al suo progetto assassino

Il riso di Ivan: tra incredulità e gioia malvagia

bio si sarebbe scagliato contro Smerdjakov. Costui, per lo meno, ebbe, istantanea, quest’impressione; fremette, e si ritrasse con tutto il corpo all’indietro. Ma l’attimo passò senza incidenti per Smerdjakov, e Ivan Fëdorovic, senza far parola, seppure con una certa perplessità, si voltò verso l’usciolo. “Io domani parto per Mosca, se lo vuoi sapere: domani mattina per tempo: ed ecco tutto!” astiosamente, con voce scandita e sonora, gli venne detto di punto in bianco: e più tardi si stupiva lui stesso come mai in quel momento avesse sentito il bisogno di dir questo a Smerdjakov. “È senza meno7 la miglior cosa, signor mio” commentò quello, come se non si fosse aspettato altro. “Solo che forse, da Mosca, vi si potrebbe, per telegrafo, disturbare di qui, in caso di qualche evenienza...” Di nuovo Ivan Fëdorovic si soffermò, e di nuovo, rapidamente, si rigirò a Smerdjakov. Ma anche in quest’ultimo sembrò intervenuto un mutamento. Tutta la familiarità e la indifferenza dimostrate finora erano istantaneamente scomparse: ogni tratto del suo viso esprimeva un’attenzione e una sospensione8 eccezionali, ma piene di timidezza e di servilità. “Non dirai qualche cosa d’altro? non aggiungerai più nulla?” si leggeva nella fissità del suo sguardo, aderente a Ivan Fëdorovic. “O che forse da Cermasnja non mi manderebbero a chiamare lo stesso... in caso di qualche evenienza?” stridette bruscamente Ivan Fëdorovic, e chissà perché aveva d’improvviso alzato tremendamente la voce. “Anche da Cermasnja, certo... vi disturberebbero lo stesso...” mormorò Smerdjakov in un soffio di voce, come sgomento; ma intanto fissava, fissava sempre Ivan Fëdorovic proprio negli occhi. “Soltanto che Mosca è più distante, e Cermasnja è più vicina: e tu, sicché, pensi al risparmio sulle spese di viaggio, insistendo per Cermasnja, oppure vuoi risparmiare me, che dovrei fare una formidabile girata9?” “Perfettamente giusto, signore...” mormorò, con voce spezzata, Smerdjakov, e con un miserabile sorriso si preparava di nuovo, convulsamente, a balzar indietro a tempo. Ma di colpo Ivan Fëdorovic, con gran meraviglia di Smerdjakov, scoppiò a ridere, e rapidamente proseguì per l’usciolo, continuando a ridere. Chi avesse guardato al viso di lui, avrebbe certo concluso che non rideva davvero perché fosse tanto allegro. E lui stesso non avrebbe saputo in nessun modo spiegare che cosa gli stesse dentro in quel minuto10. Si muoveva e camminava come in preda a un convulso.

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da I fratelli Karamazov, trad. di A. Villa, Einaudi, Torino, 1993

7. senza meno: sicuramente. 8. sospensione: incertezza. 9. formidabile girata: un viaggio di lunga distanza (da Mosca). La frase ha un sottinteso: Ivan non deve allontanarsi ma restare nelle vicinanze, a Cermasnja, per poter tornare subito, se il padre dovesse essere ucciso. Né Ivan, né Smerdjakov, però, esplicitano tale delittuoso pensiero: anzi, forse, entrambi non lo rivelano neppure a se stessi. In tale labirintica ambiguità risiede il modernissimo realismo con cui l’autore narra – senza prendere posizione – ciò che si nasconde nelle oscure profondità dell’anima umana. 10. E lui stesso… quel minuto: il finale del brano conclude perfettamente il percorso delle pagine precedenti. In maniera quasi impercettibile, elementi che erano presenti

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solo allo stato potenziale nell’animo di Ivan Fëdorovic si sono ridestati in una maniera incontrollabile e inaspettata: il narratore, però, evita di presentare in modo unilaterale il groviglio di pensieri e sentimenti presenti all’interno del personaggio. Come osserva il critico Michail Bachtin, Dostoevskij lascia nell’incertezza il lettore perché ritiene che l’essere umano sia insondabile. Afferma in una battuta Dmitrij: Il cuore dell’uomo non è che il campo di battaglia in cui lottano Dio e il diavolo. A conclusione dell’ambiguo dialogo, neppure Ivan sa se con parole, gesti e azioni ha dato oppure no il proprio assenso alla velata comunicazione dell’intenzione di assassinare il padre avanzata dal fratellastro. Smerdjakov, nel dialogo successivo alla morte del padre, parlerà paradossalmente di un consenso dato da Ivan col suo silenzio.

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inee di analisi testuale Il realismo introspettivo Nel brano, esemplificativo del realismo introspettivo, si lascia intuire come del delitto del padre siano in qualche modo corresponsabili i tre fratelli Dmitrij, Ivan e Smerdjakov. Per l’autore il cuore degli uomini è il campo di battaglia in cui lottano Dio e il diavolo e in cui si scontrano sentimenti e impulsi inconsci. Non a caso, fra Smerdjakov e Ivan nessuna certezza esiste veramente sulla responsabilità del delitto: il primo appare sordido e abietto, ma si suicida quando Ivan rigetta su di lui le responsabilità dell’assassinio; il secondo, il lucido filosofo che afferma che tutto è permesso, caduto in una condizione di violento conflitto interiore nel quale erompono le parti più oscure, precipita nel delirio. Il personaggio di Ivan Il contraddittorio Ivan sembra l’erede dell’eroe del primo Ottocento, in cui sono in conflitto ragione e cuore. Ivan afferma di non credere in Dio perché non accetta il mondo di dolore da Lui creato, ma desidera la morte di suo padre; ama intensamente la vita ma dice al fratello che sta attendendo i trent’anni per suicidarsi. Nel corso dell’autoanalisi si svela una differenza decisiva che lo rende precursore dell’eroe novecentesco: nel suo poema, Il Grande Inquisitore, non si comprende se egli si identifichi con il vecchio inquisitore o con il Cristo che l’Inquisitore ha fatto prigioniero. Nel dialogo centrale del romanzo, è sospeso fra l’assecondare Smerdjakov, favorendo il suo oscuro desiderio di veder morire il padre, e il nascondere a se stesso tale impulso, come continuerà a fare con il fratellastro, fino a spingerlo, a sua volta, al suicidio. Il critico Vladimir Larškin ritiene Ivan il personaggio in cui più si identifica l’autore e cita, in proposito, la lettera di Dostoevskij a Majkov del 25 marzo 1870, in cui appare il primo accenno al progetto del romanzo (Il problema principale [...] che mi ha tormentato tutta la vita in modo conscio o inconscio è l’esistenza di Dio. L’eroe nel corso della sua vita è ora ateo, ora credente, ora fanatico e settario, ora di nuovo ateo), ritenendo il passo indizio di una parentela di Ivan Karamazov con il suo creatore.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del brano in non più di 20 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono i punti di vista dei due personaggi? b. Quali sono le caratteristiche principali del personaggio di Ivan Karamazov? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il quadro dei rapporti interpersonali nell’ambito della famiglia Karamazov? b. Quali caratteristiche profondamente innovative ha il modo di Dostoevskij di presentare i personaggi? c. Ritieni che nei Fratelli Karamazov i personaggi siano ritratti in modo realistico o poco verosimile? Motiva la risposta. d. Quale ti sembra essere il rapporto fra il narratore e i personaggi nel passo proposto dei Fratelli Karamazov? Motiva la risposta con riferimento al testo. Approfondimenti 4. Dopo aver letto il materiale sul romanzo presente nel volume e il passo critico di Michail Bachtin presentato qui di seguito, scrivi un saggio breve (max tre colonne di metà foglio protocollo) sul seguente argomento: Le differenti interpretazioni del romanzo I fratelli Karamazov. Ricordati di dare al saggio un titolo coerente con la trattazione e ipotizzane una precisa destinazione editoriale (il fascicolo scolastico di ricerca e documentazione oppure la rassegna di argomento culturale). [Nei suoi romanzi di idee] Dostoevskij [...] pensa non a pensieri, ma a punti di vista, a coscienze, a voci. Egli si sforza di concepire e formulare ogni pensiero in modo che in esso si esprima e risuoni tutto l’uomo [...]. Due pensieri in Dostoevskij sono già due persone, poiché pensieri di nessuno non ve ne sono, ed ogni pensiero rappresenta tutto l’uomo. [Egli si ispira al genere avventuroso. Ciò si verifica

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perché] l’intreccio d’avventure in Dostoevskij si combina con una profonda e acuta problematicità; anzi, esso è posto interamente al servizio dell’idea: esso pone l’uomo in situazioni eccezionali, che lo scoprono e lo provocano, e lo fa incontrare e scontrare con altri uomini in circostanze insolite e inattese proprio per provare l’idea e l’uomo d’idea, cioè “l’uomo nell’uomo”. da Michail Bachtin, Dostoevskij, Einaudi, Torino, 1968

5. Concorda con il tuo insegnante una data entro la quale leggerai il celebre capitolo Il Grande Inquisitore (Libro quinto, V) dei Fratelli Karamazov, esponendolo nell’ambito di una relazione che tratti il seguente argomento: Il tormentato senso religioso di Dostoevskij.

Tommaseo e il romanzo di introspezione in Italia La vita e le opere

Fede e bellezza

Introspezione psicologica e autobiografismo

Niccolò Tommaseo nasce nel 1802 a Sebenico, in Dalmazia. Dopo aver studiato al Seminario di Spalato ed essersi laureato in legge a Padova, si trasferisce a Milano, dove conosce Alessandro Manzoni, lavora per l’editore Stella e si accosta alle posizioni romantiche. Stabilitosi nel 1827 a Firenze, polemizza con Leopardi e collabora al periodico liberale “Antologia” diretto da Giovan Pietro Vieusseux, interessandosi particolarmente di questioni linguistiche, finché la rivista viene chiusa, nel 1833, a causa di un suo articolo anonimo. L’autore si reca in esilio volontario a Parigi; qui si avvicina al cattolico liberale Lamennais, le cui opinioni sono condannate dalla Chiesa del tempo, e al vecchio rivoluzionario Filippo Buonarroti. Nell’opera Dell’Italia (1835), Tommaseo si fa banditore di un cristianesimo sociale che confluirà nel neoguelfismo giobertiano. Avvalendosi di un’amnistia, nel 1839 ritorna a Venezia, dove, oltre a Fede e bellezza, il romanzo che molti considerano il suo capolavoro, pubblica un Dizionario estetico (1840). Incarcerato per un discorso contro la censura, è liberato dagli insorti e, insieme a Daniele Manin, nel 1848, assume la guida della Repubblica di Venezia. Dopo il ritorno dell’Austria si rifugia a Corfù, dove prende moglie e ha due figli. Dopo l’Unità d’Italia risiede a Firenze per oltre vent’anni, insegnando. In contrasto con il governo del nuovo Regno d’Italia e sostenitore del Papato, si isola dalla vita politica e sociale rifiutando la cattedra universitaria offertagli da De Sanctis, allora ministro, e la carica di senatore. Pubblica svariati testi, fra cui l’opuscolo polemico L’uomo e la scimmia (1869), contro l’evoluzionismo darwiniano, le Poesie (1872), in cui il sentimento cosmico tipico dei Romantici viene tradotto nella sensibilità cattolica, e il Dizionario della lingua italiana (1858-1879). I due protagonisti del suo capolavoro, il romanzo Fede e bellezza, sono Maria e Giovanni, personaggi che hanno avuto tristi esperienze di vita affettiva. A Quimper, in Bretagna, dove si sono incontrati, Maria racconta a Giovanni la sua vita: rimasta orfana, ha ceduto giovanissima al capriccio di un conte russo che l’ha abbandonata a Parigi; è stata ingannata da uno studente e da un mercante fallito, poi scomparso; infine ha contratto la tisi. Giovanni è invece uno scrittore trentenne dal temperamento inquieto e vagabondo, venuto da Parigi, città per lui troppo costosa, a vivere in campagna. Nel diario, che le fa leggere, il giovane descrive le impressioni sentimentali della sua vita giovanile, trascorsa tra inconsistenti avventure amorose con donne di tutti i tipi. I due imparano a conoscersi confidandosi le rispettive dolorose esperienze, raggiungono la comprensione reciproca e decidono infine di sposarsi. Dopo il matrimonio e un breve, felice soggiorno in Corsica, si trasferiscono a Nantes, dove Giovanni dirige un collegio e Maria lo aiuta a trascrivere le sue opere letterarie. Quando, nonostante altre disavventure, gli anni peggiori della loro vita sembrano superati, Maria si riammala di tisi e dopo un triste periodo, muore. L’opera si configura come uno dei primi romanzi di introspezione psicologica della narrativa italiana, basata su un accentuato autobiografismo. Interessante è anche la tecnica mista utilizzata: le rievocazioni in prima persona dei due protagonisti si alternano a pagine di diario e a narrazioni in terza persona. Di rilievo sono anche le scelte linguistiche, che alternano forme pure e colte e lessico popolare.

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T12 La malattia di Maria da Fede e bellezza

Niccolò Tommaseo

Nel brano si descrive la scoperta da parte di Giovanni del riacutizzarsi della tubercolosi di cui in passato aveva già sofferto Maria. L’ambientazione è realistica, ma i comportamenti dei protagonisti sono descritti dal punto di vista interiore.

PISTE DI LETTURA • La descrizione dell’amore coniugale • La paura della malattia e della morte • Tono patetico

Maria trascrive le opere letterarie di Giovanni

Giovanni scopre il fazzoletto di Maria sporco di sangue

L’abbandono amoroso nella paura della separazione

Maria l’aiutava a trascrivere, lavoro a lui insopportabile, e spesa ormai grave; e passava le lunghe ore fredde della notte nell’ingrata fatica: di ch’egli non osava neppur ringraziarla: tanto quell’amore pio gli pareva cosa santa. Ma se trascrivendo, le veniva incontrata qualch’espressione troppo letterata, ed ella ne sapesse una più alla mano, chiedeva scusa del frastornarlo per dirgliene1: ed egli allora l’abbracciava commosso, e alzava gli occhi, come per dire: non son degno di tanto. Una notte di dicembre fredda e piovosa (eran le undici suonate, e il fuoco del caminetto già spento), Maria, pregata, non voleva smettere prima di finire il lavoro. Giovanni le si accosta2 quasi supplichevole: e stava per baciarla in fronte, quando s’accorge di non so che rosso sul volto3 suo più pallido e più soavemente mesto che mai. Mentre guarda spaventato, Maria ritira in fretta la pezzuola4 che aveva sul grembiule; egli trepidando glie la prende, la trova intrisa di sangue, e mette un grido. “Non è nulla.” “Da quando?” “Dall’altr’ieri. Oh per carità non vi spaventate.” Egli cadeva abbattuto sopra una seggiola; e Maria l’abbracciava sollecita come fa madre a figliuolo pericolante. Solevano (tale fin dal primo era il patto) dormire divisi: che da questo reciproco rispetto, conducevole insieme a virtù e a libertà, a sanità e a pulizia, credevano giovarsi l’amore. Ma quella sera ell’era sì ghiaccia5, ed egli sì intimorito, e sì diffidente del silenzio di lei, che pregò di posarlesi6 accanto. E nell’impeto del dolore innamorato congiunsero labbro a labbro; e con ardore più abbandonato ma con anima monda7 riprovarono nuove le gioie note: ed egli le disse parole d’amore quali ella non aveva sentite, misera, mai. Ed ella gli disse parole d’amore quali egli non aveva sentite, misero, mai. Un’immagine8 or lontana or presente, velata dalla speranza, ma pur terribile, gli stava dinanzi; e avvelenava la dolcezza, e la faceva correre più veemente, penetrar più profonda. Parevagli d’abbracciare una donna condannata a morire, e la stringeva a sé come per rattenere l’angelo suo sfuggente.

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da Fede e bellezza, a cura di F. Danelon, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1996

1. le veniva... dirgliene: Maria rivede e copia gli scritti letterari di Giovanni. Se le capita di incontrare qualche espressione troppo letteraria, ed ella ne conosce una più popolare, gli chiede scusa di disturbarlo per dirglielo. 2. le si accosta: il narratore passa dal passato remoto al presente storico; l’autore rende così più suggestiva la narrazione. 3. non so che... volto: Maria è gravemente malata di tu-

bercolosi; Giovanni le vede una macchia rossa sulla faccia, poiché il sangue nell’espettorato è uno dei sintomi della malattia. 4. la pezzuola: il fazzoletto. 5. ghiaccia: ghiacciata, fredda per la paura e la malattia. 6. pregò di posarlesi: le chiese di sdraiarsi accanto a lei. 7. monda: pura e limpida. 8. Un’immagine: è l’immagine della morte.

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inee di analisi testuale La via del romanzo introspettivo Il romanzo Fede e bellezza è di ambientazione contemporanea e si fonda sull’introspezione. Tommaseo ha una personalità complessa, tesa a sperimentare e conoscere, desiderosa di armonizzare i multiformi aspetti della realtà e dell’animo umano in un ordine provvidenziale fondato in Dio. Nel romanzo è chiaro l’intento principale: non tanto quello di raccontare storie o fatti, ma scrivere di affetti, di sentimenti e di travagli psicologici. Alcuni critici hanno messo in rilievo, come caratteristica di fondo dei due protagonisti, il dualismo tra un rigido bisogno d’ordine, di natura cattolica, e una tendenza sensuale deviante, che in qualche maniera guarda con interesse, a volte morboso, alla sfera del male, del peccato e della morte; altri, viceversa, ritengono che il tema centrale dell’opera sia l’esame di coscienza e che lo scopo della reciproca confessione dei protagonisti sia quello di comunicare il desiderio di contrizione; il romanzo sarebbe, perciò, pedagogico e tratterebbe la vicenda della caduta e della redenzione, attraverso il riconoscimento della colpa, la confessione e l’esperienza salvifica del dolore. Il culmine del dramma Il passo, riguardante la scoperta di una malattia che all’epoca mieteva moltissime vittime, ricalca le descrizioni tardo-romantiche delle eroine malate di tisi che perdevano la vita. Il racconto della morte di Maria sarà segnato da descrizioni paesaggistiche che ben si adattano ai moti dello spirito: prima è la notte cupa e cruda, la notte del dubbio e della morte; poi è l’alba nevosa, dal cielo biancheggiante, che richiama il pallore di Maria morta e la dolente malinconia del superstite Giovanni, ma segnala anche la riacquistata purezza. Gli ultimi pensieri di Maria richiameranno il titolo, con la lode a Dio per la bellezza del mondo. Il romanzo si intitola, infatti, Fede e bellezza perché intende celebrare la bellezza del creato fondata nella fede in Dio.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il passo di Fede e bellezza in non più di 10 righe. Analisi e interpretazione 2. Di quale tipo è la voce narrante nel romanzo di Tommaseo? 3. Cerca nel testo tutte le notazioni paesaggistiche e psicologiche; quindi spiegane la funzione. 4. A quale genere appartiene il romanzo di Tommaseo? Approfondimenti 5. Di seguito si riporta un passo in cui il critico Carlo Muscetta esprime un giudizio sostanzialmente negativo su Fede e bellezza. Con l’aiuto del dizionario, interpretane il significato ed esercitati a riassumerlo e a commentarlo oralmente. Vivaio foltissimo di maniere e prove svariate, solo nella sua materiale apparenza Fede e bellezza si presenta come “l’opera letteraria più completa” di Tommaseo (così la giudicò il giovane Pirandello nella sua fase cattolicizzante). Non dobbiamo leggerla come romanzo bensì come autoritratto ideale, come sublimazione dello scrittore, che vuole presentarsi come penitente e intellettuale d’eccezione per la varietà dei suoi peccati e dei suoi studi […]: martire della corruttela parigina, da cui si salva salvando la donna “conglutinata con l’anima sua”, attraverso un rapporto di conoscenza totale della carne e dello spirito che va dall’amore per la natura a quello delle sottigliezze linguistiche e alle analisi morali. Anime gemelle […], finiscono per differenziarsi solo nella scena culminante della loro condizione ambigua (“sensualmente s’amavano ed erano pii”). da Storia della letteratura italiana, vol. VIII, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Garzanti, Milano, 1981

6. Analizza lo stile di Tommaseo ponendolo a confronto con quello di Ippolito Nievo. Quali sono le analogie e le differenze di linguaggio, di scelta lessicale e di costruzioni sintattiche?

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Concetti chiave IL ROMANZO STORICO Il romanzo storico ottocentesco fonde due elementi tipici del Romanticismo: il senso della storia e il sentimento nazionale. Il fondatore del romanzo storico è lo scozzese Walter Scott, autore di Ivanhoe (1820), che influenzerà la narrativa di tutta Europa (compreso il Manzoni dei Promessi sposi). In Francia Victor Hugo con I miserabili (1862) e in Russia Lev Tolstoj con Guerra e pace (1869) scrivono romanzi a sfondo storico, ma che presentano anche caratteristiche realistiche. Il genere conosce un’evoluzione che parte dal modello di Scott, in cui la storia fa da sfondo ad avventure fantastiche di personaggi dalla psicologia semplice, per arrivare, attraverso la concezione di Manzoni, alla svolta in senso realista e sociale della narrativa francese, in particolare di quella di Hugo, che intende il romanzo storico come affresco di un’epoca, ritratto di un popolo e denuncia del degrado sociale e dello sfruttamento. Con Tolstoj, infine, si arriva ad una maggiore introspezione. IL ROMANZO REALISTA Dopo la prima metà del secolo, con la tendenza al pragmatismo e il grande rilievo assunto dalla “questione sociale“, l’Europa conosce una fioritura di autori e di romanzi realisti, di ambientazione contemporanea e a forte connotazione sociologica. Anticipati dalle opere di Stendhal e di Victor Hugo, importanti romanzi realisti sono quelli del ciclo della Commedia umana, di Honoré de Balzac, quelli di Gustave Flaubert – fra cui Madame Bovary (1857), che già precorre la narrazione impersonale naturalista – e dell’inglese Charles Dickens, autore, fra l’altro, di David Copperfield (1850).

ALTRI GENERI NARRATIVI In Europa, maestro della narrativa umoristica ottocentesca è l’inglese Charles Dickens – in particolare con l’opera che gli assicura il successo, Il Circolo Pickwick. Nell’ambito della narrativa dell’orrore, dopo Frankenstein di Mary Shelley, lo statunitense Edgar Allan Poe nelle sue opere esplora le zone più profonde e oscure della psiche umana e, oltre a rivelarsi maestro del genere horror, crea nuovi generi come il fantastico, il poliziesco e il fantascientifico. Lo statunitense Hermann Melville (18191891) attua una straordinaria contaminazione fra il romanzo di avventura e il simbolismo filosofico in Moby Dick (1851). Il russo Fëdor Dostoevskij nelle sue opere integra realismo, introspezione, autobiografismo e formazione. Entrambi precorrono, per temi e stile, il romanzo novecentesco. IN ITALIA In Italia il più importante romanziere del secolo è Alessandro Manzoni con I promessi sposi, dai più considerato un romanzo storico. Ippolito Nievo sviluppa invece il romanzo di formazione, con le Confessioni di un italiano (1858), mentre Niccolò Tommaseo punta soprattutto sull’introspezione psicologica con Fede e bellezza (1852).

Vasilij Peròv, Ritratto di Fëdor Dostoevskij, 1872. Mosca, Galleria Tretjakov.

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sercizi di sintesi

1 Tratta in forma sintetica i seguenti argomenti (max 20 righe ciascuno). 1. Il romanzo dell’Ottocento: le tendenze, i principali autori, i loro capolavori e le tematiche. 2. Il romanzo storico: l’origine del genere, l’iniziatore e la sua fortuna, gli sviluppi nei maestri europei e le opere esemplari. 3. Il romanzo realista: il contesto d’origine, i precursori, i maestri, le loro opere, le innovazioni, i personaggi, le tematiche. 4. Il genere dell’orrore: i precursori romantici, il ruolo di Edgar Allan Poe e l’importanza della sua narrativa. 5. Il romanzo nell’Italia dell’Ottocento: le opere di Ippolito Nievo e Niccolò Tommaseo. 2 Indica con una x la risposta corretta. 1. Nel finale di Ivanhoe di Walter Scott a. Rebecca e Wilfred si sposano e Isaac abbandona l’Inghilterra. b. Wilfred e Rowena si sposano e Rebecca se ne va con suo padre. c. Rowena e Riccardo Cuor di Leone si sposano e Wilfred parte per la crociata. d. Wilfred muore e Rebecca uccide il templare Brian de Bois-Guilbert. 2. Jean Valjean è a. il protagonista di un romanzo del ciclo della Commedia umana. b. il vescovo malvagio che insidia Esmeralda in Notre-Dame de Paris. c. un personaggio de I misteri di Parigi. d. il protagonista de I miserabili. 3. I miserabili è un’opera di a. Honoré de Balzac. b. Stendhal. c. Gustave Flaubert. d. Victor Hugo. 4. Nella Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo a. la Pisana muore e Carlino Altoviti scrive le proprie memorie. b. Carlino Altoviti sposa la Pisana e, negli ultimi anni della sua vita, scrive le proprie memorie. c. Carlino Altoviti e la Pisana muoiono nel naufragio di un battello. d. la Pisana tradisce Carlino Altoviti e distrugge le sue memorie. 5. In Papà Goriot di Honoré de Balzac il protagonista è a. il giovane Fabrizio Del Dongo. b. lo studente Eugéne de Rastignac. c. l’ex forzato Jean Valjean. d. il marito di Emma Bovary.

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6. Madame Bovary di Gustave Flaubert si conclude a. con il suicidio di Emma con l’arsenico. b. con la morte di Charles Bovary. c. con la fuga di Emma insieme al giovane Léon. d. con il divorzio dei Bovary. 7. Lo statunitense Edgar Allan Poe è fra l’altro inventore a. del romanzo gotico e storico. b. del genere horror e poliziesco. c. del romanzo realista e naturalista. d. del feuilleton e del romanzo rosa. 8. Herman Melville è l’autore di a. Alice nel paese delle meraviglie. b. Moby Dick. c. Oliver Twist. d. I viaggi di Gulliver. 9. Moby Dick si può definire principalmente a. un romanzo realista. b. un romanzo filosofico simbolico. c. un romanzo storico. d. un romanzo di avventure marinare. 10. Tra i personaggi di Guerra e pace di Lev Tolstoj ci sono a. Dmitrij, Ivan, Smerdjakov e Alëša. b. Andréj, Nataša, Pierre e Marja. c. Pierre, Ivan, Hélène e Sonia. d. Marja, Fëdor, Nicolàj e Anatole. 11. Tra i capolavori di Fëdor Dostoevskij si ricorda a. Guerra e pace. b. I fratelli Karamazov. c. Oblomov. d. Anna Karenina. 12. Fra le principali caratteristiche dei romanzi di Dostoevskij c’è a. l’analisi scientifica dei personaggi. b. la cura dei dettagli oggettivi. c. la forte introspezione psicologica dei personaggi. d. l’impersonalità della narrazione. 13. I protagonisti di Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo sono a. Jacopo, ardente patriota, e la bella Teresa. b. il mazziniano Giuseppe e la giovane Anita. c. il facoltoso Paolino e la colta Giovanna. d. lo scrittore Giovanni e la giovane Maria.

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GRANDE STAGIONE DEL ROMANZO

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CAPITOLO

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Alessandro Manzoni

Giuseppe Molteni, Ritratto di Alessandro Manzoni, 1865. Milano, Pinacoteca di Brera.

VITA E LE OPERE

Alessandro Manzoni è uno dei maggiori autori della letteratura italiana. Sul piano specificamente letterario, egli rappresenta il punto di riferimento per tutti coloro che in Italia si dedicheranno, durante il Risorgimento, fino alla nascita del Verismo e anche oltre, alla produzione narrativa di ampio respiro. Il suo capolavoro, I promessi sposi, è inoltre un punto di riferimento linguistico nazionale negli anni successivi all’unificazione.

LA

LINEA DEL TEMPO: LA VITA E LE OPERE

1785 Alessandro Manzoni nasce a Milano

1789 RIVOLUZIONE FRANCESE

1798-1801 Studia nei collegi dei Padri somaschi e barnabiti

1805 Si trasferisce a Parigi dalla madre

1808 Sposa Enrichetta Blondel

1806 In morte di Carlo Imbonati

1810 Conversione al Cattolicesimo

1812-1815 Inni sacri

1815 NAPOLEONE È SCONFITTO A WATERLOO

1816-1819 Il Conte di Carmagnola 1819 Osservazioni sulla morale cattolica

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CAP. 19 - ALESSANDRO MANZONI

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Gli anni della formazione Le origini milanesi e la famiglia

I collegi e gli studi

La formazione culturale

Alessandro Manzoni nasce nel 1785 a Milano, allora città del Regno lombardoveneto appartenente all’Impero austro-ungarico. Il padre, Pietro Manzoni, è un nobile della Brianza lecchese cinquantenne, benestante, conservatore e cattolico tradizionalista; la madre è Giulia Beccaria, ventitreenne figlia dell’illuminista Cesare Beccaria, la cui famiglia versa in difficoltà finanziarie. La donna, che professa idee rivoluzionarie, è sentimentalmente legata a Giovanni Verri – fratello dei fondatori de “Il Caffè” –, che, secondo alcuni studiosi, sarebbe il vero padre del romanziere. Nel 1791, prima della separazione dal marito, Giulia lascia il piccolo Alessandro nel collegio dei Padri somaschi a Merate, in Brianza, e parte per Parigi con il nuovo compagno, il conte Carlo Imbonati, intellettuale illuminista milanese. Fino a sedici anni Alessandro studia in collegi – dopo Merate a Lugano e infine a Milano dai Barnabiti – dove rivela temperamento ribelle e tendenze anticlericali, e simpatizza per i rivoluzionari che, nel frattempo, hanno dato vita alla Repubblica Cisalpina filofrancese. La sua formazione culturale è basata sui classici, sugli autori cristiani, su letture di maestri del Neoclassicismo come Vincenzo Monti – che ha conosciuto personalmente – e completata, per iniziativa autonoma, con testi illuministi e l’appassionata lettura delle opere di Vittorio Alfieri e di Ugo Foscolo. Terminati gli studi, Manzoni si trasferisce a Milano nella casa del padre Pietro, e inizia a frequentare i circoli in cui si ritrovano scrittori progressisti come gli esuli napoletani Vincenzo Cuoco e Francesco Lomonaco. Incontra personalmente Ugo Foscolo e riconosce un vero e proprio ruolo paterno a Vincenzo Monti, alla cui imitazione egli dedica i primi versi di stile neoclassico – poi ripudiati – tra i quali, fra il 1801 e il 1804, il Trionfo della libertà, che esalta le vittorie francesi, e il poemetto di gusto idillico Adda. Da Vincenzo Cuoco, in particolare, Manzoni è avviato all’interesse per lo studio della storia e alla conoscenza di Giambattista Vico.

A Parigi: dall’Illuminismo al Cristianesimo Gli insegnamenti morali di Imbonati e il carme

I salotti parigini

Nel 1805 muore Carlo Imbonati e la madre Giulia Beccaria invita Alessandro ad andare a vivere con lei a Parigi. Qui egli compone il carme In morte di Carlo Imbonati (1805), in cui immagina che il nobile scomparso lo sproni a farsi continuatore dei suoi valori morali legati a un’etica laica di alto profilo: usare sia il sentimento sia la ragione, mantenersi distaccati dal mondo, non distogliere mai lo sguardo dall’obiettivo prestabilito, conservarsi puro nel pensiero e nell’azione, combattere il servilismo opportunista, non tradire mai la verità, non incoraggiare il vizio né schernire la virtù. A Parigi, Manzoni frequenta i salotti intellettuali illuministi, in particolare quello della figlia del filosofo Condorcet, Sofia, e conosce lo storico Claude Fauriel (1772-

1821 NAPOLEONE MUORE SULL’ISOLA DI SANT’ELENA

1821 Marzo 1821, Il cinque maggio

1848 CINQUE 1821-1823 Adelchi

1822 La Pentecoste 1823 Fermo e Lucia

GIORNATE DI MILANO

1827 Prima edizione dei Promessi sposi

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1840-1842 Seconda edizione dei Promessi sposi

1861 È nominato senatore

1872 1870 Accetta la BRECCIA cittadinanza DI PORTA PIA onoraria di Roma

1873 Muore a Milano

1861 PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

1842 Storia della colonna infame

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La lettura di Pascal

L’incontro con Enrichetta Blondel e la conversione

1844), che, criticando le fantasticherie del Romanticismo inglese e tedesco, lo invita a intendere la letteratura come rappresentazione di vicende realistiche, verosimili e legate alla concreta storia degli uomini. Dopo un breve ritorno in Italia nel 1807 per la morte del padre Pietro, Manzoni si dedica poi alla lettura delle opere dei moralisti cristiani francesi del Seicento – in specie Blaise Pascal – maturando quella saldatura tra etica laica ed etica cristiana che sarà alla base del suo Cattolicesimo liberale. L’incontro con la donna della sua vita, Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, calvinista, che lo coinvolge nella sua crisi spirituale, determina la conversione dapprima cristiana e poi cattolica di Alessandro Manzoni. Il cammino di riavvicinamento alla fede di Manzoni, seguito dall’abate genovese Eustachio Degola, è sancito dal matrimonio cattolico celebrato nel 1810 con la Blondel e dal battesimo della loro primogenita.

Gli anni della maturità artistica Il trasferimento a Milano e i disturbi nervosi

L’inizio degli Inni sacri e le due canzoni civili

L’adesione agli ideali del Risorgimento Il Carmagnola e le Osservazioni sulla morale cattolica

Le odi civili e l’Adelchi

La prima stesura del capolavoro: Fermo e Lucia

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Grazie ai beni lasciatigli dal padre e da Carlo Imbonati, Manzoni può fissare la sua dimora a Milano e provvedere alla famiglia: avrà da Enrichetta dieci figli (quasi tutti, però, moriranno prima di lui), dedicandosi a tempo pieno all’attività letteraria. Da Milano e dalla villa di Brusuglio (nella campagna lombarda), lo scrittore, che da tempo soffre di fobie e disturbi nervosi, non si allontanerà mai, se non per brevi viaggi, e qui scriverà le sue opere maggiori. Per gli Inni sacri, progettati per esaltare le festività cristiane, nel 1812 Manzoni compone La Resurrezione. Due canzoni civili – Aprile 1814 e Il proclama di Rimini, poco riuscite artisticamente, ma significative testimonianze del consolidarsi in lui dell’ideale dell’Unità d’Italia – vengono composte su sollecitazione degli avvenimenti contemporanei: nel 1814, nella rivolta popolare contro i Francesi di Napoleone, a Milano la folla lincia il ministro delle finanze Giuseppe Prina (l’evento sarà in seguito preso come modello per l’episodio della rivolta di Milano nei Promessi sposi); nel 1815, a Rimini, Gioacchino Murat lancia l’estremo e vano appello agli Italiani per la libertà e l’indipendenza prima del crollo finale dei Francesi. Dopo il ritorno degli Austriaci, la casa milanese di Manzoni è frequentata dai più importanti esponenti de “Il Conciliatore” e del Romanticismo risorgimentale milanese, anche se lo scrittore, per il proprio carattere riservato e le convinzioni moderate, non aderisce ufficialmente al gruppo. Accostatosi al maturo Romanticismo europeo, attraverso le opere di August W. Schlegel e La Germania (1813) di Madame de Staël, Manzoni decide di dedicarsi al teatro e scrive la tragedia Il Conte di Carmagnola (1816-1820). Intanto lavora ancora agli Inni sacri e scrive, su consiglio del vescovo di Pavia, Luigi Tosi, la prima versione del saggio Osservazioni sulla morale cattolica (1819), opera in cui difende la Chiesa dall’accusa di essere stata la causa della decadenza dell’Italia, esaltando i valori della fede, la tolleranza religiosa e la serenità dell’uomo di fede. Durante la permanenza del 1819 a Parigi, nella speranza che il cambiamento di clima possa porre rimedio ai disturbi nervosi, Manzoni riallaccia l’amicizia con Fauriel e stringe relazioni con il filosofo spiritualista Victor Cousin (1792-1867) e gli storici François Guizot (1787-1874) e Jacques Thierry (1795-1856), incontri dai quali trae ispirazione per i suoi studi. Tornato a Milano, nel 1821 scrive le due odi civili Marzo 1821 e Il cinque maggio; nel 1822 termina la seconda tragedia, Adelchi, e pubblica il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, che ne costituisce il retroterra di studi storici. Fra il 1821 e il 1823, Manzoni scrive il romanzo Fermo e Lucia, primo abbozzo del capolavoro narrativo I promessi sposi, cui, nell’autunno, viene aggiunta l’Appendice storica su la colonna infame, riguardante i processi ai presunti “untori” durante l’epidemia di peste del 1629 (che diventerà il saggio posto in appendice all’edizione definitiva del romanzo, nel 1840-1842, con il titolo Storia della colonna infame). In questi anni, vengono redatti dallo scrittore importanti testi teorici, sotto forma di comunicazioni private, come la Lettera a M. Chauvet sull’unità di tempo e

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L’edizione ventisettana e la permanenza a Firenze

Il lungo periodo di lutti

L’edizione quarantana del romanzo

La nomina a senatore

di luogo nella tragedia (in francese, 1820-1822) e la lettera Sul Romanticismo (1823), indirizzata a Cesare D’Azeglio. Nel 1827 viene pubblicato, nell’edizione detta appunto ventisettana, il romanzo I promessi sposi, che riscuote notevole successo: nel corso dell’estate, Manzoni si trasferisce con la famiglia a Firenze, con l’intenzione di apprendere il toscano parlato dalle persone colte, al fine di correggere la sua opera e renderla linguisticamente adatta a un pubblico italiano e non solo lombardo. In tale circostanza, egli incontra più volte Pietro Giordani e, in un’occasione, anche Giacomo Leopardi. Dopo il ritorno a Milano, lo scrittore è colpito da gravissimi lutti: nel 1833 muore la moglie Enrichetta, cui egli dedica l’ultimo degli Inni sacri, destinato a rimanere drammaticamente incompiuto, Natale 1833. Nel 1834 muore la figlia Giulia, moglie di Massimo d’Azeglio; fra il 1841 e il 1845 scompaiono altre due figlie, Cristina e Sofia, poi la madre Giulia Beccaria e l’amico Fauriel. L’edizione riveduta – soprattutto sul piano linguistico – e definitiva de I promessi sposi, edita nel 1840-1842 (la quarantana), ha risultati economicamente fallimentari. Nel 1848, infine, durante le Cinque giornate di Milano, il figlio Filippo è incarcerato per qualche tempo dagli Austriaci. Osteggiato dai figli è il secondo matrimonio, celebrato nel 1837, con Teresa Borri vedova Stampa. Dopo un breve periodo di serenità trascorso in Toscana, con amici come il poeta Giuseppe Giusti e l’abate Rosmini, filosofo spiritualista, nel 1856 muore la figlia Matilde e, nel 1861, la seconda moglie. Nello stesso anno, proclamata l’Unità d’Italia, lo scrittore, settantacinquenne e ormai celebre, è nominato senatore e riceve le visite di Cavour e Garibaldi.

Gli ultimi anni Le ultime opere storiche e linguistiche

L’attività per l’unificazione linguistica

Manzoni negli ultimi anni si dedica a studi di carattere storico, da lui ritenuti i più adatti a diffondere il vero, e linguistico. Nel 1845 pubblica, dopo una lunga elaborazione, il saggio Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione; nello stesso anno viene edita la lettera a Giacinto Carena Sulla lingua italiana; del 1850 è il dialogo Dell’invenzione; del 1859 è l’ultima redazione dell’incompiuto trattato Della lingua italiana; nel 1868 pubblica uno studio sul De vulgari eloquio di Dante e la Lettera intorno al vocabolario. Notevole è l’importanza dell’attività svolta dall’autore per l’unificazione linguistica del Regno d’Italia. Nel 1868, in particolare, presenta al ministro della Pubblica Istruzione la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla. Fra il 1864 e il 1872 lo scrittore, ultraottantenne, si dedica al Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, anch’esso rimasto incompiuto. Manzoni muore a Milano nel 1873, quasi novantenne, in seguito ai postumi di una caduta. Gli vengono tributati solenni funerali e, nel primo anniversario della scomparsa, il compositore Giuseppe Verdi scrive in sua memoria la Messa da requiem.

Focus

L’EPISTOLARIO

L’epistolario di Manzoni abbraccia oltre 1800 lettere, scritte nell’arco di settant’anni, di carattere privato e prive di finalità letteraria. Soltanto in rari casi (la lettera Sul Romanticismo al marchese Cesare Taparelli d’Azeglio, o quella a Giacinto Carena Sulla lingua italiana) Manzoni stesso provvede a riscrivere alcune sue lettere, dando loro forma e dignità di testo letterario, e le pubblica tra le Opere varie. La caratteristica saliente è la riservatezza: tanto forte da trasformarsi talora, secondo Geno Pampaloni, in silenzio. Manzoni non ama parlare di sé e della propria vita, ed anche nella corrispondenza (tranne, in parte, quella con Fauriel) è assai restio alla confidenza e all’autobiografia. Proprio le lettere a Claude Fauriel, che vanno dal 1806 fin quasi alla morte dell’amico, costituiscono il nucleo più ampio e significativo della silloge: Manzoni vi discute fondamentali questioni di poetica, prima relative alle tragedie, poi al romanzo, di cui è possibile seguire tutta la complessa gestazione.

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IL

PENSIERO

L’evoluzione del pensiero manzoniano Dopo un’iniziale simpatia giovanile per le tesi illuministiche e rivoluzionarie, Alessandro Manzoni aderisce al Romanticismo (come testimonia la Lettera a Fauriel, in cui tratta della poesia affermando che deve nascere dal cuore), innestando il nuovo pensiero sulle radici del razionalismo illuminista, che non sarà mai interamente rifiutato. Tale approccio moderato e pragmatico distingue il Romanticismo italiano dalla tendenza prevalente fra i Romantici europei. La conversione La conversione al Cattolicesimo del 1810 segna un’ulteriore, profonda svolta nel al Cattolicesimo pensiero manzoniano. Dopo di essa, la fede e il pensiero cattolici diventano la base delle concezioni manzoniane e del messaggio principale che lo scrittore affida alle sue opere. Il Cattolicesimo liberale dell’autore continuerà però a innestarsi su un fondamento di razionalismo illuministico e, soprattutto, di Romanticismo moderato, che Manzoni non vivrà mai come conflittuali fra loro.

Dall’Illuminismo al Romanticismo moderato

La concezione religiosa L’interrogativo centrale sul dolore

Le tragedie e la provida sventura

La nuova concezione espressa nel sugo del romanzo

Il pessimismo nei confronti della storia

La missione della Chiesa e la sorte degli sconfitti

Manzoni, simbolo del liberalismo cattolico Un patriottismo fondato su valori morali

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I temi centrali del pensiero dello scrittore, a partire dagli anni della maturazione coincidenti con il periodo della conversione (1808-1810), riguardano la meditazione sul destino dell’uomo nella storia e, soprattutto, il problema del senso della sofferenza (i guai di Renzo e Lucia nella riflessione conclusiva del romanzo), nel quale Manzoni cerca risposta, alla luce del messaggio cristiano, al drammatico interrogativo riguardante l’esistenza del male e del dolore. • In una prima fase, nelle tragedie e in particolare nell’Adelchi, Manzoni è orientato a ritenere inevitabile l’aspra sofferenza terrena del giusto e dell’oppresso, giacché, come afferma Adelchi morente, l’alternativa è fra far torto o subirlo. La sofferenza umana sarebbe dunque da considerare un prezzo da pagare per il riscatto che può giungere, grazie al sacrificio di Cristo, solo nell’altra vita, dopo la morte. La sofferenza è dunque, pessimisticamente, provvidenziale: provida sventura. • In una seconda fase, vale a dire nella definitiva versione de I promessi sposi, tale radicale pessimismo cristiano si sfuma e stempera, lasciando spazio, nelle vicende del romanzo – e nella sintesi insita nel sugo di tutta la storia – a una funzione educativa e purificatrice del dolore, per la possibilità che esso, grazie alla fede cristiana, porti a una vita migliore, più consapevole, già in questo mondo. Viene così superato definitivamente il rigore di stampo calvinista o giansenista presente, secondo alcuni studiosi, nelle tragedie, che si manifestava nella concezione secondo cui nel mondo prevalgono inevitabilmente il male e il dolore, all’interno di una distinzione tra buoni e malvagi rigida e netta. • Al pessimismo circa la possibilità di riscatto individuale del singolo corrisponde, nello scrittore, la sfiducia nel fatto che la storia possa far trionfare il bene e la giustizia. Solo l’intervento della Provvidenza divina può attenuare le tragedie insite nelle vicende storiche che trasformano il cammino umano in un percorso insanguinato (la cruenta polvere dell’ode Il cinque maggio). Di qui l’ideale di una Chiesa dedita a una missione di servizio a favore degli umili e degli oppressi e non legata al potere né ai beni terreni, e l’adesione allo spirito evangelico, che si traduce in partecipazione alla sorte degli umili e degli sconfitti (in quest’ottica, sconfitto e meritevole di pietà è anche, ad esempio, Napoleone, in esilio a Sant’Elena nel Cinque maggio), che non saranno premiati nel mondo, teatro di violenze e ingiustizie, ma nell’eterno regno di Dio. Ciò non si traduce in fatalistico disimpegno: nelle vicende italiane dell’Ottocento, lo scrittore diventa infatti il simbolo della tradizione del liberalismo cattolico; egli, da posizioni moderate, si batte per il raggiungimento dell’unità nazionale e per una maggiore giustizia sociale. La concezione politica manzoniana si intreccia con la fede religiosa e l’impegno morale: come sottintende, infatti, l’ode Marzo 1821, nessun popolo, come nessun uomo, ha il diritto di opprimerne un altro. Il patriottismo manzoniano deriva comunque da valori morali prima che politici.

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CALVINISMO E GIANSENISMO Nell’ambito delle dottrine cristiane che si separano dal Cattolicesimo, il Calvinismo e il Giansenismo sono accomunati – pur all’interno di diversità molto rilevanti – da una tendenza al rigorismo morale. Il Calvinismo prende il nome dal riformatore religioso Jean Cauvin (1509-1564), il cui nome italianizzato è Giovanni Calvino, e si sviluppa in Svizzera, in particolare nella città di Ginevra. Fondamento del Calvinismo, che si ricollega per molti aspetti al pensiero luterano, è la dottrina della predestinazione, secondo cui ogni uomo è destinato da Dio, fin dalla nascita, alla salvezza o alla dannazione: il rigore morale fondato sul senso del dovere e sull’etica del lavoro e la dimensione politica della fede, che coinvolge l’intera esistenza in una dimensione quasi teocratica, non sono dunque mezzi per conquistare la salvezza, ma unicamente elementi di un cammino in cui il credente calvinista riconosce, nella propria azione, i segni visibili della probabile appartenenza ai salvati da Dio. Il Giansenismo è una corrente di pensiero teologico che fiorisce in Francia (a partire dall’abbazia di Port-Royal), nei Paesi Bassi e in Italia fino alla prima metà dell’Ottocento, e prende il nome da Cornelis Jansen (1585-1638), teologo olandese noto in Italia come Giansenio. La sua dottrina si caratterizza per un radicale pessimismo sulla natura umana: a causa del peccato originale trasmesso a tutte le generazioni, infatti, l’uomo sarebbe schiavo del male, e in nessun modo potrebbe resistere alla tentazione senza l’intervento della grazia divina, all’interno di un’esistenza rigorosamente ascetica. Cinque proposizioni di Giansenio, accusate – in particolare dai Gesuiti – di inclinare verso il Calvinismo, sono condannate da papa Innocenzo X (1653): la tendenza, tuttavia, si sviluppa per altri due secoli, ai margini del Cattolicesimo.

Neoclassicismo e Romanticismo

Il compito della letteratura

Un romantico cattolico e realista

Un anticipatore di modalità narrative realistiche

LA POETICA Sul piano estetico Alessandro Manzoni, avverso al Neoclassicismo sperimentato in gioventù, nella sua maturità artistica si dichiara contro l’uso e l’abuso del mito, verso cui polemizza, anche in forma parodistica, in alcune gustose pagine dei Promessi sposi. La narrativa e la poesia manzoniane sono romantiche, ma aperte alla riflessione razionale e al distaccato umorismo (soprattutto nel romanzo). Manzoni afferma che il compito della letteratura è quello di esprimere il vero (come scrive nella lettera Sul Romanticismo del 1823, indirizzata a Cesare D’Azeglio), sostanzialmente coincidente con il vero storico ma anche con la verità cristiana, e che l’interessante è soltanto un mezzo per raggiungere uno scopo, in ultima analisi, morale ed educativo, dallo scrittore definito utile. Manzoni è lontano, dunque, da un Romanticismo soggettivistico e individualistico come quello espresso da Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, al punto che egli afferma apertamente che non si deve scrivere d’amore in modo passionale, ma, al contrario, che bisogna sostenere una poesia fondata sulla riflessione tanto quanto sull’immaginazione e sul sentimento. In sostanza, il pensiero dell’autore prende decisamente posizione a favore di un Romanticismo cattolico realista e oggettivo, in cui gli impulsi sentimentali siano saldamente radicati su basi razionali. Ciò che in Manzoni unifica ragione e cuore, che in Foscolo sono in aperto conflitto, è l’ideale cristiano: lo scrittore lombardo considera, infatti, la fede superiore sia al sentimento che alla riflessione e crede che in questa le due facoltà umane trovino il loro punto d’incontro e il loro completamento. La ricerca del vero, l’interesse per le vicende sociali e politiche e il modo in cui esse vengono trattate, rendono, inoltre, l’autore un romanziere storico e un anticipatore anche del modo di narrare realistico, che predomina nel romanzo europeo dalla metà del secolo, ma che farà la sua comparsa in Italia solo sul finire dell’Ottocento. Alcune parti del capolavoro manzoniano sono di taglio realistico - ciò vale, in particolare, per la parte ambientata a Milano - e non si possono definire pienamente tali solo perché trattano avvenimenti del Seicento e non contemporanei all’autore.

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T1 L’utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo da Sul Romanticismo La lettera Sul Romanticismo – inviata il 22 settembre 1823 al marchese Cesare Taparelli d’Azeglio, nobile piemontese, conservatore in politica e classicista in letteratura – costituisce nel contempo un documento storico che riassume le posizioni emerse nella polemica (nel 1816, con gli interventi di Madame de Staël, Pietro Giordiani e Giovanni Berchet) e definisce la teoria di Manzoni sulla letteratura. Pubblicata nel 1846, la lettera è divisa in due parti. Nella prima, vengono sostenuti gli aspetti che accomunano tutti gli scrittori romantici nel rifiuto del classicismo. Nella seconda, Manzoni riconosce la varietà delle posizioni all’interno dello schieramento romantico, ma vi individua un’istanza comune di tipo religioso in senso lato. Centrale è soprattutto la riflessione sul concetto di vero poetico, punto nodale della sua speculazione estetica. Qui si riporta la parte che precede la conclusione. PISTE DI LETTURA • Le teorie romantiche e la poetica manzoniana • La concezione del vero

Scopo, soggetto e mezzo della letteratura

Il vero

L’indeterminatezza del concetto di vero

Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso, mi sembra poter esser questo: che la poesia, e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo. Debba per conseguenza scegliere gli argomenti, pei quali la massa dei lettori ha, o avrà a misura che diverrà più colta, una disposizione di curiosità e di affezione1, nata da rapporti reali, a preferenza degli argomenti, pei quali una classe sola di lettori2 ha una affezione nata da abitudini scolastiche, e la moltitudine una riverenza non sentita né ragionata, ma ricevuta ciecamente3. E che in ogni argomento debba cercare di scoprire, e di esprimere il vero storico, e il vero morale; non solo come fine, ma come più ampia e perpetua sorgente del bello: giacché e nell’uno e nell’altro ordine di cose, il falso può bensì dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto dalla cognizione del vero; è quindi temporario4 e accidentale. Il diletto mentale non è prodotto che dall’assentimento ad una idea5; l’interesse, dalla speranza di trovare in quella idea, contemplandola, altri punti di assentimento, e di riposo6: ora quando un nuovo e vivo lume7 ci fa scoprire in quella idea il falso, e quindi l’impossibilità che la mente vi riposi e vi si compiaccia, vi faccia scoperte, il diletto e l’interesse spariscono. Ma il vero storico e il vero morale generano pure un diletto; e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione del vero: questo diletto adunque debbe8 la poesia e la letteratura proporsi di far nascere. […] Non dissimulo, né a Lei, che sarebbe un povero ed inutile artificio, né a me stesso, perché non desidero ingannarmi, quanto indeterminato, incerto e vacillante nell’applicazione, sia il senso dei vocaboli: utile, vero, interessante. E per non parlare che d’uno d’essi, Ella sa meglio di me che il vero tanto lodato e tanto raccomandato nelle opere d’immaginazione, non ha mai avuto un significato preciso. Il suo ovvio e comune non può essere applicato a queste9, perché di con-

1. affezione: interesse, preferenza. 2. una classe sola di lettori: coloro che hanno compiuto studi classici. 3. la moltitudine… ciecamente: la maggioranza dei potenziali lettori non è in grado di comprendere i contenuti della poesia classicistica, ma proprio per questo ne riconosce ciecamente il prestigio, asserito da coloro che hanno studiato, senza esigere delle giustificazioni convincenti. 4. temporario: temporaneo. 5. assentimento ad una idea: il riconoscimento della ve-

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rità e della validità di un’idea. 6. altri punti di assentimento, e di riposo: altri motivi di adesione a quell’idea, tali da convincere stabilmente e soddisfare l’intelletto. 7. un nuovo e vivo lume: una nuova e illuminante consapevolezza; ma l’espressione, nel ricordo dantesco che porta con sé (in Paradiso, XXXIII, 110, vivo lume è Dio), allude più in particolare alla verità dell’illuminazione cristiana. 8. debbe: deve. 9. a queste: alle opere d’immaginazione.

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La tendenza religiosa che pervade il Romanticismo

senso universale, vi debbe essere dell’inventato, cioè del falso. Il vero che debbe trovarvisi da per tutto, et même dans la fable10, è dunque qualche cosa di diverso da ciò che si vuole esprimere ordinariamente con quella parola; o per dir meglio è qualche cosa di non ancor definito; né il definirlo mi pare impresa molto agevole, quando pure ella sia possibile. Comunque sia, una tale incertezza non è particolare al principio che ho tentato di esporle11; è comune a tutti gli altri, è antica; il sistema romantico ne ritiene meno di qualunque altro sistema letterario, perché la parte negativa, specificando il falso, l’inutile o il dannoso, il freddo12 che vuole escludere, indica e circoscrive nelle idee contrarie qualche cosa di più preciso, un senso più lucido di quello che abbiano avuto finora. […] Tale almeno è l’opinione ch’io ho fitta nella mente, e nella quale mi rallegro, perché questo sistema, non solo in alcune parti, come ho accennato più sopra, ma nel suo complesso mi sembra avere una tendenza religiosa. Questa tendenza era ella13 nelle intenzioni di quelli che l’hanno proposto, e di quelli che l’hanno approvato? Sarebbe leggerezza l’affermarlo di tutti; perché in molti scritti di teorie romantiche, anzi nella maggior parte, le idee letterarie non sono espressamente subordinate alla religione. Sarebbe temerità il negarlo, anche d’un solo; perché in nessuno di quegli scritti, almeno dei letti da me, la religione è esclusa.

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da Tutte le lettere, a cura di C. Arieti e D. Isella, Adelphi, Milano, 1986

10. et même dans la fable: “e anche nell’opera di invenzione”. 11. particolare… esporle: specifica, propria unicamente del sistema romantico.

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12. il freddo: ciò che è privo di sentimento, di passione. 13. era ella: era. Il pronome ella è qui pleonastico e inserito solo per ragioni stilistiche.

inee di analisi testuale La poetica manzoniana La poetica manzoniana si basa sull’affermazione del valore etico della letteratura, che deve educare moralmente il lettore. Per conseguire questo scopo, la letteratura deve necessariamente avere come soggetto il vero (perché il falso diletta soltanto fino a che non è riconosciuto come tale), e servirsi come mezzo dell’interessante, per raggiungere e coinvolgere il maggior numero possibile di persone: in altri termini, deve essere realistica e popolare. La tendenza religiosa del Romanticismo In conseguenza della sua funzione educativa, la letteratura entra nel novero delle scienze morali, che tutte alla fine appartengono alla religione; e se la presenza di una tendenza religiosa nella poesia romantica ancora non è evidente, secondo Manzoni è soltanto perché il grado di sviluppo da essa raggiunto è parziale. Il problema del vero Al momento di definire i princìpi su cui fondare la propria poetica, Manzoni si trova ad affrontare il nodo centrale della sua riflessione teorica: quello del vero. Qui conclude osservando che il sistema romantico è meno lontano dal vero di quelli che lo hanno preceduto, perché se non altro ha proceduto per via negativa, escludendo il falso, l’inutile o il dannoso, il freddo. Per Manzoni, insomma, vi può essere del vero anche nell’inventato, cioè nel falso, a patto che questo non entri in contrasto con le verità della storia e della fede. È il compromesso da cui stanno nascendo I promessi sposi, in cui la cornice storica e i contenuti etici sono inappuntabili, ma la vicenda e i personaggi sono frutto di fantasia. Manzoni rinnegherà, infine, tale compromesso nel discorso Del romanzo storico. Nell’edizione delle Opere varie del 1870 egli scriverà che la poesia deve proporsi per oggetto il vero, come l’unica sorgente di un diletto nobile e durevole. Dell’interessante non rimarrà più traccia.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il testo della lettera di Manzoni in non più di 15 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 3 righe per ogni quesito). a. Quali obiettivi deve porsi la letteratura per Manzoni? b. Vero storico e vero poetico coincidono? Perché? c. Quale definizione viene data del vero poetico nel brano? Approfondimenti 3. Rileggi attentamente il passo della lettera e le relative Linee di analisi testuale. Scrivi poi una intervista immaginaria – adeguatamente intitolata – a Manzoni sulla sua poetica. 4. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: Il vero nella poetica manzoniana.

La teoria linguistica e la sua evoluzione Il problema linguistico è centrale nella riflessione e nella prosa manzoniana. In una lettera del 1821 a Claude Fauriel, Manzoni si sofferma sull’incapacità della lingua italiana letteraria di raggiungere un pubblico nazionale e medio, e lamenta l’assenza di un linguaggio comune allo scrittore e al lettore. Nella seconda Prefazione al Fermo e Lucia, il problema è ripreso con maggiore chiarezza: dichiarandosi insoddisfatto della via seguita – consistente nel mescolare frasi lombarde, toscane, francesi, latineggianti – lo scrittore prospetta la soluzione di rifarsi all’uso e alla lingua parlata, rifiutando la tesi dei puristi a favore di un modello linguistico rigido. La scelta Tra le numerose varianti locali della lingua nazionale, Manzoni ritiene che il punto di del toscano riferimento debba essere il toscano, in quanto più vicino a un italiano comune e ben contemporaneo comprensibile da ampi strati di popolazione. Questa soluzione si rivelerà transitoria. Per Manzoni, dunque, la vera lingua italiana è quella parlata dai toscani della sua epoca. Si tratta di una lingua viva, soggetta a continui cambiamenti e dunque, a partire dal 1824, servendosi anche di un vocabolario milanese-toscano, Manzoni si dedica a tradurre in toscano i lombardismi e le espressioni linguistiche eterogenee presenti nei Promessi sposi, sia a livello di costrutti sia di lessico. Nasce così, sul piano linguistico, l’edizione del 1827 del romanzo. Ancora insoddisfatto, Manzoni soggiorna a Firenze per impadronirsi della lingua Dal toscano al fiorentino parlata in città. Sulla base non più del toscano, ma del fiorentino parlato dalle persone mediamente colte viene condotta l’ultima revisione, recepita nella ristampa del 1840-1842. L’importanza del romanzo trasforma il cosiddetto “manzonismo linguistico” in Il ruolo dell’autore punto di riferimento della successiva narrativa italiana, soprattutto per quanto rinell’unificazione guarda il superamento della distanza tra lingua letteraria e lingua parlata. dell’italiano L’esistenza di un romanzo nazionale e popolare contribuisce notevolmente, e non solo sul piano linguistico, alla formazione di una coscienza unitaria. Dopo l’unificazione, inoltre, il ruolo ricoperto da Manzoni per incarico dei governi del Regno d’Italia, farà sì che, anche attraverso le riforme scolastiche, la soluzione da lui adottata diventi un importante apporto all’unificazione del linguaggio di tutti gli Italiani. L’assenza di una lingua omogenea nazionale

Lo studio di Manzoni a Milano in un’incisione del 1879.

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TERMINI CHIAVE DEL PENSIERO DI MANZONI

ILLUMINISMO

Influenza fortemente la formazione manzoniana, che durante il giovanile soggiorno parigino impara a conciliare la razionalità illuministica con le istanze di rinnovamento spirituale. Tramite la figura di Carlo Imbonati, compagno della madre Giulia, Manzoni recupera il modello di Parini per il rigore etico e l’associazione fra arte e morale.

ROMANTICISMO

Sebbene nel 1816 non si schieri pubblicamente nella disputa classico-romantica, Manzoni sostiene le posizioni romantiche con l’ode in difesa di Giovanni Berchet L’ira d’Apollo (pubblicata anonima solo nel 1829) e, nel 1823, con la lettera Sul Romanticismo, in cui rifiuta le istanze classicistiche e riflette sul concetto di vero poetico. Manzoni sostiene il valore etico della letteratura, che, di conseguenza, deve avere come soggetto il vero. Dopo la proclamazione giovanile del culto del santo Vero, durante la stesura delle tragedie e nella lettera a monsieur Chauvet subordina il vero poetico al vero storico. Nella lettera Sul Romanticismo (1823) afferma che vi può essere del vero anche nell’inventato, purché non contrasti con la verità della storia e della fede: sono gli anni di elaborazione dei Promessi sposi. Nel Discorso del romanzo storico (pubblicato nel 1851) condanna infine i generi che mescolano verità storica e invenzione letteraria, in particolare il romanzo storico.

VERO

Dopo la conversione del 1810, esito di un lungo cammino di ricerca, il Cattolicesimo subentra all’Illuminismo come quadro di riferimento, conservando una sostanziale continuità di temi e valori, e integra in sé le istanze romantiche. Manzoni condivide l’idea di un Cristianesimo attivo, nonostante la consapevolezza che la giustizia si realizzerà pienamente solo nell’aldilà.

CATTOLICESIMO

Lontano da ogni compromesso, Manzoni mostra il rigore maggiore innanzi tutto nei confronti di se stesso. Tale severità ha fatto riflettere i critici sul ruolo svolto dal Giansenismo. Anche se negli scritti manzoniani non si trova traccia di affermazioni gianseniste, nelle tragedie e nella prima stesura del romanzo, bene e male sono divisi da una linea di demarcazione molto netta ed emerge una visione negativa dell’uomo (pessimismo cristiano).

MORALITÀ

LE

OPERE MINORI

Gli Inni sacri La celebrazione delle feste cristiane

I cinque componimenti ultimati

Gli Inni sacri sono testi poetici destinati alla celebrazione delle festività liturgiche cristiane. Manzoni ne inizia la composizione dopo la conversione (1810) e la continua per alcuni anni, interrompendola poi per intraprendere la stesura de I promessi sposi. Nel progetto originario dovevano essere dodici, ma l’autore ne completa solo cinque. Fra di essi, il meglio riuscito è generalmente ritenuto La Pentecoste. • La Resurrezione (1812, pubblicato nel 1815) tratta dell’evento centrale per la salvezza secondo la dottrina cristiana ed esorta tutta l’umanità a esultare poiché anche i peccatori, se avranno fede, potranno essere redenti. • Il nome di Maria (1812-1813, pubblicato nel 1815) verte sul culto della Madonna e narra l’episodio evangelico in cui la Vergine annuncia alla cugina Elisabetta che sta per divenire madre di Dio.

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L’intento dell’autore

Lo stile

Focus

• Il Natale (1813, pubblicato nel 1815) sviluppa il tema del mistero dell’incarnazione di Cristo, grazie a cui il genere umano, che non avrebbe alcuna possibilità di riscattarsi con le proprie forze, viene salvato. • La Passione (1814, pubblicato nel 1815) celebra la crocifissione di Cristo, morto per salvare l’uomo. • La Pentecoste (1817, completata e pubblicata nel 1822), è ritenuto l’inno meglio riuscito. Dopo aver narrato la storia della Chiesa, dalla discesa dello Spirito Santo sul primo gruppo degli apostoli, alla diffusione in tutto il mondo del messaggio cristiano, il poeta invoca lo Spirito perché si accosti ogni giorno agli uomini per aiutarli nel loro difficile cammino. Negli Inni sacri, sul piano religioso, il poeta tratta le tematiche non in chiave dottrinaria, ma si rivolge agli uomini per mostrare loro come la fede possa aiutare la realizzazione dei migliori ideali individuali e sociali e possa consolare, in particolare, gli infelici e gli umili, anche nelle condizioni di oppressione. Tale tema è presente in forma più articolata anche nei Promessi sposi. Sul piano stilistico, l’autore vuole rinnovare la lirica religiosa, da tempo ormai legata, in Italia, alla tradizione classicista, creando una lirica popolare e corale (nei versi, frequente è l’uso del noi) allo scopo di attribuire un carattere universale al messaggio cristiano.

IL FRAMMENTO NATALE 1833

Agli Inni sacri viene generalmente ricollegato l’incompiuto, drammatico frammento in versi Natale 1833, edito postumo solo nel 1874, per iniziativa del sacerdote e poeta lombardo Antonio Stoppani (1824-1891). Due anni dopo la morte dell’amata moglie, avvenuta, appunto, nella notte di Natale del 1833, Manzoni intraprende la composizione dell’inno, nel quale affronta il tema del mistero del dolore, rivolgendosi direttamente a Dio. Di seguito se ne riporta la prima parte: Tu sì che sei terribile! / [...] / Vedi le nostre lagrime, / intendi i nostri gridi, / il voler nostro interroghi / e a tuo voler decidi: / mentre a stornare il fulmine / trepido il prego ascende / sordo il tuo fulmin scende / dove tu vuoi ferir. / Ma tu pur nasci a piangere; / ma da quel cor ferito / sorgerà pure un gemito, / un prego inesaudito [...]. da Tutte le opere, I, Mondadori, Milano, 1970

“Tu, [mio Dio]), sei veramente terribile! [...] Vedi le nostre lacrime, senti le nostre grida, ci chiedi di esprimere il nostro volere ma decidi secondo il tuo volere: mentre la preghiera trepidante sale per allontanare il fulmine della sciagura, il tuo fulmine, sordo alle richieste, scende e colpisce dove tu vuoi. Ma anche tu sei nato per piangere; ma anche dal tuo cuore angosciato nascerà un gemito, una preghiera che non sarà esaudita...”.

Il testo manoscritto, frammentario, si conclude con le parole virgiliane cecidere manus (“le mani ricaddero”) e con due esclamazioni: Onnipotente!, rivolto a Dio e Cara!, diretto alla moglie. Rimasto incompiuto, l’inno mette drammaticamente in luce il dolore dell’uomo colpito dalla sofferenza e dalla sciagura (il fulmine). Non esiste risposta razionale alla domanda sul perché Dio permetta la sofferenza innocente (tale risposta, infatti, non è fornita neppure nel sugo dei Promessi sposi). Per il cristiano Manzoni esiste, però, una risposta che nasce dalla fede: secondo la testimonianza del Vangelo (Matteo, 26, 39), Gesù stesso, nell’orto di Getsemani, prega, se possibile, di evitare la morte in croce, ma infine accetta la volontà di Dio: è questo un modello di comportamento, di fronte alla prova del dolore, che Manzoni ricorda a se stesso e a tutti gli uomini. Non vi è, dunque – e non vi sarà in nessuna altra opera manzoniana – risposta razionale al mistero dell’esistenza del male e del dolore: l’unica risposta è data dalla persona di Cristo, ossia di Dio stesso, che ha affrontato il dolore e la morte per salvare l’uomo. Il frammento Natale 1833 suggerirà a uno scrittore del Novecento, Mario Pomilio (1921-1990), lo spunto per la trama di un intenso romanzo breve (Il Natale del 1833, pubblicato nel 1983), che ha Alessandro Manzoni quale protagonista: nell’opera, Manzoni – per le terribili sventure che lo hanno colpito in ogni età della vita – è paragonato a un moderno Giobbe che si interroga sul mistero della sofferenza.

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T2 La Pentecoste da Inni sacri Mentre i primi quattro inni appaiono molto legati ai riferimenti biblici, La Pentecoste è uno dei momenti più elevati della poesia manzoniana, poiché la libertà compositiva – espressa in un armonico equilibrio di contenuto e forma – rende corale fin dall’inizio un messaggio cristiano che raggiunge toni universali, inducendo a partecipare al dramma dell’esistenza umana e prospettando una via di salvezza. Il titolo fa riferimento all’evento evangelico secondo cui, cinquanta giorni dopo la resurrezione di Cristo, nel giorno di Pentecoste (festa celebrata dagli Ebrei per solennizzare le leggi date da Dio a Mosé e celebrare le primizie delle messi), lo Spirito Santo visita gli Apostoli riuniti nel Cenacolo e dona loro la forza necessaria ad affrontare la missione di diffusione del messaggio cristiano nel mondo. Per comprendere il testo, è importante ricordare che i sette doni dello Spirito sono sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio. Schema metrico: diciotto strofe di otto versi settenari: il primo, il terzo e il quinto sono sdruccioli; il secondo e il quarto sono piani e rimano fra loro; così il sesto e il settimo (piani e a rima baciata); gli ultimi versi delle strofe sono tronchi e rimano fra loro a due a due. Lo schema delle rime è dunque: abcbdeef. PISTE DI LETTURA • Le verità teologiche e la fede degli umili espresse in forma corale • La poesia come educazione religiosa • Tono liturgico con inserti lirici

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Madre de’ Santi1; immagine della città superna2; del Sangue incorruttibile3 conservatrice eterna4; tu che, da tanti secoli, soffri, combatti e preghi5; che le tue tende spieghi dall’uno all’altro mar6; campo di quei che sperano7, Chiesa del Dio vivente8; dov’eri mai? qual angolo ti raccogliea nascente, quando il tuo Re9, dai perfidi tratto a morir sul colle10, imporporò le zolle del suo sublime altar?11

1. Madre de’ Santi: Manzoni si riferisce alla Chiesa cattolica, cioè alla comunità dei credenti in Cristo che riconoscono il successore di san Pietro come capo (il Santo Padre o Pontefice romano). Iniziano, qui, due interrogative retoriche, rivolte alla Chiesa, che si protraggono fino a dov’eri? (v. 28). 2. città superna: l’autore allude alla civitas Dei (“città di Dio”) di sant’Agostino, di cui la Chiesa è prefigurazione (immagine). 3. Sangue incorruttibile: il Sangue di Cristo. 4. conservatrice eterna: la Chiesa è custode (conservatrice) del Sangue di Cristo, simbolo della sua Passione, mediante l’Eucaristia. 5. soffri… preghi: i tre verbi riassumono e celebrano l’opera svolta dalla Chiesa militante, la sua sofferenza per le persecuzioni, la sua lotta per la diffusione della fede. 6. le tue tende… mar: la metafora allegorica allude alla Chiesa come un esercito trionfante che si accampa con le tende da un mare all’altro, in ogni luogo. Come annota lo stesso Man-

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zoni, si tratta di una traduzione dal Salmo 71 (Et dominabitur a mari usque ad mare: “e dominerà da un mare all’altro”). 7. campo... sperano: luogo di raccolta (campo) di coloro che sperano. La speranza è una delle tre virtù dette teologali, insieme alla fede e alla carità. 8. Chiesa del Dio vivente: riferimento a san Paolo, che parla di Ecclesia Dei vivi (“Chiesa del Dio vivo”) nella Lettera a Timoteo. 9. il tuo Re: Cristo. 10. colle: il Golgota (in aramaico “Collina del cranio”, da cui il tardo latino calvarium, “teschio”), dove fu celebrato, con la crocifissione, il sacrificio di Cristo. I perfidi (“malvagi”) sono coloro che condussero a morire Gesù innocente. 11. imporporò… altar?: arrossò con il suo sangue le zolle del Calvario, altare sublime, perché luogo e simbolo del sacrificio di Cristo. Qui termina la prima domanda rivolta alla Chiesa (Madre de’ Santi), iniziata nel primo verso, e subito ne inizia una seconda (che si concluderà al v. 28).

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E allor che dalle tenebre la diva spoglia uscita12, mise il potente anelito della seconda vita13; e quando, in man recandosi il prezzo del perdono, da questa polve al trono del Genitor salì14; compagna del suo gemito, conscia de’ suoi misteri, tu, della sua vittoria figlia immortal, dov’eri?15 in tuo terror sol vigile, sol nell’obblio secura16, stavi in riposte mura17, fino a quel sacro dì18, quando su te lo Spirito rinnovator discese, e l’inconsunta fiaccola19 nella tua destra accese; quando, segnal de’ popoli20, ti collocò sul monte; e ne’ tuoi labbri il fonte della parola aprì21. Come la luce rapida piove di cosa in cosa, e i color varii suscita, dovunque si riposa; tal risonò molteplice la voce dello Spiro: l’Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l’udì.

12. dalle tenebre… uscita: le tenebre sono quelle del sepolcro; la diva spoglia è il corpo divino di Cristo; il riferimento riguarda la resurrezione. 13. mise… vita: emise il potente spirito (anelito) della seconda vita, immortale (che segue la prima, mortale) conseguente alla resurrezione. 14. e quando… salì: l’autore allude all’Ascensione, cioè alla salita di Cristo al cielo dopo la resurrezione e i quaranta giorni in cui si manifestò con diverse apparizioni ai discepoli. Nell’immagine poetica, Cristo porta a Dio Padre il proprio martirio quale prezzo del perdono degli uomini. 15. compagna… dov’eri?: la seconda domanda si rivolge ancora alla personificazione della Chiesa che viene definita compagna della Passione (in quanto i discepoli assistettero alla passione di Cristo), consapevole della sovrumana dottrina (in quanto i discepoli avevano ascoltato per tre anni la sua predicazione), figlia immortale della sua vittoria sulla morte e sul peccato (in quanto la Chiesa è frutto della vittoria sul male operata da Cristo, che si perpetua attraverso la redenzione). 16. in tuo… secura: concluse le due interrogazioni, l’inno inizia, con un crescendo che si svilupperà fino alla con-

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clusione, a narrare la storia della Chiesa, partendo dai timorosi inizi successivi alla morte di Cristo. Dopo l’uccisione di Gesù, infatti, i discepoli impauriti si isolarono da tutti e si nascosero, sperando di essere dimenticati. 17. riposte mura: secondo i vangeli, quelle del Cenacolo, dove era stata celebrata l’ultima cena prima dell’arresto di Gesù. 18. quel sacro dì: il decimo giorno dopo l’Ascensione di Cristo, nella ricorrenza della Pentecoste, ossia il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua. 19. inconsunta fiaccola: la inestinguibile luce della fede, metafora dell’ardore dell’apostolato. 20. segnal de’ popoli: la Chiesa, ossia, la comunità degli apostoli di Cristo, diventata un segno per le genti. 21. il fonte… aprì: la metafora assimila le labbra degli apostoli a una fonte, in quanto lo Spirito concesse loro di pronunciare la parola della verità che fu da tutti intesa (l’Arabo, il Parto, il Siro stanno per “tutti gli uomini”; in suo sermon significa “nella loro lingua”). Il miracoloso evento è ulteriormente illustrato da una similitudine (vv. 41-48): “Come la luce rapida scende una dall’alto su ogni cosa e fa comparire i vari colori dovunque si posa, così risuonò in molti modi diversi la voce dello Spirito”.

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Adorator degl’idoli, sparso per ogni lido; volgi lo sguardo a Solima22, odi quel santo grido23: stanca del vile ossequio, la terra a LUI ritorni: e voi che aprite i giorni di più felice età,24 spose, che desta il subito balzar del pondo ascoso, voi già vicine a sciogliere il grembo doloroso; alla bugiarda pronuba25 non sollevate il canto: cresce serbato al Santo quel che nel sen vi sta. Perché, baciando i pargoli26, la schiava ancor sospira? e il sen che nutre i liberi invidiando mira? Non sa che al regno i miseri seco il Signor solleva?27 che a tutti i figli d’Eva nel suo dolor28 pensò? Nova franchigia annunziano i cieli, e genti nove29; nove conquiste, e gloria vinta in più belle prove: nova, ai terrori immobile e alle lusinghe infide, pace, che il mondo irride, ma che rapir non può.

Caspar David Friedrich, Croce in montagna, 1807-1808. Dresda, Gemäldegalerie Neue Meister.

O Spirto! supplichevoli a’ tuoi solenni altari30; soli per selve inospite; vaghi in deserti mari; dall’Ande algenti al Libano, d’Erina all’irta Haiti, sparsi per tutti i liti, uni per Te di cor,

22. Solima: Gerusalemme (Hyerosolima in latino). 23. santo grido: la voce degli apostoli. 24. e voi... di più felice età: le spose, attraverso i figli, danno origine a un’epoca più felice perché riscattata dal sacrificio di Cristo. 25. bugiarda pronuba: le partorienti non devono più pregare la falsa dea protettrice del culto pagano, cioè Giunone Lucina. 26. pargoli: i propri figli (dal latino parvus, “piccolo”). 27. Non sa… solleva?: il Signore accoglie i poveri con sé nel regno dei cieli (come Gesù afferma nel Discorso della montagna riportato nei Vangeli). Il sentimento della pietà per gli umili e l’accento democratico caratterizzano la concezione manzoniana. Secondo Francesco De Sanctis, la base ideale di quegl’Inni è sostanzialmente democratica; è

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l’idea del secolo battezzata sotto il nome d’idea cristiana; è la famosa triade, libertà, eguaglianza, fratellanza, evangelizzata; è il Cristianesimo […] armonizzato con lo spirito moderno. 28. nel suo dolor: cioè quando Cristo affrontò la passione e la morte. 29. Nova... nove: l’aggettivo, ripetuto, è legato in iperbato a pace (v. 79): è la pace dell’anima. Franchigia significa “libertà”: il poeta allude qui, ricollegandosi ai testi evangelici, alla liberazione dal peccato. 30. solenni altari: gli altari parati a festa in tutte le chiese cattoliche del mondo nel giorno solenne della Pentecoste. I fedeli di tutto il mondo sono poi indicati attraverso quattro luoghi lontani: le Ande gelide (algenti), il Libano, l’Islanda (Erina) e la montuosa (irta) Haiti.

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noi t’imploriam! Placabile31 Spirto discendi ancora, a’ tuoi cultor propizio, propizio a chi T’ignora; scendi e ricrea; rianima i cor nel dubbio estinti; e sia divina ai vinti mercede il vincitor32. Discendi Amor; negli animi l’ire superbe attuta: dona i pensier che il memore ultimo dì non muta33: i doni tuoi benefica nutra la tua virtude; siccome il sol che schiude dal pigro germe il fior; che lento poi sull’umili erbe morrà non colto, nè sorgerà coi fulgidi color del lembo sciolto, se fuso a lui nell’etere non tornerà quel mite lume, dator di vite, e infaticato altor34. Noi T’imploriam! Ne’ languidi pensier dell’infelice scendi piacevol alito, aura consolatrice: scendi bufera ai tumidi pensier del violento; vi spira uno sgomento che insegni la pietà35.

31. noi... Placabile: attributo del complemento predicativo Spirto, significa “facile ad essere placato” (quindi mite, benigno). Da questo punto (e il noi ne è chiaro indizio) la lirica diventa una preghiera corale. La “coralità” è l’obiettivo di fondo della riforma manzoniana del genere lirico. La poesia coinvolge idealmente tutta l’umanità a tutti i livelli sociali, in omaggio all’essenza stessa della Chiesa romana, che, per sua definizione, è apostolica (cioè fondata sull’opera di evangelizzazione avviata dagli Apostoli) e cattolica (cioè universale). Anche nella natura strutturaleformale il componimento richiama le forme della liturgia della parola, dall’inno alla lode, dalla preghiera alla predicazione. 32. e sia… vincitor: Dio vincitore sia la divina ricompensa per chi si è lasciato da lui conquistare. 33. dona… non muta: infondi nell’animo pensieri, convinzioni, che non si debbano rifiutare nell’ultimo giorno (cioè, in punto di morte), quando l’uomo ricorda per l’ultima volta la vita terrena (da cui il termine memore). 34. i doni... altor: la similitudine rappresenta il passo forse più poetico dell’inno. Questa la parafrasi: la tua virtù benefica nutra i tuoi doni (il poeta allude ai sette doni

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dello Spirito), come il sole che fa germogliare dal seme tardo a schiudersi (pigro) il fiore; il quale poi, reclinato (lento), morirà senza essere colto sopra l’erba più bassa e non si alzerà con gli splendenti colori della corolla aperta (lembo sciolto), se la dolce luce del sole (lume) donatrice di vita e nutrice infaticabile non tornerà nell’aria a fondersi con esso. Il termine altor è un latinismo e significa “nutrice” (dal latino alere, “nutrire”). 35. Ne’ languidi... pietà: le ultime quattro strofe, con mirabili simmetrie tematiche e metrico-ritmiche, pregano (Noi T’imploriam!) perché lo Spirito conceda i suoi doni a tutti gli uomini. La quartultima strofa, che può essere così parafrasata: “Discendi nei dolorosi pensieri di chi è infelice come un soffio confortevole, come una brezza consolatrice: discendi come una tempesta sui gonfi (tumidi) pensieri di chi è violento, ispiragli un’angoscia che insegni la pietà”. Il tema si ritroverà nei Promessi sposi: il dono spirituale di cui ha bisogno l’infelice è il conforto della fede; per il violento, la salvezza può invece giungere da uno sconvolgimento dei superbi pensieri, paragonabile a una bufera (si pensi alla conversione dell’Innominato, preceduta da un’angosciosa notte che lo conduce sull’orlo del suicidio).

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Per Te sollevi il povero al ciel, ch’è suo, le ciglia; volga i lamenti in giubilo, pensando a cui somiglia: cui fu donato in copia doni con volto amico, con quel tacer pudico, che accetto il don ti fa36. Spira de’ nostri bamboli nell’ineffabil riso; spargi la casta porpora alle donzelle in viso; manda alle ascose vergini le pure gioie ascose; consacra delle spose il verecondo amor37. Tempra de’ baldi giovani il confidente ingegno; reggi il viril proposito ad infallibil segno; adorna la canizie di liete voglie sante; brilla nel guardo errante di chi sperando muor38. da Tutte le opere, I, Mondadori, Milano, 1970

36. Per Te... ti fa: la terzultima strofa pone a confronto poveri e benestanti. Grazie allo Spirito (la preposizione per regge il complemento di mezzo Te) il povero, anziché invidiare il ricco, deve alzare gli occhi (le ciglia) al cielo cui è destinato (ch’è suo) e pensare a chi (a cui: si allude al Cristo) somiglia; chi invece ha ricevuto in grande abbondanza (in copia: si tratta di un latinismo) deve donare ai bisognosi con volto benevolo (amico), con quel tacere riservato (pudico) che ti rende gradito il regalo. 37. Spira... verecondo amor: le ultime due strofe riguardano particolari gruppi di persone e sembrano percorrere il cammino della vita dall’infanzia alla morte. Qui, il poeta implora lo Spirito di mostrarsi (Spira è un latinismo: “mostra il tuo alito vitale”) attraverso il riso indescrivibilmente bello dei bambini (pargoli), di spargere il rossore casto sul viso alle fanciulle, di inviare alle sorelle consacrate (le ascose vergini) le pure gioie interiori, di consacrare l’amore pudico (verecondo) delle spose. 38. Tempra... muor: modera l’ingegno temerario dei giovani baldanzosi, indirizza alla giusta meta il proponimento del forte adulto, adorna la vecchiaia di desideri lieti e buoni, e riluci nello sguardo che si perde di colui che muore sperando. Il cammino della vita è seguito in tutte le età e le condizioni: per ognuna di esse, lo Spirito ha un suo dono. Il guardo errante è lo sguardo che vaga, della persona in punto di morte ma che spera nella salvezza e nella vita eterna (sperando muor).

Codice autografo della seconda stesura della Pentecoste. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.

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inee di analisi testuale Le tre parti dell’inno L’Inno si divide in tre parti. La prima è l’invocazione alla Chiesa (strofe I-VI), che la celebra come comunità dei credenti, vivificata dalla presenza dello Spirito Santo. Il poeta ripercorre la storia della Chiesa dal suo iniziale smarrimento dopo la morte di Cristo, fino alla discesa dello Spirito Santo con i suoi doni. La seconda parte celebra l’universalità del messaggio cristiano (strofe VII-X), improntato sull’uguaglianza degli uomini nel nome di Cristo, sacrificatosi per il riscatto di tutti. La terza è la preghiera corale allo Spirito Santo (strofe XI-XVIII), di tono liturgico e profetico, teso a prefigurare un’umanità unificata in Cristo, dove lo Spirito è invocato a discendere ancora e sempre nel cuore degli uomini di ogni indirizzo morale e ceto, condizione ed età. Il significato della Pentecoste Per il credente Manzoni, la Pentecoste non è solo quanto narrato negli Atti degli Apostoli e il sacramento della cresima, ma un evento salvifico e una illuminazione che tocca ogni essere umano. Lo si dice nei versi 97-112. Lo stile Dal punto di vista linguistico-stilistico, La Pentecoste intreccia la popolarità e coralità del ritmo, cadenzato, rimato e cantabile, con un lessico letterario e ricco di latinismi (superna, altar, polve, inconsunta, sermon, pondo, pronuba, algenti) e con una sintassi complessa (con frequenti inversioni e iperbati).

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto dell’inno La Pentecoste di Manzoni in non più di 20 righe. 2. Prosegui in forma scritta la parafrasi dell’inno, utilizzando come modello quella delle prime due strofe qui di seguito riportata e aiutandoti con le note. [Chiesa,] Madre dei Santi, simbolo della città celeste, custode eterna del Sangue che non si corrompe, tu che da tanti secoli soffri, combatti e preghi, che elevi i tuoi santuari da un oceano all’altro, come luogo di raccolta di coloro che sperano, o Chiesa del Dio vivente, dov’eri mai, quale luogo ti accoglieva mentre stavi per nascere quando il tuo Re trascinato a morire su quella collina insanguinava la terra di quel suo altare sublime?

3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. In quante parti si può dividere il componimento e qual è il tema sviluppato in ognuna di esse? b. In quale strofa il poeta tratta di poveri e benestanti e che cosa scrive a proposito degli uni e degli altri? Analisi e interpretazione 4. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Da quale strofa l’inno diventa poesia corale e quale elemento del testo lo rivela? b. A chi si rivolge il poeta di volta in volta nelle diverse strofe? c. Quali messaggi emergono dall’inno La Pentecoste? d. Quale tipo di lessico, linguaggio e sintassi utilizza il poeta? Approfondimenti 5. Riferendoti al testo dell’inno La Pentecoste, ai due brani tratti dalle Osservazioni sulla morale cattolica riportati di seguito ed, eventualmente, ad altri documenti a te noti, scrivi (max tre colonne di metà foglio protocollo) un saggio breve, opportunamente intitolato, sul seguente argomento: L’universalità, la missione evangelizzatrice della Chiesa cattolica e il progresso civile secondo Alessandro Manzoni. a. È uno dei più singolari caratteri della morale cattolica, e de’ più benefici effetti della sua autorità, il prevenire tutti i sofismi delle passioni con un precetto, con una dichiarazione. Così, quando si disputava per sapere se uomini di colore diverso dall’europeo dovessero essere considerati come uomini, la Chiesa, versando sulla fronte l’acqua rigeneratrice, aveva imposto silenzio, per quanto era in lei, a quella discussione vergognosa; li dichiarava fratelli in Gesù Cristo e chiamati a parte della sua eredità. b. [In America] l’ira contro ogni resistenza, l’avarizia resa incontenibile dalle promesse di fantasie riscaldate, il timore che nasce anche negli animi più determinati e li rende crudeli, quando non sono fortificati dall’idea d’un dovere, e quando gli offesi sono molti, tutte insomma le passioni più inesorabili della conquista, avevano snaturato affatto gli animi degli Spagnoli; e gli Americani non ebbero quasi altri avvocati che gli ecclesiastici; e questi non ebbero altri argomenti in favor loro che quelli del Vangelo e della Chiesa. da A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, Edizioni Paoline, Milano, 1960

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Le poesie civili e politiche

Marzo 1821 e l’ideale della fratellanza fra le nazioni

Il cinque maggio e la provida sventura di Napoleone

Le prime poesie civili e politiche, Aprile 1814 e Il proclama di Rimini, scritte negli anni 1814-1815, costituiscono una sorta di omaggio di Manzoni al definitivo tramonto del potere napoleonico in Italia e sono rilevanti solo in quanto testimonianza della maturazione della coscienza patriottica del poeta. Pochi anni dopo, Manzoni compone due grandi odi politiche: Marzo 1821 e Il cinque maggio. L’ode Marzo 1821 viene scritta in occasione dei moti carbonari piemontesi, quando sembra che Carlo Alberto intenda muovere guerra per l’unificazione italiana, ed esalta appunto l’ideale patriottico e la guerra di liberazione per iniziativa savoiarda (che in realtà non avrà seguito). Significative sono, soprattutto, la dedica al poeta tedesco Teodoro Koerner, morto ventiduenne a Lipsia combattendo, nel 1813, contro le armate napoleoniche, e il tema centrale dell’ode, di carattere religioso e morale prima che politico. Il riferimento alla battaglia di Lipsia, combattuta dai Tedeschi per liberarsi dagli occupanti francesi, è evidente: Manzoni, patriota ma non nazionalista, aspira a un mondo di nazioni indipendenti e affratellate. L’ancora più rilevante ode Il cinque maggio è scritta dal poeta nel 1821 – dopo aver appreso la notizia che Napoleone è morto cristianamente (secondo una versione accolta dall’autore) nell’isola di Sant’Elena, dove era stato confinato – ed è pubblicata nel 1822: si può considerare uno dei capolavori dello scrittore. La prima parte dell’ode, dopo avere evitato, perché prematuro, il giudizio politico su Napoleone, rievoca, con notevole efficacia stilistica, le gesta dell’Imperatore; più importante è però la seconda parte, che mostra l’uomo un tempo più potente del mondo ridotto alla disperazione: avvicinato da Dio, si accosta alla fede nel momento in cui viene abbandonato dagli altri uomini. Per quella che si può definire una provida sventura, solo quando Napoleone è precipitato definitivamente nella polvere scopre che la gloria del mondo poco conta, e ritrova accanto a sé Dio, sulla deserta coltrice, vale a dire presso il letto di morte solitario.

T3 Marzo 1821 Scrivendo quest’ode, Manzoni in realtà immagina che il passaggio del Ticino da parte di Carlo Alberto sia già avvenuto. Ma contrariamente alle sue speranze, ciò non avvenne, i patrioti milanesi furono arrestati e l’ode non pubblicata. Lo sarà nel 1848, in occasione delle Cinque giornate di Milano, cui parteciperà un figlio di Manzoni, Filippo, poi incarcerato dagli Austriaci. L’ode è dedicata al poeta e patriota tedesco Teodoro Koerner, che morì a 22 anni, il 26 agosto 1813, combattendo a Gadebusch contro Napoleone. Manzoni, come molti suoi contemporanei, lo ritiene invece erroneamente morto nella successiva battaglia di Lipsia, svoltasi in ottobre, cui l’ode fa esplicito riferimento. La dedica vuole sottolineare l’universalità del principio di autodeterminazione dei popoli e ricordarlo polemicamente ai Tedeschi, che, dopo averlo propugnato nella loro lotta per l’indipendenza, lo disattendono nei riguardi dell’Italia. Manzoni accomuna Tedeschi e Austriaci. Schema metrico: ode di tredici strofe di otto decasillabi; il quarto e l’ottavo, tronchi, sono in rima tra loro; gli altri sono piani e rimano, rispettivamente, il secondo con il terzo, il sesto con il settimo; il primo e il quinto verso di ogni strofa sono sciolti, eccetto che nella prima. Lo schema di rime è dunque il seguente: abbcdeec. PISTE DI LETTURA • L’ideale politico e morale dell’unità italiana • Le guerre come causa della servitù italiana allo straniero • Tono enfatico di oratoria solennità

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ALLA ILLUSTRE MEMORIA DI TEODORO KOERNER POETA E SOLDATO DELLA INDIPENDENZA GERMANICA MORTO SUL CAMPO DI LIPSIA IL GIORNO XVIII D’OTTOBRE MDCCCXIII NOME CARO A TUTTI I POPOLI CHE COMBATTONO PER DIFENDERE O PER RICONQUISTARE UNA PATRIA

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Soffermati sull’arida sponda1, volti i guardi al varcato Ticino2, tutti assorti nel novo destino, certi in cor dell’antica virtù3, han giurato: non fia che quest’onda scorra più tra due rive straniere4: non fia loco ove sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia5, mai più! L’han giurato: altri forti a quel giuro6 rispondean da fraterne contrade7, affilando nell’ombra le spade che or levate scintillano al sol. Già le destre hanno strette le destre; già le sacre parole son porte: o compagni sul letto di morte, o fratelli su libero suol8. Chi potrà della gemina Dora, della Bormida al Tanaro sposa, del Ticino e dell’Orba selvosa scerner l’onde confuse nel Po9; chi stornargli del rapido Mella e dell’Oglio le miste correnti, chi ritogliergli i mille torrenti che la foce dell’Adda versò10,

1. arida sponda: le rive asciutte, dove termina l’acqua del Ticino, confine fra lo Stato sabaudo e la Lombardia austriaca. 2. volti... Ticino: rivolti gli sguardi al Ticino appena attraversato (varcato). L’immaginazione del poeta dipinge i soldati piemontesi nel momento – che di fatto non si verificò – del superamento del confine e della meditazione sull’importanza del gesto compiuto. 3. certi… virtù: fiduciosi e memori del valore degli antenati. Il richiamo è al passato glorioso, che deve essere rinnovato nella auspicata creazione di un nuovo destino di libertà e unità. Il concetto secondo cui le nazioni devono essere libere e autonome deriva a Manzoni dalla sua adesione alla concezione romantica. 4. han giurato… straniere: cioè tra il libero Piemonte e il Lombardo Veneto soggetto all’Austria. Come usa fare con il coro nelle sue tragedie, qui il poeta utilizza il giuramento dei soldati piemontesi per esprimere il proprio pensiero. 5. non fia… l’Italia: secondo l’autore, l’ideale di una nazione libera e indipendente non contrasta con gli ideali di fraternità universale umana, poiché la schiavitù politica rappresenta un’offesa per l’intera umanità, dovunque si verifichi. Il concetto è ribadito nel coro del Conte di Carmagnola.

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Fermatisi sulla riva asciutta, rivolti gli sguardi al Ticino che avevano passato, tutti pensierosi per il destino ignoto, certi nel cuore dell’antico valore, hanno giurato: non accada più che quest’acqua scorra tra due rive di Stati diversi: non ci sia mai più un luogo dove s’innalzino confini tra l’Italia e l’Italia!

L’hanno giurato: altri uomini forti [i Lombardi] a quel giuramento rispondevano da regioni abitate da fratelli, affilando nell’ombra le lame che ora scintillano al sole sollevate in alto. Già si sono stretti la mano; già si sono dati la parola giurata: o saremo compagni sul letto di morte, o fratelli in un paese libero.

Chi potrà distinguere le acque della duplice Dora, della Bormida che si getta nel Tanaro, del Ticino e dell’Orba boscosa tutte confluenti nel Po, chi potrà separate le mescolate correnti del rapido Mella e dell’Oglio, chi potrà riprendere al Po i mille torrenti riversati in esso dalla foce dell’Adda,

6. giuro: giuramento. La radice della parola è ripetuta tre volte (al v. 5 e in due occasioni nel v. 9) per attribuire all’impegno particolare solennità. Altri forti si riferisce ai Lombardi, pronti a unirsi ai Piemontesi. 7. da fraterne contrade: il termine fraterne dà vita a una forte antitesi con l’attributo straniere (v. 6) della strofa precedente. 8. o compagni... suol: l’anafora o... o introduce un parallelismo che conferisce un tono definitivo alla scelta: o liberi o morti, ma non schiavi. Il verbo son porte significa “sono pronunziate”. 9. Chi potrà… Po: chi potrà distinguere le acque, mescolate nel Po, della doppia (gemina) Dora – così detta in quanto si sdoppia in Dora Baltea e Dora Riparia –, della Bormida, affluente (sposa) del Tanaro, del Ticino, dell’Orba che scorre fra le selve (selvosa). 10. chi… versò: la prolessi, cioè l’anticipazione, delle due subordinate, che indicano azioni impossibili (figura retorica detta, dal greco, adynaton), conferisce particolare evidenza alla proposizione principale espressa all’inizio della successiva strofa (vv. 25-29).

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quello ancora11 una gente risorta12 potrà scindere in volghi spregiati13, e a ritroso degli anni e dei fati14, risospingerla ai prischi dolor15: una gente che libera tutta, o fia serva tra l’Alpe ed il mare; una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor16.

solo costui potrà ancora dividere un popolo risorto in popolazioni disprezzate, e tornando indietro nel tempo e nel destino, ricacciarlo nelle antiche sofferenze: una nazione che sarà interamente libera o serva dalle Alpi al mare; unica di armi, di lingua, di religione, di storia, di sangue e di cuore.

Con quel volto sfidato e dimesso, con quel guardo atterrato ed incerto, con che stassi un mendico sofferto per mercede nel suolo stranier, star doveva in sua terra il Lombardo; l’altrui voglia era legge per lui; il suo fato, un segreto d’altrui; la sua parte, servire e tacer17.

Il Lombardo nella sua terra doveva stare con lo stesso volto vinto e dimesso, con lo stesso sguardo basso e pauroso con cui resta un mendicante tollerato per compassione in terra straniera; la volontà degli altri era legge per lui; il suo futuro, un segreto di altri; il suo compito, servire e tacere.

O stranieri, nel proprio retaggio torna Italia, e il suo suolo riprende; o stranieri, strappate le tende da una terra che madre non v’è18. Non vedete che tutta si scote, dal Cenisio alla balza di Scilla? non sentite che infida vacilla sotto il peso de’ barbari piè?19

O stranieri, l’Italia ritorna ad avere la sua eredità, e si riprende il suo territorio; o stranieri, levate gli accampamenti da una terra che non è madre per voi. Non vedete che tutta si scuote dal Moncenisio allo scoglio di Scilla? non sentite che trema insicura [per voi] sotto il peso dei vostri piedi stranieri?

11. quello ancora: colui (potrà: v. 26) anche. 12. gente risorta: un popolo rinato a libera nazione: la parola anticipa il termine “risorgimento”, che denominerà il periodo storico delle guerre per l’unificazione italiana. Il processo iniziato viene considerato irreversibile, come il confluire delle acque degli affluenti nel fiume che le accoglie. 13. volghi spregiati: il termine volgo (di derivazione latina) per indicare il popolo, rafforza il senso negativo dell’aggettivo spregiati. 14. a ritroso… fati: ritornando indietro nei tempi, contro il corso storico e contro il destino (fati è un latinismo). Il poeta sottolinea il fatto che l’unità d’Italia è un fenomeno storico che non si può impedire. 15. prischi dolor: l’attributo prischi (dal latino priscus, “precedente, antico”), come molti altri vocaboli e costrutti, attesta la permanenza di espressioni classiciste e di derivazione letteraria nell’ode: esse traggono origine dalla formazione giovanile del poeta, legata al magistero di Vincenzo Monti. 16. una gente… cor: l’Italia sarà, ora, o tutta libera o tutta serva, nei suoi confini naturali. Il poeta elenca poi tutti gli elementi che costituiscono il concetto romantico di “popolo”: unità d’esercito (arme), di linguaggio (lingua), di religione (altare), di storia (memorie), di etnia (sangue), di spirito e sentimento (cor). Il ritmo ternario del verso dà rilievo ai termini, espressi per asindeto e in climax ascendente. L’anafora di una – prima articolo, poi aggettivo – esalta tale termine, vera e propria parola chiave dell’ode. 17. Con quel volto... tacer: viene ora introdotto un argomento razionale a favore dell’indipendenza nazionale: il popolo sottomesso dallo straniero vive in condizioni servili. Il riferimento è ai Lombardi, costretti a comportarsi

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nella propria terra come un mendicante tollerato (sofferto) per pietà (per mercede) in casa altrui. Segue, scandito in tre martellanti versi con analoga struttura sintattica, l’elenco delle condizioni cui i Lombardi erano soggetti al dominio straniero. Con l’altrui voglia (“la volontà altrui”), il poeta si riferisce agli Austriaci. Il termine altrui è ripetuto senza riferimento esplicito, quasi per ribadire che non gli Austriaci in quanto tali, ma chiunque si comporti come gli Austriaci deve essere combattuto. Il vocabolo parte qui significa “compito”, inteso quasi come parte da recitare assegnata dai dominatori. 18. O stranieri... non v’è: la ripetizione anaforica del termine stranieri accentua il tono perentorio dei versi. Qui, retaggio significa “eredità spirituale”, e cioè patrimonio di memorie, di tradizioni, di esempi, di gloria, che risalgono alle origini della nazione italiana. Imperativo è anche il tono dell’espressione strappate le tende (“andatevene”): le tende cui qui ci si riferisce sono quelle degli accampamenti militari. 19. Non vedete... piè?: in forma di interrogativa retorica, gli stranieri sono invitati a rendersi conto che l’Italia si sta risvegliando e risorge (si scote) dal Cenisio a Scilla: dal Moncenisio, ossia dal Piemonte, all’estrema Scilla, ossia all’Italia meridionale indicata, tramite una metonimia, dal promontorio (balza) calabro reso celebre, con Cariddi, dal mito classico; dunque, lungo tutta la penisola. Il termine barbari (“stranieri”) riferito ai piedi (piè) è una metonimia, che richiama, per contrapposizione, l’antica gloria di Roma (barbaro è vocabolo originariamente dispregiativo). Lo scotersi del Meridione allude, a livello storico, ai moti del 1820-1821 nel Regno delle due Sicilie.

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O stranieri! Sui vostri stendardi sta l’obbrobrio d’un giuro tradito; un giudizio da voi proferito v’accompagna all’iniqua tenzon; voi che a stormo gridaste in quei giorni: Dio rigetta la forza straniera; ogni gente sia libera, e pera della spada l’iniqua ragion20.

O stranieri! Sulle vostre bandiere è scritta la vergogna di un giuramento tradito: una dichiarazione che avete solennemente espresso vi accompagna in questa guerra ingiusta; voi che pure tutti insieme avete gridato in quei giorni [in cui eravate nelle stesse condizioni]: Dio rifiuta la violenza degli stranieri; ogni popolo deve essere libero, e cessi la legge ingiusta del più forte.

Se la terra ove oppressi gemeste preme i corpi de’ vostri oppressori, se la faccia d’estranei signori tanto amara vi parve in quei dì; chi v’ha detto che sterile, eterno saria il lutto dell’itale genti? Chi v’ha detto che ai nostri lamenti saria sordo quel Dio che v’udì?21

Se dunque la terra dove piangeste oppressi copre oggi i cadaveri dei vostri oppressori, se la faccia di dominatori stranieri vi sembrò tanto amara in quei giorni, chi vi ha detto che il dolore degli Italiani sarebbe stato eterno e senza conseguenze? Chi vi ha detto che ai nostri lamenti sarebbe stato sordo quel Dio che ha udito voi?

Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia chiuse il rio che inseguiva Israele, quel che in pugno alla maschia Giaele pose il maglio, ed il colpo guidò22; quel che è Padre di tutte le genti, che non disse al Germano23 giammai: Va, raccogli ove arato non hai; spiega l’ugne24; l’Italia ti do.

Sì, quel Dio che precipitò nelle onde del Mar Rosso il malvagio che inseguiva il popolo di Israele, quel Dio che nella mano della eroina Giaele pose il martello e guidò il colpo [contro il generale egiziano], quel Dio che è Padre di tutte le genti, e che non disse mai all’Austria: “Va’, raccogli dove non hai seminato; allunga gli artigli, ti regalo l’Italia”.

Cara Italia! dovunque il dolente grido uscì del tuo lungo servaggio; dove ancor dell’umano lignaggio, ogni speme deserta non è; dove già libertade è fiorita, dove ancor nel segreto matura, dove ha lacrime un’alta sventura non c’è cor che non batta per te25.

Cara Italia! dovunque è salito il grido doloroso della tua lunga schiavitù; là dove ancora ogni speranza della nobiltà umana non è venuta meno, dove già è nata la libertà e dove sta maturando ancora in segreto, dove una grande disgrazia viene compianta, là non c’è cuore che non batta per te.

20. O stranieri... ragion: l’inizio della strofa richiama, per anafora, la strofa precedente. Gli stranieri sono ora accusati di recare sulle proprie bandiere (stendardi: si tratta di una metafora) la vergogna (l’obbrobrio) di un giuramento non rispettato (le promesse austriache non mantenute del 1812, fatte agli Italiani) e un giudizio solennemente affermato (proferito: il principio dell’indipendenza nazionale affermato a Lipsia, nel 1813, contro Napoleone). La guerra degli Austriaci è ritenuta dal poeta ingiusta (iniqua tenzon) poiché in passato (in quei giorni, ossia nei giorni della lotta contro Napoleone, nel 1813, quando il popolo tedesco difese l’indipendenza della patria e cadde tra gli altri il dedicatario dell’ode, Teodoro Koerner) a stormo (tutti insieme: l’espressione è sarcastica) Austriaci e Tedeschi dichiararono solennemente che Dio stesso si schierava contro (rigetta) le occupazioni straniere, che l’indipendenza nazionale doveva essere garantita (ogni gente sia libera) e che doveva cessare (pera, ossia “perisca”) l’ingiusta legge (iniqua ragion) dell’oppressione da parte del più forte (della spada). 21. Se la terra... v’udì?: qui l’autore esprime la propria concezione provvidenzialistica della storia. Dio, nella propria giustizia ed equità, aiutò i popoli tedeschi a liberarsi dalle armate francesi di Napoleone: i dominatori sono indicati coi termini oppressori ed estranei signori per significare la concezione manzoniana secondo cui il Signore non si schiera con l’uno o con l’altro popolo, ma con i popoli oppressi

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contro gli stranieri dominatori; aiuterà perciò ora il popolo italiano a liberarsi dai propri oppressori, ossia i dominatori tedeschi, oppressi di un tempo. Il concetto è espresso mediante un’interrogativa retorica. 22. quel Dio… guidò: nella strofa il poeta enumera miracoli biblici, rievoca l’aiuto dato da Dio al popolo d’Israele nel momento del passaggio del Mar Rosso, che s’aprì per consentire la fuga degli Ebrei e si richiuse sugli Egiziani inseguitori; ricorda inoltre l’episodio biblico (Giudici, 4, 1721) dell’aiuto divino dato alla eroica (maschia) Giaele, che uccise il generale egiziano Sisara conficcandogli un chiodo nella testa. La durezza delle espressioni è addolcita dal Padre di tutte le genti (v. 69) collocato al centro della strofa: Manzoni ribadisce che Dio colpisce gli oppressori in quanto tali e aiuta gli oppressi, quale che sia il popolo cui appartengono. 23. al Germano: al Tedesco. Il termine, che rinvia ai tempi dell’antica Roma, rievoca il precedente attributo barbari (v. 48). 24. spiega l’ugne: allunga gli artigli. L’espressione è aspramente sarcastica. 25. Cara Italia... te: la strofe esprime l’affetto del poeta per la sua patria e la certezza che, dovunque si sia sparsa la dolorosa notizia (grido) della sua condizione di servitù (servaggio), i popoli già liberi, o in cui non è spenta la speranza (ogni speme deserta non è) di libertà, sono schierati con essa.

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Quante volte sull’Alpe spiasti l’apparir d’un amico stendardo! Quante volte intendesti lo sguardo ne’ deserti del duplice mar!26 Ecco alfin dal tuo seno sboccati, stretti intorno a’ tuoi santi colori, forti, armati de’ propri dolori, i tuoi figli son sorti a pugnar27. Oggi, o forti, sui volti baleni il furor delle menti segrete28: per l’Italia si pugna, vincete! il suo fato sui brandi29 vi sta. O risorta per voi la vedremo al convito de’ popoli assisa, o più serva, più vil, più derisa, sotto l’orrida verga starà30. Oh giornate del nostro riscatto! Oh dolente per sempre colui che da lunge, dal labbro d’altrui, come un uomo straniero, le udrà! che a’ suoi figli narrandole un giorno dovrà dir sospirando: io non c’era; che la santa vittrice bandiera salutata quel dì non avrà31.

Quante volte spiasti l’apparire di un esercito amico dalle Alpi! Quante volte fissasti lo sguardo sui tuoi due mari vuoti [di navi alleate]! Infine, ecco che i tuoi figli si sono alzati a combattere usciti dal tuo seno, stretti intorno ai colori santi della tua bandiera, forti, armati dei propri dolori.

Oggi, o forti, sui vostri volti si mostri lo spirito combattivo covato segretamente nell’animo: si combatte per l’Italia, vincete! il suo destino sta sulle vostre spade. O grazie a voi la vedremo risorta, seduta al banchetto delle nazioni, oppure resterà più serva, più vile, più disprezzata sotto l’orribile frusta [del dominatore]. Oh giorni del nostro riscatto! Oh per sempre addolorato colui che udrà di questi giorni da lontano, dalle parole di altri, come un uomo straniero! che un giorno, raccontandole ai suoi figli dovrà dire sospirando: io non c’ero; che quel giorno non avrà potuto salutare la santa bandiera vincitrice.

da Tutte le opere, I, Mondadori, Milano, 1970

26. duplice mar!: il Tirreno e l’Adriatico. 27. a’ tuoi santi... pugnar: il poeta ribadisce una concezione politica che riaffermerà anche altrove (in particolare, indirettamente e ambientandola in altra epoca, nella tragedia Adelchi): il popolo italiano non deve attendere la liberazione dall’aiuto di altri popoli stranieri. 28. il furor... segrete: l’ardore combattivo (furor) segretamente covato nelle menti (delle menti segrete). Nell’espressione è presente un’ipallage. 29. brandi: spade. 30. O risorta... starà: l’esito dello scontro è ancora una volta riportato a una drastica antitesi fra la libertà intesa

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come risurrezione civile (O risorta per voi la vedremo; per voi è complemento d’agente) o aggravamento dell’oppressione. La repressione è espressa attraverso la metafora dell’orrida verga: la feroce frusta dei dominatori. 31. Oh giornate... non avrà: l’ode si conclude con la certezza della vittoria (il riscatto è dato già per avvenuto) e con la commossa riflessione riguardante coloro che, come stranieri, sentiranno narrare da altri e da lontano (da lunge) le gloriose vicende accadute, e dovranno dire ai loro figli di non essere stati presenti personalmente (io non c’era) a tali momenti decisivi per la storia della nazione (esemplificati, metaforicamente, dal saluto alla santa vittrice bandiera italiana).

inee di analisi testuale L’autodeterminazione dei popoli La dedica a Koerner, caduto per la patria, anticipa il tema conduttore dell’ode: la rivendicazione del diritto di tutti i popoli – perciò anche degli Italiani – ad avere una patria. È questo il principio romantico di nazionalità, proclamato in Germania al tempo del dominio napoleonico: Manzoni lo fa assurgere a valore universale e gli conferisce, al di là del significato civile e politico, una superiore valenza religiosa. Il patriottismo Per la patria, dunque, si deve combattere e se necessario morire, perché essa è non solo un legittimo e nobile ideale politico, ma anche un diritto di portata universale, sancito dalla storia recente e garantito dalla volontà divina. Per questa portata universale della tematica patriottica (sul triplice piano della politica, della storia, della religione), Marzo 1821 è l’esempio più notevole della “coralità” lirica manzoniana.

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La visuale cristiana Tutta la produzione maggiore manzoniana è basata sulla ricerca – talora ardua – delle tracce del disegno divino nella storia degli uomini. Nel caso specifico il rapporto fra piano della storia e piano di Dio sembra integrarsi: la liberazione dell’Italia è presentata come un evento voluto da Dio stesso, in nome dei valori cristiani di giustizia, uguaglianza e fraternità fra gli uomini, cui si lega il principio di indipendenza nazionale. Il livello stilistico e formale La coralità dell’ode è evidente anche a livello formale. Il fattore più notevole, in tal senso, è il ritmo, molto cadenzato, da vero e proprio inno popolare e quasi da marcia militare, costruito con l’uso insistente di anafore e ripetizioni. La frequenza delle interrogative e delle esclamazioni danno all’ode un tono di oratoria solennità. Il testo ha una struttura circolare, per cui l’ultima strofa riprende, portandolo a compimento su un piano ideale, l’auspicio con cui Manzoni inizia l’ode.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto dell’ode Marzo 1821 in non più di 10 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. A chi è dedicata l’ode e perché? b. Quali sono le località geografiche citate e dove si trovano? c. Quali principali temi civili e religiosi sono presenti nell’ode? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Il tema patriottico nell’ode è trattato anche in chiave religiosa? In quali termini? b. In quale modo, sul piano contenutistico e formale, l’ode realizza l’obiettivo della coralità? c. Con quali mezzi verbali, retorici e ritmici il poeta ottiene l’effetto combattivo e incalzante che caratterizza l’ode? d. L’ode inizia con un avvenimento che nel marzo 1821 non si è mai realizzato: quale? Come si spiega questo fatto? 4. Analizza la lirica dal punto di vista formale. In particolare individua: a. la struttura metrica e ritmica; b. le più importanti figure retoriche (elencandole per iscritto, con riferimento ai passi e ai versi ad esse relativi); c. le anafore, spiegandone per iscritto la funzione espressiva. Approfondimenti 5. Il coro S’ode a destra uno squillo di tromba che descrive la battaglia di Maclodio, concludendo il secondo atto della tragedia manzoniana Il conte di Carmagnola (1820), termina con i seguenti versi: Figli tutti d’un solo riscatto, / in qual ora, in qual parte del suolo / trascorriamo quest’aura vital, / siam fratelli: siam stretti ad un patto: / maledetto colui che l’infrange, / che s’innalza sul fiacco che piange, / che contrista uno spirto immortal! (da Tutte le opere, I, Mondadori, Milano, 1970). Dimostra le tue competenze scrivendo una parafrasi dei versi sopra riportati ed esercita le tue capacità critiche confrontando la tesi in essi sviluppata con quelle presenti nell’ode Marzo 1821. 6. Utilizzando il manuale di storia o altre fonti e confrontando le informazioni raccolte con l’ode di Manzoni, scrivi un saggio breve (max tre colonne di metà foglio protocollo) sul seguente argomento: Il Marzo 1821 nelle vicende storiche e nella lirica di Alessandro Manzoni. 7. Nell’ode Marzo 1821, Alessandro Manzoni espone una serie di caratteristiche che definiscono una nazione e precisa i motivi per cui le nazioni devono essere libere e indipendenti. Dopo avere chiarito i concetti sostenuti dall’autore, esponi il tuo motivato punto di vista sul seguente argomento: La validità odierna dei concetti manzoniani di nazione e di indipendenza nazionale.

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T4 Il cinque maggio La notizia della morte di Napoleone sull’isola di Sant’Elena, apparsa sulla “Gazzetta di Milano” il 16 luglio 1821 (due mesi e mezzo dopo il fatidico 5 maggio), colpisce profondamente Manzoni. Sulla scia dell’emozione e del turbamento, lo scrittore compone l’ode in tre giorni. Wolfgang Goethe la definisce l’ode del secolo. Essa non celebra Napoleone per la sua gloria terrena, ma nel mistero della sua morte, alla luce del suo finale incontro con la fede e con Dio, secondo una notizia diffusa al tempo (ma storicamente non comprovata). Schema metrico: l’ode è costituita da diciotto strofe, ciascuna di sei settenari: il primo, il terzo e il quinto sono sdruccioli e sciolti da rima; il secondo e il quarto sono piani e in rima fra loro; i versi finali di ciascuna strofa sono tronchi e rimano fra loro a due a due. Lo schema delle rime è dunque: abcbde. PISTE DI LETTURA • Il tema della morte • Una vita sotto i riflettori della storia, una morte ignota e solitaria • Un esempio della concezione manzoniana della provida sventura

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Ei fu1. Siccome immobile2, dato il mortal sospiro3, stette la spoglia immemore4 orba di tanto spiro5, così percossa, attonita la terra al nunzio6 sta, muta7 pensando all’ultima ora dell’uom fatale8; né sa quando una simile orma di piè mortale9 la sua cruenta10 polvere a calpestar verrà. Lui folgorante in solio11 vide il mio genio12 e tacque; quando, con vece assidua, cadde, risorse e giacque13, di mille voci al sonito mista la sua non ha14:

1. Ei fu: Egli fu; Napoleone è morto. Il nome proprio di Napoleone Bonaparte non compare mai nell’ode. 2. Siccome immobile: come immobile; legato sintatticamente al così del v. 5, è parte di una comparazione fra il cadavere di Napoleone e la terra percossa, attonita (“colpita, sconvolta”), immobile e in silenzio. 3. dato… sospiro: esalato l’estremo respiro. 4. spoglia immemore: il corpo ormai privo di coscienza e di vita. 5. orba… spiro: rimasta priva di un così grande (tanto) spirito. 6. nunzio: annuncio. 7. muta: riferito alla terra, l’aggettivo è da mettere in relazione con percossa, attonita. 8. uom fatale: uomo voluto dal destino. L’attributo, ripreso da un’espressione virgiliana riferita a Enea, chiarirà successivamente il proprio significato. 9. simile orma... mortale: propriamente, una simile orma di piede (piè) umano; dunque, un uomo così grande.

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10. cruenta: insanguinata. 11. Lui… solio: Napoleone nel pieno splendore della sua potenza (solio è il trono regale). Il pronome complemento oggetto, posto in apertura del verso, sottolinea la grandezza dell’uomo. 12. il mio genio: la mia ispirazione di poeta. Il termine è neoclassico. 13. con vece… giacque: con alternanza rapida (vece assidua) fu sconfitto (cadde), si riprese (risorse) e fu definitivamente abbattuto (giacque). Allusione agli avvenimenti rapidamente accaduti fra il 1814 e il 1815, quando Napoleone cadde a Lipsia (1813), risorse per cento giorni, dopo la fuga dall’isola d’Elba (marzo 1815), e giacque dopo la sconfitta di Waterloo (giugno 1815). 14. di mille… non ha: al suono (sonito) di innumerevoli (mille) voci non ha unito la sua. Il soggetto è sempre mio genio, cui vanno riferiti anche i successivi vergin (v. 19) e sorge (v. 21).

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vergin di servo encomio e di codardo oltraggio15, sorge or commosso al subito16 sparir di tanto raggio17; e scioglie all’urna18 un cantico che forse non morrà19. Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno20, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno21; scoppiò da Scilla al Tanai, dall’uno all’altro mar22. Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza: nui chiniam la fronte al Massimo Fattor23, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar24. La procellosa e trepida gioia d’un gran disegno25, l’ansia d’un cor che indocile serve, pensando al regno26; e il giunge27, e tiene28 un premio ch’era follia sperar;

15. vergin… oltraggio: puro (vergin) da ogni lode servile e da oltraggi codardi. Concludendo quella che potremmo considerare la parte proemiale dell’ode, il poeta spiega perché solo dopo la morte di Napoleone egli scrive di lui: non ha voluto, infatti, unirsi né a coloro che lo lodavano servilmente quando dominava l’Europa, né ai codardi che, dopo la sua caduta, lo insultavano senza correre rischi, per ingraziarsi i nuovi vincitori. In Manzoni, il giudizio morale spesso – come anche in questo caso – prevale sul giudizio politico. 16. subito: improvviso; si tratta di uno dei numerosi latinismi presenti nell’ode. 17. tanto raggio: un esempio luminoso: la metafora si riferisce a Napoleone. 18. all’urna: alla sua tomba. 19. cantico… morrà: un canto eterno. Il verso racchiude sia il neoclassico valore della poesia eternatrice, sia il valore cristiano, che trasfigura l’evento terreno in simbolo ultraterreno. L’avverbio forse vuole attenuare l’implicito atto di superbia che l’affermazione contiene. 20. Dall’Alpi… al Reno: riferimento, attraverso metonimie, alle campagne napoleoniche dall’Italia (Alpi) all’Egitto (piramidi), dalla Spagna (il fiume Manzanarre) alla Germania (il fiume Reno). Inizia qui la parte dell’ode che narra le grandi imprese di Napoleone. 21. di quel securo… baleno: l’azione di quell’ardito (securo) era fulminea. Nella metafora, il baleno rappresenta la decisione dell’impresa, il fulmine l’azione che la realizza. 22. scoppiò... mar: si manifestò con azioni di guerra (scoppiò) condotte dall’Italia meridionale (Scilla è un promontorio calabro) alla Russia (Tanai è l’antico nome del fiume Don), dal Mediterraneo all’Atlantico (dall’uno all’altro mar). 23. Fu... Massimo Fattor: con un’espressione rimasta celebre, il poeta si domanda se quella di Napoleone fu gloria

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Andrea Appiani, Napoleone imperatore e primo re d’Italia, 1805. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

vera (ossia, autentica e destinata a durare); il suo equilibrato pensiero lo induce a rinviare agli uomini del futuro (posteri) la difficile risposta (ardua sentenza). Parlando anche a nome dei propri contemporanei (nui, ossia “noi”), lo scrittore afferma di potere solo chinare la fronte in segno di accettazione di fronte a Dio (Massimo Fattor), riconoscendo la grandezza di Napoleone voluta dal creatore. Manzoni conclude la parte dell’ode in cui ha presentato la figura storica di Napoleone, invitando gli uomini a rendersi conto che i contemporanei non possono giudicare in modo equanime, poiché il loro senso di giustizia è offuscato dalle passioni di parte. Il poeta inizia poi (dal v. 37) a conferire all’ode un’impronta romantica, presentando Napoleone dall’interno della mente e, soprattutto, del cuore. 24. che volle… stampar: che ha voluto dare con lui una prova assai grande (più vasta orma stampar) della propria potenza creatrice. Il superlativo è relativo, non assoluto: lo chiarisce l’autore stesso nella lettera a Giovan Battista Pagani del 15 novembre 1821 (“Veggio che più vasta orma è espressione viziosa, poiché manca il termine comparativo, e il senso non è perfettamente chiaro: sì vasta sarebbe più grammaticale, ma sarebbe ancor più lungi dal senso che ho voluto, e non saputo esprimere”). 25. La procellosa… disegno: la gioia tempestosa (procellosa è un latinismo) e trepidante di un disegno ambizioso. Iniziano, qui, una serie di complementi oggetti retti da tutto ei provò (“egli provò tutto”, v. 43); successivamente, la serie dei complementi oggetti prosegue ancora (dal v. 43 al v. 48). 26. indocile… regno: l’insofferenza di un animo altero (indocile) costretto a servire pensando al potere (regno). Il poeta allude all’inizio, come semplice ufficiale, della carriera militare di Bonaparte. 27. il giunge: lo ottiene. 28. tiene: ne ricava.

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Tutto ei provò: la gloria maggior dopo il periglio29, la fuga e la vittoria, la reggia30 e il tristo esiglio31: due volte nella polvere32, due volte sull’altar33. Ei si nomò34: due secoli, l’un contro l’altro armato, sommessi a lui si volsero, come aspettando il fato35; ei fe’ silenzio, ed arbitro s’assise in mezzo a lor. E sparve36, e i dì nell’ozio chiuse in sì breve sponda37, segno d’immensa invidia e di pietà profonda, d’inestinguibil odio e d’indomato amor. Come sul capo al naufrago l’onda s’avvolve e pesa, l’onda su cui del misero, alta pur dianzi e tesa, scorrea la vista a scernere prode remote invan; tal su quell’alma il cumulo delle memorie scese!38 oh quante volte ai posteri narrar sé stesso imprese39, e sull’eterne pagine cadde la stanca man! Oh quante volte, al tacito morir d’un giorno inerte, chinati i rai fulminei, le braccia al sen conserte, stette, e dei dì che furono l’assalse il sovvenir!40

29. maggior... periglio: più grande dopo il pericolo corso. 30. la reggia: l’impero. 31. tristo esiglio: l’infelice esilio. 32. due volte nella polvere: per due volte privato del potere (nel 1814 quando fu mandato nell’isola d’Elba e nel 1815 quando fu esiliato a Sant’Elena). 33. due volte sull’altar: due volte sul trono (altar: nel Primo Impero, dal 1804 al 1814, e nei “Cento giorni”, dal marzo al giugno del 1815). 34. Ei si nomò: pronunciò il suo nome per affermare la sua autorità. La strofa, presentando con epico climax la monumentale metafora della figura di Napoleone che impone silenzio a due secoli, prepara l’improvviso mutamento introdotto da E sparve (v. 55), con cui inizia la seconda e più importante parte dell’ode, che ha come sottofondo l’isola di Sant’Elena. 35. due secoli… fato: due secoli, il Settecento e l’Ottocento, fortemente contrapposti l’un l’altro, si sottomisero alla sua volontà, come aspettando il destino da lui.

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36. sparve: scomparve. 37. in sì breve sponda: nella piccola isola di Sant’Elena, dove ancora fu oggetto (segno) di invidia, pietà, odio e amore. Tutto ciò sembra però non toccare Napoleone: d’ora innanzi, nell’ode, egli è solo con la propria anima e con Dio. 38. Come sul capo al naufrago… scese!: la comparazione paragona la pesante onda dei ricordi che opprime l’anima del prigioniero (tal su quell’alma il cumulo delle memorie scese) all’onda che s’avvolge e precipita (s’avvolve e pesa) sul capo del naufrago; quella stessa onda che, portandolo in alto, gli aveva dato invano l’illusione di scorgere (scernere) lontani approdi (prode remote). Al ricordo che illude subentra il ricordo che opprime: qui l’autore sviluppa una finissima analisi, di stampo romantico, del cuore umano. 39. imprese: intraprese. Napoleone non ha la forza di scrivere le proprie memorie, destinate ad essere eterne fra gli uomini (eterne pagine). 40. sovvenir!: ricordo.

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E ripensò le mobili tende, e i percossi valli41, e il lampo de’ manipoli42, e l’onda dei cavalli, e il concitato imperio, e il celere ubbidir. Ahi! forse a tanto strazio cadde lo spirto anelo43, e disperò; ma valida venne una man dal cielo44 e in più spirabil aere45 pietosa il trasportò; e l’avviò, pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio che i desidèri avanza46, dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò.

Frontespizio e pagina a fronte de Il cinque maggio, in un’edizione del 1932. Milano, Centro Studi Manzoniani.

Bella Immortal! benefica fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo, allegrati; ché più superba altezza al disonor del Golgota giammai non si chinò47. Tu dalle stanche ceneri sperdi ogni ria parola48: il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola49, sulla deserta coltrice accanto a lui posò50. da Tutte le opere, I, Mondadori, Milano, 1970

41. E ripensò... valli: con un procedimento poetico simile a quello dei versi 37-48, il poeta utilizza un’incalzante serie di ricordi che si succedono come onde, a climax ascendente, per esprimere con grande efficacia ciò che accade nella memoria e nel cuore del prigioniero di Sant’Elena, al silenzioso morire di un giorno di inattività (inerte). Con gli occhi sfolgoranti (rai fulminei) abbassati al suolo, incrociate (conserte) le braccia sul petto (sen), egli rimase immobile (stette) a rievocare il passato. I percossi valli sono le trincee colpite dall’artiglieria. 42. lampo... manipoli: il rapido movimento dei plotoni (si tratta di una metafora). 43. Ahi... anelo: i versi esprimono la pietà del poeta di fronte al dolore (strazio) di Napoleone, il cui spirito affannato (anelo) precipita nella disperazione (e disperò). 44. una man dal cielo: la fede, dono di Dio (si tratta di una metafora). 45. in più spirabil aere: in un’aria più respirabile, ossia in una dimensione di speranza, resa possibile dalla fede. La conclusione ripropone il tema manzoniano della provida sventura. Secondo alcuni, qui, per Napoleone – come per i protagonisti delle tragedie manzoniane – i campi eterni in cui può avere la propria ricompensa coincidono con l’altra vita. 46. al premio… avanza: alla ricompensa celeste che supera (avanza) i desideri umani, poiché dona una gioia eterna e ineffabile.

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47. ché più superba… chinò: poiché mai uomo più superbo nella sua grandezza (più superba altezza) si chinò davanti alla croce (simbolo di sconfitta agli occhi degli uomini) del Golgota. Come Manzoni stesso scrive nella lettera a Giovan Battista Pagani del 15 novembre 1821, l’espressione disonor del Golgota sottolinea come ciò che è debolezza e sconfitta accolta, ad imitazione di Cristo, dall’uomo, è gloria per Dio. In tal senso, Napoleone diventa anche esempio di umiltà. 48. sperdi… parola: allontana ogni parola oltraggiosa (ria). Per il poeta, la dimensione che più conta non è quella del giudizio politico su Napoleone, che ancora divide i contemporanei, ma la dimensione religiosa. 49. il Dio... consola: il Dio che abbatte (atterra) e innalza (suscita), lascia l’uomo nell’angoscia (affanna) e lo rianima (consola), secondo i divini disegni provvidenziali che l’uomo non può comprendere ma nei quali può solo avere fiducia. 50. sulla deserta... posò: si accostò (posò) a Napoleone sul letto solitario di morte (deserta coltrice), che gli uomini, usi a schierarsi con i vincitori e i potenti, avevano abbandonato. Come per i protagonisti dell’Adelchi, anche per Napoleone, la fine della gloria terrena è provida sventura perché lo accosta alla fede e alla vera gloria della vita eterna, per la quale sono silenzio e tenebre la gloria terrena inseguita dagli uomini.

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inee di analisi testuale Le gesta e la sconfitta di Napoleone La prima parte dell’ode (vv. 1-54) – dopo una premessa in cui l’autore spiega perché scriva di Napoleone solo dopo la sua scomparsa – rievoca le gesta, i trionfi e le sconfitte dell’Imperatore. La seconda parte (vv. 55-108), ambientata a Sant’Elena, mostra l’immagine di un uomo che era stato il più potente del mondo ridotto alla disperazione, avvicinato da Dio proprio nel momento in cui viene abbandonato dagli uomini. La fragilità della potenza umana è espressa con incisività dal poeta: gli uomini non possono neppure permettersi di giudicare i loro contemporanei (ai posteri / l’ardua sentenza), poiché le passioni di parte impediscono loro di essere obiettivi. Due piani: storico e umano La bellezza dell’ode è dovuta anche all’intreccio fra due piani. Il primo è quello della storia che, attraverso l’analisi delle imprese del condottiero, delle sue aspirazioni, pensieri e sentimenti e della sua caduta, rivela l’impotenza e la caducità delle azioni degli uomini, anche dei più grandi. Il secondo è quello umano, che, con l’espressione iniziale Tutto ei provò, mette a nudo, con tono esemplarmente romantico, l’interiorità dell’eroe prima vincitore, poi sconfitto e prigioniero, travolto dall’angoscia suscitata dal cumulo delle memorie delle battaglie, condotto a riconoscere come la gloria terrena sia silenzio e tenebre e, attraverso la sventura, disposto a piegarsi al disonor del Golgota e ad accogliere la fede che porta alla salvezza eterna. Ritmi e stile Sul piano stilistico, all’incalzare delle vittorie narrate nella prima parte dell’ode, scandite dal martellare dei settenari, corrisponde il pensoso rallentamento del ritmo nel momento in cui la scena, introdotta da un efficacissimo E sparve (v. 55) – dopo la gradazione o climax che ha dipinto Napoleone come colui che decide la sorte (arbitro) di due secoli in conflitto –, si sposta a Sant’Elena, per tornare a un crescendo nella strofa finale. Essa, sollevandosi al di sopra della cruenta polvere dei campi di battaglia sui quali si scontrano gli uomini, esalta la gloria della fede, sola – secondo il poeta – a essere destinata a trionfi non caduchi.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto dell’ode in non più di 30 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Perché Manzoni afferma di non aver voluto precedentemente scrivere di Napoleone? b. Quali diversi temi trattano le due parti simmetriche in cui si divide l’ode? c. Quale giudizio viene dato dal poeta sulla gloria terrena di Napoleone? d. Qual è il giudizio storico espresso su Napoleone? e. Che cosa si dice nella prima metà dell’ode sui sentimenti e sui pensieri di Napoleone? f. Che cosa accade al prigioniero di Sant’Elena dopo la sua definitiva sconfitta e qual è la causa del suo dolore e della sua disperazione? g. Da che cosa dipendono la salvezza e la felicità di Napoleone, che infine ottiene un premio superiore a ogni umano desiderio? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Quali caratteristiche fondamentali presentano stile, linguaggio e strutture sintattiche? b. Quali sono le similitudini presenti nel testo che hanno maggiore rilievo espressivo? c. In quali passaggi l’autore esprime in prima persona il proprio giudizio? Individuali. Approfondimenti 4. Nell’ode Il cinque maggio, che cosa rappresenta la vera gloria terrena cui allude Manzoni e quali ne sono i limiti, che la fanno definire, infine, come silenzio e tenebre? Dopo aver risposto a tale interrogativo, esponi la tua personale e argomentata opinione su ciò che la fama e la gloria rappresentano nella vita umana. 5. Alessandro Manzoni spiega le motivazioni per cui non ha voluto prendere posizione nei confronti del personaggio storico e politico di Napoleone prima della sua morte. Illustra sinteticamente (in max 20 righe) tali ragioni – anche parafrasando i versi – e prendi una motivata posizione sul seguente argomento: È possibile, per i loro contemporanei, esprimere un giudizio obiettivo sui grandi personaggi?

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

Il piano umano e quello divino nel Cinque maggio

Giuseppe Ungaretti

Il testo critico proposto è una lezione che il grande poeta Giuseppe Ungaretti tenne su Il cinque maggio di Manzoni nel 1937, analizzando il piano umano e il piano divino all’interno della struttura del componimento. Interessante si rivela soprattutto il fine senso critico di un poeta che giudica da pari un altro poeta. Eccovi il Cinque Maggio. È una poesia che vi è ormai familiare: ne abbiamo tanto parlato insieme. Che cosa dovrebbe subito colpirvi? Un parallelismo d’immagini. Due colonne d’immagini sovrapposte che si fronteggiano e che dovrebbero mandarsi reciprocamente la loro luce. Queste due colonne non v’appariscono a prima vista. Anzi, la loro apparizione dev’essere una cosa rara per il lettore, se dopo tanti critici che si sono consumati su quest’ode, ci voleva un critico, non critico di professione, ma poeta di vocazione, per accorgersene. Ed è forse vero che non si conoscono, come dice il Vico, che le cose che si fanno. E i professionisti della critica prendono spesso la poesia, in genere l’arte, per una cosa che non ha niente a che fare colla poesia e coll’arte. Eppoi leggono i libri su un autore, e per eccezione l’autore. E quando lo leggono non ci pensano su, ma vogliono trovarci e ripetono a suo riguardo quello che “i libri” hanno detto. Ma diciamo che, in verità, non era facile per un lettore farsi apparire quelle colonne. Il Manzoni non aveva fatto nulla per farle apparire, o meglio, non aveva saputo farle apparire, perché, di certo, gli sarebbe piaciuto che fossero facilmente apparse al lettore. C’è voluto un grande almanaccare da parte mia perché il mio spirito me le scoprisse nella loro simmetria. Ed ecco un primo difetto di composizione. Andiamo adagio: forse non è un difetto. Che cosa m’ha rivelato la simmetria? Un momento prosaico dell’ode, il momento che poteva sembrare ai più il più insignificante di tutti, un momento che tutt’al più poteva fare compatire il Manzoni per un’inopportuna vanteria, lui tanto schivo e discreto. Questi versi, non certo belli, non certo poetici, mi hanno messo nel segreto del Cinque Maggio: Lui folgorante in solio / Vide il mio genio e tacque... Vergin di servo encomio / E di codardo oltraggio, / Sorge or commosso al subito / Sparir di tanto raggio. Il fuoco di quest’ode è dunque questo? Strano! Non l’illumina! E il cuore dell’ode è dunque questo? Ma come da questo punto circola la vita nell’ode? Mi fermavo a quel tanto raggio. Certo che sparisse un uomo come Napoleone, che anche uno dalla grandezza d’un Napoleone potesse sparire era cosa che poteva colpire un poeta, e nessun’altra di Napoleone avrebbe potuto colpire chi si fosse fatto della storia il concetto che se ne faceva il Manzoni. Ma tutto questo mi lasciava l’ode inerte. Qui è bene il cuore. Riprendiamo la lettura del Cinque Maggio, e vedremo un po’ se proprio non arriveremo a capo di nulla. E così, rileggendo e almanaccando, andando a tentoni come un cieco – una poesia dovrebbe veramente aprire gli occhi, e quanto ci vuole perché questa li apra – e così arrivo alla prima orma: Chiniam la fronte al Massimo / Fattor che volle in lui / Del creator suo spirito / Più vasta orma stampar... Orma? Orma è qui quell’impronta di spirito divino che è in ciascuno di noi e che in Napoleone è stata stampata in un modo più vasto che comunemente non lo sia nell’uomo. Orma? Ed ecco che ritrovo un’altr’orma: Né sa quando una simile / Orma di piè mortale / La sua cruenta polvere / A calpestar verrà. C’è senza dubbio un rapporto fra l’una e l’altra orma. Sono anzi la medesima orma. Qui si dice che l’orma è stata impressa sulla terra da Napoleone, ma non in quanto individuo, ma in quanto uomo di guerra, capo d’eserciti, ma in quanto uomo fatale, in quanto arbitro che riconcilia due secoli, due epoche, due princìpi: il principio di rinnovamento, il principio di rivoluzione, e il principio di autorità, il principio di conservazione. E dunque quest’orma è stampata sulla terra sì da un uomo, sì da un essere, cioè, in possesso del libero arbitrio; ma quest’uomo era un uomo fatale, ma quest’uomo nello stampare la sua orma, incarnava i suoi tempi, raffigurava la storia, era insomma il simbolo delle masse; e dunque quest’orma risponde sì alla volontà di Napoleone; ma nell’imprimerla, Napoleone ha anche ubbidito ai fini imperscrutabili della Provvidenza. C’è nella mente del Manzoni un rapporto assai difficile a definire tra libero arbitrio e Provvidenza. Mi pare sia questo: ogni uomo, per quanto faccia, per quanto nel suo libero arbitrio possa ribellarsi a Dio e offendere Dio, finisce sempre in qualche modo coll’essere anche usato come uno strumento della divinità: perché l’uomo, bene o male che faccia, è anche umanità, è anche storia, cioè particella, oppure parte importante, d’infi-

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niti rapporti che lo trascendono. Questo è il concetto della storia manzoniano, e vichiano. Bellissimo concetto, certo. E vedo bene: ora ci sono due colonne: la colonna dell’orma per l’umano, e la colonna dell’orma per il divino. [...] Dunque il divino non è che un’orma, non è se non quest’umanità incorporea rimasta nella mente: la memoria: non è se non questo spazio che non si misura, non è se non questa distanza prodotta dalla morte, non è se non il passato via via che passa, non è se non questa distanza immediata in noi, eppure irraggiungibile per sempre: non è se non memoria? [...] Nel Cinque Maggio c’è veramente un errore di composizione: il poeta intende partire da un tono maggiore, epico e religioso: lo sbigottimento davanti alla scomparsa d’un uomo che per la sua grandezza pareva immortale. Da questo sbigottimento dovrebbe nascere maestosamente l’incontro tragico di due corsi, e in conclusione dovrebbe apparire la debolezza umana e l’onnipotenza divina. Il poeta parte invece, senza volerlo, dalla meditazione in sordina sulla tristezza dell’affievolirsi della luce durante il tramonto: dal «tacito morir d’un giorno inerte». Il Manzoni – si vedrà meglio nel commento ai Promessi Sposi – si propone sempre una cosa diversa da quella che ottiene. E ne ottiene un’altra, per vie diverse da quelle scelte da lui. Lo stupefacente, è che finisca sempre coll’ottenere cose straordinarie, risultati di sicura bellezza. da G. Ungaretti, Il Cinque Maggio, in Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di P. Montefoschi, Milano, Mondadori, 2000

Le tragedie All’inizio degli anni Venti, mentre prende corpo la dura repressione austriaca contro il gruppo milanese dei suoi amici del “Conciliatore”, Manzoni compone due tragedie in versi a sfondo storico: Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822). Esse da un lato affrontano, collocandolo in un’altra epoca storica, il dramma del popolo italiano oppresso da dominatori stranieri, dall’altro approfondiscono i temi religiosi e morali cari all’autore.

Il Conte di Carmagnola

La struttura e la trama

I temi

Il Conte di Carmagnola è una tragedia in cinque atti, preceduta da una Prefazione – in cui è sviluppata la polemica contro le unità aristoteliche di tempo e luogo, in nome della più libera e moderna creatività romantica – e dalle Notizie storiche, e seguita dalla Lettera a monsieur Chauvet. L’azione si svolge tra il 1425 e il 1432, durante le lotte fra il Ducato visconteo di Milano e la Repubblica di Venezia. Nonostante il capitano di ventura Francesco di Bussone, detto il conte di Carmagnola, abbia precedentemente combattuto al servizio dei Visconti di Milano, subendone l’ingratitudine sfociata in un tentativo di assassinio, il Senato di Venezia – anche se il senatore Marino non si fida del suo carattere superbo e ombroso – decide di affidare al Carmagnola il comando delle truppe nella guerra contro i Milanesi. Nella battaglia di Maclodio l’esercito veneziano ha la meglio, ma il comportamento del condottiero, che non ha inseguito i nemici sconfitti e, anzi, ha liberato i prigionieri, insospettisce i commissari veneziani. Richiamato a Venezia con un inganno, il Carmagnola, di fronte al Consiglio dei Dieci, si difende con energia dalla calunniosa accusa di tradimento, ma quando scopre che la sua sorte è stata già decisa, si scaglia contro il Doge. Nell’ultimo colloquio in carcere, il Carmagnola invita la moglie Antonietta e la figlia Matilde a perdonare i nemici e si accinge ad affrontare la morte con serenità, riconoscendo in ciò una prova inviata dal cielo. La tragedia, la cui ambientazione storica è accuratamente ricostruita, ha come presupposto la convinzione manzoniana dell’innocenza del protagonista, che l’autore mutua dalla lettura della Storia delle Repubbliche italiane nel medioevo (18091818) dello storico svizzero Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842). I personaggi, come in Adelchi e nei Promessi sposi, sono in parte storici e in parte immaginari, benché verosimili. Il tema centrale della tragedia è il conflitto fra la ragione di Stato e la coscienza dell’uomo giusto, inadeguato alle esigenze feroci della storia, con il quale l’autore si identifica. Radicalmente pessimista nei confronti della storia umana, l’ope-

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La condanna delle stragi fratricide

Il rifiuto di due unità aristoteliche e l’uso del coro

ra presenta la morte come unica via d’uscita per i giusti in un mondo dominato dal male. Il pensiero manzoniano sull’assurdità delle stragi fratricide (altro tema della tragedia) è affidato al celebre coro del secondo atto, in cui, commentando la battaglia di Maclodio, l’autore lamenta la follia delle guerre tra gli Italiani, che aprono la via alla conquista della penisola da parte degli stranieri, e condanna la violenza degli oppressori a qualsiasi popolo appartengano, in nome del valore umano e cristiano della fratellanza. Sul piano filosofico, la tragedia permette a Manzoni di rappresentare il vero storico, vale a dire il drammatico conflitto che oppone, romanticamente, reale e ideale: l’uomo giusto non ha possibilità di realizzare i propri ideali di amore, pace e giustizia e solo attraverso la morte, che lo affida a Dio, può sottrarsi all’angosciosa condizione cui è sottoposto chi agisce in un mondo dominato dalla ferocia dei potenti. Le principali innovazioni della tragedia, oltre al rifiuto delle unità di tempo e di luogo, le cui ragioni sono motivate nella lettera a Chauvet, riguardano l’uso del coro, nel quale l’autore esprime il proprio punto di vista sugli avvenimenti. L’impianto metrico e linguistico del Conte di Carmagnola, come dell’Adelchi, è – tranne nei cori – ancora fondamentalmente classico.

L’Adelchi Le due stesure

Adelchi: un eroe romantico

Focus

Adelchi, in cinque atti, viene pubblicata nel 1822, insieme alle Notizie storiche e al Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, in cui Manzoni espone le conclusioni dei propri studi sulla storia longobarda. Composta la prima volta fra il 1820 e il 1821, la tragedia viene riscritta a partire dall’agosto del 1821. Entrambe le stesure risentono del clima politico: la prima ha sullo sfondo gli entusiasmi dei moti risorgimentali, la seconda ne accompagna il fallimento. Adelchi nella prima versione è un eroe positivo, fautore di un utopistico progetto di emancipazione dei Latini, che vorrebbe trasformare da schiavi in guerrieri con dignità pari a quella dei Longobardi; nella versione definitiva, invece, diventa un eroe sconfitto, impotente di fronte alla storia e al potere, vittima rassegnata di una ragione politica insensibile ai valori della morale. I conflitti che caratterizzano l’animo di Adelchi fanno di lui una personalità romantica: egli è interiormente diviso fra ideale e reale, fra i doveri imposti dal ruolo di principe e i princìpi che gli detta la coscienza.

LE TEORIE SUL TEATRO NELLA PREFAZIONE AL CONTE DI CARMAGNOLA

Il Conte di Carmagnola rappresenta la risposta di Manzoni a Madame de Staël, che lamentava in particolare la crisi del teatro italiano. Il nuovo progetto di teatro storico è il tema della Prefazione apposta all’opera. Manzoni in primo luogo nega la presunta nocività morale del teatro, affermata dai teorici del Sei-Settecento (i religiosi Nicole e Bossuet, ma anche l’illuminista Rousseau), osservando che un tale giudizio deriva dalla letteratura francese del Seicento, a suo parere immorale e dunque essa stessa dannosa. In secondo luogo Manzoni dichiara che la rigidità delle regole tragiche deriva da un’erronea interpretazione di un passo della Poetica di Aristotele, che non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto; cioè della pratica più generale del teatro greco. Il rifiuto manzoniano è limitato, tuttavia, alle unità di tempo e di luogo; l’unità di azione è invece da rispettare, in quanto frutto non di una convenzione arbitraria, ma di un ragionevole bisogno di coerenza. In terzo luogo Manzoni si giustifica per la ripresa del coro, abituale nella tragedia greca, ma escluso da tutti i drammi moderni. Attraverso il coro egli si riserva il diritto di intervenire in prima persona, commentando dal punto di vista morale e sentimentale i fatti rappresentati e chiarendone la valenza universale. Il coro – di natura lirica – è dunque il cantuccio del poeta, dov’egli possa parlare in prima persona; è destinato unicamente alla lettura, non alla recitazione. Le tragedie manzoniane non sono comunque scritte per la sola lettura: nella Prefazione, l’autore parla sempre di spettatori, non di lettori; con Il Conte di Carmagnola si propone di dare al suo Paese il teatro che gli manca.

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Il pessimismo cristiano

La provida sventura

L’alternativa: vivere come potenti o come oppressi

Il tema patriottico La Lettera a Chauvet sulla teoria del teatro Il rifiuto delle unità di tempo e luogo

Il problema del vero storico e del vero poetico

Nell’Adelchi si esprime appieno quello che è stato definito il pessimismo cristiano di Manzoni, incarnato in modo esemplare soprattutto nei personaggi di Ermengarda e di Adelchi, il quale, morendo, dice al padre, prigioniero del nemico Carlo Magno, che il diritto è solo la feroce forza la quale domina il mondo e non consente altra alternativa che far torto o patirlo. Il giudizio sul mondo che emerge dalla tragedia e, in particolare, il giudizio sulla storia e sui potenti, è totalmente negativo: la morte appare, per i giusti, l’unica via d’uscita. È questo il cardine del concetto di provida sventura, espressione usata dal coro che condensa il pensiero dell’autore, in occasione della morte di Ermengarda. Colei che avrebbe dovuto essere regina della stirpe dei sanguinari oppressori, per provvidenziale sventura – la morte –, viene collocata fra gli oppressi, quindi purificata e meritevole della vita eterna. L’alternativa nella quale si dibattono i protagonisti della tragedia sembra essere quella fra il vivere come potenti, accettando la logica di violenza del mondo, e il vivere come sofferenti e oppressi, per poi morire e trovare il premio nell’aldilà. I personaggi puri di cuore, come Adelchi ed Ermengarda, sono, infatti, destinati a soccombere di fronte alle ragioni della forza, di cui sono esemplare espressione figure legate a interessi terreni, come i due sovrani, Carlo e Desiderio. In Adelchi l’elemento tragico non è rappresentato principalmente da vicende esterne, ma dal dramma interiore dei protagonisti. Le figure di Adelchi ed Ermengarda sono interiormente lacerate: il primo è combattuto dal contrasto fra realtà (e senso del dovere) e ideale (e voce della coscienza); la seconda è straziata dal contrasto fra l’amore per il marito Carlo, il quale l’ha ripudiata, e la propria condizione di figlia del re longobardo Desiderio, che è entrato in guerra con il sovrano dei Franchi. Come per Napoleone nel Cinque maggio e per il protagonista nel Conte di Carmagnola, la morte giunge come pietosa via d’uscita dal tragico e doloroso destino. Il tema patriottico viene approfondito soprattutto nel coro del terzo atto, Dagli atri muscosi, e sottolinea la necessità che gli Italiani non attendano la liberazione da un’armata straniera. Il critico francese Victor Chauvet nel 1820 polemizza con le tesi sul teatro di Manzoni, che replica nella celebre Lettera a monsieur Chauvet, pubblicata nel 1823 nell’edizione francese delle sue tragedie. Qui l’autore si avvale di una nuova definizione di “unità d’azione”, intesa come riorganizzazione dei fatti nel rispetto della verità storica, che implica la ricostruzione di pensieri e sentimenti degli uomini. Contrapponendo la libertà di Shakespeare alla rigidità di Corneille, Manzoni rifiuta le unità di tempo e di luogo per un’esigenza di realismo. Per rispettarle alcuni autori hanno dovuto escogitare espedienti macchinosi, creando ciò che Manzoni definisce il “romanzesco”: la forzatura del naturale corso degli eventi in funzione di un esito sorprendente e straordinario. Ma nella Lettera si affaccia anche una questione fondamentale: il problema del vero. Prima di scrivere le due tragedie, Manzoni aveva compiuto accurate ricerche di tipo storico e archivistico, preoccupandosi di offrirne i risultati al lettore nelle Notizie storiche che precedono il testo teatrale. Rispondendo a Chauvet, Manzoni arriva a sostenere un’esplicita subordinazione della poesia alla storia: il poeta non ha alcun “diritto di inventare”, deve limitarsi a desumere i propri soggetti dalle fonti storiche, senza deformarli. L’esigenza di rigore, anzi, si accentua nel passaggio dal Conte di Carmagnola all’Adelchi. Nella prima tragedia, lo stesso Manzoni distingue, nell’elenco dei personaggi, tra personaggi storici e personaggi ideali (ossia, di invenzione); nella seconda i personaggi ideali quasi scompaiono. All’inizio della seconda tragedia, le poche alterazioni alla verità storica introdotte (la morte di Adelchi a Verona e l’assenza dalla scena di Ansa, madre di Carlo Magno, perché supposta già morta) sono confessate da Manzoni con un certo imbarazzo, anche se egli ritiene il ruolo del poeta non solo diverso, ma proprio superiore a quello dello storico. Lo scopo di Manzoni non è certo quello della rappresentazione scenica di fatti storici, ma piuttosto quello di spiegare ciò che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto, mediante ciò che essi hanno fatto.

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Lo storico si limita al nudo racconto dei fatti; il poeta ha il compito, una volta ricostruiti scrupolosamente quei fatti, di indagare le ragioni profonde che li hanno determinati, i sentimenti e i pensieri degli uomini che ne sono stati protagonisti, la loro indole e il loro carattere. È quello che Manzoni chiama il vero poetico, che arricchisce e completa il vero storico. Se sul piano teorico la distinzione è chiara, assai meno agevole ne è però l’applicazione: mentre scrive l’Adelchi, Manzoni si rende conto di non sapere nulla delle idee, dei sentimenti, del modo di essere dell’epoca storica di cui tratta e di essersi trovato a proiettare sui propri personaggi una sensibilità moderna, scivolando proprio in quel romanzesco tanto detestato. La difficoltà È anche per la difficoltà di ricostruire in madi ricostruzione niera convincente quel vero poetico su cui si del vero poetico fonda il valore morale del dramma che Manzoni si dedicherà in seguito al romanzo, in cui ben diversa sarà la soluzione data al problema. Lo storico e il poeta

Il principe Adelchi in una miniatura del Codex Legum Longobardorum.

Focus

LA TRAMA DELL’ADELCHI

Atto primo. Giunge a Pavia Ermengarda, figlia di Desiderio e sposa di Carlo Magno, che l’ha ripudiata per ragioni politiche. Il fratello Adelchi vorrebbe accoglierla a corte con tutti gli onori, ma Desiderio, che vi vede la prova vivente dell’offesa ricevuta, la relega nel convento di San Salvatore, a Brescia, retto dalla sorella di Ermengarda, Ansberga, fino a che non sarà stata compiuta la vendetta. Mentre Desiderio si appresta ad inviare Adelchi contro Roma, per annetterla ai domini longobardi, giunge l’ambasciatore dei Franchi Albino, a chiedere la restituzione di alcune terre sottratte allo Stato della Chiesa. La situazione precipita: viene proclamata la guerra tra Franchi e Longobardi. Parecchi duchi longobardi si riuniscono nella casa di un oscuro soldato, Svarto, risolvendosi al tradimento. Svarto, animato dal desiderio di gloria e di potere, si offre di raggiungere Carlo Magno per rendergli note le loro decisioni. Atto secondo. La guerra ormai infuria da tempo. Nonostante l’impegno dei suoi soldati, Carlo non riesce a superare le Chiuse, eroicamente difese da Adelchi, e si accinge a tornare in Francia. Proprio nell’imminenza della partenza giunge però un religioso, il diacono Martino, che informa Carlo di aver scoperto, con l’aiuto del Signore, un diverso passaggio per raggiungere la pianura italiana. Carlo invia un drappello di soldati, guidati da Eccardo, a cogliere alle spalle l’esercito nemico, e finge la ritirata. Atto terzo. Adelchi esprime al fido scudiero Anfrido la propria delusione per non aver potuto sconfiggere Carlo e la propria contrarietà ad attaccare Roma. Ma mentre Desiderio sta cercando di convincere il figlio, giungono i Franchi di Eccardo. I Longobardi, sorpresi, faticano a riorganizzarsi; il tradimento dei duchi fa precipitare la situazione. Desiderio è costretto a fuggire. I duchi traditori vanno a rendere omaggio a Carlo, che nomina Svarto conte di Susa. Subito dopo, è condotto al campo franco Anfrido, ferito mentre da solo combatte valorosamente contro quattro nemici; Carlo tributa al morente un cavalleresco omaggio d’onore. Frattanto, Desiderio e Adelchi si incontrano, e decidono di chiudersi rispettivamente in Pavia e Verona. Atto quarto. A Brescia, Ansberga consola la sorella Ermengarda, che inutilmente cerca di vincere l’amore che continua a nutrire per Carlo, invitandola ad abbracciare la vita monacale. Nel tentativo di staccarla dal passato, le rivela le nuove nozze di Carlo con Ildegarde; Ermengarda, sopraffatta dal dolore, cade in delirio e muore. Sulle mura di Pavia, il traditore Guntigi, cui Desiderio ha affidato la difesa della città, incontra nottetempo Svarto, per concordare la resa. Atto quinto. La notizia della caduta di Pavia induce il duca di Verona, Giselberto, a chiedere ad Adelchi a nome degli altri duchi di arrendersi. Adelchi, dopo un drammatico monologo in cui respinge l’idea del suicidio, decide di tentare la fuga con un gruppo di fedeli. Frattanto Desiderio si reca da Carlo ad implorare pietà per il figlio; nel frattempo giunge Arvino ad annunciare la conquista di Verona. Adelchi, morente, è portato al cospetto di Carlo e Desiderio. Le sue ultime parole sono di perdono per il nemico e di serena accettazione del proprio destino.

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T5 Il vero della storia e il vero della poesia da Lettera a monsieur Chauvet In questo passo della Lettre à M.r C*** (“Lettera a monsieur Chauvet”), Manzoni, prima ancora di operare la celebre distinzione tra vero storico e vero poetico, osserva come la storia rappresenti l’unico soggetto degno di un’opera tragica. La ragione di ciò sta nel carattere popolare del teatro: per riuscire interessante, il dramma non deve essere il frutto dell’invenzione isolata del singolo artista, ma della sensibilità, dell’immaginario, delle aspettative di un intero popolo. PISTE DI LETTURA • La ricerca dell’essenza della poesia • La differenza tra storia e poesia

La poesia non è invenzione dei fatti

La poesia è espressione dei sentimenti umani

Il poeta svela il sentimento che sta dietro il fatto

Non so se sto dicendo qualcosa di contrario alle idee tradizionali; ma credo di enunciare soltanto una verità semplicissima, affermando che l’essenza della poesia non consiste nell’inventare dei fatti: questa invenzione è la cosa più facile, più volgare nel lavoro della mente, esigendo la minor riflessione e persino la minor immaginazione. Per questo non vi è nulla di così diffuso che le creazioni di tal genere, mentre tutti i grandi monumenti della poesia hanno per base avvenimenti offerti dalla storia oppure, ed è lo stesso, da ciò che un tempo è stato considerato storia1. Quanto ai poeti drammatici in particolare, i maggiori di ogni paese, con tanta più cura quanto più genio ebbero, hanno evitato di trasformare in dramma fatti di loro creazione e, ad ogni occasione a loro offertasi di dire che in punti essenziali avevano sostituito l’invenzione alla storia, lungi dall’accettare questo giudizio come un elogio, l’hanno respinto come una censura. [...] Ciò che ha fatto parte d’una tradizione, ciò che è stato creduto da tutto un popolo, ha sempre un genere e un grado d’importanza, cui non può giungere la finzione isolata e arbitraria dell’uomo chiuso nel suo studiolo a fabbricare pezzi di storia secondo il suo gusto. Ma, si dirà forse, se si toglie al poeta ciò che lo distingue dallo storico, il diritto cioè di inventare i fatti, che cosa gli resta? La poesia; sì, la poesia. Perché, infine, che cosa ci dà la storia? Avvenimenti che, per così dire, ci sono noti solo all’esterno; ciò che gli uomini hanno compiuto: ma quello che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro deliberazioni e i loro progetti, i loro successi e le loro sfortune, i discorsi con cui hanno fatto o tentato di far prevalere le loro passioni e la loro volontà su altre passioni e su altre volontà, con cui hanno espresso la loro collera, manifestata la loro tristezza, con cui insomma hanno rivelato la loro individualità: tutto questo, tranne pochissimo, è taciuto dalla storia; e tutto questo è il dominio della poesia. Eh! Sarebbe frivolo temere che essa non vi trovi mai occasioni di creare, nel senso più serio e forse nel solo serio della parola! Ogni segreto dell’anima umana si svela, tutto ciò che compone i grandi avvenimenti, tutto ciò che contrassegna i grandi destini, si scopre alle immaginazioni dotate d’una sufficiente forza di simpatia. Tutto ciò che la volontà umana ha di forte e di misterioso, tutto ciò che la sventura ha di religioso e di profondo, il poeta può intuire o, per meglio dire, scorgere, afferrare ed esprimere.

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da Lettre à M.r C*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, a cura di U. Colombo, Edizioni Otto/Novecento, Azzate, 1995

1. i grandi monumenti... storia: il riferimento è alle opere classiche, fondate sui miti e sulle leggende anticamente considerati come avvenimenti storici e reali.

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inee di analisi testuale Storia e poesia Il vero storico consiste in contenuti tratti dalla realtà dei fatti, ricostruiti attraverso i documenti, secondo un procedimento propriamente storiografico. Dunque, si tratta di contenuti “veri” in quanto autenticati dall’autorità della storia, ma inevitabilmente parziali, perché non possono andare al di là del livello ufficiale della documentazione, dalla quale sono esclusi gli umili (cioè tutti gli anonimi che non lasciano traccia di sé nelle fonti storiche), nonché la dimensione interiore degli individui. A colmare questi limiti del vero storico deve intervenire il vero poetico. All’artista-storiografo, cioè, deve necessariamente affiancarsi l’artista-poeta: colui che, con le proprie facoltà di intuizione, immaginazione, simpatia, sa leggere nella scia d’ombra della storia ufficiale ed entrare nel cuore e nella mente degli uomini. Il poeta va oltre la superficie degli avvenimenti; ne sa cogliere il senso segreto e, nello stesso tempo, sa percepire quel vissuto che sfugge allo storico. Invenzione e creazione Si tratta, per Manzoni, dell’unica forma “seria” di espressione artistica: che non può essere mai invenzione (parola cui lo scrittore assegna una forte connotazione negativa, in quanto implica per lui l’idea di falsità e di arbitrio individuale), ma creazione (cioè attività che fa esistere qualcosa di reale, saldo, universalmente valido, analoga all’attività creatrice di Dio).

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del brano in non più di 10 righe. Analisi e interpretazione 2. Sottolinea tutti i termini che si riferiscono al concetto di invenzione e spiegane i significati in non più di 10 righe. 3. Rispondi alle seguenti domande (max 4 righe per ogni risposta). a. Chi è Chauvet? b. Perché Manzoni gli scrive? c. Quali sono le differenze fra vero storico e vero poetico e, quindi, fra lo storico e il poeta? Approfondimenti 4. Rileggi il brano e le relative Linee di analisi testuale. Quindi commenta sinteticamente (max 20 righe) la seguente frase tratta dalla Lettera a monsieur Chauvet: Perché, infine, che cosa ci dà la storia?

T6 Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti da Adelchi, III, coro Il coro – posto dopo i primi tre atti dell’Adelchi che hanno trattato delle vicende di guerra tra Longobardi e Franchi – canta i sentimenti della gente italica, che assiste agli avvenimenti che si svolgono nella propria terra senza poter in alcun modo agire. Nel coro trova voce quella immensa moltitudine d’uomini, che passa sulla terra inosservata, senza lasciarvi traccia, che nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822) Manzoni indica come protagonista della tragedia e che, nella prima versione dell’opera, alludeva in modo ancora meno velato alla situazione dell’Italia ottocentesca. Schema metrico: undici sestine di dodecasillabi (doppi senari), con rime secondo lo schema AABCCB. PISTE DI LETTURA • I sentimenti umani dietro i fatti storici • La voce dell’autore • Tono patriottico

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Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti1, dai boschi, dall’arse fucine stridenti2, dai solchi bagnati di servo sudor3, un volgo disperso4 repente si desta; intende l’orecchio, solleva la testa percosso da novo crescente romor5.

Dai vestiboli invasi dal muschio, dai Fori in rovina, dai boschi, dalle fucine incandescenti che stridono, dai terreni bagnati dal sudore di servi, si risveglia all’improvviso un popolo [italico] discorde; tende l’orecchio, solleva la testa, colpito da una voce [della sconfitta longobarda] inattesa e insistente.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti, qual raggio di sole da nuvoli folti, traluce de’ padri6 la fiera virtù: ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto si mesce e discorda lo spregio sofferto col misero orgoglio d’un tempo che fu.

Dagli sguardi dubbiosi, dai volti impauriti, come il raggio di sole dalle nuvole fitte, s’intravede il fiero valore degli antenati: negli sguardi, nei volti si mescolano, confusi e incerti, le [tracce dei secoli di] umiliazioni subite e [i resti del] il misero orgoglio del tempo passato.

S’aduna voglioso, si sperde tremante, per torti sentieri, con passo vagante, fra tema e desire, s’avanza e ristà; e adocchia e rimira scorata e confusa de’ crudi signori7 la turba diffusa, che fugge dai brandi8, che sosta non ha.

Si raduna desideroso, si disperde pauroso, attraverso tortuosi sentieri, con passo indeciso, fra timore e desiderio, avanza e si ferma; e guarda e osserva la folla dispersa, scoraggiata e confusa, dei feroci dominatori [longobardi] che fugge dalle spade nemiche senza fermarsi.

Ansanti li vede, quai trepide fere, irsuti per tema le fulve criniere, le note latebre del covo cercar; e quivi, deposta l’usata minaccia, le donne superbe, con pallida faccia, i figli pensosi pensose guatar.

Li vede ansimanti come belve terrorizzate, con i fulvi capelli arruffati per la paura, cercare i conosciuti nascondigli della tana; e qui, abbandonato il consueto aspetto minaccioso, le mogli [un tempo] superbe guardare preoccupate, con la faccia pallida, i figli angosciati.

1. Dagli atrii… cadenti: sono le rovine coperte di muschio (atrii muscosi) degli antichi edifici della romanità e le antiche piazze (Fori) devastate, numerose in tutta l’Italia. I primi versi sono ricchi di richiami letterari, soprattutto virgiliani e classici. 2. dall’arse... stridenti: si allude alle officine (fucine) dei fabbri, che sono arse dal fuoco e stridenti per il rumore del metallo lavorato. La lavorazione dei metalli e quella della terra (i campi bagnati dal sudore del popolo ridotto in schiavitù) sono le occupazioni degli indigeni e fonti di ricchezza per gli occupanti. 3. dai solchi... sudor: dai campi arati (solchi) italici bagnati dal sudore del popolo che, anziché possederli, li deve lavorare come schiavo. L’ambientazione nella storia passata lascia intravedere con chiarezza il riferimento al presente, caratterizzato dall’oppressione degli Italiani da parte dei popoli stranieri. 4. un volgo disperso: sono i Latini, cioè i discendenti della romanità al tempo dei Longobardi. Il termine volgo (latinismo per “popolo”), qui accostato all’attributo disperso, connota una moltitudine anonima, che ha perduto la consapevolezza della propria identità nazionale e, quindi, è anche discorde. L’avverbio repente (“improvvisamente”) è un latinismo. 5. percosso… romor: si allude alla voce inattesa e sempre più diffusa della sconfitta dei Longobardi. Il participio percosso significa “colpito”; novo (“inatteso”) e romor (qui, “voce che circola”) sono latinismi. 6. de’ padri: il poeta si riferisce agli antichi Romani. La metafora identifica il raggio di sole – che a mala pena illumina il velo (traluce) delle nuvole – con la speranza o, co-

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me qui, con il valore (virtù) che affiora anche in una situazione negativa, ed è utilizzata anche in altri testi manzoniani. I volti sono specchi dell’animo degli italici, nei cui cuori si intrecciano e contrastano il temperamento servile creato dalle umiliazioni (si mesce e discorda lo spregio sofferto) e i resti dell’orgoglio (il misero orgoglio) ereditato dal glorioso passato. Tale contraddizione interna si traduce nel comportamento indeciso, espresso dalla serie di antitesi (s’aduna e si sperde, voglioso e tremante, tema e desire, s’avanza e ristà: vv. 13-15). 7. de’ crudi signori: il poeta si riferisce ai crudeli Longobardi. L’antitesi fra l’attributo crudeli (v. 17) e l’endiadi (espressione di un concetto mediante due termini coordinati: qui, che ... che) del verso successivo mira a sottolineare sia la ferocia dei Longobardi, sia il capovolgimento della situazione che volge ora in fuga, inseguiti dai guerrieri Franchi, i vincitori di un tempo. 8. dai brandi: dalle spade dei Franchi. Brando è latinismo, come pure, poco oltre, latebre (“rifugi”, v. 21). Costrutto classico è anche l’accusativo alla greca irsuti per tema le fulve criniere (“con i fulvi capelli arruffati dal terrore”, v. 20). Il paragone dispregiativo fra i Longobardi e le belve ansanti che cercano la tana (covo, qui metafora di “palazzo”) non è rivolto contro il popolo germanico, ma – come sempre in Manzoni – contro il ruolo di oppressione che esso esercita nella situazione storica presentata; basti a dimostrarlo la pietà con cui sono ritratte donne e figli degli sconfitti, sottolineata dalla ripetizione pensose [...] pensosi (vv. 23-24). All’attributo superbe (v. 23) è sottinteso “un tempo”: infatti, le madri hanno pallida faccia e il loro atteggiamento non è più minaccioso (deposta l’usata minaccia).

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E sopra i fuggenti, con avido brando, quai cani disciolti, correndo, frugando, da ritta da manca, guerrieri venir: li vede, e rapito d’ignoto contento, con l’agile speme precorre l’evento9, e sogna la fine del duro servir.

E [vede] dei guerrieri [franchi] sopraggiungere con la spada avida, come cani sguinzagliati, correndo, cercando, da destra e da sinistra, i fuggitivi: li vede, e preso da una contentezza sconosciuta, prevede cosa succederà con la veloce speranza, e sogna la fine della dura schiavitù.

Udite! Quei forti che tengono il campo10, che ai vostri tiranni precludon lo scampo, son giunti da lunge, per aspri sentier: sospeser le gioie dei prandi11 festosi, assursero in fretta dai blandi riposi, chiamati repente da squillo guerrier.

Udite! Quei forti [franchi] che hanno vinto, che chiudono la salvezza ai vostri padroni [longobardi], sono giunti da lontano, per strade difficili: sospesero le gioie dei festosi banchetti, s’alzarono in fretta dai dolci ozi, chiamati velocemente dalla tromba della guerra.

Lasciar nelle sale del tetto natio le donne accorate, tornanti all’addio, a preghi e consigli che il pianto troncò: han carca la fronte de’ pesti cimieri12, han poste le selle sui bruni corsieri, volaron sul ponte che cupo sonò.

Lasciarono nei saloni del palazzo natio le mogli addolorate, che continuavano a dir loro addio, fra preghiere e consigli troncati dal pianto: caricarono sulla fronte gli elmi già ammaccati, posero le selle su cavalli bruni, galopparono sul ponte levatoio del loro castello che risuonò cupamente.

A torme, di terra passarono in terra, cantando giulive canzoni di guerra, ma i dolci castelli pensando nel cor: per valli petrose, per balzi dirotti, vegliaron nell’arme le gelide notti, membrando i fidati colloqui d’amor.

A schiere essi passarono di terra in terra, cantando gioiose canzoni di guerra, ma pensando nel loro cuore ai loro dolci castelli: attraverso valli sassose e dirupi scoscesi, vegliarono armati in gelide notti, ricordando i dolci dialoghi amorosi.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose, per greppi senz’orma le corse affannose, il rigido imperio, le fami durar; si vider le lance calate sui petti, a canto agli scudi, rasente agli elmetti, udiron le frecce fischiando volar.

Sopportarono i pericoli nascosti dei campi non sicuri, le corse affannose attraverso colline senza sentieri, la rigida disciplina militare e la fame; videro le lance calare sui loro petti, vicino agli scudi, sfiorare i loro elmi, udirono le frecce volare fischiando.

9. precorre l’evento: la strofa allude alla speranza suscitata nel popolo italico che, preso da una gioia mai provata da lungo tempo (rapito d’ignoto contento) per la sconfitta dei Longobardi braccati da destra e da sinistra (da ritta, da manca: da ogni lato) e crede imminente in futuro (precorre l’evento) la fine della schiavitù. Non si dimentichi che il giovane Manzoni aveva sperato dai Francesi di Napoleone la liberazione dell’Italia dagli Austriaci e il dono dell’indipendenza e che nell’ode Marzo 1821 l’autore stesso aveva anticipato l’evento, allora poi non verificatosi, dell’inizio della guerra per la liberazione italiana: le caratteristiche di tali pensieri e stati d’animo gli sono perciò note. 10. Quei forti… campo: i Franchi vittoriosi. La strofa è dominata dall’antitesi fra le dure condizioni della guerra e i gioiosi piaceri delle terre patrie che i Franchi hanno abbandonato per combattere; il termine forti, riferito ai Franchi, è utilizzato più volte, in contrapposizione ai Longobardi sconfitti e, soprattutto al volgo disperso della popolazione italica. 11. prandi: banchetti; si tratta di un latinismo; così pure blandi (“tranquilli”); squillo (suono di tromba) è invece ter-

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mine il cui etimo deriva dal provenzale. 12. pesti cimieri: gli elmi dei Franchi sono ammaccati (pesti) perché già usati in altre guerre. La narrazione è qui assimilabile – anche per le numerose consonanze, allitterazioni e rime interne – alle ballate romantiche ambientate nel Medioevo: Manzoni vi aggiunge però il proprio magistrale tocco, consistente nella scena dell’addio che, come spesso nelle opere dell’autore, vede le donne addolorate per la separazione (accorate) e che ripetono i loro addii (tornanti all’addio) quali vittime delle sanguinose vicende belliche. Giulive (“liete”) e membrando (“ricordando”) sono termini di antica origine francese: nei versi 44 e 48 viene espresso il contrasto interiore fra l’atteggiamento apparentemente gagliardo e la nostalgia della propria casa nei guerrieri Franchi, dei quali viene qui fatto proprio il punto di vista, con un climax che si manifesta nella successiva strofa, la quale inizia narrando di disagi – i pericoli (perigli) di soste sgradite (stanze incresciose), le corse lungo pendii deserti (greppi senz’orma), i duri ordini dei comandanti (il rigido imperio) – e si conclude facendo riferimento a pericoli mortali (udiron le frecce... volar).

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E il premio sperato, promesso a quei forti, sarebbe, o delusi13, rivolger le sorti, d’un volgo straniero por fine al dolor? Tornate alle vostre superbie ruine, all’opere imbelli dell’arse officine, ai solchi bagnati di servo sudor.

O illusi: il premio sperato, promesso a quei forti guerrieri sarebbe quello di cambiare i destini e di mettere fine al dolore di un popolo straniero? Tornate alle vostre superbe rovine antiche, alle opere pacifiche delle fucine roventi, ai terreni bagnati dal sudore da servi.

Il forte si mesce col vinto nemico, col novo signore rimane l’antico; l’un popolo e l’altro sul collo vi sta. Dividono i servi, dividon gli armenti; si posano insieme sui campi cruenti d’un volgo disperso che nome non ha.

Il forte vincitore [franco] si mescola con il nemico vinto [longobardo], con il nuovo rimane l’antico dominatore; un popolo e l’altro vi restano sul collo. Essi si dividono i servi, si dividono il bestiame; si fermano insieme sui campi insanguinati di un popolo discorde che non ha neppure un nome. da Tutte le opere, I, Mondadori, Milano, 1970

13. o delusi: il coro si rivolge con una interrogativa retorica al popolo dei Latini che si illude (o delusi) nel cambiamento della propria condizione di oppressione (rivolger le sorti) e nella fine della propria sofferenza (por fine al dolor) grazie ai nuovi conquistatori. Qui il messaggio è direttamente politico: gli Italiani del tempo di Manzoni, come quelli dell’VIII secolo, non devono attendere la propria liberazione da una potenza straniera: i rapporti storici, infatti, si basano sulla legge del più forte e sul reciproco vantaggio; non c’è dun-

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que via d’uscita per coloro che non sanno combattere (imbelli). Manzoni prefigura anzi una integrazione fra Franchi e Longobardi (il forte si mesce col vinto nemico) a spese del volgo disperso che nome non ha delle moltitudini italiche. Lo stato d’animo di delusione – che caratterizza la definitiva stesura della tragedia dalla precedente – tocca, nel presente, l’autore: invano, infatti, gli Italiani hanno creduto alle promesse prima di Napoleone, poi degli Austriaci quando erano in grave difficoltà nei confronti delle armate francesi.

inee di analisi testuale Un messaggio velato agli Italiani Il primo coro (atto III) mette in campo tre popoli: • i Franchi vincitori, che hanno lasciato le proprie case e le proprie famiglie per affrontare la guerra, i disagi della vita militare, i continui rischi di morte; • i Longobardi sconfitti e in fuga, non più superbi oppressori ma, a loro volta, impauriti (tremano soprattutto le donne longobarde e i loro figli, dipinti pietosamente come pensosi di fronte alla loro sorte); • infine il volgo disperso che nome non ha dei Latini, annichiliti dalla propria condizione servile, privi di identità, ingenuamente disposti a sperare che la vittoria dei Franchi significhi per loro la libertà che da soli non sono in grado di procurarsi. Il riferimento alla storia passata allude a quella dei tempi dell’autore. Il coro rivela tutta l’amarezza di Manzoni sia per la delusione subita per la rapace occupazione della Francia napoleonica, sia per le false promesse austriache rivolte agli Italiani nel 1813, sia per il fallimento dei moti del 1821 (che ha influenzato la seconda stesura di Adelchi), ma anche il desiderio di riscatto che matura da quella delusione. Struttura e stile Nelle prime cinque sestine il punto di vista è quello del volgo disperso dei Latini (il loro stupore dubbioso, l’incerta rinascita sui loro volti dell’antica fiera virtù dei padri, la loro ingenua speranza di fronte all’imprevista sconfitta dei crudi signori Longobardi); nelle sestine 6-11, il cui inizio è evidenziato dall’imperativo Udite! (v. 31), il punto di vista è quello dell’autore, che richiama alla realtà i Latini, risvegliandoli dal sogno impossibile di una libertà conquistata per mano e meriti altrui (se prima l’Italia aveva un solo padrone, ora ne avrà due, Longobardi e Franchi, e finché non saprà assumere su di sé la responsabilità della propria libertà, continuerà a essere un volgo disperso che nome non ha). Sul piano stilistico e linguistico, il tono è “alto” e ricco di latinismi; non giova, inoltre, alla fruibilità teatrale l’ampiezza dei monologhi. Gli insuccessi teatrali La prima rappresentazione dell’opera (al Carignano di Torino, nel 1843) è un fiasco che fa seguito all’insuccesso fiorentino della prima del Conte di Carmagnola (1828). Già precedentemente l’autore, con la consueta autoironia, aveva in più occasioni delineato i difetti dell’opera (in particolare, nella lettera dell’aprile 1828 al censore Attilio Zuccagni Orlandini). Sarà questo uno dei motivi che indurranno Manzoni – alla ricerca di dialogo con un vasto pubblico – ad abbandonare definitivamente la drammaturgia per il romanzo e, inoltre, a porre il problema del linguaggio e delle sue potenzialità comunicative al centro delle proprie riflessioni.

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Comprensione 1. Aiutandoti con la parafrasi, riassumi il primo coro dell’Adelchi in non più di 10 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Come vengono rappresentati nel coro i Franchi e i Longobardi? b. Qual è il volgo disperso che nome non ha? c. Con quali caratteristiche questo popolo viene rappresentato? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il messaggio che emerge dal primo coro dell’Adelchi? b. Quali sono le principali caratteristiche stilistiche del testo? c. Quali versi dimostrano la pietà dell’autore nei confronti dei Longobardi vinti? d. Qual è la funzione del coro nella tragedia manzoniana? Approfondimenti 4. Nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia si legge: Una immensa moltitudine d’uomini, una serie di generazioni, che passa su la terra, su la sua terra, inosservata, senza lasciarvi un vestigio, è un tristo ma portentoso fenomeno. Riflettendo sull’affermazione sopra riportata, tratta sinteticamente (in max 20 righe) la seguente questione: Il volgo disperso che nome non ha nel primo coro dell’Adelchi e le possibilità di risorgimento per gli Italiani secondo Manzoni.

T7 Sparsa le trecce morbide da Adelchi, IV, coro Il più famoso coro della tragedia, Sparsa le trecce morbide, è collocato dopo la prima scena del quarto atto: Ermengarda, ritiratasi in convento presso Pavia, lacerata dal contrasto interiore tra l’amore per Carlo e il senso di fedeltà al suo popolo e alla sua famiglia, è raggiunta dalla notizia delle nuove nozze del sovrano dei Franchi e decide di lasciarsi morire. Schema metrico: venti sestine di settenari: il primo, il terzo e il quinto sono sdruccioli e sciolti da rima; il secondo e il quarto sono piani e in rima fra loro; i versi finali di ciascuna strofa sono tronchi e rimano fra loro a due a due. Lo schema delle rime è dunque: abcbde. PISTE DI LETTURA • La celebrazione del momento della morte • La provida sventura • Tono patetico Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto, lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, 5 giace la pia, col tremolo guardo cercando il ciel1.

1. Sparsa... ciel: con le morbide trecce sparse sul petto ansante (affannoso: i costrutti iniziali sono accusativi alla greca, di stampo classico), le mani abbandonate (lenta le palme) e il viso bianco bagnato dal sudore della morte (ma rorida di morte propriamente significa “bagnato dalla rugiada della

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morte”), la pura (pia) Ermengarda giace inerte sul letto, e sembra cercare il cielo con lo sguardo tremante. Sono numerosi, nella strofa, i latinismi e i costrutti di ascendenza virgiliana: da lenta le palme a rorida (che identifica il sudore con la rugiada – in latino ros – e, dunque, la morente a un fiore).

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Cessa il compianto: unanime s’innalza una preghiera: calata in su la gelida 10 fronte, una man leggiera sulla pupilla cerula stende l’estremo vel2. Sgombra, o gentil, dall’ansia mente i terrestri ardori: 15 leva all’Eterno un candido pensier d’offerta, e muori: fuor della vita è il termine del lungo tuo martir3. 20

Tal della mesta, immobile era quaggiuso il fato: sempre un obblio di chiedere che le saria negato; e al Dio de’ santi ascendere santa del suo patir4.

Ahi! nelle insonni tenebre, pei claustri solitari, tra il canto delle vergini, ai supplicati altari, sempre al pensier tornavano 30 gl’irrevocati dì; 25

2. Cessa... vel: appena la giovane donna è spirata il lamento delle suore si interrompe (cessa il compianto) e si innalza una preghiera che sembra venire da un’anima sola (unanime); una mano leggera scende sulla sua fronte ormai fredda e, chiudendo le palpebre, stende sui suoi occhi azzurri (sulla pupilla cerula) per l’ultima volta il velo delle palpebre (stende l’estremo vel). La morte di Ermengarda è descritta con una progressione esterno-interno, terra-cielo: prima è rappresentato l’aspetto fisico della morente, poi è annunciata indirettamente, attraverso il comportamento delle suore che l’assistono e che, nel momento della sua morte, passano dal compianto alla preghiera; infine c’è la mano leggera che chiude le sue palpebre, che rappresenta simbolicamente la mano di Dio che scende a pacificare per sempre l’anima di Ermengarda (la stessa mano che ne Il cinque maggio scende a rasserenare Napoleone: ...ma valida / venne una man dal cielo: vv. 87-88). La narrazione poetica suscita commozione: d’altronde, come osserva Guido Davico Bonino, Manzoni è forse il maggior poeta della morte imminente dell’intera letteratura italiana. 3. Sgombra... martir: il coro si rivolge ora direttamente a Ermengarda. Sembra (e alcuni critici lo sostengono) che il coro si rivolga a Ermengarda morente; la sventurata princi-

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pessa, invece, è già morta (ne sono chiaro indizio i vv. 912), e il coro le parla come se fosse ancora viva o udisse dall’altra vita, in un tempo presente che va inteso come un passato prossimo: o nobile (gentile) anima, ora hai liberato (sgombra) la mente angosciata (ansia) dalle passioni terrestri (terrestri ardori): hai elevato a Dio un puro pensiero di offerta di te stessa (leva all’Eterno un candido pensier d’offerta), e sei morta in pace (e muori): la fine della tua lunga sofferenza (martir) è oltre la vita. L’invocazione a Ermengarda, intesa come già purificata e salva, serve all’autore per commentarne la morte dal proprio punto di vista, ossia in una prospettiva religiosa: l’uso dell’imperativo presente traduce la contemporaneità fra l’evento e la sua commossa interpretazione da parte del coro e del poeta: se così non fosse, l’espressione e muori risulterebbe stonata o, addirittura, grottesca. 4. Tal della mesta... patir: questo (tal) era, qui sulla terra (quaggiuso), il destino (fato) immutabile (immobile) della infelice (mesta) principessa: ella invocava sempre un oblio del passato che le sarebbe stato negato e salire al Dio dei santi santificata per il suo patire. È anticipato in questi versi il motivo della provida sventura, cioè del dolore che è inviato da Dio come mezzo di redenzione.

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quando ancora cara, improvida d’un avvenir mal fido, ebbra spirò le vivide aure del Franco lido, 35 e tra le nuore Saliche invidiata uscì5: quando da un poggio aereo, il biondo crin gemmata, vedea nel pian discorrere 40 la caccia affaccendata, e sulle sciolte redini chino il chiomato sir; e dietro a lui la furia de’ corridor fumanti; 45 e lo sbandarsi, e il rapido redir dei veltri ansanti; e dai tentati triboli l’irto cinghiale uscir; 50

e la battuta polvere rigar di sangue, colto dal regio stral: la tenera alle donzelle il volto volgea repente, pallida d’amabile terror6.

Oh Mosa errante! Oh tepidi lavacri d’Asquisgrano! ove, deposta l’orrida maglia, il guerrier sovrano scendea del campo a tergere 60 il nobile sudor!7 55

5. nelle insonni... uscì: il coro spiega come a Ermengarda non fu possibile dimenticare il suo passato (ossia, il ricordo dell’amore per re Carlo, che l’aveva ripudiata a causa della guerra tra Franchi e Longobardi) neppure ritirandosi in convento: nelle notti insonni, camminando nei chiostri (claustri) deserti, e anche di giorno, in chiesa mentre pregava (ai supplicati altari) tra il canto delle suore (vergini), sempre le tornavano al pensiero i giorni che non voleva ricordare (irrevocati) – per non soffrire – in cui, ancora amata da Carlo, senza prevedere un futuro infido (mal fido), profondamente felice (ebbra) ella respirava (spirò) l’aria per lei vivificatrice (viva) del paese (lido) dei Franchi ed era invidiata tra tutte le spose del popolo dei Franchi (nuore, in senso affettivo; Saliche dai Salii, nome di uno dei due maggiori gruppi etnici in cui si dividevano i Franchi stessi). 6. quando... terror: il coro, in una sorta di flashback, rievoca ancora lo strazio che i ricordi provocavano in Ermengarda finché fu in vita. Nel convento, le tornava in mente quando, da un balcone elevato (poggio aereo), con i capelli biondi ornati di pietre preziose (il biondo crin gemmata: è un altro accusativo alla greca), vedeva nella pianura il dispiegarsi delle manovre di caccia, e re Carlo dai capelli lunghi (il chiomato sir) chino sulle redini allentate (le sciolte redini) sul cavallo in corsa, e dietro a lui la furia dei cavalli che sudavano sollevando vapore (fumanti), e l’allargarsi e il rapido ritorno in gruppo (redir) dei cani da caccia (veltri) ansanti, e dai cespugli perlustrati (dai tentati tribo-

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li) uscire l’irsuto cinghiale, che rigava di sangue la polvere calpestata, colpito dalla freccia del sovrano (regio stral): ella, allora, teneramente, volgeva all’improvviso (repente: si tratta di un latinismo) il viso alle ancelle, pallida di un timore amabile (la figura è un ossimoro). L’allusione al ricordo della condizione felice in una situazione di sciagura accomuna Ermengarda al Napoleone di Sant’Elena (tal su quell’alma il cumulo delle memorie scese): sicuramente, a questo proposito, Manzoni ha presente anche le parole di Francesca da Rimini in Dante: Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria (Inferno, V, vv. 121-123). 7. Oh Mosa errante... sudor!: il coro rievoca i sentimenti di Ermengarda nel convento. La sposa ripudiata vedeva il fiume Mosa nei suoi tortuosi meandri, vedeva i tiepidi bagni termali (lavacri) di Aquisgrana (capitale del Sacro Romano Impero di Carlo Magno) dove, svestita la spaventosa armatura (l’orrida maglia), il re guerriero suo marito scendeva a lavare (tergere) il suo nobile sudore di battaglia (del campo). Il flashback si fa più analitico per ripercorrere, sotto forma di ricordi struggenti e dal punto di vista di Ermengarda, i momenti salienti della sua avventura d’amore: dopo il primo arrivo in Francia e il matrimonio con Carlo, l’episodio della caccia (forse, con significato allegorico: la preda cacciata da Carlo potrebbe essere la prefigurazione del destino della stessa Ermengarda) e l’ambiente della reggia in cui ella gioì del suo amore.

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Come rugiada al cespite dell’erba inaridita, fresca negli arsi calami fa rifluir la vita, 65 che verdi ancor risorgono nel temperato albor; tale al pensier, cui l’empia virtù d’amor fatica, discende il refrigerio 70 d’una parola amica, e il cor diverte ai placidi gaudii d’un altro amor8. Ma come il sol che reduce l’erta infocata ascende, 75 e con la vampa assidua l’immobil aura incende, risorti appena i gracili steli riarde al suol; 80

ratto così dal tenue obblio torna immortale l’amor sopito, e l’anima impaurita assale, e le sviate immagini richiama al noto duol9.

Sgombra, o gentil, dall’ansia mente i terrestri ardori; leva all’Eterno un candido pensier d’offerta, e muori: nel suol che dee la tenera 90 tua spoglia ricoprir, 85

altre infelici dormono, che il duol consunse; orbate spose dal brando, e vergini indarno fidanzate;

8. Come rugiada... amor: segue, ora, una delicata similitudine. Come la rugiada fresca fa tornare la vita al ciuffo d’erba (cespite) inaridito, negli steli riarsi (arsi calami: è un latinismo) che ancora rivivono verdi nel mite clima dell’alba (nel temperato albor), così giunge il refrigerio della parola di Dio, amica per la mente oppressa dalla crudele (empia) forza dell’amore, e distrae il sentimento (il cor diverte) con le gioie pacifiche (placidi gaudii) di un altro amore (quello divino). La religione cristiana, come spesso Manzoni sottolinea (ad esempio, nell’episodio della “monaca di Monza” nei Promessi sposi), è anche conforto ai mali e al dolore. 9. Ma come il sol... duol: un’altra similitudine, legata alla prima, mette in luce lo stato d’animo della principessa che, nonostante il conforto della fede, continuava a essere straziata dai ricordi. Come il sole che torna (reduce) sale la china infuocata del cielo (l’erta infocata), e, con i raggi infuocati senza tregua (vampa assidua) incendia (incende) l’aria immobile, di nuovo brucia (riarde) sul suolo gli esili

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steli che si erano appena risollevati, così rapidamente (ratto) dalla esile dimenticanza ritorna l’amore addormentato che non può morire, e assale l’anima spaventata e richiama i ricordi che erano stati allontanati (le sviate immagini) al dolore ben conosciuto (noto duol). L’amore di Ermengarda per Carlo Magno era così intenso che ella non riesce a cancellarne il ricordo. Il tema dell’impossibilità di dimenticare viene qui ripreso e sviluppato poeticamente attraverso due similitudini, legate fra loro: la rugiada che rinfresca gli steli (simbolo del conforto che la fede dona al dolore) e il sole che li brucia di nuovo (ossia, il tormento del ricordo della felicità di un tempo). Come la rugiada sugli steli, così le parole consolatrici delle suore e le loro esortazioni alla preghiera e al pensiero di Dio hanno effetto per qualche tempo sul cuore di Ermengarda, producendo un oblio temporaneo, che l’amore sopito – come il sole che ritorna – cancella, assalendo nuovamente l’anima angosciata di Ermengarda.

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madri, che i nati videro trafitti impallidir10.

Te dalla rea progenie degli oppressor discesa, cui fu prodezza il numero, 100 cui fu ragion l’offesa, e dritto il sangue, e gloria il non aver pietà, te collocò la provida sventura in fra gli oppressi: 105 muori compianta e placida; scendi a dormir con essi: alle incolpate ceneri nessuno insulterà11.

110

Muori; e la faccia esanime si ricomponga in pace; com’era allor che improvida d’un avvenir fallace, lievi pensier virginei solo pingea12. Così

dalle squarciate nuvole si svolge il sol cadente, e, dietro il monte, imporpora il trepido occidente: al pio colono augurio 120 di più sereno dì13. 115

da Tutte le opere, I, Mondadori, Milano, 1970

10. Sgombra... impallidir: il coro torna, riprendendo per anafora i versi iniziali, a rivolgersi direttamente a Ermengarda, riprendendo il tema precedente per aggiungere che nella terra che deve coprire il suo giovane corpo dormono altre donne infelici, consumate dal dolore (che il duol consunse); mogli rese vedove (orbate) dalla spada (dal brando: latinismo), e vergini fidanzatesi invano (indarno); madri che videro i figli (nati), trafitti, impallidire e morire. Nella seconda invocazione a Ermengarda, l’autore dapprima ripete l’invocazione precedente (i primi quattro versi della strofa riprendono alla lettera quelli della terza strofa), poi allarga la visuale per inserire la sofferenza di Ermengarda nel contesto del comune destino di sofferenza umana. Ermengarda non è sola nella sua sofferenza: tante altre infelici hanno sofferto e sono morte di dolore come lei. La sventura di Ermengarda è la sventura di tutti gli oppressi che (secondo la concezione espressa nelle tragedie manzoniane) possono trovare riscatto solo nella morte e in un’altra vita. 11. Te... insulterà: in questa strofa, tramite il coro, l’autore esprime la propria concezione detta della provida sventura. Tu, discendente dalla malvagia stirpe (rea progenie) degli oppressori longobardi, il cui coraggio fu la supremazia numerica (cui fu prodezza il numero: l’espressione è ironica), la cui norma di legge (ragion) fu la violenza, diritto (dritto) il versare sangue, e gloria non avere pietà, tu sei stata posta dalla sventura provvidenziale (provida sventura, ossia “sventura che conduce alla salvezza per volontà provvidenziale di Dio”: si tratta di un ossimoro) tra gli oppressi: perciò ora hai potuto morire (muori) compianta e

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in pace (compianta e placida: i due aggettivi si ricollegano al compianto e alla preghiera delle suore intorno al letto di morte, cui si accenna nei vv. 7-8); scendi a dormire con essi il sonno eterno: nessuno offenderà le tue spoglie innocenti (incolpate – ossia “senza colpa” – ceneri). Il concetto manzoniano della provida sventura presuppone che, mentre la potenza e la ricchezza tendenzialmente allontanano da Dio, la sventura vissuta con fede purifichi, accosti alla fede e renda degni della salvezza eterna. 12. Muori; e la faccia... pingea: ora tu sei morta; il tuo viso senza vita (esanime) possa ricomporsi in un’espressione di pace, come quando, inconsapevole (improvida) di un futuro ingannatore (fallace), immaginava (pingea: “dipingeva nella mente”) soltanto leggeri (sereni) pensieri giovanili (virginei). 13. Così... dì: così, dalle nuvole che si squarciano si libera il sole al tramonto (cadente) e, dietro il monte, fa diventare rosso (imporpora) l’occidente tremante di luce (trepido), come augurio di un giorno più sereno al pio contadino. Nella similitudine, la vicenda di Ermengarda diventa un insegnamento religioso e morale per tutti: secondo il coro (e l’autore) la morte, come il tramonto del sole, non è la notte eterna del nulla leopardiano ma la premessa a un nuovo e più luminoso giorno, che risplenderà nell’altra vita. Di grande effetto l’enjambement che lega le due ultime strofe e apre la similitudine, segnando un improvviso e forte mutamento di focalizzazione: congedandosi da Ermengarda, il coro, attraverso l’ultima immagine, si rivolge ai lettori, cui è indirizzata la considerazione finale sul senso e il destino della vita.

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inee di analisi testuale Da Napoleone a Ermengarda Il coro del quarto atto dell’Adelchi rivela con evidenza la propria funzione di voce dei sentimenti dell’autore. Il testo ha lo stesso schema metrico de Il cinque maggio, e l’analogia non è casuale. I personaggi manzoniani di Napoleone ed Ermengarda, paradossalmente, si assomigliano, perché entrambi sono esponenti della storia, la cui vicenda umana volge in tragedia, ma soprattutto sono accomunati dall’esperienza della provida sventura. La simmetria con Il cinque maggio Il coro di Ermengarda si può dividere in due parti principali, come avviene anche per Il cinque maggio. La prima è di genere rievocativo: interpretando ricordi e sentimenti della protagonista, il coro rievoca i tempi felici del suo amore ricambiato per Carlo che, in convento, Ermengarda avrebbe voluto dimenticare: ma i ricordi, come per l’esule di Sant’Elena, l’hanno tormentata, senza concederle pace fino alla morte. Nella seconda parte, meditativa, l’autore riflette sul significato della sofferenza nella storia e sul valore della provida sventura. La sventura di Ermengarda è provvidenziale in quanto causa di sofferenze in vita ma via di salvezza nell’aldilà, che la condizione di potere cui era destinata la principessa avrebbe reso ardua. L’ossimoro provida sventura L’espressione provida sventura è un ossimoro che sintetizza con forza espressiva il senso religioso della sofferenza degli oppressi, l’opposizione fra la dimensione terrena della loro oppressione e la dimensione provvidenziale della loro salvezza ultraterrena: essa non nega il libero arbitrio umano, anche se il Manzoni delle tragedie (ma non dei Promessi sposi) è vicino a una posizione di distinzione molto rigida fra il bene e il male: anche da ciò nascerà il dibattito sulle presunte influenze calviniste e gianseniste sul primo approccio dell’autore al Cattolicesimo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Con l’aiuto delle note, svolgi la parafrasi del brano. 2. Riassumi il contenuto del coro in non più di 10 righe. Analisi e interpretazione 3. Sintetizza (max 10 righe) il significato della concezione manzoniana di provida sventura. 4. Quale struttura metrica, strofica e prosodica presentano i versi del coro? 5. Quale parte del testo ha carattere rievocativo e quale ne è, in sintesi, il contenuto? Approfondimenti 6. Il testo dell’Adelchi ha subìto spesso dalla critica accuse di antiteatralità. Di opinione diversa è l’attore Vittorio Gassman, che trova nell’opera manzoniana una efficacia e uno stile che le conferiscono di per sé spessore teatrale. Prendendo inizialmente spunto dal brano riportato di seguito, sviluppa (in max 3 colonne di metà foglio protocollo) ed intitola opportunamente un’intervista a un attore vivente sulle caratteristiche che, a suo avviso, conferiscono validità a un’opera scritta per il teatro. Una chiarezza di racconto e di idee, lo sgombero degli equivoci d’atmosfera, una più collettiva (popolare) ricezione dei testi, sono la meta dell’operazione. Adelchi ci sembra in questo senso un testo ideale. Esso non è, e questo è un vantaggio, l’opera di uno scrittore teatrale specializzato, è inoltre un’opera di contenuti misti, talora contrastanti: il rigore storico contro certe deformazioni dello spirito romantico, la bellezza lirica e l’esaltazione morale, il reale e l’ideale. Non era questa, della pura realtà e della pura idealità, l’insuperabile antitesi che, secondo il De Sanctis, annullava la drammaticità dell’Adelchi? Bene, allora: rinunciamo a tentare una fusione dei due strati, presentiamo indipendentemente l’uno e l’altro, nel momento in cui a turno prevalgono, con le rispettive caratteristiche di stile. Ne sortirà una rappresentazione mista, ma impoverita dei suoi essenziali valori. Alla radice delle cosiddette pedanterie storiche manzoniane stanno intuizioni genuine di pensiero: vibra sul frontespizio dell’Adelchi, un fermento d’indagine storicistica, la coscienza d’un’evoluzione nazionale, di cui sarebbe grave il dramma, per ridurlo alla liricità o al misticismo di pochi brani. […] Ecco dunque individuato per Adelchi quel coefficiente unificatore che potrà dare compattezza di spettacolo: lo stile, il verso manzoniano e il modo di renderlo attraverso la recitazione, costituiranno il pedale costante, l’amalgama della rappresentazione. In Adelchi due saranno le caratteristiche salienti della recitazione: il calore e la musicalità. da V. Gassman, Appunti alla regia, in A. Manzoni, L’Adelchi, Einaudi, Torino, 1960

7. Ricerca attendibili informazioni sulle figure storiche di cui tratta l’Adelchi (da Ermengarda a re Desiderio, da Adelchi a Carlo Magno) ed esponi gli aspetti di concordanza oggettiva fra le figure storiche e i personaggi della tragedia manzoniana e i tratti che, invece, si basano su rielaborazioni dell’autore.

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T8 La morte di Adelchi da Adelchi, V, 8 Pavia è caduta e Desiderio è prigioniero di Carlo, al quale chiede di lasciare libero Adelchi, che non ha mai condiviso il suo progetto di conquistare Roma. Carlo nega con asprezza, e Desiderio reagisce maledicendolo. Entra uno scudiero annunciando che anche Verona è stata presa e Adelchi, ferito a morte nella battaglia, chiede di poter parlare con il padre e con il vincitore. Segue il passo fondamentale qui riportato. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • La sintesi del pessimismo di Manzoni • L’umanità divisa in oppressori ed oppressi • Il mondo come luogo del trionfo del male

Carlo, Desiderio, Adelchi ferito e portato. DESIDERIO Ahi, figlio! ADELCHI

O padre, io ti rivedo! Appressa1; tocca la mano del tuo figlio. Orrendo

DESIDERIO m’è il vederti così.

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ADELCHI

Molti sul campo cadder così per la mia mano.

DESIDERIO

Ahi, dunque insanabile, o caro, è questa piaga?

ADELCHI

Insanabile.

DESIDERIO

Ahi lasso! ahi guerra atroce! io crudel che la volli; io che t’uccido!

ADELCHI

Non tu, né questi, ma il Signor d’entrambi2.

DESIDERIO Oh desiato da quest’occhi, oh quanto lunge da te soffersi! Ed un pensiero tra tante ambasce3 mi reggea4, la speme di narrartele un giorno, in una fida ora di pace. ADELCHI

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Ora per me di pace, credilo, o padre, è giunta; ah! pur che vinto te dal dolor quaggiù non lasci.

1. Appressa: intransitivo senza la particella pronominale, come nell’uso antico: avvicinati. 2. Non tu… d’entrambi: non tu (hai causato la mia morte) e

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neppure il nemico, ma il Signore comune ad entrambi (Dio). 3. ambasce: sofferenze, angosce. 4. mi reggea: mi sosteneva, mi consolava.

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DESIDERIO ADELCHI 340

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Oh fronte balda e serena! oh man gagliarda! oh ciglio che spiravi5 il terror! Cessa i lamenti, cessa, o padre, per Dio!6 Non era questo il tempo di morir? Ma tu, che preso7 vivrai, vissuto nella reggia, ascolta. Gran segreto è la vita, e nol8 comprende che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno: deh! nol pianger; mel credi9. Allor che a questa ora tu stesso appresserai, giocondi si schiereranno10 al tuo pensier dinanzi gli anni in cui re non sarai stato, in cui né una lagrima pur notata11 in cielo fia contra te, né il nome tuo saravvi con l’imprecar de’ tribolati12 asceso. Godi che re non sei; godi che chiusa all’oprar t’è ogni via: loco13 a gentile14, ad innocente opra non v’è: non resta che far torto, o patirlo. Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto15: la man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue; e omai la terra altra messe non dà16. Reggere iniqui17 dolce non è; tu l’hai provato: e fosse; non dee finir così?18 Questo felice19, cui la mia morte fa più fermo il soglio20, cui tutto arride21, tutto plaude e serve, questo è un uom che morrà22. Ma ch’io ti perdo,

DESIDERIO figlio, di ciò chi mi consola? 365

ADELCHI

Il Dio che di tutto consola. (si volge a Carlo) E tu, superbo nemico mio...

5. spiravi: diffondevi intorno, ispiravi. 6. per Dio!: non è un’interiezione, ma un preciso invito a riconoscere in quanto è accaduto il segno della volontà divina: in nome di Dio. 7. preso: prigioniero. 8. nol: non lo. 9. mel credi: credilo a me. 10. giocondi si schiereranno: il critico Lonardi sostiene che l’ultimo dialogo di Adelchi col padre […] è in nascosta ma decisissima antitesi col Saul di V. Alfieri (Ecco, schierati / mi si apprestan gli alti miei trionfi, II, 189-190). 11. notata: annotata (nel libro della giustizia divina). 12. con l’imprecar de’ tribolati: con le imprecazioni, le maledizioni pronunciate contro di te dai perseguitati. 13. loco: spazio. 14. gentile: nobile.

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15. e fa nomarsi dritto: e si fa chiamare diritto. 16. la man degli avi… non dà: è probabile l’eco della delusione storica per le tragiche vicende del 1820-21 in Italia (in particolare in Lombardia) e in Europa (Paola Azzolini), e magari anche per l’epopea napoleonica. 17. Reggere iniqui: governare uomini malvagi. 18. non dee finir così?: con la morte. 19. felice: fortunato. 20. fa più fermo il soglio: rafforza il trono. 21. tutto arride: ogni cosa è favorevole. 22. questo è un uom che morrà: non è un presagio o una minaccia, ma la semplice constatazione di una legge; il discorso di Adelchi si chiude esattamente là dove era iniziato, con il richiamo a quella morte che va tenuta sempre ben presente, se è tanto importante per capire la vita.

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CARLO

Con questo nome, Adelchi, più non chiamarmi; il fui; ma con le tombe empia e villana è nimistà23; né tale, credilo, in cor cape24 di Carlo.

ADELCHI

E amico il mio parlar sarà, supplice, e schivo d’ogni ricordo25 ad ambo amaro, e a questo26 per cui ti prego, e la morente mano ripongo nella tua. Che tanta preda27 tu lasci in libertà... questo io non chiedo… ché vano, il veggo, il mio pregar saria, vano il pregar d’ogni mortale. Immoto è il senno tuo28; né a questo segno29 arriva il tuo perdon. Quel che negar non puoi senza esser crudo30, io ti domando. Mite, quant’esser può, scevra d’insulto31 sia la prigionia di questo antico32, e quale la imploreresti al padre tuo, se il cielo al dolor di lasciarlo in forza altrui33 ti destinava. Il venerabil capo d’ogni oltraggio difendi: i forti contro i caduti, son molti34; e la crudele vista ei non deve sopportar d’alcuno che vassallo il tradì.

CARLO

Porta all’avello35 questa lieta certezza: Adelchi, il cielo testimonio mi sia; la tua preghiera è parola di Carlo.

ADELCHI

Il tuo nemico prega per te, morendo.

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da Poesie e tragedie, a cura di V. Boggione, Utet, Torino, 2002

23. ma con le tombe… nimistà: di fronte alla morte l’odio si rivela empio e indegno. 24. in cor cape: trova posto nel cuore. 25. schivo d’ogni ricordo: attento ad evitare ogni ricordo. 26. questo: Desiderio. 27. tanta preda: latinismo, preda tanto grande; si riferisce ancora a Desiderio. 28. Immoto è il senno tuo: la tua accortezza politica non ti permette di cambiare idea (lasciando libero Desiderio). 29. segno: punto. 30. crudo: crudele; in antitesi con l’immediatamente successivo mite. 31. scevra d’insulto: immune da offese. 32. antico: vecchio. 33. in forza altrui: sotto il potere, in mano di altri. 34. i forti… molti: tutti sono pronti a infierire contro chi non può difendersi. 35. all’avello: nella tomba.

Illustrazione di Alessandro Focosi per un’edizione di Adelchi del 1845. Milano, Centro Studi Manzoniani.

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inee di analisi testuale Adelchi lacerato Adelchi ha un’identità complessa, lacerata da un profondo dissidio fra ruolo pubblico e coscienza: come la sorella Ermengarda, per nascita appartiene alla schiera degli oppressori, ma per intima convinzione morale è dalla parte degli oppressi e le ragioni profonde del dissidio si chiariscono nel momento decisivo della morte. Secondo le sue parole, qualsiasi forma di azione, nella storia, comporta l’esercizio della violenza del potere. Il diritto non è altro che la legge del più forte, giustificazione a posteriori della violenza del forte sul debole, secondo una concezione che si era già espressa nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, in particolare nell’incontro con Parini. L’unica azione positiva è quella dell’accettazione della morte, che per effetto della croce cristiana fa sì che Adelchi trovi nella sconfitta la salvezza. Ripetizioni e negazioni Nell’imminenza della morte, l’attenzione di Adelchi è rivolta al padre, nell’intento di liberarlo dalla prigionia della storia. A livello stilistico il discorso si fonda sulle figure della ripetizione e della negazione. A Desiderio, che rimpiange di non aver potuto godere di una fida / ora di pace per narrare al figlio le proprie inquietudini, Adelchi risponde che quella presente è Ora per lui di pace. Adelchi dice a Desiderio di avvicinarglisi, per potergli parlare (Appressa); poi, durante il dialogo, lo richiama all’ineluttabilità della morte con lo stesso verbo (a questa / ora tu stesso appresserai). Il chiasmo e la ripetizione preso / vivrai, vissuto nella reggia vogliono suggerire la necessità di un autentico, radicale distacco tra il passato di oppressore e il futuro di oppresso. Figura chiave è anche la negazione, che ritorna con frequenza ossessiva: non sarai stato… né una lagrima pur… né il nome tuo… non sei… non v’è… non resta. Dentro il sistema tragico, all’alternativa senza vie d’uscita proposta dalla storia tra far torto e patirlo non c’è soluzione e l’unica salvezza è nella negazione di sé alla storia, nella rinuncia al potere. Quando ogni azione possibile è colpevole, non resta, insomma, che il non agire, cioè rendersi oggetti passivi della violenza umana. Croce di re Desiderio (recto), fine dell’VIII secolo. Brescia, Museo di Santa Giulia.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riscrivi la scena in italiano corrente. 2. Riassumi la scena in non più di 12 righe. Analisi e interpretazione 3. Analizza la scena dal punto di vista lessicale, sottolineando tutti i termini che fanno riferimento al tema dell’ingiustizia. 4. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono le figure retoriche più significative del testo? b. A chi o a che cosa pensa Adelchi nel momento della morte? c. Quale concezione della storia umana esprime Adelchi? Approfondimenti 5. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti ai testi: Punti di contatto e diversità fra il pessimismo dell’Adelchi e quello delle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

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Le opere storiche Alle origini dei saggi: le ricerche per le opere maggiori

La Storia della colonna infame

Un’opera di impronta illuminista

Il saggio incompiuto sulla Rivoluzione francese

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Numerose sono le opere di carattere storico o saggistico pubblicate da Alessandro Manzoni, spesso in diverse versioni ampliate nel tempo. La loro origine affonda di frequente le radici in ricerche che preparano o accompagnano le opere maggiori, in particolare le tragedie e il romanzo. Prima della stesura delle due tragedie, Manzoni si documenta consultando direttamente le fonti (i Rerum Italicarum Scriptores di Antonio Muratori e i Rerum Gallicarum et Franciscarum Scriptores) ed espone i risultati delle sue ricerche in particolare nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, che verrà pubblicato nello stesso volume dell’Adelchi nel 1822. Tuttavia il principale saggio storico di Manzoni rimane la Storia della colonna infame, pubblicata in appendice all’edizione quarantana dei Promessi sposi nel 1842. L’ideazione del testo è di molto precedente, la vicenda che vi è narrata doveva, infatti, costituire una delle digressioni del Fermo e Lucia: il primo progetto risale dunque agli anni 1821-1823. Oggetto dell’opera è il celebre processo agli untori: durante la peste di Milano del 1630, la credulità popolare aveva immaginato che la diffusione del contagio fosse da attribuirsi all’opera di alcuni individui, gli untori appunto, che con un non meglio precisato unguento avrebbero contaminato oggetti e luoghi della città. L’inizio del procedimento giudiziario è determinato dalla denuncia di due popolane contro il commissario alla sanità Gian Giacomo Piazza, colpevole di aver camminato rasente i muri in una giornata di pioggia, scrivendo qualcosa su un pezzo di carta e pulendo le dita dall’inchiostro contro la recinzione di un giardino. Piazza, sotto tortura, coinvolge un’altra persona: è l’inizio di una spirale di follia che porterà alla condanna a morte tra atroci sofferenze di cinque innocenti. La colonna infame del titolo è la colonna commemorativa eretta sul luogo in cui sorgeva la casa di uno dei condannati, abbattuta a monito dell’intera cittadinanza: infame perché celebra la morte di un innocente. L’opera è la più “illuministica” di Manzoni: vi si trattano temi come l’inutilità delle torture per accertare la colpevolezza di un imputato (già sostenuta da Cesare Beccaria, nonno materno di Manzoni, nel trattato Dei delitti e delle pene) e il mancato rigore morale di giudici e politici. Già Pietro Verri, in Osservazioni sulla tortura, aveva riconosciuto l’innocenza degli imputati, ma aveva giustificato i giudici che avevano inteso offrire una valvola di sfogo all’irrazionalità spaventata e violenta del popolo. Manzoni invoca il rigore morale: le leggi seicentesche, pur irrazionali, non possono essere una scusante per i giudici, poiché essi avevano tutti gli strumenti necessari per riconoscere l’innocenza degli imputati: l’opera, perciò, li condanna sul piano morale, per la loro supina acquiescenza alla volontà popolare, volta a ricercare un capro espiatorio. Analogamente l’autore condanna l’atteggiamento dei politici che, per nascondere la loro incapacità e impotenza di fronte al contagio, hanno avvalorato credenze che sapevano infondate. In altri termini, secondo Manzoni, l’individuo non può invocare a propria discolpa le specifiche circostanze storiche e lo spirito dei tempi: la responsabilità morale permane al di là di ogni forma di condizionamento, e può essere attenuata soltanto dalla mancanza di adeguati strumenti di conoscenza. L’ultima opera cui Manzoni lavora, già a partire dal 1862-1864, impegnandosi fino agli ultimi giorni di vita e lasciandola incompiuta, è il saggio comparativo La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Manzoni ne scrive solo la prima parte, relativa alle vicende transalpine; ma la volontà complessiva riesce comunque evidente. Lo scopo è quello di dimostrare come il fallimento, sia storico sia morale, della rivoluzione d’oltralpe non pregiudichi la possibilità di una diversa esperienza rivoluzionaria, in grado di assicurare al popolo che vi si impegna un potere più giusto ed equo: l’opera è dunque la difesa del Risorgimento italiano dalle molte voci che, soprattutto nella cultura francese, si levavano ad accomunare i due processi storici. Dal punto di vista ideologico, il saggio conferma l’adesione manzoniana alla tendenza liberal-moderata cristiana, ben riconoscibile nei Promessi sposi.

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T9 L’inizio della caccia agli untori da Storia della colonna infame, I È l’incipit dell’opera. Manzoni ricostruisce i fatti che sono destinati a mettere in moto il meccanismo del processo con minuziosa precisione e obiettività, evitando il più possibile di esprimere commenti e facendo frequente riferimento agli atti processuali citati testualmente. PISTE DI LETTURA • L’atto di accusa verso le due donnicciole maligne • L’ipocrisia dei giudici • La ricerca di un’esposizione obiettiva dei fatti

La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia1, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini2, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto3 alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con la cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale4, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell’occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All’hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a’ giorni passati, andauano ongendo le muraglie. Presa da un tal sospetto, passò in un’altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d’occhio lo sconosciuto, che s’avanzava in quella; et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con le mani. La seconda C’era alla finestra d’una casa della strada medesima un’altra spettatrice, chiamatestimonianza ta Ottavia Bono; la quale, non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo sodi Ottavia Bono spetto alla prima e da sé5, o solamente quando l’altra ebbe messo il campo a rumore6. Interrogata anch’essa, depone d’averlo veduto fin dal momento ch’entrò nella strada; ma non fa menzione di muri toccati nel camminare. Viddi, dice, che si fermò qui in fine della muraglia del giardino della casa delli Crivelli… et viddi che costui haueua una carta in mano, sopra la quale misse la mano dritta, che mi pareua che volesse scriuere; et poi viddi che, lauata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto giardino, doue era un poco di bianco. Fu probabilmente per pulirsi le dita macchiate d’inchiostro, giacché pare che scrivesse davvero. Infatti, nell’esame che gli fu fatto il giorno dopo, interrogato, se l’attioni che fece quella mattina, ricercorno scrittura7, risponde: signor sì. E in quanto all’andar rasente al muro, se a una cosa simile ci fosse bisogno d’un perché, era perché pioveva, come accennò quella Caterina medesima, ma per cavarne una induzione8 di questa sorte: è ben una gran cosa: hieri, mentre costui faceua questi atti di ongere, pioueua, et bisogna mo che hauesse pigliato quel tempo piouoso9, perché più persone potessero imbrattarsi li panni nell’andar in volta10, per andar al coperto11. L’avvistamento di Caterina Rosa

1. per disgrazia: ellittico, per disgrazia di Piazza e degli altri innocenti che in seguito alle sue parole furono condannati. 2. via della Vetra de’ Cittadini: antico toponimo milanese, che deriva da quello di un piccolo corso d’acqua (la Vetra), associato a quello della famiglia Cittadini. 3. dirimpetto: di fronte. 4. sopra la quale: il corsivo segnala la citazione diretta degli atti processuali, riprodotti da Manzoni con assoluta fedeltà, anche grafica (manca ad esempio la distinzione tra u e v, e in forme come hora è conservata la h che proviene

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dall’etimologia latina del termine). 5. alla prima e da sé: fin da subito e autonomamente da Caterina Rosa. 6. ebbe messo il campo a rumore: ebbe messo in subbuglio tutto quanto il quartiere con le proprie dicerie. 7. ricercorno scrittura: necessitarono di scrittura. 8. induzione: deduzione. 9. bisogna mo… piouoso: certamente (mo) deve aver scelto un simile tempo piovoso. 10. in volta: in giro. 11. andar al coperto: procedere al riparo.

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La responsabilità del commissario della Sanità

Le inverosimili accuse delle donnicciole

L’identificazione di Guglielmo Piazza

Un fenomeno già accaduto in altre parti d’Europa

Dopo quella fermata, costui tornò indietro, rifece la medesima strada, arrivò alla cantonata, ed era per isparire; quando, per un’altra disgrazia, fu rintoppato da uno12 ch’entrava nella strada, e che lo salutò. Quella Caterina, che per tener dietro all’untore, fin che poteva, era tornata alla finestra di prima, domandò all’altro chi fosse quello che haueua salutato. L’altro che, come depose poi, lo conosceva di vista, e non ne sapeva il nome, disse quel che sapeva, ch’era un commissario della Sanità13. Et io dissi a questo tale, segue a deporre la Caterina, è che ho visto colui a fare certi atti, che non mi piacciono niente. Subito puoi si diuulgò questo negotio14, cioè fu essa, almeno principalmente, che lo divolgò; et uscirno dalle porte, et si vidde imbrattate le muraglie d’un certo ontume che pare grasso et che tira al giallo; et in particolare quelli del Tradate dissero che haueuano trouato tutto imbrattato li muri dell’andito della loro porta. L’altra donna depone il medesimo. Interrogata, se sa a che effetto questo tale fregasse di quella mano sopra il muro, risponde: dopo fu trouato onte le muraglie, particolarmente nella porta del Tradate. E, cose che in un romanzo sarebbero tacciate d’inverisimili, ma che pur troppo l’accecamento della passione15 basta a spiegare, non venne in mente né all’una né all’altra che, descrivendo passo per passo, specialmente la prima, il giro che questo tale aveva fatto nella strada, non avevan però potuto dire che fosse entrato in quell’andito: non parve loro una gran cosa davvero, che costui, giacché, per fare un lavoro simile, aveva voluto aspettare che fosse levato il sole, non ci andasse almeno guardingo, non desse almeno un’occhiata alle finestre; né che tornasse tranquillamente indietro per la medesima strada, come se fosse usanza de’ malfattori di trattenersi più del bisogno nel luogo del delitto; né che maneggiasse impunemente una materia che doveva uccider quelli che se ne imbrattassero i panni; né troppe altre ugualmente strane inverisimiglianze. Ma il più strano e il più atroce si è che non paressero tali neppure all’interrogante16, e che non ne chiedesse spiegazione nessuna. O se ne chiese, sarebbe peggio ancora il non averne fatto menzione nel processo. […] Ma pur troppo, in quel tumulto di chiacchiere, non andò persa una circostanza vera, che l’uomo era un commissario della Sanità; e, con quest’indizio, si trovò anche subito ch’era un Guglielmo Piazza, genero della comar Paola, la quale doveva essere una levatrice molto nota in que’ contorni17. La notizia si sparse via via negli altri quartieri, e ci fu anche portata da qualcheduno che s’era abbattuto18 a passar di lì nel momento del sottosopra19. Uno di questi discorsi fu riferito al senato, che ordinò al capitano di giustizia, d’andar subito a prendere informazioni, e di procedere secondo il caso. È stato significato al Senato che hieri mattina furono onte ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra de’ Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale che prese con sé in quella spedizione. E con quelle parole, già piene d’una deplorabile certezza, e passate senza correzione dalla bocca del popolo in quella de’ magistrati, s’apre il processo. Al veder questa ferma persuasione, questa pazza paura d’un attentato chimerico, non si può far a meno di non rammentarsi ciò che accadde di simile in varie parti d’Europa, pochi anni sono, nel tempo del colera20. Se non che, questa volta, le persone punto punto istruite, meno qualche eccezione, non parteciparono della sciagurata credenza, anzi la più parte fecero quel che potevano per combatterla; e non si sarebbe trovato nessun tribunale che stendesse la mano so-

12. fu rintoppato da uno: incontrò casualmente sul proprio cammino uno. 13. commissario della Sanità: privato cittadino arruolato in periodi di grandi epidemie dal Tribunale della Sanità (il massimo organismo deputato alla salute pubblica) per vigilare sui luoghi infetti e sulla condotta dei monatti. 14. Subito… negotio: subito dopo questo affare divenne pubblico. 15. passione: il turbamento incontrollato dei sentimenti.

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16. all’interrogante: al magistrato che conduce l’interrogatorio. La cosa più grave per Manzoni è che l’illogicità delle accuse mosse a Piazza non risulti evidente ai giudici, più che alle donnicciole che lo hanno accusato. 17. contorni: dintorni. 18. s’era abbattuto: era capitato per caso. 19. sottosopra: la confusione seguita agli eventi narrati. 20. colera: tra gli anni Dieci e gli anni Trenta dell’Ottocento colpì diversi Paesi europei, tra cui la Francia e la Spagna, e nel 1836 raggiunse la stessa Milano.

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Sospetto ed esasperazione creano capri espiatori

La funzione dei giudici e le credenze popolari

pra imputati di quella sorte, quando non fosse stato per sottrarli al furore della moltitudine. È, certo, un gran miglioramento; ma se fosse anche più grande, se si potesse esser certi che, in un’occasion dello stesso genere, non ci sarebbe più nessuno che sognasse attentati dello stesso genere, non si dovrebbe perciò creder cessato il pericolo d’errori somiglianti nel mondo, se non nell’oggetto. Pur troppo, l’uomo può ingannarsi, e ingannarsi terribilmente, con molto minore stravaganza. Quel sospetto e quella esasperazion medesima nascono ugualmente all’occasion di mali che possono esser benissimo, e sono in effetto, qualche volta, cagionati da malizia umana; e il sospetto e l’esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni. Per citarne un esempio anch’esso non lontano, anteriore di poco al colera; quando gl’incendi eran divenuti così frequenti nella Normandia, cosa ci voleva perché un uomo ne fosse subito subito creduto autore da una moltitudine? L’essere il primo che trovavan lì, o nella vicinanze; l’essere sconosciuto, e non dar di sé un conto soddisfacente: cosa doppiamente difficile quando chi risponde è spaventato, e furiosi quelli che interrogano; l’essere indicato da una donna che poteva essere una Caterina Rosa, da un ragazzo che, preso in sospetto esso medesimo per uno strumento della malvagità altrui, e messo alle strette di dire chi l’avesse mandato a dar fuoco, diceva un nome a caso. Felici que’ giurati davanti a cui tali imputati comparvero (ché più d’una volta la moltitudine eseguì da sé la sua propria sentenza); felici que’ giurati, se entrarono nella loro sala ben persuasi che non sapevano ancor nulla, se non rimase loro nella mente alcun rimbombo di quel rumore di fuori, se non pensarono, non che essi erano il paese, come si dice spesso con un traslato di quelli che fanno perder di vista il carattere proprio e essenziale della cosa, con un traslato sinistro e crudele nei casi in cui il paese si sia già formato un giudizio senza averne i mezzi; ma ch’eran uomini esclusivamente investiti della sacra, necessaria, terribile autorità di decidere se altri uomini siano colpevoli o innocenti.

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da Storia della colonna infame, a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori, 1984

Illustrazione di Francesco Gonin per il frontespizio della Storia della colonna infame.

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inee di analisi testuale Il caso e l’irrazionalità della folla La vicenda drammatica del processo agli untori è il frutto della concomitante azione di due diversi fattori: l’intervento del caso – che fa sì che per disgrazia Caterina Rosa si trovi alla finestra mentre passa di lì Guglielmo Piazza e, ancora per un’altra disgrazia, questi venga salutato da un uomo che Caterina conosce, così da permetterne l’identificazione – e la responsabilità degli uomini. Questi due fattori hanno tra loro un importante elemento in comune: l’irrazionalità. Le circostanze, dunque, non sono mai prevedibili con certezza. Il comportamento della folla è all’insegna della mancanza di riflessione, tanto che aspetti di per sé evidenti finiscono per essere trascurati o negati. La condanna manzoniana per chi cede all’accecamento della passione è evidente. Le responsabilità degli uomini Ma c’è qualcuno che ha una responsabilità ancora più grande: ed è chi, pur avendo gli strumenti razionali e intellettuali per dare un giudizio obiettivo sui fatti, si lascia indurre ad assecondare le tendenze irrazionali e violente, il furore della moltitudine. Si tratta, nel caso specifico, in primo luogo del potere politico, cioè del Senato, che, anziché interrompere quella che appare immediatamente la ricerca di un capro espiatorio, dispone l’invio di un magistrato per accertare i fatti; e poi del potere giudiziario, che non approfondisce le incongruenze presenti nel racconto delle testimoni e si lascia condizionare dal rimbombo di quel rumore di fuori.

Gaetano Giulio Zumbo, La peste, 1691-1694 circa. Firenze, Museo della Specola.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano in non più di 15 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 8 righe per ogni risposta). a. Che cosa vede la prima donnicciola e a quali conclusioni giunge? b. Quali sono le affermazioni della seconda donnicciola? c. Chi viene arrestato e con quali accuse? d. Come è stata possibile l’identificazione? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 8 righe per ogni risposta). a. Quali caratteristiche stilistiche presenta l’incipit del saggio storico di Manzoni? b. Quali sono i commenti dell’autore? c. Quali sono i bersagli polemici di Manzoni? d. Quali giudizi, diretti ed indiretti, esprime Manzoni in questo brano? Approfondimenti 4. Esponi brevemente ciò che si intende per ricerca di un capro espiatorio e spiega, anche con esempi, perché, a tuo avviso, il fenomeno si manifesti maggiormente in situazioni di pericolo collettivo e coinvolga soprattutto moltitudini terrorizzate. 5. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: Il processo agli untori, trionfo dell’irrazionalità.

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Letteratura Letteratura e arte e Arte MANZONI E HAYEZ La pittura romantica In Italia, così come in letteratura la polemica classico-romantica scoppia solo nel 1816 in seguito alla pubblicazione dell’articolo di Madame de Staël (cfr. pagg. 540-541), in notevole ritardo rispetto ad altri Paesi europei come l’Inghilterra o la Germania, anche nelle arti figurative le istanze romantiche tardano a farsi sentire, a causa della forte impronta classicistica della cultura. Non mancano però i tentativi di rinnovamento artistico, soprattutto a Milano, dove si trasferisce anche Francesco Hayez (Venezia 1791 – Milano 1882), che, nonostante la formazione neoclassica, è considerato uno dei principali rappresentanti della pittura romantica. Hayez si impone sulla scena milanese con dipinti raffiguranti soggetti tratti dalla storia medievale (e non antica), cercando verosimiglianza nella ricostruzione degli ambienti e mostrando una certa propensione al sentimento. Molto spesso, inoltre, i suoi quadri sono letti in chiave politica: i personaggi e gli episodi raffigurati sono ritenuti modelli di virtù civili, esempi per un rinnovamento della contemporanea situazione italiana. L’incontro con Manzoni Hayez realizza anche ritratti per l’aristocrazia intellettuale del suo tempo e di conseguenza un incontro con Alessandro Manzoni è praticamente inevitabile, tanto più che entrambi gravitano intorno alla città di Milano. I familiari di Manzoni commissionano ad Hayez un ritratto dello scrittore: l’esecuzione richiede ben quindici sedute, perché il pittore pretende di riprendere tutto dal vero, anche i particolari, dimostrando così il medesimo scrupolo realistico con cui Manzoni si era posto di fronte alla materia del suo romanzo. Il risultato è un ritratto capace di mettere in evidenza il carattere pacato ed equilibrato di uno scrittore che si sforzava di dare di sé un’immagine in cui non si evidenziassero i dissidi interiori, le paure, le nevrosi. In tale prospettiva, la scelta di ritrarre Manzoni con in mano una scatola di tabacco da fiuto risponde alla precisa volontà di offrire un’immagine quotidiana del personaggio, con l’esclusione di qualsiasi enfasi. Come ricorda il figliastro Stefano Stampa nelle sue Memorie, furono i familiari a non volere ch’ei fosse ritratto con un libro in mano, né coll’aria ispirata […], ma con l’aria calma di chi ascolta per poi parlare, e che negli accessori si facesse nota di una di quelle famigliari abitudini, che poi appunto in grazia della loro famigliarità sfuggono o sono dimenticate dalla Storia.

Francesco Hayez, Ritratto di Alessandro Manzoni, 1841. Milano, Pinacoteca di Brera.

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PROMESSI SPOSI Il romanzo storico I promessi sposi (costituito, nella versione definitiva, da 38 capitoli preceduti da un’Introduzione) è il capolavoro manzoniano e una delle più importanti opere della letteratura italiana.

La genesi dei Promessi sposi

Le fonti e la genesi del romanzo

Il Fermo e Lucia del 1823

Nel 1821 Manzoni interrompe l’Adelchi per accingersi a scrivere un romanzo storico ambientato nella Lombardia del Seicento, concepito nel corso del soggiorno parigino del 1819-1820 attraverso i colloqui con l’amico Claude Fauriel. Punti di partenza per la composizione del capolavoro sono, oltre la lettura dei romanzi di Walter Scott, gli spunti tratti da opere come la Storia patria e il De peste di Giuseppe Ripamonti (1573-1643) e l’Economia e statistica di Melchiorre Gioia (17671829), nelle quali Manzoni trova interessanti informazioni su personaggi storici come il cardinale Federico Borromeo, la monaca di Monza, il Conte del Sagrato (che sarà poi l’Innominato1) e su documenti del Seicento che riguardano la carestia, la peste e una “grida” (legge) del 1627, che infliggeva severe pene a chi impedisse con la violenza un matrimonio. Dopo ulteriori letture di fonti e opere storiografiche (fra le altre, raccolte di gridari, la Storia di Milano di Pietro Verri, le memorie storiche locali di Lampugnano, di Ghirardelli, di Bonincontro Morigia), il 24 aprile 1821 dà inizio alla stesura del romanzo. Tra l’aprile e il giugno del 1821, nella sua villa di Brusuglio, Manzoni scrive l’abbozzo dell’Introduzione e i primi due capitoli. Torna al romanzo nella primavera del 1822 e lo conclude il 17 settembre 1823; al termine, riscrive interamente l’Introduzione, in cui traccia un bilancio sconfortato della propria esperienza (Scrivo male, annota). Il titolo prescelto è quello di Fermo e Lucia (dai nomi dei due protagonisti: Fermo Spolino e Lucia Zarella), suggeritogli da Ermes Visconti. Il romanzo si compone di 37 capitoli (10 dei quali dotati di titolo autonomo) in quattro tomi, riprendendo la suddivisione dei romanzi di Scott nelle traduzioni francesi. Manzoni introduce la vicenda simulando il ritrovamento di un manoscritto seicentesco: la finzione gli consente di sviluppare la polemica contro il linguaggio retorico, dotto e letterario e di utilizzare la voce di un secondo narratore esterno. Per l’opera vengono predisposte due Prefazioni, in cui si ribadisce con chiarezza che scopo del romanzo non è solo fornire al lettore il quadro storico di un’epoca (con il sottinteso intento di evidenziare i danni causati dal malgoverno straniero), ma soprattutto di ispirare avversione al male di ogni genere e rispetto per tutto ciò che è morale, nobile, umano, giusto. L’opera è accompagnata dall’Appendice storica su la colonna infame,

Frontespizio del primo tomo della prima edizione de I promessi sposi del 1825, ma distribuito insieme al secondo e al terzo tomo nel 1827. La scritta a penna è il visto della censura.

1. In questo volume Innominato è sempre scritto con la lettera iniziale maiuscola, anche se Manzoni nel suo romanzo utilizza invece la minuscola.

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Le caratteristiche

Il percorso di revisione della ventisettana

Le principali innovazioni

in cui l’autore ricostruisce il processo ai presunti untori avvenuto durante la peste del 1630. Il testo, noto anche come prima minuta, è scritto su fogli protocollo interi (oggi conservati alla Biblioteca Braidense di Milano), divisi a metà: la colonna di sinistra è lasciata bianca per le già previste correzioni. Questa prima redazione del romanzo rimane sconosciuta fino agli inizi del Novecento. Nel 1905 è pubblicata parzialmente e nel 1915 integralmente. Il Fermo e Lucia, sia per quel che riguarda la struttura e l’organizzazione della materia narrativa, sia per la lingua, lo stile, e in parte l’impianto ideologico, è un romanzo diverso rispetto a I promessi sposi. Il romanzo è caratterizzato da una struttura “a blocchi”: le storie dei diversi personaggi sono narrate in maniera autonoma e giustapposte l’una all’altra in momenti successivi. Vi è poi la presenza di autentiche digressioni o storie nella storia (la vicenda della monaca di Monza, Geltrude, quella del Conte del Sagrato – l’Innominato dei Promessi sposi –, quella del processo agli untori della peste). Oltre agli inserti romanzeschi, ci sono molte parti di taglio saggistico (come la trascrizione di documenti dell’epoca, le dettagliate ricostruzioni storiche e il quadro di costume) e di poetica (come quella sull’opportunità di non rappresentare direttamente l’amore nei romanzi). Appena terminata la stesura del Fermo e Lucia, forse nel marzo del 1824, Manzoni, insoddisfatto del lavoro, anche su consiglio degli amici Ermes Visconti e Claude Fauriel, comincia una lunga fase di correzione e modifica, che porta a una nuova organizzazione della materia narrativa, con tagli, spostamenti, aggiunte, e anche a una profonda revisione linguistica. Inizialmente, l’autore pensa di limitare al minimo indispensabile gli interventi, servendosi a tale scopo della colonna lasciata in precedenza in bianco. Giunto però al momento centrale della prima parte, rappresentato dalla cosiddetta “notte degli imbrogli” (capitoli VII e VIII dell’edizione definitiva), l’entità dei cambiamenti diventa tale da rendere impossibile tale modo di procedere. A questo punto Manzoni riprende il lavoro su fogli doppi identici ai precedenti, sui quali in parte ricopia, in parte riscrive il testo della prima minuta: è la versione chiamata dai critici seconda minuta. Anche questa nuova stesura subisce un lungo lavoro di revisione, che si traduce in una fitta serie di correzioni e aggiunte. Inadatta per tale motivo a costituire la base per la stampa, è affidata a un copista, che ne trae una bozza da consegnare prima alla censura e poi allo stampatore: è la cosiddetta copia della censura, che subisce essa pure correzioni, seppure in numero limitato. Il processo di stampa dura quasi tre anni: il primo tomo è stampato alla fine del 1824 o all’inizio del 1825, il secondo nel 1825, il terzo nel 1827, anno in cui l’opera viene diffusa tra il pubblico, donde il nome di ventisettana. Il risultato è un romanzo nuovo rispetto al Fermo e Lucia, il cui titolo provvisorio, Gli sposi promessi (1824), è poi sostituito da quello definitivo I promessi sposi, con l’aggiunta del sottotitolo Storia milanese scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni: i protagonisti sono ora Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Rispetto al Fermo e Lucia, le novità più evidenti sono di carattere narrativo. Alcune parti vengono completamente eliminate (le riflessioni sulla questione della lingua contenute nell’Introduzione; l’ampia divagazione sulla vita del cardinale Federico Borromeo; l’appendice sul processo agli untori, che riapparirà – come opera storica e saggio autonomo – nel 1842, con il titolo Storia della colonna infame). Altre parti vengono da Manzoni ridimensionate: ad esempio, le vicende della monaca di Monza (che diventa Gertrude) e soprattutto del Conte del Sagrato (che diventa l’Innominato). Manzoni, inoltre, compie una serie di adattamenti e spostamenti, e crea momenti di connessione fra le diverse parti (le cosiddette “strutture di relazione”), al fine di superare la divisione in blocchi del Fermo e Lucia. I riferimenti storici e culturali vedono la citazione diretta delle fonti: è il caso, ad esempio, delle grida (leggi dell’epoca) contro chi impedisce un matrimonio, che nella versione precedente erano rappresentate da un breve inserto. Sono introdotti infine alcuni passi narrativi originali: la notte di Renzo in riva all’Adda, la descrizione della vigna di Renzo dopo il passaggio dei Lanzichenecchi e la pioggia che spazza via la peste, sigillo conclusivo dell’intera vicenda.

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Il problema fondamentale della lingua

La risciacquatura in Arno

L’edizione definitiva del 1840-42

Le scelte stilistiche

Un libro per tutti realizzato in tre tappe e il sugo di tutta la storia

Appena conclusa la seconda pubblicazione del romanzo (1827), Manzoni si reca in Toscana per verificare le proprie riflessioni linguistiche. Il problema della lingua da usare nel romanzo assume, infatti, un’importanza determinante per l’autore. Nelle conversazioni con i colti amici del luogo – Giovan Battista Niccolini, Gaetano Cioni e Gino Capponi – scopre che la lingua toscana dell’edizione ventisettana non è più quella attuale della regione da cui pure ha avuto origine, ma è libresca e astratta come quella del Fermo e Lucia. La lingua tanto faticosamente cercata sui libri esiste invece nella realtà, ed è quella usata nella conversazione di tutti i giorni dagli amici e, in generale, dai ceti medi e alti di Firenze. Nasce da qui quella che lo stesso Manzoni ha definito la risciacquatura in Arno del romanzo: durata ben oltre un decennio, si avvale dei consigli di Niccolini e Cioni, ma anche di quelli di Emilia Luti, la governante fiorentina che, dalla casa del genero Massimo d’Azeglio e della figlia Giulia, si trasferisce nel 1839 in quella dello scrittore. A lei Manzoni sottopone lunghi elenchi di voci e modi di dire, perché gliene sia garantita la legittimità dell’uso o gli vengano proposte soluzioni alternative. Manzoni conclude la revisione nel 1840, anno di avvio dell’edizione definitiva, denominata perciò quarantana, che sarà completata solo nel 1842. I promessi sposi vengono pubblicati a dispense a spese di Manzoni, con illustrazioni di Francesco Gonin (circa 400 disegni incisi in legno) e con la Storia della colonna infame in appendice. L’edizione definitiva è caratterizzata da una lingua viva, il fiorentino corrente – più precisamente, il fiorentino delle persone colte –, affinché il romanzo sia alla portata di un pubblico più vasto possibile, su scala nazionale, e sia il più ampiamente popolare. Dal punto di vista stilistico, Manzoni adotta un tono medio generalizzato, cancellando i residui delle tinte forti del Fermo e Lucia, eliminando le forme antiquate e le espressioni più ricercate o letterarie, ma prendendo ugualmente le distanze dai livelli più bassi del parlato. Nel passaggio in tre tappe, dalla prima edizione a quella definitiva, Manzoni realizza con progressiva compiutezza il proprio ideale di letteratura modernamente “popolare”; egli, infatti, propone ai suoi lettori un’opera che dichiara di aver concepito come libro per tutti: una rappresentazione umana in cui tutti possano riconoscersi, ritrovando nell’opera il vero della storia, l’interessante dell’intreccio basato principalmente sulle vicende dei personaggi d’invenzione e dello stile, l’utile fondato sugli insegnamenti, soprattutto religiosi e morali, racchiusi nell’opera e riassunti nella sua conclusione, il sugo di tutta la storia.

I personaggi Nella sua opera, accanto a personaggi storici, Manzoni colloca come personaggi di invenzione soprattutto gli umili, narrando le vicende di due giovani lombardi che vedono messo in forse il loro matrimonio per le prepotenze di un nobile.

Manoscritto autografo dell’inizio del romanzo manzoniano nella sua seconda stesura.

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Lo sfondo storico La ricchezza dell’intreccio

I personaggi

Le loro vicende si inquadrano in quelle più vaste della guerra dei Trent’anni, della carestia e della peste (storicamente datata agli anni 1628-1630) e si concludono con il matrimonio tanto desiderato. Nella stesura definitiva del 1840-1842, la struttura del romanzo presenta un equilibrio mirabile e la ricchezza dell’intreccio rende la vicenda appassionante. Ci sono due protagonisti, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, il cui intento è sposarsi; c’è un antagonista, don Rodrigo, che vuole impedire la realizzazione del loro sogno d’amore; ci sono peripezie e vicissitudini narrate in modo da tenere sempre avvinta l’attenzione del lettore; c’è, infine, la risoluzione della vicenda attraverso la morte dell’antagonista nell’epidemia di peste e la celebrazione del matrimonio, che costituisce – per certi versi – un lieto fine. Non solo i protagonisti, ma anche gli altri numerosi personaggi sono disegnati a tutto tondo, tanto da diventare indimenticabili: da don Abbondio a Gertrude, da frate Cristoforo all’Innominato, da Agnese, la madre di Lucia, fino a personaggi secondari come Perpetua, la serva del curato, o don Ferrante, l’erudito che ospita Lucia a Milano, o, infine, le semplici comparse.

DAL FERMO E LUCIA AI PROMESSI SPOSI I PROMESSI SPOSI

FERMO E LUCIA 1821-1823: composizione.

DATAZIONE

37 capitoli suddivisi in 4 tomi.

STRUTTURA

Fermo Spolino e Lucia Zarella: Lucia pensa e si esprime come una popolana.

PROTAGONISTI

1827: prima edizione. 1840: seconda edizione.

38 capitoli.

Renzo Tramaglino e Lucia Mondella: nonostante sia una popolana, Lucia esprime sentimenti analoghi a quelli della grande tradizione letteraria, attingendo alla sfera del sublime. Essa incarna appieno l’ideologia manzoniana.

• Struttura a blocchi, in cui le storie dei diversi personaggi sono narrate in modo autonomo. • Presenza di storie nella storia: inserti romanzeschi (la vicenda di Geltrude e del Conte del Sagrato) e parti di taglio saggistico.

ORGANIZZAZIONE DELLA MATERIA

Ricostruzione dell’impianto narrativo per superare la divisione in blocchi: le vicende dei diversi personaggi si intrecciano fra loro.

Interviene con giudizi netti e decisi.

NARRATORE

I frequenti giudizi sono velati dall’ironia.

MORALISMO

Maggiore prudenza nella descrizione del male, che, nonostante sia condannato, è presentato con l’uso della reticenza e dell’allusione.

LINGUA

• 1827: storicamente esistente (toscana, con un colorito dialettale di fondo, ma letteraria). • 1840: viva e parlata (fiorentino delle persone colte).

• Netta separazione fra bene e male. • Rappresentazione più diretta del male. • Toni forti e particolari scabrosi per evidenziare i meccanismi della perversione e dell’attrazione al male.

Composita: su una base toscana sono inseriti elementi dialettali lombardi, espressioni e costrutti francesizzanti.

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I protagonisti e l’antagonista

Le altre figure

I personaggi del romanzo, analizzati dall’esterno e individualmente nelle proprie caratteristiche umane, psicologiche, comportamentali, dànno vita a un vero campionario di caratteri e tipi umani, sia in rapporto con il loro contesto storico e con i rispettivi ambiti sociali – come rappresentanti tratteggiati realisticamente delle diverse fasce della società del Seicento (dal clero alla nobiltà, dal mondo rurale a quello urbano) – sia su un piano ideale, ossia come esempi, in positivo o in negativo, dei valori di religiosità, moralità, giustizia, propugnati da Manzoni. Personaggi altamente rappresentativi e positivi, in tal senso, sono Renzo e Lucia (per il mondo laico), padre Cristoforo e il cardinale Borromeo (per il mondo ecclesiastico); figure negative sono, per contro, don Rodrigo e l’Innominato (fino alla conversione), don Abbondio e la monaca di Monza: ancora due laici e due ecclesiastici. I veri protagonisti del romanzo sono comunque Renzo e Lucia, esponenti del ceto popolare, capaci di accettare con forza e rassegnazione i disegni divini. Renzo tuttavia, sebbene onesto e laborioso, ha inizialmente un carattere irruente e ribelle, che lo porta a entrare in contatto con il male (rappresentato soprattutto, secondo l’autore, dalla malvagità e dal peccato individuale, dalla violenza sociale, dalla guerra e dalla peste); poi, al compimento del suo processo formativo, supera l’illusione di potersi fare giustizia da sé e accetta la volontà divina. In tal senso, Renzo è stato giustamente considerato anche un personaggio da romanzo di formazione. Lucia, invece, è un personaggio già definito dall’inizio; semplice, casta, rispettosa degli insegnamenti religiosi, priva di ogni elemento passionale o erotico proprio di tanti personaggi letterari femminili: autentico modello, per le lettrici, di ideale donna cristiana. Ai due protagonisti si contrappone, come principale antagonista, il superbo aristocratico don Rodrigo, che per una capricciosa passionaccia alimentata dall’orgoglio vuole impedire il loro matrimonio. Numerosissime e indimenticabili sono altre figure, maggiori e minori, del romanzo. Esempio di chi abbandona il mondo per prendere i voti è padre Cristoforo; dopo aver vissuto personalmente la violenza e il peccato, si dedica con esemplare carità all’assistenza dei sofferenti, fino a sacrificare se stesso. Ai vertici della gerarchia ecclesiastica è situato il cardinale Federigo Borromeo che, sebbene distante intellettualmente e socialmente dalle classi povere, si dedica a una attività benefica e caritativa; nell’intreccio del romanzo ha il fondamentale ruolo di fautore dello scioglimento finale dell’azione, in quanto favorisce la conversione dell’Innominato e la liberazione di Lucia. Tra i rappresentanti dell’aristocrazia, l’antagonista don Rodrigo e la monaca di Monza sono invece, personaggi esemplari di potenti che abusano dei loro privilegi, impedendo, per capriccio, la felicità di due giovani nel primo caso, o partecipando senza moti-

Eliseo Sala, Lucia Mondella, 1843. Milano, Collezione privata.

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CAP. 19 - ALESSANDRO MANZONI

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vo all’attuazione di un piano malvagio per vendicarsi di un sopruso subito dai genitori nel secondo. Personaggio ambiguo, simpaticamente carico di debolezze, è don Abbondio, definito un vaso di coccio, cioè un essere umanamente debole, pauroso e pusillanime, che non riesce a compiere il proprio dovere a causa di un carattere inadatto a vivere in un’epoca dove si impone soprattutto chi è prepotente. La sua funzione nella narrazione è fondamentale, in quanto la sua presenza introduce quasi sempre episodi umoristici che allentano la tensione drammatica. Mobile e fluida è la psicologia dei personaggi minori che – indipendentemente dal loro ruolo sociale – passano spesso dal “campo del bene” a quello del male, come è dimostrato dalla presenza, perfino fra i bravi, di figure ignobili come il Griso, uomo di fiducia di don Rodrigo, e di malviventi disposti al pentimento come il Nibbio, che si commuove davanti a Lucia prigioniera, o dai bravi dell’Innominato che seguono il loro padrone sulla via del bene dopo la sua conversione. A differenza di quanto accade nelle tragedie, la linea di separazione fra personaggi positivi e negativi non è sempre netta e numerosa è la schiera di figure che occupa una posizione intermedia.

Focus

LA TRAMA DEI PROMESSI SPOSI

Di seguito si riassume la trama de I promessi sposi, nell’edizione definitiva del 1840-1842. L’autore dichiara, nell’Introduzione, di aver ritrovato un manoscritto seicentesco (è, ovviamente, una finzione letteraria), nel quale un anonimo narratore di quel tempo racconterebbe una vicenda svoltasi, fra il 1628 e il 1630, nei territori del Ducato di Milano – governato dagli Spagnoli – e della Repubblica di Venezia. Poiché il presunto narratore anonimo utilizza una lingua tipicamente seicentesca, barocca e retorica, e perciò di difficile lettura, il narratore dichiara di pubblicare il manoscritto, traducendolo tuttavia in linguaggio moderno, fruibile da parte dei lettori a lui contemporanei. Dopo questa premessa, aprono la vicenda – rappresentando il vero e proprio incipit – la descrizione del paesaggio lombardo in cui la vicenda è ambientata e l’incontro tra don Abbondio, curato di campagna di un paese presso il lago di Como, e due bravi, manigoldi prezzolati a servizio del signore del luogo, don Rodrigo, i quali intimano al sacerdote di non celebrare le nozze fra Lucia Mondella e Renzo Tramaglino (si scoprirà poi che don Rodrigo agisce così perché invaghito di Lucia e a causa di una scommessa con il cugino, conte Attilio). Renzo, inizialmente, cerca l’aiuto di un avvocato – ironicamente soprannominato Azzeccagarbugli – ma, dopo aver scoperto che costui sta dalla parte dei potenti, tenta inutilmente di sposarsi entrando di sorpresa nell’abitazione di don Abbondio, insieme a Lucia e a due testimoni di fortuna. Il tentativo fallisce proprio mentre i bravi cercano di rapire Lucia; la coppia, con l’aiuto di fra Cristoforo, si separa e si rifugia fuori dal paese: Renzo si reca a Milano, mentre Lucia, insieme alla madre Agnese, trova ospitalità nel convento della monaca di Monza. Renzo si trova coinvolto nella rivolta popolare causata dalla carestia, rischia il carcere per la propria ingenuità ed è infine costretto ad abbandonare il Ducato di Milano, rifugiandosi dal cugino Bortolo presso Bergamo, nell’allora territorio della Repubblica di Venezia. Lucia viene invece rapita da un nobile e famigerato malfattore, l’Innominato, aiutato nel sequestro della giovane, per conto di don Rodrigo, dalla stessa monaca di Monza, che si è già resa complice di un delitto commesso da Egidio, il suo amante. Nel castello dell’Innominato, presa dalla sconforto, Lucia fa voto alla Madonna, offrendole la propria verginità in cambio della salvezza. L’Innominato, però, inaspettatamente, si converte e trova udienza e conforto presso un religioso di grande fama e bontà, il cardinale Federigo Borromeo. Liberata, Lucia è accolta come ospite, a Milano, nella casa di don Ferrante e donna Prassede. Dopo la carestia, scoppia la guerra per la successione al Monferrato e al Ducato di Mantova e nel Ducato spagnolo di Milano si diffonde rapidamente la peste, portata dai mercenari imperiali detti lanzichenecchi (peraltro alleati degli Spagnoli). Dopo una lunga digressione su questo terribile evento, l’autore descrive le peripezie di Renzo che torna in paese e poi si reca nella Milano devastata dall’epidemia; fra numerose disavventure, entra infine nel lazzaretto, dove sa che è stata ricoverata Lucia. Renzo incontra fra Cristoforo che, nonostante sia prossimo alla morte, si prodiga ad aiutare gli ammalati; è indotto dal frate a perdonare don Rodrigo morente, e può ritrovare la promessa sposa, ormai guarita dalla malattia. Dopo lo scioglimento del voto di Lucia da parte di fra Cristoforo, il romanzo si conclude con il sospirato matrimonio e con la formazione di una nuova famiglia da parte dei due giovani. Discutendo fra loro, Renzo e Lucia si domandano quale sia stato il senso della loro vicenda; ne ricavano, infine, il cosiddetto sugo della storia, le conclusioni che anche l’autore afferma di condividere, e che si fondano sulla necessità di aver fede in Dio e sulla fiducia che i guai, grazie ad essa, diventano comunque utili per una vita migliore.

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Il genere, la finalità, il tema e lo stile del romanzo Genere e finalità educativa

Il sugo della storia

Il tema del dolore umano

Il realismo e gli spunti romantici

Secondo l’autore, I promessi sposi appartengono al genere del romanzo storico, ma si tratta anche, quasi fossero un racconto filosofico cristiano, di un romanzo pedagogico che fornisce insegnamenti per la vita. Il proposito educativo dell’autore non nuoce alla trama, perché esso è temperato dall’ironia e dall’umorismo nel proporre le proprie riflessioni e considerazioni, evitando così il rischio del pedante moralismo. Il nocciolo del messaggio è sintetizzato in poche righe finali (il sugo di tutta la storia) che condensano il pensiero dell’autore. In esse Manzoni, per bocca di Renzo e Lucia, conclude che i guai, cioè gli eventi negativi, accadono talvolta perché li andiamo a cercare (e servono allora a farci capire i nostri errori); essi possono però colpire anche le persone più innocenti; in ogni caso la fiducia in Dio li addolcisce, e li rende utili per una vita migliore (in questo mondo o nell’aldilà). Il tema fondamentale da cui prende avvio la riflessione di Manzoni – analogo a quello di Giacomo Leopardi – riguarda l’interrogativo sulla sofferenza e sul male: il punto d’arrivo di Manzoni nel romanzo è diverso dalla concezione espressa nelle opere precedenti, il cui messaggio pessimistico viene trasformato in una più serena visione dell’esistenza terrena. Il capolavoro manzoniano è anche l’unico importante romanzo italiano dell’epoca che contenga molte pagine di stile realistico (ambientate però in un secolo diverso da quello in cui vive l’autore). Ancora più numerosi sono, nell’opera, temi e spunti romantici, inquadrati però in una visione equilibrata e razionale: tutti questi elementi non appaiono in contrasto o giustapposti, ma fusi armoniosamente.

L’ideologia politica sottesa al romanzo Le ragioni della scelta del Seicento come sfondo

Il liberalismo moderato cattolico

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La scelta del Seicento come epoca in cui ambientare il romanzo storico non è casuale, ma dipende dal fatto che il XVII secolo appare a Manzoni come l’esemplare teatro del malgoverno straniero in Lombardia e delle prepotenze dei potenti, spesso denunciate anche dagli Illuministi. Ciò consente di offrire al lettore una diagnosi dei problemi italiani, sia passati che presenti, secondo la concezione pedagogica dell’arte tipica del Romanticismo lombardo; inoltre, per le caratteristiche esteriori della religiosità prevalente nel Seicento, esemplificata da figure come la monaca di Monza e don Abbondio, il secolo rappresenta un contesto ottimale per far emergere, per contrasto, il vero spirito evangelico. La scelta del XVII secolo – in cui alla degenerazione politica e morale si affiancano i flagelli della guerra e della peste – risponde a esigenze di carattere poetico, politico, religioso: il Seicento è simbolo dell’arroganza del potere e anche una metafora universale della condizione di sofferenza degli uomini e, soprattutto, dei deboli, il cui cammino nel mondo è sempre travagliato e sottoposto a prove durissime, che possono trovare la via del riscatto e della salvezza nella fede: il Cristianesimo non promette solo la felicità ultraterrena, ma anche la possibile, seppur faticosa e sempre incerta, conquista del bene – soprattutto in termini di felicità interiore – già in questo mondo. Sostenuto da questa visione dell’uomo e della storia, Manzoni aderisce a un indirizzo liberale cattolico di stampo moderato e respinge le azioni violente delle folle; Renzo, nell’ultimo capitolo, afferma, esprimendo con chiarezza la concezione moderata del romanziere: Ho imparato a non mettermi nei tumulti: ho imparato a non predicare in piazza. Anche sul piano economico, la concezione manzoniana è esemplarmente di stampo cattolico-liberale. Lo dimostra la critica all’intervento del vice-governatore Ferrer in occasione della carestia. Ribassando il prezzo del pane, nonostante i costi elevati del grano dovuti alla carestia, egli è identificato come responsabile del caos che dilaga, a cominciare dalla difficoltà dei fornai a produrre pane al prezzo stabilito: la scarsità della farina, tenuta nascosta, e la vendita del pane al mercato nero provocano l’assalto ai forni della folla affamata e inferocita (il popolo imbestialì), un’azione violenta che innesca altra violenza e produce ulteriori mali, peggiori di quelli che vuole risolvere.

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Una critica politica su due fronti

Nel romanzo è insomma esplicita una concezione politica che sviluppa, spesso ironicamente, una critica su due fronti: del malgoverno dei potenti e della demagogia che alimenta la violenza irrazionale delle folle. In questa equilibrata posizione si esprime il moderatismo politico manzoniano.

La scelta del romanzo storico e le innovazioni narrative La novità per l’Italia del romanzo storico

Le principali innovazioni rispetto ai modelli europei

Realismo, diversità dei toni, disegno provvidenziale

La prima novità è la scelta stessa del romanzo storico – in Europa genere di successo, dopo la pubblicazione di Ivanhoe di Scott – sostanzialmente senza precedenti rilevanti in Italia. Il romanzo storico si presenta, secondo la celebre definizione manzoniana, come genere misto di realtà e invenzione: al primo piano appartengono, nei Promessi sposi, personaggi veramente esistiti (ad esempio il cardinale Federigo Borromeo e la monaca di Monza) e vicende storiche realmente accadute (la guerra, il dilagare di carestia e peste); al secondo, personaggi immaginari ma verosimili, quali Renzo e Lucia, don Abbondio, don Rodrigo. La scelta del romanzo storico, estraneo alla tradizione classicista italiana e ritenuto indegno di un pubblico di lettori colti, rappresenta un fatto rivoluzionario nella storia letteraria del Paese, che l’autore compie in quanto il carattere popolare del genere gli consente di realizzare la propria poetica e di raggiungere un vasto pubblico. Tale scelta si colloca su una linea di continuità con l’interesse di Manzoni per la storia, già manifestato nelle tragedie, coerentemente con la concezione romantica e, in particolare, con la sua tesi secondo cui compito della letteratura è educare al vero morale mediante la rappresentazione del suo conflitto con la storia. La principale innovazione del romanzo manzoniano rispetto ai modelli europei consiste nel rendere protagonisti della narrazione due personaggi umili: un artigiano tessitore, solo al mondo, e un’operaia di filanda, orfana di padre. L’autore adegua stile e linguaggio a tale scelta, contrapponendosi alla tradizione classicista forte in Italia e rendendo la lettura agevole per un vasto pubblico. Inoltre la storia dell’epoca prescelta non fa solo da sfondo generico all’intreccio, come nei romanzi di Walter Scott, ma influenza pensieri e comportamenti dei personaggi: perfino il cardinale Federigo, figura storica realmente esistita e nel romanzo per molti aspetti idealizzata, si rivela uomo del proprio tempo quando, con una scelta poco prudente, autorizza lo svolgimento di una processione mentre infuria il contagio della peste. Il capolavoro manzoniano si contraddistingue inoltre dai romanzi europei per altre particolarità. La narrazione è costruita con realismo, sulla base della rigorosa documentazione storica che supporta le vicende di sfondo e della ricerca nei dialoghi di un linguaggio popolare, adatto a personaggi dalla vita umile e comune. La narrazione realistica, tuttavia, si articola in toni molto diversi, che vanno dal patetico all’umoristico, dal tragico al lirico, solo per citare alcuni esempi. Inoltre, nell’opera manzoniana le vicende umane sono sempre ricondotte a un disegno provvidenziale divino.

Giovan Battista Galizzi, Renzo nello studio del Dottor Azzeccagarbugli.

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Fine analisi psicologica e prevalenza della persona

I personaggi del romanzo sono vivi e non semplici riflessi di figure tipiche del tempo in cui vivono. Ognuno di essi ha una propria vicenda interiore, indagata con acume psicologico, con uno sguardo attento a metterne in risalto la specifica individualità e con un’analisi sottile in grado di interpretarne i sentimenti con sensibilità tipicamente romantica. Infine, anche le pagine di denuncia politica, che spesso si intrecciano ai ritratti dei potenti o alle magistrali pitture di scene che hanno per protagoniste le moltitudini, non soffocano mai la tipicamente romantica – e, in Manzoni, anche e soprattutto cristiana – prevalenza della persona.

Lo “stile medio” e i diversi registri

I promessi sposi si caratterizzano per un’accentuata varietà tematica e stilistica, che intreccia e armonizza diversi registri linguistici. La possibilità di unificare i differenti registri è dovuta allo “stile medio” manzoniano, che consente graduali passaggi dal comico al patetico, dall’umoristico al tragico, dal lirico al realistico, dalla riflessione religiosa e morale all’analisi storiografica. La soluzione linguistica proposta da Manzoni nell’edizione definitiva del suo romanzo, e in numerose opere saggistiche, sancisce il definitivo superamento delle posizioni dei puristi e dei classicisti, ancora dominanti all’inizio dell’Ottocento. Essa rifiuta, però, anche le posizioni opposte, degli autori che utilizzavano nelle loro opere il modo di esprimersi dei particolari luoghi in cui vivevano. Manzoni fornisce così un contributo importante (insieme agli studi e agli scritti linguistici) alla diffusione di un’unica lingua in tutto il Paese e trasforma la questione linguistica da problema estetico e storico, quale era considerata, in problema sociale.

La lingua

Il contributo all’unificazione della lingua italiana

Focus

LO SCRITTO SUL ROMANZO STORICO

Dopo l’uscita dell’edizione del 1827 dei Promessi sposi, che segna la fine dell’elaborazione originale del romanzo (l’edizione del 1840, come si è detto, nasce in prevalenza da ragioni linguistiche), Manzoni – che pure morirà quasi novantenne – abbandona quasi del tutto la composizione di opere letterarie. La sua produzione si concentra in maniera esclusiva in tre ambiti: le opere morali (il vero del Cristianesimo), le opere storiche (il vero della storia) e le opere linguistiche. Il testo fondamentale per comprendere le ragioni di tale scelta è senza dubbio il Discorso del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Iniziato intorno al 1828-1829 (come si deduce da una lettera a Goethe), esso viene ripreso e terminato già nel 1831 e pubblicato per la prima volta nel 1850. In esso Manzoni condanna senza appello tutti quei generi che mescolano la verità della storia con l’invenzione letteraria, e in particolare il romanzo storico da lui stesso praticato: un componimento nel quale deve entrare e la storia e la favola, senza che possa stabilire né indicare in qual proporzione, in quali relazioni ci devano entrare; un componimento, insomma, [...] intrinsecamente contraddittorio. Secondo l’autore, infatti, nel genere del romanzo storico, che a suo avviso deve avere lo scopo di migliorare il lettore e la società, l’azione di educazione morale viene messa in discussione dall’impossibilità di distinguere quanto è vero e reale da ciò che è soltanto verosimile. Il rischio è quello di una perenne confusione tra il mondo reale e il mondo della letteratura, sicché il lettore si troverebbe indotto ad attribuire all’invenzione i fatti che gli sono raccontati, rischiando così di non credere neppure alla verità del mondo e della storia quale è rappresentata dallo scrittore. Il difficile compromesso su cui si erano fondati i Promessi sposi nello scritto viene definitivamente meno e l’autore prevede, di conseguenza, l’imminente scomparsa del genere del romanzo storico. La svolta verso il vero storico a spese del vero poetico e del verosimile propri dell’invenzione narrativa è dimostrata anche dal fatto che la Storia della colonna infame, concepita inizialmente come un nuovo e più perfetto esempio di narrazione letteraria, diventa, nel momento della scrittura, una pura opera storiografica. L’edizione del 1827 dei Promessi sposi viene rivista perché il suo autore ha scorto l’importanza di un altro genere di utile: quella del linguaggio, basilare per l’unificazione nazionale. Negli anni dal 1830 al 1840 e oltre (con le continue rielaborazioni del saggio Sulla lingua italiana) Alessandro Manzoni si dedica assiduamente alla questione della lingua – oltre che ai testi morali e agli studi storici –, e la revisione del suo romanzo fra il 1827 e il 1840 lo interessa quasi esclusivamente per tale aspetto.

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Focus

LA QUESTIONE DELLA LINGUA DOPO MANZONI

LA SVOLTA DI MANZONI Nel 1861, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, fatta l’Italia, restano da fare gli Italiani: sussistono infatti numerosi problemi e disparità tra le diverse aree del Paese a causa della tradizionale frammentazione politica che ha segnato la storia della penisola. La divisione è particolarmente accentuata sul piano linguistico. Se si esclude la Toscana – in cui si parla un idioma assai simile alla lingua italiana – su circa venti milioni di abitanti del Paese, poco più di 200 000 si esprimono in italiano: tutti gli altri utilizzano dialetti; inoltre, gli analfabeti superano il 70% della popolazione. La Commissione ministeriale per la lingua, di cui Manzoni è nominato presidente, mira a risolvere il problema facendo apprendere l’italiano dei Promessi sposi in ogni parte d’Italia mediante un biennio di scuola elementare e vietando l’uso del dialetto negli uffici pubblici e nell’esercito. I risultati saranno nel complesso modesti, e l’italiano che nel Novecento si affermerà nel nostro Paese sarà ben diverso da quello immaginato da Manzoni. Ciò non toglie che le proposte dello scrittore milanese avranno un ruolo determinante nel dibattito sulla questione della lingua: da fatto prevalentemente letterario (o al più, indirettamente, politico) diventerà soprattutto un problema sociale ed educativo. L’OPERA LESSICOGRAFICA DI NICCOLÒ TOMMASEO Non fa eccezione l’esperienza di Niccolò Tommaseo, che si preoccupa soprattutto di fornire strumenti adatti all’educazione linguistico-letteraria dei giovani. Il Dizionario dei sinonimi (1830) è ancora oggi insuperato, nella volontà che lo permea di conciliare efficacia espressiva, chiarezza e rigore classificatorio. E il monumentale Dizionario della lingua italiana (1861-1879) resterà insuperato e irrinunciabile fino alla pubblicazione, da poco conclusa, del Grande Dizionario della Lingua Italiana diretto prima da Salvatore Battaglia e poi da Giorgio Bárberi Squarotti. L’impostazione, rispetto al Vocabolario della Crusca, è profondamente originale: oltre alle attestazioni (cioè agli esempi letterari di uso della voce), di molto arricchite grazie a spogli originali e letture, Tommaseo aggiunge locuzioni e modi di dire non letterariamente attestati, ma colti dalla viva voce del popolo; dà grande spazio ai proverbi; e soprattutto non si limita a definizioni brevissime e generiche, ma spiega la differenza tra un termine e i suoi apparenti sinonimi, indica quali sono i contesti in cui ne è appropriato l’impiego, ne sottolinea la particolare pregnanza espressiva. In breve, sposta l’interesse dalla documentazione storica in sé, in quanto capace di autorizzare l’uso contemporaneo, all’uso stesso della voce, quale è stato fatto in passato nella letteratura e quale è fatto in epoca moderna nella comunicazione quotidiana. IL PRIMATO DELL’AZIONE SULLA TEORIA: GRAZIADIO ISAIA ASCOLI Il più importante innovatore ottocentesco è lo studioso goriziano Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), professore di linguistica dal 1861 all’Accademia scientifico-letteraria di Milano e fondatore dell’“Archivio glottologico italiano” (1873) e dell’omonima rivista. Nel Proemio della stessa, Ascoli esprime la convinzione che non è possibile imporre le lingue per legge, poiché esse nascono dal bisogno di comunicare: pertanto è vano tentare di unificare il linguaggio senza aver prima creato una situazione che di fatto renda necessario l’uso di un’unica lingua, nel caso specifico quella italiana. Nei suoi scritti il glottologo sostiene perciò il primato dell’azione (per trasformare la realtà politica e civile) rispetto all’intervento normativo sulla lingua. Del resto, se pure è vero che la lingua italiana è nata su base fiorentina, è altresì indiscutibile che essa si è poi sviluppata in maniera autonoma e diversa, e che l’italiano letterario è assai diverso dal fiorentino contemporaneo. In più, una soluzione centralistica come quella di Manzoni non è immaginabile in Italia, dove molteplici e di pari dignità sono i centri di irradiazione culturale, politica e sociale: sulla base di questa considerazione, Ascoli giunge con esattezza a prevedere che l’italiano, quando ci sarà, sarà una lingua su base toscana, ma arricchita dei contributi dei principali centri del Paese. Conseguentemente, egli sostiene la necessità, anche sul piano letterario, nella lingua scritta e nell’insegnamento scolastico, di evitare di imporre rigidamente il fiorentino proposto dai fautori più rigorosi dell’ipotesi manzoniana: quel manzonismo degli stenterelli deriso anche dal poeta Giosue Carducci nel componimento Davanti a San Guido. LA SOLUZIONE PRATICA DELLA QUESTIONE DELLA LINGUA La questione dell’unificazione linguistica nazionale continuerà a trascinarsi nel nostro Paese per oltre un secolo, e troverà soluzione definitiva soltanto negli anni Settanta del Novecento, a seguito di trasformazioni sociali imponenti. A livello di lingua parlata, essa sarà resa possibile dalla capillare diffusione dapprima della radio e successivamente della televisione; entrambi i media svolgeranno una potente azione di omologazione del linguaggio, non priva di risvolti da taluni giudicati negativi: primi fra tutti, il livellamento e l’impoverimento espressivo. Ma già in precedenza, un importante contributo in tal senso avevano offerto l’istituzione del servizio militare obbligatorio, che portava a contatto, costringendoli a trovare un mezzo di comunicazione linguistica efficace, individui di provenienza geografica diversa; e soprattutto l’istruzione obbligatoria, dapprima soltanto elementare, poi anche media.

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T10 Il manoscritto seicentesco

da I promessi sposi, Introduzione

Nell’Introduzione ai Promessi sposi, Manzoni (o, meglio, il narratore) riporta la prima parte dell’anonimo manoscritto seicentesco che finge di aver ritrovato e voler trascrivere per i lettori. Ma dopo la prima pagina si interrompe, decidendo di riscrivere la storia che reputa interessante nell’italiano del suo tempo. Il narratore si presenta dunque in veste di traduttore e, come dice egli stesso, di editore dello scritto di un secondo narratore, che egli definisce l’anonimo. Diverse sono le stesure dell’Introduzione. La prima è composta subito dopo i primi due capitoli del romanzo, nell’aprile del 1821. Alla seconda Manzoni si dedica invece nel settembre 1823. Infine compare il testo definitivo, nell’edizione del 1840, qui riportato. Dal punto di vista formale, l’aspetto più evidente è costituito dalla fedeltà sempre maggiore, nella pagina iniziale attribuita all’Anonimo seicentesco, alla lingua dell’epoca, sia nell’uso delle metafore e delle antitesi sia nella grafia (ad esempio con la mancata distinzione tra u e v e l’uso dell’h etimologica). PISTE DI LETTURA • Un interessante confronto tra il linguaggio seicentesco e quello dell’Ottocento • Le particolarità e lo scopo dell’introduzione • L’ironia manzoniana

Una metafora barocca sulla storia

“L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gli illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchio- 5 stri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo di bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti me- 10 morabili, se ben capitorno a genti meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione.1

[La trascrizione prosegue con un’altra mezza pagina in italiano del Seicento, in cui si esprime il concetto che la storia, accaduta nella giovinezza dell’anonimo compilatore, sarà narrata senza citare i nomi dei personaggi conosciuti, la maggior parte dei quali è già morta, e anche dei luoghi, per non far apparire un mondo infernale la società del suo tempo che è invece governata dal Re Cattolico di Spagna e dai nobili Senatori e Magistrati che sono come il Sole, la Luna e le stelle. Di questa ampia parte, riportiamo il periodo conclusivo.]

1. L’Historia si può... Relatione: il passo è una divertente parodia dello stile di scrittura barocco, zeppo di metafore altisonanti, di iperboli, di lodi, di periodi intricati. Inizia con la metafora della storia (L’Historia) come un generale che lotta contro il Tempo (inteso come dimenticanza che uccide, rendendoli cadaueri, gli anni); la Storia schiera gli anni (prigionieri, anzi, già uccisi dal tempo) come soldati, richiamandoli in vita, attraverso la descrizione degli eventi, passandoli in rassegna, e schierandoli così di nuovo in battaglia (cioè, sottoponendoli all’attenzione dei vivi). L’immaginosa metafora barocca, nel secondo periodo, prosegue affermando che gli illustri campioni di tale guerra – gli storici, che in quel campo di battaglia (Arringo) mietono Palme di vittoria e Allori di gloria – osservano solamente

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gli argomenti più sublimi, imbalsamando negli inchiostri delle pagine della storia le imprese dei principi, delle nazioni e dei personaggi famosi (de Prencipi, e Potentati, e qualificati Personaggi), e utilizzando con l’ago finissimo dell’ingegno degli scrittori i fili d’oro e di seta per formare un eterno ricamo di azioni gloriose. L’autore seicentesco si schermisce prudentemente: a lui non sarebbe lecito sollevarsi a tali argomenti sublimi e anche pericolosi, narrando i labirinti delle manovre politiche e il tuono delle trombe di guerra (Oricalchi): tuttavia ha avuto notizia di vicende degne di essere ricordate, anche se sono capitate a lavoratori (genti meccaniche) di basso ceto, e si appresta a lasciarne memoria ai posteri, facendo di tutto ciò sinceramente e genuinamente un racconto o una relazione.

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L’autore interrompe la trascrizione

Il giudizio sulla prosa barocca

Nè alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vedranno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti...” 2 – Ma, quando io avrò durata3 l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo4, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla? – Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti5, mi fece sospender la copia6, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. – Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa7 per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano8. Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati9. E poi, qualche eleganza spagnola10 seminata qua e là; e poi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d’eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que’ passi insomma che richiedono bensì un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio11. E allora, accozzando, con un’abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato12, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose13, composte a forza di solecismi pedestri14, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese15. In vero, non è cosa da presentare a lettori d’oggigiorno: son trop-

2. Nè alcuno... accidenti: e non si potrà dire che questo tacere i nomi delle persone e dei luoghi sia un difetto del racconto – metaforicamente, una deformità dell’umile parto dell’anonimo scrittore seicentesco –, a meno che chi avanza la critica non sia una persona che non conosce la filosofia; poiché gli uomini esperti in essa invece vedranno bene che non manca nulla alla sostanza di questa narrazione, poiché è una cosa evidente, non negata da nessuno, che i nomi sono solo puri accidenti (e non la sostanza delle cose). Le ultime due affermazioni sono costruite alla latina e ironizzano su concetti della filosofia aristotelica in auge nel Seicento. 3. io avrò durata: io avrò sopportato (durata) la fatica eroica di trascrivere tutto il manoscritto. La parola passa ora alla voce narrante principale, che qui si esprime in prima persona (come farà, occasionalmente, anche nel romanzo). 4. dilavato e graffiato autografo: il manoscritto antico (autografo) si presenta consunto e sbiadito (dilavato), oltre che scarabocchiato (graffiato). 5. accidenti: è l’ultima parola del manoscritto trascritta: qui il narratore interrompe la frase scritta in linguaggio seicentesco. Il tipico umorismo manzoniano colloca tale termine dal duplice significato (accidenti è anche esclamazione di disappunto) proprio prima di una parte di difficile lettura. 6. mi fece... copia: mi indusse a interrompere la trascrizione. 7. alla distesa: ininterrottamente. Il lessico utilizzato dall’autore è di per sé umoristico, in questo come in altri casi (ad esempio, nell’uso del verbo scartabellando, ossia “frugando qua e là tra le carte”). 8. Il buon... piano: lo scrittore del Seicento ha voluto all’inizio mettere in mostra la sua capacità di scrivere (virtù), ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta anche per lunghi periodi, il suo stile prosegue con maggiore

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naturalezza e facilità (più naturale e più piano). La presenza del narratore è evidente nell’uso dell’aggettivazione; con quel buon, ad esempio, il narratore sottolinea ironicamente i difetti dell’Anonimo – dovuti alla concezione della letteratura tipica del Seicento – pur ammettendone le buone intenzioni. 9. dozzinale... sgangherati: ma come il suo stile è rozzo (dozzinale), com’è scorretto (sguaiato), con espressioni lombarde (idiotismi) a non finire (a iosa), frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica non rispettata (arbitraria), periodi contorti o che non reggono (sgangherati). 10. eleganza spagnola: è detto in senso ironico, in quanto lo stile barocco era stato originato in quella lingua. La rettorica cui si allude successivamente sta nel senso di “bello stile, figurazioni poetiche ed eleganti”. La critica dello stile barocco – che proseguirà anche in altri passi del romanzo – si manifesta anche nell’accusa, rivolta all’Anonimo, di voler sempre eccitar meraviglia: suscitare maraviglia è infatti lo scopo dichiarato nella propria poetica anche dal caposcuola italiano della letteratura barocca, Giambattista Marino. 11. così fatta del proemio: di cui è testimonianza la prima parte del manoscritto (trascritta all’inizio dell’Introduzione). 12. affettato: ricercato. 13. declamazioni ampollose: affermazioni ridondanti ed eccessivamente gonfie. Il termine ampolloso significa, infatti, “rigonfio come un’ampolla”. 14. solecismi pedestri: sgrammaticature grossolane. Il vocabolo solecismo deriva, attraverso il latino, da un termine greco che faceva riferimento alla città di Sòloi, dove la lingua greca veniva parlata scorrettamente. 15. di quel... in questo paese: del Seicento nella Lombardia dominata dagli Spagnoli.

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Il narratore sottolinea l’importanza della storia

po ammaliziati16, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m’è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani. – Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male17 che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. – Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura18? – Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato19. Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all’importanza del libro medesimo20. Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.

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[L’autore si chiede a questo punto in quale stile riscrivere la storia; riflette su come controbattere alle possibili critiche, e conclude che, scrivendo le possibili obiezioni e le risposte, ne sarebbe nato un altro libro, il cui argomento sarebbe stato la giustificazione delle scelte linguistiche e stilistiche usate.] Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi, lo stile di un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo21. da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954

16. ammaliziati: lettori abituati a uno stile raffinato. 17. mi sapeva male: mi faceva dispiacere che una storia così bella dovesse rimanere sconosciuta. 18. rifarne la dicitura: rifarne la scrittura, modificandone lingua e stile. 19. il partito... abbracciato: la decisione fu subito presa. 20. Ed ecco... medesimo: ecco l’origine di questo libro, raccontata con una sincerità pari all’importanza del libro stesso. Espressione ironica, rivolta alla storia narrata dal manoscritto e alla modestia della trascrizione. 21. Veduta la qual cosa... d’avanzo: il finale è molto ironico. Tutti i dubbi sullo stile sono stati accantonati perché sembrava ridicolo scrivere un libro per giustificarne un altro, perché di libri ne basta uno per volta: uno solo è anche troppo. Nell’ultima parte dell’Introduzione, che qui si conclude, Manzoni passa dalla prima persona singolare al noi: ciò sottolinea come non sia più il lettore del manoscritto che parla, ma il narratore (in ultima analisi duplice, in quanto lo è anche l’Anonimo) dell’opera.

Frontespizio dei Promessi sposi illustrato da Francesco Gonin.

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inee di analisi testuale Il manoscritto ritrovato L’espediente del manoscritto ritrovato non è invenzione originale: diversi autori l’hanno utilizzato prima di Manzoni (tra loro, Walter Scott ne Il monastero). Nei Promessi sposi, però, ha funzioni più importanti, che riguardano la struttura narrativa del romanzo e i problemi legati alla lingua e allo stile: permette all’autore di emulare e, nel contempo, ridicolizzare lo stile della prosa seicentesca e ribadire l’urgenza di una lingua moderna e popolare. Le coordinate del romanzo esposte nell’introduzione Nelle opposizioni manoscritto-romanzo, narratore anonimo-traduttore, prosa barocca-scrittura moderna l’Introduzione dichiara le coordinate di fondo del romanzo: la natura di romanzo storico “documentato”; l’originalità della vicenda e dei personaggi, non illustri, ma umili; la novità della lingua, moderna e per tutti; l’intento educativo, in chiave morale e politica; la struttura dei meccanismi narrativi. I diversi punti di vista L’espediente del manoscritto permette a Manzoni una narrazione con frequenti cambiamenti di focalizzazione: egli può utilizzare il punto di vista dell’Anonimo (all’inizio dell’Introduzione ne riproduce addirittura la voce narrante); può, poi, proporre il proprio punto di vista, intervenendo a commentare, valutare, e, ancora, dare voce a documenti dell’epoca, riportandone interi stralci. Il ruolo dell’Anonimo autore del manoscritto La presenza dei due narratori determina un costante intreccio fra realtà storica e finzione narrativa, passato e presente, fatti e giudizi, piano oggettivo e piano soggettivo. In particolare, Manzoni delega all’Anonimo (chiamato direttamente in causa trentun volte nel corso del romanzo) le opinioni da cui vuole allontanarsi e che confuta, oppure gli affida l’attestazione della veridicità dei fatti, in quanto contemporaneo ad essi. La dichiarazione di poetica In definitiva, l’Introduzione è una dichiarazione di poetica. In essa è fondamentale l’intento formativo (l’utile per iscopo che, nella Lettera sul Romanticismo, affianca il vero come oggetto e l’interessante come mezzo) e costituisce, di fatto, l’inizio del dialogo con i lettori, destinato a proseguire tacitamente per tutto il corso del romanzo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Aiutandoti con le note, sintetizza in italiano moderno l’inizio del manoscritto seicentesco dell’Introduzione. 2. Riassumi le considerazioni del narratore ottocentesco a proposito del manoscritto che sta trascrivendo (max 10 righe). 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Perché la lettura del manoscritto seicentesco sarebbe, secondo l’autore, motivo di fatica per i lettori dell’Ottocento? b. Perché Manzoni sente l’esigenza di documentarsi sulle fonti storiche dell’epoca? c. Perché afferma di rinunciare a discutere sulle questioni di stile prima di accingersi a riscrivere la storia? Analisi e interpretazione 4. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali elementi caratterizzano lo stile letterario del manoscritto seicentesco? b. Quali sono le principali metafore e figure retoriche di cui abbonda lo scritto seicentesco? c. Con quali espressioni Manzoni definisce il contenuto e lo stile del manoscritto? d. Quale funzione svolge, sul piano della struttura narrativa, la presenza di un doppio narratore nel romanzo manzoniano? e. Quali messaggi ed elementi di poetica Manzoni vuole proporre attraverso l’Introduzione al suo romanzo? Approfondimenti 5. La storia raccontata dall’Anonimo nel manoscritto non riguarda Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggi, bensì vicende di gente meccaniche, e di piccol affare. Ma lo scrittore dichiara che tale vicenda ha la stessa dignità ed esemplarità di quelle sublimi che vedono per protagonisti i potenti; anche se in angusto Teatro, saranno infatti rappresentate luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con Intermezi d’imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. Dopo aver chiarito e commentato il significato delle espressioni usate dall’Anonimo, tratta sinteticamente in circa 20 righe il seguente argomento: La radicale innovazione al romanzo storico apportata da Manzoni.

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T11 L’incipit del romanzo e l’incontro fra don Abbondio e i bravi da I promessi sposi, I

Nella versione definitiva del romanzo, il racconto della vicenda prende l’avvio da un’ampia e minuta descrizione del paesaggio lecchese in cui la storia è ambientata e in cui è situato il paese dove vivono Renzo e Lucia, i protagonisti della vicenda. Dopo aver descritto il paesaggio, l’autore fa entrare in scena il personaggio di don Abbondio, il cui atteggiamento è indizio del suo carattere pusillanime. Ad attenderlo, per intimargli di non celebrare il matrimonio fra Renzo e Lucia, ci sono due minacciosi bravi inviati da don Rodrigo: il capitolo entra allora nel vivo. Il passo va dal registro descrittivo, all’analisi storica, all’ironia. PISTE DI LETTURA • Il registro descrittivo dell’incipit • L’approfondimento psicologico dei personaggi • Un esempio della varietà dei toni che contraddistingue tutto il romanzo

La descrizione geografica dall’alto

La passeggiata del curato don Abbondio

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno1, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio que- 5 sta trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lasciano l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. [...] Il luogo stesso da dove contemplate2 que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue 10 cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili3 quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio4, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute. 15 Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra.

[Il curato don Abbondio, che cammina pigramente, scorge, alla biforcazione di un viottolo, due bravi armati fino ai denti. Per alcune pagine, il narratore apre una digressione storica e riporta le grida, ossia le leggi emesse dalle autorità spagnole del tempo contro codesti bravi – che commettevano crimini su mandato dei potenti – e per rilevare l’inefficacia di tali leggi. La narrazione torna poi a mettere a fuoco il personaggio di don Abbondio.] I due bravi che attendono il curato

Che i due descritti di sopra5 stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorger- 20 si, per certi atti, che l’aspettato era lui6. Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni7 s’era alzato, ti-

1. a mezzogiorno: verso sud. 2. contemplate: voi osservate. Il cambiamento di persona, per cui Manzoni si rivolge direttamente ai lettori, vuole sottolineare il loro coinvolgimento. 3. mutabili: mutevoli. 4. l’ameno... il selvaggio: il paesaggio dolce e famigliare (domestico) equilibra il lato selvaggio dello spettacolo.

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5. i due descritti di sopra: i due bravi. 6. l’aspettato era lui: il tono è decisamente ironico; l’espressione sottintende che, se la vittima dei bravi fosse stata un’altra persona, il curato non se ne sarebbe preoccupato eccessivamente. 7. quello… a cavalcioni: uno dei due uomini era seduto su un muretto.

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Don Abbondio non vede via d’uscita

Il matrimonio e l’ordine del bravo

La minaccia nei confronti del parroco

Il nome del mandante: don Rodrigo

rando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sé stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare8, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. “Signor curato,” disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia. “Cosa comanda?” rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo. “Lei ha intenzione,” proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia9, “lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!” “Cioè…” rispose, con voce tremolante, don Abbondio: “cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi … e poi, vengon da noi, come s’andrebbe a un banco a riscotere10, e noi … noi siamo i servitori del comune11.” “Or bene,” gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai.” “Ma, signori miei,” replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, “ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me, … vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca…” “Orsù,” interruppe il bravo, “se la cosa avesse a decidersi a ciarle12, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito… lei c’intende.” “Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli…” “Ma,” interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, “ma il matrimonio non si farà, o …” e qui una buona bestemmia, “o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e …” un’altra bestemmia. “Zitto, zitto,” riprese il primo oratore, “il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.”13 Questo nome fu nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e

8. collare: colletto da sacerdote. 9. sull’intraprendere... ribalderia: mentre compie un gesto da furfante. L’umorismo manzoniano è finissimo: i gaglioffi trattano il tremebondo curato come se avesse compiuto una birbonata e don Abbondio accetta la parte, gettando la “colpa” del matrimonio sui due promessi sposi. 10. a un banco a riscotere: a una banca per ritirare denaro.

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11. servitori del comune: servi della comunità. 12. ciarle: chiacchiere. 13. il signor curato… caramente: come un abile oratore, il bravo pronuncia il nome di don Rodrigo al termine del discorso, per dimostrare tutto il peso del discorso stesso e la necessità per don Abbondio di accondiscendere ad esso.

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L’accondiscendenza del curato verso i prepotenti

accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: “se mi sapessero suggerire…” “Oh! suggerire a lei che sa di latino14!” interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. “A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso, che le abbiam dato per suo bene; altrimenti… ehm… sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?” “Il mio rispetto…” “Si spieghi meglio!” “… Disposto… disposto sempre all’ubbidienza.” E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio. “Benissimo, e buona notte, messere15”, disse l’un d’essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli16, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. “Signori…” cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate17.

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14. che sa di latino: la conoscenza del latino era propria degli uomini colti e dei sacerdoti. Il bravo deride don Abbondio. 15. messere: signore. 16. iscansarli: evitarli.

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17. aggranchiate: paralizzate per la paura e perciò strette al corpo come le zampe di un granchio. L’episodio, in sé drammatico, è reso umoristico anche dalle espressioni usate dall’autore.

inee di analisi testuale L’esemplare variabilità dei registri Manzoni varia costantemente i suoi registri espressivi. Terminata la solenne descrizione del paesaggio dell’incipit, mette in scena la figura di don Abbondio, protagonista di una vicenda sospesa – nonostante la drammaticità di ciò che accade – fra umorismo e ironia. La figura minacciosa dei due bravi è presentata con straordinaria verosimiglianza storica. Inoltre, per creare suspense, il narratore compie una lunga digressione sulle grida e l’inefficienza delle autorità spagnole nei confronti di questi criminali al servizio dei potenti del Seicento. Don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, per sopravvivere in quel mondo e garantirsi una vita tranquilla, cerca l’appoggio di chi ha più potere. La stessa frase che egli indirizza al bravo che lo ha interpellato (“Cosa comanda?”) testimonia la sua propensione all’obbedienza e al servilismo. L’ironia L’ironia che domina l’episodio è particolarmente evidente quando il curato cerca di gettare la colpa su Renzo e Lucia (Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro) o prova a convincere i malfattori con la propria eloquenza (lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli) o mostra plateale deferenza verso il loro padrone (al nome di don Rodrigo, Fece, come per istinto, un grand’inchino). Anche l’uso di altre figure retoriche enfatizza l’effetto ironico e delinea in modo nitido il carattere del personaggio, i suoi difetti e i suoi atteggiamenti. Di grande evidenza, ad esempio, è la similitudine tra il nome di don Rodrigo e il lampo nella notte. In sintesi, già nelle prime pagine, l’autore intende dare ai lettori, spesso chiamati in causa (ad esempio, con il verbo contemplate), un saggio esemplare della varietà di registri che il romanzo riserverà loro.

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Comprensione 1. Riassumi, senza utilizzare il discorso diretto, l’episodio dell’incontro fra don Abbondio e i bravi (max 15 righe). 2. Trasforma l’episodio dell’incontro fra don Abbondio e i bravi in un testo teatrale, dimostrando la tua competenza nell’uso di tale linguaggio. Analisi e interpretazione 3. Spiega che cos’è l’ironia e presenta alcuni passaggi in cui l’episodio dell’incontro fra don Abbondio e i bravi diventa ironico, motivando la tua scelta. 4. Metti in rilievo la psicologia di don Abbondio quale emerge dall’incontro con i bravi. Approfondimenti 5. Individua, in un film che hai visto, uno o più personaggi che, per il loro carattere e i loro comportamenti, ti sembrano interiormente simili al curato manzoniano che ha paura dei prepotenti e relazionane in uno scritto adeguatamente intitolato che non superi le due colonne di metà foglio protocollo.

L’INTERPRETAZIONE CRITICA

La tecnica narrativa di Manzoni nell’incipit del romanzo Umberto Eco Umberto Eco propone una lucida e acuta analisi dell’incipit dei Promessi sposi mettendo in luce la maestria narrativa di Manzoni e l’integrazione perfetta tra la forma (la tecnica narrativa) e il messaggio (la finalità educativa) contenuti nel testo. Una delle domande che hanno sempre intrigato i lettori italiani è perché Manzoni perda tanto tempo all’inizio dei Promessi sposi, a descrivere il lago di Como. Possiamo perdonare a Proust di descrivere in trenta pagine il suo indugio prima del sonno, ma perché Manzoni deve spendere una pagina abbondante per dirci “C’era una volta un lago, e qui prende inizio la mia storia”? Se provassimo a leggere questo brano tenendo sotto gli occhi una carta geografica, vedremmo che la descrizione procede associando due tecniche cinematografiche, zoom e rallentatore. Non ditemi che un autore del XIX secolo non conosceva la tecnica cinematografica: è che i registi cinematografici conoscono le tecniche della narrativa del XIX secolo. È come se la ripresa fosse fatta da un elicottero che sta atterrando lentamente (o riproducesse il modo con cui Dio muove il suo sguardo dall’alto dei cieli per individuare un essere umano sulla crosta terrestre). Questo primo movimento continuo dall’alto al basso inizia a una dimensione “geografica”: Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte... Ma poi la visione abbandona la dimensione geografica per entrare lentamente in una dimensione topografica, là dove si può iniziare a individuare un ponte e distinguere le rive: ... e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. Sia la visione geografica sia quella topografica procedono da nord verso sud, seguendo appunto il corso di generazione del fiume; e di conseguenza il movimento descrittivo parte dall’ampio verso lo stretto, dal lago al fiume. E come ciò avviene, la pagina compie un altro movimento, questa volta non di discesa dall’alto geografico al basso topografico, ma dalla profondità alla lateralità: a questo punto l’ottica si ribalta, i monti vengono visti di profilo, come se finalmente li guardasse un essere umano: La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contìgui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega; talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Ora, raggiunta una scala umana, il lettore può distinguere i torrenti, i pendii e i valloncelli, sino all’arredamento minimo delle strade e dei viottoli, ghiaia e ciottoli descritti come se fossero “camminati”, con suggestioni non solo visive, ora, ma anche tattili. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendio lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa... E qui Manzoni compie un’altra scelta: dalla geografia passa alla storia, inizia a narrare la storia del luogo or ora descritto geograficamente. Dopo la storia verrà la cronaca, e finalmente incontriamo per uno di quei viottoli don Abbondio che si avvia al fatale incontro coi bravi. Manzoni inizia a descrivere assumendo il punto di vista di Dio, il grande Geografo, e a poco a poco assume il punto di vista dell’uomo, che abita dentro il paesaggio. Ma il fatto che abbandoni il punto di vista di Dio non ci deve ingannare. Alla fine del romanzo – se non durante – il lettore dovrebbe rendersi conto che egli ci sta narrando una storia che non è solo la storia di uomini, ma la storia della Provvidenza Divina, che dirige, corregge, salva, e risolve. L’inizio dei Promessi sposi non è un esercizio di descrizione paesaggistica: è un modo di preparare subito il lettore a leggere un libro il cui principale protagonista è qualcuno che guarda dall’alto le cose del mondo. Ho detto che potremmo leggere questa pagina guardando prima una carta geografica e poi una carta topografica. Ma non è necessario: se si legge bene ci si rende conto che Manzoni sta disegnando la carta, sta mettendo in scena uno spazio. Guardando al mondo con gli occhi del suo creatore, Manzoni gli fa concorrenza: sta costruendo il suo mondo narrativo, prendendo a prestito aspetti del mondo reale. da Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano, 1994

T12 La “notte degli imbrogli”, trionfo del registro umoristico da I promessi sposi, VIII

Manzoni mostra per tutto il romanzo una notevole vena umoristica. Oltre al celeberrimo passo del tentato matrimonio a sorpresa, qui riportato, tale registro prevale anche nell’incontro tra Renzo e l’avvocato Azzeccagarbugli, nelle peripezie di Renzo coinvolto nei disordini a Milano, nella descrizione del dotto don Ferrante e di donna Prassede, e soprattutto nelle vicende di don Abbondio, il personaggio più umoristico del romanzo. Renzo ha saputo che don Rodrigo ha scommesso con il cugino Attilio di avere Lucia e per questo ha ordinato al parroco di non celebrare il suo matrimonio. Falliti i tentativi di ottenere giustizia, il promesso sposo coinvolge la riluttante Lucia a tentare un matrimonio di fatto: formalmente due fidanzati diventano marito e moglie se pronunciano le formule di rito alla presenza di un sacerdote e di due testimoni. Per questo Renzo, all’osteria, ha concertato con l’amico Tonio e con suo fratello Gervaso – i testimoni – di entrare con Lucia in casa di don Abbondio, che dopo l’incontro con i bravi vi si è barricato fingendosi malato, e pronunciare le formule rituali del matrimonio. Per farsi aprire, Tonio dirà all’avaro curato che intende saldare un vecchio debito. La scena riportata si svolge all’interno della casa del parroco, dopo che Tonio ha bussato alla porta e si è presentato alla domestica del curato, Perpetua. PISTE DI LETTURA • L’ingegno del giovane Renzo • La riluttanza della promessa sposa • Il registro umoristico

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La domanda su Carneade divenuta un modo di dire

Tonio viene introdotto per saldare un debito

Agnese distrae Perpetua perché lasci la porta aperta

– Carneade1! Chi era costui? – ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata2. – Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui? – Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo! Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico3 in onore di san Carlo, detto con molta enfasi4, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima5. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato6. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio. “A quest’ora?” disse anche don Abbondio, com’era naturale. “Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo...” “Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire... Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?” “Diavolo!” rispose Perpetua, e scese; aprì l’uscio, e disse: “dove siete?” Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese, e salutò Perpetua per nome. “Buona sera, Agnese,” disse Perpetua: “di dove si viene, a quest’ora?” “Vengo da...” e nominò un paesetto vicino. “E se sapeste...” continuò: “mi son fermata di più, appunto in grazia vostra.” “Oh perché?” domandò Perpetua; e voltandosi a’ due fratelli, “entrate,” disse, “che vengo anch’io.” “Perché,” rispose Agnese, “una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare... credereste? s’ostinava a dire che voi non vi siete maritata con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna7, perché non v’hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l’uno e l’altro...” “Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?” “Non me lo domandate, che non mi piace metter male.” “Me lo direte, me l’avete a dire: oh la bugiarda!” “Basta... ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei8.” “Guardate se si può inventare, a questo modo!” esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: “in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere... Ehi, Tonio! accostate l’uscio, e salite pure, che vengo.”

1. Carneade: antico filosofo greco del III secolo a.C., seguace dello scetticismo e abile oratore. 2. l’imbasciata: l’ambasciata, ossia la richiesta di Tonio – che si è accordato segretamente con i promessi sposi per il “matrimonio di sorpresa” – di entrare nella casa di don Abbondio in piena notte, per saldare un debito contratto con il curato. 3. panegirico: discorso celebrativo, d’elogio. 4. enfasi: accentuazione, tono di lode esagerato. 5. udito... prima: don Abbondio sta leggendo un discorso elogiativo di san Carlo Borromeo che aveva sentito due anni prima nel duomo di Milano, trascritto in un libriccino, nel quale il santo veniva paragonato al filosofo greco per le sue qualità oratorie. Manzoni allude quasi allo scritto di un sacerdote, Vincenzo Tasca, che ha trovato nelle sue ricerche storiche d’archivio: il panegirico è esempio dello stile delle opere religiose del Seicento, e l’autore lo presenta in tono

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ironico per dimostrarne il cattivo gusto. 6. arrenato: arenato; don Abbondio cioè s’è arrestato, come un vascello in una secca, a chiedersi chi fosse Carneade, poiché non conosce l’autore. Nel Seicento, le lodi si basano frequentemente su un esagerato sfoggio di erudizione: un personaggio minore che apparirà nel romanzo come emblema di questa cultura (che Manzoni disprezza e deride) è don Ferrante. 7. Beppe Suolavecchia... Anselmo Lunghigna: Agnese, madre di Lucia e complice del piano ideato da Renzo, per distrarre Perpetua, usa l’espediente del pettegolezzo sulle sue mancate nozze, irresistibile per la vecchia domestica del curato. I due cognomi sono quasi soprannomi (“scarpa vecchia”, “pigrone”), come si usava nei paesi lombardi tra povera gente. Da tali soprannomi sarebbero poi derivati molti cognomi odierni. 8. per confonder colei: per controbattere quella pettegola.

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Renzo e Lucia entrano in casa

La descrizione di don Abbondio

Tonio consegna i soldi al curato e chiede una ricevuta

Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata. In faccia all’uscio di don Abbondio, s’apriva, tra due casipole9, una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s’avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand’ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt’e due, in punta di piedi vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entrarono nell’andito, dov’erano i due fratelli ad aspettarli10. Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s’avvicinarono all’uscio della stanza, ch’era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro. “Deo gratias11,” disse Tonio, a voce chiara. “Tonio, eh? Entrate,” rispose la voce di dentro. Il chiamato apri l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l’uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia. Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra con in capo una vecchia papalina12, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna. “Ah! ah!” fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo. “Dirà il signor curato, che son venuto tardi,” disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso. “Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?” “Oh! mi dispiace.” “L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere... Ma perché vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo?” “Così per compagnia, signor curato.” “Basta, vediamo.” “Son venticinque berlinghe13 nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo,” disse Tonio, levandosi un involtino di tasca. “Vediamo,” replicò don Abbondio e, preso l’involtino, si rimesse14 gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto. “Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla15.”

9. casipole: piccole case. 10. entrarono... aspettarli: Renzo e Lucia, al segnale convenuto rappresentato dal colpo di tosse di Agnese, entrano nell’atrio della casa di don Abbondio dove i due fratelli, Tonio e Gervaso, si sono fermati ad aspettarli. Per la validità del matrimonio, i testimoni dovevano infatti essere due, e il furbo Tonio ha portato con sé il fratello Gervaso, un tranquillo ritardato mentale, benvoluto da tutti in paese. 11. Deo gratias: rendiamo grazie a Dio, saluto religioso latino allora usato comunemente. 12. ravvolto... papalina: don Abbondio è avvolto in una vecchia giacca da camera e ha in testa un vecchio berretto da notte (papalina), com’era l’uso in quei tempi. Da notare la triplice ripetizione dell’attributo “vecchio” e la successiva

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similitudine che paragona capelli, sopraccigli, baffi e pizzo del curato, folti e bianchi, con cespugli montani coperti di neve. 13. berlinghe: denaro del tempo. Su una faccia era inciso sant’Ambrogio. Tonio riporta il saldo di un debito: si spiega così il motivo per cui il diffidente ma avaro don Abbondio – che si era finto malato per non celebrare il matrimonio – ha permesso a Perpetua di lasciarlo entrare in casa. 14. rimesse: rimise. 15. la collana della mia Tecla: don Abbondio, a fronte del prestito delle venticinque berlinghe, aveva in pegno la collana della moglie di Tonio. Tecla è nome di eroine romantiche e qui Manzoni se ne prende gioco affibbiandolo a una contadina brianzola.

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Di nascosto, Renzo e Lucia entrano nella stanza

Renzo pronuncia la formula

Don Abbondio impedisce a Lucia di parlare

“È giusto,” rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: “va bene?” “Ora,” disse Tonio, “si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco16.” “Anche questa!” disse don Abbondio: “le sanno tutte! Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?” “Come, signor curato! s’io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito... dunque, giacché ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così... dalla vita alla morte17...” “Bene, bene,” interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta del tavolino, levò fuori carta penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando, co’ piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch’erano fuori, d’entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate18. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de’ quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: “ora, sarete contento?” e, levatesi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena, apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: “signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie”. Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino19, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: “e questo...” che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna20: “Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!” Il lucignolo21, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno22. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l’uscio che metteva a

16. un po’ di nero sul bianco: cioè inchiostro su carta, per la ricevuta. L’astuto Tonio vuole disporre di un documento che attesti l’avvenuto pagamento del debito, perché sa che cosa sta per accadere. Le venticinque berlinghe da restituire gli sono state offerte da Renzo, come compenso per la complicità di Tonio. 17. dalla vita alla morte: espressione lombarda per giustificare la richiesta di una ricevuta; essa significa che, qualora sopravvenisse improvvisamente la morte di un debitore o di un creditore, si è in regola. 18. pedate: passi. I due fratelli strusciano i piedi per mascherare il rumore dell’entrata nella stanza di Renzo e Lucia. Durante l’episodio, si notino le profonde diversità fra i sentimenti provati dai due promessi sposi (Lucia ha accettato di partecipare all’impresa solo perché Renzo minac-

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ciava, altrimenti, di aggredire don Rodrigo). 19. alzata... tavolino: don Abbondio, alla vista dei promessi sposi, alza con la sinistra il lume, afferra con la destra la tovaglia del tavolino e si avventa su Lucia. La rapida successione dei sette verbi, che si susseguono per asindeto, da vide confusamente a prese una risoluzione, esprime con mirabile efficacia la capacità del curato di pensare e agire fulmineamente – nei confronti dei deboli – quando si trova in pericolo. 20. quanto n’aveva in canna: con tutto il fiato che aveva in gola. 21. lucignolo: la fiammella del lume. 22. una statua... panno: similitudine. Lucia, immobilizzata dal terrore, sembra una statua di creta su cui l’artista ha gettato un panno umido per continuare a lavorarla in seguito. L’umorismo è il tratto dominante dell’episodio.

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una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: “Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa!” Nell’altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e reman- 135 do con le mani, come se facesse a mosca cieca23, era arrivato all’uscio, e picchiaNel buio tutti va, gridando: “apra, apra; non faccia schiamazzo.” Lucia chiamava Renzo, con si agitano voce fioca, e diceva, pregando: “andiamo, andiamo, per l’amor di Dio”. Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta24. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di 140 scala, per uscire a salvamento.

Il curato si barrica in un’altra stanza

da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954 23. facesse a mosca cieca: come se giocasse a mosca cieca (gioco in cui la persona bendata deve acchiappare qualcuno).

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24. raccapezzare la sua ricevuta: trovare e raccogliere da terra, nel buio, la ricevuta che don Abbondio ha scritto.

inee di analisi testuale Una commedia buffa al chiaro di luna Il passo del tentato matrimonio a sorpresa, come afferma Tommaso Di Salvo, è il più movimentato e anche il più comico del romanzo. Esso è compreso tra due descrizioni di atmosfere tranquille, l’una all’interno della camera di don Abbondio, che sembra concedersi un po’ di lettura quasi per una più rapida conciliazione del sonno, l’altra all’aperto (era il più bel chiaro di luna), sotto un cielo che incombe, tranquillo, sugli affanni degli uomini. Il sipario della commedia buffa si apre su don Abbondio, intento a leggere una lode di gusto seicentesco di Carlo Borromeo, la quale paragona – e già l’annotazione è comica – il santo campione della fede a Carneade, filosofo scettico, noto per il fatto di non credere in alcuna verità. Scatta poi l’astuta trappola di Tonio e Agnese: il primo sa che il parroco è così avaro che gli aprirà, nonostante la paura, per riavere il denaro prestato; la seconda conosce gli argomenti di discussione cui Perpetua non può sottrarsi, e la trascina via parlandole di Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna. Il cambiamento di ritmo della scena Quando scoppia il parapiglia, alla comparsa dei due promessi sposi, nel curato l’innata pigrizia lascia il posto a una fulminea capacità d’azione. La scena prende un ritmo rapido e, fallito il matrimonio con la fuga del prete, ognuno dei quattro partecipanti alla spedizione si disperde in azioni scoordinate: Renzo vuole snidare il curato, Lucia vuole andarsene via, Tonio cerca la sua ricevuta e Gervaso salta nel buio come uno spiritato. Il finale Il seguito continua secondo il registro umoristico: i bravi, che proprio nello stesso momento erano stati incaricati da don Rodrigo di andare a rapire Lucia, sentendo la campana suonare l’allarme crederanno che riguardi loro e si daranno alla fuga. Gli abitanti del paese forniranno le interpretazioni più fantasiose dell’accaduto, scatenando una caccia a non si sa bene chi, concludendo – come nella tradizione teatrale comica – una scena iniziata lentamente, al chiaro di luna, in un pandemonio in cui tutti si muovono con rapidità vertiginosa.

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Comprensione 1. Riassumi il brano in non più di 20 righe. 2. Elenca i personaggi che compaiono nel brano e indica i loro diversi caratteri. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il registro del brano e per quali aspetti esso si caratterizza? b. Tonio e Gervaso hanno una funzione fondamentale nell’accentuare il carattere umoristico dell’episodio: qual è il ruolo di ognuno dei due fratelli? Approfondimenti 4. In uno scritto di circa una facciata di foglio protocollo, fai riferimento a uno o più passi letterari di registro umoristico che ti hanno divertito e presenta – in una relazione adeguatamente intitolata – le tecniche utilizzate per ottenere l’effetto comico, confrontandole con quelle della scena narrata da Manzoni nel suo romanzo.

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T13 L’Addio, monti: il culmine del registro lirico da I promessi sposi, VIII

Il registro lirico, che Manzoni mostra di padroneggiare magistralmente, trova una delle sue più alte espressioni in questo brano, conosciuto come l’Addio, monti. Si tratta dell’accorato saluto che Lucia rivolge silenziosamente dalla barca che la porta, con Renzo e sua madre, verso l’opposta sponda dell’Adda, per fuggire dal paesello non più sicuro per loro, dopo il tentativo di rapimento da parte dei bravi di don Rodrigo. Il romanzo riserverà altri momenti d’intensa commozione, come la forzata monacazione di Gertrude, la detenzione di Lucia nel castello dell’Innominato, il dolore della madre di Cecilia, morta di peste, il ricongiungimento di Renzo e Lucia nel lazzaretto di Milano. PISTE DI LETTURA • Il paesaggio e lo stato d’animo dei personaggi • Il monologo interiore di Lucia • Tono patetico Il barcaiolo, puntando un remo alla proda1, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo2. S’udiva soltanto il fiotto3 morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile4 del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto5. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò un braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Il monologo Addio6, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è interiore cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ d’addio suoi più familiari7; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti8; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso9. Quanto più s’avanza nel

La descrizione del lago di notte

1. proda: riva. È giunto il barcaiolo che, secondo il piano di fuga preparato da fra Cristoforo, deve traghettare Renzo, Lucia e Agnese al luogo dove, tramite un baroccio a cavalli, le due donne saranno trasportate al monastero della Signora di Monza e Renzo a un convento di Milano. 2. Non tirava... cielo: tipicamente romantico è il parallelismo tra la serenità del lago calmo e del cielo e i sentimenti nostalgici dei protagonisti dell’addio. 3. il fiotto: l’onda lacustre. 4. le pile: i piloni di sostegno del ponte. 5. il palazzotto... delitto: la similitudine paragona il castello

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di don Rodrigo a un malfattore che veglia per progettare un crimine. 6. Addio: l’autore dà voce, in prima persona, al pensiero di Lucia, senza specificare l’avvenuto cambio di narratore. 7. de’ suoi più familiari: di coloro che meglio conosce. 8. ville... pascenti: un’altra similitudine paragona le case sul pendìo alle pecore al pascolo. 9. Alla fantasia... dovizioso: nel pensiero di chi se ne va di sua volontà, spinto dalla speranza di fare fortuna altrove, si affievoliscono i sogni di ricchezza, si meraviglia di essersi deciso e tornerebbe indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà ricco.

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La paura del futuro

La casa natia e quella degli sposi

La speranza in Dio

piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme10; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero11, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa!12 Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno!13 Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto14, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa15. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito16; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande17. Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca si andava avvicinando alla riva destra dell’Adda.

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da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954 10. Quanto più... uniforme: quanto più l’emigrante avanza nella pianura, guarda infelice e stanco la sua ampiezza uniforme. 11. edifizi ammirati dallo straniero: i palazzi cittadini, i monumenti visitati dagli stranieri. 12. Ma chi... perversa!: ma quale sofferenza per chi non ha mai spinto al di là del suo paese neanche un fuggevole desiderio, chi ha fatto nel suo paese tutti i progetti del suo futuro, e ne viene cacciato lontano, da una forza malvagia. 13. Chi... ritorno!: ma soffre ancora di più chi lascia i suoi monti, per avviarsi sulle tracce di luoghi sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può prevedere il possibile ritorno.

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14. pensiero occulto: un pensiero segreto, mai rivelato. 15. casa... sposa: la casa ancora sconosciuta, guardata tante volte di sfuggita, arrossendo per il desiderio ancora non benedetto dal matrimonio, casa in cui la mente di Lucia immaginava una vita quotidiana serena come sposa. 16. un rito: il sospirato matrimonio. 17. Chi... grande: il narratore interviene nel passo, che Luigi Russo ha definito corale, per rivolgere l’augurio finale ai suoi personaggi. Dio, colui che dava loro tanta serenità è però dappertutto, e non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più sicura e maggiore. Il breve passo è fondamentale per comprendere la concezione religiosa manzoniana e rinvia direttamente al sugo di tutta la storia che conclude il romanzo.

inee di analisi testuale Una pagina lirica in stile romantico L’Addio, monti è una commossa pagina lirica, in stile romantico, dove il racconto lascia spazio alla contemplazione soggettiva e nostalgica del paesaggio. Il punto di vista varia diverse volte: dapprima è quello del narratore, che fa proprio lo stato d’animo di rimpianto, ma anche di paura (il palazzotto di don Rodrigo...) dei protagonisti. Il verbo rabbrividì, che traduce tale paura, è l’elemento su cui gioca l’autore per soffermarsi poi su Lucia. I suoi pensieri e i suoi sentimenti vengono in seguito espressi direttamente, senza che il mutamento di punto di vista sia annunciato (Addio, monti sorgenti... Addio, casa natìa...). Solo alla fine del brano, il narratore riprende la parola (Di tal genere... erano i pensieri di Lucia). Il sentimento religioso I pensieri di Lucia manifestano un intreccio fra sentimento, ragione e fede, tipicamente manzoniano: sono inquadrati i pendii delle montagne, il paesello, la casa, il cortile con l’albero del fico, fino alla cameretta della ragazza, il tutto sottolineato dalle anafore: Addio, monti… Addio, casa natìa… Addio casa ancora straniera… Addio, chiesa… La razionalità e soprattutto la fede sorreggono l’espressione conclusiva del narratore, che riprende il filo conduttore del romanzo riferendosi alla bontà di Dio che non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. Tale espressione rinvia direttamente al sugo didascalico espresso nelle ultime righe del romanzo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano dell’addio di Lucia ai suoi monti in non più di 10 righe. Analisi e interpretazione 2. Analizza le caratteristiche del passo per quanto riguarda i seguenti aspetti: a. la voce del narratore; b. i personaggi; c. l’ambientazione; d. i temi; e. lo stile e il linguaggio. 3. Sottolinea quali sono i cambiamenti della voce narrante nel brano proposto e dove si situano. 4. Quali elementi tipicamente romantici sono presenti nel brano? Approfondimenti 5. Il passo dimostra con chiarezza che il narratore del romanzo può essere definito onnisciente. Per quale ragione, soprattutto? 6. Il critico Vittorio Spinazzola in Il libro per tutti. Saggio sui “Promessi Sposi” (Editori Riuniti, Roma, 1983) scrive: Il mondo si è allontanato da Dio: I Promessi Sposi vuol contribuire, coi mezzi delle lettere, a ricristianizzarlo, rivolgendosi soprattutto a tutti coloro che sanno di non poter non dirsi cristiani, in quanto custodiscono dentro di sé, per quanto debole e obliterata, la fiamma di fede accesa dall’insegnamento evangelico. Sulla base della conoscenza di Alessandro Manzoni e del suo romanzo, oltre che dei passi dell’opera finora letti, di quali mezzi letterari pensi che lo scrittore lombardo si serva per realizzare tale scopo?

Un confronto fra I promessi sposi e il Fermo e Lucia Di seguito presentiamo parte della storia della monaca di Monza nell’edizione definitiva dei Promessi sposi e nella versione iniziale del Fermo e Lucia.

T14 La monaca di Monza: il dramma psicologico da I promessi sposi, X

Il personaggio della monaca di Monza è ispirato a Marianna de Leyva e alla sua tragica vicenda realmente accaduta: nella versione definitiva del romanzo si chiama Gertrude. Di nobile famiglia, è costretta a entrare in convento pur non avendo vocazione e, incapace di rassegnarsi, finisce per diventare l’amante dello scellerato Egidio e rendersi complice dell’omicidio di una conversa del monastero, che aveva scoperto il colpevole rapporto. Nel romanzo, quando Lucia giunge a rifugiarsi nel convento, Gertrude è già tormentata dalle sue colpe, cui aggiungerà quella di far rapire la giovane dall’Innominato, tramite Egidio, su richiesta di don Rodrigo. Mentre nella versione definitiva l’episodio occupa uno spazio limitato e si basa su una profonda analisi psicologica del personaggio e dei suoi famigliari, nel Fermo e Lucia occupava ben sei capitoli, narrando dettagliatamente la passione amorosa dei due personaggi, l’assassinio della novizia, molte situazioni scabrose e atmosfere da incubo, quasi come in una narrazione “gotica”. PISTE DI LETTURA • La denuncia e la condanna della malvagità • Il riserbo e il pudore nei confronti del male • Tono drammatico

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Egidio e la monaca

La tresca amorosa sembra calmare Gertrude

La minaccia della conversa La suora scompare: si pensa a una fuga dal convento

Invece la conversa era stata sepolta

Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno1, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose2. In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vòto uggioso3 dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt’a un tratto, più regolare, più tranquilla, smesse4 gli scherni e il brontolìo, si mostrò anzi carezzevole e manierosa, dimodoché le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice; lontane com’erano dall’immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all’antiche magagne5. Quell’apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò gran tempo, almeno con quella continuità e uguaglianza: ben presto tornarono in campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l’imprecazioni e gli scherni contro la prigione claustrale6, e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio tutti questi alti e bassi, e gli attribuivano all’indole bisbetica e leggiera della signora. Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole con una conversa7, per non so che pettegolezzo, si lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e che, a tempo e luogo, avrebbe parlato8. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina, a’ suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira, dalla cima al fondo; non c’è in nessun luogo9. E chi sa quali congetture si sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel muro dell’orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata10 di là. Si fecero gran ricerche in Monza e ne’ contorni, e principalmente a Meda, di dov’era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n’ebbe mai la più piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino11. Dopo molte maraviglie, perché nessuno l’avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva essere andata lontano, lontano.

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da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954

1. fino a un certo segno: entro certi limiti. 2. La sventurata rispose: queste tre pietose parole, nella versione definitiva, sostituiscono le numerose pagine dedicate alla vicenda nel Fermo e Lucia. 3. vòto uggioso: vuoto tormentoso. 4. smesse: smise. 5. magagne: difetti. 6. prigione claustrale: il convento, vissuto da Gertrude come una prigione.

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7. conversa: giovane suora. 8. buttò... parlato: minacciò di rivelare il rapporto fra la monaca ed Egidio. Tutta la narrazione è però pudicamente reticente e velata. 9. non c’è... luogo: all’assassinio della conversa il Fermo e Lucia dedicava ampio spazio. 10. fosse sfrattata: se ne fosse andata. 11. se... vicino: la vittima era stata sepolta nel convento; anche questo atroce dettaglio viene sottaciuto dal narratore.

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inee di analisi testuale L’evoluzione di Manzoni dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi L’episodio della monaca di Monza mostra in modo esemplare il cambiamento intervenuto nell’autore fra la stesura del Fermo e Lucia e la definitiva pubblicazione dei Promessi sposi. Alcuni critici ritengono che l’insistenza su particolari scabrosi e da romanzo “gotico” o “nero” nella prima versione dell’opera dipenda da un indulgere, da parte dell’autore, in temi e modalità espressive in grado di attrarre il pubblico. Tale ipotesi sembra ad altri improbabile, se si tiene conto che il maggiore rigorismo religioso si ritrova negli scritti manzoniani degli anni Venti e non in quelli degli anni Quaranta dell’Ottocento. Più probabile è ritenere che la riflessione sul personaggio di Gertrude abbia indotto l’autore a interpretare la pur gravissima colpa da lei commessa come una errata reazione a una dolorosa ingiustizia subita. Nell’edizione definitiva, infatti, tutte le pagine dedicate ai disperati tentativi di Gertrude di sottrarsi al destino deciso per lei dalla famiglia fin dalla più tenera età sono narrate con commossa e partecipe pietà. L’analisi psicologica La diffusa reazione psicologica che talora induce chi subisce un torto a reagire commettendo altri torti e a credere di “vendicarsi” compiendo gesti scandalosi e inaccettabili, è descritta da Manzoni con abilità magistrale e intensa commozione. In un passaggio non riportato, il narratore suggerisce, a chi si trova nelle condizioni di Gertrude, di rassegnarsi e affidarsi alla fede cristiana, che sa trasformare i dolori in gioie, in questa o nell’altra vita. Il cristianesimo di Manzoni, col trascorrere degli anni – e con i lutti e i dolori che egli ha vissuto – è diventato ormai così aperto e problematico da impedirgli di assumere il ruolo del giudice severo nei confronti di una peccatrice che peraltro, nella realtà storica, infine si pentirà e sarà perdonata. Gertrude diventa perciò la sventurata, come don Rodrigo, nel suo letto di agonia, sarà chiamato l’infelice. Manzoni fa proprio, in ciò, l’insegnamento evangelico.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi in 20 righe il brano proposto. 2. Spiega come si modifica il comportamento esteriore di Gertrude dopo l’inizio della sua relazione con Egidio. Analisi e interpretazione 3. Quali principali caratteristiche psicologiche di Gertrude emergono e in quali passi del testo? 4. Il personaggio scellerato di Egidio, al contrario di Gertrude, non è mai oggetto di pietà e simpatia da parte del narratore. Perché? Per rispondere, rifletti anche sul motivo che lo spinge a insidiare la monaca. Approfondimenti 5. Dopo aver letto il libero adattamento di uno stralcio della cronaca del processo a Marianna de Leyva (ovvero suor Virginia de Leyva, il personaggio che nel romanzo l’autore denomina Gertrude), evidenzia gli aspetti dell’avvenimento messi in rilievo e quelli pudicamente sottaciuti da Manzoni. Il brano è tratto dalla deposizione processuale del 22 dicembre 1607, fatta dalla stessa suor Virginia de Leyva. [La conversa Caterina] mi rispose superbamente: “Non voglio più udire le vostre ciance, ma voglio essere la rovina vostra e del vostro moroso e voi domattina verrete qui in questo loco dove sono io”. Allora esso Don Osio, trascinato dalla collera, le diede con un coso sul capo due o tre volte così che essa morì senza neppur dire una parola. [...] Il corpo morto della conversa fu portato dall’Osio, da Suor Ottavia e Benedetta, nel pollaio delle galline, perché essa Suor Ottavia aveva la chiave. Fu posto nel cantone sinistro del pollaio e gli fu posto contro, a quanto mi dissero, alcuni legni ed altre cose, acciò non fosse ritrovato. Anzi in effetti fu ricercata il giorno seguente nel detto loco e non fu trovata, sì che le monache credettero che fosse fuggita con Gian Paolo amante, e che la donna si fosse portata nel pertuso. Esso Gian Paolo, con una spada inargentata, ruppe il muro d’un’altra stanza attigua a quella della Cassina. Nella cappa del camino egli fece un buco attraverso il muro, che era di una pietra sola e rovinato anco dal fuoco, acciò apparisse che essa Cassina fosse fuggita per quel buco. Per quanto di poi lui disse il detto buco era venuto a modo. La notte seguente venne Don Gian Paolo Osio nel Monastero. Aiutato anche da Suor Ottavia, Benedetta, Silvia e Candida, depose detto corpo in un sacco e lo portò sino alla porta del Monastero. Infine, lasciando il corpo a lui solo ed a Suor Benedetta, loro due lo portarono in casa sua, di detto Osio. Non so poi quello che ne fosse fatto. da Vita e processo di Suor Virginia Maria de Leyva monaca di Monza, Garzanti, Milano, 1985

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T15 La prima stesura della vicenda della monaca di Monza da Fermo e Lucia, II, 2

Nei Promessi sposi, la terribile vicenda del rapporto fra Geltrude (Gertrude nell’edizione definitiva) ed Egidio, che conduce i due all’assassinio, è interamente cancellata, e allusa dalla reazione della monaca al saluto del malvivente: la sventurata rispose (cfr. pag. 700, riga 8); il seguito della vicenda, compreso l’omicidio, è narrato in poche righe e in modo velato. Nel Fermo e Lucia molte pagine sono invece riservate al racconto della relazione fra Geltrude ed Egidio e dell’uccisione della novizia che li ha scoperti. Manzoni indugia soprattutto nel descrivere gli stati d’animo di Geltrude, i suoi sentimenti e i pensieri; dedica molto spazio alla narrazione dell’omicidio e dell’occultamento del cadavere, riecheggiando da vicino gli stilemi del genere “nero” o “gotico”. Dichiara infine di aver esitato a trascrivere questi fatti dal manoscritto, per alcune perplessità dettate dal conformismo, ma che superiori ragioni morali hanno infine motivato la scelta di farlo (ci è sembrato che la cognizione del male quando ne produce l’orrore sia non solo innocua ma utile). PISTE DI LETTURA • Un lungo racconto che diventerà una frase sola nella versione definitiva del romanzo • Il gusto del “gotico” • L’accurata analisi dei pensieri e dei sentimenti di Geltrude

Il ritratto del padre di Geltrude

Il Padre della infelice di cui stiamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto1 di nemico giurato, e non di figlia sommessa e amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il rispar- 5 mio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della famiglia; ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso; giacché riguardava come il primo dovere del suo stato il conservarne l’opulenza, e lo splendore: erano questi, nelle sue idee, i talenti che gli erano sta- 10 ti dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione. Una figlia nata in tali circostanze, e destinata a dover salvare una tal capra e tali cavoli, era ben felice se si sentiva naturalmente inclinata a chiudersi in un chiostro, perché il chiostro non lo poteva fuggire.

[Il racconto prosegue narrando l’educazione della piccola Geltrude, tutta improntata alla monacazione, che da tutti i familiari della ragazza viene data per scontata. Il padre prende a pretesto un biglietto inviato a un paggio per ricattare Geltrude, che viene condotta, controvoglia e sempre più angosciata, a chiedere di prendere i voti nel monastero di Monza in cui era stata posta dai sei anni. Qui, irrequieta, rabbiosa e piena di fantasie di liberazione, ella diventa maestra delle educande.] Presentazione di Egidio

Il padrone della casa contigua al quartiere delle educande, era dunque un giova- 15 ne scellerato: e si chiamava il signor Egidio: perché di cognomi, come abbiam detto, l’autor nostro è molto sparagnatore2. Suo padre, uomo dovizioso bastantemente3 non aveva avuta altra mira nell’educarlo, che di renderlo somigliante a se stesso: ora egli era un solenne accattabrighe: Egidio non aveva quindi sentito dall’infanzia a parlar d’altro che di soddisfazioni e di fare stare, non aveva veduto qua- 20 si altro che schioppi e pugnali; e dalle braccia della nutrice era passato in quelle degli scherani4. La madre ch’era di un carattere mansueto e pio, avrebbe po-

1. un tratto: un atteggiamento. Il periodo presenta un anacoluto nella punteggiatura: invece della virgola, dopo la menzione della qualità (avaro, superbo, ignorante) del padre avrebbero dovuto esserci i due punti. 2. sparagnatore: avaro risparmiatore; si tratta di un set-

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tentrionalismo. 3. dovizioso bastantemente: abbastanza ricco. 4. scherani: bravi, mascalzoni armati. Il vocabolo è di origine gotica.

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tuto forse temperare in parte questa educazione, ma ella era morta lasciando Egidio nella infanzia, dopo una lenta malattia cagionata5 dai continui spaventi. Il padre fu ucciso dopo una brevissima quistione da un suo emolo6 membro di una 25 famiglia emola della sua da generazioni; ed Egidio restò solo e padrone nella giovinezza. La prima sua impresa fu di risarcire l’onore della famiglia, con una schioppettata nelle spalle dell’uccisore di suo padre. [Dopo questa impresa, Egidio si circonda di bravi e coltiva amicizie malfamate. La sua occupazione principale è, però, amoreggiare. La casa confina con il convento delle monache ed ha una finestrella, un abbaino, che si affaccia sul cortiletto del chiostro: Egidio lo scopre con grande piacere.]

Le mire di Egidio sull’educanda e poi sulla monaca

Un consorzio di donzellette, le quali non eran tutte bambine, parve a colui uno spettacolo da non trasandarsi7 quando lo aveva così a portata; e la santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute, l’innocenza loro, tutto ciò che avrebbe dovuto essere freno, fu incentivo alla sua sfacciata curiosità, la quale non aveva disegni già determinati, ma era pronta a cogliere e a far nascere tutte le occasioni. Si affacciava egli dunque all’abbaìno con quella frequenza e con quella libertà, che non bastasse a farlo scoprire da chi non avrebbe voluto. Nelle ore in cui Geltrude non faceva guardia alle educande, e queste ore tornavano sovente, gettò egli gli occhi sopra una delle più adulte, e trovato il terreno dolce, si diede a chiaccherellare con essa: ma pochi giorni trascorsero, che quella, fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu tolta dal monastero, e così la tresca finì senza che nessuno l’avesse avvertita. Egidio animato da quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà del secondo pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i disegni sopra la Signora; e si diede ad agguatarla8. Un giorno mentre le educande erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le due suore addette ai servigj della Signora, passeggiava essa sola innanzi e indietro nel cortiletto lontana le mille miglia da ogni sospetto d’insidie, come il pettirosso sbadato saltella di ramo in ramo senza pure immaginarsi che in quella macchia vi sia dei panioni9, e nascosto dietro a quella il cacciatore che gli ha disposti. Tutt’ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore10 di voce non articolata la quale voleva farsi e non farsi intendere, e macchinalmente levò la faccia verso quella parte; e mentre andava errando con l’occhio per quegli alti e bassi, quasi cercando il punto preciso donde il romore era partito, un secondo romore simile al primo, e che manifestamente le apparve una chiamata misteriosa e cauta, le colpì l’orecchio, e la fece avvertire il punto ch’ella cercava. Guardò ella allora più fissamente per conoscere che fosse11; e i cenni che vide non le lasciarono dubbio sulla intenzione di quella chiamata. Bisogna qui render giustizia a quella infelice: qual che fosse fin’allora stata la licenza12 dei suoi pensieri, il sentimento ch’ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte: chinò tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse come a rifuggirsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino, e dove per conseguenza ella era riparata dall’occhio temerario di quello: quivi tirando lunghesso13 il muro, rannicchiata e ristretta come se fosse inseguita, si avviò all’angolo dov’era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi salse14, e vi si chiuse, quasi per porsi in sicuro. Posta a sedere tutta ansante, fu assalita da una folla di pensieri: cominciò

5. cagionata: causata. 6. emolo: rivale. 7. Un consorzio... trasandarsi: un gruppo di giovanette sembrò a Egidio uno spettacolo da non trascurare. Trasandare, usato in tale senso, è un settentrionalismo. 8. si diede ad agguatarla: cominciò ad adocchiarla. Agguatarla, dal franco guaita (guardia), è uno dei numerosi francesismi – qui di carattere arcaico – presenti nel Fermo e Lucia. 9. panioni: trappole per uccellini. Similitudine tra la donna irretita e la caccia agli uccelli. 10. romore: rumore.

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11. per conoscere che fosse: per scoprire di che cosa si trattasse. 12. la licenza: la licenziosità, la libertà delle fantasie colpevoli che Geltrude coltivava. 13. quivi tirando lunghesso: da qui, camminando lungo il muro. Tirare per “camminare” è uno dei numerosi lombardismi del romanzo: si ricordi il celebre dialettale Tiremm innanz (“Andiamo avanti”) rivolto ai gendarmi dal patriota milanese Amatore Sciesa, fucilato dagli Austriaci nel 1851. Lunghesso è un arcaismo. 14. vi salse: vi salì. Il costrutto è mutuato dal linguaggio poetico.

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I sentimenti di Geltrude nell’occasione dell’adescamento

prima di tutto a ripensare se mai ella avesse dato ansa15 in alcun modo alla arditezza di colui, e trovatasi innocente, si rallegrò: quindi detestando ancora sin- 65 ceramente ciò che aveva veduto, se lo andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione per venire più chiaramente a comprendere come, perché ciò fosse avvenuto. Forse era equivoco? forse l’aveva egli presa in iscambio16? Forse aveva voluto accennare qualche cosa d’indifferente? Ma più ella esaminava più le pareva di non avere errato alla prima17, e questo esame aumentando la sua cer- 70 tezza, la andava famigliarizzando con quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa. Cosa strana e trista! Il sentimento stesso della sua innocenza le dava una certa sicurtà18 a tornare su quelle immagini; ella compiaceva liberamente ad una curiosità di cui non conosceva ancora tutta l’estensione, e guardava senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua. 75 Finalmente dopo lunga pezza19 ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in uno, e desiderò di trovarsi con le sue educande, con le suore, di non esser sola.

[Geltrude raggiunge la stanza dove si trovano le educande e qui si affaccia a una finestra e scorge l’uomo che l’ha chiamata; la chiude di scatto e s’allontana, ma l’episodio continua a ripresentarsi nei suoi pensieri.] Geltrude cede a Egidio

L’assedio dello scellerato Egidio non si rallentò, e Geltrude cominciò a mettersi sovente nella occasione di mostrargli ch’ella disapprovava le sue istanze, quindi passando gradatamente dalle dimostrazioni della disapprovazione a quelle della non curanza, da questa alla tolleranza, finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in cuor suo, e con quei mezzi che lo scellerato aveva saputi trovare e additarle lo fece certo della sua infame vittoria. Cessato il combattimento, la sventurata provò per un istante una falsa gioja. Alla noja, alla svogliatezza, al rancore continuo, succedeva tutt’ad un tratto nel suo animo una occupazione forte, gradita, continua, una vita potente si trasfondeva nel vuoto dei suoi affetti; Geltrude ne fu come inebbriata; ma era la coppa ristorante che la crudeltà ingegnosa degli antichi porgeva al condannato per invigorirlo a sostenere il martirio. L’avvenire gli apparì come pieno e delizioso. Alcuni momenti della giornata spesi a quel modo, e il resto impiegato a pensare a quelli, ad aspettarli, a prepararli gli sembrò una esistenza beata, che non lascerebbe né cure, né desiderj; ma le consolazioni della mala coscienza, dice il manoscritto, profittano altrui come al figliuolo di famiglia le somme ch’egli tocca dall’usurajo20. L’accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio s’avanzavano di pari passo, e giunsero al punto che il muro divisorio non lo fu più che di nome.

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[Alla scuola di Egidio, le inclinazioni e i vizi di Geltrude rinascono, mentre il suo comportamento esteriore diventa apparentemente più calmo e dimesso per non destare sospetti.] Insieme a quelle cure cominciò senza avvedersene a trascurare anche le precauzioni che aveva da prima messe in opera per nascondere quello che tanto le importava di nascondere; e le trascurò tanto che ella s’accorse chiaramente un giorno che le due damigelle21 che le stavano più vicine avevano qualche 100 sospetto. Tutta atterrita ella comunicò la sua scoperta a colui che era il suo solo consigliere. [Il perfido Egidio, assimilato al biblico serpente tentatore, non è spaventato come Geltrude e le consiglia di rendere complici le due suore.]

15. se mai... dato ansa: se avesse dato adito. 16. l’aveva... in iscambio: l’aveva scambiata per qualcun’altra. 17. non avere... alla prima: non aver sbagliato sulla prima impressione. 18. sicurtà: sicurezza. Si tratta di un latinismo. 19. dopo lunga pezza: dopo molto tempo.

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20. le consolazioni... usurajo: le consolazioni della cattiva coscienza portano vantaggio come il denaro che l’usuraio dà al figlio di famiglia. Similitudine a sfondo didascalico e morale. 21. le due damigelle: le due giovani dame, ossia le due suore che le erano amiche.

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Le suore si accorgono della trama ma tacciono

Il litigio con la suora

L’assassinio

Con la direzione del serpente, ella trasfuse prudentemente a gradi a gradi nelle menti delle due suore il pervertimento, che era necessario per renderle sue complici, e consumò il proprio avvilimento nella loro colpa. Venuta in questo fondo22, la sventurata perdette con ogni dignità ogni ritegno, e agguerrita contra ogni pudore si trovò disposta ad agguerrirsi ad ogni attentato: e l’occasione non tardò a presentarsi. Una delle due suore addette alla Signora, quando cominciò ad avere qualche sospetto, lo confidò ad un’altra suora sua amica, facendosi promettere il segreto: promessa che le fu tenuta perché la Signora era troppo potente, e il segreto troppo pericoloso; e la voglia di ciarlare23 fu vinta dalla paura. Non era che un sospetto, e gli indizj eran deboli e potevano anche essere interpretati altrimenti; ma la curiosità della suora fu risvegliata, e non lasciava mai di tempestare quella che le aveva fatta la confidenza, per vederne, come si dice, l’acqua chiara. Quando però la suora che aveva ciarlato divenne complice, si studiò non solo di eludere le inchieste della curiosa, ma di disdirsi24, e di farle credere che il sospetto era ingiurioso e stolto, e ch’ella stessa si era pienamente disingannata. Ciò non ostante la curiosa ritenne sempre quel sospetto, e non lasciava sfuggire occasione di gettar gli occhi nel quartiere delle educande, e di origliare25, per venire a qualche certezza. Accadde un giorno che la Signora venuta a parole con costei la aspreggiò26, e la trattò con tali termini di villania, che la suora dimenticata ogni cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti27: ch’ella sapeva qualche cosa, e che a tempo e luogo l’avrebbe detto a cui si doveva. La Signora non ebbe più pace. Che orrenda consulta! le tre sciagurate, e il loro infernale consigliero deliberarono sul modo di imporre silenzio alla suora. Il modo fu pensato e proposto da lui con indifferenza, e acconsentito dalle altre con difficoltà, con resistenza, ma alla fine acconsentito. Geltrude fece più resistenza delle altre, protestò più volte che era pronta a tutto soffrire piuttosto che dar mano ad una tanta scelleratezza, ma finalmente vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e nello stesso tempo dal suo terrore, venne ad una transazione28 con la quale ella si sforzò di fingere a se stessa che sarebbe men rea29: pattuì ella dunque che non si sarebbe impacciata di nulla30, ed avrebbe lasciato fare. Presi gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al sangue l’animo di quella che fu scelta a versarlo31; costei si ravvicinò alla suora condannata e le parlò di nuovo di quegli antichi sospetti in modo da crescerle la curiosità. E la curiosità era stimolata in essa dal desiderio di vendicarsi della Signora; ma per farlo con sicurezza, aveva essa stessa bisogno di esser sicura. La traditrice, mostrando che non le convenisse di stare più a lungo assente dalla Signora per darle sospetto, lasciò la suora nel forte della curiosità, e nella speranza di scoprire qualche cosa; e come questa insisteva per trattenerla, le propose di venire la notte al quartiere, dove l’avrebbe potuta nascondere nella sua cella, e dirle il più, e forse renderla testimonio di qualche cosa. La meschina cadde nel laccio32. Venuta la notte ella si trovò nel corridojo, dove la suora omicida le venne incontro chetamente33, e la condusse nella sua cella: quivi, preso il pretesto dei servigj della Signora per partirsi, promettendo che tornerebbe tosto34; la fece na-

22. Venuta in questo fondo: precipitata in questo abisso. 23. ciarlare: chiacchierare, pettegolare. Vocabolo popolare, di origine onomatopeica. 24. di disdirsi: di ritrattare, dire il contrario. 25. origliare: ascoltare di nascosto. Si tratta di un francesismo. 26. la aspreggiò: la rimproverò aspramente, con parole villane. Si tratta di un arcaismo. 27. si lasciò sfuggire... dei denti: si lasciò scappare dalla bocca. L’espressione metaforica è decisamente “alta”, di origine neoclassica e rinvia alle traduzioni dei testi omerici, che usano spesso l’equivalente di tale espressione. La sua isolata presenza stona nel contesto linguistico e lessicale. 28. venne ad una transazione: arrivò a un compromesso.

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29. men rea: meno colpevole. 30. non si sarebbe... nulla: non si sarebbe occupata di nulla riguardo al piano omicida. 31. Presi... versarlo: presi gli orribili accordi e convinta da Egidio all’omicidio la suora che venne scelta per eseguirlo. La complice attira la vittima di notte nella sua cella promettendole nuove confidenze. 32. La meschina... nel laccio: la poveretta cadde nella trappola. Meschina è vocabolo etimologicamente di origine araba. 33. chetamente: silenziosamente. Si tratta di un latinismo adattato all’uso lombardo. 34. quivi... tosto: qui, preso per andarsene il pretesto che doveva fare dei servizi alla Signora, promettendo che sarebbe tornata subito.

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scondersi tra il letticciuolo e la mura, raccomandandole di non muoversi finch’ella non la chiamasse. Uscì quindi a render conto del fatto all’altra suora e allo scellerato che aspettava in un’altra stanza, e pigliato da Egidio l’orribile coraggio che le abbisognava35, entrò nella cella armata d’uno sgabello con la sua compagna. 150 Nella cella non v’era lume, ma quello che ardeva nella stanza vicina vi mandava per la porta aperta una dubbia luce. La scellerata parlando con la compagna, perché la nascosta non si muovesse, e parlando in modo da farle credere ch’ella cercava di rimandare la sua compagna come importuna, andò prima pianamente verso il luogo dove la infelice stavasi rannicchiata, quindi giuntale pres- 155 so le si avventò, e prima che quella potesse né difendersi né gettare un grido né quasi avvedersi, con un colpo la lasciò senza vita. [Egidio ordina alle suore di aiutarlo, si carica il cadavere in spalla e lo porta nelle sue case, seppellendolo in una cantina; torna poi a cercare Geltrude e si rifugiano tutti nella sua stanza (per non tradire il loro terrore decidono di dire in convento che Geltrude si è ammalata e che resteranno a curarla). Egidio, invece, va a praticare un buco nel muro di cinta del monastero.] La presunta fuga

Il mattino vegnente36 una suora mancò; si corse alla sua cella; non v’era; le monache si sparpagliarono a ricercarla; ed una che andava per frugare nell’orto, vide da lontano… – Possibile? un pertugio nel muro. – Chiamò le compagne a tutta 160 voce: si corse al pertugio; “è fuggita; è fuggita”. La badessa venne al romore: lo spavento fu grande; la cosa non poteva nascondersi; la badessa ordinò tosto che il pertugio fosse guardato dall’ortolano, che si mandasse per muratori37, onde chiuderlo, e che si spedisse gente per raggiungere la sfuggita. Il lettore sa che pur troppo ogni ricerca doveva riuscire inutile. L’occupazione che questo affare die- 165 de a tutte le monache fece che le tre, che erano la trista cagione di tutto38 fossero lasciate in pace, o per meglio dire, sole.

[Da quel giorno, Geltrude diventa ancora più angosciata: la suora è combattuta tra il rimorso, la malvagità e il terrore di essere scoperta; ormai da due anni vive in questa situazione quando incontra Lucia, rifugiatasi presso di lei.] Il commento del narratore

Siamo stati più volte in dubbio se non convenisse stralciare dalla nostra storia queste turpi ed atroci avventure; ma esaminando l’impressione che ce n’era rimasta, leggendola dal manoscritto, abbiamo trovato che era una impressione d’or- 170 rore; e ci è sembrato che la cognizione del male quando ne produce l’orrore sia non solo innocua ma utile. da Fermo e Lucia, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, vol II, tomo III, Mondadori, Milano, 1954

35. pigliato... abbisognava: preso da Egidio l’orribile coraggio di cui la suora aveva bisogno. 36. Il mattino vegnente: il mattino seguente. 37. si mandasse per muratori: si cercassero dei muratori per chiudere il buco nel muro di cinta. 38. erano... cagione di tutto: erano la malvagia ragione di tutto l’accaduto.

Mosè Bianchi, La monaca di Monza.

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inee di analisi testuale Le cupe vicende del Fermo e Lucia Il Fermo e Lucia si caratterizza per una presenza molto più ampia degli elementi tipici del romanzo “nero”. Manzoni narra più estesamente del soggiorno di Lucia presso il monastero della monaca di Monza e del suo rapimento da parte del Conte del Sagrato. Di quest’ultimo, Manzoni si sofferma a presentare la personalità e il soprannome, dovuto a una delle sue malefatte: l’uccisione sul sagrato di una chiesa di un benestante del luogo, colpevole di aver sollecitato un debitore che il Conte proteggeva. Anche del cardinale Federigo Borromeo Manzoni racconta la storia della vita, dall’infanzia all’educazione, alla carriera ecclesiastica, alle opere e all’apporto culturale dato al suo tempo. La monaca e la sua storia “nera” Alla infelice Geltrude (poi Gertrude), la monaca di Monza, Manzoni dedica molte pagine dense di effetti romanzeschi, come il dettagliato racconto della relazione con Egidio e dell’uccisione della suora che li ha scoperti. L’autore indugia soprattutto nel descrivere gli stati d’animo della donna, i suoi pensieri reconditi, i sentimenti di colpa, l’esaltazione. Nel primo incontro fra Egidio e Geltrude è utilizzato un lessico di tipo quasi militare, come se l’autore descrivesse una sorta di assedio. La monaca non avrebbe voluto fare ricorso alla violenza per risolvere la situazione: poi, però, convinta da Egidio, accetta, ma vuole comunque rimanere fisicamente estranea all’omicidio, a cui si rifiuta di partecipare. Le motivazioni del cambiamento Nel finale emergono però le perplessità morali del narratore, anche se alleggerite dall’affermazione che gli esempi di degradazione possono, per opposizione, stimolare il comportamento retto. Saranno queste motivazioni di ordine morale che nei Promessi sposi spingeranno Manzoni a eliminare i momenti più scabrosi e negativi e interi segmenti della vicenda di Gertrude.

Geltrude con il padre, che prende a pretesto un biglietto inviatole da un paggio per farla entrare in convento. Illustrazione di Francesco Gonin.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano riguardante le vicende della monaca Geltrude nel Fermo e Lucia (max 30 righe). 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta): a. Perché Geltrude accetta di farsi monaca nonostante non lo desideri? b. Perché si lascia coinvolgere nell’omicidio della suora che sospetta la sua relazione con Egidio? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle domande seguenti (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono le caratteristiche della lingua che Manzoni usa nella prima stesura del suo romanzo? b. Che giudizio morale dà il narratore della vicenda di Geltrude? Approfondimenti 4. Dopo aver riletto il brano dei Promessi sposi alle pagg. 699-700, indica quali sono le principali caratteristiche che distinguono le vicende della monaca nel Fermo e Lucia da quelle della versione definitiva del romanzo.

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T16 L’assalto alla casa del vicario: il realismo sociologico da I promessi sposi, XIII

Una dimensione narrativa che assume particolare importanza nei Promessi sposi è quella riguardante la descrizione del tessuto sociale del tempo in cui l’opera è ambientata. All’inizio del romanzo si trova la presentazione dei bravi e del loro ruolo; aspetti dettagliati di descrizione del costume presentano anche la vicenda della monacazione forzata di Gertrude e il racconto del delitto e della conversione di padre Cristoforo. Tuttavia, uno dei momenti più corali, da affresco d’epoca, è l’ampia descrizione dell’assalto ai forni nella Milano affamata dalla carestia. In questo passo Renzo è a Milano e, incuriosito da ciò che vede, anziché fermarsi ad attendere il frate al quale è stato indirizzato da padre Cristoforo, lascia il convento e segue la folla. Si trova così dapprima nel mezzo dell’assalto al forno della Corsia dei Servi, opera di una folla inferocita per la mancanza di pane, e poi di fronte ai rivoltosi che intendono aggredire il vicario di provvisione – un funzionario dell’approvvigionamento alimentare – e si sono diretti alla sua abitazione per assaltarla. PISTE DI LETTURA • Il giudizio del narratore sulla folla • L’ingenuità di Renzo • Una narrazione realistica ambientata nel passato

La folla e i soldati

L’ufiziale1 che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi, e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorìo; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all’ufiziale cosa non solo crudele, ma piena di pericolo; cosa 5 che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritato i molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione2. Aprire quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra 10 quella, si sarebber trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata3. L’irresolutezza del comandante e l’immobilità de’ soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si trovavan4 vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un’aria, come si dice, di me n’impipo5; quelli ch’erano un po’ più lontani, non se ne stavano di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi 15 sapevano o si curavano che ci fossero; i guastatori seguitavano a smurare6, senz’altro pensiero che di riuscir presto nell’impresa; gli spettatori non cessavano d’animarla con gli urli.

1. L’ufiziale: l’ufficiale che comanda i soldati spagnoli. La folla affamata, dopo avere assaltato, saccheggiato e distrutto un forno, si dirige verso la casa del vicario di provvisione – un magistrato che risiede nelle vicinanze del forno e che l’autore definisce sventurato e meschino – con l’intenzione di linciarlo. Renzo si unisce alla moltitudine, invece, per cercare di salvare l’uomo; scrive Manzoni che l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato benché condividesse la comune convinzione – che l’autore ritiene errata – che il vicario fosse responsabile della mancanza di pane. 2. istruzione: l’ordine di far fuoco. 3. Che se... aizzata: l’ufficiale vorrebbe fendere la folla e assalire i pochi facinorosi, ma dubita di riuscire a tenere compatti i soldati. Se le sue truppe si fossero sparpagliate

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tra la gente, si sarebbero trovate in balìa della moltitudine dopo averla provocata. La narrazione di questo episodio è quasi certamente ispirata al linciaggio di Giuseppe Prina (1766-1814), ministro delle finanze della Repubblica Italiana filofrancese, ucciso dalla folla milanese, che lo riteneva responsabile di malgoverno, alla caduta di Napoleone. 4. La gente che si trovavan: costruzione ora non più usata, del soggetto singolare collettivo con il verbo al plurale. 5. me n’impipo: espressione popolaresca settentrionale per “me ne infischio”. 6. i guastatori seguitavano a smurare: i sobillatori continuano a staccare dal muro i battenti della porta del vicario. Una parte della folla, come si è detto, vuole linciare il vicario, funzionario del Tribunale di provvisione che presiedeva all’approvvigionamento cittadino di cibo.

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Il vecchio assetato di sangue

Il discorso di Renzo, contrario alla violenza

Renzo è accusato di essere un servo del vicario

Renzo sfugge al linciaggio

Ferrer giunge in carrozza per salvare il vicario

Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze7 a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa8, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse. “Oibò! vergogna!” scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tant’altri visi che davan segno d’approvarle, e incoraggito dal vederne degli altri, sui quali, benché muti, traspariva lo stesso orrore del quale era compreso lui9. “Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane!” “Ah cane! ah traditor della patria!” gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante parole. “Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario travestito da contadino: è una spia: dalli, dalli!” Cento voci si spargono all’intorno. “Cos’è? dov’è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. II vicario travestito da contadino, che scappa. Dov’è? dov’è? dalli, dalli!” Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un “largo, largo,” che si sentì gridar lì vicino: “largo! è qui l’aiuto: largo, ohe!” Cos’era? Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano per appoggiarla alla casa, e entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera10. I portatori, all’una e all’altra cima, e di qua e di là della macchina11, urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi12 sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava13; un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de’ quali erano! Altri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono addosso, gridando: “animo! andiamo!” La macchina fatale s’avanza balzelloni, e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo, il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul principio, poi giocando di gomita14 a più non posso, s’allontanò da quel luogo, dove non c’era buon’aria per lui, con l’intenzione anche d’uscire, più presto che potesse, dal tumulto e d’andar davvero a trovare o a aspettare il padre Bonaventura15. Tutt’a un tratto, un movimento straordinario cominciato a una estremità, si propaga per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: “Ferrer! Ferrer!” Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione16, una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia, “È qui Ferrer! – Non è vero, non è vero! – Sì sì; viva Ferrer! quello che ha messo il pane a buon mercato. – No, no! – È qui, è qui in carrozza. – Cosa importa? che centra lui? non vogliamo nessuno! – Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene per condurre in pri-

7. le grinze: le rughe del volto. 8. canizie vituperosa: vecchiaia indegna. Sono due latinismi: canizie indicava i capelli bianchi, vituperare significa rimproverare. 9. incoraggito... lui: Renzo sbotta perché incoraggiato dal vedere altri che disapprovano il vecchio violento: sul loro viso, infatti, vede dipinto lo stesso orrore che anch’egli ha provato. 10. Ma per... opera: per fortuna quella scala che avrebbe reso facile entrare nella casa del vicario, non era facile da mettere in posizione. 11. macchina: la scala a pioli, che diventa una macchina di guerra (il latinismo è sarcastico) in mano alla folla. 12. gli staggi: i supporti laterali della scala. 13. oppresso... mugghiava: soffocato come il bue sotto il giogo caduto dal collo, muggiva. Il giogo è l’aggancio del

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bue per l’aratura. Il tono con cui l’autore dipinge questa fatica il cui scopo è solo distruttivo continua a essere sarcastico. 14. giocando di gomita: aiutandosi con gomitate, Renzo esce dal crocchio delle persone a lui ostili. 15. Bonaventura: il frate cappuccino di Porta Orientale cui Renzo doveva consegnare la lettera di padre Cristoforo, e che doveva proteggerlo e trovargli un lavoro a Milano fino al tempo in cui avrebbe potuto tornare al paese. Spinto dalla propria curiosità, anziché attenderlo, Renzo aveva seguito la folla e si era trovato coinvolto nei tumulti di Milano (peraltro, realmente avvenuti nell’anno 1628). 16. un’inclinazione: una simpatia. Gli aggettivi esprimono le varie sensazioni della folla, in cui si manifestano posizioni diverse – come anche le successive frasi ed esclamazioni – verso Ferrer.

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Le due anime che si disputano il corpaccio della folla

gione il vicario. – No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! – Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario!” E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante17 in terra; ma tant’è tutti s’alzavano. Infatti, all’estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere18; il quale, rimordendogli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spropositi e con la sua ostinazione, stato causa, o almeno occasione di quella sommossa, veniva ora a cercar d’acquietarla, e d’impedirne almeno il più terribile e irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata. Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro19, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura. Ma, per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità20 per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia21, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere22. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoli-

17. piante: le piante dei piedi. 18. Antonio Ferrer, il gran cancelliere: il governatore spagnolo di Milano, Gonzalo Fernandez de Cordova era in guerra (conduceva l’assedio di Casale) ed era sostituito dal vicegovernatore Antonio Ferrer, il quale è giudicato dall’autore un demagogo incapace. Egli ha infatti imposto un prezzo politico del pane in tempo di carestia, per rendersi popolare. I fornai allora cominciano a sottrarre la farina e vendono il pane solo ai benestanti, a prezzi elevati. Quando qualcuno scopre che il pane non manca, ma viene fornito segretamente a chi è disposto a pagare di più, la folla si inferocisce e assalta i forni. Secondo Manzoni, la scelta compiuta da Antonio Ferrer ha aggravato la situazione. 19. Ne’ tumulti popolari... soqquadro: inizia il discorso sociologico sulle rivolte popolari: nella folla c’è sempre, se-

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condo Manzoni, un certo numero d’uomini che spingono al peggio o per passione, o per fanatismo, o per un progetto criminoso, o per gusto del sovvertimento. 20. parzialità: compassione. In contrappeso dei primi, secondo Manzoni, sono invece coloro che cercano di calmare le acque, perché parteggiano per chi rischia la vita o per orrore della violenza. 21. Viva e moia: viva e muoia. La moltitudine, secondo Manzoni, è miscuglio eterogeneo in preda all’emozione del momento: essa passa da una soluzione estrema a quella opposta e non conosce la moderazione. 22. Siccome... movere: poiché è la massa che fa la forza, ognuna delle due parti attive (i sobillatori e i pacificatori) usano ogni mezzo per attrarla dalla propria parte; sono come due anime nemiche che combattono per entrare nel grande corpo della folla e animarlo.

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L’arrivo di Ferrer fa prevalere la tendenza avversa al male

scano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto23 della pluralità, per l’una o per l’altra parte. Tutta questa chiacchierata s’è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l’apparizione d’Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po’ più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più, né forza, né motivo di combattere. L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione24 così favorevole a’ compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e procellosa25. Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato peggio, chi l’avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell’osso in bocca, s’acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi.

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da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954

23. Fanno... voto: le due fazioni fanno a gara nel suscitare l’emozione a loro favorevole nella gente (gli argomenti per riaccendere la rabbia o affievolirla, suscitando speranza di guadagno o paura di punizioni); soprattutto cercano di trovare lo slogan (il grido) che ripetuto dalla maggioranza crei l’assenso (il voto) della maggioranza (il corpaccio della massa), per l’una o per l’altra parte. 24. L’uomo... invenzione: Ferrer era gradito alla gente per aver introdotto il prezzo politico del pane, tariffa di sua invenzione perché non basata sul reale costo della farina, ma decisa per ingraziarsi il popolo.

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25. moltitudine irritata e procellosa: folla rabbiosa e scatenata. L’episodio si conclude quando Ferrer, con l’aiuto di Renzo e altri uomini che, come lui, odiano la violenza, porta in salvo il vicario. Renzo, successivamente, a causa di un discorso imprudente, viene individuato da una spia dei gendarmi come uomo da arrestare e fare impiccare come capo della rivolta; ubriacatosi per dimenticare i propri guai, commette molti errori e viene arrestato. Gli salva la vita l’intervento di alcuni passanti; avendo rivelato il proprio nome, è però costretto a fuggire nella Repubblica di Venezia dove, presso Bergamo, sarà ospitato dal cugino Bortolo.

inee di analisi testuale La folla vista da Manzoni Il brano dell’assalto alla casa del vicario è basato sulle osservazioni sociologiche di Manzoni sul comportamento della folla. Secondo Manzoni ci sono due forze – una rivolta al male e l’altra al bene – che si disputano il corpaccio della massa anonima, come il diavolo e l’angelo si disputano l’anima umana. Il vecchio mal vissuto che vuole linciare il vicario appartiene alla prima categoria; Renzo, che definisce assassinio tale proposito, alla seconda. Nell’episodio, il vicario verrà salvato dal governatore Ferrer, giunto in carrozza per fingere di portarlo in prigione. Decisivo sarà l’appoggio della buona gente come Renzo, che lo farà passare indenne tra i più scalmanati. Manzoni ritiene che nella folla anonima l’elemento razionale sia subordinato alle spinte emotive e che l’azione della massa – nel bene come nel male – sia sempre istintiva. L’ironia e il realismo Con la consueta ironia, l’autore scrive in proposito che se la folla si convince di non dover gridare moia all’indirizzo di qualcuno, comincerà a gridare Viva, e viceversa. Va però osservato come più raramente l’arguta ironia manzoniana si manifesti quando descrive la moltitudine in azione. Occorre, d’altronde, comprendere anche i tempi in cui lo scrittore visse: il linciaggio non era cosa rara e Manzoni stesso, nel 1814, assistette all’assalto della folla milanese alla casa del ministro filonapoleonico Prina, fatto a pezzi dalla folla dopo aver aumentato le tasse. Molti ritengono, anzi, che proprio la rielaborazione di tale tragico episodio stia alla base della narrazione del tentato linciaggio del vicario di provvisione nei Promessi sposi.

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Comprensione 1. Riassumi il brano proposto (max 10 righe). 2. Evidenzia il giudizio manzoniano sulla folla (max 5 righe). Analisi e interpretazione 3. Quali sono le notazioni sociologiche contenute nel brano del tumulto dei forni e con quale tono sono espresse? 4. Quali sono le principali figure retoriche usate per presentare le caratteristiche della folla? 5. Rileggi il brano e le Linee di analisi testuale; scrivi poi in 20 righe un testo sul seguente argomento: La concezione manzoniana della folla e del suo ruolo politico. Approfondimenti 6. Capita anche al giorno d’oggi di far parte di una massa di persone radunate in occasione di manifestazioni, iniziative politiche, concerti o competizioni sportive. Racconta una tua esperienza e confronta le opinioni chi ti sei fatto sulla folla con quelle di Manzoni.

Spiccava tra questi [...] un vecchio mal vissuto [...]. Illustrazione di Francesco Gonin.

T17 Gli untori a Milano: l’inserto storico da I promessi sposi, XXXII

L’inserto storico è una presenza costante all’interno del romanzo, per la ben nota passione dell’autore verso la storia e per l’amore verso il rigore storiografico dello sfondo. Oltre a questo brano relativo alla caccia agli untori, nel romanzo sono celebri il passo sulle gride contro la violenza dei bravi, la descrizione degli eventi storico-militari (capitoli XXVII-XXVIII) che investono lo Stato di Milano nel 1629-1630 e della crisi che porta alla carestia, la guerra del Monferrato, la calata dei Lanzichenecchi e la cronistoria delle misure sanitarie prese contro l’epidemia di peste. Il brano qui proposto è tratto dal capitolo XXXII: Lucia, rapita e poi liberata dall’Innominato, si trova a Milano, ospite di due conoscenti fidati del cardinale Federigo Borromeo. Renzo, preso a causa della propria ingenuità e impulsività per un capo della sommossa, è riuscito a fatica a mettersi in salvo presso un cugino, nel Bergamasco. La carestia e la miseria offrono intanto terreno favorevole per lo scoppio della peste a Milano, di cui l’autore analizza le cause, individuandole in primo luogo nella guerra in corso. La disperazione induce la popolazione a trovare un capro espiatorio nei cosiddetti untori, considerati diffusori del contagio.

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PISTE DI LETTURA • Il documento storico radice della narrativa • Dalla grande alla piccola storia • I comportamenti irrazionali delle moltitudini Si diffonde la credenza dell’unguento velenoso

Il termine untore, riferito a chi si crede diffonda la peste

Un vecchio in chiesa è accusato di ungere le panche

Tre francesi sono arrestati e poi rilasciati

S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli1. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno, le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito2, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malie3, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi4: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata resistenza d’una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzion del pubblico5, di complice, d’untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhistavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia6. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore. Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti7, avvertendo d’averli scelti, non come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell’uno e dell’altro era stato pur troppo testimonio. Nella chiesa di sant’Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. – Quel vecchio unge le panche! – gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com’erano; lo carican di pugni e di calci; parte tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo8, alla prigione, ai giudici, alle torture. “Io lo vidi mentre lo strascinavan cosi,” dice il Ripamonti: “e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento.” L’altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico9, venuti per veder l’Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro,

1. martelli: arnesi a forma di martello utilizzati per bussare sulle porte. 2. Un veleno squisito: un unguento velenoso raffinato. 3. le malie: le fatture, i malefici. 4. venefici ancor novizi: avvelenatori, fabbricanti di veleni (venefici) ancora inesperti e perciò suscettibili di commettere errori. 5. stornar dal vero... pubblico: allontanare dalla verità

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l’attenzione della gente. 6. tutti... gelosia: la gente si guardava attorno in allarme; ogni movimento poteva dar adito al sospetto (gelosia). 7. il Ripamonti: Giuseppe Ripamonti, lo storico milanese da cui Manzoni ha tratto queste notizie sulla peste del 1630. 8. istrascinarlo, così semivivo: trascinarlo mezzo morto. 9. un meccanico: un operaio esperto in macchine.

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La folla malmena chiunque sospetti di essere untore

che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toc- 45 care. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati. Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada mae- 50 stra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi, lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello10, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954

10. si sonava a martello: suonare le campane a martello, nel Seicento, significava segnalare una situazione di pericolo.

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inee di analisi testuale La peste e i comportamenti degli uomini L’inserto storico occupa due capitoli in cui Manzoni si allontana dalle vicende dei suoi personaggi per descrivere il flagello della peste. Essa è vista dall’autore soprattutto come pretesto per osservare i comportamenti umani, come già aveva fatto Giovanni Boccaccio nella cornice del Decameron. Vengono descritti gli atteggiamenti dei potenti e delle personalità dotate di responsabilità nei confronti della popolazione – il cardinale Borromeo che prepara coraggiosamente il conforto della religione; il primario medico Lodovico Settala che diagnostica lucidamente l’epidemia; ma anche i politici incapaci, che cercano stupidamente di negarla – e quelli della gente comune. Il mito del capro espiatorio In questo contesto, la vicenda degli untori viene ad assumere il significato del mito collettivo del capro espiatorio, ossia dell’innocente offerto in sacrificio alla folla terrorizzata e ignorante per calmarne il terrore, illudendola di avere individuato il colpevole di ogni male. La posizione di Manzoni In questa vicenda Manzoni si fa giudice di un fenomeno che viene fomentato da autorità colpevoli, che si rivela totalmente estraneo a ogni logica razionale e costa la vita a molti innocenti. Su di esso Manzoni scrive anche il saggio Storia della colonna infame, posto in appendice al romanzo. Il critico Natalino Sapegno afferma: È proprio la presenza di quell’incombente ragione morale a determinare il tono di alta perplessità della sua indagine, l’acume spietato e pur accorato dell’analisi, il risentimento ora perplesso e dolente, ora sdegnato e fiero di chi contempla e ripercorre il processo degli avvenimenti, e narra e giudica. da N. Sapegno, Ritratto di Manzoni e altri saggi, Laterza, Bari, 1961

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avoro sul testo

Comprensione 1. Svolgi un riassunto del brano (max 15 righe). 2. Chi sono i personaggi accusati di essere untori? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Chi erano gli untori e che ruolo ebbero, secondo Manzoni, nella diffusione della peste a Milano? b. Qual è il giudizio del narratore sulla “caccia agli untori”? Approfondimenti 4. Rintraccia e leggi, nel capitolo XXIV dei Promessi sposi, l’episodio in cui Renzo rischia di essere linciato come “untore” e sintetizzalo in non più di 30 righe. 5. All’interno delle tue conoscenze storiche, oppure con riferimento a romanzi e film, individua una categoria di persone che si è trovata a fungere, innocente, da “capro espiatorio”; presentala per iscritto e, in un sintetico confronto, evidenzia i punti di contatto fra la vicenda cui ti riferisci e quella degli “untori” di cui scrive Manzoni.

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T18 Don Rodrigo colto dalla peste: il registro tragico da I promessi sposi, XXXIII

Manzoni possiede un potente senso del tragico e lo profonde in numerose pagine del romanzo. Il personaggio che vive in senso più drammatico le vicende dell’esistenza è forse padre Cristoforo (per la storia della sua conversione, il suo rapporto con don Rodrigo, la sua vita donata cristianamente per soccorrere i malati di peste). Ma è soprattutto sulle figure negative che poggia il senso del tragico manzoniano: Gertrude (la monaca di Monza) e lo stesso don Rodrigo, contagiato e ucciso dalla peste. Siamo ormai nell’ultima parte del romanzo: la peste miete innumerevoli vittime e se ne ammalano, in forma non mortale, anche Renzo e Lucia. Intanto don Rodrigo, che ha affrontato la catastrofica epidemia con apparente spavalderia – ride perfino della morte del cugino conte Attilio – dopo una notte di incubi, in cui sogna con angoscia padre Cristoforo, scopre su di lui i segni della peste. Terrorizzato, chiama il capo dei suoi bravi, il Griso, per farsi curare segretamente a casa. PISTE DI LETTURA • L’arroganza svanita davanti alla malattia • Il tradimento, il furto e la punizione del bravo • Tono tragico

Don Rodrigo chiede al Griso di chiamare in segreto il dottore

Invece del medico, don Rodrigo vede arrivare i monatti

“Non voglio fidarmi d’altri che di te,” riprese don Rodrigo: “fammi un piacere, Griso.” “Comandi,” disse questo, rispondendo con la formola solita a quell’insolita. “Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?” “Lo so benissimo.” “È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati1. Va a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa la cosa bene, che nessun se n’avveda.” “Ben pensato,” disse il Griso: “vo e torno subito.” “Senti, Griso: dammi prima un po’ d’acqua. Mi sento un’arsione2, che non ne posso più.” “No, signore”, rispose il Griso: “niente senza il parere del medico. Son mali bisbetici3: non c’è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col Chiodo.” Così detto, uscì, raccostando l’uscio. Don Rodrigo, tornato sotto4, l’accompagnava con l’immaginazione alla casa del Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il suo bubbone5; ma voltava subito la testa dall’altra parte, con ribrezzo. Dopo qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava: e quello sforzo d’attenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in sesto i suoi pensieri6. Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente7. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo8; butta le gambe fuor del letto,

1. tien segreti gli ammalati: i dottori, dietro pagamento, spesso non spedivano i malati delle famiglie nobili, benestanti o potenti al lazzaretto. 2. un’arsione: arsura di gola da sete; si tratta di uno dei sintomi della peste. 3. Son mali bisbetici: sono malattie strane. Il Griso ha già deciso il da farsi. 4. tornato sotto: le coperte del letto. 5. il suo bubbone: una delle forme di peste prevedeva la comparsa di una grossa tumefazione (di solito all’inguine o all’ascella) piena dei bacilli, violacea, dalle dimensioni di

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un pugno, molto dolorosa, che nel corso della malattia scoppiava come un ascesso. 6. teneva... i suoi pensieri: lo teneva cosciente. La forma di peste che ha colpito don Rodrigo comporta il sopraggiungere del coma in pochi giorni. 7. un orrendo... mente: quello che il Griso l’abbia tradito e invece del dottore abbia portato i monatti, di cui ha sentito suonare il campanello che essi recano legato alla caviglia. 8. un peso... con riguardo: la barella sulla quale vengono immobilizzati gli appestati.

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I monatti disarmano e immobilizzano l’ammalato

Don Rodrigo vede il Griso che ruba i suoi averi e li divide con i monatti

Don Rodrigo perde conoscenza e viene portato via

Il Griso, contagiato, muore di peste

come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare. “Ah traditore infame!... Via, canaglia! Biondino! Carlotto!9 aiuto! son assassinato!” grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; l’afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: “ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di misericordia!” “Tienlo bene, fin che lo portiam via,” disse il compagno, andando verso uno scrigno10. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la serratura. “Scellerato!” urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all’altro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. “Lasciatemi ammazzar quell’infame” diceva quindi ai monatti, “e poi fate di me quel che volete.” Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva gli altri suoi servitori; ma era inutile, perché l’abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima d’andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie11. “Sta buono, sta buono,” diceva allo sventurato Rodrigo l’aguzzino che lo teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: “fate le cose da galantuomini!” “Tu! tu!” mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti. “Tu! dopo...! Ah diavolo dell’inferno! Posso ancora guarire! posso guarire!” II Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole. “Tienlo forte,” diceva l’altro monatto : “è fuor di sé.” Ed era ormai vero. Dopo un grand’urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo per mettersi in libertà, cadde tutt’a un tratto rifinito e stupido12: guardava però ancora come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava. I monatti lo presero, uno per i piedi, e l’altro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via. Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n’andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell’ultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni13 del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da’ compagni, andò in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima di arrivare al lazzeretto, dov’era stato portato il suo padrone.

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da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954

9. Biondino! Carlotto!: don Rodrigo chiama gli altri suoi bravi. Ma il Griso li ha mandati altrove con un pretesto. 10. verso uno scrigno: il forziere dove don Rodrigo conserva le sue ricchezze. 11. di venire... spoglie: il Griso ha proposto ai monatti di partecipare a quella spedizione, e dividere il bottino. 12. cadde... rifinito e stupido: cadde improvvisamente sfinito e stordito; è l’andamento della forma di peste presa da don Rodrigo, lunga e comatosa.

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13. i panni: gli abiti. Il Griso, secondo la descrizione medica della varie forme della peste che l’autore ha studiato e conosce, è colpito dalla forma fulminante del morbo. Il disprezzo del narratore nei confronti del personaggio è attestato dalle poche righe dedicate alla sua fine (in modo analogo, precedentemente, il lettore viene informato della morte del conte Attilio, il perfido consigliere che spinge don Rodrigo sulla via del male).

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inee di analisi testuale Due nodi di convergenza delle linee narrative L’episodio, altamente drammatico, che narra il momento in cui don Rodrigo viene colto dalla peste, risulta meno comprensibile se lo si estrapola dal contesto del romanzo. Il passo è preceduto da un incubo di don Rodrigo, già febbricitante, in cui padre Cristoforo gli appare ricordandogli che nessuno sfugge alla morte. Il sogno si ricollega alla frase minacciosa: Verrà un giorno... che il frate cappuccino aveva proferito contro di lui nel lontano incontro al suo palazzo per convincerlo a lasciare in pace Lucia. In questo senso, il sogno è un nodo di convergenza della narrazione. Anche la vicenda del Griso è la soluzione di un nodo narrativo. Il capo dei bravi aveva diretto il fallito rapimento di Lucia nella notte del matrimonio a sorpresa e, dopo che don Rodrigo l’aveva rimproverato, il narratore – rivelandosi ancora una volta onnisciente – gli aveva fatto una sarcastica “profezia”: e poi esser ricevuto in quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa.

La scena del tradimento Il linguaggio e lo stile con cui Manzoni descrive la scena del tradimento del Griso sono prevalentemente “alti”. Nel passo predominano, fin dall’inizio del dialogo, la definizione dello stato d’animo dei personaggi affidato a scarne parole, gli eloquenti dettagli angosciosi come l’attesa di don Rodrigo che immagina il Griso alla ricerca del Chiodo chirurgo finché i rumori gli fanno intuire di essere stato venduto ai monatti, o il contrappunto del silenzio del Griso che cerca denaro e oggetti preziosi fra le urla furiose del padrone impotente e tradito, ormai fuori di sé. La tragica potenza della vicenda trova conferma anche nelle poche parole che il narratore dedica alla morte del Griso, dovuta alla sua folle avidità. Don Rodrigo, dal culmine del potere, conosce la completa disfatta: il persecutore è ormai trasformato in vittima. La sua sorte, secondo la concezione che governa il romanzo, è ora solo nelle mani della propria coscienza e di Dio. Il narratore, ritrovandolo in agonia al lazzaretto, lo definirà pietosamente l’infelice, superando la concezione del Fermo e Lucia che presenta invece la fine del signorotto in modi del tutto diversi: nel tentativo di fuggire dal lazzaretto, infatti, don Rodrigo viene fatto morire come un indemoniato, stravolto, dopo essere balzato su un cavallo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano in non più di 20 righe. 2. Traccia un sintetico ritratto psicologico e morale del Griso. Analisi e interpretazione 3. Alcuni critici hanno scritto che don Rodrigo – a differenza del Griso – è “immorale” e non “amorale”. Con l’aiuto del dizionario illustra la differenze fra i due concetti e mostra in qual modo tale diversa natura dei due personaggi sia evidenziata nel brano proposto. 4. Individua i punti dell’episodio in cui emerge la concezione religiosa del narratore, nella quale si riflette il pensiero di Manzoni che ritiene ogni persona potenzialmente aperta al pentimento e che considera la sventura come occasione di conversione alla fede cristiana. Approfondimenti 5. Rintraccia, nei Promessi sposi e in un’edizione di Fermo e Lucia, le ultime pagine dedicate a don Rodrigo. Leggile ed evidenzia - in una relazione che non superi le 30 righe - le principali differenze. 6. La narrazione della morte del “malvagio” è assai diffusa nelle letteratura. Presentane un esempio e confrontalo con l’atroce vicenda della fine di don Rodrigo, evidenziando sinteticamente punti di contatto e differenze.

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T19 Cecilia: il vertice della commozione da I promessi sposi, XXXIV

L’episodio di Cecilia – che conduce il lettore al culmine del páthos, ossia della commozione – è uno dei momenti più lirici del romanzo. Tre sono i protagonisti della scena il cui sfondo è l’orrido spettacolo della Milano attanagliata dalla peste: la madre, la bambina morta Cecilia e il turpe monatto. La madre è concentrata nello sforzo di sopravvivere alle figlie per poterle seppellire dignitosamente; Cecilia dalla donna è considerata viva nella pace eterna dell’aldilà, e perciò le viene chiesto di pregare per chi ancora soffre; il monatto è portato ad agire in un modo per lui inatteso dalla nobiltà e dalla luce che emana dalla donna. Sul piano letterario, il risultato ottenuto è frutto di un lungo lavoro di rielaborazione: lo dimostra l’insolitamente elevato numero di varianti rispetto all’edizione del 1827. PISTE DI LETTURA • Il contrasto tra l’esteriorità brutale e i sentimenti umani • La pietà • Tono intensamente lirico

Renzo assiste alla straziante scena Il ritratto della madre di Cecilia

La descrizione della bambina vestita di bianco

Ora da una, ora da un’altra finestra, veniva una voce lugubre: “qua, monatti1!” E con suono ancor più sinistro, da quel tristo brulichìo usciva qualche vociaccia che rispondeva: “ora, ora”. Ovvero eran pigionali2 che brontolavano, e dicevano di far presto: ai quali i monatti rispondevano con bestemmie. Entrato nella strada, Renzo allungò il passo3, cercando di non guardar quegl’ingombri4, se non quanto era necessario per iscansarli5; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo6. Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio7, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito8 ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della

1. monatti: gli incaricati del trasporto degli appestati; erano reclutati fra gli strati più ignobili della popolazione. 2. pigionali: abitanti dei dintorni. Vicini è qui sostituito dal sinonimo pigionali (propriamente: “affittuari di locali”). 3. Renzo... passo: il verbo studiava (“faceva attenzione”) dell’edizione del 1827 diventa, qui, allungò. In questo caso, la variazione investe anche il significato: il giovane, nella versione definitiva, si affretta, per allontanarsi rapidamente dalla tragica scena. 4. quegl’ingombri: i cadaveri degli appestati. 5. iscansarli: evitarli.

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6. il suo sguardo… senza volerlo: nella precedente versione (edita nel 1827), Renzo si avvicina alla scena per istinto, senza averlo deciso consapevolmente (quasi senza averlo risoluto). L’autore già prepara il lettore a una scena di intensa e singolare pietà, ripetendo per ben due volte il vocabolo. Nella versione definitiva, il termine pietà appare, più oltre, una terza volta, in sostituzione del più debole commiserazione. 7. il convoglio: i carri dei monatti. 8. stracco e ammortito: spento e senza vigore.

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La madre vuole deporre personalmente la bimba sul carro

L’addio alla piccola innocente, falciata dalla peste

La preghiera di Renzo

madre, con un abbandono più forte del sonno; della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento9. Un turpe10 monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete”. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così”. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa11, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi12; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi”, disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola”. Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo potè vedere; poi disparve. E che altro potè fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia13, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato. “O Signore!” esclamò Renzo: “esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!”

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da I promessi sposi, 1840, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere , vol II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954

9. quello... sentimento: il volto della madre, che ancora recava i segni della vita. 10. turpe: ignobile. La costruzione è resa ancora più lineare rispetto all’edizione del 1827. Qui, il latinismo turpe significa “brutto e ignobile”, ma non ha connotazione di definitiva sanzione morale né intende rappresentare una condanna dell’intera categoria dei monatti: lo dimostrano il suo insolito rispetto, il nuovo sentimento (di pietà) che toccherà l’uomo e, in un altro episodio, il fatto che Renzo, scambiato per un untore, sarà salvato dal linciaggio proprio da un gruppo di monatti. L’atteggiamento del monatto è dovuto al fatto che, secondo Manzoni, la persona che – come la madre di Cecilia – è portatrice del bene, lo diffonde intorno a sé. 11. più per... ricompensa: il monatto è intimamente commosso. In altre occasioni, personaggi che accostano Lucia provano un’emozione analoga. 12. Prega... noi: la forza della fede non può essere espressa in modo più limpido: la madre chiede alla piccola Cecilia morta di pregare per i famigliari ancora vivi per poche ore. 13. ancora in boccia: ancora in bocciolo. Si noti come la già toccante espressione del 1827 (riavvolto ancora nel calice) sia stata resa ancora più struggente dalla semplificazione.

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La madre di Cecilia consegna la figlia al monatto. Illustrazione di Francesco Gonin.

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inee di analisi testuale Un’immagine della pietà cristiana L’episodio può essere letto solo su un piano umano (e allora le parole della madre e di Renzo risultano superflue) oppure anche su quello religioso, e allora la morte si allontana dall’orrore che circonda la vicenda e diventa, nell’orizzonte cristiano, un evento doloroso che è però parte della vita eterna. La scena si apre con un brulichio di persone che si agitano disperate, misto alle bestemmie dei monatti e sottolinea l’orrore di una situazione in cui l’umanità, aggredita dalla peste senza possibilità di difendersi, è ridotta a cumuli di corpi inermi. Le frasi successive creano il silenzio attorno all’oggetto della pietà: la donna con la bimba in braccio viene isolata dalla scena circostante. Tutti i termini scelti, a partire dal riferimento alla veste bianca fino alla descrizione di Cecilia, ricordano il tema della sofferenza della Madonna per lo strazio del Cristo, quale unica risposta, per il cristiano, alla tragedia del dolore innocente. I sentimenti dei personaggi La commozione – che tocca anche il turpe monatto – acquista una più struggente ma luminosa valenza in una prospettiva di fede: per la madre, la figlia non è morta; ella l’ha vestita come se dovesse recarsi ad una festa promessa da tanto tempo; ma la manina bianca a guisa di cera, che penzola con una pesantezza da corpo non vivo (inanimata gravezza), fa comprendere che la piccola è morta. La parola morte non compare, è sostituita dall’espressione sonno. Il monatto appartiene alla categoria dei personaggi minori il cui cuore si apre alla commozione per un incontro straordinario. Il commento cristiano è affidato a Renzo: la sua preghiera a Dio ricorda qui la concezione delle tragedie, in cui il passaggio all’altra vita è l’unica via d’uscita dalle sofferenze senza possibilità di soluzione nel mondo terreno.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto dell’episodio di Cecilia in non più di 10 righe. 2. Presenta i personaggi della madre di Cecilia e del monatto. 3. Chiarisci, con riferimenti al testo, le reazioni emotive e i pensieri di Renzo di fronte all’episodio. Analisi e interpretazione 4. Di quale tipo è la voce narrante e quale giudizio essa esprime sulle vicende narrate? 5. Evidenzia i mezzi espressivi usati dall’autore per suscitare commozione e partecipazione nel lettore di fronte alla morte innocente. Approfondimenti 6. Confronta il comportamento del turpe monatto che si avvicina alla madre di Cecilia con quello dei monatti che irrompono nella casa di don Rodrigo colpito dalla peste nel brano precedente, individua le differenze nel loro comportamento e motivane le possibili ragioni, secondo il punto di vista dell’autore. 7. Il critico Attilio Momigliano ha scritto sull’episodio: Un senso di armoniosa, composta, spirituale bellezza, religioso anch’esso, domina pur fra gli orrori della peste, e le chiome verginali dei carri dei morti, ed il greco bassorilievo di quella madre non sono che alcune delle sue manifestazioni più evidenti e luminose. Dappertutto un dolore contenuto ma infinito; e l’infernale e il fosco si dissolvono in una serenità dolorosa. da Alessandro Manzoni, Principato, Milano, 1933

Dopo aver letto tutto il capitolo XXXIV dei Promessi sposi, tratta sinteticamente (in max 40 righe) il seguente argomento: Può esserci bellezza artistica in un contesto di abbrutimento e di morte?

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Letteratura e storia LA PESTE NELLA LETTERATURA L’antichità classica Sia nella letteratura greca sia in quella latina si trovano riferimenti alle epidemie di peste: lo storico greco Tucidide (460-400 a.C.) è il primo autore a descriverne una. Si tratta della pestilenza scoppiata ad Atene durante la guerra del Peloponneso (431-430 a.C.): la città è assediata, le condizioni igienico-sanitarie sono precarie, i morti sono migliaia. Tra le prime vittime Pericle, e anche Tucidide si ammala, ma vuole lasciare una testimonianza alle generazioni future, perché sappiano riconoscere in tempo i sintomi della malattia quando si dovesse ripresentare. Il latino Lucrezio (98 ca. – 55 ca. a.C.) dedica il libro VI del De rerum natura alla descrizione degli eventi che provocano negli uomini la paura di una punizione divina: fenomeni atmosferici, terremoti e infine la peste. Il poeta si ispira sicuramente all’opera di Tucidide, ma sceglie di descrivere la desolazione della malattia per concludere il suo discorso morale sull’imperturbabilità: l’uomo non deve temere né le sventure terrene né tantomeno la morte, persino quella orribile provocata dalla peste. Chi sopravvive al contagio, infatti, è comunque morto, perché circondato dalla desolazione assoluta. Fra Trecento e Cinquecento La terribile peste nera che si diffonde nel 1348 è talmente devastante da colpire tutto il continente europeo. È la prima grande pandemia della storia. Eppure per Giovanni Boccaccio non è che l’occasione straordinaria per la sua narrazione. E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi a quello che io desidero che così aspro sentiero come fia questo, io l’avrei volentier fatto: ma per ciò che, qual che fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion dimostrare, quasi da necessità costretto a scriverle mi conduco. da Decameron, Introduzione alla Prima giornata

Boccaccio non insiste su particolari morbosi, piuttosto descrive il clima sociale, i comportamenti del popolo, lo sbando che regna ovunque, l’abbandono delle città, delle campagne e degli animali. Il venir meno delle regole e delle autorità e soprattutto la paura di essere contagiati diventano sfrenato individualismo, mancanza di solidarietà e umana pietà. Sbeffeggia la peste Francesco Berni (1497-1535): nelle Rime ne magnifica i vantaggi (Sei di te stesso e de gli altri signore; Tutti i piaceri onesti son concessi; quasi è lecito a gli uomini essere matti; Fa ogniun finalmente ciò ch’e’ vuole: dell’alma libertà quell’è stagione), la considera grande purgatrice (Non fu mai malattia senza ricetta: la natura l’ha fatte tutt’e due: ella imbratta le cose, ella le netta. Trovò la peste perché bisognava: eravamo spacciati tutti quanti, cattivi e buon, s’ella non si trovava) e, per finire, irride letterati e tutti coloro che hanno nostalgia di una “età dell’oro”: la peste è quel secol d’oro e quel celeste / stato innocente primo di natura (F. Berni, Capitolo I e II della peste). L’Età moderna Il Seicento è stato un secolo di peste e carestie. Oltre a quella a cui si riferisce Manzoni, che si manifesta in Lombardia nel 1628-1629, una tragica ondata di malattia colpisce Londra nel 1666. Daniel Defoe (1660-1731) ne parla in A Journal of the Plague Year, written by a citizen who continued all the while in London (“Diario dell’anno della peste, scritto da un cittadino che rimase a Londra”, 1722). Redatto come se fosse una cronologia, è il racconto accurato e sistematico (riporta persino le tabelle con il numero dei deceduti per ogni parrocchia) fatto da un sellaio che, nonostante la peste, decide di non abbandonare la città per non lasciare i propri affari. Il protagonista s‘interroga sui possibili motivi dell’epidemia dandosi una spiegazione naturale, mentre la popolazione attribuisce il fenomeno al passaggio di una cometa, portatrice di sventura. Anche l’americano Edgar Allan Poe (1809-1849) dedica due racconti alla peste: La mascherata della Morte Rossa e Re Peste (storia che contiene un’allegoria). Il primo racconto è dominato dal gusto scenografico per l’orrore e il lugubre. Pervaso da un senso di ineluttabilità si apre, a somiglianza del Decameron, con un principe, Prospero, che decide di sfuggire alla peste con un gruppo di amici sani e © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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spensierati e si rifugia in una delle sue abbazie fortificate. Egli vive tranquillo, fino a quando, durante una festa mascherata, si presenta un invitato sconosciuto che altri non è se non la peste, ed uccide tutti quanti. Nel secondo racconto, Re Peste, il tono è decisamente grottesco. Due marinai ubriaconi si spingono in alcuni quartieri abbandonati di Londra. Giunti alla bottega di un impresario di pompe funebri, trovano una strana congerie di persone attorno a un tavolo: Re Peste e i suoi convitati. Dopo un diverbio e una rissa “da saloon” i marinai riescono a scappare a gambe levate e lasciare quella strana compagnia. La vena visionaria di Poe non poteva non trovare interesse nel tema della peste, e il fatto che un racconto finisca male e un altro abbia un finale positivo è forse segno dell’ambiguità di fronte a un tema così forte: repulsione e attrazione vivono insieme. Il Novecento Cessate le grandi pestilenze, nel Novecento si manifestano altri tipi di “epidemie”, altrettanto, se non più rovinose: le guerre mondiali. La peste viene utilizzata da Albert Camus (1913-1960), ad esempio, come allegoria del Nazismo e del male in generale. Ne La peste (1947) il romanziere immagina che l’epidemia scoppi nella città di Orano, in Algeria. I tre personaggi principali, Paneloux, un padre gesuita, Tarrou, un giovane che istituisce un corpo di volontari, e il medico Rieux, si confrontano incessantemente, senza risposta, con il dolore e la morte. Unico sollievo è l’azione, l’aiuto, la solidarietà che unisce gli uomini. La peste arriva senza clamore e così regredisce, ma c’è un avvertimento: Rieux sapeva quello che ignorava la folla […] ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria […] e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice. da A. Camus, La peste, Bompiani, Milano, 2000

La letteratura contemporanea Anche in anni più recenti, la peste sopravvive nella letteratura, pur cambiando forma. Se escludiamo la citazione letterale utilizzata dalla scrittrice francese Fred Vargas (1957), autrice di gialli di successo ma anche appassionata medievalista, nel suo Parti in fretta e non tornare (2004), in cui immagina che due furfanti si vogliano vendicare di un torto subito inoculando in alcuni ratti il morbo della peste, resiste però l’interesse verso la pandemia, il contagio che colpisce all’improvviso, lo scenario di desolazione che nei secoli passati era conseguenza della peste e ora è il risultato di qualche violenta malattia, o di una deflagrazione atomica. La peste sopravvive perché immutata è la paura dell’uomo per la malattia e il dolore (pensiamo a quello che hanno suscitato nell’immaginario collettivo la diffusione dell’Aids o delle nuove influenze) e perché continua a esistere il male, che talora assume forme affascinanti. Il finale de La peste di Camus è riecheggiato in maniera straordinaria nella conclusione de L’ombra dello scorpione (1978) di Stephen King, in cui si immagina che tutta la popolazione mondiale venga decimata da un’influenza. Tra il gruppo dei pochi sopravvissuti “buoni” e quello dei sopravvissuti “malvagi” si combatte una lotta che viene vinta dai primi, ma con l’acuta consapevolezza che non sarà una vittoria eterna. Il mondo freddo, cupo e polveroso, che rimane dopo una non ben identificata catastrofe, descritto dall’americano Cormac McCarthy ne La strada (2007), è solcato da pochi individui che non possiedono più nulla, neppure la dignità umana, e si trovano a vagare, divorandosi a vicenda per sopravvivere. Albert Camus.

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T20 Il sugo di tutta la storia: la conclusione pedagogica da I promessi sposi, XXXVIII e da Fermo e Lucia, IV, 9

Il romanzo possiede anche una forte componente didascalica, pedagogica ed educativa, che Manzoni sottolinea in numerosi interventi in prima persona, a commento delle vicende storiche e di ciò che accade ai vari personaggi. Questa dimensione raggiunge l’acme nella conclusione (ultime righe del capitolo XXXVIII), oggetto di non vistose ma significative varianti nelle tre edizioni. Dopo il reciproco ritrovamento dei due giovani e la morte di don Rodrigo, Renzo e Lucia si sposano. Trascorrono con Agnese qualche tempo nel loro paese, poi si trasferiscono nel Bergamasco. Il lavoro artigiano di Renzo va bene, nascono loro tre bambine. Infine Renzo e Lucia dibattono su quello che è loro capitato. Dalla riflessione comune, nasce l’insegnamento fatto proprio – come in un racconto filosofico cristiano – sia dai protagonisti, sia dal narratore. Nei Promessi sposi Renzo sostiene che i guai servono per evitare errori e Lucia obietta che i guai sono andati a cercare lei, senza che abbia fatto nulla per attirarli con comportamenti scorretti, e alla fine deducono insieme il sugo della storia. Nel Fermo e Lucia l’autore attribuiva invece solo a Lucia la capacità di trarre le conclusioni. PISTE DI LETTURA • Il confronto tra le due conclusioni • Il concetto di Provvidenza divina • Tono didascalico

I promessi sposi [1840] La conclusione dei due protagonisti

Renzo, alla prima, rimase impicciato1. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione2; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani3; e che quando vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da po- 5 vera gente, c’è parsa4 così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. La quale se non v’è dispiaciuta affatto5, vogliatene bene a chi l’ha scritta6 e anche un pochino a chi l’ha raccomodata7. Ma se in vece8 fossimo riusciti ad an10 noiarvi9, credete che non s’è fatto apposta10. da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, vol II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954

1. impicciato: in difficoltà. La variante presente nell’edizione del 1827 era impacciato. 2. perché... cagione: perché si è dato loro, con i nostri errori, motivo (cagione) di manifestarsi; in altri termini, come dice un noto proverbio, “sbagliando si impara” attraverso i guai che gli errori causano. La versione della ventisettana, assai meno lineare, era sovente per cagione che uno vi dia. 3. basta... lontani: anche Renzo, a differenza di quanto accadeva nel Fermo e Lucia, fa propria la versione della moglie, secondo cui anche gli innocenti possono essere colpiti dalla sventura. La variante dell’espressione presente nell’edizione del 1827 era assicura da quelli, forma più sintetica, ma grammaticalmente meno propria e meno elegante. 4. c’è parsa: sostituisce ci è sembrata, forse in quanto voce di origine francese.

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5. non... affatto: termine affettuosamente ironico, che ben sostituisce il precedente v’ha dato qualche diletto. 6. a chi l’ha scritta: la perifrasi è senz’altro migliore del precedente all’anonimo, cui si riferisce. 7. un pochino... raccomodata: anche in questo caso, una sorridente perifrasi sostituisce un po’ al suo racconciatore. 8. in vece: il precedente in quella vece risulta opportunamente semplificato. 9. ad annoiarvi: una forma migliore (tuttora in uso) sostituisce il precedente a noiarvi. 10. credete... apposta: l’uscita di scena, estremamente garbata, è stata accostata a quella delle commedie goldoniane. La variante dell’edizione 1827 era siate certi che non abbiam fatto a posta.

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Fermo e Lucia Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: “d’allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra.” Lucia però non si trovava appagata1 di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone2, e di pensarvi ad ogni volta, 5 ella disse un giorno a Fermo: “Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire, – aggiunse ella soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene, e di promettermi a te.” La conclusione Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiu- 10 di Lucia se che le scappate3 attirano bensì ordinariamente de’ guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli4 addolcisce, e gli rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come il costrut- 15 to morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia. da Fermo e Lucia, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, vol II, tomo III, Mondadori, Milano, 1954

1. appagata: Lucia non era soddisfatta della morale di Renzo. A lei – la semplice donnicciuola di cui si parla più oltre – l’autore affida qui il compito di individuare il costrutto morale (ossia, l’insegnamento etico da trarre dalla vicenda).

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2. A forza... canzone: espressione popolare; continuando a sentirsi ripetere la stessa cosa. 3. le scappate: le scappatelle, le birbonate. 4. gli: li.

inee di analisi testuale Il sugo di tutta la storia e l’evoluzione del finale Nella versione definitiva, il sugo di tutta la storia, seppure espresso in modo meno apertamente didascalico rispetto a come appare nel Fermo e Lucia, sintetizza l’utile educativo che, secondo l’autore, il lettore deve trarre dall’opera. Esso così si riassume: sofferenze e sventure colpiscono non solo chi, con comportamento errato, le attira (come afferma di aver fatto Renzo, i cui guai sono serviti a farlo maturare), ma anche le persone più innocenti, come Lucia; la fiducia in Dio è comunque consolazione e, quindi, addolcisce i mali; essi sono utili per una vita migliore: in questo mondo (in quanto temprano e accostano al bene e permettono di assaporare la felicità) o nell’altra vita (poiché il dolore, se sopportato a imitazione di Cristo, è salvifico). Osservazioni linguistiche Oltre a rendere il testo più leggero e appetibile a quel vasto pubblico che, pur con garbata ironia, egli mira ad “educare dilettando” anche con umorismo e non solo con gli insegnamenti morali, sono rilevanti le varianti rispetto al Fermo e Lucia. Le due più evidenti si riferiscono al fatto che la conclusione è tratta dalla sola sposa (cui viene così, implicitamente, riconosciuto nel romanzo una superiore coscienza religiosa e morale) e all’uso dell’espressione costrutto morale, che inequivocabilmente attesta l’intento didascalico – sia pure espresso con levità tutta manzoniana – della conclusione, filo conduttore senza la cui lettura il romanzo, almeno nelle intenzioni dell’autore, perde ogni significato.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi i contenuti delle due conclusioni in non più di 10 righe. 2. Trascrivi in italiano odierno il passo conclusivo dei Promessi sposi. Analisi e interpretazione 3. Indica la differenza lessicale e di significato tra le due espressioni sugo di tutta la storia e costrutto morale, ipotizzando la ragione per cui Manzoni, nell’edizione definitiva del proprio romanzo, abbia scelto la prima. 4. Rintraccia e descrivi, nella versione definitiva del romanzo, uno o più personaggi cui, rispettivamente, i guai sono utili per insegnamento e crescita umana e morale, per una migliore vita terrena, per raggiungere il premio nell’altra vita. Motiva con adeguati argomenti la tua risposta. Approfondimenti 5. L’autore dei Promessi sposi, come Dante e gli Illuministi, ad esempio, ritiene che un romanzo debba essere utile, ossia debba fornire anche un insegnamento educativo. Quali altri scrittori hanno una concezione analoga e quali vi si oppongono? Quali sono le argomentazioni degli uni e degli altri? Qual è il tuo personale e motivato punto di vista in proposito? 6. Qual è la morale della storia che Manzoni mette in bocca alla donnicciuola Lucia nella conclusione del Fermo e Lucia?

Focus

LA LEZIONE MORALE CHE CHIUDE IL BILDUNGSROMAN DI RENZO

Prima di giungere a una conclusione comune, nel finale dell’edizione definitiva del romanzo i due sposi discutono a lungo sul senso della vicenda di cui sono stati protagonisti. Renzo, dapprima, trae conclusioni morali (e per questa ragione Lucia lo chiama scherzosamente moralista) che si fondano sul principio secondo cui i guai derivano dagli errori commessi e sono utili per imparare a non ripeterli. Solo quando Lucia solleva il problema secondo cui i guai possono colpire anche gli innocenti (la giovane non ha fatto niente per attirarsi la persecuzione di don Rodrigo) il cercare e dibattere insieme deve spingersi oltre, su un terreno che chiama in causa la fede. Per questo è stato sottolineato dai critici il fatto che Renzo, a differenza di Lucia, è un eroe da Bildungsroman (ossia, da “romanzo di formazione”): egli commette degli errori ed impara a correggersi attraverso le conseguenze; è credente, ma la sua crescita si basa prevalentemente, a differenza di quanto accade a Lucia, su virtù cardinali (che riguardano cioè l’uomo e la vita quotidiana, diversamente dalle virtù teologali – fede, speranza, carità – che si riferiscono al rapporto con Dio e alla fedeltà alla dottrina. Per i cattolici le virtù cardinali sono quattro: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza). La sua prima conclusione consiste, perciò, nella lezione morale, che riportiamo qui di seguito: essa è tratta dal capitolo XXXVIII, e precede il vero e proprio sugo di tutta la storia. Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. “Ho imparato,” diceva, “a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere.” E cent’altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, “e io,” disse un giorno al suo moralista, “cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, volume II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954

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Focus

LE OSSERVAZIONI SULLA MORALE CATTOLICA

Una decisiva svolta nel pensiero religioso di Manzoni si verifica a partire dalla prima stesura delle Osservazioni sulla morale cattolica (composta fra il 1818 e il 1822, è pubblicata nelle Opere varie fra il 1845 e il 1855; la seconda parte resterà però incompiuta e sarà pubblicata postuma): l’opera costituisce la confutazione delle accuse mosse alla Chiesa cattolica dallo storico svizzero Sismondi (1773-1842). Nello scritto, l’interesse di Manzoni non è rivolto agli aspetti teologici del Cattolicesimo, fedelmente accettati per effetto del magistero della Chiesa, ma – come dice il titolo stesso – a quelli morali. In opposizione alla pretesa degli ambienti riformati di essere depositari di un’interpretazione e di una pratica fedeli del Vangelo, lo scrittore intende, insomma, difendere esplicitamente il Cattolicesimo. Manzoni manifesta nell’opera un’assoluta fiducia nella religione come fondamento di tutto ciò che è positivo nel mondo: citando San Paolo, ricorda che tutto quello che è vero, tutto quello che è puro, tutto quello che è giusto, tutto quello che è santo, tutto quello che rende amabili, tutto quello che fa buon nome, […] tutto è in quel libro divino. Posto a confronto con le moderne filosofie, il Vangelo si rivela in tutta la sua forza e in tutta la sua attualità: le idee più moderne e avanzate vi sono incluse e il compito del cristiano è rivendicarle al Vangelo. Pensiero laico e pensiero cristiano, se rettamente confrontati e interpretati, insomma, non si oppongono, né esiste una distinzione dualistica fra bene e male (il concetto verrà ribadito, anche con fine umorismo nel romanzo: si pensi al personaggio di Donna Prassede, rigidamente moralista). Quei valori che in gioventù Manzoni ha trovato affermati nei migliori pensatori dell’Illuminismo e nei migliori romantici sono dunque presenti anche nel Cristianesimo, e in maniera più chiara e alta. Ecco perché la religiosità manzoniana, pur rivendicando le ragioni del cuore, non cede mai all’irrazionalismo; il Cristianesimo è per lo scrittore anche l’unica risposta razionale (ma di una razionalità superiore, che oltrepassa i limiti e le possibilità di comprensione della mente umana) al mistero dell’esistenza. Secondo quanto Manzoni scrive, la norma morale non può però prescindere dall’annuncio – che è fonte di speranza – del perdono che Cristo ha conquistato per gli uomini: perché la disperazione è la causa di un ostinato e radicale persistere nella colpa. La religione cristiana è dunque considerata un’esperienza di vita che muta profondamente il modo di pensare e di agire, in cui chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine ricorra ad essa (l’autore lo scriverà esplicitamente nel capitolo X dei Promessi sposi a proposito della monaca di Monza) può trovare consolazione e speranza. Non esiste, in conclusione, neppure nei momenti di più aspro rigore morale – ossia, negli scritti dei primi anni Venti – una concezione manzoniana (di impronta giansenista o calvinista) della predeterminazione al male e dell’impossibilità di salvezza, neppure per chi, apparentemente, chiude gli occhi alla luce del bene.

Lorenzo Bartolini, La carità educatrice. Firenze, Palazzo Pitti.

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

La Storia e l’Antistoria

Giorgio Bárberi Squarotti

Giorgio Bárberi Squarotti individua la novità più clamorosa dei Promessi sposi non soltanto nella scelta di rendere protagonisti della propria opera personaggi di umili origini, ma soprattutto in quella di applicare loro il genere alto, in precedenza riservato ai potenti della storia. Con clamoroso rovesciamento, la Storia con la maiuscola, la storia ufficiale, che nell’Adelchi era il luogo della violenza e dell’ingiustizia, diventa anche quello del comico, del ridicolo e del meschino, mentre quella che il critico definisce l’Antistoria acquista dignità e esemplarità tragica. Ciò dipende da due fattori concomitanti: il cambiamento di genere letterario, con il passaggio dalla tragedia al romanzo, e il carattere peculiare del cristianesimo manzoniano, basato sul rovesciamento radicale di valori che la morte sulla croce di Cristo, supplizio riservato ai peggiori malfattori, ha reso possibile. La Storia è, sì, il luogo della memoria degli eventi e dei personaggi che il Tempo, invece, tende a cancellare e a far scomparire: cioè, risponde perfettamente all’idea della conservazione degli accadimenti e delle imprese degli uomini, che le è tradizionalmente propria, ma l’immagine della Storia che l’Anonimo premette al suo scartafaccio è nettamente diversa da quella che ha per protagonisti prìncipi ed eroi, re e ministri, cioè è altro dalla Storia dei grandi della terra, in quanto si riferisce a “gente meccaniche e di piccol affare”, ovvero [...] si occupa di gente umile [...]. Anzi, attraverso l’Anonimo è respinto il sublime come lo spazio proprio della storia: non i maneggi politici, non le guerre sono il tema della narrazione, ma, in più, di fronte agli eventi che saranno oggetto di racconto, neppure hanno rilevanza ed efficacia le opere di coloro che credono di governare il mondo, dal Re Cattolico al governatore di Milano e ai senatori e ai magistrati dello Stato milanese, impotenti, nonostante abbiano gli occhi d’Argo e le braccia di Briareo1, a provvedere alle vicende delle “gente meccaniche e di piccol affare”. È un capovolgimento radicale della concezione della storia propria della tradizione classica non più che di quella moderna: attraverso l’ironico portavoce che è l’Anonimo, il Manzoni avanza un’idea della storia come l’antisublime, che rifiuta (con dichiarazione di più o meno finta modestia) i “Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi”, ovvero ciò che costituisce, per generale accordo di ‘genere’, l’argomento stesso della storia, per privilegiare ciò che la storia non ha mai contenuto, calcolatamente e deliberatamente ignorandolo, ovvero le vicende di gente comune. Contemporaneamente, l’Anonimo suggerisce il rifiuto dell’eroico e del tragico, in quanto spazi deputati esclusivamente a coloro che detengono il potere ed esercitano i maneggi politici e le vicende della guerra. La storia, insomma, che il Manzoni mette da parte con l’aiuto della “grandine di concettini e di figure” del “buon secentista”, è quella stessa che ha costituito il luogo delle due tragedie Il Conte di Carmagnola e l’Adelchi: il discorso è rivolto a se stesso, e vale come definizione di un ribaltamento completo di genere dalla tragedia al romanzo. […] Ma l’Anonimo offre al Manzoni anche il modo di dichiarare la possibilità che gli eventi degli uomini comuni abbiano in sé esemplarità e dignità di memoria e di rappresentazione, cioè proclama che il significato degli eventi raccontati non dipende dalla condizione dei personaggi (quella umile che gli verrà più volte rimproverata, dallo Zajotti come dal Tommaseo2), ma dalla natura dei fatti e delle azioni, e le operazioni di “gente meccaniche” possono contenere in sé “luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con Intermezzi d’Imprese virtuose e buontà angeliche”, non meno tipiche e significative delle azioni dei grandi per un’antifrasi che sembra soltanto barocca ed è, invece, tipicamente cristiana. La letteratura, insomma, allontana da sé, con l’ironia della dichiarazione di inadeguatezza e di modestia, le azioni dei grandi e dei potenti della Storia […]; e sceglie per la prima volta le vicende degli umili, nelle quali, però, scopre quella tragicità, quell’orrore e quell’esemplarità morale, che le operazioni dei signori della Storia più non possiedono. […] Il romanzo è il luogo della letteratura deputato alla rappresentazione delle vicende di operai e gente del popolo, ma non soltanto in quanto genere letterario che non ha pretese di sublime e bene si adatta a situazioni e a personaggi “comuni”, ma in quanto spazio nel quale si può attuare, senza il condizionamento della trattatistica di derivazione classicistica, quale è quella che, nonostante tutto, an-

1. Argo… Briareo: creature del mito classico; il primo è un mostro dagli infiniti occhi sparsi su tutti il corpo; il secondo un gigante dalle cento braccia. L’espressione iperbolica allude agli strumenti di controllo e di esercizio della violenza di cui le autorità spagnole dispongono. 2. Zajotti... Tommaseo: Paride Zaiotti, critico ottocentesco

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autore di un noto saggio sui Promessi sposi (Del romanzo in generale ed anche dei “Promessi Sposi”, romanzo di Alessandro Manzoni, 1827); Niccolò Tommaseo, poligrafo (cfr. pag. 615 e segg.), fu amico di Manzoni ed editore delle sue opere, nonché suo importante biografo (Colloqui col Manzoni).

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cora regge la tragedia pur con le “novità” romantiche che vi hanno, tuttavia, apportato più variazioni formali (il rifiuto delle cosiddette unità aristoteliche) che sostanziali (restano a costituirla i personaggi del potere, i reggitori del Palazzo, i facitori della Storia), anche la rivoluzionaria rappresentazione del significato e del valore assoluto delle operazioni e delle azioni degli appartenenti alle classi subalterne, sostituite a quelle dei “grandi” del mondo. La Storia è, in realtà, la depositaria delle imprese magnanime e illustri, che ha, anzi, il compito di trarre fuori dalle tenebre della dimenticanza e salvare dalla corrosione del tempo: e ecco allora che, attraverso l’Anonimo, il Manzoni sceglie l’Antistoria delle “gente meccaniche e di piccol affare”, che, tuttavia, nella proclamata degradazione della Storia, finisce a rappresentare il vero luogo della tragicità, della malvagità, della bontà, del sublime [...]. La contrapposizione fra tragedia e romanzo non potrebbe essere più radicale: proprio all’interno della propria vicenda di scrittore, che ha chiuso l’Adelchi con il celebre dilemma fra il fare torto e il patirlo, per il quale non c’è altra soluzione che la morte, quella morte che, infatti, Adelchi accetta e sceglie con estrema lucidità, compiangendo il vincitore Carlo, che resta implicato fino in fondo nell’impossibilità nel mondo dei sovrani di essere altro che oppressore o vinto (non potendo essere vittima se non per grazia di Dio che, con provvida sventura, può far cadere chi è disceso dalla stirpe degli oppressori fra gli oppressi). Nella Storia non ci sono altre possibilità che quelle, improponibili e tragiche, del dilemma di Adelchi: ma, allora, bisogna uscirne fuori, nell’Antistoria delle “gente meccaniche e di piccol affare”, quella che non può, però, essere oggetto del genere sublime e politico che è la tragedia, ma trova, invece, il suo spazio nel romanzo come genere non classico (e il termine “tragedia”, allora, verrà significarvi la reale e concreta condizione della vittima e dell’oppresso nell’ottica cristiana della Croce, che segna di un ossimoro lancinante l’intera vicenda della storia […]). La scelta del genere romanzesco, che, ironicamente, il Manzoni riferisce all’Anonimo, è, quindi, in rapporto con un capovolgimento vertiginoso di prospettive di giudizio di dignità e di valore delle azioni umane: l’esempio non è nelle operazioni dei potenti e dei grandi, che, anzi, non possono fornire che la dimostrazione della propria impotenza, ma è nelle vicende della povera gente, in quanto offre il paradosso, assurdo per la tradizione classicistica, della tragicità e della grandiosità e dell’esemplarità collocate in situazioni e in personaggi di piccolo affare. da Il romanzo contro la storia. Studi sui “Promessi Sposi”, Vita e pensiero, Milano, 1980

Nicola Cianfanelli, Lucia ai piedi dell’Innominato, 1834. Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.

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Concetti chiave LA VITA Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785: il padre Pietro è un cattolico reazionario; la madre, Giulia Beccaria, si è formata alla scuola dell’Illuminismo lombardo. L’insofferenza per l’atmosfera dei collegi religiosi spinge Manzoni all’ateismo e alla lettura dei filosofi illuministi, che approfondisce durante il soggiorno parigino (dal 1805). Nel 1808 sposa Enrichetta Blondel, e due anni dopo si converte al Cattolicesimo. Anche dopo il successo, vive sempre in posizione defilata, tra Milano e la villa di Brusuglio: se ne allontana per tre viaggi in Toscana, durante i quali approfondisce la questione della lingua. Ciò non gli impedisce di diventare il simbolo del nuovo Stato italiano, di cui è senatore e di cui difende la laicità. Gli ultimi anni sono funestati da numerosi lutti famigliari e da problemi di carattere economico. Muore nella sua città nel 1873. A dispetto dello stereotipo tradizionale, Manzoni è un animo inquieto, spesso tormentato da crisi nervose, che alterna periodi di intenso lavoro a lunghe pause di inattività. L’esigenza di moralità e l’aspra severità, per cui si è spesso richiamato il Giansenismo, si esercitano innanzi tutto nei confronti di se stesso; la sua religiosità è problematica, divisa tra pessimismo sulla natura umana e sentimento del dovere dell’azione, tra accettazione fiduciosa della volontà di Dio e istinto di ribellione di fronte all’ingiustizia del male, che colpisce gli innocenti. IL PENSIERO Dopo la simpatia giovanile per le tesi illuministiche e rivoluzionarie, Manzoni, seppure su basi razionalistiche, aderisce al Romanticismo (lo attesta la Lettera a Fauriel); nel 1810 si riavvicina al Cristianesimo ed entra nell’ottica di un liberalismo cattolico sostenitore dell’unità nazionale e della giustizia sociale. I temi centrali del suo pensiero riguardano la meditazione sul destino dell’uomo nella storia e il problema del senso della sofferenza, che in una prima fase (nelle tragedie) ritiene inevitabile prezzo da pagare per la vita eterna (pessimismo cristiano e concezione della provida sventura), mentre in una seconda fase (ossia nel romanzo I promessi sposi) viene inquadrato in una funzione edu-

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cativa e purificatrice per portare a una vita migliore, almeno in parte raggiungibile già prima della morte. LA POETICA La produzione manzoniana è romantica, ma aperta alla riflessione razionale e al distacco umoristico. L’oggetto della letteratura (lettera Sul Romanticismo, 1823), è il vero (sia il vero storico, sia la verità cristiana); l’interessante è il mezzo per raggiungere l’utile, che è lo scopo morale ed educativo. Sul piano linguistico, l’obiettivo di Manzoni è quello di fondare una lingua italiana in grado di raggiungere un pubblico nazionale e medio, rifacendosi all’uso e alla lingua parlata, che infine egli rintraccia nel toscano contemporaneo usato a Firenze dai ceti mediamente colti. LE OPERE MINORI Gli Inni sacri, testi poetici che celebrano le festività liturgiche cristiane nell’intento di rinnovare la lirica religiosa, sono: La Resurrezione (1812-1815), Il nome di Maria (18121815), Il Natale (1813-1815), La Passione (1814-1815), La Pentecoste (1817-1822). Le poesie civili e politiche sono dedicate ad avvenimenti contemporanei: Aprile 1814 e Il proclama di Rimini (1814-1815) sono un omaggio al definitivo tramonto del potere napoleonico in Italia. Marzo 1821, scritta quando sembra che Carlo Alberto intenda iniziare la guerra per l’unificazione italiana, esalta l’ideale patriottico. Il cinque maggio, scritta per la morte di Napoleone a Sant’Elena, immagina che l’uomo un tempo più potente del mondo, ridotto alla disperazione, abbia compreso quanto poco conti la gloria terrena, convertendosi alla fede cristiana. Le tragedie in versi a sfondo storico sono due: Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822). La prima, in cinque atti, è preceduta da una Prefazione in cui Manzoni polemizza contro le unità aristoteliche di tempo e luogo, in nome della più libera e moderna creatività romantica, ed è seguita dalla Lettera a monsieur Chauvet, in cui motiva le ragioni di tale scelta, chiarisce la funzione del coro come commento dell’autore e introduce il problema del vero. L’autore vi sostiene anche la subordinazione della poesia

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alla storia: il poeta non deve deformare le fonti storiche, ma può descrivere i sentimenti dei personaggi (vero poetico). L’azione si svolge tra il 1425 e il 1432, durante le lotte fra il Ducato visconteo di Milano e la Repubblica di Venezia. Tema centrale è il conflitto fra la ragione di Stato e la coscienza dell’uomo giusto, che ha la morte come unica via d’uscita per evitare di compiere il male. L’opera appare pessimista sulla funzione della storia. Nella seconda tragedia, Adelchi, in cinque atti, il principe longobardo diventa un eroe sconfitto, vittima del potere insensibile alla morale e al dolore. Il pessimismo cristiano di Manzoni emerge soprattutto nel personaggio di Ermengarda, che la provida sventura colloca tra gli oppressi, donandole la vita eterna. Il tema patriottico compare nel coro Dagli atri muscosi: gli Italiani non devono attendere la liberazione da un’armata straniera. Le principali opere storiche e saggistiche di Manzoni sono: la Storia della colonna infame (1821), che ha per oggetto il processo agli untori durante la peste di Milano del 1630 e come temi l’inutilità delle torture e il mancato rigore morale di giudici e politici; La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (1862-1864), in cui lo scrittore afferma che il fallimento storico e morale della rivoluzione d’oltralpe non deve pesare sulla giustezza dell’ideale rivoluzionario nazionale del Risorgimento italiano; numerosi saggi in cui l’autore espone la propria tesi sulla questione della lingua.

I PROMESSI SPOSI Costituito, nella versione definitiva, da 38 capitoli preceduti da un’Introduzione, il romanzo I promessi sposi è una delle più importanti opere della letteratura italiana. La fonte principale è il romanzo storico di Walter Scott. Accurate sono le ricerche dell’autore sul Seicento, epoca in cui la vicenda è ambientata. • La prima versione (1823), intitolata Fermo e Lucia (37 capitoli divisi in 4 tomi), inizia già con il simulato ritrovamento di un manoscritto seicentesco e termina con l’Appendice storica su la colonna infame. È caratterizzata da una struttura “a blocchi”, sono presenti ampi inserti romanzeschi autonomi (la vicenda della monaca di Monza, Geltrude, quella del Conte del Sagrato, il processo agli untori ritenuti a torto responsabili del contagio della peste) e digressioni saggistiche (trascrizione di documenti dell’epoca, dettaglia-

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te ricostruzioni storiche, opportunità di non rappresentare direttamente l’amore). • La seconda versione rivista e corretta è del 1827 e si intitola I promessi sposi, Storia milanese scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni. In essa alcune parti vengono completamente eliminate (le riflessioni sulla lingua nell’Introduzione; l’inserto sulla vita del cardinale Federico Borromeo; l’appendice sul processo agli untori), altre ridimensionate (le vicende di Gertrude, la monaca di Monza, e del Conte del Sagrato che diventa l’Innominato); vengono creati momenti di connessione fra le diverse parti; Fermo diventa Renzo e vengono introdotti altri passi narrativi. • La terza versione compare nel 1840, dopo che Manzoni soggiorna un decennio in Toscana per la risciacquatura in Arno della lingua del romanzo. È caratterizzata da una lingua viva, il fiorentino parlato dalle persone colte, che lo rende un romanzo nazionale e popolare. I promessi sposi appartengono al genere del romanzo storico, ma in esso si colgono anche aspetti del racconto filosofico cristiano, del romanzo di formazione e del romanzo d’introspezione psicologica. In esso ci sono molte pagine di stile realistico. Fondamentali sono i temi e gli spunti romantici, inquadrati però in una visione equilibrata e razionale. Il romanzo storico manzoniano si presenta come genere misto di realtà e invenzione: personaggi veramente esistiti (il cardinale Borromeo, la monaca di Monza) e vicende storiche realmente accadute (la carestia, la guerra, la peste) si intrecciano a personaggi immaginari quali Renzo e Lucia, don Abbondio, don Rodrigo, nonché a tutte le loro vicende personali. Manzoni sceglie come ambientazione storica il Seicento lombardo in quanto esemplare teatro del malgoverno straniero, nell’ottica della sua ideologia patriottica e liberale moderata, e delle prevaricazioni dei potenti sugli umili, nell’ottica dell’esaltazione dello spirito evangelico. Gli aspetti innovativi rispetto ai modelli europei sono i personaggi umili protagonisti della storia; l’adeguamento di stile e linguaggio a tale scelta; il realismo basato sulla rigorosa documentazione storica; l’introspezione psicologica che rende i personaggi vivi e credibili nella specifica individualità; la valorizzazione della persona, secondo una concezione romantica e cristiana, anche nelle pagine di denuncia politica e sociale.

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E

sercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Alessandro Manzoni nasce nel 1785 a. a Parigi. b. a Lecco. c. a Milano. d. a Brusuglio. 2. Carlo Imbonati è a. il genero di Alessandro Manzoni. b. il padre di Alessandro Manzoni. c. il convivente della madre di Manzoni. d. un personaggio minore dei Promessi sposi. 3. Le prime opere di Manzoni, poi ripudiate, sono a. Trionfo della libertà e Adda. b. In morte di Carlo Imbonati e Osservazioni sulla morale cattolica. c. Del romanzo storico e Sulla lingua italiana. d. Lettera intorno al vocabolario e Dell’invenzione. 4. La prima moglie di Manzoni si chiama a. Enrichetta Blondel. b. Giulia Beccaria. c. Teresa Borri Stampa. d. Marianna de Leyva. 5. Manzoni scrive quasi tutte le sue opere a. tra Parigi e Firenze. b. tra Milano e la campagna lombarda. c. tra Milano e Parigi. d. in Toscana. 6. Natale 1833, ultimo e incompiuto degli Inni sacri, è scritto in occasione a. della morte della madre Giulia Beccaria. b. della nascita del figlio Filippo. a. della morte della moglie Teresa Stampa. d. della morte della moglie Enrichetta Blondel. 7. Il Conte di Carmagnola e Adelchi sono due a. tragedie in prosa. b. ampie odi romantiche. c. tragedie in versi. d. poesie a tema storico. 8. La lettera a Chauvet è un testo a. che tratta della poetica della tragedia. b. che sostiene l’uso delle unità aristoteliche. c. riguardante questioni politiche. d. teorico di adesione al Romanticismo. 9. Negli anni della Restaurazione asburgica, Manzoni a. va in esilio a Parigi. b. collabora con il governo austriaco. c. scrive su “Il Conciliatore”. d. collabora segretamente con “Il Conciliatore”. 10. Il Fermo e Lucia, prima versione del capolavoro, è terminato nel a. 1820. b. 1823. c. 1827. d. 1840.

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11. Dopo il 1827 Manzoni si trasferisce a Firenze per a. motivi di salute. b. seguire la figlia Giulia sposata con Massimo d’Azeglio. c. sfuggire alla repressione degli Austriaci a Milano. d. perfezionare la lingua dei Promessi sposi. 12. L’edizione definitiva del capolavoro manzoniano è detta a. ventisettana. b. quarantana. a. Fermo e Lucia. d. Gli sposi promessi. 13. La Storia della colonna infame tratta a. del ripudio di Ermengarda da parte di Carlo Magno. b. del linciaggio di Giuseppe Prina dopo la cacciata dei Francesi da Milano. c. delle vicende storiche dei Longobardi in Italia. d. del processo milanese agli untori durante la peste del 1630. 14. Negli ultimi anni Manzoni si dedica a. alle opere teatrali. b. a studi storici e linguistici. c. alla revisione del romanzo. d. al completamento degli Inni sacri. 15. Manzoni muore a Milano a. nel 1870 b. nel 1883. c. nel 1873. d. nel 1880.

2 Rispondi alle seguenti domande (max 15 righe per ogni risposta). 1. Quali sono i punti fondamentali della poetica di Alessandro Manzoni? 2. Quali sono gli orientamenti politici e ideologici di Manzoni e in quali opere vengono espressi? 3. Quali sono i titoli e i temi delle composizioni degli Inni sacri di Alessandro Manzoni? 4. Quali diverse connotazioni assume il Cattolicesimo di Manzoni nelle due tragedie rispetto ai Promessi sposi? 5. Che cosa intende Manzoni nelle due tragedie con l’espressione provida sventura? 6. Qual è la trama, quali sono i personaggi principali, e quale l’interpretazione pessimistica del destino umano espressa dall’autore nella tragedia Adelchi? 7. Quali sono le tesi espresse da Alessandro Manzoni nelle Osservazioni sulla morale cattolica? 8. Qual è la lunga genesi dei Promessi sposi? 9. Qual è la trama del romanzo nella stesura definitiva? 10. Quale concezione finale esprime Manzoni nel sugo di tutta la storia dei Promessi sposi?

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ANALISI DEL TESTO

3 Leggi attentamente il testo e svolgi gli esercizi proposti. Nel capitolo XVII, Renzo si è ritirato a riposare in una capanna dopo essere fuggito da Milano, dove, a causa della propria ingenuità, ha rischiato l’incarcerazione ed è tuttora ricercato dalla polizia. Nella notte che doveva essere la sua prima di nozze, rimugina pensieri tristi sulla sua grave situazione e su quella della povera Lucia e di Agnese, costrette anch’esse a lasciare la loro casa. Tra questi pensieri, e disperando ormai d’attaccar sonno, e facendosegli il freddo sentir sempre più, a segno ch’era costretto ogni tanto a tremare e a battere i denti, sospirava la venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento scorrer dell’ore. Dico misurava, perché, ogni mezz’ora, sentiva in quel vasto silenzio, rimbombare i tocchi d’un orologio: m’immagino che dovesse esser quello di Trezzo1. E la prima volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così inaspettato, senza che potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli fece un senso misterioso e solenne, come d’un avvertimento che venisse da persona non vista, con una voce sconosciuta. Quando finalmente quel martello ebbe battuto undici tocchi2, ch’era l’ora disegnata da Renzo per levarsi, s’alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni, disse, e con più fervore del solito, le divozioni della mattina, si rizzò, si stirò in lungo e in largo, scosse la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le membra, che ognuno pareva che facesse da sé, soffiò in una mano, poi nell’altra, se le stropicciò, aprì l’uscio della capanna; e, per la prima cosa, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se c’era nessuno. E non vedendo nessuno, cercò con l’occhio il sentiero della sera avanti, lo riconobbe subito, e prese per quello. Il cielo prometteva una bella giornata: la luna, in un canto, pallida e senza raggio, pure spiccava nel campo immenso d’un bigio ceruleo3, che, giù giù verso l’oriente, s’andava sfumando leggermente in un giallo roseo. Più giù, all’orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra l’azzurro e il bruno, le più basse orlate al di sotto d’una striscia quasi di fuoco, che di mano in mano si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno, altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici, per dir così, s’andavan lumeggiando4 di mille colori senza

1. Trezzo: paese sull’Adda, nel Seicento confine fra Ducato di Milano e Repubblica di Venezia. 2. undici tocchi: il computo delle ore iniziava dal tramonto; sono dunque le sei del mattino. 3. bigio ceruleo: grigio mescolato d’azzurro. 4. lumeggiando: illuminando.

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nome: quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace. da I promessi sposi, a cura di S. Nigro, Mondadori, Milano, 2002

Comprensione 1. Riassumi il brano in non più di 10 righe. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 7 righe per ogni risposta). a. Di quale tipo è la voce narrante del brano? b. Quali sono i commenti in prima persona del narratore? c. Il passo può essere definito di taglio romantico o realistico? Perché? Approfondimenti 3. Analizza la descrizione paesaggistica alla fine del brano, rilevandone i principali aspetti stilistici e contenutistici e indicando, con adeguate motivazioni, se essi avvicinano il passo più al Romanticismo, al Realismo o ad altro movimento letterario. SAGGIO BREVE / ARTICOLO

4 Sviluppa uno dei seguenti argomenti in forma di saggio breve o di articolo di giornale, utilizzando come materiali di consultazione tutte le pagine dedicate a Manzoni presenti in questo volume (comprese le pagine antologiche e critiche). Dài all’elaborato un titolo coerente con la trattazione e indicane una destinazione editoriale a tua scelta. Per entrambe le forme di scrittura non superare le tre colonne di metà foglio protocollo. 1. La formazione culturale, il pensiero e la poetica di Alessandro Manzoni. 2. Le principali innovazioni dei Promessi sposi, che lo rendono il primo romanzo nazionale e popolare della letteratura italiana. 3. Il percorso e le particolarità della religiosità di Alessandro Manzoni. TEMA DI ARGOMENTO STORICO

5 Durante la sua lunga vita, Alessandro Manzoni percorre il periodo storico in cui gli Italiani, dall’età napoleonica, attraverso il cammino risorgimentale, approdano alla realizzazione dell’unità nazionale e devono far fronte ai molteplici e complessi problemi del neonato Regno. Ripercorrine le tappe più significative, accennando ai riscontri che esse trovano nelle opere in poesia e in prosa del grande scrittore lombardo.

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La letteratura

risorgimentale

Francesco Hayez, Vespri siciliani, 1864. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Anche la pittura ha un ruolo chiave nella formazione di un’identità nazionale, proponendo temi storici e incitando alla rivolta contro lo straniero. In particolare, questo dipinto si riferisce all’insurrezione popolare scoppiata a Palermo contro gli Angioini nel 1282.

LETTERATURA E BATTAGLIE CULTURALI DAL 1815 AL 1870 Il legame fra Romanticismo e Risorgimento

La letteratura romantica italiana dell’Ottocento, a parte i grandi – cioè Manzoni e in parte Leopardi – non presenta autori e opere particolarmente significative, anche perché il movimento nel nostro Paese diventa un potente veicolo culturale per combattere con la penna la battaglia civile e politica del Risorgimento.

Fasi, temi e generi La prima fase

Sul piano cronologico è opportuno distinguere due fasi. La prima fase (1830-1845) vede l’affermarsi in Italia di una cultura militante che pone l’accento sull’educazione e sul progresso nazionali, definendo un doppio orientamento: democratico da un lato – dominato dalla centralità della figura di Giuseppe Mazzini, ma anche, con molti elementi di divergenza, da Carlo Cattaneo e da Giuseppe Ferrari – e moderato-cattolico dall’altro. Giuseppe Mazzini (1805-1872) svolge un ruolo di primo piano in questi anni, come esponente della democrazia risorgimentale, prefigurando un ideale di letteratura nazionale che, aprendosi alle letterature europee, diventi strumento di educazione e di elevazione per il popolo.

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LETTERATURA RISORGIMENTALE

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La seconda fase

Temi e generi

Con la sconfitta del moto rivoluzionario del 1848, si apre una seconda fase di riflessione politica e culturale (1849-1861), che vede la maturazione della consapevolezza della necessità dell’unificazione economica e politica del Paese. La corrente moderata e neoguelfa di Vincenzo Gioberti riconosce il fallimento delle posizioni assunte e l’egemonia del Piemonte nella costruzione dell’identità nazionale dell’Italia. La tendenza democratica, invece, indebolita dal fallimento dei moti insurrezionali, elabora il principio dell’uguaglianza sociale come base del progresso storico, sostenuto dagli esponenti del cosiddetto “socialismo risorgimentale” tra i quali si distinguono Carlo Pisacane e Giuseppe Ferrari. La letteratura risorgimentale conosce comunque il predominio dei temi patriottici e nazionali; il tono propagandistico permea sia la prosa sia la poesia. I generi letterari più praticati dalla letteratura risorgimentale sono oltre alla saggistica politica, la poesia patriottica, patetica o satirica, il romanzo storico-patriottico e la memorialistica.

La poesia La poesia patriottica e popolare di Berchet

La satira di Giuseppe Giusti

Aleardi e Prati: fra vena risorgimentale e tardoromantica

Il milanese Giovanni Berchet (1783-1851) è la figura di maggiore spicco nel gruppo dei primi romantici risorgimentali. Dapprima impiegato come traduttore nell’amministrazione statale, nel 1816 pubblica la famosa Lettera semiseria di Grisostomo, che di fatto rappresenta il manifesto del movimento romantico in Italia (cfr. pag. 538 e 542-544). Collaboratore de “Il Conciliatore”, dopo i moti carbonari del 1820-1821, per sfuggire all’arresto si reca in esilio a Parigi, a Londra – dove conosce Ugo Foscolo – e infine in Belgio. Rientrato in Italia, partecipa alle Cinque giornate di Milano (1848) e, dopo la sconfitta della Prima guerra d’indipendenza (1848-1849), si trasferisce in Piemonte, dove viene eletto in parlamento come esponente di posizioni moderate. Fra le sue opere in versi – tra cui la famosa traduzione dell’ode Il bardo di Thomas Gray –, si distinguono I profughi di Parga (1822), battaglia ideale a favore dei popoli oppressi che allude alla condizione dell’Italia, e diverse raccolte – come Romanze (1822-1824) e il poemetto Fantasie (1829) –, versi vibranti di amor patrio e di incitamenti alla rivolta. In essi Berchet realizza la propria poetica, fondata su impegno etico e politico, avversione al classicismo, ispirazione alla tradizione popolare e produce testi facili e popolari rivolti al pubblico dei patrioti. Un altro filone poetico risorgimentale è rappresentato dalla satira. I versi del toscano Giuseppe Giusti (1809-1850), pubblicati su rivista, diffusi manoscritti o addirittura tramandati a memoria, sono pubblicati postumi nel 1852. Chiamati dal poeta Scherzi, consistono in un centinaio di poesie scritte dopo il 1831, in gran parte di argomento politico e civile. Vi predominano la satira e l’ironia, generalmente bonarie, non disgiunte da un sostanziale scetticismo sulla possibilità di un reale cambiamento degli uomini e della società. La prospettiva è quella della particolare realtà della Toscana, ma la penna di Giusti colpisce l’assolutismo dei governi, l’attaccamento della nobiltà a privilegi feudali, la corruzione della polizia, l’opportunismo e il conformismo che dominano nel mondo della politica. Sul piano stilistico Giusti si segnala per la grande facilità di versificazione, con l’alternanza di numerosi metri, il sapiente ricorso al dialogo e il gusto bozzettistico e caricaturale; ammiratore di Manzoni, usa un linguaggio popolare che, secondo la soluzione prospettata dal romanziere milanese, ricalca la viva espressione fiorentina. Dopo l’unificazione italiana, negli esponenti del cosiddetto secondo o tardo Romanticismo la vena risorgimentale, notevole in alcune raccolte precedenti, si affievolisce. Nei due rappresentanti più significativi, Aleardo Aleardi (1812-1878) e Giovanni Prati (1814-1884), dei quali si è già parlato (cfr. pag. 547), il fervore patriottico cede il passo all’ispirazione sentimentale e maliconica, tipica del gusto tardoromantico. Aleardi in Triste dramma (1853) canta la condanna a morte di un patriota come tragica vicenda d’amore tradito e di eroico sacrificio; Le città marinare e commercianti (1856) a tratti fanno presagire la poesia civile di Carducci; nel poemetto Il monte Circello (1856), la rievocazione del paesaggio del Circeo e della leggenda

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omerica della maga Circe si intreccia con il ricordo della vicenda medievale di Corradino di Svevia, tradito e consegnato agli Angioini, che lo condannano a morte in un castello nei pressi del monte, e che nell’opera diventa il simbolo dell’eroe romantico che combatte per l’ideale. Prati nei Canti politici (1852) e nei Canti per il popolo (1843) esprime i sentimenti, l’ideologia e le delusioni che portano al pessimismo molti Italiani dopo l’acme della parabola risorgimentale.

Il romanzo storico

Le teorie di Borsieri sulla narrativa

Grossi e il Marco Visconti

Le opere di d’Azeglio

La trama e i temi del Fieramosca

La figura di Cesare Cantù

A partire dal 1827, l’anno della prima edizione dei Promessi sposi, e fino a oltre la metà del secolo, si riscontra in Italia una vasta produzione di romanzi storici, animati da un forte spirito patriottico e risorgimentale. Il merito di avere rivendicato a livello teorico l’importanza del romanzo storico va al milanese Pietro Borsieri (1786-1852), che, nel corso della polemica classicoromantica, pubblica nel 1816 il saggio Avventure letterarie di un giorno, nel quale esalta il romanzo storico (definendolo romanzo filosofico), in quanto adatto alla formazione della coscienza morale di un popolo. Tommaso Grossi (1790-1853), nato a Bellano, sul lago di Como, si trasferisce a Milano, dove esercita la professione di notaio e diventa intimo amico di Manzoni e del poeta Carlo Porta. È anche autore del poemetto antiaustriaco Prineide (1815), delle novelle in ottave La fuggitiva (1816) e Ildegonda (1820), con cui raggiunge il successo prendendo a modello la poesia di Byron, e del poema epico I lombardi alla prima crociata (1826). Il suo capolavoro è Marco Visconti (1834), romanzo storico con elementi drammatici, amorosi e morali. Ambientato in Lombardia, nel Trecento, narra l’amore contrastato fra Bice del Balzo e Ottorino Visconti, cugino di Marco (condottiero e fratello di Galeazzo), che, invaghitosi della ragazza, ostacola il matrimonio fra i due e si pente delle proprie malefatte solo poco prima di essere ucciso a tradimento. La narrazione di numerosi avvenimenti storici – documentati sulle cronache del tempo, secondo l’esempio manzoniano – si intreccia al racconto delle vicende dei personaggi. Ispirandosi alla trama dei Promessi sposi e alla figura dell’Innominato – come lui, Marco Visconti si pente, alla fine, delle proprie malefatte – Grossi inserisce però anche elementi patetici, tragici e avventurosi che si rifanno all’inglese Walter Scott. Liberale moderato, antimazziniano e antigaribaldino, legato a Manzoni, di cui è genero, Massimo Taparelli d’Azeglio (1798-1866) si dedica alla pittura, alla politica e alla letteratura. È autore di romanzi storici come Ettore Fieramosca ossia la disfida di Barletta (1833) e Niccolò de’ Lapi (1841), di opuscoli a tematica politica (Degli ultimi casi di Romagna, 1846; I lutti di Lombardia, 1848) e dell’autobiografia, pubblicata postuma, I miei ricordi. Le opere di d’Azeglio, benché ambientate nel passato, mirano palesemente a un’educazione patriottica, attraverso la rievocazione della grandezza degli Italiani. L’autore non ha la pretesa di ricostruire fedelmente gli eventi, ma è interessato piuttosto a creare figure di eroi leggendari, capaci di ispirare nobili sentimenti nell’animo dei lettori. Il capolavoro di d’Azeglio, Ettore Fieramosca, è ambientato al tempo della guerra tra Francesi e Spagnoli per il dominio su Napoli e ha come fulcro l’episodio della disfida di Barletta, causata dall’insulto di un cavaliere francese che accusa di codardia gli Italiani militanti nell’esercito spagnolo. Al motivo patriottico si affianca il tema amoroso: Ettore Fieramosca ama la bella Ginevra di Monreale, costretta a sposare Grajano d’Asti – combattente, per denaro, nelle truppe francesi – e insidiata dal duca Valentino. Dopo la sfida, che vede la vittoria degli Italiani e la morte di Grajano, Fieramosca scopre che Ginevra è stata rapita e violentata dal duca Valentino ed è morta; egli allora si uccide gettandosi in mare, in preda al dolore. Cesare Cantù (1804-1895), nato a Brivio, presso Lecco, dopo essere stato romantico e patriota fino al 1848, aderisce a posizioni sempre più moderate. Autore dotato di una marcata vena polemica, esordisce con il poemetto Algiso (1828), per poi raggiungere il successo con il romanzo storico Margherita Pusterla (1838), ripubblicato in più di cento edizioni fino alla fine dell’Ottocento.

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LETTERATURA RISORGIMENTALE

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Il romanzo Margherita Pusterla

Guerrazzi: radicalismo democratico e anticlericalismo

Beatrice Cenci

È anche autore di una Storia universale in trentacinque volumi, pubblicata tra il 1838 e il 1846, di una Storia della letteratura italiana (1865) e di manuali scolastici e libri per l’infanzia, animati da un forte legame con i valori della tradizione e della cultura cattolica. Figura importante dell’Ottocento italiano, amico di Manzoni e di Cesare Balbo, Cantù si inserisce nella cerchia romantica per le sue idee antiaustriache (e, contemporaneamente, rispettose delle indicazioni della Chiesa) e per la natura versatile della sua scrittura, che si manifesta in opere appartenenti a generi letterari diversi, sempre animate da moralismo. Nel romanzo Margherita Pusterla, l’autore ricostruisce la storia della Milano trecentesca: al centro della trama è il personaggio di Margherita, sposa di Franciscolo Pusterla, insidiata da Luchino Visconti, signore della città. Dopo aver tentato invano di sottrarsi alle mire del Visconti, Margherita è infine condannata a morte con il figlio e il marito. L’opera si ispira, con tinte molto più forti, e talora quasi da romanzo “gotico”, alla principale linea narrativa del romanzo manzoniano. Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), livornese e mazziniano, è l’animatore della rivolta contro il granduca in Toscana negli anni 1848-1849 e, ispirandosi a ideali radicalmente democratici, è uno degli intellettuali che più attivamente affianca alla riflessione teorica la pratica rivoluzionaria. Considerando la scrittura uno strumento d’azione capace di infondere negli animi dei lettori idee politiche e sentimenti patriottici, Guerrazzi è autore di una vasta produzione, che comprende oltre a romanzi storici quali L’assedio di Firenze (1836), Veronica Cybo (1838), Isabella Orsini (1844), Beatrice Cenci (1853), scritti di genere polemico e saggistico, racconti ironici e opere autobiografiche. Le sue opere narrative si collocano lontano dal modello manzoniano per un acceso anticlericalismo, per un marcato uso di elementi orridi e terrifici tratti dalla tradizione del romanzo “nero” e per la presenza di personaggi eroici, riecheggianti le figure create da Byron, autore da lui molto amato. La sua opera narrativa più conosciuta, Beatrice Cenci (1853) – che si colloca fra romanzo storico e “nero” –, ha come protagonista Francesco Cenci, che tenta di violentare la figlia Beatrice e viene ucciso dall’innamorato di costei, Guido Guerra. Beatrice e altri membri della famiglia Cenci vengono arrestati e sottoposti a torture; infine Guido Guerra confessa il delitto e, con Beatrice, viene condannato a morte dalla giustizia dello Stato della Chiesa. La tragica vicenda di Beatrice – figura realmente esistita alla fine del XVI secolo – è ricostruita dall’autore a forti tinte, con lo scopo di presentare le autorità dello Stato pontificio come ferocemente prive di virtù.

La memorialistica Le finalità della memorialistica

Le memorie del carcere

Nella produzione risorgimentale italiana si riscontra una vasta mole di opere memorialistiche che, oltre a rispondere al gusto romantico per l’analisi introspettiva e la scrittura autobiografica, rivelano l’urgenza di diffondere testimonianze a carattere etico-politico, nell’intento di formare la nuova coscienza nazionale ed esaltare gli ideali civili liberali e progressisti. Prendendo dalla cultura romantica l’attenzione per l’individuo e per il suo percorso esistenziale, queste opere – che si presentano in forme diverse, dai diari, alle testimonianze, alle autobiografie – sono da inserire a pieno titolo nel panorama letterario grazie alla qualità della loro scrittura e al loro alto valore morale. I memorialisti italiani dell’Ottocento sono uomini attivi nella lotta per l’unificazione d’Italia, che raccontano le esperienze vissute personalmente e testimoniano così il loro contributo alla causa nazionale, con un intento non solo politico o celebrativo ma anche pedagogico e documentario. Se, infatti, la vena polemica è più marcata nelle opere scritte durante lo svolgersi degli avvenimenti, quelle composte al termine del Risorgimento rivelano maggiormente l’aspirazione degli autori a tramandare ai posteri il ricordo, nella speranza che le nuove generazioni siano educate ai valori che hanno animato la lotta per la libertà nazionale. Alcune opere sono classificabili come memorie scritte durante o subito dopo l’esperienza del carcere: è il caso di Le mie prigioni di Silvio Pellico e del Manoscritto di un prigioniero (1833) di Carlo Bini (1806-1842).

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Silvio Pellico e Le mie prigioni

Le cronache e le autobiografie

Il filone legato alla spedizione dei Mille

Silvio Pellico (1789-1854), amico di Ugo Foscolo e autore della tragedia Francesca da Rimini (1815), lavora, oltre che per “Il Conciliatore”, come precettore presso famiglie nobili milanesi. Guardato con sospetto dagli Austriaci, dopo la sua adesione alla Carboneria viene arrestato nel 1820, rinchiuso nel carcere di Venezia, condannato a morte nel 1822 e successivamente a quindici anni di carcere duro, da scontare nella fortezza dello Spielberg in Moravia. Graziato nel 1830, Pellico trascorre il resto dell’esistenza in volontaria solitudine, lavorando come bibliotecario presso la marchesa di Barolo e distinguendosi per il suo moralismo religioso. Il suo capolavoro, Le mie prigioni (1832), che denuncia le condizioni cui sono sottoposti i patrioti incarcerati, è un’opera poco gradita a molti rivoluzionari risorgimentali, che giudicano negativamente la fiducia moralistica che l’autore – anche nelle condizioni più mortificanti – dimostra verso gli uomini. La narrazione, che rivela un forte intento educativo, ricostruisce infatti, in modo semplice e diretto, il percorso di sofferenza fisica e morale e di maturazione interiore del prigioniero, a partire dal suo arresto nel 1820, fino alla liberazione. Tra le opere memorialistiche dell’Ottocento, citiamo qui anche le cronache, cioè ricordi degli avvenimenti politici annotati, per così dire, in diretta, come la Cronaca dei fatti di Toscana di Giuseppe Giusti e l’Apologia della vita politica di Guerrazzi. Sono da distinguere da esse le autobiografie scritte al termine dell’esistenza per rievocare vicende pubbliche e private, come I miei ricordi (1867) di Massimo d’Azeglio, e Ricordanze della mia vita (pubblicate postume nel 1879-1880) di Luigi Settembrini (1813-1876), in cui l’autore ripercorre gli anni della formazione intellettuale e dell’impegno politico nella lotta contro l’oppressione borbonica. Una menzione meritano le memorie che ricostruiscono vicende di formazione intellettuale, come nel caso del frammento postumo La giovinezza (1889) di Francesco De Sanctis. Infine costituiscono un vero e proprio filone le opere connesse alla spedizione dei Mille. In questi scritti, talora segnati da una vena di retorica, al desiderio di rievocare e testimoniare l’impegno personale per la causa dell’unificazione, si affianca il desiderio di celebrare la personalità, le gesta, il destino di Giuseppe Garibaldi. Oltre al testo più famoso, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille (1891) di Giuseppe Cesare Abba (1838-1910), notevole per la vivacità descrittiva e l’intento storico-documentaristico, si ricordano I Mille. Da Genova a Capua (1902) di Giuseppe Bandi (18341894), Con Garibaldi alle porte di Roma (1895) di Anton Giulio Barrili (1836-1908), Memorie alla casalinga di un garibaldino (1866) di Eugenio Cecchi (18381932) e Garibaldi (1882) di Giuseppe Guerzoni (1835-1886).

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Focus

FRANCESCO DE SANCTIS

La figura di Francesco De Sanctis (1817-1883), grande saggista, occupa un ruolo centrale ed a sé stante nella letteratura italiana risorgimentale. Nato nel 1817 presso Avellino, dopo aver studiato con il purista Basilio Puoti (1782-1847), dal 1838 al 1848 insegna a Napoli e abbraccia il pensiero democratico di Giuseppe Mazzini. Con gli allievi, De Sanctis prende parte all’insurrezione del 1848 contro i Borbone; dopo la sconfitta si rifugia in Calabria, ma, arrestato nel 1850, ripara fortunosamente, nel 1853, a Torino, dove insegna e inizia a pubblicare studi di letteratura. Dopo l’unificazione d’Italia, ritorna a Napoli, dove si dedica all’attività politica. Nel 1861, nominato da Cavour, è per un anno ministro della Pubblica Istruzione, ma nel 1865 non viene rieletto al parlamento e riprende a studiare e a lavorare ai propri saggi. Tra il 1870 e il 1871, in due volumi, pubblica a Napoli il suo capolavoro, la Storia della letteratura italiana, pietra miliare nella critica letteraria. Essa rappresenta, in Italia, la prima sintesi organica della letteratura del Paese, esposta seguendo un filo conduttore cronologico, e in grado di cogliere e integrare gli aspetti di contenuto e forma, il rapporto con la storia della società, con la vita e il pensiero degli autori e i valori specificamente estetici e stilistici. De Sanctis scandisce la letteratura italiana in tre grandi epoche: il Medioevo, che culmina nell’opera di Dante, il Rinascimento, che da Petrarca giunge all’età barocca, e il rinnovamento operato dall’Illuminismo e dal Romanticismo. Lo studioso individua periodi di fioritura, caratterizzati da una vitalità civile e morale che si riflette nella personalità degli autori e delle opere – Dante, il razionalismo di Machiavelli, la svolta antiaccademica di Parini e Alfieri, Manzoni e Leopardi – ed età di involuzione, in cui l’assenza di valori determina stanchezza morale e conseguente esercizio vuoto e formalistico dell’arte (Petrarca e il tardo Medioevo, il Classicismo, il Barocco, l’Arcadia): in tali fasi, a suo avviso, non vi è vera poesia ma solo letteratura. Il metodo critico di De Sanctis attribuisce notevole importanza al mondo umano e morale degli autori e al contenuto delle opere. Egli elabora una propria originale chiave di valutazione dell’opera letteraria, in cui il contenuto e la forma rappresentano un’unità inscindibile. Dopo aver insegnato all’Università di Napoli, torna a ricoprire la carica di ministro della Pubblica Istruzione dal 1878 al 1881; muore a Napoli nel 1883.

T1 Per una letteratura europea, strumento di integrazione fra i popoli da D’una letteratura europea

Giuseppe Mazzini

Sebbene abbia trascorso quasi tutta la vita da esule, in Svizzera, in Francia e a Londra, Giuseppe Mazzini è considerato il maggiore esponente della corrente democratica del Risorgimento italiano; secondo la sua idea, nel processo di unificazione nazionale spetta un ruolo centrale al popolo, a condizione che sia adeguatamente educato ai più alti ideali. L’obiettivo è un’Italia unita, indipendente e repubblicana. Accanto all’impegno politico, si colloca la riflessione letteraria di Mazzini, la sua adesione al Romanticismo e la concezione civile e sociale della letteratura e della cultura. In tutti i suoi testi letterari domina il principio del valore educativo dell’arte, intesa come strumento del progresso universale. Nel saggio D’una letteratura europea (pubblicato nel novembre del 1829 sull’“Antologia” di Vieusseux, organo culturale del moderatismo toscano), Mazzini auspica una letteratura che sconfini dal carattere nazionale per farsi interprete di una cultura europea, cogliendo le istanze profonde della realtà. PISTE DI LETTURA • La civiltà europea verso una progressiva integrazione • Il ruolo degli scrittori per fondare una nuova letteratura • Tono didascalico Non v’ha1 dunque una causa immutabile, eterna, che ponga invincibili differenze d’indole, di passioni e di desideri tra popolo e popolo: non v’ha legge, costituita dalla natura, che assegni prepotentemente un gusto particolare, una invidia1. non v’ha: non vi è.

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Ogni popolo sviluppa le sue caratteristiche in modo diverso

Le letterature inizialmente sono locali e molto diverse

bile caratteristica a ciascuna delle famiglie nelle quali è divisa l’umana schiatta2. Le leggi, figlie quasi sempre della singolare volontà, anziché del comune suffragio, imprimono sole una varia direzione alle potenze morali, e sviluppano diversamente i semi di perfezionamento, che fermentano occulti in ogni nazione. L’un popolo s’innoltra rapido nelle vie della civiltà progressiva, l’altro rimane addietro, o travia3. Quindi varie le costumanze, derivazioni per lo più delle leggi; varie le credenze, perché la necessità di moto, che stimola perpetuamente gli umani, si consuma negli interessi nazionali, dove ne è concesso l’esame, e si sfoga in superstizioni, dove in altro è vietato. Intanto dalle ineguaglianze sorgono le superbie e le invidie, e agli uni la coscienza della propria civiltà pone facilmente il sorriso di scherno sul labbro, agli altri la ferocia della ignoranza aguzza il ferro nel pugno. Quindi gli odi e le guerre, dalle quali i vincitori imparano a sprezzare la scienza de’ vinti, e questi a vendicarsi collo sdegnare d’accomunar co’ primi4 i tesori dell’intelletto. E la civiltà nondimeno5 s’allarga, e diffondendo i suoi raggi su’ popoli che ne andavano privi, tende a ravvicinar gli uni agli altri6; ma ogni passo fatto da un lato sembra quasi usurpazione all’orgoglio di chi fu primo, come ogni consiglio dall’altro assume aspetto d’intolleranza agli occhi di chi sente il vigore de’ suoi principii, e molti pregiudizi, già minati dal tempo, si difendono acremente per soverchio timore di cedere, e molti ottimi esempi si rifiutano per sospetto di giogo. Così hanno vita e si perpetuano le pretensioni d’un gusto letterario che desume i suoi privilegi dal clima; così le nazioni, educate dalle sciagure a diffidare dello straniero, fomentate da chi paventa l’unione de’ popoli, s’avvezzano a scorgere un oltraggio a’ loro diritti in ogni tentativo di riavvicinamento, e rifiutano la cittadinanza al genio, perché nato sotto un diverso grado di latitudine. Le istituzioni e le vicende politiche, diverse ne’ diversi paesi, hanno dunque, io ripeto, prodotto le differenze che sceverano7 una letteratura dall’altra; e poiché le istituzioni de’ popoli son pur varie oggidì di tempra e di basi, le disparità nel gusto letterario parrebbero inevitabili tuttavia; ma una considerazione fondata su’ fatti s’oppone al dubbio. Finché l’incivilimento d’un popolo è ne’ suoi principii, o di poco oltre, i suoi progressi sono affidati a pochi uomini, ne’ quali si congiungono senno e vigore, e le moltitudine ignare, ed inerti, stanno paghe a risentirne8 i taciti benefizi. La letteratura limitata a pochi, non afforzata9 dal pensiero comune, ritrae lo stato positivo e materiale delle società, più che non s’inviscera nella morale tendenza, pinge, più che non crea, segue i progressi dell’incivilimento, e ne esprime i gradi, più che nol precede sviluppandone i germi. Allora le istituzioni formano l’unica potenza dominatrice, allora esse stampano nelle lettere quelle particolari caratteristiche, quella impronta locale, di cui s’è detto finora. Ma quando la civiltà s’è già di tanto innoltrata da far riguardare come antica l’età del suo primo apparire, la forza delle istituzioni non è più né assoluta, né cieca. I progressi dell’esperienza, e la istruzione più universalmente diffusa, logorando molti pregiudizi e molte incaute venerazioni, accrescono il numero di coloro che vogliono vedere e giudicare da sé; e dalla concordia delle osservazioni e de’ giudizi s’innalza a poco a poco sulle rovine dell’autorità la potenza della pubblica opinione10. [...] Se finalmente i popoli invocano un vincolo comune a tutti, una fratellanza che nacque con essi, poco monta11 che il capriccio o l’interesse di pochi e leggi diverse s’ostinino a disgiungerli; il fine della letteratura rimane determinato; essa deve impadronirsi di questa tendenza; dirigerla, perfezionarla, perché l’opera dei secoli non può retrocedere.

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da Scritti politici, a cura di F. Della Peruta, Einaudi, Torino, 1976

2. umana schiatta: genere umano. 3. travia: devia. 4. accomunar co’ primi: mettere in comune con i vincitori. 5. nondimeno: nonostante questo. 6. tende a ravvicinar... altri: la civiltà rende gli uomini più vicini e simili gli uni agli altri. In altre parole, secondo Mazzini, il progresso civile rende possibile e più facilmente praticabile l’unione tra i popoli.

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7. sceverano: distinguono. 8. stanno paghe a risentirne: sono appagate di riceverne. 9. afforzata: resa forte, sostenuta. 10. I progressi... pubblica opinione: Mazzini individua in questo passaggio della storia di ciascun popolo il momento in cui nascono il senso critico e l’opinione pubblica, ossia la coscienza dei singoli di essere cittadini, parte di una nazione. 11. monta: conta.

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inee di analisi testuale I popoli e il progresso L’argomentazione di Mazzini si sviluppa sulla base di passaggi logici precisi, ma il suo scritto è alimentato da una passionalità vivificatrice tipicamente romantica. A suo avviso, ogni popolo sviluppa le sue caratteristiche in modo specifico a seconda delle legislazioni e degli interessi nazionali. Per questo motivo, un popolo s’innoltra rapido nelle vie della civiltà progressiva, l’altro rimane addietro, o travia e dalle ineguaglianze sorgono le superbie e le invidie, gli odi e le guerre. Così, anche se la civiltà nondimeno s’allarga, e [...] tende a ravvicinar gli uni agli altri, si producono e si mantengono le differenze fra una letteratura dall’altra. Finché l’incivilimento d’un popolo è all’inizio, e la letteratura è limitata a pochi, si impone nelle lettere l’impronta locale. Ma quando la civiltà è avanzata, e la forza delle istituzioni non è più né assoluta, né cieca, il progresso e la istruzione più universalmente diffusa fanno aumentare il numero di coloro che vogliono vedere e giudicare da sé (da notare come Mazzini descriva modernamente tale fenomeno: s’innalza a poco a poco sulle rovine dell’autorità la potenza della pubblica opinione). La funzione della letteratura La conclusione del pensatore è che il fine della letteratura è dare voce alla tendenza storica del progresso dell’umanità: la civiltà [...] diffondendo i suoi raggi su’ popoli che ne andavano privi, tende a ravvicinar gli uni agli altri (vale a dire, a favorire l’integrazione tra i popoli) e dirigerla, perfezionarla, perché l’opera dei secoli non può retrocedere. Apparentemente influenzata dal cosmopolitismo illuministico, la tesi mazziniana è in realtà profondamente romantica: essa, infatti, concepisce l’integrazione fra i popoli come un affratellamento fra nazioni. Su tale base programmatica si fondano anche la costituzione della Giovine Europa e l’europeismo mazziniano.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il brano di Giuseppe Mazzini (max 10 righe). 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il giudizio di Mazzini sulle leggi nazionali? b. Perché, secondo Mazzini, i popoli si dividono e si fanno guerra? c. Quali sono le condizioni storiche di superamento degli odi e delle guerre? d. Qual è il ruolo della letteratura in questo processo? Analisi e interpretazione 3. Qual è il messaggio che Mazzini propone nel brano presentato? 4. Il testo ha caratteristiche sia romantiche, sia illuministiche: quali, rispettivamente? 5. Perché si può affermare che la concezione mazziniana dell’integrazione fra i popoli si distingua dal cosmopolitismo illuministico? Approfondimenti 6. Rifletti sui rapporti che, secondo Mazzini, intercorrono tra natura, legge, civiltà e letteratura nel brano che hai letto e, dopo averli ricostruiti, anche facendo riferimento alle informazioni in tuo possesso sulle concezioni storiche e politiche dell’autore, esprimi le tue opinioni sulla loro validità nel contesto dell’attuale situazione delle nazioni dell’Europa contemporanea. 7. Sulla base delle tue conoscenze di storia risorgimentale, svolgi il seguente tema storico: Dopo aver presentato i principali ideali comuni e le divergenze fra i protagonisti del processo storico che ha condotto all’unificazione italiana, illustra le ragioni che – a tuo avviso – hanno spinto tanti uomini a rischiare e, spesso, a perdere la propria vita in nome dei valori risorgimentali. 8. Con l’aiuto di un testo o seguendo le indicazioni del tuo insegnante, informati sull’apparato esteriore della Repubblica Italiana (l’inno, la bandiera, lo stemma e altro), sulla loro origine e sull’epoca di adozione; elabora quindi un breve testo dal titolo: I simboli dell’unità nazionale.

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T2 Fratelli d’Italia

Goffredo Mameli

Genovese come Giuseppe Mazzini, Goffredo Mameli (1827-1849), morto a soli ventidue anni combattendo in difesa della Repubblica romana, è l’autore dell’inno Fratelli d’Italia. Composto nel 1847, sull’onda dell’entusiasmo per i fermenti risorgimentali e rivoluzionari del periodo, che sarebbero sfociati di lì a poco nei moti dell’anno successivo, l’inno fu poi musicato dal genovese Michele Novaro (1822-1885) e adottato, a partire dal 1946, come Inno nazionale della Repubblica Italiana. Schema metrico: strofe di otto senari (il primo, il terzo e il quinto sdruccioli e sciolti, il secondo e il quarto e il sesto e il settimo, piani, in rima tra loro, l’ultimo tronco), con cesura dopo il quarto verso; ogni strofa è seguita da un ritornello di tre versi, sempre senari, i primi due piani in rima tra loro, l’ultimo, tronco, che rima con l’ultimo verso della strofe. Lo schema è dunque: abcbdeef, ggf.

PISTE DI LETTURA • I princìpi mazziniani in poesia • La passione risorgimentale • Tono enfatico

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Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta1, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa2. Dov’è la vittoria? Le porga la chioma ché schiava di Roma Iddio la creò3. Stringiamoci a coorte4, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. Noi siamo da secoli calpesti5, derisi, perché non siam Popolo, perché siam divisi: raccolgaci un’Unica bandiera, Una speme6: di fonderci insieme già l’ora suonò. Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò.

1. s’è desta: si è risvegliata (in senso metaforico). 2. dell’elmo… testa: ha ripreso il coraggio e il vigore militare degli antichi Romani, che guidati da Publio Scipione l’Africano sconfissero i Cartaginesi di Annibale. 3. Le porga… creò: versi complessi e di dubbia interpretazione; probabilmente vanno intesi così: (la vittoria) porga a lei (all’Italia) il capo (la chioma), poiché Dio la creò

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schiava di Roma. 4. Stringiamoci a coorte: stringiamoci formando una coorte compatta; la coorte era una suddivisione della legione romana. 5. calpesti: calpestati. 6. Una speme: un’unica speranza.

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Uniamoci, amiamoci, l’Unione e l’amore rivelano ai Popoli le vie del Signore; giuriamo far libero il suolo natìo: uniti per Dio7, chi vincer ci può? Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò.

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Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano8, ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano9, i bimbi d’Italia si chiaman Balilla10, il suon d’ogni squilla i Vespri suonò11. Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò.

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Son giunchi che piegano le spade vendute12: ah l’aquila d’Austria13 le penne ha perdute – il sangue d’Italia bevé, col Cosacco il sangue Polacco: ma il cor le bruciò14. Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. da Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, vol. III, Einaudi, Torino, 1999

7. per Dio: nel nome di Dio, ma anche secondo la volontà divina. 8. dovunque è Legnano: dappertutto regna lo spirito che animò i combattenti italiani a Legnano (dove la Lega lombarda nel 1176 sconfisse le truppe dell’imperatore Federico Barbarossa). 9. ogn’uom… la mano: ogni uomo ha il coraggio e la virtù militare di Francesco Ferrucci (che nel 1530 morì per la difesa della Repubblica di Firenze dalle truppe imperiali). 10. Balilla: Giovanni Battista Perasso, soprannominato Balilla, è il giovinetto che nel 1746 diede avvio a Genova alla rivoluzione che cacciò dalla città gli Austriaci, scagliando una pietra contro un ufficiale.

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11. il suon… suonò: le campane di ogni città hanno suonato chiamando a raccolta gli Italiani, come fecero nel 1282 quelle di Palermo per incitare alla rivolta contro gli Angioini; questa insurrezione è nota col nome di Vespri siciliani. 12. Son giunchi… vendute: le spade dei mercenari (vendute) sono giunchi che si piegano (piegano, intransitivo). 13. l’aquila d’Austria: l’aquila, simbolo dell’Impero austro-ungarico, che sta perdendo il proprio potere e i propri territori (le penne). 14. il sangue… bruciò: l’Austria che ha bevuto il sangue dell’Italia, e insieme con la Russia (col Cosacco) anche quello della Polonia (spartita tra Austria, Russia e Prussia); ma quel sangue le ha bruciato il cuore.

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inee di analisi testuale I princìpi del programma politico mazziniano Nei versi di Mameli sono facilmente riconoscibili i princìpi fondamentali del programma politico mazziniano, di cui il poeta era acceso sostenitore: la necessità dell’unità nazionale (addirittura, i termini che vi si riferiscono sono per maggior evidenza scritti con l’iniziale maiuscola: Unica, Una, Unione); la rivendicazione dei diritti di tutti i popoli (insieme agli Italiani oppressi dall’Austria, Mameli ricorda i Polacchi dominati dal Cosacco, ossia dalla Russia), affratellati dalle prepotenze subite e uniti in reciproca alleanza; l’idea che Dio stesso ne sostenga l’azione e che la lotta per la libertà sia conforme al disegno divino (uno degli slogan di Mazzini era proprio Dio e popolo). L’elenco delle glorie nazionali Mameli cita momenti esemplari delle glorie e dell’epopea nazionale italiana: la vittoria dei soldati romani di Scipione sui Cartaginesi, la gloria dell’antica Roma, la vittoriosa battaglia di Legnano (XII secolo) fra i Comuni lombardi e l’imperatore tedesco Federico Barbarossa, l’assedio delle truppe imperiali a Firenze (XVI secolo) in cui morì eroicamente Francesco Ferrucci, la rivolta antiaustriaca a Genova (XVIII secolo) nella quale si distinse il ragazzo Giovanni Battista Petasso, soprannominato Balilla, i Vespri siciliani (XIII secolo), durante i quali gli Angioini furono cacciati dall’isola. La forma I versi, brevi e fortemente scanditi, facilitano la memorizzazione e l’esecuzione corale; il lessico è teso e solenne, ricco di forme auliche e talvolta arcaiche e di costrutti complessi; il tono patriottico e sincero è vigoroso e guerriero. L’inno, in sintesi, è un tipico esempio di poesia risorgimentale.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Parafrasa l’inno, aiutandoti con le note di cui è corredato. Analisi e interpretazione 2. Elabora una breve relazione scritta (max 20 righe), in cui dovrai indicare: a. i contenuti salienti dell’inno; b. le sue principali caratteristiche formali. 3. Perché alcune parole nell’inno sono scritte dall’autore con la lettera maiuscola? Approfondimenti 4. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, con opportuni riferimenti al testo: L’ispirazione mazziniana dell’inno d’Italia.

T3 Il carceriere Schiller da Le mie prigioni

Silvio Pellico

Le mie prigioni costituisce il racconto, in forma di raccolta di memorie, della tragica esperienza dell’incarcerazione di Pellico nella fortezza dello Spielberg: sia delle piccole vicende di ogni giorno (le celle umide interrate, l’isolamento assoluto, la carta per scrivere ricavata dalla mollica di pane, i pennini dalle lische di pesce e l’inchiostro dai residui di cibo), sia degli incontri positivi avuti dall’autore (un ragazzo sordomuto a Milano; Zanze, la figlia del custode dei Piombi di Venezia; i patrioti Oroboni e Maroncelli e gli stessi carcerieri nello Spielberg). Il volume di memorie autobiografiche, scritto fra il 1831 e il 1832 e subito pubblicato, ebbe un enorme successo popolare: si disse che il libro danneggiò l’Austria più di una battaglia perduta. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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PISTE DI LETTURA • La sofferenza per l’ideale patriottico • La priorità dei valori morali e della solidarietà umana • Tono pedagogico L’addio dell’amico Maroncelli

La figura del vecchio carceriere

L’umanità del vecchio Schiller

Acerbissima cosa, dopo aver già detto addio a tanti oggetti, quando non si è più che in due amici egualmente sventurati, ah sì! acerbissima cosa il dividersi! Maroncelli1 nel lasciarmi vedeami infermo e compiangeva in me un uomo ch’ei probabilmente non vedrebbe mai più: io compiangea in lui un fiore splendido di salute, rapito forse per sempre alla luce vitale del sole. E quel fiore infatti oh come appassì! Rivide un giorno la luce, ma oh in quale stato! Allorché mi trovai solo in quell’orrido antro, e intesi serrarsi i catenacci, e distinsi al barlume che discendeva da alto finestruolo il nudo pancone datomi per letto ed una enorme catena al muro m’assisi fremente su quel letto, e, presa quella catena, ne misurai la lunghezza, pensando fosse destinata per me. Mezz’ora dappoi, ecco stridere le chiavi; la porta s’apre: il capo-carceriere mi portava una brocca d’acqua. – Questo è per bere; – disse con voce burbera – e domattina porterò la pagnotta. – Grazie, buon uomo. – Non sono buono – riprese. – Peggio per voi – gli dissi sdegnato.– E questa catena, – soggiunsi – è forse per me? – Sì, signore, se mai ella2 non fosse quieta, se infuriasse, se dicesse insolenze. Ma se sarà ragionevole, non le porremo altro che una catena a’ piedi. Il fabbro la sta apparecchiando. Ei passeggiava lentamente su e giù, agitando quel villano mazzo di grosse chiavi, ed io con occhio irato mirava la sua gigantesca, magra, vecchia persona; e, ad onta de’ lineamenti non volgari del suo volto, tutto in lui mi sembrava l’espressione odiosissima d’un brutale rigore! Oh come gli uomini sono ingiusti, giudicando dall’apparenza e secondo le loro superbe prevenzioni! Colui ch’io m’immaginava agitasse allegramente le chiavi per farmi sentire la sua trista podestà, colui ch’io riputava impudente per lunga consuetudine d’incrudelire, volgea pensieri di compassione, e certamente non parlava a quel modo, con accento burbero, se non per nascondere questo sentimento. Avrebbe voluto nasconderlo, a fine di non parer debole e per timore ch’io ne fossi indegno; ma nello stesso tempo, supponendo che forse io era più infelice che iniquo, avrebbe desiderato di palesarmelo.3 Noiato della sua presenza, e più della sua aria da padrone, stimai opportuno d’umiliarlo, dicendogli imperiosamente, quasi a servitore: – Datemi da bere. Ei mi guardò, e parea significare: «Arrogante! qui bisogna divezzarsi dal comandare4». Ma tacque, chinò la sua lunga schiena, prese in terra la brocca, e me la porse. M’avvidi, pigliandola, ch’ei tremava, e attribuendo quel tremito alla sua vecchiezza, un misto di pietà e di reverenza temperò il mio orgoglio5.

1. Maroncelli: Piero Maroncelli, che era stato condannato insieme a Silvio Pellico, durante la detenzione allo Spielberg subì l’amputazione di una gamba, in precarie condizioni igieniche; il fatto è materia di un altro episodio del libro. Pellico qui intende far comprendere che, dopo la separazione, ritroverà l’amico in condizioni di salute del tutto diverse dall’ultima volta che lo vide. 2. ella: forma ottocentesca in uso per dare del “lei”. 3. Colui... palesarmelo: il passo anticipa il dialogo successivo. Pellico si accorge che il vecchio che credeva cru-

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dele ha invece compassione di lui e che ha un atteggiamento burbero per nascondere questi sentimenti e per timore di apparire debole, ma che desidera dimostrarglielo (palesarmelo) perché ha capito che è un infelice e non un criminale (iniquo). 4. Arrogante... comandare: Prepotente! Qui bisogna disabituarsi a comandare. 5. temperò il mio orgoglio: Pellico si accorge che il vecchio trema nell’alzare la brocca dell’acqua e la pena per la sua tarda età modera la sua ira.

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Dall’odio politico alla comprensione umana

– Quanti anni avete? – gli dissi con voce amorevole. – Settantaquattro, signore: ho già veduto molte sventure e mie ed altrui. Questo cenno sulle sventure sue ed altrui fu accompagnato da nuovo tremito, nell’atto ch’ei ripigliava la brocca, e dubitai fosse effetto, non della sola età, ma 45 d’un certo nobile perturbamento. Siffatto dubbio cancellò dall’anima mia l’odio che il suo primo aspetto m’aveva impresso. – Come vi chiamate? – gli dissi. – La fortuna, signore, si burlò di me, dandomi il nome d’un grand’uomo. Mi 50 chiamo Schiller6. Indi in poche parole mi narrò quale fosse il suo paese, quale l’origine, quali le guerre vedute e le ferite riportate. da Opere scelte, a cura di C. Curto, Utet, Torino, 1954

6. Schiller: Friedrich Schiller è uno scrittore romantico tedesco (cfr. pag. 516).

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inee di analisi testuale La scoperta di Dio nella sofferenza dei propri simili Le mie prigioni non è un pamphlet politico contro l’Austria, ma un itinerario personale (quasi un romanzo di formazione in forma autobiografica) in cui Pellico rievoca gli ideali giovanili rivoluzionari e medita sulla religiosità cristiana fondata sul perdono della maturità. Nel passo proposto, il carceriere Schiller diventa il simbolo di tale conversione: attraverso il sondaggio sul suo comportamento, da nemico odiato il guardiano diventa un povero vecchio esperto delle sofferenze umane, capace di solidarietà verso i sofferenti. Il messaggio di Pellico è che si può trovare conforto nella comprensione degli altri uomini e non si deve nutrire odio verso chi appartiene al campo nemico; bisogna, inoltre, saper soffrire e riuscire comunque a mantenere rapporti umani con le persone. La figura del vecchio carceriere La figura di Schiller che, con la sua apparente durezza, si difende dalla facilità a commuoversi, è tratteggiata con asciutta solidarietà dall’autore nel conciso dialogo. I suoi veri sentimenti emergono nella contraddittorietà tra le parole irose e i gesti di cortesia, tra il riferimento minaccioso alla catena e la sua immagine mentre, tremando, offre l’acqua. La finalità educativa L’intento didascalico è sempre presente nell’opera. In questo brano Pellico inserisce tre insegnamenti morali destinati al lettore: il primo, riferito a Maroncelli, esorta chi si trova nella sofferenza a sperare sempre in una via d’uscita; il secondo, riferito a Schiller, esorta a non giudicare mai solo dall’apparenza, ma ad approfondire la conoscenza dei sentimenti di chi ci attornia, per scoprire la presenza consolante di Dio, che si manifesta a ogni uomo attraverso la comprensione della sofferenza da parte dei suoi simili; il terzo, che emerge dall’intero episodio, invita a rapportarsi agli altri come persone singole, e non come espressione di una categoria (di amici o di nemici). L’ultimo insegnamento, in particolare, intreccia l’individualismo romantico con il personalismo cristiano. Lo stile Nello stile narrativo di Pellico, a sottolineare il carattere tipicamente romantico dell’opera, abbondano i punti esclamativi e le onomatopee che esprimono l’esternazione di emozioni; tuttavia nei dialoghi prevale l’asciuttezza della lingua parlata e il non detto che suggerisce il pudore dei sentimenti.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del testo di Silvio Pellico (max 10 righe). 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Chi è Piero Maroncelli e che rapporti ha con Pellico? b. Come giudica Pellico il vecchio carceriere ad una prima impressione e per quali motivi cambia poi opinione su di lui? c. Perché, secondo l’autore, non bisogna fermarsi alle apparenze? d. Nel testo si fa riferimento a due persone di nome Schiller. Chi sono? © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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Analisi e interpretazione 3. Attraverso quali mezzi stilistici Pellico accentua, con gusto romantico, l’espressione delle emozioni? 4. Quali sono i più rilevanti elementi romantici che caratterizzano il testo? 5. Interpreta e commenta l’incipit dell’opera Le mie prigioni in non più di 20 righe. Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sua bella e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro.

Approfondimenti 6. Il racconto di esperienze drammatiche e dolorose è molto presente ancor oggi nella narrativa e nella produzione cinematografica e televisiva; fai riferimento a un’opera a te nota che riguarda la carcerazione e confrontane le vicende e l’intento narrativo con quelli de Le mie prigioni di Pellico, mettendo in luce, soprattutto, le differenze del contesto storico-sociale e politico.

T4 Sant’Ambrogio

Giuseppe Giusti

Nel 1845, dopo aver passato un mese a Milano, ospite di Alessandro Manzoni, Giusti scrive questo componimento, che lui stesso definisce scherzo, a proposito di un episodio che gli era successo durante il soggiorno, nella storica chiesa di Sant’Ambrogio. Lo pubblicò successivamente, nel 1847 a Firenze, nella raccolta Nuovi versi di G.G. Schema metrico: ottave di endecasillabi rimati. PISTE DI LETTURA • Il fervore patriottico • La comprensione umana • Tono ironico che diventa elegiaco

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Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco per que’ pochi scherzucci di dozzina1, e mi gabella2 per anti-tedesco perché metto le birbe alla berlina3, o senta il caso avvenuto di fresco, a me che, girellando una mattina, capito in Sant’Ambrogio di Milano, in quello vecchio, là, fuori di mano.

1. Vostra… dozzina: il poeta si rivolge a un’autorità austriaca - di cui non viene fatto il nome - che lo guarda in modo ostile per le sue idee antiasburgiche. Scherzucci di dozzina significa burle di poco conto.

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2. mi gabella: mi accusa di essere. 3. metto le birbe alla berlina: denuncio chi si comporta male.

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M’era compagno il figlio giovinetto d’un di que’ capi un po’ pericolosi, di quel tal Sandro4, autor d’un romanzetto ove si tratta di Promessi Sposi... Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto?5 Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi, in tutt’altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato. Entro, e ti trovo un pieno di soldati, di que’ soldati settentrionali, come sarebbe Boemi e Croati6, messi qui nella vigna a far da pali: difatto se ne stavano impalati, come sogliono in faccia a’ generali, co’ baffi di capecchio7 e con que’ musi, davanti a Dio diritti come fusi.

Caricatura di Adolfo Martelli che si riferisce alla poesia Sant’Ambrogio di Giuseppe Giusti.

Mi tenni indietro; ché piovuto in mezzo di quella maramaglia, io non lo nego d’aver provato un senso di ribrezzo, che lei non prova in grazia dell’impiego. Sentiva un’afa, un alito di lezzo8; scusi, Eccellenza, mi parean di sego in quella bella casa del Signore fin le candele dell’altar maggiore. Ma in quella che s’appresta il sacerdote a consacrar la mistica vivanda9, di sùbita dolcezza mi percuote su, di verso l’altare, un suon di banda. Dalle trombe di guerra uscìan le note come di voce che si raccomanda, d’una gente che gema in duri stenti e de’ perduti beni si rammenti. Era un coro del Verdi; il coro a Dio là de’ Lombardi miseri assetati; quello: O Signore, dal tetto natio, che tanti petti ha scossi e inebriati. Qui cominciai a non esser più io e, come se que’ cosi doventati10 fossero gente della nostra gente, entrai nel branco involontariamente. Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello, poi nostro, e poi suonato come va; e coll’arte di mezzo, e col cervello dato all’arte, l’ubbie11 si buttan là. Ma cessato che fu, dentro, bel bello io ritornava a star come la sa: quand’eccoti, per farmi un altro tiro, da quelle bocche che parean di ghiro

4. il figlio… Sandro: Filippo Manzoni, che combatté nella Cinque giornate di Milano, figlio del grande Alessandro. 5. fa il nesci… letto?: finge di non capire, Eccellenza? o non l’ha letto? 6. Boemi e Croati: i militari di stanza nel Lombardo-Veneto provenivano in maggioranza dalla Croazia e dalla Boemia.

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7. capecchio: stoppa. 8. lezzo: puzzo. 9. in quella... vivanda: quando il sacerdote si apprestava alla consacrazione. 10. doventati: diventati. 11. l’ubbie: antipatie.

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un cantico tedesco lento lento per l’âer sacro a Dio mosse le penne. Era preghiera, e mi parea lamento, d’un suono grave flebile solenne, tal che sempre nell’anima lo sento: e mi stupisco che in quelle cotenne12, in que’ fantocci esotici di legno, potesse l’armonia fino a quel segno. Sentìa nell’inno la dolcezza amara de’ canti uditi da fanciullo; il core che da voce domestica gl’impara, ce li ripete i giorni del dolore: un pensier mesto della madre cara, un desiderio di pace e di amore, uno sgomento di lontano esilio, che mi faceva andare in visibilio. E quando tacque, mi lasciò pensoso di pensieri più forti e più soavi. “Costor”, dicea tra me, “Re pauroso13 degl’italici moti e degli slavi, strappa a’ lor tetti, e qua senza riposo schiavi gli spinge per tenerci schiavi; gli spinge di Croazia e di Boemme14, come mandre a svernar nelle Maremme. A dura vita, a dura disciplina, muti, derisi, solitari stanno, strumenti ciechi d’occhiuta rapina, che lor non tocca e che forse non sanno: e quest’odio, che mai non avvicina il popolo lombardo all’alemanno, giova a chi regna dividendo, e teme popoli avversi affratellati insieme. Povera gente! lontana da’ suoi, in un paese qui che le vuol male, chi sa che in fondo all’anima po’ poi non mandi a quel paese il principale! Gioco che l’hanno in tasca come noi15”. Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale, colla su’ brava mazza di nocciolo, duro e piantato lì come un piolo. da Poesie, a cura di C. Romussi, Sonzogno, Milano, 1899

12. cotenne: pelli dure come quelle dei suini. 13. Re pauroso: l’imperatore austriaco - in questo caso Ferdinando I - qui non citato esplicitamente.

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14. Boemme: Boemia. 15. Gioco... noi: scommetto che lo odiano come noi Italiani.

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inee di analisi testuale Una satira che diventa inno alla solidarietà Il primo elemento da sottolineare è l’originale scelta di inquadrare il testo in un immaginario colloquio con un funzionario nemico per convincerlo di non essere un nazionalista da condannare, ma addirittura un estimatore degli stranieri in Italia. La composizione si può dividere in due parti: la prima è una satira impietosa delle truppe di occupazione, uomini accusati di essere fisicamente e culturalmente inferiori agli Italiani; la seconda capovolge l’emotività del testo, trasformandosi in un inno alla comprensione e alla solidarietà tra sfruttati, di cui si immagina un antagonismo comune verso l’oppressore straniero. La causa del capovolgimento emotivo rispetto ai Croati e ai Boemi è la musica: Verdi prima (il coro dai Lombardi alla prima crociata era uno degli inni del patriottismo lombardo) e un canto corale religioso slavo poi. Gli strumenti della satira All’efficacia satirica del testo di Giusti contribuiscono in maniera decisiva gli strumenti retorici. Si tratta, innanzi tutto, del metro: l’endecasillabo, con il suo ritmo armonico e discorsivo, si adatta bene alla parte sarcastica del componimento e poi anche a quella elegiaca. Molti sono i doppi sensi, molti anche i termini bassi, al limite del volgare. Il testo è ricolmo, nel lessico e nei modi di espressione, di toscanismi.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del componimento (max 10 righe). 2. Svolgi la parafrasi del testo aiutandoti con il dizionario e con le note. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il metro della composizione e come influisce sul contenuto? b. Quali caratteristiche presenta il lessico di Giusti in questa composizione? c. Elenca le espressioni popolaresche che hai trovato nel testo. Che significato hanno? d. Di quale genere è questo componimento e quale ne è il registro? Approfondimenti 4. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: La satira di Giusti e il suo stile.

Piazza Sant’Ambrogio a Milano. Stampa della metà dell’Ottocento. Milano, Civica Raccolta di Stampe Bertarelli.

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Concetti chiave FASI, TEMI E GENERI DELLA LETTERATURA RISORGIMENTALE La letteratura romantica italiana dell’Ottocento è un importante veicolo culturale a sostegno del Risorgimento. Si divide in due fasi: dal 1830 al 1845 è soprattutto militante (le figure principali sono Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari); dal 1849 al 1861 è caratterizzata da una maggiore riflessione politica e culturale. I generi più frequentati sono la poesia patriottica, il romanzo storico e la memorialistica. LA POESIA Tra i primi risorgimentali spiccano Giovanni Berchet (1783-1851), con I profughi di Parga (1822) e le Romanze (1822-1824), versi vibranti di amor patrio e di incitamenti alla rivolta, e Giuseppe Giusti (1809-1850), con versi satirici (pubblicati postumi nel 1852) contro l’assolutismo, la corruzione, l’opportunismo e il conformismo della politica. Dopo l’unificazione italiana, in Aleardo Aleardi (1812-1878) e Giovanni Prati (18141884) il fervore patriottico cede il passo all’ispirazione sentimentale e maliconica. I ROMANZI STORICI Vasta è la produzione di romanzi storici animati da un forte spirito patriottico e risorgimentale. Il capolavoro del lombardo Tommaso Grossi (1790-1853) è Marco Visconti (1834), che narra l’amore fra Bice del Balzo e Ottorino Visconti, contrastato dal potente cugino Marco che alla fine si pente delle sue malefatte prima di essere ucciso. Di Massimo Taparelli d’Azeglio (17981866) è l’Ettore Fieramosca ossia la disfida di Barletta (1833), che mira a un’educazione patriottica, attraverso la rievocazione della grandezza passata degli Italiani. Il romanzo è incentrato sulle vicende legate alla disfida di Barletta, avvenuta durante la guerra tra Francesi e Spagnoli per il dominio di Napoli. Cesare Cantù (1804-1895) scrive Margherita Pusterla (1838) in cui la protagonista, moglie di Franciscolo Pusterla, è insidiata da Luchino Visconti, signore di Milano e

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gli resiste, ma viene condannata a morte con il marito e il figlio che hanno tramato contro il Visconti. Di Francesco Domenico Guerrazzi (18041873) è Beatrice Cenci (1853), romanzo in cui Francesco Cenci, che tenta di violentare la figlia Beatrice, viene ucciso dall’innamorato di lei, Guido Guerra. Beatrice e altri membri della famiglia vengono arrestati e alla fine la ragazza e il Guerra sono giustiziati. LA MEMORIALISTICA All’interno della produzione memorialistica si possono distinguere diverse tipologie di scritti, fra cui le memorie scritte durante o dopo il carcere: il testo più celebre è Le mie prigioni (1832) di Silvio Pellico (17891854), che nuoce all’Austria più di una battaglia perduta ma è poco gradito ai rivoluzionari risorgimentali, per il moralismo cattolico dell’autore. Ricordiamo inoltre le cronache (fra cui Cronaca dei fatti di Toscana di Giuseppe Giusti e Apologia della vita politica di Francesco Guerrazzi); le autobiografie (I miei ricordi di Massimo d’Azeglio, Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini); le memorie di formazione, come La giovinezza (1889) di Francesco De Sanctis e il filone delle opere sulla spedizione dei Mille, il cui testo più famoso è Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille (1891) di Giuseppe Cesare Abba (1838-1910). FRANCESCO DE SANCTIS Francesco De Sanctis (1817-1883), insegnante, patriota, studioso e uomo politico, tra il 1870 e il 1871 pubblica a Napoli la Storia della letteratura italiana, prima sintesi organica della letteratura del Paese. De Sanctis la divide in tre grandi epoche: il Medioevo, che culmina nell’opera di Dante, il Rinascimento, che da Petrarca giunge all’età barocca, e il rinnovamento operato dall’Illuminismo e dal Romanticismo. Il metodo critico di De Sanctis attribuisce importanza al mondo umano e morale degli autori e al contenuto delle opere e afferma che nell’opera letteraria il contenuto e la forma rappresentano un’unità inscindibile.

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sercizi di sintesi

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. La letteratura ottocentesca in Italia si intreccia strettamente con a. il Rinascimento. b. il Classicismo. c. il Risorgimento. d. Il Neoclassicismo. 2. I generi più frequentati nella letteratura risorgimentale sono a. l’epica, il poema satirico, la lirica, il romanzo psicologico. b. il teatro, la lirica, il romanzo d’avventura. c. il poema allegorico, i dialoghi filosofici, la lirica. d. la lirica, la satira, il romanzo storico, la memorialistica. 3. Tra i rappresentanti della poesia risorgimentale figurano a. Berchet, Giusti, Aleardi e Prati. b. Berchet, D’Azeglio, Aleardi e Guerrazzi. c. Giusti, Pellico, Prati e Mazzini. d. Giusti, Settembrini, Garibaldi e Mameli. 4. Tra i romanzieri storici risorgimentali troviamo a. Cesare Cantù, Silvio Pellico, Giuseppe Giusti e Giovanni Prati. b. Massimo D’Azeglio, Giuseppe Mazzini, Giovanni Prati e Cesare Abba. c. Francesco Guerrazzi, Giovanni Berchet, Francesco De Sanctis e Cesare Cantù. d. Tommaso Grossi, Massimo D’Azeglio, Cesare Cantù e Francesco Guerrazzi. 5. Il romanzo Ettore Fieramosca è stato scritto da a. Cesare Cantù. b. Francesco Guerrazzi. c. Tommaso Grossi. d. Massimo D’Azeglio. 6. Tra gli autori della memorialistica risorgimentale si possono ricordare a. Francesco De Sanctis, Giuseppe Guerzoni e Aleardo Aleardi. b. Giuseppe Cesare Abba, Luigi Settembrini e Silvio Pellico. c. Francesco Guerrazzi, Giovanni Prati e Giuseppe Garibaldi. d. Silvio Pellico, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Verdi.

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7. L’opera più importante di Francesco De Sanctis è a. Ricordanze della mia vita. b. Apologia della vita politica. c. La giovinezza. d. Storia della letteratura italiana. 8. L’inno di Mameli si basa a. su princìpi politici federalisti. b. sull’ideologia di Giuseppe Garibaldi. c. sui princìpi di Giuseppe Mazzini. d. sull’odio antiaustriaco. 9. Silvio Pellico è l’autore di a. Il manoscritto di un prigioniero. b. La giovinezza. c. Da Quarto al Volturno. d. Le mie prigioni. 10. La poesia Sant’Ambrogio è opera di a. Giuseppe Giusti. b. Giovanni Berchet. c. Aleardo Aleardi. d. Giovanni Prati.

2 Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). 1. Quali sono i generi più frequentati nell’ambito della letteratura italiana risorgimentale dell’Ottocento? 2. Quali sono le due fasi della letteratura risorgimentale e quali i suoi esponenti principali? 3. Qual è la differenza di genere tra la poesia di Giovanni Berchet e quella di Giuseppe Giusti? 4. Perché Giovanni Prati e Aleardo Aleardi vengono definiti anche esponenti del secondo (o tardo) Romanticismo? 5. Quali sono le caratteristiche dei romanzi prodotti nel periodo del Risorgimento italiano e chi sono gli autori principali del genere? 6. Qual è la trama del romanzo Marco Visconti e chi ne è l’autore? 7. Di che cosa tratta il romanzo Ettore Fieramosca e chi ne è l’autore? 8. Qual è la trama del romanzo Beatrice Cenci e chi ne è l’autore? 9. Di quale genere sono le opere di memorialistica che compaiono nella letteratura risorgimentale, qual è la più celebre e da chi è stata scritta? 10. Chi sono i principali autori che parlano dell’impresa dei Mille nelle loro opere?

CAP. 20 - LA

LETTERATURA RISORGIMENTALE

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CAPITOLO

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Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi. Recanati, Casa Leopardi.

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VITA E LE OPERE

L’infanzia e l’adolescenza Giacomo Leopardi nasce a Recanati, periferica cittadina dello Stato pontificio, il 29 giugno 1798, dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici. Il giovane cresce in un ambiente severo e povero d’affetti, con un padre che si occupa solo della sua biblioteca e dell’accademia poetica da lui fondata e con una madre dal temperamento autoritario, dedita a risanare le dissestate finanze familiari.

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LINEA DEL TEMPO: LA VITA E LE OPERE

1798 Giacomo Leopardi nasce a Recanati

1809-1816 Studio da autodidatta

1815 CONGRESSO DI VIENNA

1819 Tentativo di fuga da Recanati

1821 NAPOLEONE MUORE SULL’ISOLA DI SANT’ELENA

1822-1823 Soggiorno a Roma

1824-28 Silenzio poetico

1817 1818-1822 Inizia la Composizione composizione di canzoni dello e idilli Zibaldone, che prosegue fino al 1832

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CAP. 21 - GIACOMO LEOPARDI

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Lo studio matto e disperatissimo

Giacomo apprende con grande facilità: dapprima suoi maestri sono il padre e alcuni religiosi; poi, dai dieci anni, impara da autodidatta il greco, il latino e l’ebraico, e coltiva studi eruditi nella biblioteca del padre. Nel 1812, quattordicenne, scrive due tragedie (Virtù indiana e Pompeo in Egitto), il Dialogo filosofico e il Discorso sopra l’epigramma; l’anno successivo la Storia dell’astronomia; nel 1815 il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. I sette anni che intercorrono tra 1809 e 1816, che egli definirà di studio matto e disperatissimo, aggravano le sue deboli condizioni di salute e il suo isolamento emotivo.

La giovinezza confinata nel natìo borgo selvaggio Il passaggio dall’erudizione al bello Le prime poesie e la presa di posizione classicista

Le canzoni politiche

Lo Zibaldone e il passaggio dal bello al vero

A diciotto anni, nel 1816, Leopardi si appassiona alla poesia ossia, come egli scriverà nel suo diario (lo Zibaldone), passa dall’erudizione al bello; legge le opere classiche e ne traduce molte (tra cui gli Idilli del poeta greco Mosco, la Batracomiomachia attribuita a Omero, il primo libro dell’Odissea e il secondo dell’Eneide). Nello stesso anno compone le prime poesie – dalle Rimembranze all’Appressamento della morte all’Inno a Nettuno, che finge di aver tradotto da un antico manoscritto – e invia alla rivista “Biblioteca italiana” di Milano un contributo sul dibattito fra classicisti e Romantici, prendendo posizione prevalentemente per i classicisti. Da ciò deriva una fitta corrispondenza con il classicista Pietro Giordani, che nel 1818 andrà a Recanati a conoscerlo. Le conversazioni con il letterato influenzeranno le due canzoni politiche di stampo patriottico destinate a confluire nei Canti (All’Italia e Sopra il monumento di Dante), nonché il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in cui critica talune caratteristiche sia del classicismo sia del Romanticismo. Nel frattempo Giacomo s’innamora della cugina ventiseienne Gertrude Cassi Lazzari, in visita a casa Leopardi; come tutti i suoi amori, è un sentimento segreto e non corrisposto, che genera il Diario del primo amore e l’elegia Il primo amore. Inoltre, nel 1817 Leopardi inizia a scrivere lo Zibaldone, il diario in cui tratta molteplici argomenti e che proseguirà fino al 1832, superando le quattromila pagine di quaderno. Dal 1817 al 1819 si sviluppa quella che Leopardi definisce, nello Zibaldone, la sua conversione dal bello al vero. Si tratta del passaggio dalla poesia fondata sulla fantasia e i miti classici alla poesia sentimentale e filosofica, ispirata alla natura e alla riflessione sull’infelicità umana. Contribuiscono alla svolta le letture dei filosofi Rousseau e Vico, degli scritti di Alfieri e Parini, dell’Ortis di Foscolo, del Werther di Goethe e, soprattutto, la scoperta degli autori romantici. Inoltre, avendo maturato dalla lettura dei filosofi illuministi convinzioni materialiste, Leopardi abbandona la fede cristiana: le pagine dello Zibaldone e le lettere

1825 Soggiorno a Milano e inizio della collaborazione con l’editore Stella

1827 Prima edizione delle Operette morali

1828-1830 Ritorno a Recanati

1828-1830 Composizione dei canti pisanorecanatesi

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1830-1833 Soggiorni a Firenze e Roma

1830-1835 Composizione del “ciclo di Aspasia”

1833 Si reca a Napoli con Antonio Ranieri

1831 Prima edizione dei Canti

1835 Seconda edizione dei Canti

1837 Muore a Napoli

1836 La ginestra

1845 Edizione definitiva dei Canti e delle Operette morali

CAP. 21 - GIACOMO LEOPARDI

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Il pessimismo storico

Le sofferenze personali e i piccoli idilli

La riflessione sull’infelicità

a Pietro Giordani attestano la portata di tale svolta, che l’autore stesso nel proprio diario definisce, nel 1819, come una mutazione totale. In tale situazione, vivere a Recanati, il natìo borgo selvaggio, come lo definisce il poeta, dove chi ha interessi culturali è schernito come saccentuzzo, diventa per Giacomo causa di un disagio sempre più acuto, come il fatto che i genitori vorrebbero avviarlo verso la carriera ecclesiastica. Ne derivano i primi abbozzi del cosiddetto pessimismo storico, secondo cui gli antichi, come i fanciulli, non avendo imparato a usare la ragione per svelare la verità, erano meno infelici; tuttavia il poeta oscilla fra considerare la propria infelicità come una sfortuna personale o come una condizione umana universale. Il 1819 è anche un anno di grandi sofferenze personali. Il giovane è innamorato segretamente di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di famiglia, ma la sua prematura scomparsa distrugge il sogno. Angosciato dalla morte di colei che, in A Silvia, celebrerà come il simbolo delle sue speranze, tormentato da una grave malattia agli occhi che gli impedisce di dedicarsi allo studio, Leopardi segue il consiglio dell’amico Giordani e decide di fuggire da Recanati. Ma il padre scopre il suo disegno di acquistare un passaporto e Giacomo deve rinunciare al progetto, abbandonandosi all’isolamento e alla depressione. In tale situazione, scrive i primi piccoli idilli: Alla luna e L’infinito (1819), cui seguono, l’anno successivo, la canzone Ad Angelo Mai, La sera del dì di festa e Il sogno. Nell’estate del 1820, il padre gli impedisce di accettare incarichi che gli vengono offerti a Bologna e a Roma, e Giacomo scrive a Giordani di sentirsi sempre più disperato. Compone, nel 1821, La vita solitaria, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Bruto minore; l’anno successivo, Alla Primavera e l’Inno ai Patriarchi, che traducono in poesia il pessimismo storico. Compone anche l’Ultimo canto di Saffo, in cui identifica la propria sorte sventurata con quella della poetessa greca, suicida a causa dell’aspetto deforme che le impedisce di essere amata, ma, negli ultimi versi, già ipotizza che l’infelicità sia destino comune dell’intero genere umano. Tutte le sue poesie confluiranno poi nella raccolta che sarà intitolata Canti.

Il periodo dei viaggi e dei ritorni Roma, Milano e l’inizio delle Operette morali

Tra Pisa e Recanati: verso i grandi idilli e il pessimismo cosmico

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Nel 1822, Giacomo ottiene finalmente dal padre il permesso di recarsi a Roma dagli zii Antici, ma rimane deluso dalla capitale dello Stato della Chiesa e la paragona a una grande Recanati, perché la vita intellettuale gli appare in piena decadenza e legata al passato. Nel 1824, tornato a casa, inizia a comporre le Operette morali, abbandonando la poesia fino al 1828. Dal 1825 Leopardi tenta ancora, sfidando la salute malferma, di allontanarsi da Recanati. Si reca a Milano, invitato dall’editore Stella a dirigere la pubblicazione delle opere di Cicerone. Qui conosce Vincenzo Monti, ormai vecchio e malato. Si delineano possibilità di incarichi editoriali in varie città, ma le pessime condizioni di salute gli impediscono di accettarli e, nel 1827, è costretto a fare ritorno a Recanati. Corrette le bozze delle Operette morali, pubblicate per la prima volta dall’editore Stella nello stesso anno 1827, lo scrittore riparte per Bologna e poi per Firenze, dove entra in contatto con intellettuali, patrioti e scrittori come Niccolò Tommaseo, frequentatori del Gabinetto Vieusseux, e anche Alessandro Manzoni (impegnato a riscrivere in moderno fiorentino i suoi Promessi sposi), per il quale afferma di provare calda antipatia. Leopardi si trasferisce poi a Pisa, dove migliorano le sue condizioni di salute e trascorre i momenti più belli della sua vita. Qui ritorna a dedicarsi alla poesia e inizia a scrivere componimenti che preparano i grandi idilli: tra essi, nel 1828, Il Risorgimento e A Silvia. Ma nel 1828 è ancora costretto dalle infermità a ritornare a Recanati, dove in preda allo sconforto scrive alcuni capolavori: Le ricordanze, Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio e Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia, espressioni della poesia filosofica dei grandi idilli e del cosiddetto pessimismo cosmico, secondo cui l’infelicità imposta dalla Natura riguarda le condizioni degli uomini di ogni epoca e di tutti gli esseri viventi.

CAP. 21 - GIACOMO LEOPARDI

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Firenze, la pubblicazione dei Canti e il “ciclo di Aspasia”

Dopo altri due anni, gli amici toscani gli offrono un assegno mensile per tornare a Firenze. Qui, nel 1830, il poeta si innamora, non ricambiato, di Fanny Targioni Tozzetti, e l’anno successivo pubblica l’edizione fiorentina dei Canti. Nel 1831 scrive il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, destinati a integrare le Operette morali, e le poesie Il pensiero dominante e Consalvo; seguono, pochi mesi dopo, tre disperati testi poetici che costituiscono una parte del “ciclo di Aspasia” (dal nome greco di una cortigiana, dietro il quale si cela l’amata Fanny a cui i versi sono dedicati), che cantano l’ennesima delusione amorosa di Leopardi.

Gli ultimi anni a Napoli A Napoli con Ranieri

La polemica contro l’ottimismo

Le edizioni definitive e La ginestra

Nel 1833, essendosi riacutizzata la malattia agli occhi, Leopardi, alla ricerca di un clima più mite e sostentato dalla famiglia, si trasferisce a Napoli con l’amico Antonio Ranieri (1806-1888), esule politico napoletano conosciuto anni prima a Firenze. Entra in polemica con l’ambiente intellettuale della città, dominato da una cultura spiritualista e ottimista, che egli satireggia ne I nuovi credenti; scrive anche versi sarcastici contro quelle che considera le illusioni dei liberali – che pensano di mutare la sorte umana attraverso la politica –, dei democratici e di chi ha fiducia nel progresso scientifico e tecnico: la Palinodia al marchese Gino Capponi e i Paralipomeni della batracomiomachia. A Napoli appare la seconda edizione sia dei Canti sia delle Operette morali, che sono però sequestrate dalla censura borbonica. Il poeta trascorre gli ultimi anni della vita con Ranieri e la sorella Paolina, fra Napoli e un’abitazione alle pendici del Vesuvio, dove scrive La ginestra, suo testamento spirituale e ultimo suo componimento poetico insieme a Il tramonto della luna. Assistito dall’amico Ranieri, Leopardi muore in seguito all’aggravarsi dei mali di cui è da tempo sofferente, all’età di 39 anni, il 14 giugno del 1837.

PERSONALITÀ

LEOPARDI UOMO E AUTORE MALATTIA

Non causa del pessimismo, ma strumento conoscitivo, attraverso l’esperienza della sofferenza, della condizione umana.

GENITORI

• Assenza di un rapporto con la madre, fredda e distaccata. • Rapporto complesso con il padre: distanza ideologica e vicinanza affettiva.

RECANATI

• Luogo chiuso e gretto: desiderio giovanile di fuga. • Scoperta del mondo esterno: giudizio negativo sull’Italia (dominata da egoismo e individualismo) e sul mondo contemporaneo. • Simbolo del mondo e della condizione umana, vista nel suo aspetto elementare.

FORMAZIONE CULTURALE

• Conoscenza approfondita della cultura greca e latina; studi eruditi e filologici. • Studio delle lingue antiche e moderne (in particolare l’ebraico). • Lettura dei classici della letteratura italiana e degli autori contemporanei (tra cui i romantici). • Studio della filosofia illuminista francese (soprattutto il Sensismo). • Incontro con Giordani: classicismo, fondato sulla ricerca della vera identità culturale italiana e sulla coscienza della distanza tra antichi e moderni.

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IL L’evoluzione del pensiero di Leopardi

PENSIERO

Pur non essendo Leopardi propriamente un filosofo, egli sviluppa un pensiero lucido e articolato, che tende a evolversi con la coerenza razionale tipica degli Illuministi settecenteschi, sui cui presupposti teorici si fonda, intrecciandosi però anche con tesi romantiche, in una originale elaborazione personale, che presenta spunti anche contraddittori. In particolare, negli ultimi anni, capovolgendo le convinzioni giovanili (in cui accusava la ragione di avere distrutto sogni e illusioni degli uomini, mostrando loro la miseria della propria condizione), il pensiero di Leopardi giunge a esaltare chi, usando la ragione e riconoscendo la fragilità e infelicità della condizione umana, identifica nella Natura la nemica e nei propri simili gli alleati da sostenere e amare, evolvendo verso una concezione dapprima titanista, infine solidaristica. Tale interpretazione del pensiero leopardiano non è però unanimemente condivisa.

La teoria del piacere

Una teoria irrealizzabile

Un punto centrale della riflessione leopardiana è il tentativo di coniugare il sensismo e il materialismo con la tensione dell’uomo a proiettarsi verso l’infinito e la felicità assoluta. La cosiddetta teoria del piacere – che traspare nella produzione lirica ed emerge soprattutto nei pensieri dello Zibaldone – costituisce il momento fondante di tale riflessione filosofica e poetica. Per Leopardi il fine supremo dell’uomo è il piacere inteso come innata propensione alla felicità, sia materiale sia spirituale. Questa aspirazione al piacere, connaturata all’uomo, è infinita sia perché non cessa mai (per durata) sia perché non accetta limiti all’intensità e varietà del suo soddisfacimento (per estensione). Essa non può nemmeno realizzarsi completamente, poiché la condizione di esseri finiti e mortali implica che ogni piacere sia limitato e temporaneo e, comunque, destinato a svanire nel nulla eterno della morte. Da qui deriva una contraddizione insanabile (tipicamente romantica, ma radicata nel materialismo illuministico leopardiano) tra finito e infinito, tra reale e ideale. Tale contraddizione è insita nell’esistenza umana, condannata a cercare un piacere impossibile da raggiungere pienamente e, perciò, inseparabile dal dolore e dalla noia, cioè da quel senso di vuoto che scaturisce dal non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena (Pensieri, LXVIII).

Giovanni Dupré, Abele morente, 1842. Firenze, Palazzo Pitti.

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In questo contesto Leopardi colloca l’elaborazione sulla inevitabile infelicità umana, sia all’interno del pessimismo storico sia nella fase successiva del pessimismo cosmico, e assegna all’immaginazione e al sentimento il ruolo di supportare la dignità insopprimibile dell’uomo.

Dal pessimismo storico al pessimismo cosmico

Le tesi giovanili: la ragione è nemica della Natura

Il pessimismo cosmico nelle Operette

Dolore e sensibilità

La fine dell’universo e il suicidio

Le Operette preparano i grandi idilli

Nella fase giovanile del pessimismo storico, il ventenne Leopardi inizia a elaborare, soprattutto attraverso le pagine dello Zibaldone, una propria concezione filosofica. Partendo dal materialismo ateo, meccanicista e sensista, tipico di alcuni Illuministi settecenteschi, Leopardi si ispira alle tesi del filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau ed accusa la ragione di essere nemica della Natura. La Natura, infatti, come una madre amorosa e benigna, ha dato all’uomo la possibilità di sognare una condizione beata e protetta dagli dèi – come accade agli antichi, nell’infanzia dell’umanità –, mentre la ragione ha impoverito interiormente l’uomo, divenuto incapace di fantasticare e vittima di un senso di tristezza e insoddisfazione. Svelando all’uomo, attraverso la ragione, la sua vera condizione nell’universo, i filosofi illuministi gli hanno dunque mostrato la verità spogliata di ogni incanto; in tal modo l’umanità ha imboccato la via dell’infelicità, proprio come accade all’individuo quando, entrato nell’età della ragione, abbandona le illusioni dell’infanzia. Secondo la conclusione del primo Leopardi, dunque, nel passato l’uomo era meno infelice. Dopo l’Illuminismo, chi ha imparato a far prevalere la ragione sulla Natura non è più in grado di illudersi e credere alle favole antiche: in altri termini, il trascorrere del tempo e la storia hanno determinato, con il dominio della ragione sulla Natura e sui sogni, l’infelicità dell’uomo. Tali concetti, che definiscono il cosiddetto pessimismo storico leopardiano, sono espressi in molte liriche dei primi Canti. La successiva fase del pessimismo cosmico si estende, all’incirca, dal 1823 al 1830, pur continuando a influenzare il pensiero leopardiano fin quasi alla morte del poeta. Tra il 1823 e il 1824, Leopardi compone solo tre poesie; fino al 1828 si dedica alla stesura delle Operette morali e la sua vena lirico-poetica sembra esaurirsi. I testi delle Operette sviluppano con estrema chiarezza filosofica il nuovo pensiero leopardiano: il Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), in particolare, rivela come l’autore faccia ora derivare l’infelicità dal fatto che, per ragioni assurde e inspiegabili, la Natura matrigna ha creato il mondo per la sofferenza di chi è stato chiamato a vivere. All’opposizione fra Natura e ragione, sostituisce l’opposizione fra Natura e uomo, dove la Natura rappresenta la polarità negativa e l’uomo la vittima di un crudele inganno. Dopo aver confutato, in varie Operette, i valori che potrebbero permettere il superamento dell’infelicità, dalla Virtù alla Gloria, dall’Amore alla Sapienza, Leopardi precisa in vari testi, quali il Dialogo della Natura e di un’anima, che quanto più un uomo è sensibile ed elevato, tanto più soffre. Leopardi raggiunge il vertice del pessimismo cosmico nel Cantico del gallo silvestre (1824), in cui prevede la fine dell’intero universo, anch’esso destinato a invecchiamento e annullamento nella morte. Di fronte all’acme del pessimismo, Leopardi introduce il tema romantico del suicidio al centro del Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827), in cui l’atto del togliersi la vita è condannato soprattutto perché non farebbe che accrescere il già pesante fardello di sofferenza delle persone care. Mentre Leopardi si trova a Pisa, tra il 1827 e il 1828, il suo cuore si riapre alla poesia e il suo pensiero, allontanandosi dalle tesi giovanili, si riorganizza e si sviluppa attorno al concetto secondo cui la protesta umana deve essere rivolta contro la Natura, malvagia matrigna delle creature alle quali ha dato la vita. Le Operette sono il punto di partenza per i grandi idilli, che cantano le illusioni dell’età giovanile: l’amore, la speranza, il desiderio del piacere, la gioiosa attesa del futuro.

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Il “ciclo di Aspasia”

La protesta contro la Natura matrigna e contro il destino abbandona il tono animato delle canzoni giovanili e si trasforma in doloroso lamento, in un contesto in cui il paesaggio continua a costituire lo specchio della meditazione del poeta. Quando Leopardi torna a Firenze nel 1830, prova per Fanny Targioni Tozzetti una intensa e lacerante passione amorosa non ricambiata: scrive quindi un gruppo di liriche dedicate alla donna che l’ha respinto. In tali componimenti, noti come “ciclo di Aspasia”, prevale il tema romantico dell’amore, ritenuto irraggiungibile, e della morte, definiti come le due realtà più belle e degne di essere desiderate al mondo; infine, con spirito ribelle, il poeta vi canta il disprezzo della vita e della

IDEOLOGIA

IL PENSIERO DI LEOPARDI

PESSIMISMO STORICO 1819-1822 ca.

• Felicità degli antichi e dei fanciulli, dovuta a immaginazione e illusione, e degli animali, dovuta a inconsapevolezza. La natura buona compensa l’impossibilità di raggiungere il piacere con la varietà e l’indefinito. • Infelicità dei moderni, che hanno una conoscenza oggettiva del mondo. La ragione negativa svela la limitatezza della condizione umana.

PESSIMISMO COSMICO 1823-1830 ca.

• Infelicità di tutte le creature: la sofferenza è condizione ontologica e necessaria. • Natura matrigna: mette al mondo l’uomo con il desiderio di felicità, ma gli impedisce di appagarlo. • Ragione ambivalente: svela l’inganno della natura, ma illude l’uomo di poterla dominare con la scienza e la tecnica.

PESSIMISMO AGONISTICO dopo il 1830

• Necessità di un’alleanza difensiva contro la natura. • Valutazione positiva della società.

• Antichi: dominio dell’immaginazione e poesia ingenua.

POETICA

ANTICHI / MODERNI 1819-1823 ca.

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MORTE DELLA POESIA 1824-1828 ca.

• Moderni: dominio della ragione e crisi della poesia; si può avere quindi una poesia negativa, basata sulla consapevolezza della crisi (canzoni) o una poesia che cerca di recuperare la condizione degli antichi mediante rimembranza e indefinito (idilli).

Prosa (Operette morali).

POETICA DELLA “DOPPIA VISTA” 1828-1830

Poesia che fa coesistere immaginazione e riflessione (canti pisanorecanatesi).

FASE EROICA dopo il 1830

Accettazione dell’”arido vero”; poesia basata sulla ragione; demistificazione degli inganni: • del cuore (“ciclo di Aspasia”); • della cultura e della società (testi satirici e polemici); • della natura e della cultura (La ginestra).

CAP. 21 - GIACOMO LEOPARDI

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La dimensione eroicodrammatica

Natura e invita il proprio cuore a non cedere mai più all’inganno dell’amore, che considera una crudeltà ideata dalla Natura per la propagazione della specie. Tale atteggiamento disperato apre Leopardi alla dimensione eroica: abbandonando il tono del lamento, convintosi del valore delle proprie concezioni, egli si dichiara non più disposto a piegarsi di fronte alla sconfitta e alla Natura nemica, né a coltivare nuove speranze e illusioni. La sua poesia diventa di timbro secco, aspro e frammentato; il paesaggio è quasi assente, i toni conferiscono ai versi una forte tensione drammatica.

L’ultima fase del pensiero Titanismo e solidarismo

Il poetafilosofo e la rivalutazione della ragione

L’approdo del pensiero leopardiano: La ginestra L’esaltazione dell’Illuminismo e del patto sociale

La successiva fase, detta anche del titanismo – i Titani, nell’antico mito classico, si ribellano, in una lotta votata alla sconfitta, contro gli dèi e il destino –, inizia attorno al 1831 e dura fino alla morte del poeta, aprendosi, nel periodo conclusivo, a una nuova concezione solidaristica cui forse la sua prematura fine non consente un pieno sviluppo. In tale fase Leopardi, benché al di fuori delle correnti organizzate di pensiero, si propone di intervenire nel dibattito culturale del proprio tempo. La sua poesia abbandona ogni dimensione idillica e diventa messaggio del poeta-filosofo, che riconosce, con fierezza, nella ragione rivalutata lo strumento per liberarsi dalle illusioni e per raggiungere la verità e la solidarietà tra gli uomini. Nasce così la grande poesia delle ultime canzoni, nella quale, capovolgendo la posizione sostenuta nella fase del pessimismo storico – quando accusava la ragione di aver distrutto i sogni e le illusioni – il poeta si erge come figura eroica, nobile e solitaria, fiero di riuscire a vivere nonostante l’esistenza sia solo dolore. Trasferitosi a Napoli, nell’ampia canzone e testamento spirituale La ginestra, egli accusa di essere superbo e sciocco il proprio secolo che, avviandosi verso l’ottimismo spiritualista e liberale dei nuovi credenti, si comporta come un uomo malato e povero che, ingannando gli altri e se stesso, si presenta vilmente ricco e gagliardo. Leopardi sostiene una dura polemica contro chi celebra le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, anziché ammettere che la Natura può distruggere in un attimo tutti gli uomini e le loro opere con lieve moto in un momento, ed esalta il valore della filosofia illuministica settecentesca (il lume), che usando la ragione ha avuto il coraggio di denunciare le illusioni e mostrare agli uomini il vero / dell’aspra sorte […] / che natura ci dié. Leopardi, nella Ginestra, invita infine gli uomini – ed è questo il suo testamento spirituale – a rinnovare il patto sociale unendosi contro la Natura, unico vero nemico, e ad aiutarsi reciprocamente. La filosofia dell’ultimo Leopardi diventa così invito alla solidarietà e al reciproco amore contro la Natura nemica e il male di vivere, attraverso l’uso della ragione e il coraggio, che permettono all’uomo di acquisire consavepolezza della durezza della sorte, evitando di illudere se stessi e incolpare i propri simili per la comune misera condizione.

La biblioteca di casa Leopardi.

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Dalle opere erudite al gusto classicista La lettera sulla polemica classicoromantica

La prima fase

La seconda fase

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LA POETICA Tradizionalmente si usa suddividere la produzione di Giacomo Leopardi in diverse fasi poetiche. Per quanto riguarda i generi letterari predominanti, dal 1809 al 1815 le opere leopardiane hanno prevalentemente caratteristiche di saggi e trattati eruditi, intervallati dalla composizione dei primi testi poetici (successivamente esclusi dall’edizione dei Canti curata dall’autore). Questa fase comprende quasi 250 titoli, che trattano gli argomenti più diversi, e getta le basi della successiva vera e propria vocazione poetica. Intorno al 1816, ossia negli anni del passaggio dall’erudizione al bello, Leopardi scrive alcune poesie di gusto classicista, tra cui l’Inno a Nettuno – presentato, per beffa agli eruditi, come traduzione di un ritrovato testo dell’età classica – e le Rimembranze (1816). È di un certo rilievo uno scritto risalente a quegli anni ma non pubblicato: la Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana, scritta in risposta all’articolo di Madame de Staël, che dà inizio alla polemica classico-romantica in Italia (1816), nella quale Leopardi si dice contrario (ma non sulla base delle tesi classiciste) all’introduzione, in Italia, di modelli della letteratura straniera. Notevole, anch’esso non pubblicato, è il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), scritto in risposta alle Osservazioni di Ludovico di Breme, in cui Leopardi afferma, fra l’altro, di condividere il rifiuto dell’imitazione e illustra la propria concezione estetica, che non coincide pienamente con il classicismo né con il Romanticismo. Dopo l’abbandono delle favole antiche e delle illusioni sull’uomo coltivate dai classici, ossia dopo il passaggio dal bello al vero (1817-1819), la produzione creativa leopardiana può essere suddivisa in quattro fasi fondamentali. Nella prima fase della creatività poetica (1818-1822), Leopardi manifesta, attraverso i piccoli idilli (Alla luna, L’infinito, La sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria), il proprio dolore e la ricerca di condizioni per attenuarlo e il suo pessimismo storico. Con tale termine si connota la nostalgia per le civiltà classiche e antiche che si sviluppavano a contatto con la Natura e traevano sollievo credendo – come fossero nella fase infantile che precede l’età della ragione, apertasi con l’Illuminismo – alle divinità e ai miti religiosi, distrutti poi dalla critica settecentesca che, secondo Leopardi, mostra all’uomo la realtà dell’universo e la sua condizione di infelicità. All’inizio di questa stessa fase, il poeta elabora anche i componimenti civili, quali All’Italia (1818): significativo è però il fatto che l’importante canzone contenga una dedica a Vincenzo Monti, caposcuola del Neoclassicismo, nonostante questi abbia, ormai da tempo, rinunciato a battersi per ogni ideale patriottico. Essa rappresenta un indizio del fatto che Leopardi vive il patriottismo non come una guida per l’azione politica concreta, ma come esaltazione delle antiche virtù, quindi come un omaggio da sognatore alla classicità, lontano dalla realtà concreta dell’Italia del tempo. Al termine di questa fase si collocano le due canzoni filosofiche Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, che esprimono, in versi, la concezione fin qui maturata. La composizione delle prime Operette morali (1824-1827), dialoghi in prosa a carattere filosofico, conclude la prima fase e avvia l’elaborazione del pessimismo cosmico del poeta, secondo cui non solo l’uomo, ma ogni essere vivente è nato per soffrire. La Natura matrigna viene ora identificata con il misterioso potere, ostile alle proprie creature, che governa il ciclo materiale di produzione e distruzione su cui si fonda l’esistenza dell’universo. Al cambiamento di pensiero si accompagna un mutamento di stile che si riflette anche nei Canti composti in questi anni: l’elemento riflessivo acquista un peso maggiore e la musicalità dei versi – pur sempre presente, come indica il titolo stesso della raccolta – si attenua rispetto ai primi idilli. La seconda fase della produzione poetica (1828-1830) è caratterizzata soprattutto dai grandi idilli a tema filosofico (A Silvia, Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio rappresentano una progressione che si completa nel modo più esemplare nel Canto notturno di un pastore er-

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La terza fase

Quarta fase

Lo Zibaldone

rante dell’Asia), in cui sono cantati con nostalgia ricordi e giovanili illusioni: in essa è ampio lo sviluppo della tematica del pessimismo cosmico. Lo stile – in particolare nel Canto notturno – intreccia elementi di meditazione espressi in ampi versi a parti più melodiche, in cui prevale il tono del lamento. La terza fase della produzione poetica (1831-1836) è rappresentata soprattutto dai testi poetici, privi di caratteristiche di idillio, del cosiddetto “ciclo di Aspasia”, in cui il verso assume un aspetto frantumato, con forti rejet (enjambements troncati da un punto), corrispondenti al tema disperato sviluppato nei testi. Esemplare di questo gruppo di componimenti è A se stesso. La fase si chiude con la polemica antiliberale e antispiritualistica e la ribellione eroica e titanica dell’individuo contro la Natura, intesa ora, definitivamente, come nemica dell’uomo e di ogni essere vivente. Lo stile oscilla fra ironia e sarcasmo e toni eroici romantici. Conclude la vita del poeta, e coincide con la quarta fase (da alcuni definita del “pessimismo eroico”), la stesura del capolavoro e, insieme, testamento spirituale, La ginestra (1836), in cui l’esaltazione del “coraggio di vivere” e la polemica contro l’ottimismo spiritualista, in nome del riconoscimento della comune infelice condizione umana, sono considerati premessa all’analisi dei presupposti per la nascita di un possibile legame di solidarietà umana e di un’azione concreta, fondata su presupposti razionali di stampo filosofico illuminista, contro la Natura. Lo stile si distende in ampie strutture ritmiche che sviluppano – spesso con inserti ironici e lirici – profonde meditazioni filosofiche. Ampie riflessioni di poetica – ad esempio sull’importanza evocativa dell’indefinito – e acuti giudizi sulle altrui e sulle proprie opere sono disseminati, in forma aperta e non organica, nelle preziose pagine dello Zibaldone, nelle quali lo scrittore spesso elabora, con abbozzi in prosa, anche le strutture filosofiche e tematiche di alcuni suoi componimenti poetici (ad esempio del Canto notturno).

La piazza di Recanati con la chiesa e il Palazzo Leopardi.

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I CANTI Il metro e le tre edizioni

L’integrazione fra lirica e riflessione filosofica

Caratteristiche stilistiche

Secondo il critico Francesco Flora, i Canti di Leopardi sono tra gli approdi capitali della poesia di ogni tempo. Nell’edizione definitiva, la raccolta è composta da 41 liriche, ciascuna contrassegnata da un titolo e da un numero che le ordina in sequenza. I versi più frequenti sono gli endecasillabi sciolti e la forma poetica più usata è la canzone libera, organizzata in strofe, spesso di endecasillabi e settenari, a rima libera. Per la sua novità, originalità e libertà di struttura, che la distingue dalla canzone petrarchesca, la canzone usata dal poeta viene chiamata anche leopardiana. L’opera viene data alle stampe per la prima volta a Firenze nel 1831 presso l’editore Piatti; una seconda edizione, corretta e accresciuta, è pubblicata nel 1835 a Napoli presso l’editore Starita, a cura dell’autore e dello stesso Ranieri: contiene 38 Canti. Una copia di tale edizione viene corretta di pugno da Leopardi negli ultimi giorni di vita (si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli): su di essa si basa Ranieri per dare alle stampe, nel 1845, presso Le Monnier di Firenze, l’edizione postuma, accresciuta, ordinata e corretta secondo l’ultimo intendimento dell’autore, che per la prima volta comprende 41 testi e include Il tramonto della luna e La ginestra. Su tale terza edizione si baseranno le numerosissime edizioni successive. I Canti sono il capolavoro di Leopardi e, forse, la sua vera ragione di vita. Mentre egli canta e scrive poesie, i suoi stati d’animo spesso mutano (ne è indizio il timbro melodico dei versi) e, al di là di ciò che egli afferma, il sentimento legato all’esistenza infelice si trasforma in desiderio di felicità e di vita. Nei Canti, Leopardi esprime ricordi, moti interiori, emozioni, sentimenti, desideri, riflessioni personali e filosofiche: mai come nei suoi testi, la poesia lirica diviene espressione libera e sincera di ogni aspetto della vita, del pensiero e dell’emozione. Tutto ciò Leopardi lo fa poetando in una forma personalissima, che privilegia il tono lirico, variamente integrato con la riflessione filosofica. Lo stile è profondamente originale: è limpido ed elegante e composto da una metrica nuova, che si

Recanati, la torre del passero.

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Il lessico

basa sugli echi dei classici; nell’idillio e soprattutto nella canzone, con le rime libere e le varie consonanze, il poeta crea una melodia e una musicalità molto dolci, specialmente quando esprime nostalgia per gli inganni e la speranza del tempo giovanile. L’espressione è antiprosaica: spesso melodiosa, ma talora anche aspra, aggressiva, di taglio ironico. Il lessico nasce dall’intreccio armonioso della lingua quotidiana e di quella letteraria. Spesso il poeta usa termini antichi e vaghi, in quanto ritiene che essi siano indispensabili in poesia, poiché suscitano molti ricordi e sentimenti. Uno dei molti pregi dei Canti consiste tuttavia nella capacità di mutare stile conservando una fondamentale omogeneità timbrica.

Le fonti

Dante e il viaggio nella memoria

Petrarca, il maestro lirico

Tasso e la poesia del dolore

Il magistero di Foscolo e il tema della tomba

Tra le numerose fonti dei Canti di Leopardi, oltre ai numerosi richiami classici, di fondamentale importanza tematica e strutturale sono soprattutto quattro poeti. Dante, da un lato, rappresenta il modello del poeta magnanimo, del poeta-vate che disprezza la corruzione del mondo; dall’altro, fonda il suo poema su temi e princìpi che anche Leopardi pone alla base del proprio edificio poetico: tra essi una posizione di primo piano assume la memoria. Come la Commedia è un viaggio fondato sulla memoria del poeta, che ricostruisce la propria esperienza, e dei personaggi, che rievocano la loro vita terrena e la visione dall’aldilà, la poesia di Leopardi è fondata sulla rimembranza. La stretta connessione tra filosofia e poesia è un dato fondante della poetica di Dante e una acquisizione di decisiva importanza per Leopardi; in particolare, lo stretto rapporto fra poesia e verità affermato da Dante è riproposto anche da Leopardi, seppure in un diverso contesto ideologico. Petrarca è spesso richiamato direttamente da Leopardi come autorità indiscussa del genere lirico. È significativo, ad esempio, che i Canti inizino con la canzone All’Italia, che ha lo stesso titolo di una canzone petrarchesca. Tuttavia, a livello strutturale e a livello metrico-formale, Leopardi non riprende il sonetto e la canzone nelle loro forme tradizionali, appunto petrarchesche, e chiude il volume con la sezione Frammenti, rifiutando il principio di riorganizzazione sistematica che impronta invece il Canzoniere di Petrarca. Infine, Leopardi contrappone diverse figure femminili all’unica donna di Petrarca (Laura) e, soprattutto, afferma una concezione dell’amore – terreno, materialistico – diversa, benché ugualmente infelice. Tasso è una figura di riferimento fondamentale per Leopardi, sul piano umano non meno che sul piano poetico. Tasso è citato accanto ad Ariosto nella galleria dei grandi italiani (nella canzone Ad Angelo Mai): il binomio Ariosto-Tasso rievoca l’opposizione fra antico e moderno; Ariosto simboleggia una ripresa della poesia dell’immaginazione propria degli antichi, Tasso la poesia del dolore propria dei moderni. Nella sua vicenda esistenziale come nelle opere, Tasso incarna i temi della prigionia, dell’esclusione, della noia, del sogno, dell’incomprensione da parte dei contemporanei, del destino di dolore, che sono altrettanti fili conduttori anche del pensiero e della poesia di Leopardi. Il Foscolo dei Sepolcri è un modello profondo dei Canti, serbatoio di stilemi e immagini, temi e strutture. I temi fondamentali del carme foscoliano si ritrovano tutti nella produzione leopardiana, dalle canzoni civili alla Ginestra, pure talora modificati. Ad esempio, nella galleria dei grandi italiani della canzone Ad Angelo Mai sono espunte le figure degli scienziati per la negatività che Leopardi attribuisce alla scienza, in quanto feticcio del progressismo ottimistico del suo secolo. La tomba non è però un consolante emblema dell’eternità della poesia, come in Foscolo, ma un luogo prospettico del pessimismo da cui guardare il mondo e la vita. Nei Canti è pervasiva e continua la presenza della morte e la tomba non è il monumento della memoria e non rimanda al mito. Spesso la morte si mostra nella vita quotidiana dolorosa nel borgo di Recanati, nella casa paterna, nel chiuso morbo che cancella le illusioni e la gioventù.

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Le canzoni

Le canzoni civili

Il tema educativo

Le canzoni filosofiche e il pessimismo storico

I primi nove componimenti dei Canti sono canzoni, un genere soppiantato nel Settecento dall’ode, che Leopardi rilancia, dispiegando la propria ispirazione lirica e la propria riflessione filosofica. Le canzoni si distinguono per la ricercatezza del lessico, caratterizzato da arcaismi, latinismi e stilemi inconsueti, e per la frequenza delle metafore. Leopardi stesso, consapevole della loro complessità, vi appose delle annotazioni di carattere erudito e una premessa in cui motivava le proprie scelte. Le due canzoni civili, All’Italia e Sopra il monumento di Dante, volutamente collocate in posizione iniziale da Leopardi, alterando l’ordine cronologico di composizione (1818), hanno come tema la decadenza dell’Italia, cui il poeta contrappone l’Italia dei padri antichi, famosa per la gloria militare e per quella poetica. È evidente il richiamo ai Sepolcri di Foscolo: anche Leopardi si rifà al mito greco, ma sostituisce Omero, poeta epico, con Simonide, a segnalare la scelta del genere lirico. Anche la seconda canzone presenta una galleria di grandi sul modello dei Sepolcri, traendo spunto dal progetto di Firenze di erigere un monumento a Dante. Fra le prime due canzoni (1818) e Ad Angelo Mai (1820) si colloca la crisi del 1819, che determina un atteggiamento meno oratorio e più problematico, in virtù del quale Leopardi acquista consapevolezza della irrimediabile frattura fra antico e moderno. La galleria dei grandi spiriti del passato accoglie infatti anche i sentimenti del dolore esistenziale e della noia (rappresentati nella figura emblematica di Tasso) e la coscienza che qualsiasi viaggio della conoscenza comporti la scomparsa delle illusioni. Le due canzoni successive, Per le nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone, scritte fra l’ottobre del 1821 e il luglio del 1822, possono essere definite educative. La prima infatti è un’esortazione a educare i giovani ai valori antichi, rivendicando la funzione positiva dell’amore, della bellezza, della poesia, nonostante siano beate larve, cioè illusioni. La seconda rivendica il nesso tra felicità e illusione e, quindi, il valore del gioco come luogo dei lieti inganni e delle felici ombre, cioè della competizione sportiva come educazione civile. Le ultime quattro composizioni – Bruto minore, Alla Primavera, Inno ai Patriarchi e Ultimo canto di Saffo – costituiscono le canzoni filosofiche. La filosofia di Leopardi vi appare nella tematica del suicidio come rifiuto alfieriano della tirannia politica (Bruto) e del destino crudele (Saffo), nonché – in Alla Primavera e nell’Inno ai Patriarchi – nella possibilità di un recupero della felice età degli antichi (il mito classico e biblico) attraverso l’amore per la natura: il tema, insomma, del cosiddetto pessimismo storico (che nell’Ultimo canto di Saffo, già si evolve verso un più radicale pessimismo cosmico).

I piccoli idilli L’origine dei piccoli idilli

La struttura dell’idillio leopardiano

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Nel 1819, poco più che ventenne, in seguito tra l’altro alla morte della giovane Teresa Fattorini e alla grave malattia che lo colpisce agli occhi, Leopardi scrive di avere sperimentato la consapevolezza della sofferenza e del passaggio dalla condizione tipica degli antichi e dei fanciulli – immersi nelle fantasie, nelle illusioni, nei sentimenti e nella ricerca del bello – a quella della conoscenza ed esperienza del vero, vale a dire alla condizione cui la filosofia razionalista settecentesca ha condotto l’uomo moderno. L’infelicità che emerge dall’esperienza personale e che viene gradualmente confermata come fondamento universale dell’esistenza umana (in particolare dalle pagine dello Zibaldone) induce Leopardi ad abbandonare la precedente poesia, in parte ancora sostanzialmente classicista, per ricorrere a ragione e sentimento e armonizzare così, in una sintesi suggestiva, poesia e filosofia. Nascono così i cosiddetti piccoli idilli – il termine idillio (dalla radice greca id di “vedere”) è usato nella letteratura classica per indicare un piccolo componimento che rappresenta un quadro visivo in genere di argomento agreste ed elegiaco – che hanno generalmente una medesima struttura: prendendo avvio da un evento che mette in relazione il poeta con la natura e suscita in lui sentimenti e pen-

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La nascita della poesia moderna La lirica dell’io e l’indeterminatezza

La tematica centrale del dolore

L’infelicità e la Natura matrigna

sieri, il poeta stesso ricava dalla propria esperienza una riflessione filosofica, esplicita o implicita, di carattere universale. Tale conclusione riguarda, spesso, le condizioni che accompagnano o attenuano il dolore. I primi idilli leopardiani (Alla luna, L’infinito e altri) prendono spunto da motivi paesaggistici, autobiografici e sentimentali per indirizzarsi verso meditazioni che il poeta stesso definisce avventure storiche dell’animo. Si inaugura così la poesia moderna: il fulcro del componimento non è più, infatti, la storia, il mondo esterno o la mitologia; esso verte, invece, sul mondo interiore, i sentimenti del poeta e i pensieri filosofici a essi connessi. Leopardi abbandona la poesia di riflessione, realizzando liriche dai contorni vaghi e sfumati, che pongono al centro l’io del poeta con i propri sentimenti, ricordi, sogni, pensieri, e lo mettono a confronto, secondo una concezione tipicamente romantica, con il mondo esterno, rappresentato dalla notte, dalla luce lunare, dalla lontananza, dall’infinito naturale o immaginato, che creano un suggestivo alone di indeterminatezza. In questa situazione vaga, che affascina il lettore, l’io del poeta si smarrisce e l’insegnamento filosofico, pure presente ed espresso con grande lucidità, perde ogni connotazione didascalica, in quanto viene evocato simbolicamente, in un’atmosfera volutamente indefinita, mediante un legame analogico o affettivo con un ricordo o un evento sentimentale, che ha come protagonista il poeta stesso o una figura in cui egli si identifica. La tematica fondamentale che attraversa i piccoli idilli (ma è presente in tutta l’opera di Leopardi) riguarda l’esistenza del dolore. Essa porta con sé l’interrogativo che investe il senso della vita e della realtà: per quale motivo la Natura ha chiamato a esistere gli uomini e non se ne cura? La “scoperta” leopardiana, già espressa nei versi del 1819, non riguarda soltanto il dolore umano, ma la nullità dell’esistenza. Lo confermano con chiarezza soprattutto le contemporanee annotazioni dello Zibaldone (tutto è nulla, solido nulla). Inizialmente lo scrittore sembra pensare che la sorte infelice riguardi solo alcuni uomini, e si chiede la ragione di tale ingiustizia: questo è il tema, per esempio, della prima parte dell’Ultimo canto di Saffo (1822), non appartenente ai piccoli idilli, ma scritto nei medesimi anni, nel quale la poetessa greca, non amata per la propria deformità, si domanda per quale ignota ragione sia stata destinata a una sorte così crudele. Dopo aver concluso che la risposta non può essere data dall’uomo perché tutto è misterioso tranne la sofferenza, ella, infine, prima di suicidarsi, parla però già dell’infelicità come di un destino comune dei mortali. Panorama dal colle dell’Infinito, dalla balconata di casa Leopardi.

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Il tema centrale del pessimismo leopardiano è qui chiaramente definito: la Natura, come una matrigna, trascura i propri figli (negletta prole) e li abbandona al dolore, senza permettere loro di comprenderne il motivo.

I grandi idilli o canti pisano-recanatesi Il silenzio poetico

Una nuova stagione lirica: i grandi idilli

Personaggi e quadri elegiaci eletti a simboli universali

A Silvia

Verso il pessimismo cosmico

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Tra il 1823 e il 1828, la poesia di Leopardi tace e lo scrittore si dedica principalmente all’elaborazione della propria concezione filosofica attraverso la prosa delle Operette morali, al cui interno matura gradualmente la teoria del pessimismo cosmico. In tale fase il poeta abbandona la convinzione secondo cui gli antichi erano meno infelici (pessimismo storico), per sostenere che in ogni epoca e luogo l’uomo fu, è e sarà infelicissimo, e aggiunge che questa sorte non riguarda solo gli esseri umani ma tutti gli esseri viventi, destinati a precipitare nel nulla della morte, dopo le sofferenze della vita (pessimismo cosmico). Dopo il soggiorno a Pisa degli anni 1827-1828, si risvegliano nel cuore del poeta, preannunciati ne Il risorgimento (1828), i sentimenti, e si apre una nuova stagione lirica. I canti pisano-recanatesi, composti nel periodo 1828-1830, attestano, anche nella definitiva adozione di forme metriche aperte (strofa libera, endecasillabi sciolti), il superamento della distinzione fra idillio e canzone. Tale separazione aveva inizialmente rappresentato il tentativo di riservare all’idillio lo spazio proprio della poesia (con la poetica dell’infinito e della rimembranza) e alla canzone quello della traduzione in versi del pensiero, con tutto il suo vigore polemico e argomentativo. Il pessimismo radicale di fondo rimane, ma, dopo l’affievolirsi della vena poetica degli anni immediatamente precedenti, Leopardi, grazie alla maturazione permessa dalle Operette morali, compone quelli che dalla maggior parte dei critici sono detti grandi (o secondi) idilli: A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e altri. In essi, l’arido vero e la desolazione del vivere talora trovano consolazione nella dolcezza della memoria e della nostalgia della giovinezza, talora rivelano accenti di nuda disperazione. La struttura ricorrente dei piccoli idilli che, da un’esperienza personale, paesaggistica e sentimentale, risalgono a una conclusione filosofica attraverso l’immaginazione poetica, si ritrova anche nei grandi idilli, i cui personaggi e quadri descrittivi assumono però un respiro più ampio e il carattere di simboli universali. Il mutato punto di partenza filosofico, maturato nelle Operette morali, è chiaramente espresso, nel 1828, in A Silvia. Esso consiste nella convinzione che la Natura è nemica degli uomini, in quanto non mantiene le sue promesse e inganna i propri figli, abbandonandoli a una vita di sofferenza il cui unico traguardo è l’apparir del vero, coincidente con la scoperta che il destino umano si fonda sull’infelicità e l’annullamento nella morte. Tuttavia, anche in questo caso, l’esperienza personale (il ricordo della morte di una giovane: a livello biografico, Teresa Fattorini) diventa punto di partenza per una dolcissima e drammatica rievocazione della giovinezza passata. La protesta contro la Natura e il destino (è funesto a chi nasce il dì natale) fonde armoniosamente – in modo esemplare nel Canto notturno – l’immagine idillica, che si amplia in grandi paesaggi, spesso notturni, che rispecchiano il “paesaggio dell’anima” dell’autore, e la struttura razionale e filosofica. La più frequente presenza di figure e scene tratte dalla realtà quotidiana (la donzelletta, il borgo, il pastore) – con funzione allegorica, esemplificativa di tesi filosofiche – rende più universale la condizione umana simboleggiata, senza però che esse mai trapassino dal piano lirico a quello realistico. La critica della Natura e la denuncia del “male di vivere”, identificato con l’esistenza medesima, conducono il poeta a cantare una condizione umana che sempre più esclude ipotesi consolatorie e si indirizza verso il cosiddetto pessimismo cosmico. In testi come il Canto notturno, le domande del pastore e il silenzio della luna rinviano a un bisogno di significato che non trova risposta né sul piano metafisico né sul terreno politico.

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Il “ciclo di Aspasia”

Un delirio titanicopassionale

A se stesso: l’abbandono dell’inganno amoroso

La morte e il sarcasmo contro l’ottimismo

A sé stanti, nella produzione poetica dei Canti, sono i componimenti del “ciclo di Aspasia” (Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, Aspasia, A se stesso), scritti dopo il ritorno a Firenze nel 1830 e dedicati all’amore infelice per Fanny Targioni Tozzetti, che Leopardi chiama Aspasia, dal nome della cortigiana ateniese amata da Pericle (V sec. a.C.), celebre per bellezza e cultura. Le liriche esprimono un vero e proprio delirio passionale, reso attraverso l’accostamento, tipicamente romantico, tra l’amore e la morte, considerati fratelli in quanto il primo, anche se inganno di natura, consente, come al protagonista di Consalvo, di affrontare eroicamente la morte. L’esperienza biografica e letteraria rappresentata Incisione raffigurante Aspasia. dai versi del “ciclo di Aspasia” e soprattutto da A se stesso (1833), il breve e frantumato testo che colloca il poeta in una dimensione già titanica ed eroica, si conclude con la decisione di rinunciare definitivamente a ogni illusione e passione e, in particolare, all’inganno amoroso. La drammatica conclusione, al gener nostro il fato / non donò che il morire, espressa in uno stile aspro e spezzato, e l’invito rivolto al cuore a disprezzare se stesso e la natura, il misterioso potere che comanda a danno di tutti, preannunciano l’intenzione di Leopardi di battersi anche contro le illusioni degli altri esseri umani. Dato che le illusioni sono ormai ritenute una fonte della crudeltà che caratterizza il mondo, le altre poesie del 1834-1835 trattano solo il tema della morte (in particolare, della morte che attende anche le donne più belle); inoltre, nella Palinodia, Leopardi sviluppa la satira e il sarcasmo contro ogni ottimismo.

La ginestra: un testamento spirituale e poetico Dal titanismo alla solidarietà tra gli uomini

Il coraggio di vivere e la bellezza della poesia

Nel pensiero leopardiano, si sviluppa così gradualmente il titanismo, ossia il riconoscimento della necessità, per quanto il destino sia segnato, di ribellarsi eroicamente alla Natura, cattiva madre che tormenta le proprie creature, e, contestualmente, di unire gli uomini da essa oppressi attraverso la solidarietà. La ginestra o il fiore del deserto, scritta a Napoli nel 1836, vero e proprio testamento spirituale e poetico, dimostra che il pensiero di Leopardi si sta spingendo nella direzione di una scoperta della solidarietà fondata sull’accettazione della verità e sull’uso della ragione. In questa lirica, infatti, mentre riconferma la propria concezione materialistica e pessimistica e deride le visioni ottimistiche sulle sorti dell’umanità, Leopardi indica con chiarezza agli uomini una via costruttiva da seguire: quella dell’amore reciproco e della solidarietà fondati sulla ragione. È qui affermata la teoria illuminista del “contratto sociale” che ha unito gli uomini per difendersi dalla Natura: Leopardi, negli anni in cui al centro delle vicende politiche vi è la lotta patriottica, animata soprattutto dai grandi ideali ottocenteschi, conclude la propria parabola filosofica indicando invece con tono profetico, come compito centrale, il recupero del pensiero razionale settecentesco (basato su fondamenti cosmopoliti) che riconosce il vero nella misera condizione umana e indica nella Natura il principale nemico dell’umanità. Finché non tornerà ad affermarsi la ragione, l’unico rimedio alla decadenza dell’uomo è identificato con l’eroismo dei pochi che abbracciano tale filosofia, intesa forse anche come guida per l’azione, ma comunque soprattutto come coraggio di vivere e di resistere nel quotidiano. Tale atteggiamento è raffigurato dalla ginestra (simbolo del poeta) che cresce a fatica, ma donando a tutti la propria umile bellezza (la poesia), sull’arida lava pietrificata, ossia nel deserto dell’esistenza umana. Sul piano letterario, La ginestra fonde in sé le migliori caratteristiche della poesia leopardiana ed è anche il vertice della grande poesia dei Canti.

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Focus

IL CONTENUTO DEI PRINCIPALI CANTI

Nell’edizione napoletana curata per la casa editrice Starita da Giacomo Leopardi (1835) e in quella postuma (1845), ampliata e curata a Firenze per Le Monnier da Antonio Ranieri, i Canti non sono sempre disposti secondo l’ordine cronologico di composizione (come invece avviene in queste pagine). Considerarli da questo punto di vista è indispensabile per meglio comprendere l’evoluzione del pensiero e dello stile dell’autore, anche mediante il raffronto con il contesto storico e, soprattutto, con gli eventi biografici. Presentiamo, di seguito, in estrema sintesi, gran parte dei componimenti dell’edizione definitiva. Gli ultimi due Canti sono presenti solo nell’edizione postuma del 1845 curata da Ranieri. In qualche caso la definizione della data di composizione qui proposta è controversa, anche perché esistono più varianti del testo. All’Italia (1818). Il poeta compiange la condizione dell’Italia sotto l’oppressione dello straniero (la gloria non vedo / non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi / i nostri padri antichi). Gli Italiani muoiono in terra straniera combattendo in eserciti di altre nazioni, e nessuno è disposto a lottare per la patria: l’autore dichiara di essere pronto a farlo anche da solo. Il finale rievoca la battaglia delle Termopili, in cui i Greci conquistarono la gloria, sacrificando la vita nello scontro impari contro i Persiani, per la salvezza della propria patria, e Simonide li cantò. Nella lettera dedicatoria a Vincenzo Monti, Leopardi afferma di essersi identificato con l’antico poeta greco. Sopra il monumento di Dante (1818). In occasione dell’erezione in Firenze di un monumento a Dante, il poeta biasima le condizioni dell’Italia, e invita gli Italiani a prendere esempio dai “grandi”. Anche questi versi sono accompagnati da una dedicatoria a Vincenzo Monti. Alla luna (1819). Il poeta osserva la luna da un colle e ricorda quando, la sera di un anno prima, la vedeva con la medesima sofferenza. Il ricordo del passato, finché si è giovani e si può ancora sperare, è comunque confortante, anche se è legato a un evento triste e il dolore dura ancora. L’infinito (1819). Il poeta non può vedere l’orizzonte, perché una siepe glielo impedisce: si immerge allora con l’immaginazione nell’infinità e nell’immobilità dello spazio. Il fruscio delle foglie mosse dal vento, che ricorda il tempo dell’età presente, suscita un paragone con le ere passate, sepolte nel silenzio infinito. Nell’immensità di tali immaginazioni, il pensiero del poeta si sente naufragare, e l’autore avverte un sentimento di dolcezza. La sera del dì di festa (1820). Il pensiero del poeta, in una notte di luna, corre alla giovane donna che ama senza speranza; mentre compiange se stesso e la propria gioventù, un canto che si spegne lontano gli ricorda che tutto al mondo passa senza lasciare traccia, e a causa di ciò gli si stringe il cuore, come gli accadeva quando, fanciullo, udiva lo stesso canto che svaniva nella notte. Il sogno (1820). Appare in sogno al poeta la fanciulla amata che gli ricorda la propria prematura morte e la fine delle speranze giovanili. I due si abbracciano prima che l’immagine della giovane svanisca con il sonno. Ad Angelo Mai (1820). Rivolgendosi all’uomo che ha ritrovato i libri del De republica di Cicerone, l’autore esalta le grandi illusioni che ispiravano il mondo antico e lamenta il fatto che l’Italia non tragga spunto dalla grandezza del proprio passato per scuotersi dalla viltà del secol di fango, in cui si ascolta più il computar – i calcoli delle scienze esatte – che i carmi. Il poeta rimpiange i sogni dei tempi passati ed esprime la consapevolezza della noia e del dolore, destinati a durare tutta la vita. La vita solitaria (1821). La giovane donna amata dal poeta è morta: nonostante la bellezza della natura, egli potrà trovare qualche conforto solo nel chiarore della luna e nel camminare solitario nei boschi. Nelle nozze della sorella Paolina (1821). Poiché i figli non possono essere che miseri o codardi, il poeta invita la sorella a preferire figli infelici, purché sappiano essere forti, giacché fra gli uomini il prezzo della nobiltà è una maggiore infelicità. Sa amare, e compiere egregie gesta, solo chi ammira i paesaggi tempestosi e il rombo della procella. A un vincitore nel pallone (1821). Lodando la sudata virtude di un giovane, vincitore in una gara sportiva, il poeta ricorda che, nei giochi, i Greci si addestrarono alle armi in modo da respingere i barbari: gli Italiani, invece, si abbandonano alla decadenza fra le loro gloriose rovine. Rivolgendosi al giovane, Leopardi conclude ricordando che la vita si ama solo nel momento del pericolo. Bruto minore (1821). Bruto, uno dei congiurati che ha ucciso il tiranno Cesare, dopo aver visto crollare i propri ideali di virtù, libertà e giustizia, decide di uccidersi, accusando la realtà e la società in un discorso di violenta polemica contro gli dèi e gli uomini, accompagnata dalla previsione secondo cui in peggio / precipitano i tempi. Alla primavera o delle favole antiche (1822). I versi sono dedicati alla primavera che porta con sé gioia, è di conforto agli uomini e vive nelle loro favole. Il poeta chiede alla vaga natura di far ritrovare allo spirito umano una favilla dell’illusione dei miti e degli dèi, che nei tempi antichi confortava nel dolore. Testo in cui è espressa in modo esemplare la concezione del “pessimismo storico” leopardiano. Inno ai Patriarchi (1822). Il passato dell’umanità narrato dalla Bibbia, a contatto con la natura e il sogno, viene esaltato rispetto al presente. In conclusione, il poeta ritiene beata la selvaggia California, finché la civiltà moderna non vi giungerà a separare l’uomo dalla Natura. Ultimo canto di Saffo (1822). L’antica poetessa greca Saffo ama Faone, che però non la ricambia: l’animo sensibile della donna è infatti celato in un corpo deforme. Non avendo avuto parte della bellezza naturale, Saffo si interroga sul motivo per cui vi è chi il destino condanna, innocente, a soffrire e, dopo aver tratto la conclusione

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che forse non esistono esseri umani felici, decide di ribellarsi alla sorte, suicidandosi. Alla sua donna (1823). Inno rivolto a una donna ideale, che mai esisterà sulla terra; l’autore è consapevole che il suo amore andrà deluso. Al conte Carlo Pepoli (1826). Il poeta tratta della noia e dell’infelicità, sentite maggiormente da chi non ha niente da fare, in misura minore da chi si deve guadagnare il pane con il sudore. Il risorgimento (1828). Si apre nel cuore del poeta un sentimento di speranza, dopo le delusioni degli anni trascorsi: è uno spiraglio anche per la ripresa della creazione poetica, interrottasi a lungo. Nel cuore rivivono gl’inganni aperti e noti delle speranze, delle passioni e delle illusioni. A Silvia (1828). Colloquio nostalgico e malinconico con una giovane, Silvia, compagna delle speranze giovanili del poeta, ormai stroncate come la stessa fanciulla, morta prematuramente prima di diventare donna adulta. Il passero solitario (1829). Da un’antica torre, un passero solitario canta. Il poeta pensa che anch’egli, pur essendo giovane, conduce una vita isolata e inadatta alla sua età e di cui è certo che si pentirà. La solitudine del passero è frutto della natura, mentre il poeta pensa che, giunto alla vecchiaia, rimpiangerà di aver vissuto la gioventù trascurando il divertimento, il riso e l’amore cui, durante la festa, si dedicano i ragazzi del borgo. Le ricordanze (1829). Dal giardino della casa paterna in cui è stato costretto a tornare, il poeta ammira le stelle dell’Orsa che gli ricordano l’infanzia trascorsa nella casa; vagando, il pensiero ricorda la fine delle ingannevoli speranze dell’infanzia e la morte della giovanissima amata Nerina, che ha lasciato la rimembranza acerba come compagna di ogni immaginazione e sentimento. La quiete dopo la tempesta (1829). Nel borgo, la vita riprende dopo il timore causato dalla tempesta: unico dono della Natura per i suoi figli è il conforto che deriva dalla momentanea scomparsa di un profondo dolore. Il sabato del villaggio (1829). Nel paese tutti sembrano lieti il sabato sera, perché aspettano l’arrivo della domenica: ma essa sarà giorno di tristezza e noia; analogamente, la gioventù è l’età meno infelice, di cui bisogna godere, perché si può essere felici solo nell’illusione, nella speranza e nell’attesa del piacere. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1830). Dialogo nella solitudine desertica tra un pastore e la silenziosa Luna, cui egli rivolge le proprie domande sull’universo e sulla propria infelice esistenza. L’uomo pensa che la vita sia un male e la paragona alla corsa di un vecchio che si strazia e affatica per precipitare nell’abisso del nulla. Nell’ultima parte, il pastore si domanda se il dolore è più avvertito dagli esseri più sensibili o se il giorno della nascita è funesto per ogni essere vivente. Il pensiero dominante (1831). Il poeta, dominato dalla passione improvvisamente sorta in lui per una donna bella qual sogno [Fanny Targioni Tozzetti], si sente in grado di affrontare qualsiasi dolore e di sfidare le meschinità del mondo. La celebrazione dell’amore si accompagna, con perentorietà d’accenti, alla consapevolezza antidillica della propria condizione mortale e della propria alta dignità spirituale. Amore e morte (1832). Il destino ha creato due fratelli: la Morte e l’Amore; la prima fa cessare ogni dolore e il secondo, sempre a lei unito, osa ferro e veleno / meditar lungamente / e nell’indotta mente / la gentilezza del morir comprende. Nell’universo, solo il potere del destino è loro superiore. Consalvo (1832). Anche questa lirica tratta il tema della Morte e dell’Amore. Consalvo muore, innamorato perdutamente e senza speranza di Elvira. A se stesso (1833). Svanita l’illusione dell’Amore, il poeta vuole morire. Con parole dure, aspre e spezzate, rivolgendosi al proprio cuore, ora che non solo sono morte le speranze, ma anche il desiderio di altri inganni, lo invita a riposare per sempre. Aspasia (1834). Il poeta immagina il volto di Aspasia, nome con cui chiama la donna che ha invano amato [Fanny Targioni Tozzetti]; ormai sa d’avere amato solo l’immagine che si era creato di lei nel proprio cuore e ride amaramente della propria infelicità. Sopra un bassorilievo antico sepolcrale (1835). Il poeta, osservando su un bassorilievo l’effigie di una fanciulla morta precocemente, riflette sul fatto che la sorte di chi muore è meno dura di quella di colui che la morte / sente de’ cari suoi. Palinodia al marchese Gino Capponi (1835). Il poeta dedica ai propri amici della Toscana e, in particolare, a Gino Capponi, un’ampia satira, di tono ironico e pungente, contro la fiducia nel progresso e contro l’ottimismo dei liberali. Leopardi deride anche l’esteriore moda del tempo, in seguito alla quale si vedono le barbe ondeggiar lunghe due spanne. Il tramonto della luna (1836). Come la luna tramonta e lascia al buio la terra, così con la gioventù terminano le speranze e le illusioni: l’ultimo approdo è la morte. La ginestra o il fiore del deserto (1836). La ginestra, che fiorisce sulle pendici del Vesuvio bruciate dalla lava che distrusse Pompei, viene paragonata all’uomo. Il fiore dimostra più dignità e saggezza, poiché, nel proprio superbo ottimismo, l’uomo dell’Ottocento pensa che il mondo sia creato solo per lui e s’illude circa le future magnifiche sorti e progressive; la ginestra tace e si limita a crescere con dolore nell’arido terreno bruciato dalla lava, contenta dei deserti. La Natura è la sola responsabile dell’infelicità: gli uomini dovrebbero avere il coraggio di ammettere la propria misera condizione e, anziché mentire a se stessi e combattersi l’un l’altro, dovrebbero usare la ragione e unirsi come fratelli, aiutandosi a vicenda contro il solo vero nemico di tutti gli esseri viventi, vale a dire la Natura stessa.

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L’INTERPRETAZIONE CRITICA

Il contrasto fra intelletto e cuore

Francesco De Sanctis

L’affermazione del carattere attivo e positivo del pessimismo leopardiano, fondato sul contrasto tra cuore e intelletto, tra la razionale negazione della vita e la riaffermazione delle illusioni di felicità e di bellezza che incessantemente risorgono: è questa la tesi centrale di De Sanctis, destinata a condizionare anche gran parte della critica successiva. Questa feconda contraddizione è illustrata nella pagina che qui riportiamo, giustamente celebre perché non solo definisce in profondità il pensiero e la poesia di Leopardi, ma è anche il primo deciso riconoscimento della sua alta coscienza morale. Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore. Pessimista od anticosmico, come Schopenhauer1, non predica l’assurda negazione del “Wille”2, l’innaturale astensione e mortificazione del cenobita: filosofia dell’ozio che avrebbe ridotta l’Europa all’evirata immobilità orientale, se la libertà e l’attività del pensiero non avesse vinto la ferocia domenicana e la scaltrezza gesuitica3. Ben contrasta Leopardi alle passioni, ma solo alle cattive; e mentre chiama larva ed errore tutta la vita, non sai come, ti senti stringere più saldamente a tutto ciò che nella vita è nobile e grande. L’ozio per Leopardi è un’abdicazione dell’umana dignità, una vigliaccheria; Schopenhauer richiede l’occupazione come un mezzo di conversarsi in buona salute. E se vuoi con un solo esempio misurare l’abisso che divide queste due anime, pensa che per Schopenhauer tra lo schiavo e l’uomo libero corre una differenza piuttosto di nome che di fatto; perché se l’uomo libero può andare da un luogo in un altro, lo schiavo ha il vantaggio di dormire tranquillo e vivere senza pensiero, avendo il padrone che provvede a’ suoi bisogni; la qual sentenza se avesse letta Leopardi, avrebbe arrossito di essere come “Wille” della stessa natura di Schopenhauer. […] Aggiungi che la profonda tristezza con la quale Leopardi spiega la vita, non ti ci fa acquietare, e desideri e cerchi il conforto di un’altra spiegazione. Sicché se caso, o fortuna, o destino volesse che Schopenhauer facesse capolino in Italia, troverebbe Leopardi che gli si attaccherebbe a’ piedi come una palla di piombo, e gl’impedirebbe di andare innanzi. da Schopenhauer e Leopardi, in Saggi critici, a cura di L. Russo, II, Laterza, Bari, 1957

1. Schopenhauer: il saggio Schopenhauer e Leopardi nasce in forma di dialogo tra A. (un antico discepolo di Francesco De Sanctis) e D. (l’autore stesso) e propone un raffronto tra i due pensatori, dei quali il critico dice: Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l’uno creava la metafisica e l’altro la poesia del dolore. I termini del raffronto sono stati approfonditi successivamente da critici e filosofi nel tentativo di superare anche i criteri dell’impostazione desanctisiana. 2. “Wille”: significa “volontà”, che nel pensiero schopenhaueriano rappresenta il principio infinito di tutto il reale e si realizza come volontà cieca di vivere, irrazionale, che si dispiega senza finalità e causa il dolore perché il volere implica un bisogno; l’uomo può liberarsi dal dolore e sottrarsi al dominio tirannico della volontà attraverso la soppressione della volontà di vivere. 3. la ferocia domenicana… gesuitica: l’accenno polemico è rivolto all’ordine religioso dei Domenicani, frati predicatori, che soprattutto nel Medioevo, secondo De Sanctis, si sarebbero macchiati di crudeltà e ferocia nel difendere l’ortodossia e nel combattere gli eretici, come nella crociata contro gli Albigesi; quanto alla congregazione dei Gesuiti, l’accusa di “scaltrezza” richiama l’atteggiamento piuttosto diplomatico e ipocrita che polemicamente è spesso stato riconosciuto a questi religiosi nello svolgimento della loro opera dottrinale ed educativa.

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Scala della casa natale di Giacomo Leopardi a Recanati.

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T1 Ultimo canto di Saffo da Canti, IX Scritta a Recanati fra il 13 e il 19 maggio 1822, Ultimo canto di Saffo è una delle canzoni filosofiche in cui dall’idea di positività della Natura, formulata negli anni del pessimismo storico (fino al 1819-1820), Leopardi sta passando all’idea di Natura matrigna che prepara il terreno al pessimismo cosmico. La canzone è importante anche dal punto di vista formale, in quanto è un traguardo di tutta la precedente produzione leopardiana di impianto classico, ma introduce aspetti che saranno propri dei grandi idilli, sia a livello metrico sia a livello strutturale, per l’alternanza di momenti descrittivi e lirici con momenti meditativi. Schema metrico: quattro strofe di 18 versi, di cui i primi 16 sono endecasillabi liberi e i due finali sono un settenario e un endecasillabo a rima baciata. PISTE DI LETTURA • Il suicidio come forma di protesta contro natura e destino • La perdita di sintonia fra uomo e natura • Tono epico-drammatico

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Placida notte, e verecondo1 raggio della cadente luna; e tu che spunti fra la tacita selva in su la rupe2, nunzio del giorno3; oh dilettose e care4 mentre ignote mi fûr l’erinni5 e il fato, sembianze6 agli occhi miei; già non arride spettacol molle7 ai disperati affetti. Noi8 l’insueto allor gaudio ravviva quando per l’etra9 liquido si volve e per li campi trepidanti il flutto polveroso10 de’ Noti11, e quando il carro, grave carro di Giove12 a noi sul capo, tonando, il tenebroso aere divide.

1. verecondo: pudico, timido, rispettoso (dal verbo latino vereri, “aver rispetto”). 2. su la rupe: sullo scoglio, la rupe di Leucade, da dove Leopardi immagina che il suo personaggio si getterà in mare per suicidarsi. Saffo infatti è rappresentata nei momenti precedenti il balzo dalla rupe: l’accenno al gesto è, però, solo sottinteso ed espresso principalmente dal titolo del componimento. Protagonista della canzone è la grande poetessa greca Saffo, vissuta nell’isola di Lesbo (secoli VII-VI a.C.). Secondo una leggenda che qui l’autore riprende, ella, innamorata non corrisposta – per la propria bruttezza – del barcaiolo Faone, si sarebbe uccisa gettandosi dalla rupe. 3. nunzio del giorno: la prima stella del mattino, Venere (detta anche Lucifero, ossia “portatrice di luce”), che fra gli alberi del bosco silenzioso sorge ad annunciare il giorno. Il momento del passaggio di Saffo dalla vita alla morte avviene in sintonia con il passaggio dalla notte al giorno. 4. dilettose e care: figura retorica detta endiadi, che sottolinea come le immagini siano care in quanto fonte di desiderio e piacere.

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vv. 1-18 Notte serena e pudico raggio della luna calante, e tu, stella [Venere] che annunci l’alba, che spunti fra gli alberi silenziosi sopra lo scoglio, oh [quanto foste] amate e care immagini per i miei occhi, finché non conobbi le furie della passione [amorosa] e il destino avverso; [ma] ormai non si addice uno spettacolo dolce a sentimenti disperati. Un’inconsueta gioia rianima noi [disperati] quando l’onda polverosa dei venti del sud turbina attraverso l’atmosfera tempestosa e i campi sconvolti, e quando il tuono – il pesante carro di Giove – rimbombandoci sul capo, squarcia il cielo buio.

5. l’erinni: le furie (della passione d’amore). Le Erinni rappresentavano, nella mitologia classica, le passioni umane. 6. sembianze: fattezze, lineamenti. Qui il termine personifica poeticamente gli elementi naturali. 7. spettacol molle: è una sinestesia, come si evince da un acuto appunto manoscritto di Leopardi, il quale nota che l’espressione rivela una trasposizione dalla sfera del gusto a quella della vista. 8. Noi: il Noi in principio di verso interrompe il ritmo dei versi precedenti. Questo Noi rappresenta il passaggio dalla condizione individuale alla condizione di tutti coloro che si trovano nella stessa disperata situazione di Saffo. 9. l’etra: aria, dal latino aethra, da cui l’attuale “etere”; il termine è petrarchesco. 10. flutto polveroso: il flutto è l’onda marina ma, come turbine di vento, solleva la polvere, che è terra. La figura è un ossimoro. 11. Noti: venti del sud. 12. carro di Giove: nel mito classico, il tuono era prodotto dal fragore del carro di Giove.

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Noi per le balze e le profonde valli natar giova13 tra’ nembi, e noi la vasta fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto fiume alla dubbia sponda il suono e la vittrice ira dell’onda14.

A noi piace immergerci tra le nuvole gonfie di pioggia tra le cime e le profonde gole, e nella grande fuga dei greggi terrorizzati, o nel rumore e nella furia vincitrice dell’acqua sulla fragile sponda di un fiume in piena.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella sei tu, rorida15 terra. Ahi di cotesta infinita beltà parte nessuna alla misera Saffo, i numi e l’empia sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni vile, o natura, e grave ospite addetta16, e dispregiata amante, alle vezzose tue forme il core e le pupille invano supplichevole intendo. A me non ride l’aprico margo17, e dall’eterea porta il mattutino albor; me non il canto de’ colorati augelli, e non de’ faggi il murmure18 saluta: e dove all’ombra degl’inchinati salici dispiega candido rivo il puro seno, al mio lubrico19 piè le flessuose linfe disdegnando sottragge, e preme in fuga l’odorate spiagge.

vv. 19-36 Bello è il tuo manto, o cielo divino, e bella sei tu, terra rugiadosa. Ahi, gli dèi e il destino malvagio non concessero neanche la più piccola parte della vostra infinita bellezza alla misera Saffo. Invano, o Natura, io, giunta ai tuoi magnifici regni come un’ospite obbligata, vile, sgradita, amante disprezzata, rivolgo il cuore e gli occhi, pregando, ai tuoi bei paesaggi. A me non sorride la campagna soleggiata e il chiarore mattutino sulla porta del cielo né mi saluta il canto degli uccelli multicolori e il sussurro dei faggi: e dove il limpido ruscello, all’ombra dei salici che s’inchinano, fa avanzare l’acqua chiara, esso sottrae in segno di disprezzo le sue onde al mio piede che scivola, e sembra fuggire dalle rive profumate.

Qual fallo mai, qual sì nefando20 eccesso macchiommi21 anzi il natale, onde22 sì torvo il ciel mi fosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara di misfatto è la vita, onde poi scemo di giovinezza, e disfiorato, al fuso dell’indomita Parca si volvesse il ferrigno mio stame?23 Incaute voci spande il tuo labbro: i destinati eventi move arcano24 consiglio. Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor. Negletta prole25

vv. 37-54 Quale errore, quale indicibile colpa della mia anima mi macchiò prima della nascita, per cui il Cielo fu così crudele con me e così spietato il disegno del destino? Quale fu la colpa dell’infanzia (quando viviamo innocenti), per cui a me sconsolata i giorni aspri come ferro e senza mai conoscere la gioventù si dipanarono dal fuso dell’inesorabile Parca? La tua bocca, Saffo, pronuncia parole avventate: un disegno misterioso muove gli eventi predestinati. Tutto ci è ignoto, tranne il nostro dolore. Noi, figli trascurati,

13. Noi… giova: è una costruzione latina (me iuvat, con esempi in Petrarca e Tasso). Natar significa letteralmente “nuotare” (dal verbo latino natare). 14. e noi… onda: e a noi piace (sottinteso “giova”); l’ellissi del verbo, presente anche altrove, drammatizza ulteriormente la scena del movimento delle greggi che fuggono per la vastità dei campi, terrorizzate, e il suono dell’onda del fiume in piena che percuote violentemente le sponde che rischiano di non impedire lo straripamento. 15. rorida: rugiadosa (dal latino ros, “rugiada”). 16. addetta: obbligata, in quanto Saffo non ha scelto di nascere (dal latino addictus). Il tema sarà centrale nell’operetta morale Dialogo della Natura e di un Islandese e in altri testi leopardiani. 17. aprico margo: soleggiata campagna; aprico deriva dal latino e significa “aperto al sole”; anche margo è un latinismo. 18. murmure: sussurro, parola onomatopeica che imita il rumore del vento tra gli alberi. 19. lubrico: sdrucciolevole, dal latino lubricus. In questo caso, indica il piede malfermo. Le acque stesse, qui personificate, si ritirano di fronte a Saffo, a causa del suo sgradevole aspetto fisico.

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20. nefando: latinismo da non fandum, cioè “non pronunciabile” (fari significa “dire”). 21. macchiommi: mi segnò; tipico arcaismo, non più usato nell’italiano attuale, per cui il pronome personale mi viene posposto al verbo e aggiunto con raddoppiamento della consonante iniziale. 22. onde: per cui; dal latino unde (“da dove”). 23. In che... stame?: quale errore commisi da bambina per cui (sottinteso onde) la Parca filò così tristemente il filo della vita. Lachesi era una delle tre Parche che dalla matassa filava e avvolgeva intorno al fuso il filo della vita, che poi veniva reciso al momento della morte. Tale filo (dunque, la vita stessa) è definito ferrigno (“simile al ferro”) per evidenziarne, metaforicamente, durezza, freddezza e mancanza di colore. 24. arcano: misterioso, nascosto, sconosciuto. Proviene dal latino arcanus (“ciò che sta in un’arca che non si può aprire”). Da qui anche gli arcani dei tarocchi, le antiche carte della divinazione del futuro. Una volontà imperscrutabile, per Saffo e per il poeta, determina e gestisce il corso fatale degli eventi. 25. Negletta prole: figliolanza trascurata. Dal latino negligere (“trascurare”) e pro-alere (“allevare prima”).

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nascemmo al pianto, e la ragione in grembo de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme de’ più verd’anni26! Alle sembianze il Padre, alle amene sembianze27 eterno regno die’ nelle genti28; e per virili imprese, per dotta lira o canto, virtù non luce in disadorno ammanto29.

siamo nati per piangere e la ragione di ciò è nella mente degli dèi. Oh pensieri, oh speranze della giovinezza! Il padre Giove ha dato potere eterno sui mortali all’aspetto [corporeo] – al bell’aspetto – e il valore per le imprese coraggiose, per la cetra sapiente o per il canto, non risplende sotto il manto disadorno [del corpo che copre l’animo].

Morremo30. Il velo indegno a terra sparto31, rifuggirà l’ignudo animo a Dite32, e il crudo fallo emenderà del cieco dispensator de’ casi33. E tu34 cui lungo amore indarno, e lunga fede, e vano d’implacato desio furor mi strinse, vivi felice, se felice in terra visse nato mortal35. Me non asperse del soave licor del doglio avaro Giove36, poi che perîr gl’inganni e il sogno della mia fanciullezza. Ogni più lieto giorno di nostra età primo s’invola37. Sottentra il morbo38, e la vecchiezza, e l’ombra della gelida morte. Ecco di tante sperate palme39 e dilettosi errori, il Tartaro40 m’avanza; e il prode ingegno han la tenaria Diva41, e l’atra42 notte, e la silente riva.

vv. 55-72 Moriremo. Scagliato sul suolo l’indegno mantello [del corpo], l’anima nuda ritornerà in fretta nell’aldilà e rimedierà al malvagio errore del destino, cieco distributore dei casi. E tu, Faone, a cui mi legò invano un lungo amore e una lunga fedeltà e una furia vana di desiderio che non sono riuscita a placare, tu continua a vivere felice, se mai un mortale visse felice al mondo. Dalla sua avara ampolla Giove non mi cosparse di dolce ambrosia dopo che finirono il sogno e i lieti inganni della fanciullezza. Tutti i giorni più cari della nostra vita passano rapidamente. Giunge ora la malattia e la vecchiaia, e l’ombra della fredda morte. Di tante sperate vittorie e piacevoli illusioni, mi resta solo la morte; e la dea degli Inferi, Proserpina, la buia notte eterna e la riva silenziosa dei morti s’impadroniscono del prode e alto ingegno.

da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

26. cure... anni: esclamazione di disperazione: a nulla valgono gli affanni e le speranze dei verd’anni (metafora della gioventù, identificata con il rigoglio della primavera). 27. amene sembianze: affascinanti lineamenti del corpo. Secondo Saffo (e il poeta), la bellezza corporea è di importanza determinante fra gli uomini. Sembianze deriva dal provenzale semblar (“assomigliare”). 28. genti: gli uomini mortali. 29. disadorno ammanto: metafora, in seguito più volte ripresa, per orribile corpo (il corpo è ritenuto “veste dello spirito” in molti autori classici e in Dante). 30. Morremo: in una sola, aspra parola è qui espressa la decisione del suicidio. 31. Il velo… sparto: l’espressione si collega alla metafora precedente del corpo come mantello o vestito; il corpo (indegno, nella doppia accezione di “brutto” e di “non degno delle qualità interiori”) di Saffo sarà sparto (scagliato a terra e disperso, in quanto sfracellato dalla caduta dallo scoglio). 32. Dite: Plutone (Dite, cioè l’aldilà, l’Averno). 33. dispensator de’ casi: l’ingiustizia del Destino cieco (la Fortuna veniva raffigurata anche dai Romani come una dea bendata). 34. E tu: Saffo si rivolge con il “tu” all’uomo di cui è inna-

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morata, Faone. Leopardi evita di indicarne il nome per rendere più indefinito il destinatario delle parole. 35. vivi felice... mortal: vivi felice se può accadere che l’uomo abbia mai provato la felicità sulla terra. Prima enunciazione nei Canti, seppure forse espressa in forma dubitativa, del “pessimismo cosmico” di Leopardi, riferito all’intero genere umano. La figura retorica del chiasmo (vivi felice / felice... visse) rappresenta l’apparente antitesi fra i personaggi di Faone e Saffo, che sono, invece, infine considerati immagine speculare dello stesso destino di infelicità. 36. Me… Giove: metafora per esprimere l’assenza della felicità nella propria vita (Giove non mi cosparse del dolce liquore del suo vaso, avaro di felicità per gli uomini). Secondo Omero, Giove custodiva il vaso della felicità destinata, in misura diversa, agli uomini. 37. età... invola: età è metonimia per “vita”; s’invola significa “se ne va veloce”. 38. il morbo: la malattia. 39. sperate palme: speranze di gloria. Il termine palme è metonimia: con fronde di palma si accoglievano i vincitori. 40. il Tartaro: l’Ade, Dite, la morte. 41. tenaria Diva: Proserpina; uno degli ingressi degli Inferi era presso il capo Tenaro (perciò ella è detta “tenaria dea”). 42. atra: nera.

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inee di analisi testuale Saffo e Leopardi La bipolarità del sistema spaziale e temporale del suicidio (il giorno che subentra alla notte e la luna che cede al sole) è in parallelismo con la duplice identificazione di Saffo con il paesaggio naturale: nei momenti felici della giovinezza e dell’illusione, la poetessa è in sintonia con la natura serena, mentre, dopo la caduta delle illusioni, cerca soltanto, secondo il gusto romantico, scenari sconvolti e tempestosi. Il pronome di prima persona plurale Noi rappresenta il passaggio dall’intimismo individuale (qui Leopardi parla attraverso Saffo) alla condizione di tutti coloro che si trovano nella stessa situazione di disperazione. Verso il pessimismo cosmico In questo quadro, Faone è un personaggio secondario, senza colpe, neppure citato per nome: diventa importante solo quando è indicato, al pari di tutti gli esseri umani, come vittima dell’inesorabile tragicità della vita (vivi felice, se felice in terra visse nato mortal). L’accenno – benché espresso in forma dubitativa – è il primo passo del poeta verso il pessimismo cosmico: non solo gli sventurati, ma tutti gli uomini sono condannati dalla Natura all’infelicità. Saffo rappresenta il disagio di vivere: lo attestano, sul piano formale, i due aggettivi disperato e disadorno, caratterizzati dal prefisso dis che indica mancanza e antiteticità; non a caso, l’uso di questo prefisso è frequente in tutta la canzone, come attestano anche dispregiata, disdegnoso, disfiorato. Il tema della morte L’ultima stanza è all’insegna della morte: si apre con il verbo Morremo e si chiude con l’immagine degli Inferi, espressa con drammatica iterazione (tenaria Diva, atra notte, silente riva). Nella mitologia classica, Proserpina (la tenaria Diva), oltre a essere la regina degli Inferi, è anche la Luna: il canto, con andamento ciclico, ritorna dal silenzio del paesaggio lunare a quello della morte, che alcuni intendono anche come morte della voce poetica, poiché gli Inferi rapiscono e imprigionano la facoltà poetica di Saffo (il prode ingegno).

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avoro sul testo

Comprensione 1. Quali sono le cause del dramma della poetessa? 2. Quale passo esprime la condizione secondo cui nessun uomo è felice e quale concezione esso sottintende? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 7 righe per ogni risposta). a. Qual è il metro della composizione e in che cosa si differenzia da quello dei piccoli idilli? b. Quali sono i principali passaggi tematici nel componimento e, in particolare, con che cosa viene identificato il corpo privo di bellezza di Saffo? c. Quali sono le figure retoriche che rivestono maggiore importanza espressiva? d. Di chi è la voce della lirica e perché, in più occasioni, è espressa dal pronome plurale? e. In quali passi riconosci elementi romantici e quale rapporto esiste fra io lirico e paesaggio? Approfondimenti 4. Leggi i frammenti di Saffo tradotti da Salvatore Quasimodo e riportati di seguito; facendo riferimento alla figura della poetessa come emerge da tali liriche, opera un confronto tra questa e la protagonista dell’Ultimo canto di Saffo di Leopardi; rileva inoltre le somiglianze e le differenze di temi fra i testi della poetessa greca e la canzone di Leopardi. Su tali argomenti, elabora (in circa tre colonne di metà foglio protocollo) un saggio breve, opportunamente intitolato. Gli astri d’intorno alla leggiadra luna / nascondono l’immagine lucente, / quando piena più risplende, bianca / sopra la terra. Tramontata è la luna / e le Pleiadi a mezzo della notte; / anche giovinezza già dilegua, / e ora nel mio letto resto sola. / Scuote l’anima mia Eros, / come vento sul monte / che irrompe entro le querce; / e scioglie le membra e le agita, / dolce amara indomabile belva. / Ma a me non ape, non miele; / e soffro e desidero. A me pare uguale agli dèi / chi a te vicino così dolce / suono ascolta mentre tu parli / e ridi amorosamente. Subito a me / il cuore si agita nel petto / solo che appena ti veda, e la voce / si perde sulla lingua inerte. / Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, / e ho buio negli occhi e il rombo / del sangue alle orecchie. / E tutta in sudore e tremante / come erba patita scoloro: / e morte non pare lontana / a me rapita di mente. da S. Quasimodo, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1995

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Focus

SAFFO

Vissuta nell’isola di Lesbo a cavallo fra il VII e il VI secolo a.C., Saffo è una delle più importanti autrici della lirica monodica, genere di poesia della Grecia antica che prevedeva l’esibizione di un solo esecutore con l’accompagnamento della cetra. Appartenente a una famiglia aristocratica, fu legata al culto della dea Afrodite e maestra di un tiaso, comunità a sfondo religioso e culturale dedita alla venerazione di una divinità, formata esclusivamente da giovani donne che lì venivano preparate al matrimonio. Tema centrale della sua poesia è l’amore, cantato come esperienza totalizzante di cui si sottolineano gli sconvolgimenti che causa nell’animo e nel corpo: uno dei testi più noti della poetessa descrive infatti i turbamenti provocati nell’uomo dalla vista della donna amata. Questo celeberrimo componimento, ripreso anche dal poeta latino Catullo, fu molto amato da Foscolo, che ne fece due diverse traduzioni. L’ammirazione di Foscolo per la poetessa è del resto testimoniato anche da un componimento giovanile, intitolato A Saffo. Della sua opera ci restano solo frammenti, se si eccettua un’ode ad Afrodite, pervenutaci integra, e quattro strofe della lirica sopra citata sui turbamenti d’amore. La storia del suo infelice amore per il pescatore Faone, a seguito del quale si sarebbe suicidata, gettandosi dalla rupe di Leucade, è già in Menandro (Strabone, X, 452), ma diventa celebre grazie a una delle Heroides di Ovidio (la XV), in cui si dice anche che Saffo era piccola di statura, bruna e non bella. All’origine della leggenda sta probabilmente la deformazione da parte dei poeti comici greci di due dati tradizionali: Faone era una creatura mitologica della cerchia di Afrodite e il gettarsi dalla rupe di Leucade significava, metaforicamente, il voler dimenticare una pena d’amore. Leopold Burthe, Saffo suona la lira, 1848. Carcassonne, Musée des Beaux Arts.

T2 Il passero solitario da Canti, XI Il passero solitario è scritto probabilmente fra il 1832 e il 1835 (non compare nell’edizione del 1831 ed è presente invece in quella del 1835). Meno probabile pare l’ipotesi (avanzata da Maria Corti) di una prima stesura in prosa o in poesia negli anni 1819-1820. In ogni caso Leopardi lo colloca, nei Canti, in testa agli idilli del 1819-1821, assegnandogli una funzione introduttiva in quanto simbolo del poeta stesso. Il passero solitario non è un passero che, a differenza degli altri membri della propria specie, tipicamente gregari, è incline alla solitudine; ma un uccello della famiglia dei turdidi, il cui nome scientifico è Monticola solitarius, spinto dalla propria natura alla vita solitaria. Schema metrico: tre strofe libere di endecasillabi e settenari (sciolti o con rime occasionali o con rime al mezzo). Si tratta, in sostanza, di un esempio di canzone libera leopardiana. PISTE DI LETTURA • Il confronto fra il costume di vita del passero e quello del poeta • Il tema della poesia • Un monologo di tono patetico

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D’in su la vetta1 della torre antica2, passero solitario, alla campagna cantando vai3 finché non more il giorno4; ed erra l’armonia per questa valle. Primavera dintorno brilla nell’aria, e per li campi esulta5, sì ch’a mirarla intenerisce il core6. Odi greggi belar, muggire armenti7; gli altri augelli contenti, a gara insieme per lo libero ciel fan mille giri, pur festeggiando il lor tempo migliore8: tu pensoso in disparte il tutto miri9; non compagni, non voli, non ti cal d’allegria, schivi gli spassi10; canti, e così trapassi di tua vita e dell’anno il più bel fiore.11 Oimè, quanto somiglia al tuo costume il mio!12 Sollazzo e riso, della novella età dolce famiglia, e te, german di giovinezza, amore, sospiro acerbo de’ provetti giorni, non curo, io non so come13; anzi da loro quasi fuggo lontano; quasi romito, e strano al mio loco natio, passo del viver mio la primavera14. Questo giorno ch’omai cede alla sera, festeggiar si costuma al nostro borgo15.

1. D’in su la vetta: dalla sommità. 2. torre antica: è il campanile della chiesa di S. Agostino a Recanati. L’aggettivo antica dà il senso della lontananza e dell’infinito, che vengono dal passato. 3. alla… vai: è evidente che il movimento, l’erranza è quella del canto; infatti cantando è riferito alla campagna ed è l’immagine del canto che si diffonde nell’infinito e nello spazio. 4. finché… giorno: fino al tramonto. 5. Primavera… esulta: tutt’intorno (dintorno) la primavera illumina (brilla) l’aria e questa luminosità fa esplodere i colori della campagna. 6. sì… core: così che nel guardare questo spettacolo il cuore si intenerisce e si commuove; è una citazione dantesca (Purgatorio, VIII, 2). 7. Odi… armenti: si ode (odi) il belato (belar) delle greggi, il muggito (muggire) dei buoi (armenti). La seconda persona singolare (odi), con valore impersonale a significare “si ode”, chiama in causa il lettore immergendolo prepotentemente nella scena: l’ascolto della primavera è l’ascolto della gioventù; il verbo “udire” (odi) comporta un’ulteriore allusione al canto VIII del Purgatorio (se ode squilla di lontano). 8. gli altri… migliore: gli altri uccelli (augelli) felici (contenti) gareggiando fra loro (a gara insieme) volteggiano senza sosta (fan mille giri) liberi nel cielo (per lo libero ciel) anch’essi (pur: può essere inteso anche come continuamente) festeggiando la gioventù (il lor tempo migliore). 9. tu… miri: il passero, al contrario, se ne sta pensoso e separato (in disparte) e guarda (miri) tutto questo (il tutto). 10. non… spassi: la staticità del passero (non voli) contrasta con la mobilità degli altri uccelli: il suo stare fermo e guardare richiama l’atteggiamento del poeta che, ne L’infinito, siede e osserva (sedendo e mirando). Egli non si cura né dei compagni, né di volare e non gli importa (non ti cal) dell’allegria ed evita (schivi) i divertimenti (spassi).

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11. e così… fiore: in questo modo (così) trascorri (trapassi) la più bella stagione (il più bel fiore) dell’anno, la primavera della vita, la giovinezza. Solitudine e infinito sono le chiavi di questa strofa, espresse dalle metafore della primavera come giovinezza e del canto del passero come canto poetico. La trama fonica din-din-dis mette in relazione il punto di vista dall’alto (torre) e da lontano (antica) con la pensosità solitaria (tu pensoso in disparte), che è alla base della contemplazione, del mirare, verbo sottolineato dall’anafora: d’in su la vetta… primavera dintorno… mirarla tu… pensoso in disparte il tutto miri. Significativa anche l’anafora di non che sottolinea la differenza assoluta fra il passero e gli altri uccelli. 12. Oimè… mio!: interiezione di tristezza che introduce la similitudine-analogia del poeta con il passero. Quanto è simile (somiglia) al tuo modo di vivere (costume) il mio! Notare la costruzione del periodo esclamativo costituito da un settenario e dall’emistichio dell’endecasillabo successivo: Oimè e mio aprono e chiudono il periodo, mentre il primo emistichio del v. 18 è racchiuso fra i possessivi tuo e mio (al tuo costume il mio), a sottolineare l’analogia passero-poeta. 13. Sollazzo… come: non mi curo, non so perché (io non so come), del divertimento (Sollazzo) e dell’allegria (riso), dolce compagnia della gioventù (novella età) e nemmeno di te amore, fratello (germano) della gioventù e amara nostalgia (sospiro acerbo) dell’età matura (de’ provetti giorni). 14. da loro… primavera: quasi da loro (sollazzo, riso e amore) rifuggo (fuggo lontano); quasi solitario (romito) e straniero, estraneo (strano) al mio paese (mio loco natio) trascorro (passo) la mia giovinezza (del viver mio la primavera). 15. Questo… borgo: è usanza (si costuma) del nostro paese (al nostro borgo) festeggiare questo giorno che volge al tramonto (ch’omai cede alla sera); allude a un giorno di festività (forse quello di san Vito, il 15 giugno), che si celebra a Recanati.

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Odi16 per lo sereno17 un suon di squilla18, odi spesso un tonar di ferree canne19, che rimbomba lontan di villa in villa20. Tutta vestita a festa la gioventù del loco lascia le case, e per le vie si spande; e mira ed è mirata, e in cor s’allegra21. Io solitario in questa rimota parte alla campagna uscendo, ogni diletto e gioco indugio ad altro tempo22: e intanto il guardo steso nell’aria aprica mi fere il Sol che tra lontani monti, dopo il giorno sereno, cadendo si dilegua, e par che dica che la beata gioventù vien meno23. Tu, solingo augellin, venuto a sera del viver che daranno a te le stelle, certo del tuo costume non ti dorrai; che di natura è frutto ogni vostra vaghezza24. A me, se di vecchiezza la detestata soglia evitar non impetro, quando muti questi occhi all’altrui core, e lor fia vòto il mondo, e il dì futuro del dì presente più noioso e tetro, che parrà di tal voglia? che di quest’anni miei? che di me stesso? Ahi pentirommi, e spesso, ma sconsolato, volgerommi indietro25. da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

16. Odi: con valore impersonale, si sente. 17. sereno: cielo. 18. squilla: campana. 19. tonar… canne: spari dei fucili in segno di festa. 20. che… villa: che si propaga di paese in paese. 21. Tutta… s’allegra: tutti i giovani (gioventù) del paese (loco) escono dalle case e si riversano (spande) nelle strade e guardano e sono guardati (e mira ed è mirata) e sono felici (in cor s’allegra). 22. Io… tempo: io da solo (solitario, come il passero) in questa parte sperduta (rimota) uscendo verso la campagna (alla campagna) rimando, differisco (indugio ad altro tempo) ogni piacere (diletto) e divertimento (gioco). 23. e intanto… meno: nel frattempo (intanto) il sole, che tramontando sparisce (cadendo si dilegua) dopo una bella giornata (dopo il giorno sereno), colpisce il mio sguardo (il guardo mi fere il Sol) che si estende nell’aria tersa e luminosa (steso nell’aria aprica) e sembra (par) che dica che la felice (beata) giovinezza finisca (vien meno). 24. Tu… vaghezza: tu (in parallelismo con Io del verso 36)

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uccellino solitario (solingo augellin) una volta giunto alla fine della vita (sera del viver) che per te avrà stabilito il destino (che daranno a te le stelle) certamente (certo) non ti pentirai (non ti dorrai) del tuo modo di vivere (del tuo costume) dal momento che (che) ogni vostro (di voi uccelli) desiderio (vaghezza) è in sintonia con la natura (di natura è frutto). 25. A me… indietro: a me, invece, se non ottengo (impetro) di eludere (evitare) la odiata soglia (detestata soglia) della vecchiaia (cioè se diventerò vecchio: l’espressione richiama il limitar di gioventù di A Silvia), quando questi occhi non diranno più nulla, non susciteranno alcun sentimento negli altri (altrui core) e ai miei occhi (e lor) la vita (il mondo) sembrerà senza senso e priva di interesse (vòto) e il futuro più doloroso (noioso) e fosco (tetro) del presente, che mi sembrerà (parrà, da ricollegare ad A me del verso 50) di questo mio desiderio (voglia) di solitudine? che mi sembrerà (parrà) di questa mia giovinezza (anni miei)? che cosa mi sembrerà di me stesso? Mi pentirò e mi volterò indietro (volgerommi indietro) disperato (sconsolato).

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inee di analisi testuale Le fonti L’immagine del passero solitario richiama Petrarca (Passer mai solitario in alcun tetto: CCXXVI) e, per suo tramite, la Bibbia (passer solitarius in tecto: Salmi, CI), ma forse anche la tradizione popolare (probabilmente uno strambotto marchigiano che inizia con un passero solitario - uccello canoro simile al tordo - che canta in un luogo antico). L’idillio leopardiano, tuttavia, presenta sostanziali novità sia rispetto alla tradizione colta sia rispetto a quella popolare: in particolare, sostituisce la tematica d’amore con un discorso sul poeta e sulla poesia; inoltre trasforma il dialogo del sonetto petrarchesco in un monologo, per sottolineare meglio la drammatica discordanza fra le due condizioni. L’identificazione Il passero e il relativo contesto paesistico alludono a Leopardi e alla sua esistenza. La stagione dell’anno in cui il passero canta corrisponde alla giovinezza del poeta. Il canto del passero è l’armonia del canto poetico. Il chiasmo cantando vai […] erra l’armonia, sottolinea ulteriormente il parallelismo speculare fra il canto del passero e il canto poetico. Elemento comune al passero e al poeta è la solitudine: significativa la corrispondenza fra il sostantivo costume, con riferimento al poeta e al passero, (quanto somiglia / al tuo costume il mio) e il verbo si costuma, per indicare la festa del paese (festeggiar si costuma al nostro borgo); altrettanto significativa l’antitesi fra la gioventù che mira ed è mirata e il passero che mira pensoso e in disparte, che sottolinea quanto sono simili il poeta (Io solitario in questa / rimota parte alla campagna uscendo) e il passero solitario che canta alla campagna. Le differenze L’ultima stanza introduce la differenza fra il poeta e il passero solitario: questi, una volta giunto al termine della vita, non avrà rimpianti perché è vissuto nella certezza (certo del tuo costume), di contro alla dubbiosa problematicità del poeta, espressa nell’ossessiva iterazione degli interrogativi finali. Il voltarsi indietro simboleggia la sconsolata poesia della memoria: infatti, il canto del passero è tutto nel presente, quello del poeta è nel ricordo del passato, e ciò indica che la sintonia con la natura del passero è preclusa al poeta. La condizione di esilio e la contemplazione in solitudine sono una sola cosa nella mente e nell’esperienza del poeta (i termini rimoto e romito sono una forte consonanza, in quanto anagramma che indica la vicinanza tra solitudine e contemplazione dell’infinito).

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi Il passero solitario in non più di 15 righe. Analisi e interpretazione 2. Analizza il testo dal punto di vista lessicale-semantico, sottolineando i principali termini che fanno riferimento ai temi della giovinezza e della solitudine. 3. Rispondi alle seguenti domande (max 6 righe per ogni risposta). a. Quali elementi accomunano il poeta al passero? b. Quali, invece, lo distinguono? c. In che cosa si distingue il passero rispetto agli altri uccelli? d. In quale luogo è ambientato l’idillio? Approfondimenti 4. Il verso 3 inizia con una ripresa letteraria: in cantando vai, infatti, è presente il ricordo del sonetto 353 del Canzoniere di Petrarca, Vago augelletto che cantando vai. Nell’ambito di una relazione che esporrai oralmente in classe, confronta Il passero solitario con il testo di Petrarca.

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T3 L’infinito da Canti, XII L’infinito, composto nel 1819, è il primo e il più celebre dei componimenti pubblicati da Leopardi nel 1825 col nome di idilli. La trama degli idilli leopardiani è costruita sullo schema di un percorso dall’esterno verso l’interno: il poeta prende spunto da elementi visivi naturali, scorci, dettagli esterni (da cui il nome stesso di “idillio” e il richiamo al modello dell’idillio antico o “piccola veduta”), per passare a momenti di introspezione lirica e di riflessione autobiografica e filosofica. L’infinito ne è un modello esemplare. In esso, infatti, i fattori esterni della siepe e dello stormire del vento innescano la meditazione sull’infinito spaziale e sull’infinito temporale, da cui scaturisce infine il “dolce naufragio” del pensiero nel mare dell’immensità. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • Il paesaggio come simbolo metafisico • L’infinito e il nulla nella mente umana • Tono principalmente elegiaco

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Sempre caro mi fu quest’ermo1 colle, e questa siepe, che da tanta parte2 dell’ultimo orizzonte il guardo esclude3. Ma sedendo e mirando, interminati spazi4 di là da quella5, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete6 io nel pensier mi fingo7; ove per poco il cor non si spaura8. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente

1. ermo: solitario, deserto. Dal latino eremus, da cui anche il nostro moderno eremo. Dell’aggettivo ermo, Leopardi nello Zibaldone (1789) scrive che è parola sommamente poetica per l’infinità e vastità dell’idea. Ermo qualifica il punto di osservazione (il colle) e sottolinea il fatto che essa si compie nella solitudine. L’attributo richiama, per allitterazione, il successivo aggettivo interminati, collegando la contemplazione solitaria e la percezione dell’infinito. 2. da tanta parte: per un vasto tratto; l’espressione indica in modo indeterminato l’estensione della siepe che impedisce di vedere l’orizzonte del paesaggio. 3. dell’ultimo... esclude: impedisce la vista dell’estremo orizzonte. 4. interminati spazi: spazi che non hanno un termine, dunque infiniti.

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5. da quella: il deittico si riferisce alla siepe. 6. sovrumani... profondissima quiete: i due aggettivi sono riferiti a una condizione reale (il silenzio e la quiete qui da intendersi come assoluta immobilità), creando quindi un intenso effetto emotivo. 7. io… fingo: io mi immagino nel pensiero; spesso Leopardi mette in evidenza negli idilli la propria presenza poetica con io all’inizio verso e il mi a rafforzarlo. Il verbo fingere allude alla immaginaria creazione poetica (in latino, fingere significa “modellare”); analogo senso ha il termine inglese moderno fiction. 8. si spaura: s’impaurisce senza un motivo reale. La paura può qui richiamare Dante all’inizio della Commedia, quando, di fronte allo smarrimento nella selva e all’impresa poetica che si accinge a compiere, prova paura nel lago del cor (Inferno I, 19-20).

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e viva, e il suon di lei.9 Così tra questa immensità10 s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce11 in questo mare. da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

9. E come… lei: qui, e come significa “e quando” e introduce a una nuova parte della lirica. Il rumore del passaggio del vento fra le piante (che stormisce per un attimo e subito tace) sollecita nel poeta la comparazione del silenzio che viene dalla sua immaginazione di infinito (il termine quello, riferito a infinito silenzio, allude alla lontananza) con la voce del vento che subito tace (questa sottolinea la vicinanza della voce). E gli viene in mente (mi sovvien) l’eternità, le età che sono passate (morte stagioni) e l’epoca presente (viva, sottinteso “stagione”) e il suono della sua voce (di lei), destinato, come la breve vita di ogni uomo, a spegnersi nel silenzio del nulla eterno come lo stormire del vento. La meditazione di Leopardi si ricollega, per molti aspetti, al contenuto del sonetto Alla sera di Ugo Foscolo. 10. immensità: nella prima stesura Leopardi aveva scritto infinità, corretto in immensità per coerenza con la me-

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tafora marina conclusiva. Infine, il poeta torna nella sua immaginazione. Tra sta per “in mezzo a”; in mezzo alle infinità dello spazio e del tempo, di fronte a cui i pochi decenni della vita appaiono insignificanti, il pensiero viene personificato come un uomo solo su un’imbarcazione nell’oceano dell’infinito. 11. il naufragar m’è dolce: nell’immagine finale del naufragio appaiono figure retoriche a grappolo, tra cui le più forti sono la metafora (l’io si perde nel pensiero dell’infinito come colui che naufraga in mare) e l’ossimoro (naufragio-dolce), che sarà ripreso, nel Novecento, dal titolo Allegria di naufragi della raccolta di liriche di Giuseppe Ungaretti. Naufragare significa letteralmente “essere vittima dello schianto” (dal latino frangere) della nave; nella metafora, l’imbarcazione è il pensiero. Il chiasmo immensità... s’annega / naufragar... mare sottolinea i parallelismi antitetici tra realtà e visione, finito e infinito.

inee di analisi testuale L’infinito materiale e l’infinito interiore L’infinito, il più famoso dei piccoli idilli, analizza con grande finezza e con sensibilità romantica, iintrecciata a sottintesi materialistici, le emozioni e i pensieri dell’uomo posto di fronte all’immensità e all’eternità e, per opposizione, alla pochezza del tempo doloroso della vita. L’infinito di Leopardi è letteralmente il “mai finito”, cioè, secondo la concezione materialistica e illuministica, l’immensità fisica senza confini. Tale infinito è spaziale (interminati spazi... immensità) e temporale (l’eterno e le morte stagioni raffrontate con la presente e viva). Attraverso la sostituzione di un infinito materiale e percepibile dai sensi con un infinito immaginato, Leopardi fa intuire che la grandezza dell’infinito nel tempo e nello spazio e la sua silenziosa immobilità (quiete), creati dall’immaginazione, sovrastano la percezione sensibile dell’immensità materiale (l’estremo orizzonte), a tal punto che il cor [...] si spaura. In contrapposizione a questa immensità, c’è l’inconsistenza dell’uomo: il soffio del vento che fa stormire le fronde e subito tace la richiama alla mente. Naufragando nel mare di tale pensiero sconfinato, il poeta ne ricava un senso di dolcezza. La struttura formale La prima e la seconda parte dell’idillio sono simmetriche, separate da un punto fermo che divide la composizione in due parti. Tale bipartizione riflette il continuo rapido scambio fra le dimensioni della realtà e dell’immaginazione, fra pensiero e sensazioni (quello infinito silenzio... questa voce), fra sguardo esteriore e visione interiore (quest’ermo colle e questa siepe... interminati spazi... sovrumani silenzi, e profondissima quiete), che provoca una vertigine del pensiero. Attraverso la sapiente alternanza dei dimostrativi è anche costruito il continuo trapasso dalla percezione visiva a quella uditiva (l’opposizione questo ermo colle, e questa siepe... di là da quella opera a livello visivo, mentre l’espressione il vento odo stormir tra queste piante richiama il livello uditivo). Infine, il mare in cui il poeta naufraga dolcemente è l’infinito, ma anche l’emozione interiore suscitata dal confronto fra il concetto materialistico di infinito spazio-temporale e la constatazione della brevità della vita rispetto all’infinito e all’eterno dell’immaginazione. Tale emozione, come il pensare al nulla eterno del sonetto Alla sera di Ugo Foscolo, si scopre non disperata e dolorosa, ma dolce. La sensazione dell’infinito è riprodotta nella forma anche attraverso la scelta dei 15 endecasillabi sciolti (uno in più rispetto allo schema del sonetto), con il prolungamento dei versi per mezzo degli enjambements (presenti in tutto il componimento, tranne nel primo e nell’ultimo verso), e con l’uso per ben undici volte della congiunzione e, che crea la continua sospensione ritmica. Infine la frequenza del pronome personale e degli aggettivi possessivi di prima persona singolare fanno ruotare il testo attorno all’io del poeta.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Aiutandoti con le note, scrivi la parafrasi dell’idillio L’infinito. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Per quale ragione il poeta scrive di avvertire un senso di paura? b. Quale pensiero suscita nel poeta, per analogia, l’ascolto del fruscio del vento che, per un attimo, fa stormire le fronde e subito tace? c. Che cosa significano l’aggettivo ermo e il verbo naufragar? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. Qual è il metro della composizione e in che cosa si differenzia da quello del sonetto? b. Qual è la struttura formale dell’idillio L’infinito? c. Quali sono i principali temi del componimento? d. Quali sono le più importanti figure retoriche presenti nel testo? e. Quale parola ricorre per più di dieci volte nel componimento e quale effetto creano queste ricorrenze? f. In quali passi dell’idillio riconosci elementi romantici? g. In quali aspetti si manifesta la concezione materialista e illuminista? Approfondimenti 4. Leggi il seguente brano, tratto dallo Zibaldone di Leopardi; poi, in circa 20 righe, sintetizza le argomentazioni esposte nel passo e indica se e in che senso esse abbiano a che fare con la tematica dell’idillio L’infinito: Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’Infinito, e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, la cui fine si perda di vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito ec. ec. ec. (Zibaldone, 1 agosto 1821).

Focus

LA POETICA DELL’INDEFINITO E L’INFINITO

Sul tema dell’indefinito, Giacomo Leopardi si esprime chiaramente nello Zibaldone, in un appunto di pochi anni successivo alla data in cui scrive L’infinito. […] L’antico è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva, una veduta romantica ec. ec. o solamente spirituali ed interiori. Perché ciò? per la tendenza dell’uomo all’infinito. L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li discerne, e non sa quali sieno. Non così nelle cose moderne, perch’ella non vi si può perdere, e vede chiaramente tutta la stesa del tempo, e giunge subito all’epoca, al termine ec. Anzi è notabile che l’anima in una delle dette estasi, vedendo p.e. una torre moderna, ma che non sappia quando fabbricata, e un’altra antica della quale sappia l’epoca precisa, tuttavia è molto più commossa da questa che da quella. Perché l’indefinito di quella è troppo piccolo, e lo spazio, benché i confini non si discernano, è tanto angusto, che l’anima arriva a comprenderlo tutto. Ma nell’altro caso, sebbene i confini si vedano, e quanto ad essi non vi sia indefinito, v’è però in questo, che lo spazio è così ampio che l’anima non l’abbraccia, e vi si perde; e sebbene distingue gli estremi, non distingue però se non confusamente lo spazio che corre tra loro. Come allorché vediamo una vasta campagna, di cui pur da tutte le parti si scuopra l’orizzonte (1 agosto 1821).

L’appunto è un lucido commento alla poetica sottintesa a L’infinito e, più in generale, alla poetica leopardiana dell’indefinito. Sempre nello Zibaldone, Leopardi afferma inoltre che la differenza fra il linguaggio della scienza (basato su termini precisi) e quello polisemico della poesia (la cui parola è evocatrice) è la stessa che passa fra determinato e indefinito: di tale seconda modalità espressiva, L’infinito è esemplare modello.

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T4 Alla luna da Canti, XIV Scritto a Recanati nel 1819, l’idillio Alla luna è pubblicato nel “Nuovo Ricognitore” e inserito nell’edizione del 1826 dei Canti. Il titolo originario è La luna o la ricordanza o anche La ricordanza. Schema metrico: endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • Il tema del ricordo • Il rapporto personale con la luna • Tono prevalentemente patetico e elegiaco

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O graziosa1 luna, io mi rammento2 che, or volge l’anno3, sovra questo colle4 io venia pien d’angoscia a rimirarti5: e tu pendevi6 allor su quella selva7 siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso8 e tremulo9 dal pianto10 che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci11 il tuo volto apparia, che12 travagliosa13 era mia vita: ed è, né cangia stile14, o mia diletta luna. E pur mi giova la ricordanza, e il noverar l’etate del mio dolore15. Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso, il rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che l’affanno duri!16 da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

1. graziosa: piena di grazia; corrisponde, più avanti a diletta luna. 2. io… rammento: io mi ricordo. L’espressione focalizza l’attenzione sull’“io” del poeta, attraverso la vicinanza del soggetto e del pronome riflessivo (io-mi). 3. or… l’anno: ora si compie l’anno, dunque “un anno fa”. 4. questo colle: il Tabor, presso Recanati; lo stesso ermo colle de L’infinito. 5. a rimirarti: a contemplarti; il verbo rimanda a L’infinito (mirando) e il prefisso ri evidenzia il ripetersi dell’atto contemplativo. 6. pendevi: stavi sopra, dunque “sovrastavi”. 7. quella selva: Leopardi ripropone lo stesso sistema dei deittici (in questo caso aggettivi dimostrativi) di lontananza e di vicinanza de L’infinito; qui, con questo colle e quella selva. 8. nebuloso: velato, annebbiato; a causa del pianto, come l’autore scriverà più oltre. Il dolore del poeta espresso di notte, al chiarore della luna, è tema tipicamente romantico. 9. tremulo: tremolante. 10. pianto: metonimia per “lacrime”. 11. luci: occhi. L’espressione metaforica appartiene alla

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tradizione petrarchesca ed è usata anche, con l’espressione metaforica latina lumen (“luce”), da Virgilio e altri poeti classici. 12. che: perché. 13. travagliosa: travagliata, tormentata dal dolore. Si tratta di un francesismo. 14. né cangia stile: non cambia modo d’essere. L’espressione è di sapore petrarchesco. 15. mi giova… dolore: mi è gradito ricordare (ricordanza è l’azione del ricordare) e numerare (noverar, cioè “ricordare con precisione”) i singoli eventi legati al tempo (etate) del mio dolore; oppure, ricordare precisamente le date dei dolorosi eventi del passato. 16. come grato… duri!: come è (occorre) gradito (grato) il ricordo del passato (il rimembrar delle passate cose) nell’età giovanile, quando la speranza ha un lungo corso (cioè, può proiettarsi a lungo nel futuro) e la memoria del passato è corta (breve, in quanto pochi sono gli anni trascorsi), sebbene (ancor che) le cose che si ricordano siano tristi (triste, si riferisce a passate cose) e sebbene (che: è sottinteso ancor) il dolore (affanno) continui (duri) nel presente.

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inee di analisi testuale Il tema Il componimento è basato sul tema del ricordo (io mi rammento) e sul rapporto fra il poeta e la luna, in una sorta di monologo che afferma come lo stato di infelicità sia perenne e il tempo non lo possa mutare. In gioventù, tuttavia, ricordare è gradito, anche se si tratta del ricordo di un dolore che continua nel presente, perché il futuro e la speranza predominano sul passato e la memoria. Il componimento rientra nei numerosi Canti in cui Leopardi sembra ricercare le condizioni che attenuano la sofferenza. La struttura Il colloquio con la luna è strutturato in quattro periodi, che richiamano la struttura quadripartita (in due quartine e due terzine) del sonetto. Nel primo periodo il poeta costruisce una ricorrenza quasi rituale d’incontro con la luna, collegata alla rievocazione del passato. Vi prevale visivamente il dialogo con la luna, personificata sullo sfondo pittorico del paesaggio notturno. Nel secondo periodo, introdotto dall’avversativa Ma, il poeta mette in contrasto la serenità della luna, che rischiara la selva, e i propri occhi (anch’essi luci, ma annebbiate dal pianto). In questo passo prevale il sentimento, tipicamente romantico, della sofferenza, riflesso dal paesaggio notturno. Nel terzo periodo, introdotto ancora da un’avversativa (E pur), il poeta afferma la dolcezza del sentimento e del ricordo, distinguendo fra ricordo preciso e dettagliato (noverar, ossia “enumerare”, termine ripreso dal latino numerare) ed elaborazione del ricordo (la ricordanza è il “ricordare” collegato al tono sentimentale proprio dell’esperienza vissuta, neologismo di Leopardi). Il quarto periodo sfocia in una riflessione filosofica, introdotta da un’esclamazione (Oh), che la ribadisce, e consiste nel fatto che ricordare è gradito (grato), anche se il ricordo è triste, per merito del tempo giovanil. Ricordanza e indefinito La ricordanza (elaborazione nostalgica del ricordo) è positiva, indipendentemente dalla tristezza dei ricordi dolorosi, quando si verifica in gioventù, perché la giovinezza permette lungo... corso alla speranza. L’uso di parole tronche (pur, noverar, giovanil, ancor, rimembrar) contribuisce a creare una sensazione di non-finito, che Leopardi ritiene sommamente poetica, unitamente all’idea di ricordanza.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Aiutandoti con le note, svolgi la parafrasi dell’idillio Alla luna. 2. Riassumi in forma scritta il contenuto informativo di Alla luna. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il messaggio di fondo che il poeta propone con la sua lirica? b. Quali elementi del testo rinviano alla poetica leopardiana dell’indefinito? c. Qual è il metro della composizione? d. Con quali aggettivi il poeta si riferisce alla luna e perché? e. In quali passi dell’idillio riconosci elementi romantici? f. Quali sono le più rilevanti figure retoriche presenti nel testo e in che senso lo caratterizzano sul piano espressivo? g. In quante e quali parti si può dividere il componimento e quali sono il contenuto e i temi di ognuna di esse? Approfondimenti 4. Svolgi un’intervista immaginaria a Giacomo Leopardi sulla genesi, i contenuti e il messaggio dell’idillio Alla luna. Facendo riferimento al contenuto del paragrafo dedicato ai Canti, alla presentazione del brano, alle Linee di analisi testuale e soprattutto alla lirica stessa, costruisci adeguate domande e immagina risposte che contengano precisi riferimenti al componimento Alla luna, alla poetica e alla concezione dell’autore. Intitola opportunamente l’intervista immaginaria, destinandola al periodico culturale di una biblioteca.

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T5 A Silvia da Canti, XXI A Silvia è da molti critici considerato il secondo dei cosiddetti grandi idilli, composto a Pisa nell’aprile del 1828 (ed edito nel 1831 a Firenze) ed appartiene al gruppo dei canti detti pisano-recanatesi per il luogo di composizione. Il nome della protagonista, Silvia, è un omaggio alla poesia pastorale: è sostanzialmente certo che, nella realtà, la giovane si identifichi con Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi ancora adolescente. Il rapporto emotivo del poeta espresso nel testo non è però con la persona, ma con la vicenda che essa rappresenta. Schema metrico: canzone libera in periodi ritmici. PISTE DI LETTURA • Silvia come simbolo della speranza giovanile • Silvia e l’io del poeta • Tono drammatico

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Silvia1, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi?2 Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno, al tuo perpetuo canto, allor che all’opre femminili intenta sedevi, assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi3. Era il maggio odoroso: e tu solevi così menare il giorno4.

1. Silvia: il nome si riferisce (nella realtà biografica) a Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, segretamente amata dal poeta e morta di tisi in gioventù; ma è anche e soprattutto simbolo di ogni analoga condizione e, infine, della speranza del poeta. 2. rimembri… salivi?: ricordi (il petrarchesco rimembranza è però diverso da ricordanza, in quanto più definito) ancora quando eri viva (il tempo della tua vita mortale), quando la bellezza era come la luce dei tuoi occhi che sembravano ridere e sfuggivano timidamente lo sguardo degli altri, e tu, insieme così gaia e pensierosa, giungevi alla porta della giovinezza? Fuggitivi è un aggettivo polisemico, in quanto indica atteggiamento schivo e pudico e anche mobilità e vivacità dello sguardo. Lieta e pensosa è un ossimoro perché suggerisce qualità contrapposte in una persona: la gaiezza spensierata e la riflessione pensierosa. Inoltre, salivi forma con fuggitivi l’unica rima della strofa, mentre limitare crea assonanza con mortale; fra Silvia e salivi esiste una forte consonanza: un termine costituisce

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l’anagramma dell’altro. Di tali e altri strumenti fonici il poeta si serve per creare melodia e musicalità nel testo. 3. Sonavan... avevi: risuonavano del tuo continuo cantare le stanze tranquille e le strade intorno, quando sedevi assorta nei lavori femminili (come il poeta scriverà poi, egli si riferisce al telaio) ed eri molto felice del bello e indefinito futuro che avevi in mente. In vago avvenir, vago ha il duplice senso di bello e indefinito, elemento considerato più volte poeticissimo nello Zibaldone. L’espressione quiete/stanze fa risaltare, in virtù dell’enjambement, lo stato di serena emotività del poeta, sottolineato dal tono sussurrante delle allitterazioni di s, v, n in sonavan, stanze, vie, voce. 4. Era il maggio... giorno: era un profumato mese di maggio (la felicità di Silvia coincide con la primavera) e tu eri solita passare così la giornata. Il perpetuo canto di Silvia, ascoltato nel maggio odoroso (in primavera), si ricollega al perpetuum ver (“perenne primavera”) del poeta latino Ovidio.

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Io gli studi leggiadri talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, d’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce, ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela5. Mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti, e quinci il mar da lungi, e quindi il monte6. Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno7. Che pensieri soavi, che speranze, che cori8, o Silvia mia! Quale allor ci apparia la vita umana e il fato!9 Quando sovviemmi di cotanta speme, un affetto mi preme acerbo e sconsolato, e tornami a doler di mia sventura10. O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor?11 perché di tanto inganni i figli tuoi?12

5. Io gli studi... tela: talora, interrompendo gli studi e i faticosi scritti (sudate carte è metonimia), in cui consumavo il tempo della mia adolescenza e la parte migliore di me stesso, dai balconi della casa (ostello) di mio padre ascoltavo il suono della tua voce e il fruscio (il termine è sottinteso: si tratta di una ellissi) della tua mano veloce che tesseva la tela con fatica. La somma di più di una preposizione (d’in su) conferisce un tono di vaga indeterminatezza, a cui concorre il flusso ritmico dato dalla desinenza -ea (spendea: porgea: percorrea). 6. Mirava… monte: contemplavo (il suono che proviene dalla stanza di Silvia attiva la fantasia e l’immaginazione poetica) il cielo sereno, le vie illuminate dalla luce del sole (dorate è un richiamo alla primavera ma anche alla mitica età dell’oro) e i campi (orti) e, da una parte (quinci), il mare da lontano (da lungi), dall’altra parte (quindi) le montagne (il monte). 7. Lingua… seno: nessuna parola umana può dire quello che provavo dentro di me (nel mio cuore: in seno). Si ripete ancora l’iterazione di sibilante e nasale (s, n) nell’allitterazione sentiva in seno. Sentiva sta per “sentivo”: la forma della prima persona singolare del presente in -a è frequente nell’Ottocento, soprattutto nei testi il cui linguaggio è di ispirazione classica. 8. Che… cori: che dolci pensieri, che speranze, che sentimenti (cori). La triplice anafora seguita da punto esclamativo, come spesso accade nella lirica romantica, accentua il tono emotivo.

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Pagina autografa di A Silvia, 19-20 aprile 1828. Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III.

9. Quale… fato!: come (sottinteso: felice; si tratta di un’altra ellissi) in quel tempo (della giovinezza: ancora una ellissi) ci sembravano la vita umana e il destino (il fato è il destino che i Greci, già in Omero, ritenevano superiore agli stessi dèi). 10. Quando... sventura: quando mi ritorna in mente una così grande speranza (cotanta speme), mi assale un sentimento (affetto) acuto e disperato, e torno ad addolorarmi (tornami a doler) per la mia sventura. Sovviemmi è il verbo con la posposizione del personale mi (come in torna-mi) e la caduta della e finale con il raddoppiamento eufonico della m (sovviene-mi). Mi preme richiama la metafora bellica dell’assedio che è anche nell’espressione successiva chiuso morbo. In questo punto della canzone, si verifica un’improvvisa svolta tematica, sottolineata dalla successiva sarcastica interrogativa retorica rivolta alla natura. 11. O natura… allor?: o natura, perché poi non mantieni (rendi) quello che prima (allor) prometti? Fra il termine natura (ripetuto) e il termine sventura si crea una rima interna: i due vocaboli sono fra le parole chiave del canto. La Natura, che ormai è qui considerata matrigna e non più madre, è personificata (come nelle Operette morali). 12. perché... tuoi?: perché così totalmente inganni i tuoi figli? L’antitesi fra speranza (speme) dell’uomo e inganno della natura è sottolineata ulteriormente dalla ripetizione dissimulata dell’avverbio tanto: cotanta speme / di tanto inganni.

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Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella13. E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan d’amore14. Anche peria fra poco la speranza mia dolce: agli anni miei anche negaro i fati la giovanezza15. Ahi come, come passata sei, cara compagna dell’età mia nova, mia lacrimata speme!16 Questo è quel mondo?17 questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme?18 questa la sorte dell’umane genti?19 All’apparir del vero tu, misera, cadesti20: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano21. da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

13. Tu pria… tenerella: tu morivi, tenera giovane, prima che l’inverno facesse inaridire l’erba (dunque, in autunno), aggredita e vinta da una malattia nascosta (chiuso: sorta all’interno del corpo). In prima stesura si legge scolorisse, ma inaridisse rimanda molto meglio all’aridità dell’inverno, che simboleggia l’arido vero del finale. 14. E non vedevi... d’amore: non vedesti il fiore dei tuoi anni (metafora della piena gioventù), non ti lusingò il cuore la dolce lode (degli innamorati: è un’ellissi) ora per i tuoi capelli neri, ora per i tuoi occhi innamorati e riservati (schivi); né le amiche nei giorni di festa parlarono mai d’amore con te. L’uso dell’imperfetto in sostituzione del passato remoto attribuisce continuità all’azione ma, soprattutto, le attribuisce una nostalgica indeterminatezza. 15. Anche… giovanezza: anche per me morì poco dopo (tra poco) la mia dolce speranza (speme), anche alla mia vita il destino negò la giovinezza. La ripetizione dell’avverbio anche sottolinea il parallelismo tra i destini dei due giovani e prepara l’identificazione simbolica di Silvia con la speranza del poeta. 16. Ahi... speme!: come sei svanita, cara amica della mia infanzia, mia speranza tanto compianta. L’espressione cara compagna si riferisce sia a Silvia, sia alla speranza; anche nell’espressione mia lacrimata speme il poeta si riferisce insieme alla morte di Silvia e alla morte della propria speranza.

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17. Questo è quel mondo?: questa è la realtà (mondo), rispetto a quelle speranze giovanili? I deittici (pronomi dimostrativi) questo e quello segnalano la discordanza fra illusioni e realtà. 18. questi... insieme?: questi (sono: un’altra ellissi) i piaceri (diletti), l’amore, le opere e gli avvenimenti futuri di cui tanto parlammo l’uno con l’altra? Nell’interrogativa retorica, il poeta si rivolge principalmente alla propria speranza personificata; l’espressione, tuttavia, potrebbe riferirsi anche a Silvia. 19. questa la sorte... genti?: questo (è: ellissi) il destino degli esseri umani? La risposta all’interrogativa retorica è, per il poeta, tragicamente affermativa. 20. All’apparir... cadesti: all’apparire della verità (vero), tu, misera, sei venuta meno (cadesti). Ancora una volta, l’intera espressione e i termini usati (quale il verbo cadesti) si possono riferire sia a Silvia, sia alla speranza svanita del poeta. 21. con la mano... lontano: indicavi da lontano la fredda morte e una nuda tomba. Anche nella conclusione, la giovane morta e la speranza del poeta, caduta col venir meno della gioventù, si identificano e mostrano il cammino dell’uomo come un percorso di infelicità verso la morte. Nei versi conclusivi, Silvia e la speranza del poeta sono ancora identificabili l’una nell’altra, come in una figura allegorica dantesca.

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inee di analisi testuale La struttura e l’introduzione A Silvia è una canzone libera – costituita da sei strofe di varia misura, di endecasillabi e settenari liberamente alternati, con rime occasionali – che si può dividere in quattro momenti strutturali. La canzone inizia (versi 1-6) con una invocazione a Silvia, persona reale (a livello biografico: Teresa Fattorini) e insieme personificazione della giovinezza, della speranza, della primavera. Il nome è altamente allusivo: alla natura (silva in latino significa “selva”, “foresta”) ma anche alla tradizione letteraria (l’Aminta di Tasso, la Laura di Petrarca). Leopardi mescola il lessico della tradizione, petrarchesco in particolare (rimembri, ridenti, beltà, occhi) a espressioni originali e innovative (come l’aggettivo fuggitivi o l’ossimoro lieta e pensosa). Rilevante è il fatto che la prima e l’ultima parola della strofa, Silvia e salivi siano legate da forte consonanza, in quanto anagramma. Uno solo è l’accenno negativo: la sorte della giovane è adombrata nell’aggettivo mortale. Il tema delle illusioni Il tema delle illusioni giovanili occupa i versi 7-27, secondo momento della canzone. Esso inizia con un quadro da piccolo idillio (era il maggio odoroso...): la fanciulla che canta tessendo, il giovane che studia e la osserva (alle sudate carte corrisponde la faticosa tela; l’opera dello studente e quella di Silvia sono impegnative). Leopardi interviene poi in prima persona ad affermare che la Natura ha chiamato i giovani ad attendersi un futuro bellissimo ma indefinito (vago). Le esclamazioni successive (che speranze, che cori...) rappresentano espressioni sentimentali tipicamente romantiche. L’invettiva contro la natura Il terzo momento (quarta strofa) è la presa di coscienza dell’illusorietà delle speranze giovanili e dell’inganno della Natura. Di fronte alle speranze (cotanta speme) un tempo coltivate (allor) e ora deluse, il poeta è preso dalla disperazione, antitesi dei pensieri soavi della giovinezza. Il momento e la strofa si chiudono con un lamento e una protesta nei confronti della Natura: quel che appare in gioventù (allora) non corrisponde affatto al poi. La morale filosofica Il quarto momento (versi 40-63) è la conclusione filosofica, costruita sul parallelismo dei tragici destini dei due giovani. Il destino di Silvia indica al poeta e alle sue speranze la stessa sorte. La fine della gioventù coincide con la disillusione (determinata dalla ragione) e la scoperta della verità (l’apparir del vero) sul destino umano.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Aiutandoti con le note, scrivi la parafrasi di A Silvia. 2. Rispondi alle domande seguenti (max 5 righe per ogni risposta). a. A chi è dedicato nella realtà il canto e quale valore simbolico assume il personaggio della giovane Silvia? b. Quale rimprovero il poeta rivolge direttamente alla natura? c. Che cosa accade a Silvia e che cosa ella simboleggia nel testo poetico? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle domande seguenti (max 5 righe per ogni risposta). a. Quale tipo di strofa è utilizzato nel componimento e con quale schema di rime? b. Quali sono le parti del componimento? c. Da quali riferimenti (letterari e non) Leopardi trae il nome Silvia? d. Con quale realtà o dimensione esistenziale Silvia viene identificata negli ultimi versi e quali elementi testuali ne sono indizio? Approfondimenti 4. Sviluppa la seguente traccia: Che cosa rappresenta la gioventù per Leopardi? Dopo aver dato risposta a tale interrogativo, estendi lo svolgimento ad altre concezioni della gioventù espresse da scrittori del passato ed odierni; concludi, quindi, il tema esponendo la tua personale ed argomentata opinione su ciò che l’età della gioventù rappresenta nella vita umana.

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T6 Le ricordanze da Canti, XXII Le ricordanze è un testo poetico di particolare ampiezza ed intensità, composto a Recanati fra il 26 agosto e il 12 settembre 1829 (dopo il forzato ritorno del poeta, per motivi di salute, nel natio borgo selvaggio, al termine dei due anni trascorsi in Toscana) ed edito nel 1831. Leopardi racconta dettagli ed effetti salienti del ritorno a Recanati, alla luce delle acquisizioni filosofiche delle Operette morali. Non a caso è l’unico fra i canti pisano-recanatesi ad adottare l’endecasillabo sciolto, metro narrativo per eccellenza. Schema metrico: sette strofe libere di endecasillabi sciolti. PISTE DI LETTURA • Testo poetico e diario narrativo in versi • Una sintesi poetica di ampio respiro • Un registro lirico e narrativo a sfondo filosofico

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Vaghe1 stelle dell’Orsa2, io non credea tornare ancor per uso3 a contemplarvi sul paterno4 giardino scintillanti, e ragionar con voi dalle finestre di questo albergo ove abitai fanciullo, e delle gioie mie vidi la fine. Quante immagini un tempo, e quante fole creommi nel pensier l’aspetto vostro e delle luci a voi compagne! allora che, tacito, seduto in verde zolla, delle sere io solea passar gran parte mirando il cielo, ed ascoltando il canto della rana rimota alla campagna!5 E la lucciola errava appo le siepi e in su l’aiuole, susurrando6 al vento i viali odorati, ed i cipressi là nella selva; e sotto al patrio tetto sonavan voci alterne, e le tranquille opre de’ servi. E che pensieri immensi, che dolci sogni mi spirò la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri, che di qua scopro, e che varcare un giorno io mi pensava7, arcani mondi, arcana felicità fingendo8 al viver mio! ignaro del mio fato, e quante volte questa mia vita dolorosa e nuda9 volentier con la morte avrei cangiato10.

1. Vaghe: belle e lontane. L’aggettivo è polisemico: in quanto collegato al verbo “vagare”, si riferisce anche alla capacità di indurre pensieri fantastici e ricordi e si collega alla leopardiana “poetica dell’indefinito”. 2. Orsa: la costellazione del Grande Carro o Orsa Maggiore. 3. tornare… uso: ritornare di nuovo all’antica abitudine; qui Leopardi, probabilmente, non si riferisce solo al ritorno a casa, ma anche al ritorno alla poesia dopo l’esperienza filosofica e prosastica delle Operette morali. 4. paterno: le stelle dell’Orsa proiettano la loro luce sul giardino della casa paterna, luogo della fanciullezza e della memoria. I termini ostello e albergo con cui Leopardi designa la casa paterna alludono alla sua condizione di estraneità al natio borgo selvaggio. 5. allora… campagna!: dopo aver ricordato le fantasie e le illusioni (fole) che le stelle (le luci a voi compagne) su-

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vv. 1-27 Stelle splendide e lontane dell’Orsa, io non credevo che sarei tornato ancora per abitudine ad ammirarvi, scintillanti sopra il giardino della casa paterna, e a dialogare con voi dalle finestre di questo palazzo dove abitai da piccolo e vidi la fine delle mie gioie. Quante fantasie e quante illusioni mi creò un tempo nel pensiero il vostro aspetto e quello delle stelle che vi accompagnano, quando, silenzioso, seduto nel verde prato, ero solito passare quasi tutte le sere guardando il cielo ed ascoltando il canto della rana lontana nella campagna! E la lucciola errava presso le siepi e sulle aiuole, mentre i viali profumati sussurravano al vento con i cipressi là nella selva e, sotto il tetto [della casa] di mio padre, risuonavano diverse voci, e i rumori delle tranquille faccende dei domestici. E che profondi pensieri, che dolci sogni mi ispirò la vista di quel mare lontano, di quei monti, bruni per la distanza, che vedo da questa parte e che io pensavo di potere un giorno oltrepassare, fantasticando mondi sconosciuti e una sconosciuta felicità per la mia vita, inconsapevole del mio destino, e di quante volte avrei [poi] cambiato volentieri questa mia vita sofferente e vuota con la morte.

scitarono in lui nell’infanzia, il poeta descrive una situazione contemplativa, idillica, già presente ne L’infinito. L’attributo rimota (“lontana”) appartiene ai termini che suggeriscono un senso di lontananza, ritenuta poetica dall’autore. 6. susurrando: mentre sussurravano. 7. io mi pensava: il coinvolgimento emotivo del poeta e la prevalenza dell’“io lirico” sono sottolineate dalla ripetizione dei pronomi e degli aggettivi di prima persona singolare: mi spirò, io mi pensava, viver mio, mio fato, mia vita. 8. fingendo: immaginando; il verbo è usato anche nell’idillio L’infinito e collega illusione e poesia. 9. nuda: priva di felicità; ma l’aggettivo allude a una condizione funebre (uno dei temi centrali della poesia) e richiama l’immagine della tomba ignuda di A Silvia. 10. cangiato: cambiato, si tratta di un francesismo (lingua in cui changer significa cambiare).

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Né mi diceva il cor che l’età verde11 sarei dannato a consumare12 in questo natio borgo selvaggio13, intra una gente zotica, vil; cui nomi strani, e spesso argomento di riso e di trastullo, son dottrina e saper; che m’odia e fugge, per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori a persona giammai non ne fo segno. Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, senz’amor, senza vita; ed aspro a forza tra lo stuol de’ malevoli divengo14: qui di pietà mi spoglio e di virtudi15, e sprezzator degli uomini mi rendo, per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola il caro tempo giovanil; più caro che la fama e l’allor16, più che la pura luce del giorno, e lo spirar: ti perdo17 senza un diletto, inutilmente, in questo soggiorno disumano, intra gli affanni, o dell’arida vita unico fiore18.

vv. 28-49 Il cuore non mi diceva che sarei stato condannato a consumare la verde giovinezza in questo incivile paese natio, tra gente rozza, senza valore, per cui la cultura e il sapere sono nomi strani, e spesso argomenti di riso e di beffa, che mi odia e mi evita, non per invidia – poiché non mi ritiene superiore a sé – , ma perché pensa che superiore io mi ritenga in cuor mio, sebbene esternamente a nessuno mai io ne dia segno. Qui io trascorro gli anni, lasciato solo, isolato, senza amore, senza vita; e divento duro inevitabilmente in mezzo alla folla dei malevoli: qui perdo la pietà e ogni virtù, e mi riduco a disprezzare gli uomini a causa dei compaesani che ho intorno: e intanto vola via la cara giovinezza, più cara della fama e dell’alloro poetico, più della pura luce del giorno, più del respiro: ti perdo, unico fiore dell’arida vita, senza un piacere, inutilmente, tra le angosce in questo luogo disumano.

Viene il vento recando il suon dell’ora della torre del borgo19. Era conforto questo suon, mi rimembra, alle mie notti, quando fanciullo, nella buia stanza, per assidui terrori io vigilava, sospirando il mattin. Qui non è cosa ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per sé; ma con dolor sottentra il pensier del presente, un van desio del passato, ancor tristo, e il dire: io fui20. Quella loggia colà, volta agli estremi raggi del dì; queste dipinte mura, quei figurati armenti, e il Sol che nasce su romita campagna, agli ozi miei

vv. 50-76 Il vento viene portando con sé il suono della campana che segna l’ora dalla torre del paese. Questo suono consolava le mie notti – ricordo – quando, da fanciullo, nella camera buia, io ero sveglio per le continue paure, desiderando il mattino. Qui non c’è cosa che veda o senta per cui non mi torni in mente un’immagine e non mi sorga un dolce ricordo: dolce in se stesso, ma il pensiero del presente subentra con il dolore, e rende illusorio e triste il tornare al passato, e [mi fa] dire: ormai ho vissuto. Quel balcone laggiù, rivolto agli ultimi raggi del sole, questi muri affrescati, quegli animali dipinti e il sole nascente sulla deserta campagna, ai miei momenti liberi

11. età verde: espressione metaforica (più propriamente, sinestetica) per “giovinezza”, usata in più occasioni nei Canti leopardiani. La seconda strofa inizia con un Né che, per la sua posizione all’inizio del verso, crea una forte antitesi nei confronti del paesaggio del ricordo evocato nella prima strofa. 12. consumare: passare; il verbo “consumare” rimanda all’idea della consunzione e della morte. Il tono diventa ora aspro e duro, anche a livello lessicale. 13. selvaggio: proprio delle selve, cioè dei boschi, quindi “incivile”. L’invettiva contro Recanati è motivata dai successivi versi: per gli abitanti del borgo, gente zotica e vil, la cultura e il sapere (dottrina e saper) e chi li coltiva sono oggetto di derisione (riso) e beffa (trastullo). 14. aspro… divengo: il poeta si dichiara inasprito dalla condizione in cui è costretto a vivere. Col termine guerresco stuolo (che allude alla schiera dei compaesani, più oltre definito gregge) suggerisce la lotta che lo oppone all’insensibilità e all’ignoranza dei malevoli villici, che si ritengono superiori a lui e lo credono segretamente superbo (maggior), dentro di sé, nei loro confronti. 15. qui… virtudi: il poeta, in un luogo in cui è oggetto di

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maldicenza, diviene misantropo e dimentica le virtù. L’anafora del locativo di vicinanza qui enfatizza l’ostilità verso il paese. 16. l’allor: la corona d’alloro allude alla gloria poetica. 17. ti perdo: il brusco passaggio alla seconda persona sottintende un dialogo con la personificazione della giovinezza. 18. o… fiore: il caro tempo giovanil è fiore (e non frutto), in quanto la positività della giovinezza sta nelle illusioni, non nella loro realizzazione che, come Leopardi più volte riafferma, si rivela impossibile. L’ultimo verso della strofa verrà ripreso da Giosue Carducci in Pianto antico. 19. Viene... borgo: il verbo recando, che significa “portando con sé”, suggerisce una personificazione del vento. L’inizio della terza strofa riconduce il tempo al presente e, per analogia (come ne L’infinito), dal presente, attraverso la mediazione del suono della torre del borgo, pensiero e sentimento tornano alle ricordanze del passato. 20. Qui non è cosa... fui: il tema del ricordo del passato e della sua dolcezza in gioventù rinvia al piccolo idillio Alla luna; il verbo fui al passato remoto suggerisce però, ora, in contrapposizione a tale testo, l’irrimediabile fine della giovinezza e delle illusioni.

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porser mille diletti allor che al fianco m’era, parlando, il mio possente errore sempre, ov’io fossi21. In queste sale antiche, al chiaror delle nevi22, intorno a queste ampie finestre sibilando23 il vento, rimbombaro i sollazzi24 e le festose mie voci al tempo che l’acerbo, indegno mistero delle cose a noi si mostra pien di dolcezza; indelibata25, intera il garzoncel, come inesperto amante, la sua vita ingannevole vagheggia, e celeste beltà fingendo ammira26.

offrirono innumerevoli piaceri quando avevo vicino e mi parlava alla mente la mia grande e ingannevole illusione, sempre e dovunque. In questi saloni antichi, al chiarore delle nevi [che riverberavano luce], mentre il vento sibilava intorno a queste grandi finestre, riecheggiarono i [rumori dei] giochi e le mie parole festose nel tempo in cui il crudele e odioso mistero della vita ci appare pieno di dolcezza; il ragazzo, come un amante inesperto, sogna la sua vita ancora non gustata e piena, mentre, invece, è ingannevole, e immaginando crede di ammirare una bellezza divina.

O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età! sempre, parlando, ritorno a voi; che per andar di tempo, per variar d’affetti e di pensieri, obbliarvi non so27. Fantasmi, intendo, son la gloria e l’onor; diletti e beni mero desio; non ha la vita un frutto, inutile miseria. E sebben vòti son gli anni miei, sebben deserto, oscuro il mio stato mortal, poco mi toglie la fortuna, ben veggo28. Ahi, ma qualvolta a voi ripenso, o mie speranze antiche, ed a quel caro immaginar mio primo; indi riguardo il viver mio sì vile e sì dolente, e che la morte è quello che di cotanta speme oggi m’avanza29; sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto consolarmi non so del mio destino.

vv. 77-103 O speranze, speranze, begli inganni della mia infanzia! Sempre, parlando, ritorno a voi; perché non vi so dimenticare per quanto passi il tempo e cambino i sentimenti e i pensieri. Sono fantasmi, lo so, la gloria e l’onore; i piaceri e le ricchezze sono solo desideri; la vita non ha uno scopo, è una infelicità senza scopo. E poiché i miei anni sono vuoti, poiché la mia condizione di vita è solitaria e buia [perché senza illusioni], vedo bene che la sorte mi può togliere poco. Ahi, ma ogni volta che ripenso a voi, mie antiche speranze, e a quel caro immaginare infantile, e poi considero la mia vita così miserevole e sofferente – e penso che oggi la morte è ciò che mi resta di tanta speranza – sento stringermi il cuore, sento che non riesco a rassegnarmi del tutto al mio destino.

21. Quella loggia... fossi: quel balcone rivolto a occidente (dove il sole tramonta: volta agli estremi raggi del dì) e gli altri elementi del paesaggio, segnalati con indicatori di luoghi sia lontani, sia più vicini (colà, queste, quei), ricordano i piaceri (diletti) che accompagnavano sempre e dovunque i sogni della gioventù, fondati sull’illusione, gravissimo errore (il mio possente errore: l’espressione è un petrarchismo). 22. al chiaror delle nevi: a un chiarore, che richiama quello lunare, suscitato dal rifrangersi della luce sulla neve. 23. sibilando: mentre sibilava. 24. rimbombaro i sollazzi: risuonarono i giochi infantili. La forma verbale è tronca nella parte finale, come spesso nell’italiano antico; rimbombaro, accentuando il rumore (per sottolineare l’intensità emotiva della situazione ricordata), si configura qui come iperbole, per sottolineare l’inganno vissuto negli anni in cui l’aspra e crudele verità della misera condizione umana (l’acerbo, indegno mistero delle cose) appare, illudendoci, piena di dolcezza. 25. indelibata: non ancora gustata (latinismo, da libare). 26. il garzoncel... ammira: è qui evidente il richiamo al garzoncello scherzoso de Il sabato del villaggio (per cui cfr. verso 43, pag. 808). La sua gioventù addolcita dalle illusioni è espressa con la metafora secondo cui egli corteggia (vagheggia) la vita come un amante inesperto, che nell’immaginazione (fingendo) la ammira come una bellezza divina (celeste beltà), ignorando ciò che il futuro gli riserva.

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27. O speranze… non so: la quarta strofa, fin dalla reiterazione e dalla personificazione del primo verso, mette in luce, come protagoniste, le speranze, dolci inganni (ameni inganni). Per quanto passi il tempo (andar di tempo), per quanto cambino i sentimenti e le convinzioni (variar d’affetti e di pensieri), il poeta scrive di non poterle dimenticare. Con un procedimento opposto a quello di A Silvia, la speranza del poeta viene introdotta con nostalgia, per essere più avanti accostata a una giovane figura femminile, Nerina, su cui grava un destino di morte. 28. Fantasmi… ben veggo: la gloria e l’onore sono illusioni (fantasmi); piaceri (diletti) e felicità (beni) sono (il verbo ausiliare è sottinteso: l’ellissi fa risaltare il contrasto fra desiderio e realtà) solo desiderio (mero desio) irrealizzabile. La vita non ha uno scopo (frutto: significativa la contrapposizione alla gioventù, la cui metafora è il fiore) ed è (il verbo ausiliare anche qui è sottinteso) inutile miseria. Il poeta aggiunge poi di sapere (ben veggo) che la propria condizione mortale, non più illuminata dalle illusioni, è priva di ogni felicità (deserto). Tale ultimo concetto sarà sviluppato in forma simbolica e poetica ne La ginestra. 29. e che la morte... m’avanza: l’espressione è simile a quella usata in A Silvia. Anche sul piano tematico, da A Silvia viene qui ripreso il contrasto fra la dolcezza delle speranze giovanili e la miseria di ciò che di essa rimane: la morte. I versi riecheggiano anche alcuni passi del sonetto In morte del fratello Giovanni di Ugo Foscolo.

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E quando pur questa invocata morte sarammi allato, e sarà giunto il fine della sventura mia; quando la terra mi fia straniera valle, e dal mio sguardo fuggirà l’avvenir30; di voi per certo risovverrammi31; e quell’imago32 ancora sospirar mi farà, farammi acerbo l’esser vissuto indarno, e la dolcezza del dì fatal tempererà d’affanno33.

E quando mi sarà infine accanto questa morte invocata, e sarà giunta la fine della mia sventura, quando il mondo sarà per me una terra straniera, e dal mio sguardo fuggirà il futuro, certo mi ricorderò di voi, e l’illusione ancora mi farà piangere, mi renderà crudele l’essere vissuto inutilmente, e mescolerà col dolore la dolcezza dell’ultimo giorno.

E già nel primo giovanil tumulto di contenti, d’angosce e di desio, morte chiamai più volte, e lungamente mi sedetti colà su la fontana pensoso di cessar dentro quell’acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse34, piansi la bella giovanezza, e il fiore de’ miei poveri dì, che sì per tempo cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso sul conscio letto35, dolorosamente alla fioca lucerna poetando36, lamentai co’ silenzi e con la notte37 il fuggitivo spirto, ed a me stesso in sul languir cantai funereo canto38.

vv. 104-118 Invocai la morte più volte già nel primo assalto giovanile di gioie, di angosce e di desiderio, e sedevo a lungo là sulla fonte, meditando di porre fine dentro quelle acque alla mia speranza e al mio dolore. Poi, condotto in pericolo di vita da una oscura malattia, rimpiansi la bella giovinezza, e il fiore dei miei poveri giorni, che se ne andava così presto: e spesso a tarda ora, seduto sul letto consapevole [della mia sofferenza], scrivendo versi faticosamente sotto la pallida lampada, piansi, insieme ai silenzi e alla notte, la vita che fuggiva, e composi un canto funebre a me stesso sentendomi venire meno.

Chi rimembrar vi può senza sospiri, o primo entrar di giovinezza39, o giorni vezzosi, inenarrabili, allor quando al rapito mortal primieramente sorridon le donzelle; a gara intorno ogni cosa sorride; invidia tace, non desta ancora ovver benigna; e quasi (inusitata maraviglia!) il mondo la destra soccorrevole gli porge,

vv. 119-135 Chi vi può ricordare senza lamenti, o primo periodo della giovinezza, o bei giorni che non si possono raccontare, quando all’uomo affascinato per la prima volta sorridono le fanciulle, ogni cosa intorno a lui fa gara a sorridere; non esiste l’invidia, che non si è ancora risvegliata oppure è benigna, e il mondo (meraviglia inconsueta!) sembra porgergli la mano ad aiutarlo, giustifica i suoi errori,

30. quando la terra... l’avvenir: il passo, che anticipa l’immagine della morte, è di grande intensità poetica. Nell’espressione straniera valle (“luogo estraneo”) la parola valle richiama il lessico biblico e vale per “luogo di dolore” (lacrimarum vallis, ossia “valle di lacrime”); fuggirà l’avvenir significa “si allontanerà per sempre il futuro”; mi fia (“sarà per me”) è un latinismo. 31. risovverrammi: mi ricorderò (francesismo da souvenir). 32. quell’imago: l’immagine delle speranze. Ancora una volta le speranze, attraverso il sostantivo imago, di derivazione foscoliana, riferito a entità astratte personificate, acquistano poetica concretezza visiva. 33. farammi... affanno: mi renderà amaro (acerbo) l’essere vissuto inutilmente (indarno), e tale dolore (affanno) si mescolerà con la dolcezza della morte (dì fatal). 34. condotto… forse: trovatomi in pericolo di vita, a causa di cieco malor; è espressione che richiama il chiuso morbo di A Silvia. Anche il verbo cadeva (“sfioriva”) si ritrova in A Silvia (cadesti). La strofa ricapitola gli eventi e il percorso dei sentimenti dell’autore, dal momento in cui, nella gioventù, si mescolano in tumulto, gioia, desideri e ansia (contenti, angosce e desio), fino ai primi pensieri di suicidio (cessar ... la speme e il dolor mio), alla malattia e al

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rischio della vita, all’accostamento al canto poetico inteso come lamento. 35. conscio letto: letto consapevole (della sofferenza del poeta; si tratta di una personificazione). 36. dolorosamente… poetando: cantando in versi il dolore; si noti come l’avverbio dolorosamente e il gerundio poetando occupino l’ultima parte del verso e come da questa posizione ricevano risalto. La fioca lucerna allude alla fievole luce della lampada; la scrittura avviene nell’ombra, nella poca luce e nel silenzio notturno. L’espressione, inoltre, denota la qualità solitaria della scrittura leopardiana. 37. co’… la notte: con i silenzi della notte; endiadi ripresa da Parini (col profondo silenzio e con la notte, ne Il Mezzogiorno). 38. funereo canto: canto funebre; i versi leopardiani in senso generico o, forse, con precisa allusione a L’appressamento della morte, iniziato alla fine del 1816 e mai ultimato. 39. Chi rimembrar... giovinezza: l’inizio si rivolge ora al nostalgico ricordo (rimembrar) dei primi anni della giovinezza (i giorni vezzosi, ossia “affascinanti”); l’espressione, grazie al verbo entrare, rimanda all’immagine del limitar di gioventù di A Silvia.

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scusa gli errori suoi, festeggia il novo suo venir nella vita, ed inchinando mostra che per signor l’accolga e chiami?40 Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo son dileguati. E qual mortale ignaro di sventura esser può, se a lui già scorsa quella vaga stagion, se il suo buon tempo, se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?41 O Nerina42! e di te forse non odo questi luoghi parlar? caduta forse dal mio pensier sei tu? Dove sei gita, che qui sola di te la ricordanza trovo, dolcezza mia?43 Più non ti vede questa Terra natal44: quella finestra, ond’eri usata favellarmi, ed onde mesto riluce delle stelle il raggio, è deserta45. Ove sei, che più non odo la tua voce sonar, siccome un giorno, quando soleva ogni lontano accento del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi furo, mio dolce amor. Passasti46. Ad altri il passar per la terra oggi è sortito, e l’abitar questi odorati colli. Ma rapida passasti; e come un sogno fu la tua vita. Ivi danzando47; in fronte la gioia ti splendea, splendea negli occhi quel confidente immaginar, quel lume di gioventù, quando spegneali il fato, e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna l’antico amor. Se a feste anco talvolta, se a radunanze io movo, infra me stesso

40. allor quando... chiami?: l’interrogativa retorica introduce un ricordo luminoso della prima gioventù e dell’amore, età in cui tutto sembra portare felicità (ogni cosa sorride: si tratta di una metafora) e l’ostilità degli uomini originata dall’invidia non si manifesta (tace) ancora sopita (non desta), ovvero non ancora aggressiva o maligna. In tale età il mondo mostra ostentatamente e falsamente di accogliere e considerare il giovane come un principe. 41. E qual mortale... spenta?: la strofa si chiude con un’interrogativa retorica che identifica la consapevolezza dell’infelicità umana con la fine della gioventù (l’espressione buon tempo è presente anche ne Il sabato del villaggio). In modo analogo, ma speculare, rispetto ad A Silvia, la fine della gioventù e delle sue ingannevoli speranze si identifica con la morte di una giovane, qui chiamata Nerina. 42. Nerina: forse una fanciulla di Recanati morta all’età di ventisette anni, di nome Maria Belardinelli, o, forse, ancora, la medesima Teresa Fattorini di A Silvia. 43. caduta... dolcezza mia?: l’espressione caduta ricorre allo stesso verbo con cui, in A Silvia, vengono indicate la fanciulla morta e la speranza del poeta; qui, locativo di vicinanza, denota il presente, in cui il poeta, staccandosi dalle altre memorie del passato, trova soltanto il ricordo della dolce fanciulla. Il participio gita (“andata”) è un latinismo (da ire). 44. Terra natal: Recanati.

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festeggia il giovane che entra nella vita, e sembra inchinarsi per accoglierlo e chiamarlo suo signore? Giorni fuggevoli! Si sono dileguati come un lampo. E quale uomo può ignorare l’infelicità quando per lui è ormai passata quella bella età, se la giovinezza, suo tempo migliore, se la giovinezza, ahi, se ne è andata? vv. 136-173 O Nerina! E di te forse non sento parlare questi luoghi? Sei forse uscita dal mio pensiero? Dove sei andata, dato che qui di te io trovo solo il ricordo, dolcezza mia? Più non ti vede questa terra dove sei nata: quella finestra, da cui eri solita parlarmi, e da dove brilla triste il raggio delle stelle, ora è vuota. Dove sei, ora che non sento più cantare la tua voce, come in passato, quando ogni lontano accento del tuo labbro che a me giungeva, era solito farmi impallidire? Era un altro tempo. I giorni tuoi sono andati, mio dolce amore. Tu te ne andasti. Per altri oggi è destino passare nel mondo, e abitare queste colline profumate. Ma tu passasti rapida, e la tua vita fu come un sogno. Camminavi danzando; ti splendeva la gioia sulla fronte, ti splendeva negli occhi quel fiducioso immaginare, quella luce di gioventù, quando il destino li spense, e sei morta. Ahi Nerina! Nel mio cuore regna ancora l’antico amore. Se qualche volta partecipo a feste, o a incontri, tra me stesso penso:

45. quella… deserta: la luce notturna innesca il ricordo e illumina la condizione di perdita e di solitudine, rappresentata dall’immagine della finestra deserta; l’aggettivo deserta è sottolineata dalla triplice allitterazione de (nei vv. 142143). Si osservi anche come l’espressione favellarmi si ricolleghi, attraverso il termine favola, al sogno e all’illusione perduti nel lontano passato. 46. Ove sei... Passasti: l’interrogativa, che rinvia al suono della voce di Nerina, e il termine passasti (“sei morta”), riprendono ancora una volta un’espressione di A Silvia. Passasti – tragica epigrafe subito seguita da un punto – è la metafora della vita come passaggio verso la morte; significativa, infatti, l’iterazione del verbo nella martellante sequenza passasti (v. 149), passar (v. 150), passasti (v. 152). I giorni tuoi furo significa “il tempo della tua vita fu”, ossia “terminò”. Nei versi successivi, si dice che altri hanno ora avuto in sorte il passare attraverso il tempo della vita, che per Nerina fu così breve. 47. Ivi danzando: l’immagine richiama quella del carme Dei sepolcri di Ugo Foscolo, in cui si allude al futuro che danza (innanzi a me non danzeran l’ore future); ma qui Leopardi riferisce l’immagine al passato. La fiduciosa e gioiosa illusione giovanile nel futuro di Nerina, cantata con tono lirico e commosso nei successivi versi, rispecchia quella di Silvia e la gioventù del poeta stesso.

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dico: o Nerina, a radunanze, a feste tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni van gli amanti recando alle fanciulle, dico: Nerina mia, per te non torna primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento, dico: Nerina or più non gode; i campi, l’aria non mira48. Ahi tu passasti, eterno sospiro mio: passasti: e fia compagna d’ogni mio vago immaginar, di tutti i miei teneri sensi, i tristi e cari moti del cor, la rimembranza acerba49.

o Nerina, a incontri, a feste tu non ti prepari più, tu non vai più. Quando maggio ritorna, e gli innamorati vanno a portare fiori e canzoni alle fanciulle, io dico: Nerina mia, per te non ritorna mai più la primavera, non ritorna l’amore. Ogni volta che vedo una bella giornata, che ammiro una distesa fiorita, che sento un piacere, penso: Nerina ora non gode più, non ammira più la campagna e il cielo. Ahi tu te ne sei andata, mia eterna nostalgia: sei andata, e il ricordo doloroso accompagnerà ogni mia bella immagine del passato, tutti i miei dolci sentimenti, i tristi e cari movimenti del cuore.

da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

48. Ogni… mira: il poeta si rispecchia in Nerina: lo si evince dalla costruzione parallela e rovesciata, come allo specchio; la serie, riferita al poeta, miro (v. 167), goder (v. 167) e riguardante il giorno sereno e la fiorita piaggia (vv. 166-167), si riscontra con quella riferita a Nerina inversamente: non gode (v. 168), non mira (v. 169), riguardante l’aria e i campi (vv. 168-169). 49. Ahi tu passasti... acerba: Nerina, ossia la gioventù e la sua speranza destinata a prematura fine (passasti è ancora ripetuto due volte) con cui la fanciulla si identifica, è in-

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fine denotata come eterna nostalgia della giovinezza (eterno sospiro mio) presente nel ricordo (da cui il titolo Le ricordanze); l’enjambement dona ulteriore rilievo a eterno. Il canto termina con il sentimento del tragico passare e perire delle cose, delle persone, della gioventù e delle speranze e con due ossimori, indicativi dell’inscindibilità dei sentimenti tristi e cari nella rimembranza acerba (“ricordo crudele”), a denotare la confluenza di passato e presente nella nostalgia che vive nelle ricordanze della gioventù, sebbene ormai spentasi con Nerina.

inee di analisi testuale Un idillio in sette strofe L’idillio Le ricordanze si articola in sette strofe, suddivise per temi e stile secondo un preciso disegno: la prima, terza, quinta e settima stanza hanno carattere idillico e descrittivo (suoni e immagini della notte stellata recanatese risvegliano nel poeta le ricordanze della giovinezza, culminanti nell’immagine finale di Nerina); la seconda, quarta e sesta presentano carattere elegiaco e riflessivo (vi domina la tristezza del presente e la consapevolezza del dolore, dopo la fine delle speranze giovanili). La poetica dell’indefinito e del ricordo L’aggettivo iniziale vaghe rimanda alla poetica dell’indefinito, connessa ai motivi dell’illusione e del sogno; rimanda però anche (vaghe significa “vaganti”) a un tragitto ciclico, che riconduce il poeta al paese natale e alla contemplazione (contemplarvi): gli imperfetti, i passati remoti, gli avverbi temporali attivano l’idea di ricordo e la figura della ripetizione (uno degli assi portanti de Le ricordanze). Recanati, natio borgo selvaggio Nella seconda strofa, mutando tono e registro, Leopardi descrive il proprio rapporto, fortemente conflittuale, con Recanati, natio borgo selvaggio, abitato da gente zotica e vil, cioè ignorante e meschina, insensibile ai valori della cultura, pronta a prendersi gioco di lui. Il paese è sentito come una prigione, nella quale non c’è né amore, né vita; perciò l’animo del poeta si inasprisce e concepisce odio e disprezzo. La poesia del ricordare All’inizio della terza strofa, la campana della torre del borgo che scandisce il tempo diventa insieme la voce del tempo e la voce della poesia, in quanto attiva il ricordo delle notti insonni dell’infanzia. Il rimembrar appare infatti dolce in quanto valore in sé, contrapposto alla realtà dolorosa. La capacità di illusione e di speranza del giovane Leopardi – il suo possente errore – è una presenza viva in ogni luogo e in ogni momento: rappresenta la personificazione della poesia.

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Le ricordanze come vita delle illusioni All’inizio della quarta strofa, introdotta dalla ripetizione della parola speranze (gli ameni inganni), il viaggio nelle ricordanze ribadisce l’inconsistenza della gloria, dell’onore, della felicità, del benessere e la sterilità della vita, in cui resta un unico momento di bellezza, di sogno e di illusione: la giovinezza. Il ricordo appare al poeta come unica possibilità di far rivivere per un momento le illusioni e i sogni della giovinezza. Il tema della morte La quinta strofa riprende il sonetto proemiale del Canzoniere di Petrarca (in sul mio primo giovenil errore) che afferma una separazione fra la giovinezza e la maturità per distanziarsene: Leopardi stabilisce invece una linea di continuità fra il giovenil tumulto di sentimenti e la maturità, all’insegna del pensiero della morte. Attraverso la scoperta del dolore e del male di vivere la poesia della maturità diventa funereo canto. I temi della malattia, dello svanire della giovinezza e della morte e il lessico stesso richiamano, come tutto il componimento, A Silvia. L’incanto della giovinezza Protagonista della sesta strofa è l’incanto della giovinezza, che può solo essere ricordato con dolore, perché si tratta di una condizione magica destinata a dileguarsi velocemente (l’espressione fugaci giorni richiama gli occhi fuggitivi di Silvia). La strofa si chiude con l’anafora della parola giovinezza, a sancirne definitivamente la centralità. Nerina L’idillio, nella settima e ultima strofa, si chiude nel segno di Nerina. Come la vicenda di Silvia si identifica con la fine della gioventù, così – ma inversamente – il ricordo della fine della gioventù ora richiama la fine di Nerina. La rievocazione avviene per negazione e per confronto con il presente; il paese non vede più Nerina, la finestra a cui si affacciava la fanciulla è deserta, non si sente più la sua voce. Nerina si identifica con la rimembranza acerba che, perdute gioventù e speranza (le quali rendevano grato il rimembrare in Alla luna), è ora compagna del pensiero del poeta. Silvia e Nerina, in quanto ricordo della gioventù, sono entrambe anche prefigurazioni della morte.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Aiutandoti con la parafrasi e le note, riassumi l’idillio Le ricordanze. 2. Elenca gli argomenti principali sviluppati in ciascuna delle sette strofe del componimento. 3. Come vengono giudicati gli abitanti di Recanati e per quale motivo? 4. Quali ricordi del passato emergono nelle parti evocative? Analisi e interpretazione 5. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. In quale contesto biografico Leopardi ha scritto Le ricordanze? b. Di quale poetica leopardiana è indizio la parola Vaghe con cui inizia l’idillio? c. Quale messaggio sulla rimembranza propone il testo? d. Attraverso quali metafore in reciproca relazione ed in quali versi sono connotati, dal poeta, la gioventù e la vita? e. Quale giudizio Leopardi esprime sulla propria morte e in quali versi? f. Di che cosa è simbolo la figura di Nerina? Approfondimenti 6. Illustra il modo in cui, a tuo avviso, il tema della memoria e del ricordo è sviluppato e vissuto da Leopardi e ai nostri giorni. Condividi, in particolare, l’opinione di coloro che ritengono l’età in cui viviamo senza memoria del passato storico ed individuale? A tuo parere, va attribuita grande importanza al ricordo oppure è utile e possibile dimenticare il passato e vivere giorno per giorno nel presente? Motiva con adeguate argomentazioni il tuo punto di vista. 7. Tra il materiale proposto sui Canti di Leopardi, seleziona (ed eventualmente amplia con personali ricerche, anche tramite Internet) i documenti a tuo parere utili per organizzare, scrivere al computer e stampare in fascicolo illustrato una tesina sul seguente argomento: Silvia e Nerina nella poesia di Leopardi. Ricordati di dare alla tua tesina un titolo, una veste grafica ordinata e accattivante, e di inserirvi un indice, tenendo presente che esso consiste nell’elenco dei titoli di tutti i capitoli, i paragrafi o le eventuali altre parti da cui è composto lo scritto (che deve essere concluso da un elenco delle fonti bibliografiche e dei siti web eventualmente consultati).

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Focus

LA POETICA DELLA RIMEMBRANZA IN LEOPARDI

Parlando dell’essenza poetica della rimembranza, in due passi dello Zibaldone, Leopardi afferma che i luoghi, i paesaggi, gli oggetti non sono poetici in sé, ma nel ricordo che li colloca in lontananza spaziale e temporale, nell’indefinito e nel vago (non a caso la parola d’inizio dell’idillio Le ricordanze è Vaghe). Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in un altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (14 dicembre 1828).

E ancora: Il piacere [...] che ci dà la poesia, dico la poesia antica e d’immagini; tra le sue cagioni, ha per una delle principali, se non la principale assolutamente, la rimembranza confusa della nostra fanciullezza che ci è destata da tal poesia. La qual rimembranza è, fra tutte, la più grata e la più poetica; e ciò, principalmente forse, perché essa è più rimembranza che le altre, cioè a dire, perché è la più lontana e più vaga. (1 gennaio 1829).

Dopo aver applicato ne L’infinito la poetica della comparazione (vo comparando), soprattutto nelle poesie A Silvia e Le ricordanze Leopardi sviluppa la poetica della rimembranza, che utilizza come strumento di similitudine (Tutti i piaceri che chiamerò poetici consistono in percezioni di somiglianze e di rapporti, e in rimembranze, afferma nello Zibaldone, 27 aprile 1829): Silvia e Nerina, infatti, sono analogie, simboli di realtà interiori e di ricordi, prima ancora che figure di giovani donne vittime della crudeltà della Natura.

Disegno del conte Augusto Mazzagalli, amico di Leopardi. Esso rappresenta la Porta del Giardino prospiciente sul piazzale di Santo Stefano di fronte alla casa, demolita, abitata dalla Belardinetti Maria, ritenuta la Nerina nelle Ricordanze.

T7 Canto notturno di un pastore errante dell’Asia da Canti, XXIII La canzone filosofica, scritta a Recanati fra il 29 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830, è pubblicata nel 1831 col titolo Canto notturno di un pastore vagante dell’Asia. Per comporlo, Leopardi trae spunto da un articolo del “Journal des savants” del settembre 1826, in cui si parla dell’usanza dei kirghisi (pastori nomadi dell’Asia centrale) di passare le notti a contemplare la luna, intonando canti di tristezza e di nostalgia. Il Canto notturno è l’ultima creazione di Leopardi prima della sua partenza da Recanati. È composto successivamente a La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio, ma è collocato nei Canti prima di questi, con funzione di perno centrale di un gruppo di cinque idilli (A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio) che hanno a loro volta una posizione centrale nella raccolta per importanza filosofica e tematica. Schema metrico: sei strofe libere di endecasillabi e settenari con occasionali rime e rime al mezzo. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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PISTE DI LETTURA • Il problema del senso della vita • Microcosmo e macrocosmo • Il pessimismo cosmico

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Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi1. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli?2 Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli?3 Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore; move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera4. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?5

Pagina manoscritta dei versi iniziali del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

1. Sorgi... posi: sorgi la sera e ti metti in cammino (vai: il verbo sviluppa la personificazione che si estenderà per l’intero componimento), guardando i deserti, e poi tramonti (ti posi). Dopo che il poeta si è rivolto alla luna personificata con una domanda retorica sul significato della sua esistenza, egli descrive la parabola dell’astro dal sorgi al posi. Il vai avvia anche la metafora del viaggio e la trasposizione della terra nel cielo, del microcosmo nel macrocosmo. Leopardi usa frequentemente l’artificio poetico del rivolgersi alla luna nei Canti, a partire dal piccolo idillio Alla luna. 2. Ancor... calli?: non sei ancora sazia (paga) di ripercorrere gli eterni sentieri (sempiterni calli)? 3. Ancor... valli?: non ti sei ancora annoiata (non prendi a schivo), sei ancora desiderosa di guardare (mirar) queste vallate? Leopardi introduce qui il motivo della noia (che sarà sviluppato nella penultima strofa attraverso il confronto fra pastore e gregge); l’insistita anafora di ancora e la vicinanza delle rime (paga, vaga; calli, valli) accentuano il fascino ritmico, ma anche il senso di angoscia ottenuto attraverso la ripetitività. 4. Sorge... ispera: il pastore si alza alle prime luci dell’alba (primo albore), conduce il gregge fuori per i campi e guarda animali, fonti, prati; poi va a dormire stanco verso sera; non spera (ispera) mai altro. Il parallelismo tra il percorso

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della luna e quello del pastore serve al poeta per personificare l’astro e rendere più realistico il dialogo (che è propriamente un monologo) con esso. La descrizione della vita del pastore ricorda un passo di Petrarca, ma il pastore di Petrarca non pensa e si addormenta (ivi senza pensier s’adagia e dorme), mentre il pastore di Leopardi pensa e pone domande; il fatto che altro mai non ispera lo pone in sintonia con la disperazione del poeta, di cui, per l’intero componimento, il pastore rappresenta la voce. 5. a che vale... immortale?: a che serve (a che vale) vivere al pastore, a che serve esistere a voi astri del cielo? Qual è la meta (ove tende) di questo mio breve errabondo viaggio mortale, del tuo perenne percorso (corso)? L’espressione A che vale / al pastor la sua vita, / la vostra vita a voi? è un chiasmo, costruito sulla ripresa della parola vita; la rima vale:immortale prolunga l’eco del verbo vale, cioè la riflessione sul valore della vita. Nei versi finali, il rispecchiarsi dell’uomo nell’universo è di nuovo sottolineato con un parallelismo e un chiasmo: vagar mio breve / tuo corso immortale. L’insistenza sull’immortalità della luna rappresenta l’inizio della sua divinizzazione a opera del pastore (che condurrà infine, di fatto, a trasformare l’astro in sottinteso simbolo della Natura o, comunque, in un’entità superiore all’uomo).

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Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l’ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più e più s’affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso6; infin ch’arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto obblia7. Vergine luna, tale è la vita mortale8. Nasce l’uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento9. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’esser nato10. Poi che crescendo viene, l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre con atti e con parole studiasi fargli core, e consolarlo dell’umano stato: altro ufficio più grato non si fa da parenti alla lor prole11.

6. Vecchierel... sanguinoso: qui, ripresa da una stesura in prosa nello Zibaldone, risalente al 17 gennaio 1826, inizia la presentazione metaforica della vita umana, tradotta nell’immagine del vecchio pallido e canuto (bianco), malato (infermo), con vesti lacere e a piedi nudi (a simboleggiare la miseria dell’uomo nel viaggio della vita), con un pesantissimo carico (gravissimo fascio: i fardelli dell’esistenza) sulle spalle, attraverso monti e valli, tra rocce acuminate, sabbia profonda e cespugli (alta rena e fratte: gli ostacoli e le difficoltà), esposto al vento, alla bufera, al calore infuocato (quando avvampa l’ora) e a quando gela (le condizioni avverse in cui l’uomo vive). La sofferenza è la costante condizione del vecchio che corre, ansima (anela), varca torrenti e paludi, cade, si rialza, e si affretta sempre di più (e più e più), senza riposare e ristorarsi, lacero, insanguinato. Sul piano delle fonti liriche, il vecchierel bianco di Leopardi riprende parzialmente il vecchierel canuto e bianco del Canzoniere di Petrarca. Altre citazioni petrarchesche sono nel verso con gravissimo fascio in su le spalle e nell’immagine del pastore stanco, che rimandano a io son sì stanco sotto il fascio antico e a vecchierel […] dal camino stanco. Leopardi, come Petrarca, si identifica nel vecchierel, sottolineando così ulteriormente l’identificazione, nel Canto notturno, fra poeta e pastore. 7. infin… obblia: il poeta qui descrive la meta del viaggio della vita; infine il vecchio giunge là dove la strada e dove tutta quella fatica erano rivolti: una voragine (abisso) spaventosa, sterminata, in cui egli, precipitando, dimentica tutto. Si tratta del nulla eterno di Ugo Foscolo (Alla sera) e dei materialisti illuministi settecenteschi.

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8. Vergine... mortale: il poeta, tornando a rivolgersi alla luna (detta vergine, cioè “intatta” perché nessuno la può toccare), ribadisce il significato simbolico dell’immagine della corsa forsennata del vecchio, cioè che l’unica meta della vita è la morte, ossia il nulla. La strofa termina con un accumulo di effetti sonori intorno alla rima tale:mortale, con la martellante allitterazione del suono ta (tale / è la vita mortale). Il richiamo fonico è rafforzato dall’enjambement. 9. Nasce… nascimento: l’uomo nasce con fatica e la nascita (nascimento, che richiama, anche a livello fonico, nasce) è rischio mortale per il bimbo e la madre. Il passo si collega forse all’espressione biblica partorirai con dolore, quindi alla condanna della donna e di tutta l’umanità alla sofferenza, dopo la cacciata dall’Eden: ma Leopardi, non credente, ritiene inspiegabile l’esistenza del dolore. Il poeta introduce qui una seconda immagine simbolica dell’essere umano: il neonato. 10. Prova... nato: le prime sensazioni che il neonato avverte sono angoscia e dolore e fin dall’inizio (in sul principio stesso, in quanto il bimbo piange subito dopo la nascita) la madre e il padre cominciano (il prende) a consolarlo di essere nato. 11. Poi… prole: poi, man mano che cresce (poi che crescendo viene), madre e padre (l’uno e l’altro: sottinteso, “genitore”) lo aiutano, e continuamente, con l’esempio e con le parole, cercano di fargli coraggio (studiasi fargli core) e di consolarlo della condizione umana: da parte dei genitori (parenti: è un latinismo), non si può fare opera più gradita (ufficio più grato) ai propri figli.

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Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga?12 Se la vita è sventura perché da noi si dura?13 Intatta luna, tale è lo stato mortale14. Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale15. Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sì pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia16; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante, e perir dalla terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia17. E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo18. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera, a chi giovi l’ardore, e che procacci il verno co’ suoi ghiacci19. Mille cose sai tu, mille discopri, che son celate al semplice pastore20.

12. perché dare... convenga?: perché procreare (dare al sole, ossia “mettere alla luce”) e perché far crescere (reggere in vita) i figli che poi occorre consolare dalla vita stessa? Attraverso la riflessione del pastore, Leopardi sviluppa, anche nei versi successivi, una considerazione strettamente logica (per chi ne accoglie le premesse): essendo la vita dolore, ed essendo la morte annullamento, perché gli uomini perpetuano il loro genere? 13. Se la vita... si dura?: se la vita è una sciagura, perché da parte nostra la si perpetua (perché da noi si dura)? Attraverso le parole del pastore, il poeta si domanda perché gli uomini continuino a procreare figli, dato che la vita è sofferenza. La risposta, in verità, viene data da Leopardi stesso già in un appunto dello Zibaldone (risalente al 19 settembre 1820): In quanto [...] alla figliolanza è certo che la natura ha dettato alcune leggi, o siano di semplice amore e inclinazione libera, o sieno anche sentimenti di dovere [...]; e inoltre: La natura [...] ama la vita, e procura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch’ella esiste e vive. Se la natura amasse la morte, ella non sarebbe (31 ottobre 1823). La procreazione, insomma, è considerata dall’autore un obbligo imposto dalla Natura alle proprie creature, le quali vi si attengono anche se ignorano il senso ultimo dell’esistenza del tutto. 14. Intatta... mortale: l’attributo intatta richiama il termine vergine, prima riferito alla stessa luna. I due versi (37/38 e 57/58) sono quasi identici, come un ritornello. 15. Ma tu... cale: ma tu, luna, non sei un essere mortale, e per questo forse delle cose che vado dicendo poco t’importa. Cale è un latinismo: calet significa “procura calore”. La strofa si conclude ancora con la rima in -ale, che riprende le stesse parole della strofa precedente (tale-mortale); l’aggiunta di una terza rima (cale) proietta l’assenza di significato attribuito alla vita umana nell’indifferenza della luna e del cosmo.

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16. Pur tu... che sia: ma (pur) tu, luna, solitaria ed eterna pellegrina, che sei così pensosa, tu forse sai (intendi: la divinizzazione della luna compie, qui, un altro passo avanti) che cosa siano questa nostra vita sulla terra, il nostro soffrire (patir) e il sospirare. L’essere solitaria comporta l’essere pensosa: sulla luna si proietta l’esigenza del pastore (esigenza che qualcuno ha considerato “senso religioso”) di una realtà superiore all’uomo, in grado di rispondere ai suoi angosciosi interrogativi. Per altri, la condizione della luna riflette quella del poeta che, in solitudine, pensa e contempla. Le anafore di tu e che sia danno rilievo emotivo all’indagine del pastore. 17. che sia questo... compagnia: sai che cosa sia la morte, questo definitivo impallidire dei volti (questo supremo / scolorar del sembiante), e l’andarsene (perir) dalla terra, e il venir meno alla consueta frequentazione delle persone care. 18. E tu certo... tempo: ma (anche e ha valore avversativo e contrappone la luna eterna all’uomo mortale) tu, luna, certamente (certo riprende il forse dell’inizio della strofa) comprendi il senso dell’universo (il perché delle cose) e vedi l’utilità (vedi il frutto) del mattino, della sera, del silenzioso infinito scorrere del tempo. Le considerazioni del pastore (e, dunque, del poeta) si spostano ora dalla vita umana all’esistenza del cosmo. 19. Tu sai... ghiacci: tu certamente (è sottinteso il verbo “sai”) a quale suo dolce amore sorrida la primavera (personificata in una fanciulla che si fa bella per il suo innamorato), a chi faccia bene (giovi) il caldo bruciante (l’ardore), e che vantaggio porti (che procacci) l’inverno con il suo gelo (ghiacci). 20. Mille cose... pastore: tu, luna, sai mille cose e mille ne scopri (discopri), che sono ignote al semplice pastore. L’anafora di mille enfatizza la differenza fra il pastore e la luna, dal momento che l’aggettivo semplice etimologicamente rimanda all’unità (l’attributo deriva da semel, che in latino significa “una volta sola”, e plecto, “piegare”).

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Spesso quand’io ti miro star così muta in sul deserto piano, che, in suo giro lontano, al ciel confina; ovver con la mia greggia seguirmi viaggiando a mano a mano; e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle?21 che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren?22 che vuol dir questa solitudine immensa?23 ed io che sono?24 Così meco ragiono: e della stanza smisurata e superba, e dell’innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d’ogni celeste, ogni terrena cosa, girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so25. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto26. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell’esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors’altri; a me la vita è male27.

21. Spesso... facelle?: spesso, quando ti contemplo stare così silenziosa sulla pianura deserta che all’estremo orizzonte (giro lontano) confina con il cielo; oppure quando (sottinteso, “ti osservo”: un’altra ellissi) seguire me con il gregge viaggiandomi accanto passo dopo passo (a mano a mano), e quando contemplo le stelle brillare nel cielo, dico fra me meditando: perché tante luci? Letteralmente, facelle significa “piccole fiaccole”; si tratta di un latinismo. In questa parte del discorso alla luna il pastore, dopo aver posto domande sul senso della vita umana e dell’universo, si interroga anche sul senso della vita del singolo uomo. 22. che fa... seren?: perché esiste lo spazio infinito, e l’immenso infinito cielo? Profondo infinito, sottolineato dall’enjambement, richiama la profondissima quiete e l’infinito silenzio de L’infinito. 23. che vuol... immensa?: che significato ha questa immensa solitudine? Il pastore si interroga ora, cioè, sulla solitudine e sulla piccolezza della terra in mezzo agli spazi infiniti. La solitudine immensa e il deserto piano richiamano a loro volta l’immensità e l’ermo colle de L’infinito. 24. ed io che sono?: che cosa sono io, uomo? La serie delle domande metafisiche del pastore, e del poeta, costituisce un climax discendente: perché l’infinito, perché la minuscola terra in esso, perché l’uomo sulla terra? Il pensiero del pastore, che medita in solitudine (così meco ragiono significa “così medito dentro di me”; meco è un latinismo), sembra affaticarsi nel vano tentativo di dare risposta a tali immensi interrogativi.

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25. della stanza... non so: la meditazione del pastore, e di Leopardi, si sofferma ora sul significato complessivo del cosmo (la stanza grandiosa è il padiglione immenso del cielo), della vita in ogni suo aspetto e dell’uomo. L’io poetante afferma di non riuscire a individuare alcuno scopo, alcuna utilità dell’esistenza infinita e grandiosa e delle innumerevoli specie di animali (innumerabile famiglia), né di tanto affannarsi, di tanti e così ininterrotti movimenti d’ogni astro e di ogni cosa terrestre, che girano senza sosta, per ritornare infine là da dove sono partiti. Il passo si riferisce alle rivoluzioni dei pianeti e delle stelle nell’universo e ai cicli naturali sulla terra. La parola famiglia richiama l’immagine foscoliana del carme Dei sepolcri, che si riferisce alla bella d’erbe famiglia e d’animali: Foscolo celebrava però la bellezza e l’armonia della natura, mentre Leopardi sottolinea il mistero delle generazioni chiamate a provare dolore senza saperne lo scopo. 26. Ma tu per certo... tutto: ma tu certamente, luna, fanciulla immortale (il terzo ritorno richiama vergine e intatta), comprendi tutto. 27. Questo io... male: invece io so e sento questo: che dei movimenti eterni degli astri (eterni giri), che della mia fragile esistenza (esser mio frale), forse altri avranno qualche bene o vantaggio (contento), ma per me la vita è dolore (male). Ciò che il poeta conosce con certezza è la propria infelicità (il tema è già sottolineato nell’Ultimo canto di Saffo). La drammatica coincidenza fra esistenza e infelicità è resa con grande effetto emotivo dall’anagramma nascosto nella sentenza finale: a me la vita è male.

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O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai!28 Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ch’ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma più perché giammai tedio non provi29. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, tu se’ queta e contenta; e gran parte dell’anno senza noia consumi in quello stato30. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, e un fastidio m’ingombra la mente, ed uno spron quasi mi punge sì che, sedendo, più che mai son lunge da trovar pace o loco31. E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto32. Quel che tu goda o quanto, non so già dir; ma fortunata sei33. Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno34. Se tu parlar sapessi, io chiederei: dimmi: perché giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale; me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?35

28. O greggia... non sai!: mio gregge che riposi (posi), oh te felice, perché penso che tu non conosca la tua misera condizione. Il pastore cambia interlocutore, rivolgendosi alle proprie pecore: per bocca sua, il poeta invidia la condizione animale, in quanto inconsapevole. Il tema della coincidenza del massimo dolore con la massima sensibilità e grandezza d’animo – dunque con la più elevata condizione umana – è ampiamente sviluppato nello Zibaldone e nelle Operette morali. 29. Non sol... provi: non ti invidio solo perché sei quasi libero da angosce, poiché subito dimentichi ogni sofferenza, ogni male, ogni più grave (estremo) timore, ma ancora di più ti invidio perché non provi mai la noia (ossia, il disgusto verso la vita). Il climax ascendente, scandito dai tre ogni, enumera in ordine di gravità, dal minore al maggiore, i mali che insidiano l’uomo. Tedio, pur essendo usato da Leopardi quasi come sinonimo di noia, ha un’accezione in parte diversa; il termine deriva dal latino e significa “disgusto”; quindi contiene anche la sensazione del dolore e la accentua (su un piano psicologico, corrisponde allo stato mentale ed emotivo che oggi è clinicamente definito come “depressione”). 30. Quando tu siedi... stato: quando tu, gregge, te ne stai sdraiato all’ombra, sull’erba, sei in pace e contento della tua condizione e trascorri in questo stato gran parte dell’anno senza annoiarti. Noia proviene dal provenzale

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enoja e dal verbo enojar, che deriva dal tardo latino inodiare: “aver in odio”. Leopardi la identifica con un sentimento di odio per la realtà e la vita. 31. Ed io pur... loco: anch’io mi pongo sull’erba, all’ombra, ma un disagio (fastidio) mi invade la mente e l’inquietudine mi tormenta quasi come un pungolo, così che, fermandomi (sedendo), sono lontano più che mai dal trovare pace o riposo. Compare un chiasmo nel secondo emistichio (all’ombra, sovra l’erbe / sovra l’erbe, all’ombra), rafforzato dalle allitterazioni basate sui fonemi b e r. 32. E pur nulla... pianto: eppure non desidero niente e non ho alcun motivo di lamentarmi. In tale condizione, come Leopardi annota nello Zibaldone, l’uomo sente in generale la propria infelicità nativa e questo è quel sentimento che si chiama noia (8 marzo 1824). In altre precedenti annotazioni, l’autore identifica la noia con il puro nulla e la definisce intollerabile (26 ottobre 1821). 33. Quel che tu... sei: io non so dire come tu provi piacere (goda) o quanto, ma tu, gregge, sei fortunato. 34. Ed io godo... lagno: io, mio gregge, provo ben poco piacere (godo ancor poco), né mi lamento solo di questo. 35. Se tu parlar... assale?: se tu sapessi parlare, io ti chiederei: dimmi, perché stando comodamente in riposo, in ozio, ogni animale è contento, invece io, se mi fermo a riposare, vengo assalito dalla noia?

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Forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna36. O forse erra dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero37: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale38. da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

36. Forse... luna: forse se io potessi avere le ali (rilevante l’allitterazione delle sibilanti s con eco fonica ave-ale: s’avessi l’ale) in modo da volare sulle nuvole e contare (noverar è latinismo da numerare) le stelle una per una, o come il tuono vagare di monte in monte, sarei più felice, dolce mio gregge; sarei più felice, bianca luna. Il pastore torna qui, infine, a rivolgersi alla luna. La ripetizione dell’emistichio più felice sarei sottolinea la doppia dubitativa. A L’infinito rimandano i verbi sedendo e mirando che compaiono, separati, nella penultima (v. 120) e nell’ultima strofa (v. 140). 37. O forse... pensiero: o forse il mio pensiero, meditando sul destino degli altri, si inganna, allontanandosi dalla verità (erra dal vero). Benché attenuandola con il dubbio, il poeta si accinge qui a esprimere, nella sua forma più radicale, la concezione del “pessimismo cosmico”, manifestata anche nello Zibaldone e nelle Operette morali: ogni es-

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sere vivente è nato solo per soffrire e ne ignora il motivo. 38. forse in qual forma... natale: forse in qualsiasi forma e in qualsiasi condizione si presenti, in una tana (covile d’animale) o in una culla (cuna d’uomo), il giorno della nascita è luttuoso (funesto) per chiunque nasca. Con l’anafora dell’avverbio forse Leopardi attenua l’ipotesi di infelicità totale per qualsiasi essere vivente, indipendentemente dal suo grado di consapevolezza, presente nella chiusa del Canto notturno. La concezione filosofica espressa è, comunque, lontanissima dalle tesi di canzoni filosofiche come Alla primavera o delle favole antiche e Inno ai Patriarchi (entrambi risalenti al 1822) in cui condizioni primitive (rispettivamente, degli antichi Greci ed Ebrei), paragonabili a quella del pastore, erano ritenute lontane dalla moderna infelicità, in quanto l’uomo del passato viveva nell’antico “stato di natura”, ricco di illusioni.

inee di analisi testuale Interrogativi senza risposta Il rivolgersi alla luna, costante dei Canti, è elemento profondamente romantico. Qui, il dialogo fra pastore e luna verte sulle domande ultime, metafisiche, che sono senza risposta (il testo comprende più di dieci punti interrogativi). Il vecchio e il neonato Il vecchierel – che sul piano letterario è una ripresa da Petrarca – è un simbolo dell’uomo che si affanna, corre e infine precipita nel baratro del nulla: il viaggio errante è la metafora della vita umana e della sua inutilità. Parallelamente l’immagine, ancora simbolica, del neonato conduce alla stessa conclusione: la nascita è infatti rischio di morte, inizia col pianto e i genitori consolano il bambino di esser nato. Leopardi svela quello che a suo avviso è l’inganno maligno della Natura, la quale fa sì che gli uomini tendano alla conservazione della specie e alla vita, anche se questa è sventura. La luna come dea, simbolo della natura Leopardi attribuisce alla luna personificata in dea la conoscenza di cose ignote all’uomo e ripete più volte le domande metafisiche sull’universo e sulla vita umana. Ma la luna non può rispondere: il pastore si affanna e, come il protagonista del Dialogo della Natura e di un Islandese (per cui cfr. pag. 824), conosce una sola cosa: il proprio dolore. Il pessimismo cosmico Nella penultima strofa il pastore cambia interlocutore e si rivolge al gregge, che vive senza porsi domande e perciò è meno infelice, così come meno infelici sono gli uomini ignari della propria condizione esistenziale (il tema è sviluppato nelle Operette morali): il pastore invidia quell’incoscienza. La strofa finale (con il dubbio che il giorno della nascita sia comunque funesto per ogni essere animato: concezione cardinale del pessimismo cosmico del poeta) contiene la ripetizione di forse, avverbio che, contrapposto al certo riferito alla luna nella strofa precedente, evidenzia la distanza fra la luna e il poeta, le certezze del cosmo e i dubbi dell’uomo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del Canto notturno (max 30 righe). 2. Aiutandoti con le note, scrivi la parafrasi del testo. 3. Elenca le principali domande filosofiche espresse nel Canto notturno. Analisi e interpretazione 4. Quali sono i principali passaggi tematici del componimento? 5. Quali sono le figure retoriche che hanno importanza fondamentale nel testo e perché? 6. In quali passi riconosci elementi romantici, in quali caratteri propri del materialismo illuministico e quale strofa evidenzia l’imminente affermazione del pessimismo cosmico nel pensiero del poeta? Approfondimenti 7. Riferisciti a dialoghi con la luna presenti in altre opere letterarie a te note (anche, se vuoi, a testi di canzoni), sintetizzane uno o più e sviluppa un confronto di contenuti, ispirazione e messaggi con il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi. 8. Leggi la seguente riflessione di Leopardi: La morte non è male: perché libera gli uomini da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza (da Pensieri, VI, Mondadori, Milano, 1993).

Riflettendo sul contenuto del passo, e confrontandolo con quello del Canto notturno e con altri testi dell’autore, tratta sinteticamente (in circa 40 righe) il seguente argomento: La consapevolezza della propria condizione esistenziale nell’uomo secondo Leopardi.

T8 La quiete dopo la tempesta da Canti, XXIV La quiete dopo la tempesta è scritta a Recanati fra il 17 e il 20 settembre 1829, ed edita a Firenze nel 1831. È incentrata su un tema nodale del pensiero leopardiano: il rapporto piacere-dolore, fondamento della felicità. Schema metrico: tre strofe libere di endecasillabi e settenari, con rime occasionali. PISTE DI LETTURA • La condizione dell’uomo • La sostanza della felicità • Tono finale prevalentemente ironico

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Passata è la tempesta: odo augelli1 far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso. Ecco il sereno rompe là da ponente, alla montagna; sgombrasi la campagna, e chiaro nella valle il fiume appare2.

1. augelli: uccelli. 2. Ecco… appare: ecco il cielo azzurro, senza nubi (il sereno) irrompe (rompe; il verbo indica la velocità con cui avanza il sereno, la cui improvvisa apparizione è sottoli-

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neata dall’avverbio Ecco) là da occidente (ponente) verso (alla) la montagna; si libera, si apre la campagna e il fiume appare luminoso (chiaro).

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Ogni cor si rallegra, in ogni lato3 risorge il romorio torna il lavoro usato4. L’artigiano a mirar5 l’umido6 cielo, con l’opra7 in man, cantando, fassi8 in su l’uscio; a prova9 vien fuor la femminetta10 a còr11 dell’acqua della novella piova12; e l’erbaiuol13 rinnova di sentiero in sentiero il grido giornaliero14. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride per li poggi15 e le ville16. Apre i balconi, apre terrazzi e logge17 la famiglia18: e, dalla via corrente19, odi lontano tintinnio di sonagli; il carro stride del passeggier che il suo cammin ripiglia20. Si rallegra ogni core. Sì21 dolce, sì gradita quand’è, com’or22, la vita? Quando con tanto amore l’uomo a’ suoi studi intende23? o torna all’opre24? o cosa nova imprende?25 quando de’ mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d’affanno; gioia vana, ch’è frutto del passato timore26, onde27 si scosse28 e paventò29 la morte chi la vita abborria30; onde in lungo tormento31, fredde, tacite, smorte, sudàr le genti e palpitàr32, vedendo mossi alle nostre offese folgori, nembi e vento33.

3. in ogni lato: dovunque, da ogni parte. 4. usato: consueto. 5. mirar: guardare, ma con tutta la carica evocativa di questo verbo. 6. umido: per la pioggia. 7. opra: l’oggetto a cui lavorava. 8. fassi: si affaccia. 9. a prova: a gara. 10. femminetta: vezzeggiativo per casalinga, donna del popolo. 11. còr: raccogliere. 12. novella piova: recente pioggia. 13. erbaiuol: erbivendolo ambulante. 14. rinnova… giornaliero: riprende per i viottoli (di sentiero in sentiero) il grido di richiamo di tutti i giorni (giornaliero). 15. poggi: colline. 16. ville: borghi e case sparpagliate per le colline. 17. logge: gallerie con vetrate. 18. famiglia: la servitù, ma anche gli abitanti della casa. 19. via corrente: via maestra. 20. il carro… ripiglia: cigola (stride) il carro del viaggiatore (passeggier) che riprende (ripiglia) il suo viaggio.

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Manoscritto autografo de La quiete dopo la tempesta, 1829. Napoli, Biblioteca Nazionale.

21. Sì: così. 22. com’or: cioè quando torna il sereno dopo il cattivo tempo. 23. a’… intende: si dedica alle sue occupazioni. 24. torna all’opre: ritorna al lavoro interrotto. 25. o… imprende?: o addirittura incomincia una nuova attività. 26. Piacer… timore: piacere figlio del dolore (figlio d’affanno; l’ellissi del predicato verbale dà un valore sentenzioso e apodittico all’affermazione); illusoria (vana) felicità (gioia) che deriva (è frutto) dalla cessazione del dolore e della paura (passato timore). 27. onde: a causa di questo timore. 28. si scosse: si turbò. 29. paventò: temette. 30. abborria: odiava. 31. lungo tormento: continua angoscia. 32. fredde… palpitàr: agghiacciati (fredde), muti (tacite), pallidi (smorte) gli uomini (le genti) sudarono freddo (sudàr) e tremarono (palpitàr). 33. mossi… vento: scatenati contro di noi (mossi alle nostre offese) fulmini (folgori), e tempeste di pioggia (nembi) e di vento (vento).

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O natura cortese34, son questi i doni tuoi, questi i diletti sono che tu porgi35 ai mortali. Uscir di pena è diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano36; il duolo37 spontaneo38 sorge: e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta nasce d’affanno, è gran guadagno39. Umana prole40 cara agli eterni41! assai felice se respirar ti lice d’alcun dolor: beata se te d’ogni dolor morte risana42. da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

34. O natura cortese: apostrofe fortemente ironica e sarcastica. 35. porgi: offri. 36. a larga mano: a piene mani, con generosità. 37. duolo: dolore. 38. spontaneo: naturalmente, in quanto connaturato all’uomo. 39. e di… guadagno: quel poco di felicità (piacer) che per

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prodigio (mostro) e miracolo a volte scaturisce (nasce) dal dolore (affanno), è un grande acquisto (guadagno). 40. Umana prole: genere umano. 41. eterni: divinità. 42. assai… risana: abbastanza (assai) felice se ti è concesso (ti lice) di liberarti di qualche male: felice veramente (beata) se la morte ti guarisce (risana) da tutti i mali (d’alcun dolor).

inee di analisi testuale Struttura in due segmenti L’idillio è composto di momenti descrittivi e momenti riflessivi, distribuiti in due soli segmenti: la prima parte delinea un quadro idillico-descrittivo (prima strofa), da cui trae spunto la seconda parte per svolgere considerazioni di tipo filosofico-meditativo. Se, a livello testuale, il momento idillico precede quello filosofico, sul piano creativo il secondo precede il primo: le scene iniziali del borgo che si rianima dopo la tempesta non sono dati realistici di partenza, ma esemplificazioni anticipate del principio leopardiano del piacer figlio d’affanno. Il quadro “idillico” della prima strofa La descrizione è giocata sul piano acustico. Il rianimarsi del paese è colto attraverso i suoi rumori: l’artigiano che canta, il grido quotidiano dell’erbaiolo, la percezione del sereno indotta dal verso della gallina. Il quotidiano non è visto ma udito, immaginato attraverso una visione interna, che attiva la memoria. La descrizione della vita che riprende nel borgo dopo la tempesta allude alla poesia che rinasce dall’interiorità e dal dolore in Leopardi (dopo il silenzio poetico di qualche anno). Anche le immagini di movimento (l’erbaiolo che grida di sentiero in sentiero, il viandante che riprende il cammino) alludono al percorso poetico. Dopo la tempesta dei sentimenti, dunque, la quiete festosa della poesia. Il piacere figlio d’affanno Nei primi versi della seconda strofa il ritmo brillante e il succedersi delle rime, spesso baciate, descrivono la felicità di chi ritorna alle proprie attività o intraprende un nuovo progetto o ha appena superato una difficoltà, una disgrazia o una malattia. Poi subentra la riflessione, e il ritmo si fa più spezzato, più lento, con una sola rima. Leopardi afferma che la felicità è sentimento effimero, che nasce da una momentanea interruzione del dolore e del timore. Il piacere è illusorio: non appartiene al presente, ma al futuro, in quanto speranza e attesa, e al passato, in quanto memoria. Nell’ultima strofa la teoria del piacer figlio d’affanno viene ripresa nel quadro di una riflessione sulla natura, alla quale il poeta si rivolge in modo ironico, chiamandola cortese per aver dispensato tali doni e tali diletti agli uomini. La struttura dei versi smaschera la pretesa generosità della natura, che dispensa invece soltanto dolore. La conclusione, amaramente sarcastica e insieme paradossale, è che l’uomo è caro alla natura perché destinatario di brevi e illusori stralci di felicità, mentre la vera soluzione dei suoi mali è la morte.

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Comprensione 1. Parafrasa La quiete dopo la tempesta, aiutandoti con le note. 2. Riassumi il testo in circa 15 righe. Analisi e interpretazione 3. Analizza l’idillio dal punto di vista stilistico-formale, ricercando in particolare le figure retoriche e motivandone l’uso da parte dell’autore. 4. Distingui, nel componimento, la parte idillica e la parte filosofica, indicando le funzioni che svolgono e il rapporto che le lega. 5. Rispondi alle seguenti domande (max 6 righe per ogni risposta). a. Il componimento è basato su ciò che il poeta vede e sente o su ciò che il poeta ricorda? Motiva la tua risposta. b. Che cosa significa l’espressione Piacer figlio d’affanno? c. Perché, secondo Leopardi, la natura è crudele? Approfondimenti 6. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: L’illusione della felicità secondo le tesi espresse nel componimento La quiete dopo la tempesta.

T9 Il sabato del villaggio da Canti, XXV Il sabato del villaggio, scritto fra il 20 e il 29 settembre 1829, viene pubblicato nel 1831. Simile a La quiete dopo la tempesta per i temi (la felicità illusoria, le condizioni che attenuano il dolore, l’accusa alla Natura) e la struttura (una prima parte idillico-descrittiva, una seconda parte filosofico-meditativa), se ne differenzia per la conclusione filosofica. Schema metrico: strofe libere di endecasillabi e settenari, con sporadiche rime e rime al mezzo. PISTE DI LETTURA • L’illusione della felicità • La speranza e la giovinezza • Il paesaggio come specchio delle emozioni

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La donzelletta1 vien dalla campagna, in sul calar del sole, col suo fascio dell’erba; e reca in mano un mazzolin di rose e di viole, onde2, siccome suole, ornare ella si appresta dimani, al dì di festa, il petto e il crine3.

1. donzelletta: fanciulla, giovane donna; qui il termine allude a una giovane contadina che viene dalla campagna; dal provenzale donsela (latino dominicella, vezzeggiativo di domina, signora). 2. onde: con cui. Fin dai primi versi, si alternano, perfetta-

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vv. 1-7 La fanciulla torna dalla campagna al tramonto, con il suo fascio di fieno, e porta in mano un mazzolino di rose e di viole, con cui, come sempre fa, ella si prepara a ornare il seno e i capelli domani, [domenica], giorno di festa.

mente amalgamate, espressioni di derivazione classica e letteraria e termini semplici e di uso comune (ad esempio, un mazzolin di rose e di viole). 3. il crine: i capelli. Il termine è un latinismo (da crinis, “capello”).

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Siede con le vicine su la scala a filar4 la vecchierella, incontro là dove si perde il giorno5; e novellando vien6 del suo buon tempo, quando ai dì della festa ella si ornava, ed ancor sana e snella solea7 danzar la sera intra di quei ch’ebbe compagni dell’età più bella8. Già tutta l’aria imbruna, torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre giù da’ colli e da’ tetti, al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno della festa che viene; ed a quel suon diresti che il cor si riconforta. I fanciulli gridando su la piazzuola in frotta, e qua e là saltando, fanno un lieto romore: e intanto riede alla sua parca mensa, fischiando, il zappatore, e seco pensa al dì del suo riposo9.

vv. 8-30 Con le vicine la vecchietta siede sulla scala a filare, rivolta alla luce del giorno che finisce; e va raccontando della sua età giovanile, quando anch’ella si ornava coi fiori nei giorni di festa, e ancora sana e snella era solita la sera danzare con coloro che furono suoi amici nell’età più bella. Ora tutta l’aria si fa più scura, ridiventa azzurro intenso il cielo, e le ombre scendono giù dai colli e dai tetti, al biancheggiar della luna recente. Già la campana dà l’annuncio della festa imminente ed a quel suono si direbbe che il cuore si rianimi. I fanciulli, gridando e saltando qua e là sulla piccola piazza, a gruppi, fanno un lieto chiasso: e intanto torna alla sua modesta cena, fischiettando, il contadino, e dentro di sé pensa al giorno del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face, e tutto l’altro tace, odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e s’affretta, e s’adopra di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba10.

vv. 31-37 Quando poi intorno è spenta ogni altra luce, e tutto il resto [del villaggio] è in silenzio, si odono i colpi del martello e il rumore della sega del falegname, che veglia nella bottega chiusa, al lume della lampada, e si affretta per cercare di completare la sua opera prima che appaia il chiarore dell’alba.

Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia11: diman tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno12.

vv. 38-42 Il sabato è il preferito dei giorni della settimana, poiché è ricco di speranza e di gioia: domani il tempo porterà tristezza e noia ed ognuno dentro di sé tornerà a pensare al faticoso lavoro abituale.

4. su la scala a filar: si tratta della scala esterna antistante la casa. Filar significa “filare”, ossia ricavare fili da una matassa. 5. incontro... giorno: rivolta a occidente, dunque al tramonto. Il riferimento è estremamente poetico: la vecchierella (il termine è di derivazione petrarchesca), vicina alla fine della vita, guarda la zona del cielo in cui il sole scompare. 6. novellando vien: va raccontando. L’inversione dei due termini accentua la voluta impressione di ripetitività, ottenuta con l’uso di due verbi anziché del solo presente indicativo. 7. solea: era solita. L’espressione richiama il suole della donzelletta (v. 5) e sottolinea il carattere abitudinario dei riti del sabato e il rapporto passato/presente. Il buon tempo è la gioventù. 8. intra… bella: fra coloro che furono amici e coetanei della giovinezza. L’espressione età più bella richiama buon tempo e pone la gioventù al centro dell’attenzione del lettore. 9. Già… riposo: mirabile descrizione, che parte dalla natura e giunge all’uomo, della ricerca della pace al tramonto del sabato. Calano le ombre della sera; il cielo ritorna azzurro cupo e scendono sulla terra (giù) le ombre delle colline e delle case (tetti è metonimia), alla luce bianca della luna che sorge. Il passo riprende espressioni delle Bucoliche di Virgilio. La campana (squilla) annuncia (dà segno) l’imminente domenica e si direbbe (diresti qui ha valore impersonale) che il cuore si rianimi (si riconforta). Subito

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dopo, i fanciulli saltano qua e là in gruppo (in frotta); infine, tornano a casa gli adulti, rappresentati dal contadino (il zappatore) che raggiunge la sua modesta cena (mensa). 10. Poi… alba: poi quando intorno ogni altro lume (face, letteralmente “fiaccola”, è un latinismo) è spento e dovunque c’ è silenzio, si sentono (odi, seconda persona singolare con funzione impersonale) i colpi del martello del falegname (legnaiuol); nella bottega egli è ancora sveglio (veglia) e si affretta e affatica (adopra) per finire (fornir) il lavoro (opra) prima dell’alba (anzi il chiarir dell’alba): il polisindeto (e... e) traduce l’ansia del falegname, che vuole raggiungere la pace sperata della domenica. 11. Questo... gioia: il sabato (Questo) è il giorno preferito della settimana, perché è ricco di speranza e gioia. Inizia qui la transizione alla riflessione filosofica conclusiva, secondo cui, come più volte il poeta annota sullo Zibaldone, l’attesa e la speranza di una felicità futura attenuano il dolore. Il concetto non è lontano da quello espresso anche in Alla luna. 12. diman... ritorno: domani (alla domenica) il tempo porterà tristezza e noia e ognuno (ciascuno) tornerà con la mente (in suo pensier farà ritorno) al consueto (usato) faticoso lavoro (travaglio è un francesismo). Il chiasmo speme-gioia / tristezza-noia indica l’opposizione fra il sabato e la domenica. La strofa si conclude in modo simmetrico alla precedente.

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Garzoncello scherzoso, cotesta età fiorita è come un giorno d’allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo’; ma la tua festa ch’anco tardi a venir non ti sia grave.13

vv. 43-51 Ragazzo giocoso, questa tua età in fiore è come un giorno pieno d’allegria: un giorno chiaro, sereno, che precede il giorno di festa della tua vita [cioè il tuo futuro di adulto]. Sii felice, fanciullo mio; questa tua [gioventù] è una dolce condizione, una lieta età. Non voglio dirti altro; ma non ti sia di peso il fatto che tardi a venire la domenica della tua vita.

da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

13. Garzoncello... grave: rivolgendosi all’allegro giovanetto (Garzoncello scherzoso), il poeta sviluppa appieno la sua riflessione filosofica. La gioventù è il sabato e la festa attesa con speranza è l’avvenire, l’età adulta dominata dalla ragione che fa scoprire l’arido vero della condizione umana, ossia, la identificazione della vita con tristezza e noia. Il momento della fine della gioventù coincide dunque (come la domenica) con la disillusione: il poeta invita perciò i giovani a non avere rincrescimenti se l’età adulta

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(la tua festa) tarda a venire. Il tema filosofico leopardiano del rapporto fra fine della gioventù e venir meno della speranza è espresso anche in A Silvia. Il termine usato riferito al lavoro ripropone il tema dell’abitudine; la noia, che spesso Leopardi indica nemica dell’uomo come e più del dolore, deriva dal termine provenzale enuja (“rifiuto di qualcosa”), ed ha significato simile al latino taedium (“disgusto”), utilizzato dal poeta in altri testi quasi come suo sinonimo.

inee di analisi testuale Il sabato e La quiete a confronto L’idillio mostra, come La quiete dopo la tempesta, una prima parte idillico-descrittiva, qui piuttosto ampia (versi 1-37), cui segue una seconda parte filosofico-meditativa, qui particolarmente sintetica e incisiva (ultimi 14 versi). Ci sono altre differenze: La quiete dichiara l’illusorietà della felicità umana in quanto figlia d’affanno, cioè fatta soltanto di brevi e occasionali interruzioni del dolore; Il sabato afferma che la felicità è solo come speranza nel futuro. Essa consiste nell’attesa, nel sabato che precede la festa, nella giovinezza che precede la vita: la domenica (ovvero la festa della vita) non è che tristezza e noia. In questo idillio Leopardi individua dunque una condizione (sviluppata anche, nelle Operette morali, nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere) che attenua il dolore nella mente dell’uomo semplice. La donzelletta e la vecchierella Il tema centrale de Il sabato – la giovinezza come vigilia d’attesa della vita e, perciò, unico suo momento di felicità – è subito rappresentato dal parallelismo fra la donzelletta e la vecchierella: la prima è viva, in movimento, la seconda intenta a narrare, rivolta al tramonto. La vecchierella rappresenta l’orientamento verso il passato, la donzelletta quello verso il futuro: questa porta un mazzolin di rose e viole per il giorno festivo, cioè per il domani, quella ricorda i passati preparativi per il giorno festivo. Di fatto sono una sola figura di donna, colta nelle due dimensioni temporali della giovinezza e della vecchiaia, del futuro e del passato, della speranza e del ricordo. La conclusione filosofica Attraverso una comparazione, Leopardi instaura un’analogia fra la vita e la settimana, e spiega a un ipotetico fanciullo che la giovinezza (definita con il termine petrarchesco cotesta età fiorita) è come il sabato che preannuncia ciò che il ragazzo crede sarà la festa della sua vita. Ma il passaggio all’età adulta, all’uso della ragione, gli svelerà il vero destino umano: l’infelicità fatta di dolore e noia. L’unica attenuazione dell’infelicità è nella speranza della giovinezza: una illusione, ma il garzoncello (vezzeggiativo, affettuosamente ironico come donzelletta e vecchierella) non lo sa, e vuole invece crescere in fretta perché crede di poter realizzare i propri sogni. La gioventù è dunque il momento meno triste dell’esistenza, perché fatto di attesa, che poi inesorabilmente si tramuterà in disillusione.

Recanati in un disegno del conte Augusto Mazzagalli, amico di Leopardi.

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Comprensione 1. Aiutandoti con le note e la parafrasi, riassumi Il sabato del villaggio. 2. Rispondi alle domande seguenti (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono i personaggi che compaiono nell’idillio? b. A quale dei personaggi il poeta si rivolge direttamente e che cosa gli dice? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Quali sono i due principali momenti tematici del componimento? b. A che cosa sono paragonati il sabato e la domenica e quale considerazione filosofica deriva dalla comparazione fra la settimana e la vita? c. Per quale aspetto sono accomunate e per quale aspetto sono distinte donzelletta e vecchierella? d. Quale messaggio, attraverso i versi indirizzati al garzoncello scherzoso, il poeta rivolge ai lettori? e. Con che cosa viene identificata la “domenica della vita”? Approfondimenti 4. Leggi lo stralcio dallo Zibaldone di Leopardi che riguarda gli stessi temi del Sabato del villaggio e confronta le idee in esso espresse con quelle che hai tu in proposito. Poi scrivi (in circa tre colonne di metà foglio protocollo) le tue conclusioni. Il giovane innanzi la propria esperienza, per qualunque insegnamento udito o letto, di persone stimate da lui o no, amate o disamate, credute o non credute ec. non si persuaderà mai efficacemente che il mondo non sia una bella cosa, né deporrà [...] l’opinione favorevolissima e, nel fondo del cuore, fermissima, della possibilità, anzi probabilità di esser felice pigliando parte alla vita, all’azione ec. Perché? [...] Altrimenti sarebbe estirpabile la natura stessa, la quale ha provveduto di speranza alla fanciullezza e alla gioventù, e agguagliato colla speranza il desiderio di quelle età (15 settembre 1823).

Focus

IL “CICLO DI ASPASIA”: A SE STESSO

Il linguaggio, sobrio ed essenziale, del Canto notturno, anticipa quello della successiva produzione anti-idillica di Leopardi. Il breve A se stesso (1833) è il componimento più significativo del “ciclo di Aspasia” (cui appartengono, fra gli altri, Il pensiero dominante e Amore e morte), ispirato all’amore infelice per Fanny Targioni Tozzetti. Le poesie di questo ciclo sono incentrate sui temi dell’amore e della morte, affrontati da Leopardi con lucida e risoluta volontà di introspezione e definizione filosofica, ed espressi con un lirismo anti-idillico, votato cioè all’essenzialità dei concetti, al pensiero puro, alla riflessione nuda, scabra, aspra e scandita dal ritmo cupo dei rejets (enjambements troncati da un punto). Riportiamo, di seguito, il testo integrale di A se stesso: Or poserai per sempre, stanco mio cor. Perì l’inganno estremo, ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, in noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento. Posa per sempre. Assai palpitasti. Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra. Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. T’acqueta omai. Dispera l’ultima volta. Al gener nostro il fato non donò che il morire. Omai disprezza te, la natura, il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera, e l’infinita vanità del tutto. da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

Il componimento è basato sulla morte delle speranze e sul desiderio dei cari inganni, cioè delle illusioni amorose. L’ultimo verso (e l’infinita vanità del tutto) è una allusione al biblico Ecclesiaste scelta forse per evidenziare l’inevitabile disperazione che sorge davanti alla concezione nichilistica della vita e della realtà.

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T10 La ginestra o il fiore del deserto da Canti, XXXIV Composta a Torre del Greco nel 1836, La ginestra è pubblicata a Firenze nell’edizione postuma del 1845 dei Canti. È il testamento poetico di Leopardi, ed è perciò posta a conclusione dei Canti per espressa volontà dell’autore, anche se cronologicamente è anteriore alla sua ultima composizione, Il tramonto della luna. Nei versi de La ginestra, infatti, confluiscono i significati più alti, umanamente impegnati e profondi del pensiero leopardiano. Schema metrico: sette strofe libere di endecasillabi e settenari, con occasionali rime e rime interne. PISTE DI LETTURA • L’arido paesaggio vulcanico, la condizione umana, le premesse della solidarietà • La ginestra, la bellezza e la poesia nella sintesi del pensiero dell’autore • Tono discorsivo, che sviluppa tesi filosofiche attraverso varie soluzioni espressive E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce1. Giovanni, III, 19

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Qui su l’arida schiena2 del formidabil monte sterminator Vesevo, la qual null’altro allegra arbor né fiore, tuoi cespi solitari intorno spargi, odorata ginestra, contenta dei deserti3. Anco ti vidi de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade che cingon la cittade la qual fu donna de’ mortali un tempo, e del perduto impero par che col grave e taciturno aspetto

1. E gli uomini... luce: la citazione dal vangelo di Giovanni, riferita a Cristo, è qui inserita con ben diverso significato rispetto a quello religioso: la luce cui l’autore allude sono infatti i “lumi” della ragione settecenteschi; le tenebre si riferiscono al pensiero ottimista e spiritualista dell’Ottocento, che li rifiuta. 2. arida schiena: pendice del monte resa infeconda (arida) dall’eruzione vulcanica. L’episodio cui il poeta più volte si riferisce riguarda la distruzione di Pompei, Ercolano e Stabia, avvenuta nel 79, a opera del Vesuvio (Vesevo è un latinismo). Il Qui iniziale sottintende il fatto che Leopardi, negli ultimi anni di vita, si trovava frequentemente presso quei luoghi; la personificazione (del vulcano, schiena e sterminator) è ampiamente usata nel testo. Il Vesuvio è metafora della Natura, crudele e indifferente al destino delle proprie creature.

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vv. 1-12 Qui, sulle infeconde pendici del tremendo vulcano sterminatore Vesuvio, le quali non sono rallegrate da nessun altro albero né fiore, tu diffondi intorno i tuoi cespugli solitari, profumata ginestra, paga dei luoghi deserti. Ti vidi anche abbellire con i tuoi fiori le solitarie contrade che circondano la città [di Roma], la quale un tempo fu dominatrice degli uomini, e sembra che esse, col mesto e silenzioso aspetto [delle rovine],

3. la qual... deserti: il pronome la qual è complemento oggetto riferito a schiena. Vengono qui introdotti due simboli centrali del componimento. La ginestra, che fiorisce portando la bellezza nei luoghi più aridi, è simbolo del poeta stesso, della propria filosofia e della poesia; il deserto è simbolo della condizione e della vita umana, destinata all’infelicità. Il linguaggio è ricco di latinismi: formidabil, ad esempio, deriva dal latino formido, “paura”, e significa appunto “che suscita paura”. Il Vesuvio, che spesso sembra rappresentare la Natura stessa o la sofferenza e la morte (cui la Natura è indifferente), è un altro protagonista de La ginestra. L’espressione odorata (“profumata”) ginestra occupa un intero settenario ed ha perciò una spiccata evidenza. La ginestra è collocata in un’atmosfera di indefinitezza, grazie all’abolizione dell’articolo (tuoi steli) e all’uso del plurale (deserti).

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faccian fede e ricordo al passeggero4. Or ti riveggo in questo suol, di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante, e d’afflitte fortune ognor compagna5. Questi campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell’impietrata lava, che sotto i passi al peregrin risona; dove s’annida e si contorce al sole la serpe, e dove al noto cavernoso covil torna il coniglio; fur liete ville e colti6, e biondeggiàr di spiche, e risonaro di muggito d’armenti; fur giardini e palagi, agli ozi de’ potenti gradito ospizio; e fur città famose che coi torrenti suoi l’altero monte dall’ignea bocca fulminando oppresse con gli abitanti insieme7. Or tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola8. A queste piagge venga colui che d’esaltar con lode il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

4. Anco... passeggero: la ginestra abbellisce anche le rovine di Roma, città (cittade) che un tempo fu dominatrice (donna è latinismo da domina) del mondo e ora ha perduto ogni importanza. Nelle solitarie (erme) contrade, le rovine sembrano ricordare al viaggiatore il suo glorioso passato e, nel contempo, ammonire sulle caratteristiche effimere del trionfo nella storia umana. Il tema del tempo che tutto travolge riapparirà anche in altri passi del componimento. 5. Or... compagna: la ginestra è vicina (compagna) a chi vive nei luoghi desolati e, sola, ha la forza di crescere come fiore del deserto. 6. Questi campi... colti: la rappresentazione del misero aspetto dei luoghi devastati dalla lava, regno di serpi e conigli, lascia improvvisamente il posto al ricordo di città (ville) e campi coltivati (colti) che, al tempo dello splendore di Pompei, rendevano il luogo fra i più ricchi e rinomati. La figura dell’antitesi, qui come altrove nel testo, è ampiamente usata: essa dà voce al conflitto fra le illusioni umane e l’arido vero della condizione dei mortali. Il termine dove è da riferire a campi; l’attributo noto (“abituale”), sottolineando la continuità della vicenda, la rende più angosciante. L’avverbio ora e l’aggettivo dimostrativo questi (questi campi) hanno la funzione di riportare nel presente il passato, non evocato attraverso le rovine ma ricostruito attraverso l’immaginazione: è un caso esemplare di “rappresentazione in assenza”, tipica della contemplazione poetica. 7. e biondeggiàr... insieme: un’altra antitesi. La prima scena ha come sfondo l’aspetto splendido e spensierato dei luoghi prima dell’eruzione; anch’essi sono personificati, come attesta il fatto che i soggetti sono campi (che regge biondeggiàr, ossia “biondeggiarono”), case e palazzi (palagi) e che gli uomini che ne fecero uso nell’ozio appaiono in secondo piano; la seconda, ad essa contrapposta, ha per

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vv. 13-39 siano testimonianza e ricordo del perduto impero [romano] al viandante. Ora, [ginestra] amante dei luoghi infelici e abbandonati dal mondo umano e perenne compagna delle sventure, ti rivedo su questo suolo. Questi campi coperti di infeconde ceneri [vulcaniche] e di lava diventata pietra, che risuona sotto i passi del viaggiatore, dove si annida e si contorce alla luce del sole il serpente e dove il coniglio torna alla nota buca che gli fa da tana, [un tempo] furono liete città e campi coltivati biondeggianti di spighe, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e palazzi che ospitarono gradevolmente i potenti in tempo di ozio; e furono città famose che il superbo vulcano seppellì insieme agli abitanti, con i torrenti di fuoco [della lava e con la cenere] fulmineamente scagliati dal cratere. Ora, tutto intorno la rovina ricopre questi luoghi, dove tu cresci, fiore gentile, e, quasi compiangendo l’altrui sciagura, innalzi al cielo un dolcissimo profumo che consola il deserto. Venga in questi luoghi chi suole esaltare e vantare la condizione umana, e guardi come

protagonista il vulcano, portatore di morte, che tutto distrugge con il suo cratere (bocca) che emette fuoco (ignea: uno fra i molti latinismi) coprendo ogni cosa in un istante, come una divinità avversa (fulminando), insieme agli uomini che vivevano in quei luoghi. Il rejet precede la ripresa del dialogo con la ginestra, accentuando la drammaticità dell’accaduto. L’iterazione del passato remoto (fur) e il polisindeto (e dove… e colti, e biondeggiar… e risonaro… e palagi… e fur) conferiscono un ritmo drammatico, che sottolinea il contrasto fra il passato e il tragico e desolato presente, introdotto nei versi successivi (Or tutto intorno una ruina involve). Altra connotazione caratterizzata da antitesi è quella fra il muggire degli armenti della Pompei antica (risonaro / di muggito d’armenti) e quello dei passi del viandante odierno sulla lava (che sotto i passi al peregrin risona): mentre nel passato il suono era prodotto da animali allevati dall’uomo, nel presente esso proviene dalla materia inorganica, l’impietrata lava. Questo immaginare, senza poterle vedere, le città antiche completamente sepolte dalla lava, richiama la visione de L’infinito attivata dall’ostacolo della siepe; la ginestra – cui Leopardi tornerà a rivolgersi nei successivi versi – rappresenta lo sguardo del poeta e il profumo che la ginestra emette è consolatore, come quello della parola poetica. 8. Or tutto intorno... consola: il poeta torna a rivolgersi alla ginestra. Essa è caratterizzata da due aspetti: la pietà (i danni altrui / commiserando) e la bellezza, simboleggiata dal profumo, elevato al cielo, quasi per consolare la misera condizione (la ruina e il deserto) dell’uomo e degli esseri viventi. Il verbo “sedere” (siedi significa “stai”) rimanda all’espressione sedendo de L’infinito, per cui il profumo della ginestra rappresenta la funzione consolatrice della poesia e il poeta stesso.

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è il gener nostro in cura all’amante natura9. E la possanza qui con giusta misura anco estimar potrà dell’uman seme, cui la dura nutrice, ov’ei men teme, con lieve moto in un momento annulla in parte, e può con moti poco men lievi ancor subitamente annichilare in tutto10. Dipinte in queste rive son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive11.

vv. 40-51 il nostro genere sta a cuore all’amorevole Natura. E qui, in giusto modo, potrà verificare anche la potenza dell’uomo, che la crudele Natura matrigna, quando egli meno lo sospetta, con un leggero movimento [del terreno] può in parte sterminare in un istante e può, con movimenti poco meno lievi, sterminare completamente. In questo luogo sono raffigurate le sorti magnifiche e progressive del genere umano.

Qui mira e qui ti specchia, secol superbo e sciocco, che il calle insino allora dal risorto pensier segnato innanti abbandonasti, e volti addietro i passi, del ritornar ti vanti, e procedere il chiami12. Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti, di cui lor sorte rea padre ti fece, vanno adulando, ancora ch’a ludibrio talora t’abbian fra sé. Non io con tal vergogna scenderò sotterra;

vv. 52-64 Vieni qui e rispecchiati qui, secolo [contemporaneo] superbo e sciocco, che hai abbandonato il cammino tracciato fino al tuo avvento dal pensiero rinato [del Settecento illuminista] e, rivolti indietro i passi, ti vanti del tuo ritorno e lo chiami avanzata. Tutti i pensatori [ottocenteschi] di cui la loro sventurata sorte ti rese padre, esaltano i tuoi infantili pensieri, sebbene talora fra sé ti deridano. Io non morirò con la vergogna di averti adulato;

9. A queste piagge... natura: il poeta invita a visitare i luoghi devastati dall’eruzione chi ha una concezione ottimista del destino umano (colui che d’esaltar con lode / il nostro stato ha in uso), per rendersi conto di come la natura si cura dell’uomo. L’espressione amante natura (natura che ama il gener nostro, ossia l’uomo) è amaramente ironica. Il verbo vegga significa “veda” ed è congiuntivo esortativo. Il viandante (qui sostituito, con tono polemico, da un colui, riferito al pensatore ottimista dell’Ottocento che nega ciò che secondo il poeta è indiscutibile alla luce della ragione) è testimone e protagonista di un viaggio inteso come conoscenza, esperienza e visione (come suggerisce la paronomasia assonante venga-veggia). La visita, in forma di visione immaginata, fa sì che il viaggiatore, simbolo dell’uomo, possa rendersi conto dell’indifferenza e della malvagità della Natura, il cui statuto di matrigna (dura nutrice), che tende all’annullamento dei suoi figli, è posto in risalto da rime e rime interne (cura:natura:misura:dura). Soltanto la vista, dunque, delle rovine di Roma e del vulcano può rendere consapevole l’uomo di quanto sia illusorio il progresso (le magnifiche sorti e progressive con cui si conclude la strofa) e di quanto sia nemica e crudele la Natura. 10. E… tutto: e potrà anche (anco) valutare (estimar) in modo esatto (con giusta misura) la potenza (possanza) del genere umano (uman seme), che (cui) la spietata nutrice (dura nutrice), la Natura, quando (ove) meno sospetta (men teme), in un attimo (in un momento) con un solo leggero movimento (con lieve moto) distrugge (annulla) in parte e può, con un movimento poco meno leggero (moti poco men lievi), annientare completamente (annichilare in tutto). 11. Dipinte... progressive: sono dipinti gli straordinari (magnifiche) destini (sorti) di progresso (progressive) dell’umanità (umana gente). Il verso è ripreso dall’introduzione agli Inni sacri di Terenzio Mamiani (1799-1885) che parla di sorti magnifiche e progressive dell’umanità. Attraverso il tono fortemente ironico, Leopardi realizza una parodia dell’espressione di Mamiani: l’effetto è accentuato

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dalla rima fra progressive e rive (“luoghi”), termine riferito al paesaggio ridotto a un deserto dall’eruzione del Vesuvio. Terenzio Mamiani, legato al gruppo dei liberali fiorentini, partecipò ai moti del 1831, fu imprigionato ed esiliato a Parigi; scrisse in seguito opere filosofiche e versi di scarso rilievo, fra cui l’opera cui qui si riferisce Leopardi. Nel 1833 il suo inno Ai Patriarchi era stato recensito sulla rivista degli spiritualisti napoletani “Il progresso” dal poligrafo Raffaele Liberatore che l’aveva ritenuto più poetico, anche perché più ottimistico, della canzone filosofica, con analogo titolo, di Leopardi. Dopo la morte del poeta, Mamiani fu ministro della Pubblica Istruzione con Cavour e docente universitario. Il suo indirizzo mirava a conciliare l’idealismo moderato e progressista di impronta idealista e liberale con il pensiero cattolico, all’insegna di un fondamentale ottimismo sulle sorti dell’umanità. 12. Qui mira... il chiami: la strofa inizia rivolgendosi a una nuova personificazione, l’Ottocento, definito secol superbo e sciocco. L’accusa principale che il poeta rivolge al proprio secolo è di avere abbandonato la strada (calle) tracciata dall’Illuminismo settecentesco (il risorto pensier) e di ritornare agli errori del passato (volti addietro i passi), considerando tale svolta un progresso (procedere). Presupposti della parte polemica della Ginestra sono una serie di duri attacchi degli spiritualisti napoletani, orientati al liberalismo e a una concezione ottimistica del progresso umano. In particolare, Saverio Baldacchini ed Emidio Cappelli, in alcune opere e riviste, accusavano in quegli anni Leopardi di prendere a pretesto le proprie personali disgrazie, considerate situazione del tutto eccezionale, per abbandonarsi a vili ed inutili lamentazioni (così Cappelli nella rivista “Il progresso”). Il poeta polemizza soprattutto con l’esaltazione della condizione umana, sostenuta dagli ottimisti, cui contrappone la convinzione della miseria dell’uomo e dell’indifferenza che caratterizza la Natura nei confronti delle sue creature, come dimostra ciò che accadde alle città situate presso il Vesuvio, esempio su cui Leopardi invita il secolo a riflettere (Qui mira e qui ti specchia).

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ma il disprezzo piuttosto che si serra di te nel petto mio, mostrato avrò quanto si possa aperto: ben ch’io sappia che obblio preme chi troppo all’età propria increbbe. Di questo mal, che teco mi fia comune, assai finor mi rido13. Libertà vai sognando, e servo a un tempo vuoi di novo il pensiero, sol per cui risorgemmo della barbarie in parte, e per cui solo si cresce in civiltà, che sola in meglio guida i pubblici fati14. Così ti spiacque il vero dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci diè. Per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli vil chi lui segue, e solo magnanimo colui che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, fin sopra gli astri il mortal grado estolle15.

13. Al tuo pargoleggiar... mi rido: i versi, rivolti alla personificazione dell’Ottocento, configurano ancora un’antitesi, espressa con ampio uso dell’ironia. Il secolo XIX è accusato di esprimere un pensiero infantile e di delirare come un bimbo (pargoleggiar) sostenendo che l’umanità è destinata a grande futuro; gli intellettuali (gl’ingegni tutti) del tempo (di cui lor sorte rea ti fece padre è espressione sarcastica) adulano (vanno adulando) tali concezioni. Ad esse il poeta si contrappone (Non io / con tal vergogna scenderò sotterra), pur sapendo che chi esprime opinioni diverse da quelle dei propri contemporanei rischia di essere ignorato (l’oblio): tale oblio (questo mal) lo lascia indifferente (assai finor mi rido) e, comunque, sarà condiviso con l’intero secolo (teco mi fia comune: teco e fia sono latinismi). L’inizio del periodo sintattico (Non io) testimonia un titanismo maturo e misurato. L’espressione finor qui significa “fin da ora”; troppo significa “oltre misura”. 14. Libertà... pubblici fati: una prima accusa mossa all’Ottocento è sognare la libertà e, nel contempo, volere asservito nuovamente il pensiero (il razionalismo illuminista settecentesco) per esclusivo merito del quale l’umanità è rinata dalle tenebre. In questo passo come in altri successivi, la concezione giovanile del “pessimismo storico” viene capovolta: là si accusava la ragione illuminista per aver svelato la vera e misera condizione umana, cancellando le illusioni del passato; qui, invece, la ragione è lodata e viene considerato vile ogni atteggiamento che rifiuta la triste verità e si fonda su sogni e illusioni. A livello stilistico, l’espressione Libertà vai sognando è una solenne e ironica ripresa del dantesco Libertà va cercando, riferito a Catone nel Purgatorio. In particolare, qui Leopardi denuncia la contraddizione di quanti (soprattutto i Romantici) predicano i valori della libertà, e poi rinnegano, in nome dello spiritualismo, quel pensiero razionale dell’“età dei lumi”

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vv. 65-86 ma mostrerò il più possibile apertamente il disprezzo nei tuoi confronti che ho nel petto, pur sapendo che è atteso dalla dimenticanza [dei posteri] colui che fu troppo sgradito al proprio tempo. Di questa dimenticanza dei posteri, sciagura che avrò in comune con te [o Ottocento] fin da ora non mi curo affatto. Tu vai sognando la libertà, e nel contempo vuoi di nuovo rendere schiavo il pensiero [illuminista], il solo per cui in parte ci sollevammo dalla barbarie [medievale], e il solo per cui si cresce nella civiltà, la quale sola guida verso un futuro migliore il destino dei popoli. Allo stesso modo non volesti accettare la verità riguardante la dura sorte e il basso grado che la natura ci diede. Perciò, vilmente, volgesti le spalle alla luce [della ragione] che lo rivelò: e mentre fuggi, definisci vile chi fa propria tale verità, e magnanimo soltanto colui che, ingannando follemente se stesso o astutamente gli altri, innalza la condizione degli uomini fino alle stelle.

che ha affrancato l’umanità dalle superstizioni (sol per cui risorgemmo / della barbarie). La lucida investigazione del vero è la sola garanzia di progresso civile e culturale (per cui solo / si cresce in civiltà) e l’unico mezzo per governare le nazioni (che sola in meglio / guida i pubblici fati); l’anafora solo-sola scandisce il ritmo ed enfatizza la contrapposizione. 15. Così... estolle: l’argomentazione, rigorosamente razionale, rappresenta uno sviluppo della tesi precedente. Fondando il proprio pensiero sui sogni, l’Ottocento rifiuta la realtà e la verità (il vero) della infelice e infima condizione umana, di cui ha colpa solo la Natura (l’aspra sorte e il depresso loco che natura ci dié). Perciò, il secolo volge le spalle (tergo) alla luce (lume) della ragione e considera vile chi lo segue; esalta invece chi magnifica il destino umano (fin sopra gli astri il mortal grado estolle). L’avverbio vigliaccamente significa “vilmente”; la scelta di una parola di stile “basso” è dovuta alla volontà di sottolineare la bassezza morale del secolo e anche a una ragione ritmica. Al quinario vigliaccamente, nel primo emistichio dell’endecasillabo, corrisponde il settenario magnanimo colui, con un parallelismo antitetico. Qui Leopardi sviluppa i temi della polemica con la rivista “Il progresso”: quei contemporanei, che per viltà non vogliono riconoscere l’infelicità della condizione umana, si credono magnanimi e tacciano di vigliaccheria coloro che, come Leopardi, non credono nel mito ottimistico. La vera magnanimità, invece, per il poeta, consiste nel guardare in faccia la realtà; coloro che esaltano la condizione umana sono pusillanimi che ingannano se stessi o gli altri per follia o per astuzia. Si ricordi che Leopardi dagli avversari napoletani era stato accusato di “viltà” per aver consolato le proprie personali disgrazie inventandosi una filosofia pessimistica riguardante tutti gli uomini.

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Uom di povero stato e membra inferme che sia dell’alma generoso ed alto, non chiama sé né stima ricco d’or né gagliardo, e di splendida vita o di valente persona infra la gente non fa risibil mostra; ma sé di forza e di tesor mendico lascia parer senza vergogna, e noma parlando, apertamente, e di sue cose fa stima al vero uguale. Magnanimo animale non credo io già, ma stolto, quel che nato a perir, nutrito in pene, dice, a goder son fatto, e di fetido orgoglio empie le carte, eccelsi fati e nove felicità, quali il ciel tutto ignora, non pur quest’orbe, promettendo in terra a popoli che un’onda di mar commosso, un fiato d’aura maligna, un sotterraneo crollo distrugge sì, che avanza a gran pena di lor la rimembranza16. Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale; quella che grande e forte mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire fraterne, ancor più gravi d’ogni altro danno, accresce alle miserie sue, l’uomo incolpando del suo dolor, ma dà la colpa a quella

16. Uom... rimembranza: il pensiero del poeta è ribadito attraverso un apologo. Se un uomo è di bassa condizione economica (povero stato) e malato (di membra inferme), ma è di animo nobile, non si finge ricco né sano (gagliardo), né ostenta (fa… mostra) in pubblico (infra la gente) in modo ridicolo (risibil) di avere un alto tenore di vita (splendida vita) e un fisico robusto (valente persona). Si tratta di una dittologia: Leopardi dovette ricordarsi dei versi di Alfieri: Uom di sensi e di cor libero nato / fa di sé tosto inevitabil mostra. Al contrario (ancora un’antitesi), senza vergogna si mostra (sé... lascia parer) e si dichiara (noma) per ciò che è e in modo veritiero (al vero uguale). Non reputo (credo) uomo (animale) magnanimo colui che invece, nato per morire (perir) e vissuto nel dolore (in pene), afferma (dice) di essere stato creato per il piacere e riempie i suoi scritti (carte) di parole improntate a superbia spregevole, annunciando (promettendo) la realizzazione sulla terra (in terra) di splendidi destini (eccelsi fati) e

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vv. 87-123 Un uomo di misera condizione sociale e malato, se è generoso e nobile nell’animo, non si definisce né pensa di essere ricco in denaro e fisicamente forte, e non fa ridicola mostra, fra la gente, di vita sfarzosa o di fisico atletico; ma, senza vergognarsene, mostra di essere debole di forze e privo di denaro, e apertamente chiama e valuta la propria condizione per quella che è realmente. Io non credo [che sia] magnanimo essere umano, ma stolto, colui che, nato per morire e nutrito dalle sofferenze, dice di essere stato generato per il piacere e scrive pagine e pagine per esibire spregevole orgoglio, promettendo destini stupendi e felicità senza precedenti, ignote non solo sulla terra ma persino in tutto l’universo, a popoli che un’ondata di mare sconvolto, una maligna epidemia, un terremoto possono distruggere fino a lasciare di loro a malapena il solo ricordo. Natura nobile è quella di chi osa sollevare gli occhi dei mortali per guardare in faccia il comune destino, e che, con parole sincere, non nascondendo la verità, riconosce il male che ci toccò in sorte, e la nostra condizione di esseri deboli e fragili; quella che si mostra grande e forte nel sopportare la sofferenza, e non aggiunge alle proprie miserie l’odio e l’ira del fratello, ancora più gravi di ogni altra sventura, incolpando l’uomo del proprio dolore; ma ne dà colpa alla Natura,

straordinarie felicità (nove felicità), che non solo (non pur) la terra (orbe) ma finanche l’universo (il ciel tutto) non conosce (ignora), ai popoli che, invece, un solo maremoto (un’onda di mar commosso), una sola pestilenza (un fiato d’aura maligna; secondo altri, un ciclone), un solo terremoto (sotterraneo crollo) distrugge in modo che a stento (gran pena) ne resta una qualche memoria (rimembranza). L’uomo, dunque, non deve nascondere, ma mostrare la sua reale condizione, contrapponendosi alla superbia dei contemporanei, i quali affermano, contro ogni evidenza, che l’uomo è stato creato per essere felice ed è destinato a un radioso futuro (eccelsi fati). Singolare è il fatto che in questi versi, come nell’intero componimento, la polemica di Leopardi è rivolta contro chi si illude sul destino del genere umano sulla terra e non tocca il tema della possibile esistenza di Dio, tema sul quale, nello Zibaldone, come osserva Divo Barsotti, si incontrano annotazioni anche contrastanti.

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che veramente è rea, che de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna17. Costei chiama inimica; e incontro a questa congiunta esser pensando, siccome è il vero, ed ordinata in pria l’umana compagnia, tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune. Ed alle offese dell’uomo armar la destra, e laccio porre al vicino ed inciampo, stolto crede così qual fora in campo cinto d’oste contraria, in sul più vivo incalzar degli assalti, gl’inimici obbliando, acerbe gare imprender con gli amici, e sparger fuga e fulminar col brando infra i propri guerrieri18. Così fatti pensieri quando fien, come fur, palesi al volgo, e quell’orror che primo contra l’empia natura strinse i mortali in social catena, fia ricondotto in parte da verace saper, l’onesto e il retto conversar cittadino, e giustizia e pietade, altra radice avranno allor che non superbe fole,

17. Nobil natura... matrigna: nobile natura è quella dell’uomo che osa accettare e dichiarare la bassa condizione (basso stato) e l’infelicità del destino umano né aggiunge, aumentandole, alle sue miserie (né… accresce alla miserie sue) l’odio e l’ira contro gli altri uomini (odii e ire fraterne), sentimenti ancora più dannosi di qualsiasi altra sofferenza (ancor più gravi d’ogni altro danno), dando la colpa della sua infelicità all’uomo. Questo uomo nobile attribuisce ogni male alla Natura, colei che è realmente colpevole (veramente è rea), che è per gli uomini madre in quanto li genera (de’ mortali madre è di parto) e matrigna in quanto vuole la loro infelicità (di voler matrigna). Secondo il poeta, è assurdo promettere eterna e duratura felicità di fronte all’esempio di interi popoli distrutti in un nonnulla da calamità naturali e al rischio della possibile estinzione del genere umano, già ipotizzata nelle Operette morali (in particolare, nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, 1824). A questo ottimismo, che è frutto di viltà, Leopardi contrappone la nobiltà (nobil natura) di chi ha il coraggio di affrontare il destino e denunciare con franchezza la condizione di infelicità e fragilità dell’uomo. Il magnanimo dimostra di essere tale nella sofferenza, se è capace di non dare la colpa della propria infelicità agli altri uomini e di evitare perciò di aggiungere alle proprie sfortune anche quelle che derivano dall’odio fraterno. Qui l’autore sembra aver lucidamente individuato il meccanismo psichico detto della “ricerca del capro espiatorio”, oggetto di studio della psicologia contemporanea.

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vv. 124-154 vera colpevole, che per i mortali è madre per nascita ma matrigna per volontà. Egli chiama costei nemica: e pensando, come è vero, che l’umanità si sia unita e organizzata fin da principio contro la Natura, ritiene tutti gli uomini alleati fra loro per questo scopo e tutti li abbraccia con vero amore, porgendo ed attendendo valido aiuto, nei molteplici pericoli e nelle difficoltà della comune guerra contro di lei. E crede stolto armare il braccio per colpire un uomo e tendere trappole al vicino, così come lo sarebbe, in un accampamento circondato dall’esercito nemico, nel momento in cui più incalzano gli assalti, combattere i propri amici, volgendo in fuga e colpendo con la spada i propri guerrieri, dimenticandosi dei nemici. Quando siffatti pensieri diventeranno (come lo furono un tempo) evidenti a tutti gli uomini e quando sarà ricondotto in parte fra gli uomini, dalla conoscenza della verità, quel timore verso la crudele Natura che per la prima volta unì i mortali nel legame del patto sociale, [allora] l’onestà e la rettitudine della convivenza civile, la giustizia e la pietà avranno ben altra radice che superbe favole,

18. Costei... guerrieri: proprio questa (Costei: la Natura) chiama nemica; e pensando, come è vero (siccome è il vero), che l’umanità (umana compagnia) si è unita fin dalla sua origine (in pria) per difendersi dalla natura (è qui ripresa la teoria illuminista del “patto sociale”), considera (estima) tutti gli uomini stretti fra loro da un patto di solidarietà e tutti abbraccia con amore reale e sincero, offrendo (porgendo) e attendendo (aspettando) efficace e tempestivo (valida e pronta) aiuto (aita) nei diversi pericoli (alterni perigli) che minacciano ora gli uni ora gli altri e nelle sofferenze (angosce) della guerra comune contro la Natura, e ritiene (crede: il soggetto è sempre la nobil natura) comportamento sciocco (stolto) armarsi (armar la destra) per attaccare (alle offese) un altro uomo e ordire insidie per danneggiare e ostacolare (laccio porre) i vicini, così come sarebbe altrettanto sciocco (così qual fora) chi, trovandosi in un accampamento o, secondo altri, in un campo di battaglia (in campo) circondato dall’esercito nemico (cinto d’oste contraria), proprio nel (in sul) momento dell’attacco (incalzar) più violento e aspro (più vivo), dimenticando (obbliando) i nemici (inimici), ingaggiasse (imprender) una dura lotta (acerbe gare) con i propri compagni (amici) e uccidesse e seminasse la paura colpendo i suoi soldati (guerrieri). Nel paragone è espresso, con grande lucidità razionale, il fondamento del solidarismo etico leopardiano, che (come più oltre viene chiarito dall’autore) si fonda sul pensiero illuminista.

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ove fondata probità del volgo così star suole in piede quale star può quel ch’ha in error la sede19.

vv. 155-157 sulle quali l’onestà degli uomini si regge come può farlo chi poggia su errati fondamenti.

Sovente in queste rive, che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par che ondeggi, seggo la notte; e su la mesta landa in purissimo azzurro veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, cui di lontan fa specchio il mare, e tutto di scintille in giro per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, ch’a lor sembrano un punto, e sono immense, in guisa che un punto a petto a lor son terra e mare veracemente; a cui l’uomo non pur, ma questo globo ove l’uomo è nulla, sconosciuto è del tutto; e quando miro quegli ancor più senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo e non la terra sol, ma tutte in uno, del numero infinite e della mole, con l’aureo sole insiem, le nostre stelle o sono ignote, o così paion come essi alla terra, un punto di luce nebulosa; al pensier mio che sembri allora, o prole dell’uomo?20 E rimembrando il tuo stato quaggiù, di cui fa segno il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte, che te signora e fine credi tu data al Tutto, e quante volte favoleggiar ti piacque, in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

vv. 158-191 Io, spesso, di notte, mi fermo presso questi territori desolati che le onde impietrite della lava, che pare ondeggiare, ricoprono e rendono scuri; e sul triste terreno desertico vedo le stelle splendere dall’alto nel purissimo azzurro, al quale da lontano fa da specchio il mare, e vedo l’universo brillare tutto intorno di scintille per la vuota serenità celeste. E quando dirigo gli occhi a quelle luci [stellari], che sembrano loro un punto, e sono [invece] immense, così che un punto a loro paragone sono in realtà la terra e il mare; e ad esse non solo l’uomo, ma anche questo pianeta, su cui l’uomo è nulla, è del tutto sconosciuto; e quando guardo [le nebulose] per così dire agglomerati di stelle infinitamente lontani ancora di più, che ci sembrano nebbia, ai quali non solo l’uomo e la terra, ma tutte insieme, infinite in numero e grandezza, col sole d’oro, le nostre stelle o sono ignote, o appaiono così come essi alla terra, ossia un punto di luce confusa; che cosa sembri allora al mio pensiero, o genere umano? E ricordando la tua condizione [mortale] quaggiù, di cui è testimonianza il suolo della terra su cui cammino; e poi, in contrapposizione a ciò, il fatto che tu credi di essere dominatore e scopo di tutto l’universo, e [il pensiero di] quante volte ti piacque illuderti che i creatori del mondo siano scesi su questo oscuro granello di sabbia che ha nome terra,

19. Così fatti... la sede: solo quando questi princìpi (pensieri) saranno (fien), come una volta furono (fur), chiari ed evidenti (palesi) alla massa degli uomini (volgo), ripristinando – con l’uso della ragione – quel terrore della natura che spinse gli individui a unirsi, allora (allor) l’onestà (l’onesto) e la lealtà (il retto) della civile convivenza (conversar cittadino: la politica) insieme con (e) la giustizia e la solidarietà avranno ben altro (altra) fondamento (radice) che non le fantasie (fole) tracotanti (superbe, in quanto sostengono la superiorità e la felicità dell’uomo) che non portano risultato come ogni cosa che si fonda su un errore (ha in error la sede). Qui il poeta espone la sua inedita concezione solidaristica in forma ampia e con una logica filosofica razionale paragonabile a quella che predomina nelle Operette morali. 20. Sovente... dell’uomo?: la strofa inizia con un mirabile passaggio di gusto romantico, strutturato a climax ascendente, che dalle desolate pendici del Vesuvio ricoperte da un fiume di lava pietrificata (indurato), attraver-

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so lo sguardo del poeta, risale alle stelle splendenti in cielo, rispetto alle quali l’uomo e il suo mondo sono cosa da nulla, e alle nebulose, definite per così dire (quasi) agglomerati (nodi) di stelle, rispetto a cui il sistema solare e le nostre stelle sono di dimensione insignificante, e si conclude, attraverso un’interrogativa retorica, sulla reale importanza del genere umano (prole dell’uomo). Sul piano stilistico, all’immagine del riflesso fra cielo e mare non è estranea probabilmente la reminiscenza di un sonetto di Marino, ambientato proprio a Napoli e dedicato a tale tema. L’avverbio veracemente occupa gran parte di un settenario, accampandosi isolato e lapidario, contro l’iterazione dei verbi sembrare e parere (vv. 168, 177, 181, 184), a cui si oppongono anche i verbi sono e son (vv. 169 e 170), a indicare il contrasto fra apparenza e realtà, fra la molteplicità delle apparenze e l’unica verità: la nullità dell’uomo (perentoriamente affermata dall’anafora in chiasmo del verbo essere nei versi 173-174: l’uomo è nulla / sconosciuto è del tutto).

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per tua cagion, dell’universe cose scender gli autori, e conversar sovente co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi sogni rinnovellando, ai saggi insulta fin la presente età, che in conoscenza ed in civil costume sembra tutte avanzar; qual moto allora, mortal prole infelice, o qual pensiero verso te finalmente il cor m’assale? Non so se il riso o la pietà prevale21.

vv. 192-201 per occuparsi di te e che abbiano conversato spesso con i tuoi simili; e [il pensiero] che, rinnovando tali sogni derisi [dall’età illuminista], perfino il secolo presente, che per conoscenza e civiltà sembra superare tutti gli altri, offende e insulta i saggi [che smentiscono tali falsi miti]; quale sentimento allora o quale pensiero, infelice discendenza umana, mi prende infine il cuore nei tuoi confronti? Non so se prevalga la derisione o la pietà.

Come d’arbor cadendo un picciol pomo, cui là nel tardo autunno maturità senz’altra forza atterra, d’un popol di formiche i dolci alberghi, cavati in molle gleba con gran lavoro, e l’opre e le ricchezze che adunate a prova con lungo affaticar l’assidua gente avea provvidamente al tempo estivo, schiaccia, diserta e copre in un punto; così d’alto piombando, dall’utero tonante scagliata al ciel profondo, di ceneri e di pomici e di sassi notte e ruina, infusa di bollenti ruscelli o pel montano fianco furiosa tra l’erba di liquefatti massi e di metalli e d’infocata arena scendendo immensa piena, le cittadi che il mar là su l’estremo lido aspergea, confuse e infranse e ricoperse in pochi istanti: onde su quelle or pasce la capra, e città nove sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

vv. 202-228 Come, cadendo da un albero, un piccolo frutto che nel tardo autunno è attratto a terra dalla sola forza della sua maturazione, schiaccia e distrugge le dimore per loro care di una popolazione di formiche, scavate con gran lavoro nel molle terreno, e seppellisce in un istante le opere e le ricchezze che la laboriosa comunità aveva radunato a gara con lunga fatica durante l’estate; così, piombando dall’alto, scagliata nel cielo dalle viscere della terra, una tempesta buia come la notte di ceneri, di pietre e di sassi, mista ad infuocati ruscelli [di lava] o un’immensa piena che scendeva distruttrice fra l’erba dal fianco del vulcano, composta da macigni liquefatti, di metalli e di sabbia rovente, in pochi istanti travolse, distrusse e seppellì le città che il mare bagnava sulla costa lontana: per cui, sul terreno [dove sorgevano le città] ora bruca la capra, e nuove città sorgono sull’altro lato, cui fungono da fondamento,

21. E rimembrando... prevale: una serie di riflessioni, riferite non alla realtà esterna, ma alle vicende umane, fa seguito alla conclusione riguardante la fragilità dell’uomo e la sua dimensione incommensurabilmente piccola rispetto all’universo. Protagonista non ne è lo sguardo ma il ricordo (rimembrando significa “ricordando”). Esso si rivolge al genere umano (la prole dell’uomo) e si riferisce alla testimonianza della terra calpestata (allusione alla biblica immagine dell’uomo fatto di fango e che ritornerà polvere con la morte), all’illusione della discendenza umana (te… credi, è sempre riferito a prole dell’uomo) di ritenersi destinata (data) signora e fine dell’universo (Tutto), al fatto che molte volte l’umanità si è compiaciuta (ti piacque) di narrare favole (favoleggiar) secondo cui i creatori dell’universo (dell’universe cose… gli autori) sarebbero in questo buio granello di sabbia che si chiama Terra a parlare (conversa-

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re) piacevolmente con i mortali per amore verso di loro (per tua cagion) e che perfino (fin) il nostro secolo (presente età), che sembra superare (avanzar) tutti gli altri secoli in scienza (conoscenza) e civiltà (civil costume), rinnovando (rinnovellando) le fantasie ormai screditate (derisi sogni: l’autore allude alla critica illuministica dei falsi miti spiritualistici) offende i saggi (ai saggi insulta, sottinteso: che tuttora smentiscono tali miti). La conclusione è un duplice sentimento (moto): la derisione (riso) di origine razionale, e la pietà, di origine emotiva. Il pensiero ha un ritmo incalzante e ossessivo grazie alla struttura ipotattica (ossia, basata su subordinate, qui scandite dai relativi che e cui) e agli enjambements (che accompagnano la concatenazione dei concetti). La dimensione insignificante dell’uomo è resa con grande efficacia poetica, contrapponendolo a realtà sempre più infinitamente grandi.

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son le sepolte, e le prostrate mura l’arduo monte al suo piè quasi calpesta22. Non ha natura al seme dell’uom più stima o cura che alla formica: e se più rara in quello che nell’altra è la strage, non avvien ciò d’altronde fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde23.

vv. 229-236 le [città] sepolte, e il terribile monte [Vesuvio] quasi calpesta al suo piede le mura demolite. La Natura non si preoccupa del genere umano più che delle formiche: e se la strage è più infrequente in quello che fra queste, ciò avviene soltanto perché l’uomo ha una discendenza meno feconda [e numerosa].

Ben mille ed ottocento anni varcàr poi che spariro, oppressi dall’ignea forza, i popolati seggi, e il villanello intento ai vigneti, che a stento in questi campi nutre la morta zolla e incenerita, ancor leva lo sguardo sospettoso alla vetta fatal, che nulla mai fatta più mite ancor siede tremenda, ancor minaccia a lui strage ed ai figli ed agli averi lor poverelli. E spesso il meschino in sul tetto dell’ostel villereccio, alla vagante aura giacendo tutta notte insonne, e balzando più volte, esplora il corso del temuto bollor, che si riversa dall’inesausto grembo su l’arenoso dorso, a cui riluce di Capri la marina e di Napoli il porto e Mergellina24. E se appressar lo vede, o se nel cupo del domestico pozzo ode mai l’acqua

vv. 237-259 Trascorsero ben milleottocento anni da quando scomparvero le popolose città, cancellate dalla potenza del vulcano, e il giovane contadino che bada ai vigneti, nutriti a stento in queste zone dalla terra resa sterile dalle ceneri, ancora leva con sospetto lo sguardo alla vetta del cratere che porta la morte, la quale, non diventata affatto più mite, ancora sorge spaventosa, ancora minaccia strage a lui ed ai figli ed ai loro poveri possedimenti. E spesso il misero, giacendo tutta la notte sul tetto della dimora rustica al soffio dei venti, insonne, e più volte sobbalzando, esplora il corso delle temute lave, che si riversano dal cratere del vulcano ancora attivo lungo le pendici sabbiose, ai cui riflessi risplendono la marina di Capri, il porto di Napoli e Mergellina. E se vede il corso della lava avvicinarsi, o se nel fondo del pozzo di casa sente l’acqua

22. Come… calpesta: con grande efficacia sia espositiva, sia poetica, il tema della nuova strofa è sviluppato attraverso una similitudine di respiro omerico (al Come del v. 202 corrisponde il così del verso 212). Il parallelismo prende avvio da un piccolo frutto (pomo) che (cui), in autunno, nessuna altra causa (senz’altra forza) se non l’essere giunto a maturazione (maturità) fa cadere a terra (atterra), in un momento (punto), e il frutto schiaccia, distrugge (diserta) e seppellisce (copre) le amate case (dolci alberghi: qui inizia la personificazione degli insetti, osservati con l’affetto che caratterizza il “pessimismo cosmico” leopardiano) scavate (cavati) nel molle terreno (gleba) con grande e faticoso lavoro (gran lavoro) e le costruzioni (opre) e le provviste (ricchezze) che il laborioso popolo delle formiche (assidua gente) aveva ammassato (avea adunate) a gara (a prova) con tenace impegno (lungo affaticar) e con previdenza (provvidamente) nel periodo estivo (al tempo estivo); così notte e rovina di ceneri e sassi mista a ruscelli di lava incandescente (bollenti ruscelli), cadendo dall’alto dopo essere stata eruttata (scagliata) verso il cielo sconfinato (al ciel profondo) dal ventre che manda boati (utero tonante; la parola utero conferisce al vulcano un’identità femminile che allude al grembo della natura matrigna), o un’immensa fiumana (piena) di sassi e di metalli liquefatti e di sabbia (arena) infuocata, precipitando dai fianchi del Vesuvio, sconvolse (confuse), distrusse (infranse) e seppellì (ricoperse) in un attimo (in pochi istanti) le città (cittadi) che il mare bagnava (aspergea) là sulla costa lontana (su l’estremo lido), per cui (onde) sull’arido terreno ove esse sorgevano

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ora bruca (pasce) la capra e dall’altra parte (altra banda) sorgono nuove città sulle fondamenta di quelle sepolte (a cui sgabello son le sepolte) e l’alto monte sembra calpestare (quasi calpesta: un’altra personificazione) le mura abbattute (prostrate) che si trovano ai suoi piedi (al suo piè). 23. Non… feconde: isolata da un punto per sottolinearne l’importanza, il poeta presenta ora la conseguenza della comparazione tra uomo e formica, con un gusto del tremendo che accosta il passo alla sensibilità romantica. La natura non ha maggiore considerazione (stima) o attenzione (cura) per l’umanità (seme dell’uom) di quelle che ha per le formiche. E se la distruzione (strage) è più rara nell’uomo che nelle formiche, ciò dipende unicamente dal fatto che (non avvien ciò d’altronde) l’uomo si riproduce meno (sue prosapie han men feconde). La rima interna fra natura e cura sottolinea l’insensibilità della natura. 24. Ben… Mergellina: milleottocento anni sono passati (varcàr) da quando le città abitate (popolati seggi) scomparvero (spariro), vinte (oppressi) dalla violenza del fuoco (ignea forza). L’attenzione del poeta si sofferma ora su un paesaggio inizialmente quasi idillico, che ha per protagonista un povero contadino (villanello) che lavora a fatica le vigne (intento ai vigneti) nel terreno arido. Anche questa vicenda sviluppa conseguentemente la tesi precedente: infatti, ancora dopo tanti anni (ancor), il contadino alza gli occhi (leva lo sguardo) con timore (sospettoso) alla cima apportatrice di morte (fatal) del vulcano che ancora minaccia distruzione (strage) a lui, ai figli e alle misere loro cose (averi lor poverelli); e, spesso, lo sventurato (meschino)

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fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, desta la moglie in fretta, e via, con quanto di lor cose rapir posson, fuggendo, vede lontan l’usato suo nido, e il picciol campo, che gli fu dalla fame unico schermo, preda al flutto rovente, che crepitando giunge, e inesorato durabilmente sovra quei si spiega25. Torna al celeste raggio dopo l’antica obblivion l’estinta Pompei, come sepolto scheletro, cui di terra avarizia o pietà rende all’aperto; e dal deserto foro diritto infra le file dei mozzi colonnati il peregrino lunge contempla il bipartito giogo e la cresta fumante, che alla sparsa ruina ancor minaccia26. E nell’orror della secreta notte per li vacui teatri, per li templi deformi e per le rotte case, ove i parti il pipistrello asconde, come sinistra face che per vòti palagi atra s’aggiri, corre il baglior della funerea lava, che di lontan per l’ombre rosseggia e i lochi intorno intorno tinge27.

trascorre con ansia la notte sul tetto della casa rustica o osserva il flusso (il corso) della temibile lava (temuto bollor), che cola (si riversa) dall’inesauribile cratere (inesausto grembo; richiama l’utero del v. 213 e, come tale termine, allude alla natura matrigna) sul dorso sabbioso (arenoso dorso) in cui (riferito alla lava) si riflettono la marina di Capri, il porto di Napoli e Mergellina. Il Vesuvio fatal (in quanto esecutore del destino di morte che minaccia l’uomo) è sempre in attività e la sua vetta con i crateri ancora minaccia tremenda. La vicenda del contadino, che vive in continua apprensione e spia con ansia prima i segni dell’imminente eruzione e poi, dopo aver abbandonato la casa, ne guarda le rovine, simboleggia la precarietà della vita umana e il dolore che la caratterizza. La piccolezza della casa (nido) e del campo (picciol), in particolare, esprimono la fragilità dell’uomo di fronte alla Natura, grande, potente e sterminatrice (formidabil sterminator Vesevo). L’anafora di ancor rappresenta con grande efficacia il fatale riproporsi delle eruzioni attraverso i secoli e ribadisce il fatto che ciò che è accaduto può ripetersi. 25. E se… spiega: e se vede avvicinarsi il flusso di lava o se nel fondo (cupo) del pozzo di casa (domestico pozzo) sente (ode) l’acqua gorgogliare ribollendo (fervendo), il contadino deve fuggire con la famiglia; mentre fugge, vede da lontano la propria cara casa (usato suo nido: il tono torna affettuoso e pietoso) e il campicello, unica difesa (schermo) dalla fame, diventare preda del flusso incandescente (rovente) che sopraggiunge (giunge) crepitando e inesorabilmente (inesorato) si estende su di loro per sempre (durabilmente).

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vv. 260-288 gorgogliare, sveglia i figli e la moglie e, mentre fuggono via, con quante più cose possono portare con sé, vede da lontano il loro abituale nido domestico, e il piccolo campo, che fu per loro unica difesa dalla fame, in preda alla colata rovente della lava, che crepitando inesorabile si stende su di essi. Torna ai raggi del sole dopo lunga dimenticanza la morta Pompei, come uno scheletro sepolto che dalla terra l’avarizia o la pietà dell’uomo riporta alla luce; e dalla sua piazza deserta il viaggiatore, fra le fila delle colonne mutilate, contempla da lontano le due cime del monte [il Vesuvio e il Somma] e il loro fumo, che ancora minaccia le rovine [delle passate eruzioni] sparse intorno. E nell’orrore misterioso della notte, per i teatri vuoti e per i templi semidistrutti e per le case abbattute, dove il pipistrello nasconde i suoi nati, come una fiaccola di malaugurio che lugubre si aggiri per i vuoti palazzi, corre il bagliore della lava che minaccia [ancora] morte, che rosseggia da lontano fra le ombre e illumina i luoghi tutto intorno.

26. Torna… minaccia: la possibilità che la casa del contadino sia sepolta per sempre fa ricordare gli scavi di Pompei, iniziati nel 1748. Mentre per il teorico del Neoclassicismo Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) gli scavi furono motivo di entusiasmo, il ritorno alla luce (al celeste raggio) della morta (estinta) Pompei suscita in Leopardi l’immagine di uno scheletro che viene dissepolto dall’avidità (avarizia) che spinge a cercare tesori sottoterra o dalla pietà di coloro che cercano le testimonianze dell’antica cultura. I versi del poeta si soffermano sulle rovine della città un tempo potente e sul pennacchio (cresta) di fumo del vulcano distruttore che ancora incombe minacciosamente (minaccia). 27. E… tinge: nella profonda (secreta) notte piena d’orrore, attraverso (per) i teatri desolati e vuoti (vacui), attraverso (per) i templi le cui armoniche forme sono andate distrutte (deformi), attraverso (per) gli edifici diroccati (rotte), dove il pipistrello nasconde (asconde) i suoi nati (parti), come una funesta fiaccola (sinistra face: è un latinismo) che vaghi (s’aggiri) fosca (atra: un altro latinismo) attraverso (per) i palazzi vuoti, corre guizzando (corre) lo sfolgorio (baglior) della lugubre lava (funerea lava) che in lontananza (di lontan) manda bagliori rossastri (rosseggia) e riluce nei luoghi circostanti (i lochi intorno intorno tinge). Il bagliore rosso della lava rievoca il sangue, il nero della notte è simbolo di morte. Il poeta considera l’apparizione dei resti di Pompei non un’occasione per celebrare i fasti della civiltà classica, ma un simbolo della fragilità dell’uomo, esposto alla potenza distruttrice della Natura, qui incarnata nel vulcano.

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Così, dell’uomo ignara e dell’etadi ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno dopo gli avi i nepoti, sta natura ognor verde, anzi procede per sì lungo cammino che sembra star. Caggiono i regni intanto, passan genti e linguaggi: ella nol vede: e l’uom d’eternità s’arroga il vanto28.

vv. 289-296 Così, indifferente all’uomo e alle epoche che egli chiama antiche, e alle generazioni dei discendenti che seguono agli antenati, la Natura resta sempre giovane; anzi, procede per un cammino così lungo, che sembra immobile. Intanto cadono regni, passano popoli e linguaggi: ella non se ne accorge; ma l’uomo si vanta di essere eterno.

E tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco, che ritornando al loco già noto, stenderà l’avaro lembo su tue molli foreste29. E piegherai sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, né sul deserto, dove e la sede e i natali non per voler ma per fortuna avesti; ma più saggia, ma tanto meno inferma dell’uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te fatte immortali30.

vv. 297-317 E tu, flessibile ginestra, che adorni di cespugli profumati queste campagne spoglie, anche tu presto soccomberai alla crudele potenza della lava ardente del vulcano che, ritornando sui luoghi già conosciuti, stenderà l’avido mantello sulle tue cedevoli distese. E piegherai senza ribellarti il tuo capo innocente sotto il suo peso che porta la morte; ma senza averlo prima chinato vilmente invano supplicando il tuo futuro sterminatore; ma senza averlo eretto con folle orgoglio verso le stelle, né sul deserto, dove avesti, non per scelta, ma per volere della sorte, il luogo in cui nascere e vivere; ma più saggia e meno insensata dell’uomo, poiché non credesti che le tue fragili stirpi fossero state rese immortali per volere del destino o per la tua potenza.

da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996

28. Così… vanto: i versi ribadiscono il rifiuto leopardiano dell’antropocentrismo ottimistico e spiritualistico. La Natura è sempre giovane, incurante (ignara) dell’uomo e delle epoche che egli (ei) chiama antiche, e del succedersi delle generazioni (e del seguir che fanno dopo gli avi i nepoti); anzi, il suo cammino è così lungo (procede per sì lungo cammino) che all’uomo sembra immobile (star). Intanto cadono i regni, passano popoli e lingue: ella non se ne accorge (nol vede): eppure (e) l’uomo si attribuisce (s’arroga) il vanto dell’eternità. L’indifferenza della Natura verso l’uomo e la cecità di chi non si rende conto della potenza della matrigna e del suo procedere attraverso tempi incommensurabilmente più lunghi di quelli umani vengono qui esplicitamente espressi. 29. E tu… foreste: Leopardi chiude circolarmente il componimento tornando nell’ultima strofa, come nella prima, a rivolgersi alla ginestra, simbolo del poeta stesso e della sua poesia. Anche (e) tu, flessibile (lenta è un latinismo) ginestra che abbellisci (adorni) di tanti cespugli odorosi (selve odorate) queste campagne spoglie e desolate (dispogliate: simbolicamente, il mondo umano), anche tu presto ti piegherai, cederai (soccomberai) di fronte alla potenza distruttrice (crudel possanza) del fuoco che viene dalle viscere della terra (sotterraneo foco: simbolicamente, la Natura e la morte da essa voluta per ogni uomo ed essere vivente). Il poeta prevede che la lava del vulcano, ritornando al luogo già visitato (noto), distenderà l’avido (avaro) sudario (lem-

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bo) sulle pieghevoli (molli) distese di ginestre. Sul piano stilistico, qui Leopardi si richiama al tono eroico giovanile della canzone All’Italia, all’enfatico procomberò sol io, per distanziarsene e dirci che egli ha abbandonato tali toni epici per una pessimistica accettazione della realtà. L’emozione di chi legge questi versi si accentua se si tiene conto che essi furono scritti quando Leopardi, a Napoli, afflitto da gravissime malattie, era ormai certo della morte imminente (si consulti, in proposito, la testimonianza dell’amico Antonio Ranieri in Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi): quella che il poeta qui canta, riferendosi alla ginestra, è anche la propria imminente fine. 30. E piegherai… immortali: e piegherai senza opporre resistenza (non renitente) il tuo capo innocente sotto il peso mortale (fascio mortal); ma fino ad allora non sarà piegato inutilmente (indarno) in atteggiamento di vile supplica (codardamente supplicando) davanti all’oppressore che sopravviene (futuro oppressor: la lava del vulcano ma anche la morte, voluta dalla Natura); ma neppure sollevato (eretto, riferito a capo) con pazzo orgoglio (forsennato orgoglio) verso il cielo (stelle), né eretto sulla terra desolata (deserto) dove tu, ginestra, sei nata e vissuta (la sede e i natali… avesti) non per tua scelta (voler) ma per volere della sorte (per fortuna); ma tanto più saggia e tanto meno folle (inferma) dell’uomo, quanto più (quanto) non hai mai creduto che la tua fragile schiatta (stirpi) potesse essere resa (fatta) immortale dalla tua potenza (da te) o dalla volontà del destino (dal fato).

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inee di analisi testuale La ginestra, simbolo della poesia Testamento poetico, oltre che spirituale, La ginestra raccoglie tutte le soluzioni espressive che Leopardi ha elaborato nel suo percorso letterario e rappresenta, inoltre, la sintesi della sua riflessione filosofica e delle sue opinioni sul ruolo del poeta e sulla funzione della poesia. Il fiore della ginestra, umile e consapevole della propria nullità di fronte al potere della Natura, è il simbolo sia dell’uomo che affronta con dignità il proprio destino sia della poesia che muore e rinasce. Il fiore, infatti, accetta con semplicità innocente la morte quando la lava del Vesuvio erompe e la sommerge; ma, con altrettanta pervicace voglia di vita, riemerge dalla lava pietrificata e torna a fiorire nel deserto (simbolo dell’esistenza umana). Così, secondo Leopardi, dovrebbero comportarsi tutti gli uomini: essi dovrebbero avere il coraggio di accettare la difficile verità della propria assoluta insignificanza nell’universo, e fondare su di essa la forza per unirsi fraternamente in mutuo sostegno contro la crudeltà della Natura, anziché combattersi a vicenda. La polemica contro la superba modernità La lirica è ricca di spunti polemici contro l’Ottocento, al cui giudizio ottimista sulla condizione umana l’autore contrappone la capacità del pensiero del “secolo dei lumi” di accettare la verità (i cui principali fondamenti, per Leopardi, sono l’indifferenza della Natura per le sue creature e l’infelicità umana). Presupposti della parte polemica del componimento sono una serie di duri attacchi rivolti al poeta in quei mesi in alcune opere e riviste dagli spiritualisti napoletani (in particolare, Saverio Baldacchini ed Emidio Cappelli); essi, in modo implicito ma trasparente, avevano accusato Leopardi di prendere a pretesto le proprie personali disgrazie per vili ed inutili lamentazioni, nelle quali coinvolgeva le sorti del genere umano, da essi, invece, ritenute magnifiche e progressive, secondo i termini usati da Terenzio Mamiani e sui quali il poeta recanatese ironizza in modo sferzante. Il vulcano, emblema della violenza naturale Il vulcano – ritratto in metafore e climax – appare sempre come simbolo della violenza cieca della Natura. La ginestra, che abbellisce i ruderi e rallegra l’aridità del Vesuvio, è, come la poesia, il fiore che sopravvive sia alla rovina provocata dalla Natura (il Vesuvio, l’eruzione), sia a quella provocata dagli uomini (la storia, la caduta di Roma). La visione del passato viene strutturata in parallelismi antitetici: in particolare, quello fra la ricca Pompei dell’età classica e le rovine del presente, innesca la polemica contro l’ottimismo dell’Ottocento, secol superbo e sciocco, che si illude sulle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. Tale tema è sviluppato con ampie argomentazioni, con tono spesso sarcastico: ciò che accadde a Pompei è esempio di ciò che accade e può accadere ovunque, fino a condurre alla distruzione del genere umano. Negarlo, secondo il poeta, suscita infondate illusioni che minano le basi della solidarietà fra gli uomini. La Natura matrigna e la solidarietà L’uomo grande è colui che ha il coraggio di indicare nella Natura l’unica responsabile dell’infelicità umana. Contro la Natura nemica, Leopardi introduce per la prima volta la convinzione che l’unico rimedio possa essere la solidarietà fra gli uomini (questo concetto è sottolineato dai termini congiunta, confederati, comune e dall’espressione l’umana compagnia). Se la Natura è empia, diametralmente opposta deve essere la pietosa solidarietà alla base della società civile: quando l’umanità ne sarà razionalmente consapevole, si ricostituirà – sulla base di un rinnovato uso della ragione – un patto sociale e i valori di giustizia e solidarietà non saranno più illusioni. Questo il messaggio della poesia civile di Leopardi. La fragilità dell’uomo e il suo destino Nella parte centrale della canzone compare l’io lirico del poeta, in un passo in cui si integrano sensibilità romantica e sottofondo filosofico illuministico. Il poeta, come ne L’infinito e nel Canto notturno si ferma a guardare l’universo, questa volta stellato. Dopo aver confrontato tale realtà con la presunzione dell’uomo che si ritiene al centro della creazione, Leopardi è indeciso tra romantica pietà e razionalistico riso, per l’infelicità dell’uomo e per la sua sciocca arroganza. Come la mela cadendo dall’albero distrugge il formicaio, così l’eruzione del Vesuvio ha distrutto le città degli uomini: nella similitudine l’immagine del cratere come utero rimanda ancora alla Natura madre impietosa e feroce, che tiene gli uomini in conto esattamente come le formiche. Il destino dell’uomo è dunque di paura e di terrore, in uno stato di pericolo sempre incombente, simboleggiato dal Vesuvio. Dopo il cupo affresco notturno di gusto romantico del riapparso scheletro sepolto di Pompei, il poeta ironizza sul fatto che l’uomo creda che il proprio genere abbia il destino dell’eternità. La conclusione circolare del canto Il canto si chiude circolarmente, come è iniziato, con l’immagine-simbolo della ginestra. L’ultima metafora della sua morte è un insegnamento morale. Il fiore soccombe innocente alla violenza della Natura: piega il capo docilmente alla lava del vulcano. Ma quel capo non l’ha piegato prima per paura, né l’ha alzato per superbia, come invece fanno molti uomini. La ginestra, dunque, è qui anche immagine del poeta stesso, che prevede la propria imminente morte.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Scrivi una sintesi de La ginestra elencando gli argomenti principali di ciascuna delle sue strofe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. In base a quali argomenti Leopardi ritiene che la Natura sia nemica dell’uomo? b. Per quali pensieri e comportamenti si distingue l’uomo veramente nobile? c. In base a quali argomenti Leopardi ironizza nei confronti di chi ritiene che le sorti dell’uomo siano magnifiche e progressive? d. A quale condizione, secondo l’autore, gli uomini possono cessare i loro conflitti e sostenersi a vicenda? e. Qual è il significato della similitudine che ha per protagoniste le formiche? f. Attraverso quale paragone di carattere bellico sono condannati i rapporti che intercorrono fra gli esseri umani? g. La contemplazione del cielo stellato suggerisce al poeta una considerazione e una conclusione polemiche: quali? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Di che cosa si possono ritenere simbolo la ginestra, il deserto e il vulcano distruttore? b. Quali sono le argomentazioni di carattere filosofico più significative sviluppate nel testo e in quali versi vengono espresse? c. In quali versi – e in base a quali motivazioni – Leopardi dimostra di rivalutare maggiormente il pensiero illuministico? d. In quali versi si esprime l’invettiva del poeta nei confronti dell’Ottocento e quali sono i termini della polemica? e. Quali sono gli aspetti e i passi di più evidente tendenza illuministica e quelli in cui prevale una sensibilità romantica? f. Ne La ginestra sono presenti molti passi ironici: individuali e sottolineali sul testo. g. Quale messaggio orientato alla solidarietà fra gli uomini è esposto nel testo, in quali versi e quale condizione l’autore ritiene indispensabile per la sua attuazione? Approfondimenti 4. Svolgi la seguente traccia: Ne La ginestra, Giacomo Leopardi propone i fondamenti di un’etica personale e della solidarietà che dovrebbe unire tutti gli uomini. Dopo averne chiarito i presupposti, esprimi le tue personali convinzioni sull’argomento, precisando, in particolare, se la tesi del poeta ti sembra rappresentare un’utopia o una via praticabile per l’uomo, e perché. 5. All’interno del materiale fin qui proposto sui Canti di Leopardi, seleziona (ed eventualmente amplia con personali ricerche, anche tramite Internet) i documenti a tuo parere utili per organizzare, scrivere al computer, stampare e confezionare in fascicolo illustrato una tesina sul seguente argomento: Aspetti del pensiero e della poesia di Giacomo Leopardi. Attribuisci alla tua tesina un titolo, una veste grafica ordinata e accattivante, e inserisci un indice, ricordando che esso consiste nell’elenco dei titoli di tutti i capitoli, i paragrafi o le eventuali altre parti da cui è composto lo scritto (che deve essere concluso da un elenco delle fonti bibliografiche o dei siti web consultati).

LE OPERETTE Il genere e le edizioni

MORALI

Le Operette morali, seconda opera leopardiana per importanza dopo i Canti, sono dialoghi o brevi testi in prosa, di carattere filosofico o morale, composti per la maggior parte fra il 1824 e il 1832. Le edizioni dell’opera sono tre: per l’editore Stella a Milano nel 1827 (ventuno Operette), per Piatti a Firenze nel 1834 (ventitré Operette), per Starita a Napoli nel 1835, edizione sequestrata dalle autorità. Dopo la morte di Leopardi, a opera di Antonio Ranieri compare, nel 1845, un’edizione postuma che raggruppa ventiquattro Operette, essendo stato eliminato, per rispettare la volontà dell’autore, il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio, contenuto nell’opera fin dalla prima edizione. Già nel 1820, in una lettera a Pietro Giordani, Leopardi esprime l’intenzione di dedicarsi a un genere comico-dialogico di impronta satirica, incentrato sul tema del contrasto fra antico e moderno, illusione e ragione.

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Il duplice intento e le finalità

Il pessimismo cosmico La condanna della società moderna

L’autore stesso afferma che le Operette hanno un duplice intento: filosofico, mirante a esporre il suo pensiero, e letterario, finalizzato alla diffusione di una prosa italiana moderna nella sostanza, degna degli antichi per la perfezione formale. Le Operette morali hanno anzitutto la funzione di consolidare la riflessione filosofica leopardiana. Negli anni dal 1819 al 1823, lo scrittore sviluppa rigorosamente il suo materialismo meccanicistico (definendo il corpo come materia pensante) e individua nella Natura la causa dell’impossibilità da parte dell’uomo di soddisfare il piacere, poiché il piacere desiderato è sempre superiore a quello conseguito e mai, quindi, pienamente soddisfatto. Da questa ed altre argomentazioni nasce gradualmente il cosiddetto pessimismo cosmico, che considera la vita come male per ogni essere vivente e ne imputa la colpa alla Natura. Negli stessi anni, lo scrittore condanna la società moderna, in quanto essa, alla verità razionale scoperta dagli Illuministi, che evidenzia l’infelicità umana, sostituisce la menzogna consolatoria e le illusioni non riconosciute come tali, ma erroneamente considerate come verità assolute e oggettive. A partire dal 1823, Leopardi abbandona definitivamente la teoria secondo cui gli antichi erano meno infelici ed esalta il coraggio di accettare la dura verità sulla condizione dell’uomo, condannando gli “inganni” delle ottimistiche illusioni spiritualiste. In tale fase di elaborazione, fra il 1824 e il 1827, nascono la maggior parte delle Operette morali.

I temi, i personaggi e lo stile I temi fondamentali

I personaggi

I toni e i registri

Atteggiamento eroico e interrogativi senza risposta

Il destino dell’universo

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I temi fondamentali che emergono dai dialoghi sono l’affermazione della vacuità e stoltezza della vita moderna, priva di grandi ideali; la derisione dell’uomo, che si crede signore dell’universo, mentre la Natura, per motivi ignoti all’uomo stesso, opera attraverso le proprie leggi senza curarsi di lui né degli altri esseri viventi; la convinzione che tanto maggiori sono l’infelicità e la noia – che è peggiore del dolore – quanto più vengono meno all’uomo possibilità di azione; la convinzione che a maggiore grandezza e sensibilità corrisponda maggiore infelicità. Secondo l’autore, la morte non va temuta, dal momento che non comporta dolore né male, essendo un precipitare nel nulla; va però rifiutato il suicidio, poiché l’uomo non deve aggravare le sofferenze dei propri cari. L’intento di Leopardi è quello di svelare agli uomini il vero volto della Natura, crudele matrigna, e di smantellare le illusioni dei contemporanei. Attraverso l’introduzione di figure fantastiche e mitologiche (quali la Natura, il Folletto, lo Gnomo, Ercole e Atlante) o la rivisitazione di figure storiche (da Plotino a Parini) e l’invenzione di personaggi contemporanei anonimi (dal Venditore di almanacchi all’Islandese), Leopardi contrappone la filosofia del pessimismo cosmico, che va elaborando, a quelle che egli ritiene le illusioni e i pregiudizi dei contemporanei, alle loro speranze, ritenute infondate, in un futuro migliore. Egli riflette sul dolore e sulla noia con grande efficacia di rappresentazione: facendo uso dell’ironia, del grottesco, del fantastico e della lucida argomentazione razionale, talora accompagnata dall’aggressiva derisione, ma non disgiunta da una sincera compassione verso tutti coloro che soffrono per il “male di vivere”. Pur essendo numerosi i dialoghi, le Operette sono in realtà monologhi in cui, attraverso vari volti e maschere, si esprime l’atteggiamento eroico del poeta, che vuole sfidare la Natura senza nascondere la verità, anche la più angosciosa, incitando i lettori a mostrare analogo coraggio. Le prose sono spesso polemiche nei confronti di concezioni diffuse fra i contemporanei; la filosofia leopardiana, tuttavia, si arresta in più occasioni di fronte all’interrogativo sul senso della vita e dell’esistenza dell’universo, come nel Dialogo della Natura e di un Islandese. Il Cantico del gallo silvestre e l’ultima parte del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco sviluppano due ipotesi, in parte diverse, sul destino dell’universo, che coincidono però nel prevedere l’annullamento del tutto e la fine di ogni esistenza: della vita, dei pianeti, delle stelle e della Natura stessa, prima che il mistero mirabile e spaventoso dell’esistenza universale possa essere compreso o trovare un senso.

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Focus

L’ARGOMENTO DELLE PRINCIPALI OPERETTE MORALI

Proponiamo, in sintesi, gli argomenti di alcune fra le principali Operette morali di Giacomo Leopardi incluse nell’edizione definitiva. Esse sono qui presentate in ordine cronologico, secondo una delle ipotesi di composizione (la cronologia è dibattuta e controversa). Storia del genere umano (1824). È la prosa che apre l’opera e narra in prospettiva mitica la storia dell’umanità. L’umanità delle origini vive la propria infanzia e fanciullezza in modo ingenuo e primitivo, nutrendosi di lietissime speranze e illusioni, ma in seguito gli uomini, delusi dalla vita, cominciano a uccidersi fra loro, spinti dalla noia di un mondo senza varietà. Gli dèi inviano allora nel mondo il dolore e alcuni fantasmi quali Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio. Dopo qualche tempo, gli uomini esigono di conoscere la Verità e Giove acconsente, facendola accompagnare da Amore. Gli uomini, da allora, vivono nella più totale infelicità, benché a volte consolati da Amore; cercano, peraltro, di rifiutare ciò che Verità dice loro. Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (1824). Entrambi i personaggi sostengono che il mondo è fatto per la loro specie, dopo che gli uomini si sono estinti per il loro assurdo comportamento. Nel dialogo è derisa l’illusione degli uomini di essere lo scopo per cui esiste l’universo. Dialogo di Malambruno e di Farfarello (1824). Il mago Malambruno chiede al diavolo Farfarello di farlo felice, ma questi gli spiega che ciò è impossibile, perché l’uomo non può mai essere pago e desidera sempre un piacere maggiore. Il dialogo tratta il tema delle cause dell’infelicità. Dialogo della Natura e di un’Anima (1824). La Natura, creando un’anima, le ordina di essere grande e infelice. Il sentimento comporta sempre maggiore infelicità: dunque meno di tutti soffre la pianta, essere puramente vegetativo; di più l’animale, guidato solo dall’istinto; più ancora l’uomo, dotato di ragione: ma chi più soffre è il grande uomo dotato di ragione e sensibilità. A conclusione del dialogo, la Natura dice all’anima che potrà ricevere, come compenso per la sofferenza, la gloria; l’anima chiede allora di essere spogliata delle proprie doti e collocata nel più stupido e insensato essere umano. Dialogo della Terra e della Luna (1824). La Terra e la Luna dialogano sulla bellezza dell’universo e sulle innumerevoli specie dei suoi abitanti; concludono però che tutti sono infelici, benché gli uomini siano convinti di rendere felicissima la vita sulla terra. In realtà, secondo la Terra, il loro bene maggiore è il sonno. Dialogo di un fisico e un metafisico (1824). Meglio avere una vita breve per evitare la noia che accompagna una vita lunga, sicuramente infelice. È meno infelice chi, lavorando, ha meno tempo per pensare. Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (1824). Un Genio, che abita nei liquori, parla con lo scrittore Torquato Tasso rinchiuso perché ritenuto folle e gli dipinge la solitudine come un rimedio all’infelicità. Dialogo della Natura e di un Islandese (1824). Al termine della sua vana fuga dal dolore, causato dalla Natura, attraverso vari viaggi, un Islandese incontra proprio la Natura, sotto forma di una donna gigantesca, che, interrogata, gli spiega la casualità della presenza dell’uomo sulla terra e il proprio disinteresse di “matrigna” verso le sue creature, rifiutando però di fornire una ragione del proprio comportamento. Il Parini, ovvero della Gloria (1824). L’ampio testo tratta della gloria letteraria e della sua vanità. Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie (1824). Lo scienziato Federico Ruysch, dialogando con alcune mummie risvegliatesi per breve tempo, apprende che la morte non è dolorosa ma assomiglia al sonno. Detti memorabili di Filippo Ottonieri (1824). Un immaginario filosofo critica vari difetti umani e sviluppa il tema secondo cui filosofare significa accettare la vita così com’è, senza illudersi e senza lamentarsi inutilmente. L’ampio testo anticipa la concezione eroica e “titanica” delle ultime fasi del pensiero leopardiano. Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (1824). Nel dialogo con Gutierrez, che lo accompagnò nella spedizione, Colombo esalta il rischio e il gusto dell’ignoto come mezzi per sfuggire alla noia della vita. Elogio degli uccelli (1824). Il brano sviluppa la tesi secondo cui l’uomo è più infelice degli animali e, in particolare, degli uccelli, la cui natura è gioconda; il riso umano è invece indizio di distacco dal mondo, come la follia o l’ubriachezza, e di dimenticanza di se medesimi. Cantico del gallo silvestre (1824). Una gigantesca creatura del mito ebraico invita l’uomo ad abbandonare i sogni e a entrare nell’infelice mondo reale; prevede, infine, la futura scomparsa nel nulla dell’intero universo, prima che la ragione della sua esistenza possa essere compresa. Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco (1825). Il filosofo prevede la fine dell’umanità, dei pianeti, delle stelle: solo la materia e il suo ciclo dureranno in eterno, generando nuovi universi e specie di creature. Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827). Plotino riesce a dissuadere Porfirio sostenendo che uccidersi è un gesto vile e crudele, che fa soffrire le persone che ci vogliono bene poiché accresce il loro dolore. Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere (1832). Un venditore di almanacchi assicura a un viaggiatore che l’anno successivo sarà migliore e felice, benché, dal dialogo, emerga il fatto che mai ciò si sia verificato in passato. Il tema riguarda l’illusione, che mai si realizza, relativa alla futura felicità. Dialogo di Tristano e di un amico (1832). Tristano – personaggio dietro il quale si cela l’autore – finge ironicamente di ritrattare le sue idee pessimistiche sugli uomini e sulla Natura, ma in realtà attacca duramente la cultura dell’Ottocento, ritenendola superficiale e sciocca. Infine, mutando registro, confessa la propria disperazione e si dichiara pronto a morire anche immediatamente. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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T11 Dialogo della Natura e di un Islandese da Operette morali

Scritto alla fine del maggio 1824, il Dialogo della Natura e di un Islandese è centrale perché chiarisce il concetto di “natura matrigna” e introduce il pessimismo cosmico. La drammatica contrapposizione fra i due personaggi del dialogo – l’Islandese e la Natura – riflette l’intensità del monologo interiore leopardiano sul rapporto fra uomo e Natura, che troverà anche importanti echi nei canti pisano-recanatesi del 1828-1830 e nello Zibaldone. PISTE DI LETTURA • La personificazione della natura creatrice • Le ragioni degli uomini e le domande senza risposta • Un dialogo impossibile

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Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica1, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo2, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua3. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita? Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala4 quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi. La Natura? Non altri. Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo5 che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi? Tu dei6 sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i

1. andando una volta per l’interiore dell’Affrica: il viaggiatore islandese sta esplorando una parte del tutto sconosciuta del continente africano, che ai tempi di Leopardi era l’ultima frontiera degli Europei civilizzati. 2. il medesimo Capo: nel poema epico portoghese I Lusiadi di Luis Vasco de Camões (1525-1580), all’esploratore Vasco da Gama si fa incontro il guardiano del capo di Buona Speranza, sotto forma di gigante, per impedire la sua impresa di circumnavigare l’Africa. Ciò accade anche all’Islandese. 3. ermi... Pasqua: i moai dell’isola di Pasqua, monumen-

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tali teste di pietra (l’“erma” è il busto della scultura classica greca) che evidentemente erano già conosciuti nel primo Ottocento in Italia: Leopardi si riferisce, per l’ambientazione della sua Operetta, alla Storia naturale di Georges Buffon (1707-1788). 4. fuggitala: posposizione del pronome personale al verbo. La Natura appare all’Islandese come una gigantesca donna sdraiata, con il gomito posato su una montagna. 5. tengo per fermo: ritengo fermamente. La Natura era l’ultima cosa che l’Islandese volesse incontrare. 6. dei: devi.

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quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi7 scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti8. Con che non intendo dire che io pensassi ad astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano9; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa10, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà.

[Ma anche nella sua isola, l’Islandese scopre di soffrire grandi disagi fisici e mentali (per la durata dell’inverno, la calura dell’estate, le tempeste, le eruzioni vulcaniche, gli incendi). Le preoccupazioni di una vita isolata si rivelano uguali a quelle di una vita socievole. Così l’Islandese decide di andare a esplorare il mondo per verificare se in qualche parte del pianeta possa restare in pace, pensando che la Natura abbia forse deciso e destinato al genere umano un solo paese e clima della terra – come per gli altri animali – adatto e perfetto per le sue esigenze, e che sia quindi colpa degli uomini se non lo cercano e non lo trovano.] 50

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Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi11 in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso di te di nessun’ingiuria12. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una

7. cagionandosi: provocandosi. L’Islandese aveva capito fin da giovane che gli uomini, quanto più si affannano a cercare la felicità, al punto da recarsi danno l’un l’altro per averla, tanto meno la raggiungono. 8. Per queste considerazioni... patimenti: così l’Islandese aveva deciso di vivere una vita oscura e tranquilla, abbandonato ogni altro desiderio, non volendo fare del male agli altri per alcun motivo, né migliorare la sua condizione (non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato), rinunciando ai piaceri – nocivi all’uomo – e preoccupandosi solo di tenersi lontano dai dolori. 9. fuggire che gli altri non ti offendano: evitare che gli altri ti facciano del male. L’Islandese capisce che non si possono comunque evitare i colpi dei nemici.

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10. menomo in ogni cosa: il minimo di ogni cosa. Non si riesce nemmeno a essere lasciati in pace accontentandosi del minimo della sopravvivenza. Per evitare che anche ciò gli venisse tolto, l’Islandese aveva deciso di ritirarsi in isolamento nella sua isola. 11. commozioni degli elementi: le perturbazioni. In tutti i Paesi del mondo, il pacifico Islandese soffre le inclemenze della natura. 12. Più luoghi... ingiuria: ho veduto molti luoghi dove non passa giorno senza una tempesta: la Natura assalta ogni giorno tutti gli abitanti della Terra che non sono colpevoli verso di lei di nessuna offesa. Più oltre, l’Islandese racconta di terremoti, vulcani, bufere di vento, neve, allagamenti, assalti di insetti e belve e altre ingiurie della Natura.

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menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico13 non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che14 io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio15 prendere non piccola ammirazione considerando come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta; e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso16 piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa17 negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato all’uomo per compensarnelo18, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione19 di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi20 nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa coll’umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto21, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi

13. un filosofo antico: nelle Naturales quaestiones (“Questioni naturali”) Seneca sostiene il medesimo argomento dell’Islandese. 14. con tutto che: benché. 15. Io soglio: sono solito. Il protagonista ammira la forza naturale dell’istinto del piacere. 16. esso: questo, riferito a piacere. L’Islandese resta ancor più meravigliato e ammirato per il fatto che la Natura abbia stabilito che il piacere sia nocivo alla salute. 17. calamitosa: pericolosa. Il piacere è pericoloso per la vita. 18. per compensarnelo: per compensarlo del fatto che l’uomo passi gran parte della vita nelle malattie, la Natura

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non gli ha dato paralleli periodi di grande salute. 19. cagione: motivo. 20. come... ai Lapponi: come succede solitamente agli abitanti della Lapponia, che restano abbacinati dal sole riflesso sulla neve. Leopardi trae la notizia dall’opera del già citato Buffon. 21. per costume e per instituto: per abitudine e per interna legge. L’Islandese trae dalla sua esperienza la conclusione secondo cui anche gli elementi vitali possono diventare pericolosi per l’uomo. La Natura si rivela perciò assassina dei suoi propri figli (carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere).

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cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là22, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?23 Or sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva consentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo24 di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il qual sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento25.

22. dal quinto suo lustro in là: dal suo venticinquesimo anno in poi, quando termina la sua giovinezza, per l’uomo comincia il declino. 23. Immaginavi... vostra?: la domanda ironica della Natura riconduce l’Islandese alla concezione dell’arido vero. Il mondo non è fatto per l’uomo, così come narrano le religioni consolatrici (così risponde la Natura) e il moderno saggio deve accettarlo. 24. dicolo: posposizione del pronome (“lo dico”). L’Islandese espone un ulteriore argomento alla Natura: l’uomo, se invita a casa sua un amico, non lo tratta male. Il protagoni-

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sta afferma: visto che non ho chiesto alla Natura di farmi nascere, non ritieni giusto, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? 25. Per tanto... patimento: sarebbe una cosa negativa per l’universo se in esso non vi fosse il dolore. La Natura risponde all’argomento dell’Islandese che la vita è un ciclo perenne di produzione e distruzione volto all’autoconservazione; dalla morte nasce la vita, per questo il momento della distruzione, che implica la sofferenza, è necessario all’universo.

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ISLANDESE Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?26 165 Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo 170 stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa. 160

da Operette morali, a cura di C. Galimberti, Guida, Napoli, 1998

26. a chi piace... compongono?: l’ultima patetica domanda dell’Islandese risulta totalmente estranea ai princìpi che guidano la Natura, peraltro ignoti all’uomo. A chi apporta piacere o a chi giova questa dolorosa catena della vita in questo universo, conservata attraverso il dolore e la morte di tutti gli elementi che lo compongono? In un finale amaramente ironico, la Natura non risponde: i leoni affamati o il vento del deserto fanno giustizia dell’inutile lamento dell’Islandese che voleva sfuggire alla sua sorte. Il doppio fi-

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nale (riguardante il pasto dei leoni o la tempesta di sabbia che lo mummifica e lo destina a un museo), allude, da un lato, alla cieca voracità della Natura e, dall’altro, agli errori della scienza. Il primo finale è introdotto dall’autore come ironico simbolo della legge della catena dell’essere, basata sul principio di distruzione-riproduzione, unica risposta della Natura alle domande dell’uomo; l’altra conclusione, invece, è una derisione della ricerca scientifica, incapace, secondo Leopardi, di stabilire certezze.

inee di analisi testuale L’allegoria del viaggiatore e quella della Natura Il viaggiatore, più che la metafora dell’esploratore, è l’allegoria del filosofo in ricerca e del saggio: è il Gulliver di Swift, e più ancora il Candide di Voltaire. La donna smisurata, più che il simbolo della Natura è l’allegoria di una indefinita forza creatrice. Il dialogo con l’immagine antropomorfica della Natura è dunque l’allegoria dell’incontro con il creatore, inteso in senso quasi teistico: un incontro che per l’ateo dovrebbe essere impossibile. Esso si rivela terribile perché senza alcuna speranza, a causa della totale e assoluta incomunicabilità fra l’uomo (essere cosciente che cerca la felicità) e la Natura (forza bruta che non si cura della vita cosciente, la cui unica legge è quella ciclica e meccanicistica della riproduzione-distruzione). Questo dell’Islandese con la Natura, la quale è inconsapevole degli uomini come un corpo lo è dei microrganismi che accoglie, è l’esatto contrario dell’incontro dell’uomo con un Dio essere superiore e buono, che capisce e consola la sua creatura. Tra Dio padre buono e la Natura bruta e matrigna, l’illuminista Leopardi ha scelto la seconda, ma conserva una grande nostalgia, lamentando la perdita della consolazione che le favole antiche (ossia la religione) donavano agli uomini. A proposito di Dio, scrive Leopardi nello Zibaldone: La credenza di un ente senza misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone di continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene [ ...] è agli uomini, e massime ai deboli ed infelici, un conforto maggior d’ogni altro possibile (9 dicembre 1826). La vana ricerca di risposte dalla Natura matrigna e la morte senza senso Alle domande amare e insistenti dell’Islandese, che chiede soprattutto perché tutte le creature, pur innocenti e nate senza averlo voluto, siano destinate alla sofferenza, alla pena e alla morte, la Natura risponde che suo unico scopo è il circuito di produzione e trasformazione della materia su cui si fonda l’universo, che presuppone la distruzione e quindi il dolore delle creature innocenti. Alla domanda finale: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? la Natura leopardiana non può rispondere. Dopo questo silenzio, il dialogo è concluso da due sarcastiche versioni della morte senza senso dell’Islandese, il cui bersaglio sono le pretese conoscitive della scienza.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del Dialogo della Natura e di un Islandese. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 7 righe per ogni risposta). a. In quali sembianze compare la Natura all’Islandese? b. Quali sono le principali accuse che l’Islandese rivolge alla Natura? c. Che cosa risponde la Natura agli argomenti dell’Islandese? d. Cosa accade all’Islandese al termine del dialogo? Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 7 righe per ogni risposta). a. Qual è il tema centrale del Dialogo della Natura e di un Islandese? b. Qual è il significato simbolico dell’Islandese? c. Che cosa simboleggia la Natura? d. Qual è il genere letterario in cui è collocabile l’opera e quali aspetti lo caratterizzano? e. In quali passi riconosci la prevalenza di elementi di carattere razionale e di matrice illuministica? f. In quali passi riconosci la prevalenza di elementi sentimentali e di gusto romantico? Approfondimenti 4. Qui di seguito puoi leggere il finale dell’ultima lettera che Leopardi invia da Napoli il 27 maggio 1837 al padre Monaldo. Quindici giorni dopo, il 14 giugno, Leopardi muore. Se scamperò dal cholera e subito che la mia salute lo permetterà, io farò ogni possibile per rivederla in qualunque stagione, perché ancor io mi do fretta, persuaso oramai dai fatti di quello che ho sempre preveduto che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lontano. I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l’età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo. Ringrazio teneramente lei e la mamma del dono dei dieci scudi, bacio le mani ad ambedue loro, abbraccio i fratelli, e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio acciocché dopo ch’io gli avrò riveduti una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti. da Epistolario, Bollati Boringhieri, Torino, 1998

Facendo riferimento alla tematica della “natura matrigna” presente nel Dialogo della Natura e di un Islandese, indica se le ultime riflessioni di Leopardi sulla vita e sulla morte sono o meno coerenti con il contenuto dell’operetta ed elabora – intitolandolo opportunamente – un saggio breve (max tre colonne di metà foglio protocollo) che tratti tale argomento, ricercando e utilizzando anche altri documenti in proposito.

T12 Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere da Operette morali

Il Dialogo – scritto fra gli ultimi – risale al 1832. Il quadro del dialogo sembra quotidiano e realistico, ma in realtà nasconde una simbologia altamente filosofica. Come Leopardi sottolinea in altre sue opere (in particolare nel Dialogo della Natura e di un’Anima), infatti, la consapevolezza e il sentimento della propria infelicità e della vera condizione umana sono caratteristiche dei grandi uomini, che hanno rinunciato ad ogni illusione. PISTE DI LETTURA • Il passeggere filosofo • Il venditore, simbolo dell’uomo comune • Tono didattico, ma anche ironico

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VENDITORE Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari1 nuovi. Bisognano2, signore, almanacchi? PASSEGGERE Almanacchi per l’anno nuovo? VENDITORE Sì signore. PASSEGGERE Credete che sarà felice quest’anno nuovo? VENDITORE Oh illustrissimo sì, certo. PASSEGGERE Come quest’anno passato? VENDITORE Più più assai. PASSEGGERE Come quello di là3? VENDITORE Più più, illustrissimo. PASSEGGERE Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli4 che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi? VENDITORE Signor no, non mi piacerebbe. PASSEGGERE Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi? VENDITORE Saranno vent’anni, illustrissimo. PASSEGGERE A quale di cotesti5 vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo? VENDITORE Io? non saprei. PASSEGGERE Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice? VENDITORE No in verità, illustrissimo. PASSEGGERE E pure la vita è una cosa bella. Non è vero? VENDITORE Cotesto si sa. PASSEGGERE Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste? VENDITORE Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse. PASSEGGERE Ma se aveste a rifare la vita, che avete fatta, né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri, che avete passati? VENDITORE Cotesto non vorrei. PASSEGGERE Oh, che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro? VENDITORE Lo credo cotesto. PASSEGGERE Né anche6 voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo7? VENDITORE Signor no davvero, non tornerei. PASSEGGERE Oh che vita vorreste voi dunque? VENDITORE Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senza altri patti. PASSEGGERE Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo? VENDITORE Appunto. PASSEGGERE Così vorrei ancor8 io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene, se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e tutto il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice9. Non è vero?

1. Almanacchi... lunari: gli almanacchi sono i calendari che riportano le festività e i lunari quelli che riportano le fasi della luna. 2. Bisognano: ha bisogno di; costruzione alla latina, in cui il verbo è personale: il soggetto è “gli almanacchi”. 3. di là: oltre, cioè quello prima dell’anno scorso. 4. piacerebb’egli: costruzione alla francese, in cui nell’interrogativa il soggetto impersonale viene posposto al verbo. 5. cotesti: codesti, dimostrativo che indica qualcosa o qualcuno che si trova vicino a chi ascolta. Oggi si usano

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solo questo e quello; codesto è in disuso. 6. Né anche: nemmeno, neanche. 7. non potendo in altro modo: non potendo vivere in modo totalmente diverso. 8. ancor: anche (ancora deriva da “anche ora”). 9. Coll’anno... felice: con il nuovo anno, il caso comincerà a trattare bene tutti quanti e comincerà la vita felice per tutti. La risposta del passeggere è ironica, ma il venditore non se ne rende conto, e risponde con una frase di circostanza (Speriamo).

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VENDITORE PASSEGGERE VENDITORE PASSEGGERE VENDITORE

Speriamo. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi. Ecco trenta soldi. Grazie, illustrissimo; a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. da Operette morali, a cura di C. Galimberti, Guida, Napoli, 1998

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inee di analisi testuale Leopardi, passeggere e venditore L’ambientazione realistica, un quadro di vita quotidiana e cittadina, nasconde un forte simbolismo, volto a far comprendere le illusioni che governano l’esistenza. Il passante è persona, come Leopardi, abituato a riflettere sull’uomo e sul suo destino. Il venditore di calendari è un uomo comune, che non ha mai pensato, vive alla giornata e vuol vendere la sua merce perché ormai si avvicina la fine dell’anno. Dalla conversazione banale si passa alla filosofia. La felicità è per natura preclusa all’uomo, le uniche gioie stanno nelle illusioni sul passato (rimembranza) e in quelle sul futuro (speranza). Anche se ama ricordare il passato, l’uomo non vorrebbe che si ripetesse come l’ha vissuto e questo è segno della negatività della vita e dell’ineluttabilità del dolore. Il passeggere e il venditore in realtà sono le personificazioni delle due parti dell’uomo: quella che per non soffrire vive alla giornata e quella che si tormenta sul senso della vita. I modelli filosofici di Leopardi I modelli cui Leopardi attinge per i dialoghi delle Operette morali sono quelli della letteratura classica antica: l’apologo morale, il dialogo filosofico di tipo platonico o ciceroniano (nel Parini), Senofonte (nei Detti di Filippo Ottonieri) e Luciano di Samosata. Del resto lo stesso titolo delle Operette morali rende omaggio alle Operette di Isocrate, lette, apprezzate e in parte tradotte da Leopardi. La prima parte del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere è costruita sul modello platonico, in base al quale, attraverso domande, si esprimono tesi filosofiche. Infatti il passeggere, ossia il filosofo portavoce di Leopardi, conduce il lettore passo per passo in una direzione cui il semplice venditore non può sfuggire, cioè verso la propria tesi, che illustra nel finale.

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Comprensione 1. Riassumi il contenuto del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 per righe ogni risposta). a. Quali sono i modelli classici del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere? b. Quali caratteristiche presenta il personaggio del passeggere nel dialogo e quali tesi egli sviluppa? c. Quali caratteristiche presenta il personaggio del venditore di almanacchi e per quali aspetti si distingue dal passeggere? d. In quali passi riconosci la presenza dell’ironia? Motiva la tua risposta. e. Quale messaggio di fondo emerge dal dialogo? Approfondimenti 3. Il regista Ermanno Olmi (Treviglio, Bergamo, 1931) ha dedicato uno dei suoi primi cortometraggi al Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, riproducendo interamente il testo di Leopardi, con modifiche impercettibili, finalizzate a rendere più quotidiana la lingua. Di suo Olmi inserisce la “cornice”, il contesto in cui si trovano i due personaggi, accogliendo la dolente consapevolezza di Leopardi, ma nello stesso tempo aprendosi a una speranza. Cerca il cortometraggio in biblioteca (nel 2008 è stato pubblicato in un dvd dal titolo Ermanno Olmi: gli anni Edison) e, dopo averlo visto, stendi una relazione sull’interpretazione che il regista dà dell’operetta di Leopardi.

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Focus

IL CANTICO DEL GALLO SILVESTRE E IL FRAMMENTO APOCRIFO DI STRATONE

Leopardi raggiunge il culmine del pessimismo cosmico nel Cantico del gallo silvestre, monologo delle Operette morali scritto fra il 1824 e il 1827. In esso, Leopardi riprende dal Talmud il mito di un gallo selvatico, che poggia con le zampe sulla Terra, tocca con la cresta il Cielo con voce umana ripete il suo canto, che il poeta finge di aver trovato in una antica cartapecora in lingua ebraica. Il cantico è il saluto del mattino ai mortali che si svegliano dal sonno. Subito la creatura li avverte di non aspettarsi alcuna felicità dal nuovo giorno, chiedendo al sole di confermare se mai ha visto felicità su qualcuno dei suoi pianeti e se è felice esso stesso. Il gallo conforta gli uomini, che non sono ancora liberi dalla vita, perché il sonno eterno della morte presto li consolerà definitivamente, così come quello notturno concede loro pausa dall’infelicità. L’unico obiettivo cui tendono le cose vive è il morire; la causa ultima dell’essere non è la felicità. Il monologo mette poi in guardia dalle false illusioni: il mattino è il momento in cui gli uomini sono più disposti a sperare, a illudersi, come nell’età giovanile; ma proprio come nella vita umana la gioventù dura poco – e tutto il resto della vita è un appassire – così anche la speranza di felicità del mattino è brevissima e fuggitiva. E infine svela la verità sul destino di tutte le cose: anche l’universo, che in apparenza continuamente muore e rinasce, in realtà invecchia, per cui morirà e svanirà nel nulla. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spento e un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.

Singolare è il fatto che Leopardi, nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, quasi certamente scritto nel 1825, avesse invece sostenuto la tesi dell’eternità della materia: le due diverse teorie sul destino ultimo dell’universo coesistono in Leopardi e, con molti altri indizi, dimostrano come la sua concezione filosofica sia lontana da un razionalismo rigido e schematico.

LO ZIBALDONE Un ampio diario erudito

Il titolo e i contenuti

La continuzione: i Pensieri

Le edizioni postume

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Lo Zibaldone è un diario e una raccolta di appunti e riflessioni in cui Leopardi, in oltre quattromila pagine, affronta questioni e argomenti di ogni sorta, molti dei quali riguardano temi filosofici, linguistici, estetici e letterari e preparano la composizione di poesie e opere del poeta. La raccolta, composta tra il luglio-agosto 1817 e il 4 dicembre 1832 (dal 1817 al 1827 vi scrive quasi ogni giorno), è definita dallo stesso Leopardi zibaldone (che significa “quaderno di appunti, notizie, pensieri senza ordine”), quando, tra il luglio e l’ottobre del 1827, egli scrive un indice analitico degli appunti fino ad allora composti. Il poeta dimostra così da un lato il bisogno di organizzare il proprio pensiero, dall’altro la consapevolezza dell’esaurimento della funzione dei quaderni (dai quali poi tenterà invano di ricavare un’opera da pubblicare: in particolare, secondo quanto ricorda il critico Antonio Prete, nell’estate del 1827 egli pose mano alla stesura di un Manuale di filosofia pratica che rimarrà però incompiuto). Il termine zibaldone, che anticamente indicava una vivanda composta da ingredienti vari e disparati, traduce, in effetti, molto bene il carattere di questo poderoso lavoro; esso da un lato presenta i tratti della frammentarietà e dell’apparente disordine, mentre, da un altro punto di vista, letto in modo analitico e messo in relazione con la vicenda intellettuale e personale di Leopardi, permette di tracciarne l’evoluzione del pensiero e, soprattutto, il suo incessante travaglio formativo. Lo Zibaldone si chiude sostanzialmente il 5 settembre 1829, dato che nei tre anni successivi il poeta recanatese aggiunge soltanto due pagine. L’opera trova però una continuazione ideale nei centoundici Pensieri, composti a partire dal 1832, in parte nuovi e in parte rielaborazione di riflessioni già consegnate allo Zibaldone, destinati da Leopardi stesso alla pubblicazione, ma rimasti incompiuti e pubblicati postumi da Antonio Ranieri nel 1845. A lungo ignorato dalla critica, lo Zibaldone viene pubblicato postumo per la prima volta a Firenze – con il titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura – per la casa editrice Le Monnier (i primi due volumi nel 1898; il terzo e il quarto nel 1899), a

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Gli aspetti autobiografici

La mancanza di unità e l’evoluzione del pensiero

Poesia e filosofia Stile agile e sciolto

cura di Giosue Carducci, presidente della commissione di studio dei manoscritti leopardiani istituita in occasione del centenario della nascita del poeta recanatese. L’edizione successiva, più curata e rispettosa dell’autografo, appare nel 1937 a cura di Francesco Flora, che preferisce adottare il titolo originale leopardiano. Spesso le riflessioni filosofiche traggono spunto da vicende personali: è illuminante il fatto che Leopardi colleghi, in un passo del 1 luglio 1820, la cosiddetta conversione filosofica alla malattia degli occhi occorsagli nel 1819: in questa occasione, favorita da un languore corporale, la rivelazione dell’infelicità certa del mondo scaturisce da un sentire prima che da un conoscere, in un’interazione di razionalità, fisicità e sentimento. Leopardi sviluppa dunque, spesso, il sentire integrando le forme della sentimentalità romantica con le lucide strutture dell’investigazione etico-filosofica. Lo Zibaldone non ha carattere unitario e sistematico, né l’autore intendeva farne un’opera filosofica organica: le riflessioni e gli appunti sono, come in un diario, contraddistinti dalla sola data di stesura; è indubbio, tuttavia, che, nei propri quaderni, Leopardi propone e cerca di ordinare, per quanto in via provvisoria e senza pretese di compiutezza, le sue concezioni e il suo pensiero, la cui evoluzione emerge con chiarezza dalle pagine. In particolare, le sue teorie pessimistiche e materialistiche che, pur tra mille oscillazioni e contraddizioni, si intrecciano con la sua spiccata sensibilità romantica. È difficile parlare di un “sistema filosofico” leopardiano, ma certamente lo Zibaldone dimostra la feconda e originalissima compenetrazione di poesia e filosofia nelle concezioni di Leopardi, “filosofo-poeta” o “poeta-filosofo”. Lo Zibaldone rappresenta una miniera ricchissima di temi e motivi e la struttura volutamente frammentaria e apparentemente disorganica è caratterizzata da uno stile meno accademico e aulico, più agile e sciolto rispetto agli altri scritti in prosa di Leopardi.

T13 Natura e infelicità da Zibaldone

Se nello Zibaldone Leopardi registra i movimenti e i passaggi del proprio pensiero, la sua dinamica esistenziale non si riduce però principalmente a un ripiegamento intimistico, perché mira alla comprensione dell’universale condizione umana. Questa continua indagine non è solo frutto di riflessioni razionali, ma anche di sentimenti e di esperienze. Nel testo proposto, ad esempio, la concezione della Natura e la filosofia del pessimismo cosmico sono espresse a partire dall’esperienza della visita a un giardino. PISTE DI LETTURA • Un microcosmo specchio della crudeltà della vita • La legge naturale della distruzione e della riproduzione • Tono drammatico e didascalico Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. 5 La vita Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nese la sofferenza suna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegedei vegetali tali è in istato di souffrance1, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è of1. souffrance: sofferenza (in lingua francese).

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Anche gli uomini straziano le piante

Il giardino: luogo di dolore

La Natura perseguita le sue creature

fesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele2 non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga3; quello è offeso4 nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffìretto5 va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu6 strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile7, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio8), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere9 (Bologna, 19-22 aprile 1826).

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[…] La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui 40 gli ha prodotti10. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine11 (11 aprile 1829).

2. mele: miele. 3. cruciato... piaga: torturato (cruciato è un latinismo) dall’aria che penetra nella ferita (piaga). Spesso, come in questo caso, descrivendo le sofferenze degli esseri viventi, Leopardi usa la figura della personificazione che gli permette di esprimere la propria compassione. 4. offeso: mutilato (dal latino fendo, “taglio”). 5. un zeffìretto: lo zefiro è un lieve vento primaverile. Il poeta evidenzia la drammatica condizione degli esseri viventi ponendola a confronto con il modo in cui gli uomini, poeti inclusi, considerano il giardino luogo di pace e bellezza. 6. tu: il pronome è generico per indicare il fatto che nessun essere umano, neppure volendolo, può evitare di contribuire ad aggravare ciò che accade. 7. donzelletta... gentile: fanciulla dal cuore delicato e gentile. Ancora una volta, l’apparenza - in questo caso,

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rappresentata dalla vista di una giovane che coglie (va... sterpando) fiori, argomento usuale di dolce poesia - nasconde la realtà dell’universale dolore. L’espressione va dolcemente sterpando è un ossimoro. 8. ospitale... cemeterio: l’ospedale (ospitale) è ritenuto dal poeta luogo più doloroso (deplorabile) del cimitero (cemeterio), in cui ogni sofferenza lascia il posto al nulla eterno della morte. 9. e se... essere: e se piante e animali sentono, come è probabile, non esistere (non essere) sarebbe per loro molto meglio che esistere (essere). 10. dal punto... prodotti: dal momento della nascita. 11. non dà... ordine: il concetto è espresso in numerosi testi leopardiani: l’uomo può comprendere i meccanismi che governano il ciclo materiale organizzato dalla Natura, ma non la ragione ultima per cui tale ciclo, fondato sulla sofferenza, esiste.

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inee di analisi testuale La Natura matrigna con tutte le sue creature La Natura è matrigna non solo per l’uomo, ma per ogni essere vivente: è questo il concetto fondamentale del pessimismo cosmico di Leopardi, in base al quale la vita umana è destinata all’infelicità, a causa della legge meccanicistica e distruttiva che regola l’universo. La Natura è vista come nemica terribile e irriducibile dell’uomo. È interessante notare che il concetto di “Natura matrigna” divide in due parti, simmetriche dal punto di vista degli anni, lo Zibaldone: la prima dal 1818 al 1824, la seconda dal 1824 al 1832. In un primo tempo, la Natura è vista sotto la superficie di ciò che potrebbe sembrare ordine e bellezza; nel secondo, cui appartiene la descrizione del giardino (1826), Leopardi lamenta come l’immagine di una intelligenza creatrice che emerge da una tale orribile realtà non possa assolutamente far pensare a un suo ruolo provvidenziale. Il panteismo pessimistico di Leopardi In definitiva, nel microcosmo del giardino si rispecchiano l’infelicità e la sofferenza dell’universo intero, sottoposto alla legge universale di distruzione e riproduzione. Ma al di là della personificazione poetica che ne fa Leopardi, l’universo materiale si identifica con la Natura, ragione per la quale per il poeta filosofo recanatese alcuni parlano non di ateismo (perché egli riconosce la forza creatrice della Natura che domina gli uomini), ma piuttosto di panteismo. Un panteismo che, a differenza di quello ottimistico dei rinascimentali e di Giordano Bruno, ha i caratteri del più profondo pessimismo.

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto del primo passo dello Zibaldone in non più di 20 righe. 2. Trascrivi in italiano moderno il secondo passo dello Zibaldone che riguarda la concezione della Natura. Analisi e interpretazione 3. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per risposta). a. Qual è il genere cui appartiene lo Zibaldone? b. Qual è lo stile con cui Leopardi stende i passi dello Zibaldone? c. Quale concezione esprime il poeta sul modo in cui la Natura governa gli esseri viventi e quindi i propri “figli”, e in quali passi? d. In quali passaggi riportati si riconoscono elementi filosofici di matrice illuministica? e. I passi rappresentano una evidente esposizione del pessimismo cosmico leopardiano: perché? Approfondimenti 4. Leggi il brano della lettera a Pietro Giordani scritta da Firenze il 24 luglio 1828 da Leopardi: In fine mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità de’ popoli si può dare senza la felicità degl’individui. I quali sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini né dal caso: e per conforto di questa infelicità inevitabile mi pare che vagliano sopra ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni. Così avviene che il dilettevole mi pare utile sopra tutti gli utili, e la letteratura utile più veramente e certamente di tutte queste discipline secchissime; le quali anche ottenendo i loro fini, gioverebbero pochissimo alla felicità vera degli uomini, che sono individui e non popoli; ma quando poi gli ottengono questi loro fini? amerò che me lo insegni un de’ nostri professori di scienze storiche. da Epistolario, Bollati Boringhieri, Torino, 1998

Spiega il contenuto della lettera e inseriscilo nella sintetica trattazione del seguente argomento: Letteratura e impegno civile in Leopardi.

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T14 Poesia sentimentale e di immaginazione da Zibaldone

I tre brani tratti dallo Zibaldone toccano temi importanti che riguardano la poetica e la concezione della poesia del passato e del presente. PISTE DI LETTURA • Poesia delle emozioni e poesia d’immaginazione • La passione e la poesia • Tono didascalico

La maturazione interiore del poeta

La poesia del passato e quella del presente

Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume […]. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819 dove privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s’io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch’io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento. (I° luglio 1820) Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo (2 luglio 1820).

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[…] La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo 30 secolo, come la vera e semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente propria de’ secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni1. Dal che si può ben concludere che la poesia non è quasi propria de’ nostri tempi, e non farsi maraviglia, s’ella ora langue come vediamo, e se è così raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia. Giacché il sentimentale 35 è fondato e sgorga dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e

1. La poesia sentimentale... nazioni: Leopardi qui contrappone la poesia del sentimento, tipica dei moderni, alla

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poesia dell’immaginazione, ritenuta superiore, propria degli antichi.

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La poesia moderna deriva dalla psicologia

delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l’essere ispirata dal falso2. E considerando la poesia in quel senso nel quale da prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia poesia, ma piuttosto una filosofia, un’eloquenza, se non quanto è più splendida, più ornata 40 della filosofia ed eloquenza della prosa. Può anche esser più sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d’illusioni3, alle quali non è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e più di quello che facciano gli stranieri (8 marzo 1821).

Il poeta maturo compone poesie di immaginazione e non passionali

[…] È vero che la poesia propria de’ nostri tempi è la sentimentale. Pure un uo- 45 mo di genio, giunto a una certa età, quando ha il cuor disseccato dall’esperienza e dal sapere, può più facilmente scriver belle poesie d’immaginazione che di sentimento, perché quella si può in qualche modo comandare, questo no, o molto meno4. E se il poeta scrivendo non è riscaldato dall’immaginazione, può felicemente fingerlo, aiutandosi della rimembranza di quando lo era, e richia- 50 mando, raccogliendo, e dipingendo le sue fantasie passate. Non così facilmente quanto alla passione. E generalmente io credo che il poeta vecchio sia meglio adattato alla poesia d’immaginazione, che a quella di sentimento proprio, cioè ben diverso dalla filosofia, dal pensiero ec. E di ciò si potrebbero forse recare molti esempi di fatto, antichi e moderni, contro quello che pare a prima vi- 55 sta, perché l’immaginazione è propria de’ fanciulli, e il sentimento degli adulti (3 agosto 1821).

2. Giacché... falso: secondo l’appunto, la poesia non deve ispirarsi al vero, come accade ai moderni, perché altrimenti in essa prevale l’elemento filosofico, che la indebolisce. La concezione espressa in questo appunto, scritto al tempo dei piccoli idilli, sarà in parte rettificata negli anni successivi, a testimonianza della mobilità del pensiero e della poetica di Leopardi. 3. Può anche... illusioni: quando la poesia moderna è più bella, essa si basa comunque su illusioni o fantasie che entrano in contrasto con la ragione; gli antichi, invece, immaginavano (ossia “vedevano”: tale è il senso del verbo

“immaginare”, che deriva dall’antica radice mag, da cui anche “immagine”) l’oggetto della loro poesia. 4. Pure un uomo... molto meno: il passo è fondamentale per comprendere la poetica leopardiana. Superata una certa età, l’uomo di genio (il termine è romantico), anche se moderno, può riuscire a scrivere poesia di immaginazione più che di sentimento, perché al sentimento non si comanda, all’immaginazione sì. Si tratterà, però, di un’immaginazione che “vede” verità diverse da quelle su cui si basava la poesia degli antichi. In tale direzione si svilupperà tutta la ricerca poetica leopardiana nei successivi anni.

Poesia d’emozione e d’immaginazione La riflessione sul rapporto fra la moderna e romantica poesia sentimentale e l’antica poesia di immaginazione è continuamente ribadita nello Zibaldone, nonostante la posizione che il diciottenne poeta assume sul Romanticismo (Lettera ai compilatori della “Biblioteca italiana” del 1816 e Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, 1818) e che continua a ribadire nello Zibaldone (romanticismo, sistema falsiss. in teoria, in pratica, in natura, in ragione, in metafisica, in dialettica). Secondo Leopardi, la poesia sentimentale è propria dell’età moderna e si basa sul vero, sull’analisi dei sentimenti, sull’emozione e sulla passione, ma i poeti italiani non sanno realizzarla. Le definizioni che Leopardi dà di poesia sentimentale sono precise: è respiro dell’anima, nasce da rimembranze lontane e dolci, ha tono malinconico: in definitiva, evoca emozioni nel lettore. L’integrazione leopardiana La poesia di immaginazione, tipica dei classici e dei poeti antichi, si basa invece sull’evocazione di immagini. Nella poetica esposta nello Zibaldone e, in primo luogo, ne La ginestra, Leopardi riuscirà infine a integrare poesia sentimentale e di immaginazione sulla base di un’eroica accettazione del drammatico mito moderno dell’infelice sorte umana. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

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avoro sul testo

Comprensione 1. Riassumi il contenuto dei tre passi dello Zibaldone sulla poesia. Analisi e interpretazione 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Qual è il rapporto tra le concezioni illuministe, classiciste e romantiche di Leopardi sulla poesia? b. Quali sono gli elementi che secondo Leopardi caratterizzano la poesia moderna? c. Qual è il rapporto tra il pessimismo storico e la poesia degli antichi? Approfondimenti 3. Dopo aver letto il passo dello Zibaldone riportato di seguito, riassumilo ed evidenziane i temi principali. Le teorie delle quali i romantici han fatto tanto romore a’ nostri giorni, avrebbero dovuto restringersi a provare che non c’è bello assoluto, né quindi buon gusto stabile, e norma universale di esso per tutti i tempi e popoli, ch’esso varia secondo gli uni e gli altri, e che però il buon gusto, e quindi la poesia, le arti, l’eloquenza ecc. de’ tempi nostri, non denno essere quelle stesse degli antichi, nè quelle della Germania, le stesse che i francesi; che le regole assolutamente parlando non esistono. Ma essi son andati più avanti, hanno ricusato o male interpretato il giudizio e il modello della stessa natura parziale, sola norma del bello; il fanatismo e la smania di essere originali (qualità che bisogna avere ma non cercare) gli ha precipitati in mille stravaganze; hanno errato anche bene spesso in filosofia, ne’ principj, e nella speculativa non solo delle arti ec. ma anche della natura generale delle cose, dalla quale dipendono tutte le teorie di qualsivoglia genere (11 settembre 1821).

4. Leopardi rivela l’appassionata difesa della poesia del sentimento pur criticando il Romanticismo come movimento letterario. Questo amore-odio nei confronti della poesia romantica del suo tempo emerge spesso nello Zibaldone. La scrittura dev’essere scrittura e non algebra; deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l’esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell’animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? (22 aprile 1821).

Rifletti sul contenuto del passo, confrontalo con gli stralci dello Zibaldone proposti in antologia che riguardano la poesia, quindi tratta sinteticamente, in circa 20 righe, il seguente argomento: Lo stile romantico, la poesia sentimentale e le parole poetiche secondo Leopardi.

L’INTERPRETAZIONE CRITICA

Leopardi: la delusione storica e il progressismo

Cesare Luporini

In questa pagina il critico Cesare Luporini considera il sistema filosofico e tutto l’atteggiamento leopardiano come frutto di una delusione storica, ossia della particolare situazione sentimentale della generazione maturata sulle drammatiche esperienze della Rivoluzione francese e della Restaurazione. La “filosofia” del Leopardi si risolve tutta, o pressoché tutta, su questo terreno: egli fu un grande “moralista”, apparizione molto rara nella tradizione italiana e proprio per questo non facilmente comprensibile presso di noi. Il suo pensiero nasce da un’esperienza tragica, acutamente rappresentata e analizzata, e sia pure, com’è stato detto, esperienza di una “vita strozzata”: ma una vita strozzata è tuttavia una vita e può divenire, anche storicamente, altamente indicativa. L’importanza di questa esperienza e della sua espressione non è quindi nella pretesa alla universalità scientifica, ma nell’intensità e precisione che essa acquista e riesce a mantenere dentro il limite che le è proprio, per cui diventa in qualche modo esemplare e tipica. L’esperienza leopardiana ha le sue radici essenzialmente nell’epoca romantica, ma tuttavia la oltrepassa per la direzione in cui si svolge, per la schiettezza e virile compostezza con cui è vissuta e fatta oggetto di riflessione, priva com’è di estetizzante compiacimento e, quasi sempre, del gusto della sofferenza e dilacerazione da cui è materiata: “coscienza infelice” che non si culla in se medesima. I termini in cui si precisa questa esperienza sono, nel loro scomporsi e ricomporsi, legati strettamente, e in certo modo fisiologicamente, alla vicenda individuale di Leopardi; tuttavia, proprio per quella particolare esemplarità e intensità,

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hanno un ben delineato valore storico, rappresentano in una sua sfumatura la crisi di una società e di un’epoca (onde la risonanza europea del Leopardi), talché si può dire che nell’anima moderna vi è una nota inconfondibile che è il “momento leopardiano”. E il momento, drammaticamente sofferto, dell’isolamento del mondo interiore, della sua incongruenza con la realtà storica e con la quotidianità della vita.[...] Non bisogna dimenticare che questo romantico fu un ateo e un materialista, il quale non solo si tenne fedele, ma sempre più si confermò, da ultimo quasi con accanimento, nei principi del ’700; e già aveva combattuto al suo sorgere, in Italia, il Romanticismo letterario, di cui non accolse mai le forme e le convenzionali figurazioni, anche quando la sua poesia da poesia di immagini, si fece, per una crisi di vita, come egli ci dice, “poesia di sentimento”, ossia poesia romantica: “non divenni sentimentale se non quando, perduta la fantasia, divenni insensibile alla natura e tutto dedito alla ragione e al vero, cioè filosofo.” […] Per il Leopardi il Romanticismo è una conseguenza del razionalismo, non per antitesi dialettica, ma perché la ragione, distruggendo le immagini, nel cui gioco oggettivo il mondo classico si era chiuso e difeso, dà luogo a un “traboccare” del sentimento. Si stabilisce così una peculiarissima continuità fra ragione e sentimento che diverrà una caratteristica intrinseca della “impura” poesia leopardiana. Ma questa continuità, nei medesimi termini, viene proiettata dal Leopardi anche sul piano storico e costituirà per lui il drammatico e fondamentale problema, variamente tentato, del rapporto della propria età col secolo che l’ha preceduta. L’antitesi non è dunque, in Leopardi, parrebbe, fra ragione e sentimento, ma fra altri termini: inizialmente fra sentimento ed immagini; antitesi, sembrerebbe, tutta letteraria. Ma dietro di essa operava già un contrasto vitale; a cui Metastasio o Monti e i contrapposti romantici, eran di ben scarso paravento: il contrasto vitale fra natura e ragione, prima scena del dramma leopardiano. [...] Tuttavia tra Leopardi e Rousseau la divergenza è sostanziale, e questa divergenza è resa più importante di quanto era accaduto nei tempi trascorsi fra loro. Rousseau vive ante rem e Leopardi vive post rem, e questa cosa, decisiva per la posizione storica di ambedue, è stata la grande Rivoluzione. Rousseau aveva aperto la strada alla Rivoluzione e aveva aperto la strada anche al Romanticismo. Ora, Leopardi, che vive nel Romanticismo, lo rifiuta e non si abbandona alle sollecitazioni etiche e politiche che venivano da esso. E qui sta il punto più delicato per intendere tutta la posizione di Leopardi, il suo dramma, il suo intimo dissidio che non è tanto e soltanto un dissidio personale e soggettivo, ma un dissidio storico. Quella ragione, la ragione settecentesca, che egli condanna è anche la ragione che egli ama, l’unica che egli riconosce e sempre riconoscerà per tale, quella appunto che aveva prodotto la filosofia razionalistica e materialistica del ’700, quella che aveva acceso tante speranze in tutto il campo della civiltà umana, e soprattutto della vita sociale e poliAuguste Rodin, tica, speranze a cui ancora il Leopardi partecipa e che tuttavia L’uomo che egli riscontra deluse nei propri tempi. Alla radice di tutto l’atcammina, 1907. Parigi, teggiamento del Leopardi verso la “ragione” e verso la “filosoMusée d’Orsay. fia” sta questa delusione storica, in cui il momento politico è, naturalmente, decisivo [...] Dunque vi è almeno un punto, nella storia moderna, in cui si è stati “sollevati dalla barbarie” e questo punto è stato la Rivoluzione. In rapporto ad essa nasce il giudizio di Leopardi sulla propria epoca e sui due secoli che l’hanno preceduta. Ora, non è da credere che il giudizio negativo di Leopardi sulla propria epoca nasca tutto d’un colpo, sia tutto e soltanto un giudizio di risentimento e di avversione, di avversione moralistica. Esso è un giudizio che si è formato travagliatamente proprio attraverso il tentativo di giustificare questa epoca, di vedere in essa non un fallimento ma il principio di una vita nuova, lo svolgimento storico della Rivoluzione, di trovare in essa il filo della speranza. [...] Ora, il tentativo di giustificare la propria epoca è importante e probativo, proprio perché in esso opera già la delusione storica e quindi operano già le caratteristiche categorie leopardiane, natura, ragione, filosofia, illusione ecc., ed esso, sul piano teorico, diventa un tentativo di superarne la rigida contrapposizione e di trovare ulteriori termini di raccordo e di mediazione fra loro. da Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Sansoni, Firenze, 1947

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Concetti chiave LA VITA Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798. Il difficile rapporto con i genitori e la malattia accentuano la sua sensibilità, stimolandolo ad indagare il dolore insito nella condizione umana. Dopo la prima età passata a studiare in isolamento, l’ambiente chiuso di Recanati lo spinge a tentativi di fuga dal paese (e ad intrecciare un fondamentale rapporto epistolare con Pietro Giordani); ma la delusione conseguente al soggiorno romano determina un giudizio radicalmente negativo su tutto il mondo moderno e l’Italia, a suo parere malata di egoismo e individualismo. Dopo soggiorni non duraturi in alcune città quali Milano e Firenze (dove conosce gli intellettuali dell’“Antologia” e Manzoni) e il ritorno a Recanati, Leopardi muore a Napoli nel 1837, dove si è trasferito con l’amico Antonio Ranieri. IL PENSIERO E LA POETICA La formazione culturale di Leopardi, raggiunta da autodidatta nella biblioteca del padre Monaldo, è ricca e approfondita: comprende le lingue antiche e moderne, i classici greci, latini e italiani, l’Illuminismo dei pensatori sensisti e materialisti. Il pensiero leopardiano si fonda sulla teoria del piacere, secondo cui l’uomo desidera una felicità insieme completa e illimitata, cosa in sé impossibile. In un primo momento, Leopardi pensa che la natura benigna abbia compensato tale impossibilità con l’immaginazione e la fantasticheria. Ma la ragione, distruggendo le illusioni, ha rivelato all’uomo la verità, condannandolo alla sofferenza. Di qui la minore infelicità degli antichi e dei fanciulli, dominati dall’immaginazione, rispetto ai moderni (fase del pessimismo storico). Verso il 1823, la scoperta della contraddizione tra lo scopo dell’uomo (la felicità) e lo scopo della Natura (la conservazione della specie, che comporta il sacrificio dei singoli individui) lo spinge a definire la Natura stessa non madre benigna, ma matrigna delle sue creature e ad affermare che il dolore è sostanziale e universale nel creato (fase del pessimismo cosmico). Leopardi è estraneo al Risorgimento e ostile a ogni ideologia ottimista e progressista, e solo nell’ultima parte della sua vita si appella alla

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ragione come strumento per raggiungere la solidarietà tra gli uomini. Lo scrittore riconosce i passaggi della propria poetica in una prima fase in cui passa dall’erudizione al bello (cioè alla poesia, verso il 1816) – producendo liriche di gusto classicista, Le rimembranze e il Discorso intorno alla poesia romantica – e in una seconda fase in cui, passando dal bello al vero (cioè dalla poesia immaginifica degli antichi a quella moderna, 1817-1819), esprime la sua produzione matura distinguibile in alcuni momenti fondamentali. Nel primo momento (1818-1822), Leopardi esprime il pessimismo storico nei piccoli idilli (Alla luna, L’infinito, La sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria) e nelle canzoni civili (All’Italia) e filosofiche (Bruto minore e Ultimo canto di Saffo), che esplicitano, in versi, la concezione fin qui maturata. Durante un periodo di silenzio poetico, Leopardi inizia la composizione delle Operette morali, a carattere filosofico, in cui avvia l’elaborazione del pessimismo cosmico. Nel secondo momento (1828-1830) Leopardi scrive i grandi idilli a tema filosofico (A Silvia, Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia), detti anche canti pisano-recanatesi, in cui è ampio lo sviluppo del pessimismo cosmico. Il terzo momento (1831-1836) è rappresentato dal “ciclo di Aspasia”, dalla polemica antispiritualistica e dalla ribellione eroica e titanica dell’individuo contro la Natura matrigna. Il quarto momento è quello del testamento spirituale La ginestra (1836), in cui Leopardi sostiene la necessità della consapevolezza razionale della condizione umana che crei la solidarietà tra gli uomini contro la Natura. I CANTI Nell’edizione postuma definitiva (curata da Antonio Ranieri nel 1845 per Le Monnier di Firenze, ordinata e corretta da Leopardi prima di morire), la raccolta dei Canti è composta da 41 liriche. I versi più frequenti sono gli endecasillabi sciolti e la forma poetica più usata è la canzone libera (detta anche leopardiana) organizzata in strofe, spesso di endecasillabi e settenari, a rima libera.

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Oltre ai molti richiami classici antichi, i modelli dei Canti sono soprattutto Dante (per il tema del viaggio fondato sulla memoria e la connessione tra poesia e filosofia), Petrarca (come autorità indiscussa del genere lirico), Tasso (per la poesia del dolore) e Foscolo (per immagini, temi e strutture). Il tono lirico è privilegiato e si integra perfettamente con la riflessione filosofica e a volte con una sottile vena ironica. Lo stile è originale, composto da una metrica nuova, ispirata ai classici nell’idillio e soprattutto nella canzone, con rime libere e molte consonanze, e un lessico spesso arcaico e indefinito per suscitare emozioni e sentimenti. Le nove canzoni seguono ancora lo schema della canzone petrarchesca: Ad Angelo Mai e Alla primavera sono basate sulla contrapposizione tra la condizione felice degli antichi e la decadenza dei moderni, cui si contrappone la scelta eroica del suicidio nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo. I cosiddetti piccoli idilli sono componimenti in endecasillabi sciolti, in cui la visione si sposta dal paesaggio esterno all’analisi dell’interiorità e alla riflessione. I cosiddetti canti pisano-recanatesi o grandi idilli rappresentano la grande stagione della poesia leopardiana, caratterizzata dall’adozione della canzone libera e dalla poetica della rimembranza. Sono: A Silvia, sulla morte della speranza giovanile; Le ricordanze, sul tema del ricordo e della rappresentazione del natio borgo selvaggio di Recanati; Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, definizione del pessimismo cosmico; La quiete dopo la tempesta, sul sollievo derivante dalla cessazione di un dolore; Il sabato del villaggio, sulla superiorità dell’attesa di un bene rispetto al suo conseguimento. Il “ciclo di Aspasia”, gruppo di componimenti caratterizzato dallo stile secco e tagliente e dal titanismo, nasce dalla passione delusa per Fanny Targioni Tozzetti, e intende l’amore solo come malvagio inganno della natura volto alla propagazione della specie.

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Infine La ginestra rappresenta il testamento spirituale di Leopardi, in cui oppone alla miseria interiore dei contemporanei la grandezza d’animo di chi, come lui, guarda in faccia la verità della misera condizione umana senza illudersi e non ha paura di fronte alla malignità della natura, contro cui propone un’alleanza solidale tra gli uomini basata sull’uso della ragione. LE OPERETTE MORALI Tra il 1824 e il 1832, durante gli anni del silenzio poetico e nel periodo dei grandi idilli la riflessione filosofica trova espressione nella prosa delle Operette morali, strutturate per lo più in forma di dialoghi – prevalentemente satirici – tra personificazioni o personaggi del passato, alla maniera dello scrittore greco Luciano. Attraverso il dialogo e l’ironia, il lettore scopre la verità leopardiana oltre i falsi valori e le false credenze del mondo moderno. I temi principali sono l’impossibilità della felicità (Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere), il dolore e la noia, la sofferenza come condizione dell’intero universo e l’accusa contro la crudeltà della Natura (Dialogo della Natura e di un Islandese), la critica dell’antropocentrismo e della fiducia nel progresso, l’opposizione al suicidio, la morte e la fine dell’intero universo come liberazione dai mali (Cantico del gallo silvestre). LO ZIBALDONE Lo Zibaldone è un diario e una raccolta di appunti e riflessioni di circa quattromila pagine in cui compaiono questioni e argomenti autobiografici, ma soprattutto temi filosofici, linguistici, estetici e letterari e preparano la composizione di poesie e opere del poeta. La raccolta viene stesa tra il 1817 e il 1832 e pubblicata postuma (come i Pensieri, suo seguito ideale). Il nome, che anticamente indicava un piatto composto da molti ingredienti, viene scelto da Leopardi come sinonimo metaforico di “quaderno di appunti, notizie, pensieri senza ordine”.

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sercizi di sintesi e per l’Esame di Stato

1 Indica con una x la risposta corretta. 1. Giacomo Leopardi abbandona la fede cristiana a. nel 1819, dopo aver studiato i filosofi illuministi. b. dopo l’approdo alla fase del pessimismo cosmico. c. nel 1820, influenzato da Pietro Giordani. d. nella fase del titanismo. 2. Nel 1827 a Firenze Leopardi incontra a. Pietro Giordani. b. Angelo Mai. c. Vincenzo Monti. d. Alessandro Manzoni. 3. Leopardi trascorre gli ultimi anni della sua vita a. a Firenze. b. a Pisa. c. a Napoli. d. a Recanati. 4. La donna che ispira il “ciclo di Aspasia” è a. Adelaide Antici. b. Teresa Fattorini. c. Isabella Teotochi Albrizzi. d. Fanny Targioni Tozzetti. 5. Giacomo Leopardi muore a. a Firenze nel 1836. b. a Bologna nel 1834. c. a Napoli nel 1837. d. a Recanati nel 1847. 6. I Canti di Leopardi, nella terza e definitiva edizione postuma, comprendono a. 41 liriche. b. 40 liriche. c. 39 liriche. d. 38 liriche. 7. I piccoli idilli traggono spunto da un’esperienza emotiva suscitata dalla natura e a. attraverso un sentimento arrivano a una conclusione filosofica. b. attraverso la malinconia passano al pessimismo prima storico, poi cosmico. c. attraverso un’emozione approdano a una concezione solidaristica. d. attraverso la sofferenza portano al pessimismo cosmico. 8. Tra i piccoli idilli i critici collocano a. La quiete dopo la tempesta, A Silvia. b. Alla luna, L’infinito e La sera del dì di festa. c. A Silvia, Il sogno e L’infinito. d. La sera del dì di festa, A se stesso e Alla luna.

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9. Le liriche del “ciclo di Aspasia” comprendono anche a. Il tramonto della luna. b. A se stesso. c. Ultimo canto di Saffo. d. A Silvia. 10. Il testamento spirituale e poetico di Leopardi è a. La ginestra. b. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. c. A Silvia. d. L’infinito. 11. Le Operette morali sono a. annotazioni diaristiche in prosa. b. dialoghi di carattere filosofico e morale. c. aforismi di carattere filosofico o morale. d. testi poetici di carattere filosofico. 12. Lo Zibaldone è un diario a. di riflessioni sulle dolorose esperienze di vita. b. di meditazioni di carattere romantico. c. di meditazioni di stampo illuministico. d. di riflessioni personali, filosofiche, linguistiche e di preparazione delle opere. 13. La parabola del pensiero di Leopardi va dall’accusa giovanile alla ragione di aver distrutto sogni e illusioni a. alla convinzione matura che solo il sentimento può far conoscere all’uomo la verità. b. all’esaltazione matura della ragione che ha il coraggio di riconoscere l’infelicità della condizione umana. c. alla condanna della ragione cui vengono imputati i mali causati dalla Rivoluzione francese. d. all’esaltazione del sentimento da cui nasce la grande poesia classicista. 14. La teoria del pessimismo storico è propria a. della fase matura di Leopardi. b. della giovinezza di Leopardi. c. di tutta la riflessione filosofica del poeta recanatese. d. dell’ultima fase della riflessione del poeta recanatese. 15. La teoria leopardiana del pessimismo cosmico a. consiste nell’estendere ai classici il pessimismo sull’infelicità dei moderni. b. fa derivare l’infelicità di ogni essere vivente dalla Natura, ritenuta matrigna. c. si manifesta a partire dai piccoli idilli. d. si manifesta a partire dalle liriche del “ciclo di Aspasia”.

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16. Il suicidio è rifiutato da Leopardi a. per non soffrire ancora di più. b. per non arrendersi alla Natura matrigna. c. per non far soffrire maggiormente le persone care. d. per timore di una punizione divina. 17. Nella Ginestra il comportamento reciproco prevalente fra gli uomini è paragonato a. a quello di formiche che si aiutano nella ricostruzione dei formicai. b. a quello delle ginestre che vivono nella lava pietrificata del vulcano. c. a quello degli assediati che, anziché aiutarsi, si colpiscono l’un l’altro. d. a quello di lupi che si sbranano l’un l’altro. 18. Nella Ginestra si ironizza sulle magnifiche sorti e progressive dell’uomo in quanto a. la natura può distruggere in un attimo gli uomini e tutte le loro opere. b. gli antichi sono molto più sapienti e avanzati degli uomini del XIX secolo. c. gli uomini non possono più fare nuove scoperte scientifiche. d. l’universo e la natura umana vanno verso l’invecchiamento e la morte.

ANALISI DEL TESTO

2 Leggi il testo e svolgi gli esercizi proposti. L’idillio La sera del dì di festa contiene molti dei temi della poesia leopardiana, inquadrato com’è nella parabola filosofica e nella poetica complessiva di quest’autore, il cui nichilismo – tutto passa e svanisce nel nulla – prelude a quello ben più estremo della cultura del Novecento. Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. O donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, che t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno. A te la speme1 nego, mi disse, anche la speme; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. 1. speme: speranza.

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Questo dì fu solenne2: or da’ trastulli3 prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te: non io, non già, ch’io speri, al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate! Ahi, per la via odo non lunge4 il solitario canto dell’artigian, che riede5 a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello;6 e fieramente7 mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso8, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto che s’udia per li sentieri lontanando9 morire a poco a poco, già similmente mi stringeva il core. da Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano, 1996 2. solenne: festivo. 3. trastulli: svaghi. 4. non lunge: non lontano. 5. riede: ritorna. 6. povero ostello: modesta casa. 7. fieramente: crudelmente. 8. doloroso: addolorato. 9. lontanando: allontanandosi.

Comprensione 1. Dopo aver riletto con attenzione il testo (e le relative note), riassumilo in non più di 12 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 3 righe per ogni risposta): a. In quale momento del giorno è ambientato il componimento? b. A chi si rivolge il poeta all’inizio del componimento? c. Che cosa sogna la donna amata dal poeta? d. Perché il poeta si chiede quanto tempo gli resti da vivere? Analisi e interpretazione 3. Quali sono le caratteristiche metriche e ritmiche del testo?

CAP. 21 - GIACOMO LEOPARDI

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4. Analizza La sera del dì di festa dal punto di vista lessicale-semantico, sottolineando tutti i termini che fanno riferimento al tema della ricordanza. 5. Rispondi alle seguenti domande (max 8 righe per ogni risposta): a. Perché per Leopardi è tanto importante il tema della ricordanza? b. Che cosa rappresenta il giorno di festa per Leopardi? Approfondimenti 6. Rileggi il testo e tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti ai versi: Il tema della ricordanza ne La sera del dì di festa. 7. Gli idilli di Leopardi, a sfondo naturale e agreste, possono essere ricondotti al modello dell’Arcadia settecentesca? Motiva la tua risposta. SAGGIO BREVE / ARTICOLO

3 Sviluppa uno dei seguenti argomenti in forma di saggio breve o di articolo di giornale, utilizzando come materiali di consultazione tutte le pagine dedicate a Leopardi presenti in questo volume (comprese le pagine antologiche e critiche). Dài all’elaborato un titolo coerente con la trattazione e indicane una destinazione editoriale a tua scelta. Per entrambe le forme di scrittura non superare le tre colonne di metà foglio protocollo.

1. La formazione culturale, il pensiero e la poetica di Giacomo Leopardi, grande poeta e significativo filosofo. 2. Gli idilli e i canti pisano-recanatesi, passaggio centrale della produzione lirica leopardiana. 3. Le idee di infinito e rimembranza in Leopardi. 4. I principali elementi dei Canti di Giacomo Leopardi che lo rendono un grande e innovativo poeta. 5. Leopardi filosofo.

TEMA DI ARGOMENTO STORICO

4 Il XIX secolo in cui visse Giacomo Leopardi è da lui giudicato secolo superbo e sciocco. Dopo avere chiarito i motivi che inducono lo scrittore a muovere al suo tempo una critica tanto pesante, spiega perché, a tuo avviso, la formazione e l’ambiente recanatese hanno contribuito a generare una tale presa di posizione nel contesto delle principali vicende storiche e politiche del periodo.

TEMA DI ORDINE GENERALE

5 La Weltanschaung è la concezione del mondo e delle cose, ovvero il sistema ideologico, l’insieme delle idee che consentono un’interpretazione organica della realtà nei suoi molteplici aspetti. Qual è la concezione del mondo di Leopardi? La condividi? E qual è la tua?

Balconata del parco di casa Leopardi, oggi trasformato in parco letterario, per il suo profondo legame con la poesia del poeta.

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Francisco Goya y Lucientes, Fucilazione del 3 maggio 1808, 1814. Madrid, Museo del Prado. In questa tela Goya raffigura un episodio di storia contemporanea: la fucilazione di alcuni patrioti spagnoli da parte dei soldati francesi. Tra il 1808 e il 1814, infatti, la Spagna era caduta sotto la dominazione napoleonica. Oltre a sottolineare il valore della resistenza madrilena, contro lo straniero occupante, il pittore esprime la cieca brutalità della violenza, rendendo la sua opera un emblema universale dell’orrore e delle atrocità di tutte le guerre. Una vasta gamma di sentimenti viene registrata sui volti dei condannati, dalla paura alla disperazione, fino all’accettazione del martirio, esemplificata dall’uomo con la camicia bianca, che spalanca le braccia come in un gesto di crocifissione.

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Caspar David Friedrich, Donna al tramonto del sole, 1818. Essen, Folkwang Museum. In questa tela, come nel Viandante sul mare di nebbia (per cui cfr. pag. 498), Friedrich presenta una figura umana in solitudine di fronte all’immensità del paesaggio. La donna, perfettamente centrale e vista di spalle, allarga le braccia in un gesto che potrebbe essere di stupore e ammirazione, ma anche una promessa di unione con il divino, simboleggiato dallo spettacolo del sole che tramonta. Il sentimento del sublime, provocato da scenari che richiamano l’immensità e le forze terribili della natura, si accompagna in Friedrich a una forte componente religiosa. Secondo l’artista tedesco, infatti, la natura parla, in maniera misteriosa e cifrata, il linguaggio di Dio: Il Divino è ovunque, anche in un granello di sabbia.

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Francesco Hayez, Il bacio, 1859. Milano, Pinacoteca di Brera. Il celebre dipinto, in cui un giovane stringe in un abbraccio appassionato la sua donna, si direbbe appartenere al filone sentimentale e letterario così di moda a metà Ottocento. L’ambientazione non è contemporanea: la scena dell’incontro tra i due amanti si svolge in un castello e anche i loro abiti fanno pensare al Medioevo. Il tema di fondo sembra dunque essere l’amore, ma una lettura in chiave sentimentale non esaurisce il senso del dipinto, che, realizzato nell’anno della Seconda guerra d’indipendenza, assume un significato politico e patriottico. Il giovane simboleggia infatti uno dei volontari del Risorgimento italiano e l’ardore del bacio nasce anche dal pensiero della lontananza e dei rischi connessi alla guerra.

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Gustave Courbet, Lo studio dell’artista (particolare), 1854-1855. Parigi, Museo d’Orsay. Negli anni Quaranta Courbet viene a contatto con molti intellettuali di avanguardia, da Charles Baudelaire a Champfleury (lo scrittore francese che in un saggio del 1857 sostiene la necessità di una nuova narrativa realista), a Pierre-Joseph Proudhon, teorico francese del socialismo. Abbandona così gli accenti romantici delle prime opere, per dedicarsi a soggetti realistici: Lo studio dell’artista vuole essere un quadro-manifesto, esplicativo del nuovo modo di intendere il ruolo del pittore nella società. Al centro l’artista dipinge un paesaggio, osservato da una modella nuda (allusione alla nuda verità) e da un bambino, che richiama valori quali la purezza e l’ingenuità.

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William Hogarth, Matrimonio alla moda, 1744, particolare. Londra, National Gallery.

Percorsi tematici

PERCORSO

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Giornalismo:

divulgazione, costume, società

Giovanni Boldini, Il giornalaio, 1880 circa. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

LA Gli antenati dei giornali

NASCITA E LO SVILUPPO DEL GIORNALISMO

Già sul finire del Cinquecento a Venezia si era diffusa l’abitudine di affiggere in bacheche, poste nei luoghi più affollati della città, i cosiddetti avisi (“avvisi”), fogli contenenti succinti resoconti dei più recenti avvenimenti locali.

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Traiano Boccalini e i Ragguagli di Parnaso I periodici del Seicento

Il legame fra Illuminismo e stampa periodica

L’Inghilterra, patria del giornalismo I primi giornali inglesi

Il “Times” e i giornali di opinione e popolari

Veneziana è pure la gazzetta (così detta dal nome della moneta necessaria per acquistarla), che nasce alle soglie del Seicento. Ben presto assume, per il successo dell’iniziativa, un’impaginazione in quattro fogli e, gestita dal governo ducale, diventa un importante strumento per indirizzare l’opinione pubblica. A imitazione di tali primi modelli, nel corso del Seicento si diffondono in tutta Europa periodici di più ampio respiro e importanza. Il fenomeno trova subito riscontro in letteratura con l’opera Ragguagli di Parnaso del marchigiano Traiano Boccalini (1556-1613), in cui un immaginario corrispondente finge di inviare resoconti dal regno delle Muse. Il testo può considerarsi uno dei primi esempi dello stile del corsivo giornalistico. Il primo giornale europeo con requisiti di costante periodicità e dignità letteraria è considerato il “Journal des savants”, pubblicato a Parigi da Denis de Sallo nel 1665. In Italia, il primo periodico letterario è il romano “Giornale de’ letterati”, diretto da Nazzari ed edito fino al 1679. Nella penisola, Venezia e Firenze ospitano le stamperie più attrezzate e pubblicano i migliori periodici italiani, come la “Gazzetta Veneta” (1760-1761) del veneziano Gasparo Gozzi. L’Illuminismo ha un ruolo importante nella nascita del giornalismo per la concezione antielitaria e democratica del sapere, la tensione alla divulgazione e l’educazione delle masse, l’interesse per le scienze e le tecniche. Sono gli intellettuali illuministi i primi a scrivere opuscoli, pamphlets polemici, romanzi filosofici a scopo didascalico, pubblicazioni a dispense e articoli di giornale per periodici in un linguaggio semplice e chiaro, che vuole essere capito da tutti i lettori. È però in Inghilterra che, agli inizi del Settecento, si afferma il moderno giornalismo, che diventa un importante strumento di divulgazione delle conoscenze e di formazione dell’opinione pubblica. I primi importanti periodici inglesi sono il “Daily Courant” (1702) di Samuel Buckley, ma soprattutto “The Tatler” (“Il chiacchierone”, 1709-1711) e “The Spectator” (“Lo spettatore”, 1711-1714), fondati, rispettivamente, da Richard Steele e Joseph Addison. Tuttavia, fino alla metà dell’Ottocento, i giornali – pur allontanandosi dal modello originario degli avisi, basati su notizie essenziali e del tutto privi di inserti iconografici, tranne per qualche rara incisione – si avvicinano più alle attuali riviste culturali che ai quotidiani di oggi. Bisogna attendere fino al 1785 per la nascita delle prime testate di opinione, come il “Times” di John Walter, che si afferma in Inghilterra grazie alle notizie tempestive sulla Rivoluzione francese, e il “New York Times” negli Stati Uniti, o giornali popolari come il francese “Petit Parisie”, che conta una tiratura domenicale di due milioni di copie.

IL La situazione di Londra

Un nuovo genere di scrittura

La popolarità del giornalismo

GIORNALISMO NELL’OTTOCENTO

Come abbiamo detto, nella Londra del Settecento e della prima Rivoluzione industriale, dove l’alfabetizzazione è la più alta d’Europa, i giornali moderni sono una realtà profondamente radicata e in piena espansione. Nel 1750 vendono oltre 20.000 copie al giorno, raggiungendo consistenti settori del ceto medio. Nella stessa epoca, i libri hanno decine di migliaia di acquirenti, proliferano le biblioteche, nascono scrittori che sono anche librai e tipografi come, ad esempio, Samuel Richardson, l’autore di Pamela (1714). Il fenomeno si intensifica nel corso dell’Ottocento, soprattutto dalla metà del secolo in poi, quando i giornali iniziano a diffondersi anche fra un pubblico popolare; in particolare nasce un nuovo genere di scrittura e di scrittore: l’articolo giornalistico (all’inizio chiamato saggio e destinato a differenziarsi in sottogeneri) e il giornalista, personaggio in bilico tra il romanziere, il saggista, l’opinionista, il divulgatore e il propagandista politico. L’importanza e la popolarità di cui gode il giornalismo in Gran Bretagna sono testimoniate dal fatto che un significativo autore come Charles Dickens (1812-1870) comincia la sua attività di scrittore proprio pubblicando articoli sulle riviste del suo

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PERCORSO 1 - GIORNALISMO:

DIVULGAZIONE, COSTUME, SOCIETÀ

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Le trasformazioni di metà Ottocento

La narrativa d’appendice

Un nuovo modo di scrivere

tempo. Esponente fondamentale del Realismo in narrativa, Dickens è particolarmente attento ai cambiamenti socio-culturali del periodo: egli dedica al giornalismo un inserto ampio e dettagliato in uno dei suoi romanzi più noti, David Copperfield (1850), in cui il giovane protagonista si cimenta con lo studio della stenografia per poter iniziare la collaborazione con un giornale attraverso resoconti dell’attività parlamentare londinese. Dopo la metà dell’Ottocento, nell’Europa e negli Stati Uniti della seconda Rivoluzione industriale, l’editoria e il suo mercato conoscono una profonda trasformazione cha investe, in particolar modo, il giornalismo. I giornali diventano prodotti di consumo di carattere informativo, espositivo e letterario in spazi ridotti e ad alte tirature. Grazie al suo sviluppo, il giornalismo diventa anche un mezzo di divulgazione della narrativa. Spesso, infatti, questi periodici pubblicano in appendice romanzi a puntate: il successo di mercato di tali opere è significativo. In questo contesto nascono prodotti destinati a un pubblico nuovo, più ampio e popolare, come il feuilleton (o romanzo d’appendice a grandi fogli), la narrativa femminile e quella per ragazzi. Il fenomeno porta all’affermazione di un nuovo modo di scrivere, in cui prevalgono la necessità di suscitare l’interesse e la curiosità del lettore per invogliarlo a continuare la lettura, una certa ripetitività per favorire il ricordo di informazioni precedenti necessarie alla comprensione, la capacità di documentazione rapida e sintetica e soprattutto una semplificazione e un’uniformità di stile e linguaggio. Le regole di questo nuovo tipo di scrittura sono molto diverse da quelle usate dallo scrittore che attingeva ai grandi modelli della tradizione e vedeva nello scrivere un mezzo per indagare le profondità dell’animo umano. Il giornalista deve evitare un linguaggio colto o sperimentale nella ricerca di uno stile il più possibile medio e popolare, in grado di essere compreso da un pubblico di massa. Tale scopo si raggiunge evitando il lessico alto, semplificando la sintassi ed eliminando le descrizioni di valore artistico.

I La “Gazzetta di Parma” e i giornali letterari in Italia

GIORNALI IN ITALIA

Il più antico giornale italiano, ispirato alla stampa inglese e all’ideologia illuminista, è la “Gazzetta di Parma”, nata nel 1735 e destinata a trasformarsi in quotidiano nel 1850. Si moltiplicano, intanto, anche i giornali letterari, che formano l’opinione pubblica su questioni di pensiero, di credenze, di storia e di letteratura. La differenziazione fra i due generi di pubblicazione distingue la diversa specializzazione professionale del gazzettiere da quella del vero e proprio giornalista, spesso anche letterato. Nel corso del Settecento, in ogni città italiana di rilievo si verifica un proliferare di pubblicazioni, come il “Giornale de’ letterati” di Pisa e la “Gazzetta universale” di Firenze. I due periodici italiani più famosi sono, nel Settecento, “Il Caffè” e, all’inizio dell’Ottocento, “Il Conciliatore”, entrambi lombardi. Venditrice di giornali.

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A Milano – il centro più importante dell’Illuminismo settecentesco italiano e dello sviluppo economico, favorito dal riformismo di Maria Teresa e Giuseppe II d’Asburgo – i fratelli Pietro (1728-1797) e Alessandro (1741-1816) Verri sono i fondatori e i principali animatori del periodico “Il Caffè” (1764-1766). Punto di riferimento dei circoli illuministi milanesi, “Il Caffè” esce con cadenza trimestrale, in 74 numeri di otto pagine, si ispira al modello del giornalismo inglese ed è il primo giornale italiano in cui non si parli solo di letteratura, ma di problemi concreti della società del tempo. “Il Conciliatore”, La diffusione del giornalismo in Italia si salda alle istanze di libertà e di indipenpatriottico e denza nazionale del Risorgimento con la comparsa del periodico letterario “Il Conromantico ciliatore”, nato anch’esso a Milano, nel 1818. Tale testata raggruppa i patrioti antiaustriaci e gli intellettuali progressisti, conciliando la tradizione illuministica con le nuove concezioni romantiche. Celebre direttore ne è Silvio Pellico (1789-1854), che dopo la soppressione della rivista nel 1819 e il carcere nello Spielberg, scrive Le mie prigioni. Altri periodici Altri importanti periodici italiani dell’epoca sono “La biblioteca italiana”, che ospiottocenteschi ta la famosa polemica tra classicisti e Romantici innescata dalla lettera di Madame de Staël; “L’Antologia”, fondata nel 1821 da Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863) a Firenze; “Il Politecnico” (1839-1844) di Carlo Cattaneo (1801-1869). Dopo l’Unità d’Italia, con l’introduzione della rotativa, la casa editrice dei fratelli Treves lancia il “Corriere della Sera”, quotidiano fondato nel 1876 dal napoletano Eugenio Torelli-Viollier, che ne è anche il primo direttore. Nel 1895 dalla “Gazzetta” piemontese trae origine “La Stampa” e nel 1878 viene pubblicato “Il Messaggero”. Solo all’inizio del Novecento nasceranno i primi giornali di propaganda politica e di partito. “Il Caffè”, punto di riferimento illuminista

UNA Le nuove sfide dell’informazione

Una tematica ancora attuale

VOCE CONTEMPORANEA:

MINO MONICELLI

Nel Novecento il giornalismo cambia profondamente, soprattutto a causa del grande sviluppo di nuovi e potenti mezzi di comunicazione di massa come la radio, la televisione e – in tempi più vicini a noi – Internet, che portano le notizie nelle case in tempo reale. Negli ultimi anni i giornali cartacei stanno vivendo una forte crisi, che mette in gioco la sopravvivenza delle grandi redazioni tradizionali. L’apporto delle nuove tecnologie e la conseguente diffusione di canali e strumenti che facilitano l’accesso all’informazione (citiamo qui, ad esempio, i computer tablet e gli smartphone) aprono nuove sfide. Il superamento del localismo e la globalizzazione delle notizie sono altri due elementi che caratterizzano il giornalismo contemporaneo. Sin dagli anni Cinquanta, in Italia i giornali affrontano il tema dell’immigrazione, ancora oggi di forte attualità. Tra il 1955 e il 1970 cambiarono regione ben 10 milioni di persone, e le condizioni di vita dei nostri immigrati somigliavano terribilmente a quelle di chi arriva oggi con un barcone sulle coste italiane. da Mario Calabresi, Cosa tiene accese le stelle, Mondadori, Milano, 2011

Il fenomeno, che ha causato il trasferimento di moltissime persone dal Sud Italia alle città industriali del Nord, soprattutto Torino e Milano, sedi delle grandi industrie, è considerato uno dei fattori fondamentali del boom economico del Paese, ma si lega anche a drammatici conflitti, come testimonia l’articolo di Mino Monicelli (1919-2000), che in quegli anni scriveva su L’Espresso, uno dei periodici più sensibili alle tematiche sociali. Lo stile giornalistico di Monicelli si ricollega, in chiave più moderna, anche a quello delle celebri corrispondenze di scrittori come Luigi Barzini, che all’inizio del Novecento presentava le tristi condizioni dei nostri connazionali emigrati in Paesi come l’Argentina o gli Stati Uniti d’America.

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PERCORSO 1 - GIORNALISMO:

DIVULGAZIONE, COSTUME, SOCIETÀ

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T1 Tra satira politica e pubblicistica da Ragguagli di Parnaso

Traiano Boccalini

Traiano Boccalini, con la sua opera più nota, Ragguagli di Parnaso (pubblicata tra il 1612 e il 1615), dà voce alla satira politica e alla pubblicistica colta del Seicento, condannando il potere oppressivo incarnato nel governo spagnolo del tempo e vagheggiando un ideale ancora generico di Italia indipendente. L’interesse dell’opera risiede nel fatto che rappresenta non un trattato politico organico, ma una serie di vivaci testi “giornalistici” attraverso i quali l’autore immagina delle corrispondenze di cronaca o reportage – come potremmo definirli con linguaggio moderno – che descrivono quanto avviene nel Parnaso, un regno che assume il nome dal mitologico monte sacro alle Muse e ad Apollo. Nei Ragguagli è interessante l’innovativo stile, tipico in seguito del cosiddetto corsivo giornalistico, che consiste nel satireggiare con tono bonario e scherzoso e consente all’autore di non essere direttamente imputato per le proprie affermazioni. Il testo proposto riguarda la condanna all’Indice dei libri proibiti de Il Principe di Machiavelli. PISTE DI LETTURA • Il processo a Machiavelli nel tribunale di Parnaso • I termini metaforici della condanna • Lo stile giornalistico e il tono ironico

Centuria prima, LXXXIX. Niccolò Macchiavelli capitalmente sbandito1 da Parnaso, essendo stato ritrovato ascoso2 nella Biblioteca di un suo amico, contra lui viene eseguita la sentenza data prima del fuoco. Tutto che3 Niccolò Macchiavelli molti anni sono fosse sbandito da Parnaso e suo territorio4 con pena gravissima tanto a lui, quanto a quelli, che avessero ardito nella loro Biblioteca dar ricetto5 ad uomo tanto pernicioso6, la settimana passata nondimeno in casa di un suo amico, che secretamente lo teneva ascoso nella sua libraria, fu fatto prigione7. Dai Giudici criminali subito fu fatta la ricognizione della persona8, e questa mattina contro lui doveva eseguirsi la pena del fuoco9, quando egli fece intendere a sua Maestà10, che prima gli fosse conceduto che avanti il tribunale che l’avea condennato potesse dire alcune cose in sua difesa. L’arresto Apollo, usando verso lui la sua solita benignità gli fece sapere, che mandasse i e il processo suoi Avvocati, che cortesemente sarebbero stati ascoltati. Replicò il Macchiavela Machiavelli li, che voleva egli difender la causa sua, e che i Fiorentini nel dir le ragioni loro non avevano bisogno di Avvocati. Di modo che li fu conceduto quanto domandava. Il Macchiavelli dunque fu introdotto nella Quarantia Criminale11, dove in sua difesa ragionò in questo modo: Ecco, o Sire de’ letterati, quel Niccolò Macchiavelli, che è stato condennato per seduttore, e corrutore del genere umano, e per seminatore di scandalosi precetti politici. Io in tanto non intendo difendere gli scritti miei, che pubblicamente gli accuso, e condanno per empi, per pieni di crudeli, ed esecrandi documenti12 da governare gli Stati.

1. capitalmente sbandito: messo al bando con pena di morte. 2. ascoso: nascosto. 3. Tutto che: sebbene, quantunque; introduce una proposizione concessiva. 4. Parnaso e suo territorio: si allude alla condanna all’Indice dei libri proibiti delle opere di Machiavelli, avvenuta nel 1559, durante gli anni del Concilio di Trento. 5. dar ricetto: tenere, accogliere. 6. pernicioso: pericoloso. 7. fu fatto prigione: fu arrestato. 8. fu fatta... persona: fu identificato. La terminologia spe-

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cifica di carattere giuridico accentua il carattere giocoso del passo. 9. doveva... fuoco: doveva essere bruciato. 10. sua Maestà: si tratta di Apollo, il supremo re del monte Parnaso. 11. Quarantia Criminale: nel regno di Parnaso immaginato dall’autore vi è spesso un riferimento alla realtà terrena. Così viene riportato il nome di una magistratura penale composta di quaranta membri, operante in quei tempi a Firenze. 12. documenti: non nel senso moderno di documentazione, ma in quello di origine classica di “insegnamenti” (dal latino doceo).

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Di modo che se quella, che ho pubblicata alla stampa, è dottrina inventata di mio capo, e sono precetti nuovi, dimando, che pur ora13 contro di me irremissibilmente14 si eseguisca la sentenza che a’ Giudici è piaciuto darmi contro: ma se gli Scritti miei altro non contengono, che quei Precetti Politici e quelle Regole di Stato, che ho cavate dalle azioni di alcuni Prencipi, che se Vostra Maestà mi darà licenza, nominarò in questo luogo, de’ quali è pena la vita dir male, qual giustizia, qual ragione vuole, ch’essi, che hanno inventata l’arrabbiata e disperata politica scritta da me, sieno tenuti sacrosanti, io, che solo l’ho pubblicata, un ribaldo, un ateista? Che certo non so vedere, per qual cagione stia bene adorar l’originale di una cosa come santa, e abbruciare la copia15 di essa, come esecrabile, e come io tanto debba essere perseguitato, quando la lezione delle istorie, non solo permessa, ma tanto commendata da ognuno, notoriamente ha virtù di convertire in tanti Macchiavelli quelli che vi attendono con l’occhiale politico16. Mercé che17 non così semplici sono le genti, come molti si danno a credere; sì che quei medesimi, che con la grandezza degl’ingegni loro hanno saputo investigare i più reconditi segreti della Natura, non abbino anco giudicio di scoprire i veri fini, che i prencipi hanno nelle attioni loro, ancor che artificii grandissimi usino nell’asconderli18. E se i Prencipi, per facilmente dove meglio lor pare poter aggirare i loro sudditi, vogliono arrivare al fine di averli balordi, e grossolani19, fa bisogno che si risolvino di venire all’atto, tanto bruttamente praticato da’ Turchi e dal Moschovita20, di proibir le buone lettere21, che sono quelle che fanno divenir Arghi22 gl’intelletti ciechi; che altrimente non conseguiranno mai il fine de’ pensieri loro. Mercé che l’ipocrisia, oggidì tanto famigliare nel mondo, solo ha la virtù delle stelle d’inclinare, non di sforzare gl’ingegni umani a creder quello che più piace a chi l’usa23. La commozione Grandemente si commossero i Giudici a queste parole, e parea che trattassero e le perplessità di rivocar24 la sentenza, quando l’Avvocato Fiscale25 fece saper loro che il dei giudici Macchiavelli per gli abbominevoli, ed esecrandi precetti che si leggevano negli Scritti suoi, cosí meritatamente era stato condennato, come di nuovo severamente doveva essere punito, per esser di notte stato trovato in una mandra di pecore26, alle quali s’ingegnava di accomodare in bocca i denti posticci di cane, con evidente pericolo, che si disertasse27 la razza de’ pecorai, persone tanto necessarie in questo mondo, i quali indecente, e fastidiosa cosa era che da quello scelerato fossero posti in pericolo di convenirli mettersi il petto a botta, e la manopola di ferro28, quando avessero voluto munger le pecore loro, o tosarle: che a qual prezzo sarebbono salite le lane, e il cacio, se per l’avvenire L’autodifesa dell’autore del Principe

13. pur ora: subito, senza esitazione. 14. irremissibilmente: senza alcuna remissione. 15. originale… copia: l’originale è l’azione dei principi che hanno fatto la storia, azione politica ritenuta non solo non condannabile, ma santa perché l’autorità loro discende da Dio; la copia è la descrizione dei fatti operata da Machiavelli, ritenuta esecrabile, ossia condannabile. 16. Macchiavelli… occhiale politico: un’analisi attenta della Storia, così come si è realizzata nel tempo, con “occhiale politico”, cioè con attitudine attenta all’indagine dei fatti, potrebbe condurre a tanti nuovi Machiavelli. Che senso avrebbe quindi condannare alla fiamme il Principe? Boccalini sostiene prudentemente in questo passo l’assurdità dell’esistenza di un Indice dei libri proibiti. 17. Mercé che: dal momento che. 18. Natura… asconderli: il Seicento è il secolo delle grandi scoperte scientifiche; si dovrebbe ingenuamente ritenere che coloro che sanno indagare nei misteri della Natura non siano poi in grado di investigare nei veri fini della politica, sebbene i princìpi sappiano nasconderli sapientemente? 19. balordi, e grossolani: stupidi e ignoranti. 20. da’ Turchi e dal Moschovita: allude a pratiche di oscurantismo culturale poste in atto dai sultani dell’Impero

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ottomano e dagli zar di Russia, per non diffondere conoscenze ritenute “pericolose”. 21. proibir le buone lettere: è questa l’unica soluzione per evitare che si diffondano idee sull’agire politico, spesso insensato e corrotto, di alcuni principi. 22. Arghi: Argo è un mitologico mostro dai cento occhi. Le lettere, secondo Machiavelli, hanno il potere di aprire all’uomo tanti punti di vista quanti sono gli occhi di Argo. 23. Mercé che… usa: il senso è questo: i principi tendono con gli artifizi della loro politica a orientare l’agire dell’uomo, ma certamente non possono del tutto forzarlo. 24. rivocar: revocare, annullare. È termine tecnico. 25. Avvocato Fiscale: il pubblico ministero, colui che porta avanti l’accusa. 26. pecore: inizia una lunga metafora, attraverso la quale si descrive con sottile ironia una nuova presunta colpa di Machiavelli: l’essere stato scoperto nottetempo mentre metteva denti posticci alle pecore (i sudditi), rendendo quindi un grave danno ai pecorai (principi), che avrebbero dovuto mungere e tosare i loro animali (quindi sfruttare i sudditi) dopo essersi protetti con corazze e con guanto di ferro. 27. si disertasse: diminuisse. 28. petto a botta… ferro: corazza che protegge il petto e guanto metallico.

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DIVULGAZIONE, COSTUME, SOCIETÀ

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Le accuse conclusive del Pubblico ministero

fosse convenuto29 a’ pastori più guardarsi dalle stesse pecore, che da’ lupi, e se non più col fischio, e con la verga, ma con un reggimento di cani si dovevano tener in ubbidienza, e la notte, per guardarle fosse stato bisogno non più 60 far loro gli steccati di corda, ma i muri, i baluardi, e le fosse, con le contrascarpe30 fatte alla moderna. Troppo importanti parvero ai giudici accuse tanto atroci, onde votarono tutti che fosse eseguita la sentenza data contro uomo tanto scandaloso: e per legge fondamentale pubblicarono, che per l’avvenire ribello del genere umano fosse te- 65 nuto chi mai più avesse ardito insegnare al mondo cose tanto scandalose, confessando tutti, che non la lana, non il cacio, non l’agnello, che si cava dalla pecora, agli uomini prezioso rendeva quell’animale, ma la molta semplicità, e l’infinita mansuetudine di lui, il quale non era possibile che in numero grande da un solo pastore venisse governato, quando affatto non31 fosse stato disarmato di 70 corna, di denti, e d’ingegno: e che era un voler porre il mondo tutto in combustione32 il tentare di far maliziosi i semplici, e far veder lume a quelle talpe, le quali con grandissima circospezione33 la madre Natura avea create cieche. da I ragguagli di Parnaso, Laterza, Bari, 1948

29. fosse convenuto: fosse stato necessario. 30. contrascarpe: fortificazioni. 31. quando affatto non: se non quando.

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32. in combustione: in disordine; propriamente, in preda alle fiamme. 33. circospezione: prudenza.

omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il testo in non più di 20 righe. 2. Elementi quali le personificazioni iniziali, per cui il libro di Machiavelli diventa “il Macchiavelli”, la messa all’indice del libro che si umanizza nel bando, la lunga metafora finale, che spiega perché Machiavelli viene condannato, ecc. sono riconducibili al gusto barocco? Esprimi la tua motivata opinione in merito. 3. Giustifica – in non più di 20 righe – le scelte retoriche e narrative che avvicinano lo stile di Boccalini al taglio dell’articolo giornalistico moderno, cercando di spiegarne l’efficacia presso i lettori.

T2 Le parole servano alle idee, non le idee alle parole da “Il Caffè”

Alessandro Verri

Il milanese Alessandro Verri, fratello minore del celebre illuminista Pietro e amico di Cesare Beccaria, partecipa giovanissimo all’esperienza milanese dell’Accademia dei Pugni e alla pubblicazione della rivista “Il Caffè”. Nel 1767, dopo aver viaggiato per l’Europa, si stabilisce a Roma e, abbandonando l’orientamento illuminista per il Romanticismo, traduce Shakespeare e scrive Le avventure di Saffo e Notti romane, opera in prosa ispirata dal ritrovamento delle tombe degli Scipioni avvenuto nel 1780. Notevole è il contributo di Alessandro Verri allo sviluppo della narrativa italiana, esercitato dal talento giornalistico maturato nel “Caffè” e mirante a svecchiare la letteratura sul piano linguistico. Qui proponiamo uno degli articoli più famosi, scritto da Alessandro Verri nel 1764. PISTE DI LETTURA • Dichiarazione solenne di “rinuncia” ad usare il linguaggio purista • Il rifiuto della cultura accademica legata al passato • Lo stile asciutto e innovativo degli intellettuali illuministi

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Le sette ragioni del rifiuto della toscana favella dei puristi

Cum sit1, che gli autori del Caffè siano estremamente portati a preferire le idee alle parole, ed essendo inimicissimi d’ogni laccio ingiusto2 che voglia all’onesta libertà de’ loro pensieri, e della ragion loro, perciò sono venuti in parere di fare nelle forme solenne rinunzia alla pretesa purezza della toscana favella3, e ciò per le seguenti ragioni. 1. Perché se Petrarca, se Dante, se Boccaccio, se Casa4, e gli altri testi di lingua hanno avuta la facoltà d’inventar parole nuove e buone così pretendiamo che tale libertà convenga ancora5 a noi: conciossiaché abbiamo due gambe, un corpo, ed una testa fra due spalle com’eglino6 l’ebbero, “…quid autem? / Caecilio, Plautoque dabit Romanus, ademptum, Virgili, Varioque? ego cur adquirere pauca / Si possum invideor? quum lingua Catoni et Enni / Sermonem patrium ditaverit ac nova rerum / Nomina protulcrit”7. 2. Perché, sino a che non sarà dimostrato, che una lingua sia giunta all’ultima sua perfezione, ella è un’ingiusta schiavitù il pretendere che non s’osi arricchirla e migliorarla8. 3. Perché nessuna legge ci obbliga a venerare gli oracoli della Crusca, ed a scrivere o parlare soltanto con quelle parole che si stimò bene di racchiudervi. 4. Perché se italianizzando le parole francesi, tedesche, inglesi, turche, greche, arabe, sclavone9, noi potremo rendere meglio le nostre idee, non ci asterremo di farlo per timore o del Casa, o del Crescimbeni10, o del Villani, o di tant’altri, che non hanno mai pensato di erigersi in tiranni delle menti del decimo ottavo secolo, e che risorgendo sarebbero stupitissimi in ritrovarsi tanto celebri, buon grado la11 volontaria servitù di que’ mediocri ingegni che nelle opere più grandi si scandalizzano di un c, o d’un t di più o di meno, di un accento grave in vece di un acuto. Intorno a che abbiamo preso in seria considerazione, che se il mondo fosse sempre stato regolato dai grammatici, sarebbero stati depressi in maniera gl’ingegni e le scienze che non avremmo tuttora né case, né morbide coltri, né carrozze, né quant’altri beni mai ci procacciò l’industria, e le meditazioni degli uomini; ed a proposito di carrozza egli è bene il riflettere, che se le cognizioni umane dovessero stare ne’ limiti strettissimi che gli assegnano i grammatici, sapremmo bensì che carrozza va scritta con due erre, ma andremmo tuttora a piedi. 5. Consideriamo ch’ella è cosa ragionevole, che le parole servano alle idee, ma non le idee alle parole, onde noi vogliamo prendere il buono quand’anche fosse ai confini dell’universo, e se dall’inda, o dall’americana lingua ci si fornisse qualche vocabolo ch’esprimesse un’idea nostra, meglio che colla lingua italiana, noi lo adopereremo, sempre però con quel giudizio12, che non muta a capriccio la lingua, ma l’arricchisce, e la fa migliore.

1. Cum sit: è formula del linguaggio notarile. Tradotta dal latino, significa “essendo, stando così le cose”. 2. laccio ingiusto: i redattori de “Il Caffè” manifestano la volontà di essere liberi da forme di condizionamento ingiuste e superate. 3. toscana favella: la lingua toscana, secondo una tradizione risalente al periodo umanistico-rinascimentale e in particolare a Pietro Bembo, era considerata modello di lingua scritta; in particolare, la prosa trovava il modello nel Decameron di Giovanni Boccaccio, la poesia nel Canzoniere di Francesco Petrarca. 4. Casa: è Giovanni Della Casa, poeta rinascimentale, famoso, più che per le sue Rime, per il Galateo, testo che fornisce un modello di lingua, oltre che di elegante e raffinata vita cortigiana. 5. ancora: i redattori de “Il Caffè” rivendicano la loro facoltà di utilizzare la lingua in modo creativo, mostrando quindi un moderno concetto di linguaggio come sistema dinamico, in costante evoluzione. 6. eglino: essi. 7. quid… protulcrit: sono versi dell’Ars poetica (“Arte poetica”) di Orazio (65-8 a.C.), autore dell’età di Augusto. Attraverso essi il poeta rivendica la possibilità, per sé e per altri poeti coevi come Virgilio e Vario, di arricchire di nuo-

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vi vocaboli ed espressioni il patrimonio linguistico latino. Quale privilegio i Romani concederanno a Cecilio e a Plauto, mentre lo negano invece a Virgilio e a Vario? Perché io sono criticato se riesco ad aggiungere qualcosa (alla lingua latina) quando le parole di Catone e di Ennio hanno arricchito il linguaggio dei padri e hanno prodotto nuovi nomi di cose? 8. Perché... migliorarla: come un individuo ha il diritto di migliorarsi, di sviluppare il proprio spirito e le proprie conoscenze culturali, così per analogia la lingua “deve” avere da parte dei suoi fruitori apporti che la arricchiscano continuamente. 9. sclavone: slave. 10. Crescimbeni: si tratta del maceratese Giovanni Mario Crescimbeni (1663-1728), letterato e poeta, uno dei fondatori dell’Arcadia. Teorizzò l’imitazione di Petrarca e Della Casa, considerati illustri classici della nostra lingua. 11. buon grado la: grazie alla. 12. sempre però con quel giudizio: i redattori de “Il Caffè” esprimono a questo punto il loro solido buon senso: i calchi linguistici non vanno fatti in nome della moda, o di un ghiribizzo particolare dell’autore, bensì in nome di una corretta valutazione del senso di tali nuovi apporti e dell’effettivo arricchimento della lingua.

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Un elogio della libertà di scrittura...

...e della libertà di critica

“Dixeris egregie notum si callida verbum / Reddiderit iunctura novum. Si forte necesse est / Indiciis monstrare recentibus abdita rerum, / Fingere cinctutis non exaudita Cethegis / Contiget: dabiturque licentia sumpta pudenter, / Et nova factaque nuper habebunt fidem”13. 6. Porteremo questa nostra indipendente libertà sulle squallide pianure del dispotico Regno Ortografico, e conformeremo le sue leggi alla ragione dove ci parrà che sia inutile il replicare le consonanti o l’accentar le vocali, e tutte quelle regole che il capriccioso pedantismo ha introdotte, e consagrate, noi non le rispetteremo in modo alcuno. In oltre considerando noi che le cose utili a sapersi son molte, e che la vita è breve, abbiamo consagrato il prezioso tempo all’acquisto delle idee, ponendo nel numero delle secondarie cognizioni la pura favella, del che siamo tanto lontani d’arrossirne, che ne facciamo “amende honorable”14 avanti a tutti gli amatori de’ riboboli noiosissimi dell’infinitamente noioso Malmantile15, i quali sparsi qua e là come gioielli nelle lombarde cicalate sono proprio il grottesco delle Belle Lettere. 7. Protestiamo16 che useremo ne’ fogli nostri di quella lingua che s’intende dagli uomini colti da Reggio di Calabria sino alle Alpi; tali sono i confini che vi fissiamo, con ampia facoltà di volar talora di là dal mare e dai monti e prendere il buono in ogni dove. A tali risoluzioni ci siamo noi indotti perché gelosissimi di quella poca libertà che rimane all’uomo socievole17 dopo tante leggi, tanti doveri, tante catene ond’è caricato; e se dobbiamo sotto pena dell’inesorabile ridicolo vestirci a mo’ degli altri, parlare ben spesso a mo’ degli altri, vivere a mo’ degli altri, far tante cose a mo’ degli altri, vogliamo, intendiamo, protestiamo di scriver con tutta quella libertà, che non offende que’ principi che veneriamo. E perché abbiamo osservato che bene spesso val più l’autorità che la ragione, quindi ci siamo serviti di quella di Orazio per mettere la novità de’ nostri pensieri sotto l’egida della veneranda antichità, ben persuasi che le stesse cose dette da noi e da Orazio faranno una diversa impressione su coloro che non amano le verità se non sono del secolo d’oro18. Per ultimo diamo amplissima permissione ad ogni genere di viventi, dagli insetti sino alle balene, di pronunciare il loro buono o cattivo parere sui nostri scritti. Diamo licenza in ogni miglior modo di censurarli, di sorridere, di sbadigliare in leggendoli19, di ritrovarli pieni di chimere, di stravaganze, ed anche inutili, ridicoli, insulsi in qualsivoglia maniera. I quali sentimenti siccome ci rincrescerebbe assaissimo qualora nascessero nel cuore de’ filosofi, i soli suffragi de’ quali desideriamo20; così saremo contentissimi, e l’avremo per un isquisito21 elogio se sortiranno dalle garrule bocche degli antifilosofi.

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da “Il Caffè”, a cura di S. Romagnoli, Feltrinelli, Milano, 1960

13. Dixeris… fidem: anche questa citazione è tratta dall’Ars poetica di Orazio, cui i redattori de “Il Caffè” attribuiscono il senso più alto della classicità: quello di valere come paradigma per ogni epoca. Ti esprimerai egregiamente se un adeguato accostamento renderà nuova una parola comune. Se per caso fosse necessario mostrare con neologismi concetti difficili da penetrare, ti toccherà inventare voci inedite ai Ceteghi che portavano il cinto [gli antichi Romani, secondo la tradizione]. Te ne sarà data licenza purché tu l’assuma con discrezione, e parole nuove e appena coniate acquisteranno valore. 14. amende honorable: “onorevole ammenda”; ecco una prova ulteriore del plurilinguismo auspicato da “Il Caffè”: accanto all’utilizzo del latino, lingua classica per eccellenza, l’uso del francese, la lingua della filosofia dei lumi, diventa un ulteriore arricchimento per la pagina. 15. Malmantile: si tratta di un poema burlesco, Il Malmantile riacquistato, di Lorenzo Lippi, letterato seicente-

sco. L’autore ne volle fare un repertorio di fiorentinismi lessicali e stilistici, secondo una ricerca formale che, nell’opinione dei redattori de “Il Caffè”, non fa che soffocare i contenuti dell’opera. 16. Protestiamo: il verbo è usato nel senso giuridico di “dichiarare con solennità”. 17. socievole: legato agli altri uomini dai vincoli sociali. 18. secolo d’oro: tale si considera il Trecento, dominato dalle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, ritenuti (soprattutto gli ultimi due) modelli espressivi, stilistici e linguistici, rispettivamente, per la poesia e per la prosa. 19. in leggendoli: nel leggerli. 20. I quali… desideriamo: si coglie con chiarezza quali sono le aspettative dei redattori de “Il Caffè”: essi desiderano i consensi dei filosofi, uomini di pensiero e quindi certo più sensibili di altri alle esigenze di rinnovamento linguistico come specchio di rinnovamento di idee. 21. isquisito: gradito.

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omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il contenuto dell’articolo di Alessandro Verri in non più di 20 righe. 2. Qual è il messaggio di fondo dell’articolo di Alessandro Verri? 3. La lingua italiana colta del giorno d’oggi si è ulteriormente allontanata dal linguaggio quotidiano oppure no? Prendendo spunto dall’articolo di Alessandro Verri e da altre opinioni sull’argomento a te note, rifletti sul tema, esprimendo le tue personali valutazioni sull’utilizzo dell’italiano erudito e raffinato nei vari ambiti della comunicazione nell’Italia attuale (scuola, mass media, vita quotidiana).

T3 Il club da “The Spectator”, n. 2, marzo 1711

Richard Steele

I testi pubblicati dallo “Spectator” appartengono contemporaneamente alla storia del giornalismo e della saggistica, strettamente collegate tra di loro, e alla storia letteraria. Ancora oggi l’articolo di cultura, che in definitiva è un breve saggio, è il punto d’incontro tra letteratura e giornalismo. Il celebre giornale di Joseph Addison, che si avvale della collaborazione di Richard Steele, approfondisce l’analisi di questioni sociali e si prefigge l’obiettivo di creare un dialogo tra le varie categorie per l’armonia della società. Ogni numero è ambientato in un circolo londinese in cui il giornalista – che presta la sua voce al personaggio di Mr Spectator – fa la parte dello spettatore e descrive e commenta in modo spesso bonariamente ironico i comportamenti dei vari esponenti dei ceti sociali. In questo articolo vengono presi in considerazione personaggi destinati a diventare famosi: tra essi, Sir Roger de Coverley, un esponente della nobiltà di campagna inglese, Andrew Freeport, un mercante che incarna i valori alla base della rapida ascesa della classe borghese, il capitano Sentry e Will Honey-comb, di professione damerino dongiovanni. PISTE DI LETTURA • La figura di Sir Roger, protagonista di molti altri articoli, e gli altri personaggi • Le caratteristiche dei modelli del giornalismo anglosassone • Un punto d’incontro fra giornalismo e letteratura Il primo del nostro circolo è un signore del Worcestershire, di antico lignaggio, un baronetto, il suo nome è Sir Roger de Coverley. Il suo bisnonno fu l’inventore di quel famoso ballo campagnolo che da lui prende il nome. Tutti quelli che conoscono quella contea conoscono bene anche le doti e i meriti di Sir Roger. È un signore dal carattere singolare, ma la sua singolarità deriva dal buon senso, ed è in contrasto con i modi del mondo solo perché lui ritiene che il mondo sia sbagliato. In ogni caso la sua indole non gli procura nemici, perché egli non fa niente con asprezza o ostinazione, e il suo non essere confinato a convenzionalismi e formalità lo rende il più pronto e capace di compiacere ed essere cortese con tutti quelli che lo conoscono. Dettagli Quando è in città, abita in Soho Square. Si dice che sia rimasto scapolo a causa sulla vita di una delusione d’amore per una bella e crudele vedova della contea vicina. di Sir Roger Prima di questa delusione, Sir Roger era quello che si definiva un gentiluomo raffinato, cenava frequentemente con Lord Rochester e Sir George Etherege, si batté a duello la prima volta che venne a Londra e prese a calci il prepotente Dawson in un caffè per averlo chiamato ragazzo. Ma dopo essere stato maltrattato dalla vedova sopra menzionata, per un anno e mezzo tenne un contegno molto grave, e, di temperamento gioviale, benché alla fine superasse la crisi, divenne incurante di sé e d’allora in poi non si preoccupò più di essere elegante. Continua a portare una giacca e un farsetto dello stesso taglio alla moda al tempo del suo rifiuto che, quando è di buon umore, dice essere stato alla moda e fuori moda per dodici volte da quando li ha indossati la prima volta. Si dice che Il carattere di Sir Roger

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Il commerciante Freeport e la sua personalità

Il capitano Sentry, militare timido e candido

Sir Roger sia diventato più umile dopo aver dimenticato questa bella crudele nella misura in cui si dice che egli abbia spesso peccato in fatto di castità con mendicanti e zingare: ma dagli amici questo è considerato piuttosto un motteggio che verità. Ora ha 56 anni, è allegro, gaio e cordiale; ha due belle case in città e in campagna; un grande amante dell’umanità; ma c’è un fare così scherzoso nel suo comportamento che è più amato che stimato. I suoi affittuari si arricchiscono, la servitù è contenta, tutte le ragazze professano di amarlo e i giovani sono felici della sua compagnia. Quando fa la sua entrata in una casa, chiama i domestici per nome e, quando si reca a fare una visita, chiacchiera per tutto il tempo che sale le scale. Non devo omettere di dire che Sir Roger è un giudice di pace; che occupa il suo seggio durante le sessioni quadrimestrali con grande abilità e tre mesi fa si è guadagnato l’applauso generale spiegando un passaggio della legge sulla caccia. […] La persona che segue è Sir Andrew Freeport, un mercante eminente nella città di Londra: una persona di infaticabile laboriosità, grande ragionevolezza ed esperienza. Le sue nozioni sul commercio sono nobili e generose e, come ogni uomo ricco di solito ha un modo sottile di scherzare che non farebbe una grande figura se non fosse ricco, chiama il mare il Pascolo Inglese. Conosce gli affari in ogni parte e vi direbbe che è stupido e barbaro estendere il dominio con le armi; perché il vero potere deve essere perseguito dalle arti e dall’operosità. Dice spesso che, se un tale settore dei nostri commerci fosse ben coltivato, avremmo da guadagnare da una nazione, se un altro da un’altra. L’ho udito dimostrare che la diligenza frutta acquisizioni più durevoli del coraggio, e che la pigrizia ha portato alla rovina più nazioni della spada. Ha sempre pronte parecchie massime modeste, tra le quali la preferita è: “Un penny risparmiato è un penny guadagnato”. Uno spacciatore universale di buon senso è una compagnia più piacevole di un erudito universale, e dato che Sir Andrew ha un’eloquenza naturale priva di affettazione, la chiarezza delle sue parole è una fonte di piacere pari a quella dell’arguzia in un altro uomo. Si è fatto fortuna da sé e dice che l’Inghilterra può essere più ricca di altri regni con gli stessi metodi semplici che hanno reso lui più ricco di altri uomini; benché nello stesso tempo io possa dire questo di lui: non c’è un punto nella rosa dei venti che non sospinga verso casa una nave di cui lui sia il proprietario. Vicino a Sir Andrew nel club siede il capitano Sentry, un signore di grande coraggio e intelligenza, ma di inarrivabile modestia. È una di quelle persone che, pur avendo molti meriti, sono assai maldestre nel mettere in luce le loro doti davanti a chi se ne dovrebbe accorgere. Per qualche anno è stato capitano e si è comportato con grande valore in molti frangenti e assedi; ma, avendo una proprietà di suo ed essendo erede diretto di Sir Roger, ha abbandonato un tipo di vita nel quale, grazie ai propri meriti, nessuno può emergere se non è un po’ cortigiano oltre che soldato. L’ho sentito lamentarsi spesso che in una professione in cui il merito sia così in evidenza, l’impudenza dovrebbe avere la meglio sulla modestia. Quando parla di questo argomento, non l’ho mai sentito pronunciare un’espressione aspra, se non francamente confessare che ha lasciato quel mondo perché non era adatto a lui. Una rigorosa onestà e un comportamento costantemente normale sono in se stessi ostacoli per chi debba aprirsi la via in mezzo a moltissimi altri che si sforzano di raggiungere il suo stesso fine, cioè il favore di un comandante. Comunque sia, egli giustifica i generali per non disporre secondo il merito dei propri uomini o indagare su questo. Perché dice lui, un grande uomo che volesse aiutarmi ha tanti uomini in cui imbattersi per venire da me quanti io per raggiungere lui; quindi, conclude, chi voglia emergere, in particolar modo nel campo militare, deve vincere la falsa modestia e assistere il suo patrono di fronte agli altri importuni pretendenti, con una giusta fiducia nelle proprie pretese. Egli sostiene che è codardo in sede civile essere riluttante nel far valere quello che dovresti aspettarti, così come in sede militare è la paura a rendere lenti nell’attacco quando è tuo dovere farlo. Con questo candore il signore parla di sé e degli altri. La stessa franchezza permea la sua conversazione. La fase militare della sua vita l’ha provvisto di molte avven-

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Will Honey-comb, il dongiovanni attempato

ture, i cui resoconti sono assai graditi alla compagnia, perché non è mai arrogante, anche se avvezzo a comandare uomini nel massimo grado sotto di lui, e nemmeno troppo ossequioso, per l’abitudine di obbedire a uomini molto al di sopra di lui. Ma perché il nostro circolo non sembri un gruppo di eccentrici, non avvezzi alle galanterie né ai piaceri del nostro tempo, abbiamo tra noi il galante Will Honey-comb, un gentiluomo che per età dovrebbe essere giunto al declino della vita, ma essendo sempre stato molto attento alla sua persona e avendo sempre vissuto nell’agio, il tempo ha lasciato assai poche tracce del suo passaggio, come rughe sulla fronte o segni nel cervello. È di buona costituzione e di una certa altezza. È molto preparato a quel genere di discorsi con i quali gli uomini solitamente intrattengono le donne. Da tutta la vita veste in modo curato e ricorda gli abiti come altri ricordano gli uomini. Può sorridere quando qualcuno gli parla e facilmente ridere. Conosce la storia di ogni moda e può informarvi da quale giovanetta del re di Francia le nostre mogli e figlie presero questo modo di arricciare i capelli o quel modo di portare il cappuccio; quale difetto veniva coperto da una certa sottana e quale pregio del piede femminile evidenziava quella parte del vestito tanto corto in quel tal anno. In una parola, tutta la sua conversazione e il suo sapere si è concentrato nel mondo femminile. Come altri uomini della sua età vi informerebbero su quello che un ministro ha detto in quella o quell’altra occasione, lui vi dirà quando il duca di Monmouth danzò a corte, una certa donna s’innamorò di lui e un’altra si invaghì vedendolo alla testa delle sue truppe nel parco. In tutti questi importanti racconti, inoltre, egli sempre, più o meno contemporaneamente, ha ricevuto uno sguardo gentile o un colpetto di ventaglio da qualche celebre bellezza, madre dell’attuale lord tal di tali. Se parlate di un giovane membro del parlamento che ha pronunciato un discorso animato, egli comincia: “Ha buon sangue nelle vene. Tom Mirable l’ha generato; il furfante mi ha ingannato in quell’affare; la madre del giovane mi ha trattato come un cane, peggio di ogni altra donna con la quale ho tentato un approccio”. Questo suo modo di parlare ravviva la conversazione tra noi altri, di un genere più posato; e trovo che nessuno nella compagnia, tranne me stesso, che di rado apro bocca del tutto, parli di lui se non come di quel genere di persona che di solito viene definita un compito damerino. Per concludere con il suo carattere, ove non sia questione di donne, è un uomo onesto e rispettabile.

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omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il testo in non più di 20 righe. 2. Facendo riferimento al testo che hai letto, spiega i punti di contatto esistenti tra l’articolo giornalistico del Settecento e il saggio letterario. 3. Interpretando l’intento dell’autore, descrivi il contenuto dell’articolo e definiscine il genere, indicando in quale tipo di giornale sarebbe oggi accolto. 4. Confronta per contenuti e stile l’articolo settecentesco dello “Spectator” con un tipico articolo contemporaneo. 5. Utilizzando il genere giornalistico e letterario dell’intervista impossibile – in qualche modo anticipato nell’articolo dello “Spectator” – scrivi (max 3 colonne) e intitola adeguatamente un’intervista immaginaria a Richard Steele sulla genesi e sull’obiettivo del suo scritto.

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T4 David Copperfield diventa giornalista da David Copperfield, XXXVI e XXXVIII

Charles Dickens

Charles Dickens è stato uno scrittore molto attento alle tematiche sociali e culturali del suo tempo. Nei suoi romanzi, ad esempio in David Copperfield (1850), evidenzia l’importanza dei giornali e il loro ruolo. Il giovane David, che ha iniziato l’apprendistato in uno studio legale, per un improvviso rovescio finanziario della zia Betsey Trotwood – che lo ha accolto mettendo così fine alle sue tragiche traversie infantili – è costretto a cercare altre occupazioni per mantenersi. In questo brano il giovane parla del suo proposito di collaborare con un giornale, per il quale poi scriverà dei resoconti parlamentari (ai tempi molto in voga), e anche degli inizi della sua attività di scrittore, che comincia proprio con la pubblicazione di articoli sulle riviste. PISTE DI LETTURA • Il carattere del protagonista • L’opinione di Dickens sulla politica • Una fotografia sulla stampa periodica dell’epoca

Il proposito di David e la sua lotta con la stenografia

Il primo argomento su cui dovevo consultarmi con Traddles1 era questo. Avevo sentito dire che molti uomini che si erano distinti in varie occupazioni avevano iniziato riportando i dibattiti in Parlamento. Traddles mi aveva parlato dei giornali dicendomi che vi riponeva molta speranza, io avevo messo insieme le due cose, e detto a Traddles nella mia lettera che volevo sapere come potevo qualificarmi per quell’occupazione. A seguito delle sue ricerche, Traddles mi informò che tranne in rari casi la sola acquisizione meccanica necessaria per eccellere completamente in quel campo, era quella di padroneggiare in modo perfetto e totale il mistero della stenografia2, scritta e letta, che più o meno equivaleva alla difficoltà di padroneggiare sei lingue; e che forse si poteva ottenere, a forza di perseveranza, in qualche anno. Ragionevolmente, Traddles pensava che ciò avrebbe messo un punto alla questione; io invece, sentendo che là c’erano alcuni alberi alti da abbattere, decisi subito di aprirmi il varco verso Dora3 attraverso quel bosco, con l’ascia in mano. – Ti sono molto grato, mio caro Traddles! – dissi. – Comincerò domani. Traddles trasecolò, come era lecito che facesse; ma non aveva ancora idea del mio stato di entusiasmo. – Comprerò un libro, – proseguii, – che contenga un buono schema di quell’arte: ci lavorerò ai Commons4, quando non ho abbastanza da fare; butterò giù i discorsi del nostro tribunale5 per esercitarmi... Traddles, mio caro amico, ci riuscirò! – Povero me! – esclamò Traddles, spalancando gli occhi, – non avevo idea che il tuo carattere fosse tanto determinato, Copperfield! Non so proprio come avrebbe potuto averla, perché era abbastanza nuovo anche per me. [...] Non lasciai che la decisione che avevo preso circa i dibattiti parlamentari freddasse. Era uno dei ferri che avevo iniziato a scaldare subito, che mantenevo caldi e martellavo con una perseveranza che posso onestamente ammirare. Comprai un manuale approvato della nobile arte e del mistero della stenografia (che mi costò dieci scellini e sei pence), e mi immersi in un mare di perplessità che mi portò, in poche settimane, ai confini della follia. [...] E sarebbe stato pro-

1. Traddles: è un compagno di scuola di David Copperfield; anche lui è diventato avvocato ed è in cerca di occupazione. 2. stenografia: metodo di scrittura veloce che usa segni e simboli per indicare parole, espressioni e anche intere frasi, insegnato e usato fino a poco tempo fa, quando non c’e-

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rano registratori audio. 3. Dora: la giovanissima figlia dell’avvocato titolare dello studio Spenlow, della quale David è innamorato. 4. Commons: il corrispettivo dei nostri consigli comunali. 5. nostro tribunale: l’istituzione dove anche David aspira a lavorare come avvocato.

862 PERCORSO 1 - GIORNALISMO: DIVULGAZIONE, COSTUME, SOCIETÀ

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I successi del duro lavoro di David

Il giudizio di Dickens sulla politica

prio così se non avessi avuto Dora, che era il sostegno e l’ancora della mia imbarcazione sbattuta dalla tempesta. Ogni scarabocchio nel metodo era una quercia nodosa nella foresta delle difficoltà, e io le abbattevo una dietro l’altra, con un tale vigore, che in tre o quattro mesi fui in condizioni di fare un esperimento su uno dei nostri oratori scelti ai Commons. Non dimenticherò mai come l’oratore mi lasciò indietro prima ancora che cominciassi, lasciando la mia matita stupidissima a inciampare sulla carta come se avesse le convulsioni! [...] Non c’era altro da fare se non tornare indietro e ricominciare da capo. Era durissima, ma lo feci, anche se con il cuore pesante, e iniziai con fatica e metodo ad arrancare sullo stesso noioso terreno a passo di lumaca; fermandomi sulla via per esaminare con minuzia ogni frammento, da tutte le parti, e facendo gli sforzi più disperati per riconoscere a vista quei caratteri elusivi ovunque li incontravo. [...] Per la legge sono ormai un uomo. Ho raggiunto la dignità dei ventuno anni. Ma questa è una dignità che può essere conferita a chiunque. Vediamo cosa ho ottenuto. Ho avuto ragione del selvaggio mistero della stenografia. Ne ricavo una rispettabile entrata, godo di un’alta reputazione per i risultati che ho raggiunto in quell’arte, e lavoro con altri undici a riportare i dibattiti al Parlamento per un giornale del mattino. Sera dopo sera, trascrivo predizioni che non si avverano mai, promesse che non vengono mai mantenute, spiegazioni intese solo a mistificare. Sguazzo nelle parole. La Britannia6, quella donna sfortunata, è sempre davanti a me, come un pollo già pronto per lo spiedo, e trapassata da penne per scrivere, e legata mani e piedi con del nastro rosso. Conosco abbastanza i retroscena per sapere quale sia il valore della vita politica. Sono piuttosto un infedele per ciò che la riguarda, e non mi convertirò mai. [...] Ho anche deciso di intraprendere un’altra via. Ho cominciato a scrivere, con paura e tremore. Ho scritto una cosa piccola, in segreto, l’ho mandata a una rivista, ed è stata pubblicata. Da allora ho preso coraggio e ho scritto molti piccoli pezzi. Adesso me li pagano regolarmente. Tutto sommato, me la cavo bene; quando conto le mie entrate sulle dita della mano sinistra, passo il terzo e arrivo alla falange di mezzo del quarto dito.

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da David Copperfield, trad. di A. Osti, Gruppo editoriale l’Espresso, Roma, 2003

6. Britannia: l’Inghilterra. I giudizi di David sono amari e sarcastici.

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omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il testo in non più di 15 righe. 2. Facendo riferimento al testo che hai letto, spiega – in base alle tue conoscenze – le differenze esistenti in materia di preparazione tra l’epoca di Dickens e la nostra per un ragazzo che voglia diventare giornalista. 3. Spiega qual è l’opinione di Charles Dickens sulla politica inglese del suo tempo e il suo punto di vista sui giornali.

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PERCORSO 1 - GIORNALISMO:

DIVULGAZIONE, COSTUME, SOCIETÀ

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T5 Il programma de “Il Conciliatore”

Pietro Borsieri

Il testo che segue è tratto dal programma del “Conciliatore” scritto da Pietro Borsieri (1788-1852): a nome dell’intera redazione della rivista, viene stampato nel luglio 1818. Esso è considerato, per la sua importanza, uno dei manifesti del movimento romantico italiano. Nella prima parte l’autore rivela l’intento, suggerito dal titolo stesso della rivista, di equilibrare gli eccessi della letteratura moderna – tesa da un lato verso il culto dei classici e verso la tradizione, dall’altro verso le novità straniere – per ricondurla alle tematiche specificamente italiane. Il criterio fondamentale che deve muovere la cultura italiana è l’utilità generale, cioè l’impegno civile e sociale. PISTE DI LETTURA • Nuovi argomenti per un nuovo pubblico • La continuità fra sensibilità romantica milanese e Illuminismo • La dimensione nazionale e locale del progetto

La proposta del nuovo giornale

La finalità dell’utile comune

Pare a noi (sia detto senza arroganza, e senza detrarre1 a que’ dotti che si occupano esclusivamente di scienze esatte e positive), pare a noi che una sì felice disposizione degli animi non venga bastantemente consultata e messa a profitto dai nostri scrittori di cose morali e letterarie. Ne2 sembra ancora che, o versando sempre sull’argomento dell’antica letteratura patria, o per lo contrario recando senza scelta3 in italiano le opere degli stranieri, i giudizj momentanei dei loro giornali, e le teoriche4 dei loro critici, abbiano o non abbiano relazione all’Italia, si trascuri troppo il periodo presente e noi stessi; e quasi si condanni ad una vergognosa sterilità il vigore de’ buoni ingegni, costretti ad errare timidamente fra la superstizione degli uni e la licenza degli altri. Mossi da simili considerazioni, alcuni uomini di lettere dimoranti in questa città5 hanno deliberato di offrire al PUBBLICO ITALIANO un nuovo giornale che avrà per titolo il CONCILIATORE, e in cui si propongono di cimentare6 coll’esperienza giornaliera la verità dei principj che abbiamo pur ora accennato. Se in mezzo all’ardore di tante contese letterarie, non ancora spente, la ragione potesse avere un partito, diremmo volentieri che il nostro CONCILIATORE aspirerebbe alla gloria di essere il rappresentante di una sì bella e non più veduta fazione. Ma poiché non pare che gli uomini siano ancor giunti a sì alto grado di perfezionamento da potersi appassionare per la verità, lasceremo in disparte questa vana e non superba speranza, e diviseremo7 piuttosto le materie trascelte dal CONCILIATORE, e il modo e la forma con che intende trattarle. L’utilità generale deve essere senza dubbio il primo scopo di chiunque vuole in qualsiasi modo dedicare i suoi pensieri al servizio del Pubblico; e quindi i libri e gli scritti di ogni sorta, se dalla utilità vadano scompagnati, possono meritamente assomigliarsi a belle e frondose piante che non portano frutto, e che il buon padre di famiglia esclude dal suo campo. Partendo da questo principio parve agli Estensori del CONCILIATORE che due cose fossero da farsi nella scelta delle materie. Preferire in prima quelle, le quali sono immediatamente riconosciute utili dal maggior numero; ed unirle ad altre che, oltre l’essere dilettevoli di lor natura, avvezzano altresì gli uomini a rivolgere la propria attenzione sopra sé stessi, e possono quando che sia recar loro una utilità egualmente reale, quantunque non egualmente sentita.

1. detrarre: criticare. 2. Ne: ci. 3. recando senza scelta: traducendo senza criteri di selezione.

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4. teoriche: teorie. 5. città: Milano. 6. cimentare: mettere a confronto, sottoporre alla verifica. 7. diviseremo: descriveremo.

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Le tematiche economiche vanno poste in primo piano

L’attenzione ai progressi della scienza...

...e alla letteratura

L’Italia e la Lombardia in particolare è un paese agricolo e commerciale. Le proprietà sono molto divise fra i cittadini, e la ricchezza circola equabilmente8 per dir così in tutte le vene dello Stato.9 Reso accorto da questa verità di fatto il CONCILIATORE ha detto a sé stesso: io parlerò dei buoni metodi di agricoltura, delle invenzioni di nuove macchine, della divisione del lavoro, dell’arte insomma di moltiplicare le ricchezze; arte che torna in profitto dello Stato ma che in gran parte è abbandonata di sua natura all’ingegno e alla attività dei privati. Potrò io sperare che molti di loro trovino utile questa prima parte del mio lavoro? Il CONCILIATORE fatto un momento di riflessione concluse che sì; e noi pure amiamo persuaderci che abbia ragione. Ma non basta far conoscere universalmente i nuovi principj della scienza economica per agevolarne l’applicazione. L’industria guida i suoi movimenti sulla linea dei bisogni, che o si minorano10, o si moltiplicano, o cangiano oggetto a seconda delle abitudini morali e delle costumanze dei popoli. E noi dunque procacceremo per quanto ne sarà possibile di raccogliere e far conoscere a quando a quando11 le vicende di queste abitudini e di queste costumanze, per fornire ai nostri lettori altrettante basi di fatto sulle quali possano appoggiare le loro conghietture e le nostre teoriche. Questa sarà la parte statistica e scientifica del Giornale, che presa sotto sì ampio punto di vista aprirà il campo a variatissime e importanti osservazioni. Talvolta, per servire al proposto divisato,12 noi dovremo far la pittura dei costumi di questo o di quel Paese, di questa o di quella classe sociale. Talaltra dovremo parlare delle scoperte di un chimico o di un viaggiatore, come quelle che possono aprire nuove combinazioni o nuove strade al commercio. Talvolta infine dovremo occuparci di que’ principj di legislazione, che in varie guise trasfusi nelle istituzioni degli antichi o de’ moderni popoli, potentemente cooperarono, non meno che la natura medesima, a temprarne il carattere ed a fissarne i costumi. Se non che la severità di questi oggetti13 renderebbe troppo grave il nostro Giornale, ove non ci avvisassimo di temperarla perpetuamente, come già accennammo, coi ridenti studj della bella letteratura. Parleremo di versi, parleremo di prose, di opere forestiere, di opere nazionali, di spettacoli, di declamazione, di belle arti, di antichi e di moderni, di poetiche e di precetti… di tutto in somma che ecciti l’attenzione del bel mondo senza stancarla.

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da Il Conciliatore, Foglio scientifico-letterario, a cura di V. Branca, Le Monnier, Firenze, 1965

8. equabilmente: in modo uniforme. 9. in tutte le vene dello Stato: in tutte le classi sociali. 10. si minorano: diminuiscono. 11. a quando a quando: di tanto in tanto.

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12. proposto divisato: proposito individuato. 13. la severità di questi oggetti: la gravità di questi argomenti.

omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il programma del “Conciliatore” in non più di 15 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta): a. Quale funzione e quale scopo hanno i riferimenti all’economia del tempo? b. A che cosa allude il titolo “Il Conciliatore”? c. Che cosa significa creare una cultura e una letteratura autenticamente popolari? d. Che cosa renderebbe il giornale troppo grave? 3. Quali aspetti del programma qui proposto presentano caratteristiche prevalentemente romantiche e quali sono legate a concezioni illuministiche? Motiva la tua risposta.

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PERCORSO 1 - GIORNALISMO:

DIVULGAZIONE, COSTUME, SOCIETÀ

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Una voce contemporanea

Pelle d’immigrato T6 da “l’Espresso”, settembre 1969

Mino Monicelli

Il giornalista e scrittore Mino Monicelli (1919-2000), figlio di Tomaso, giornalista celebre nei primi decenni del Novecento, e fratello del regista Mario, dopo la Seconda guerra mondiale scrive su “L’Europeo”, “il Giorno”, “Epoca”, “l’Espresso”. Tra i suoi libri: Federico Garcia Lorca vivo (1964), Cinema italiano. Ma che cos’è questa crisi? (1970), Un’idea di Roma (1979). Autore di inchieste d’attualità e inviato, ha uno stile moderno e nervoso, è anticonformista anche nelle idee e si interessa soprattutto alle tematiche del disagio sociale. In questo articolo Monicelli traccia un quadro molto realistico dell’immigrazione meridionale nella Torino degli anni Sessanta. PISTE DI LETTURA • Il taglio giornalistico tipico del secondo Novecento • La denuncia sociale • Il linguaggio realistico

La situazione di una famiglia di immigrati a Torino

Il razzismo e l’emarginazione sociale

I ghetti del centro storico di Torino

TORINO – “È vergogna, è vergogna”, dice la signora Ceraci Crocifisso, trent’anni, da Sommatino, provincia di Caltanissetta. Si rifiuta di farmi vedere la sua soffitta. È salita al Nord, col marito, il fratello e sette bambini, due mesi fa, ma non ha ancora messo piede fuori da questo stabile marcio di via Michele Buniva. Dal ballatoio pericolante vedo, in basso, i bidoni della spazzatura posti al centro del cortile, in circolo; e, in alto, le “bocche di lupo” delle soffitte. La signora Crocifisso si lascia finalmente convincere. Saliamo gradini viscidi, ci infiliamo in un cunicolo fetido, sbuchiamo nella soffitta. Qui dentro, per 5 mila lire al mese, dormono dieci esseri umani. Il covile misura due metri di altezza, due di larghezza, cinque di lunghezza. Due brande accostate per i due sposi, materassi arrotolati sul pavimento per gli altri otto. Un tavolino. Una seggiola. Niente armadi. Niente acqua. L’impiantito è coperto da una poltiglia nerastra; e se gratti l’intonaco, scopri subito i nidi delle cimici. [...] Dieci anni fa la prima ondata dei “napoli” trovò sui portoni delle case cartelli che dicevano: Fittasi camera, esclusi meridionali. Oggi i quotidiani torinesi si rifiutano di pubblicare annunci razzisti. Adesso gli annunci dicono: Fittasi camera, soli referenziati. Le referenze sono: non avere accento meridionale e un massimo di due figli... No, signora Crocifisso, la vergogna è nostra. Di noi che a distanza di anni torniamo, in questi antri, a registrare certi obbrobri che non cambiano mai. Gli italiani continuano a scendere dalle valli nelle pianure, a salire dal Sud al Nord. Stiamo andando verso un Duemila fatto di caotiche megalopoli, di vecchi centri storici intasati di sardi, calabresi e cadorini, di periferie sterminate e disumanizzanti, con la fungaia delle locande (a 30 mila lire al letto) che sorgono intorno alle fabbriche La più disumanizzante delle periferie è la cintura torinese. Negli ultimi sette anni l’incremento di popolazione è stato del 7,5 per cento in Italia, del 67 per cento nella cintura torinese. Torino città contava 719 mila abitanti nel ’51; oggi la grande Torino conta un milione 731 mila. [...] Bene, andiamo a vedere dove fiorisce il caos. Nei ghetti traballanti del centro storico vivono 80 mila sventurati. Questa è una soffitta, in via Milano 11. In primavera (così mi assicurano) ci dormivano in 27, tra studenti e operai. Poi è venuto luglio, 38 all’ombra, sono rimasti in 23. Ecco due stabili purulenti, ai numeri 13 e 17 di via di Porta Palatina. Qui gli interventi edilizi di rinnovamento risalgono al ’700; dopodiché vi è stata solo l’ordinaria manutenzione, e anche questa è cessata da decenni. Vi si entra a rischio della vita: dappertutto crepe, sconnessioni, cedimenti, fessure larghe fino a cinque centimetri. Oltre al pericolo di crolli improvvisi, c’è l’insidia na-

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Le periferie

Dati sull’immigrazione dal Meridione a Torino

scosta dell’umidità, l’orrore dei grossi topi che nidificano nelle centinaia di buchi e fessure. Nelle 188 tane dello stabile numero 17 vivono 359 esseri umani; e di questi esseri umani 68 hanno meno di 6 anni, ma solo tre vanno all’asilo nido o alla scuola materna, gli altri 59 giocano a chi acchiappa più topi. Su 91 famiglie 66 vengono dal meridione; e solo 9 dispongono di latrina interna all’alloggio. La famiglia Sorrentino è approdata qui da Castellammare del Golfo, Trapani, un anno fa, cacciata dal terremoto. Sei persone, due stanze. Riscaldamento niente. Un lavandino con un filo d’acqua. Il gabinetto (gabinetto?) è sul ballatoio. Pagano 12 mila al mese. “La polvere ci mangia vivi”, dice la signora Sorrentino. “Ce ne torniamo a Castellammare. Meglio il terremoto”. In periferia non ci sono i topi. Le case sono nuove, enormi, caserme-dormitorio per scapoli sradicati da tutto, compreso il sesso. Ma anche il giovane C.C., da Catania, preferisce tornare a fare il decoratore (e la fame) giù, a casa. Lavora, da maggio, al nuovo stabilimento Fiat di Rivalta: 110 mila al mese. “Non ce la faccio più. O torno a casa o vado in Germania. Mio fratello, che è venuto qui dalla Germania, dice che là non c’è paragone, si guadagna di più, si è rispettati. Il 50 per cento dei miei compagni non sono tornati dalle ferie...”. Il turnover alla Fiat, tra i meridionali, raggiunge punte del 70 per cento (a cui va aggiunto un 30 per cento di assenze per malattia). Questo significa che, per dar lavoro a tre persone, se ne sacrificano dieci. La logica della produttività è questa. Da un lato contrade e paesi che crescono in modo abnorme, dall’altro plaghe che si spopolano; da un lato fenomeni disumanizzanti di affollamento, dall’altro abbandono e degradazione di tessuti sociali e civili. Prendete questo giovane operaio catanese. Fa otto ore alla preparazione della 128; e quando esce, esausto, va a fare il meccanico in un’officina, altre 40 mila lire. “Sennò, che cosa mando a casa? Per il solo mangiare spendo 35 mila lire, i soldi qui a Torino se ne vanno, per la branda in pensione pago 20 mila, prima il padrone ne voleva addirittura 30, poi ha diminuito per paura che ce ne andassimo...”. Dorme in una stanza con altri tre. L’appartamentino ha altre due stanze. In tutto, fanno 12 brandine. Da questo appartamentino il padrone potrebbe ricavare al massimo 35 mila lire. Ne ricava 240 mila noleggiando le brande ai “napoli”. La prima ondata dei “napoli” si rovesciò a Torino intorno al ’60. Da allora il flusso non si è mai interrotto (salvo l’intervallo del ’63-64). Don Allais, direttore del centro immigrati, ha scritto di recente ai vescovi del Mezzogiorno: “Si può tentare l’avventura solo se si è soli, senza famiglia, disoccupati”. Ma “napoli”, coreani, marocchini, terroni tentano l’avventura comunque. Eserciti di diseredati tornano a inurbarsi nella città-faro, dove le fabbriche sono fitte come le olive sulla pianta. Nei primi sette mesi di quest’anno ne sono arrivati, stipati sui treni del sole, 33 mila. Sbarcano non solo su un altro pianeta, ma in un’altra età; un’età che li costringe a pagare subito, sull’unghia, i vecchi conti accumulatisi in secoli di abbandono. Quando il treno del sole li scarica sui marciapiedi di Porta Nuova, in una mano tengono la valigia, nell’altra l’indirizzo di un paesano. Il primo alloggio sono i gabinetti di decenza di Porta Nuova, l’asilo notturno di via Ormea, il letto a rotazione nelle locande infestate da scarafaggi. Sono dodici anni che arrivano.

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da AA.VV., Il ’68, ed. L’espresso, Milano, 2008

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omprensione e analisi tematica

1. Riassumi l’articolo di Monicelli in non più di 30 righe. 2. Indica quali sono le caratteristiche stilistiche del pezzo giornalistico che lo differenzia da quello più propriamente letterario della prosa narrativa o saggistica dei secoli precedenti. 3. Descrivi il fenomeno odierno dell’immigrazione nella tua città o paese come se dovessi realizzare un articolo giornalistico sull’argomento.

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PERCORSO 1 - GIORNALISMO:

DIVULGAZIONE, COSTUME, SOCIETÀ

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Letteratura e arte LA PITTURA DI GENERE: RACCONTARE LA SOCIETÀ Che cos’è la pittura di genere Il termine “pittura di genere” nasce in opposizione al concetto di pittura “ufficiale”, quella legata ai grandi temi della mitologia e della storia, della religione e della vita civile. La scena di genere si riferisce a rappresentazioni di vita quotidiana, di personaggi umili o anonimi, alla pittura di paesaggio, alla natura morta o alle battaglie. Nata nel Seicento come espressione artistica “minore”, la pittura di genere ebbe un grande successo di pubblico e una imprevista fortuna di mercato. Per noi, l’immenso repertorio che essa ha prodotto, oltre ad annoverare autentici capolavori di pittura, si propone come una fonte di documentazione storica e sociale di grande interesse. La società dimenticata: i poveri entrano nella storia dell’arte Nell’arte italiana ed europea del Seicento i poveri e, in genere, le categorie subalterne diventano una presenza costante, segno di una consapevolezza sociale e di una presa di coscienza più approfondita e allargata rispetto a quella che, fino ad allora, era stata la parte di società più dimenticata. In tale prospettiva, si assiste a una sorta di codificazione iconografica di figure del ceto medio e basso, come avviene con i cosiddetti Baroni di Jacques Callot (1592-1635). Questa famosa serie di venticinque incisioni fu pubblicata la prima volta, secondo l’ipotesi più accreditata, a Nancy tra il 1622 e il 1623, con il titolo italiano nell’incisione del frontespizio. Le tavole rappresentano un corteo di mendicanti o, comunque, di persone colpite dalla miseria, senza alcuna indicazione di attività o di mestiere, ma semplicemente come personaggi di sventura, proposti non si sa se per suscitare pietà o a monito di ciò che l’alterna fortuna della vita può procurare. Questa serie di incisioni acquistò subito la forza del prototipo e assunse importanza determinante per la pittura di genere italiana.

Jacques Callot, I baroni. Collezione privata.

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Ma l’artista che per definizione ha legato il suo nome al mondo degli umili è l’italiano Giacomo Ceruti, detto appunto il Pitocchetto (1698-1767 ca.) perché protagonisti dei suoi dipinti sono poveri pitocchi: contadini, mendicanti, lavandaie. Come nel celebre La lavandaia, egli coglie e descrive in modo sobrio e immediato la quotidianità più dimessa di questi personaggi anonimi. Hogarth: la storia della società inglese del Settecento In un contesto molto diverso, William Hogarth (1697-1764) svolge un’analoga funzione a quella di Ceruti: ci documenta, in modo impietoso, la morale e i costumi della società borghese del Settecento Giacomo Ceruti, La lavandaia, 1730 circa. inglese. Egli inventa addirittura un Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo. nuovo genere: il modern moral subject (“soggetto morale moderno”), storie di vita contemporanea raccontate in una serie di dipinti pensati come scene teatrali e con intenti didattico-morali. Lo stesso Hogart afferma: Ho cercato di trattare i miei soggetti come uno scrittore di teatro: i miei quadri sono il mio palco e uomini e donne i miei attori. La sua satira è volta contro la pedanteria, l’ostentazione e l’immoralità del tempo e lui stesso si considera una sorta di difensore del buon senso comune.

William Hogarth, Il matrimonio alla moda. La colazione, 1743-1744. Londra, National Gallery.

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PERCORSO 1 - GIORNALISMO:

DIVULGAZIONE, COSTUME, SOCIETÀ

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Letteratura e cinema I CENTO PASSI Regia: Marco Tullio Giordana Anno: 2000 Genere: drammatico/biografico L’argomento Il film racconta la storia vera di Giuseppe (Peppino) Impastato, giovane di Cinisi (Palermo), ucciso dalla mafia nel 1978, a soli trent’anni. La famiglia di Peppino, pur avendo una parvenza rispettabile, come molte famiglie del luogo, è strettamente legata alla violenta malavita mafiosa. La casa degli Impastato si trova a solo cento passi da quella del boss mafioso Badalamenti: c’è quindi una contiguità, cioè un essere così vicini da toccarsi, che rende impossibile distinguere un “aldiqua e un aldilà”, stabilire qual è il bene e qual è il male. Tuttavia non bisogna perdere la speranza di affermare giustizia e verità. Peppino se ne accorge fin da piccolo, ma da adulto decide di denunciare le malefatte mafiose e sfida apertamente il potente “zio Tano”. Forte dell’amicizia con il pittore comunista Stefano Venuti e con un gruppo di compagni che lo seguirà fino alla fine, scrive sulla rivista “Idea socialista”, organizza dibattiti per giovani, fonda un’emittente libera, “Radio Aut”. Con i suoi interventi scuote le coscienze dei concittadini. La madre e il fratello gli sono sempre vicini, il padre lo allontana da casa ma, in fondo, continua a proteggerlo, come può. Alle elezioni comunali del 1978 Peppino si candida per Democrazia Proletaria. La mafia assassina il padre e poi lo uccide con ferocia, inscenando un falso suicidio. Il cadavere di Peppino viene scoperto lo stesso giorno del ritrovamento di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. Il significato e il linguaggio Il film è diviso in due parti: la prima racconta alcuni episodi della vita di Peppino da bambino. Ha quasi una funzione di prologo, in cui sono presenti i temi che si ritroveranno nella seconda parte e tutti i personaggi principali. La seconda copre il periodo di vita di Peppino adulto. La presentazione migliore del film è fornita dal regista stesso sulla rivista “Cinematografo”: Questo non è un film sulla mafia […]. È piuttosto un film sull’energia, sulla voglia di costruire, sull’immaginazione e la felicità di un gruppo di ragazzi che hanno osato guardare il cielo e sfidare il mondo nell’illusione di cambiarlo. È un film sul conflitto famigliare, sull’amore e la disillusione, sulla vergogna di appartenere allo stesso sangue.

Giordana ripercorre la storia d’Italia ribadendo l’importanza di non dimenticare (come nelle altre sue opere La meglio gioventù, Quando sei nato non puoi più nasconderti) e non ha paura di mostrare il valore degli ideali, della cultura, della bellezza, oltre che della denuncia. Forse un po’ stereotipato nella rappresentazione degli anni Settanta, il film ha vigore ed è supportato da bravi attori che costruiscono personaggi credibili e intensi. Il funerale di Peppino Impastato a Cinisi l’11 maggio 1978.

870 PERCORSO 1 - GIORNALISMO: DIVULGAZIONE, COSTUME, SOCIETÀ

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PERCORSO

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Tra biografia

e autobiografia

Pompeo Batoni, Ritratto di Charles Crowle, 1761-1762. Parigi, Museo del Louvre.

La narrazione e il racconto della propria esistenza o di quella di altri (le parole autobiografia e biografia provengono dal greco: bíos = “vita”, graphía = “scrittura” e autòs = “proprio”) hanno sempre esercitato una forte attrattiva sull’uomo, con l’intenzione, di volta in volta, di evidenziare in modo realistico, anche se più o meno veritiero, le proprie o altrui imprese, di affermare norme morali, di difendersi da giudizi ritenuti inesatti, di lasciare ai posteri un’immagine compiuta e globale. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

PERCORSO 2 - TRA

BIOGRAFIA E AUTOBIOGRAFIA

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Le forme e i modelli

Fra biografia e autobiografia

La narrazione della propria vita nella storia letteraria si è manifestata in forme diverse: come epistola, diario, confessione, raccolta di memorie, ma anche lirica e, soprattutto in tempi recenti, romanzo. Il genere autobiografico è presente fin dall’antichità – basti ricordare i Commentarii di Giulio Cesare, diversi scritti di Cicerone, Varrone, Seneca, Marco Aurelio –, ma assume caratteristiche meglio definite nel Medioevo cristiano, da sant’Agostino, le cui Confessioni costituiscono un vero e proprio modello del genere, fino a Teresa d’Ávila. Indubbiamente autobiografici – con caratteristiche del tutto o in parte veritiere – sono anche il Milione di Marco Polo, la Vita nuova di Dante, molte epistole e il Secretum di Francesco Petrarca, i Ricordi di Francesco Guicciardini. Fra i modelli del genere autobiografico in epoca rinascimentale vanno ricordate opere come la Vita di Benvenuto Cellini. L’elemento biografico o autobiografico spesso è presente, in forme miste, in opere di altro genere. Esempio tipico di ciò è la Commedia dantesca. Può essere considerata una delle prime opere biografiche moderne che contengono elementi autobiografici il Don Chisciotte (1605) di Miguel de Cervantes, in cui l’autore a volte interviene facendo riferimento a vicende che riguardano la sua vita e, in particolare, polemizza con un imitatore del suo romanzo. Fra biografia e autobiografia – dato che nulla si sa sull’autore e sulla veridicità delle vicende narrate – è Lazarillo de Tormes, pubblicato in Spagna nel 1554 e diffusosi a fine secolo, con grande fortuna di pubblico. Con quest’opera entra nella storia della letteratura il racconto in prima persona di un povero (il picaro) che lotta solo per sfamarsi e sopravvivere, ma che inserisce nel racconto delle esperienze quotidiane preziose e intelligenti sentenze che riguardano ciò che ha imparato dalla vita.

LE Le forme e i modelli dell’antichità

Opere miste con elementi biografici

Le innovazioni

ORIGINI DEL GENERE AUTOBIOGRAFICO

CARATTERISTICHE DEL GENERE BIOGRAFICO

Anche la biografia, narrazione realistica e almeno parzialmente veritiera della vita di persone diverse dall’autore, utilizza forme diverse. Molte opere biografiche antiche si collocano a metà strada fra la narrativa e la storia: basti pensare, tra i numerosi esempi in età classica, alle opere di Plutarco, di Cornelio Nepote o di Svetonio. In età cristiana, dalle origini medievali al Seicento, hanno carattere biografico soprattutto le agiografie o narrazioni encomiastiche delle vite dei santi. Fra i principali modelli del più recente genere biografico vanno ricordate opere come il De viris illustribus di Francesco Petrarca o il Trattatello in laude di Dante di Giovanni Boccaccio. In epoca rinascimentale emergono opere come le Vite di Giorgio Vasari, che narrano la vita e le opere di grandi artisti. Più in genere, le vite dei grandi ispirano innumerevoli opere biografiche, caratterizzate da verosimiglianza e realismo, ma non sempre da veridicità. L’elemento biografico spesso è presente, in forme miste, in opere di altro genere. Anche di ciò esempio tipico è la Commedia dantesca, noi possiamo ricordare anche, nel Seicento e nel Settecento, molte tragedie di William Shakespeare o di Vittorio Alfieri; nell’Ottocento alcuni inserti dei romanzi storici di Walter Scott o di Alessandro Manzoni (ad esempio la vicenda della monaca di Monza) e dei romanzi realistici. Le più rilevanti e recenti innovazioni riguardanti la narrazione biografica, soprattutto a partire dall’Ottocento, riguardano lo spazio sempre maggiore riservato alle vicende di persone comuni rispetto ai grandi della storia. Inoltre, in molte opere, personaggi apparentemente d’invenzione si rivelano personaggi reali la cui vita è narrata in modo mascherato, attraverso l’attribuzione di un nome fittizio. Viceversa, a personaggi realmente esistiti sono attribuite come vere vicende di invenzione: ricordiamo qui la manipolazione della biografia di Leonardo da Vinci nel romanzo Il codice da Vinci di Dan Brown.

872 PERCORSO 2 - TRA BIOGRAFIA E AUTOBIOGRAFIA

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LE Da Rousseau a Sterne

Il romanzo autobiografico

La memorialistica

MEMORIE AUTOBIOGRAFICHE NEL

SETTECENTO

Nel Settecento l’autobiografia acquista particolare rilevanza: si pensi alle memorie di Saint Simon (1675-1755), alle celebri Confessioni di Rousseau (17121778) o alle significative pagine del Viaggio in Italia di Goethe (1749-1832) o del Tristram Shandy di Sterne (1713-1768): l’epoca illuministica stimola, infatti, la produzione letteraria soprattutto in riferimento alle memorie e alle relazioni di viaggio. Altri memorialisti del periodo sono Lorenzo da Ponte (1749-1838) e Francesco Algarotti (1712-1764), che scrive Viaggi di Russia, una relazione del lungo viaggio compiuto nel 1738-1739. Tale prosa è un importante documento sulla seconda metà del Settecento e testimonia il variare dei gusti e degli interessi degli scrittori a contatto con culture di Paesi e contesti diversi da quelli italiani. In Italia, la produzione narrativa trae vigore e spunti dall’elemento autobiografico. Ciò si verifica in particolare nel romanzo giovanile di Ugo Foscolo, che attribuisce a un personaggio molte vicende vissute da lui stesso: le Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802). Dopo le autobiografie di Giambattista Vico e Pietro Giannone e di letterati minori, attenti a descrivere il proprio percorso intellettuale e filosofico, nel secondo Settecento ricordiamo le opere di Filippo Mazzei (1730-1816) o Giuseppe Gorani (1740-1819), pure interessanti per la vasta presentazione di vicende, avventure, personaggi e costumi, fino alla Vita scritta da esso (1803) di Vittorio Alfieri (1749-1803). Ancora diverso è il caso della monumentale narrazione della vita di Giacomo Casanova: l’irrequietezza dell’avventuriero, la sua foga prima vitale e poi narrativa dispiegano al lettore un’inesauribile galleria di vivaci scene settecentesche e mostrano un’ambizione inappagata di affermazione letteraria e filosofica.

Johann Heinrich W. Tischbein, Goethe nella campagna romana, 1786. Francoforte sul Meno, Städelsches Kunstinstitut.

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PERCORSO 2 - TRA

BIOGRAFIA E AUTOBIOGRAFIA

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L’OTTOCENTO

La produzione risorgimentale e memorialistica

L’intento educativo

Le principali memorie risorgimentali

Lo Zibaldone di Leopardi

E L’AUTOBIOGRAFIA

L’Ottocento romantico trasfonde molti elementi autobiografici nelle opere dei suoi grandi autori. Dichiaratamente autobiografiche possono essere definite produzioni come il famoso storico memoriale napoleonico di Sant’Elena, o le realistiche pagine di Charles Dickens, nonché quelle di grandi artisti come Richard Wagner o Lev Tolstoj. Nella produzione risorgimentale italiana si riscontra una vasta mole di opere memorialistiche che, oltre a rispondere al gusto romantico per l’analisi introspettiva e la scrittura autobiografica, rivelano l’urgenza di diffondere testimonianze a carattere etico-politico, nell’intento di formare la nuova coscienza nazionale ed esaltare gli ideali civili liberali e progressisti. Partendo dall’attenzione per l’individuo tipica della cultura romantica e dal suo percorso esistenziale, queste opere – che si presentano sotto forma di diari, testimonianze e autobiografie – non possono essere ridotte a semplici esempi documentari, bensì sono da inserire a pieno titolo nel panorama letterario, grazie alla qualità della loro scrittura e al loro alto valore morale. I memorialisti italiani dell’Ottocento sono uomini attivi nella lotta per l’unificazione d’Italia che raccontano le esperienze vissute personalmente e testimoniano così il loro contributo alla causa nazionale, con un intento non solo politico o celebrativo ma anche pedagogico e documentario. Se, infatti, la vena polemica è più marcata nelle opere scritte durante lo svolgersi degli avvenimenti, quelle composte al termine del Risorgimento rivelano maggiormente l’aspirazione degli autori a tramandare ai posteri il ricordo, con l’intento di educare le nuove generazioni ai valori che hanno animato la lotta per la libertà nazionale. Tra le opere ascrivibili al genere memorialistico si trovano alcune delle pagine narrative più belle della letteratura romantica italiana. Alcune opere sono scritte durante o subito dopo l’esperienza del carcere: è il caso di Le mie prigioni (1832) di Silvio Pellico (1789-1854) e del Manoscritto di un prigioniero (1833) di Carlo Bini (1806-1842). Ad esse si affiancano i ricordi degli avvenimenti politici, come nei testi Cronaca dei fatti di Toscana di Giuseppe Giusti (1809-1850), Apologia della vita politica (1851) di Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), e le autobiografie scritte in tarda età come I miei ricordi (1867) di Massimo d’Azeglio (1798-1866), Ricordanze della mia vita (pubblicate postume nel 1879-1880) di Luigi Settembrini (1813-1876) o La giovinezza (1889) di Francesco De Sanctis (1817-1883). Anche molte delle pagine dello Zibaldone di Giacomo Leopardi hanno caratteristiche autobiografiche, ma vanno considerate a sé stanti per i temi affrontati.

UNA

VOCE CONTEMPORANEA:

UMBERTO SABA

Nel Novecento la scrittura autobiografica si è notevolmente diffusa. Anche le nuove scienze, come la psicanalisi e la sociologia, hanno spinto molti autori all’autobiografismo. Robert Musil con L’uomo senza qualità, Marcel Proust con il ciclo Alla ricerca del tempo perduto, o, in Italia, Italo Svevo con La coscienza di Zeno sono solo alcuni degli autori di celebri opere letterarie in cui la memoria riveste un ruolo molto importante. Nella stessa poesia del Novecento l’elemento autobiografico è fondamentale: basti pensare all’importanza che assume nelle liriche di Giuseppe Ungaretti la sua esperienza durante la Prima guerra mondiale o a come gli accadimenti della Seconda guerra mondiale si riflettono nella poesia di Salvatore Quasimodo. Ma è anche il privato ad ispirare la grande poesia, come nella lirica dei Quattro quartetti di Thomas Stearns Eliot o, per restare in Italia, del Canzoniere di Umberto Saba, in cui i ritratti della moglie e della figlia diventano l’esaltazione del senso più vero e profondo dell’esistenza umana. Per molti autori del Novecento, in definitiva, l’autobiografismo ha rappresentato il tentativo di auto-comprensione della propria emotività e delle ragioni di vita in rapporto agli accadimenti storici e sociali particolarmente dolorosi che hanno costellato il secolo scorso.

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T1 Lazaro inizia il racconto della sua vita da Lazarillo de Tormes, I L’anonimo Lazarillo de Tormes (1554) è il capostipite del romanzo picaresco. Composto da un prologo e da sette capitoli, il romanzo narra in prima persona le peripezie del protagonista, che cerca di guadagnarsi da vivere mettendosi al servizio di diversi padroni: un mendicante cieco, un prete povero e avarissimo, un hidalgo (“gentiluomo”) spiantato quanto lui, un frate e un venditore d’indulgenze. Infine, Lazarillo riesce a diventare banditore di vini per conto di un arciprete, di cui sposa la serva. Nel Lazarillo il comportamento umano è rappresentato spesso nelle sue caratteristiche più rozze e meno nobili, ma quello del protagonista è osservato con simpatia. L’ignoto autore, che usa un linguaggio popolare, ha realizzato un’opera importante e discussa dai critici, che può essere collocata fra biografia e autobiografia: essa introduce infatti la finzione autobiografica. Tutta la narrativa seicentesca e moderna, a partire dal Don Chisciotte, è debitrice di tale riuscito esperimento letterario. PISTE DI LETTURA • La narrazione in prima persona • Tono ironico La famiglia di Lazaro

Mi chiamano Lazaro de Tormes, figlio di Tomè Gonzalez e di Antona Pèrez, originari di Tejares, nei pressi di Salamanca. La mia nascita avvenne dentro il fiume Tormes, e per questo motivo presi il soprannome. E avvenne in questo modo: mio padre, che Dio lo perdoni, lavorava come mugnaio in un mulino che sta sulla riva di quel fiume e nel quale macinò per oltre quindici anni. E trovandosi una sera mia madre nel mulino, incinta di me, le vennero le doglie e mi partorì lì; quindi posso dire di essere nato proprio nel fiume. Quando ero un bambino di otto anni, imputarono a mio padre certi mal fatti salassi1 nei sacchi di quelli che venivano lì a macinare, e per questo fu imprigionato, e confessò e non negò, e incorse nella persecuzione della giustizia. Spero in Dio che sta nella gloria, perché il Vangelo li chiama beati. In quel tempo2 si raccolse un’armata contro i mori e, tra gli altri, ci andò anche mio padre, che all’epoca era confinato per il fattaccio che ho detto, come mulattiere3 di un cavaliere che vi partecipò. E insieme al suo signore, da servo fedele, concluse la sua vita. Mia madre, ormai vedova, vedendosi senza marito e senza protezione, e pensando che a frequentare gente per bene si diventa uno di loro, andò a vivere in città e affittò una casuccia. Si mise a cucinare per certi studenti, e lavava i panni a certi mozzi di stalla del Commendatore della Magdalena, così che cominciò a visitare le scuderie. In questo modo finì per conoscere un uomo bruno4, uno di quelli che badavano alle bestie. Lui a volte veniva a casa nostra e se ne andava il mattino dopo. Altre volte si presentava alla porta di giorno, con la scusa di comperare delle uova, e si infilava in casa. All’inizio, quando cominciarono questi traffici, mi sentivo molto infelice e avevo paura di lui, vedendo il colore della sua pelle e il brutto aspetto che aveva. Ma quando mi accorsi che con la sua presenza miglioravano i pasti mi andai affezionando a lui, perché portava sempre pane e pezzi di carne, e in inverno legna con cui ci scaldavamo. Di modo che, continuando ospitalità e visite, mia madre finì per darmi un negretto molto carino, che facevo saltare sulle ginocchia e di cui mi prendevo cura. E mi ricordo di una volta che il mio nero patrigno stava giocherellando con il ragazzino: siccome il piccolo vedeva mia madre e me bianchi e lui no, fuggì

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1. salassi: prelievi di sangue; qui l’espressione significa “furti maldestri”. 2. In quel tempo: l’opera è ambientata in Spagna nell’e-

poca di Carlo V, cioè nei primi decenni del Cinquecento. 3. mulattiere: stalliere. 4. bruno: di pelle scura.

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BIOGRAFIA E AUTOBIOGRAFIA

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via da lui impaurito, verso mia madre, e, puntandogli il dito contro, diceva: “Madre, babau!”. Lui, ridendo, rispose: “Figlio di puttana!”. Io, benché fossi ancora un bambino, notai quella parola del mio fratellino e dissi tra me e me: “Quanti ce ne devono essere al mondo che fuggono dagli altri perché non vedono se stessi!”. Volle la nostra sfortuna che la relazione con Zaide, era questo il suo nome, giungesse alle orecchie dell’amministratore, e, fatta una verifica, si scoprì che rubava la metà dell’orzo che gli davano per le bestie, e crusca, legna, striglie, grembiuli, e che dichiarava perdute le coperte e le gualdrappe dei cavalli; e quando non c’era altro toglieva i ferri alle bestie, e con tutte queste cose aiutava mia madre ad allevare il mio fratellino. Non meravigliamoci di un chierico o di un frate perché l’uno ruba ai poveri e l’altro al convento per le sue devote o per se stesso, quando l’amore spingeva a tanto un povero schiavo. Venne riconosciuto colpevole di tutto ciò che ho detto e d’altro ancora; perché mi interrogarono, minacciandomi, e io, piccolo com’ero, per la paura risposi rivelando tutto quello che sapevo: perfino di certi ferri di cavallo che avevo venduto a un maniscalco per ordine di mia madre. Quel poveretto del mio patrigno lo frustarono e gli versarono grasso fuso sulle ferite, e mia madre fu condannata dal tribunale, oltre al solito centinaio di frustate, a non metter più piede nella casa del Commendatore che ho detto e a non accogliere più nella sua il povero Zaide. Per non tirare il manico dietro la scure5, la meschina si fece coraggio e scontò la sentenza. E, per evitare pericoli e sfuggire alle malelingue, andò a servizio presso quelli che allora vivevano nella locanda della Solana; e lì, patendo mille sventure, continuò ad allevare il mio fratellino finché fu in grado di camminare, e me sino a quando fui un ragazzetto sveglio, che andava a prendere vino e candele per gli ospiti e quant’altro gli ordinassero. Lazaro A quel tempo venne ad alloggiare nella locanda un cieco che, sembrandogli viene affidato che io fossi adatto all’addestramento, mi chiese a mia madre. Lei, dopo avergli a un cieco detto che ero figlio di un buon uomo, morto per il trionfo della fede nella spedizione di Gerba6, che confidava in Dio che non sarei risultato peggiore di mio padre e che, dal momento che ero orfano, lo pregava di trattarmi bene e di prendersi cura di me, mi affidò a lui. Egli rispose che lo avrebbe certamente fatto e che mi accoglieva non come servitore ma come un figlio. E così entrai al suo servizio, per guidare il mio nuovo e vecchio padrone. Dopo essere rimasti a Salamanca per alcuni giorni, sembrandogli che il guadagno non fosse soddisfacente, decise di andarsene da lì. Quando venne l’ora di partire io andai a trovare mia madre e, tutti e due in lacrime, mi diede la sua benedizione e disse: “Figlio, so bene che non ti rivedrò più. Sforzati di essere buono, e Dio ti guidi. Ti ho allevato e ti ho posto al servizio di un buon padrone; abbi cura di te stesso”. Dopo di che me ne andai dal mio padrone che mi stava aspettando. Uscimmo da Salamanca e giungemmo al ponte al cui ingresso c’è un animale di pietra che ha quasi la forma di un toro; il cieco mi ordinò di avvicinarmi all’animale e, una volta che fui lì, mi disse: “Lazaro, avvicina l’orecchio a questo toro e vi udrai dentro un gran rumore”. Io mi avvicinai ingenuamente, credendo che fosse vero. Ma appena sentì che avevo la testa sulla pietra, allungò pesantemente la mano e mi fece dare una gran zuccata contro quel toro del demonio, tanto che il dolore per la cornata mi durò più di tre giorni, e mi disse: “Sciocco, impara, chè il servo del cieco deve saperne una più del diavolo”. E rise molto della burla. In quell’istante mi sembrò di destarmi dall’ingenuità in cui, da bambino com’ero, avevo fino ad allora dormito. Dissi tra me e me: “Dice bene costui, e farò

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5. Per non tirare… scure: per evitare guai peggiori. Espressione proverbiale.

6. spedizione di Gerba: sconfitta navale subita dai cristiani a opera della flotta dell’Impero ottomano nel XVI secolo.

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meglio a tenere gli occhi aperti e a stare sull’avviso, perché sono solo e devo pensare a cavarmela”. Iniziammo il cammino e in pochissimi giorni mi insegnò il gergo della categoria. E vedendomi di buon ingegno si rallegrava molto e diceva: “Io non posso 90 darti né oro né argento, ma consigli per imparare a vivere posso dartene molti”. E fu così, perché, dopo Dio, fu lui a darmi la vita e, pur essendo cieco, mi illuminò e mi addestrò nel mestiere di vivere. da Lazarillo de Tormes, Rizzoli, Milano, 1988

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omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il brano proposto in non più di 30 righe. 2. Seleziona all’interno del testo gli insegnamenti che il piccolo Lazaro ricava dalle sue prime esperienze e commentali. 3. In che senso si può affermare che il testo che hai letto ha le caratteristiche del genere autobiografico?

T2 Tra i ghiacci del Baltico da Vita scritta da esso, III, 8-9

Vittorio Alfieri

La Vita scritta da esso, autobiografia di Vittorio Alfieri, è tratta dal diario che lo scrittore tiene fin dall’adolescenza. L’opera, pur legata alla letteratura memorialistica in auge nel Settecento, è concepita come una sorta di esame di coscienza, e fortemente ispirata a un nucleo di valori etici. Alfieri ritiene in particolare che lo scrittore, impegnato nella conquista della libertà interiore, sia chiamato a una vera e propria missione. In alcune pagine, come quelle qui proposte, l’elemento fondamentale della narrazione è il viaggio. Anche in questo caso, però, le osservazioni dell’autore sanno penetrare a fondo nell’interiorità, oltre che dipingere con grande efficacia gli aspetti più grandiosi del paesaggio. PISTE DI LETTURA • Un viaggio che è anche esplorazione dell’anima • Spunti preromantici • Tono descrittivo e riflessivo

Secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia. La riflessione sulle cose del mondo

Ottenuta la solita indispensabile e dura permissione del Re1, partii nel Maggio del 1769 a bella prima2 alla volta di Vienna. Nel viaggio, abbandonando l’incarico nojoso del pagare al mio fidatissimo Elia3, io cominciava a fortemente riflettere su le cose del mondo; ed in vece di una malinconia fastidiosa ed oziosa, e 5

1. permissione del Re: i nobili feudatari piemontesi per potersi allontanare dal Regno dovevano ottenere il permesso del re (in questo caso Carlo Emanuele III).

2. a bella prima: dapprima. 3. Elia: Giovanni Antonio Francesco Elia era il cameriere di Alfieri e suo accompagnatore durante i viaggi.

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BIOGRAFIA E AUTOBIOGRAFIA

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di quella mera impazienza di luogo, che mi aveano sempre incalzato4 nel primo viaggio, in parte da quel mio innamoramento5, in parte da quella applicazione continua di sei mesi in cose di qualche rilievo6, ne avea ricavata un’altra malinconia riflessiva e dolcissima. Mi riuscivano in ciò di non picciolo ajuto (e forse devo lor tutto, se alcun poco ho pensato dappoi7) i sublimi Saggi del familiarissimo Montaigne8, i quali divisi in dieci tometti, e fattisi miei fidi e continui compagni di viaggio, tutte esclusivamente riempivano le tasche della mia carrozza. Mi dilettavano ed instruivano, e non poco lusingavano anche la mia ignoranza e pigrizia, perché aperti così a caso, qual che si fosse il volume, lettane una pagina o due, lo richiudeva, ed assai ore poi su quelle due pagine sue io andava fantasticando del mio9. […] Il viaggio Verso il fin di Marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund10 in Svezia affatto libero dai ghiacci, indi la Scania11 libera dalla neve; tosto ch’ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi12, a segno che non potendo più proseguire colle ruote, fui costretto di smontare il legno13 e adattarlo come ivi s’usa sopra due slitte; e così arrivai a Stockolm. La novità di quello spettacolo, e la greggia14 maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano; e benché non avessi mai letto l’Ossian15, molte di quelle sue immagini mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché più anni dopo le lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti16. La Svezia locale17, ed anche i suoi abitatori d’ogni classe, mi andavano molto a genio; o sia perché io mi diletto molto più degli estremi, o altro sia ch’io non saprei dire; ma fatto si è, che s’io mi eleggessi18 di vivere nel Settentrione, preferirei quella estrema parte a tutte l’altre a me cognite19. La forma del governo della Svezia, rimestata ed equilibrata in un certo tal qual modo che pure una semilibertà vi trasparisce, mi destò qualche curiosità di conoscerla a fondo. Ma incapace poi di ogni seria e continuata applicazione, non la studiai che alla grossa. Ne intesi pure abbastanza per formarne nel mio capino un’idea: che stante la povertà delle quattro classi votanti20, e l’estrema corruzione della classe dei Nobili e di quella dei Cittadini21, donde nasceano le venali influenze dei due corruttori paganti, la Russia e la Francia, non vi potea allignare né concordia fra gli Ordini22, né efficacità di determinazioni, né giusta e durevole libertà. Continuai il divertimento della slitta con furore, per quelle cupe selvone, e su quei lagoni crostati, fino oltre ai 20 di Aprile; ed allora in soli quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva il dimoiare23 d’ogni qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su l’orizzonte, e l’efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse in dieci strati l’una su l’altra, compariva la fresca verdura; spettacolo veramente bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi.

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4. incalzato: spinto, sollecitato. 5. innamoramento: a l’Aja il poeta si innamorò della giovane Cristina Emerentia Leiwe van Aduard. 6. in cose... rilievo: allude agli studi filosofici cui si dedicò fra un viaggio e l’altro. 7. se alcun... dappoi: se in seguito ho sviluppato almeno un poco le mie facoltà intellettuali. 8. Saggi... Montaigne: Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592), scrittore e filosofo francese, autore dei Saggi, in cui, partendo dal commento dei classici latini e greci, liberamente e acutamente analizza i problemi legati alla quotidianità. 9. fantasticando del mio: fantasticando ed elaborando idee personali. 10. passo del Sund: è lo stretto che separa l’isola di Seeland dalla Svezia del sud. 11. Scania: la regione più a sud della Svezia.

12. rappresi: ghiacciati. 13. legno: carrozza; metonimia. 14. greggia: selvaggia. 15. l’Ossian: i Canti di Ossian, opera dello scozzese James Macpherson (1736-1796) che finse di aver ritrovato e tradotto in inglese frammenti di antichi canti epici in lingua celtica, scritti da un bardo di nome Ossian. 16. Cesarotti: l’abate Melchiorre Cesarotti, traduttore dei Canti di Ossian. 17. La Svezia locale: i luoghi della Svezia. 18. mi eleggessi: scegliessi. 19. a me cognite: da me conosciute. 20. quattro classi votanti: in Svezia avevano diritto di voto i nobili, gli ecclesiastici, i borghesi e i contadini. 21. Cittadini: così sono chiamati i borghesi. 22. Ordini: classi sociali. 23. il dimoiare: lo sciogliersi.

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Proseguimento di viaggi. Russia, Prussia di bel nuovo, Spa, Olanda e Inghilterra. Viaggiare in inverno

Io sempre incalzato dalla smania dell’andare, benché mi trovassi assai bene in Stockolm, volli partirne verso il mezzo Maggio per la Finlandia alla volta di Pietroborgo […]. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell’entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l’inverno, dietro cui pareva ch’io avessi appostato24 di correre. Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest’entratura del suddetto golfo) attesa l’immobilità totale dell’acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il Poeta nostro25, quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d’intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io subito volli tentare, benché avendo una barca assai più spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l’ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea più robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E così per l’appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l’aspetto di quell’orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque; ma il vento essendo, la Dio mercè, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia26 e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l’ascia, castigatrice d’ogni insolente. Più d’una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo27, e staccando dalle pareti del legno28, tanto che desser luogo29 ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll’impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi30 in dieci e più ore. La novità di un tal viaggio mi divertì moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il lettore. La descrizione di cosa insolita per gl’Italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto più brevi, ed oltre ciò oramai fatti più liberi dai ghiacci, riuscirono assai più facili. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo.

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da Vita scritta da esso, I, a cura di L. Fassò, Casa d’Alfieri, Asti, 1951

24. appostato: programmato, deciso. 25. crich... nostro: in Inferno, XXXII, 30, Dante usa l’onomatopea riferendosi al lago gelato di Cocito: non avria pur da l’orlo fatto cricchi. 26. copia: abbondanza.

27. si andavano partendo: venivano divisi, spaccati. 28. legno: barca; metonimia. 29. luogo: spazio. 30. svezzesi: svedesi.

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omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il contenuto del brano proposto in non più di 30 righe. 2. Rispondi alle seguenti domande (max 10 righe per ogni risposta). a. A quale lettura si dedica Alfieri durante il viaggio a Vienna e che cosa dice di essa? b. Quali caratteristiche del paesaggio e degli abitanti della Svezia sono evidenziate? c. Quali stati d’animo ed emozioni prova l’autore durante il viaggio fra i ghiacci? 3. Nel passo si parla di ciò che l’autore osserva, delle sue riflessioni ed emozioni o di tutti questi aspetti? Motiva la risposta con adeguati riferimenti al testo (max 20 righe).

T3 La grande Roma da Viaggio in Italia

Johann Wolfgang Goethe

Nel 1786, improvvisamente, Wolfgang Goethe lascia la sua residenza nella città di Weimar e parte, da solo, per l’Italia, patria della civiltà classica, visitando Roma, Palermo e Venezia e lasciandosi affascinare dalla bellezza delle opere antiche. La scoperta dell’Italia, vista come luogo di vita piena, di luce e solarità, di intatta armonia, segna nello scrittore il superamento dell’adesione allo Sturm und Drang e l’approdo al Neoclassicismo. Lo scrittore tedesco rievocherà quest’esperienza molti anni dopo, nel Viaggio in Italia (1828), scritto nell’ultimo periodo della sua vita trascorso nel privato della sua casa di Weimar, in una solitudine interrotta soltanto dalla visita di amici scrittori di tutta Europa e dai numerosi rapporti epistolari. Il brano proposto – che intreccia autobiografia e cronaca di viaggio – narra il primo impatto, anche emotivo, del grande scrittore con Roma, città mitica per ogni cultore dell’antichità. PISTE DI LETTURA • La scoperta della Roma del presente e del passato • Un viaggio che incide profondamente sull’interiorità • Tono descrittivo che si intreccia con un’accurata autoanalisi

Il desiderio di conoscere l’Italia

Roma, 1° novembre 1786 Finalmente posso schiudere le labbra a un pieno e lieto saluto per i miei amici. Chiedo perdono della mia segreta partenza e del viaggio pressoché sotterraneo compiuto fin qui. Non osavo quasi confessare a me stesso la mia meta, ancora per via ero oppresso dal timore, e solo quando passai sotto Porta del Popolo seppi per certo che Roma era mia. E lasciatemi anche dire che molte volte, anzi di continuo, penso a voi, di fronte a cose che non avrei mai creduto di dover vedere da solo. Soltanto dopo aver visto come ognuno fosse incatenato anima e corpo al Nord, e come fosse ormai spenta ogni brama di conoscere queste terre, mi decisi a intraprendere un così lungo e solitario cammino, alla ricerca di quel punto centrale verso cui mi attirava un’esigenza irresistibile. In verità, negli anni più recenti era diventata una specie di malattia, dalla quale solo la vista e la presenza immediata potevano guarirmi. Ora lo confesso: da ultimo non riuscivo neppur più a gettare uno sguardo su un libro latino, su un disegno che raffigurasse località italiane. Troppo era maturata in me la sete di vedere questo paese; adesso che è appagata, patria e amici tornano a essermi profondamente cari, e desiderabile il ritorno; tanto più desiderabile, in quanto sento con certezza che non riporterò meco tanti tesori per mio esclusivo uso e possesso, ma perché servano di guida e di sprone a me e agli altri per tutta la vita.

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La scoperta di Roma

La ricerca di Roma antica

Roma, 1° novembre. Sì, finalmente mi trovo in questa capitale del mondo! Se l’avessi potuta vedere quindici anni fa in buona compagnia, sotto la guida d’un uomo veramente esperto, che grande fortuna sarebbe stata! Ma poiché invece debbo vederla e visitarla da solo e con i miei occhi, è meglio che una tal gioia mi sia toccata così tardi. Ho pressoché sorvolato le montagne tirolesi; ho visitato bene Verona, Vicenza, Padova e Venezia, di sfuggita Ferrara, Cento e Bologna, e Firenze, si può dire, non l’ho veduta. L’ansia di giungere a Roma era così grande, aumentava tanto di momento in momento, che non avevo tregua, e sostai a Firenze solo tre ore. Eccomi qui adesso tranquillo e, a quanto pare, placato per tutta la vita. Giacché si può dir davvero che abbia inizio una nuova vita quando si vedono coi propri occhi tante cose che in parte già si conoscevano minutamente in ispirito. Tutti i sogni della mia gioventù li vedo ora vivere; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva appeso ai muri d’un vestibolo le vedute di Roma) le vedo nella realtà, e tutto ciò che conoscevo già da lungo tempo, ritratto in quadri e disegni, inciso su rame o su legno, riprodotto in gesso o in sughero, tutto è ora davanti a me; ovunque vado, scopro in un mondo nuovo cose che mi son note; tutto è come me l’ero figurato, e al tempo stesso tutto nuovo. Altrettanto dicasi delle mie osservazioni, delle mie idee. Non ho avuto alcun pensiero assolutamente nuovo, non ho trovato nulla che mi fosse affatto estraneo; ma i vecchi pensieri si sono fatti così definiti, così vivi, così coerenti, che possono valere per nuovi. Quando l’Elisa di Pigmalione1, che questi aveva foggiata secondo la sua precisa volontà, e a cui aveva infuso tanta verità e realtà di vita quanta è possibile all’artista, finalmente gli venne incontro e gli disse: “Sono io!”, come diversa fu la persona viva dalla pietra scolpita! E quanto mi è moralmente salutare vivere in mezzo a un popolo vero e concreto, del quale si è detto e scritto tanto, e che ogni straniero giudica secondo il criterio che reca con sé! Perdono a tutti quelli che lo biasimano e lo denigrano2; è una gente troppo lontana da noi, e il rapporto dello straniero con essa costa fatica e sacrificio. [...] Roma, 7 novembre. Sono qui da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografia della Roma antica e della moderna, guardo le rovine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma. Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione. Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma. Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova. Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi

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1. Elisa di Pigmalione: Ovidio nelle Metamorfosi narra che Pigmalione, re di Cipro, si innamorò della statua che aveva scolpito e che Venere, commossa, la trasformò in fanciulla. Goethe la chiama Elisa seguendo l’opinione del critico e poeta svizzero Johann Jakob Bodmer (1698-1783); lo stesso

nome verrà poi ripreso dal drammaturgo inglese Bernard Shaw (1856-1950) nella sua commedia Pygmalion (1912). 2. lo denigrano: il giudizio di Goethe sulla gente di Roma risente della profonda impressione che i popolani romani dovevano avere su un serio studioso.

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precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa. Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare. Altrove bisogna cercare atten- 75 tamente per scoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti. Dovunque si vada o si stia si è sicuri d’aver davanti agli occhi un quadro vario e complesso. Palazzi e rovine, giardini e deserti, vastità ed angustia, cupole e stalle, archi di trionfo e colonne spezzate, e spesso tutte queste cose così vicine le une a le altre che si potrebbero disegnare in un solo foglio. 80 Ma ci vorrebbero migliaia di bulini3 per esprimere quello che vorrebbe dire una sola penna! E poi la sera si torna a casa stanchi ed esausti per l’ammirazione e per la meraviglia... da Viaggio in Italia, trad. di E. Castellani, Mondadori, Milano, 1983

3. bulini: scalpelli con punte in acciaio usati per le incisioni.

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omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il contenuto del testo in non più di 30 righe, utilizzando la terza persona singolare. 2. Evidenzia i principali aspetti autobiografici presenti nel testo, separandoli dalle descrizioni di viaggio, e precisa quando si riferiscono a vicende concrete e quando riguardano invece stati d’animo e riflessioni dell’autore. 3. Lo stile di Goethe ti sembra simile o molto diverso da quello usato da Vittorio Alfieri nella Vita scritta da esso (cfr. pag. 877 e segg.)? Motiva la tua risposta con adeguate argomentazioni (max 20 righe). 4. A tuo parere, Goethe attribuisce maggiore importanza alla descrizione degli elementi che scopre durante il viaggio o ai pensieri e ai sentimenti che l’esperienza di viaggio suscita in lui? Motiva la tua risposta con precisi riferimenti al testo.

T4 Tristram si racconta da Vita e opinioni di Tristram Shandy, I, 1 e 5

Laurence Sterne

Considerato da molti come uno dei capostipiti del romanzo sperimentale moderno, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1760) è opera di Laurence Sterne. Scritto in forma di autobiografia – priva, però, di rilevanti elementi veritieri –, l’opera ha come protagonista Tristram Shandy, di cui si narra l’infanzia in un quadro ironico che dipinge la famiglia Shandy, composta dal genialoide padre filosofo, Walter, dalla seria e silenziosa madre Elisabeth e dallo zio Toby, fratello del padre, un originale ex militare pacifista. Notevole è anche il ruolo dei frequentatori della famiglia, tra cui spicca l’esilarante pastore d’origine danese Yorick. Sterne influenzerà la letteratura europea successiva – in Italia, già fra Settecento e Ottocento, egli trova un estimatore e un traduttore in Foscolo – introducendo nel romanzo elementi innovativi come l’intervento della voce narrante nelle vicende, le digressioni, i commenti sulla scrittura e gli interventi filosofici. Proponiamo di seguito l’inizio del romanzo. PISTE DI LETTURA • Un’autobiografia di uomo comune narrata in modo fuori dal comune • L’abile e sorprendente uso delle digressioni • Tono ironico

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Avrei desiderato che mio padre e mia madre, o meglio tutti e due, poiché entrambi vi erano ugualmente tenuti, avessero badato a quello che facevano quando mi generarono; se avessero debitamente considerato tutto quanto dipendeva da ciò che stavano facendo in quel momento: – che non solo stavano per dare la vita a un essere razionale, ma che molto probabilmente la felice conformazione e costituzione fisica del suo corpo, forse il suo ingegno e la struttura stessa della sua mente, e per quanto potevano saperne, perfino la fortuna di tutta la sua casa avrebbero potuto essere condizionati dagli umori e dalle inclinazioni prevalenti in quel momento; – se essi avessero debitamente soppesato e valutato tutto ciò, e agito di conseguenza, – io sono profondamente convinto che avrei fatto al mondo una ben diversa figura da quella che forse faccio al lettore. Credetemi, brava gente, non si tratta di un fatto trascurabile come molti di voi potrebbero ritenere. Avete tutti, suppongo, sentito parlare degli spiriti animali e di come vengano trasmessi dal padre al figlio e così via, e di parecchio altro al riguardo. Ebbene, potete credermi quando vi dico che nove decimi della saggezza o della stoltezza di un uomo, dei suoi successi o fallimenti in questo mondo dipendono dai loro movimenti e dalla loro energia, dai diversi indirizzi e direzioni verso cui li avviate. Perché una volta messi in movimento, per il verso giusto o no – e non si tratta di una faccenda da quattro soldi –, via! essi partono in gran trambusto come pazzi scatenati. E a furia di battere e ribattere lo stesso cammino, finiscono col tracciare una vera e propria strada, dritta e comoda come il viale di un giardino, dalla quale, una volta che vi si siano avvezzi, neanche il diavolo in persona riuscirebbe più a staccarli1. ”Scusa, caro” disse mia madre sul più bello “non hai per caso dimenticato di ricaricare l’orologio?2” “Buon Dio!” esclamò mio padre, lasciandosi sfuggire un’imprecazione, ma avendo l’accortezza al tempo stesso di non alzare troppo la voce. “Ha mai una donna, dalla creazione del mondo ai giorni nostri, interrotto un uomo con una domanda così sciocca?” “Scusate, ma che cosa stava dicendo vostro padre?” “Niente.” [...] Considerazioni Il cinque novembre 1718, che rispetto all’epoca fissata era tanto vicino ai nosulla fortuna ve mesi di calendario quanto qualsiasi marito in senno si sarebbe potuto aspettare, fui io, Tristram Shandy3, gentiluomo, messo in questo scorbutico e disastroso mondo nostro. Vorrei essere nato nella Luna, o in qualsiasi altro pianeta (eccetto Giove o Saturno, siccome non ho mai potuto sopportare il freddo) perché non la sarebbe potuta andare molto peggio per me in uno qualunque di essi (sebbene non mi pronunci su Venere) di quanto è andata in questo vile, lurido pianeta nostro, che, sia detto col dovuto rispetto, credo essere stato fatto cogli sbrendoli4 e ritagli degli altri. Non che questo pianeta non vada abbastanza bene per chi ci nasce erede di un gran titolo o di un gran patrimonio; o per coloro che trovano il modo di salire alle cariche pubbliche e a quei posti che fruttano onori e profitti. Ma questo non è il caso mio. Poiché ognuno parla della fiera a seconda di come sono andati i propri affari5, torno a dire che questo è il più vile mondo che sia mai stato creato; perché posso veramente affermare che, dall’ora in cui trassi il primo respiro, fino a questa in cui posso a mala pena respirare per l’asma che mi presi pattinando contro vento in Fiandra6, sono stato lo zimbello di colei che il mondo chiama Fortuna. Un incipit ironico

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1. Credetemi... a staccarli: è il primo esempio delle digressioni e dell’ironia che caratterizzano lo stile dell’autore. 2. Scusa caro... l’orologio?: celebre domanda che introduce il nonsense sperimentale nel romanzo. 3. Shandy: nel dialetto della contea di York dove viveva il reverendo Sterne, il termine shandy significa “cervello bizzarro”.

4. sbrendoli: brandelli. 5. ognuno parla... affari: ognuno giudica secondo la sua esperienza. 6. pattinando contro vento in Fiandra: la Fiandra (odierna regione del Belgio) era famosa in Europa nei secoli scorsi per lo sport del pattinaggio sui fiumi gelati in inverno; di qui l’ironica espressione.

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E se anche non posso farle il torto di dire che mi abbia mai arrecato alcuna grave o segnalata sciagura, devo tuttavia, con tutta la serenità di questo mondo, dichiarare che in ogni fase della mia vita, ad ogni svolta ed angolo dove mi ha potuto cogliere, l’ingenerosa duchessa7 mi ha fatto segno di tali miserevoli disavventure e avversità quali mai piccolo EROE subì. da La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, Einaudi, Torino, 1990

7. l’ingenerosa duchessa: la sorte.

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omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il testo di Laurence Sterne in non più di 20 righe. 2. Qual è, a tuo parere, il tono emotivo prevalente dell’autore nel parlare di sé? Motiva la tua risposta facendo riferimento al testo. 3. Il modo di raccontare e lo stile di Sterne ti sembrano più simili a quelli dell’anonimo autore del Lazarillo de Tormes, a quelli di Vittorio Alfieri o del Goethe di Viaggio in Italia? Motiva adeguatamente la tua risposta.

T5 Una memorialistica per formare i giovani da I miei ricordi

Massimo d’Azeglio

Massimo d’Azeglio, uomo politico, letterato e pittore, ripercorre gli avvenimenti della sua vita, tentandone un bilancio, nell’opera autobiografica I miei ricordi, pubblicata postuma nel 1867. Dopo essersi dedicato con passione alla politica, d’Azeglio, uno scrittore anche di romanzi storici di successo come Ettore Fieramosca, raccoglie in questo scritto memorialistico i suoi ricordi di patriota risorgimentale. Spinto da un intento patriottico-educativo, scrive in uno stile semplice e colloquiale. Nell’introduzione, Origine e scopo dell’opera, d’Azeglio motiva il suo racconto con la necessità, a partire dalla delusione per la situazione politica presente, di formare le giovani generazioni in modo tale da farne uomini d’alti e forti caratteri, educati ai valori morali e patriottici, al vero e al giusto. PISTE DI LETTURA • L’intento educativo dell’opera • L’intreccio fra autobiografia e storia • Tono pacato Dubbi e motivazioni per la realizzazione di un’autobiografia

Da parecchi anni mi si viene affacciando il progetto di scrivere l’istoria della mia vita. Ma ogni qualvolta quest’idea, anzi questo desiderio mi si presenta alla mente, rimane tosto1 avviluppato e reso inerte da mille dubbi. Merita la mia vita d’esser narrata? Perché sento io il desiderio di narrarla? Mi muove2 un sentimento lodevole, od è questo un laccio che mi vien teso da un volgare e malaccorto 5 amor proprio? A far tacere questi dubbi ognuno ha sempre in pronto le persuasioni degli amici. Ma, per esser giusto, non debbo accusarli d’essersi mostrati troppo insistenti su questo particolare; poi credo che in questo caso si anderebbe più sul sicuro a po10 ter sapere quel che ne pensino i nemici. Onde lascio stare quest’argomento. Ecco, invece, i motivi che mi mossero a scrivere.

1. tosto: subito, immediatamente.

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2. muove: guida.

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Analisi introspettiva

Intento educativo

Io son arrivato, si può dire, tutto d’un fiato3 sino alla mia età di sessantaquattr’anni, senza mai aver avuto tempo, sto per dire, di voltarmi indietro. Giova oramai gettare uno sguardo sulla via corsa. È esercizio moralmente salubre4 usare il freddo e tranquillo criterio dell’età matura a giudicare gli atti della giovinezza e della virilità. E se il farsi da sé in certo modo il processo è utile a noi stessi, perché non potrebbe esserlo ad altri egualmente, purché il giudice sia giusto, illuminato e sincero? Resta a vedersi se saprò io poi esser tale. Senza pronunziare un sì troppo risoluto5 mi contento di dire che lo spero, e vi porrò ogni studio. Tuttavia non è male che, per prima prova di sincerità, dia al lettore questo consiglio. Quando dirò male di me creda pure tutto ad occhi chiusi; quando ne dirò bene gli tenga aperti. Ora dunque, onde rendere utile altrui, e più di tutto alla nuova generazione, l’opera mia, ecco in qual modo ho pensato ordinarla e dividerla. Intendo non tanto narrare le mie vicende, quanto fare di me uno studio morale e psicologico, cercando di conoscermi e di descrivere a fondo la natura mia, il mio carattere nelle sue successive modificazioni rintracciando al tempo stesso le cause obiettive o subiettive6 che lo migliorarono talvolta, e tal altra lo resero peggiore. S’io non prendo errore7, questa specie d’autopsia morale riuscirà tutt’altro che inutile, sia a chi educa gli altri, sia a coloro che comprendono dovere ogni uomo sino all’ultimo suo giorno attendere ad educare se stesso. Ma non mi basta studiare me ed ingegnarmi di cavare da questo studio utili ammaestramenti. Io spero poter offrire a chi vorrà leggermi assai miglior derrata8 che non sono io. Ebbi alla vita mia ad incontrarmi con grandissimo numero di persone. Volle la mia fortuna che fra queste s’annoverassero uomini di primordine, bellissimi ingegni, alti cuori e rari caratteri. Io spero riuscire a formare de’ loro ritratti una galleria, ricca di nobili modelli. Volesse Iddio ch’essa ne producesse un’altra ricca egualmente: quella de’ loro imitatori!9 [...] Altra avvertenza. Io non vorrei che questo fosse un libro politico o di circostanza; e, se riesco nel mio intento e nel mio lavoro, certo non lo sarà. So bene quanto sia difficile ad uno scrittore non esser più o meno tinto del colore della sua epoca. Si può anzi dire che a lavarsene affatto sia impossibile. Ma io ho sempre tanto cercato nella mia vita politica di conoscere e seguire esclusivamente il vero ed il giusto, senza passione di parte e senza occuparmi se ciò piacesse o dispiacesse; ho tanto inveterata in me l’abitudine di chiamare uom dabbene o ribaldo10 chi credo tale realmente, e non chi appartiene ad un partito o ad un altro (e per questo m’ebbero in tasca tutti); ho tanto cercato di scoprire ed applicare, quanto potetti, le grandi leggi elementari che servono a fondare, mantenere e far prosperare le nazioni, senza occuparmi d’interessi, di passioncelle, di miserie volgari, che quasi ho speranza ottenere il mio desiderio e lasciare a chi vien dopo qualche pagina che possa esser letta senza troppo fastidio anche in circostanze ed in epoche ben diverse dalle presenti11. Io vorrei, però, che queste pagine servissero, in un senso, anche all’età nostra: e mi spiego. L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buon porto12, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse è la lotta interna. I più pericolosi nemici d’Italia non sono i Tedeschi, sono gl’Italiani. E perché?

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3. tutto d’un fiato: velocemente. 4. salubre: che giova allo spirito. 5. risoluto: deciso, sicuro. 6. subiettive: soggettive. 7. S’io non prendo errore: se non sbaglio. 8. derrata: prodotto. 9. Io spero... imitatori!: emerge in questo passo l’aspira-

zione dello scrittore di formare, con i propri racconti, uomini di valore. 10. ribaldo: furfante, mascalzone. 11. lasciare... presenti: d’Azeglio sottolinea il valore universale a cui un’opera d’arte deve aspirare, superando i legami con il presente. 12. a buon porto: si è quasi conclusa.

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Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini13 e le miserie morali che furono ab antico14 la loro rovina; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l’Italia, come 65 tutt’i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione, finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza 70 di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani che sappiano adempiere al loro dovere; quindi che si formino alti e forti caratteri. E 75 pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto. da I miei ricordi, a cura di A. Pompeati, Utet, Torino, 1972

13. dappocaggini: comportamenti squallidi.

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14. ab antico: fin dall’antichità, ossia da sempre.

omprensione e analisi tematica

Riassumi il testo in non più di 30 righe. Che cosa spinge l’autore a scrivere la propria autobiografia? Quale differenza intercorre tra narrare le proprie vicende e fare di sé uno studio morale e psicologico? Individua i passi in cui le considerazioni dello storico irrompono nel tessuto narrativo.

Una voce contemporanea

Due ritratti ricchi d’affetto da Canzoniere, I

Umberto Saba

La lirica Ritratto della mia bambina è stata scritta da Umberto Saba dopo la Grande guerra, nel 1920, ed appartiene alla sezione Cose leggere e vaganti del Canzoniere, raccolta poetica profondamente autobiografica. Il ritratto di Linuccia, figlia del poeta e dell’adorata moglie Lina, è un esempio di quella esaltazione del valore della famiglia che contrappone l’amore di Saba per la vita quotidiana – al cui interno egli ricerca il senso dell’esistenza – alle concezioni superomistiche e decadenti prevalenti nel periodo. Anche il fatto che molti dei versi di questo autore trattino di affetti quotidiani in forma da tutti comprensibile, dimostra che la sua produzione poetica trae grandemente spunto dall’elemento autobiografico. Nel Canzoniere la moglie Carolina Wölfler, ebrea come la madre del poeta, è con la figlia ispiratrice fondamentale. Lina appare in numerosissime poesie: dalla celebre A mia moglie fino agli ultimi versi. Esemplare è il secondo componimento qui proposto, il sonetto Ed amai nuovamente, e fu di Lina (da Autobiografia, 1924) che presenta ancora la famiglia come supremo ideale della vita. PISTE DI LETTURA • Un ritratto in versi • Eventi naturali ed emozioni infantili • La vita e l’ispirazione poetica

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La mia bambina con la palla in mano…

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Schema metrico: endecasillabi sciolti.

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La mia bambina con la palla in mano, con gli occhi grandi colore del cielo e dell’estiva vesticciola: “Babbo – mi disse – voglio uscire oggi con te”. Ed io pensavo: Di tante parvenze1 che s’ammirano al mondo, io ben so a quali posso la mia bambina assomigliare2. Certo alla schiuma, alla marina schiuma che sull’onde biancheggia, a quella scia ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde3; anche alle nubi, insensibili4 nubi che si fanno e disfanno in chiaro cielo; e ad altre cose leggere e vaganti. da Canzoniere, Einaudi, Torino, 1965

1. parvenze: realtà che appaiono alla vista. 2. assomigliare: paragonare. 3. a quella scia... sperde: al leggero fumo (quella scia) che esce, colorato d’azzurro, dai comignoli dei tetti e che

viene disperso dal vento. 4. insensibili: che non percepiscono, quasi fossero al di sopra del mondo organico.

Ed amai nuovamente, e fu di Lina…

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Schema metrico: sonetto con schema delle rime ABAB, ABAB, CDE, CDE. Ed amai nuovamente, e fu di Lina dal rosso scialle il più1 della mia vita. Quella che cresce accanto a noi, bambina2 dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita. 5

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Trieste è la città, la donna è Lina, per cui scrissi il mio libro di più ardita sincerità; né dalla sua fu fin’ ad oggi mai l’anima mia partita3. Ogni altro conobbi umano amore; ma per Lina torrei4 di nuovo un’altra vita, di nuovo vorrei cominciare. Per l’altezze l’amai del suo dolore; perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra, e tutto seppe, e non se stessa, amare. da Canzoniere, Einaudi, Torino, 1965

1. il più: il tempo maggiore. 2. bambina: è Linuccia, la bimba della lirica precedente.

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3. partita: divisa. 4. torrei: prenderei.

omprensione e analisi tematica

1. Svolgi la parafrasi dei due componimenti di Umberto Saba aiutandoti con le note. 2. Quali figure retoriche presenti nel testo hanno particolare rilievo? Indicale, chiariscile e motiva la tua scelta. 3. Quali sono i temi autobiografici presenti nelle due liriche? Scrivi (max 20 righe) la tua motivata risposta.

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Letteratura e arte AUTORITRATTI D’ARTISTA

Albrecht Dürer, Autoritratto, 1500. Monaco, Alte Pinakothek.

Johannes Gumpp, Triplo Autoritratto, 1646. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Dall’inizio del Cinquecento non c’è pittore o scultore che rinunci all’autoritratto, a conferma del nuovo ruolo sociale raggiunto dall’artista e della volontà di lasciare di sé un’immagine che sia, insieme, fotografia psicologica e autocelebrazione, capace di immortalare la propria originalità d’autore e addirittura la propria eccezionalità. In questa smisurata galleria, possiamo iniziare dal primo grande pittore che si è più volte raffigurato in autoritratti: Albrecht Dürer (1471-1528). Nel suo Autoritratto in veste di Cristo egli intende rivendicare all’artista il ruolo di portatore di verità e di conoscenza. Nel Triplo autoritratto di Johannes Gumpp (1626-1664 ca.) l’artista si ritrae, appunto, tre volte: di spalle mentre dipinge, riflesso nello specchio a sinistra e sulla tela, l’unica che guardi l’osservatore. In grande anticipo sugli studi di psicanalisi, il pittore per la prima volta introduce il tema dell’identità personale come qualcosa che ci sfugge, in un gioco di rappresentazioni esterne, lontane dal nostro io profondo, forse irriconoscibile. Di sapore preromantico, invece, è l’Autoritratto in veste di guerriero di Salvator Rosa (1615-1673), artista e letterato controcorrente nel contesto dell’arte tardo-barocca. Qui si propone con fierezza e spavalderia nella sua fama di pittore maledetto, pronto a combattere contro chiunque gli si opponga. Un caso a parte, nella storia dell’arte, è rappresentato dalle serie di autoritratti di Rembrandt van Rijn (1606-1669), ossessionato dalla volontà di autoanalisi e autorappresentazione, durata per tutta la vita. In decine di dipinti e incisioni, il più importante pittore olandese del Seicento ci ha lasciato una vera autobiografia visiva della sua vita personale e professionale: dal ritratto giovanile del 1627 (in cui il volto è velato da un’ombra inquietante) a quello del 1669, che precede di poco la morte. A due secoli di distanza, l’arte parla un altro linguaggio. Il pittore realista Gustave Courbet (18191877) si ritrae senza enfasi e retorica, ma nei gesti della realtà quotidiana: il sottotitolo, infatti, è Uomo con pipa. Ma l’attenzione al “vero” esterno si unisce alla capacità di analisi del profondo, che traspare nella malinconia che vela lo sguardo abbassato dell’artista assorto in pensieri lontani. Il pittore si impone di guardare le cose con sguardo disincantato e dire “tutto il vero”.

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Salvatore Rosa, Autoritratto in veste di guerriero, 1660 circa. Monte dei Paschi di Siena, Collezione Chigi Saracini.

Rembrandt, Autoritratto, 1627. Kassel, Staatliche Museen.

Rembrandt, Autoritratto, 1669. Londra, National Gallery.

Gustave Courbet, Autoritratto (Uomo con pipa), 1848-1849. Montpellier, Musée Fabre.

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Letteratura e cinema BARRY LYNDON Regia: Stanley Kubrick Anno: 1975 Genere: drammatico L’argomento Orfano, bello, povero e ricercato per un omicidio, l’irlandese Redmond Barry si arruola nell’esercito inglese, impegnato nella guerra dei Sette anni, per dimenticare una pena d’amore. Diventato un valente militare ma stanco della vita di campo, diserta. Viene scoperto dal prussiano Potzdorf, che lo riporta nell’esercito e lo utilizza come spia. Conosciuto l’avventuriero Chevalier di Balibari, scappa con lui e ritorna in Inghilterra. Redmond si dà alla bella vita come giocatore d’azzardo. Sposa la ricca Lady Lyndon, ma il matrimonio porterà infelicità e sventure a tutti. La donna va in rovina per pagare i debiti accumulati dal secondo marito ma, nonostante i tradimenti di Barry, sembra essere l’unica ad amarlo per quello che è. Il figlio nato dal primo matrimonio di Lady Lyndon, Lord Bullington, fugge di casa perché odia Barry e il suo opportunismo, mentre Bryan, nato dall’unione con Barry, muore in seguito a una caduta da cavallo. Barry, sfidato a duello da Lord Bullington, è ferito gravemente, perde una gamba e viene allontanato per sempre dal castello dei Lyndon. Il significato e il linguaggio Il film è tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore inglese William Makepeace Thackeray (18111863). A molti questo film può apparire un bellissimo esercizio di stile. Kubrick, appassionato fotografo, ha voluto girare il film con la luce naturale e ogni inquadratura, studiata minuziosamente, si ispira ai grandi vedutisti inglesi e veneziani e viene valorizzata dall’uso di campi lunghi e lenti movimenti di macchina. Il narratore è una voce fuori campo e la colonna sonora è composta da musiche di Bach, Mozart, Händel. I dialoghi sono ridotti al minimo, la recitazione è studiatissima, ogni gesto è perfetto. La storia di Barry costituisce però anche un altro capitolo nella condanna di Kubrick per qualsiasi forma di violenza, guerra, sopruso, espressa, con modalità differenti, in altri suoi film, soprattutto Spartacus, Il dottor Stranamore, Arancia meccanica e Full Metal Jacket. Il fatto che il film si apra e si chiuda con un duello (quello in cui muore il padre di Barry e quello in cui Barry stesso rimane ferito) e ci sia molto gioco d’azzardo (all’epoca assai diffuso e addirittura incoraggiato nelle corti europee) è una metafora delle sorti umane, legate al caso, alla fortuna o all’inganno. Abbastanza evidente, anche se poco indagata, è inoltre una chiave di lettura psicanalitica, legata alla mancanza del padre: Barry, che è orfano, sembra cercare inconsapevolmente dei padri surrogati (e li trova nell’amico capitano Grogan, nel prussiano Potzdorf, nello Chevalier), ma rimane per tutta la vita uno sbandato, senza morale. Il solo “antagonista” di Barry, Lord Bullington, è anch’egli orfano ma, come dice Kubrick, l’uomo è artefice del proprio destino, nonostante i casi della vita e riesce, nonostante il dolore, a costruire qualcosa di buono per sé e per la propria famiglia.

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La rappresenta-

zione della donna nella letteratura

Van Dyck, Ritratto di famiglia, 1618. Particolare. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

LA Caratteri tipicamente seicenteschi

FIGURA FEMMINILE NELLA POESIA BAROCCA

Dopo la donna angelicata del Dolce Stil Novo e le grandi figure letterarie del Trecento – esemplificate dalla Beatrice di Dante e dalla Laura di Petrarca –, dopo le donne celebrate dal Rinascimento come nuove dee classiche da Poliziano o come nuove baccanti da Lorenzo il Magnifico, il Barocco descrive la donna attraverso una fitta trama di metafore. Anche se la figura della donna viene rappresentata all’interno di ambientazioni poetiche tipicamente seicentesche – il sogno, lo specchio, l’illusione, il passare inesorabile del tempo, l’appressarsi dei simboli della morte –, la curiosità nei confronti della realtà materiale fa sì che la poetica barocca proponga un’ampia gamma di modelli femminili che variano la tipologia stereotipata della lirica petrarchista.

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PERCORSO 3 - LA RAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA NELLA LETTERATURA

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Giambattista Marino (1569-1625) affida alla propria poesia rappresentazioni femminili originali e sorprendenti, seppure concrete nella loro fisicità e ritratte nella vita quotidiana, all’insegna dell’ampliamento e del superamento del linguaggio petrarchista e classicista e delle innovazioni metriche.

TRA ILLUMINISMO La donna nelle opere dei filosofi illuministi

Le donne autrici

La figura femminile nelle opere di Foscolo

E

ROMANTICISMO

L’Illuminismo settecentesco vede la donna compiere, almeno dal punto di vista teorico, i primi passi verso l’emancipazione: alla base del movimento sono, infatti, i princìpi dell’uguaglianza universale di tutti gli esseri umani e il riconoscimento di diritti umani naturali, che nessun individuo o Stato può limitare o eliminare. I filosofi illuministi, però, pur affermando i diritti alla parità civile, rimarcano chiaramente, nelle loro opere, le differenze tra uomini e donne; anche se pongono al centro del loro discorso il principio di uguaglianza che si basa sul diritto naturale, difendono l’idea di una natura femminile separata e diversa. Diderot dice: O donne! siete dei bambini davvero straordinari; Rousseau afferma: Tutto ha inizio da un’evidenza: gli uomini e le donne sono fisicamente diversi. È la Natura che l’ha voluto, e la Natura non fa niente a caso. Tuttavia, in letteratura compaiono le prime eroine moderne. Si deve proprio a Jean Jacques Rousseau uno dei ritratti femminili più vivi dell’epoca, quello di Giulia, la protagonista del romanzo Giulia o la nuova Eloisa (1761). Nel Settecento ottengono una certa fama anche alcune scrittrici. L’inglese Mary Wollstonecraft (1759-1797), madre di Mary Shelley, nel saggio Rivendicazione dei diritti delle donne, riprende princìpi affermati dai filosofi illuministi, rivendicando il diritto delle donne all’indipendenza e alla libertà, da conseguire con l’educazione e la formazione culturale pari a quella allora riservata agli uomini. Il periodo neoclassico recupera aspetti della concezione della donna tipici dell’epoca greca e latina. Nell’opera di Foscolo, la passione amorosa per la donna viene ricondotta nell’ambito delle illusioni che danno un senso alla vita (Ultime lettere di Jacopo Ortis). Nei suoi componimenti di ispirazione neoclassica, la rappresentazione della figura femminile si trasfigura e si sublima nel mito ideale della bellezza (Le odi, Le Grazie), dono fugace che il poeta può eternare attraverso l’arte ed unico rasserenante conforto ai dolori dell’esistenza.

Illustrazione per il romanzo di Rousseau Giulia o la nuova Eloisa.

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Il Romanticismo europeo e la donna

I personaggi di Jane Austen e delle sorelle Brontë

La donna moralmente pura di Manzoni

L’amore come desiderio irrealizzabile La donna nel Realismo

Il Romanticismo europeo collega strettamente la donna e l’amore, anche perché al sentimento vengono schiusi gli orizzonti prima riservati alla ragione. La donna diventa in questo periodo anche protagonista della scena letteraria. Madame de Staël diffonde il Romanticismo tedesco nei Paesi latini: la sua celebre lettera (Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni) è l’occasione che scatena la polemica tra classicisti e Romantici in Italia. Aurore Dupin, scrittrice romantica, scandalizza la società parigina per la vita anticonformista e per i suoi amori: porta abiti maschili e si fa chiamare George Sand. La rappresentazione delle figure femminili è particolarmente significativa nelle opere delle prime grandi scrittrici della letteratura occidentale, che emergono in Inghilterra, patria delle prime lotte per l’emancipazione femminile. Spiccano per la grande capacità di introspezione Jane Austen (1775-1817) e le sorelle Emily (1818-1848), Charlotte (1816-1855), e Anne (1820-1849) Brontë. La Austen, nel suo capolavoro, Orgoglio e pregiudizio (1813), analizza i complessi intrecci fra valori sociali, princìpi morali e sentimenti dal punto di vista femminile; le seconde danno spazio nelle loro opere all’introspezione psicologica, al realismo e al senso romantico della natura e del mistero. I loro personaggi femminili sono dipinti con una profondità senza precedenti. In Italia Alessandro Manzoni affronta invece la questione dell’amore e la rappresentazione della figura femminile rispettando il fine morale e sociale da lui attribuito alla letteratura. Quindi la donna, rappresentata principalmente da Lucia (I promessi sposi) ed Ermengarda (Adelchi), assume il ruolo di modello etico, mentre Gertrude, la monaca di Monza, viene contrapposta come modello femminile negativo, temperato dalla pietà per le cause traumatiche che hanno provocato il traviamento della donna. Giacomo Leopardi vede nell’amore che l’uomo nutre per la donna la prima e la più potente delle illusioni, in quanto desiderio irrealizzabile che provoca dolore e causa infelicità. La rappresentazione della donna nella grande stagione del Realismo conoscerà, rispetto alla visione della donna dell’epoca precedente, un radicale cambiamento: non più eroine, dee, figure esemplari, ma donne reali ritratte nella dura quotidianità e spesso nelle condizioni più difficili, come nelle opere di Balzac (La commedia umana) e di Flaubert (Madame Bovary).

UNA

VOCE CONTEMPORANEA:

ELSA MORANTE

Nel contesto del Neorealismo italiano del secondo dopoguerra, grandi e indimenticabili ritratti femminili sono tracciati ne La ciociara di Alberto Moravia o ne La ragazza di Bube di Carlo Cassola, i cui personaggi sono accomunati da forza, dignità morale e rassegnazione. Particolare attenzione alla raffigurazione della donna è dedicata anche da Elsa Morante (1912-1985) ne La storia (1974), le cui vicende sono ambientate a partire dalla Seconda guerra mondiale. Una netta differenza contraddistingue la donna presentata da Elsa Morante nel suo capolavoro rispetto ai personaggi femminili della stagione neorealista. Mentre queste ultime sono donne appartenenti al popolo ma in qualche modo eccezionali e eroiche, Ida Ramundo, protagonista de La storia, è un personaggio della “piccola storia”, che deve lottare sia contro le difficoltà della realtà quotidiana sia contro le drammatiche vicende in cui la “grande storia” la coinvolge.

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T1 Pallidetto mio sole da La Lira, II, XV

Giambattista Marino

L’immagine della donna pallida – pallidetto mio sole è un ossimoro – è tipica della letteratura barocca. In questo breve e ricercato madrigale di Marino, la simmetria ritmica e la musicalità sono affidate al ritornello pallidetto-pallidetta-pallidetto. La densità di figure retoriche è pure tipicamente barocca: si notino l’anafora, il chiasmo, la metafora, la sinestesia, e figure di suono come l’allitterazione, la ripetizione, l’assonanza e la consonanza. Dai versi non è possibile stabilire con assoluta certezza se la donna sia viva o morta. Marino sfrutta il fascino del non detto e dell’ambiguo lasciando nel forse la vita o la morte dell’amata, e infine spera di impallidire dolcemente – forse nella malattia o nella morte, più probabilmente nella metaforica morte causata dall’amore – insieme alla sua donna. L’innovazione barocca di contenuto riguarda l’accostamento inedito del pallore e delle ombre violacee con una donna viva da amare. Il concettismo del testo si rileva nell’accostamento sorprendente tra il pallore e il colore violaceo sinonimi di morte e la passione amorosa tradizionalmente accostata a colori solari e sanguigni. Le parole di Pallidetto mio sole sono utilizzate come testo da molti musicisti dell’epoca: è questa una sorte toccata alla maggioranza dei componimenti poetici di Marino musicati tra gli altri da Girolamo Frescobaldi, Heinrich Schütz e Claudio Monteverdi. In questo senso, Marino ha un successo e una considerazione ancora maggiori, ad esempio, di Petrarca e di Tasso, i cui componimenti poetici pure vengono spesso cantati o musicati. Schema metrico: madrigale di dieci versi, composto da sette settenari e tre endecasillabi, rime abBcaddCEe. PISTE DI LETTURA • La figura femminile nel Barocco • Densità di figure retoriche • Musicalità del testo

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Pallidetto mio sole1, ai2 tuoi dolci pallori perde l’alba vermiglia3 i suoi colori. Pallidetta mia morte4, a le tue dolci e pallide viole la porpora amorosa perde, vinta, la rosa5. Oh, piaccia a la mia sorte che dolce teco6 impallidisca anch’io, pallidetto amor mio! da Opere, a cura di A. Asor Rosa, Rizzoli, Milano, 1967

1. sole: nella tradizione letteraria barocca la donna è definita sole, in quanto entità di importanza vitale per il suo amante. 2. ai: sottintesa, in forma ellittica, l’espressione “se paragonata”. 3. vermiglia: tinta di rosso. 4. morte: anche la metafora donna-morte (la donna è mor-

te anche perché causa di tormenti amorosi) è un motivo tipico della lirica d’amore barocca. 5. a le tue dolci... la rosa: al paragone con le tue dolci e pallide viole, la rosa, vinta, perde il suo colore rosso, simbolo dell’amore; l’immagine analogica dolci... viole allude al pallore e ai colori attribuiti al viso della donna. 6. dolce teco: dolcemente con te.

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1. 2. 3. 4.

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omprensione e analisi tematica

Svolgi la parafrasi del madrigale aiutandoti con le note. Indica le principali figure retoriche presenti nel madrigale e spiegane la funzione. Perché si può dire che la figura femminile presentata nella lirica di Marino ha caratteri ambigui e polisemici? Quali sono le caratteristiche che la letteratura barocca attribuisce alla donna?

T2 L’amore e la ragione da Giulia o la nuova Eloisa

Jean-Jacques Rousseau

Giulia o la nuova Eloisa, romanzo epistolare di Rousseau, è ambientato nella Svizzera francese e narra dell’infelice amore del precettore Saint-Preux per la sua nobile e ricca allieva, Giulia. I due amanti devono lasciarsi per volontà del padre della giovane, la quale sposerà il ricco Wolmar cui darà due figli. Quando Saint-Preux la incontra nuovamente, la situazione per i due diventa insostenibile: Saint-Preux pensa al suicidio, mentre la donna è lacerata fra l’amore passionale e la fedeltà coniugale. Infine il dramma è risolto da una malattia della protagonista, che si è gettata nel lago per salvare uno dei figli in pericolo di vita. Il titolo del romanzo si rifà alla tragica biografia del teologo e filosofo francese Pietro Abelardo (10791142) e di Eloisa, la studentessa che egli amò e sposò segretamente; evirato dallo zio di lei, Abelardo si ritira in convento e per lunghi anni prosegue il rapporto con Eloisa, fattasi anch’ella monaca, attraverso un celebre carteggio. Il brano di Rousseau è tratto dalla parte iniziale del romanzo e riguarda il momento in cui i due protagonisti si dichiarano i reciproci sentimenti. L’elemento dell’emancipazione femminile attraverso l’educazione, l’istruzione e la padronanza dei sentimenti è illuministico. Preromantico è invece il tema dell’erompere della passione. PISTE DI LETTURA • La donna fra Illuminismo e Romanticismo • Una concezione moderna dell’amore • Elementi e stile del romanzo epistolare I biglietto di Giulia La reazione Non portate con voi il pensiero di aver reso necessario il vostro congedo1. Un di Giulia alla cuore virtuoso saprebbe vincersi o tacere, e forse diventerebbe temibile. Ma dichiarazione voi… voi potete rimanere. 5

di Saint-Preux

Risposta2 Ho taciuto a lungo; la vostra freddezza m’ha costretto finalmente a parlare. Se è possibile vincersi con la virtù, non si può tollerare il disprezzo della persona amata. Bisogna partire. 10 II biglietto di Giulia No, signore; dopo quello che avete simulato di sentire; dopo quanto avete avuto l’ardire di dirmi; un uomo come avete finto di essere non parte; fa di più.

1. il vostro congedo: Saint-Preux ha dichiarato il proprio amore a Giulia, che ne è rimasta turbata: decide dunque di

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partire. 2. Risposta: è Saint-Preux che risponde a Giulia.

PERCORSO 3 - LA RAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA NELLA LETTERATURA

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Risposta Non ho simulato altro che una passione moderata in un cuore disperato. 15 Domani sarete contenta, qualunque cosa ne diciate, avrò fatto ben altro che partire. III biglietto di Giulia Insensato! se ti son cari i miei giorni, temi di attentare ai tuoi. Sono strettamen- 20 te sorvegliata, non posso né parlarvi né scrivervi fino a domani. Aspettate.

Giulia confessa i propri sentimenti

Lettera IV di Giulia Bisogna dunque confessarlo, finalmente, questo fatale segreto mal dissimulato! Quante volte ho giurato che non mi sarebbe uscito dal cuore se non con la vita! Ecco che la tua in pericolo me lo strappa; mi sfugge, e l’onore è perduto. Ahimè! anche troppo ho mantenuto parola: c’è forse morte più crudele che sopravvivere all’onore? Cosa dire, in che modo rompere così penoso silenzio? O non ho forse già detto tutto, e non m’hai forse intesa anche troppo? Ah! hai visto troppo per non indovinare il resto! Trascinata a poco a poco nei lacci d’un vile seduttore, vedo senza potermi fermare l’orrendo precipizio dove sto per cadere. Subdolo uomo! la tua audacia deriva dal mio amore, più che dal tuo. Vedi com’è sconvolto il mio cuore, te ne avvantaggi per rovinarmi; e rendendomi spregevole, il peggiore dei miei mali è d’esser costretta a spregiarti. Ah sciagurato! io ti stimavo e tu mi disonori! credimi, se il tuo cuore fosse fatto per godere tranquillamente questa vittoria, non l’avrebbe mai riportata. Ora che lo sai, i tuoi rimorsi aumenteranno; non avevo in me istinti viziosi. Amavo l’onestà e la modestia; mi piaceva nutrirle in un’esistenza semplice e laboriosa. A che m’hanno giovato queste cure che il cielo ha rifiutato? Dal primo giorno che ebbi la sventura di vederti, provai il veleno che mi corrompe sensi e ragione; immediatamente lo provai, e i tuoi occhi, i tuoi sentimenti, i tuoi discorsi, la rea tua penna lo fanno ogni giorno più mortale. Non ho tralasciato nulla per frenare i progressi di così funesta passione3. Impotente a resistere, ho voluto sottrarmi agli assalti; le tue insistenze hanno sventato la vana mia prudenza. Cento volte ho voluto gettarmi ai piedi degli autori dei miei giorni, cento volte ho voluto aprir loro il mio colpevole cuore, loro non possono sapere che cosa ci sta: vorranno applicare i soliti rimedi a un male disperato; mia madre è debole e senza autorità; conosco l’inflessibile severità di mio padre: non farei altro che perdere e rovinare me, la mia famiglia e te stesso. La mia amica è assente, mio fratello è morto; non trovo nessun protettore al mondo contro il nemico che mi persegue; invano imploro il cielo, il cielo è sordo alle preghiere dei deboli. Tutto favorisce l’ardore che mi divora; tutto m’abbandona a me stessa, o meglio mi consegna in tua balia; pare che la natura tutta ti sia complice; tutti i miei sforzi sono vani, ti adoro mio malgrado. In che modo il mio cuore, che non ha saputo resisterti quand’era in piena forza, potrebbe ora cedere a metà? in che modo questo cuore incapace di dissimulare, potrebbe ora celarti il resto della sua debolezza? Ah! il primo passo è quello che più costa, bisognava non farlo; come potrò fermare gli altri? No, sento che quel primo passo mi trascina nell’abisso, tu mi puoi rendere sventurata a tuo piacimento. Questo è l’orrendo stato in cui mi trovo: non posso ricorrere ad altri che a colui che in questo stato mi ha ridotta, e per preservarmi dalla rovina tu devi essere l’unico mio difensore contro di te. So che avrei potuto aspettare a confessarti la mia disperazione; che avrei potuto per un poco nascondere la mia vergogna, e cedere a poco a poco, per illudere me stessa. Vana astuzia che poteva lusin-

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3. funesta passione: l’amore, visto romanticamente come una forza devastante alla quale non ci si può opporre.

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gare il mio amor proprio, ma non salvare la mia virtù. Ormai vedo troppo bene, sento troppo bene dove conduce il primo fallo: non cercavo di preparare la mia rovina, ma di evitarla. Tuttavia, se non sei l’ultimo degli uomini, se qualche scintilla di virtù4 ti splende nell’anima, se ancora vi rimane qualche traccia dei sentimenti d’onore di cui mi parevi imbevuto, posso mai crederti vile abbastanza per abusare di questa fatale confessione strappatami dal delirio? No, ti conosco bene; tu sosterrai la mia debolezza, proteggerai la mia persona contro il mio proprio cuore. Le tue virtù sono l’estremo rifugio della mia innocenza; il mio onore osa affidarsi al tuo, non puoi mantenere l’uno senza l’altro; anima generosa, ah! conservali entrambi, o almeno per amore di te degnati di aver pietà di me. O Dio! non sono abbastanza umiliata? Ti scrivo ginocchioni; bagno questa carta con le lagrime; alzo verso di te le mie timide suppliche. Tuttavia non credere che io non sappia che toccava a me riceverne, e che per farmi ubbidire non avevo che da farmi astutamente spregevole. Amico, prenditi pure questo vano imperio, e lasciami la mia onestà: preferisco esserti schiava e vivere innocente, che comperare la tua sommissione a prezzo del mio disonore. Se ti degni d’ascoltarmi, quanto amore, quanto rispetto non ti devi aspettare da colei che ti sarà debitrice di essere tornata in vita? Quali incanti, nella dolce unione di due anime pure! I tuoi desideri vinti saranno sorgente della tua felicità, i piaceri di cui godrai saranno degni persino del cielo. Credo, spero che un cuore che m’è sembrato meritevole della devozione del mio non vorrà smentire la generosità che me ne aspetto. Spero anche che, se fosse vile abbastanza da abusare del mio traviamento e delle confessioni che mi strappa, il disprezzo e lo sdegno mi restituirebbero la ragione smarrita, e che non sarei vile io stessa al punto di temere un amante del quale dovessi arrossire. Tu sarai virtuoso o sprezzato; io sarò rispettata o guarita; è l’unica speranza che mi rimane, prima di quella di morire.

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da Giulia o la nuova Eloisa, Rizzoli, Milano, 1992

4. scintilla di virtù: la barriera razionale che, secondo la teoria di Rousseau, si oppone, inutilmente, alla passione amorosa.

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omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il contenuto del brano in non più di 20 righe. 2. Rispondi in maniera puntuale alle seguenti domande (max 5 righe per ogni risposta). a. Come può essere definito, attraverso i suoi scritti, il carattere di Giulia? b. Che tipo di donna a tuo parere è Giulia? Motiva la tua risposta con opportuni riferimenti al testo. c. Quali sono le profonde differenze tra la figura di donna cantata da Marino e un personaggio come la Giulia di Rousseau? 3. Riscrivi la lettera IV di Giulia usando il linguaggio dei nostri giorni. 4. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo: La spontaneità del sentimento e i vincoli della ragione e della società.

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PERCORSO 3 - LA RAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA NELLA LETTERATURA

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T3 A Luigia Pallavicini caduta da cavallo

Ugo Foscolo

Dall’ode (composta nel 1800) che Ugo Foscolo dedica all’amica Luigia Ferrari Pallavicini – che durante una cavalcata con lui e altri ufficiali sulla spiaggia di Sestri era stata sbalzata e trascinata dall’animale imbizzarrito, rimanendo ferita al viso e claudicante – si comprende bene la rappresentazione della donna propria del classicismo. La lirica esprime, infatti, l’intento di tradurre gli eventi reali in momenti che trascendono il tempo, in cui il travestimento mitologico consente di innalzare la femminilità ad alta idealità estetica. L’ode si apre con l’augurio che le Grazie si curino della sua amica come si curarono di Venere, impazzita dal dolore per la morte di Adone, e si chiude con un augurio alla nobildonna perché possa guarire come la dea Diana caduta dal cocchio d’oro trainato dalle sue cerve. Schema metrico: strofe di settenari con rime sciolte. PISTE DI LETTURA • La donna come dea classica • Poesia e mitologia • Tono celebrativo

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I balsami beati per te le Grazie apprestino, per te i lini odorati che a Citerea1 porgeano quando profano spino le punse il pié divino,

Per te le Grazie preparino i dolci balsami e le bende odorose che porsero ad Afrodite quando una spina sacrilega le punse il piede divino,

quel dì che insana empiea il sacro Ida2 di gemiti, e col crine tergea, e bagnava di lagrime il sanguinoso petto al ciprio giovinetto3.

il giorno in cui impazzita riempiva di gemiti il sacro monte Ida e bagnava di lacrime il petto insanguinato del giovane nativo di Cipro.

Or te piangon gli Amori4, te fra le Dive liguri5 Regina e Diva! e fiori votivi all’ara portano d’onde il grand’arco suona del figlio di Latona6. E te chiama la danza ove l’aure portavano insolita fragranza, allor che, a’ nodi indocile, la chioma al roseo braccio ti fu gentile impaccio.

1. Citerea: appellativo della dea dell’amore, Afrodite, che dopo essere nata dalla spuma del mare approdò a nuoto sull’isola di Citera. 2. il sacro Ida: la montagna dove Adone, amato da Afrodite, trovò la morte, ucciso da un cinghiale. 3. ciprio giovinetto: Adone era nato dal re di Cipro.

Ora piangono te gli Amorini – te Regina e Dea tra le donne liguri – e portano fiori augurali all’altare da cui risuona il grande arco del figlio di Latona.

E te chiama la danza là dove il vento zefiro portava un profumo raro quando i tuoi lisci capelli che non avevano nodi scendevano fino al tuo braccio intrecciandolo con leggerezza.

4. Amori: o Amorini, divinità minori della mitologia greca, fedeli ad Afrodite, dea dell’amore. 5. Dive liguri: Luigia Pallavicini abitava sulla riviera ligure. 6. figlio di Latona: Apollo, detto anche Febo; Latona fu una delle numerose amanti di Zeus.

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Tal nel lavacro immersa, che fiori, dall’inachio7 clivo cadendo, versa, Palla8 i dall’elmo liberi crin su la man che gronda contien fuori dell’onda.

Così la dea Pallade, mentre è immersa nel fiume che cadendo dal colle Inaco versa fiori su di lei, tiene fuori dall’acqua i suoi capelli liberati dall’elmo con la mano grondante acqua.

Armoniosi accenti dal tuo labbro volavano, e dagli occhi ridenti traluceáno di Venere i disdegni e le paci, la speme, il pianto, e i baci.

Un armonioso canto usciva dalle tue labbra e dagli occhi ridenti di Afrodite trasparivano i litigi e le riconciliazioni, la speranza, il pianto e i baci.

[...]

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Di Cinzia9 il cocchio aurato le cerve un dì traeano, ma al ferino ululato per terrore insanirono, e dalla rupe etnea10 precipitàr la Dea.

Un giorno le cerve trainavano il cocchio dorato della dea Cinzia, ma udendo l’ululato delle bestie feroci si imbizzarrirono per il terrore e fecero precipitare la dea dalla rupe etnea.

Gioìan d’invido riso le abitatrici olimpie, perché l’eterno viso, silenzioso, e pallido, cinto apparia d’un velo ai conviti del cielo;

Gioivano di riso invidioso le dee abitatrici dell’Olimpo, perché il viso immortale silenzioso e pallido appariva fasciato da un velo ai banchetti degli dei;

ma ben piansero il giorno che dalle danze efesie11 lieta facea ritorno fra le devote vergini12, e al ciel salìa più bella di Febo la sorella13.

ma molto piansero il giorno che la dea sorella di Febo ritornò lieta dalle sacre danze di Efeso fra le vergini a lei consacrate, e ancora più bella salì verso il cielo.

da Opere, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano, 1956

7. inachio: del fiume greco Inaco. 8. Palla: Pallade Atena; la dea che a Roma aveva nome Minerva. 9. Cinzia: appellativo della dea Artemide (la romana Diana), nata sul monte Cinto nell’isola di Delo.

C

10. etnea: il monte Etna. 11. danze efesie: a Efeso si trovava il più importante tempio di Artemide. 12. le devote vergini: le ninfe Oceanine, sacre a Diana. 13. di Febo la sorella: Artemide era sorella di Febo Apollo.

omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il contenuto dei versi proposti (max 20 righe). 2. Individua i riferimenti mitologici presenti nel testo e spiegane il contenuto e la funzione che l’autore attribuisce loro. 3. Rileva i temi fondamentali proposti nell’ode. 4. Elenca le principali caratteristiche neoclassiche dell’ode, in particolare a livello stilistico. 5. La bellezza femminile è qui suprema armonia in cui – secondo Foscolo – si conciliano i traumi angosciosi dell’esistere. Rileva in quali forme e in quali contenuti emerge questa tematica nell’ode che hai letto e motiva con adeguate argomentazioni la tua risposta.

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T4 Una proposta di matrimonio da Orgoglio e pregiudizio, XIX

Jane Austen

Orgoglio e pregiudizio (1813), capolavoro di Jane Austen, narra le vicende della famiglia Bennet, che deve far sposare dignitosamente cinque figlie disponendo di scarse sostanze. Il ricco Charles Bingley e Jane Bennet (la maggiore delle cinque sorelle) si innamorano, ma il corteggiamento di Fitzwilliam Darcy nei confronti dell’altra sorella, Elizabeth, giovane intelligente e dal forte carattere, incontra varie difficoltà, dovute all’orgoglio e ai pregiudizi (di qui il titolo del romanzo) che, in qualche misura, ostacolano entrambi. Nel brano proposto, Elizabeth respinge l’offerta di matrimonio del pastore William Collins, suo cugino. Infine la ragazza accetterà Darcy quando costui, mutando la propria visione della vita, chiarirà i numerosi equivoci che si sono accumulati tra loro. Il testo mette in luce, con un sottile umorismo che presenta punte polemiche nei confronti dell’uomo, la forza della donna, ritratta come persona autonoma, intelligente e dal temperamento positivo, e perciò ormai in grado di difendere la propria libertà di scelta. PISTE DI LETTURA • La donna nella scrittura femminile • Valori tradizionali ed emancipazione femminile • Tono ironico ed umoristico “Questo è quanto riguardo la mia intenzione matrimoniale1. Resta a dire perché le mie mire si sono rivolte a Longbourn piuttosto che al mio stesso vicinato2, dove, le assicuro, si trovano molte amabili signorine. Ma sta il fatto che, dovendo io ereditare, come erediterò, questa tenuta dopo la morte del suo onorato padre (possa egli tuttavia vivere molti e molti anni ancora), non potevo soddisfare la mia coscienza se non mi decidevo a scegliere per moglie una delle sue figlie, affinché la perdita per loro sia più piccola possibile quando avverrà il doloroso evento che, come ho già detto, auguro non avvenga per diversi anni ancora3. Ecco il motivo del mio agire, o mia leggiadra cugina, e tale, mi lusingo, da non farmi decadere nella sua stima. E ora non mi resta che assicurarla, con le più vivaci espressioni, della veemenza del mio affetto. Quanto ai beni di fortuna, mi sono del tutto indifferenti né farò alcuna domanda del genere a suo padre, ben sapendo che non è cosa ch’egli potrebbe mantenere; e che tutto ciò a cui lei avrà diritto sono mille sterline al quattro per cento, che ancora non le verranno se non alla morte della madre. Su questo punto dunque io non fiaterò e può star sicura che nessun rimprovero men che generoso uscirà mai dalla mia bocca quando saremo sposati”. Il rifiuto Ma qui era assolutamente necessario interromperlo: “Non corra tanto, signore” di Elizabeth esclamò Elisabetta4. “Si dimentica ch’io non le ho ancora risposto. Me lo lasci Bennet fare ora senza altra perdita di tempo. Abbia le mie grazie per la distinzione che mi usa. Sono profondamente commossa dalla sua proposta, ma non posso fare altro che declinarla5”. “Mi era già noto” rispose il signor Collins con un gesto affettato della mano “che è consuetudine delle signorine respingere alla prima le profferte dell’uomo ch’esse fanno conto dentro di sé d’accettare, quando egli si volge per la prima

La proposta di William Collins

1. Questo... matrimoniale: William Collins ha precedentemente ostentato le proprie credenziali economiche, come se la proposta di matrimonio fosse una sorta di compravendita. 2. le mie mire... vicinato: le mie intenzioni (mire) abbiano puntato su Longbourn (luogo di residenza di Elizabeth) anziché su obiettivi più vicini. Durante tutto l’episodio, l’effetto umoristico è assicurato dal fatto che William Collins tratta la questione come una transazione economica e che Elizabeth, ironicamente, finge di assecondarlo.

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3. non potevo... ancora: il pretendente espone un’argomentazione che crede a lui favorevole: poiché, alla morte di Bennet, ne erediterà la proprietà, ha deciso di sposarne una figlia, affinché, almeno in parte, l’eredità resti in famiglia. 4. Elisabetta: nella versione proposta, il nome Elizabeth è italianizzato. 5. Sono... declinarla: Elizabeth imita il modo di parlare, zeppo di espressioni retoriche di cattivo gusto, del cugino. A tale stile, usato ironicamente dalla giovane, appartiene qui il termine declinarla (“rifiutarla”).

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volta alla loro grazia e che talvolta il rifiuto si ripete una seconda e anche una terza volta6. Non mi sento perciò affatto scoraggiato da quello che or ora lei mi ha detto e nutro fondata speranza di condurla ben presto all’altare”. “Sull’onor mio, signore” esclamò Elisabetta “la sua speranza, dopo la mia dichiarazione, è quanto mai singolare. Creda pure che io non sono una di quelle signorine (se pure ve ne sono) che han tanta audacia da arrischiare la loro felicità alla ventura d’esser chieste una seconda volta7. Sono sincerissima nel mio rifiuto. Lei non potrebbe rendermi felice ed io sono convinta d’esser l’ultima donna dell’universo che potrebbe far felice lei. Non solo, ma se la sua amica Donna Caterina8 mi conoscesse, credo che mi riterrebbe sotto ogni rapporto male adatta al caso9”. “Se fossi sicuro che Caterina pensasse così!” disse seriamente il signor Collins. “Ma non posso immaginarmi che Sua Signoria10 trovi cosa alcuna da disapprovare in lei. Può star certa che, quando avrò l’onore di rivederla, le parlerò, nei termini più elevati, della sua modestia, del suo spirito di economia e delle altre sue belle doti”. “No davvero, signor Collins; qualunque elogio di me sarà superfluo. Mi permetta di giudicarmi da me e mi faccia la finezza di credere a quello che dico. Le auguro d’essere molto felice e molto ricco; rifiutando la sua mano, faccio tutto quello che è in mio potere per impedire che sia diversamente. Con la sua offerta lei deve aver appagato la delicatezza dei suoi sentimenti rispetto alla mia famiglia e potrà prender possesso di Longbourn, quando sarà il momento, senza aver nulla da rimproverarsi. E con questo la cosa può ritenersi definitivamente esaurita”. Così dicendo, si alzò e sarebbe uscita dalla stanza se il signor Collins non le si fosse rivolto in questa guisa: “Quando mi procurerò l’onore la prossima volta di riparlarle su questo argomento, oso sperare di ricevere una risposta più favorevole di quella che ora mi ha data, sebben sia ben lungi attualmente dall’accusarla di crudeltà, sapendo che è antica consuetudine del suo sesso respingere un uomo alla sua prima richiesta11; e forse lei ha già detto quanto ci voleva per incoraggiare la mia insistenza, conforme alla delicatezza propria del carattere femminile”. “Ma davvero, signor Collins” esclamò Elisabetta con un po’ di calore “lei mi mette in grande imbarazzo. Se quanto le ho detto sino a qui può sembrarle una maniera d’incoraggiamento, non so proprio come esprimerle il mio rifiuto, per convincerla che è proprio un rifiuto”. “Mi permetta, mia cara cugina, di lusingarmi che il suo rifiuto sia semplicemente un modo di esprimersi. Le ragioni che ho per crederlo sono, in breve, queste: non mi pare che la mia mano sia indegna d’essere accettata da lei, o che lo stato12 che posso offrirle non sia se non grandemente desiderabile. La mia posizione sociale, i miei rapporti con la famiglia dei De Bourgh e la mia parentela con la sua sono tutte circostanze che parlano in mio favore e lei dovrebbe riflettere meglio che, nonostante le molteplici sue attrattive, non è affatto certo che le possa mai esser rivolta un’altra proposta di matrimonio. La sua dote è, disgraziatamente, di tale esiguità che molto probabilmente annulla gli effetti delle sue amabili doti personali13. Per cui, dovendo concludere che non è sul se-

6. è consuetudine... volta: William Collins ha pronta una spiegazione per giustificare il deciso rifiuto della cugina: le signorine usano rifiutare anche due o tre volte, per attenersi a una regola sottintesa di comportamento, la proposta di matrimonio dell’uomo che hanno deciso di sposare. 7. arrischiare... seconda volta: imitando il linguaggio di Collins, Elizabeth afferma in sostanza che, se si ama un uomo, non si lascia alla sorte (alla ventura) la decisione; in breve, non è certo che un innamorato respinto avanzi nuovamente una proposta di matrimonio. 8. Donna Caterina: Caterina (in inglese Catherine) De Bourgh, potente e ricca protettrice di William Collins. 9. mi riterrebbe... caso: Elizabeth ha un carattere libero e – come il dialogo dimostra – detesta le convenzioni sociali; lady De Bourgh, che ha convinzioni opposte, non la riter-

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rebbe adatta a diventare sposa (al caso è detto per parodiare il linguaggio del pretendente) di Collins. 10. Sua Signoria: Donna Caterina (Catherine) De Bourgh. L’antiquata formula denota somma reverenza. 11. sapendo... richiesta: William Collins non ha compreso la pungente ironia della risposta della cugina e continua a illudersi che ella finga di rifiutarlo solo perché così esige una regola del galateo femminile. 12. stato: condizione patrimoniale e sociale. Collins torna a sollevare l’argomento iniziale del colloquio. 13. La sua dote... personali: con goffa brutalità, William Collins rinfaccia ora alla cugina la sua misera condizione economica (dote) e cerca di intimidirla, affermando che ella potrebbe anche non ricevere nessuna altra proposta di matrimonio e restare nubile.

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rio che lei mi respinge, non posso fare a meno di attribuirlo al suo desiderio di 70 accrescere il mio amore con la sua indecisione, secondo la consuetudine delle signorine eleganti”. “Le assicuro, signore, che non pretendo in alcun modo d’appartenere a quel genere di eleganza che consiste nel tormentare un uomo dabbene. Vorrei piuttosto che mi facesse la finezza di credermi sincera. Mille volte la ringrazio dell’o- 75 nore della sua offerta, ma mi è assolutamente impossibile accettarla. I miei sentimenti me lo proibiscono sotto ogni rapporto. Posso parlare più chiaro? Non mi giudichi ora come una signorina elegante, ma come una creatura ragionevole che dice la verità che viene dal cuore”. “Sempre adorabile” egli esclamò con goffa galanteria. “Sono convinto che, una 80 volta sanzionata da ambedue i suoi ottimi genitori, la mia proposta non mancherà d’essere accettata”14. da Orgoglio e pregiudizio, trad. di G. Caprin, Milano, Mondadori, 1965

14. Sono convinto... accettata: il pretendente torna a considerare la questione una sorta di compravendita e si dichiara convinto che la sua proposta sarà accolta (san-

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zionata è termine burocratico) dai genitori della cugina. Anche questo tentativo, però, andrà poi incontro al fallimento.

omprensione e analisi tematica

1. Riassumi il passo proposto di Orgoglio e pregiudizio in non più di 20 righe, senza mai fare ricorso al discorso diretto. 2. Facendo preciso riferimento al testo, presenta le caratteristiche psicologiche principali dei personaggi di William Collins e di Elizabeth (Elisabetta) Bennet. 3. Quali elementi del dialogo fra i personaggi inducono a collocarlo in un registro ironico e umoristico? 4. Prendi spunto dal testo di Jane Austen per fare un confronto sull’importanza del matrimonio per una donna dell’Ottocento e dei giorni nostri.

T5 Lucia e l’Innominato da I promessi sposi, XXX

Alessandro Manzoni

Lucia è prigioniera nel castello dell’Innominato, il potente – di cui Manzoni non fa il nome – che l’ha fatta rapire dai suoi bravi e deve consegnarla a don Rodrigo. Ma inaspettatamente l’uomo ha delle remore e decide di andare a parlarle. Dal colloquio emerge la figura di una donna che, insieme alla timida riservatezza che le deriva dalla fede religiosa, manifesta fiera dignità nel difendere i propri diritti. Le parole di Lucia fanno breccia nell’animo del potente malfattore, già in crisi interiore, e ne determineranno la conversione. PISTE DI LETTURA • La rappresentazione romantica e cristiana della femminilità • Vittime e carnefici • Tono drammatico

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– Alzatevi, – disse l’innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, l’aprire, il comparir di quell’uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell’animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta. – Alzatevi, ché non voglio farvi del male... e posso farvi del bene, – ripeté il signore... – Alzatevi! – tonò poi quella voce, sdegnata d’aver due volte comandato invano. Come rinvigorita dallo spavento, l’infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un’immagine, alzò gli occhi in viso all’innominato, e riabbassandoli subito, disse: – son qui: m’ammazzi. – V’ho detto che non voglio farvi del male, – rispose, con voce mitigata, l’innominato, fissando quel viso turbato dall’accoramento e dal terrore. – Coraggio, coraggio, – diceva la vecchia: – se ve lo dice lui, che non vuol farvi del male... – E perché, – riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si sentiva una certa sicurezza dell’indegnazione disperata, – perché mi fa patire le pene dell’inferno? Cosa le ho fatto io?... – V’hanno forse maltrattata? Parlate. – Oh maltrattata! M’hanno presa a tradimento, per forza!1 perché? perché m’hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio... – Dio, Dio, – interruppe l’innominato: – sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi...? – e lasciò la frase a mezzo. Lucia supplica – Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi l’Innominato usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M’hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a *** dov’è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui... ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! “Oh perché non è figlia d’uno di que’ cani che m’hanno bandito! – pensava l’innominato: – d’uno di que’ vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo suo strillare; e in vece...” – Non iscacci una buona ispirazione! – proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal vedere una cert’aria d’esitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno. – Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma lei!... Forse un giorno anche lei... Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene...! – Via, fatevi coraggio, – interruppe l’innominato, con una dolcezza che fece strasecolar2 la vecchia. – V’ho fatto nessun male? V’ho minacciata? – Oh no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha... un po’ allargato il cuore. Dio gliene renderà merito. Compisca l’opera di misericordia: mi liberi, mi liberi. – Domattina... – Oh mi liberi ora, subito... – Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate. Dovete aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno. – No, no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chiesa... que’ passi Dio glieli conterà.

L’Innominato si reca da Lucia

1. per forza!: con la violenza; si tratta di un complemento di mezzo.

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2. strasecolar: sorprendere, stupire.

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– Verrà una donna a portarvi da mangiare, – disse l’innominato; e dettolo, rimase stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli fosse nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola. – E tu, – riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, – falle coraggio che mangi; mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene; altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico; tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te! Così detto, si mosse rapidamente verso l’uscio. Lucia s’alzò e corse per trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito. Lucia rimane – Oh povera me! Chiudete, chiudete subito –. E sentito ch’ebbe accostare i batsola con la tenti e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. – Oh povera vecchia serva me! – esclamò di nuovo singhiozzando: – chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi, ditemi per carità, chi è quel signore... quello che m’ha parlato? – Chi è, eh? chi è? Volete ch’io ve lo dica. Aspetta ch’io te lo dica. Perché vi protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne andar di mezzo me. Domandatene a lui. S’io vi contentassi anche in questo, non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi. – Io son vecchia, son vecchia, – continuò, mormorando tra i denti. – Maledette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione –. Ma sentendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita, riprese: – via, non v’ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se sapeste quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco... nella maniera che v’ha parlato, ci sarà della roba buona. E poi anderete a letto, e... mi lascerete un cantuccino anche a me, spero, – soggiunse, con una voce, suo malgrado, stizzosa. – Non voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non v’accostate; non partite di qui! – No, no, via, – disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d’astio insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d’esserne forse esclusa per tutta la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non s’avvedeva3 del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de’ suoi dolori, de’ suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all’immagini sognate da un febbricitante. Si riscosse quando sentì picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: – chi è? chi è? Non venga nessuno! – Nulla, nulla; buone nuove, – disse la vecchia: – è Marta che porta da mangiare. – Chiudete, chiudete! – gridava Lucia. – Ih! subito, subito, – rispondeva la vecchia; e presa una paniera4 dalle mani di quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola nel mezzo della camera. Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di quella buona roba. Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de’ cibi: – di que’ bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co’ suoi amici... quando capita qualcheduno di quelli...! e vogliono stare allegri! Ehm! – Ma vedendo che tutti gl’incanti riuscivano inutili, – siete voi che non volete, – disse. – Non istate poi a dirgli domani ch’io non v’ho fatto coraggio. Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando metterete giudizio, e vorrete ubbidire –. Così detto, si mise a mangiare avidamente. Saziata che fu, s’alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi sopra Lucia, l’invitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto. – No, no, non voglio nulla, – rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta. Poi, con più risolutezza, riprese: – è serrato l’uscio? è serrato bene? – E dopo

3. s’avvedeva: si accorgeva.

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4. una paniera: un vassoio.

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aver guardato in giro per la camera, s’alzò, e, con le mani avanti, con passo sospettoso, andava verso quella parte. La vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e disse: – sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora? – Oh contenta! contenta io qui! – disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo cantuccio. – Ma il Signore lo sa che ci sono! – Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S’è mai visto rifiutare i comodi, quando si possono avere? – No, no; lasciatemi stare. – Siete voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla sponda; starò incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a fare. Ricordatevi che v’ho pregata più volte –. Così dicendo, si cacciò sotto vestita; e tutto tacque. La notte Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia aldi Lucia zate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d’immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a se stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s’applicava dolorosamente alle circostanze dell’oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall’incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest’angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite5, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt’a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché. Tese l’orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l’andare dell’onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l’aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L’infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell’orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell’avvenire, l’assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt’a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: – o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra6.

5. intormentite: intorpidite. 6. o Vergine... vostra: si tratta del voto che alla fine del

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romanzo sarà sciolto da padre Cristoforo in quanto non valido perché proferito in stato di necessità.

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Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell’animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in 170 quella parola una promessa di salvazione7. I sensi affaticati da tanta guerra s’assopirono a poco a poco in quell’acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo. da I promessi sposi, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, in Tutte le opere, II, tomo I, Mondadori, Milano, 1954

7. Le venne... salvazione: Lucia ha colto nel modo in cui si è comportato il rapitore i segni della crisi che lo porterà a convertirsi.

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omprensione e analisi tematica

Riassumi l’incontro tra Lucia e l’Innominato in non più di 20 righe. Presenta i pensieri di Lucia durante la notte che trascorre prigioniera nel castello dell’Innominato. Qual è il carattere di Lucia e da quali elementi del brano lo si comprende maggiormente? Trai spunto dal testo per evidenziare le caratteristiche principali della concezione della donna ideale in Alessandro Manzoni.

Una voce contemporanea

La maestra Ida Ramundo T6 da La Storia, II

Elsa Morante

Elsa Morante, scrittrice di grande valore, rappresenta nelle sue opere (Menzogna e sortilegio, 1948; L’isola di Arturo, 1957; Aracoeli, 1982 e soprattutto La Storia, 1974) la figura femminile in uno dei modi più toccanti e significativi raggiunti dalla letteratura del Novecento. La Storia – romanzo che ha più successo presso il pubblico che presso la critica – ha come protagonista Ida Ramundo, una modesta maestra quarantenne con problemi nervosi e caratteriali, che, rimasta vedova negli anni della Seconda guerra mondiale, in seguito alla violenza subita da un soldato tedesco ha avuto un secondo figlio, destinato a morire di epilessia. Dopo aver perduto tragicamente anche il figlio maggiore, diventato contrabbandiere per la miseria in cui versa la famigliola, Ida – donna cui la guerra (cioè la grande storia) ha rovinato la vita – si spegne, malata e smemorata, in un ospedale psichiatrico. PISTE DI LETTURA • Un ritratto femminile realistico • Tono oggettivo La donna, di professione maestra elementare, si chiamava Ida Ramundo vedova Mancuso. Veramente, secondo l’intenzione dei suoi genitori, il suo primo nome doveva essere Aida. Ma, per un errore dell’impiegato, era stata iscritta all’anagrafe come Ida, detta Iduzza dal padre calabrese. La descrizione Di età, aveva trentasette anni compiuti, e davvero non cercava di sembrare me- 5 di Ida no anziana. Il suo corpo piuttosto denutrito, e informe nella struttura, dal petto sfiorito e dalla parte inferiore malamente ingrossata, era coperto alla meglio di un cappottino marrone da vecchia, con un collettino di pelliccia assai consunto, e una fodera grigiastra che mostrava gli orli stracciati fuori dalle maniche. Portava anche un cappello, fissato con un paio di spilloncini da merceria, e 10 provvisto di un piccolo velo nero di antica vedovanza; e, oltre che dal velo, il

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suo stato civile di signora era comprovato dalla fede nuziale (d’acciaio, al posto di quella d’oro già offerta alla patria per l’impresa abissina1) sulla sua mano sinistra. I suoi ricci crespi e nerissimi incominciavano a incanutire2; ma l’età aveva lasciato stranamente incolume la sua faccia tonda, dalle labbra sporgenti, che pareva la faccia di una bambina sciupatella. Le paure E difatti, Ida era rimasta, nel fondo, una bambina, perché la sua precipua3 reladi Ida zione col mondo era sempre stata e rimaneva (consapevole o no) una soggezione spaurita. I soli a non farle paura, in realtà, erano stati suo padre, suo marito, e più tardi, forse, i suoi scolaretti. Tutto il resto del mondo era un’insicurezza minatoria per lei, che senza saperlo era fissa con la sua radice in chi sa quale preistoria tribale. E nei suoi grandi occhi a mandorla scuri c’era una dolcezza passiva, di una barbarie profondissima e incurabile, che somigliava a una precognizione4. Precognizione, invero, non è la parola più adatta, perché la conoscenza ne era esclusa. Piuttosto, la stranezza di quegli occhi ricordava l’idiozia misteriosa degli animali, i quali non con la mente, ma con un senso dei loro corpi vulnerabili, “sanno” il passato e il futuro di ogni destino. Chiamerei quel senso – che in loro è comune, e confuso negli altri sensi corporei – il senso del sacro: intendendosi, da loro, per sacro, il potere universale che può mangiarli e annientarli, per la loro colpa di essere nati. Ida era nata nel 1903, sotto il segno del Capricorno, che inclina all’industria, alle arti e alla profezia, ma anche, in certi casi, alla follia e alla stoltezza. D’intelligenza, era mediocre; ma fu una scolara docile, e diligente nello studio, e non ripetè mai una classe. Non aveva fratelli né sorelle; e i suoi genitori insegnavano tutti e due nella stessa scuola elementare di Cosenza, dove s’erano incontrati la prima volta.

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da La Storia, Mondadori, Milano, 1990

1. l’impresa abissina: nel dicembre del 1935 il regime fascista, in difficoltà per le sanzioni economiche dell’Europa nei confronti dell’Italia che aveva attaccato l’Etiopia, aveva chiesto alle donne italiane di donare oro alla patria; vi fu-

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rono donne povere che donarono le loro fedi nuziali. 2. incanutire: diventare bianchi. 3. precipua: principale. 4. precognizione: presentimento sensitivo di eventi.

omprensione e analisi tematica

Riassumi il contenuto del brano (max 10 righe). Chiarisci come si presenta il personaggio di Ida Ramundo a livello fisico e a livello interiore. Di quale tipo è la voce narrante del testo e qual è la focalizzazione? La narrazione presenta caratteri realistici? Se sì, quali? Quali sono le differenze tra la figura femminile ritratta dalla Morante e quelle delle donne rappresentate nei brani precedenti? Motiva la tua risposta in circa 30 righe.

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Letteratura e arte DUE PROTAGONISTE DELLA GRANDE PITTURA La donna nelle arti visive La figura femminile da sempre è uno dei soggetti preferiti della scultura e della pittura di ogni tempo: dalle Veneri preistoriche a quelle solenni e ieratiche dell’arte greca, dai ritratti delle matrone romane alle figure di sante delle rappresentazioni religiose cristiane, dalle dame leziose del Rococò alle fanciulle di Renoir, la donna è sempre stata al centro dell’attenzione di un’arte che ha avuto come protagonisti quasi solo gli uomini. Sono ben pochi i nomi di donna che la storia dell’arte può annoverare tra quelli dei grandi artisti, almeno fino all’Ottocento. Due di questi sono Artemisia Gentileschi e Rosalba Carriera; meno note sono Sofonisba Anguissola (1530-1625), Lavinia Fontana (1552-1614) e Fede Galizia (1578-1630). Artemisia Gentileschi: la forza drammatica della luce Figlia di Orazio, Artemisia Gentileschi (1597-1651 ca.) assorbì dal padre pittore lo stile caravaggesco, ma si indirizzò verso un naturalismo spesso più drammatico, che indugia sugli aspetti più crudi della rappresentazione. Alla base di questo stile di grande intensità e di forti chiaroscuri, molti critici hanno voluto leggere la reazione emotiva della pittrice alla violenza subita dal pittore Agostino Tassi e alle vicissitudini di un processo che la umiliò profondamente. In Giuditta e Oloferne, tema che ritorna più volte nell’opera della pittrice e che ha il suo modello in Caravaggio, si colgono bene gli aspetti formali e compositivi della sua pittura: la drammaticità della rappresentazione che ferma l’attimo dell’uccisione di Oloferne, i particolari violenti della scena, il rea-

Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne, 1620 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Artemisia Gentileschi, Maddalena penitente, 1615-1616. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina.

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lismo degli effetti contrastanti presenti nel volto dell’uomo prossimo alla resa, nel suo gesto estremo di difesa e nello sguardo impietoso di Giuditta, freddamente impegnata nella sua operazione. La forte influenza caravaggesca si rivela anche nell’uso intenso dei colori, che vengono illuminati da una luce radente e calda, che fa emergere plasticamente le forme dei personaggi. Intima e introspettiva è, invece, la Maddalena penitente, altro tema caro alla personalità inquieta di Artemisia e affrontato da Caravaggio: il personaggio è abbandonato su una sedia, chiuso nella sua dimensione di solitudine in cui la seduzione della spalla scoperta e la bellezza del volto sono gli ornamenti del dramma interiore di una donna comune. Rosalba Carriera: una pittrice europea Nata a Venezia nel 1672, Rosalba Carriera si staccò decisamente dal modello stereotipo della donna settecentesca frivola e superficiale. Studiò musica e pittura e fondò un circolo culturale cui aderirono i maggiori intellettuali dell’epoca. La sua abilità di ritrattista fu riconosciuta in tutta Europa, al punto da avere commissioni persino dal re di Francia Luigi XV e da essere accettata all’Accademia nazionale di San Luca e all’Accademia di Francia. Il tocco evanescente e leggero dei suoi ritratti a pastello rivelano una profonda capacità di analisi introspettiva; sotto il velo quasi impalpabile del colore la pittrice fa emergere il carattere del personaggio ritratto. La stessa capacità essa dimostrò nella serie di autoritratti, dal primo del 1709 all’ultimo del 1746, quello della “tragedia”, dove l’artista si rappresenta con volto e atteggiamento da vecchia triste e arrabbiata per l’esito negativo di un’operazione chirurgica alla cornea, che la porterà alla cecità totale.

Rosalba Carriera, Ritratto di George, primo marchese di Townshend, 1740 circa. Milano, F.A.I.

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Rosalba Carriera, Autoritratto, 1746. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

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Letteratura e cinema TUTTA LA VITA DAVANTI Regia: Paolo Virzì Anno: 2008 Genere: commedia L’argomento Marta si laurea brillantemente in filosofia e cerca subito un lavoro per mantenersi. Il fidanzato, Roberto, già laureato in fisica quantistica e ricercatore universitario, arrotonda il suo magro stipendio facendo l’accompagnatore di cani. Ricevuta una borsa di studio da un’importante università americana, vola a Berkeley senza nemmeno discuterne con la ragazza. Dopo aver mandato centinaia di curriculum senza avere risposte, Marta diventa la babysitter della piccola Lara, figlia di Sonia, ragazza madre ingenua nonostante l’aspetto provocante. Tramite Sonia, Marta si impiega part-time come operatrice del call center della Multiple, un’azienda che commercializza un robot tuttofare. Supervisor del call center è Daniela, donna in carriera, innamorata di Claudio, amministratore della Multiple. Giorgio, sindacalista che segue le “nuove identità lavorative”, come vengono definiti gli impiegati dei call center, cerca di aiutare le telefoniste a far valere i propri diritti, ma queste non gli danno retta, per paura di perdere il posto di lavoro. Il film guarda tutti questi personaggi mettendo l’accento sulla precarietà delle loro vicende, non solo lavorative, ma soprattutto esistenziali, denudandole (chi sembra “tosto”, come Daniela, rivela una solitudine penosa, che sfocia nella follia) o aggravandole (chi parte già con problemi ne avrà sempre di maggiori, come Sonia). Un colpo di scena finale rimetterà in gioco il destino di Marta e delle persone che le stanno accanto. Il significato e il linguaggio Dietro l’aspetto di quella che appare come una commedia all’italiana (un genere rivalutato e rinnovato dal regista Paolo Virzì), che suscita risate a denti stretti, quando non amare, è nascosto un forte richiamo morale. Nel caleidoscopio di queste piccole storie di oggi c’è il veleno e il suo antidoto: si può andare oltre la tristezza dei giorni coltivando le proprie buone doti ed essendone fieri. Non è il precariato in sé ad essere il problema, lo è maggiormente avere una vita basata su valori fittizi, essere poveri di spirito. La neofilosofa Marta racconta come favola della buona notte alla piccola Lara il mito della caverna di Platone, forse perché non sa altre storie, o forse perché la filosofia può dare un senso all’insensatezza o almeno un conforto. Anche Marta ha momenti di delusione e rabbia. Ma senza giudicare nessuno esprime un altro modo di vedere le cose. Scopre la trasmissione del “Grande Fratello” e ne fa un saggio per una rivista filosofica; denuncia la situazione senza tutele della Multiple al sindacalista, ma poi se la prende con lui perché utilizza la “soffiata” ai propri fini. Insomma, c’è una musica, un ritmo, che suona fuori di noi e una musica interiore, la sola, in alcuni casi, che deve essere ascoltata.

Isabella Ragonese interpreta Marta.

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Glossario Il Glossario qui proposto è uno strumento facile e pratico da consultare, durante la lettura e per l’analisi dei testi. Esso raccoglie i termini fondamentali della stilistica e della retorica e quelli dei linguaggi specifici della letteratura, della poetica, della critica letteraria. Va tenuto presente che le definizioni non sono sempre unanimemente condivise dagli studiosi: quelle qui riportate si basano sulle accezioni più in uso.

Accento: aumento (dal latino ad-cantus, “rafforzamento della sonorità”) dell’intensità della voce su una parte della parola, sillaba ovvero vocale. L’accento può essere segnato oppure no (tònico) e può cadere sull’ultima, sulla penultima, sulla terzultima o sulla quartultima sillaba. Le parole si dicono, perciò, rispettivamente, tronche (città), piane (pàne), sdrucciole (tàvolo), bisdrucciole (mòstracelo). Afèresi: figura morfologica che comporta la caduta di una vocale o di una sillaba all’inizio di una parola, generalmente utilizzata quando la parola precedente termina per vocale, in modo tale da evitare la Sinalefe (vedi). Ad esempio, in: che ’ntender no la può chi no la prova (Dante), la i di intender è caduta e sostituita da un apostrofo. Aforisma: breve riflessione in forma di massima, in genere su argomenti di ordine morale. Spesso assume la natura di proverbio o paradosso. Agiografia: genere molto diffuso nelle letterature medievali; narra la vita e le vicende dei santi a scopo edificante. Allegoria: figura retorica logica che consiste nell’assegnare a un singolo termine del discorso o © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

ad un pensiero compiuto un secondo significato nascosto, diverso da quello letterale, in forza di elementi di somiglianza e mediante il ricorso a immagini metaforiche o simboliche. Esempio di grande e straordinaria allegoria è la Commedia dantesca che, a sua volta, come tutte le opere del genere allegorico, contiene allegorie o figure minori (ad esempio le figure di Virgilio e Beatrice). L’interpretazione allegorica è procedimento tipico della cultura medievale, che la utilizza a scopi didattici ed edificanti, specialmente nel ricercare le verità cristiane negli autori classici. Allitterazione: figura morfologica che consiste nella ripetizione, spontanea o voluta (per scopi stilistici), delle medesime lettere all’inizio o all’interno di due o più parole vicine; talora i gruppi di lettere sono semplicemente di natura affine (labiali, gutturali, dentali, ecc.). Esempi: di me medesmo meco mi vergogno (Petrarca); infra le fresche fronde (Boccaccio). Anacoluto: figura sintattica che comporta una costruzione irregolare del periodo in quanto il primo elemento non dà giustificazione logica dei successivi; letterariamente viene usato, quasi sempre, per caratterizzare

la parlata di personaggi incolti. In qualche caso risponde ad esigenze stilistiche, come nel primo componimento del Canzoniere di Petrarca: Voi ch’ascoltate… /…spero trovar pietà. Anàfora: figura sintattica che consiste nella ripetizione di una o più parole in principio di versi, strofe o proposizioni. Esempio: Amor, ch’al cor gentil… / Amor, ch’a nullo amato… / Amor condusse noi… (Dante). Anagogia: interpretazione di un testo in termini allegorici secondo il senso spirituale, ossia da un punto di vista divino, tale per cui la realtà terrena è da ritenersi simbolo o figura della realtà divina. Frequentemente utilizzata nel Medioevo, viene applicata, in modo particolare, nella lettura e nell’esegesi della Bibbia; Dante, nel Convivio, parla del significato anagogico come di un sovrasenso (in aggiunta agli altri sensi delle Scritture: letterale, allegorico, morale). Anagramma: trasposizione o inversione delle lettere o dei Fonemi (vedi) di una parola o frase per formare un’altra parola o frase di significato diverso. Esempio: Silvia-salivi (Leopardi). Analogia: figura semantica che consiste nell’avvicinare due o GLOSSARIO

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più immagini in apparenza slegate ed estranee, delle quali si vuole invece sottolineare un rapporto di somiglianza o anche d’identità (con una connessione alogica e fuori della norma). Vedi anche Metafora e Allegoria. Anàstrofe: figura sintattica che consiste nell’inversione dell’ordine normale di due parole; caratteristica delle lingue classiche, è presente anche nella lingua italiana, nel linguaggio letterario (nei testi poetici è frequentissimo) e nel parlato comune. Esempio: quando alcun di sé asseta (Dante), anziché “asseta di sé”. Antìfrasi: figura logica che consiste nell’affermazione, di carattere ironico, con cui s’intende il contrario di ciò che si viene dicendo. Esempio: che fan qui tante pellegrine spade? / Perché ’l verde terreno / del barbarico sangue si depinga? (Petrarca). Antìtesi: figura logica che consiste nell’ampliamento di un concetto o discorso mediante la contrapposizione di due termini o frasi di significato opposto. Esempio: poco vedete, e parvi veder molto (Petrarca). Antonomàsia: figura semantica che consiste nel designare una persona celebre non con il nome proprio, ma con il suo attributo o la sua apposizione più noti o, viceversa, nel designare col nome di persona o cosa famosa una persona o cosa che ne possieda o ne faccia ricordare le qualità. Esempio: il maestro di color che sanno (Dante), per indicare Aristotele. Apòcope: figura grammaticale che comporta la caduta dell’ultima vocale o dell’ultima sillaba di una parola davanti alla vocale della parola seguente. Se, dopo la caduta, la parola termina per consonante, il fenomeno è segnalato con il segno grafico dell’apostrofo. Esempio: talor vo cercand’io (Petrarca). Diffusa in poesia, determina la differenza fra sillabe metriche e sillabe grammaticali (della prosa).

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Apòlogo: breve racconto o narrazione in cui, sotto forma di linguaggio allegorico-metaforico, si vuole comunicare un contenuto morale ed edificante. Apòstrofe: figura logica che consiste nel rivolgere la parola, in tono acceso, a concetti personificati, a persone assenti o scomparse, o anche direttamente al lettore. Quando è accompagnata da toni violenti, da ironia e sarcasmo, è detta più propriamente invettiva. Esempi: Ahi, serva Italia, di dolore ostello (Dante). Arcaismo: ogni forma lessicale o costrutto sintattico appartenente a una fase antica o antiquata di una lingua. Asìndeto: figura sintattica, consistente nell’eliminazione del legame ordinario (particelle di congiunzione o di disgiunzione) fra due o più membri di una proposizione. Esempio: Di qua, di là, di giù, di su li mena (Dante). La figura contraria è il Polisindeto (vedi). Assonanza: figura morfologica consistente nell’identità di vocali fra due parole a partire dall’accento tonico (mentre diverse sono le consonanti); se le due parole sono a fine verso, è detta rima imperfetta o quasirima. Esempio: amòre/ sòle. Aulico: detto di linguaggio o stile elevato, nobile. Dante applica questo aggettivo al volgare letterario (De vulgari eloquentia I, 17-18) per definirlo “degno della reggia” (in latino: aula). Ballata: detta anche canzone a ballo (musicata, poteva accompagnare la danza). Forma metrica di origine provenzale, costituita di versi endecasillabi o settenari, disposti generalmente in ritornelli e in stanze. Barbarismo: forma lessicale o locuzione proveniente da una lingua straniera, talora con scopi stilistici particolari.

Bucolica: componimento letterario ambientato nel mondo pastorale o contadino, con personaggi generalmente allegorici. Dal latino Bucolica (carmina), “poesie pastorali” (vedi anche Egloga). Cantàre: poema popolaresco medievale, di argomento epico o cavalleresco (legato prevalentemente ai cicli carolingio e bretone), destinato alla recitazione nelle piazze e per le strade. La tradizione dei cantari fornisce materiale anche ai grandi poemi cavallereschi del Rinascimento. Cantica: termine inizialmente utilizzato da Dante per designare genericamente il Purgatorio; è passato poi a denominare ognuna delle tre parti di cui si compone la Commedia. Canto: sinonimo di “poesia”, “composizione poetica”, con particolare riferimento al suo ritmo musicale. È chiamata così ognuna delle parti che costituisce un poema (o cantica); indica particolarmente le unità poetiche (i 100 canti) della Commedia dantesca. Canzone: forma metrica di origine provenzale, destinata ad essere musicata e cantata. È suddivisa in stanze (o strofe), metricamente uguali, costituite da due parti: la fronte (a sua volta divisa in due piedi) e la sirima o sirma (unica oppure distinta in due parti uguali dette volte). I versi sono endecasillabi e settenari; a conclusione della canzone può trovarsi una stanza più breve, detta commiato o congedo. Cardinale: uno dei quattro attributi (gli altri sono: illustre, aulico, curiale) con cui Dante definisce il volgare letterario ideale (De vulgari eloquentia I, 17-18) per indicare che intorno ad esso, come attorno al loro cardine, si muovono gli altri volgari. Cesura: nella poesia classica, è la pausa metrica in corrispon© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

denza di determinate sedi del verso; nella poesia moderna, è genericamente la pausa all’interno di un verso; la cesura divide il verso in due membri, detti emistichi. Chiasmo: figura sintattica che consiste nella posizione incrociata, cioè reciprocamente inversa, degli elementi costitutivi di due sintagmi, o di due frasi, fra loro collegati. Esempi: Ovidio è il terzo e l’ultimo è Lucano (Dante); Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori (Ariosto). Climax: figura sintattica che consiste nel passaggio graduale, in forma ascendente, da un concetto all’altro in una serie linguistica o ritmica di elementi, così che ciascun termine accentui il valore del precedente. La gradazione discendente è detta anticlimax. Esempi: Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira (Dante). Cobla: termine provenzale che indica una strofa di canzone (equivale all’italiano stanza). Codice: in ambito linguistico e semiologico, indica il sistema convenzionale di segni e regole, comune a Emittente (vedi) e Destinatario (vedi). In relazione ad esso, l’emittente è detto codificatore e il ricevente decodificatore; l’operazione del primo è la Codificazione (vedi), quella del secondo è la Decodificazione (vedi). Per noi, il codice della comunicazione è costituito dalla Lingua (vedi). Codificazione: produzione di un messaggio attraverso un Codice (vedi). Comico: indica tutto ciò che è relativo alla commedia, sul piano della creazione o dell’interpretazione, e tutto ciò che è atto a suscitare il riso. Con il termine “comico”, si indica anche uno dei tre generi stilistici fissati dalla retorica antica (gravis o sublime; mediocris o medio; humilis o tenue), accettati dalla cultura medievale e corrispondenti © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

alla tripartizione proposta anche da Dante: stile tragico (adatto ad argomenti elevati, di carattere filosofico, amoroso e soprattutto eroico), stile elegiaco (adatto a temi pastorali e liricoelegiaci), stile comico (adatto ad argomenti realistici). Vedi anche Commedia. Commedia: nell’ambito del genere drammatico, è la rappresentazione scenica di vicende tratte dalla vita quotidiana, generalmente a lieto fine. Nella classificazione medievale dei generi letterari, indica un componimento di contenuto vario, di stile medio e con finalità didascaliche (come afferma anche Dante a proposito del nome e del significato della sua Commedia). Commiato: strofa finale della Canzone (vedi), detta pure congedo. Comparazione: detta più comunemente paragone; figura semantica che stabilisce un confronto fra due termini (persone, oggetti od altro), con un rapporto di maggioranza (più… che) o di uguaglianza (così… come) o di minoranza (meno… che). Connotazione: in senso generale, significa l’insieme delle caratteristiche proprie di un concetto quale viene espresso dal relativo simbolo o segno; in senso linguistico-letterario, indica i significati aggiuntivi o secondari (allusivi, affettivi, evocativi) di una parola o di un’espressione rispetto al significato primario e meramente informativo (quest’ultimo è stabilito dalla Denotazione: vedi). La connotazione è tipica del linguaggio letterario e di quello poetico in particolare. Consonanza: accostamento di suoni identici, disposti in diverso ordine, in parole fra loro vicine. Esempio: ombra / bora. Contrasto: componimento in versi, completamente o in parte dialogato, tipico della letteratu-

ra medievale e delle letterature romanze. Cornice: nell’analisi narratologica (vedi Narratologia), indica la parte del testo narrativo, generalmente all’inizio, che racchiude una narrazione di secondo grado, la quale è perciò un racconto nel racconto. È quanto avviene, ad esempio, nel Decameron di Boccaccio dove la descrizione della peste e la presentazione dei dieci giovani dell’allegra brigata formano la grande cornice entro la quale si colloca la narrazione delle novelle. Curiale: pertinente, relativo alla curia (Senato); riferito al volgare, significa “degno e proprio della curia” (il Senato e tribunale della corte): con questo significato è usato da Dante per definire il volgare letterario ideale (unitamente agli aggettivi aulico, illustre e cardinale: De vulgari eloquentia, I, 17-18). Decasillabo: verso di dieci sillabe; di regola ha tre accenti: su terza, sesta e nona sillaba (talvolta ne ammette uno anche sulla prima). Decodificazione: processo di interpretazione di un messaggio (vedi anche Codice e Codificazione). Dedica: all’interno della protasi, cioè dei versi iniziali di un poema epico, costituisce la parte in cui l’autore offre la propria opera ad un personaggio illustre. Denotazione: in senso lato, indica l’insieme degli elementi reali a cui un simbolo o segno rimanda; in senso linguistico-letterario, indica il valore informativo del linguaggio, cioè il primo e immediato livello di significato di un termine o di un concetto. Per esempio: la lupa del canto I della Commedia nel suo valore denotativo indica l’animale (femmina del lupo); con valore connotativo esprime, metaforicamente, il vizio dell’avarizia o avidità. Vedi Connotazione. GLOSSARIO

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Destinatario: secondo Jakobson, nel processo della comunicazione, è colui al quale il messaggio è destinato. In ambito letterario, il destinatario è generalmente il lettore o, in senso più ampio, il pubblico. Vedi Emittente.

Dissonanza: accostamento di parole e specialmente ripetizioni di sillabe o di lettere uguali che producono un suono sgradevole, un effetto disarmonico (il fenomeno è detto anche cacofonia).

Dialèfe: figura morfologica, forma particolare di Iato (vedi); consiste nel lasciar separate due vocali consecutive (quella finale di una parola e quella iniziale della parola seguente), così da formare due sillabe nel computo delle sillabe metriche di un verso. Il fenomeno si verifica specialmente quando entrambe le sillabe sono accentate. Esempio: Io non Enea, io non Paolo sono (Dante). Il suo opposto è la Sinalèfe (vedi).

Dittologia: coppia, unione di due elementi linguistici della stessa categoria; se si tratta di due sinonimi, si ha una dittologia sinonimica. Esempio: Solo e pensoso .... / ... a passi tardi e lenti (Petrarca).

Dialetto: sistema di segni verbali, con caratteristiche proprie, assimilabile alla lingua, ma di ambito geografico più limitato. Didascalia: nell’ambito dei testi teatrali, è un’annotazione introdotta dall’autore per dare indicazioni interpretative (movimenti, gesti, toni). È detta didascalia anche la rubrica che Boccaccio premette alle sue novelle, per riassumerne l’argomento. In epoca contemporanea, si definiscono didascalia anche le righe che presentano un’immagine o che chiariscono aspetti non comprensibili dalle sole vignette nel fumetto. Didascalico: rivolto all’insegnamento; si riferisce a componimenti letterari, in versi o in prosa, che si prefiggono finalità d’insegnamento o di divulgazione. Numerose, nella cultura medievale, le opere appartenenti al genere didascalico, dai trattati ai poemi (tra cui la stessa Commedia dantesca). Dièresi: divisione in due sillabe della semiconsonante e della vocale di un dittongo (che per natura dovrebbero formare una sola sillaba). Graficamente il fenomeno è indicato con due puntini sulla vocale non accentata o più debole: Es.: O animal grazïoso e benigno (Dante).

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Dramma: qualsiasi componimento letterario destinato alla rappresentazione scenica. Egloga (o ecloga): componimento poetico di argomento pastorale, appartenente al genere bucolico; di norma esprime una visione idealizzata e idillica della vita campestre. Vedi anche Bucolica. Elegia: componimento letterario, di regola con taglio autobiografico e sentimentale. Nella retorica medievale, con il termine elegia o elegiaco si designa anche lo stile cosiddetto tenue o basso o le opere composte in tale stile. Elisione: caduta della vocale finale di una parola davanti alla vocale iniziale della parola successiva. Il fenomeno, comune alla lingua parlata e a quella letteraria, consente di evitare lo Iato (vedi); il segno dell’elisione è l’apostrofo. Esempio: ...in parte altr’uom da quel ch’i’ sono (Petrarca). Ellissi: figura sintattica che consiste nell’omissione, in una proposizione, di uno o più elementi che si possono sottintendere, per rendere l’enunciato più conciso ed efficace. Nell’ambito dell’analisi narratologica, l’ellissi costituisce l’omissione di alcuni eventi, in relazione al tempo della storia. Emittente: nel processo della comunicazione, secondo R. Ja-

kobson, è colui che invia il messaggio. Nel discorso letterario, indica generalmente l’autore di un testo. Vedi anche Destinatario. Endecasillabo: verso di undici sillabe metriche, il più usato e il più vario dei versi italiani, grazie alle sue molteplici soluzioni ritmiche (in base al numero degli accenti e delle pause); è costituito da due membri o emistichi, distinti da una pausa più marcata o cesura e corrispondenti originariamente a un Settenario (vedi) e a un quinario. Esistono oltre venti modelli ritmici e metrici di endecasillabi: l’accento principale, comunque, cade sempre sulla decima sillaba. Endìadi: figura sintattica costituita da due termini abbinati per esprimere un unico concetto; formalmente i due termini sono coordinati, ma, in sostanza, l’uno è subordinato all’altro. Esempio: O delli altri poeti onore e lume (Dante), per esprimere il concetto di “sapienza (“luce”) onorifica”. Ènfasi: figura logica che consiste nel dare un rilievo particolare a un termine o a una proposizione mediante una maggiore intensità espressiva. Enjambement: termine francese che significa letteralmente “accavallamento”. Consiste nella sospensione della frase o del periodo sintattico alla fine di un verso e nella sua ripresa nel verso successivo, cosicché la fine del verso non coincide con l’unità sintattico-semantica. Il procedimento può verificarsi anche fra due strofe, cioè tra l’ultimo verso di una e il primo della successiva. Esempio: Maestro, chi son quelle / genti che / l’aura nera sì gastiga? (Dante). Epica: indica la produzione eroica di un popolo o di una letteratura, sia dal punto di vista della tradizione, sia da quello delle espressioni o atteggiamenti letterari e delle scelte stilistiche; è anche sinonimo di epopea, cioè © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

di ampia narrazione poetica delle imprese eroiche (in riferimento soprattutto alla letteratura antica). Come aggettivo, significa “attinente alle grandi narrazioni poetiche che hanno come oggetto l’esaltazione delle gesta degli eroi”. Estetica: in italiano il termine si forma sull’aggettivo estetico, che, riferito all’arte, significa “riguardante la percezione del valore artistico e del bello”. In senso generale, estetica significa dunque l’insieme degli elementi costitutivi del “bello” (sulla base di un gusto o di una ideologia); in senso più stretto, indica una branca della filosofia che ha come oggetto d’indagine il fenomeno artistico. Etimologia: disciplina che studia la forma e il significato originari di una parola (che nella nostra lingua spesso sono greci o latini). Con il termine – o, più frequentemente, con la parola ètimo – si può indicare anche il risultato della ricerca. Ad esempio, ètimo del vocabolo urbano è il sostantivo latino urbs (“città”). Eufemismo: figura logica per la quale si sostituisce un’espressione propria con una attenuata o alterata (suggerita da motivazioni diverse, quali esigenze estetiche, oppure desiderio di non offendere). Esempio: se n’andò in pace l’anima contenta (Petrarca): se n’andò significa “morì”. Exemplum: breve racconto che descrive un caso “esemplare” per impartire un insegnamento morale o illustrare una verità religiosa. Appartiene al genere Didascalico (vedi) ed è assai diffuso nella letteratura medievale, in cui è all’origine della novellistica in volgare. Può trovarsi inserito in testi di vario genere (dalla narrativa alla predicazione). È una sorta di exemplum, anche per la sua struttura allegorico-simbolica, la lettera dell’Ascesa al monte Ventoso di Petrarca. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Fabula: nell’analisi del testo narrativo (vedi Narratologia), indica la storia, la vicenda oggetto del racconto, nei suoi rapporti interni e nella sua successione logico-temporale che può essere poi mutata nell’Intreccio (vedi). Il termine latino significa “storia”, “racconto”, “mito” (e anche “dramma”: tragedia o commedia). Figura: nel linguaggio letterario le parole e le espressioni figurate vengono dette figure retoriche, traslati o tropi (vedi Traslati). Filologia: disciplina che si prefigge la ricostruzione e la corretta interpretazione dei documenti letterari. Focalizzazione: termine della narratologia; indica il punto di vista o fuoco della narrazione, cioè la prospettiva in cui si colloca un narratore per raccontare la sua storia. Fonèma: è la più piccola unità che si possa definire nel linguaggio; la linguistica la indica con le lettere dell’alfabeto poste tra due barrette (/a/, /b/, /f/, /p/, ecc.). Combinandosi tra loro, i fonemi danno origine ai monemi, le unità minime dotate di senso lessicale e grammaticale (possono essere parole, radicali, suffissi, affissi, desinenze). Fonetica: è lo studio dei suoni in base alla loro natura fisica ovvero alle loro singole articolazioni. Fonologia: la parte di una lingua che studia i suoni, analizzandoli e classificandoli nel quadro delle loro funzioni e relazioni. Fonosimbolismo: nel linguaggio poetico, come in quello prosastico, i suoni (i significanti) che formano le parole possono assumere talora un significato autonomo, cioè legato al semplice gioco dei suoni stessi, dando luogo a sensazioni visive o acustiche. Esempio: e il pettirosso... s’ode / il suo sottil tintinno (Pa-

scoli); il pettirosso emette il suono tin... tin... Fonte: nell’ambito degli studi storici e filologici, indica ogni elemento che serve a documentare o che può essere rilevato come causa di derivazione di un fatto o fenomeno. In ambito letterario, esprime anche qualcosa che va oltre il piano puramente documentario: significa ogni esperienza antecedente (autori, testi, opere, ambiente, gusto) che influisce esplicitamente o implicitamente sul mondo letterario di uno scrittore. Forma: in ambito letterario, è il modo di disporsi e configurarsi del linguaggio e dell’espressione, contrapposto al “contenuto” (argomento, tema, motivo, ideologia, ecc.). Genere letterario: ogni tipo di composizione letteraria, in quanto legata a caratteristiche di struttura, contenuto e forma (ad esempio tragedia, commedia, ecc.). In senso più ampio, un raggruppamento di composizioni dello stesso tipo, accomunate dalle medesime caratteristiche strutturali e formali (in tal senso, generi narrativi sono il poema, il romanzo, ecc). Esistono anche sottogeneri, come il romanzo storico, poliziesco ecc. Gergo: lingua o parlata speciale, propria di una setta, di un gruppo, di un mestiere, che favorisce la comunicazione all’interno del gruppo stesso ed opera una chiusura verso gli estranei. Iàto: incontro di due vocali contigue che si pronunciano separatamente. In metrica lo iato si verifica nelle figure della Dialèfe e della Dièresi (vedi). Idillio: quadretto di natura pastorale, realizzato in un componimento poetico breve e intenso, di taglio lirico-descrittivo. Un esempio di scorcio idillico si ha GLOSSARIO

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nei vv. 40-52 della canzone petrarchesca Chiare, fresche e dolci acque.

cui l’autore invoca una musa o una divinità che sia di sostegno alla sua ispirazione.

Illustre: il primo degli aggettivi con cui Dante definisce il volgare letterario ideale (De vulgari eloquentia I, 17-18); propriamente significa “splendente”, in quanto capace di illuminare, di dare e ricevere fama. Per gli altri aggettivi, vedi Aulico, Cardinale, Curiale.

Ipàllage: figura semantica per la quale si scambia il rapporto normale fra due termini, attribuendo all’uno la proprietà o la qualità dell’altro. Tipico esempio si ha nel verso di Giosue Carducci: il divino del pian silenzio verde.

Imparisillabo: verso che presenta un numero dispari di sillabe (quando termina con parola piana); nella poesia italiana sono imparisillabi il trisillabo, il quinario, il settenario, il novenario e l’endecasillabo.

Ipèrbole: figura logica che consiste nell’amplificazione quasi paradossale del concetto che si vuole esprimere, esagerazione di un’affermazione oltre i termini della verosimiglianza (per eccesso o per difetto). Esempio: Dintorno al fosso vanno a mille a mille (Dante).

Incipit: termine con cui si indicano le parole iniziali di un testo. Un’opera è indicata con l’incipit quando manca di titolo.

Ipometrìa: fenomeno opposto all’ipermetria; mancanza di una o più sillabe rispetto alla misura normale del verso.

Intreccio: inteso generalmente come sinonimo del meno preciso termine trama, è la struttura fondamentale di una narrazione. Nell’ambito dell’analisi narratologica (vedi Narratologia), è in stretta relazione con la Fabula (vedi): mentre questa è la ricostruzione delle sequenze di un racconto in ordine logico e cronologico, l’intreccio è dato, invece, dalle variazioni o distorsioni che l’autore opera sui fatti rispetto al loro ordine naturale, anticipando o posticipando episodi, raccontandoli in flashback, e simili. L’intreccio è, insomma, la narrazione così come si presenta al lettore.

Ipotassi: in opposizione a Paratassi (vedi), è il procedimento sintattico per il quale una o più proposizioni sono sottoposte a una principale; è detta anche subordinazione, in opposizione a coordinazione. L’uso dell’ipotassi nei testi letterari ha anche una particolare valenza stilistica: riflette in genere il parlare di personaggi di cultura e di rilievo.

Inversione: cambiamento dell’ordine naturale delle parole o dei sintagmi di una frase. Rispetto all’ordine normale della sequenza soggetto-predicatocomplemento, l’inversione più frequente consiste nel porre il soggetto alla fine della frase. Esempio: l’anima col corpo morta fanno (Dante). Vedi anche Anastrofe. Invocazione: all’interno della protasi con cui ha inizio un poema epico, costituisce la parte in

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Ironia: come figura retorica della logica, consiste nel parlare di una cosa dissimulandone la vera natura, cioè – di norma – intendendo il contrario di ciò che si afferma; ha diverse gradazioni: bonaria, arguta, amara, beffarda. Normalmente si considera l’ironia come lo stadio intermedio tra Umorismo e Sarcasmo (vedi). Ad esempio: Fiorenza mia, ben puoi esser contenta scrive Dante, invitando la sua città a vantarsi perché nell’Inferno egli ha incontrato tre ladri fiorentini. Lassa: tipo di strofa proprio dell’epica medievale, in particolare di quella francese e spagnola; è costituita da un numero variabile di versi uguali (Decasillabi),

legati da Rima o Assonanza (vedi). Latinismo: parola o costrutto attinto dalla lingua latina, talora con qualche alterazione. Esempio: in Dante, sene (per vecchio). Lauda: componimento-canto religioso, proprio della letteratura italiana medievale; inizialmente costituita di lasse monorime o di strofe di sei versi, in seguito adotta la struttura della Ballata (vedi) ed è in parte influenzata dalla poesia profana; alla forma più semplice si affianca quella della lauda drammatica o dialogata. Lessico: l’insieme delle unità linguistiche (o lessemi) che fanno parte di un sistema di comunicazione linguistica. In senso più comune, vale anche per “raccolta di parole”. Letteratura: indica, inizialmente, l’insieme degli scritti; per estensione, passa a significare anche tutto il complesso delle opere che attengono a una cultura o civiltà; in senso più specifico, indica l’insieme degli scritti (e relativi autori) che si prefiggono una finalità poeticoletteraria. Lingua: nell’accezione più generale di parlata specifica di un popolo, è un sistema di elementi convenzionali indispensabili per la comunicazione orale e scritta fra i singoli e i gruppi sociali. Al complesso delle convenzioni linguistiche si dà oggi il nome più preciso di Codice (vedi), come insieme di segni convenzionali che consentono l’organizzazione dei significati. Vedi anche Linguaggio. Linguaggio: propriamente è la facoltà di comunicare ed esprimersi mediante sistemi organizzati di segni. In senso più estensivo, applicato ai fatti letterari, significa il modo di esprimersi, fortemente caratterizzato, di un autore o di un gruppo o di un movimento. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Linguistica: lo studio organico e scientifico del linguaggio verbale come sistema di segni linguistici. Per quanto disciplina antica, la linguistica ha subito una svolta radicale con l’opera dello studioso svizzero Ferdinand De Saussure (1857-1913) che ha posto le premesse delle indagini contemporanee su base strutturalistica (vedi Struttura). Lirica: genere poetico che privilegia l’espressione dei sentimenti e dell’interiorità; comprende, quindi, tutti i componimenti di natura introspettiva, autobiografica, memoriale. In senso più generico, indica un qualsiasi componimento poetico. Il vocabolo rinvia al fatto che, originariamente, la poesia era cantata, ballata e accompagnata da uno strumento musicale (in Grecia, dalla lira). Per tale ragione, oggi si ritengono parte del genere poetico (purché di significativo valore estetico) i testi composti da cantautori o parolieri. Luogo comune: detto anche, con termine greco, tópos (“luogo”); ogni forma espressiva che pretenda di enunciare verità universalmente valide sul piano della conoscenza o della vita pratica. I luoghi comuni sono, in sostanza, forme stereotipate, convenzionali, cui si ricorre nel parlar comune e nel discorso letterario. Sono da considerare luoghi comuni tutti i temi, le descrizioni, i motivi consacrati dalla tradizione e ricorrenti in molti autori. Madrigale: componimento riservato dapprima a temi amorosi e idillici (Petrarca, Sacchetti), diviene poi a carattere religioso, morale e filosofico (nel Seicento), elegante e galante (nel Settecento). Metricamente, nella prima fase, è costituito da due o tre terzine variamente rimate e da una o due coppie di versi finali a rima baciata (ABC, ABC, DD); successivamente si modifica e si complica. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Messaggio: nella teoria della comunicazione, indica l’oggetto o contenuto comunicato dall’Emittente (vedi) al Destinatario (vedi). In senso più generico, nell’interpretazione di un testo letterario, il termine indica l’insegnamento o i concetti che esso trasmette. Metàfora: figura semantica che indica l’uso di un termine o di un concetto al di fuori del suo ambito proprio, per sostituire, in un altro contesto, un termine o un concetto con cui abbia rapporti di somiglianza. Si tratta di un procedimento di trasposizione simbolica di immagini; in sostanza, è una similitudine abbreviata, in cui il rapporto tra due cose o idee è stabilito direttamente, senza la mediazione del “come”. Esempio: Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (Petrarca). Nell’interpretazione più semplice, la metafora nasce da una Similitudine (vedi) in cui la somiglianza si trasforma in identità: si passa, cioè, da “i capelli sembrano oro” a “i capelli sono oro” oppure a “i capelli d’oro” o “l’oro che circonda il tuo volto” o simili. Metonimia: figura semantica che costituisce l’espressione di un concetto non mediante la sua denominazione esatta e completa, ma per mezzo di particolari che sono con essa in rapporti di dipendenza (ma non in senso quantitativo, nel qual caso si verifica la Sineddoche: vedi); ad esempio, si indica la causa per l’effetto, il contenente per il contenuto, la materia per l’oggetto, il simbolo per il fenomeno che esso rappresenta, la città per gli abitanti, l’autore per l’opera. Esempio: Fiorenza... / si stava in pace sobria e pudica (Dante): Fiorenza sta per “i Fiorentini”, abitanti di Firenze. Metrica: la tecnica che presiede alla composizione dei versi è detta versificazione; lo studio teorico e pratico dell’organizzazione regolata dei versi (ordinamento dei versi in strofe e delle strofe tra loro) è detto più pro-

priamente metrica. In un’accezione più ampia, essa indica tutta l’attività di composizione e organizzazione dei versi o l’analisi degli schemi cui un componimento corrisponde. Metro: la regola, la misura del ritmo o, più in generale, l’insieme delle norme convenzionali tenute presenti al momento dell’ideazione e della composizione dei versi, secondo le scelte dell’autore. Vedi anche Metrica e Ritmo. Monolinguismo (o unilinguismo): caratteristica della scrittura letteraria quando è dominata da un linguaggio uniforme e omogeneo, chiuso alle influenze di altri linguaggi. Esempio significativo è il Canzoniere di Petrarca, in cui domina una lingua (nei suoi aspetti lessicali, morfologici, sintattici e stilistici) fortemente omogenea, selezionata e improntata a purezza e levigatezza, coerentemente con la materia trattata. I concetti di monolinguismo e Plurilinguismo (vedi) si devono soprattutto al critico Gianfranco Contini e ai suoi studi su Dante e Petrarca. Monorìma: detto di strofa che presenta una sola rima, indipendentemente dalla forma o lunghezza dei versi. Narrativa: si definisce così, in senso generale, tutta l’attività o produzione letteraria che riguarda la rappresentazione e trascrizione di vicende vere, verosimili o inverosimili, sotto forma di novella, racconto, romanzo o altre forme analoghe, caratterizzate dalla presenza di personaggi, vicende, inizio, svolgimento, conclusione, collocazione nello spazio e nel tempo ed altri elementi studiati dalla Narratologia (vedi). Le metodologie critiche più recenti – come lo Strutturalismo (vedi Struttura) – allargano il concetto anche alla favola, al mito e al poema epico. Narratologia: termine proprio dello Strutturalismo (vedi StrutGLOSSARIO

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tura); è lo studio storico-critico delle strutture, delle forme e delle tendenze della narrativa. Di per sé, la ricerca narratologica esclude la verifica dell’origine e dell’evoluzione storica della narrativa, per analizzare unicamente gli elementi costitutivi interni, i loro reciproci rapporti, le loro funzioni e il loro significato in ordine allo svolgimento della vicenda narrata.

gato a elementi e motivi realistici. Il modello medievale è quello delle novelle di Boccaccio, esemplari per vivezza narrativa, intreccio, inventiva, indagine psicologica; a Boccaccio si ispirano i novellieri dei secoli successivi, non solo italiani. Dal XIX secolo, per lo più come sinonimo di novella si usa anche il termine racconto, di derivazione francese.

Narratore: chi espone vicende e avvenimenti; in narratologia viene detta così la voce narrante, opposta o rivolta al narratario (il destinatario del racconto). Il narratore può essere un personaggio della storia raccontata (ad esempio Dante nell’esposizione del racconto della Commedia) e in tal caso è chiamato narratore interno; una voce esterna, non partecipe della storia raccontata (ad esempio Omero nell’Iliade e nell’Odissea) e in tal caso si parla di narratore esterno.

Novenario: verso imparisillabo di nove sillabe; presenta di solito tre accenti ritmici: su seconda, quinta e ottava sillaba. Nella poesia delle origini il suo uso è raro, mentre è adottato abbondantemente nell’Ottocento e nel Novecento (Carducci, Pascoli, Gozzano).

Neolatino (o romanzo): detto delle lingue che derivano dal latino: oltre ai volgari italiani, il francese (con il provenzale), lo spagnolo (con il catalano), il portoghese, il rumeno e altri gruppi linguistici minori (sardo, ladino, romancio). Con lingue romanze e letterature romanze si indicano le lingue e le relative letterature sviluppatesi nelle regioni europee dominate un tempo dall’Impero romano (indicate complessivamente col nome e col concetto di “Romània”). Neologismo: parola o costrutto di formazione recente (rispetto all’uso e al tempo di un autore), introdotto per esigenze espressive nuove o anche di costume. In un testo letterario, i neologismi possono essere adottati anche per ottenere effetti stilistici di vario genere. Numerosi e assai noti i neologismi di Dante, fra cui indovarsi, infuturarsi, adimare, trasumanare. Novella: componimento narrativo per lo più a carattere avventuroso o fantastico, anche se le-

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Onomatopèa: figura morfologica che consiste nella riproduzione-imitazione, mediante parole, di un suono o rumore così come viene avvertito naturalmente, in modo da far intuire un oggetto o un’azione. Esempio: tic-tac (orologio), din-don (campane). Ossìmoro (o ossimòro): figura logica per la quale si accostano, nella stessa espressione, parole che esprimono concetti contrari o contraddittori. Esempio: O viva morte o dilettoso male (Petrarca). Ottava: strofa di otto Endecasillabi (vedi): i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata (AB AB AB CC). Propria della poesia narrativa fin dalle origini (spesso con il nome di stanza), è usata anche nelle sacre rappresentazioni; è soprattutto il metro dei poemi epicocavallereschi. Parabola: originariamente, racconto con funzione di comparazione esemplificativa. Nella letteratura cristiana, indica la narrazione di un fatto verosimile che adombra una verità e presenta un particolare insegnamento morale-religioso. Per antonoma-

sia, le parabole sono quelle di Cristo riportate dai Vangeli. Paradosso: formulazione apparentemente assurda e in contraddizione con la logica e il buon senso, ma dotata di una sua sostanziale validità; è figura che si usa per colpire o sorprendere il lettore o l’ascoltatore. Paràfrasi: interpretazione letterale di un testo – generalmente poetico: se in prosa, è detto riscrittura – mediante la sua ripetizione o ritrascrizione in termini più chiari, espliciti, correnti; corrisponde alla lettura-interpretazione di un testo a livello denotativo (vedi Denotazione). Parallelismo: figura sintattica che consiste nello sviluppare un’idea mediante una disposizione simmetrica di brevi concetti e di elementi grammaticali, generalmente in coppia. Nei testi poetici il parallelismo può riguardare anche le forme metriche. Esempio: Ecco la fiera... ecco colei... (Dante). Paratassi: in opposizione all’Ipotassi (vedi), è l’organizzazione sintattica delle proposizioni di un periodo in forma coordinata; è detta anche coordinazione. Esempio: Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena / e i fiori, e l’erbe,... / e garrir Progne, e pianger Philomena... (Petrarca). Parisillabo: verso con un numero pari di sillabe (senario, ottonario, decasillabo, ecc.). Parola chiave: parola che ricorre con particolare frequenza in un testo ed esprime, nel contempo, una connotazione specifica, fornendo la chiave di lettura e di interpretazione del testo stesso. Ad esempio, nel sonetto di Dante Tanto gentile e tanto onesta pare la voce verbale pare ricorre tre volte, in posizione privilegiata e fornisce la spiegazione di buona parte del significato del componimento. Paronomàsia (o paronomasìa): figura morfologica che consiste © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

nell’accostamento di due termini di suono simile o uguale, ma di significato differente. Esempio: Io fui per ritornar più volte volto (Dante). Pentàmetro: verso della poesia greca e latina, costituito da cinque piedi e adottato soprattutto nella poesia elegiaca, insieme all’esametro, con il quale forma il distico elegiaco. Perìfrasi: consiste nel sostituire un termine o un’idea con un “giro di parole” che le equivalgono a livello di significato. È usata per fini di chiarificazione logica, di opportunità letteraria o anche di riserbo e di ipocrisia; è espressa spesso con una proposizione relativa. Esempio: Colui che mai non vide cosa nova (Dante), per indicare Dio. Personificazione: consiste nel presentare oggetti inanimati o concetti astratti come persone che parlano e agiscono, attribuendo loro qualità e sentimenti propri della persona umana. Esempio: ... sulla marina dove il Po discende / per aver pace co’ seguaci sui (Dante), per indicare il Po che sfocia nel mare con i suoi affluenti. Viene detta anche prosopopèa. Plazér: componimento provenzale nel quale si elencano e si augurano dei piaceri (in lingua d’oc, plazér significa “piacere”), ovvero situazioni piacevoli e desiderate. Si rifà a questo genere di componimento, ad esempio, il sonetto dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. Pleonàsmo: indica una o più parole che, all’interno di un’espressione o di un discorso, non sono essenziali e necessarie, ma superflue e ridondanti. Esempio: che nova bellezza t’è egli cresciuta, o Biancofiore (Boccaccio): egli è un termine pleonastico, di uso toscano. Pleonastiche possono essere, nell’insieme di un testo, intere frasi. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Plurilinguismo (o multilinguismo): in opposizione a Monolinguismo (vedi), indica la caratteristica di una scrittura letteraria che si avvale di registri linguistici diversi ed eterogenei. Esemplare, a questo proposito, la Commedia dantesca, che mescola il toscano con parlate non toscane e produce una varietà straordinaria di registri linguistici (da quello raffinato ed elevato dello Stilnovismo a quello volgare e plebeo, da quello filosofico a quello teologico e mistico). Poema: narrazione in versi molto ampia, suddivisa anche in libri o canti; a seconda della materia trattata, si parla di poema epico o eroico, eroicomico, storico, cavalleresco, didascalico, ecc. Quanto al metro, i poemi epici classici sono in esametri; la letteratura medievale usa la Lassa (vedi); i poemi cavallereschi, l’Ottava (vedi); il poema didascalico-allegorico, seguendo il modello dantesco, ricorre alla terzina di endecasillabi a rima incatenata. Il poema è un testo poetico-narrativo, in quanto narra una vicenda ma è composto da versi. Poesia: tradizionalmente contrapposta a Prosa (vedi), per l’aspetto contenutistico e per quello formale della scrittura, ha un significato ricco e complesso. Oltre a indicare un singolo componimento in versi o, più in generale, la produzione letteraria in versi di una categoria storico-culturale o di un singolo scrittore-poeta (ad esempio la poesia medievale in volgare, la poesia di Petrarca), nella concezione estetica moderna designa talora forme di creazione in versi ma anche, talora, in prosa (ad esempio i Poemetti in prosa di Charles Baudelaire). Nell’ambito delle teorie linguistiche, messa in relazione alla funzione poetica del linguaggio, è definita come l’attività che sfrutta le risorse formali della lingua su tutti i piani o livelli (fonologico, grammaticale, lessicale), operando per via di selezione e di combinazione

e privilegiando gli aspetti tecnico-formali rispetto alla semplice comunicazione e allo standard della lingua ordinaria. Poetica: il termine esprime il complesso dei problemi e delle concezioni riguardanti l’arte e l’attività poetica, la sua natura, la sua finalità e i suoi mezzi, relativamente ad un periodo o movimento o singolo autore (la poetica medievale, stilnovistica, di Dante), come frutto di scelte individuali o in riferimento ad esperienze e modelli letterarioestetici precedenti. Polisemìa: capacità di un segno o elemento linguistico di avere più significati; riferito al testo letterario-poetico, il termine esprime la pluralità di significati e di interpretazioni a cui esso si presta. Polisìndeto: figura sintattica consistente nel collegamento di proposizioni di un periodo o di termini di una proposizione mediante ripetute congiunzioni coordinanti, generalmente copulative. Esempio: La vita fugge e non s’arresta un’ora, / e la morte vien dietro a gran giornate, / e le cose presenti e le passate / mi dànno guerra e le future ancora (Petrarca). Figura opposta è l’Asindeto (vedi). Proemio: la parte iniziale di un poema, in cui l’autore riassume l’argomento del racconto, quindi passa all’invocazione alle Muse e, in certi casi, alla dedica dell’opera. Il termine indica anche l’inizio di un trattato, di un’orazione, di un discorso. Prolèssi: anticipazione di una o più parole o di un costrutto rispetto all’ordine consueto richiesto dalle regole sintattiche; il caso più frequente, soprattutto nei testi in prosa, è quello del pronome dimostrativo che anticipa l’enunciato della proposizione seguente. Esempio: Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (Montale). GLOSSARIO

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Prosa: la parola deriva dal latino orationem prosam, “discorso scritto esteso”, cioè che “prosegue in linea retta” (in latino: prorsus) fino alla fine della riga, contrapposto a versus, che indica invece il testo poetico che va a capo (“si rivolta”). Per prosa si intende oggi generalmente un’espressione linguistica che non ubbidisce a ritorni, cadenze, misure, ritmi regolari e per questo risulta contrapposta alla poesia. Tre sono i tradizionali generi di prosa: narrativa (novella, racconto, leggenda, fiaba, favola e romanzo), storica (ogni tipo di narrazione riguardante fatti politici e sociali) e oratoria (eloquenza politica o forense, oltre che religiosa); i tre generi principali comprendono le innumerevoli varianti della trattatistica, sorta originariamente con finalità didascaliche. Nella prosa letteraria si ritrovano alcune forme linguisticoespressive che la avvicinano alla poesia (ad esempio nel brano dell’Addio ai monti dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni) e permettono di associare la prosa artistica alla musicalità della poesia e, nel contempo, di distinguerla nettamente dalla prosa puramente informativoreferenziale. Ci sono però anche testi poetici che si possono far rientrare nei generi canonici della prosa: il più evidente è il poema epico che, pur essendo scritto in versi, è anche un testo narrativo; un caso più singolare e poco frequente riguarda le opere didattiche in versi (ad esempio il Tesoretto di Brunetto Latini). La distinzione fra prosa e Poesia (vedi), non è sempre netta e lineare; lo è, invece, la differenza fra “testo in prosa” e “testo in versi”. Prosodìa: nella metrica classica, è la parte della lingua che studia la quantità delle sillabe e il ritmo determinato dalla loro combinazione. Nella metrica delle lingue moderne, indica i fenomeni riguardanti la disposizione degli accenti, le relazioni tra i suoni in ordine all’altezza, alla durata e all’intensità.

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Quadrìvio: insieme al Trívio, costituisce la base dell’insegnamento scolastico medievale, fondato sulle sette arti liberali: Grammatica, Dialettica e Retorica (Arti del Trivio), Aritmetica, Musica, Geometria e Astronomia (Arti del Quadrivio). Quartina: gruppo di quattro versi che può formare una strofa o una parte di essa o una parte di componimento (come nel sonetto, costituito per lo più da due quartine e due terzine di endecasillabi); presenta una o due rime variamente disposte. Queste: o quête (in francese moderno); la “ricerca” in cui sono costantemente impegnati i cavalieri del ciclo bretone per conquistare la donna (come nel Lancillotto di Chrétien de Troyes) o ritrovare il Santo Graal, la mitica coppa in cui fu raccolto il sangue di Cristo (come nel Perceval dello stesso autore); la ricerca determina un complesso di avventure a cui i cavalieri vanno incontro. Referente: nella teoria della comunicazione, ciò a cui rimanda un segno linguistico, la cosa (reale o immaginaria) a cui la parola si riferisce. Registro: nell’analisi linguistica e nell’ambito della comunicazione, indica l’insieme dei caratteri stilistici di un determinato livello della lingua; si può anche riferire all’uso che un autore (chi parla o scrive) fa di un livello linguistico: ad esempio, in un contesto familiare, la lingua usa un lessico limitato e lo stile è poco elaborato e formale; in un contesto più impegnato e solenne, la lingua risulta più elaborata e lo stile più ricco e ornato. Nell’ambito specifico di un’opera o di un testo letterario, possono coesistere e anche intrecciarsi, a seconda delle circostanze e della natura dei personaggi, più registri espressivi, con alternanza di linguaggi o con mescolanza di stili.

Retorica: originariamente, l’arte del parlar bene, del costruire il discorso in modo da ottenere l’effetto voluto (cioè convincere l’uditorio); quindi, l’insieme dei precetti e delle regole rivolte all’insegnamento del parlare e dello scrivere, la teoria dell’eloquenza, fondamento di buona parte dell’educazione letteraria dall’antichità ai tempi moderni. Secondo la tradizione classica, la retorica è costituita di cinque parti: l’inventio, invenzione (ricerca delle cose da dire), la dispositio, disposizione (ordinamento di ciò che si è trovato), l’elocutio, elocuzione (esposizione ornata del discorso, stile), la memoria (memorizzazione del discorso) e l’actio o pronuntiatio, azione (recitazione del discorso). Oggi, nell’ambito della linguistica e delle nuove metodologie critiche, la retorica è oggetto di particolare interesse quale strumento di analisi dei fatti linguistici e letterari. Rima: uguaglianza di suono fra le parti terminali di due o più versi, a partire dall’ultima vocale accentata (tonica). La rima è una forma particolarmente forte di Allitterazione (vedi): la posizione a fine verso – seguita da una breve pausa di silenzio – le conferisce un particolare valore musicale. Presenta numerosi tipi: rima identica o univoca (quando l’uguaglianza si estende anche al significato della parola); rima equivoca (quando le parole hanno lo stesso suono, ma significato diverso); rima ricca (quando l’uguaglianza comprende, oltre alla vocale tonica, anche uno o più suoni precedenti); rima composta (quando sono poste in rima più parole); rima derivata o derivativa (quando la rima è fra parole di uguale radice); rima grammaticale (quando rimano fra loro parole appartenenti alla stessa categoria grammaticale); rima siciliana (quando la rima è tra la i e la e chiusa, tra la u e la o chiusa che nella lingua siciliana si identificavano); rima al mezzo o interna (quando una delle due rime si trova all’interno del verso). In base alla dispo© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

sizione nella strofa, le rime si dicono: baciate (quando sono in versi consecutivi), alternate (quando i versi dispari rimano con i dispari e i pari con i pari), incrociate o chiuse (quando il primo verso rima con il quarto e il secondo con il terzo), rima incatenata o terza rima dantesca (è lo schema della Commedia: nella successione delle terzine, il secondo verso di ognuna di esse rima col primo e col terzo della successiva). Si parla anche di rime imperfette o quasi rime, fenomeno da riportare alle figure dell’Assonanza (vedi) o della Paronomasia (vedi). Lo schema delle rime è indicato con lettere alfabetiche (ad esempio, nella Commedia: ABA, BCB, CDC ecc.); se le rime non seguono uno schema fisso, la poesia è detta a rime libere. Ripetizione: figura sintattica che consiste nella ripresa, all’inizio di un verso o di una frase, di una parola o sintagma conclusivo del verso o della frase precedente. È detta anche iterazione o anadiplosi. Esempio: ...da cielo in terra a miracol mostrare. / Mostrasi sì piacente… (Dante). In senso lato: ripetizione di una parola o sintagma da poco già usato nel testo. La ripetizione (che può trasformarsi in ritorno o ritornello, inteso in senso lato) crea un effetto di musica verbale apprezzata nei testi in versi, per lo più esclusa dai testi in prosa. Ripresa: la parte della Ballata (vedi) ripetuta prima di ogni stanza, cioè il ritornello (“elemento che torna a ripetersi in forma identica”). Ritmo: elemento essenziale della fisionomia di ogni tipo di componimento poetico; elemento musicale per eccellenza, in ambito poetico-letterario si esprime nella successione degli accenti nella frase secondo regole fisse o in base alla sensibilità dell’autore (per la prosa) o nell’alternanza regolare di battute e di pause, di sillabe (o suoni) più forti e più deboli, lunghe © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

e brevi, toniche e atone (a seconda che si tratti di poesia classica o di poesia moderna). Romanzo: come aggettivo, indica tutto ciò che è relativo alle lingue e alle letterature neolatine o romanze (vedi Neolatino); come sostantivo, invece, indica la maggiore composizione narrativa in prosa: un racconto, in genere, molto ampio e articolato della vita, delle vicende e delle gesta di uno o più personaggi, sullo sfondo di un ambiente storico o di altro genere. Grande è la varietà dei sottogeneri o tipi di romanzo, soprattutto nelle letterature moderne e contemporanee. Nella letteratura medievale troviamo narrazioni riguardanti la storia e la leggenda del mondo classico (ad esempio il Romanzo di Troia di Benoît de Saint-Maure), il mondo cortese, le avventure e gli amori dei cavalieri (ad esempio Lancillotto di Chrétien de Troyes). Di tutta questa narrativa (in versi oltre che in prosa) notevoli sono gli influssi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, in particolare sul Decameron di Boccaccio. Il vero e proprio romanzo nasce, secondo molti studiosi, in epoca moderna, con il Don Chisciotte dello spagnolo Miguel de Cervantes. Nel Settecento si diffonde, a partire da Francia e Inghilterra, e si differenzia nel secolo successivo in numerosi sottogeneri: autobiografico (Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo), storico (Ivanhoe di Walter Scott), sociale (I miserabili di Victor Hugo), psicologico (La coscienza di Zeno di Italo Svevo) e molti altri. Sarcasmo: ironia amara o caustica con cui l’autore esprime un atteggiamento di insoddisfazione di sé o di grave biasimo verso gli altri. Vedi anche Ironia. Satira: genere di composizione poetica a carattere moraleggiante e/o comico, in cui, con varietà di toni, vengono tratteggiati costumi e atteggiamenti umani generali o particolari.

Segno: in senso proprio, è la rappresentazione di un concetto. Tale rappresentazione è arbitraria perché non esiste un rapporto di somiglianza o analogia tra la forma del segno e la cosa o concetto che esso indica. Nella linguistica moderna, sulla scia di Ferdinand De Saussure, vengono ravvisati due aspetti costitutivi del segno: il Significante (vedi) e il Significato (vedi). Per individuare il senso proprio di un segno, occorre metterlo in correlazione con gli altri segni con cui forma un sistema unitario e complesso. Senhal: termine provenzale (pronuncia: segnal); è lo pseudonimo o il riferimento allusivo alla donna amata che, secondo le regole dell’amor cortese, il poeta non può chiamare con il vero nome, perché il sentimento amoroso deve rimanere segreto. L’uso del senhal caratterizza anche la lirica italiana delle origini ed è presente ancora nel Canzoniere petrarchesco (Esempio: il verso Erano i capei d’oro a l’aura sparsi contiene un senhal di Laura). Sequenza: nell’ambito della linguistica, si definisce così una serie ordinata di elementi che fanno parte di un sistema unitario e complesso. A sua volta la sequenza può essere formata da microsequenze; più sequenze formano una macrosequenza, coincidente con un episodio; due o più episodi possono costituire un racconto. Sestina: strofa formata da sei endecasillabi, di cui i primi quattro a rima alternata e gli altri due a rima baciata. Usata nella poesia religiosa antica (nelle laudi sacre), è adottata poi dalla poesia satirica. La canzone sestina, composta da sei strofe di sei versi ciascuna, con sei parole in rima che ritornano in ogni strofa, è invenzione del trovatore Arnaut Daniel ed è stata usata anche da Dante. Settenario: verso di sette sillabe; dopo l’endecasillabo è il GLOSSARIO

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verso più usato della nostra poesia; oltre all’accento sulla sesta sillaba (principale), può presentare uno o più accenti secondari sulle prime quattro sillabe. Significante: nella teoria linguistica, è la forma del segno linguistico, la sua natura semplicemente grafica (per il segno scritto) che, unita ad un Significato (vedi), costituisce il segno stesso. Ad esempio nella parola scritta casa, il significante è dato dalle lettere c/a/s/a, mentre, per la parola pronunciata, è dato dal valore acustico delle sue lettere e sillabe (c-a-s-a; ca-sa). Significato: è la “cosa” designata, l’oggetto, il contenuto concettuale, il concetto, di cui il Significante (vedi) indica il suono. Ad esempio, in casa, il significato consiste nel concetto di abitazione. Simbolo: può avere molti significati di carattere linguistico-letterario: è un segno linguistico che richiama un’immagine, un oggetto, una nozione; è la cosa significata dal senso letterale che, nel linguaggio figurato, rimanda al significato allegorico; è il segno di un rapporto misterioso fra la realtà e l’assoluto, di cui il poeta si fa interprete (come avviene nel Simbolismo e nel Decadentismo del Novecento). Similitudine: consiste nell’accostamento di due termini (oggetti, pensieri, immagini, ecc.) sulla base di un rapporto di somiglianza di pari grado (introdotto da come, simile a, somigliante a, ecc. o, quando il confronto sia più esteso, dalle forme correlative come... così, quale... tale, ecc.). Esempi: e caddi come corpo morto cade (Dante); E come li stornei ne portan l’ali / [...] /, così quel fiato li spiriti mali (Dante). Sinalèfe: fusione in una sola sillaba della vocale finale di una parola e di quella iniziale della parola seguente. Esempio: Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono (Petrarca). Mol-

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to diffusa nel testo in versi, influenza il computo delle sillabe metriche. Sincope: eliminazione di uno o più fonemi all’interno della parola (si confrontino i fenomeni dell’Apocope e dell’Aferesi). Esempio: torre per togliere. Sinèddoche: figura semantica affine alla Metonimia (vedi). Sinèresi: figura morfologica e metrica, che consiste nell’unione e pronuncia in una sola sillaba di due o più vocali appartenenti a due sillabe diverse. Esempio: Disse: – Beatrice, loda di Dio vera (Dante); mentre la normale sillabazione sarebbe Be-a-tri-ce e Di-o, le due vocali e-a e i-o formano una sillaba sola. Sinestesìa: figura semantica; procedimento metaforico e analogico per cui si associano due parole (generalmente sostantivo e aggettivo) appartenenti a due ordini sensoriali diversi. È particolarmente presente nelle poetiche e nella poesia del Novecento. Esempio: Là, voci di tenebra azzurra… (Pascoli), in cui la sensazione uditiva (voci) è associata a quella visiva (tenebra azzurra). Sintagma: l’insieme di due o più parti del discorso, legate tra loro in modo da costituire un’unità sintattica. Esempio: la mamma (articolo+sostantivo). Sintassi: la parte della linguistica che studia le funzioni proprie della struttura della frase e del periodo. Sirventese (o Serventese): dal provenzale sirventes (in riferimento, forse, al trovatore servente, al servizio di un signore); componimento indirizzato originariamente dal cortigiano alla celebrazione del proprio signore. Variamente congegnato dal punto di vista metrico, è per lo più formato da strofe di tre endecasillabi monorimi e un quinario, che dà la rima ai primi tre versi della strofa successiva.

Sonetto: componimento – nella forma più tipica – di 14 versi endecasillabi, distinti in due quartine e due terzine. Lo schema delle rime è vario, sia per le quartine, sia per le terzine: ABAB, ABAB, CDE, CDE oppure CDC, DCD (nei poeti siciliani, in particolar modo in Jacopo da Lentini, ritenuto tradizionalmente l’inventore del sonetto); o anche, come testimonia la lunghissima tradizione successiva, ABBA, ABBA, CDC, CDC (oppure CDE, CDE; o ancora CDE, EDC; CDE, DCE; CDE, DEC). È usato soprattutto per esprimere la materia amorosa e autobiografica. Esistono anche altre forme di sonetto, tra cui il sonetto doppio (o rinterzato), con settenari inseriti all’interno delle quartine e delle terzine; il sonetto raddoppiato, con quattro quartine e quattro terzine; il sonetto ritornellato, con una coda di un endecasillabo che rima col quattordicesimo o di due versi che rimano tra loro; il sonetto caudato, usato per argomenti satirici e burleschi. Quando una serie di sonetti a guisa di strofe svolgono uno stesso argomento, si dà vita a una corona. Il nome viene dal provenzale sonet (“melodia, piccolo suono”, quindi poesia musicata). Stanza: è detta così la strofa della Canzone (vedi) o anche di altre forme strofiche; talvolta indica un componimento autonomo o è sinonimo di Ottava (vedi). Stile: l’insieme delle scelte e dei mezzi espressivi che costituiscono la fisionomia particolare dell’opera di un autore o, più estesamente, di un periodo o di una tradizione letteraria (ad esempio lo stile di Dante, lo stile del Decameron, lo stile rinascimentale). Mentre nella retorica antica lo stile è considerato distaccato dal contenuto e limitato esclusivamente agli elementi tecnicoespressivi, all’applicazione delle regole, oggi viene ritenuto piuttosto una sintesi e interazione tra le molteplici forme del contenuto e dell’espressione. © ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

Stilèma: particolare struttura formale, sintattica e stilistica, ricorrente in un autore e rivelatrice del suo linguaggio e del suo stile. Ad esempio, sono stilemi le Dittologie (vedi) di aggettivi in Petrarca (canuto e bianco, solo e pensoso; disiosa e lieta). Stilistica: lo studio analitico e sistematico delle norme che presiedono all’applicazione dei vari stili e moduli stilistici degli autori letterari; è una parte fondamentale del più vasto campo della Retorica (vedi). Nell’ambito delle metodologie critiche più recenti, indica un tipo di indagine sui vari aspetti del linguaggio letterario che si propone come specifico metodo di analisi-interpretazione, rivolto alla conoscenza di tutti gli elementi che formano il tessuto stilistico di un testo, non disgiunti dai valori tematici e contenutistici, ma anzi rivelatori di questi. Strofa (o Strofe): unità ritmica, costituita da un raggruppamento di versi, creato intenzionalmente per formare un periodo ritmico più esteso e più organico. Struttura: in senso generale, è l’insieme di elementi che formano una costruzione (letteraria), con riferimento particolare alle funzioni di sostegno o di collegamento; in campo più strettamente linguistico, e secondo i princìpi dello Strutturalismo, è un insieme di elementi legati tra loro da rapporti di solidarietà e di dipendenza. Lo Strutturalismo è una complessa tendenza storico-filosofica, apparsa in Francia nella seconda metà del XX secolo, che si propone di ricercare le costanti o strutture presenti nei fenomeni, anche letterari.

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Tenzone: disputa poetica, per cui due poeti si scambiano strofe o componimenti, per ragioni dottrinali o polemiche; nel primo caso, uno dei due poeti propone un argomento e l’altro risponde; nel secondo intervengono motivi personali. Famose le tenzoni fra poeti siciliani sulla natura dell’amore o quella di Dante con Forese Donati. Vedi anche Contrasto. Terzina: strofa costituita da tre endecasillabi, per lo più a rima incatenata (sul modello della Commedia dantesca e dei poemi che la imitano, come i Trionfi di Petrarca e l’Amorosa visione di Boccaccio). È adottata anche nella poesia a carattere elegiaco e satirico; costituisce una parte essenziale del Sonetto (vedi), nel quale ha varie combinazioni di rime. Tragico: letteralmente, relativo alla tragedia; nella retorica medievale, relativo allo stile tragico, cioè elevato e sublime, contrapposto a Comico (vedi) ed elegiaco (vedi Elegia). Traslato: come aggettivo, indica il valore-significato di una parola o espressione diverso da quello naturale e letterale: quindi un valore-significato modificato, trasferito ad altro ordine (traslato, appunto, cioè “trasferito”). Le espressioni figurate sono dette, con termine generale, figure o traslati, o ancora, con termine greco, tropi.

lingua d’oc, si trovano due forme o modi fondamentali di comporre poesia: il trobar clus (“chiuso”), che consiste in una scrittura complicata ed ermetica, densa di elementi metaforici, e il trobar leu (“facile”), consistente, al contrario, in un poetare semplice, piano e musicale. Umorismo: capacità di cogliere e rappresentare gli aspetti ridicoli delle cose, con intelligenza arguta e simpatia umana. Secondo Luigi Pirandello, implica la capacità di cogliere il lato amaro che si nasconde dietro avvenimenti a prima vista ridicoli perché fuori dalla norma. Verso: unità base del periodare poetico. Il nome deriva dal latino versus, sostantivo del verbo vertere, che significa “voltare, volgere” e quindi indica anche l’andare a capo. In quanto unità metrica, ogni verso presenta uno schema e un ritmo autonomi, diversamente caratterizzati se riferiti alla poesia classica o alla poesia moderna. La conclusione del verso coincide con un elemento “musicale” di breve pausa silenziosa. Vedi anche Metrica. Verso libero: verso non caratterizzato né da un numero fisso di sillabe, né da una struttura regolare della strofa. Il suo uso prevale tra i poeti del Novecento che spesso infrangono le norme della metrica tradizionale.

Trivio: vedi Quadrivio. Trobar: termine provenzale, che corrisponde a “comporre, far poesie” ed è all’origine del sostantivo trovatore. Nella lirica in

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Indice dei nomi Abba Giuseppe Cesare, 737, 750 Abelardo Pietro, 895 Accetto Torquato, 42, 43, 44, 46, 49 Acerbi Giuseppe, 545 Achillini Claudio, 46, 68, 69-70 Acquaviva Giulio, cardinale, 96, 97, 114 Addison Joseph, 211, 219, 581, 859 Agostino Aurelio, 522, 631, 872 Aleardi Aleardo, Gaetano Maria, 502, 507, 547, 551, 734, 750 Alemán Mateo, 98 Alembert Jean-Baptiste Le Rond d’, 211, 213, 214, 231, 254, 274, 310, 340 Alfieri Vittorio, 208, 224, 229, 230, 232, 275, 315, 340-381, 385, 393, 400, 410, 411, 412, 414, 417, 424, 432, 436, 443, 448, 451, 454, 455, 471, 496, 621, 665, 738, 753, 813, 872, 873, 877-880 Algarotti Francesco, 873 Anceschi Luciano, 35 Andreini Francesco, 187, 193 Angiolieri Cecco, 67, 84 Anguissola Sofonisba, 908 Appiani Andrea, 312 Archimede, 117, 123 Ariosto Ludovico, 59, 117, 159, 243, 313, 548, 763, 913 Aristotele, 27, 36, 37, 120, 125, 132, 138, 139, 140, 141, 650, 912 Arnaut Daniel, Arnaldo Daniello, 921 Arnim Bettina von, 516 Arnim Ludwig Achim von, 491, 516, 535, 551 Artale Giuseppe, 46, 68 Asburgo Francesco I, imperatore d’Austria, 606, 607 Asburgo Giuseppe II d’, imperatore d’Austria, 204, 215, 217, 231, 312, 319, 853 Asburgo Leopoldo II, imperatore, 204, 231 Asburgo Maria Teresa d’, imperatrice d’Austria, 204, 215, 217, 231, 311, 312, 319, 337, 341, 378, 383, 853 Ascoli Graziadio Isaia, 683 Austen Jane, 893, 900-902, Azeglio Taparelli Cesare d’, 623, 625, 626 Azeglio Taparelli Massimo d’, 492, 507, 509, 623, 676, 735, 737, 750, 874, 884-886 Bach Johann Sebastian, 28, 48 Bachtin Michail Michajlovicˇ, 79, 613 Bacone Francesco, Francis Bacon, 28, 33, 377 Balbo Cesare, 492, 509, 736 Baldacchini Francesco Saverio, 811, 820 Balilla, Giovanni Battista Perasso, detto il, 742, 743

924 INDICE DEI NOMI

Balzac Honoré de, 504, 507, 510, 536, 554, 556, 561, 579-583, 618, 893 Bandello Matteo, 151, 155, 159 Bandi Giuseppe, 737 Bandiera Attilio, 492 Bandiera Emilio, 492 Barbarisi Gennaro, 392 Bárberi Squarotti Giorgio, 392, 683, 727-728 Baretti Giuseppe, 237, 238, 311, 401, 406, 548 Bartoli Daniello, 40, 42, 44, 47 Basile Giovan Battista, 30, 45, 46, 48, 49 Battaglia Salvatore, 683 Baudelaire Charles, 175, 525, 529, 919 Beccaria Cesare, 212, 217, 220-221, 230, 232, 255, 621, 668, 856 Beccaria Giulia, 411, 621, 623, 629, 729 Bellarmino Roberto, cardinale, 119 Belleforest François de, 159 Belli Giuseppe Gioachino, 549, 550 Bellini Lorenzo, 42, 49 Bellini Vincenzo, 508 Bembo Pietro, 72, 313, 857 Beni Paolo, 39 Benjamin Walter, 177 Berchet Giovanni, 497, 510, 515, 538, 539, 542-545, 546, 549, 551, 626, 629, 734, 750 Berni Francesco, 67, 313, 721 Bernini Gian Lorenzo, 28, 29, 48, 64 Bertola De’ Giorgi Aurelio, 401 Bettinelli Saverio, 401, 406, 410 Bini Carlo, 736, 874 Biondi Giovan Francesco, 44 Blake William, 501, 523, 524, 535 Blondel Enrichetta, 620, 622, 623, 729 Boccaccio Giovanni, 100, 151, 159, 453, 503, 714, 721, 857, 858, 872, 913, 914, 918, 919, 921, 923 Boccalini Traiano, 40, 41, 44, 47, 49, 851, 854-856 Bodin Jean, 28, 48 Bodoni Giambattista, 320, 425 Boiardo Matteo Maria, 103 Boileau Nicolas, 177, 313, 397, 398, 524 Bontempelli Massimo, 132 Borri Teresa, 623 Borromeo Carlo, 30, 696 Borromeo Federico, 30, 48, 674, 675, 681, 707, 714, 730 Borromini Francesco, 28, 48 Borsieri Pietro, 502, 538, 539, 551, 735, 864-865 Botero Giovanni, 28, 41, 44, 48, 49 Boyle Robert, 377 Brahe Tycho, 28 Brancati Vitaliano, 175 Brecht Bertolt, 122 Breme Ludovico Arborio Gattinara di, 502, 538, 539, 548, 551, 760 Brentano Clemens Maria, 516, 535, 551

Brontë Anne, 893 Brontë Charlotte, 553, 893 Brontë Emily, 553, 893 Brown Dan, 872 Bruno Giordano, 31, 122, 160, 835 Bruto Lucio Giunio, 344, 571, 764, 768 Buffon George-Louis Leclerc conte di, 824 Bulgarelli Marianna, detta la Romanina, 241 Buonarroti Filippo, 615 Buonarroti Michelangelo il Giovane, 39 , 47, 186, 193, 195 Buonarroti Michelangelo, 134, 137, 344, 443, 453, 455 Burchiello, Domenico di Giovanni, detto il, 67, 84 Burckhardt Jacob, 27 Bürger Gottfried August, 516, 538, 556 Burke Edmund, 230, 397, 398, 401, 524 Byron George Gordon, 175, 490, 498, 510, 515, 524, 525, 528-529, 530, 531, 535, 547, 551, 568, 735, 736 Caccini Giulio, 47, 192, 195 Calcaterra Carlo, 35 Caldara Antonio, 244 Calderón de la Barca Pedro, 38, 49, 169, 175-177, 194, 243 Callimaco, 412 Callot Jacques, 868 Caloprese Gregorio, 237, 241, 250 Calvino Giovanni, 625 Campanella Tommaso, 28, 44, 46, 47 Camus Albert, 722 Canova Antonio, 344, 384, 401, 406, 464, 469, 472 Cantù Cesare, 735, 736, 750 Cappelli Emidio, 811, 820 Capponi Gino, 502, 676, 769 Capuana Luigi, 589 Caravaggio, Michelangelo Merisi, detto il, 28, 48, 67, 908, 909 Cardano Gerolamo, 130, 131 Carducci Giosue, 72, 237, 547, 683, 734, 789, 833, 916, 918 Carena Giacinto, 623 Carlo V, imperatore, 105, 875 Carriera Rosalba, 908, 909 Carroll Lewis, Charles Lutwidge Dodgson, detto, 554 Cartesio, René Descartes, 28, 33, 48, 208, 212, 237 Casanova Giovanni Giacomo, 229, 873 Cassola Carlo, 893 Castelli Benedetto, 41, 119, 123, 124, 126, 143 Caterina II di Russia, 204, 215, 231, 378 Cattaneo Carlo, 487, 492, 509, 550, 733, 750 Catullo Gaio Valerio, 440, 775 Cavour, Camillo Benso, conte di, 488, 492, 509, 623, 738, 811

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Cecchi Eugenio, 737 Cellini Benvenuto, 872 Ceruti Giacomo detto il Pitocchetto, 869 Cervantes Saavedra Miguel de, 39, 49, 79, 96-115, 223, 252, 464, 518, 872, 921 Cesare Caio Giulio, imperatore romano, 69, 70, 153, 344, 571, 768, 872 Cesari Antonio, 385, 548 Cesarotti Melchiorre, 227, 229, 230, 232, 342, 397, 398, 402-405, 406, 410, 411, 416, 496, 548, 878 Cesi Federico, 41, 49, 116 Chamisso Adalbert von, 516 Chateaubriand François-René de, 531, 535, 551 Chaucer Geoffrey, 159 Chauvet Joseph-Joachim-Victor, 629, 650, 651, 653 Chénier André-Marie de, 383, 400 Chiabrera Gabriello, 46, 64, 71-75, 76, 84, 238, 250 Chiari Pietro, 276 Chrétien de Troyes, 920, 921 Cicerone Marco Tullio, 37, 754, 768, 872 Clemente V, papa, 559 Clemente VIII, papa, 53 Coleridge Samuel Taylor, 499, 523, 525-527, 535, 551 Collodi Carlo, Carlo Lorenzini, detto, 554 Colombe Ludovico delle, 123, 124 Colombo Cristoforo, 73, 78, 823 Colonna Ascanio, cardinale, 77, 83 Comte Auguste, 503 Condillac Étienne Bonnot de, 211, 214, 231 Condorcet Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat di, 621 Condorcet Sophie, 621 Contini Gianfranco, 549, 917 Copernico Nicola, Nikolaj Kopernik, 31, 33, 119, 120, 132 Corneille Pierre, 38, 49, 173, 177-178, 179, 194, 651 Corsi Iacopo, 192 Cortese Giulio Cesare, 30, 48 Corti Maria, 775 Courbet Gustave, 574, 888 Cousin Victor, 493, 622 Crescimbeni Giovan Mario, 236, 237, 250, 857 Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, 119, 124, 125, 126, 143 Cristina di Svezia, 222, 236, 250 Croce Benedetto, 27, 43, 45, 68, 237, 393, 547 Croce Giulio Cesare, 45, 46, 49 Cromwell Oliver, 25, 91 Cuoco Vincenzo, 230, 621 Daiches David, 153-154 Dante Alighieri, 59, 66, 67, 84, 91, 100, 224, 325, 353, 379, 385, 429, 443, 446, 453, 455, 515, 579, 603, 738, 750, 763, 764, 768, 773, 779, 841, 858, 872, 879, 891, 911, 912, 913, 914, 916, 917, 918, 919, 921, 922, 923 Da Ponte Lorenzo, 175, 873

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Darío Rubén, Félix Rubén GarcíaSarmiento, 38, 87 Darwin Charles, 503 Daumier Honoré, 574 Davico Bonino Guido, 299, 659 David Jacques-Louis, 226, 384, 401, 406 Defoe Daniel, 100, 223, 229, 232, 252, 253, 263-266, 267, 271, 272, 721 Degola Eustachio, 622 Delacroix Eugène, 501 Della Casa Giovanni, 857 Della Valle Federico, 47, 185, 193, 195 De Marchi Emilio, 504, 507, 510, 573 De Sanctis Francesco, 63-64, 237, 385, 460-461, 508, 547, 615, 633, 737, 738, 750, 770, 874 Dickens Charles, 504-506, 507, 510, 554, 573, 589-594, 610, 618, 851, 852, 862-863, 874 Diderot Denis, 100, 210, 211, 212, 213, 214, 223, 231, 252, 253, 272, 274, 310, 340 Dini Piero, monsignor, 119, 124, 125 Donizetti Gaetano, 508, 585 Donne John, 38, 49, 91-93, 94, 148 D’Ors Eugenio, 27 Dostoevskij Fëdor Michailovicˇ, 507, 554, 610-615, 618 Dottori Carlo de’, 46, 4, 185, 186, 193, 195 Doyle Arthur Conan, 554, 596 Dryden John, 91 Dumas Alexandre, padre, 175, 531, 590 Dürer Albrecht, 888 Eco Umberto, 691-692 Eliot George, Mary Ann Evans, detta, 553 Eliot Thomas Stearns, 874 Engels Friedrich, 486, 494, 508, 509, 573 Eschilo, 356 Euclide, 117 Euripide, 195 Fagnani Arese Antonietta, 410, 427, 428 Fattorini Teresa, 754, 764, 766, 784, 787, 792 Fauriel Claude, 621, 622, 623, 628, 674, 675 Federico I di Hohenstaufen, detto il Barbarossa, imperatore, 742, 743 Federico II Hoenzollern, re di Prussia, 78, 204, 215, 231, 254, 342 Ferrari Giuseppe, 492, 509, 733, 734, 750 Ferrucci Francesco, 742, 743 Fichte Johann Gottlieb, 491, 514, 516, 518, 551 Ficino Marsilio, 162 Fielding Henry, 100, 223, 229, 232, 253, 254, 267, 271, 272 Filangieri Gaetano, 218 Filicaia Vincenzo da, 236 Flaubert Gustave, 504, 507, 510, 554, 561, 582, 583-588, 589, 618, 893 Flora Francesco, 833 Florio Giovanni, 147

Folengo Teofilo, 76, 104 Fontana Lavinia, 908 Fontanella Girolamo, 68 Forman Miloš, 249 Fornaciari Luigi, 385 Foscolo Giovanni Dionigi, 438, 439, 456 Foscolo Ugo, 150, 224, 227, 229, 230, 232, 316, 360, 371, 383, 384, 386, 392, 393, 398, 400, 401, 405, 408474, 496, 507, 545, 546, 621, 625, 667, 734, 737, 753, 763, 764, 775, 780, 790, 797, 799, 841, 873, 882, 892, 898-899, 921 Fourier Charles, 486, 494, 508, 509 Fracastoro Girolamo, 541 Francesco d’Assisi, 522 Franklin Benjamin, 206, 212, 255 Frescobaldi Girolamo, 894 Freud Sigmund, 610 Friedrich Caspar David, 497, 501 Frisch Max, 175 Frugoni Carlo Innocenzo, 238, 250 Frugoni Francesco Fulvio, 44, 46, 98 Fubini Mario, 237 Galeno Claudio, 138 Galiani Ferdinando, 218, 229 Galilei Galileo, 27, 30, 31, 33, 34, 41, 42, 46, 48, 49, 53, 60, 82, 116-145, 208, 443, 455 Galilei Vincenzo, 116, 192 Galizia Fede, 908 Galvani Luigi, 230 Gama Vasco da, 824 Gandhi Mohandas Karamcand, detto il Mahatma, 605 Garibaldi Giuseppe, 488, 492, 509, 623, 737 Gascoigne George, 159 Gassendi Pierre, 124 Gaultier de Laguionie Jules de, 588 Gautier Théophile, 175, 532, 535 Genovesi Antonio, 218, 229 Gentileschi Artemisia, 908, 909 Géricault Jean-Louis-Théodore, 501 Gessner Salomon, 394, 406 Getto Giovanni, 35, 73 Giannone Pietro, 209, 218, 229, 231, 873 Giansenio Cornelio, Cornelis Jansen, 178, 625 Gigli Girolamo, 280 Gioacchino da Fiore, 140 Gioberti Vincenzo, 487, 492, 509, 734 Gioia Melchiorre, 674 Giordana Marco Tullio, 870 Giordani Pietro, 385, 386, 411, 502, 510, 537, 538, 539, 545, 548, 551, 623, 626, 753, 754, 755, 821, 840 Giovanni Fiorentino ser, 159 Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, papa, 121 Giovenale Decimo Giunio, 315, 321, 337 Giraldi Cinzio Giambattista, 151, 159 Giudici Giovanni, 91 Giusti Giuseppe, 623, 734, 737, 746749, 750, 874 Gluck Christoph Willibald, 244 Godwin William, 531

INDICE

DEI NOMI

925

Goethe Johann Wolfgang, 148, 223, 227, 229, 230, 232, 239, 371, 393, 394-396, 401, 406, 416, 471, 494, 515, 516, 517-518, 530, 535, 541, 542, 535, 541, 542, 556, 643, 682, 753, 873, 880-882 Goldoni Carlo, 187, 223, 224, 229, 230, 232, 274-309, 343 Góngora y Argote Luis de, 37, 38, 49, 52, 53, 86, 87-88, 89, 91, 94 Gonin Francesco, 676 Gonzaga Federico, cardinale, 123 Gonzaga Francesco, 192 Gonzaga Vincenzo I, 192 Gorani Giuseppe, 873 Gori Gandellini Francesco, 342 Gozzano Guido, 918 Gozzi Carlo, 45, 76, 224, 230, 232, 276, 278 Gozzi Gasparo, 211, 851 Gracián y Morales Baltasar, 54 Grandi Ascanio, 76 Grassi Orazio, 34, 119, 129, 130 Gravina Gian Vincenzo, 223, 229, 236, 237, 238, 241, 243, 250 Gray Thomas, 227, 229, 230, 232, 397, 398-400, 401, 406, 441, 448, 494, 734 Grimaldi Francesco Maria, 391 Grimani Michele, 275 Grimm Jacob Ludwig Karl, 45, 516, 535, 551 Grimm Wilhelm Karl, 45, 516, 535, 551 Grossi Tommaso, 549, 735, 750 Grozio Ugo, Huig van Groot, 28, 48 Guarini Battista, 52, 243 Guazzelli Francesco, 113 Guercino, Giovanni Francesco Barbieri, detto il, 29 Guerrazzi Francesco Domenico, 736, 737, 750, 874 Guerzoni Giuseppe, 737 Guglielmo III d’Orange, 25 Guicciardini Francesco, 142, 872 Guiducci Mario, 34, 129 Guillon Aimé, 441 Guizot François, 622 Gumpp Johannes, 888 Händel Georg Friedrich, 244 Hasse Johann Adolf, 245 Hayez Francesco, 673 Hegel Georg Wilhelm Friedrich, 514, 517 Heine Heinrich, 516 Herder Johann Gottfried, 393, 406, 517 Herschel Friedrich Wilhelm, 391 Hobbes Thomas, 28, 48, 120, 377, 468 Hoffmann Ernst Theodor Amadeus, 516 Hogarth William, 869 Holbach Paul Henry Dietrich barone d’, 214, 231 Hölderlin Friedrich, 383, 393, 517, 551 Horváth Ödön von, 175 Huet Pierre-Daniel, 39, 49 Hugo Victor, 507, 508, 532, 535, 547, 551, 553, 556, 557, 560-566, 618, 921 Hume David, 514 Huysmans Joris-Karl, 589

926 INDICE DEI NOMI

Imbonati Carlo, 311, 315, 428 Imbonati Giuseppe Maria, 311, 621, 622 , 629 Imer Giuseppe, 275 Ingres Jean-Auguste-Dominique, 384, 406, 501 Innocenzo X, papa, 625 Innocenzo XI, papa, 26 Isella Dante, 191 Isocrate, 831 Jacopone da Todi, 90, 522 Jefferson Thomas, 206 Kant Immanuel, 210, 211, 212, 398, 517 Keats John, 383, 525, 535 Keplero Giovanni, Johannes Kepler, 27, 34, 118, 124, 132 Kierkegaard Sören Aabye, 175 King Martin Luther, 605 King Stephen, 722 Klinger Friedrich Maximilian, 230, 496, 516 Klopstock Friedrich Gottlieb, 393, 406 Koerner Teodoro, 637, 640, 641 Kubrick Stanley, 890 Kühn Sophie von, 518, 521 La Fayette Marie Madeleine Pioche de La Vergne contessa di, 39, 252 Lamartine Alphonse de, 532, 535 Lamennais Félicité-Robert de, 615 La Mettrie Julien Offroy de, 214 Lanzi Luigi, 384 Larškin Vladimir, 614 Latini Brunetto, 920 Leandro Girolamo, 47 Leibniz Gottfried Wilhelm, 28, 48, 255, 272 Lelewel Joachim, 493 Leocare, 226, 384 Leonardo da Vinci, 124, 141, 872 Leone XIII, Gioacchino Pecci, papa, 487, 489 Leopardi Giacomo, 76, 344, 360, 370, 384, 386, 433, 502, 507, 510, 515, 538, 539, 546, 615, 623, 680, 733, 738, 752-844, 874, 893, 911 Leopardi Monaldo, 752, 840 Leopardi Paolina, 755 Lesage Alain-René, 98 Lippi Lorenzo, 29, 858 Livio Tito, 41, 356 Locke John, 28, 48, 211, 377, 514 Lomonaco Francesco, 230, 621 Longino Cassio, 524 Lorini Niccolò, 119 Loyola Ignazio di, 30 Lubrano Giacomo, 46, 68 Luciano di Samosata, 831, 841 Lucrezio Caro Tito, 412, 414, 433, 448, 721 Luigi Filippo d’Orleans, re di Francia, 487, 493, 509, 532 Luigi XIII, re di Francia, 25, 60, 69, 70, 177 Luigi XIV, Re Sole, re di Francia, 25, 48, 177, 179, 206, 235, 279 Luigi XV, re di Francia, 206, 223, 235, 254, 342, 909

Luigi XVI, re di Francia, 206, 207, 276, 386, 484 Lukács György, 504 Luporini Cesare, 838-839 Luti Emilia, 676 Lyly John, 38, 49 McCarthy Cormac, 722 Maccheroni Florindo de’, 275 Macchia Giovanni, 175, 536 Machiavelli Niccolò, 31, 41, 49, 142, 345, 356, 379, 443, 452, 455, 738, 854, 855 Macpherson James, 227, 229, 232, 395, 397, 401, 402, 406, 496, 878 Madden John, 170 Magalotti Lorenzo, 42, 46, 49 Maggi Carlo Maria, 39, 47, 186, 188191, 193, 195, 237 Maistre Joseph de, 490 Malpighi Marcello, 30, 33, 42, 46, 49 Mameli Goffredo, 507, 547, 741-743 Mamiani Terenzio, 811, 820 Manin Daniele, 615 Manso Giambattista, 52 Manzoni Alessandro, 70, 178, 190, 270, 316, 360, 386, 387, 397, 406, 423, 458, 502, 504, 507, 508, 510, 514, 530, 538, 539, 546, 549, 553, 554, 555, 556, 559, 567, 572, 573, 579, 592, 615, 618, 620-732, 733, 734, 735, 736, 738, 746, 747, 754, 840, 872, 893, 902-906, 920 Manzoni Pietro, 620, 621, 622, 729 Marco da Gagliano, 192 Marino Giambattista, 29, 30, 39, 40, 47, 48, 49, 52-68, 70, 71, 73, 75, 77, 84, 93, 243, 432, 815, 892, 894-895 Marliani Maddalena, 284 Marlowe Christopher, 38, 49, 148, 173 Maroncelli Pietro, 743, 744, 745 Marx Karl, 486, 494, 508, 509, 573 Masiello Vitilio, 468 Maupassant Guy de, 589 Mazzei Filippo, 873 Mazzini Giuseppe, 487, 492-493, 509, 738-740, 741, 743, 750 Medebach Girolamo, 274,275, 276, 284, 307 Medebach Raffi Teodora, 284 Medici Alessandro de’, 142 Medici Cosimo II de’, 30, 48, 71, 118, 123, 126, 143 Medici Eleonora de’, 192 Medici Ferdinando I de’, 71 Medici Lorenzo de’, detto il Magnifico, 75, 356, 891 Medici Maria de’, 53, 71, 192 Melchiori Giorgio, 167 Melville Herman, 507, 554, 599-604, 618 Melzi d’Eril Francesco, 392 Menandro, 775 Mengs Anton Raphael, 383, 384, 401 Menippo di Gadara, 81, 83 Menotti Ciro, 493 Mérimée Prosper, 175 Metastasio Pietro, Trapassi Pietro, detto, 229, 230, 237, 238, 241-248, 250, 341, 378 Milizia Francesco, 27, 35, 384, 406

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Milton John, 38, 49, 91, 94, 238, 377 Mocenni Magiotti Quirina, 411 Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto, 38, 49, 173, 175, 179-184, 194, 279 Momigliano Attilio, 550 Monicelli Mino, 853, 866-867 Montaigne Michel Eyquem de, 160, 168, 377, 878 Montale Eugenio, 63, 919 Montalvo García Rodríguez de, 102 Montesquieu Charles Louis de Secondat di, 212, 214, 223, 232, 253, 272, 378 Monteverdi Claudio, 28, 39, 47, 48, 49, 64, 192, 193, 195, 894 Montgolfier Jacques-Etienne de, 387 Montgolfier Joseph Michel de, 387 Monti Vincenzo, 229, 230, 383, 385392, 400, 401, 406, 409, 410, 411, 427, 471, 502, 510, 539, 545, 548, 621, 754, 760, 768 Morante Elsa, 893, 906-907 Moravia Alberto, Alberto Pincherle detto, 893 Mosco di Siracusa, 753 Mozart Wolfgang Amadeus, 175 Murat Gioacchino, 622 Muratori Ludovico Antonio, 208, 209, 223, 229, 231, 668 Murtola Gaspare, 53, 84 Musil Robert, 874 Musset Alfred de, 175, 531, 535, 551 Napoleone Bonaparte, imperatore, 207, 231, 386, 406, 409, 411, 415, 418, 430, 441, 468, 469, 484, 491, 501, 509, 567, 570, 575, 605, 606, 607, 620, 621, 622, 624, 637, 640, 643, 644, 645, 646, 647, 651, 656, 659, 660, 663, 708, 729, 752 Nazzari Francesco, 851 Nelli Iacopo Angelo, 280 Nepero, John Napier, 33 Nepote Cornelio, 872 Nerval Gerard de, Gérard Labrunie, detto, 532, 533-534, 535, 551 Newton Isaac, 28, 390, 391 Niccolini Giovan Battista, 676 Nicole Pierre, 650 Nievo Ippolito, 507, 547, 554, 567572, 618 Nodier Charles, 531 Novalis, Friedrich Leopold von Hardenberg, detto, 433, 516, 518, 521522, 535, 551 Novaro Michele, 741 Omero, 76, 80, 83, 39, 392, 405, 412, 414, 437, 443, 444, 445, 448, 456, 458, 459, 497, 515, 753, 764, 773, 785, 918 Orazio Flacco Quinto, 73, 148, 224, 313, 417, 857, 858, 908 Orchi Emanuele, 47 Oroboni Antonio Fortunato, 743 Ovidio Nasone Publio, 72, 168, 372, 376, 429, 775, 784, 881 Owen Robert, 486, 494, 508, 509 Pagani Giovan Battista, 644, 646 Pagano Francesco Mario, 218

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Painter William, 159 Pallavicini Ferrari Luigia, 898 Pallavicino Ferrante, 44 Pampaloni Geno, 623 Paolo III, papa, 30, 31, 120 Paolo V, papa, 82 Parini Giuseppe, 208, 214, 223, 224, 225, 229, 232, 310-339, 410, 412, 413, 414, 422, 423, 424, 428, 442, 448, 451, 455, 463, 471, 629, 667, 738, 753, 791, 822 Paruta Paolo, 47 Pascal Blaise, 28, 622 Pascoli Giovanni, 76, 915, 918, 922 Pausania, 454 Pellegrino Camillo, 53 Pellico Silvio, 502, 507, 545, 546, 547, 551, 577, 736, 737, 743-746, 750, 853, 874 Pepe Guglielmo, 567 Peri Iacopo, 47, 191, 192, 195 Pericle, 386 Perrault Charles, 45 Pers Ciro di, 46, 68 Persio Flacco Aulo, 321, 337, 392 Pescetti Orlando, 159 Petrarca Francesco, 28, 54, 56, 57, 59, 77, 91, 192, 224, 238, 240, 243, 250, 313, 322, 350, 353, 379, 430, 432, 434, 435, 439, 443, 446, 453, 455, 467, 471, 536, 738, 750, 763, 772, 778, 787, 794, 797, 801, 841, 857, 858, 872, 891, 894, 911, 912, 914, 915, 917, 918, 919, 922, 923 Petrini Domenico, 335-336 Petronio Gaio, Petronio Arbitro, 100 Petronio Giuseppe, 330 Pico della Mirandola Giovanni, 162 Piermarini Giuseppe, 312 Pikler Teresa, 386, 410 Pindaro, 313, 442 Pindemonte Ippolito, 227, 229, 230, 400, 401, 406, 410, 411, 440, 441, 443, 444, 445, 446, 454, 456, 472 Pio IV, papa, 30 Pio VI, papa, 383, 386 Pio IX, papa, 488 Pirandello Luigi, 175, 283, 923 Piranesi Giovanni Battista, 384, 406 Pisacane Carlo, 492, 494, 495, 509, 734 Platone, 453 Plauto Tito Maccio, 151, 184, 279 Plotino, 822 Plutarco, 153, 313, 341, 356, 412, 414, 872 Poe Edgar Allan, 507, 553, 554, 596599, 618, 721 Poerio Alessandro, 547 Polanski Roman, 595 Poliziano Agnolo Ambrogini, detto il, 64, 192, 540, 891 Pomilio Mario, 630 Pompadour Jeanne Antoinette Poisson, marchesa di, 254 Pope Alexander, 76, 219, 259, 313, 322 Porro-Lambertenghi Luigi, 545 Porta Carlo, 191, 549-550, 735 Prati Giovanni, 502, 507, 547, 551, 734, 735, 750 Prete Antonio, 832 Prina Giuseppe, 622, 708, 711

Proudhon Pierre Joseph, 486, 494, 508, 509 Proust Marcel, 874 Pulci Luigi, 76, 103 Puoti Basilio, 385, 548, 738 Puškin Aleksandr Sergeevicˇ, 175 Quasimodo Salvatore, 874 Quesnay François, 214 Quevedo y Villegas Francisco Gómez de, 54, 86, 89-90, 94, 98 Rabelais François, 223, 252 Racine Jean, 38, 49, 173, 177, 178179, 194 Radcliffe Ann, 229, 397, 507, 553 Radetzky Johann Joseph, conte di Radetz, 488 Rambouillet Catherine de Vivonne, marchesa di, 38 Ranieri Antonio, 753, 755, 762, 768, 819, 821, 832, 840 Redi Francesco, 30, 42, 46, 49, 237 Rembrandt, Harmenszoon van Rijn, 28, 48, 888 Reni Guido, 29 Renoir Pierre-Auguste, 908 Riccardo I, re d’Inghilterra, Riccardo Cuor di Leone, detto, 530, 556, 558 Richardson Samuel, 223, 232, 253, 254, 267-270, 271, 272, 851 Richelieu, cardinale, 25, 60, 69, 177 Rinaldi Cesare, 29 Rinuccini Ottavio, 39, 47, 49, 192, 193, 195 Ripamonti Giuseppe, 674, 713 Robespierre Maximilien-FrançoisIsidore de, 207 Rolli Paolo, 238, 239-240, 250 Romanov Alessandro I, zar di Russia, 606, 607 Roncioni Isabella, 410, 415 Ronsard Pierre de, 72, 73 Rosa Salvatore, 29, 888 Rosmini Serbati Antonio, 623 Rossini Gioacchino, 508 Rousseau Jean-Jacques, 204, 208, 211, 212, 214, 215-216, 218, 223, 229, 231, 232, 252, 253, 272, 343, 491, 497, 517, 571, 572, 650, 753, 757, 873, 892, 895-897 Rubens Pieter Paul, 28, 48 Rucellai Giulio, 284 Ruskin John, 524 Russo Luigi, 698 Ruysch Federico, 823 Ruzante, Angelo Beolco, detto il, 187 Saba Umberto, 874, 886-887 Sacchetti Roberto, 104, 917 Sacchi Antonio, 275 Saffo, 419, 430, 431, 764, 771, 775 Sagredo Giovanni Francesco, 118 Saint-Simon Claude-Henry de Rouvroy conte di, 494, 508, 509, 873 Salgari Emilio, 590 Sallo Denis de, 851 Saluzzo Roero Diodata, 400 Sand George, Amandine-Lucie-Aurore Dupin, detta, 893 Sannazaro Jacopo, 100, 236, 540

INDICE

DEI NOMI

927

Sanzio Raffaello, 136 Sapegno Natalino, 349, 714 Sarpi Paolo, 30, 31-32, 40, 41, 44, 47, 48, 49, 118, 124 Sarro Domenico Natale, 244 Sassoli Angelo, 415 Saussure Ferdinand de, 917, 921 Savoia Carlo Alberto di, 488, 492, 509, 637, 729 Savoia Carlo Emanuele I di, 30, 48, 53, 69, 72, 77, 84 Savoia Carlo Emanuele III di, 877 Savoia Carlo Felice, 487 Savoia Margherita di, 192 Savoia Maurizio di, cardinale, 77, 83 Savoia Vittorio Amedeo II di, 26 Savoia Vittorio Emanuele I di, 487 Savoia Vittorio Emanuele II di, 488, 509 Scala Flaminio, 187, 193 Scève Maurice, 536 Schelling Friedrich Wilhelm Joseph, 497, 501, 516, 517, 518, 551 Schiller Friedrich, 230, 515, 516, 517, 535, 542 Schlegel August Wilhelm von, 497, 498, 510, 515, 516, 518, 535, 542, 551, 622 Schlegel Friedrich von, 497, 498, 501, 510, 515, 516, 518-520, 535, 542, 551 Schopenhauer Arthur, 770 Schütz Heinrich, 894 Sciesa Amatore, 703 Scipione Africano, Publio Cornelio, 741 Scott Walter, 507, 530, 533, 535, 551, 553, 555, 556-560, 585, 618, 674, 681, 687, 730, 735, 872, 921 Segneri Paolo, 47 Sempronio Giovan Leone, 76 Seneca Lucio Anneo, 38, 151, 334, 356, 872 Senofonte, 831 Serbelloni Gabrio, 311 Settala Lodovico, 46, 714 Settembrini Luigi, 507, 547, 737, 750, 874 Sforza Pallavicino Pietro, 40, 47 Shakespeare William, 38, 39, 49, 91, 146-172, 173, 194, 238, 515, 517, 518, 603, 651, 856, 872 Shaw George Bernard, 175, 881 Shelley Mary, Mary Godwin Wollstonecraft, detta, 507, 525, 531, 535, 551, 553, 596, 618, 892 Shelley Percy Bysshe, 508, 524, 525, 531, 535, 551 Silva Ercole, 450 Silva Feliciano de, 102, 103 Simonide di Ceo, 764, 768 Sismondi Jean-Charles-Léonard Simonde de, 649, 726 Šklovskij Viktor Borisovicˇ, 98, 609 Sleidano Giovanni, Johann Philippson, detto, 31 Smith Adam, 214, 484 Socrate, 133, 134 Sofocle, 186, 194, 356 Spallanzani Lazzaro, 230 Spathis Diamantina, 409, 440

928 INDICE DEI NOMI

Spencer Herbert, 503 Sperry Roger, 212 Spinoza Baruch, 28, 48 Spitzer Leo, 102 Spongano Raffaele, 142 Staël Anne Louise Germaine Necker, Madame de, 386, 490, 502, 510, 531, 535, 537, 539, 540-541, 545, 551, 622, 626, 650, 673, 760, 853, 893 Stahl Georg, 388 Steele Richard, 211, 219, 851, 859861, Stella Antonio Fortunato, editore, 753, 754, 821 Stendhal, Henri Beyle, detto, 44, 386, 507, 510, 553, 556, 561, 575-578, 583, 618 Sterne Laurence, 223, 230, 232, 253, 271, 272, 411, 461, 462, 463, 472, 873, 882-884 Stevenson Robert Louis, 554, 596 Stigliani Tommaso, 40, 47, 68, 76 Stoker Bram, Abraham Stoker, 596 Stolberg-Gedern Luisa, contessa d’Albany, 340, 342, 343, 344, 353, 372, 379 Stoppani Antonio, 630 Straparola Giovan Francesco, 159 Striggio Alessandro, 64, 192, 193, 195 Strozzi Giulio, 192 Stuart Giacomo II, re d’Inghilterra, 25, 263 Stuart Mary, Maria Stuarda, 185 Sue Eugène, 590 Svetonio Tranquillo Caio, 872 Svevo Italo, Ettore Schmitz, detto, 874, 921 Swift Jonathan, 41, 219, 223, 232, 252, 253, 254, 259-263, 271, 272, 828 Tacito Cornelio, 41, 43, 355, 424, 425 Taine Hyppolyte-Adolphe, 503, 589 Talbot William, 589 Tanucci Bernardo, 218 Tanzi Carlo Antonio, 549 Targioni Tozzetti Fanny, 755, 758, 767, 769, 808, 841 Tarleton Richard, 159 Tasca Vincenzo, 693 Tassi Agostino, 908 Tasso Torquato, 28, 52, 53, 57, 59, 68, 76, 84, 91, 117, 192, 224, 236, 243, 313, 432, 763, 764, 772, 787, 823, 841, 894 Tassoni Alessandro, 30, 40, 46, 47, 48, 76, 77-83, 84 Telesio Bernardino, 31, 130, 131 Teocrito, 222, 236, 394 Teognide, 447 Teotochi Albrizzi Isabella, 410, 411, 441, 446 Terenzio Afro Publio, 279 Tesauro Emanuele, 35, 36-37, 39, 40, 44, 46, 54 Testi Fulvio, 46, 71, 72, 84 Thackeray William Makepeace, 890 Thorvaldsen Bertel, 384, 406 Tïeck Ludwig, 516 Tiraboschi Girolamo, 229 Tirso de Molina, Gabriel Téllez, 38, 174, 175, 187, 194

Tolstoj Lev Nikolaevicˇ, 504, 507, 510, 553, 554, 556, 557, 573, 605-609, 618, 874 Tommaseo Niccolò, 502, 507, 555, 615-617, 618, 683, 727, 754 Torelli-Viollier Eugenio, 853 Torricelli Evangelista, 42, 46, 120, 391 Tosi Luigi, 622 Trissino Gian Giorgio, 76 Tudor Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 147, 148, 151, 174, 185, 194 Turner William Joseph Mallord, 501 Ungaretti Giuseppe, 38, 87, 149, 150, 648-649, 780, 874 Urbano VIII, Maffeo Barberini, papa, 117, 129, 143 Varrone Marco Terenzio, 872 Vasari Giorgio, 872 Vecellio Tiziano, 136 Vega Carpio Lope Félix de, 38, 49, 174, 175, 194, 279 Velázquez Diego, 28, 48 Vendramin Antonio, 275, 276, 307 Verdi Giuseppe, 508, 623, 749 Verga Giovanni, 589 Verlaine Paul, 38, 87 Vermeer Jan, 28, 48 Verne Jules, 554, 596 Verri Alessandro, 217, 229, 232, 401, 406, 548, 853, 856-859 Verri Giovanni, 621, 668 Verri Pietro, 217, 219-220, 230, 232, 311, 312, 401, 406, 674, 853, 856 Vico Giambattista, 209, 218, 223, 229, 231, 412, 414, 449, 471, 515, 544, 621, 753, 873 Vieusseux Giovan Pietro, 385, 550, 615, 853 Vigny Alfred de, 532, 535 Villani Nicola, 40, 76 Virgilio Marone Publio, 222, 224, 236, 243, 244, 313, 782, 806, 857 Virzì Paolo, 910 Visconti Ennio Quirino, 392 Visconti Ermes, 502, 674, 675 Voltaire François-Marie Arouet, detto, 100, 210, 211, 212, 214, 223, 229, 231, 232, 252, 253, 254-258, 392, 828 Walpole Horace, 229, 397, 401, 406, 507, 553 Wells Herbert George, 554 Wieland Christoph Martin, 45 Winckelmann Johann Joachim, 226, 228, 230, 232, 313, 378, 383, 384, 392, 401, 406, 818 Wölfflin Heinrich, 27 Wollstonecraft Godwin Mary, 892 Wordsworth William, 499, 523, 524, 535, 551 Young Edward, 227, 229, 232, 397, 401, 406, 496 Zappi Giambattista Felice, 238, 250 Zeno Apostolo, 230, 241, 244, 250 Zola Émile, 507, 554, 561, 580, 582, 583, 588, 589 Zuccolo Ludovico, 46

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