L'etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia 8842066559, 9788842066552


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L'etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia
 8842066559, 9788842066552

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Percorsi 37

ANTROPOLOGIA

Serie diretta da Francesco Remotti

VOLUMI PUBBLICATI

Stefano Allovio

La foresta di alleanze. Popoli e riti in Africa equatoriale Pier Paolo Viazzo

Introduzione all’antropologia storica Leonardo Piasere

L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia Adriano Favole

Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte Alessandro Gusman

Antropologia dell’olfatto Leonardo Piasere

I rom d’Europa. Una storia moderna Chiara Pussetti

Poetica delle emozioni. I Bijagó della Guinea Bissau Maria Arioti

Introduzione all’antropologia della parentela

Leonardo Piasere

L’etnografo imperfetto Esperienza e cognizione in antropologia

Editori Laterza

© 2002, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2002 Terza edizione 2007 L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere la debita autorizzazione. Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2007 Digital Print Service srl Via Torricelli, 9 - 20090 Segrate (MI) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-6655-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Prologo

L’etnografo di Jorge Luis Borges*

«Il fatto mi è stato raccontato nel Texas, ma era avvenuto in un altro stato. Ha un solo protagonista, ma in qualsiasi storia i protagonisti sono migliaia, visibili e invisibili, vivi e morti. Si chiamava, credo, Fred Murdock. Era alto come lo sono di solito gli americani, né biondo né bruno, di profilo tagliente, di poche parole. Non aveva nulla di singolare, neppure la finta singolarità che è propria dei giovani. Naturalmente rispettoso, prestava fede ai libri e a coloro che scrivevano i libri. La sua età era quella in cui l’uomo non sa ancora chi è ed è pronto a darsi a ciò che il caso gli mette di fronte: la mistica del persiano o la sconosciuta origine dell’ungherese, le avventure della guerra o dell’algebra, il puritanesimo o l’orgia. All’università gli consigliarono lo studio delle lingue indigene. In certe tribù dell’Ovest sopravvivono alcuni riti esoterici; il suo professore, un uomo d’età, gli propose di andare a vivere in una riserva, di osservare quei riti e di scoprire il segreto che gli stregoni rivelano all’iniziato. Al ritorno, avrebbe scritto una tesi che sarebbe stata pubblicata dall’istituto. Murdock accettò, pieno di zelo. Uno dei suoi antenati era morto nelle guerre della frontiera; quell’antica discordia delle sue stirpi diveniva ora un vincolo. Previde, certo, le difficoltà che lo attendevano; doveva far sì che i pellirosse lo accettassero come uno dei loro. Dette inizio alla lunga avventura. Più di due anni abitò nella prateria, in capanne fatte con mattoni di fango o all’intemperie. Si levava prima dell’alba, si coricava all’annottare, giunse a sognare in una lingua che non era quella dei suoi. Assuefece il palato a sapori aspri, si coprì con vesti strane, dimenticò gli amici e la città, giunse * Questo racconto è stato pubblicato per gentile concessione di The Wylie Agency, Inc., New York. La traduzione italiana è di Francesco Tentori Montalto, edita in Elogio dell’ombra, Einaudi, Torino 1998. V

a pensare in un modo che la sua logica respingeva. Durante i primi mesi di apprendistato prendeva segretamente note, che in seguito distrusse, forse per non destare il sospetto degli altri, forse perché non ne aveva più bisogno. Al termine di un periodo predeterminato per mezzo di esercizi di natura morale e fisica, il sacerdote gli ordinò di ricordare i propri sogni e di confidarglieli al mattino. Accertò che nelle notti di luna piena sognava bisonti. Confidò codesti sogni ripetuti al maestro; questi finì col rivelargli la sua dottrina segreta. Una mattina, senza essersi congedato da alcuno, Murdock partì. In città, sentì la nostalgia di quelle prime sere nella prateria in cui aveva sentito, un tempo, la nostalgia della città. Si recò nello studio del professore e gli disse che conosceva il segreto e che aveva deciso di non rivelarlo. – La lega un giuramento? – domandò l’altro. – Non è questa la ragione, – disse Murdock. – In quelle terre remote ho imparato qualcosa che non posso dire. – Forse la lingua inglese non basta a esprimerlo? – osservò l’altro. – Non si tratta di questo, signore. Ora che possiedo il segreto, potrei enunciarlo in cento modi diversi e anche contraddittori. Non so come dirle che il segreto è prezioso e che ora la scienza, la nostra scienza, mi sembra nient’altro che futile. Aggiunse dopo una pausa: – Il segreto, d’altronde, vale meno delle vie che mi hanno condotto ad esso. Quelle vie bisogna averle percorse. Il professore gli disse con freddezza: – Comunicherò la sua decisione al Consiglio. Lei pensa di andare a vivere tra gli indiani? Murdock gli rispose: – No. Forse non tornerò nella prateria. Ciò che mi hanno insegnato i suoi uomini vale per qualunque luogo e per qualunque circostanza. Tale fu, in essenza, il dialogo. Fred si sposò, divorziò, ed ora è uno dei bibliotecari di Yale.»

L’etnografo imperfetto Esperienza e cognizione in antropologia

Capitolo primo

Degli esperimenti in antropologia

1. Famiglie di concetti Sotto il riconosciuto influsso di Wittgenstein, ma una ventina d’anni prima della pubblicazione delle Philosophische Untersuchungen, Friedrich Waismann introduceva nel 1936 la famosa metafora delle «somiglianze di famiglia», quelle che chiama famiglie di concetti. Così il lettore italiano ne veniva a conoscenza nella traduzione italiana di Ludovico Geymonat: Il nostro pensiero può venire espresso così: «i vari concetti di numero (numero cardinale, numero intero, ecc.) formano una famiglia, i cui membri hanno gli uni con gli altri una certa somiglianza famigliare». In che consiste la somiglianza reciproca dei membri di una famiglia? Alcuni hanno lo stesso naso, altri le stesse sopracciglia, altri lo stesso modo di camminare ecc.; e, di queste somiglianze, una non esclude l’altra. Non possiamo affermare affatto che tali componenti abbiano tutti in comune una certa proprietà; e se anche esistesse questa proprietà comune, nulla ci assicura che essa sola esaurirebbe in sé tutta la somiglianza famigliare. Proprio in questo significato, noi diremo che il termine «numero» non denota un concetto (nel senso della logica classica), ma una «famiglia di concetti». Con ciò vogliamo affermare che i diversi tipi di concetti sono legati l’uno all’altro in modi diversi, non essendo affatto necessario che essi posseggano tutti una stessa proprietà né uno stesso carattere. La medesima cosa può ripetersi per i termini «aritmetica», «geometria», «calcolo», «operazione», «dimostrazione», «problema» ecc. Essi denotano «famiglie di concetti», e non ha alcun interesse il discutere sulla loro precisa delimitazione. Se – poniamo – si vuol spiegare il concetto di aritmetica, ci si riferirà a qualche esempio concreto, e si estenderà poi il concetto in questione fin dove si estende la somiglianza con gli esempi considerati. Il carattere di indeterminatezza proprio di questi concetti ha,

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del resto, esso pure il suo lato vantaggioso; dobbiamo infatti a tale carattere se la nostra lingua riesce ad inserire nuove scoperte in schemi già noti (1944: 315-316).

Riporto per esteso questo passaggio perché vi compaiono chiaramente riuniti molti aspetti su cui la presente opera avrà modo di tornare spesso: che cosa significa «indeterminatezza»? Che cosa vuol dire «inserire nuove scoperte in schemi già noti»? E soprattutto, che cosa si deve intendere per «fin dove si estende la somiglianza»? Perché le somiglianze di famiglia (nasi, sopracciglia, modi di camminare) sono simili alle somiglianze matematiche (numeri cardinali, interi ecc.)? Possono essere due numeri simili tra loro così come lo possono essere due nasi? Fra i Na della Cina meridionale, presso cui pare non esista quella che noi chiamiamo «famiglia» (Hua 1997), come chiamerebbe un filosofo locale le somiglianze di famiglia? Oltre che per tutto questo, ho riportato le parole di Waismann perché voglio servirmi del concetto di «famiglia di concetti» fin da subito, anche se, usandolo come concetto d’entrata alle mie argomentazioni antropologiche, esso dovrà subire un inesorabile processo di trasfigurazione. Dato il suo carattere creativo e aperto e in fin dei conti non autoritario1, esso qui viene adoperato come primo mattone per un’antropologia che vuole essere certo non autoritaria, ma anche al contempo ottimistica, appassionata ed emotivamente carica, diversamente da certe posizioni postmoderniste che preconizzano una sua imminente catastrofe millenaristica. 2. Dell’esperimento Evitando i fondamentalismi postmodernisti per tutto ciò che anche lontanamente può odorare di «scientifico» e mantenendo una disposizione aperta e flessibile, quello che per il momento mi interessa sono i termini «esperimento», «sperimentale» e simili. Non mi interessa metterli a fuoco, ma cercare di capire se i casi canonici degli 1 Il concetto di «somiglianza di famiglia» è spesso usato oggi dagli antirazionalisti o dai quasirazionalisti o dai relativisti nella loro polemica coi razionalisti, ma fin dal 1945 Geymonat inscrisse il contributo di Waismann nell’ambito della costruzione di un «nuovo razionalismo». Ciò è significativo della posizione di ponte che il concetto intrinsecamente riveste.

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esperimenti fisici, che ne sono in qualche modo i casi esemplari, possono «estendere la somiglianza» all’ambito antropologico. Basta aprire un dizionario per accorgerci che «esperimento» rimanda ovviamente a una famiglia di concetti e sarebbe facile dimostrare che i suoi confini sono sfumati poiché il significato varia da un contesto d’uso all’altro. Ma anche nel contesto delle scienze della natura il suo significato è storicamente cambiato. Bacone, nel Novum Organum, considerava la prova con l’aiuto di apparati tecnici, cioè l’esperimento, il momento di controllo dei dati dell’esperienza previamente sottoposti a osservazione e catalogazione. Anche il famoso metodo sperimentale di Galileo è teso a provocare la natura costruendo un fenomeno artificiale, ma qui all’unione di esperienza e ragione si aggiunge l’uso omogeneizzante della matematica, uno strumento intellettuale potente che permetterà, nel corso della successiva storia della scienza della natura, la transcodifica di fatti appartenenti a domini esperienziali diversi. Tra Ottocento e Novecento il metodo sperimentale e il concetto di esperimento sono stati sottoposti a decostruzioni profonde e hanno suscitato dibattiti aspri. Da Duhem a Dingler a Poincaré, per non citarne che pochi, si è messo in discussione il valore dell’esperimento come strumento per conoscere la realtà e si è dimostrata la sua stretta correlazione con la teoria che lo supporta. L’evento decisivo che ha portato il consenso generale in questa direzione è stata la proposta del principio di indeterminazione di Heisenberg: in microfisica, dimostra lo scienziato, l’osservazione sperimentale modifica il campo osservato. Nonostante la conoscenza dei limiti degli esperimenti faccia ormai parte dell’epistemologia del metodo sperimentale, gli esperimenti restano un momento edificante di tante scienze, non solo della natura (si pensi ad esempio alla propinazione dei test in psicologia), tanto che la figura dello «scienziato» resta strettamente associata a una persona che «fa esperimenti». Dove si fanno gli esperimenti? Ovunque si possono fare, certo, ma il più delle volte si fanno in un luogo ad hoc, specificatamente attrezzato per questo: il laboratorio. L’idea di laboratorio è strettamente associata all’esperimento, all’«analisi di sostanze», come pure alla vita dello scienziato. Lo scienziato è uno che fa esperimenti in laboratorio – scienziati pazzi compresi. Perché il laboratorio artificiale? Il problema è quello del controllo delle variabili: fuori, nel mondo, succedono troppe cose che non si possono tenere sotto controllo, ad esempio non si può spegnere il so5

le con un interruttore se non si ha bisogno di luce, un deumidificatore mi serve a ben poco se sono all’aperto in mezzo alla nebbia della Val Padana ecc. I laboratori, invece, sono costruiti per tener sotto controllo certi eventi fisici. In laboratorio controllo la natura, la manipolo, la «provoco» a mio piacimento in base a quello che voglio ricercare. Dopo di che, attraverso processi inferenziali a volte complessi, tento di capire come «è» la natura di fuori, attraverso il modo in cui si è comportata la natura provocata di dentro. E se altri non ci credono, rifacciano l’esperimento (che è rifattibile) o vi trovino le pecche. Poi, ci accapiglieremo nelle riviste scientifiche… 3. Prestigiatori e laboratori La correlazione tra l’esperimento nelle scienze della natura e la ricerca sul campo in antropologia è stata fatta praticamente subito, appena si è imposta l’osservazione prolungata sul campo. Nella famosa Introduzione di Argonauti del Pacifico occidentale, la monografia etnografica del 1922 che – si può dire – ufficialmente fonda e diffonde la ricerca prolungata sul campo, Malinowski traccia in modo chiaro il parallelo: Nessuno si sognerebbe mai di dare un contributo sperimentale alla fisica o alla chimica senza fornire un resoconto dettagliato di tutti i preparativi degli esperimenti e una descrizione esatta degli strumenti adoperati, del modo in cui le osservazioni sono state condotte, del loro numero, della quantità di tempo ad esse dedicata e del grado di approssimazione con cui è stata eseguita ciascuna misurazione. In altre scienze meno esatte, come la biologia o la geologia, questo non si può fare con lo stesso rigore, ma ogni studioso farà del suo meglio per rendere comprensibili al lettore tutte le condizioni in cui l’esperimento o le osservazioni sono state compiute. In etnografia, dove è forse anche più necessaria, un’esposizione senza pregiudizi di tali dati non è mai stata fornita in passato con sufficiente generosità e molti autori non illuminano con piena sincerità metodologica i fatti in mezzo ai quali si muovono, ma ce li presentano piuttosto come se li tirassero fuori dal cappello del prestigiatore (1978: 30).

Sei anni dopo, nel 1928, esce il famoso studio di Margaret Mead sui Samoani, compiuto «per effettuare l’incarico datomi dal mio professore, Franz Boas: investigare in che misura lo Sturm und Drang dell’adolescenza in una cultura come la nostra abbia origini biologi6

che e in che misura venga modificato dalla cultura nella quale l’adolescente è stato allevato» (1979: 27). Nel testo l’autrice dichiara esplicitamente di condurre un esperimento con tanto di gruppo di controllo, quasi come avviene in psicologia, che falsifica la teoria dell’universalità delle turbe dell’adolescenza, descrivendo, come è noto, ragazzi e soprattutto ragazze liberi da tabù, sereni e felici… Questo metodo di operare delle sezioni trasversali e prendere esemplari di individui in periodi diversi di sviluppo fisico e arguirne che il gruppo attualmente in uno stadio di minore sviluppo mostrerà in seguito le caratteristiche che si notano presentemente in un altro gruppo in uno stadio più avanzato, è certamente inferiore a uno studio lineare, nel quale lo stesso gruppo rimane sotto osservazione per degli anni […] Si deve osservare inoltre che il carattere quasi drastico delle conclusioni, le pochissime eccezioni che è stato necessario di fare, confermano la validità delle dimensioni dell’esperimento. Il metodo a sezioni trasversali fu adottato, naturalmente, per ragioni di opportunità, ma i risultati, se dedotti accuratamente da esemplari appropriati, possono stare a paragone dei risultati ottenuti seguendo il metodo lineare […]. Il collegio del pastore, per ragazze che avevano passato la pubertà, mi fornì in certo modo un gruppo di controllo (1954: 202-203, 205).

Sotto l’ispirazione di Boas stesso, la visione del terreno come laboratorio a cielo aperto, in cui l’antropologo farebbe esperimenti controllati come quelli di Mead, si ritrova nella scuola boasiana implicitamente o, come ad esempio in Herskovits (1948: 79), esplicitamente. E da lì è forse emigrata in Francia via Lévi-Strauss. Nell’antropologia francese l’equazione terreno = laboratorio è largamente sostenuta, come indica anche il titolo di un famoso manuale universitario degli anni Settanta, Il laboratorio dell’etnologo, curato da Cresswell, il quale scriveva: L’importanza del lavoro sul campo è ciò che caratterizza l’etnologia in rapporto alle altre scienze. Al contrario di queste, la dialettica fra teoria e raccolta dei fatti avviene durante la ricerca sul campo; talvolta anche la raccolta quotidiana delle osservazioni provoca importanti cambiamenti nell’orientamento teorico della ricerca, questo è il motivo per cui l’etnologia considera il campo come un laboratorio (1981: 30).

Inoltre, il termine è correntemente usato per definire i centri di ricerca stessi. A partire dalla creazione del famoso Laboratoire 7

d’Anthropologie sociale a opera di Lévi-Strauss al Collège de France, il numero dei laboratori di antropologia si è moltiplicato e avere il «proprio» laboratoire è un’aspirazione di molti direttori di ricerca. Questa inclinazione è evidente anche da un altro termine spesso usato ai giorni nostri, quello di atelier: i colleghi francesi fanno spesso degli ateliers, oltre che dei seminari. Il termine significa «bottega» e denota uno o più incontri di studio di tipo seminariale, spesso organizzati da un laboratoire, un laboratorio. Che esperimenti si fanno in questi laboratori e in queste botteghe, o che cosa si «costruisce»? Essi non sono laboratori come gli altri, come riconosce Lévi-Strauss stesso in un’intervista: «Un biologo, un fisico non potevano lavorare senza laboratorio. Per un direttore di laboratorio ‘letterato’ come ero io, era diverso: se il laboratorio avesse cessato di esistere dall’oggi al domani, per il mio lavoro non sarebbe cambiato niente, o molto poco» (Lévi-Strauss e Éribon, 1988:119). 4. Il quasi-esperimento di Nadel Nell’esperimento fisico, si diceva, lo sperimentatore «provoca» in situazioni controllate la natura e ne analizza le risposte. Ma un antropologo può realmente creare una situazione controllata in cui provocare la sua «natura», cioè la gente che studia, per analizzare le risposte? Il terreno è solo metaforicamente un laboratorio? C’è «qualcosa» dietro alla metafora, oltre al banale e sempre denunciato tentativo di mantenere l’antropologia fra le scienze naturali? Antropologi con una formazione epistemologica hanno denunciato chiaramente le «difficoltà» sperimentali della loro disciplina. Sigfried Nadel, antropologo austriaco e poi inglese, aveva studiato all’Università di Vienna con Schlick, uno dei padri del neopositivismo logico, e la sapeva lunga al riguardo. Nel suo Lineamenti di antropologia sociale (uscito in prima edizione inglese nel 1951), una poderosa introduzione all’approccio neopositivista in antropologia, egli dedica due capitoli all’«antropologia sperimentale», il cui incipit è il seguente: «È abbastanza vero che l’antropologia sociale non può ‘sperimentare’» (1979: 261). La struttura della frase è già illuminante, perché Nadel conferma un po’ («È abbastanza vero») la negazione che segue (l’antropologo non può fare esperimenti). Confermare parzialmente una negazione significa che essa non è com8

pletamente tale: cioè, in qualche modo, anche l’antropologo «sperimenta». Egli non farebbe, allora, come il fisico o il chimico, ma come l’astronomo. In astronomia «come nelle scienze umane l’induzione artificiale di variazioni nei fenomeni è sostituita dall’osservazione di fenomeni variabili» (ibidem), le cui correlazioni permetteranno poi la formulazione di generalità o leggi. La sperimentazione dell’antropologo consisterebbe quindi non nel provocare variazioni, ma nell’osservare variazioni. Nadel non si rendeva forse conto che l’analogia con l’astronomia era solo congiunturale: come la scienza spaziale ha poi insegnato, gli astronomi, appena ne hanno avuto i mezzi, non si sono lasciati sfuggire la possibilità di fare esperimenti. Mentre la situazione dell’antropologia è da questo punto di vista definitiva, «eterna». Comunque sia, per Nadel l’esperimento dell’antropologo sarà allora costituito dal metodo comparativo. Nella comparazione, tramite una selezione accurata dei fenomeni da analizzare e un isolamento controllato di tali fenomeni dai rispettivi contesti, si può arrivare alla «precisione di un metodo quasi-sperimentale» (ibidem). In particolare, il metodo quasi-sperimentale è attuabile grazie all’uso di uno dei quattro canoni che Mill enunciò per ottenere una spiegazione induttiva, quello delle variazioni concomitanti2. Scriveva il filosofo inglese: «Ogni fenomeno che vari in qualche modo ogniqualvolta vari in qualche modo particolare un altro fenomeno è una causa o un effetto di quel fenomeno, o gli è connesso per qualche fatto di causalità» (1968: 395). Nonostante lo stesso Mill reputasse che i suoi canoni fossero difficilmente applicabili alle scienze dell’uomo, dal momento che qui le cause presentano un «eccesso quasi senza limiti», mentre gli effetti «sono inestricabilmente intrecciati l’uno con l’altro» (ivi: 445), il canone delle variazioni concomitanti, già usato e raffinato da Durkheim, viene raccomandato da Nadel e verrà negli stessi anni ampiamente usato da Murdock (1971) nell’analisi dei sistemi di parentela attraverso estesi calcoli di coefficienti di correlazione. Nadel semplificava in queste due formule le correlazioni con due covarianti e a contesto indefinito (dove ° indica l’assenza del fatto) (1979: 269): 2 Gli altri tre canoni sono quello della concordanza, quello della differenza e quello dei residui.

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A … con (XYZ) … con B A … con (XYZ) … con B° A° … con (XYZ) … con B° A° … con (XYZ) … con B. Che i canoni di Mill, fra cui quello delle covariazioni, rientrino nell’ambito delle teorie della spiegazione causale più che in quelle del metodo comparativo è stato rilevato da diversi autori. Ma è proprio con questo fine, ossia quello di avere delle spiegazioni causali, che Nadel lo consiglia per i quasi-esperimenti dell’antropologo. Ma Nadel, oltre che epistemologo, è «troppo» antropologo per non capire il vero limite dell’applicazione del canone delle covariazioni. Prima di scrivere il libro che stiamo considerando, egli aveva passato due anni della sua vita fra i Nupe della Nigeria e altri due fra i Nuba del Sudan meridionale. L’esperienza sul campo gli aveva insegnato – ed è fra i primi a denunciarlo – che non è così facile individuare l’«essenza» dei fenomeni o dei gruppi sociali. Famosa è diventata la sua critica al concetto di «tribù» formulata nel 1947: L’uniformità linguistica e culturale, allora, non implica il riconoscimento dell’unità tribale – almeno entro certi limiti – così come non la preclude. È infatti facile constatare che la cultura e il linguaggio non forniscono criteri infallibili dell’identità tribale, dal momento che tanto la cultura quanto il linguaggio ammettono gradi e sfumature di uniformità e di diversità: mentre il concetto tribale tende verso una più netta cristallizzazione – o si è o non si è membri della tribù. L’idea tribale, perciò, è radicata in una teoria della diversità culturale, la quale ignora o scarta le variazioni esistenti come se non esistessero, e ignora e sottovaluta le uniformità al di là dei confini che essa stessa si è data. La tribù esiste non in virtù di una qualche unità o somiglianza oggettiva, ma in virtù di un’unità ideologica, e di una somiglianza accettata come un dogma (cit. in Fabietti 1995: 58-59).

Notiamo che il metodo delle covariazioni non riconosce quello che possiamo chiamare l’«effetto cicogna», cioè le correlazioni insostenibili o sostenibili solo all’interno di contesti fantastici: Devereux (1984: 53) sottolinea che sarebbe possibile dimostrare che i bambini in Scandinavia sono portati dalla cicogna, visto che il culmine della curva delle nascite in quella regione è statisticamente in stretta correlazione col periodo di migrazione delle cicogne stesse! A parte questo e altri limiti del metodo, a mio avviso, è la sua esperienza di etnografo che fa mettere a Nadel i puntini sulle i. Il me10

todo delle covariazioni, egli dice, presuppone tre cose: 1) che vi è un’ipotesi sul tipo di correlazione da fare, 2) che le situazioni sociali non sono pensate essere casuali e 3) che «lo studio delle covariazioni è vincolato a giudizi sull’identità e differenza dei fatti sociali» (1979: 264). Dei tre punti, l’ultimo è il più importante perché solo un antropologo con una lunga esperienza etnografica poteva sottolinearlo. Ritornando alle sue riflessioni sul concetto di «tribù», una domanda potrebbe essere: come faccio a comparare se non so identificare dove finisce una tribù? Le condizioni che egli sottolinea, quindi, sono di fondamentale importanza e le ritroveremo ben al di là della problematica dell’esperimento. Dice Nadel: «Questi giudizi, inoltre, devono essere tali da consentire un accordo generale su di essi, altrimenti lo studio delle covariazioni si ridurrebbe a valutazioni personali di singoli osservatori». Inoltre, «lo studio delle covariazioni è vincolato, più specificamente, a giudizi sull’analogia e identità parziale, il concetto stesso di variazioni implicando un’uguaglianza di fatti che tuttavia permette una certa dose di differenza» (ibidem; corsivo mio). In presenza di identità parziali, se i fatti «si ricalcano» in particolari rilevanti, allora possiamo parlare di identità «essenziale». Ora, sottolinea l’autore, non solo il criterio di rilevanza è soggettivo, ma anche e automaticamente «i confini di ogni presunta identità ‘essenziale’ sono stabiliti dai concetti che elaboriamo per classi di fenomeni e dai nomi che diamo loro» (ibidem; corsivo mio). In altre parole, si direbbe oggi, l’identità dei fenomeni sociali è una costruzione. Di conseguenza, ma Nadel qui si censura, una volta accettato il giudizio sull’identità e la differenza, si può operare l’analisi delle variazioni concomitanti, il quasi-esperimento; ma dal momento che il giudizio è basato su una costruzione dei fatti sociali, il quasi-esperimento sarà la costruzione su costruzioni precedenti. È il cripto-costruzionismo di Nadel. Molte volte si ha l’impressione che il Nadel antropologo sia prigioniero del Nadel neopositivista e che non riesca a risolversi ad «ammazzare il padre», ossia a liberarsi da schemi interpretativi che l’esperienza etnografica mal digerisce. È forse significativo che proprio nell’anno in cui esce il suo libro, il 1951, esce anche The structure of appearance di Nelson Goodman, un testo che con una discussione tutta interna alla logica dimostra come siamo noi che ci costruiamo i nostri mondi, in un modo o nell’altro, e che è sempre 11

possibile inventarne di nuovi. Il costruzionismo «costruito» del filosofo sarebbe stato molto utile al costruzionismo «vissuto» dell’etnografo. 5. Gli esperimenti culturali di D’Andrade Roy G. D’Andrade è una figura importante nell’antropologia statunitense contemporanea e avremo modo di citare spesso i suoi contributi nell’ambito degli studi di antropologia cognitiva. Per D’Andrade, l’antropologia cognitiva è «lo studio della relazione tra la società umana ed il pensiero umano» (1995: 1) e la sua nascita va situata nell’ambito di quel fondamentale cambiamento di paradigma, alla Kuhn, avvenuto negli anni Cinquanta che vide in diverse discipline il passaggio dallo studio del comportamento degli uomini a quello del significato che gli uomini danno ai comportamenti (ivi: 115). Nell’ambito dello studio del significato, quindi, si possono fare esperimenti? Visto che è difficile chiedere ai topolini da laboratorio che significato danno alle loro azioni con le varie levette delle loro labirintiche gabbie, come sostituirli? Qui D’Andrade ci interessa per la sua posizione su quelli che chiama gli esperimenti culturali. «Nello studio dell’interazione sociale o dei sistemi economici – dice D’Andrade – l’etnografo ha poche possibilità di usare tecniche sperimentali, poiché gli etnografi non hanno solitamente il potere di influenzare questi sistemi» (1997: 129). Ma è proprio vero che l’etnografo non ha il potere di «provocare» i fatti che studia? Sarà vero che l’antropologia «è la scienza dell’osservazione», ma «il semplice porre a qualcuno una domanda equivale a influenzarlo». Una domanda può essere considerata un esperimento? Un esperimento, secondo D’Andrade, non ha bisogno di laboratori o di condizioni particolari, ma solo di tre elementi: 1. «un’idea o un’asserzione riguardo certe cose o certi eventi»; 2. «un modo attraverso cui rapportare queste cose o questi eventi a operazioni e a osservazioni che possono essere condotte su qualcosa»; 3. «il potere di determinare quali e quando queste cose saranno sottoposte ad operazioni» (ivi: 130). Ecco allora che una domanda posta per capire qualcosa rappresenta «un’operazione sperimentale molto semplice» (ivi: 131), e gli 12

etnografi hanno almeno due buoni motivi per fare esperimenti simili: primo, perché può essere difficile poter osservare quanto interessa aspettando semplicemente che ciò accada: alcune cose «accadono» più facilmente se si fanno domande; secondo, è difficile capire sempre se tra X e Y c’è davvero una relazione, dal momento che nei contesti naturali dopo X si possono verificare anche A, B e C, oltre a Y: fare una domanda può essere utile per capire quale o quali di questi è reputato essere collegato a X. D’altra parte, sottolinea l’autore, i sistemi di significati culturali si prestano molto bene a questo tipo di sperimentazioni e le persone, anche quando non fanno gli etnografi, «si sperimentano vicendevolmente di continuo, ricorrendo ad una varietà di forme culturali; per esempio con domande dirette o indirette; esprimendo disapprovazione per ricordare una promessa fatta seriamente, con bugie tese a capire se una persona realmente sa qualcosa; trattenendo ammissioni o reazioni attese per scoprire se qualcuno sta dicendo qualcosa solo per produrre un effetto» (ibidem). Per cui, anche una domanda posta solo per sapere qualcosa, implica «prove sperimentali», e gli etnografi usano una strategia che mescola «tecniche sperimentali e semplici domande». E la strategia degli etnografi è semplicemente indotta dalla caratteristica intrinseca di ciascun sistema di significato che implica invariabilmente delle affezioni, nel senso che «gli uomini sembrano avere una risposta emozionale a quasi tutti gli stimoli» (ivi: 122). Questi esperimenti culturali, che seguono le modalità culturalmente accettate in una comunità, sono facilitati anche dal fatto che molte cose ritenute importanti in una cultura, come ad esempio l’anima o il successo, la gloria nazionale o la solidarietà tra i popoli, sono entità non visibili e richiedono una comunicazione nella lingua in cui vengono espresse. L’antropologia avrebbe quindi sviluppato inconsapevolmente «un genere molto particolare di sperimentazione, caratterizzata da un’enfasi sulla interazione verbale, su un rapporto con l’informatore indipendente dal vero e proprio esperimento» (ivi: 133). Nonostante questa assenza di consapevolezza, secondo D’Andrade, La possibilità di condurre esperimenti di un certo tipo per investigare i sistemi di significati, sia individuali che culturali, è condizione di sviluppo per qualunque tipo di scienza basata sul significato, perché consente l’investigazione dei sistemi interpretativi individuali. Attraverso la

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sperimentazione basata sull’informatore, è possibile analizzare ciò che sarebbe altrimenti difficile poter osservare, e distinguere situazioni altrimenti confuse. Questo tipo di indagine favorisce l’accesso ai sistemi di significati consentendo di capire, e anche predire, perché un particolare messaggio significa una cosa piuttosto che un’altra (ibidem).

Ma questa fiducia estrema sugli esperimenti culturali non nasconde forse, come vedremo, tanti dei problemi che gli stessi esperimenti culturali comportano? Se è effettivamente vero, come credo, che «la creazione di entità culturali richiede logicamente che le persone siano tenute a considerare equivalenti X e Y, e ad accettare le implicazioni che ne conseguono» (ivi: 119), è così agevole per l’osservatore, con le sue domande, capire a sua volta che X e Y sono equivalenti? Che cosa significa «equivalente» per due sistemi di significato non equivalenti? 6. Lo sperimentalismo testuale e la questione della finzione Margaret Mead voleva fare esperimenti controllati sul campo, Nadel voleva fare quasi-esperimenti col metodo delle variazioni concomitanti, D’Andrade prende la via degli esperimenti culturali. Completamente diverso è l’esperimento sollecitato dal cosiddetto testualismo antropologico. Corrente nata all’interno dell’antropologia ermeneutico-dialogica nordamericana, il suo oggetto d’analisi slitta dagli eventi etnografici alla resa scritta, dal processo di ricerca al prodotto della ricerca, come li definisce Agar (1996: 4): l’attenzione è posta in prima battuta sul testo, la monografia scritta, cioè il risultato ultimo (o penultimo…) derivato dalla ricerca sul campo, e in seconda battuta sui paratesti, su tutto ciò che un antropologo scrive (note di campo, diari più o meno personali, lettere ecc.). Gli strumenti d’analisi non sono più ricercati fra i teorici della scienza «dura» o delle scienze umane, ma in quelli della retorica, della stilistica e della critica letteraria. L’enunciato eponimo del movimento è forse la famosa frase (scritta, ovviamente) di un lavoro del 1973 di Geertz: «Che cosa fa l’etnografo? Scrive». Il quale continua in nota: O ancora, più esattamente «iscrive». In effetti la maggior parte dell’etnografia si trova nei libri e negli articoli, piuttosto che in film, dischi, esposizioni di musei o altro; ma anche nei libri e negli articoli vi sono natural-

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mente fotografie, disegni, diagrammi, tabelle e via dicendo. L’autoconsapevolezza degli antropologi circa le modalità di rappresentazione (per non parlare degli esperimenti su di esse) è stata finora molto carente (1987: 58).

Riflessioni simili sull’importanza della scrittura in quegli anni provenivano anche dalla Francia, con Derrida prima (1966) e con De Certeau dopo (1975). Ma i testi che guidano la «rivoluzione» sono senz’altro Writing culture, curato da Clifford e Marcus nel 1986 (risultato di un ormai famoso seminario sulla «costruzione del testo» tenutosi nel 1984 a Santa Fe) e il volume di Marcus e Fischer Anthropology as Cultural Critique, sempre del 1986. Le scienze sociali, scrivevano questi ultimi, sono in crisi e in particolare soffrono una crisi della rappresentazione: «la crisi sorge dall’incertezza sui mezzi adatti a descrivere la realtà sociale. Negli Stati Uniti si esprime con il fallimento dei paradigmi del dopoguerra, ovvero delle idee unificanti, in una vasta frantumazione settoriale che denota la società americana, se non tutte le società occidentali che sembrano oggi trovarsi in uno stato di accelerata transizione» (1998: 49). Per questo, gli autori sottolineano che il metodo di ricerca etnografico ha contribuito, oltre che a «cogliere la diversità culturale principalmente fra le popolazioni tribali e non occidentali», a costruire «una critica culturale di noi stessi, spesso sottostimata in passato, ma oggi spinta da un rinnovato potenziale di sviluppo». Per tutti questi motivi, «in questo saggio ci dedichiamo in modo particolare a uno soltanto dei due procedimenti della ricerca etnografica: l’etnografia come prodotto scritto del lavoro sul campo, piuttosto che come esperienza stessa del campo» (ivi: 65-66; corsivo mio). Che la ricerca etnografica preveda due stadi era convinzione degli autori: «prima l’andare sul campo, cioè trovare un luogo nel quale l’antropologo possa immergersi in un’altra cultura, poi tornarsene a casa per scrivere sulle conoscenze ottenute con il lavoro sul campo per specialisti e, talvolta, per un pubblico anche più ampio» (ivi: 86; corsivo nel testo). Quello che ne risulta è una sorta di «occidentalistica» di riflesso, di studio dell’Occidente attraverso l’analisi della resa testuale degli etnografi. I resoconti, infatti, in quanto manufatti scritti, devono per forza: 1) usare la scrittura, 2) sviluppare la narrativa con un certo stile e una certa retorica, 3) parlare dell’Altro etnografico, il quale, in quanto trasformato dalla retorica del testo, diventa automaticamente lo specchio dei rapporti Occidente/non Occidente. Ma studian15

do solo la retorica del testo, non si arriva forse a concentrarsi solo sulla forma a scapito del contenuto? Domanda cruciale a cui i diversi autori di questo approccio hanno risposto in modo diverso. Clifford, in diversi scritti degli anni Ottanta, sembra sposare una sorta di neoformalismo, posizione in parte mutata in seguito, come vedremo. Scriveva nel 1986: «certo, la nostra netta separazione tra forma e contenuto – e il nostro feticismo per la forma – era ed è criticabile: è un pregiudizio sicuramente presente nel ‘testualismo’ moderno» (1997a: 45). Lo considera un «fattaccio», ma non fa nulla per correggerlo: le sue opere sono accattivanti, scritte in uno stile invidiabile, decisamente belle, ma, come la faccia «facciosa» di Charlie Brown, i suoi testi sono «testosi». Non vi si parla di uomini, di sensazioni, di passioni, di vite vissute-con, ma di testi, di testi e di testi. Clifford fa finta di proporre uomini e donne, ma offre essenzialmente testi su altri testi, che, come i testi che analizza, sono dei grandi intrecci di tropi (cfr. in particolare 1993): un continuo raffronto tra i testi degli etnografi e quelli di scrittori sotto forma di analogie e metafore e sineddochi e chiasmi e ossimori e allegorie. Con una differenza: nonostante il suo continuo reclamo che i testi etnografici dovrebbero essere polifonici e non monofonici, i suoi testi non lo sono per nulla (a differenza delle etnografie che bene o male lo sono per costituzione interna, si può dire), e veicolano costantemente un unico messaggio: vedi, ho ragione io! D’altra parte, Clifford fa il nuovo mestiere che si è autocostruito estendendo a suo vantaggio il concetto di etnografia, quello del critico letterario che diventa «metaetnografo»: fa la sirena e attrae gli etnografi che capitano sotto il suo sperberiano potere contagioso. Un termine base del suo vocabolario e attorno al quale gira tutta la sua teoria è quello di «finzione». È un termine base per capire la sua posizione e quella di altri autori. È un termine vicino a quello di «invenzione». Il concetto era stato introdotto da Geertz in questo modo: Gli scritti antropologici sono essi stessi interpretazioni, e per di più di secondo o di terzo ordine. (Per definizione solo un «indigeno» fa quelle di prim’ordine: è la sua cultura). Sono quindi finzioni, finzioni nel senso che sono «qualcosa di fabbricato», «qualcosa di modellato» – il significato originario di fictio – non che sono false, irreali o semplicemente ipotesi pensate «come se» (1987: 53).

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Clifford, pur riprendendo questa definizione, scivola lentamente dalla finzione-modellamento alla finzione-falsità: Definire le etnografie come finzioni può urtare sensibilità empiriche. Ma la parola, com’è comunemente usata nella recente teoria testuale, ha perso la sua connotazione di falsità, di qualcosa che si oppone alla verità. Indica la parzialità delle verità culturali e storiche, i modi in cui esse sono sistematiche ed esclusive. Le opere etnografiche si possono correttamente chiamare finzioni nel senso di «qualcosa che è stato fabbricato, o modellato», nucleo della radice latina della parola fingere. Ma insieme al significato di «fare» ci deve essere anche quello di «inventare», creare cose che non sono propriamente vere (fingere, in alcune accezioni, implica un elemento di falsità) (1997: 29).

Nonostante Fabietti (1999: 130-131) cerchi di «salvare» Clifford, come si vede, costui somma coscientemente i diversi significati di «finzione», anche giocando col termine inglese fiction, per cui un’etnografia risulta una vera e propria costruzione finta-con-elementi-difalsità, da cui l’esperienza etnografica viene sistematicamente censurata, se non apertamente derisa (1993: 51-52). Qui siamo lontani dal «finzionismo» analogico di Vaihinger, un approccio fondamentale nelle scienze umane su cui si sofferma Remotti (1993: 113-115). Esagerando nel suo mestiere per catturare l’attenzione, Clifford omette di introdurre una minima distinzione, sfumata quanto si vuole, tra finzioni alias costruzioni basate sull’esperienza e costruzioni alias finzioni basate sulla fantasia e, per dirla con Appadurai, annulla «la distinzione tra la vita della finzione e la finzionalizzazione delle vite» (2001: 79). E la vita della finzione la si ottiene, come insegnava Borges, mediante una «rigorosa invenzione di fatti immaginari» (1998c: 295). All’etnografo spetta, potremmo dire, una rigorosa invenzione di fatti reali, pur ammettendo un alto grado di interazione tra realtà e immaginazione. Ma è in Stephen Tyler che questo aspetto si radicalizza. Tyler è forse il primo antropologo autoproclamatosi postmoderno e di lui si potrebbe dare lo stesso giudizio che Borges dava di Marinetti, il famoso futurista: «è forse l’esempio più celebre di quella categoria di scrittori che vivono di trovate e che di rado hanno un’idea» (ivi: 205). L’etnografia, per lui, «è una trascendenza che evoca ciò che non può essere conosciuto discorsivamente o perfettamente praticato […]. È 17

dunque al di là della verità e sottratta al giudizio dell’azione» (1997: 164); non è una descrizione della realtà perché una tale descrizione è solo mimesi, imitazione della realtà, e crea «solo illusioni di realtà» (ivi: 179). D’altra parte, «un’etnografia non è il resoconto di un movimento razionalizzato dalla percezione al concetto. Inizia e finisce con i concetti», e quindi «non ci sono dati dell’osservazione» (ivi: 180). Siamo, come si vede, in un interpretazionismo radicale che sfocia in un puro mentalismo onirico, in cui la costruzione + finzione di Clifford è una luna pallida: «un’etnografia è una fantasia, ma non una finzione, perché l’idea della finzione comporta un giudizio esterno alla finzione» (ivi: 182). È ovvio, allora, che l’etnografia non sia un resoconto dell’esperienza dell’etnografo, perché «quell’esperienza divenne tale solo attraverso la scrittura dell’etnografia […]. Nessuna esperienza ha preceduto l’etnografia. L’esperienza era l’etnografia stessa […]. Non esiste alcun momento originario esterno al testo […]. Solo letteratura» (ivi: 180). Abbiamo un interpretazionismo radicale, postulato da un autore che in precedenza era stato un cognitivista radicale (cfr. Tyler 1969), che precipitando tutto nella letteratura raggiunge lo scopo inverso a quello che si propone: non tanto un nuovo olismo «attraverso la riflessività del testo-autore-lettore» (1997: 174), non un nuovo costruttivismo tramite la finzione-costruzione-modellamento, ma un nuovo creazionismo: gli occidentali, possessori dell’etnografia-scrittura, creano gli altri nella letteratura-che-è-la-solarealtà, e questi esistono solo nei testi etnografici: «l’etnografia […] è la fantasia reale di una realtà fantastica» (ivi: 182). Nata giustamente per dare maggior voce agli interlocutori dell’etnografo, l’antropologia si trasfigura in Tyler in un emblema della boria dei dotti contro cui si scagliava Vico, qui della boria dell’Occidente, che non si accontenta di dominare e sfruttare gli altri, ma si costruisce come loro deus faber: l’alterità virtuale è meglio sfruttabile senza sensi di colpa… Dobbiamo accogliere, insomma, il suggerimento di Hannerz, per il quale «la rappresentazione del postmoderno meriterebbe un po’ della sua stessa incredulità […]; il pensiero postmoderno è di nuovo occidentalista. […] È un altro esempio della trasformazione di una produzione intellettuale europea [francese] in scala ridotta in un’industria intellettuale nordamericana»3 (1998: 48-49). 3 Hannerz puntualizza così la sua incredulità: «Quando sento dire, per esempio, che le identità diventano soltanto assemblaggi di qualsiasi immagine venga in

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Torneremo più avanti sul problema serio della costruzione-finzione affrontandolo da un altro punto di vista. Qui mi limito a sottolineare che, nel momento in cui sorgono questi tipi di problematiche, la scrittura dell’etnografia abbisogna ovviamente di una riflessione profonda. Ed è qui che nasce la nuova esigenza della sperimentazione. Una posizione molto diversa da quella di Tyler mi pare si ritrovi in Marcus e Fischer. Anche se gli autori vogliono studiare solo il «secondo stadio», essi tengono sempre in evidenza l’importanza del «primo»: l’etnografia osserva da vicino, registra fatti e vive la vita quotidiana di un’altra cultura – un’esperienza che va sotto il nome di metodo della ricerca sul campo – e in seguito stende i suoi resoconti su questa cultura, accentuando i dettagli descrittivi. Questi resoconti sono la forma principale attraverso la quale le procedure del lavoro sul campo, le culture altre e le riflessioni personali e teoriche dell’etnografo diventano accessibili ai professionisti e agli altri lettori (1998: 63).

Ma proprio per l’incalzare della crisi della rappresentazione, cui si accennava prima, per il fatto che il mondo è rapidamente cambiato nel corso del secolo e negli ultimi decenni in particolare, gli interessi sia degli antropologi-autori che dei lettori sono mutati e di conseguenza c’è bisogno di sperimentare nuovi modi di scrittura etnografica4. È in quest’ambito diverso, non più nel momento del processo di ricerca ma in quello della confezione del prodotto della ricerca, che ritroviamo quindi la tensione all’esperimento. Tensione all’esperimento, inteso come sperimentazione, in un approccio dichiaratamente antiscientista. Il sottotitolo stesso dell’opera di Marcus e Fischer è An experimental moment in the human sciences. Il termine experimental è stato criticato dai più fondamentalisti (Rosaldo 2001; Tedlock 1991) ed è scomparso dall’edizione italiana. Quelli quel momento sponsorizzata dai media [letteratura compresa], io mi chiedo chi conoscano coloro che parlano del postmoderno; per quel che mi riguarda, non conosco nessuno per il quale ciò sia vero […] e quando si fa riferimento a queste [nuove fonti di ispirazione] per reinventare la teoria sociale, i risultati sembrano più ricchi in iperboli che in credibilità» (1998: 48, 49). 4 Accertato che la proposizione centrale del postmodernismo è «il mondo è cambiato», Kuper (1999: 219) ironizza sull’incertezza delle date proposte per questo (questa volta reale, non «inventato») epocale cambiamento: a seconda degli autori, il 1900, il 1918, il 1950, gli anni Sessanta…

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che si «controllano» non sono più i fatti etnografici, i comportamenti degli osservati, ma la propria scrittura, la propria narrativa. Quest’esigenza di sperimentazione deriva in buona parte da un cambiamento di interessi, ma vedremo che la scoperta del cosiddetto «pensiero narrativo» dà a questo indirizzo una luce nuova. Se prima gli etnografi si interessavano soprattutto dell’azione sociale e strutturavano le loro monografie nel quadrivio struttural-funzionalista di parentela-politica-economia-religione, oggi «i lavori che vengono prodotti tendono piuttosto a esplorare le varie epistemologie, le forme retoriche, i criteri estetici, le sensibilità indigene» (Marcus e Fisher 1998: 107), si presta maggiore attenzione «alle categorie, alle metafore, alle retoriche incorporate nei resoconti che sulle loro culture hanno fornito agli etnografi gli informatori»5. Si cerca di edificare, cioè, un’etnografia dell’esperienza, che sonda «che cosa sia per i loro soggetti la vita e in che modo concepiscono che sia vissuta nei diversi contesti sociali» (ivi: 105). Lo sperimentalismo testuale deriva dal bisogno di adeguare le modalità di trasmissione della conoscenza etnografica al cambiamento di contenuto. Un cambiamento dovuto alla «deessenzializzazione» dei concetti antropologici operata dall’antropologia interpretativa, ma anche cognitiva, e al conseguente spostamento in direzione convenzionalista: la cultura non più vista come un insieme di istituzioni con un’essenza che perdura nel tempo, ma come una rete di significati condivisi, sempre contrattati e negoziati. Dalla metafora della cultura-come-testo o cultura-comedialogo che ne deriva, e di cui parleremo, il problema di riportare nei testi etnografici la rete dei significati indigeni va a scontrarsi con le esigenze della costruzione del testo, operata attraverso l’uso di tecniche stilistiche in uso nella cultura dell’autore-e-lettore. L’esigenza di «sperimentare» diventa ineludibile, poiché le scritture socioscientifiche tradizionali sono inadeguate: «La scrittura etnografica – scriveva Mary Louise Pratt in una frase diventata famosa – tende ad essere sorprendentemente noiosa. Come mai persone tanto interessanti, che fanno cose tanto interessanti, scrivono libri tanto noiosi?» (1997: 60). All’interno di questi rimproveri e di questo malessere, 5 Secondo Hannerz, le riflessioni sul postmoderno si occupano in gran parte degli aspetti estetici della cultura (letteratura, architettura, arti visive), poiché nel postmoderno, diversamente che nel moderno, «la distinzione tra arte e vita viene a mancare» (1998: 47).

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Marcus e Fischer non parlano mai di «finzione»: parlano di tecniche di fiction usufruibili nel testo per «riuscire a collegare astratte o analitiche discussioni […] alle rappresentazioni dell’esperienza pienamente corporale di eventi singoli della vita sociale» (1998: 130); parlano della produzione della fiction letteraria prodotta localmente e analizzabile dall’etnografo (ivi: 143); parlano del romanzo etnografico (ivi: 144). Marcus e Fischer sono etnografi che non vogliono cambiare mestiere. Per dirla con Rabinow, a differenza di altri essi si guardano bene dal fare estensioni indebite (a estendere a sproposito la somiglianza, avrebbe detto Waismann): «La verità che l’esperienza e il significato sono mediati da rappresentazioni può essere indebitamente estesa facendo coincidere l’esperienza e il significato con le dimensioni formali della rappresentazione» (1997: 321). Quali possono essere le conseguenze di questa estensione indebita dall’esperienza alla forma? Ce lo insegna Tzvetan Todorov. 7. Del talento. Da Formosa al Mondo nuovo Primo tempo. Nel 1704 esce a Londra, e nello stesso anno in traduzione francese, un libro intitolato Descrizione dell’isola Formosa in Asia, autore un certo George Psalmanazar, nativo dell’isola dove è vissuto fino a diciannove anni. Al tempo l’isola era poco nota in Occidente e l’autore svolge la stessa funzione di qualsiasi etnografo del Novecento che si recasse in luoghi ancora remoti: ne descrive le caratteristiche geografiche, la storia e gli abitanti facendo largo uso di figure, dove appaiono fra l’altro l’alfabeto formosano, le monete formosane e via discorrendo (figura 1). «Ma i dettagli più sensazionali in questa descrizione dei costumi dei formosani riguardano la loro vita religiosa»: essi, infatti, praticano i sacrifici umani e «immolano tutti gli anni diciottomila bambini con meno di nove anni. Lo svolgimento di questi riti non è privo di elementi macabri: i sacerdoti sacrificatori strappano il cuore dei bambini per offrirlo al sole; poi si procede al pasto cannibalico» (Todorov 1989: 11). L’opera di Psalmanazar, dice Todorov, suscita vasta eco, viene tradotta in olandese e tedesco e riedita in francese altre tre volte fino al 1739: l’opera si vende. Parallelamente alla fama, spuntano anche i santommaso: convocato alla Royal Society di Londra, Psalma21

Figura 1. Alfabeto formosano secondo Psalmanazar (da Todorov 1989: 19).

nazar deve parare colpi duri. Halley, lo scopritore dell’omonima cometa, gli chiede della durata del crepuscolo a Formosa, e per la sua risposta taccia Psalmanazar d’impostore. Jean de Fontanay, un gesuita che era stato in Cina, reclama di non aver mai sentito parlare di sacrifici umani e di non capirci nulla della lingua quale la riporta Psalmanazar; insiste che Formosa appartiene alla Cina e non al Giappone, come asserisce Psalmanazar (1989: 12). L’autore cerca di difendersi in vari modi attaccando e, soprattutto, avvalendosi della protezione del vescovo di Londra. Passano gli anni, la querelle si quieta, finché nel 1747 prima, e nelle sue memorie del 1758 poi, Psalmanazar rivela che la sua descrizione era favolosa (fabulous). «Sappiamo quindi oggi con certezza – sottolinea Todorov – che la 22

Descrizione dell’isola di Formosa in Asia è una soperchieria, che Psalmanazar non è mai stato in Cina e che inoltre egli non si chiamava nemmeno Psalmanazar». Una prima morale è che, poiché l’opera «non si presenta come una finzione ma come una verità, essa non è una finzione, ma menzogna e impostura» (ivi: 15). Secondo tempo. Perché l’America si chiama America? Lo sappiamo almeno dalla terza elementare, se non da prima: si chiama così perché fu Amerigo Vespucci il primo a capire che Cristoforo Colombo non aveva raggiunto l’Asia navigando verso occidente, ma aveva scoperto un continente nuovo. Colombo non se n’era accorto, Amerigo sì; per questo il Mondo nuovo non si chiama Colombia o Cristoforia, ma America. Questa ricostruzione, dice Todorov, non regge all’evidenza dei fatti storici. Egli dimostra che prima di Vespucci almeno altre due persone si erano «accorte» che quelle terre erano un mondo nuovo, Pietro Martire d’Anghiera e lo stesso Colombo. Pietro Martire, in particolare, lo scrive a chiare lettere fin dal novembre del 1493, e fin dal 1494 usa l’espressione «orbe novo». Colombo lo capisce più tardi ma alfine, nel 1497 nella relazione del suo terzo viaggio, parla «di una terra infinita che si estende in direzione sud [l’Asia si estende a nord dell’Equatore] e di cui non si aveva prima alcuna conoscenza» (cit. in Todorov 1989: 18). Quanto a Vespucci, ne fa menzione solo nel 1503. Che cos’è successo, allora? Secondo Todorov, Amerigo «vince» perché le sue relazioni sono scritte meglio: «non è la scoperta intellettuale che viene celebrata nella denominazione del nuovo continente, è […] la qualità letteraria». Diversamente dalle relazioni di Colombo o dalle lettere di Pietro Martire, le lettere di Vespucci rivelano «qualcuno che ha ricevuto una certa educazione retorica […]. Colombo scrive documenti, Amerigo letteratura. Amerigo cerca più di distrarre che organizzare nuove spedizioni, e vuole guadagnarsi i lettori» (ivi: 18, 23). È talmente evidente questo e talmente evidenti sono le contraddizioni presenti nei suoi testi che è ancora in piedi una vigorosa polemica circa l’autenticità dei suoi viaggi. E Todorov prende chiaramente parte: «per me, Amerigo è dal lato della finzione, non della verità» (ivi: 31), il che non è un demerito per un critico letterario, perché viene finalmente premiata un’opera di letteratura: «se ho un rimpianto, è che Amerigo non si sia accontentato di questo ruolo di personaggio mezzo immaginario, ma che abbia voluto essere, in più, un 23

autore del tutto reale: uscita dal libro, la fabulazione (fabulation) diventa bugia» (ibidem). Vespucci vince laddove Psalmanazar perde. Perché? La descrizione di Psalmanazar «non merita il rispetto perché è un falso. In quanto finzione, non impone l’ammirazione perché non si presenta come tale e perché il suo autore non ha un’eloquenza straordinaria. Ma se l’avesse avuta?» (ivi: 15). Così, il problema che i testualisti dell’etnografia non tirano mai fuori è quello del talento letterario degli autori e può capitare che occultino il problema esibendo un proprio grande talento. Che ne facciamo di quell’etnografo che abbia talento nel «primo stadio» e sia poi negato nel «secondo»? Al contrario, se non fosse stata scritta in un modo forbito, che ne sarebbe stato di quell’opera di immensa fortuna ma dai piedi di carta che è Modelli di cultura di Ruth Benedict, una ex giornalista che ci sapeva fare divinamente con la penna? 8. Famiglie di esperimenti James Clifford, analizzando i vari tipi di autorità etnografica, individua quello sperimentale, quello interpretativo, quello dialogico e quello polifonico. Concludendo, avverte che «processi sperimentali, interpretativi, dialogici e polifonici sono all’opera in modo discordante in ogni tipo di etnografia» (1999: 72): ciascuno ha i propri difetti, ma i più disdicevoli sono i primi. La metafora del laboratorio scientifico è una metafora che riesce «a catturare i vani tentativi della disciplina di fondere pratiche soggettive e oggettive» (1997b: 147), mentre l’autorità sperimentale «offusca le cose», poiché il suo presupposto è che «l’esperienza del ricercatore possa valere come fonte unificante» (1999: 50). Ma mentre Clifford condanna senza appello l’approccio sperimentale nel momento del processo di ricerca, egli lo santifica quando parla del momento del prodotto della ricerca. Così «gli esperimenti etnografici contemporanei», cioè gli esperimenti testuali, sono visti come un momento di vitalità contro le «ingenue pretese di autorità dell’esperienza» e contro «l’atteggiamento autoritario del ‘dar voce agli altri’», in vista di un’«autorità plurale» (ivi: 68 sgg.). Questo recupero dell’esperimento in una fase dell’attività etnografica a scapito di un’altra dimostra bene come il termine si presti 24

Figura 2. I circoli di similarità di Carnap (da Goodman 1985: 234).

a diversi tipi di interpretazione. Nella rassegna intrapresa in questo capitolo abbiamo visto che, come la matematica di Waismann, l’«esperimento» non è un concetto univoco, ma piuttosto una famiglia di concetti. L’esperimento nelle mani degli antropologi è come il «gioco» di Wittgenstein, indefinibile sulla sola base di un elenco di tratti sufficienti e necessari, è un’insieme di attività che hanno forse la sola caratteristica condivisa di essere, appunto, un’«attività», come sottolinea Sperber (1999: 22). Goodman chiamava simili concetti «comunità imperfetta» e ne trattava nell’ambito della ridefinizione della relazione di similarità in termini di similarità relativizzata. Si ha una comunità imperfetta quando «un gruppo di particolari può essere tale che ciascuna coppia abbia una qualità in comune (in virtù della quale i componenti stanno in relazione di similarità l’uno con l’altro), ma che non ci sia nessuna qualità condivisa da tutti» (Hellman 1985:40). Questo tipo di gruppo può essere esemplificato con i circoli di similarità di Carnap (Goodman 1985: 234) della figura 2, forse la prima di una serie di figure di cerchi variamente sovrapponentisi (come quelli della bandiera olimpionica) spesso usate per rappresentare graficamente le «somiglianze di famiglia» di Wittgenstein. Come è noto, le famiglie di concetti, poi somiglianze di famiglia, sono state chiamate anche classificazioni politetiche (o anche adansoniane) da Needham (1975) e con questo termine sono forse più conosciute in antropologia. Sperber, da parte sua, sottolinea come vi possano essere almeno due tipi di somiglianze di famiglia, la somiglianza che chiama «descrittiva» e quella che chiama «interpretativa». Una somiglianza descrittiva è quella ad esempio del termine «gioco», in cui vi è una somiglianza fra le attività cui ci si riferisce con quel termine, mentre una somiglianza interpretativa è «una somiglianza di significato fra tutte le nozioni rese attraverso il termine» 25

(1999: 22). Gli antropologi, dice l’antropologo francese, fanno essenzialmente questo, stilano somiglianze interpretative, e fa l’esempio del «matrimonio»: Immaginate un antropologo che studia gli Ebelo. Egli può iniziare col chiedersi se posseggano l’istituzione del matrimonio, ma sarebbe strano se lo facesse: fra gli antropologi viene generalmente dato per assodato che il matrimonio sia universale. Il nostro antropologo non si aspetta però di incontrare una pratica che corrisponda perfettamente a una definizione costituita di matrimonio per il semplice fatto che questa definizione non esiste. Quello che si aspetta di trovare è un’istituzione indigena che egli possa chiamare «matrimonio» con la stessa giustificazione che hanno gli altri antropologi quando usano questa parola […]. Come agisce allora il nostro antropologo per identificare quale forma ebelo di relazione è quella «maritale»? Guarda le diverse relazioni? No, le relazioni non sono il tipo di cose che si possono guardare. Quello che fa, approssimativamente, è chiedere agli Ebelo di descrivere con i loro termini i tipi di relazioni che essi intrattengono; poi decide quale delle nozioni native, e, possibilmente, quale dei termini nativi è reso meglio con «matrimonio». Il nostro antropologo arriva alla conclusione che «matrimonio» corrisponde al termine ebelo kwiss (ivi: 25).

L’antropologo ha stabilito una somiglianza interpretando contenuti diversi6. È in questo modo che il «matrimonio» degli antropologi italiani è diverso dal «matrimonio» degli italiani non antropologi, poiché esso comprende, legati a catene di somiglianze in continua variazione, le varie relazioni che essi hanno deciso essere simili a quelle matrimoniali nelle varie popolazioni che essi studiano. Con delle tendenze idiosincratiche: se ad esempio il «matrimonio» di Sperber è influenzato dal kwiss degli Ebelo, il mio è molto influenzato dal biav dei Rom; e così via. Nel caso degli esperimenti-sperimentazioni degli antropologi, allora, abbiamo certo una somiglianza descrittiva, ma anche una somiglianza interpretativa di tipo interdisciplinare, dal momento che gli antropologi hanno cercato di interpretare insiemi di metodiche di altre discipline trasferendole nei propri processi di interpretazione. Anche se cercavano l’esperimento, la loro attività principale si è 6 Sull’enorme problema delle interpretazioni dei concetti di parentela cfr. Needham (1971), Schneider (1984), Piasere (1998; in stampa).

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sempre svolta in un modo che porta un nome etimologicamente simile a quello di esperimento: esperienza. Gli antropologi hanno sempre acquisito conoscenze dirette facendo gli etnografi, cioè facendo esperienza degli altri. È allora scopo di questo libro parlare del processo di interpretazione etnografica come di un particolare tipo di esperimento: un esperimento di esperienza.

Capitolo secondo

La curvatura dell’esperienza

1. Meditazioncina «machiana» Non occorre essere degli empiristi per avere, come le chiama Clifford, «sensibilità empiriche», ma se uno le ha dal momento che crede che il lavoro etnografico contenga elementi di un «empirismo irriducibile», come lo chiama Olivier Schwartz (1993), gli empiristi gli possono momentaneamente far comodo. Se prendo il coraggio a quattro mani e propongo (di questi tempi!) una fugace ripresentazione di alcuni pensieri di Ernst Mach, noto come filosofo iperempirista, è anche perché per alcuni versi egli può essere considerato un precursore delle attuali teorie connessioniste di cui parleremo. Mi riferirò in particolare ai suoi studi – «abbozzi» li chiamava – di psicologia della ricerca, raccolti nel 1905 nel volume Erkenntnis und Irrtum (Conoscenza ed errore). Ovviamente, sarà una selezione interessata. «Ogni individuo singolo – dice Mach – trova già pronta una visione del mondo compiuta […] che accetta come un dono della natura e della civiltà. Tutti debbono cominciare da qui» (1982: 7). Diventa centrale, allora, la nozione del mio corpo, che si trova circondato da altri corpi. «Il mio corpo mobile nello spazio è anche per me un oggetto che occupa una parte dello spazio sensoriale, si trova, come gli altri corpi, accanto e fuori dagli altri corpi […]. Il mio corpo appare, in generale, secondo una prospettiva totalmente diversa da quella di tutti gli altri» (ibidem; corsivo nel testo). Oltre a questo rapporto prospettico attraverso i sensi col «fuori» e con l’«accanto», «mi imbatto in ricordi, speranze, timori, impulsi, desideri, volontà ecc. di cui non sono responsabile, così come non lo sono della presenza dei corpi nell’ambiente circostante. A questa volontà si connettono però movimenti di un determinato corpo, che perciò […] si caratterizza come 28

mio» (ibidem). Ora, l’osservazione di altri corpi umani «mi costringe ad una forte e – anche contro la mia intenzione – irresistibile analogia: di pensare cioè connessi anche agli altri corpi umani ed animali, i ricordi, le speranze, i timori, gli impulsi, i desideri, le volontà che sono connessi al mio» (ivi: 8). Qui Mach tocca subito un aspetto basilare: è l’irresistibile analogia che costruisce il mondo condiviso da più corpi. Infatti, così come io penso per analogia col mio corpo che anche gli altri corpi abbiano ricordi, desideri ecc., così capisco dal loro comportamento che anche «i miei ricordi, desideri ecc. esistono per loro solo come risultato di un’irresistibile conclusione analogica» (ibidem). Ma v’è anche un altro aspetto che Mach sottace: nell’osservazione io so distinguere gli altri corpi umani per somiglianza col mio corpo. È la capacità di stabilire somiglianze che mi permette di costruire analogie. Ci ritorneremo a lungo. L’Io di uno, per Mach, può essere inteso in senso ristretto come «la totalità di ciò che è dato immediatamente a uno mentre per gli altri è conclusione analogica». Ora, i dati che reperisco nello spazio hanno una dipendenza reciproca (un corpo si riscalda al fuoco ecc.), ma noto che «il mio corpo ha sempre un’influenza essenziale su questo dato» (ivi: 9). «Gli elementi costitutivi del mio dato nello spazio non dipendono solo dal rapporto reciproco in generale, ma in particolare dal dato del mio corpo, e ciò vale, mutatis mutandis, per tutti» (ibidem). Interviene a questo punto il concetto di «delimitazione spaziale U», che è la delimitazione spaziale che un Io percepisce del proprio corpo e che gli permette di constatare che i dati esterni a U dipendono pure gli uni dagli altri. La distinzione tra fisico e psichico allora scompare e acquisisce importanza il confine U. Il confine U non costituisce, però, una demarcazione netta tra il dentro e il fuori del corpo dell’Io. Egli ha piuttosto la forma di una frontiera quale è stata definita da diversi autori (vedi ad esempio Fabietti 1995): una dimensione di interazione tra un dentro e un fuori o tra due o più entità. Se, infatti, dal senso ristretto di Io passiamo a quello allargato, dobbiamo prendere in considerazione le sensazioni, che sono tanto interne quanto lo sono ricordi, desideri ecc., che concorrono a formare «la totalità del mio psichico […] il mio Io nel senso più ampio» (ivi: 10). Ma dal momento che le sensazioni non sono incommensurabili coi sentimenti, e dal momento che esse sono la relazione tra dentro e fuori, tra corpo e mondo, allora «il mio Io ha incluso in sé, come sensazione e rappresentazione, il mondo» (ibidem). 29

Ciò che evita un solipsismo radicale tramite la fusione del mondo nell’Io è, appunto, il confine U. Esso rimane, ma «anziché circondare l’Io (nel senso più ristretto), attraversa l’Io (nel senso più ampio), attraverso la ‘coscienza’» (1982: 11). In altre parole, potremmo dire che il mondo impregna l’Io. Abbiamo incontrato il termine «rappresentazione», che per Mach si distingue dalla sensazione 1) «per il grado minore di forza», 2) «per la maggior fugacità e mutevolezza», 3) «per la modalità del loro connettersi reciproco (associazione)». Essa, quindi, sarebbe della stessa natura delle sensazioni e si ritroverebbe qui quella coloritura iperempirica che fonde fisico e psichico. D’altra parte, le rappresentazioni sono fondamentali in quanto «tracce mnemoniche di sensazioni precedenti, che contribuiscono a determinare in modo decisivo il destino psichico dei nuovi complessi di sensazioni» (ivi: 22). Al di là di tale riduzionismo, è importante capire a che cosa servono tali tracce mnemoniche, e in generale che cos’è e a che cosa serve la memoria. Tutto si basa sui concetti di «associazione» e di «stabilità approssimativa», su cui Mach non insiste molto. L’associazione è la capacità a mettere in relazione una rappresentazione, cioè un’esperienza sensibile precedente con un’esperienza attuale. Questa capacità è ciò che permette «ogni tipo di adattamento psichico all’ambiente, ogni esperienza comune, e anche scientifica» (ivi: 31). Ciò è possibile, comunque, se l’ambiente non si modifica «troppo», poiché «la nostra organizzazione psichica» si adatta facilmente a una stabilità resa riconoscibile dall’esperienza precedente (ivi: 32). Le associazioni, a loro volta, non sono innate, «ma debbono essere acquisite per esperienza personale» (ivi: 33). È vero che spesso Mach esagera nel suo fenomenismo, ma si vede da questa frase quanto il suo pensiero fosse in realtà complesso: se le associazioni connettono esperienze (passate-presenti) e se, contemporaneamente, è l’esperienza che permette l’acquisizione delle associazioni, ci troviamo di fronte a un complesso meccanismo di azione/feed-back in cui una mano disegna l’altra. 1.1. Né maiali, né palme, né madri. Nonostante il suo riduzionismo sensoriale (dettato sostanzialmente dalla sua polemica antimetafisica), Mach aveva ben chiara l’importanza delle rappresentazioni mentali, delle percezioni «riprodotte», e il primo rischio che evitò fu quello della reificazione delle rappresentazioni. Come Bateson tanti anni dopo, egli sapeva bene che 30

la mente non contiene né oggetti né eventi – né maiali, né palme, né madri – ma contiene soltanto trasformate, percezioni, immagini ecc., insieme con certe regole per generare queste trasformate, percezioni ecc. Sotto quale forma esistano queste regole, non lo sappiamo (Bateson 1976: 293).

Mach si colloca all’inizio dello sviluppo della psicologia e credeva di sapere come funzionavano quelle regole o, per lo meno, proponeva l’idea per cui esse andassero cercate nelle associazioni di rappresentazioni: «Nel corso della vita la maggior parte delle rappresentazioni si è associata con molte altre, e queste associazioni che si divaricano seguendo varie direzioni si contrastano in parte e si indeboliscono a vicenda» (Mach 1982: 37). A volte, però, se convergono nello stesso punto, «acquistano maggior peso». La vita rappresentativa dell’uomo – dice Mach usando una bella espressione – è esuberante, e si verificano diversi fenomeni a seconda che tale esuberanza sia più o meno «controllata». Nella libera fantasia le rappresentazioni si associano a caso, così come nel sonno (Freud, che lavorava giusto in quegli anni, non sarebbe stato d’accordo), ma anche nella conversazione libera, solo che qui i pensieri delle persone coinvolte si influenzano a vicenda. Se invece impedisco ai miei pensieri di «vagabondare a caso» e li dirigo e mantengo verso uno scopo, allora abbiamo la riflessione. La riflessione permette la soluzione di problemi tramite lo «sperimentare con pensieri, con ricordi» (ivi: 42). Anche la coscienza sta «in una particolare connessione di qualità date» e prende senso «inserendosi nell’ordine delle esperienze del presente» (ivi: 44). È qui che Mach precorre il connessionismo, tirando in ballo direttamente le «fibre di associazione» dei campi corticali. Così che, «quando odo il nome ‘arancia’ questa successione di sensazioni acustiche si trascina, come legato a un filo, l’intero fascio composto di quelle rappresentazioni», per cui «la rappresentazione di un’arancia è una cosa estremamente complicata» (ibidem). Vedremo quando parleremo dei concetti nuvola che nelle scienze cognitive di oggi non si dicono cose molto diverse. La memoria, di conseguenza, fatta da associazioni di rappresentazioni organizzate in centri di associazioni, costituisce un fenomeno particolare dell’«adattamento a eventi periodici» (ivi: 49). 1.2. L’esperimento mentale. Non è il caso di seguire più oltre Mach in aspetti del suo pensiero che decisamente portano a posizioni op31

poste a quelle che proponiamo. Quanto esposto finora ci interessa soprattutto per capire il posto che l’esperimento occupa all’interno dell’antropologia filosofica del filosofo viennese. Un posto che per certi versi capovolge il suo famoso empiriocriticismo. Mach era un fisico di formazione e parla essenzialmente degli esperimenti fisici, ma i suoi spunti sono illuminanti. L’esperienza si accumula «osservando le trasformazioni dell’ambiente» (ivi: 180), ma le «trasformazioni più interessanti» sarebbero quelle provocate dall’uomo. Questa è la base dell’esperimento, che è definibile come «la ricerca autonoma di nuove reazioni e di loro nuove connessioni» (ivi: 197). Quindi, l’esperimento è un’«estensione intenzionale ed autonoma dell’esperienza» (ivi: 198). Ma tale estensione intenzionale dell’esperienza è inseparabile da un altro tipo di esperimento che Mach chiama esperimento mentale: «il sognatore, il costruttore di castelli in aria, il romanziere [e Mach cita in nota il roman expérimental di Zola], il poeta di utopie sociali o tecniche, sperimentano mentalmente», così come lo fanno il commerciante, l’inventore e lo scienziato. Essi «si figurano delle circostanze, e a tale rappresentazione connettono l’aspettativa, la previsione di certe conseguenze: fanno un esperimento mentale» (ivi: 183). L’esperimento mentale, che si ottiene «variando mentalmente i fatti», precede «l’esperimento fisico e lo prepara», ne è anzi una condizione preliminare: ogni sperimentatore «deve avere in testa una disposizione ordinata prima di tradurla in atto» (ivi: 184). Di solito esso «contiene meno dell’esperienza, la riproduce solo schematicamente, a volte anche con un’aggiunta involontaria» (ivi: 185). L’esperimento mentale non è vacuo, poiché la possibilità che «in quanto tale abbia un determinato esito dipende dalla misura e dal modo in cui ha assorbito esperienza» (ivi: 190). Ed è proprio per questo che esso fonda la scienza moderna, in quanto connette strettamente il pensiero con l’esperienza: «l’esperienza produce un’idea. Questa viene elaborata, e di nuovo paragonata e modificata a contatto con l’esperienza». Per la stessa ragione, però, anche i modelli della logica formale «non possono servire a molto, perché le situazioni intellettuali non si ripetono in modo esatto» (ivi: 196). L’esperimento mentale di Mach, che ha a che fare con aspettative e previsioni, più che nei sensi è immerso nel regno delle ipotesi, più che nell’induzione è basato su quella che Peirce chiamava abduzione.

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2. Un esperimento di esperienza Nel capitolo precedente abbiamo visto che nella storia dell’antropologia il concetto di esperimento è stato variamente usato per definire il controllo dei fatti osservati sul campo (Mead), il controllo delle osservazioni a tavolino col metodo della covariazione (Nadel), il controllo del dialogo con l’osservato (D’Andrade), l’innovazione testuale (Marcus e Fischer). Ma se riprendiamo la definizione di Mach – l’esperimento come estensione intenzionale dell’esperienza – e la applichiamo all’antropologia, quello che ne può risultare è che nel lavoro etnografico chi opera un’estensione intenzionale dell’esperienza non sono né le persone osservate, né i fatti osservati, ma l’osservatore stesso. Benché il concetto di «osservazione» sia altamente problematico, possiamo per ora stabilire la differenza tra osservatore e osservato in etnografia distinguendo tra colui che opera intenzionalmente quest’esperimento di esperienza e colui che invece lo subisce con gradi di intenzionalità e consapevolezza variabili. Anche le etnografie interpretativa, dialogica e polifonica da questo punto di vista sono puri esperimenti in quanto estensioni intenzionali dell’esperienza. Il problema, allora, non sta nel negare la natura sperimentale del processo etnografico per privilegiare la natura sperimentale del suo prodotto, ma nel capire che cosa succede in quell’esperimento di esperienza che è, sempre, una ricerca etnografica, la quale permette, fra le altre cose ma meno automaticamente di quanto si dica di solito, quell’esperimento di scrittura che è una monografia etnografica. Nelle due occasioni sperimentali i meccanismi cognitivi e di potere in atto non sono dissimili, e «giova tenerle separate», come afferma Clifford (1993: 51), solo per chi, come lui, sistematicamente non vuole fare i conti col «problema del referente», per quanto opaco e sporco esso sia. Chi invece crede che il momento sperimentale della ricerca illumini e sia illuminato a sua volta dal momento sperimentale della scrittura e che le due fasi si autocostruiscano circolarmente e non linearmente, non può non considerarle in modo unitario: esse sono cognitivamente ed emotivamente incastrate l’una nell’altra. Tenere separata la retorica dalla prassi, la costruzione letteraria dalla costruzione cognitivo-esperienziale è il procedimento di un esperimento di pensiero autoritario, tipicamente occidentale come diremo, che segmenta l’azione in uno dei tanti modi possibili, salvo poi convincersi e cercare di convincere che è quello giusto. 33

Benché Clifford insista molto sulla centralità di cui l’esperienza personale gode nell’autorità etnografica, non ho presenti autori che avessero ben chiaro il fatto che è su di loro che l’esperimento di esperienza si basa, se non forse George Devereux, che lo spiegò fin dal 1967 in un’opera che resta largamente sconosciuta agli etnografi. Solo ora sta emergendo qua e là. Chi l’ha maggiormente intuito sono quegli autori che hanno fatto ricerca in comunità o fra persone che vivono una condizione politico-esistenziale di tensione con la società di provenienza del ricercatore. In tali situazioni, le classiche tecniche di rilevazione (scrittura, registrazione, interviste più o meno aperte, dialoghi diretti sull’oggetto della ricerca) «saltano», e il ricercatore è costretto a un’immersione pura e semplice, con buona pace di Clifford. Come ha scritto Asher Colombo a margine di una ricerca fra alcuni immigrati algerini a Milano che vivono di attività illegali, egli ha privilegiato «l’impiego di se stessi come strumento di rilevazione», in un contesto in cui «la costruzione di tale rapporto fiduciario e il mio stesso coinvolgimento nel mondo studiato hanno costituito i principali arnesi della ricerca» (1998: 13). Situazioni simili sono state descritte, ad esempio, da bianchi che hanno fatto ricerca fra i negri americani (Hannerz 1969) e da non zingari che hanno fatto ricerca fra gli zingari (Okely 1992; Piasere 1999: 53-84). Questi casi in cui la conflittualità della situazione spinge a tecniche etnografiche «estreme» di partecipazione senza distacco osservativo, sono utili per far prendere coscienza di quello che avviene sempre durante una ricerca etnografica, a prescindere dalle cosiddette tecniche e strumenti d’indagine. Ha ragione Clifford a dire che è «difficile dire un gran che riguardo all’esperienza» (1993: 51), dal momento che riguardo a quella etnografica non mi pare vi siano grandi riflessioni, se non da parte di diverse antropologhe femministe. Marcus, in uno scritto redatto nel 1996, scrive che Writing culture (del 1986) «aveva a che fare più col processo etnografico […] che con il modo in cui vengono scritte le monografie» (1997: 15). Ma non mi pare proprio! Oppure è vero solo se non si tengono rigidamente distinti i due momenti, appunto, cosa che nemmeno lui fa. E mi sembra una giustificazione a posteriori del fatto che «questa più radicale implicazione richiede una trasformazione nella mise en scène della ricerca sul campo, che non è stata tentata neanche dagli antropologi più influenzati dal volume» (ibidem), la quale mancata trasformazione è dovuta giusto al 34

«fattaccio» della mancanza di attenzione per l’esperienza etnografica da parte di quell’«avanguardia». Mancanza di attenzione se non denigrazione aperta: l’esperienza, «come l’‘intuizione’, è qualcosa che si ha o non si ha», taglia corto Clifford (1993: 51). E chi l’ha detto? Nel suo artificio retorico Clifford pone come certo che: 1) vi è un’analogia tra esperienza e intuizione, 2) l’esperienza è un fenomeno del tipo tutto-o-niente. L’analogia è interessante e andrebbe indagata: Clifford non lo fa. Il secondo assunto postula una logica binaria del tipo tutto-o-niente che qui è inapplicabile: di esperienza se ne può avere molta, poca o per nulla in un’infinità di gradazioni. E sono giusto le sfumature di esperienza che rendono possibili le imprese e i testi etnografici, quelle sfumature di esperienza che – e cito giusto Clifford – riflettono la «complessa soggettività» dell’etnografo, la quale poi «si riproduce regolarmente nella scrittura e nell’interpretazione dei testi etnografici» (1993: 49). 3. Il lettino dell’etnografo Ho a volte l’impressione che vi sia un suggeritore occulto in molte cose scritte negli ultimi quindici-vent’anni su problemi di etnografia. Qualche volta è appena citato, qualche volte pure appare nell’Indice dei nomi, qualche volta è scopertamente occultato. Il riconoscere apertamente il proprio debito verso questo autore evidentemente reca angoscia – una dimostrazione diretta che convalida le sue teorie sull’angoscia… Si tratta di Georges Devereux, il famoso etnopsichiatra. Egli si autoproclamava un freudiano ortodosso: ed è forse questo che è fonte di angoscia nei diversi autori che lo occultano. In un libro che dovrebbe essere letto da tutti coloro che fanno ricerca nelle scienze umane1, anche da coloro che, come me, si sentono agnostici verso la psicoanalisi, Devereux cerca di affrontare il fa1 Scrive Berardino Palumbo, che ha il merito di sottolineare l’importanza di questo testo: «Al di fuori dell’introduzione di Severi [del 1984] alla traduzione italiana di Dall’angoscia al metodo, non conosco, all’interno del dibattito epistemologico attuale in antropologia, alcuna riflessione che, da un punto di vista ‘realista’ o ‘decostruzionista’, abbia cercato di fare seriamente i conti con le posizioni di Devereux» (1995: 7, nota). Nelle pagine che seguono cito e traduco dall’edizione francese del 1980 che ho a disposizione.

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moso paradosso dell’osservatore: nel momento in cui uno osserva un fenomeno, questo muta proprio perché è osservato. Mi riferisco al volume del 1967 From anxiety to method in the behavioral sciences, dove non si parla mai in termini di «paradosso dell’osservatore» (un’espressione che credo si debba a Labov, 1972), ma dove l’autore cerca di coniugare i famosi principi di indeterminazione di Heisenberg e di complementarità di Bohr con la psicoanalisi e applicarli alle scienze del comportamento. In particolare, il campo d’azione di Devereux è la psicoterapia e l’etnografia, da buon specialista dalla doppia formazione clinico-psicoanalitica e antropologica. Il risultato generale è che il suo realismo critico, se lo porta su posizioni anticomportamentiste, non attenua comunque il suo costruttivismo forte e convinto. «Freud – dice Devereux – ha affermato che il transfert è il dato fondamentale della psicoanalisi, considerata come metodo generale di indagine» (1984: 27). Ma se seguiamo Einstein, per il quale si possono osservare solo gli avvenimenti che accadono nei pressi dell’osservatore, allora dobbiamo dire che è piuttosto il contro-transfert il dato più importante per ogni scienza del comportamento. Il transfert è il meccanismo per cui un analizzato tende a reagire verso l’analista come se costui fosse una terza persona importante per l’analizzato. Ciò può a volte portare a «una grossolana deformazione della realtà» (ivi: 97). Il contro-transfert, invece, è La somma totale delle distorsioni della percezione e delle reazioni dell’analista verso il paziente; queste deformazioni fanno sì che l’analista reagisca al paziente come se questi rappresentasse una imago primitiva, e che si comporti quindi nella situazione analitica seguendo i propri inconsci bisogni, desideri o fantasie – in genere di natura infantile (ivi: 98).

Ecco quindi che «l’essenza della situazione di osservazione» è lo studio dell’osservatore, più che quello del soggetto. Infatti, i dati della scienza del comportamento sono di tre tipi: 1. il comportamento del soggetto; 2. le ‘perturbazioni’ indotte dalla presenza dell’osservatore, così come dalle attività osservative dell’osservatore; 3. il comportamento dell’osservatore: le sue angosce, le sue manovre difensive, le sue strategie di ricerca, le sue ‘decisioni’ (= le attribuzioni di senso alle osservazioni) (ivi: 32).

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Ma è il comportamento dell’osservatore, in quanto fenomeno che avviene «nei pressi dell’osservatore» che è il più accessibile, ma anche il meno studiato poiché costantemente censurato. In realtà, un esperimento sui ratti, una ricerca etnografica o una psicoanalisi contribuiscono maggiormente alla comprensione del comportamento quando sono considerati come fonte di informazione sullo psicologo sperimentale, sull’etnologo o lo psicoanalista, che quando sono considerati esclusivamente come fonte di informazione sui ratti, i primitivi o i pazienti (ivi: 31).

Tutto nasce dal fenomeno del modello-di-sé, ossia dalla tendenza che ha l’uomo a modellare l’immagine del mondo esterno su quella di se stesso, del proprio corpo e dei propri modi di sentire. Essendo il modello-di-sé un quadro stabile di riferimento, l’uomo «non ha cessato di chiedersi, fin dall’Antichità, se gli altri hanno la stessa esperienza della realtà», il che riflette i dubbi sulla validità dello stesso modello-di-sé (ivi: 285). Il fisico, il sesso, l’età e la personalità sono elementi costitutivi del modello-di-sé. Quello che genera maggiore angoscia è forse il modello-di-sé sessuale, poiché «il fatto che l’umanità è composta di maschi e femmine non è mai stato accettato come un fatto irriducibile» (ivi: 305), come lo dimostrano le diverse pratiche culturali che cercano di massimizzare o minimizzare all’eccesso la differenza sessuale: «il dimorfismo sessuale ostacola quindi la comprensione empatica e la risonanza rispetto al corpo e alle funzioni sessuali di un membro del sesso opposto» (ivi: 314). A differenza di Mach, che deve inventare la dimensione U come frontiera del corpo-Io, Devereux sfrutta il concetto psicoanalitico dell’Io, che è ciò «che distingue tra io [ciò che si trova ‘dentro’] e non-io [ciò che si trova ‘fuori’]» (ivi: 529) e che è esso stesso una frontiera. L’Io è una frontiera non solo mobile, ma anche creata ad ogni istante (ivi: 527). L’Io è semplicemente ciò che viene creato in seguito a quella perturbazione che, per Devereux, avviene sempre quando uno può dire: «È questo che percepisco». Ora, l’osservazione nelle scienze dell’uomo è sempre dipolare, nel senso che l’osservato è sempre anche un osservatore, per cui gli Io di osservato e osservatore si accavallano costantemente. La «‘demarcazione’ è in realtà una sovrapposizione continuamente rigenerata» (ivi: 458). Questo porta Devereux a una posizione transazionalista chiara: 37

I confini tra l’osservatore (sperimentatore) e il soggetto sono determinati bilateralmente, e spesso in modo non concordante […]. Nelle scienze del comportamento, d’altra parte, il luogo dove tracciare questi confini è determinato in modo così bilaterale da essere il risultato di una vera e propria transazione. In senso psicodinamico, è vero che non ‘finiamo’ dove finisce la nostra pelle; possiamo allora, definendo in modo specifico la situazione sperimentale, ‘prolungarci’ nel sistema osservato […]. All’altro estremo dell’esperimento, l’organismo osservato o manipolato può, nello stesso modo, ‘estendersi’ nel sistema di osservazione […]. La natura reciproca di tutto ciò che si verifica in una situazione sperimentale è provata anche dai dati bio-socio-culturali, sperimentali, psicopatologici o provenienti dalla vita quotidiana. Questi dati gettano luce sull’essenziale natura transazionale di tutto ciò che può verificarsi tra un osservatore e un osservato (ivi: 93-95).

L’Io si impregna del mondo, suggeriva Mach. L’Io è l’impregnazione concertata bilateralmente e asimmetricamente di individui osservantisi, dice Devereux. Il paradosso dell’osservatore, per Devereux, consiste quindi nel fatto che crea perturbazioni nel momento in cui osserva. Le perturbazioni provocano un comportamento dell’osservato che influenza l’osservatore, in modo circolare. L’autore distingue due tipi ideali di tali comportamenti: il «comportamento provocato» e il «comportamento di vita». Il primo è quello della situazione sperimentale, («esperimenti, test, interviste ecc.»), in cui le perturbazioni «provocano un comportamento che altrimenti non avrebbe luogo»; il secondo è l’insieme delle risposte a tutte le altre perturbazioni (ivi: 421). Egli si concentra ad analizzare la situazione psicanalitica: lo psicoanalista «comprende il paziente in modo psicoanalitico solo nella misura in cui comprende le perturbazioni che questi provoca in lui […] la perturbazione [che] si verifica ‘all’interno’ dell’osservatore» (ivi: 491). E ancora: «Ciò che si può direttamente osservare, e che quindi costituisce un dato, è la ripercussione – la perturbazione – che le parole del paziente provocano nell’inconscio dello psicoanalista» (ivi: 494). Ecco quindi che il soggettivo non è una fonte di errore, al contrario è la principale fonte di informazione. Gli avversari della psicanalisi l’hanno denigrata affermando che essa crea il comportamento che studia. Ed hanno ragione, dice Devereux: «l’analisi crea comportamento nel senso in cui la sperimentazione crea i fenomeni» (ivi: 492). Ma essa è possibile sia perché tran38

sfert e contro-transfert sono della medesima natura (ivi: 98), sia perché ipotizza un fatto fondamentale: «che l’inconscio dell’analista è quasi identico a quello del paziente» (ivi: 494). Questa comune natura e quasi-identità, che permette di osservare «l’inconscio del paziente esaminando l’inconscio dell’osservatore» (ivi: 505), è anche quella che permette quel metodo a mio avviso fondamentale, che Devereux individua ma che poco approfondisce: l’attenzione fluttuante o distrazione recettiva, che consiste nell’ascoltare qualcuno senza troppa attenzione, lasciando divagare il pensiero, per permettere che «enunciati irrazionali del paziente raggiungano il suo inconscio» senza che siano deformati «tramite l’intervento della coscienza» (ivi: 504). Devereux ritiene la psicanalisi la scienza regina fra le scienze del comportamento e, come è noto, cerca spesso di estendere analogicamente alla psicanalisi riflessioni che investono le scienze fisiche. A partire dalle sue analisi che concernono essenzialmente il metodo psicanalitico, egli opera costantemente, inoltre, l’estensione dei suoi risultati all’etnografia. Non mi riferisco qui ai momenti interessanti in cui applica una interpretazione psicanalitica ai risultati dovuti alla personalità degli antropologi 2, ma al fatto che egli estende analogicamente la metodologia psicanalitica a quella etnografica. Ad esempio, il gruppo studiato è paragonato al materiale di un test propinato all’etnografo: «La descrizione che un antropologo dà di una tribù, e l’interpretazione che fornisce della sua cultura, sono in qualche modo comparabili a un test proiettivo: in cui il Rorschach o il TAT sono rappresentati dalla cultura studiata, e la descrizione dell’etnologo equivale alle risposte del soggetto» (ivi: 101). In qualche modo, la comunità che ospita l’etnografo sostituisce il lettino dello psicanalista. Ma altrove il gruppo studiato è considerato invece svolgere la funzione del paziente: «Per quanto una tribù primitiva non sia l’equivalente di un paziente, le difficoltà psicologiche che l’etnologo sul campo si trova a dover affrontare – la sua incapacità a sfuggire completamente al ruolo che gli viene imposto – sono, da un punto di vista dinamico, comparabili a quelle dello psicoanalista, cui un paziente cerca insidiosamente di far assumere un ruolo complementare ansiogeno» (ivi: 405). 2 Ad esempio: «I lavori di Fortune sugli abitanti di Dobu e sugli Omaha rivelano un suo sistematico interesse per gli aspetti oscuri – o noiosi – di una cultura» (1984: 373-374).

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In questo caso vediamo un’analogia che ci si aspetta più facilmente, poiché implica che se il gruppo studiato «sta» al paziente, l’etnografo «sta» allo psicanalista. Questa comparazione è stata fatta spesso in antropologia, ma i pericoli di fraintendimento analogico che essa si trascina sono molti. Citiamo questo lungo passaggio di Margaret Mead, tratto dal capitolo di un suo libro in cui giusto spiega al lettore il metodo di lavoro di un antropologo, un passaggio che ci aiuterà a decostruire il paragone stesso: Ma quando si parla a uno psichiatra, si sostituisce all’intimo scambio di confidenze [fatto con l’innamorato o con un amico] un processo cosciente di auto-ispezione, nel quale i rapporti con lo psichiatra, come persona, sono secondari. Se lo psichiatra conosce bene il suo mestiere e il paziente è veramente assillato dal senso di terrore e d’angoscia che lo ha condotto da lui, allora questo desiderio di comprensione impersonale, e di far uso di tale comprensione non ai fini dei rapporti interpersonali ma da un punto di vista strettamente legato al solo paziente, durerà fino alla conclusione della cura. Allora il paziente sarà diverso. Quanto il medico avrà appreso dall’ammalato sarà molto diverso da quanto l’ammalato avrà preso dal medico, e, se tutto si svolgerà normalmente, non desidereranno riparlarne insieme. Una situazione altrettanto controllata e cosciente si stabilisce quando un antropologo arriva nel villaggio di una popolazione primitiva, solo o con la moglie, per essere una famiglia in mezzo ad altre famiglie. Egli non desidera capire e conoscere la nuova civiltà per potersi far costruire una casa, coltivare un giardino […]. Desidera unicamente conoscerli e comprenderli, per approfondire la conoscenza delle limitazioni imposte agli esseri umani e delle possibilità loro concesse. Come lo psichiatra deve limitarsi a uno solo scopo: guarire, così l’antropologo deve abituarsi a mirare a un unico fine: osservare e comprendere gli individui come esponenti della loro civiltà. Al profano molte discussioni sulla tecnica psichiatrica sembrano esagerate. Perché discutere tanto a lungo se uno psicoanalista debba o no stringere la mano al paziente, visitarlo a casa o avere una stanza di consultazione con due porte? Ma appunto per il carattere speciale e definito dei rapporti fra medico e paziente, qualsiasi particolare apparentemente trascurabile diventa importante. Così quando un antropologo si reca a vivere in un villaggio indigeno, ogni particolare della sua sistemazione è accuratamente preso in esame e subordinato al compito principale (1976: 41-42).

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In un’opera del 1977 l’antropologa americana attenua di molto il paragone e comincia a sottolineare la singolarità del lavoro dell’etnografo e a rimarcare le differenze col lavoro degli psicanalisti: Gli psicoanalisti, che devono prestare un’attenzione così intensa e continua a ogni minima sfumatura del processo di comunicazione, alla fine della giornata possono chiudersi dietro la porta del loro studio, girare l’interruttore delle loro capacità di attenzione e di intuizione e immergersi nel mondo esterno per diventare, in apparenza, altrettanto inconsapevolmente inconsapevoli dei meno analizzati dei loro conoscenti. L’antropologo sul campo non può prestare allo stesso modo un’attenzione indivisa a tutto il caleidoscopio di eventi, che assieme formeranno il sottofondo d’esperienza che deve essere trasformato in dati […]. L’antropologo sul campo non può mai distrarre l’attenzione (1979: 14).

Margaret Mead, con la sua enfasi sull’attenzione costante, fa finta di scordare quanto la pratica sul terreno debba invece all’attenzione fluttuante di cui parlava Devereux e di cui riparleremo. Ma comincia a toccare qualche punto di distinzione: l’etnografo non interrompe la sua «immersione» a fine giornata e non ha un orario di ricevimento. Chi trova altri punti di differenza è, una decina di anni più tardi, Talal Asad, il quale, citando un lungo passaggio di David Pocock scritto nel 1961, in cui l’antropologo britannico equiparava a sua volta il rapporto di «traduzione» dell’antropologo a quello dello psicanalista «che entra nel mondo privato del suo paziente», avvertiva che l’antropologo in realtà «opera per differenti linee»: la sua etnografia non può avere la stessa autorità del «case-study» dell’analista. L’analizzato va dall’analista – o vi viene mandato da chi ha l’autorità – come paziente bisognoso di aiuto. L’antropologo invece, arriva nella società che vuole leggere, è uno che deve imparare, non una guida, e lascia quella società quando ne ha ottenuto le informazioni sufficienti per scriverne la cultura. Non considera la società malata, né i suoi membri si considerano malati: la società non è mai soggetta all’autorità dell’antropologo (Asad 1997: 208).

Asad individua un’altra differenza importante, il fatto che è il paziente che va dall’analista, mentre è l’etnografo che va dal gruppo. Sottolinea giustamente che l’analogia implica una correlazione gruppo-analizzato che veicola il sottointeso che il gruppo possa essere con41

siderato «malato» e che l’antropologo costituisca la sua «guida» per la guarigione. Un’analogia inconsciamente ma sfacciatamente colonialista. Si potrebbe controbattere che non tutti coloro che vanno dallo psicanalista ci vanno perché si considerano malati (ma chi ci crede?), per cui il lavoro dell’etnografo sarebbe avvicinabile a quello dello psicanalista senza questo vizio di fondo. Ma, possiamo aggiungere, le differenze restano tali che è meglio abbandonare definitivamente l’analogia: è l’etnografo che va dal gruppo, come si diceva, e, appunto, va a vivere in un gruppo composto da tante persone che possono avere idee molto diverse le une dalle altre, come personalità diverse le une dalle altre. È l’etnografo che si adegua, o dovrebbe adeguarsi, ai loro orari, non viceversa, alla loro lingua, non viceversa, che in certe occasioni e con cattiva coscienza «paga» le informazioni, non viceversa, che «chiede» l’incontro etnografico mentre è invece il paziente che «chiede» l’incontro psicoterapeutico. Inoltre, il lavoro dell’etnografo è molte volte incastrato in una divisione internazionale del lavoro che lo psicanalista non conosce o può conoscere solo molto indirettamente. Insomma, se il setting etnografico e quello psicanalitico possono sembrare simili, in realtà le intenzioni, le motivazioni, le aspettative, le modalità di interazione degli attori coinvolti sono talmente diverse da dover trattare con mille precauzioni l’analogia. E se è vero che certi etnografi sottopongono alcuni dei loro interlocutori a «sedute dialogiche» intensive che ricordano in un certo modo le sedute psicanalitiche (e penso a Dwyer 1982, fra gli altri), lo stesso «mondo terzo» su cui insiste Fabietti (1999), di lacaniana memoria, cioè il mondo costruito dall’incontro di due interlocutori, è ben diverso da quello che lo psicanalista costruisce col paziente. Mano a mano che il lavoro sul campo si sposta dall’osservazione alla partecipazione, come diremo, il «mondo terzo» dell’etnografo diventa evanescente: la gente si abitua a lui, le chiacchierate non sono più artificiali, a volte nessuno più lo fila. Il «mondo terzo» resta tale solo per l’etnografo che costruisce e vive la sua esperienza non come un esperimento di esperienza, appunto, ma come un esperimento da laboratorio o da studio psicanalitico – questi sì, veri mondi terzi. Una cosa importante resta condivisa con gli psicanalisti ed è di fatto l’oggetto del presente studio: anche l’etnografo conosce gli altri «perturbando», cioè conoscendo se stesso. L’esperimento di esperienza è la via da percorrere, come diceva il Fred Murdock di Borges, è la via che influenza la perturbazione stessa. 42

4. La cesura dell’esperienza La natura di esperimento di esperienza della ricerca etnografica è spesso sottolineata sotto la rubrica del «viaggio». Recentemente Clifford (1999: 70-121), in un bel lavoro su cui avremo modo di tornare, ha scritto che la ricerca sul campo si situa all’interno della storia occidentale dei viaggi. È un accostamento che il lettore italiano conosce almeno fin dagli anni Settanta, se non prima, con gli studi di Sergio Moravia (1970), in tempi in cui la quarta di copertina di Tristi tropici avvertiva che «è questo un libro che rinnova la grande tradizione del viaggio filosofico» (Lévi-Strauss 1975). Ne riparlano sotto visuali differenti Remotti (1990: cap. 2) e Fabietti (1999: cap. 1), assegnando al viaggio un posto privilegiato nei loro libri e nelle loro diverse antropologie. Sia gli etnografi stessi che altri commentatori contemporanei sottolineano la fase di distanziamento geografico come prima tappa del processo. Oggi, è diventato anche parte delle riflessioni sull’autorità etnografica, la cui espressione eponima si deve ancora a Geertz: «essere là» (1990: cap. 1): la descrizione del viaggio aiuta l’autore a convincere il lettore di essere «andato là». La descrizione del viaggio può essere oltremodo precisa: Il nostro itinerario è stato il seguente: da New York a Panama, da Panama alla Nuova Zelanda, dalla Nuova Zelanda a Sydney, da Sydney a Madang, dove abbiamo dovuto cambiare battello e siamo stati ospiti del funzionario distrettuale. Poi da Madang a Wewak, su per il fiume Sepik fino a Marienberg, dove abbiamo passato una notte tra le zanzare cannibali (Mead 1979: 115).

Il passo è tratto da una lettera che la Mead scrive il 15 gennaio 1932 da Alitoa, Nuova Guinea, e mostra come il momento del viaggio rappresenti una cesura esperienziale tra il prima e il dopo, una cesura segnalata sia privatamente, al conoscente a cui scrisse allora la lettera, sia pubblicamente, quando la lettera viene pubblicata in funzione retrospettiva nel 1977 all’interno di un corpus di altre «lettere dal campo». Eppure l’enfasi sul viaggio può essere un abbaglio. Prendiamo altre due lettere: Io parto da Narni per l’Alta Italia, ma a piccole giornate tenendo l’itinerario seguente: Derutta-Magione-Arezzo-Montevarchi-Firenze-Pisto-

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ia-Betonne-Paullo-Modena […]. Sono diretto a Gubbio fermandomi il 7 alla Mita, 8 sulla via Tifernate (Civitella Benazzone), 9 allo Piccione, 10 allo Scritto – strada augubina, 11 Gubbio, ove rimarrò probabilmente tutto il 12 e 13 (Caccini, cit. in Piasere 1996: 141).

La struttura dei passi è pressoché simile a quella della lettera di Margaret Mead, ma le condizioni descritte sono opposte e non tanto per l’assenza di esotismi e traversate oceaniche. Chi scrive è Sigismondo Caccini, un eccentrico ricercatore che visse per trent’anni a cavallo tra Ottocento e Novecento fra i Sinti nomadi dell’Italia centrale. Nelle lettere non vi sono cesure esperienziali di sorta, anzi. Egli sta scrivendo al marchese Colocci, l’autorità ziganologica del tempo, descrivendo segmenti della sua esperienza quotidiana che consiste nello spostarsi, nel «viaggiare». Questo per sottolineare che, certo, molti etnografi viaggiano, ma l’enfasi sul viaggio è creata perché riflette una reale cesura esperienziale del cambiamento di vita, di quella curvatura dell’esperienza che li porta da un ambiente noto e familiare a un altro per il quale vi è l’aspettativa che divenga noto e familiare. Tale curvatura dell’esperienza provoca angoscia, ci insegna Devereux, la quale può essere attutita «per procura», tramite una parziale conoscenza preventiva con lo studio dell’antropologia all’università, ad esempio, o che può spingere l’etnografo a «de-umanizzare» i locali, ad esempio «culturalizzandoli» all’eccesso per misconoscere la loro umanità: «l’antropologo, aumentando deliberatamente la distanza sociale fra sé e gli indigeni che studia, e studiandone i costumi come se la cultura non riguardasse vite umane, si mette nella condizione di ignorare le proprie angosce» (1984: 167). Il viaggio nello spazio può essere solo un momento, quindi, della curvatura dell’esperienza. Può esserci o meno. Può essere più o meno lungo, ma è la curvatura dell’esperienza che fa la differenza. La preparazione del viaggio è significativa: conosco colleghi che preparano un viaggio transcontinentale in pochi giorni e con nonchalance («c’è il visto – poi devo passare dalla banca – poi la zanzariera – poi, mah, la vaccinazione – poi…»), e altri che si stressano per mesi a preparare il proprio spostamento da casa di qualche decina di chilometri («e se fa freddo, dio mio – spero di non prendermi chissacché, dio mio – ma come si fa a farli parlare, dio mio…»). Non è tanto o non è solo il viaggio, quindi, ma lo sradicamento esperienziale dalla vita quotidiana una delle caratteristiche principali di que44

sto esperimento di esperienza. L’etnografo si stacca da un ambiente e dalla sua rete personale di interazione quotidiana, per andare in un altro ambiente in cui costruire una nuova rete personale di interazione quotidiana. L’operare dello psicanalista è lungi da ciò. Come i corpi nello spazio-tempo si attraggono, così le persone nello spazio-tempo sociale si attraggono, instaurano «legami», costruiscono co-esperienze. Per Einstein, come è noto, l’attrazione di corpi è in realtà una curvatura dello spazio-tempo. La mia metafora della curvatura dell’esperienza deriva da qui: l’etnografo «curva» il proprio spazio-tempo, la propria vita, per andare a co-costruire esperienze con persone che non fanno parte della sua giornata normale. Può andare in Polinesia o nella caserma-istituzione totale di fronte a casa: le esperienze da costruire saranno diverse, ma è sempre la sua quotidianità che cambia. Corrispondenza, telefonate, pause (o fughe), lavoro in équipe, letture di Conrad alla Malinowski, possono essere tutti mezzi per attenuare lo stress e l’angoscia che la curva esperienziale comporta, nel tentativo di tenersi «aggrappati» al mondo quotidiano di provenienza, di evitare lo sradicamento totale, ossia lo strappo dei legami d’interazione d’origine. Oltre a ciò, l’attenuazione dello sradicamento avviene attraverso l’uso continuo dell’esperimento mentale. La messa in raffronto delle conoscenze che si acquisiscono con le conoscenze già note è un potente meccanismo di attenuazione del senso di sradicamento. L’intenzione conoscitiva, cioè la principale intenzione cosciente, che ha spinto l’etnografo a «essere là», o lì, o qui di fronte, rappresenta l’«aggancio» principale tra i suoi «due mondi». In certi casi, statisticamente minimi credo, lo sradicamento può essere talmente pregnante da portare a un nuovo radicamento: l’etnografo resta, non riparte più, i suoi due mondi si girano sottosopra come una tasca. 5. Attenzioni parigine L’importanza dell’esperimento mentale nel momento etnografico è evidente quando, come dire, la curvatura esperienziale è quasi nulla. Denis Guigo, dopo aver lavorato come ingegnere in una grossa impresa per parecchi anni, vi ritorna nel 1985 da antropologo per una ricerca etnografica di sei mesi. Torna in ambienti già noti con un’attenzione diversa. Frequenta le fabbriche della compagnia, do45

ve, in base al linguaggio interno, lavorano gli «operativi» (opérationnels), come pure la sede sociale a Parigi, dove lavorano i «funzionali» (fonctionnels). Nella sede parigina lavorano diverse migliaia di «funzionali» e in una sua pubblicazione Guigo si concentra sul centinaio di persone che costituiscono la direzione centrale. Occupano l’ottavo piano di un’ala di un grande edificio in vetro e acciaio ed «è lì che lavorano e praticano la sociabilità dell’ufficio» (1991: 41). È una vita fondata sull’«onnipresenza della dimensione gerarchica» (ivi: 42), che si riflette sulla divisione del lavoro, ovviamente, ma anche sull’organizzazione del prestigio, che non è automaticamente legato all’autorità, sull’organizzazione spaziale (i responsabili più alti hanno l’ufficio sul «lato strada», mentre gli altri sono sul «lato cortile») e sul modo in cui le persone si rivolgono l’una all’altra. Sono i termini di indirizzo che il nostro ingegnere-etnografo studia in particolare. La gerarchia è strutturata in cinque livelli principali. Al gradino più basso vi sono i «collaboratori», che non sono considerati «quadri», termine riservato agli altri quattro livelli. Dei «quadri» fanno parte, dal basso all’alto della gerarchia, i «quadri semplici», poi i «capi-servizio», poi i «vice-direttori» e, più in alto di tutti, il «direttore». La direzione è strutturata in modo segmentario, per cui il direttore ha i vice-direttori, ogni vice-direttore ha i suoi capi-servizio, quasi ogni capo-servizio ha i suoi quadri semplici, i quali possono avere dei collaboratori. La rigida gerarchia è attenuata a volte dal criterio dell’età e dall’essere provenienti dallo stesso Politecnico del direttore. Ecco alcune consuetudini quotidiane legate alla gerarchia: – è eccezionale che un uomo sia messo agli ordini di una donna; – l’unico capo-servizio che disponga di una segretaria è il più anziano fra loro (gli altri, come i quadri semplici e i collaboratori, si riducono a sollecitare i servizi della segretaria del responsabile gerarchicamente superiore, ma questa può avere delle cose più urgenti da fare…); – l’uniformizzazione del vestito è evidente mano a mano che si sale nei gradi; – i commensali del pasto di mezzogiorno sono di livelli gerarchici vicini: se un giovane quadro arriva a chiacchierare con un membro della direzione generale durante la fila in mensa e poi mangia con lui, i colleghi saranno pronti a felicitarsi con lui per la sua rapida «promozione»; – ottenere una promozione è una posta in gioco essenziale per la quasi totalità dei membri, e le diverse divisioni gerarchiche sono molto presenti nelle rappresentazioni che ciascuno si fa dei colleghi;

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+

Direttore

=

Vice-direttori

+

=

=

(vacante)

Capi servizio

+

=

+

+

Quadri semplici (non capi servizio) QUADRI NON QUADRI («collaboratori» o «etam»)

lato lato strada cortile UFFICI uomini

Quadri Non quadri

donne Quadri anziani della stessa scuola di ingegneria

+

Segretaria assegnata a un capo

=

Figura 1. L’organigramma della direzione «tradotto» in uno schema di parentela (da Guigo 1991: 46).

– il rango di ciascuno determina in gran parte il tipo di strumenti di lavoro che si ritiene possa utilizzare. Vergogna al quadro che debba farsi da solo le fotocopie in mancanza di una segretaria disponibile (1991: 44).

Una segretaria segue di solito un responsabile nelle sue tappe di carriera; i due formano così una coppia relativamente stabile. Considerata questa stabilità e considerata la struttura segmentaria dell’organigramma, Guigo ricostruisce analogicamente l’organizzazione della direzione con il codice grafico usato dagli antropologi per raffigurare le relazioni di parentela (cfr. figura 1). L’esperimento di pensiero è evidente: si rende esotico il familiare. I termini di indirizzo, fra queste persone per le quali la gerarchia è la loro vita d’ufficio, seguono diverse modalità, simmetriche e asimmetriche, secondo una «problematica della distanziazione» che

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è «anzitutto un mutuo aggiustamento tra protagonisti che valutano la loro posizione ed il contesto» (ivi: 51). Guigo ne elenca otto, a seconda delle combinazioni in cui vengono usati, quando ci si rivolge l’un l’altro, il termine Monsieur (o Madame, nei pochi casi), il cognome, il nome, il «voi» (corrispondente al «lei» italiano) e il «tu». Li classifica in questo modo: – stile distante: Monsieur + voi. «Il più riservato. Non viene indicato alcun nome, solo Monsieur o Madame, di una cortesia impersonale»; – stile rispettoso: Monsieur + cognome + voi. «Quasi sistematico se gli interlocutori non sono dello stesso sesso. Se due persone dello stesso sesso sono separate da una grande differenza di età o di gerarchia, allora è il modo di rivolgersi più corrente»; – stile militare: cognome + voi. «Praticato tra due uomini di età e di grado vicino (stesso livello gerarchico, a rigore, un solo grado di differenza)»; – stile educato: voi. «Una prossimità più accentuata fa sì che disturbi chiamare l’altro per cognome […], ma la familiarità non è tale da permettere di dare del tu o di usare il nome»; – stile americano: nome + voi. «Lo si incontra solo in tre situazioni caratteristiche: 1) quando un capo si rivolge alla propria segretaria, relazione eminentemente asimmetrica poiché costei gli dà del ‘Monsieur Durand’; 2) quando due interlocutori vicini per posizione gerarchica ed età si apprezzano e hanno molte occasioni di incrociarsi, ma non passano al ‘tu’ perché non sono dello stesso sesso; 3) tra donne, ciò segna una relazione più stretta di quelle dello stile ‘educato’; è allora un modo frequente di rivolgersi se le posizioni gerarchica e di età sono vicine»; – stile liceale: cognome + tu. «Praticato tra uomini, come a scuola»; – stile da compagno: tu. «Si è molto vicini per età e posizione gerarchica e ci si incontra spesso; si lavora insieme. Tra uomini, si passa dallo stile ‘liceale’ a quello ‘compagno’ quando la relazione si fa più intensa, quando l’uso del cognome sembra incongruo; difficilmente si va più lontano. Le donne, però, arrivano fino all’uso del nome»; – stile amichevole: nome + tu. «Le donne, eccetto le più anziane, lo praticano spesso se sono 48

vicine per posizione gerarchica ed età. Tra uomini, sono indispensabili delle relazioni extra-lavorative per superare lo stile ‘compagno’» (ivi: 52-53). L’autore segnala anche che lo stile «sindacale», che prevede che si dia del «compagno» a tutti e che non valorizza il saper tener le distanze, costituisce una sorta di trasgressione «incestuosa» in base all’ideologia gerarchica dell’organizzazione industriale. 6. Ai confini dell’etnografia: etnografie retrospettive Guigo svolge una ricerca etnografica nel posto dove per anni aveva in precedenza lavorato. La sua curvatura dell’esperienza è un ritorno in luoghi familiari, ma siamo ancora all’interno di un’esperienza etnografica «normale». Vi sono casi, però, in cui i resoconti etnografici avvengono senza una ricerca etnografica vera e propria, nel senso che l’esperienza di vita è «diventata» etnografica solo dopo che l’autore ha avuto una formazione da antropologo. Siamo qui ai confini dell’etnografia, in quel luogo di frontiera, nel senso di ambito sfumato, in cui si può scivolare gradatamente da un’avventura esperienziale a un’avventura di esperienza etnografica. In questi casi, l’esperienza non era, al momento in cui si verificava, un esperimento di esperienza intenzionale e il resoconto scritto diventa un’etnografia retrospettiva, un esperimento di pensiero applicato alla propria memoria degli avvenimenti vissuti. L’etnografia retrospettiva è diversa dall’etnografia in quanto «evocazione» di cui parla Tyler (1997), anche se i confini restano ancora una volta sfumati, poiché in questo caso l’intenzione conoscitiva era già presente durante l’esperienza etnografica, la quale era vissuta, appunto, come un esperimento di esperienza e non come un’esperienza-e-basta come è invece il caso nelle etnografie retrospettive. Voglio parlare di due resoconti etnografici di questo tipo, due monografie affascinanti che ci aiutano a capire come un’esperienza possa diventare etnografica solo con un’intenzione sviluppata retrospettivamente. 6.1. «Sulla strada di Gila Monster». La prima opera è The hobo di Nels Anderson, tradotto recentemente in italiano col titolo Il vagabondo (1994). La prima edizione del libro esce nel 1923, un anno dopo gli Argonauts di Malinowski. Primo di una serie famosa di pub49

blicazioni del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Chicago consacrate alla vita urbana, The hobo non è di solito citato nei manuali di antropologia generale e solo da un paio di decenni ha cominciato ad apparire nei libri di antropologia urbana. Normalmente, infatti, è catalogato come libro «di sociologia», sia per l’ambito in cui è stato concepito, sia per il sottotitolo, The sociology of the homeless man, che si sa essere stato aggiunto da Robert Park, il famoso sociologo fra i fondatori della cosiddetta «scuola di Chicago», prefatore dell’opera e allora direttore del Dipartimento. In realtà, per il loro aspetto altamente qualitativo e per l’uso intensivo della ricerca diretta sul campo, è difficile stabilire se i volumi di quella serie siano più di sociologia o di antropologia socio-culturale. Se esiste un ambito storico in cui i confini fra le due discipline saltano, si trova giusto nell’opera della scuola di Chicago. Anderson pubblica The hobo a trentaquattro anni, dopo essere stato egli stesso hobo per una quindicina d’anni. Prodotto tipico dell’ultima parte del periodo della frontiera americana, gli hobo erano degli eclettici lavoratori stagionali nomadi che, ancora negli anni Venti, senza famiglia si spostavano da una località all’altra del Midwest e del West, laddove un lavoro occasionale li poteva richiamare. Anderson stesso, abbandonate le superiori, aveva fatto il mulattiere lungo una ferrovia, aveva lavorato alla perforazione di una galleria, era stato occupato in un campo di legname e poi in una miniera. Quando riprende la scuola e poi l’università, continua a lavorare come carpentiere in una miniera, poi facendo manutenzione dei binari, poi lavorando nell’edilizia (Anderson, 1994: 6-8). Gli hobo, a partire da metà Ottocento, per la loro vita particolare, per le modalità di incontro, per il posto che occupano nella società americana, cominciano a costruirsi un’identità distinta, che è loro riconosciuta dagli altri, marcata da peculiari tratti culturali. Si spostano generalmente in treno, di nascosto, specie nei treni merci, cercando di non pagare il biglietto; i loro nemici sono il personale ferroviario e soprattutto le guardie ferroviarie, in una sorta di mondo di «guardiee-ladri» che viene raccontato nelle loro ballate e poesie. Come questa (ivi: 217; ed. or. 1923: 215): Il sole che tramontava lento sulla pianura baciava la parte posteriore di un treno che andava a est e luccicava sul vicino binario di sorpasso

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dove un povero vagabondo sedeva su una traversina fradicia. Era stato buttato giù dal frenatore, e, destino crudele, il conduttore aveva dato il segnale di via, e il treno merci rapido, si era messo a correre sui binari dietro il postale, e si era diretto a est sulle rotaie cosparse di sabbia. Come schizzò via nella notte che calava egli poté vedere il bagliore dei suoi rossi fanali di coda. Poi spuntò la luna, e vennero fuori le stelle; era stato scaricato sulla strada di Gila Monster.

Lavoratori della frontiera, che viene percorsa in lungo e in largo in treno, rispettando poco o nulla la legge e l’ordine, gli hobo sono attratti dalle città. Ci vanno per visitare gli uffici di collocamento, per le cure mediche, per andare a donne visto che in stragrande maggioranza sono uomini non sposati, o semplicemente per incontrarsi. Nelle città arrivano a formare un’«area culturale isolata», come Hobohemia, a Chicago, con i suoi «alberghi a basso prezzo, case con camere ammobiliate, dormitori, osterie, negozi di confezioni, agenzie di collocamento, missioni, librerie radicali, enti di assistenza, istituzioni economiche e politiche», tutti luoghi idonei «per le necessità, fisiche e spirituali, dell’uomo senza fissa dimora» (ivi: 32). Gli hobo, però, cercano anche di incontrarsi evitando la promiscuità e nelle periferie cittadine hanno fondato dei centri sociali, accampamenti permanenti detti le «giungle», in cui trascorrono tra loro il tempo libero. Anderson descrive in dettaglio la loro vita lungo la ferrovia, in città e nelle giungle, traccia biografie, riporta le ricche classificazioni che i vagabondi hanno costruito di se stessi, parla della loro filosofia economica del «tirare avanti», fondata sul consumo di quanto guadagnato ecc. Ci dà il mondo quale è visto dagli hobo e i mondi che i singoli hobo vedono. Era forse più facile capire un Malinowski che mostrava che «là», in Melanesia, non era vero che i «selvaggi» non avessero un’organizzazione sociale. Ma Anderson faceva la stessa cosa senza oltrepassare oceani: mostrava che «qua», a poca distanza dai dipartimenti universitari, i denigrati e spesso odiati vagabondi avevano costruito un’organizzazione sociale alternativa a quella ufficiale. Negli anni Venti, a Chicago, altri mondi erano possibili… Anderson scrisse il libro, che divenne la sua tesi per il master do51

po la pubblicazione, su consiglio dei suoi avveduti professori. Per scriverlo frequentò anche Hobohemia, ma è evidente che esso è basato sulla vita di Anderson-hobo e solo in seconda battuta sulla ricerca a Hobohemia di Anderson-ricercatore. Anderson si trova al momento opposto di Malinowski: questo pratica l’osservazione partecipante per «entrare» fra i Trobriandesi, quello scrive il libro per «uscire» dagli hobo. Ce lo spiega acutamente egli stesso nella introduzione alla seconda edizione americana del 1961: a Chicago quel metodo di ricerca [l’osservazione partecipante] stava diventando di moda. Benché esso venisse fedelmente seguito nel mio lavoro, non lo era nel significato corrente del termine. Io non discendevo nell’abisso per assumervi un ruolo e poi risalirne e scuotermi di dosso il sudiciume. Io ero in una fase in cui cominciavo appena a venir fuori dal mondo dello hobo. Per usare un’espressione hobo, la preparazione del libro era un modo per «tirare avanti», per guadagnarmi da vivere finché questo processo era in corso. Quel ruolo mi era stato familiare prima che la ricerca incominciasse (1994: 11).

6.2. «Allora la verità si rivela e l’universo si capovolge». Nel 1984 esce a Parigi, con qualche anno di ritardo in seguito ai problemi economici di una casa editrice in fallimento, Mariage tsigane di Patrick Williams. È un grosso volume sui Rom kalderasˇ della periferia parigina, in cui l’autore, avvertendo il lettore di essere sposato con una donna della comunità, usa parole simili a quelle di Anderson: «Nella preparazione di questo studio non era il caso per me di adottare, verso la gente che ne è oggetto, una posizione di puro osservatore, quella ad esempio dell’etnologo europeo su un ‘terreno’ in Africa o in Asia» (1984: 15). Ho scoperto l’antropologia, continua Williams, mano a mano che conoscevo i Rom, senza una conoscenza e una formazione preventiva, a partire da quando, già sposato, sono stato ospitato per diversi mesi a casa di un amico etnologo e docente, Alban Bensa. È lì, leggendo i libri della sua biblioteca, leggendo i corsi di etnologia, quelli che aveva seguito e quelli che egli stesso dava, che ho completato le mie magre conoscenze libresche e ho imparato veramente che cos’era il procedimento etnologico (ivi: 15-16).

Se, in quel momento, esperimento di pensiero ed esperienza vissuta vanno in parallelo e possiamo dire che Mariage tsigane resta una 52

monografia parallela tra studio e vita nella vita di Williams, diverso è il discorso di un’altra opera dello stesso autore. In Mariage tsigane egli avvisava che prima di aver conosciuto i Rom di Parigi, nel 1969, aveva «a lungo frequentato, in un’altra regione della Francia, degli zingari di un altro gruppo: dei Ma¯nusˇ» (ivi: 14). Nonostante la marcata diversità dei due gruppi, tale frequentazione e la conoscenza della lingua e dei costumi dei Ma¯nusˇ gli hanno permesso di «raggiungere più in fretta la familiarità con i Rom» (ibidem). È solo nel 1993 che esce la monografia su questi Ma¯nusˇ, frequentati a lungo negli anni Cinquanta e Sessanta. Anche se i contatti e le visite tra autore e Ma¯nusˇ sono rimasti nel corso degli anni, Nous, on n’en parle pas è una vera etnografia retrospettiva (mi pare di ricordare che l’espressione mi sia stata suggerita proprio da Williams in una corrispondenza personale). A mio avviso, è la migliore monografia che sia mai stata scritta su un gruppo zingaro ed è senz’altro fra le migliori opere in assoluto nella storia dell’etnografia. Se Mariage tsigane, in sintonia con l’eloquenza kalderasˇ e con l’andamento della festa di fidanzamento che descrive, «lunga e lenta», si compone di 480 pagine, Nous, on n’en parle pas, in sintonia con la laconicità ma¯nusˇ e col rispetto dei morti che il libro descrive, dei quali, appunto «non si parla», si compone di 108 pagine (di 88 pagine risulta l’edizione italiana del 1997, da cui cito). In questa etnografia applicata alla propria memoria, in questo esperimento di pensiero su materiale da tempo interiorizzato, da tempo lasciato «macerare» nei propri ricordi e nel proprio corpo, l’autore specifica fin dalle prime battute la propria posizione: «conosco fin dall’infanzia i Ma¯nusˇ dei quali parlerò» e, se ne parlo, è perché con loro ho vissuto, piuttosto che fra loro fatto ricerca: Con loro non ci sono mezze misure: o si è completamente all’interno, o si rimane irrimediabilmente al di fuori, incapaci di cogliere alcunché. La posizione di osservatore privilegiato appare totalmente illusoria. Non è neanche possibile sperare di sfiorare la superficie delle cose, poiché, come cercherò di mostrare, le cose ma¯nusˇ non hanno superficie. Il fondo delle cose o assolutamente niente: ecco cosa esigono dall’etnologo i caratteri dell’affermazione ma¯nusˇ. Ambizione che egli ha senza dubbio difficoltà a mantenere (1997:1).

Il paradosso dell’etnografia non combacia col paradosso dell’os53

servazione: ci si avvicina alla conoscenza etnografica più piena mano a mano che si abbandona il metodo di osservazione etnografico, mano a mano che questo si autoliquida. Descrivere i Ma¯nusˇ significa infrangere la costruzione ma¯nusˇ che i Ma¯nusˇ stessi hanno edificato. Descrivere è parlare, ma i Ma¯nusˇ si costruiscono col silenzio. Come fare a descrivere col silenzio? Se la voce ma¯nusˇ non risuona mai, come fanno i Ma¯nusˇ a sentirla? È nella loro testa. La voce ma¯nusˇ, i Ma¯nusˇ la sentono nella loro testa. Come tutto quanto concerne i morti. Riuniti, senza spiegare niente, ma semplicemente vedendo il modo in cui gli uni e gli altri agiscono, sanno che hanno tutti la stessa voce nella testa. Bisogna che i Ma¯nusˇ si incontrino. Che passino del tempo insieme. La voce ma¯nusˇ – il silenzio – lega i ma¯nusˇ gli uni agli altri. Ognuno tiene a non deviare, ma sa anche che da solo non può inventare questa voce, conta che gli altri almeno quanto lui sappiano garantire la giustezza dei loro atti: se sono solo a fare questi gesti, anche se li compio perfettamente, non serve a niente. Ciò che mi costituisce non mi appartiene che se lo condivido. Ripongo nei miei fratelli una fiducia assoluta (senza interrogarli, senza reclamar loro niente) e so che questa fiducia non sarà delusa. Sono miei fratelli. Si comprende così l’impressione che ho ricordato cominciando questo libro, che con i Ma¯nusˇ o si è completamente dentro oppure si rimane irrimediabilmente al di fuori. Che tutto sembra inintaccato, intatto, a ogni ritorno. C’è allora, se si entra, se si è altre volte passato abbastanza tempo per entrare, la sensazione che immediatamente la connivenza, così profonda, è ritrovata. I mesi di assenza non contano. Non c’è bisogno di parlare. È così: dopo diversi mesi, dopo anni, non si deve parlare. Novembre: rientriamo da una camminata nei campi, tre amici in una roulotte che le donne ci hanno lasciato: lo stupore davanti al giorno che scende – e il vino nel fiasco, le sigarette si consumano tra le dita, nessuna parola scambiata, il calore, l’amore salgono… e continua, il solo avvenimento è quello della luce che cala. Non c’è nessuna parola, la più elaborata o la più ermetica, che equivalga al silenzio. Perché non c’è nessuna parola che alla fine resista all’esegesi o alla scansione, al dispiegamento della spiegazione. Dire il blocco: solo il silenzio lo può (ivi: 74).

La scoperta del silenzio creatore ha impregnato il futuro etnografo: «un altro mondo esiste in questo mondo […] allora la verità si rivela e l’universo si capovolge: il dominio ma¯nusˇ sul mondo» (ivi:76). Commentando il caso di Verrier Elwin, l’antropologo inglese 54

che sposò una donna gond, scrive Devereux: «È però evidente che ciò che conferisce ai suoi dati etnografici realtà e profondità è una illuminazione interiore indiretta, scaturita dall’amore, condiviso, di una ragazza gond» (1984: 215). Ma non siamo più, allora, in presenza di una «relazione sperimentale», ma abbiamo una «interazione tra esseri umani», una relazione che è «più fondamentale» di qualsiasi relazione scientifica. Poiché, nei nostri termini, la curvatura dell’esperienza è tanto più creatrice quanto più è evanescente. E se è vero che «gli antropologi possono raramente trovare l’amore sul terreno», ci sono comunque «altre relazioni – altrettanto soddisfacenti sul piano umano – che gli sono accessibili, e che possono aiutarlo, quanto la stessa esperienza amorosa, a intensificare la sensibilità e l’empatia. Eros non dà vita soltanto all’amore sessuale, ma anche all’amicizia, alla gentilezza amorosa e alla creatività scientifica» (1984: 217, 216). 7. La perduzione: un’introduzione Sono i casi al limite, come dicevo, che permettono di capire, di illuminare il procedimento della ricerca etnografica, con un procedimento cognitivo di «illuminazione» simile a quello che avviene in altri contesti, come vedremo nel capitolo settimo. Ora, ci si può chiedere, come è possibile l’esistenza di etnografie retrospettive, di etnografie in cui l’intenzione della comprensione è posteriore all’esperienza, dove l’esperienza diventa «etnografica» solo in un secondo momento? Il tutto dipende da quella che chiamo perduzione. Il concetto è collegato a quello che Jean-Pierre Olivier de Sardan chiama impregnazione e che, da un certo punto di vista, potrebbe essere considerato come uno degli effetti della perduzione. Secondo l’autore francese, Il ricercatore sul campo […] vivendo osserva, suo malgrado in un certo verso, e tali osservazioni vengono «registrate» nel suo inconscio, il suo subconscio, la sua soggettività, il suo «io», o quello che volete. Non si trasformano in corpus e non si inscrivono sul quaderno di campo […]. Qui sta tutta la differenza, particolarmente sensibile nei lavori descrittivi, tra un ricercatore di terreno, che ha di quello di cui parla una conoscenza sensibile (per impregnazione), ed un ricercatore di biblioteca che lavora su dati raccolti da altri. Questa padronanza che un ricercatore acquisisce del sistema di senso del gruppo presso cui fa l’inchiesta si acquisisce per

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una buona parte in modo inconscio, come una lingua, attraverso la pratica (1995: 79, 80).

Il concetto di perduzione o metodo perduttivo rimanda a un’acquisizione inconscia o conscia di schemi cognitivo-esperienziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente già interiorizzati, acquisizione che avviene per accumuli, sovrapposizioni, combinazioni, salti ed esplosioni, tramite un’interazione continuata, ossia tramite una co-esperienza prolungata in cui i processi di attenzione fluttuante e di empatia, di abduzione e di mimesi svolgono un ruolo fondamentale. Questa quasi-definizione sarà compresa meglio mano a mano che procederò nell’esposizione e in particolare sarà approfondita nel capitolo sesto. Qui mi limito a sottolineare alcune caratteristiche. Il termine, dall’aria forse un po’ troppo scientista per quello che vuol illustrare, etimologicamente vuol rimandare a un «capire attraverso una frequentazione». È costruito per assonanza, più che per analogia, con termini gallonati come induzione, deduzione e abduzione, ma non è basato come questi tre sulla logica del sillogismo. La logica del sillogismo è una logica binaria, quella della perduzione è una logica polivalente; la logica del sillogismo è una logica «a stringhe», quella della perduzione è una logica olistica che procede a colpi di «microeventi totali». Riportiamo la famosa distinzione triadica di Peirce con l’esempio dei fagioli quale proposto da Massimo Bonfantini (1984: 12). Lo schema dell’induzione è il seguente: Questi fagioli vengono da quel sacco questi fagioli sono bianchi (dunque) tutti i fagioli di quel sacco sono bianchi (sino a prova contraria).

caso risultato regola

Questo è lo schema della deduzione: Tutti i fagioli di quel sacco sono bianchi (ma) questi fagioli vengono da quel sacco (dunque)questi fagioli sono bianchi (necessariamente).

regola caso risultato

L’abduzione, invece, ha la «struttura dell’ipotesi, che consiste nell’inferire ‘a ritroso’ l’antecedente dal conseguente» (ibidem): Questi fagioli sono bianchi

risultato

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(ma) tutti i fagioli di quel sacco sono bianchi (allora) questi fagioli vengono da quel sacco (forse)

regola caso

L’abduzione, che lascia molto spazio all’incertezza, fra i tre tipi di inferenza è senz’altro quello più sfruttato dalla perduzione etnografica, ma non si limita ad esso. Nel neologismo, la particella pervuole rifarsi al concetto composito di trasversalità lenta proposto da Remotti (1990: 168-174). L’etnografia è una curvatura dell’esperienza (un viaggio, direbbe Remotti) ma, per cogliere (= interiorizzare) il significato altrui «si concentra nelle soste, negli angoli di mondo». Dal lato dell’«attraversamento» c’è il fatto che c’è qualcosa da frequentare costruito dal senso di sradicamento dovuto al cambiamento di cliques, come vedremo, ma anche qualche cosa che si acquisisce «scorrazzando» fra altra gente; dal lato della «lentezza» vi sono le modalità dell’acquisizione inconscia, del perdurare attraverso imitazioni e ripetizioni, del lasciar «macerare» acquisizioni che non avvengono tramite semplici concatenazioni lineari, ma con procedimenti complessi che coinvolgono tutto il corpo-Io del ricercatore, che i riduzionismi grafici (lo scrivere) o orali (il dialogare) castigano e sottostimano. Nella trasversalità come «ideazione di connessioni interculturali» (ivi: 169) si pone quella disposizione analogica che è costitutiva e, se ben controllata, altamente creativa. La particella per- vorrebbe rimandare a tutti questi aspetti e ad altri, che sono altrettante difficoltà dell’apprendimento per curvatura della propria esperienza.

Capitolo terzo

Mucchi indecisi, ponti degli asini, menti incarnate

Non sono interessato a delineare le specificità dell’antropologia in generale. Sono interessato a discutere del sapere etnografico all’interno di un «sapere dei saperi» e a contemplarne la posizione. Inoltre, sono interessato a evidenziare che i suoi saperi mostrano che la distinzione tra teorie cognitive e teorie interpretative (le «teorie del velo») è meno marcata di quanto le esasperazioni accademiche non lascino intendere. Non voglio dimostrare che queste o quelle teorie sono «sbagliate». La mia lanternina è troppo evanescente per cercare la verità. Ma sono interessato a mostrare che le teorie del velo possono essere spiegate con le teorie delle diverse «rivoluzioni cognitive» che si sono succedute negli ultimi decenni, che l’interpretazione è una caratteristica della cognizione e che questa è fortemente dipendente dal contesto culturale. Così, constateremo che le teorie del velo sono costruite su una metafora nascosta dell’espansione mondiale del mercato. Ma siamo ancora impreparati a questo e dobbiamo prima riprendere alcuni elementi delle rivoluzioni cognitive. 1. Una grana universale: il paradosso del sorite Eubulide di Mileto, filosofo della scuola megarica del IV secolo a.C., ruppe tanto le scatole che per colpa sua i filosofi megarici furono considerati «eristici» per antonomasia, cioè rompiscatole, appunto, poiché riuscivano a dimostrare la polivocità, o equivocità, del linguaggio. Lo facevano tramite sofismi, o paradossi, e fra i diversi che si devono a Eubulide ve ne sono due tra i più famosi. Il primo è quello del mentitore, su cui i logici si stanno ancora scervellando, ognuno proponendo le sue soluzioni: se uno dice che sta mentendo, quello che dice è vero o falso? Su questo, fiumi d’inchiostro… 58

L’altro è quello del sorite, dal greco sorós, mucchio, cumulo. Prendiamo un chicco di grano, diceva il filosofo, poi ne aggiungiamo un altro, poi un altro e così via. A partire da quale chicco aggiunto in queste sequenze avremo un «mucchio» di grano? Non lo sappiamo e nessuno può dirlo, quindi il concetto di mucchio è ambiguo e senza base logica. Anche questa «sortita eubulidica» sembra una cosa seria, se ancora se ne sta parlando. Con una versione contemporanea del paradosso del sorite si sono scontrati i ricercatori che studiano le classificazioni dei colori o delle facce, per alcuni dei quali tale paradosso «è ben più che una speculazione filosofica». L’affermazione è di tre neuropsicologi dell’Università di Londra, Debi Roberson, Jules Davidoff e Nick Braisby (1999: 4), i quali sono alle prese col – diciamo – sorite cromatico. Il paradosso sorge – dicono – se si danno due presupposti, che una categoria sia di tipo percettuale e che abbia un confine. Entrambi i presupposti sembrano valere per i colori. Quindi, che cosa succede se guardiamo «là dove due colori sfumano uno sull’altro, quando differiscano per meno di una ‘differenza-appena-percettibile’»? Si dovrebbe essere a cavallo del confine di due categorie, in modo che uno dovrebbe essere da una parte e l’altro dall’altra. Ma se, appunto, «la categoria è genuinamente percettuale, allora il paio di colori sfuma e, essendo indistinguibile, essi non possono differire in base alla loro differenza categoriale. Quindi non possono essere separati da un confine di categorie» (ivi: 3). L’affare non termina qui, poiché si innesca un processo a catena lungo, ad esempio, lo spettro dei colori, per cui si arriva alla conclusione che non vi è alcun confine categoriale di colori. Oppure, prendiamo una serie di macchie di colori, ognuna delle quali è indistinguibile da quella immediatamente vicina. Se diciamo che una di queste è «rossa», allora anche quella che le è indistinguibilmente vicina dovrebbe essere rossa; e così di seguito, fino alla conclusione che tutte le macchie della serie dovrebbero essere rosse (ibidem). Ma questo è un paradosso, poiché le altre macchie non sono rosse, appunto. Rispetto all’esempio di Eubulide, la situazione è in parte mutata: là il paradosso riguarda il rapporto quantitativo unità/molteplicità, qui ha a che fare con la qualità. In entrambi i casi abbiamo il problema del rapporto parte/tutto e continuo/discreto, aspetti fondamentali anche in antropologia. Per limitarci a buttar lì alcune domande: dove finisce una «cultura» e ne inizia un’altra? Se l’econo59

mia è un aspetto della società, dove inizia l’economico e dove il sociale? Il ricorso a risposte del tipo «Dipende dal contesto» non risolve la questione. Un processo di contestualizzazione cade anch’esso nel paradosso del sorite: quanto deve essere «ristretto» un contesto per produrre senso? Dove sono i confini da un contesto al contesto vicino? Dove inizia il contesto dei contesti? E quanto si può continuare, per capirci qualcosa, in una serie del tipo: il contesto dei contesti dei contesti dei contesti… Ad esempio, ultimamente si fa l’antropologia dell’antropologia: ci sarà chi farà l’antropologia di chi fa l’antropologia dell’antropologia, cioè chi farà l’antropologia dell’antropologia dell’antropologia? Fino a che punto hanno senso operazioni del genere? Si capirà da quello che segue perché la risposta non può che essere del tipo: «Fino a che uno non ti manda a quel paese». 2. Sorgente  bersaglio Il paradosso del sorite esiste perché diciamo che ci sono cose-eventi che sono simili. Ma che cosa significa «simile»? Goodman (1985) ha distrutto la costruzione logica di Carnap – che era Carnap – dimostrando la relatività del concetto di similarità e la sua inapplicabilità logica. Se una «parolina» ha mandato all’aria un intero progetto di ricerca, allora deve avere a che fare con qualcosa di maledettamente serio. Pongo la domanda, ma non so se esiste qualcuno che sappia rispondere in modo convincente, perché, ancora una volta, pare ci troviamo di fronte a un concetto waismann/wittgensteiniano, in cui il fulcro del discorso è sempre in un punto del cerchio e mai all’inizio di un percorso. Cercherò di riportare alcune opinioni. Secondo Collins e Burstein, la similarità va inquadrata nell’ambito del procedimento di comparazione «che è centrale a tutte le forme di inferenza umana» (1989: 546), il quale consiste nell’assegnare delle corrispondenze tra entità. La comparazione può essere a due, tre, quattro o più elementi. Se due entità «corrispondono» in qualcosa sono simili. Poi, i tipi di similarità cambiano a seconda del «qualcosa», a seconda dell’«entità» e a seconda degli autori. Diversi distinguono tra similarità superficiale e similarità profonda. Per alcuni, la prima riguarda le proprietà, cioè gli attributi, la seconda le relazioni. Per altri, la differenza tra le due non è data a priori ma è 60

contesto-dipendente. Per altri ancora, la distinzione importante è invece tra similarità globale e similarità di tratti, una distinzione che ci convince di più. In tutti questi casi la corrispondenza viene fatta a partire da un elemento che è noto e che viene usualmente chiamato nella letteratura anglofona source domain, «dominio-sorgente», a un altro che è quello da mettere in associazione e quindi da «interpretare», che viene chiamato target domain, «dominio-bersaglio»1. Il mio chicco di grano di partenza è il dominio-sorgente in base al quale decido quali altre entità sono chicchi di grano, domini-bersaglio, e quindi aggiungibili per fare il mio mucchio da regalare a Eubulide, per dimostrargli che, in fondo, i mucchi esistono. La messa in corrispondenza è quindi unidirezionale e va da Sorgente a Bersaglio: S  B. Nella frase precedente compare un verbo che finalmente mi sono deciso a scrivere: il verbo «decidere», appunto. Perché io decido che un chicco di grano è un chicco di grano? O meglio, perché decido che una cosa è simile a quella che io chiamo chicco di grano e quindi decido di metterla fra i chicchi di grano? È il problema del giudizio categoriale. Il giudizio categoriale è quel processo per cui, avendo noi applicato una corrispondenza tra due domini, essi hanno un grado di somiglianza tale da essere considerati parte di una stessa categoria («chicchi di grano»). È anche il meccanismo che nel mondo reale neutralizza il paradosso del sorite. Poniamo tre domini A, B e C, e poniamo che A sia simile a B e B sia simile a C. Allora, A è simile a C? Non per forza, lo può essere oppure no. Si dice che una relazione è non simmetrica (come la relazione «simile a») se è a volte simmetrica e a volte no. Chi lo decide? Il sistema di categorizzazione entro cui opera la relazione. È questo meccanismo che impedisce che le macchie siano tutte chiamate «rosso». 1 Cerco di proporre qui una traduzione abbastanza letterale dei termini inglesi per evidenziare la metafora su cui è costruita la teoria della corrispondenza e, come vedremo, della metafora, nelle scienze cognitive. Una traduzione italiana proposta è anche «dominio di partenza» per source domain e «dominio di arrivo» per target domain, che mantiene la metafora del movimento da un dominio all’altro, ma non quella del «bersaglio da centrare» (cfr. Casonato e Cervi 1998). Evitiamo senz’altro di mantenere i termini inglesi che, nel contesto di un volume in italiano, perderebbero molta della loro efficacia metaforica. Nello studio della metafora nell’ambito della retorica il dominio-sorgente è chiamato «veicolo» e il dominiobersaglio «tenore».

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Sull’argomento vi è ormai una letteratura sterminata e cerco anche qui di riassumere al massimo. Normalmente si distingue tra i giudizi circa le categorie percettive e quelli sulle categorie concettuali. Prendiamo i primi: chi decide che una cosa è simile al chicco di grano tanto da poterla chiamare, e quindi categorizzare, come chicco di grano? La maggior parte degli autori è dell’avviso che i giudizi basati sulla somiglianza percettiva siano di fatto innati. Umberto Eco, col linguaggio peirciano, parla di iconicità primaria, che è un parametro che non può essere definito: è, per ripetere una domanda di Wittgenstein […], come se ci si chiedesse quanto è lungo il metro campione conservato a Parigi […]. A livello percettivo non si può predicare di una Likeness nell’altro che non sia il riconoscimento che quella è una Likeness (1997: 304).

Pertanto la somiglianza iconica primaria non potrebbe essere definita in base a regole di similarità, come invece avviene per tutte le altre somiglianze. Roberson, Davidoff e Braisby (1999), dal canto loro, hanno argomentato, sulla base di esperimenti neuropsicologici, che un giudizio di categorizzazione è presente anche nelle categorie percettive, che quindi non sarebbero basate unicamente sulla somiglianza primaria di Eco. Comunque sia, le categorie percettive sembrano veramente alla base del processo cognitivo umano. In particolare, le categorie che hanno a che fare con la percezione visiva e del movimento sembrano strutturare quelle che gli studiosi di scienze cognitive chiamano immagini-schema. Configurate come una Gestalt, esse sono costituite «da un’immagine che proviene dall’esperienza della realtà che l’uomo fa in virtù del fatto di vivere in un corpo umano in un ambiente terrestre» (Casonato e Cervi 1998: 13). Dal momento che nella mente non ci sono né gli elefanti né le palme di Bateson, le immagini-schema sarebbero delle strutture cognitive cinestetiche (cioè non limitate a un’unica modalità sensoriale), topologiche e di orientamento, che contribuiscono a «figurare» mentalmente elefanti e palme. Per quanto riguarda le madri di Bateson, la cosa è ancor più complicata e lo vedremo fra un istante.

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3. Il chicchissimo Eubulide è esigente e temo che il mio numero di chicchi non sia sufficiente per fare un mucchio di chicchi. Finora ho usato chicchi di frumento, ma per fortuna ho a mia disposizione altri chicchi: chicchi di avena, di mais, di orzo, di segale, di riso, di miglio e di uva. Quali di questi altri chicchi posso usare con una certa tranquillità per fare il mucchio di chicchi senza urtare la suscettibilità di Eubulide? Cerco di aggiungere quei chicchi che più assomigliano ai chicchi di frumento: scarterei i chicchi d’uva, decisamente diversi, e scarterei anche gli acini che sono dentro ai chicchi d’uva, che sono sì percettivamente più simili ai chicchi di frumento che non i chicchi d’uva che li contengono, ma non li considero chicchi tout court; scarterei anche i chicchi di miglio, troppo piccoli, ma che fare con i chicchi di mais? Io so che sono cereali come il frumento, ma sono decisamente diversi, e poi Eubulide neanche sa che esiste il mais! Diciamo che, per motivi diversi, i chicchi di miglio e di mais li tengo di riserva, da aggiungere solo se con gli altri chicchi di avena, di orzo, di segale e di riso, ancora non riuscirò a fare il mucchio costruito a partire dai chicchi di frumento. Mi sono strascicato in questa prova dei chicchi per colpa di quel maledetto di Eubulide, che scelse i chicchi e non gli uccelli, forse perché allora c’erano ancora più coltivatori di cereali che non cultori del birdwatching. Avrebbe potuto chiedere: «quanti uccelli ci vogliono per fare uno stormo?». Infatti, per chi non è un «chiccologo», è difficile dire perché un chicco di frumento possa essere considerato «più chicco» degli altri, ma con gli uccelli – non a caso di solito impiegati dagli psicologi per test di questo genere – sembra che la cosa funzioni meglio. Domanda: «È ‘più uccello’ un passero o un pinguino?». Nelle prove di questo tipo, la risposta quasi univocamente data è «passero», anche se il pinguino ha tutti i requisiti per rientrare nella definizione scientifica di «uccello». Questo avviene perché nel mondo reale le categorie non si formano in base al possesso di un certo numero di tratti sufficienti e necessari, sulla base di una check-list (esempio, Uccello: vertebrato, coperto di penne, bipede, oviparo ecc.), ma a partire da prototipi. Il prototipo è il membro di una categoria che la rappresenta meglio, è il miglior esemplare, è quello che ha tutti, o la maggioranza, dei tratti che costruiscono la categoria (la maggioranza degli uccelli vola, il passero vola, il 63

pinguino no; ecc.). Oppure, può avere la maggioranza dei tratti condivisi dalla maggioranza dei membri di una categoria. Questa scoperta, dovuta a Eleonor Rosch negli anni Settanta (1973a, 1973b, 1975a, 1975b, 1977, 1978) e perfezionata con i suoi collaboratori, ha un mucchio di conseguenze. Prima di tutto, mostra come una categoria sia formata da membri che lo sono di più – i «chicchissimi» – e da membri che lo sono di meno; cioè è formata da membri detti «centrali», o «tipici» o «prototipici» o «esemplari», e da membri più o meno «marginali» mano a mano che diminuisce il giudizio di prossimità rispetto al prototipo. In questo modo, usando la metafora usuale, si dice che l’appartenenza a una categoria non è del tipo tutto-o-niente (a o è membro o non è membro di A), ma è sfumata: si può essere tanto, poco, appena appena, per nulla membri di una categoria. È del tipo tutto-e-niente, nel senso che prevede delle situazioni intermedie. Quindi, va contro il principio di noncontraddizione di Aristotele: A può essere un po’ non A. La presenza dei membri intermedi è fondamentale: sono quei membri o qualità che, essendo condivisi da più categorie, da un lato rendono i confini di queste sfumati e imprecisi, dall’altro permettono di «passare» da una categoria all’altra. Il concetto di «famiglia di concetti» di Waismann, quello di «somiglianza di famiglia» di Wittgenstein, quello di «comunità imperfetta» di Goodman, quello di «classificazione politetica» di Needham sono di questo tipo, con la differenza che questi insistono sulla «sfrangiatura» dei concetti, mentre Rosch insisteva sul prototipo come «concentrato» semantico-percettivo. Con la teoria del prototipo qualcosa di nuovo è effettivamente capitato sotto il sole, anche se – in base al principio secondo cui gli antichi hanno già detto tutto, o quasi – il concetto dello Pseudo-Dionigi, un filosofo del V secolo, di paradéigmata o di exemplaria, da intendere come una sorta di «sostantivi di grado superlativo» (Melandri 1968: 129), può esserne considerato l’antecedente. Da notare che tante lingue, quelle indoeuropee in primis, camuffano al massimo questa struttura categoriale, impedendo alla grammatica di creare tali «sostantivi superlativi»: la «canzonissima» della televisione o la «poltronissima» dei teatri sono delle trasgressioni.

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4. Il ponte degli asini Le categorie sono sfumate; sono sfumate perché il giudizio di similarità è dato su una sorta di scala graduata che va da un massimo (tutto) a un minimo (niente). I casi centrali sono degli attrattori semantici, che tengono cognitivamente legati a sé elementi più o meno simili a sé. Torniamo agli studi sulla similarità concentrandoci sulle sfumature. Queste sono create dai membri intermedi e marginali, i quali costituiscono i «ponti» o i «canali di scivolamento» tra una categoria e l’altra. Per fare un’operazione di similarità bisogna trovare questo «medio» di corrispondenza: è la inventio medii dei filosofi medievali. Ora, visto che una corrispondenza la si può trovare sempre tra due cose, «all’inventio medii gli scolastici davano anche l’epiteto di pons asinorum», ponte degli asini (Melandri 1974: 26). Sarà anche un’operazione da «asini», dice Melandri, ma è importante giusto perché la possono fare tutti. Anzi, stabilire ponti è una caratteristica fondamentale della conoscenza degli «asini» che tutti siamo. Se ponti fondamentali sono quelli posti tra concetti – che grazie ad essi diventano fluidi – altrettanto importanti sono quelli che danno forma alle cosiddette analogie. Le analogie sono di diverso tipo, ma il prototipo sembra essere quello in cui un giudizio di similarità è applicato a due relazioni, piuttosto che a due cose o eventi. Dal momento che una relazione coinvolge sempre almeno due elementi, allora un’analogia coinvolge almeno quattro elementi associati due a due. Un caso esemplare di analogia è la proporzione matematica, scritta normalmente così: a : b = c : d. Benché la storia e la filosofia del concetto (sfumato) di analogia siano affascinanti (cfr. Melandri 1968), qui dobbiamo limitarci a riportare qualche considerazione oggi corrente nelle scienze cognitive, che studiano i fenomeni analogici all’interno della problematica della similarità. Ritroviamo allora termini noti e, secondo Vosniadou e Ortony, pare ci sia «un accordo generale per cui il ragionamento analogico comporta il transfert di informazione relazionale da un dominio che già esiste in memoria (di solito chiamato dominio-sorgente o base) al dominio da spiegare (chiamato dominio-bersaglio)» (1989: 6). 65

Inoltre, un’analogia può essere intra-domini, se «gli elementi appartengono allo stesso dominio o a domini concettuali molto vicini», e inter-domini, se «gli elementi associati analogicamente provengono da domini concettualmente differenti o remoti» (ivi: 7). Nel primo caso si parla anche di analogie letterali, nel secondo di analogie metaforiche. Come riconosce la stessa Vosniadou (1989: 415), la distinzione tra ragionamento analogico intra- e inter-domini non è di tipo dicotomico. Meglio, si tratta di un continuum che va da comparazioni che coinvolgono elementi che sono chiari esempi dello stesso concetto a elementi che appartengono a domini diversi e remoti.

Come si vede, il paradosso del sorite colpisce sempre (quanto lontano deve essere un dominio-bersaglio dal dominio-sorgente perché l’analogia sia considerata inter-domini?), ma bisogna conviverci. Vediamo anche che gli psicologi cognitivi preferiscono parlare di analogia e considerare la metafora come un tipo particolare di questa. Al contrario, i linguisti cognitivi tendono a compiere l’operazione inversa e preferiscono fare largo uso del concetto di metafora concettuale, ed è vero che trattano di solito delle analogie inter-domini. Così, anche per Lakoff, la metafora concettuale è «una proiezione da un dominio di partenza [sorgente] su un dominio di destinazione [bersaglio]» (1998: 113). 5. Borges e Foucault fra i Dyirbal Fare associazioni fra le cose e gli eventi è talmente facile che gli uomini hanno semmai cercato di dare un qualche ordine all’associazionismo sfrenato. Il dottor Baralt, scaturito dalla fantasia di Borges e Bioy Casares (1999: 45-49), è l’emblema di chi non vuole accettare l’idea di porre un freno ai ponti degli asini, e dopo aver scritto sei volumi sul Gruppismo, «primo tentativo pianificato di raccogliere in difesa della persona tutte le affinità latenti, che finora hanno solcato la storia come fiumi sotterranei», si è messo a compilare un elenco di tutte le associazioni possibili. Commentano ironicamente i narratori: Non mancano ostacoli: pensiamo, ad esempio, all’associazione presente degli individui che stanno pensando a labirinti, a coloro che un minuto fa li hanno scordati, a quelli che due minuti fa, tre minuti fa, quat-

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tro minuti fa, quattro e mezzo minuti fa, cinque minuti fa… Invece di labirinti, si metta pure lampade. Il caso si complica. E niente si guadagna se si mette aragoste o matite (ivi: 49).

Proprio per sfuggire a queste impasse cognitive, ogni gruppo umano stabilisce, con approssimazioni variabili a seconda dei domini, quali somiglianze, fra le infinite possibili, siano pertinenti. Criticando la formulazione corrente del concetto di schema che vedremo sotto, Pascal Boyer scrive appunto che «le strutture concettuali non specificano solo quali oggetti sono simili, ma anche che tipo di similarità sia pertinente per loro e spesso perché lo sia» (1993: 31). Michel Foucault ci ha lasciato una maestosa storia della concezione della somiglianza nell’Europa moderna e delle sue variazioni storiche, ponendo il processo come fondamento della nascita delle scienze umane. I cambiamenti dei concetti di somiglianza e differenza sono ampiamente dipendenti dai contesti storici e culturali, i quali «costruiscono» i criteri di pertinenza delle associazioni. Foucault apre la sua trattazione con questa avvertenza: Questo libro nasce da un testo di Borges: dal riso che la sua lettura provoca, scombussolando tutte le familiarità del pensiero – del nostro, cioè: di quello che ha la nostra età e la nostra geografia – sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il rigoglio degli esseri, facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro (1998: 5).

Le associazioni non familiari «fanno vacillare»: il testo di Borges a cui si riferisce Foucault è il famoso passaggio che cita un’enciclopedia cinese intitolata Emporio celeste di conoscimenti benevoli: Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) ammaestrati, d) lattonzoli, e) sirene, f) favolosi, g) cani randagi, h) inclusi in questa classificazione, i) che si agitano come pazzi;

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j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello; l) eccetera, m) che hanno appena rotto il vaso, n) che da lontano sembrano mosche (Borges 2000: 113).

Borges scriveva nel 1942 (il suo testo sarebbe stato ripubblicato in volume nel 1952), Foucault nel 1966. In quei decenni le cosiddette «classificazioni indigene» si conoscevano ancora poco e, a parte Il pensiero selvaggio di Lévi-Strauss, le conoscenze che in quegli anni la cosiddetta etnoscienza andava accumulando erano ancora pressoché sconosciute ai non addetti ai lavori, per cui classificazioni come quella borgesiana erano traumatizzanti, e l’angoscia che potevano provocare veniva combattuta col riso – come ha fatto Foucault… Classificazioni così «estreme» rispetto alle nostre non sono certo all’ordine del giorno, ma nemmeno inesistenti, e se la classificazione cinese di Borges ha ispirato Foucault, la classificazione degli oggetti del mondo dei Dyirbal ha inspirato Lakoff a scrivere Women, fire, and dangerous things (1987). I Dyirbal, aborigeni dell’Australia, è come se fossero andati a lezione da Borges, e Lakoff, presentandoci uno studio di Dixon da cui prende le informazioni, avvicina espressamente la loro classificazione a quella dell’Emporio celeste borgesiano. Ogni nome della lingua dyirbal deve essere preceduto da uno dei seguenti quattro nomi: bayi, balan, balam, bala, di modo che tutti gli oggetti dell’universo dyirbal risultano quadripartiti a seconda del classificatore che li precede. Ed ecco il mondo dyirbal: I. Bayi: uomini, canguri, opossum, pipistrelli, la maggior parte dei serpenti, la maggior parte dei pesci, alcuni uccelli, la maggior parte degli insetti, la luna, temporali, arcobaleni, boomerang, alcune lance ecc. II. Balan: donne, cani, ornitorinco, echidna, alcuni serpenti, alcuni pesci, la maggior parte degli uccelli, lucciole, scorpioni, grilli, un tipo di verme peloso, tutto quanto connesso con acqua o fuoco, sole e stelle, scudi, alcune lance, alcuni alberi ecc. III. Balam: ogni frutto edibile e la pianta che lo produce, tuberi, felci, miele, sigarette, vino, torta. IV. Bala: parti del corpo, carne, api, vento, ignami, alcune lance, la maggior parte degli alberi, erba, fango, pietre, rumori e lingua ecc. (Lakoff 1987: 92-93).

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Benché Umberto Eco (1997: 171-173) dubiti di questa lettura, interpretando bayi, balan ecc. non come dei classificatori ma come qualcosa di simile ai nostri articoli, in realtà per un antropologo questa quadripartizione non ha nulla di speciale e ricorda molto altre bi, tri- o multipartizioni dell’universo operate da popolazioni in giro per il mondo. Circa i Dyirbal, Lakoff individua il principio di pertinenza delle similarità in quello che chiama il «principio del dominio dell’esperienza», e cita l’interpretazione di Dixon: «‘Se c’è un dominio esperienziale di base di A, allora è naturale per entità di questo dominio essere nella stessa categoria di A’. Ad esempio, i pesci sono nella classe I perché animati. Gli strumenti da pesca (ami, filo ecc.) sono pure nella classe I, anche se ci si dovrebbe aspettare che siano nella IV, visto che non sono né animati né un tipo di cibo» (Lakoff 1987: 93-94). 6. L’incarnazione dell’interpretazione Come si ricorderà, negli anni Trenta Waismann diceva che il lato vantaggioso della «famiglia di concetti» è che ci permette «di inserire nuove scoperte in schemi già noti», generalizzando una considerazione fatta a partire dalla matematica. È la stessa operazione che Douglas Hofstadter fa in grande stile negli anni Novanta: I matematici inventano, creano, scoprono (si dica come più piace) nuovi concetti, in continuazione, elaborando schemi nuovi a partire da quelli già noti […]. Con una metafora, si può dire che la famiglia (sempre crescente) di concetti centrati su una nozione di base è una sfera che si espande in uno spazio concettuale condiviso da molti individui. Questo tipo di sfera comune in espansione non esiste solo nel pensiero matematico; è infatti un aspetto davvero fondamentale dei pensieri quotidiani, e secondo me costituisce l’essenza del senso comune (1996: 85).

6.1. Schemi. Abbiamo già visto due modalità di espansione di una sfera concettuale a partire da un esemplare, ossia la somiglianza e l’analogia. Ve n’è una terza che è la condivisione di uno schema. Il concetto di schema (al plurale alcuni autori usano anche schemata), da quando è stato per la prima volta proposto da Bartlett nel 1932 nell’ambito dei suoi studi sulla memoria, è poi stato pluridefinito in 69

psicologia cognitiva e, come tutti i concetti, ha i suoi aloni 2. Però mi pare vi sia un accordo fra gli autori nell’intenderlo come un network (o una struttura o una configurazione o uno stato) concettuale flessibile e olistico, che rende possibile l’identificazione di cose ed eventi del presente tramite un’associazione con esperienze del passato in vista di un’aspettativa futura (cfr. fra gli altri, Lakoff 1987; Lakoff e Johnson 1998b; D’Andrade 1987, 1992, 1995; Strauss 1992; Boyer 1993; Benjafield 1995; Strauss e Quinn 1997, 2000). È olistico perché ha una struttura cinestetica, ossia non monosensoriale. Le immaginischema, a cui abbiamo già accennato, sono comunque tipi di schema che si basano su astrazioni percettuali e sono fra i più importanti. Pare che gli schemi abbiano una struttura gerarchica e che siano di complessità diversa. Al variare della complessità e degli autori, dal momento che anch’essi sconfinano nel paradosso del sorite, acquistano anche il nome di frame o script, ed entrambi possono allora essere più o meno rich – termini che in italiano sono stati a volte tradotti con «copione» o «scenario», accentuando la metafora drammaturgica. Gli schemi più complessi, infatti, possono caratterizzare la rappresentazione usuale di una sequenza di eventi, come ad esempio MI LAVO I CAPELLI, che prevede delle azioni e un ordine, e quindi incorpora il tempo. Come si capirà al volo, l’esempio di sequenza di eventi prevede azioni e un ordine che sono di tipo culturale: io, e con me la stragrande maggioranza di coloro che leggono queste righe, mi lavo i capelli con lo shampoo, ma non tutti al mondo usano lo shampoo per lavarsi i capelli. Se non ho lo shampoo, devo andarlo a comprare, ossia lo È il caso di segnalare che Frederic Bartlett provò come la memoria selezioni e trasformi i tratti da ricordare in base a schemi mnemonici convenzionali guidati culturalmente. Lo dimostrò, fra l’altro, col seguente esperimento: fece leggere un racconto degli Indiani della Costa del Nord-Ovest, La guerra degli spiriti pubblicato da Boas, ad alcuni studenti di Cambridge, i quali dovevano memorizzarlo e ritrascriverlo nel giro di una quindicina di minuti. Bartlett analizzò sia le riproduzioni ripetute dai singoli che le riproduzioni seriali. Queste, in cui la trascrizione operata da A viene poi letta a B il quale la ricorda e la ritrascrive per leggerla a C e così via, si dimostrarono fondamentali per capire come il racconto indiano si trasformasse in continuazione, fino a conformarsi agli schemi narrativi in vigore presso la cultura dei lettori/trascrittori. Bartlett notò, in particolare, come fin dalle primissime versioni scomparisse inconsapevolmente ogni menzione agli spiriti, che pure davano il titolo al racconto: «Tale omissione mostra come ogni elemento di una cultura importata che trovi poca corrispondenza nella cultura d’arrivo, non riesca ad essere assimilato» (1932: 125). 2

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acquisisco all’interno di una cornice economica in cui domina il mercato ecc. Prevedo delle azioni e un ordine che sono culturalmente determinati. Si può ipotizzare che non tutti gli schemi siano culturali; ad esempio IO RESPIRO, può essere considerata una serie di sequenze che condivido con tutti i viventi di questo mondo, ma potrebbe essere che solo comunità in cui il sistema sanitario sia ben organizzato condividano uno schema del tipo ORA FACCIA UN BEL RESPIRO PROFONDO, che prevede uno scenario, appunto, ben specificato. Lo schema, sottolinea D’Andrade, non deve essere confuso con il prototipo, di cui si è parlato. Il prototipo è un’«esemplificazione altamente tipica», mentre uno schema è una struttura (framework) «organizzata di oggetti e relazioni che deve essere completata con dettagli concreti» (1995: 124). In quanto rappresentazione unitaria, l’attivazione di una parte implica l’attivazione del tutto, e dal momento che gli schemi servono per interpretare l’ambiente, essi si costruiscono nell’interazione con l’ambiente (ivi: 122). Il concetto di schema permette di connettere termini appartenenti a domini diversi. Ad esempio, «lo schema LAVARE collega acqua a sapone, detersivo, shampoo ecc., a rubinetto, fontana, doccia ecc. a corpo, mani, piedi, capelli ecc., a vestiti, tovaglie, biancheria ecc. a lavatrice, tinozza ecc., a lavanderia, luogo per il bucato ecc.». Ma permette anche di individuare termini «che identificano modi in cui lo schema completo viene meno o è solo parzialmente soddisfacente» (ivi: 124). Ad esempio sporco, rimanda all’insuccesso o all’omissione dell’utilizzazione dello schema LAVARE. Portiamo ancora un esempio, quello del copione dell’evento commerciale proposto da Lakoff, «dove gli elementi consistono in un compratore, un venditore, le merci e il denaro. Lo scenario è diviso in tre parti: prima l’acquirente ha il denaro e il venditore ha la merce; poi i due si scambiano merci e denaro; alla fine il venditore ha il denaro e l’acquirente la merce. Parole come ‘comprare’, ‘vendere’, ‘merce’ e ‘prezzo’ vengono definite in riferimento a questo scenario» (1998b: 113). Come si vede, lo schema è molto più che una rappresentazione mentale. D’Andrade lo definisce come «una interpretazione che è frequente, ben organizzata, memorizzabile, che può essere fatta da suggerimenti minimi, contiene una o più esemplificazioni prototipiche, è resistente al cambiamento» (1992: 29). Una caratteristica importante è che uno schema include aspettative di come un evento debba 71

andare (il cliente compra, non compra, contratta, paga a rate ecc., la merce). Per cui uno schema «crea interpretazioni complesse da input minimi» (D’Andrade 1995: 136; corsivo mio). Inoltre, gli schemi hanno «il potenziale di istigare all’azione: cioè possono funzionare come fini», dice D’Andrade. Per molti americani il successo non è soltanto un processo cognitivo, esso è uno scopo. Ora, «non tutti gli schemi funzionano come fini, ma tutti i fini sono schemi» (1992: 30, 31). Egli individua una gerarchia degli schemi a tre livelli: alla sommità della gerarchia interpretativa ci sono quelli che chiama i master motives, gli schemi che funzionano come «gli scopi più generali di una persona», come l’amore o il lavoro «che spingono all’azione senza un fine ultimo». Poi ci sono le motivazioni di medio livello (matrimonio, occupazione ecc.), che possono o non possono a seconda delle circostanze istigare all’azione da sole. Infine, all’ultimo livello vi sono schemi che possono spingere all’azione solo se interagiscono con schemi di livello superiore. L’aspetto interessante delle teorie dello schema è che esse riescono a dimostrare, da un lato, come sia fondamentale il ruolo del corpo (Mach sta sorridendo), dall’altro, come la cosiddetta cultura sia fondamentale per costruire gli schemi cognitivi e come sia essa stessa formata da schemi. 6.2. Menti incarnate. Le teorie dello schema sono sorte nel quadro delle teorie connessioniste delle neuroscienze, che studiano il funzionamento del cervello. Gli schemi concettuali sarebbero compatibili con la struttura neuronale, ossia con l’organizzazione a connessioni reticolari delle cellule nervose. Per questo Lakoff parla di «mente incarnata». Combattendo le teorie tradizionali della mente «disincarnata», basate sulla famosa distinzione tra mente e corpo, egli asserisce che «la mente va considerata come radicata basilarmente nel corpo», in conseguenza del seguente procedimento: – I concetti di livello base si caratterizzano, almeno in parte, nei termini della percezione gestaltica e dei programmi motori; – le categorie inerenti al colore sono basate sulla neurofisiologia della visione cromatica; – le relazioni spaziali sembrano essere incarnate nel sistema percettivo […]; – le metafore concettuali [o analogie inter-domini] fanno parte di un

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insieme di meccanismi immaginativi che, partendo da concetti con diretto fondamento corporeo, si protendono verso concetti più astratti (Lakoff 1998b: 117).

Per cui, diversamente da quanto si pensava, «gran parte della struttura dei nostri sistemi concettuali dipende in pari misura tanto dai nostri corpi e dai nostri cervelli, quanto dal mondo che si trova all’esterno dei nostri corpi» (ivi: 118). Non solo quest’impostazione cambia completamente il problema del cosiddetto «simbolismo», ma soprattutto essa fornisce un’importanza di base all’esperienza fatta col corpo. Interpretando Lakoff e Johnson, Casonato scrive che «la nostra storia personale e le nostre personali esperienze, oltre che la logica incorporata nell’architettura del sistema nervoso, definiscono degli images schema [immagini schema] che convergono nella definizione di frames [schemi più complessi]» (1996: 57). Tale approccio attribuisce un’importanza basilare alla costruzione della realtà in quanto realtà esperienziale: Ciò che facciamo col corpo, e i modi appresi di regolare quello che facciamo col corpo, contribuiscono a costituire il reale in cui attuiamo la condotta: categorie, schemi ecc. risultano adatti al modo in cui interagiamo col reale. Il fatto che gli esseri umani attuino attività cognitive estremamente simili deriva dal fatto che abbiamo corpi simili, soggetti a vincoli comuni […] che forniscono quindi esperienze simili.

Aggiungo quest’ultimo corsivo perché la questione della similarità dell’esperienza sarà ripresa più volte, specie quando si parlerà dell’empatia. Continuando con Casonato, bisogna sottolineare che è su tali basi [che] si attuerà anche la comprensione relazionale e le coordinazioni delle condotte di cooperazione. Inoltre, anche le emozioni derivano dall’organizzazione di questo sistema: esse costituiscono infatti un sistema concettuale molto elaborato di tipo inferenziale (ibidem).

Partire dal corpo e dall’esperienza interattiva del corpo con l’ambiente significa invalidare il relativismo radicale. Se, infatti, «gli esseri umani sono accomunati dalle loro caratteristiche bioecologiche», allora questo fatto «delimita ciò che culture anche profondamente differenti possono essere» (ivi: 58). D’altra parte, anche l’oggettivismo radicale appare illusorio. Scrive Johnson: 73

Il significato e la conoscenza appaiono radicati in modelli di esperienza corporea, tuttavia non in maniera assoluta, dal momento che tali modelli sono flessibili ed estendibili da parte di vari tipi di strutture immaginative, come la metafora. Di conseguenza, la conoscenza non è fondazionale affatto, come assumono gli oggettivisti, ma non è neppure soggettiva e arbitraria, come ritengono molti esponenti del postmodernismo (1998: 35).

7. Scenari di «concetti nuvola» Che cosa significa che i modelli sono flessibili? La migliore teoria della flessibilità degli schemi è forse quella che ci offre Hofstadter. Somiglianze, analogie, condivisione di schemi allargano le aree concettuali, che vanno a formare quelle che Lakoff (1987) chiama categorie radiali, mentre Hofstadter preferisce una metafora celeste e li denomina concetti nuvola. Si tratta di concetti che si espandono senza regole generative precise. Secondo Hofstadter, a partire dagli esempi base (il «chicchissimo», l’«uccellissimo») noi costruiamo delle sfere concettuali i cui strati esterni sono costituiti dagli elementi meno caratteristici. Il procedimento non si limita a questo processo lento: «ne costruiamo altre, e questo è un processo più veloce, attorno a eventi e situazioni vissuti personalmente o di cui si è sentito parlare». Chiama queste sfere inconsce alone di senso comune o sfera controfattuale implicita, «chiamata così perché è formata di solito da varianti di eventi che sono in relazione fra loro e forse controfattuali. Come gli eventi sono fugaci, così lo sono anche le sfere» (1996: 86). Bateson diceva che «essere infinitamente intelligenti implica essere infinitamente flessibili» (1976: 290). Mantenendo la metafora, si può dire che flessibilità significa saper continuamente spostare i confini. Gli schemi, dicevo usando un ossimoro, sono micro-olismi, nel senso che partono da un «tutto», per quanto piccolo, per definirlo in dettaglio in seconda battuta. Ma i confini di questo «tutto» sono flessibili, così come sono flessibili i confini dei suoi singoli membri. Il mucchio di Eubulide, così, può avere misure diverse a seconda dello schema in cui appare. Se qualcuno mi dice che c’è un mucchio di grano sul tavolo del mio studio, posso pensare che qualcuno ne ha messo una manciata per farmi uno scherzo; mentre un mucchio di grano da portare al mulino sarà di ben maggiore consistenza. Così, se penso alle Alpi, una «montagna» è alta qualche mi74

gliaio di metri, mentre una «montagna» di sale di una salina, non sarà mai alta come una montagna alpina. I processi di aggregazione e frantumazione concettuale sono continui. Hofstadter chiama slittamento concettuale la rimozione di un concetto indotta dal contesto ed effettuata da un altro concetto strettamente connesso al primo, all’interno della rappresentazione mentale di una situazione […]. Tutto ciò ha a che fare con le sovrapposizioni concettuali, che sono un effetto collaterale e automatico del fatto che i concetti sono simili ad aloni (1996: 216).

Nel testo è riportato l’esempio del termine «duro», che in italiano può significare: «sodo, gravoso, raffermo, inclemente, non dissodato, difficile da capire, senza cuore, impenitente, industrioso, inelastico, caparbio, doloroso, impietoso, rigido, severo, solido, forte, sostanziale, resistente, cattivo» (ibidem). Questo slittamento avviene sempre e più una parola è d’uso comune più è alta la frantumazione. Infatti, «non vi è un numero ‘esatto’ di concetti, tutto dipende dal contesto e dalla cultura» (ivi: 218). E anche se si tende a usare la metafora del concetto come un «nodo puntiforme in una rete di connessioni», è forse da preferire quella, appunto, di un alone di una nube diffusa, «centrata nel nodo, che si estende verso l’esterno con una concentrazione sempre minore» (ivi: 235). Questo carattere sfumato non è caratteristico solo dei concetti, ma anche degli eventi, o meglio, lo è dei concetti perché lo è degli eventi del mondo reale: non sempre si sa bene se si è «dentro» o «fuori» una situazione, quanto un’esperienza sia passata o ancora in corso. L’alone concettuale, quindi, è un alone associativo e «ha tra i suoi scopi principali quello di essere sorgente di slittabilità concettuale, dato che, in momenti di pressioni intense, può capitare che il concetto stesso ‘slitti’ in uno dei concetti del suo alone associativo» (ivi: 468). In conclusione, «un alone associativo di un concetto consiste nell’insieme dei legami, di lunghezza differente, che lo connettono con svariati altri concetti. Questi legami hanno lunghezza variabile nel tempo» (ivi: 499). La teoria degli schemi flessibili e dei concetti nuvola prevede che in una «scoperta» ci sia sempre qualcosa di «vecchio», dal momento che se non abbiamo già uno schema interpretativo non possiamo interpretare le novità. Una novità è sempre in parte nota, e ne vedremo le conseguenze per il discorso etnografico. 75

identica a quella di un’altra. Ogni persona può inoltre avere il suo stile analogico, a seconda che dia preminenza a un oggetto tra gli altri, al grado di attenzione che gli rivolge, alla velocità nello stabilire somiglianze e differenze ecc. (cfr. Hofstadter 1996: 386-387). 8. L’analogia infelice Con l’analogia inter-domini noi mappiamo un dominio con gli elementi di un altro dominio, si diceva. Normalmente il processo è asimmetrico: se il mio cuore brucia come un fuoco ardente, non è detto che un fuoco ardente bruci come il mio cuore. Oltre a ciò, si pone il problema della funzionalità della corrispondenza: la mappatura riesce sempre «bene»? Il ragionamento analogico, infatti, può portare a un cambiamento importante nella conoscenza di base; ma lo fa sempre? Quand’è che la mappatura è «infelice»? Questo argomento è stato al centro di uno studio di ricercatori che si interessano dell’apprendimento della cosiddetta «conoscenza avanzata», ossia dell’apprendimento di una disciplina che poi può avere un seguito di applicazione. Spiro, Feltovitch, Coulson e Anderson (1989) fanno l’esempio degli studenti di medicina, ma il caso può essere valido per altre discipline, etnografia compresa. Gli autori distinguono tra analogia singola e analogie multiple e mostrano come l’uso indiscriminato di analogie singole nell’insegnamento possa portare a errori grossolani: «benché le analogie singole di rado e forse mai formino le basi di una totale comprensione di un concetto nuovo appena incontrato, vi è tuttavia una potente tendenza per chi impara a continuare a limitare la comprensione solo a quegli aspetti del nuovo concetto coperti dalla sua mappatura derivante dal vecchio concetto» (ivi: 498). Il momento della formazione – diventare un x – è dunque fondamentale per la selezione di analogie che poi saranno più ampiamente usate, come vedremo per quanto riguarda nell’antropologia le metafore per il concetto di cultura. Gli studiosi dimostrano che l’applicabilità di un’analogia non è mai totale: solo alcuni aspetti relazionali del dominio-sorgente possono essere trasportati nel dominio-bersaglio» (ivi: 502), per cui le analogie esercitano una forza riduttiva: «le analogie ben intese danno spesso adito ad una conoscenza ipersemplificata» (ibidem). 77

Spiro et alii elencano otto tipi di fraintendimenti causati dall’analogia singola: 1) proprietà che travisano indirettamente: alcune caratteristiche del dominio-sorgente, non centrali allo scopo dell’analogia, influenzano la comprensione di una caratteristica parallela del dominio-bersaglio; 2) proprietà omesse: un aspetto importante nel dominio-bersaglio non ha controparti nel dominio-sorgente, per cui esso non viene incorporato per la comprensione del dominio-bersaglio; 3) esportazione di proprietà del dominio-sorgente: una caratteristica del dominio-sorgente, che non ha analogo nel dominio-bersaglio, viene comunque esportata. Una traccia inesistente viene comunque creata nel dominio-bersaglio; 4) proprietà che travisano direttamente: un aspetto non saliente del dominio-sorgente può avere in un’analogia valore diverso rispetto all’aspetto parallelo del dominio-bersaglio; 5) attenzione su aspetti descrittivi superficiali con conseguente cattivo trattamento della causazione sottostante; 6) amplificazione errata: «un aspetto importante del dominio-bersaglio è omesso perché l’analogia è ‘scagliata’ al livello errato di elaborazione o amplificazione» (ivi: 508); 7) proprietà travisanti derivate da significati del linguaggio comune di termini tecnici; 8) proprietà travisanti derivate da connotazioni del linguaggio descrittivo non tecnico. Per ovviare a questi tipi di malintesi dovuti al potere riduttivo delle analogie, gli autori propongono di applicare durante l’insegnamento analogie multiple integrate, in cui la forza viziata dell’una viene limitata dall’altra, e viceversa, in un gioco in cui una nuova analogia viene scelta per correggere gli effetti negativi della prima. In questo modo, le funzioni delle analogie addizionali possono essere: – l’integrazione (con una nuova analogia); – la correzione (con una nuova analogia); – l’alterazione (di una precedente analogia); – il miglioramento (di una precedente analogia); – l’elaborazione; – lo scivolamento di prospettiva; – la competizione; – la collocazione sequenziale. 78

Soffermiamoci sulla penultima funzione: «Più di un’analogia – scrivono gli autori – compete in qualità di resoconto completo dello stesso dominio. Un’analogia eventualmente sostituisce quella con cui è in competizione, che viene scartata. Solo un’analogia occupa una specifica nicchia analogica» (ivi: 527). Spiro et alii sottolineano il pericolo della riduzione monoanalogica e propongono un metodo per affrontare la compresenza dei concetti complessi, i quali vanno «capiti» solo grazie ad analogie multiple. La potenza del riduzionismo analogico va di pari passo con la potenza riduttiva che deriva dall’uso «di uno schema singolo, di un modo di organizzazione singolo, di una linea di argomentazione singola, di una precedente esemplificazione singola, di una ‘visione del mondo’ simbolica singola, e così via» (ivi: 529). Gli approcci singoli, in conclusione, sono tutti potenti e seduttori, ma tutti riduttivi. La comprensione della complessità della vita reale deve sempre prevedere la complessificazione. Non c’è nulla di più infelice, usando un’espressione di Sahlins (2000), di un triste tropo. Come si vede, gli studiosi del ragionamento analogico conoscono bene da un lato la sua inevitabilità e la sua utilità, dall’altro i suoi rischi. Possiamo chiamare analogia felice quell’analogia che, con le parole di Stephen Palmer, «minimizza le contraddizioni tra le relazioni del dominio-sorgente e le corrispondenti del dominio-bersaglio» (1989: 336). Questo problema è ben conosciuto in etnografia e Dennis Tedlock (2002: 293-294) ha pensato di risolverlo facendo una crociata contro l’analogia a favore del «dialogo»: il ricercatore non dovrebbe cercare di capire una cultura diversa attraverso l’analogon reperibile nella sua cultura, ma attraverso l’intensificazione dell’incontro dialogico con gli interlocutori. Ma per una causa giusta Tedlock sbaglia nemico: è impossibile sfuggire al procedimento analogico, da una parte e dall’altra, ma bisogna «cavalcarlo»: le analogie presentano sempre sfasature tra il dominio-sorgente e il dominio-bersaglio. Esse non sono mai corrispondenze perfette, ossia delle omologie. È per attenuare la sfasatura analogica, e quindi il malinteso, che il metodo dialogico può diventare veramente importante, in quanto confronto incrociato di analogie multiple.

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9. Schemi culturali Abbiamo visto in che modo le teorie dello schema «incarnano» la mente. Vediamo ora come possono essere utili allo studioso della cultura. Gli schemi sono entità mentali che possono o meno essere esternati. Quando lo sono, può avvenire o può non avvenire che vengano acquisiti da altri e condivisi. Quando ciò avviene e quando la condivisione è ampia, possiamo parlare di schemi culturali. A sua volta, una cultura sarà costituita da un enorme insieme di schemi condivisi. D’Andrade fa l’esempio del modo in cui gli americani intendono la parentela e la famiglia, sulla base di un lavoro di Schneider (1980)3. Benché l’antropologo di Chicago dica di fare un’analisi «simbolica» della parentela, dice D’Andrade, in realtà egli mostra in modo brillante come love, sex e birth siano strettamente connessi a formare quello che è lo schema family per un buon Wasp. Ed è attraverso questo schema che di fatto Schneider definisce concetti come relative, in-law ecc.: «Un certo numero di questi termini sono polisemici e Schneider mostra come sensi diversi di un termine dipendano dai particolari schemi che vengono impiegati» (1995: 131). Per Strauss e Quinn, la cultura consiste allora «di occorrenze regolari nel mondo umanamente creato, di schemi che la gente condivide come risultato di quelle occorrenze e di interazioni tra tali schemi e questo mondo. Quando si parla di cultura, lo si fa solo per riassumere tali regolarità» (1997: 7). Ma questo implica che «cultura» è un concetto fuzzy, ossia un concetto dai confini sfumati, un concetto waismann-wittgensteiniano, poiché qui «mettiamo l’attenzione sulle esperienze (più o meno) condivise della gente e sugli schemi che acquisisce sulla base di quelle esperienze» (ibidem). Strauss e Quinn convalidano per altre vie l’idea già avanzata da Pierce nel 1977, secondo il quale la cultura doveva essere vista come una «raccolta» di insiemi sfumati, e quella avanzata da Drummond (1980), che vede la cultura come un continuum, come un insieme di intersistemi. Uno schema, continuano le antropologhe americane, è «culturale nella misura in cui non è predeterminato geneticamente». Ma se la cultura ha confini sfumati, allora significa che nessuna cultura è nettamente delimitata rispetto alle altre e separabile dalle altre. An3 Per altre caratteristiche da un punto di vista cognitivo di questa famosa analisi, cfr. Piasere 1998.

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zi, ogni persona diventa «un punto di congiunzione per un infinito numero di culture che si sovrappongono parzialmente» (ibidem). Gli schemi culturali, che condividi con «persone che hanno avuto alcune esperienze come le tue, ma non con tutti» (Strauss e Quinn 1997: 49), possono essere di natura molto complessa. In questi casi D’Andrade (1995) propone di chiamarli modelli culturali. Essi possono essere di tipo negativo, ovviamente, come gli stereotipi razzisti ad esempio, che spesso possono avere una forte carica motivazionale. Dal momento che gli schemi culturali non si acquisiscono attraverso generalizzazioni esplicite, ma attraverso esperienze e partecipazioni ripetute, e dal momento che le esperienze di vita possono essere simili, ma mai identiche, il processo di «interiorizzazione», dice Strauss (1992), è molto complesso e non è per nulla una pura replica: l’acquisizione di schemi non si svolge mai come la trasmissione di fax. Il significato esternato da uno viene sempre interiorizzato da un altro in un modo poco o tanto diverso. Viene sempre trasformato. Bartlett l’aveva dimostrato in modo brillante fin dal 1932 per gli schemi mnemonici. Gli schemi sono intersoggettivamente condivisi sempre in modo parziale. Il grado di parzialità crea le culture come un grande continuum, e dove inizi o finisca la cultura x o y, è una questione di convinzione e di convenzione, quasi sempre di convenzione (politicamente o epistemologicamente o filosoficamente o storicamente o culturalmente o…) contestata. Per colpa di Eubulide. 10. L’«habitus» smesso di Bourdieu4 Nel 1972, in Esquisse d’une théorie de la pratique, Pierre Bourdieu aveva presentato un concetto molto simile a quello di schema, il concetto di habitus. La somiglianza è tanto più strabiliante se si pensa che il sociologo francese lo aveva proposto completamente al di fuori di quella che sarà la teoria connessionista. Bourdieu ha poi affinato il concetto in un volume del 1980, Le sens pratique, che qui seguiamo. È in contrapposizione allo strutturalismo lévi-straussiano, e per «sfuggire al ‘realismo della struttura’ senza cadere nel soggettivismo», che Bourdieu propone la teoria dell’habitus. Certi condizionamenti, egli dice, 4 Il materiale di questo paragrafo è la rielaborazione di parte di una conferenza su Il concetto di «habitus» e gli zingari, tenuta presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena il 20 aprile 1998.

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associati a una classe particolare di condizioni di esistenza producono degli habitus, sistemi di disposizioni durevoli e trasponibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, ossia in quanto principi generatori e organizzatori di pratiche e di rappresentazioni che possono essere oggettivamente adattate al loro fine senza supporre l’intento cosciente a dei fini e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli, oggettivamente «regolate» e «regolari» senza essere in nulla il prodotto dell’obbedienza a regole e, essendo tutto questo, collettivamente orchestrate senza essere il prodotto dell’azione organizzatrice di un direttore d’orchestra (1980: 88-89).

L’habitus è un concetto disposizionale, nel senso che riguarda l’insieme delle disposizioni acquisite, permanenti e generatrici di pratiche, e un sistema di strutture cognitive e motivazionali, di disposizioni durevolmente inculcate. Esso si costituisce in relazione col mondo, che è un mondo pratico, «un mondo di fini già realizzati, istruzioni per l’uso, tappe da seguire, oggetti dotati d’un ‘carattere teleologico permanente’», visti come «necessari se non naturali perché sono al principio degli schemi di percezione e di apprezzamento attraverso cui sono appresi» (ivi: 90). Le anticipazioni dell’habitus, «sorta di ipotesi pratiche fondate sull’esperienza passata», conferiscono un peso enorme alle prime esperienze. L’habitus si costituisce in seguito a certe condizioni di esistenza, in seguito alle necessità economico-sociali quali vengono filtrate nelle relazioni domestiche e familiari: «prodotto della storia, l’habitus produce delle pratiche, individuali e collettive, dunque produce storia conformemente agli schemi generati dalla storia» (ivi: 91). Sistema acquisito di schemi generativi, se da un lato assicura la presenza attiva delle esperienze passate le quali, depositate in ogni organismo sotto forma di schemi di percezione, di pensiero e di azione, tendono, meglio di ogni regola formale e norma esplicita, a garantire la conformità delle pratiche e la loro costanza attraverso il tempo,

dall’altro favorisce la produzione libera di tutti i pensieri, di tutte le percezioni e di tutte le azioni, ma solo quelli inscritti nei limiti inerenti alle condizioni particolari della sua produzione, e di queste soltanto (ibidem).

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Gli habitus diventano allora una quasi-natura, in quanto «storia incorporata, fatta natura, e quindi dimenticata in quanto tale», sono una presenza agente del passato, di cui sono il prodotto, e funzionano come capitale accumulato, rendendo il singolo individuo come un mondo nel mondo (ivi: 94). Se gli habitus sono incorporazione della stessa storia, allora le pratiche generate diventano mutuamente comprensibili, trascendendo le intenzioni soggettive e i progetti coscienti. Si crea quindi un mondo di senso comune dotato di una armonizzazione delle esperienze. Certo, ogni membro di una classe sociale non ha fatto le stesse esperienze e nello stesso ordine, ma ha avuto le maggiori probabilità di essersi trovato, rispetto ai membri di altre classi, di fronte alle stesse situazioni. I singoli habitus presentano relazioni di omologia in base a una fisionomia di esperienze e di aspettative (ivi: 100). In conclusione, matrice generativa delle risposte in anticipo adattate a tutte le condizioni oggettive identiche o omologhe alle condizioni (passate) della sua produzione, l’habitus si determina in funzione di un avvenire probabile che anticipa e che contribuisce a far avvenire perché lo legge direttamente nel presente del mondo presupposto (ivi: 108).

Come si vede, il concetto di Bourdieu è veramente simile a quello di schema dei connessionisti. Se si pensa che Bourdieu insista di più sull’incorporazione della storia, si sbaglia. Basti prendere la seguente definizione che dà Norman degli schemi in quanto «stati interpretativi flessibili che riflettono un miscuglio di esperienze passate e circostanze presenti» (cit. in D’Andrade 1995: 142). Ma vi sono anche delle differenze. Le principali fra quelle sottolineate dalle stesse Strauss e Quinn (1997: 46-47; cfr. D’Andrade 1995: 147) sono: 1) gli habitus sarebbero solo inconsci, mentre gli schemi sono consci o inconsci5; 2) gli habitus sono sempre ampiamente condivisi, mentre gli schemi possono essere più o meno condivisi; 5 Aggiungiamo che oggi si tende a stabilire che l’attività cognitiva è per la maggior parte inconscia e dà luogo al cosiddetto ragionamento riflessivo, mentre l’attività cognitiva conscia, molto più lenta, dà luogo al ragionamento detto riflettivo (Casonato 1996: 56).

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3) gli habitus possono essere appresi automaticamente a prescindere dallo stato motivazionale ed emozionale, mentre gli schemi sarebbero fortemente influenzati dall’emozione e dalla motivazione. Ma c’è forse qualcos’altro: Bourdieu insiste molto sul termine disposition, «disposizione», il cui parallelo non mi pare si ritrovi nelle definizioni dello schema. Quest’ultimo sembra più abbinato a un mondo da interpretare, anche da creare, ma sempre collegato al sapere-conoscere. Con la «disposizione», invece, l’habitus rimanda anche al saper fare, al saper agire. Posso saper tutto su come si guida una macchina e poi essere una frana al volante. Il concetto di habitus, pur con i limiti sollevati dalle autrici americane, sembra comunque capace di uscire dalla scatola cranica e andare a interessare quei saperi del corpo (fare l’equilibrista a cinquanta metri di altezza…) che il concetto di schema in teoria non tralascia, ma che in definitiva scompaiono dagli orizzonti dei diversi autori, troppo spesso intenti a intervistare persone e a enucleare schemi e metafore solo dai discorsi. Da questo punto di vista, l’habitus di Bourdieu il «protoconnessionista», si tende a smetterlo troppo in fretta. Keller e Keller, che studiano da un punto di vista cognitivo la conoscenza e la pratica legate al lavoro del fabbro, insistono giustamente nell’affermare che gli schemi sono «strutture multimodali», ma sono poi costretti a introdurre i concetti supplementari di umbrella plan («piano-ombrello») e constellation («costellazione»), per riuscire a definire scopi di produzione e «unità di idee, strumenti e materiali», in quanto «ipotesi rappresentate in forma integrata, mentale e materiale, per il conseguimento di una tappa della produzione» (1996: 23). 11. L’«habitus» logoro di Clifford Tenendo fermo il rifiuto del soggettivismo radicale, l’antropologia connessionista condivide molti aspetti con l’antropologia postmodernista e critica. Strauss e Quinn rimarcano come vi sia comunanza di idee nel combattere una visione della cultura come entità «superorganica, coesa, delimitata, atemporale» (1997: 24). D’Andrade sottolinea che è un articolo di fede considerare la cultura come «un tutto complesso, integrato, strutturato, configurato ecc.», e che le ricerche svolte in culture diverse e in domini diversi dimostrano che i 84

modelli culturali, cioè gli schemi culturali più complessi, sono indipendenti l’uno dall’altro (1995: 249). Strauss e Quinn concordano sul fatto che la cultura sia «inventata» dalla costruzione narrativa dell’autore o che la tradizione sia «inventata» dagli attori per motivi politico-economici, ma non vedono come ciò vada contro quello che il connessionismo prevede. Solo, dicono le autrici, è vero che tutte le rappresentazioni sono parziali – già Devereux proclamava che l’etnografia completa è un’illusione – «ma ciò non significa che tutte le rappresentazioni siano false» (1997: 24), e il fatto che la gente talvolta «negozi, sfrutti, reinterpreti, prenda a prestito e crei forme culturali […], ‘inventi tradizioni’ […] e ‘immagini comunità’» non significa che «si liberi degli schemi interiorizzati. Anche quando è intenta a reinventare se stessa, la gente non agguanta nuove forme culturali per aria» (ivi: 25). E se Clifford (1999: 82) si lamenta delle resistenze contro l’antropologia postmodernista, Strauss e Quinn (1997: cap. 2) si lamentano delle resistenze, da parte dei postmodernisti, contro l’antropologia cognitiva. Postulando di andare oltre le vecchie opposizioni, riportano il famoso passo di Geertz che considerano un «pubblico attacco» che «contribuì a bandire per lungo tempo dalla corrente principale dell’antropologia americana non solo l’antropologia cognitiva di allora [la cosiddetta etnoscienza] ma quella psicologica in genere» (1997: 254), ossia quella che prende in considerazione anche gli aspetti intrapersonali della cultura. Scriveva fra l’altro Geertz: Chiamata variamente etnoscienza, analisi componenziale o antropologia cognitiva (un ondeggiare terminologico che riflette una più profonda incertezza), questa scuola di pensiero ritiene che la cultura sia composta di strutture psicologiche per mezzo di cui gli individui o i gruppi di individui guidano il loro comportamento […]. Da questo modo di vedere la cultura deriva un’idea altrettanto chiara di come la si debba descrivere – la compilazione di regole sistematiche, un algoritmo etnografico che, se seguito, renderebbe possibile agire in modo da essere scambiato per un indigeno (a parte l’aspetto fisico) (1987: 48).

Che Geertz avesse ragione di criticare la vecchia etnoscienza – che D’Andrade (1995) nel suo excursus sull’antropologia cognitiva considera il suo momento di nascita, oggi ampiamente superato – Strauss e Quinn concordano. Ma le varie teorie dei frames e degli 85

schemi hanno ampiamente superato le difficoltà, dovute anche a miscomprensioni, derise con grande talento letterario da Geertz, più che criticate. L’ironia vuole che uno dei migliori esempi che danno ragione a Strauss e Quinn circa l’applicazione della teoria degli schemi in antropologia sia uno studio di James Clifford, nonostante la sua figura di resistente anticognitivista gli vieti di proclamare pubblicamente i suoi debiti. In un articolo del 1997, diventato il terzo capitolo del suo ultimo libro, Strade, egli parla del lavoro sul campo e del viaggio come pratiche spaziali degli antropologi. Non usa mai il termine schema, ma quello di habitus di Bourdieu, che però tratta più nell’accezione del concetto connessionista di schema. Lo si vede, fra l’altro, da un piccolo escamotage, quando, costretto a parlare di «esemplari», piuttosto di riferirsi espressamente alla teoria dei prototipi di Rosch, va a scomodare il grande Kuhn de La struttura delle rivoluzioni scientifiche: non occorre fare il giro del mondo per sapere se il cagnolino ha fatto la pipì sul tuo tappeto. Nel suo saggio Clifford cerca di mostrare come la ricerca sul campo faccia parte della tradizione di viaggio occidentale, da un lato, e come essa sia di fondamentale importanza nella creazione dell’antropologo di professione di oggi, dall’altro. Il fatto, però, che la pratica non sia uniforme e che le condizioni mondiali siano mutate (migrazioni, diaspore ecc.) esigono nuove creazioni di pratica sul campo e nuove riflessioni che portino a un cambiamento dell’habitus logoro dei vecchi antropologi. Fra cui la sua, appunto. Il saggio è brillante, il risultato meno: in un mondo dove tutti vanno dappertutto solo l’etnografo dovrebbe pensare seriamente a muoversi meno da casa… Clifford scrive troppo bene per volerlo riassumere. Riporto allora stralci dove il lettore troverà molte delle cose che abbiamo già incontrato, a volte dissimulate: Questa molteplicità di pratiche rende sfuocato il significato di «lavoro sul campo» e ne esclude una definizione netta, referenziale […]. Le definizioni basate sul concetto assumono un prototipo, spesso un’immagine visiva, per stabilire un nucleo centrale su cui vengono poi giudicate le varianti. La famosa fotografia della tenda di Malinowski piantata nel mezzo di un villaggio delle Trobriand è stata considerata a lungo come una forte immagine mentale del lavoro sul campo in antropologia […]. Ci sono state altre immagini: rappresentazioni di interazione personale: per esempio

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le foto di Margaret Mead che si piega affettuosamente verso una madre balinese e il suo bambino. Inoltre […] la stessa parola «campo» evoca immagini mentali di uno spazio sgombro, di coltivazione, di lavoro, di terreno. Quando parliamo di lavorare nel campo, o di andare nel campo, attingiamo a immagini mentali di un luogo distinto con un interno e un esterno, che raggiungiamo con pratiche di movimento fisico. Queste immagini mentali focalizzano e costringono le definizioni. Esse, per esempio, ci fanno considerare improprio affermare che un antropologo, uomo o donna, che assume informazioni per telefono dal suo studio stia svolgendo lavoro sul campo, anche se quello che sta compiendo in effetti è la raccolta disciplinata, interattiva, di dati etnografici. Le immagini materializzano i concetti, producendo un campo semantico che appare ben chiaro al «centro» e più incerto sui «margini». La stessa cosa si verifica con concetti più astratti. Un ventaglio di fenomeni sono raccolti intorno a prototipi; per deferenza verso Kuhn […], parlerò di esemplari. Allo stesso modo in cui un pettirosso viene considerato più tipico come uccello rispetto a un pinguino e aiuta a definire il concetto di «uccello», così alcuni casi esemplari di lavoro sul campo consentono di tenere insieme esperienze eterogenee. Il lavoro sul campo di tipo «esotico», condotto per un periodo continuativo di almeno un anno, ha costituito per qualche tempo la norma su cui altre pratiche vengono giudicate. Misurate su questo esemplare, diverse pratiche di ricerca interculturale appaiono come un lavoro sul campo meno «reale». Reale per chi? […] Nel tentativo di cogliere le tracce del mutamento delle relazioni dell’antropologia con il viaggio, può tornarci utile pensare al «campo» come a un habitus piuttosto che a un luogo, come cioè un gruppo di disposizioni d’animo e pratiche fatte proprie, incarnate (1999: 73-74; 93).

Un «cognitivista» non avrebbe saputo fare di meglio, e qualche «cliffordiano» nostrano non si sentirà molto a suo agio: sedotto e abbandonato?

Capitolo quarto

La guerra delle metafore

Forse la storia universale è la storia di alcune metafore. [O meglio:] Forse la storia universale è la storia della diversa intonazione di alcune metafore. Borges Altre inquisizioni

C’è chi lotta per i confini: – È meglio l’antropologia del noi! – No, è meglio l’antropologia degli altri! E c’è chi lotta per gli antenati: – Non è Erodoto l’antenato fondatore dell’antropologia, come dite voi europei. Io che sono tunisino vi dico che è Ibn Khaldun! I motivi di lotta sono come i ponti degli asini e ce ne saranno sempre, non fosse altro perché, come mi dice Novalis via Borges, ogni libro ha il suo contro-libro. Ultimamente ci si sta accorgendo che le lotte riguardano sempre, o quasi, delle metafore, e in questo capitolo ci occuperemo di questo, per capire in quali notti buie e tempestose gli antropologi inzuppano spesso il loro cervello. Come chiamare quell’esperienza condivisa da più persone che fa sì che queste stesse persone siano poco-abbastanza-tanto distinguibili rispetto ad altre persone? La decisione è importante: la teoria delle reti semantiche ci dice che, a seconda della parola che scelgo, il concetto può poi slittare da una parte o dall’altra; la teoria dell’analogia inter-domini ci insegna che la descrizione del dominio-bersaglio può cambiare notevolmente a seconda del dominio-sorgente che scelgo, che si trascina tutte le reti semantiche ad esso connesse; varie teorie di politica accademica (di solito abbozzate solo nei cor88

ridoi dei dipartimenti e nei salotti dei convegni) avvertono che se sbagli metafora puoi rimaner fregato… 1. Costumi e costumanze In Occidente, per secoli, per la percezione della diversità collettiva dell’esperienza è stata usata la metafora dell’apparenza esterna: in latino habitus (quello di Bourdieu) indicava sia lo stato o disposizione di un individuo, sia le usanze di un gruppo, sia, appunto, l’abito, l’abbigliamento. L’habitus era uno schema che costruiva la diversità a partire dalla diversità esteriore, quindi a partire da uno schema visivo, e che nel corso dei secoli si è specializzato nella diversità di abbigliamento: abiti diversi = vite condivise diverse. Il termine sta recuperando l’interesse degli studiosi (da ultimo, cfr. Clifford 1999: 98-99). Su tutto questo Remotti (1993: 30-46) ha scritto pagine illuminanti, dimostrando come habitus sia etimologicamente collegato al verbo habeo, «avere», al quale si connette anche habito, «essere solito; abitare», da cui anche «habitat». Le etimologie sono spesso metafore cristallizzate, ed è significativo che tutto parta da un verbo frequentativo, habito, una forma che marca prima di tutto la ripetizione, o meglio l’idea della ripetizione, dell’iterazione e del ribadimento quotidiano, della replica da una persona all’altra e quindi della mimesi. Per le usanze, di comportamento e di foggia, vi era anche il termine mores, che avrà il percorso opposto a quello di habitus e si specializzerà sul versante del comportamento (la «morale»). Un altro termine che rimanda a concetti simili è ovviamente «costume», che in italiano mantiene la doppia denotazione di usanza e abbigliamento. Il mio dizionario dice che deriva dal latino consuetudo, o meglio, dalla forma dell’accusativo consuetudinem, per usura fonetica con assimilazione di d…m a m…n > *cons(ue)tumen. Oltre che in italiano, il doppio significato è mantenuto in diverse lingue moderne. In francese la distinzione è attuata solo tramite una piccola variazione fonetica: costume e coûtume (dove l’accento circonflesso marca giusto la caduta della s). Anche in inglese avviene un fenomeno simile, con costume (lato abbigliamento) e custom (lato usanze), diventato in molti posti dell’Oceania in seguito alla colonizzazione il kastom di cui parlano molti antropologi. Un tentativo simile si è avuto anche 89

in italiano, tuttavia, dove a lato di «costume» si è confezionato l’arcaico costumanze. Questo fenomeno delle piccole variazioni lessicali è più interessante di quanto non sembri, poiché è una traccia del processo di allontanamento dall’operazione metaforica originaria; è un tentativo di superare il riduzionismo analogico mantenendo contemporaneamente la memoria della metafora attuata. Si formano così quei «termini modulati» che distinguono e non distinguono contemporaneamente, di cui ho parlato altrove (Piasere 1998). La metafora del costume è ovviamente legata all’importanza data dal fatto e dal modo di abbigliarsi. Le distinzioni date dal costume sono prima di tutto di ordine visivo: io vedo chi si copre con qualcosa e come lo fa. Il corpo vi ha un’importanza base, perché la sua «copertura» diventa una discriminante: chi resta nudo non ha costumi  costumanze ed è ai limiti dell’umanità. L’umanità comincia quando si interviene sul corpo (Remotti 2000). D’altra parte, le modalità di questo intervento variano e l’abbigliamento, prendendo come metafora il codice linguistico, «parla», ha le sue lingue e i suoi dialetti. Scrive Gian Paolo Gri: L’analogia fra fenomeni vestimentari e fenomeni linguistici scende dunque in profondità. Come un sistema linguistico si configura in dialetti locali (e questi a loro volta in registri e livelli interni), così accade nella pratica sociale del vestire. Si danno raramente, in entrambi gli ambiti, confini netti (i confini netti sono propri delle uniformi. Può accadere che un «dialetto» vestimentario tradizionale irrigidisca alcuni suoi aspetti in uniforme, ma in generale il fenomeno non ha lunga durata, se non intervengono fattori esterni); si danno piuttosto aree di sovrapposizione e di trasformazione. Si presentano fenomeni di bilinguismo e di plurilinguismo: si può fare riferimento a più di un sistema vestimentario. Una comunità, insomma, presenta un repertorio articolato di codici vestimentari al proprio interno e in riferimento con l’esterno; e si danno fenomeni di gerarchie relative, di alternanza, di interferenza (2000: 72).

L’appartenenza a un «costume» crea delle frequentazioni iterative e quindi dei legami fra i suoi membri. Ancora oggi i customs inglesi rappresentano anche la clientela di una persona o una ditta e i suoi customers sono i clienti. Ma customs è anche la dogana, quel confine che rappresenta un ostacolo al libero scambio di beni. Per portare beni fuori dai tuoi «costumi» o per portare beni dentro ai tuoi «costumi» tu devi chiedere il permesso (dichiararli) o anche pagare uno scot90

to (la tassa di importazione). I customs, in quanto rete e limiti della circolazione di beni, rappresentano la rete e i confini dei legami sociali «morali»: si privilegia lo scambio con quelli che, secondo noi, si comportano ripetitivamente come noi perché vestiti come noi. 2. «Civilisation» e «Kultur» Francesco Remotti (1990: 79-160) ha scritto pagine chiare sul momento del passaggio, nel pensiero europeo moderno, dall’uso del concetto di «costumi», che individua come luogo dell’esteriorità, a quello di «cultura» in quanto ordinatrice di senso dei costumi. In questo nostro discorso daremo per conosciute quelle pagine che mostrano un momento basilare della nascita della moderna scienza della cultura, appunto. Il filo della nostra matassa va solo ad approfondire qualche dettaglio di quel discorso e a infilarsi in qualche ago nuovo. Se il concetto di costumi/costumanze era certo usato dai dotti, esso era anche ampiamente presente nel linguaggio comune. Diversa è la storia del concetto di cultura, la cui origine dotta sembra provata. Per la prima volta sembra essere usato in funzione sostitutiva a quello di «costumi» dal filosofo tedesco Johann Gottfried Herder, che alla fine del Settecento scriveva: L’educazione del genere umano, quindi, è duplice, genetica e organica: genetica, mediante la comunicazione; organica, mediante la ricezione e l’applicazione di ciò che viene comunicato. Se vogliamo chiamare questa seconda genesi dell’uomo, che dura per tutta la sua vita, cultura, prendendo l’immagine della coltivazione dei campi, o lumi, valendoci dell’immagine della luce, non ha importanza; ma la catena della cultura e dei lumi si estende fino alla fine della terra. Anche gli abitanti della California e della Terra del Fuoco hanno imparato a fare ed usare archi e frecce; hanno linguaggio e concetti, esercizi ed arti che hanno imparato, come le abbiamo imparate noi, e pertanto anch’essi sono veramente civilizzati e illuminati, sia pur in misura minima. La distinzione tra popoli illuminati o non illuminati, coltivati o non coltivati, dunque, non è di specie ma soltanto di grado. Il quadro delle nazioni ha quindi infinite sfumature che cambiano con i luoghi e con i tempi, e anche in questo, come in ogni quadro, dipende dal punto di vista da cui se ne colgono le figure (1992: 158).

Qui il termine cultura (Kultur) è dichiaratamente presentato come una metafora tratta dalla coltivazione dei campi, l’agri cultura, in 91

competizione con quella della luce, i lumi, che dopo l’Illuminismo, appunto, si perderà ma che ritroveremo altrimenti espressa in antropologia. La metafora non è nuova e sembra derivare da quella cultura animi di cui parla Cicerone e dai precetti dell’educazione di cui parla Orazio. La coltivazione dell’anima è un intervento ordinato e ordinatore affinché una persona riceva un’educazione, ossia – e-duco – un intervento per «tirar fuori» dalla massa, una elezione spirituale. Come è ben noto, il termine «cultura» ha mantenuto in italiano questa accezione: un uomo di cultura è colui che ha un’educazione, un istruito; un’attività «culturale» è un’operazione che si distingue dalle attività quotidiane ed è di tipo non manuale, ma intellettuale o artistico. Oltre che per tutti i motivi indicati da Remotti, notiamo un passaggio dalla nozione di «intervento sul corpo» a quello di «intervento sull’anima», un passaggio che rispecchia le nozioni condivise circa la divisione tra anima e corpo. Questa divisione prevedeva interventi socialmente stratificati: se il popolo ha i costumi (corpi lavorati), i colti(vati) – spesso solo i ricchi, i nobili e il clero – hanno la cultura/educazione (anime lavorate). Il tentativo di Herder è quindi rivoluzionario, dal momento che cerca di dimostrare che tutti gli uomini sono coltivati nell’anima: perfino gli abitanti della Terra del Fuoco. Questo tentativo di innalzamento degli ultimi arrivava in un momento in cui stava nascendo in Europa una forte campagna contro la schiavitù. È veramente strano quanto siano poco indagati i collegamenti tra la storia dell’antischiavismo e la storia della nascita dell’antropologia in Europa. L’estensione del concetto di cultura in quanto anima coltivata anche agli schiavi («la catena della cultura si estende fino alla fine della terra») rappresentava un colpo alla lunga mortale per il commercio pubblicamente accettato della carne umana. Non è un caso che il concetto di Kultur venga proposto nello stesso periodo del corrispondente francese civilisation (civiltà, civilizzazione) che, col suo significato moderno, non appare prima del 1766. Significativamente, nel 1775 Diderot definiva il nuovo concetto servendosi di un altro nuovo termine allora coniato, «emancipazione»: «l’emancipazione, o ciò che è la stessa cosa con un altro nome, la civilisation…» (cit. in Kuper 1999: 28). Adam Kuper (1999: 23-46), nella sua critica recente al concetto di cultura in antropologia, sulla base di alcuni studi di Lucien Febvre, Norbert Elias e Raymond 92

Williams, traccia la storia della nascita, dello sviluppo e della contrapposizione tra i termini Kultur e civilisation in Germania e in Francia, come pure del termine culture in Inghilterra. Civilisation e civilisé occorrevano nei secoli precedenti in coppia con police, politesse e policé, termini che rimandavano al rispetto delle leggi in uno stato ben ordinato. Nella nuova accezione illuminista, civilisation era concepito in senso olistico, come un tutto complesso e sfaccettato, transtemporale e transnazionale, mentre il corrispettivo protoromantico Kultur era delimitato nel tempo e coestensivo con l’identità nazionale (Kuper 1999: 30). Kultur era usato in esplicita contrapposizione al termine francese. Dal momento che gli intellettuali tedeschi si vedevano in contrapposizione con le loro corti aristocratiche tendenzialmente francofone, queste erano viste essenzialmente come deculturate, artificiali e lontane dallo spirito del popolo. Quindi, «la nozione di Kultur si sviluppò in tensione col concetto di una civiltà universale che era associato alla Francia. Ciò che i francesi intendevano come una civiltà transnazionale era visto in Germania come una fonte di pericolo per le distinte culture locali» (ivi: 31). Al di là della primitiva contrapposizione franco-tedesca, civilisation/Kultur si è trascinato fino ad oggi la tensione tra universale e particolare o, come si dice oggi, tra locale e globale, e ha costituito a lungo un binomio ambiguo. Quando nel 1871 Tylor dà la famosa definizione che tutti i manuali di antropologia, anche in epoca postmoderna, riportano, non definisce il concetto di cultura, ma quello di «cultura o civiltà», dando i due termini come sinonimi. Riportiamo il passo originale: Culture, or civilization, […] is that complex whole which includes knowledge, belief, art, law, morals, custom, and any other capabilities and habits acquired by man as a member of society (Tylor 1871: 1).

Quell’«or civilization» viene quasi sempre espunto dai manuali oggi che si è imposto solo il primo termine, o tralasciato senza spiegazione. Ma in molti contesti, compreso quello italiano, solo di recente il termine cultura si è imposto. In tanti testi ritroviamo ancora la difficoltà dei decenni scorsi di tradurre il tedesco Kultur, normalmente traslato con «civiltà». Un famoso testo di Jakob Burkhardt del 1860 dal titolo Die Kultur der Renaissance in Italien, fin dalla prima versione italiana del 1876 divenne La civiltà del secolo del Rinasci93

mento in Italia, e dal 1899 semplicemente La civiltà del Rinascimento in Italia, e tale è rimasto nelle edizioni di oggi (ad esempio Burkhardt 1987). Quando l’antropologia culturale comincia ad avere le prime cattedre nelle università italiane, negli anni Settanta del Novecento, cioè con quasi un secolo di ritardo rispetto ad altri Paesi, noi assistiamo ancora a un’aspra polemica tra due dei suoi massimi esponenti, Tullio Tentori e Bernardo Bernardi, sul problema della distinzione concettuale fra i termini civiltà e cultura. Il primo riteneva che la civiltà fosse oggetto di studio dell’etnologia, ancora allora ritenuta la scienza delle «società primitive», mentre la cultura sarebbe stata appannaggio dell’antropologia culturale, appunto, da poco sbarcata dal Nord America. Il secondo proponeva invece di soprassedere su questa divisione manichea e, partendo dall’etimologia del termine, di considerare la civiltà come uno dei tipi di cultura, quella dei popoli che hanno sviluppato insediamenti di tipo urbano (su tutta la polemica cfr. Bernardi 1978). Oggi che il termine cultura si è ampiamente imposto, in italiano resta uno scarto di significato tra i due. Se è vero che si può parlare di cultura cinese e di civiltà cinese, o di cultura araba e di civiltà araba, è anche vero che i due termini non sono sempre alternabili. Si parla certo oggi di cultura dei pigmei, ma chi parla della civiltà dei pigmei? Si parla della cultura degli zingari, ma chi parla della civiltà degli zingari? Ossia, nel trinomio etnia-cultura-civiltà, a livello di uso comune di termini, è sottesa una gerarchia di valore che i libri di antropologia e di sociologia trasmettono implicitamente: «etnici» sono sempre gli altri, «culturali» lo possiamo anche essere tutti, ma appartenenti a una civiltà, beh, questo lo siamo ancora in pochi! E l’espressione «scontro tra civiltà» è ben più rimbombante e apocalittica dello «scontro tra culture». Lo scontro tra civilisation e Kultur rimandava a uno scontro tra due metafore importanti, quella urbana, di provenienza franco-illuministica, e quella rurale, di provenienza tedesco-romantica. Tali metafore, all’epoca esplicite, si sono poi cristallizzate e, diventando più astratte, hanno a poco a poco depositato nel subconscio le loro metafore primitive, che ad esempio ritroviamo in italiano. La guerra delle metafore continuerà in altro modo, senza la ricerca di nuovi termini. Resta il fatto che, con cultura o civiltà, noi usiamo termini per designare lo stato di essere Uomo/uomini, termini che derivano da un’esperienza storica non condivisa da tutti gli uomini e 94

quindi implicitamente etnocentrici. Scrive Borges parlando dei popoli allevatori di cavalli: «l’uomo a cavallo […] finisce sempre col perdere. […] È dal contadino che deriva la parola cultura; dalle città la parola civilizzazione; l’uomo a cavallo è una tempesta che si disperde» (1999a: 78, 79). Oggi possiamo parlare della «cultura degli Unni» e magari anche della loro «civiltà», ma se quella volta avessero vinto gli Unni, parleremmo oggi dell’«allevamento degli italiani»? Scriveremmo manuali di «antropologia allevamentale»? 3. Corpi & c. Nel momento in cui la metafora della cultura animi si trasforma nel concetto di cultura e il termine viene adottato ufficialmente, discusso, definito, essa subisce un processo di essenzializzazione che sposterà la disputa verso altre direzioni. Il processo di essenzializzazione avviene attraverso una enfatizzazione delle caratteristiche di un concetto particolare, le quali vengono pensate come manifestazione di un’essenza sottostante generale. Tale processo è fortemente favorito dall’etichettamento verbale. Il che significa che un concetto dotato di un nome tende a essere pensato su una base essenzialista più che un concetto senza nome (Davidson e Gelman 1990). Demetaforizzata ed essenzializzata-enfatizzata attraverso definizioni come quella di Tylor, la cultura va in cerca di altri partner analogici1. Durante il periodo struttural-funzionalista, il corpo ha costituito un’analogia non molto propagandata ma certo privilegiata. La cultura era vista come l’espressione di una società che agiva come un corpo. La metafora della società come corpo ha profonde radici nella cultura occidentale. Si pensi a Menenio Agrippa e al suo apologo sulla necessità della cooperazione tra le varie parti del corpo, si pensi a Isidoro di Siviglia che categorizzava i gradi di parentela con gli arti del corpo, o al Leviathan di Hobbes. Nel Rinascimento diversi sapienti pensavano che la stessa terra e i pianeti non fossero altro che 1 Il processo di essenzializzazione dei concetti è un processo quotidiano, apparentemente universale, fatto in analogia col mondo materiale, come vedremo quando parleremo della metafora del contenitore. Il concetto di de-essenzializzazione, quindi, tipico dell’antropologia interpretativa, è, per usare una delle espressioni più care a Geertz, uno dei concetti «più lontani dall’esperienza» che gli antropologi abbiano mai proposto.

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grandi animali; ecc. L’organicismo struttural-funzionalista poggia sulla storia di una metafora occidentale popolare e la esprime ipostatizzando le funzioni delle parti di una società. «Gli europei – scrive Marilyn Strathern – possono pensare alla cultura come a un corpo organico composto di parti, perfino personificandolo come un agente con volontà e capacità di agire» (1992: 48). E come i corpi, essa è soggetta a «crescita». Parlare di anatomia sociale, di fisiologia o di patologia sociale non è altro che un modo di cercare di mappare al completo il dominio-bersaglio della società col dominio-sorgente del corpo. La metafora corporale non è caduta col venir meno del funzionalismo, ma si è mantenuta nelle teorizzazioni di oggi. Si parla correntemente di «ibridazioni» e «meticciamenti» culturali, si scrivono libri sulle Logiche meticce (Amselle 1999), sulle Culture ibride (Canclini 1998) e il «mondo ibrido» (Malighetti 2001). Considerata l’essenzializzazione del concetto di cultura, espressioni come «cultura ibrida» diventano degli ossimori. Ma, nella realtà, quand’è che il mondo non è stato «ibrido»? Grazie agli autori che si rifacevano al cosiddetto diffusionismo, l’antropologia lo sa almeno dal XIX secolo, cioè da quando è nata! Specie in Europa, e in Italia in particolare, autori che sostenevano la convivenza interculturale sono passati nel giro di qualche mese a sostenere il «meticciamento» multiculturale, con un’operazione inversa a quanto avvenuto nel Nord America nei decenni scorsi, dove a una fase in cui si privilegiava il melting pot, il «crogiolo» corrispondente all’odierna «ibridazione», si è passati a quella della salad bowl, l’«insalatiera», corrispondente alla convivenza tra culture sotto lo stesso cielo, in cui le varie verdure/culture sono sì mescolate ma mantengono la loro specificità (seppur a pezzetti…). Oggi si usa come dominio-sorgente quello dell’incrocio genetico e (censurato) razziale per dar conto del risultato dell’incontro culturale. Le culture, come i corpi, «si abbracciano», «si compenetrano» e «si fondono in uno», «generando» culture ibride, meticce e, con un procedimento di inversione alla Lévi-Strauss, esse sono oggi tanto santificate quanto poco tempo fa venivano dannate le razze considerate «bastarde» (cioè ibride, cioè meticce). È un’analogia assolutamente infelice, che mappa in modo pericoloso un dominio delicato e fondamentale circa il rapporto tra gli uomini, che ha bisogno di ben altre analogie creatrici. Anche il termine «creolizzazione», dallo stesso significato ma apparentemente più neutro, 96

non sfugge alle conseguenze di questa infelicità analogica. I creoli erano gli abitanti bianchi dei Caraibi che parlavano lingue miste di provenienza franco-inglese-spagnolo-portoghese-olandese. È Marilyn Strathern che svela il messaggio implicito del concetto di creolizzazione culturale come incorporazione «naturale», in contrapposizione a quella «artificiale», della diversità nella lingua: L’immagine della creolizzazione è giunta dai Caraibi rurali, dove ogni razza era una razza mista e ogni lingua il prodotto di coalescenze e reinvenzioni di altre. Pensare alle culture in quanto creolizzate era come pensare a una sorta di lingua franca che era anche un dialetto locale, di modo che gli stessi elementi transculturali si ritrovavano ovunque, ma ricombinati in configurazioni sempre nuove in ogni singolo posto. Dal momento che il risultato dell’incrocio (miscegenation) era dato dalla riproduzione di un’entità che non assomigliava a nessuno dei genitori, ciò suggeriva un processo rigenerativo naturale. Il nuovo corpo culturale poteva essere immaginato come un unico ibrido (1992: 51).

Questa deriva metaforica biologizzante mostra quanto possa essere inconsciamente facile equiparare il concetto di cultura a quello, condannato ma evidentemente interiorizzato, di razza. Boas trovò nel concetto di cultura lo strumento per combattere quello di razza – e i suoi libri finirono al rogo nazista. Ma sono diversi gli autori che denunciano la deriva «razzista» che il concetto di cultura può subire dopo il collasso della razziologia. Per il contesto nordamericano, Walter Benn Michaels sottolinea come i due concetti siano legati inestricabilmente in tanti discorsi e afferma che, lungi dall’essere una critica al razzismo, il concetto di cultura «è una forma di razzismo», la forma di razzismo dominante dopo l’abbandono di un esplicito linguaggio biologico (1995: 129). Per il contesto europeo, e nell’ambito di uno studio sull’immigrazione in Norvegia, Unni Wikan dice apertamente che «‘cultura’ è diventato un nuovo concetto di razza, per il fatto che funziona in una maniera riduzionistica per rendere ‘loro’ degli esseri meno umani di ‘noi’» (1999: 58). La stessa metafora del meticciamento è sorella di quella usata da coloro che al meticciamento, all’«imbastardimento», si oppongono. I razzisti di oggi, regionali o nazionali, sempre con riferimento al corpo, usano piuttosto la metafora della morbilità e parlano degli immigrati come anticorpi da estirpare, da combattere, da debellare e 97

vedono i confini degli Stati come i confini di un corpo da proteggere contro agenti patogeni esterni. In un bello studio sui rapporti al confine tra Grecia e Albania, Sarah Green mostra come gli immigrati clandestini albanesi siano pensati come «qualcosa di simile a un attacco biologico portato ai corpi e all’integrità di quanti vivono dalla parte greca del confine» (1998: 129). L’antropologa inglese cita uno studio di Helman, per il quale «nella metafora dell’infezione causata da germi, nascosta, vi è la paura della penetrazione di quella pelle mentale esistente tra il sé e il diverso-da-sé, tra loro e noi, dalla quale consegue il terrore del caos e della contaminazione morale» (ibidem). 4. Sperber è contagiato Da un altro punto di vista, il neo-diffusionismo di Sperber (1999) fa esplicito uso di una metafora medico-corporale: le idee si trasmetterebbero per contagio, tanto che si può parlare di una epidemiologia delle rappresentazioni. Sperber è egli stesso «contagiato» dal lavoro di due genetisti, Cavalli-Sforza e Feldman (1981), i quali hanno applicato i modelli matematici di trasmissione delle malattie alla trasmissione culturale e hanno di fatto aperto tutto un nuovo campo di ricerca. In Sperber, l’impiego metaforico è cosciente, voluto e discusso in dettaglio. Secondo l’autore il concetto di epidemiologia delle rappresentazioni è un’analogia felice, poiché è quella che per il momento meglio di ogni altra spiegherebbe il fenomeno della diffusione culturale e delle idee: Come si può dire che una popolazione umana sia abitata da una popolazione molto più numerosa di virus, si può dire anche che sia abitata da una popolazione molto più numerosa di rappresentazioni mentali. La maggior parte delle rappresentazioni si trova in un solo individuo; alcune, invece, vengono comunicate: sono prima trasformate da chi le comunica in rappresentazioni pubbliche e poi ritrasformate da chi le percepisce in rappresentazioni mentali. Un numero molto ristretto di queste rappresentazioni comunicate viene comunicato ripetutamente. Attraverso la comunicazione (o, in altri casi, l’imitazione), alcune di esse si diffondono in una popolazione umana e possono abitarne ogni singolo membro per molte generazioni. Rappresentazioni così diffuse e durevoli sono casi paradigmatici di rappresentazioni culturali (1999: 30).

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Come si può notare, Sperber insiste sul fatto che le rappresentazioni, una volta trasmesse, vengono sempre trasformate («la memoria e la comunicazione trasformano l’informazione»; ivi: 35), sottolineando contemporaneamente che qui l’analogia epidemiologica conosce uno scarto: i virus si diffondono per replica, raramente per mutazione, mentre è il contrario per la cultura, in cui la replica, se mai succede, è un’eccezione (ivi: 61). Ciononostante, l’uso dell’analogia è costante: le tradizioni sono come le malattie endemiche, mentre le mode sono paragonabili alle epidemie. Epidemie, allora, come trasformazioni, per cui l’epidemiologia delle rappresentazioni riguarda essenzialmente il processo della loro distribuzione: «in questo approccio i fenomeni socioculturali sono distribuzioni ecologiche di fenomeni psicologici» (ivi: 35), distribuzioni che avvengono per trasformazione «sulla base di processi cognitivi costruttivi» (ivi: 106). 5. Piante & c. Il viaggiatore che costeggi il Po e che pensi di fare una sosta a Calto, nell’Alto Polesine, incontrerà un enorme pioppo attorno al cui fusto sono stati appesi in bell’ordine spiraliforme dei cartoncini con i soprannomi degli abitanti del paese: è l’arbul di scutmai, l’albero dei soprannomi (cfr. figura 1). Nelle culture europee è diffusissima l’analogia dell’albero con lo sviluppo familiare transgenerazionale, analogia che gli antropologi hanno divulgato nel mondo attraverso l’adozione del cosiddetto albero genealogico. Le cosiddette tassonomie ad albero, a loro volta, sono costruzioni analogiche degli alberi genealogici. Secondo Mary Bouquet (1996), la «visione arborea» della parentela che gli antropologi hanno divulgato a partire soprattutto da Rivers, deriva da un «imperativo visuale», cioè da un’immagine-schema culturale profondamente radicata in Occidente e che ebbe uno sviluppo iconografico notevole. Le iconografie della parentela arborescente avevano nell’età moderna sia scopi religiosi nell’illustrazione della sacra genealogia biblica che andava da Adamo a Gesù Cristo, sia scopi secolari nell’illustrazione del processo di eredità e successione di beni o di cariche dinastiche. L’arbul di scutmai di Calto, che rappresenta la simbolica unità genealogica dei suoi abitanti «arrampicati» su un 99

Figura 1. L’albero dei soprannomi (foto di L. Piasere).

unico fusto, è una metafora naturalistica della metafora iconografica con ritorno simbolico al dominio-sorgente. Nel momento in cui gli antropologi hanno usato l’albero genealogico per lo studio delle parentele extra-occidentali hanno agito in modo chiaramente etnocentrico, dal momento che la metafora dell’albero per mappare lo sviluppo transgenerazionale non è per nulla universale. Barbara Vatta, in un brillante studio il cui unico difetto è di non essere pubblicato, ha mostrato come gli Nzema del Ghana pensino matrilinearmente la genealogia come un campo di banani, piuttosto che come un albero. La pianta del banano da fecola, bana in nzema, ha una disposizione spaziale singolare nella riproduzione: la pianta madre è circondata sul terreno dai germogli più giovani, che le fanno un cerchio tutto attorno [cfr. figura 2]. Alla morte della pianta madre, attorno ad essa rimarrà un cerchio di giovani piante che cresceranno sempre di più fino a produrre a loro volta dei circoli di nuovi germogli. In questo processo si esprime la continuità, il passaggio del testimone tra pianta madre e germogli. Il terreno non rimarrà mai vuoto, anche recidendo la pianta più vecchia, altre numerose pianticelle saranno in grado di

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schema, ha immediatamente espresso il desiderio di riscrivere la propria genealogia (compilata assieme a[ll’antropologo italiano] Italo Signorini secondo i più rigorosi criteri antropologici) con lo stesso modulo.

Tra corpo umano e mondo vegetale vi può essere una metafora vicendevole. Nadia Breda ha dimostrato in modo emozionante come possa essere pensata una palude, ai confini tra Veneto e Lombardia, dagli uomini che la frequentano. Di essa si dice che vive, muore, sta in piedi, è coricata, è un letto per le piante.

Della pianta che per antonomasia la abita, la canna, si dice che parla, respira, si nutre, nutre, mangia, dà da mangiare, succhia, sta in piedi, sta seduta, sta coricata, soffre, scompare, si fa rispettare, ha forza, ha debolezza, fa fatica, è pianta madre, giubila, la [sua] radice pesca nell’acqua, corre sotto terra, vive, muore, scompare,

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mentre la carice è giovane, è matura, è vecchia, è cattiva, è trista (malata), è rognosa, si siede, sta in piedi, sta coricata, è una testa (Breda 2000: 351-352).

La metafora vegetale inversa, nei riguardi degli uomini, ha riguardato le parti più che l’insieme, come la parentela nelle relazioni sociali, o gli organi sessuali per le parti del corpo, come un famoso intervento televisivo di Roberto Benigni di qualche anno fa a «Fantastico» ha insegnato. Una delle più elaborate applicazioni della metafora nella cultura occidentale in questa direzione si deve forse a Julien Offroy de Lamettrie, che pubblicò nel 1749 un opuscolo su L’uomo pianta, in cui ogni parte del corpo umano, o quasi, era considerata l’analogo di una parte della pianta. Ad esempio: Se i fiori hanno le foglie o petali, noi possiamo considerare le nostre braccia e gambe come parti analoghe […]. Si può considerare l’utero vergine, o meglio non gravido, o, se si preferisce, l’ovaia, come un seme non ancora fecondato. Lo stilo della donna è la vagina; la vulva, il Monte di Venere con l’odore che esalano le glandole di queste parti, corrispondono allo stimma: e queste cose insieme, utero, vagina e vulva, formano il pistillo, nome che i botanici moderni danno a tutte le parti femminili delle piante. Paragono il pericarpo all’utero nello stato di gravidanza, perché serve a involgere il feto. Anche noi, come le piante, abbiamo la nostra semenza, e qualche volta è abbondantissima […]. Quanto a noi uomini, per i quali basta un colpo d’occhio, figli di Priapo, animali spermatici, il nostro stame è come arrotolato in un tubo cilindrico, ed è la verga; e lo sperma è il nostro polline fecondante. Simili a quelle piante le quali hanno soltanto un maschio, siamo delle monandria; le donne sono delle monogynia, perché hanno soltanto una vagina […]. Anche tra le piante ci sono dei negri, dei mulatti, delle macchie in cui l’immaginazione non ha parte alcuna (Lamettrie 1973: 84-85, 86, 89).

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6. Macchine e manufatti Nello stesso anno in cui esce L’uomo pianta, Lamettrie pubblica il più famoso L’uomo macchina, nel quale il corpo umano era appunto pensato come una macchina i cui movimenti non dipendono da un’anima, che per il filosofo francese non esisteva, ma dai suoi automatismi interni. In particolare, era pensato come un orologio con molle e congegni che si muovevano automaticamente: Esaminiamo in particolare le molle di questa macchina umana. Tutti i movimenti vitali, animali, naturali ed automatici vengono compiuti per effetto della loro azione. Non è forse meccanico l’atto con il quale il corpo si ritrae, preso da terrore alla vista di un precipizio inaspettato? O quello con il quale, come si è detto, le palpebre si abbassano alla minaccia di un colpo? […] Non è forse meccanicamente che agiscono tutti gli sfinteri della vescica, del retto, eccetera? Che i muscoli erettori fanno rizzare la verga nell’uomo come negli animali che se ne battono il ventre ed anche nei bambini, capaci di erezione soltanto se questa parte è un tantino irritata? Il che, tra parentesi, prova che in questo membro c’è una molla particolare, ancora poco conosciuta (1973: 66, 67).

Marilyn Strathern (1992: 47) afferma che, col corpo, la macchina ha fornito per tutto il ventesimo secolo delle «metafore parallele» al concetto di cultura. In effetti, la metafora meccanicistica, nata con lo sviluppo della tecnica, si è manifestata in modo criptico ma potente in antropologia. Essa è evidente anche in tutte le espressioni che rimandano a una visione della cultura o dei rapporti sociali come «manufatto», come «prodotto», che si può «costruire» o «smontare» – oggi si preferisce dire «decostruire». Così, si parla di «reti» sociali, le quali possono avere, come le reti metalliche o da pesca, «maglie» larghe o più o meno strette. Dal momento che il dominiosorgente è il nostro mondo cantierizzato, in genere la metafora prevede che vi sia un «cantiere» in cui la cultura è costruita e, a seconda delle modalità dell’edificazione, i «muratori» o i «carpentieri» possono essere strutturalisti o costruttivisti. I primi ritengono che la «struttura», vista spesso come una impalcatura, una travatura, una intelaiatura, uno scheletro portante da riempire, per quanto concettualizzata come di tipo simbolico, sia ben organizzata e abbia un’alta capacità di produzione impersonale che avviene meccanicamente. Tale produzione opera automaticamente con l’applicazione di al105

goritmi, formule canoniche e altre regole matematizzabili. I secondi ritengono che non vi siano sempre strutture che producono culture, ma che la produzione sia contingente, strettamente di tipo non essenzialistico, sempre congiunturale e personale, e segua le linee di forza della società: il più potente costruisce non usando regole matematiche da scoprire, ma in base alle sue regole, che sono quelle del più forte, appunto, o, quando va bene, in base a regole negoziate tra gli attori (più forti) in campo. L’analogia «manifatturiera», dominante in antropologia negli anni Sessanta-Settanta, ha portato poi, ad avviso di Strathern, alle metafore cibernetiche e topologiche, che producono modelli sul flusso di informazione e dei sistemi processuali. La stessa Strathern, comunque, rifacendosi a uno studio di Donna Haraway (1985), preferisce la metafora del cyborg, quell’entità creata nelle fictions di fantascienza che non è né corpo né macchina perché in parte animato e in parte tecnologizzato: «i principi in base a cui le sue diverse parti funzionano non formano un unico sistema. Le sue parti non sono né proporzionate, né sproporzionate fra loro. Le sue connessioni interne comprendono un circuito integrato, ma non una singola unità» (Strathern 1991: 36). Antropologicamente, pensare al cyborg permette di pensare alle culture come a fenomeni che possono essere connessi, senza un’assunzione di comparabilità (ivi: 38). Gli scritti antropologici, in generale, costituiscono «un tipo di circuito integrato tra parti che funzionano come estensioni di un’altra. Come campo di estensioni, il cyborg si muove senza viaggiare» (ivi: 55). Lo stesso modello connessionista in antropologia cognitiva deriva metaforicamente dal Pdp (Parallel Distributed Processing), un modello usato negli studi sull’intelligenza artificiale che si basa a sua volta sulla metafora neuronale della conoscenza. Il modello neuronale prevede che un network di neuroni funzioni olisticamente tramite l’attivazione dei links che li collegano a vicenda. Esso si contrappone al modello del «linguaggio di pensiero», seguito ad esempio da Sperber, secondo cui la conoscenza avviene per inferenze logiche che soddisfano a regole del tipo «se-allora». Come si vede, il connessionismo dell’intelligenza artificiale si basa ancora su una metafora di una parte organica, le cellule neurali: esso è «neuronalmente ispirato» (Strauss e Quinn 1997: 58), mentre l’antropologia connessionista, che come sottolineano le stesse Strauss e Quinn deve essere solo intesa come «connessionisticamente ispirata» (ivi: 60), 106

si basa sulla metafora di uno dei manufatti, costruito su una metafora, forse più elaborato dei nostri tempi: l’intelligenza artificiale. Con un bel percorso netto, riferendosi alle somiglianze di famiglia che sono uno dei mattoni di base di tutta la teoria connessionista, le antropologhe americane non cadono nel tranello (in cui cade invece D’Andrade, che tenta ancora di dare definizioni precise del concetto di cultura) di definire il concetto di «modello connessionista»: «come per ogni concetto, quello di ‘modello connessionista’ è piuttosto impreciso. Esso non ha confini chiari e non può essere definito da una lista di tratti sufficienti e necessari. Al contrario, vi sono somiglianze di famiglia fra i modelli usualmente considerati connessionisti, e che un modello sia incluso nella famiglia dipende da quanti e quali tratti connessionistici abbia» (ivi: 61). Il modello costruito da Remotti (1990), ad esempio, più ispirato alla filosofia che alle scienze cognitive, è senza dubbio parte della famiglia. È un anello che connette l’insieme dei modelli connessionisti con la storia filosofica delle idee occidentali. 7. Buoi e testi Dal momento che i ponti degli asini possono essere infiniti, come si diceva, è interessante vedere come un dominio-sorgente possa mappare due domini-bersaglio diversi e come questi entrino in conflitto. Abbiamo visto come la cultura provenga dall’agricoltura: che cosa si fa quando si coltiva un campo? Si ara, ossia si tracciano solchi. Il passaggio dal solco in quanto incisione sulla terra al solco in quanto segno di una traccia di pensiero è forse ciò che ha scatenato l’analogia per la nascita della scrittura. In qualsiasi caso, l’analogia tra aratura e scrittura è ben attestata nella storia occidentale, a indicare che anche i buoi, oltre agli asini, fanno la loro parte. Nell’antica Grecia si chiamava bustrofedica quella scrittura che non prevedeva di andare a capo alla fine della riga, ma di continuare nella riga successiva, allora in direzione inversa, così come fanno i buoi (da cui il nome) quando arano. L’analogia è pure evidenziata nel famoso Indovinello veronese, uno dei primi documenti di volgare italiano, dell’VIII o IX secolo: Se pareba boves, alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba

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dove i buoi sono le dita, i bianchi prati i fogli, il bianco aratro la penna e il nero seme l’inchiostro. Il foglio scritto come campo arato è un’analogia che ci si può aspettare tranquillamente in una cultura contadina. Un «campo segnato» simile, con segni «intrecciati», diventa un «tessuto» di segni, un textum, un testo. Nel corso del Novecento si è visto quello che può succedere in seguito a un brusco cambiamento di metafora in antropologia con l’esempio di Clifford Geertz. Allievo di Talcott Parsons, egli passò dalla metafora della società come organismo a quella della cultura come testo. Come hanno sottolineato Strauss e Quinn (1997: 13-14), tale passaggio è evidente nei diversi capitoli di Interpretazioni di culture, costituiti da articoli in precedenza scritti autonomamente. Alcuni di quei capitoli restano ancora strettamente funzionalisti, mentre in altri il passaggio di metafora sanziona il cambiamento. Dobbiamo soffermarci sulla metafora della cultura come testo, poiché essa è ancora predominante in alcuni circoli antropologici. In quanto metafora, cerchiamo di spiegarla con la teoria della metafora. L’analogia, come si è detto e qui ripetiamo, è una mappatura, a volte felice e a volte completamente infelice secondo le gradazioni dei voleri di Eubulide, da un dominio-sorgente noto a un dominiobersaglio ignoto. Tale mappatura tende a essere precisa, nel senso che si costruisce mediante corrispondenze ontologiche tra entità dei due domini. Così, dire che la cultura è un testo, significa stabilire corrispondenze tra le entità della cultura e quelle del testo, ossia trasferire le caratteristiche del testo (dominio-sorgente) a quelle della cultura (dominio-bersaglio). La metafora del testo non è completamente nuova: già nel Rinascimento era diffusa la metafora del mondo come libro (il LIBRO DEL MONDO)2. Ma in questo caso il testo è inteso in senso semiotico, come un insieme di segni, ermeneutico, come segni da interpretare, e anche letterario, come segni da interpretare secondo un modello narrativo. Se da molti la metafora del testo è considerata un’analogia felice, molti sono gli autori che ne hanno sottolineato l’«infelicità»: i cosiddetti simboli culturali, che spesso non sono altro che metafore locali, sono veramente come i simboli di un testo? Un testo lo si ap2 Seguendo l’uso di Lakoff e Johnson, indico in maiuscoletto le metafore cognitive.

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prende leggendo: si apprende una cultura leggendola? In realtà, è raro che si conosca personalmente l’autore di un testo, mentre l’etnografo conosce prima gli autori e poi, con difficoltà, i loro «testi». Può ciò avere implicazioni importanti per il mantenimento della metafora? Quanto ci si «perde», insomma? Quali e quanti sono gli aspetti che il dominio-sorgente «testo» distorce mappando il dominio-bersaglio «cultura»? Sono domande simili a queste che fanno dire a un’antropologa danese che «oggi la metafora del testo sembra esaurita e non si può più trascurare il fatto che non possiamo ‘leggere’ le culture. Questa particolare metafora è morta quando si è cominciato a interpretarla troppo alla lettera» (Hastrup 1995: 32). Ma ci sono effetti forse più importanti a cui ha portato la metafora del testo. Già in Geertz si è avuto uno scivolamento cognitivo, che le metafore possono favorire, attraverso un procedimento associativo noto come simmetria speculare, che ha spostato l’attenzione dalle culture come testi ai testi delle culture, cioè i testi delle etnografie. Vi abbiamo già accennato e vi ritorniamo solo per sottolineare la potenza che le metafore possono avere. Lo scivolamento associativo, favorito anche dalla scoperta del cosiddetto «pensiero narrativo» di cui parla Bruner (1993), ha comportato l’analisi dei testi attraverso le metodiche della critica letteraria e ha favorito l’apertura di un settore veramente utile, non fosse altro che per il fatto che ha attirato un’attenzione prima del tutto mancante nei modelli positivistici. Data la sua potenza, lo scivolamento ha comportato un riduzionismo incontrollato che si è sviluppato in due direzioni: la prima, che abbiamo già visto, è stata quella di vedere l’etnografia schiacciata sulla monografia scritta; la seconda, quella di schiacciare l’antropologia sulla critica letteraria. Come è noto, tale operazione ha portato alla costituzione della cosiddetta area dei cultural studies in cui, specie negli Stati Uniti, si assiste a una competizione tra antropologi e letterati per assumere l’egemonia (e si sa che ciò che succede nel centro del mondo prima o poi si propaga in periferia…). Lo schiacciamento è evidente nell’ultimo libro di Clifford, nel capitolo di cui abbiamo già parlato dove riprende il tema del lavoro sul campo. Quando parla della pratica di ricerca etnografica delle «localizzazioni mutevoli» proposta da Marcus (1995), una proposta maledettamente seria, egli ritorna sulle sue posizioni della cultura come testo, propugnando un’etnografia senza etnografia ed equiparando l’antropologia alla critica letteraria: «La pratica di ricerca definita da ‘localiz109

zazioni mutevoli’, senza la prescrizione dello spostamento fisico, dei moltiplicati incontri faccia a faccia, può in fin dei conti descrivere il lavoro di un critico letterario attento, come lo sono molti oggi, alla politica e ai contesti culturali delle diverse interpretazioni di testi» (1999: 117). È il vecchio Clifford che vuole un’etnografia disincarnata per liquidare l’antropologia e che, come si è detto, in un libro, bello, consacrato ai vortici di persone del mondo contemporaneo, consiglia agli etnografi di restarsene a casa propria e fare le ricerche per telefono… La metafora del testo implica, inoltre, che gli antropologi, in quanto studiosi di testi «altri», li devono tradurre: il lavoro dell’antropologo sarebbe quello del traduttore culturale o transculturale o interculturale. La metafora, valorizzata dai postmodernisti, era già in uso almeno dai tempi di Evans-Pritchard e Leenhardt e, se è indubbiamente utile per veicolare il senso di «procedimento per capire qualcosa di diverso», essa sovraccarica ancora di più il riduzionismo linguistico-testuale, dimenticando l’insegnamento di Borges, per il quale «un sistema non è altro che la subordinazione di tutti gli aspetti dell’universo a uno qualsiasi degli aspetti stessi» (1995: 16). Scrive Kirsten Hastrup: La cosiddetta traduzione culturale […] non è una questione di trovare le parole giuste per le osservazioni indigene, ma di comunicare un altro modo di comprendere le cose […] la grande sfida dell’antropologia non è di leggere le altre culture, ma di riscoprire epistemologie che stanno scomparendo [dal momento che] la traduzione non riguarda l’equazione ma la disequazione di mondi (1995: 43-44).

E tale gap può essere superato solo mediante un incontro personale, mediante l’incontro etnografico: «l’antropologo dovrebbe scoprire un mondo di valori, un universo morale, se si vuole, che non può essere letto, ma deve essere esperito; i mondi vengono vissuti, non scritti» (ibidem). Anche perché «l’esperienza sociale della gente, e quindi il materiale etnografico, è ampiamente non verbale. La cultura non è un testo, e l’antropologia non è letteratura» (ivi: 46). L’antropologo è solo uno dei tanti su cui pesa il maleficio borgesiano di «…chi esercita il mestiere / di rendere in parole questa vita» (Borges 1999b: 117).

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8. La guerra sulle metafore Nella Storia dell’eternità Borges ci informa che le metafore (kenningar) usate nella poesia islandese del X secolo furono donate dal dio Bragi al poeta-stregone Hler in visita agli dei nella loro fortezza (cfr. Appendice, § 1). Le metafore sono una cosa seria, e c’è da sospettare che una volta sparpagliatesi per il mondo la mole di quel «divino catalogo» sia oltremodo aumentata. Ne fa fede l’interesse che ha suscitato nei più vari studiosi, i quali hanno pubblicato, solo dal 1970 al 1985, così tanti lavori da riempire ben 484 pagine di un indice bibliografico sul soggetto (Friedrich 1991: 48)! Analizzare un campo così vasto va assolutamente oltre lo scopo di questo volume; qui ci accontentiamo di delineare le ultime e principali posizioni sul ruolo della metafora nel campo degli studi cognitivi, mettendo a confronto le proposte di Johnson e Lakoff e più in generale della linguistica cognitiva, con quelle di Naomi Quinn e più in generale dell’antropologia cognitiva. Se, infatti, metafore diverse comportano approcci teorici diversi, approcci teorici diversi possono avere idee (e metafore) diverse sulle metafore. 8.1. Le metafore come basi della conoscenza: da Lakoff a… Vico. La metafora – dice Lakoff – è stata intesa da Aristotele in poi come un problema di linguaggio ed è sempre stata intesa come una delle sue «figure»3 (Aristotele, infatti, ne parla nella Retorica (III, 9, 1412b) e nella Poetica (21, 1457b), ma non negli Analitici). In realtà, la rivoluzione cognitiva degli anni Ottanta e Novanta dimostrerebbe che la metafora è un fenomeno cognitivo, più che linguistico. La metafora, come l’analogia di altri autori, è «il modo in cui concettualizziamo un dominio mentale nei termini di un altro», è «una mappatura (in senso matematico) da un dominio di partenza a un dominio di arrivo» (Lakoff 1998a: 42, 48). Proprio per questo bisogna distinguere la metafora, che è un processo cognitivo, dall’«espressione metaforica», che è «un’espressione linguistica (una parola, una frase, una proposizione) che costituisce la realizzazione superficiale di questa mappatura attraverso i domini concettuali» (ivi: 42). Ossia, l’espressione metaforica è la metafora della teoria 3 Il caso (?) vuole che in greco, le figure retoriche fossero dette schemata, «schemi». Per Lakoff, di fatto, uno schema cognitivo è una metafora concettuale.

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classica. Altrove Lakoff ha così definito la metafora nell’ambito della sua teoria dell’Idealized Cognitive Model (Icm): «una mappatura esperienzialmente fondata da un Icm di un dominio a un Icm di un altro dominio» (1987: 417). Da notare che tali mappature non sono dei semplici meccanismi mentali, ma il processo fondamentale della mente umana. Un’altra caratteristica altrettanto fondamentale è che il processo metaforico ha, come dire, profondità storica in sé. Esso si costituisce a partire dai concetti di «livello base», cioè da quei concetti a base percettiva che si formano dall’interazione delle persone con l’ambiente esterno (ivi: 115). Fondamentali sono allora le immagini-schema, che come sappiamo sono immagini mentali di orientamento nello spazio o di oggetti fisici, che fungono da dominio-sorgente per domini concettuali non topologici. Lakoff e Johnson (1998a, 1998b) nei loro lavori portano diversi esempi: le cause sono forze, il tempo è uno spazio, l’amore è un viaggio ecc. Qui farò l’esempio in particolare di una metafora di cui vedremo più avanti l’importanza per l’antropologia, quella secondo cui LE CATEGORIE SONO CONTENITORI. È una metafora costruita a partire dal dominio-sorgente dei contenitori nella vita reale (scatole, tazze, cassette, recipienti ecc.) che mappa il dominio-bersaglio delle categorie concettuali. Una sua variante può prevedere che LE CATEGORIE SONO UNO SPAZIO CON I CONFINI. Sempre, in entrambi i casi, «qualcosa rimane dentro e qualcosa rimane fuori una certa categoria; qualcosa si può mettere dentro e qualcosa si può togliere» (1998a: 58). La stessa teoria degli insiemi segue questa logica del contenitore, che è basata sul principio di invarianza, secondo cui «gli elementi interni ai contenitori vengono mappati sugli elementi interni del dominio d’arrivo, quelli esterni su quelli esterni, le linee di demarcazione sulle linee di demarcazione», ossia le categorie classiche mantengono la topologia cognitiva del dominio-sorgente: i contenitori (1998a: 61, 62). Come immagine-schema degli insiemi classici, infatti, tutti noi abbiamo in testa le immagini della figura 4, o simili, che traggo da un libro delle elementari di mia figlia (a), e da un sofisticato studio di Lawvere e Schanuel (1994) sulla nuova teoria delle categorie (b). Benché Lakoff tenda a sottolineare la novità dell’approccio, esso ha un precursore illustre in Giambattista Vico, che possiamo quindi contrapporre ad Aristotele. Si potrebbe forse parlare, circa le con112

ducono a quattro (metafora, metonimia, sineddoche e ironia), dice che essi non sono «ingegnosi ritruovati degli scrittori», ma «sono stati necessari modi di spiegarsi di tutte le prime nazioni poetiche» (1957: 175). Come si sa, le «nazioni poetiche» rappresentano nella teoria della storia vichiana l’inizio dell’umanità, ma per Vico i tropi non si arrestano a quel primo stadio: come nella teoria lakoffiana, in cui dalle immagini-schema si arriva a schemi metaforici sempre più lontani dai percetti spazio-oggettuali, così i tropi, che «nella lor origine» hanno avuto «tutta la lor natia proprietà», diventano piano piano dei traslati: ma, poi che, col più spiegarsi la mente umana, si ritruovarono le voci che significano forme astratte, o generi comprendenti le loro spezie, o componenti le parti co’ loro intieri, tai parlari delle prime nazioni sono divenuti trasporti [traslati] (ibidem).

Circa la metafora in particolare, fra i tropi ritenuta da Vico «la più luminosa e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa [frequente]» (ivi: 172), egli scrive righe di una lucidità esemplare, che non riassumiamo: i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora sì fatta vien a essere una picciola favoletta. Quindi se ne dà questa critica d’intorno al tempo che nacquero nelle lingue: che tutte le metafore portate con simiglianze prese da’ corpi a signifiare lavori di menti astratte debbon essere de’ tempi ne’ quali s’eran incominciate a dirozzar le filosofie. Lo che si dimostra da ciò: ch’in ogni lingua le voci ch’abbisognano all’arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche le lor origini. Quello è degno d’osservazione: che ’n tutte le lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni. Come capo, per cima o principio; fronte, spalle, avanti e dietro; occhi delle viti e quelli che si dicono lumi ingredienti delle case; bocca, ogni apertura; labro, orlo di vaso o d’altro; dente d’aratro, di rastello, di serra, di pettine; barbe, le radici; lingua di mare; fauce o foce di fiumi o monti; collo di terra; braccio di fiume; mano, per picciol numero; seno di mare, il golfo; fianchi e lati, i canti; costiera di mare; cuore per lo mezzo […]; gamba o piede di paesi, e piede per fine; pianta per base o sia fondamento; carne, ossa di frutte; vena d’acqua, pietra, miniera; sangue della

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vite, il vino; viscere della terra; ride il cielo, il mare; fischia il vento; mormora l’onda; geme un corpo sotto un gran peso; e i contadini del Lazio dicevano sitire agros, laborare fructus, luxuriari segetes; e i nostri contadini andar in amore le piante, andar in pazzia le viti, lagrimare gli orni; ed altre che si possono raccogliere innumerabili in tutte le lingue […]. L’uomo ignorante si fa regola dell’universo, siccome negli esempli arrecati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo (ivi: 172-173).

Come si vede, Vico era un bravo insegnante per il Cardona del «modello corporeo» (1988: 43-66), come pure per Lakoff. La differenza con le teorie di oggi è che l’uomo non è «ignorante» perché si autocostruisce un «intiero mondo», ma che, il più delle volte, è ignorante del fatto che lo fa sempre. 8.2. Ancora su metafora e analogia. Hoyt Alverson ha avuto facilità a segnalare che Lakoff definisce la metafora «come un’analogia, anche se spesso ellitticamente» (1991: 100), e afferma che altri la intendono come una rottura di una stretta analogia. In effetti, il rapporto tra analogia e metafora è da sempre controverso, fin da quando Aristotele elencò quattro tipi di metafora. Lo stagirita affermava che «la metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro» e che ci sono quattro tipi di tale trasferimento: 1) dal genere alla specie, 2) dalla specie al genere, 3) da specie a specie, 4) per analogia (Poetica, 21, 1457b). L’ultimo tipo di metafora si ha «quando, di quattro termini, il secondo, B, sta al primo, A, nello stesso rapporto che il quarto, D, sta al terzo, C». Ossia, la metafora per analogia non è altro che l’analogia proporzionale, la quale costituirebbe la metafora «in senso stretto» e sarebbe quella che ha più successo (Retorica, III, 10, 1411a). Ora, se è vero che normalmente metafora e analogia sono distinte, sono però diversi gli autori che le associano. Melandri, seguendo una discussione sulla metafora di Ricoeur (1991: 373-375), dimostra che tutti e quattro i tipi di metafora di Aristotele richiedono l’uso del principio di analogia, non solo quello in senso stretto, anche se questo resta «il più complesso e insieme più preciso». Egli aggiunge che «il riportare la metafora a una matrice analogica ne aumenta dunque le possibilità di interpretazione razionale, anche se poi l’analisi si fa più complessa in conseguenza» (1968: 370). Come si vede, persino la categoria aristotelica di metafora sembra sfuggire alle definizioni 115

aristoteliche di categoria, cioè alla visione delle categorie come contenitori: vi è una metafora, quella per analogia, che è «più metafora» delle altre, è, seguendo la teoria dei prototipi, e come il nostro «chicchissimo», una «metaforissima» su uno sfondo di metafore. Come abbiamo già detto, gli studiosi di scienze cognitive oggi tendono a considerare tutto il campo come un grande continuum di casi che vanno dalla similitudine alle analogie di analogie, dove i singoli concetti possono, anche qui, sfumare l’uno sull’altro e servirsi l’uno dell’altro. Già Aristotele diceva che «anche le similitudini […] sono una sorta di metafore» (Retorica, III, 11, 1412b). Lakoff (1998a: 9395) capovolge Melandri, affermando che tutto il ragionamento analogico è a sua volta retto da una metafora (cioè un’analogia che sarebbe una sorta di «madre di tutte le analogie») che dice: IL GENERICO E` SPECIFICO. Sembra di vedere Aristotele che si morde la coda e che conferma l’importanza delle analogie di analogie su cui Hofstadter ha giustamente insistito. 8.3. Le metafore come chiarificatori culturali. Naomi Quinn, che ha fatto parte per anni del gruppo di Lakoff del Berkeley Cognitive Science Program dell’Università della California, la pensa diversamente. Analizzando la ricorrenza delle metafore nel linguaggio quotidiano – e quindi, aggiungiamo, senza tener conto dei problemi di persuasione che ha uno scrittore che si rivolge a dei lontani lettori – prima di tutto, dice l’antropologa, bisogna distinguere le due situazioni del dover spiegare qualcosa di nuovo e del dover chiarire qualcosa di noto. Nel primo caso interviene la concettualizzazione analogica che conosciamo della mappatura di un dominio dell’esperienza ignoto con uno noto; nel secondo caso, invece, abbiamo l’uso di metafore che vengono usate per la necessità di spiegare meglio un punto di vista a un ascoltatore che sa già di che cosa si sta parlando. Tali metafore non servono quindi a conoscere qualcosa di ignoto, ma a ribadire, a rinforzare, qualcosa di conosciuto. Le ricerche di Quinn sulla concezione del matrimonio condotte negli Stati Uniti dimostrano che questo è pensato mediante rinforzi metaforici ampiamente condivisi e di numero limitato. Così, le centinaia di metafore riscontrate possono essere rubricate nelle otto classi seguenti (1997: 142): 1) la metafora della durabilità nel tempo, 2) della condivisione, 3) del mutuo beneficio, 4) della compatibilità, 5) della difficoltà, 6) dello sforzo, 7) del successo o fallimento e 8) del rischio4. 116

L’ampia condivisione di tali tipi di metafore deriva dalla condivisione di esemplari culturali, ossia di quegli schemi mentali usati come casi migliori di un dato dominio. Gli esemplari culturali «forniscono ai locutori abbondanti metafore» (ivi: 139), le quali a loro volta «riflettono un insieme condiviso di concetti sottostanti» (ivi: 141). La selezione delle metafore serve a illuminare tali concetti5. Le analogie usate per mappare domini ignoti, d’altra parte, sono selezionate dallo stesso fondo di esemplari (ivi: 151). Ad esempio, oggi il computer è diventato un esemplare culturale che fornisce abbondanti metafore per chiarire i processi mentali complessi. Per cui, le metafore che si ritrovano nel linguaggio scritto o parlato non rifletterebbero metafore concettuali più profonde, come sostengono Lakoff e colleghi, ma schemi sottostanti che guidano la selezione stessa delle metafore. E uno schema «è lungi dall’essere isomorfo col linguaggio» (ivi: 144), come i linguisti per deformazione professionale tendono a credere. Come si può notare, le obiezioni di Quinn sono veramente serie. Nonostante ciò, ancora una volta, Eubulide potrebbe chiedere se la distinzione tra spiegare un dominio ignoto e chiarire un dominio noto sia così netta e tranquilla. Anche qui, abbiamo un continuum più che una cesura. In qualche modo Quinn lo riconosce, quando postula quella che possiamo chiamare una sorta di stratificazione, che andrebbe dall’analogia alla metafora selettiva alla metafora obbligatoria. La prima è la più caduca, nel senso che la maggior parte delle analogie inventate per spiegare domini ignoti non sopravvivono. Ma quando queste analogie sono ripetute, esse possono circolare sempre più come metafore. Tali metafore possono poi essere selezionate intenzionalmente dal locutore, come nel caso del matrimonio (metafore selettive), mentre altre si sedimentano talmente nel linguaggio che diventano inconsce (metafore obbligatorie) (ivi: 155). Ora, è so4 In una recente ricerca condotta nel Sussex, quindi sempre fra anglofoni, Simona Branchi (2000) dimostra che qui le classi di metafore ricorrenti per il matrimonio sono un po’ diverse. Ossia dimostra come le metafore riflettano la diversità culturale fra parlanti la stessa lingua. La ricercatrice repertoria le seguenti sette classi di metafore principali: 1) della condivisione, 2) del dare e ricevere, 3) della fusione, 4) dell’impegno, 5) del legame, 6) dell’associazione o squadra, 7) del senso di humour. 5 Anche qui, pare che gli antichi la sapessero lunga: se in greco le figure retoriche erano «schemi», in latino esse potevano essere «lumi», lumina.

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prattutto quest’ultimo tipo di metafore che Lakoff e Johnson hanno studiato, mentre Quinn ha rivolto l’attenzione soprattutto su quelle selettive, e ci si può chiedere se la guerra sulle metafore non sia sorta per una focalizzazione differente sulle metafore stesse. Ad ogni modo, Quinn è categorica: «Non sono le analogie su cui sono costruiti alcuni modelli culturali o loro parti, né le risultanti metafore offerte da tali analogie, a rendere difficile pensare diversamente dal modello culturale» (ivi: 154). È semmai la trasparenza referenziale dei modelli culturali stessi.

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Appendice

1. Metafore divine islandesi Le kenningar sono le metafore che il dio Bragi aveva enunciato a Hler, poeta «versato nelle arti della stregoneria», e che si svilupparono nella poesia islandese intorno all’anno 1000 a opera dello skald, il poeta dotato «di vena personale». Ecco il «divino catalogo» quale è stato compilato da uno dei suoi massimi esperti, Jorge Luis Borges (1997: 45-50). casa degli uccelli casa dei venti

l’aria

frecce del mare

le aringhe

maiale dei flutti

la balena

albero per sedersi

la panca

foresta del mento

la barba

assemblea di spade tempesta di spade incontro delle sorgenti volo di lance canzone di lance festa di aquile pioggia di scudi rossi festa dei vichinghi

la battaglia

forza dell’arco gamba della spalla

il braccio

cigno insanguinato gallo dei morti

l’avvoltoio

scuotitore del freno

il cavallo

colonna dell’elmo rupe delle spalle castello del corpo fucina del canto

la testa la testa dello skald

onda del corno marea della coppa

la birra

elmo dell’aria terra delle stelle del cielo cammino della luna tazza dei venti

il cielo

mela del petto dura ghianda del pensiero

il cuore

gabbiano dell’odio gabbiano delle ferite cavallo della strega cugino del corvo

il corvo

rocce della parola terra della spada luna della nave luna dei pirati tetto della battaglia nuvola della battaglia

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i denti

lo scudo

gelo della lotta verga dell’ira fuoco di elmi dragone della spada roditore di elmi spina della battaglia pesce della battaglia remo del sangue lupo delle ferite ramo delle ferite

la spada

gemme del volto lune della fronte

grandine delle corde degli archi le frecce oche della battaglia sole delle case rovina degli alberi lupo dei templi

il fuoco

delizia dei corvi arrossatore del becco del corvo rallegratore dell’aquila il guerriero albero dell’elmo albero della spada tintore di spade orca dell’elmo amato alimentatore dei lupi nera rugiada del focolare albero dei lupi cavallo di legno rugiada della pena

l’ascia la fuliggine la forca le lacrime

drago dei cadaveri serpente dello scudo

la lancia

spada della bocca remo della bocca

la lingua

posatoio del nibbio paese degli anelli d’oro tetto della balena terra del cigno cammino delle vele campo del vichingo prato dei gabbiani catena delle isole albero dei corvi avena delle aquile grano dei lupi

lupo delle maree cavallo del pirata renna dei re del mare pattino del vichingo puledro dell’onda aratro del mare falco della spiaggia

fuoco del mare letto del serpente splendore della mano bronzo delle discordie

il morto

l’oro la pace

casa del respiro nave del cuore sede dell’anima dimora delle risate

il petto

nave della borsa ghiaccio dei crogioli rugiada della bilancia

le monete d’argento

signore degli anelli distributore di tesori distributore di spade

il re

sangue delle rupi terra delle reti ruscello dei lupi marea del massacro rugiada del morto sudore della guerra birra dei corvi acqua della spada onda della spada sorella della luna fuoco dell’aria mare degli animali pavimento delle tormente cavallo nella nebbia

il mare

gli occhi

riposo delle lance

fabbro di canzoni la mano

la nave

signore dei recinti

il fiume

il sangue

lo skald il sole la terra il toro

crescita degli uomini animazione delle vipere

l’estate

fratello del fuoco malanno dei boschi lupo dei cordami

il vento

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2. Metafore popolari romene Sono riportate di seguito alcune metafore adoperate nella letteratura popolare romena per indicare gli organi sessuali, riassunte da Erete scu (1983). Pizda˘ (o chizda˘) è la vagina, che può essere chiamata anche put¸a˘, termine che designa l’organo sessuale maschile. Nella letteratura popolare il sesso femminile può anche essere metaforizzato nei seguenti modi: buba˘ bottone buza˘ labbro casa pului casa del pene crepa˘tura˘ crepa la˘dit¸a cu lîna cofanetto di lana oda˘it¸a˘ cameretta petec (de negreata˘) straccio (di nerezza) Bra˘ila Bra˘ila (città romena) ca˘ldare paiolo ca gura sobei come la bocca della stufa hotar frontiera; territorio del villaggio mai mestola a forma di pala ulcica˘ vasetto di terracotta chita˘ mazzo di fiori gaura˘ buco minje palla da gioco oala˘ vaso plosca˘ borraccia di legno o metallo veriga˘ chiavistello mas¸ina˘ de cusut macchina da cucire motor motore

T¸înda˘rica˘ Pinocchio lîna˘ lana s¸is¸ca˘ creat¸a˘ mèche arricciata cetate città pahar bicchiere, coppa pa˘tla˘gica˘ pomodoro vis¸ina˘ visciola tiga˘it¸a˘ pentolino tigaie pentola pentola di rame tingire moara˘ mulino ga˘ina˘ neagra˘ gallina nera pa˘sa˘rica˘ cucuiata˘ uccello dal ciuffo rînducina˘ rondine bursuc tasso cîrlan agnello svezzato, puledro dihor puzzola iepuroaie lepre femmina mit¸is¸or gattino pui de veverit¸a˘ cucciolo di scoiattolo vulpe volpe chestia questione pricina˘ causa

Nei testi visitati l’autore incontra una sola volta un seno pendente e un clitoride che, troppo grande, è chiamato piccolo pene. Il pene è pula˘ o put¸a˘ e pure esso gode di diverse metafore nella letteratura popolare, ma non in modo così ricco come il sesso femminile. Secondo l’autore ciò si deve al fatto che la lirica sessuale è più una creazione maschile: nod piulit¸a˘ T¸ut¸ulica ciocan ciocîlteu

nodo vite (nome proprio di affetto) martello becco

ciomag clarnet cosor cut¸it drug

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randello clarinetto roncola coltello barra

fa˘ca˘lat¸

manico di legno per mescolare la polenta fus fuso harac pertica lunga la lunga mat¸ umflat intestino gonfio par palo pa˘pus¸oi pannocchia pele pelle pistol pistola pus¸ca˘ fucile ra˘spus¸oara˘ raspetta sula˘ punteruolo s¸tiulete (de pele) spiga (di pelle)

ca˘rana˘ coada lupului hulub ied iepure miel pes¸te raci domnes¸ti (pui de) urs dor zdrîng-zdrîng

soldato la coda del lupo piccione capretto lepre maschio agnello pesce gambero reale orsacchiotto nostalgia (onomatopea del rumore dell’incontro di due metalli)

Nei testi poetici reperiti dall’autore i testicoli appaiono una sola volta e senza metafore.

Capitolo quinto

Connessioni e flussi: il modello distributivo

Quando si cavalca una metafora è indispensabile sapere anche quando si deve scendere. Hannerz La complessità culturale

1. «Anche» Fatma «Fatma è una bambina vivace, estroversa e con un carattere forte e volitivo», è figlia di immigrati marocchini e quando varca per la prima volta le porte di una scuola materna bolognese ha quattro anni. Qui, Gabriele Pallotti studia le modalità della sua acquisizione dell’italiano come lingua seconda e studia le sue modalità interattive con bambini e insegnanti. Fra le altre cose studia le «entrate» di Fatma, ossia tutte quelle mosse goffmaniane mediante le quali Fatma passa dallo stato di astante a quello di partecipante attiva, «quelle mosse cioè con cui Fatma cerca di diventare co-costruttore […] di un corso di azione comune» (1999: 80). Pallotti suddivide il periodo di osservazione in tre fasi: durante la seconda, dice quasi incidentalmente l’autore, in un’interazione «compare l’espressione anch’io, con chiara funzione coesiva» (ivi: 89). Coesiva di che cosa? È successo semplicemente che anche Fatma ha studiato Hofstadter… Le generalizzazioni fatte a partire da un centro concettuale costituiscono un processo automatico e inconscio che pervade il pensiero, anzi, lo definisce […]. Eventi analoghi di ogni genere e immagini correlate, che provengono dalla vita quotidiana, sono attivati in gradi diversi e si mescolano e si confondono con altri aspetti dell’evento stesso, così da formare una struttura molto complessa, attiva e fluida (Hofstadter 1996: 89-90).

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L’analogia tra eventi considerati simili e vissuti da due individui diversi danno luogo a quello che Hofstadter chiama fenomeno «anch’io»: A: Ieri ho mangiato un pollo. B: Anch’io. B non ha mangiato lo stesso pollo di A, ovviamente, ma non ha bisogno di dichiararlo, perché lo si dà analogicamente per scontato. Aggiungiamo: senza bisogno di «negoziazioni di significato». È un’«analogia disinvolta» che fonde esperienze simili e che compatta un’interazione. Nella fusione disinvolta del fenomeno «anch’io» «si celano alcuni tra i misteri più profondi della cognizione» (ivi: 90) e dell’interazione, si può aggiungere. Quando Fatma comincia a dire «anch’io», comincia a comunicare agli altri la propria coscienza di cominciare a condividere con loro idee ed esperienze. 2. La propriospettiva di Goodenough In un lavoro del 1971, prima che Geertz lanciasse la sua polemica sulla cultura come pubblica perché il significato è pubblico, Ward Goodenough cercava di rendere conto delle specificità individuali dei membri di una «cultura», rispetto alle specificità collettive. Scartati i termini come «cultura privata» o «individuale» o «personale», propose quello di propriospect, che scegliamo di tradurre in italiano alla lettera con «propriospettiva». Il termine viene confermato nella riedizione del 1981, dove viene definito come soggettiva visione del mondo che ogni persona sviluppa a partire dalla propria esperienza (1981: 98). Della propriospettiva fa parte anche il modo che una persona attribuisce ad altre persone di percepire, valutare, credere e fare, in base alla propria esperienza delle loro azioni e avvertimenti. Egli ne propone anche una formalizzazione in questa formula (ivi: 99): p = (a + b + c + …) + x.

La propriospettiva di una persona (p) consiste nelle diverse culture (a, b, c ecc.) che attribuisce ad altrettanti insiemi di persone, assieme a tutto ciò (x) che proviene dalla sua esperienza e che non è attribuibile ad altre persone. Benché in generale Goodenough, in analogia con la lingua, sembri concepire la cultura in termini sostanzialistici, la sua definizione di propriospettiva supera quella visione, dal 124

momento che la cultura di una società diventa l’insieme variegato delle prospettive dei membri di quella società, i quali non la condividono equamente. La definizione assegna alla conoscenza di culture diverse dalla propria un posto costitutivo, tanto che Goodenough scrive altrove che il multiculturalismo è parte integrante della normale esperienza umana: «ognuno sviluppa gradi diversi di competenza multiculturale, in almeno alcune micro-culture» (1976: 5). Infine, la definizione assegna un posto pure costitutivo all’esperienza individuale: non c’è propriospettiva senza esperienza. Wolcott, che propone di diffondere il concetto (e che in effetti sarà diffuso da Hannerz nel 1992 nella forma più banale di «prospettiva»; Hannerz 1998) e di farne un maggiore strumento in antropologia dell’educazione, riporta anche una definizione datagli privatamente da Goodenough nel 1988: «la propriospettiva si riferisce alle versioni aggregate di tutte le attività o setting culturali che ogni umano conosce, tutte le cose di cui una persona è a conoscenza» (Wolcott 1991: 258). Qui Goodenough mostra una propriospettiva sulla propriospettiva forse troppo calcata sulla conoscenza, e noi, pur mantenendo il termine, lo intenderemo integrato, come consigliava un collega di Wolcott (ivi: 269), di altri aspetti mancanti nella definizione, quali la percezione sensoriale, la speculazione, la contemplazione, le emozioni e l’empatia, il saper fare e il saper interagire. 3. Meditazioncina «diltheyana» (via Melandri) Se non si può non partire dal proprio corpo, come ci insegnano da punti di vista diversi Vico, Mach, gli studiosi di scienze cognitive, le antropologhe femministe, come è possibile che l’uomo sfugga al solipsismo e all’autismo, e sia quello che è, cioè sociale? Ovviamente, mettendo in contatto le diverse propriospettive: sapendo creare tanti fenomeni «anch’io», ossia sapendo costruire ambiti di intersoggettività, i quali a loro volta sono inscindibili dalla capacità di creazione di situazioni di co-azione. La capacità di creare co-azioni è in qualche modo un requisito presociologico: è perché ha questa capacità che l’uomo è sociale. Ciò non significa che ogni co-azione sia facile, al contrario: proprio perché fa co-agire individualità con propriospettive diverse, essa è sempre problematica, cioè foriera di problemi da risolvere, e dal momento che 125

ogni «Sé» o «Io» è una costruzione complessa, ogni co-azione è sempre iper-complessa (dove iper- rimanda alla molteplicità dei «Sé»). Gli ambiti di intersoggettività nascono quindi da una base problematica e ipercomplessa e sono resi possibili in prima battuta da quella che nelle neuroscienze viene chiamata risonanza. Essa è il rapporto che si instaura tra le pre-rappresentazioni di un oggetto-evento e le rappresentazioni degli stimoli dell’oggetto-evento in un dato soggetto (Changeux 1983). È l’effetto risonanza che permette la conoscenza/esperienza del mondo, nel senso che se uno non ha uno schema di risonanza già attivato, non può conoscere cose «nuove». Ma in questo modo una cosa «nuova» è in parte sempre già conosciuta. Tra persone, l’effetto risonanza coinvolge il «riconoscimento», cioè la messa in contatto, di tutte le sfere del Sé: sensoriali, cognitive, emotive, morali, motivazionali ecc. Esso è molto simile a quello che Dilthey chiamava Verstehen, un termine che spesso viene tradotto con «comprendere». Siccome su questo concetto si sono sparsi fiumi di inchiostro e siccome non pretendiamo di aver qualcosa di originale da dire, per la sua delucidazione ci affidiamo qui sotto alle pagine di Melandri (1968) – senza sentire per il termine quella particolare deferenza che, secondo Kuper (1999), i postmodernisti gli accorderebbero. Ha ragione Clifford a sostenere che «la più rigorosa argomentazione a favore del ruolo dell’esperienza nelle scienze storiche e culturali è contenuta nella categoria di Verstehen», ma non si capisce perché, così, l’esperienza «è difficile metterla alle strette» (1993: 51, 53). L’esperienza può essere messa alle strette, eccome!, ogniqualvolta essa venga più o meno ripetuta. Riguardo a esperienze etnografiche ripetute nello stesso ambito da ricercatori diversi (ché a questo si riferisce Clifford), constatiamo che Freeman (1983) non è d’accordo con Margaret Mead sull’adolescenza a Samoa, come è arcinoto; Unni Wikan (1987, 1989), come è molto meno noto, non è per niente d’accordo con Geertz sulla personalità a Bali; d’altra parte, Geertz (1987: 385) è d’accordo con Margaret Mead e Gregory Bateson sull’«assenza di culmine», sempre a Bali. Insomma, l’esperienza altrui può essere messa alle strette. Ma che cosa vuol dire essere o non essere d’accordo su qualcosa con qualcuno? Nel termine italiano «concordare» vi è una metafora sedimentata – obbligatoria, direbbe Quinn – imposta dall’etimologia latina: cum + corda, «mettere i cuori insieme». 126

La base del pensiero ermeneutico (Hofstadter direbbe: il nucleo concettuale a partire dal quale si formano gli aloni), ci ricorda Melandri, è il famoso tema sollevato agli inizi dell’Ottocento da Schleiermacher del «capire un autore meglio di se stesso»: «nella prassi quotidiana, dire (sottintendere) ‘ti capisco meglio di quanto tu non capisca te stesso’ è sempre stata la premessa indispensabile per giustificare l’intervento negli affari altrui. D’altra parte, senza questa ingerenza, non ci sarebbe comprensione, non ci sarebbe Verstehen» (1968: 61). Il problema del Verstehen è il problema dell’«interpretazione dell’alterità», di qualsiasi alterità, che è il problema del superamento del solipsismo. L’assunto del solipsismo (quello di Tyler, ad esempio) – alienum est ineffabile – è evitabile «solo adottando il principio di analogia». L’alterità, che sfugge all’esperienza diretta, può allora essere indotta con un certo grado di verisimiglianza» (ivi: 63). La struttura dell’intersoggettività è basata sul fatto che l’io diventa un tertium comparationis: «solo paragonando me stesso agli altri, dice Dilthey, faccio esperienza di quello che vi è in me di individuale» (ivi: 62-63). Quindi, «l’ideale dell’ermeneutica […] consegue dal principio di analogia: sia che lo si ammetta fin dall’inizio, sia che, dopo averlo escluso dal novero dei principi veri e propri, lo si reintroduca surrettiziamente in un secondo tempo» (ivi: 63). In questo modo, sottolinea Melandri, ogni creazione essendo intersoggettiva è relazionale e non sostanziale. Ma allora è così per ogni conoscenza, poiché la «‘logica dell’ermeneutica’ deve fondarsi sul principio di analogia, poiché altrimenti resta esclusa a priori la possibilità di confrontare fra loro gli individui». Ma se il confronto è possibile, ciò significa che «le differenze fra gli individui non sono mai così irriducibilmente qualitative da non potersi ricondurre a differenze di grado» (ivi: 64). La comprensione quindi, il Verstehen, avviene «per assimilazione comparativa alla propria esperienza ‘vissuta’» (ibidem). Come si vede, conoscenza neurocognitiva e conoscenza diltheyana sono in risonanza quasi perfetta. Quello che manca è quanto avviene fuori dai libri. Per Dilthey l’interpretazione giunge al suo massimo in rapporto ai testi scritti, in quanto «resti» dell’esistenza umana. E da qui l’estensione della metafora della cultura come testo, di cui si è fatto paladino Geertz via Ricoeur. Ma fuori dagli scritti avvengono cose che non avvengono negli scritti: gli uomini, interagendo, costruendo azioni in risonanza e codificando co-aspettative, stabiliscono tra loro dei legami. La co-espe127

rienza lega. Si può cambiare la metafora dicendo che la co-esperienza fa attrarre le persone. Gli uomini si attraggono e si legano gli uni agli altri. Questi legami/attrazioni sono problematici e ipercomplessi perché l’assimilazione comparativa mette in contatto uomini con esperienze diverse: nessun uomo ha la stessissima esperienza di un altro: sarebbe lo stesso uomo. Servendoci della metafora IL TEMPO E` UNO SPAZIO, si potrebbe raffigurare la situazione banale che vede più persone co-agenti ma di età diverse come un insieme di segmenti con origine e termine disuguali, ognuno dei quali continua con una parte tratteggiata indicante l’aspettativa approssimativa di vita che la persona si immagina. Da questa raffigurazione si vedrebbe che gli individui coesperiscono «pezzi di vita», con-vivenze, mai uguali. I casi di persone che nascono esattamente nello stesso minuto e muoiono nello stesso minuto sono tanto eccezionali da attirare l’attenzione; in qualsiasi caso, avrebbero esperienze poco o tanto diverse (l’osservazione vale addirittura per i fratelli siamesi). Ora, tutte queste persone credono, implicitamente o esplicitamente, di capire meglio l’interlocutore di quanto non faccia egli stesso ma che, a sua volta, fa la stessa cosa con l’altro. Oggi possiamo dire di sapere perché questo avviene: perché ognuno, per capire l’esperienza dell’altro, mette in azione schemi interpretativi la cui rete di connessione non combacia mai perfettamente con gli schemi interpretativi del partner dell’azione: quindi, è vero che, di te, io ne so più di te, nel senso che so qualcosa «in più», che solo la mia esperienza può interpretare. Di conseguenza, più A ha esperienze simili con B, meno ne «sa di più» di B (se mi si passa il gioco di parole); e viceversa: meno si ha una co-esperienza, più se ne «sa di più». È il paradosso della comprensione dell’alterità – e dell’antropologia. Contemporaneamente, se co-esperire significa co-legare, è tanto più facile attivare reti interpretative analoghe quanto più è simile l’esperienza. I gruppi sociali sono allora gruppi di persone con gradi di co-esperienza e di co-legamento di diverso tipo e intensità da cui dipende il grado di approssimazione in cui inter-interpretano e intra-interpretano il mondo. 4. Il continuo e il discreto nelle esperienze Dove inizia e dove finisce un «gruppo sociale»? È una domanda che consciamente o inconsciamente ha turbato i sonni di sociologi e an128

tropologi, e non è una domanda idiota, se è vero che per saperlo – se il gruppo in questione è il proprio – tanti sono disposti a scatenare guerre. La domanda può avere mille risposte e nessuna. Nessuna se si pensa un gruppo sociale come un «mucchio di individui»: siamo al paradosso del sorite; mille, se si pensa al valore di legame di cui parlano gli antiutilitaristi, che crea la co-esperienza: le risposte sono date da tutti i tentativi di definizione fatti dai politici e dagli studiosi. Se misurassimo la co-esperienza a partire da una propriospettiva qualsiasi passando via via tutti gli individui che si incontrano, nel mondo reale avremmo una situazione molto sfumata, con spazi concettuali condivisi che via via si sovrappongono e che entrano più o meno in risonanza gli uni con gli altri. Possiamo certo trovare «grumi» più densi di altri, ma credo che rotture vere e proprie, deserti di condivisione concettuale, non ne esistano. Sono del parere che due persone, per quanto esperienzialmente lontane e separate, condividano pur sempre un grado di competenza empatica, che deriva dall’avere un sistema corporeo simile, che permette loro di entrare in risonanza in qualcosa, di comunicarsi qualcosa – al limite la paura l’uno dell’altro e la decisione di non interagire. Ma condividono anche un grado di competenza sul mondo, che deriva dall’avere un sistema corporeo simile che interagisce con un mondo simile e il risultato del cui «impatto» è simile per tutti: si sa che l’orizzonte è una linea immaginaria e che esso non «esiste», però tutti gli uomini, dato il loro corpo e dato il loro mondo, lo «percepiscono». Ma in questo reale esperienziale fatto di una disomogenea continuità sfumata, gli uomini fanno di tutto per stabilire delle discontinuità. A volte la decisione di stabilire distinzioni è inconsapevole: si sta insieme solo noi che che parliamo allo stesso modo e facciamo le stesse cose; oppure con gradi vieppiù marcati di consapevolezza, si stabiliscono frontiere più o meno nette. Gli interessati le pongono dall’interno, gli osservatori (tutti i tipi di osservatori) dall’esterno. Da notare che nessuno al mondo parla esattamente nello stesso modo di un altro, ma solo in modi simili; nessuno fa una sola cosa nello stessissimo modo di un altro, ma solo in modi mimeticamente simili. La somiglianza e la differenza esperienziale è quindi una decisione sociale e dipende sempre dai tratti selezionati ritenuti pertinenti. È la condivisione, in gradi diversi, delle sfere concettuali che permette una sua organizzazione su basi sociali. Ora, anche se spesso è difficile stabilirne i motivi o le modalità, il processo di discrezione, di stabilimen129

to delle distinzioni, nette o sfumate, è sempre un atto o un processo di potere: è una messa a distanza. Ogni gruppo è relazionale perché è sempre il frutto di una messa a distanza, sua verso qualcun altro, di qualcun altro verso di sé, o per azione di entrambi in modo schismogenico, come direbbe Bateson (1988). Ci sono individui che decidono/influenzano più di altri e ci sono gruppi che decidono/influenzano più di altri: è bello essere diversi, ma se tutti concordano con quello che dico io o diciamo noi, è meglio. 5. Meditazioncina «demartiniana» Se c’è una cosa in cui tutti gli antropologi concordano è nell’affermare che tutti i gruppi sono più o meno etnocentrici. Se è così, lo siamo anche noi. Invece di piangerci addosso per aver scoperto una verità scomoda, perché non assumere l’etnocentrismo come canone metodologico da cui partire? Fu questa la proposta di Ernesto De Martino (1977), che propose di usare l’etnocentrismo in modo critico, appunto, in modo da riconoscerne gli effetti (per quanto critico, resta sempre etnocentrismo) ribaltandone la funzione. Lasciamogli la parola: Quando l’etnografo osserva fenomeni culturali alieni, cioè impartecipi al corso storico attraverso il quale si è venuta formando la cultura cui l’etnografo appartiene (cioè la cultura occidentale che non a caso è l’unica ad aver posto il problema «scientifico» dell’incontro etnografico) l’osservare è reso possibile da particolari categorie di osservazione, senza le quali il fenomeno non è osservabile. Queste categorie, che entrano in azione nell’atto di sorprendere in vivo un fenomeno culturale alieno e nel discorso etnografico che lo descrive, sono molteplici […]. Ora già soltanto l’impiego di queste categorie nella osservazione etnografica delle culture aliene (e non impiegarle equivarrebbe a non poter osservare e descrivere nessun dato etnografico) trascina inconsapevolmente con sé la intera storia della cultura occidentale […]. Il pericolo dell’umanesimo etnografico dispiegantesi nell’epoca della seconda rivoluzione industriale e della decolonizzazione è il relativismo culturale. Solo l’occidente ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico, nel senso largo di una esigenza di confrontare sistematicamente la propria cultura con le altre sincroniche e aliene: ma questo confronto non può essere condotto che nella prospettiva di un etnocentrismo critico, nel quale l’etnologo occidentale (o occidentalizzato) assume la storia della

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propria cultura come unità di misura delle storie culturali aliene, ma al tempo stesso, nell’atto del misurare guadagna coscienza della prigione storica e dei limiti di impiego del proprio sistema di misura e si apre al compito di una riforma e di una riforma delle stesse categorie di osservazione di cui dispone all’inizio della ricerca. Solo ponendo in modo critico e deliberato la storia dell’occidente al centro della ricerca confrontante, l’etnologo potrà concorrere a inaugurare una consapevolezza antropologica più ampia di quella racchiusa nell’etnocentrismo dogmatico (1977: 390, 397).

La teoria degli schemi e più in generale la contemporanea antropologia cognitiva ci dicono che lo studioso italiano, nonostante il suo razionalismo poco critico, aveva visto giusto, poiché aveva capito che la conoscenza è sempre mediata dal «vecchio», ossia da quello che si conosce già. Quello che è da attenuare, nel pensiero di De Martino, è la centralità che egli pone nella storia occidentale e quindi la «centralità critica» delle categorie occidentali. Oggi sappiamo che non è vero che solo l’Occidente ha sviluppato un sapere esplicito sull’altro. Mondher Kilani (1994: 185-202) illustra bene come il medioevo islamico avesse sviluppato uno studio complesso e sistematico dell’alterità e individua in Ibn Khaldun il vero fondatore della scienza storica (quindi dello studio dell’alterità diacronica, direbbe De Martino). Akitoshi Shimizu (1999) dimostra come i giapponesi avessero sviluppato interessi etnografici verso gli abitanti del nord (di Hokkaido, delle isole Kurili) fin dal XVII secolo e come in Giappone si sviluppi l’interesse antropologico verso la Corea, Formosa, la Micronesia, mano a mano che si allarga l’influenza politicomilitare del Paese nel XIX e XX secolo. Katsumi Nakao (1999) descrive in dettaglio lo sviluppo dell’etnologia giapponese in Manciuria, dove nel 1941, nell’attuale città di Changchun, viene fondata l’Associazione Etnologica della Manciuria. La tabella 1, che dà conto degli incontri organizzati dall’Associazione, mostra come nel pieno della seconda guerra mondiale l’etnologia della Manciuria giapponese fosse molto più sviluppata dell’etnologia di molti paesi europei, Italia compresa. La copertina del libro curato da Van Bremen e Shimizu (1999), riporta la foto del 1905 di un antropologo giapponese, Torii Riuzo, in viaggio su un carro trainato da un cavallo nella Manciuria meridionale e scortato da soldati giapponesi. Credere, come di solito si fa, che solo l’Occidente abbia sviluppato la conoscenza etnoantropologica è il risultato di un eccesso di 131

Tabella 1. Incontri dell’Associazione Etnologica della Manciuria 23 maggio 1942

Cerimonia d’insediamento Kamio Ichicharu Saluti Chigusa Tatsuo Il sistema familiare di ciascun popolo della Manciuria da un punto di vista giuridico Oyama Hikoichi Nazione e razza

19 giugno 1942

Mori Zuiichi

Sullo studio dei costumi popolari

26 giugno 1942

Uchida Toraji

L’esperienza del Chilin’ura

10 luglio 1942

Tominaga Satoshi

Un rapporto sul mondo islamico

14 luglio 1942

Maruyama Kazuo

Raccolta di musica goruji

14 agosto 1942

Yamamoto Noburu

Fattori etnici nella scelta del lavoro fra i popoli manciù

29 agosto 1942

Ishida Eiichiro

Considerazioni sull’Islam nella Mongolia Interna e in Asia centrale

3 settembre 1942

Takeda Koichiro

Animismo e moralità nei bambini

16 ottobre 1942

Kotake Ichiro

Sull’associazione Komanji

26 novembre 1942

Visita alla Stazione radiofonica centrale per ascoltare musica mongola

20 gennaio 1943

Kamio Ichiharu

L’esogamia clanica dei cinesi

18 febbraio 1943

Abe Saburo

Personalità e carattere in diverse razze

4 marzo 1943

Escursione per osservare un gruppo manciù di danza sciamanica

6 marzo 1943

Kotake Ichiro

Lineamenti sull’associazione stato/moralità in Manciuria

16 marzo 1943

Oka Daiji

Sui giardini cinesi

9 aprile 1943

Mihara Yoshinobu

Viaggio ai monti Wutai

27 aprile 1943

Egami Namio Tokunaga Yasumoto

Politica etnica verso i popoli dell’Asia Descrizione degli Urali e viaggio in Asia centrale

15 maggio 1943

Omachi Tokuzo Oyama Hikoichi Abe Saburo

Carattere religioso dei villaggi Studio sui musulmani in Manciuria L’essenza del carattere della razza

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Shirai Chosuke Maruyama Kazuo

La cerimonia di matrimonio dei Buriati nel distretto di Solon Frag. Musica e religione dei Manciù

26 maggio 1943

Toriyama Kiichi

Sui resti di Bohai

9 luglio 1943

Yamane Juntaro

Il carattere di una banda mongola

13 luglio 1943

Miyake Shunsei

Ricerca dettagliata sui resti del castello di Zuzhou Sui resti del suburbio di Lindong Rapporto sulla ricerca sui resti del castello di Zuzhou

Wajima Seiichi Shimada Masaro 7 agosto 1943

Muroaka Shigeo

Economia agricola e stock alimentari presso le bande mongole

17 agosto 1943

Imamura Yutaka

Che cos’è la razza?

4 settembre 1943

Tada Fumio

Il deserto di Gobi e il bacino della Manciuria

12 ottobre 1943

Incontro con Amakasu, Presidente della Compagnia cinematografica della Manciuria

20 ottobre 1943

Yasui Katsumi

Sulla lingua dei Manciù

17 novembre 1943

Hiromatsu Kenjiro

Le rovine di Donglin e i nobili manciù

20 novembre 1943

Kodama Nobuisha

Sulla tradizione orale dei popoli delle pianure

17 gennaio 1944

Izumi Seiichi

Ricerca sullo stile di vita degli aborigeni della Nuova Guinea e comparazione con gli Orochon

26 febbraio 1944

Miyake Shunsei

La vita quotidiana di un monaco taoista

13 maggio 1944

Tominaga Satoshi

Filosofia su un dio assoluto e riflessioni sulla razza

17 giugno 1944

Marushige Tamio

L’arte dei popoli primitivi

21 luglio 1944

Oyama Hikoichi Kamio Ichiharu

I rapporti di parentela fra gli Orochon I Manciù in Asia centrale

1 agosto 1944

Chigusa Tatsuo

Il sistema di famiglia allargata degli Han

15 settembre 1944

Yasui Katsumi

La lingua manciù nell’Aigun

Fonte: Nakao 1999: 252.

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etnocentrismo che deve essere superato grazie anche all’etnocentrismo critico di De Martino. L’etnocentrismo critico non deve essere centrato solo sulla conoscenza occidentale, ma su tutte quelle conoscenze che hanno sviluppato un discorso sull’alterità in contesti di dominanza/sottomissione. È un concorso di etnocentrismi critici che può fondare una critica all’etnocentrismo attraverso il confronto polianalogico. È un concorso di guerre di metafore che può aiutare a trovare una metafora più illuminante. 6. Cassette di mele e canali di significati Nel 1979 Michael Reddy portò scompiglio nella libertà di pensiero degli studiosi anglofoni dimostrando che essi usavano una lingua in cui le idee in generale e le idee sul linguaggio in particolare venivano trasmesse al 70% in base a un’unica metafora, quella del CANALE. Si tratta di una metafora complessa che fonde le seguenti altre metafore: quella per cui LE IDEE SONO OGGETTI, quella per cui LA MENTE E` UN CONTENITORE, così come LE ESPRESSIONI LINGUISTICHE SONO CONTENITORI, e quella per cui la comunicazione è un’AZIONE DA SPEDIRE. Il risultato è che le idee sono «conservate» nella mente di un locutore, il quale le «mette» nelle parole e le «spedisce» a un ascoltatore che fa l’operazione inversa. La comunicazione è pensata come un canale, un condotto attraverso cui passano i messaggi, cioè le idee, i significati. La scoperta di Reddy fu talmente importante, dice Lakoff, da favorire il costituirsi di «un intero indirizzo della linguistica e delle scienze cognitive allo studio dei sistemi del pensiero metaforico» (1998a: 44). Attraverso lo studio di tale metafora, infatti, si dimostrò come possano infiltrarsi in profondità le metafore e come possano influire sul modo di pensare. Per Reddy la metafora del canale è un esempio di capacità di coercizione del pensiero metaforico: essa ha impedito di pensare alla trasmissione della comunicazione in modi alternativi. Come notato da qualcuno (Linger 1994, Quinn 1997), Reddy sembra rimasto prigioniero della propria scoperta, a sua volta comunicata attraverso la metafora del canale, una trappola in cui non sembra essere caduto Ulf Hannerz. Nel 1992 l’antropologo svedese ha pubblicato un volume, Cultural complexity, che resta una delle più complete indagini sul «significato» esternato che possediamo. Il lettore italiano potrà ap134

profondire tutta la complessità del suo studio tramite la traduzione italiana uscita nel 1998, per cui mi limiterò a evidenziare le parti che ci interessano. Lo studio si prefigura come la parte complementare dei lavori degli antropologi cognitivisti nordamericani: mentre questi studiano le modalità dell’interiorizzazione dei significati (schemi, script ecc.), Hannerz propone uno studio sulle modalità dell’esternazione del significato, con la differenza che l’approccio di Hannerz risente di più dell’antropologia geertziana da un lato, e dell’antropologia sociale di Barth dall’altro, dimostrandosi al contempo molto adattativo verso le tematiche generali della sociologia della comunicazione. Ad ogni modo, la sua base di partenza, così come in Strauss e Quinn, non è completamente semiologica. Come le antropologhe americane riconoscono un ruolo a un comportamentismo non ingenuo nella costruzione del significato interiorizzato1, così Hannerz assegna un ruolo non prettamente culturale alla struttura sociale, la quale non è una costruzione interamente culturale […]. La struttura sociale comprende anche le distribuzioni demografiche di persone con diverse capacità fisiche; e soprattutto comprende la distribuzione del potere e delle risorse materiali. E anche se questa può essere colta soltanto attraverso i significati che le persone ad essa attribuiscono, le possibilità di imporre con successo un significato qualsiasi sono, dopo tutto, limitate (1998: 22).

La produzione dei significati resta, però, fondamentale e, seguendo l’approccio interazionista, l’autore sottolinea che sono le persone che creano le strutture sociali e i significati attraverso le interazioni e i contatti reciproci. Ma le persone, i contatti e le interazioni variano, e al variare creano culture diverse. Hannerz propone quindi un complesso modello distributivo che va contro l’idea della cultura come di qualcosa di omogeneamente condiviso nella società. La cultura, cioè un sistema di significato esternato, è sempre condivisa solo in parte, è sempre distribuita in modo diseguale. L’ap1 Definendo il concetto di significato come «l’interpretazione evocata in una persona da un oggetto o evento in un dato momento», e specificando che «l’interpretazione da parte di una persona di un oggetto o evento include una sua identificazione e aspettative verso di esso e, spesso, un feeling e una motivazione», Strauss e Quinn annunciano che la loro definizione combina aspetti behavioristici e ideazionali (1997: 5-6).

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proccio distributivo prevede che non si possono tracciare confini tra culture, le quali appaiono come «accumuli» dai confini sfumati di significati condivisi e pratiche interattive. Dove ci sono due persone che esternano i propri significati interattivamente, lì comincia una cultura. O, per dirla in modo più brillante citando Hannerz (1998: 81) che cita Hughes: «Dove un gruppo di persone ha un po’ di vita in comune con un minimo di isolamento da altre persone, un angolo comune di società, problemi comuni e forse un paio di nemici in comune, là cresce una cultura». Per cui, tutte le distinzioni che si possono fare tra culture, subculture, microculture, culture settoriali e simili hanno sempre un alto grado di soggettività, degli attori o degli analisti. È allora che la disomogeneità della collocazione degli autori delle interazioni diventa fondamentale. Anche Hannerz parte dal concetto di propriospect di Goodenough, sostituendogli, come già detto, il più normale termine di «prospettiva» e togliendo al termine originario quell’accentuazione soggettiva che io preferirei mantenere. Riferendo le idee di Hannerz, manipolo perciò il termine scrivendo pro(prio)spettiva, salvando con questo escamotage tipografico la sua proposta ma anche l’idea originaria di Goodenough. In base alla pro(prio)spettiva «le persone gestiscono i significati dal punto in cui sono nella struttura sociale» (ivi: 84). Collocazioni diverse implicano pro(prio)spettive diverse e le pro(prio)spettive sono tante quante sono le persone. Si crea, così, una rete di pro(prio)spettive, pro(prio)spettive individuali che si intersecano, si sovrappongono in misura variabile. La pro(prio)spettiva è «una struttura biografica», che si struttura cumulativamente riflettendo «coinvolgimenti ed esperienze precedenti» (ivi: 86). Nei termini di Strauss e Quinn, si potrebbe dire che la pro(prio)spettiva è l’insieme degli schemi di una persona, dove gli schemi possono essere esperienzialmente molto sedimentati, poco o in via di formazione. Più le persone interagiscono, più le pro(prio)spettive si omogeneizzano, più la «cultura» appare coesa. Ma dal momento che le pro(prio)spettive sono diverse poiché le persone sono collocate in posizioni diverse della struttura sociale, vi sono interessi diversi «che guidano l’attiva gestione del significato nelle relazioni sociali» (ivi: 87) e una cultura nel suo sfumato insieme può essere vista come un’«organizzazione sociale del significato» (ivi: 89). Hannerz, così, sfugge al riduzionismo semiologico di Geertz e costruisce un potente modello di organizzazione sociale del significato 136

analizzando i sistemi comunicativi dell’Occidente, senza dare alcun appiglio a tentazioni esotistiche. Lo fa attraverso la metafora del canale, parlando delle culture come luoghi di «flussi» di significato, discutendo di «flussi» culturali, analizzando «flussi non liberi» (segreti, censure, copyright ecc.) e «vortici» di significato che si formano nelle cosmopolite metropoli moderne, dove l’immagine rimanda alla difficoltà di mantenere il flusso del/nel canale. Ma lo fa «cavalcando» la metafora, un’attività a cui era preparato – come sappiamo dall’epigrafe al presente capitolo. Qual è il lato triste della metafora del canale che Hannerz denuncia fin da subito, anche senza riferirsi allo studio di Reddy? Faccio un esempio che ho proposto in qualche conferenza: prendiamo due cassette e mettiamo una mela nella prima cassetta; ora prendiamo la mela e trasferiamola dalla prima alla seconda cassetta. Il risultato dell’operazione è che ora la seconda cassetta contiene una mela mentre la prima è rimasta vuota. È così che avviene la comunicazione? Quando «trasferisco» un’idea da una testa all’altra, ottengo lo stesso risultato? Operando analogicamente con la situazione finale nel secondo «contenitore» (nella seconda cassetta c’è una nuova mela come nella seconda testa c’è una nuova idea), la metafora del canale «dimentica» di andare a vedere la situazione nel primo contenitore: se è vero che la prima cassetta è ora vuota, non è vero che la prima testa abbia perso l’idea che l’altra ha ricevuto: la prima testa mantiene ciò che ha dato, più o meno come avviene con la procedura del trascinamento di files nei pc (analogia buona solo in parte: la mente che accetta trasforma sempre il significato in base alla pro(prio)spettiva, nel computer si replica; salvo inconvenienti…). La metafora del canale diventa fuorviante poiché rinforza la metafora che la costituisce, in base alla quale LE IDEE SONO COSE. È la trappola dell’essenzializzazione dei concetti e, checché ne dicesse Durkheim, nemmeno i fatti sociali sono cose. Tutta la teoria di Hannerz, e la sua forza, è basata sull’assunzione della parziale fallacia della metafora del canale. Più che curarsi di sapere che cosa avvenga nelle menti-contenitori dei singoli, di come le idee si trasformino quando vengono acquisite, egli è preoccupato di analizzare le posizioni sociali dei soggetti nel momento in cui, esternandosi i significati, questi diventano pubblici. A differenza di Geertz, che cade malamente nella metafora trabocchetto del canale (Strauss e Quinn 1997: 18), Hannerz la «cavalca» sfuggendo all’antipsicologismo in137

genuo di Geertz e tenendo ben presente che il significato, pur «trasmettendosi», rimane sempre nel punto da cui è partito. L’antropologo svedese ne parla in un capitolo che intitola «La curiosa economia della cultura», poiché si rifà alle considerazioni di alcuni economisti della cultura, come Boulding e Machlup. Tali studiosi scoprono che nelle società vi sono grandi flussi di conoscenza reciproca che circolano gratuitamente. A differenza degli oggetti, che una volta dati vengono perduti, le idee e le conoscenze non solo vengono conservate una volta «date», ma il loro valore può anche aumentare: «Diventi infatti più ‘cognitivamente’ sicuro rendendoti conto che gli altri confermano la validità delle tue idee» (Hannerz 1998: 135). Circa tale enorme flusso, «dal momento che non è coinvolta nessuna scelta e non viene scartata nessuna opportunità alternativa, normalmente quella conoscenza non è considerata dagli economisti un bene economico» (ibidem). Ciò vale non solo nelle società in scala ridotta dove i significati hanno più o meno lo stesso valore d’uso per ogni membro della comunità, ma è largamente prevalente anche nelle società complesse, dove – si potrebbe dire – l’economia del «dono cognitivo» continua a primeggiare. D’altra parte, anche qui, la forza espansiva del mercato si fa sentire e sono molti gli autori che hanno sottolineato che l’economia di mercato nel suo insieme è un’economia dei segni. Il che implica che una parte delle conoscenze circolano a pagamento. Il modello distributivo della cultura spiega bene la classica divisione del lavoro. Prendiamo come esempio esplicativo lo studio di Edwin Hutchins sulla «cognizione in situazione naturale», che chiama cognizione «selvaggia», pensata non tanto in contrapposizione a quella «addomesticata» ma a quella sperimentata nei laboratori, la cognizione «in cattività» (Hutchins 1995: XIV). Nel tentativo di mostrare che la cognizione è un vero e proprio processo socio-culturale, Hutchins si imbarca in una nave della marina americana e studia le tecniche e conoscenze di navigazione applicate quotidianamente nella cabina di pilotaggio. Si assume spesso, dice l’autore, che in un lavoro in équipe la conoscenza sia divisa equamente e mutuamente esclusiva fra i suoi membri. Considerando un team di navigazione, ad esempio, si dà per scontato che le conoscenze del rilevatore, del registratore del rilevamento e del plotter (colui che registra il rilevamento nella mappa) non si sovrappongano, come indicato nella figura 1. Quello che avviene, in realtà, è quanto illustrato nella figura 2, le 138

Figura 1. Distribuzione di conoscenza non sovrapponentesi fra i membri di un team di navigazione (da Hutchins 1995: 265).

a

b

a

c

d

Figura 2. Distribuzione di conoscenza sovrapponentesi fra i membri di un team di navigazione (da Hutchins 1995: 266).

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cui varie sequenze mostrano le conoscenze del rilevatore (a) che si sovrappongono solo parzialmente a quelle del registratore del rilevamento e del plotter, le conoscenze del registratore del rilevamento (b), che includono completamente quelle del rilevatore e solo parzialmente quelle del plotter, e le conoscenze del plotter (c), il quale conosce anche tutto quello che gli altri operatori devono fare. La distribuzione generale delle conoscenze del team è raffigurata nella sequenza (d), che è un’esemplificazione di come le expertises si sovrappongano, si stratifichino e divengano ridondanti. Ora, in una società non si trova mai una figura sociale come quella del plotter, che sa tutto, ma è chiaro che in una società le conoscenze tendono a distribuirsi in quel modo, con accumuli e avvallamenti diversi da persona a persona e da reti a reti di persone. Quando tale tipo di distribuzione delle conoscenze avviene all’interno della cornice del mercato, molte (anche se rappresentano un infinitesimo delle conoscenze delle persone) di quelle conoscenze possono essere messe a disposizione solo a pagamento. In questo caso, chi «emette» la conoscenza ne controlla il «flusso» e seleziona i riceventi. Nel team di navigazione è importante sapere quello che sa il plotter (il quale può diventare un punto di sicurezza per gli altri), ma è anche importante notare che ci sono due modi di essere non-plotter: quello del rilevatore e quello del registratore del rilevamento, in base alla diversa condivisione delle conoscenze. Allo stesso modo, tornando a quanto afferma Hannerz, in una società come quella americana, ad esempio, in cui vi sono ventimila occupazioni (ufficialmente registrate), significa che «esistono 20.000 differenti modi di essere un non specialista» (1998: 70). I non esperti devono imparare a dipendere dalla disponibilità di un esperto (il dentista, l’idraulico…), ma devono anche «imparare ad essere selettivamente incompetenti». Più una società è complessa più i suoi membri sono selettivamente incompetenti: «tutti non devono saper tutto» (ibidem). Prendiamo ora in considerazione i media in quanto «macchinari che trasmettono significati»: «la caratteristica che definisce i media è l’utilizzo della tecnologia al fine di ottenere una esternazione di significato che permetta alle persone di comunicare senza essere in presenza l’una dell’altra» (ivi: 36). Da questo punto di vista, ci sono media più potenti e media meno potenti, ma il fatto che essi permettano una sorta di dislocazione dei significati, ossia che un significato possa essere prodotto in un posto e fruito in un altro, accon140

sente che i flussi culturali possano «essere gestiti nello spazio come pure nel tempo» (ivi: 40), non unicamente nei rapporti diretti faccia a faccia. Passando a una macroscala, è la gestione dei flussi culturali, della direzione della sovrapposizione delle conoscenze, che dà una forma asimmetrica al sistema comunicativo mondiale: «l’Occidente, grazie al suo controllo sull’industria dell’intrattenimento, sull’informazione, sull’industria pubblicitaria e sui media attraverso i quali queste operano, influenza fortemente le culture delle altre parti del mondo» (ivi: 41). La struttura comunicativa assume una forma centro-periferia del tutto asimmetrica, in cui i confini delle culture sono fortemente indefiniti. In questa struttura asimmetrica, commenta ironicamente Hannerz, è cresciuto e si è alimentato il postmodernismo, come abbiamo già detto. È all’interno di questo grande quadro dei rapporti mondiali centro-periferia che Hannerz studia gli andamenti delle strutture di significato. Riconosce in modo limpido che il centro è talmente forte, che le cosiddette culture transnazionali, così care ai postmodernisti, sono di solito «estensioni e trasformazioni delle culture dell’Europa occidentale e del Nord America» (ivi: 324). Anche lontano dal centro o dai centri secondari «le istituzioni delle culture transnazionali sono spesso organizzate in modo tale da mettere il più possibile a proprio agio europei e nordamericani» (ivi: 325), specie le multinazionali in cerca di manodopera a buon mercato, oltre ai postmodernisti. Come ha detto qualcuno, non c’è nessuna cultura transnazionale più nordamericana del postmodernismo. La vera importanza delle culture transnazionali, sottolinea Hannerz, sta nelle loro possibilità di mediazione, in quanto «forniscono punti di accesso verso altre culture territoriali» (ibidem). Ed è all’interno di questo quadro che si deve inserire anche il lavoro degli antropologi. Gli antropologi occidentali, in quanto «esperti» creati dalla loro stessa società, operano in modo contrario alla direzione centro  periferia. Essi vanno normalmente a «estrarre» il sapere in periferia, «mentre allo stesso tempo il sapere, in quella forma, rimane dove era: gli informatori cedono le loro idee senza separarsene» (ivi: 288). Questo sapere «estratto» viene poi «raffinato» al centro, «e non è affatto certo che il prodotto finale torni in seguito in periferia» (ivi: 289). Possiamo dire che ultimamente esso è stato piuttosto usato, specie in Europa, nell’«industria per la prevenzione dello shock culturale», in seguito alle grandi immigrazioni. 141

Capitolo sesto

La perduzione

Prese a vagare per casa nelle ore più strane, senza uno scopo preciso […] aveva scoperto il dono della «serendipità». T. Pynchon V.

Già nel 1950 Lévi-Strauss sottolineava che «in una scienza in cui l’osservatore ha la stessa natura del suo oggetto, l’osservatore stesso è una parte della sua osservazione» (1965: XXXI, corsivo nel testo). Se così è, ciò significa che l’antropologo è inserito fino in fondo nei meccanismi di interiorizzazione ed esternazione della conoscenza che abbiamo delineato finora. Egli si pone allora come uno dei tanti trasformatori, produttori e diffusori di significato, incardinato in una cornice di mercato fortemente sbilanciata in una struttura centro-periferia, ma anche in un mondo in cui le idee circolano ancora ampiamente secondo le modalità del dono, come le insegnava Mauss per le società «arcaiche» (1965) e come gli antiutilitaristi di oggi cercano di provarle per la società occidentale (ad esempio Godbout 1993). Se questa è la situazione esistenziale «normale», come riesce l’antropologo nella sua «curvatura di esperienza» a produrre una conoscenza internata quale frutto delle sue «estrazioni» dai significati locali? Si dice che l’etnografo tende a lavorare in una situazione il più «naturale» possibile ed è stata data a questa modalità il nome controverso di osservazione partecipante. L’espressione pare sia stata impiegata per la prima volta nel 1924 non da un antropologo ma da un sociologo, Lindeman, legato, significativamente, alla scuola di Chicago (Olivier de Sardan 1995: 76). Gli antropologi, comunque, se ne sono presto appropriati e la metodologia è stata oggetto di migliaia di pagine di riflessione. Ne parlerò seguendo il filo tracciato nei ca142

pitoli precedenti e insistendo sul fatto che l’osservazione partecipante non solo si esercita in situazioni che restano tendenzialmente naturali, ma è anche una modalità di acquisizione tendenzialmente naturale: gli etnografi conoscono come conosce la gente comune, con un aumento di attenzione. Per descrivere sinteticamente l’osservazione partecipante è stata spesso evocata una metafora acquatica: si parla di immersione dell’etnografo nella comunità di studio, di immersione totale (full immersion dicono gli anglofoni), il che presupporrebbe per l’etnografo una grande capacità di respirazione in apnea o la dotazione di buoni respiratori… È tanto usata questa metafora (io stesso le sono molto legato), che non ne conosco l’antenato eponimo. Ultimamente l’etnografo è «emerso» e si accontenta di «bordeggiare fra spazi culturali» (Scott, cit. in Clifford 1999: 114). Tra immersioni, emersioni e bordeggiamenti, che cosa succede all’etnografo? 1. Negoziazione o «keneh»? 1.1. Negoziazione nordamericana. Nel capitolo che Clifford dedica al lavoro sul campo del suo ultimo libro (1999, cap. 3), in una cinquantina di pagine compare almeno una ventina di volte il termine «negoziazione» (o «rinegoziazione»). È un termine molto usato nell’antropologia interpretativa e postmodernista e che sta contagiando diffusionisticamente molti settori. Proveniente dall’interazionismo simbolico, il concetto è applicato in riferimento sia al significato che all’interazione: l’etnografo negozia e rinegozia con i suoi interlocutori la sua posizione nei loro confronti, cercando se possibile di creare uno «spazio condiviso»; l’etnografo negozia e rinegozia con loro il significato della loro cultura e dei suoi elementi. Il concetto rimanda allo working consensus di Goffman, al «consenso operativo» che secondo il sociologo americano si instaura sempre tra i partner di una interazione. Benedetta Ori (2000), giustamente, ritrova il concetto già nella tesi di dottorato di Goffman, del 1953, laddove parla di working acceptance in una interlocuzione/interazione. La negoziazione è sottolineata soprattutto quando si parla del dialogo tra etnografo e locali. «Dialogo» è l’espressione privilegiata che ha in parte sostituito la metafora del testo e che mette in risalto il momento discorsivo-dialogante nella costruzione della conoscenza etnografi143

ca. È significativo che a sottolineare il momento dialogico siano antropologi molto influenzati dalla sociolinguistica. Lo stesso Hannerz, parlando del network di pro(prio)spettive, si esprime in questi termini: «Possiamo considerare il network ‘polifonia’, dal momento che le prospettive sono anche voci; oppure ‘conversazione’, se ci sembra tranquillo e consensuale; o ‘dibattito’, se ha un carattere di contestazione, o ‘cacofonia’, se al suo interno troviamo soprattutto disordine» (1998: 89). Negoziazione, usato spesso in alternativa a «contrattazione», inteso come sinonimo, rimanda appunto a una sorta di contrattualismo etnografico. Se Goffman dimostrava che questa forma di ricerca del consenso interazionale esiste sempre, in qualsiasi interazione umana, anche quando ci si evita incrociandosi tra sconosciuti per strada, non si fa fatica a capire che il consenso esiste anche tra etnografo e non etnografo. E non si fa fatica a capire che la ricerca di un consenso interazionale ha come scopo la creazione o il consolidamento di significati o di motivazioni condivise. Per quanto riguarda il significato degli oggetti naturali, Umberto Eco ammette certo una base contrattuale, anche se riconosce una specie di zoccolo duro empirico, che chiama resistenze, che condiziona la negoziazione: i TC [Tipi Cognitivi] e CN [Contenuti Nucleari] sono sempre contrattabili, sono delle specie di nozioni chewing-gum che assumono configurazioni variabili a seconda delle circostanze e delle culture. Le cose sono lì, con la loro presenza invadente, non credo che ci sia una cultura che possa indurre a percepire i cani come bipedi o come piumati e questo è un vincolo fortissimo. Ma per il resto i significati si sfilacciano, si dissociano, si riorganizzano (1997: 235).

Se questo avviene con i significati degli oggetti naturali nelle comunicazioni intraculturali, possiamo immaginare quanto possa avvenire nella comunicazione interculturale, dove lo «sfilacciamento» rischia di diventare una tenue metafora. Ma per quanto riguarda l’interazione? Negoziare l’interazione significa negoziare l’accesso alle persone. Nella società dell’etnografo occidentale questo accesso è altamente controllato sotto tutti i punti di vista: gli specialisti sono accessibili solo su appuntamento e spesso dopo mesi di attesa; gli amici stessi sono spesso accessibili su appuntamento telefonico e in tem144

pi concordati; gli sconosciuti sono accessibili o su appuntamento o tramite rituali spaziali rigidi. Per cui, un ricercatore proveniente da un dipartimento dove ogni interazione è supernegoziata, non è forse spinto a categorizzare poi anche le sue interazioni etnografiche nei termini in cui nella sua cultura si intende la negoziazione? Il termine è costruito sulla metafora del negoziato commerciale tra due contraenti (poi allargatasi al negoziato politico tra due contendenti) ed è significativo che abbia così successo presso un’audience euroamericana, immersa nel mercato in un punto propulsivo della sua espansione mondiale, e immersa nelle sue metafore. Nell’antropologia postmodernista il significato del termine, usato in modo pressoché essenzialistico, è una certezza non negoziata e non si pensa mai che, in realtà, esso propone solo un’interpretazione di parte dell’interazione. Non è detto che ovunque gli uomini considerino l’accesso ad altri uomini come un delicato affare commerciale o politico. Da noi è così anche perché, come ci insegna Lakoff, è potente la metafora impostasi con la rivoluzione industriale secondo cui IL TEMPO E` DENARO, per cui misuriamo il tempo della vita in termini di produttività. Ma, appunto, la metafora deve essere «cavalcata»: è ciò sempre vero? È vero per tutte le persone coinvolte nell’interazione? Oltre alla metafora, c’è anche la realtà della situazione che, mi pare, non è mai sottolineata: l’etnografo, durante la curvatura della sua esperienza, è pur sempre uno che sta lavorando o, meglio, che è convinto di star lavorando. Dal momento che la sua professione prevede che egli la esplichi vivendo in un modo diverso e/o con persone con cui di solito non vive, egli è uno che piega la sua esistenza per ottemperare al ruolo che la divisione del lavoro intellettuale della sua società gli assegna. Ma ciò è vero anche per i suoi interlocutori? Un economista direbbe che, ancor più delle conoscenze e delle idee, nel mondo c’è una ricchezza incredibile di interazioni: sono lì, libere e gratuite. Quelle a pagamento, ossia quelle che seguono il meccanismo della domanda e dell’offerta, sono un’infima parte e sono quelle maggiormente contrattate. Ma questo non significa che tutte le società pensino a quest’abbondanza in termini utilitaristici, utilizzando le corrispettive e selezionate metafore evidenziatrici. Ossia questa negoziazione continua di cui parlano Clifford & C. potrebbe essere vista in modo diverso dai partner dell’incontro etnografico. Ma allora considerarla una negoziazione è una scelta etnocentrica. In genere gli zingari, dice Patrick Williams, preferi145

scono la comunicazione orale perché essa «appare più gratificante dello scambio di messaggi scritti. Apporta più gioia, più calore, più emozione» (1998: 22). La presenza dell’altro, l’interazione faccia a faccia dà piacere. Essi non la percepiscono come una «fatica», né tanto meno come un lavoro. Quanto tempo ho passato io stesso attorno al fuoco quando vivevo con i Ròma sloveni a chiacchierare di tutto e di niente, a ribadire cose, a scoprire vicende arcinote, ad ascoltare, tanto ascoltare, a sentire barzellette, a guardare i Ròma che mai si lasciavano e, parlando e parlando, comunicandosi nulla di nuovo se non ribadendosi sempre, sempre procrastinavano il lasciarsi (Piasere 1985)! Non ho mai sentito parlare di questo stare assieme nei loro termini politico-commerciali. Non voglio dire che tra me e loro e tra loro stessi non ci fossero conflitti da «negoziare», al contrario. Voglio dire che l’interazione è un continuum di situazioni che vanno dalla negoziazione più spinta al piacere più intenso, dalla contrattazione più cosciente all’empatia più incosciente. Sempre. Perché ciò non potrebbe avvenire anche nell’incontro etnografico? Nella curvatura dell’esperienza, come nella vita, succede di tutto. Perché categorizzarlo sempre, dall’inizio alla fine del suo percorso, usando l’analogia che il ricercatore usa di solito, «a casa sua», per i suoi rapporti politici o di lavoro più conflittuali? Certo, molti incontri sono supernegoziati: spesso nel periodo coloniale gli «informatori» venivano pagati e forse certi etnografi hanno mantenuto questa pratica vergognosa di mercificazione dell’interazione. Ma è sempre così? I rapporti etnografici sono davvero contrattati così come lo è la ricerca da parte di accademici appartenenti alla periferia dell’impero di partner scambisti nordamericani, onde aver una voce (per lo più atona) in quella potente accademia tramite il gioco degli inviti e controinviti? Quanto c’è di etnocentrico in questa «esagerazione» di negoziazione? Quanto essa riflette i rapporti di dominazione internazionale che gli antropologi, specie nordamericani, travasano nei loro rimorsi narrativi? 1.2. «Keneh» balino-norvegese. Non dicevano «devi negoziare con noi», gli intellettuali balinesi all’etnografa, ma: «se vuoi capirci devi creare risonanza con noi». Unni Wikan (1992: 473), cresciuta in una località norvegese oltre il Circolo polare artico, dopo le sue ricerche in Egitto e in Oman si sposta a Bali, terra da antropologi consacrata. A differenza di 146

quanto avvenuto a suoi illustri predecessori (Bateson, Mead, Belo, Geertz…), i Balinesi le sembrano persone ordinarie, per niente così «brillantemente esotiche»: Vero, essi credevano nella magia nera e che si potesse parlare con lo spirito del morto e così via. Ma ciò non diminuisce il fatto che essi sembravano sostanzialmente come me e te, cogliendo il loro punto di vista sul mondo proprio come noi, e vivendo con lo stesso tipo di stratagemmi (ivi: 460).

Cercando di indagare gli aspetti emozionali, scopre che Geertz aveva operato una sorta di «esagerazione» di interpretazione nei suoi famosi saggi sui Balinesi, si era, possiamo dire, arrampicato troppo sulle loro spalle, perdendo l’equilibrio1. I lavori di Wikan mettono in pericolo il business geertziano, ed è forse per questo che sono così poco noti e tradotti (Wikan 1987, 1989, 1990). Un giorno, vivendo a Bali, in una discussione con un filosofo-prete, un professore-poeta e un medico, si sente dire che per descrivere i Balinesi lei, prima, deve creare keneh, che Wikan traduce con «risonanza», keneh con la gente e con i loro problemi per poi riuscire a trasmettere la risonanza tra il testo che scriverà e i suoi lettori. L’antropologa norvegese traduce keneh anche con «feeling-pensiero», ed è quel moto dell’animo – spiegava il professore-poeta – senza il quale «non può esserci nessuna comprensione, nessun apprezzamento» (ivi: 463). Per il filosofo-prete gli occidentali non capiscono certi concetti balinesi «perché usano solo i pensieri e le comprensioni non nascono vive» (ibidem). La risonanza non è qualcosa di unilaterale, ma è indispensabile che entrambi gli interlocutori vi mettano qualcosa: uno sforzo di feeling-pensiero; una volontà di impegnarsi con un altro mondo, vita o idea; un’abilità ad usare l’esperienza di uno […], a cercare di afferrare, o comunicare, i significati che non risiedono né in parole, né in ‘fatti’, né in testi, ma che vengono evocati nell’incontro di un soggetto che sta facendo esperienza di un’altra persona o di un testo (ibidem). 1 «La cultura di un popolo è un insieme di testi […] che l’antropologo si sforza di leggere sopra le spalle di quelli a cui appartengono di diritto» (Geertz 1987: 446-447).

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Keneh, dice Wikan, assomiglia ad atteggiamenti che nel pensiero occidentale sono stati resi con «simpatia», «empatia», «Verstehen». Si tratta, insomma, di un’abilità-volontà di agganciare l’esperienza di altri e assumerla con coinvolgimento, forse vicina al modo usuale di esprimersi in italiano quando si dice «sentire col cuore». Il concetto balinese di risonanza diventa fondamentale per «una teoria dell’essere insieme nel mondo e capirci a vicenda» (ivi: 477), una teoria che non soffra del riduzionismo linguistico corrente, anche se l’aspetto del linguaggio vi ha parte. Qui Wikan non fa proprio lo stesso discorso di Maurice Bloch (1991), per il quale il linguaggio può essere una facciata fuorviante per capire l’azione sociale. L’antropologa vuole andare «oltre le parole» semplicemente perché le parole non sono tutto e perché c’è «altro» che permette l’interazione. Così, si può imparare molto «con l’uso di una parlata rudimentale associata ai cinque sensi» (Wikan 1992: 468). Conoscere una lingua non significa entrare in risonanza col popolo che la parla. I balinesi, avverte Wikan, «suggeriscono che il problema è che gli occidentali non hanno risonanza con loro, e non perché non parliamo la loro lingua» (ivi: 472). Il concetto di risonanza, di feeling-pensiero, è molto vicino, per certi versi, al concetto di principio di carità, usato da certi filosofi occidentali di oggi fra cui Davidson (1994), con cui Wikan stessa dialoga in modo stretto nel suo saggio. Tale principio, ci spiega Artuso, «ci invita a considerare un linguaggio diverso dal nostro come un insieme di credenze che in fin dei conti non possono discostarsi troppo dalle nostre nella loro forma generale, pena l’impossibilità stessa di riconoscere lo stesso concetto di linguaggio in coloro che vogliamo interpretare» (1995: 70). Il principio di carità pone «un presupposto comune» che in qualche modo scatena l’atto interpretativo, il quale viene poi sviluppato da quelle che Davidson chiama teorie improvvisate, che sono le piccole e fluttuanti reinterpretazioni quotidiane che permettono una ragionevole comprensione fra due interlocutori. La carità è l’atto di comprensione che tiene nel giusto conto gli altri. La risonanza allora sarebbe quel sentire-pensare che permette di cogliere non i «discorsi», ma ciò che la gente realmente dice, quegli «aspetti di essere nel mondo e di agire nel mondo, attraverso i quali solamente i concetti nascono vivi» (Wikan 1992: 471). La risonanza è l’espressione di un’umana solidarietà antiutilitarista, di una possibilità di interazioni non sempre sotto la spada di Damocle del «negoziato»: «condividere il mondo con altri significa impa148

rare a badarvi allo stesso modo. Tale pratica dissipa ogni mistica della ‘risonanza’ come tecnica d’indagine e come epistemologia. È un concetto ben piantato per terra, conficcato nell’azione pratica» (ibidem). La risonanza è ciò che unisce gli uomini, la cultura ciò che li divide. La risonanza è il primo strumento dell’etnografo, quello per cui gli uomini sono tutti, al di là delle lingue, interculturali. Il che, al di là di ogni relativismo ingenuo, pone enormi problemi, ma anche basi solide, per un approccio cosmopolita alle culture (Hannerz 1998; Kuper 1994) e per un superamento del culturalismo differenzialista, come la stessa Wikan ha recentemente proposto (1999). 2. Dell’empatia Oltre che il principio di carità dei filosofi, la risonanza di Unni Wikan ricorda certo la risonanza neurocognitiva di Changeux. Ma fa pensare anche a un concetto che la stessa Wikan cita: l’empatia. Empatia ha l’aria da parola magica. Ricorda la «magia per simpatia» di certi antropologi di tanti anni fa; tanti la pronunciano in fretta, quasi bisbigliando, nella paura di evocare chissà quali spiriti maligni. Pochissimi vi si attardano e vi riflettono o, solo, osano pronunciarla a piena bocca. Il gergo antropologico non fa eccezione: la parola è citata en passant, con un tono favorevole o critico. Scriveva Margaret Mead riprendendo la metafora acquatica: «Immergersi nella vita del campo va bene, ma bisogna stare attenti a non affogare. Si deve in qualche modo mantenere il delicato equilibrio tra partecipazione empatetica e autocoscienza, da cui dipende l’intero procedimento di ricerca» (1979: 15). Che cos’è la partecipazione empatetica? Clifford, dall’altra parte della barricata: «È comprensibile, data la loro vaghezza, che i criteri di autorità di matrice sperimentale – fiducia, non sottoposta a verifica, nel ‘metodo’ dell’osservazione partecipante, nell’efficacia del rapporto, nell’empatia e via dicendo – siano incorsi nella critica degli antropologi di sofisticata acribia ermeneutica » (1993: 54). In che cosa consiste la vaghezza del concetto di empatia? Che cosa significa «empatizzare»? È possibile farlo? Il termine «empatia», ci ricordano Bonino, Lo Coco e Tani, le tre psicologhe italiane che hanno pubblicato un volume sull’argomento, è un termine relativamente recente. L’inglese empathy fu coniato, sulla base del greco empatheia e analogicamente con sympathy 149

(simpatia), da Titchener nel 1909 come traduzione del tedesco Einfühlung, «sentire dentro» (Bonino et aliae 1998: 9). Il termine tedesco, a sua volta, era usato già nell’Ottocento da studiosi di estetica per designare il godimento, la fruizione estetica di un oggetto esterno. Titchener, ci informano le studiose, «applicò tale termine sia al rapporto con gli oggetti che alla relazione sociale, sottolineando la tendenza naturale a ‘sentire dentro’ una situazione o una persona, con la conseguente tendenza all’imitazione dell’emozione compartecipata» (ivi: 9-10). Uno psicologo, Rogers, l’ha considerata «una modalità indispensabile nel rapporto terapeutico, la quale consente di entrare nel mondo di un’altra persona senza giudicarla», mentre un altro, Heinz Kohut – famoso fra gli antropologi per aver passato a Geertz (1988: 73) la distinzione tra concetti «vicini» e «lontani» dall’esperienza2 – considera l’empatia «una capacità innata che permette a tutte le persone umane di comprendere gli stati psicologici degli altri», e ha la funzione di creare i legami interpersonali (Bonino et aliae 1998: 10). L’empatia, allora, sarebbe una condivisione di emozioni, una condivisione dello stato emotivo di un’altra persona, che diventa in modo vicario il proprio stato emotivo: «chi empatizza fa proprie le emozioni altrui» e riduce la distanza interpersonale. La simpatia, invece, non sarebbe un «sentire dentro» ma un «sentire per» un’altra persona; essa «non implica la condivisione del sentire altrui ed il viverne vicariamente la stessa emozione, anche se sovente i due fenomeni sono collegati e la simpatia è una conseguenza dell’empatia» (ivi: 12). Per le studiose italiane, l’empatia, più che un sapere o un saper fare riflette «una condizione ed uno stato interiore di apertura, di disponibilità, di ricettività e permeabilità affettiva» (ivi: 17) e, seguendo Eisenberg e Strayer, la definiscono come «una risposta provocata dallo stato emotivo o dalla condizione di un’altra persona, e che è congruente con lo stato emotivo o la situazione dell’altro» (ivi: 18). Le autrici parlano di «risonanza emotiva» come indispensabile perché ci sia empatia, che non è una pura condivisione cognitiva ma un «sentire comune». Sappiamo che alcuni psico-antropologi consi2 A proposito della distinzione resa famosa da Geertz, chiediamo a Eubulide: quanto deve essere lontano un «concetto lontano dall’esperienza» per essere considerato lontano, appunto?

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derano le emozioni come cognizioni molto complesse. Le autrici, invece, mantengono nettamente distinti i due concetti e considerano l’empatia come una condivisione emotiva. D’altra parte, smarcandosi dall’annoso problema circa il «primato» in generale dell’emozione o della cognizione (cfr. Lazarus 1984; Zajonc 1984), le autrici postulano che la condivisione possa essere attivata in seguito all’attivazione emotiva o cognitiva, a seconda dei casi: «la scintilla affettiva che la caratterizza può però venire prima della mediazione cognitiva, oppure essere la conseguenza di un processo cognitivo» (Bonino et aliae 1998: 45). Esse propongono un modello complesso di analisi che affronta l’empatia come un fenomeno multidimensionale e per nulla unitario, che varia a seconda dell’età evolutiva, del genere, del tipo di emozione da condividere. Non è il caso di riprendere qui tutto l’articolato e interessante discorso delle psicologhe, se non citare il concetto di continuum empatico, ossia dei diversi tipi di condivisione empatica che si sviluppano nel corso dell’età in base al grado di mediazione cognitiva, tipi che poi coesistono tutti nell’età adulta. Le autrici, cercando di mettere un po’ di chiarezza «nella babele delle lingue che spesso caratterizza gli studi sull’empatia» (ivi: 23), individuano un continuum formato da quattro tipi di condivisione empatica, che si sviluppano come indicato nella tabella 1. 1) Contagio. È una condivisione emotiva immediata e involontaria, in cui non vi è alcuna mediazione cognitiva. Si trasmette con rapidità «per imitazione automatica» – da qui la metafora epidemiologica del contagio – e sarebbe una tendenza universale. È stato chiamato anche mimetismo affettivo, mimetismo fisiognomico o anche empatia globale. I riti, secondo le autrici, hanno anche il compito «di facilitare il contagio e la comunione emotiva dei partecipanti», di sintonizzarli «sulla stessa tonalità emotiva» (ivi: 21). Favorisce la fusione, o la «mancanza di una chiara separazione tra sé e l’altro»: «la folla, la condizione di innamoramento, l’unione mistica, costituiscono altrettanti esempi di situazioni in cui la distanza tra sé e l’altro si riduce e l’esperienza di contagio ricompare» (ivi: 23). I tipi di contagio maggiormente studiati sono l’imitazione motoria e la reazione circolare primaria. In base alla prima, una persona «letteralmente plasma il proprio corpo, sia in senso mimico che posturale, in accordo con l’espressione e la postura dell’altro» (ivi: 24). Le autrici riportano una famosa fotografia di Allport, in cui gli astanti imitano inconsapevolmente la persona che osservano. Judith Okely (1992: 18), parlando 151

Tabella 1. Sviluppo dell’empatia dalla nascita all’età adulta.

Età

Dalla nascita

Precondizioni

• Programma- • Non differenziazione tra sé zione e altro filogenetica • Relazione madre-bambino

Tipi di condivisione empatica

Fonte: et aliae Contagio AssenzaBonino di 1998 43 cognitiva mediazione • Reazione automatica involontaria agli stimoli espressivi – motor mimicry – reazione circolare primaria – mimesi Mediazione cognitiva non sofisticata • Risposta agli stimoli espressivi e situazionali – condizionamento classico – associazione diretta con l’evento – labelling – proiezione

Empatia per condivisione parallela

• Differenziazione degli altri come dotati di stati interni indipendenti

Mediazione cognitiva sofisticata • Associazione per mediazione linguistica • Rappresentazione della prospettiva dell’altro • Rappresentazione del vissuto dell’altro • Rappresentazione del vissuto dell’altro

Empatia per condivisione partecipatoria

• Consolidamento dell’identità

Mediazione cognitiva molto sofisticata • Rappresentazione del vissuto possibile • Generalizzazione a gruppi sociali

Empatia per condizioni generali

Dalla fine del 1° anno

• Permanenza • Differenziazione dell’oggetto degli altri • Riconoscicome entità mento distinte da sé differenziato delle emozioni altrui

Dal 3° e dal 4° anno

• Linguaggio • Metarappresentazione • Teoria della mente

Dal 6° anno

• Decentramento

Dall’ado- • Pensiero lescenza formale

Processi cognitivi e affettivi

Tappe dello sviluppo del sé

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della conoscenza incorporata che l’etnografo apprende attraverso la ricerca sul campo, porta un esempio di acquisizione dell’imitazione motoria, presentando una fotografia, fatta a sua insaputa, in cui si vede l’etnografa che ha assunto la stessa postura di difesa della donna zingara con cui è in compagnia di fronte a una minaccia. La reazione circolare primaria si ha, ad esempio, quando un bambino piange sentendo il pianto di un altro bambino. 2) Empatia per condivisione parallela. I tipi di condivisione più complessa prevedono invariabilmente il prerequisito della capacità di riconoscere le emozioni di un’altra persona e di discriminarle: «nel riconoscimento delle situazioni e nel collegamento tra la situazione ed un certo stato emotivo sono implicati numerosi processi cognitivi. In particolare, è coinvolta la capacità di attribuire correttamente ad un evento una certa causa» (Bonino et aliae 1998: 31). Dopo di che, la condivisione è ancora articolata: l’empatia per condivisione parallela si ha quando una risposta emotiva è collegata all’esperienza passata dell’osservatore. Costui «può collegare, grazie alla memoria, una situazione presente ad una passata, che presenta caratteristiche simili» (ivi: 33). Si tratta di un processo associativo alquanto flessibile poiché anche qui valgono la legge del ponte degli asini e quella della propriospettiva: «gli stimoli e le caratteristiche della situazione osservata che possono, per via associativa, richiamare situazioni simili vissute dall’osservatore sono potenzialmente infiniti e il loro numero aumenta sempre più lungo il ciclo della vita […]. Tale collegamento è del tutto individuale, legato com’è alla storia del soggetto ed alle sue vicende; esso può quindi apparire, ad un’altra persona, debole o del tutto incongruo» (ibidem). Tali associazioni, sottolineano le autrici, si verificano anche indirettamente, attraverso il racconto di una situazione e variano in base alla capacità retorica di chi racconta. Aggiungiamo che lo stesso vale per il racconto scritto e per l’abilità retorica del suo autore. Questo tipo di empatia è stato chiamato anche empatia egocentrica, poiché, attribuendo ad altri il proprio stato emotivo vissuto in situazioni ritenute simili, l’osservatore di fatto non conosce le emozioni dell’altro. Si tratta allora di un’empatia centrata sull’evento, più che sullo stato interno dell’altro: «l’attenzione non è perciò rivolta al vissuto interiore della persona osservata […] quanto all’evento che la persona osservata sta vivendo […] ed all’associazione tra questo evento e la propria esperienza» (ivi: 36). È a questo tipo di empatia, sostanzialmente, che si riferisce Re153

nato Rosaldo, uno dei pochi antropologi che ne hanno fatto un argomento di attenzione. Con la moglie Michelle negli anni Settanta aveva fatto ricerca fra gli Ilongot delle Filippine. Dopo la morte di una persona cara, per sfogare la propria rabbia, un Ilongot sente il bisogno di tagliare la testa di una sua vittima e scagliarla in alto: «per lui dolore, rabbia e taglio delle teste sono connessi in modo ovvio, che voi lo capiate o no. E in effetti, per moltissimo tempo, io non riuscivo a capirlo» (2001: 37). Spesso gli etnografi sono giovani e non hanno provato il dolore che si prova per la morte di un congiunto, per cui non riescono nemmeno a capire il dolore altrui, osserva Rosaldo. Egli stesso capisce quanta rabbia c’è nel dolore quando sua moglie muore: Nel 1981, Michelle Rosaldo ed io iniziammo una ricerca sul campo presso gli Ifugao del Luzon settentrionale, nelle Filippine. L’11 ottobre di quell’anno, Michelle stava camminando lungo un sentiero con due compagni ifugao quando mise un piede in fallo e cadde giù da uno scosceso precipizio per circa trentadue metri in un fiume in piena, trovando la morte. Non appena ritrovai il suo corpo, la rabbia si impossessò di me. Come aveva potuto abbandonarmi? Come poteva esser stata così stupida da cadere? Tentai invano di urlare. Singhiozzai, ma la rabbia impediva alle lacrime di sgorgare (ivi: 46).

È solo dopo questo suo dolore personale che afferma di arrivare a una «comprensione intuitiva», la quale lo porta a rianalizzare tutto il comportamento ilongot. Appresi empaticamente il dolore e la rabbia ilongot, ora cerca di usare il proprio dolore per far comprendere empaticamente ai lettori il «dolore e la rabbia di un cacciatore di teste». 3) Empatia per condivisione partecipatoria. A partire da questo stadio, «la differenziazione tra l’emozione propria e quella altrui è massima» (Bonino et aliae 1998: 37). Una persona discrimina le proprie emozioni da quelle di un altro in presenza di situazioni simili e a questa discriminazione si accompagna la capacità di rappresentarsi gli stati interni altrui. Ciò impone una capacità di decentramento dell’osservatore/condivisore per rappresentarsi il vissuto di un altro, la sua soggettività (ivi: 38). Le autrici usano di fatto la stessa terminologia impiegata dagli antropologi quando parlano dell’esigenza del decentramento dell’etnografo e, più in generale, della conoscenza antropologica. «La capacità di assumere la prospettiva ed il ruolo dell’altro va 154

dunque considerata un mediatore cognitivo che rende possibile una condivisione altamente differenziata», anche se, come insegnava Devereux, «valutazioni difensive di varia natura […] possono condurre il soggetto a non aprirsi alla condivisione» (ibidem). Sono il decentramento su cui si basa e la rappresentazione del vissuto altrui che configurano una risposta partecipatoria e non solo parallela (ivi: 40). 4) Empatia per condizioni generali. Si attuerebbe al livello più alto di condivisione, quando l’empatia riguarderebbe le condizioni generali (non soltanto una singola emozione) di una persona o di un intero gruppo sociale quale è riconosciuto dall’osservatore (i barboni, gli alcolizzati, gli handicappati, i poveri del Terzo mondo ecc.). La visione del mondo di una persona e gli schemi culturali prevalenti entrano qui ovviamente in gioco. È per lo sviluppo e la valorizzazione di questo tipo di empatia che le autrici giustamente perorano nel prosieguo del libro, più o meno come fanno gli antropologi quando giustamente predicano la valorizzazione delle culture «altre». 3. Misrisonanze Bonino, Lo Coco e Tani non sono le ultime arrivate e non sono ingenue. Esse sanno benissimo che il riconoscimento delle emozioni altrui non implica automaticamente la condivisione empatica; ci può essere una chiusura o un uso di tali emozioni per meglio aggredire la persona osservata, come hanno spesso fatto torturatori, sequestratori o despoti (ivi: 38). Esse hanno descritto il fraintendimento empatico che può sorgere con la condivisione parallela e sanno benissimo che la condivisione può portare alla trappola empatica: «non poche truffe si basano proprio su questo processo» (ivi: 59) e non pochi tentativi di ridurre l’autonomia altrui. Esse conoscono bene i rischi dell’empatia quando propongono lo sviluppo di un’educazione all’empatia (ivi: 60). Allo stesso modo, Unni Wikan non è l’ultima arrivata e non è ingenua. Riconosce benissimo la possibilità di quella che possiamo chiamare «misrisonanza», di un keneh mal colto causato da una «troppo facile attribuzione agli altri di ciò che uno sente-pensa» (1992: 479). Possiamo dire che se la risonanza è implicita nella condivisione della condizione umana, la misrisonanza è implicita nella parzialità delle propriospettive. Nella pratica etnografica così come 155

nella vita, la prima favorisce l’incontro, la seconda i malintesi, per lo meno in entrata. Wikan non si nasconde dietro un dito e riconosce apertamente che «quando lavoriamo come antropologi non siamo veramente implicati nel mondo degli altri […]. Siamo interessati a produrre effetti nella comunità antropologica e solo secondariamente sulla gente di cui stiamo tentando di capire il linguaggio» (ivi: 473). L’autrice risponde che è possibile attenuare se non ovviare alla misrisonanza attraverso l’essere-insieme-con, attraverso un «coinvolgimento attivo, non strutturato, paziente con la gente», attraverso un atteggiamento che Abraham Maslow definiva «ricettivo, passivo, paziente e di attesa, piuttosto che impaziente, smanioso e sbrigativo» (cit. in Wikan 1992: 479). È il modo che altrove ho chiamato del «vivere-con» (Piasere 1999), una «tecnica» che mi sconsigliava persino di prendere appunti sul momento, per non parlare dell’abbandono dell’uso del registratore – un sentimento che anche Wikan condivide (1992: 478). La vita come metodo. È la sua applicazione che consente di redigere i resoconti etnografici retrospettivi di cui abbiamo parlato. È questo metodo che Margaret Mead non ha seguito mai. Nell’ampio spettro di condizioni di ricerca che si nasconde sotto l’etichetta di «osservazione partecipante», spettro che va dal mordi-e-fuggi qualche giorno per settimana al vivere-con, la posizione di Margaret Mead può essere individuata più o meno a metà strada: lavoro intensivo per qualche mese e scrivere-scriverescrivere nel block-notes. Il lavoro intensivo implica che gli «informatori» hanno piegato le loro esistenze alle esigenze dell’antropologo: egli lavora, essi interrompono il loro lavoro e la loro vita per rispondere alle sue domande. 4. Serendipità Per non cadere nella trappola empatica, o per attenuarla, per non «soffocare», diceva Margaret Mead, come rendere utile per l’interpretazione l’atteggiamento ricettivo? Credo che uno dei lavori più importanti su questo punto e in generale sul problema della costruzione delle acquisizioni etnografiche sia quello, già citato, che JeanPierre Olivier de Sardan ha pubblicato nel 1995 nella rivista «Enquête», specializzata in questioni metodologiche. Ogni inchiesta, dice l’antropologo francese, ha le sue forme di ri156

gore, quella svolta sul terreno ha la caratteristica di non essere chiffrable, quantificabile a numeri. Ciononostante, essa non è «una semplice questione di feeling, ma incorpora e mobilita formazione e competenza» (1995: 73). Al feeling-pensiero di Wikan egli aggiunge un’altra dimensione: il saper fare che crea competenza. Il problema della competenza etnografica sta nel fatto che, nonostante l’esistenza di tanti manuali di etnografia, «essa non si può imparare in un manuale», poiché procede attraverso quelle teorie improvvisate di Davidson che Olivier de Sardan chiama «colpi di intuizione, improvvisazione e bricolage» (ibidem). C’è tutta una polemica sulla letteratura antropologica se la ricerca sul campo sia da intendere come rito liminare alla van Gennep, come sostiene ad esempio Hastrup (1995), oppure no, come pensa ad esempio Clifford (1999). L’antropologo francese si smarca da questo dibattito, limitandosi a sottolineare che essa è comunque e soprattutto un affare di apprendimento, un apprendimento in cui si impara facendo (Olivier de Sardan 1995: 74). Riportiamo il seguente passaggio in cui, per assimilazione comparativa con la propria esperienza, molti etnografi si ritroveranno: Bisogna aver condotto personalmente delle interviste con una traccia prefabbricata di domande per rendersi conto di quanto gli interlocutori restino inibiti da un quadro troppo stretto o troppo unidirezionale. Bisogna essersi confrontati con numerosi malintesi tra chi fa l’indagine e chi ne è oggetto per essere capaci di individuare i controsensi che cospargono ogni conversazione di ricerca. Bisogna avere imparato a padroneggiare i codici locali di cortesia e buona creanza per sentirsi infine a proprio agio nelle chiacchierate e conversazioni improvvisate, che sono spesso le più ricche di informazioni. Bisogna aver dovuto spesso improvvisare con goffaggine per diventare poco alla volta capaci di improvvisare con abilità. Bisogna, sul terreno, aver perduto tempo, tanto tempo, una quantità enorme di tempo, per capire che questi tempi morti erano tempi necessari» (ibidem).

Possiamo aggiungere che l’antropologo deve indugiare con la gente e imparare come la gente indugia. Deve indugiare e lasciar fluttuare la sua attenzione, come insegnava Devereux. Deve lasciarsi condurre dalla vita degli altri. In questo modo, abbandonandosi al ritmo della vita degli ospiti, perdendo quel tempo che non è perso se categorizzato con categorie non produttivo-commerciali, egli può scontrarsi con la vita. 157

Non va alla ricerca di informazioni già selezionate, ma trova eventi mediante quella modalità che gli americani chiamano serendipity e che è stata tradotta con «serendipità». Trova informazioni e interazioni anche quando non le cerca perché sono attorno a lui. Vi è, appunto, immerso. Credo che la serendipità abbia svolto un ruolo fondamentale in tantissime ricerche sul campo senza che l’autore se ne sia reso conto. Il saper fare dell’etnografo è un allenamento all’apertura alla serendipità. Si può dire che il continuum di pratiche incluse nel termine «osservazione partecipante» è individuabile dal grado vieppiù maggiore che gioca la serendipità tra gli estremi della tattica del mordi-e-fuggi e di quella del vivere-con. 5. L’etnografo-spugna Tornando a Olivier de Sardan, è allora dalla combinazione di quattro «grandi forme di produzione di dati» che si può pensare di coniugare il «rigore qualitativo» tramite il feeling-pensiero-competenza: l’osservazione partecipante, i colloqui, i procedimenti di censimento e catalogazione, la raccolta di fonti scritte. In questa combinazione, vera metodologia eclettica dell’etnografo, non c’è spazio per alcun riduzionismo, come si vede. Prendiamo le quattro forme singolarmente e sinteticamente, invertendone l’ordine. 1) Le fonti scritte rappresentano una «cornice» alla ricerca sul campo; attraverso esse il ricercatore esce dallo stretto contesto della comunità ed esse possono servire come ponte intercontestuale o diacronico. Sono di solito usate prima, durante e dopo la ricerca diretta. Quando usate prima, servono a pre-familiarizzare l’etnografo (per ridurre la sua angoscia, diceva Devereux), a fornirgli «ipotesi esplorative» che lo preparano all’entrata (alla Goffman) interattiva nella comunità, che lo preparano a dire «anch’io», alla Fatma. Le fonti scritte (che Fatma non aveva) sono anche quelle prodotte dagli attori stessi e sono «indissociabili dall’inchiesta sul campo» (Olivier de Sardan 1995: 89). Sono prodotti culturali. 2) Quelli che Olivier de Sardan chiama procedimenti di censimento, sono censimenti veri e propri, inventari, liste, genealogie, campionamenti. Sono «dispositivi di misura» che uno si crea nel setting etnografico e che possono variare tanto quanti sono gli ambiti investigati. Essi possono essere utili per prendere un po’ le distanze dalla 158

trappola empatica, ma anche dagli enunciati degli attori che, ad esempio, possono tutti dire che il matrimonio da fare è quello con la cugina parallela patrilaterale, mentre poi solo il 50% di essi l’ha praticato. L’etnografo lo verifica con un censimento ad hoc dei matrimoni, come fece Adriana Destro (1977) in un villaggio palestinese, da cui prendo l’esempio. Un tempo si diceva che tali accorgimenti servivano per misurare la distanza tra norme e pratica. Tali procedimenti, dice Olivier de Sardan, non hanno mai perso la loro importanza. 3) Non è perché si è operato recentemente un riduzionismo eccessivo sul problema del «dialogo» che bisogna per reazione negarne l’importanza. Il colloquio, l’intervista, certo il meno strutturata possibile, seppur sollecitata, resta importante. E, se certo si può parlare di una «politica dell’intervista», non per questo bisogna costruirci sopra una mistica del dialogo. La mistica del dialogo la si ottiene quando si arriva a una «dissoluzione del referente», quando i due interlocutori si impegnano ad analizzarsi reciprocamente gli ombelichi, spostandosi e ricollocandosi in continuazione per negoziare meglio, ma dimenticando di dirsi che cos’è un ombelico. Certo, riconosce Olivier de Sardan, nel colloquio c’è una negoziazione, ma dal momento che non è sempre esplicita egli la definisce «invisibile», e ciò deriva dal fatto che gli interessi del ricercatore non sono gli stessi degli intervistati, che le loro propriospettive sono diverse perché, spesso, sono incastrate in reti sociali dipendenti da una divisione del lavoro a carattere internazionale che essi non possono gestire (se non con pii desideri). Ma questo è un aspetto di una situazione più complessa in cui si trovano embricati almeno tre livelli: quello delle «informazioni sul mondo», quello delle «informazioni sul punto di vista dell’interlocutore sul mondo» e quello delle «informazioni sulla struttura comunicativa del colloquio» (Olivier de Sardan 1995: 83). Ora, nell’intervista sollecitata, per sfuggire alle sue modalità interattive imposte, l’etnografo deve «avvicinare il più possibile l’intervista a un modo di comunicazione riconosciuto nella cultura locale» (ibidem). In questo modo, se non sfugge al doppio vincolo batesoniano che si viene a creare – di mantenere il controllo del colloquio, lasciando al contempo l’interlocutore esprimersi come vuole – per lo meno impara sempre più, facendo, come i suoi interlocutori colloquiano. 4) La classica espressione «osservazione partecipante» viene mantenuta da Olivier de Sardan e usata in modo originale con riferimen159

to al fatto che l’etnografo, usando la propria presenza, il proprio corpo, come strumento principale, è testimone di esperienza («osserva») e coautore di interazioni («partecipa»). Così, specifica in modo brillante l’autore, egli può osservare la realtà che studia «se non dall’‘interno’ in senso stretto, almeno il più vicino possibile a coloro che la vivono e in interazione permanente con loro» (ivi: 75). Le osservazioni ricavate dall’etnografo in questa maniera possono essere trasformate in «dati» quando trattate consapevolmente, ma esse possono anche «depositarsi» nel suo inconscio e rimanere latenti. È qui che l’autore fa fare veramente un salto alle solite disquisizioni sul lavoro sul campo. Si può parlare allora di conoscenze acquisite per impregnazione, come si diceva. L’etnografo, quasi come una spugna, si impregna di esperienze altrui, di schemi altrui, di analogie altrui, di emozioni altrui, di posture altrui. In veneto c’è un termine molto adatto a questa metafora: imbombegà. Ogni oggetto che si impregna di una sostanza non cambia di per sé natura (a prescindere dal fatto che, come la spugna, possa essere o meno spremuto), resta «segnato» perché imbombegà. Mentre i dati sono «tracce oggettivate di ‘pezzi di reale’», selezionati puntando coscientemente la propria attenzione, l’impregnazione, l’imbombegamento, agisce quando non si presta attenzione. Come ogni persona, vivendo, immagazzina osservazioni inconsce, così l’etnografo, vivendo «lì», si comporta allo stesso modo. Possiamo allora stabilire un continuum osservativo che va dall’osservazione consapevole, all’osservazione fluttuante di Devereux all’impregnazione di Olivier de Sardan. L’impregnazione (o sedimentazione, come è stata chiamata da Hastrup con un’altra metafora) è a mio avviso fondamentale, è la «forma» che dà senso a tutte le altre che abbiamo brevemente riassunto. L’impregnazione è un feeling-pensiero incorporato, internalized, dicono gli anglofoni. Essa assegna quell’importanza all’incorporazione delle conoscenze sul campo così fortemente sottolineata da molte antropologhe, specie femministe (cfr., ad esempio, Okely e Callaway 1992), anche in contrapposizione al riduzionismo testuale dei postmodernisti. Scrive Clifford: «Può tornarci utile pensare al ‘campo’ come a un habitus piuttosto che a un luogo, come cioè un gruppo di disposizioni d’animo e pratiche fatte proprie, incarnate. Il lavoro svolto dalle studiose femministe ha svolto un ruolo cruciale nello specificare il corpo sociale dell’etnografo, mettendo in luce nello stesso tempo i limiti del lavoro androcentrico» (1999: 93). Di160

mentica di dire che molte l’hanno fatto proprio ribellandosi a quanto lui scriveva negli anni Ottanta! L’impregnazione-imbombegamento-sedimentazione-incorporazione-internalization è un fenomeno psicosomatico che facilmente possiamo riferire all’acquisizione, parziale ma felice, di habitus altrui, alla Bourdieu, o di schemi altrui, seguendo i connessionisti, compresi gli schemi cinesici e prossemici dell’imitazione motoria, come ci fa vedere Okely. È attraverso l’impregnazione che «si imparano a padroneggiare i codici di buona educazione, e ciò interverrà molto indirettamente e inconsciamente, ma molto efficacemente, nel modo in cui si conducono i colloqui; è così che si impara a sapere di che cosa è fatta la vita quotidiana e di che cosa si parla spontaneamente» (Olivier de Sardan 1995: 80). Come ho spiegato altrove (Piasere 1999), più che le note scritte in loco è l’impregnazione che ti permette di redigere il resoconto etnografico o, per lo meno, ne è il collante. Si può scrivere un’etnografia tutta dati e censimenti e riferimenti bibliografici, certo, ma vi manca il sale, il sugo di una conoscenza imbombegà. Ricitiamo: «È qui tutta la differenza, particolarmente sensibile nei lavori descrittivi, tra un ricercatore di terreno, che ha di ciò di cui parla una conoscenza sensibile (per impregnazione), e un ricercatore di biblioteca che lavora su dati raccolti da altri» (Olivier de Sardan 1995: 80). Con buona pace di Clifford. Tale padronanza che si acquisisce per impregnazione non è altro che la padronanza, certo imperfetta ma sempre migliore di chi non ha quell’esperienza, del sistema di senso del gruppo di persone presso cui si è vissuto. Ho spiegato altrove (Piasere 1999) di come un gruppo di antropologi che aveva letto tanti libri di antropologia zingara non sapesse ridere di fronte a un fatto che faceva ridere gli zingari, così come faceva ridere all’unisono gli antropologi degli zingari a cui veniva riferito durante un seminario di ricerca. Era un esempio di come la conoscenza incorporata, impregnata, opera verso una conoscenza selezionata. Recentemente Patrick Williams (1999: 78) ha sperimentato la stessa situazione: ha raccontato durante una conferenza una storia raccolta fra gli zingari ma¯nusˇ e da questi ritenuta comica. Risultato: «il pubblico composto da ricercatori e studenti resta di marmo»! Appena mi manda la storia, scoppio a ridere.

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6. L’«incliccaggio» interazionale Un altro fattore tanto importante quanto poco evidenziato normalmente è il fenomeno che Olivier de Sardan chiama enclicage e che, conservando la bruttura, traduciamo con «incliccaggio». Il concetto è fondamentale in termini di – diciamo – sociologia della conoscenza etnografica. Il termine deriva da clique che, in base a una definizione stretta nella teoria dei social networks, si riferisce a «un insieme di individui in cui ogni membro è legato positivamente ad ogni altro membro» (Lorrain 1975: 224). In base a una definizione più larga, il termine, allora riportato come n-clique, si riferisce a un insieme di individui che possono essere connessi con un numero massimo (n) di legami (Scott, 1991: 118). In qualsiasi caso, nella rete più ampia la clique arriva a formare una zona in cui il numero dei legami la rende più densa che altrove. Essa, insomma, rimanda a gruppi di persone fortemente interattive. In italiano si dice spesso che quel tale fa parte di quel «giro». I giri possono essere di diverso tipo: ad esempio, la figura 1 mostra il reticolo delle relazioni parentali (distinte in base alle classificazioni locali) dei ballerini che si esibiscono a Carnevale a Bagolino, in provincia di Brescia. Come si vede, vi sono delle zone della rete molto più dense di altre. Ora, l’etnografo non può sfuggire a situazioni del genere, poiché è costretto, dice Olivier de Sardan, a inserirsi «in certe reti e non in altre». La sua inserzione «non si fa mai con la società nel suo insieme, ma attraverso gruppi particolari» (1995: 101). Una volta entrato, inevitabilmente, in una clique (che a volte è una vera cricca) rischia di essere sbattuto da un membro all’altro, come una specie di palla di biliardo, senza riuscire più a uscire e a contattare altri giri. Riprendendo la figura 1, immaginate l’etnografo «prigioniero» della densa clique in alto a sinistra. Conosco alcune situazioni limite, di ricercatori tesi a «liberarsi» da cricche di cui erano diventati «proprietà». Estendere poi la cultura della clique in cui si è rimasti ingabbiati alla «cultura degli X» (Nuer, Tikopia, Balinesi che siano) è il pericolo più grosso che corre ogni etnografo, e oggi ampiamente denunciato. Ciononostante, un incliccaggio controllato e «turnato», cioè avvenuto in più cliques, consente di avere esperienza delle reti reali esistenti, così come consente di sperimentare direttamente la non omogeneità culturale presente in gruppi anche esigui. La propriospettiva è ovunque in opera e il lavoro etnografico dovrebbe postulare 162

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Figura 1. Reticolo delle relazioni parentali fra i ballerini di Bagolino (da Cappelletto 1996, tavola 2).

sempre un approccio anti-coerenza (ivi: 94). Hannerz direbbe di asimmetria distributiva dei significati. Un aspetto non toccato da Olivier de Sardan è che anche nella situazione di partenza e poi di ritorno l’etnografo vive «incliccato» nelle sue reti quotidiane (di parentela, di vicinato, professionali ecc.). Raramente si tiene conto del fatto che poi la sua produzione seguirà flussi incliccati di diffusione (leggi di mercato, doni rituali delle copie-omaggio, invio degli estratti – ormai quasi scomparsi – adozioni da parte di colleghi amici), flussi bidirezionali o unidirezionali, che influenzano la sua stessa interpretazione: l’etnografo parla in particolare a qualcuno. La curvatura della sua esperienza è un’andata-e-ritorno fra cliques di diverso tipo. 7. Ritorno alla perduzione Dopo quanto abbiamo esposto torniamo al concetto di perduzione che abbiamo introdotto nel capitolo secondo. Si tratta di un concetto fuzzy, dai contorni altamente sfumati, strutturalmente politetico, che rimanda all’idea di una conoscenza acquisita per interazione, per iterazione, per approssimazione. Si tratta della conoscenza che si acquisisce per risonanza impregnante quando si attua intenzionalmente e coscientemente una curvatura dell’esperienza. Come abbiamo detto, non si tratta di un tipo di ragionamento analitico, ma di una conoscenza di tipo sintetico acquisita con quelle modalità cui potremmo alludere come a uno «scandagliamento», uno «scorrazzamento» cognitivo in situazioni esperienziali non quotidiane e familiari. La perduzione si raffina sviluppando la propensione cognitiva fondamentale di «poter osservare ciò a cui [l’etnografo] non era preparato» (Olivier de Sardan 1995: 77). La perduzione si insinua fra molte dicotomie normalmente usate per descrivere i fenomeni sociali e culturali, sfumandole e collegandole in processi di continuità. Vediamone alcuni aspetti. 1) Metodo artificiale/metodo naturale. Normalmente si dice che l’etnografo agisce in un contesto naturale, a differenza di altri ricercatori che operano in ambienti e con strumenti artificiali come i laboratori, i test ecc. In realtà, la cosiddetta situazione naturale è una situazione vicina a quella naturale, poiché se è vero che gli osservati continuano a vivere la loro vita più o meno «disturbati» dall’etno164

grafo tanto o poco impiccione, l’etnografo, quanto a lui, non continua a vivere la sua vita. Mantenendo la metafora già usata, egli è in una fase di curvatura della sua esistenza, di controllo delle proprie «variabili mentali» (le teorie e ipotesi che ha in testa), di acquisizione volontaria, consciamente e inconsciamente, di schemi altrui, di metafore e analogie altrui, di modalità altrui di condivisione delle emozioni. Il metodo perduttivo di conoscenza è un metodo vicino a quello naturale che sfrutta elementi di quello artificiale. In particolare, il metodo perduttivo sfrutta fino in fondo due delle modalità di acquisizione naturale, che sono quelle dell’iterazione e dell’apprendimento mimetico per approssimazione felice. Si impara ripetendo, si impara osservando e riosservando scene simili tra loro, si impara facendo allo stesso modo, o quasi. Si impara ottenendo il consenso, da parte di coloro che si imita, che quello che si fa va bene, o quasi. 2) Particolarismo/olismo. La conoscenza perduttiva è tendenzialmente sintetica, senza arrivare a un olismo generalizzato. Essa si basa sull’interiorizzazione parziale di scenari interattivi e tali scenari comprendono elementi ecologici, non solo sociologici o simbolici, che favoriscono la memorizzazione e l’esemplificazione. Ci sono, cioè, avvenimenti vissuti dall’etnografo interagendo fra i suoi ospiti, che lasciano tracce profonde nella sua memoria e nel suo subconscio e che costituiscono degli esemplari di avvenimenti ai quali altri avvenimenti vengono cognitivamente associati per fisionomia di esperienza. Anche se la conoscenza perduttiva è soprattutto basata sull’incorporazione di tali scenari, essa non scarta l’acquisizione di regole «lineari», «parcellari», quali sono enunciate dai membri stessi della comunità o da coloro che hanno il potere o l’autorità di farlo. L’esemplarizzazione di eventi e l’associazione per fisionomia di esperienza diventerà basilare nella comparazione che l’etnografo farà con l’esperienza di altri etnografi e, più in generale, è basilare nell’edificazione del sapere antropologico: un antropologo interpreta le esperienze etnografiche altrui in risonanza con le proprie esperienze etnografiche. 3) Acquisizione cosciente/acquisizione incosciente. La psicologia connessionista ci dice che la maggior parte degli schemi è appresa in modo incosciente e, da questo punto di vista, la perduzione si avvicina a questa situazione naturale. Il fatto, però, che il ricercatore sovraccarichi l’attenzione nella fase di ricerca, favorisce un’acquisizione cosciente accentuata. L’impregnazione viene mediata e attenuata 165

da un’inculcazione più controllata di quella quotidiana. Quotidianamente non si prendono appunti su quello che gli altri fanno (anche se i diari personali possono a volte farlo), mentre gli etnografi, anche se con modalità diverse l’uno dall’altro, lo fanno. Ma, come osserva giustamente Judith Okely (1992), gli appunti non sono un immagazzinamento di conoscenze definitive; essi sono «molle» che fanno scattare l’evocazione delle conoscenze incorporate e inconsce. Un etnografo è certo meno impregnato di un membro della comunità, ma la sua conoscenza non è «tutta testa e niente cuore». Non è asettica: è contaminata perché impregnata inconsciamente. 4) Sapere/saper fare. Olivier de Sardan afferma che la ricerca sul campo è un saper fare, è l’acquisizione di un saper fare. Notiamo, però, che in questo saper fare in cui il ruolo della ripetizione e della mimesi sono fondamentali, interviene una strutturazione delle stesse ripetizione e mimesi basata sui saperi che l’etnografo ha già incorporato in sé e che ha acquisito sia come membro della propria società, sia, a volte, come membro di un settore sociale tendenzialmente più cosmopolita, sia come studente o studioso di antropologia. L’etnografo ha già tante cose «in testa e nel cuore», che interagiscono e a volte confliggono con schemi interattivi che deve o vuole apprendere o che apprende inavvertitamente. D’altra parte, tale apprendimento è possibile solo perché gli schemi già incorporati sono altamente fuzzy e perché riconoscono i nuovi schemi sempre per via analogica. La perduzione facilita un saper fare tramite un sapere intenzionale. La perduzione facilita specialmente il saper fare interattivo, tramite una disposizione cognitiva ed empatica a cogliere il non noto. 5) Induzione/deduzione/abduzione. La conoscenza perduttiva è una conoscenza eclettica che cerca di sfruttare al meglio nella vita interattiva di tutti i giorni, e specie nelle teorie istantanee, i tipi canonici di ragionamento. Ma è chiaro che il momento induttivo e quello abduttivo, oltre a quello analogico, giocano ruoli importanti. Il momento apagogico, quello delle induzioni ipotetiche, è il momento centrale attorno a cui si struttura la perduzione la quale, si può dire, gioca con i ragionamenti sfruttando indizi momentanei e certezze pregresse. La perduzione si configura come una conoscenza a concatenazione reticolare irregolare che collega eventi a eventi in base a nuove possibilità di occorrenza degli eventi stessi.

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Capitolo settimo

Narrazioni e illuminazioni

Non c’è fatto, per umile che sia, che non racchiuda la storia universale e la sua infinita concatenazione di effetti e di cause. Borges L’Aleph

1. Bruner «gnarus narrat» Gli ultimi quindici-vent’anni rappresentano il «momento narrativo» delle scienze umane. Ben dopo i critici letterari (che lo fanno di mestiere), ma anche ben dopo i semiologi e i filosofi, antropologi, sociologi e psicologi scoprono l’importanza della narrativa, e della narrazione, a volte usato come sinonimo. Come è noto, per Lyotard la diversa enfasi posta sulle narrazioni diventa il discrimine tra il moderno e il postmoderno. In particolare, caratteristica del postmoderno è «l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni» (1985: 6). E in effetti dopo Lyotard l’incredulità verso le metanarrazioni è diventata la solida metanarrazione dei postmodernisti. La scoperta è una conseguenza dell’approccio ermeneutico e della sua enfasi sulla metafora del testo, di cui abbiamo detto. Ma testo e narrativa non sono la stessa cosa. La metafora del testo spinge a interpretare le culture attraverso il pregiudizio, consapevole o inconsapevole, della scrittura, dal momento che il prototipo del concetto di testo resta il testo scritto. La metafora della narrativa/narrazione riporta invece alle condizioni dell’oralità, dal momento che il suo prototipo concettuale è la narrazione orale. Chi non è caduto, e in modo brillante, nella trappola della metafora del testo pur aderendo alle tesi interpretative è uno psicologo, Jerome Bruner. Jerome Bruner è uno dei mastodonti della psicologia a livello mondiale e negli anni Cin167

quanta fu tra gli ispiratori della cosiddetta prima rivoluzione cognitiva, che sovvertì il paradigma comportamentista. Superesperto di processi cognitivi (è roba della sua bottega), negli anni Ottanta s’accorge delle secche in cui si stava andando a impantanare l’estremismo cognitivista e, sotto il dichiarato contagio delle idee di Geertz, anche se non solo di Geertz, Bruner scopre la narrazione. Ma, lo sappiamo, la struttura biografica di una persona non è acqua e ogni idea che si acquisisce viene trasformata in base alla propriospettiva. La reinterpretazione di Bruner consiste nella scoperta del cosiddetto pensiero narrativo, un concetto che egli costruisce nell’ambito della sua proposta di una psicologia culturale. La psicologia culturale sarebbe quella psicologia dipendente dal contesto culturale che parte non dalla psicologia «scientifica» ma da quella popolare. Come riconosce lo stesso Bruner, la sua psicologia popolare ricorda molto l’etno-psicologia del periodo dell’etnoscienza, del periodo dell’«etno-boom» americano, come l’ha chiamato Agar (1996), ma anche la «demo-psicologia» della tradizione italiana. Un piccolo passo indietro. Basta consultare un qualsiasi manuale di retorica o di storia della retorica per venire a sapere che la retorica classica era divisa in cinque parti, fra cui la dispositio, che riguardava in generale la messa in ordine delle cose che si dovevano dire durante l’orazione. La dispositio a sua volta era strutturata in quattro parti, fra cui la narratio, che era l’esposizione dei fatti. La narratio avrebbe dovuto essere un’esposizione obiettiva, ma nessuno ci ha mai creduto, e il termine lo dimostra. Basta consultare un buon dizionario di latino per scoprire che il verbo narro «narrare, raccontare, comunicare» (da cui il sostantivo narratio e il poco usato aggettivo narrativus) ha due sinonimi, gnarigo e gnaro. Ora, gnarigo, gnaro, narro derivano da gnarus o narus che apparentemente non ha più a che fare col narrare ma col sapere. (G)narus è colui che sa, che ha cognizione di una cosa, che è pratico di una cosa. L’ignarus (< in-gnarus) è colui che non sa, da cui il nostro «ignaro». Di conseguenza, la gnaritas era la conoscenza, la cognizione. Ossia, per i latini, la narratio, basata sulla metafora della conoscenza, era l’esposizione dei fatti così come uno li conosce: narra chi sa. Inconsapevolmente credo, Bruner ritorna in qualche modo ai primordi etimologici proponendo che la narrazione è una forma del pensiero. Nel 1986, stesso anno in cui appare Writing culture, pubblica un volume (una raccolta di saggi scritti tra il 1980 e il 1984), si168

gnificativamente tradotto in italiano La mente a più dimensioni, in cui propone la nuova rivoluzione della propria rivoluzione cognitiva: la narrazione è una capacità fondamentale di cui è dotato l’uomo e rappresenta un tipo di pensiero qualitativamente diverso dal pensiero logico, che chiama «paradigmatico». Il pensiero narrativo si basa sulla logica dell’esperienza umana e connette le azioni con gli stati mentali di una persona. Il primo, quello paradigmatico o logico-scientifico, persegue l’ideale di un sistema descrittivo ed esplicativo formale e matematico. Esso ricorre alla categorizzazione o concettualizzazione, nonché alle operazioni mediante le quali le categorie si costituiscono, vengono elevate a simboli, idealizzate e poste in relazione tra loro in modo da costituire un sistema […]. L’uso creativo del pensiero paradigmatico produce buone teorie, analisi rigorose, argomentazioni corrette e scoperte empiriche che poggiano su ipotesi ragionate. Ma l’«immaginazione» (o intuizione) paradigmatica è diversa dall’immaginazione del romanziere o del poeta […]. L’uso creativo dell’altro modo di pensare, quello narrativo, produce invece buoni racconti, drammi avvincenti e quadri storici credibili, sebbene non necessariamente «veri». Il pensiero narrativo si occupa delle intenzioni e delle azioni proprie dell’uomo o a lui affini […]. Il suo intento è quello di calare i propri prodigi atemporali entro le particolarità dell’esperienza e di situare l’esperienza nel tempo e nello spazio (ivi: 17-18).

Il pensiero narrativo è espresso attraverso il discorso narrativo, o narrativa, che diventa la punta espressiva dell’iceberg narrativo e «una delle forme di discorso più diffuse e più potenti nella comunicazione umana» (ivi: 81): È irragionevole supporre nell’uomo una certa qual «attitudine» alla narrazione, responsabile, innanzitutto, della conservazione e dell’elaborazione di una tale tradizione, vuoi, in termini kantiani, come «un’arte nascosta nell’anima umana», vuoi come una caratteristica della nostra capacità di linguaggio, vuoi anche come una capacità psicologica simile, per esempio, alla nostra attitudine a convertire il mondo dell’input visivo in «figura e sfondo»? Non voglio asserire che noi «immagazziniamo» specifici racconti o miti archetipici, come afferma Jung. Questa mi pare come un’inopportuna concretizzazione. Intendo piuttosto una sorta di attitudine o di predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa, in strutture di intrecci e così via (Bruner 1992: 56).

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D’altra parte, tale iceberg è di natura particolare poiché esso si costituisce con un doppio movimento: non solo narra chi sa, ma anche sa chi narra, ossia la narrazione è fondamentale per la conoscenza: si impara da narrazioni, si impara narrando. Vediamo quali sono per Bruner le proprietà principali della narrazione rispetto ad altre forme di discorso. 1) La narrazione ha un’intrinseca sequenzialità, ovvero un’intrinseca «sequenza di eventi, stati mentali, avvenimenti che coinvolgono gli esseri umani come personaggi o come attori» (ivi: 55). Il significato di tali componenti deriva dalla loro ubicazione all’interno della sequenza. D’altra parte la resa «lineare» della sequenza è influenzata dalla struttura di tutte le grammatiche conosciute (ivi: 83). 2) La narrazione può essere reale o immaginaria, il che implica che «tra il senso e il riferimento esterno del racconto sussiste una relazione anomala» (ibidem): è la sequenza delle frasi che determina la trama generale e non la loro verità o falsità. Abbiamo quindi il fatto sorprendente, e fonte di mille dispute e malintesi, per cui un racconto «empirico», dell’etnografo, dello storico o di qualsiasi altro, condivide la forma narrativa del racconto fantastico (ivi: 56). Ricordo bene l’analisi immediata che Pietro Clemente ci offrì un pomeriggio di qualche anno fa, presso la facoltà di Psicologia a Roma, sulla precedente conferenza di Alessandro Duranti, il quale ci forniva un’interpretazione antropologica sull’azione di un politico californiano: Duranti aveva usato, e nessuno dell’uditorio se ne era accorto, la struttura del racconto tradizionale, mettendo in campo tanto di eroe, antieroe, prova, premio finale ecc.! Dall’espressione di Duranti si vedeva la sua stessa sorpresa. Anche Bruner, sulla scia di Ricoeur, vede le forme narrative come «residui sedimentati di modi tradizionali di raccontare» (ibidem). Le narrative sono quindi altamente culturali, come Colby (1966) ci segnalò più di trent’anni fa e come una schiera di storici delle cosiddette letterature popolari ci dice da sempre. 3) La narrazione ha una «specifica capacità di stabilire legami tra l’eccezionale e l’ordinario». La cultura – o la psicologia popolare nei termini di Bruner – ha la funzione di rendere canonici l’usuale e il prevedibile, ma ha anche «strumenti potenti, finalizzati a tradurre lo straordinario e l’insolito in forma comprensibile» (Bruner 1992: 58). Uno di questi strumenti potenti, e forse il più potente è la narrazione: «la funzione del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale 170

che mitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico», dice enfatizzando Bruner (ivi: 59). 4) Seguendo Kenneth Burke, Bruner individua cinque elementi della narrazione: un attore, un’azione, uno scopo, una scena e uno strumento. Oltre a questi vi è il problema, che consiste nello squilibrio tra i cinque elementi, ad esempio un’azione non consona a un certo attore in una certa scena ecc. 5) La narrazione ha un paesaggio duplice: «gli eventi e le azioni di un supposto ‘mondo reale’ accadono contemporaneamente agli eventi mentali nella coscienza di protagonisti», e un legame discordante tra i due «fornisce forza motivante alla narrazione» (ivi: 61). Culture diverse o culture storiche diverse possono trattare i rapporti tra i due «paesaggi» in modo diverso. 6) Se narrazione immaginaria e narrazione empirica usano le stesse forme narrative, se la «verità e la possibilità sono inestricabili» (1992: 62), è comunque possibile trovare indizi di distinzione? Secondo Bruner dipende dall’uso delle trasformazioni congiuntivizzanti: «si tratta di usi lessicali e grammaticali che mettono in evidenza gli stati soggettivi, le circostanze attenuanti, le possibilità alternative» (ivi: 63). I romanzi sono più «congiuntivi» dei resoconti etnografici, ad esempio, perché sono più aperti a varianti di lettura, più soggetti «alle divagazioni degli stati intenzionali». In essi è «più facile penetrare» e sono più adatti alla negoziazione sociale: «È più facile convivere con versioni alternative di un racconto che con premesse alternative in un resoconto scientifico» (ivi: 64). 7) La narrazione svolge il ruolo di organizzare l’esperienza, ossia la strutturazione dell’esperienza è narrativa. Per fare ciò si avvale di due aspetti: la strutturazione o riduzione in schemi e la regolazione dell’affetto. Della prima abbiamo parlato ampiamente nei capitoli precedenti e segnaliamo solo il fatto che Bruner giustamente insiste sul fatto che la riduzione in schemi già per Bartlett, che la propose per primo negli anni Trenta, è sociale, non un immagazzinamento individuale: essa è «finalizzata alla condivisione del ricordo nell’ambito di una cultura […] viene sistematicamente modificata per conformarsi alle nostre rappresentazioni canoniche del mondo sociale, oppure, se ciò non è possibile, finisce o con l’essere dimenticata, o con l’essere messa in evidenza per la sua eccezionalità» (ivi: 65). Ora, gli schemi mnemonici sono sotto il controllo di un «atteggiamento emotivo», per cui l’affetto diventa un’«impronta generale 171

dello schema di ricostruire» durante la rievocazione, la quale assume una funzione retorica: «con le ricostruzioni operate dalla nostra memoria non ci proponiamo soltanto di convincere noi stessi. La rievocazione del passato ha anche una funzione dialogica. L’interlocutore della persona che ricorda […] esercita una pressione sottile ma continua» (ivi: 67). 8) La narrazione è anche un modo di acquisizione del linguaggio da parte del bambino (ivi: 83) e in generale un modo di usare il linguaggio: essa dipende molto dalla forza delle figure retoriche: metafora, metonimia, sineddoche ecc.: senza di queste «perde la sua forza di ‘ampliamento dell’orizzonte delle possibilità’, di esplorazione dell’intero ventaglio dei legami tra l’eccezionale e l’ordinario» (ivi: 68). Per cui le regole della logica classica non valgono più: è la verosimiglianza o l’approssimazione alla vita ciò che usiamo nell’interpretazione. Non valgono le condizioni di verità, bensì le condizioni di appropriatezza, sempre contesto-dipendenti, e il principio cooperativo di Grice, in base al quale le conversazioni vengono condotte secondo regole tacite di brevità, di chiarezza, di pertinenza e di sincerità. In conclusione, per il Bruner narrante la narrazione media tra il mondo canonico della cultura e quello personale delle credenze e delle speranze: Rende comprensibile l’elemento eccezionale e tiene a freno l’elemento misterioso, salvo quando l’ignoto sia necessario come traslato. Reitera le norme della società senza essere didattica, e fornisce, come ormai risulterà chiaro, una base per la retorica senza bisogno di un confronto dialettico. La narrazione può anche insegnare, conservare il ricordo o modificare il passato (ivi: 62).

2. Fabbriche giapponesi tra etnografia enciclopedica ed etnografia narrativa Un’importante riflessione, sempre nell’ambito della narrazione, è riservata da Bruner al «Sé». L’introspezione, egli afferma, è in realtà una sorta di retrospezione precoce e in quanto tale soggetta alla messa in schema alla Bartlett. Ma se così è, il Sé non è né «essenziale» né «concettuale», ma sempre «transazionale» perché sempre contestodipendente e dialogo-dipendente (ivi: 99-100). Il contestualismo impone un Sé non ubicato esclusivamente nella mente di uno, ma un 172

Sé sempre situato, cioè costruito e rimaneggiato costantemente dalle situazioni e dalle geografie culturali in cui si trova a operare, e sempre distribuito, cioè non inteso come un nucleo fisso ma come una «somma e molteplicità di atti di partecipazione» (ivi: 105). Di conseguenza, la natura della conoscenza stessa è sempre situata e distribuita: negoziata, direbbe Geertz, risonante, direbbe Wikan. Ma se, come diceva Lévi-Strauss, l’osservatore fa sempre parte dell’osservazione, i Sé in ballo in etnografia sono sempre almeno due: quello dell’interlocutore e quello dell’etnografo, e se gli interlocutori sono tanti, i Sé sono altrettanti. Se il Sé è sempre contestuale, allora il contesto etnografico diventa fondamentale per capire non soltanto le interrelazioni fra i Sé, ma anche come si costruisce la conoscenza etnografica stessa. Questo aspetto è stato sottolineato da Judith Okely fin dal 1975, in uno dei primissimi studi sul Sé dell’etnografo (ripubblicato in Okely 1996, cap. 2). Gli antropologi nordamericani associano l’attenzione sul Sé allo sviluppo dell’etnografia narrativa, anche se, in realtà, la scoperta della narrazione segue a ruota ma non è contemporanea. Barbara Tedlock scrive nel 1991 un articolo intitolato Dall’osservazione partecipante all’osservazione della partecipazione: la comparsa dell’etnografia narrativa, in totale allineamento con l’antropologia dialogico-interpretativa e calcando il momento di rottura verso la precedente etnografia. Più pacato, anche se «riposizionatosi» in seguito al contagio cliffordiano, è Michael Agar, il quale, in un mondo di negoziazioni e ricollocazioni etnografiche (e accademiche), propone che anche tra antropologi sia tempo di negoziazioni di pace! In un capitolo aggiunto («Ethnography reconstructed») nella seconda edizione di The professional stranger, una famosa introduzione all’etnografia uscita in prima edizione nel 1980, Agar propone un confronto tra le etnografie «vecchie» e quelle «nuove». Lo fa in modo molto onesto, comparando le raccomandazioni che dava all’aspirante etnografo nella prima edizione del suo libro con il resoconto etnografico di Dorinne Kondo (1990), decisamente bello. Dorinne Kondo è un’americana «col trattino», in particolare è una nippo-americana bilingue che torna in Giappone per fare una ricerca etnografica in una fabbrica di confezioni. Nel suo libro, dice Agar, ci sono un mucchio di informazioni che anch’io raccomandavo di raccogliere. Si tratta di informazioni che rimandano soprattutto alla ricostruzione di quella che chiama una etnografia enciclopedica, ossia informazioni che aiu173

tano a capire la conoscenza condivisa da parte del gruppo e il mondo in cui esso vive (elementi di storia giapponese, geografia di Tokio, descrizione dei conflitti tra i mestieri tradizionali e l’affarismo capitalistico, spiegazione di concetti giapponesi ecc.). Rimandano più alla conoscenza che a quello che le persone fanno. Questa etnografia enciclopedica, che caratterizza la «vecchia» etnografia (quella che negli anni Sessanta si chiamava «nuova etnografia»…) è necessaria ma non è più sufficiente, riconosce Agar. Quello che Kondo aggiunge e che rende per l’audience di oggi così brillante il suo studio, è l’etnografia narrativa, ossia le storie e i fatti personali che riporta dei suoi colleghi e colleghe di lavoro nella fabbrica. Le loro storie non aumentano la conoscenza enciclopedica per lo straniero lettore, la studiosa semplicemente entra nelle storie e questo è solo uno dei suoi elementi per illustrare la vita di fabbrica (Agar 1996: 7-8). Non c’è solo o soprattutto enciclopedia, ma un pendolarismo tra enciclopedia e narratività. Kondo, dice Agar, non ha fatto altro che spostare la bilancia, nel binomio ossimorico di «osservazione partecipante», dall’osservazione alla partecipazione: «le esperienze partecipative [la co-costruzione dell’esperienza, diceva Olivier de Sardan] si prestano ai formati della storia individuale, narrative di ciò che la gente ha detto e fatto» (ivi: 9). È questo spostamento alla partecipazione che favorisce l’emergere dell’etnografia narrativa. Questo spostamento alla perduzione paziente, nel gergo del presente volume, favorisce l’espressione narrativa poiché il ricercatore, inserendosi in tratti di vita altrui, tende a narrare la conseguente ricollocazione, a volte traumatica, del proprio «Sé». Da questo punto di vista, un precedente articolo di Kondo (1986) è esemplare. 3. Narrazioni sinte Un esempio simile lo possiamo trovare in Italia. Elisabeth Tauber va a vivere per più di tre anni, con una partecipazione totale, tra i Sinti estrajxarja dell’Alto Adige. Significativamente, il primo articolo che pubblica è una descrizione dell’importanza della narrazione dei fatti della vita tra donne sinte: Durante le nostre uscite la presenza di Napoli mi trasmette un’idea del suo compito che oltrepassa quello di procurare soldi. Accanto all’attività quotidiana – «g´au mangel, ti kerap je pisla love ti kina-mange xaven»

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(vado a mangel [mendicare-vendere] per fare un po’ di soldi con cui posso comperare da mangiare) – vi è il momento del parlare, del ricordo, della narrazione – «je molo g´um ti mangel…» (una volta, quando andavo a mangel…) – attraverso il quale le donne trasformano la loro vita quotidiana, il rapporto a strette maglie con i Gage [i non zingari], in storie da raccontare […] In fondo il parlare non ha la funzione di riassumere il fatto dei soldi e del lavoro. Parlare e raccontare pone l’occupazione quotidiana al centro dell’attenzione sociale (1999: 65).

Il titolo del suo saggio, Tenkreh tut kao molo ke g´am ti mangel?, appositamente non tradotto, rimanda direttamente all’importanza del momento narrativo: «Ti ricordi quella volta che siamo andate a mangel?». La narrazione assume un colore di genere, dice Tauber, dal momento che l’occasione della narrazione avviene soprattutto lontano dagli uomini o quando gli uomini non sono presenti: Inizia il racconto, in cui dapprima viene fatto rivivere il tempo passato; il ricordo di ieri si intreccia con un avvenimento di oggi. Il legame, l’aggancio tra le storie passate e quelle presenti rende un avvenimento continuo, nel suo interno immutabile, trasforma quasi il passato e il presente in un non-tempo, o meglio lo trasforma nell’oggi. Je molo, «un tempo, allora», kinau-tuke dren «ti racconto», tenkreh tut «ti ricordi», tenkrau misto «mi ricordo bene». «Ti racconterò una storia della quale ci ricordiamo bene». Il ricordo conferma la presenza del passato (ivi: 66).

Oltre allo spostamento dal polo dell’osservazione a quello della partecipazione, vi è, certo, anche una nuova sensibilità per le variazioni intra-culturali dovute agli enormi movimenti di persone in corso nel pianeta: «studiare oggi la cultura è come studiare la neve nel mezzo di una valanga», dice Agar (1996: 11) riprendendo un’espressione di D’Andrade. Aggiungiamo, con Kuper (1999), che il problema è di essere coscienti che questi movimenti di massa che producono multiculturalismi diffusi in Occidente sono gli effetti diretti del colonialismo e della decolonizzazione, più che fenomeni da contemplazione estetico-etnografica. Contemplare l’«ibridismo» culturale quale si presenta oggi, come mi pare di cogliere qualche volta, significa contemplare e giustificare i risultati, catastrofici in termini di sofferenze e sradicamenti violenti, del colonialismo. Perché questo è il postcolonialismo. Giustamente, osserva Barbara Tedlock, l’etnografia narrativa si impone anche perché il lettore è oggi sempre di più 175

un diretto interessato della descrizione, e non solo il collega con cui negoziare carriere universitarie. E i racconti sono molto più ricercati delle enciclopedie. Inoltre, continua Agar, l’aumento di etnografie «non-bianche non-maschili» (ivi: 17) continua ad attirare l’attenzione su campi che le etnografie «bianche maschili» non consideravano. Dal momento che ogni etnografia sfrutta la soggettività del ricercatore, come diceva Devereux, considerata come una ricchezza e non come un intralcio, allora diventa chiaro che «l’aumento della diversità fra gli etnografi è uno dei cambiamenti più stimolanti del recente periodo» (ivi: 18). L’etnocentrismo critico di De Martino non scompare, ma certo si trasforma deoccidentalizzandosi, «generizzandosi» e narrativizzandosi. 4. Sineddochi allegoriche: illuminazioni elvetico-tunisine Narrativa o enciclopedica o entrambe le cose, frutto dell’«etnografo solitario» o della co-costruzione dialogica con gli interlocutori, l’etnografia deve assolvere a un compito: far comprendere i significati di qualcuno a qualcun’altro. E ha ragione Clifford (1997b): il più delle volte vi è un significato nascosto e le etnografie sono allegoriche1. C’è spesso una morale della favola che l’etnografo vuol comunicare, anche a se stesso. Non vedo nulla di rivoluzionario in questa constatazione. A mia conoscenza, è stato Enzo Melandri il primo a dire, più di trent’anni fa, che le scienze umane e storiche sono di natura allegorica. Trattando delle «teorie sintomatologiche»2, ossia basate su «metafore involontarie, considerate sintomi di una realtà semantica più riposta», egli scrive: Psicologia e sociologia sono le teorie sintomatologiche che prima vengono in mente, volendo intraprendere un’operazione del genere. Non so1 Di recente Setrag Manoukian (2001), in seguito alla sua ricerca etnografica a Shiraz, in Iran, ha attirato l’attenzione sull’importanza della dissimulazione nelle costruzioni storico-culturali. Molti resoconti etnografici, oltre che l’allegoria, usano sistematicamente la dissimulazione. 2 Melandri considera le relazioni instaurabili tra un segno e un designato come un continuum di gradazioni entro due poli estremi: il sintomo, «in cui il segno è causalmente connesso con il suo designato» e il simbolo, «in cui ciò non avviene affatto» (1968: 73). Gli altri tipi di segni repertoriati dai semiologi (indici, icone ecc.) sarebbero casi intermedi di questo continuum.

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no però le uniche: si può pensare all’etnologia, allo strutturalismo, all’utopia, & c.; e, non per ultimo, alla storia. Forse che il «romanzo storico» non è in chiave di allegoria morale? E che altro è l’allegoria se non un tropo sintomatologico? (Melandri 1968: 711).

Allegorico o quasi, che tipo di significato situato-distribuito-trasformato può cogliere la perduzione? Dobbiamo affrontare il problema della parzialità di cui parla Clifford (1997a), è indubbio, e in particolare il problema della «sineddoche etnografica», chiamiamola così dopo tante altre espressioni simili che sono state proposte. Parlare della sineddoche significa parlare di quell’ossessione del pensiero occidentale che va sotto il nome di relazione parte/tutto. Non oso ficcarmici dentro, ma mi limito a sfiorare la superficie con la punta del dito per vedere quali tenui onde si producono. Ultimamente in antropologia la problematica del rapporto parte/tutto va sotto il nome di rapporto locale/globale. Mondher Kilani, un antropologo tunisino che insegna a Losanna, fa di questo rapporto la definizione stessa di antropologia, che sarebbe «l’articolazione del locale col globale»: si può definire l’antropologia come la disciplina che pensa il rapporto fra particolare e generale, che tenta cioè di analizzare la logica e la trasformazione dei rapporti sociali propri alle unità locali, cercando nel contempo di spiegare la logica complessa del mondo che le circonda (1994: 38).

Nella logica fuzzy, l’unica che possa essere usufruibile per molte delle conclusioni a cui arriva l’antropologia (cfr. Piasere 1998), lo stesso concetto viene spiegato attraverso quello di sottoinsiemità, in base al quale la parte contiene parzialmente l’intero (Kosko 1995: 81). Ma come può il locale «spiegare» il mondo circostante? Per Kilani ciò avviene estrapolando il «globale a partire dal locale» (1994: 37). Dal momento che le unità sociali scelte dall’etnografo – per quanto possano essere a «localizzazioni mutevoli» – sono di solito ristrette in modo che il ricercatore possa osservare e partecipare direttamente alle relazioni sociali, la scelta di queste unità non dovrebbe essere casuale, ma deve permettere di «illuminare la totalità» (ibidem). Kilani usa qui la metafora della luce, ampiamente usata in Occidente (basti pensare ai lumi dell’Illuminismo, alle idee «chiare e distinte» dei filosofi ecc.), e non solo, per esprimere il concetto di comprensione. È una metafora 177

che ritrovo costantemente e in tutti gli autori, per i quali la comprensione e la conoscenza sono un’illuminazione, il buio è l’ignoranza. Guidorizzi (1991) attira la mia attenzione sulla metafora collegata IL PENSIERO E` UNO SPECCHIO, come è evidente da termini come «riflettere», «riflessivo», «speculare» e «speculativo» (da speculum), e simili. Anche «considerare», da cum + sidera, rimanda all’osservazione delle stelle con uno specchio. La luce, diretta o di riflesso, fa cogliere le idee, come la lampadina dei fumetti. Per Kilani, mi pare di capire, l’illuminazione della totalità può avvenire in due modi, diciamo o alla Foucault o alla Mauss. Seguendo il primo modo, il ricercatore seleziona quei gruppi sociali «che, per uno o più caratteri, si distinguono dalla società globale (dall’insieme regionale, nazionale o internazionale) e traggono da questa posizione una certa autonomia e originalità». Essi «possono illuminare, per contrasto, il modo di vita maggioritario», dal momento che i gruppi sono sempre «diversi» rispetto a «una struttura dominante che li ingloba e con la quale intrattengono certi rapporti di separazione o di opposizione» (1994: 37, 32). Studiando i dominati si illuminano i dominanti e i loro reciproci rapporti. Circa il secondo modo, che è quello di cui più parla Kilani, si ha a che fare con un altro tipo di rapporto parte/tutto. L’etnografo, in un gruppo sociale, deve cercare dei «rivelatori», cioè «luoghi privilegiati per illuminare la globalità sociale» (ivi: 55), allora intesa o come la globalità del gruppo e/o come la globalità delle relazioni che intrattiene il gruppo. Questi rivelatori, come ad esempio il famoso kula dei Trobriandesi o l’agricoltura parziale di montagna che egli scopre nel Vallese svizzero, non sarebbero altro che i famosi fatti sociali totali di Mauss. Quello di fatto sociale totale è forse il concetto più amato-odiato di tutta la storia dell’antropologia. Il nipote uterino di Durkheim, Mauss appunto, diceva: In questi fenomeni sociali «totali», come noi proponiamo di chiamarli, trovano espressione a un tempo e di colpo, ogni specie di istituzioni: religiose, giuridiche e morali – queste ultime politiche e familiari nello stesso tempo – nonché economiche, con le forme particolari della produzione e del consumo, o piuttosto della prestazione e della distribuzione che esse presuppongono; senza contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni morfologici che queste istituzioni rivelano (1965: 157).

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Come chiosa Jean Copans (1974: 40), queste configurazioni si «incarnano» nelle persone concrete e fanno parte della vita: Solo considerando il tutto nel suo insieme, ci è stato possibile cogliere l’essenziale, il movimento del tutto, l’aspetto vivente, l’istante fugace in cui la società, gli uomini acquistano coscienza di se stessi e della loro situazione rispetto agli altri (Mauss 1965: 288).

Questi fatti sociali totali sono chiamati da Copans fenomeni che sono «contemporaneamente espressione e sintesi dell’insieme della vita sociale di una data società» (1974: 40), il che implica che non esprimono per forza la coerenza dei suoi elementi, ma, quasi sempre, il conflitto e la disomogeneità. 5. Punti ricchi e strisce di esperienza Secondo Kilani, è prendendo in considerazione tanti aspetti della vita sociale che si incontrano i «rivelatori», ma non va oltre con la spiegazione. Si potrebbe pensare che una soluzione sia quella di fornire la geertziana «descrizione densa» per poi avere l’«illuminazione», quasi alla John Belushi? Ma incappiamo nel paradosso di Eubulide: quanto deve essere densa una descrizione per essere sufficientemente «densa»? E fino a che punto si deve intensificare la «densità»? Borges e Bioy Casares (1999) illuminano con geniale ironia l’inanità di un descrizionismo estremista nella figura di Ramón Bonavena, quel fantastico scrittore che lascia un’opera in sei volumi, incompiuta, che è una descrizione dell’angolo nord-nordovest della sua scrivania… Un tentativo di spiegazione cerca di darlo Michael Agar. Sappiamo già che l’osservazione partecipante permette la serendipità, permette di trovare cose senza cercarle. Oltre a questo, essa permette anche di imbattersi in sorprese, cioè in cose o eventi che proprio non ci si aspettava. Ad esempio, un etnografo selenico abituato a vedere i colpevoli di violenza verso le persone giudicati da un tribunale può avere la sorpresa, la prima volta che assiste a una partita di calcio sulla terra, di vedere un giocatore che spacca una caviglia a un avversario e continua tranquillamente a correre per il campo impunito. Casi del genere gli etnografi ne incontrano a iosa: quando ci si aspetta un evento, ecco, ne succede un altro inatteso. Ovviamente, inatteso 179

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Figura 1. Il processo di conoscenza etnografica secondo Agar (1996: 34).

per l’etnografo. Questi momenti inaspettati, dice Agar, sono cose che l’etnografo non capisce. Sono quelli che chiama punti ricchi: «quando capita un punto ricco, un etnografo impara che le sue assunzioni su come va il mondo, di solito implicite e inconsapevoli, sono inadeguate a capire ciò che è successo». Questo significa che l’etnografo è incompetente, non che «loro» sono irrazionali, ovviamente (1996: 31). A questo punto Agar ricorre alla teoria degli schemi: l’incontro (la scoperta di un significato da negoziare, se si vuole) con un punto ricco serve a ricostruire lo schema cognitivo (Agar preferisce il termine frame) dell’etnografo. Ora, il reperimento di punti ricchi e la ricostruzione o conferma degli schemi di partenza avviene attraverso la micro-esperienza dell’osservazione partecipante, ossia attraverso la co-costruzione di quelle che l’antropologo americano chiama goffmanianamente strips of experience, «strisce di esperienza» (ivi: 33). La comprensione etnografica è presentata come un processo di continua modificazione degli schemi dell’etnografo attraverso il reperimento di punti ricchi in strisce di esperienza, come schematizzato dalla figura 1. In questo modo, una visione olistica è ottenuta attraverso un assemblaggio di frammenti di cultura (ibidem) e per via abduttiva. Gli schemi, lo sappiamo bene, permettendo aspettative fuzzy più che predizioni precise, favoriscono la costruzione dell’immaginazione: «l’abduzione riguarda la costruzione immaginativa di un p che implica un osservato q, o, nei nostri termini, riguarda la modifica o lo sviluppo di schemi (frames) che spiegano i punti ricchi» (ivi: 35). Questo significa che è sempre possibile più di un’etnografia a partire dalle stesse

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strisce esperienziali, ma non tutte le etnografie sono accettabili (ivi: 37). Se un x mangia i gatti neri, lo si può comprendere in diversi modi a seconda delle strisce contestuali e degli schemi interpretativi in opera; ma se nessun x lo fa e nessuno ha mai avuto la più lontana idea di farlo, e io cerco di spiegare perché x mangia il gatto nero, allora è un falso – una finzione, si diceva in altri tempi. 6. Le barricate misteriose dei bardi fang La proposta di Agar va nella direzione di quanto finora esposto, ma, nonostante la complessità che introduce, risulta ancora molto legata ai modelli delle stringhe lineari di «se-allora». L’illuminazione della totalità a partire dai «frammenti» resta unisequenziale. Credo che l’illuminazione kilaniana sia un processo più complesso non perché più ramificato nelle sue parcellizzazioni, ma perché più immediato e «sintetico». Mary Catherine Bateson scrive che il padre Gregory aveva compreso che «questo concentrarsi sui diversi settori dei circuiti non era che un aspetto di una ben più generale strategia cognitiva della cultura occidentale, nella quale, per tentare di venire a capo della complessità, i fenomeni complessi vengono separati o frammentati» (1985: 185). Ma l’etnografo conosce proprio così, o solo così? Spiego quello che voglio dire con un esempio che riguarda la percezione musicale. Pascal Boyer (1988) studia i racconti dei Fang, in Camerun. I racconti, mvët, sono eseguiti da bardi locali che si spostano di villaggio in villaggio e che accompagnano la recita-canto col suono di una sorta di arpa, pure chiamata mvët. Vi sono diversi tipi di mvët, di solito storie infinite, ma i più pregiati sono i racconti epici. La conoscenza dei mvët è stratificata, nel senso che prevede una specie di struttura a cipolla, con strati sempre più esoterici ad alta manipolazione simbolica mano a mano che ci si allontana dalla superficie. Fra gli uditori, quindi, vi è una competenza diversa nell’ascolto, ma a tutti sfugge sempre qualcosa. I bardi stessi dicono di essere dei mentitori per confondere le acque e restare gli unici e veri depositari della conoscenza totale del mvët, quelli che vedono le «somiglianze nascoste delle cose». Per arrivare a tale conoscenza bisogna «aver mangiato il mvët», ossia aver partecipato all’iniziazione specifica dei cantori epici (ivi: 27). L’iniziazione è individuale, da maestro ad allievo, e passare l’iniziazione significa acquisire il byang 181

del mvët. Il byang è un concetto molto astratto «che si riferisce più o meno ad ogni ausiliario o aiutante che permette di riuscire in una qualsiasi operazione» (ivi: 85). Una terra deve avere il byang per essere fertilizzata, così come un camion o una penna per funzionare ecc. A questo punto diventa fondamentale la musica: i bardi dicono che la musica del mvët ha una melodia nascosta, una «voce nascosta», che solo essi riescono a far emergere. Mangiare il mvët, acquisire il byang del mvët, significa riuscire a far venir fuori questa melodia. Pascal Boyer dimostra che questi bardi mentitori qui non mentono. Analizzando le formule musicali, gli ornamenti ecc., scopre che la «voce nascosta» è solo un effetto percettivo della poliritmia: essa è creata «in modo abbastanza semplice attraverso la combinazione dei ritmi diversi conferiti alle due mani, questi due ritmi creano quello che Kubik chiama un ‘ritmo risultante’». Essa «sembra ridursi ad un effetto musicale realizzato al di fuori di ciò che esegue volontariamente il suonatore; è per questo, senza dubbio, che è percepita come la manifestazione di una forza che canta nel mvët ma che non emana dal bardo stesso». Ed è per questo che è diventata il punto d’origine di una mitologia (ivi: 121, 122). Questo stesso effetto, dice l’autore, è all’origine del fascino esercitato da opere europee famose, come ad esempio quella di Couperin, Barricate misteriose, in cui «la fusione totale delle percezioni armoniche e melodiche (per mezzo dello stile ‘liutato’) permette alla pseudo-melodia risultante di svilupparsi misteriosamente al di fuori dei limiti della musica effettiva» (ivi: 125). Da che cosa dipende questa abilità? L’antropologo francese studia il modo di iniziazione dei bardi, che avviene attraverso l’acquisizione progressiva degli elementi poliritmici fondamentali delle formule. Al principio l’iniziando «cerca di combinare questi elementi, con la sinistra e con la destra, che gli vengono mostrati isolatamente», ma fallisce sempre (ivi: 126). L’apprendimento avanza quindi per acquisizioni fulminee ma parziali e stagnazioni – il che è considerato parte della magia del mvët. A forza di ripetizioni, «un giorno, bruscamente, senza veramente capire che cosa sia cambiato, sotto le dita dell’allievo – lui stesso stupefatto – la melodia si dispone perfettamente» (ibidem): il mvët lo ha «acchiappato», la voce nascosta appare. Dopo questa specie di siderazione-luce, dice Boyer, il processo diventa irreversibile. Ora, la «magia» fang è trasformabile nella conoscenza occidenta182

le in quella che viene chiamata dagli psicologi chunked perception, quel fenomeno psico-motorio «che associa diverse sequenze motrici sotto una sola entrata in memoria. Ecco perché, una volta fatto il ‘salto’ resta accessibile solo la formula intera, mentre i suoi elementi apparentemente non vengono memorizzati» (ibidem). Le operazioni e le analisi per chunks sembrano caratterizzare quello che di solito va sotto il nome di expertise, ma anche la cosiddetta creatività. Rispetto ai novizi, gli «esperti» si caratterizzano per avere una maggiore visione d’insieme, come si dice, ossia per operare attraverso chunks. Ciò permette loro di essere più recettivi all’apprendimento incidentale e di essere più capaci nell’esplorazione in profondità (Benjafield 1995: 358-360). I maestri sottolineano spesso questo meccanismo quando insegnano a leggere ai bambini, specie quando lo fanno col metodo sillabico: prima il bambino impara le sillabe senza riuscire a connetterle insieme, e poi, un giorno, all’improvviso «parte»… 7. L’aiutante magico della sineddoche etnografica Sono fra coloro che non hanno mai sopportato la metafora della ricerca sul campo come nuova socializzazione: l’etnografo non è un bambino che impara il mondo, perché un suo mondo ce l’ha già e ben radicato dentro. Però è evidente che qualcosa «impara». Tante volte, miei studenti che stanno svolgendo ricerche sul campo mi confidano di avere l’impressione che sapevano molto di più «prima» di cominciare la ricerca (per i libri preparatori letti) che dopo i primi mesi di osservazione partecipante. Dopo diversi altri mesi, gli stessi si mostrano più tranquilli, oserei dire più «esperti». È famoso il detto secondo cui il buon giornalista che arriva in un posto, se ci resta un giorno scrive un articolo, se ci resta una settimana scrive un libro, se ci resta un mese non scrive più nulla. Ci sono anche altri ricercatori che fanno ricerche con taglio etnografico, penso in particolare ai sociologi «etnometodologi» o a certi pedagogisti, ma normalmente la loro permanenza sul campo è sempre molto ridotta rispetto a quella dell’etnografo-antropologo. Perché costui sente il dovere di allungare così la sua interazione e perché, quando gli altri hanno già scritto tre libri, lui è lì che ci capisce meno di prima? Perché il suo lavoro è basato sull’indugio, per poter ottemperare al – diciamo così – «principio di credulità» di Borges: recensendo uno dei libri-zi183

baldone di Frazer, Borges scrive che quell’opera resterà nei secoli immortale «non tanto come lontana testimonianza della crudeltà dei primitivi, ma come documento diretto della credulità degli antropologi allorché si parla loro di primitivi»3 (1998c: 40). Borges, con tutta la sua ironia, coglie ancora nel segno: più che sospendere il proprio giudizio, come spesso si dice, l’etnografo segue la regola di Coleridge di cui parla Umberto Eco (1994: 91): sospende la propria incredulità o, se si vuole, si sforza di credere come i propri interlocutori. È lì per questo ed è per questo che scopre i punti ricchi di Agar – altrimenti non sarebbero tali. Per farlo gli ci vuole tempo, poiché per mezzo della perduzione deve non tanto cercare di capire attraverso lo stabilimento di analogie tra quanto scopre e quanto conosce già, ma, come sottolinea Marilyn Strathern (1991: 72), deve cercare di apprendere le analogie dei propri interlocutori. Solo indugiando, e molto, ci si impregna empatizzando analogie altrui. Mauss scopre i fatti sociali totali: ma esiste un fatto sociale che non sia «totale», che non racchiuda la storia universale, come dice Borges? Non era Marc Bloch che diceva che si può fare la storia dell’Occidente a partire dalla storia del bottone? Non è che, prima, la cultura occidentale si è autosezionata in religione, politica, economia, estetica ecc., e poi, con Mauss, scopre, negli altri d’altra parte, la sua interezza, la sua «totalità»? Oppure è vero il contrario, cioè che i fatti non sono mai «totali» e che solo un’interpretazione, interna o esterna non importa, li rende tali? Credo che entrambe le posizioni siano plausibili, poiché entrambe sono parziali. Benché gli umani tendano a narrare realtà e fantasia allo stesso modo (a prescindere dall’ambiguità dei loro confini), la realtà non è un testo narrativo e lo dimostra bene Umberto Eco (1994). Prendiamo due testi famosi, I tre moschettieri di Dumas e l’Ulisse di Joyce. (E invito chi non li abbia letti a interrompere qui e andare a leggerseli; io lo aspetto… fatto? In quanti giorni è riuscito a leggere l’Ulisse? Tutto, fino in fondo?). È indubbio, dice il semiologo, che la realtà è molto più simile a come è scritto l’Ulisse che a come è scrit3 A proposito di illuminazioni: commentando Testi prigionieri, che è una raccolta di recensioni, note e brevi biografie, Tommaso Scarano scrive: «le ‘biografie sintetiche’ di Borges riescono a liquidare in poche righe le vite che (non) raccontano, e che tuttavia illuminano, totalmente, attraverso un dettaglio, minimo ma imprescindibile» (1998: 350).

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to I tre moschettieri. La realtà segue un flusso frammentato di microinterazioni, di pensieri, di ricordi che ti riportano costantemente indietro, di aspettative che ti lanciano costantemente in avanti, di sogni e immaginazioni, di incubi e di estasi, di empatie frammentate e condivisioni intense o sfuggenti. La realtà non segue una trama a cui tutti i personaggi ordinatamente concorrono. Eppure, rispetto all’opera di Dumas, quanto è duro leggere l’Ulisse, quanto è duro arrivare fino in fondo, se mai ci si arriva! Borges, che usa la stessa metafora che userà Eco, IL TESTO NARRATIVO E` UN BOSCO, scriveva recensendo l’Ulisse: Confesso di non aver disboscato le settecento pagine che lo compongono, confesso di averlo praticato soltanto a frammenti e tuttavia so che cos’è, con quell’avventurosa e legittima certezza che c’è in noi quando affermiamo la nostra conoscenza della città, senza per questo attribuirci intimità con tutte le sue strade (2001: 23).

Mi servo in modo analogico del duo Borges-Eco: l’etnografo, curvando, sperimentando la propria esperienza, riesce a cogliere frammenti, frammenti di cognizioni, frammenti di emozioni, frammenti di pratiche che cerca di interpretare con tutti gli strumenti emotivi e cognitivi che ha a disposizione (non solo, come dice Agar, l’abduzione). È vero che il più delle volte è attratto dai punti ricchi, attorno a cui focalizza la propria attenzione nel tentativo di giungere a una loro comprensione. Ma la comprensione dei punti ricchi avviene attraverso l’apprendimento delle analogie locali, che autocostruiscono l’orizzonte locale, e attraverso la messa in relazione analogica delle analogie locali con altre analogie locali (la famosa «comparazione»4), messe a disposizione dal sapere antropologico e acquisite dall’etnografo tramite il suo apprendistato accademico, le sue letture e il suo aggiornamento. È qui che si dovrebbe vedere la creatività dell’antropologo: addestrato a pensare per famiglie di concetti, a «cavalcare» la metafora del contenitore, a empatizzare con le situazioni di vita altrui, a «credere» ad analogie che gli sono estranee, egli propone associazioni intra- e interculturali remote non notate prima, che «illuminano» in modo nuovo fatti noti. Queste associazioni remote sono «inven4 Rimando a Piasere (in stampa) per un approccio alla comparazione da questo punto di vista.

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zioni» o «scoperte»? Chi segue un approccio rigidamente interpretativo tenderà a dire che sono invenzioni, chi segue un approccio rigidamente cognitivista tenderà a dire che sono piuttosto scoperte. Dal momento che i confini tra i due concetti sono alquanto sfumati, è difficile dare una risposta definitiva. Poniamoci comunque questa domanda: quando Clifford (1993), da «meta-antropologo», da etnografo degli antropologi, propone l’illuminante associazione (prima remota) tra lo sviluppo dell’antropologia in Francia e lo sviluppo del surrealismo, fa una scoperta o un’invenzione? Tenderei a dire che i fatti sociali totali, questi ammassi analogici incarnati negli individui che li praticano, hanno conosciuto nella letteratura etnografica un processo di essenzializzazione grazie a un aiutante magico insospettato: il processo di narrativizzazione. Nel momento in cui l’etnografo cerca di comunicare ad altri il groviglio di analogie che scopre e lo fa attraverso l’ordinante pensiero narrativo, analogie incarnate, ma quotidianamente fluide e creatrici, diventano un «piccolo-tutto»: la sineddoche illuminante che contiene la totalità: è il pensiero narrativo che implica intrinsecamente che il tutto faccia parte della parte. Sta certo al talento degli etnografi far sì che i lettori empatizzino con le loro empatie, sognino con i loro sogni, degustino analogie remote o familiari. Ma questo è un discorso per un altro libro. Sta di fatto che le monografie etnografiche, tanto bersagliate da alcuni e pur con le loro mille parzialità illuminanti, a volte senz’altro accecanti quando le analogie sono mal utilizzate, restano esplosioni narrative di mondi vissuti. E il mondo, questo sogno condiviso, «disgraziatamente, è reale» (Borges 2000: 198).

Epilogo

L’etnografo di Jorge Luis Borges

«Che fa l’etnografo? Scrive», diceva Geertz. Ma non il giovane Fred Murdock, che ricorda per omonimia il reale George Murdock che fu. Eppure Borges lo chiama ben «etnografo». Il racconto è lì ad immortalare l’eccezione: l’etnografo che decide di non scrivere, che non scrive. Eppure l’etnografo borgesiano non è l’anti-etnografo e nemmeno l’etnografo mancato, è semmai l’etnografo perfetto. L’etnografo che si è talmente impregnato di cultura altrui da non aver nessuna interpretazione da proporne, da aver annullato il gap di Schleiermacher e aver raggiunto una coincidenza assoluta: più si impregnava dei suoi «indiani», meno aveva da dirne. L’etnografo che scrive è l’etnografo incompleto, che per colmare le sue lacune (allora interpretate come conoscenze) ha bisogno di fare interpretazioni e di proporle ai suoi lettori e, se mira in alto, ha bisogno di cercare la gloria, che è «una forma d’incomprensione, forse la peggiore», diceva Borges (1995: 45). Costui, che riconosceva di aver trascorso la vita leggendo più che vivendo, levò alti i famosi versi: Gli altri si vantino per le pagine che hanno scritte; io vado orgoglioso per quelle che ho lette (ibidem).

Il suo etnografo, che aveva percorso le vie da percorrere, non ebbe bisogno nemmeno di vantarsi d’averle percorse. Come Borges, che dichiara che «aver saputo e scordato il latino / è possederlo» (ibidem), come i Ma¯nusˇ di Williams (1997: 30), presso i quali coloro che, per rispettare i morti, si astengono da certi gesti e da certi possessi, ma «tra tutti, sono proprio essi che possiedono queste cose nel modo più completo», elevando l’astinenza a «forma suprema di possesso», così l’etnografo borgesiano, fra tutti gli etnografi, è colui che 187

più di tutti ha interiorizzato il senso degli altri, più di tutti ha raggiunto una coincidenza assoluta con i suoi ospiti: non ha niente da dirne: «Dire il blocco: solo il silenzio lo può» (ivi: 74). La perduzione totale nel processo etnografico diventa una perdizione totale circa il prodotto etnografico, che si risolve in autismo. Solo colui al quale fa difetto la perfezione dell’esperimento di esperienza vissuta la intacca mettendosi a narrarlo. Ma l’autore del presente libro, tutto chiazzato di citazioni borgesiane, immagina che l’etnografo di Borges, lui, sia una «rigorosa invenzione di fatti immaginari». È un prototipo che la reale incompletezza etnografica stenterà sempre a imitare. Ma è la tensione esistente tra perfezione e autismo che ci indica le vie da percorrere per vivere e narrare le culture. Che cosa fa l’etnografo? Quando non ha capito interamente la vita che ha vissuto, scrive!

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Indici

Indice dei nomi

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Boulding, K.E., 138. Bouquet, M., 99. Bourdieu, P., 81, 83-84, 86, 89, 161. Boyer, P., 67, 70, 181-182. Braisby, N., 59, 62. Breda, N., 103-104. Branchi, S., 117n. Bruner, J., 109, 167-172. Burke, K., 171. Burkhardt, J., 93-94. Burstein, M., 60.

Bacone, F., 5. Barth, F., 135. Bartlett, F.C., 69, 70n, 81, 171-172. Bateson, G., 30-31, 62, 74, 126, 130, 147, 181. Bateson, M.C., 181. Belo, J., 147. Benedict, R., 24. Benigni, R., 104. Benjafield, J.H., 70, 183. Bensa, A., 52. Bernardi, B., 94. Bioy Casares, A., 66, 179. Bloch, Marc, 184. Bloch, Maurice, 148. Boas, F., 6-7, 70n, 97. Bohr, N., 36. Bonfantini, M., 56. Bonino, S., 149-155. Borges, J.L., 17, 42, 66-68, 88, 95, 110-111, 119, 167, 179, 183, 184 e n, 185-188.

Caccini, S., 44. Callaway, H., 160. Canclini, N.G., 96. Cappelletto, F., 163. Cardona, G.R., 115. Carnap, R., 25, 60. Casonato, M., 61n, 62, 73, 83n. Cavalli-Sforza, L.L., 98. Cervi, M., 61n, 62. Changeux, J.-P., 126, 149. Cicerone, 92. Clemente, P., 170. Clifford, J., 15-18, 24, 28, 33-35, 43, 84-86, 89, 109-110, 126, 143, 145, 149, 157, 160-161, 176-177, 186. Colby, B.N., 170. Coleridge, S.T., 184. Collins, A., 60. Colocci, A., 44. Colombo, A., 34. Colombo, C., 23. Conrad, J., 45.

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Copans, J., 179. Corcella, A., 113. Coulson, R.L., 77. Couperin, F., 182. Cresswell, P., 7. D’Andrade, R.G., 12-14, 33, 70-72, 80-81, 83-85, 107, 175. Davidoff, J., 59, 62. Davidson, D., 148, 157. Davidson, N.S., 95. De Certeau, M., 15. De Fontanay, J., 22. De Martino, E., 130-131, 134, 176. Derrida, J., 15. Destro, A., 159. Devereux, G., 10, 34, 35 e n, 36-39, 41, 44, 54, 85, 155, 157-158, 160, 176. Diderot, D., 92. Dilthey, W., 126-127. Dingler, H., 5. Dixon, R.M.W., 68-69. Drummond, L., 80. Duhem, P., 5. Dumas, A., 184-185. Duranti, A., 170. Durkheim, E., 9, 137, 178. Dwyer, K., 42. Eco, U., 62, 69, 144, 184-185. Einstein, A., 36, 45. Eisenberg, N., 150. Elias, N., 92. Elwin, V., 54. Eretescu, C., 121. Éribon, D., 8. Erodoto, 88, 113. Eubulide di Mileto, 58-59, 61, 63, 74, 81, 108, 117, 150n. Evans-Pritchard, E.E., 110. Fabietti, U., 10, 17, 29, 42-43. Febvre, L., 92. Feldman, M., 98.

Feltovitch, P.J., 77. Fischer, M.M.J., 15, 19-21, 33. Fortune, R., 39n. Foucault, M., 66-68, 178. Frazer, J.G., 183. Freeman, D., 126. Freud, S., 31, 36. Friedrich, P., 111. Galilei, G., 5. Geertz, C., 14, 16, 43, 85, 95n, 108109, 124, 126-127, 136-138, 147 e n, 150 e n, 168, 173, 187. Gelman, S., 95. Geymonat, L., 3, 4n. Godbout, J.T., 142. Goffman, E., 143-144, 158. Goodenough, W.H., 124-125, 136. Goodman, N., 11, 25, 60, 64. Green, S., 98. Gri, G.P., 90. Grice, H.P., 172. Guidorizzi, G., 178. Guigo, D., 45-49. Halley, E.,. Hannerz, U., 18 e n, 20n, 34, 123, 125, 134-138, 140-141, 144, 149. Haraway, D., 106. Hartog, F., 113. Hastrup, K., 109, 110, 157, 160. Heisenberg, W., 5, 36. Hellman, G., 25. Helman, C., 98. Herder, J.G., 91-92. Herskovits, M.J., 7. Hobbes, T., 95. Hofstadter, D., 69, 74-77, 116, 123124, 127. Hua, C., 4. Hugues, E.C., 136. Hutchins, E., 138-139. Ibn Khaldun, 88, 131. Isidoro di Siviglia, 95.

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Mill, J.S., 9-10. Moravia, S., 43. Murdock, G., 9, 187. Nadel, S.F., 8-11, 14, 33. Nakao, K., 131, 133. Needham, R., 25, 26n, 64. Norman, D.A., 83. Novalis, 88. Okely, J., 34, 151, 160-161, 166, 173. Olivier de Sardan, J.-P., 55, 142, 156162, 164, 166, 174. Orazio, 92. Ori, B., 143. Ortony, A., 65. Pallotti, G., 123. Palmer, S., 79. Palumbo, B., 35n. Park, R., 50. Parsons, T., 108. Peirce, C.H., 32, 56. Piasere, L., 26n, 34, 44, 80n, 90, 100, 146, 156, 161, 177, 185n. Pierce, J.E., 80. Pocock, D., 41. Poincaré, J.-H., 5. Pratt, M.L., 20. Psalmanazar, G., 21-24. Pseudo-Dionigi, 64. Pynchon, T., 142. Quinn, N., 70, 80-81, 83-86, 106, 108, 111, 116-118, 126, 134, 135 e n, 136-137. Rabinow, P., 21. Reddy, M., 134, 137. Remotti, F., 17, 43, 57, 89-92, 107. Ricoeur, P., 115, 127, 170. Riuzo, T., 131. Rivers, W.H.R., 99. Roberson, D., 59, 62. Rogers, C., 150.

207

Rosaldo, M., 154. Rosaldo, R., 19, 154. Rosch, E., 64, 86. Sahlins, M., 79. Scarano, T., 184n. Schanuel, S.H., 112. Schleiermacher, F.D.E., 127, 187. Schlick, M., 8. Schneider, D., 26n, 80. Schwartz, O., 28. Scott, D., 143. Scott, J., 162. Severi, C., 35n. Shimizu, A., 131. Signorini, I., 103. Sperber, D., 25-26, 98-99, 106. Spiro, R.G., 77-79. Strathern, M., 96-97, 105-106, 184. Strauss, C., 70, 80-81, 83-86, 106, 108, 135 e n, 136-137. Strayer, J., 150. Tani, F., 149, 155. Tauber, E., 174-175. Tedlock, B., 175.

Tedlock, D., 19, 79, 173. Tentori, T., 94. Tentori Montalto, F., Vn. Titchener, E., 150. Todorov, T., 21-23. Tyler, S., 17-19, 49, 127. Tylor, E.B., 93, 95. Vaihinger, H., 17. Van Bremen, J., 131. Van Gennep, A., 157. Vatta, B., 100-102. Vespucci, A., 23-24. Vico, G.B., 18, 111-115, 125. Vosniadou, S., 65-66. Waismann, F., 3, 4 e n, 21, 25, 64, 69. Wikan, U., 97, 126, 146-149, 155157, 173. Williams, P., 52-53, 145, 161, 187. Williams, R., 93. Wittgenstein, L., 3, 25, 62, 64. Wolcott, H.F., 125. Zajonc, R.B., 151. Zola, E., 32.

208

Indice del volume

I.

Prologo. L’etnografo di Jorge Luis Borges

V

Degli esperimenti in antropologia

3

1. Famiglie di concetti, p. 3 - 2. Dell’esperimento, p. 4 - 3. Prestigiatori e laboratori, p. 6 - 4. Il quasi-esperimento di Nadel, p. 8 - 5. Gli esperimenti culturali di D’Andrade, p. 12 6. Lo sperimentalismo testuale e la questione della finzione, p. 14 - 7. Del talento. Da Formosa al Mondo nuovo, p. 21 8. Famiglie di esperimenti, p. 24

II. La curvatura dell’esperienza

28

1. Meditazioncina «machiana», p. 28 - 1.1. Né maiali, né palme, né madri, p. 30 - 1.2. L’esperimento mentale, p. 31 - 2. Un esperimento di esperienza, p. 33 - 3. Il lettino dell’etnografo, p. 35 - 4. La cesura dell’esperienza, p. 43 - 5. Attenzioni parigine, p. 45 - 6. Ai confini dell’etnografia: etnografie retrospettive, p. 49 - 6.1. «Sulla strada di Gila Monster», p. 49 - 6.2. «Allora la verità si rivela e l’universo si capovolge», p. 52 - 7. La perduzione: un’introduzione, p. 55

III. Mucchi indecisi, ponti degli asini, menti incarnate

58

1. Una grana universale: il paradosso del sorite, p. 58 - 2. Sorgente  bersaglio, p. 60 - 3. Il chicchissimo, p. 63 - 4. Il ponte degli asini, p. 65 - 5. Borges e Foucault fra i Dyirbal, p. 66 - 6. L’incarnazione dell’interpretazione, p. 69 - 6.1. Schemi, p. 69 - 6.2. Menti incarnate, p. 72 - 7. Scenari di «concetti nuvola», p. 74 - 8. L’analogia infelice, p. 77 - 9. Schemi culturali, p. 80 - 10. L’«habitus» smesso di Bourdieu, p. 81 - 11. L’«habitus» logoro di Clifford, p. 84

IV. La guerra delle metafore 1. Costumi e costumanze, p. 89 - 2. «Civilisation» e «Kultur», p. 91 - 3. Corpi & c., p. 95 - 4. Sperber è contagiato, p. 98 -

209

88

5. Piante & c., p. 99 - 6. Macchine e manufatti, p. 105 - 7. Buoi e testi, p. 107 - 8. La guerra sulle metafore, p. 111 - 8.1. Le metafore come basi della conoscenza: da Lakoff a… Vico, p. 111 - 8.2. Ancora su metafora e analogia, p. 115 - 8.3. Le metafore come chiarificatori culturali, p. 116 APPENDICE 1. Metafore divine islandesi, p. 119 - 2. Metafore popolari romene, p. 121

V. Connessioni e flussi: il modello distributivo

123

1. «Anche» Fatma, p. 123 - 2. La propriospettiva di Goodenough, p. 124 - 3. Meditazioncina «diltheyana» (via Melandri), p. 125 - 4. Il continuo e il discreto nelle esperienze, p. 128 - 5. Meditazioncina «demartiniana», p. 130 - 6. Cassette di mele e canali di significati, p. 134

VI. La perduzione

142

1. Negoziazione o «keneh»?, p. 143 - 1.1. Negoziazione nordamericana, p. 143 - 1.2. «Keneh» balino-norvegese, p. 146 2. Dell’empatia, p. 149 - 3. Misrisonanze, p. 155 - 4. Serendipità, p. 156 - 5. L’etnografo-spugna, p. 158 - 6. L’«incliccaggio» interazionale, p. 162 - 7. Ritorno alla perduzione, p. 164

VII. Narrazioni e illuminazioni

167

1. Bruner «gnarus narrat», p. 167 - 2. Fabbriche giapponesi tra etnografia enciclopedica ed etnografia narrativa, p. 172 3. Narrazioni sinte, p. 174 - 4. Sineddochi allegoriche: illuminazioni elvetico-tunisine, p. 176 - 5. Punti ricchi e strisce di esperienza, p. 179 - 6. Le barricate misteriose dei bardi fang, p. 181 - 7. L’aiutante magico della sineddoche etnografica, p. 183

Epilogo. L’etnografo di Jorge Luis Borges

187

Bibliografia

189

Indice dei nomi

205

210

Annotazioni

Annotazioni

Percorsi Laterza

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22.

Finzi, R., Civiltà mezzadrile. La piccola coltura in Emilia Romagna De Felice, F., La questione della nazione repubblicana De Rosa, L., Conflitti e squilibri nel Mezzogiorno tra Cinque e Ottocento Silvestre, M.L. - Valerio, A. (a cura di), Donne in viaggio. Viaggio religioso politico metaforico Preta, L. (a cura di), Nuove geometrie della mente. Psicoanalisi e bioetica Donghi, P. (a cura di), Limiti e frontiere della scienza Allovio, S., La foresta di alleanze. Popoli e riti in Africa equatoriale Destro, A. - Pesce, M., Come nasce una religione. Antropologia ed esegesi del Vangelo di Giovanni Università degli Studi di Bari - Facoltà di Lettere, Cinquant’anni di ricerca e didattica. Atti del convegno 25-27 febbraio 1998 Forni Rosa, G., Il dibattito sul modernismo religioso Macioti, M.I., Pellegrinaggi e giubilei. I luoghi del culto Careri M. - Cattaneo, R. (a cura di), Cambiare la Pubblica Amministrazione. L’esperienza della Regione Lombardia Viazzo, P.P., Introduzione all’antropologia storica Kowohl De Rosa, C.S., Storia della cultura tedesca fra «ancien régime» e Restaurazione. Cronache e personaggi Negrotti, M., Artificiale. La riproduzione della natura e le sue leggi Amendola, G. (a cura di), Scenari della città nel futuro prossimo venturo Losano, M.G., Un giurista tropicale. Tobias Barreto fra Brasile reale e Germania ideale Donghi, P. (a cura di), Aree di contagio Amoruso, V., La letteratura americana moderna. 1861-1915 Simili, R. - Paoloni, G., Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, vol. I Simili, R. - Paoloni, G., Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, vol. II Piromallo Gambardella, A., Le sfide della comunicazione

23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55.

Fabris, A., Il tempo dell’uomo e il tempo di Dio. Filosofie del tempo in una prospettiva interdisciplinare Bartolini, F., Roma borghese. La casa e i ceti medi tra le due guerre Losano, M.G., Cinque anni di legge sulla privacy. Un bilancio dei primi cinque anni Artioli, U., Pirandello allegorico. I fantasmi dell’immaginario cristiano Fanizza, L., Senato e società politica tra Augusto e Traiano Villari, R. (a cura di), Controllo degli stretti e insediamenti militari nel Mediterraneo Folin, M., Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico Stato italiano (versione on line) Bravo, A. - Pelaja, M. - Pescarolo, A. - Scaraffia, L., Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea Sportelli, A., Generi letterari. Ibridismo e contaminazione Ferrari, S., Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia Battimelli, G. - De Maria, M. - Paoloni, G., L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Storia di una comunità di ricerca Narducci, E., Lucano. Un’epica contro l’impero (non uscito) Fedele, M., Il management delle politiche pubbliche Piasere, L., L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia Bentivegna, S., Politica e nuove tecnologie della comunicazione Lotti, L. - Villari, R. (a cura di), Universalismo e nazionalità nell'esperienza del giacobinismo italiano Bocchini Camaiani, B., Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità Donghi, P. (a cura di), La nuova Odissea Lotti, L. - Villari, R. (a cura di), Filippo II e il Mediterraneo Biscardi, L. - De Francesco, A. (a cura di), Vincenzo Cuoco nella cultura di due secoli Chiarini, R. (a cura di), Quale Europa dopo l’euro Pazé, V., Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea Maniscalco, M.L., Sociologia del denaro Favole, A., Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte Lo Piparo, F., Aristotele e il linguaggio Cappelli, O. (a cura di), Mezzo mondo in rete Di Giovanni, P., Filosofia e psicologia nel positivismo italiano Pecchinenda, G., Videogiochi e cultura della simulazione Sebesta, L., Alleati competitivi. Origini e sviluppo della cooperazione spaziale fra Europa e Stati Uniti Ruffini, F., Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé Donghi, P. (a cura di), Il governo della scienza Petrilli, R. - Piemontese, M.E. - Vedovelli, M. (a cura di), Tullio De Mauro. Una storia linguistica

56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85.

Cavalluzzi, R. (a cura di), L’anima e le cose. Naturalismo e antinaturalismo tra Otto e Novecento Bazzicalupo, L. - Esposito, R. (a cura di), Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti Baccelli, L., Critica del repubblicanesimo Battimelli, G. - Patera, V. (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. La ricerca italiana in fisica subatomica De Bartolomeis, F., Riflessioni intorno al sistema formativo Gusman, A., Antropologia dell’olfatto Antinucci, F., Comunicare nel museo De Marinis, M., Visioni della scena. Teatro e scrittura Alonge, R., Donne terrifiche e fragili maschi. La linea teatrale D’Annunzio-Pirandello Giusti, M., Pedagogia interculturale. Teorie, metodologia, laboratori Prospero, M., Politica e società globale Piasere, L., I rom d’Europa. Una storia moderna Zoppini A. (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti giuridici Leijonhufvud, A., Informazione, coordinamento e instabilità macroeconomica Lorenzetti, R. - Stame, S. (a cura di), Narrazione e identità. Aspetti cognitivi e interpersonali Frauenfelder, E. - Santoianni, F. - Striano, M., Introduzione alle scienze bioeducative Accardo, A. - Baldocchi, U., Politica e storia. Manuali e didattica della storia nella costruzione dell’unità europea Maeran, R., Psicologia e turismo Mininni, G., Psicologia e media Ramat, P., Pagine linguistiche. Scritti di linguistica storica e tipologica Botta, F. - Garzia, I. (a cura di), Europa adriatica. Storia, relazioni, economia Carandini, G., Un altro Marx. Lo scienziato liberato dall’utopia Dematté, C. - Perretti, F. (a cura di), La sfida cinese. Rischi e opportunità per l’Italia Taffon, G., Maestri drammaturghi nel teatro italiano del ’900. Tecniche, forme, invenzioni Tedeschi, E., Sociologia e scrittura. Metafore, paradossi, malintesi: dal campo al rapporto di ricerca Artioli, U., Il ritmo e la voce. Alle sorgenti del teatro della crudeltà Ruffini, F., Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé Di Ciommo, E., I confini dell’identità. Teorie e modelli di nazione in Italia Zucchermaglio, C. - Alby, F., Gruppi e tecnologie al lavoro Ricuperati, G., Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e responsabilità della storia

86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97.

Rodari, G., Testi su testi. Recensioni e elzeviri da Pussetti, C., Poetica delle emozioni. I Bijagó della Guinea Bissau Izzo, F., Morfologia del moderno. Antropologia, politica e teologia in Thomas Hobbes D’Amico, R., Le relazioni di coppia. Potere, dipendenza, autonomia The World Political Forum, 1985-2005. Twenty Years that Changed the World Maccabelli, T. - Provasi, G. (a cura di), La globalizzazione tra politica ed economia. Scenari del XXI secolo Arioti, M., Introduzione all'antropologia della parentela Predieri, A., Sharî‘a e Costituzione Bazzicalupo, L., Il governo delle vite. Biopolitica ed economia Machetti, S., Uscire dal vago. Analisi linguistica della vaghezza nel linguaggio Donghi, P. (a cura di), Alterando il destino dell’umanità Donghi, P., Sui generis. Temi e riflessioni sulla comunicazione della scienza