L'archetipo cieco. Variazioni sull'individuo moderno 8878859044, 9788878859043

L'idea che attraversa questo libretto è che la modernità possa essere intesa come l'età dell'archetipo ci

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Table of contents :
PREMESSA
ARCHETIPO CIECO. MODELLI DELLALEGITTIMAZIONE ESTETICO-POLITICA
ANSELM KIEFER E LE FIGUREDELL’IMMEMORIALE
AFRODITE OGGI. LA BELLEZZAE LA NOTTE
PERCHÉ L’AMORE NON È UNSENTIMENTO…
FANTASMI, FANTASMAGORIE, AGNIZIONI.A PROPOSITO DI REGARDS DI BOLTANSKI
DREAM, GEIST. STRATEGIE DEL REGNO
MODIFICAZIONI DELL’INFINITO
IL MITO DOPO L’ARTE.HEGEL E IL FUTURO DELLA BELLEZZA
L’ESTETICA DI LUIGI PAREYSON COMEERMENEUTICA DELL’ARTE
LA MORFOLOGIA OLTRE L’ESTETICA.RICORDO DI OLAF BREIDBACH
IL KATÉCHON E LA LEGITTIMITÀ DELNOSTRO TEMPO. NOTE SU ESTETICA ETEOLOGIA POLITICA
IL NICHILISMO E LE NUOVE FORMEDELL’IMMAGINARIO TARDO-MODERNO
L’EDUCAZIONE ESTETICA NELLA CIVILTÀDELL’IMMAGINE. IPOTESI SUL FUTUROPROSSIMO
L’UNIVERSALITÀ DELL’ERMENEUTICA NELTEMPO DELL’“IMMAGINE DEL MONDO”
NUOVO ROMANTICISMO.LA CIVILTÀ DELL’IMMAGINE
FONTI
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L'archetipo cieco. Variazioni sull'individuo moderno
 8878859044, 9788878859043

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federico vercellone

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L’archetipo cieco Variazioni sull’individuo moderno

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minima

Phýsıs

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Collana di Filosofia

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Phýsis. Collana di Filosofia ISSN 2499-6408 Ispirata all’idea di una nuova Filosofia della natura, Phýsis si propone come spazio editoriale per lavori che abbiano al centro della loro riflessione la natura nei suoi molteplici aspetti e come luogo di integrazione e confronto fra i diversi saperi e le diverse tradizioni filosofiche. Diretta da Emilio Carlo Corriero | Iain Hamilton Grant Comitato scientifico internazionale Remo Bodei | Massimo Cacciari | Michael Esfeld | Manfred Frank | Sergio Givone | Jason Wirth

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federico vercellone

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Archetipo cieco Variazioni sull’individuo moderno

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© 2021 Rosenberg & Sellier

www.rosenbergesellier.it è un marchio registrato utilizzato per concessione della società Traumann s.s.

prima edizione italiana, marzo 2021 isbn PDF 978-88-7885-905-0 LEXIS Compagnia Editoriale in Torino srl via Carlo Alberto 55 I-10123 Torino [email protected]

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INDICE

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Premessa

Arte / Mito / Bellezza 15 Archetipo cieco. Modelli della legittimazione estetico-politica 23 Anselm Kiefer e le figure dell’immemoriale 33 Afrodite oggi. La bellezza e la notte 38 Perché l’amore non è un sentimento… 46 Fantasmi, fantasmagorie, agnizioni. A proposito di Regards di Boltanski 50 Dream, Geist. Strategie del Regno 57 Modificazioni dell’infinito Dopo l’arte, oltre l’estetica 77 Il mito dopo l’arte. Hegel e il futuro della bellezza 100 L’Estetica di Luigi Pareyson come ermeneutica dell’arte 113 La morfologia oltre l’estetica. Ricordo di Olaf Breidbach 119 Il katéchon e la legittimità del nostro tempo. Note su estetica e teologia politica Civiltà dell’immagine 149 Il nichilismo e le nuove forme dell’immaginario tardo-moderno 162 L’educazione estetica nella civiltà dell’immagine. Ipotesi sul futuro prossimo 178 L’universalità dell’ermeneutica nel tempo dell’“immagine del mondo”. 202 Nuovo Romanticismo. La civiltà dell’immagine 221

Fonti

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Ormai è sazio di ferite e di cielo. Si chiama uomo. Si chiama donna. È qui nel celeste del pianeta – dice mamma. Dice cane o aurora. La parola amore l’ha inventata Intrappolato nel gelo. Perso. Lontano. Solo. L’ha scritta In un silenzio caduto giù dalla neve. Mariangela Gualtieri, Le giovani parole

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PREMESSA

L’idea che attraversa questo libretto è che la modernità possa essere intesa come l’età dell’archetipo cieco. Questo non significa affatto che si abbia a che fare con un tempo davvero moderno secondo la vulgata più corriva, con un’età cioè che funziona proprio perché ha rinunziato a ogni arcaismo. Si tratta bensì di un’epoca nevrotica che vive di e in ciò che manca e al quale non ha più accesso. Né l’archetipo la illumina, né essa riesce a trovare illuministicamente da sola le risorse per far luce. È un età che vive la legittimazione mancata (ma sempre presente come esigenza) come il suo spettro. Un’età illegittima. Vive, in altri termini, nel modo più intenso il dramma di Hamlet 1. Dal dramma shakespeariano sino alla contemporanea civiltà dell’immagine abbiamo costantemente a che fare con l’affannato tentativo di riconoscersi in un archetipo. Esso si trasforma oggi in un pullulare di icone instabili che non riescono, se non per tempi brevissimi, a divenire dei modelli. Il mercato ha stravolto l’archetipo, producendone mille e mille, ma non ne ha messo a tacere la fascinazione che anzi si è fatta sempre più influente e suggestiva. L’originario “vende”, ed è divenuto, nel bene e nel male, un motore del mercato. I saggi che qui raccolgo sono intessuti da un filo sottile connesso a questa dialettica dell’oscurità di ciò

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che dovrebbe rilucere come una verità incontrovertibile la quale è tuttavia andata sprofondando, condannandoci così a vivere in un nevrotico chiaroscuro che ci ambienta non in una ma in molte storie dalla e sull’origine. La cecità dell’archetipo ci consente  –  per una felice contraddizione – di essere partecipi e di inventare molte storie senza essere ostaggi di un solo cielo. La nevrosi dell’archetipo, la nevrosi moderna rivela così infine importanti risvolti creativi. Salvo il primo tutti i testi che compongono questo libro sono comparsi in altre sedi. Li ripropongo qui con alcune variazioni e aggiustamenti. Ringrazio i curatori dei volumi e gli editori che avevano originariamente ospitato questi saggi. Un ringraziamento particolare e affettuoso va a Emilio Corriero che ha voluto questo volume nella sua collana, e a Danilo Eccher con il quale in questi anni abbiamo maturato molti momenti di una riflessione comune, di cui si troverà riscontro in queste pagine, segno di una amicizia preziosa.

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Cfr. M. Cacciari, Hamletica, Milano, Adelphi, 2009.

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Arte / Mito / Bellezza

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ARCHETIPO CIECO. MODELLI DELLA LEGITTIMAZIONE ESTETICO-POLITICA

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Modernità visibile e modernità invisibile La questione proposta a suo tempo da Hans Blumenberg circa la legittimità dell’età moderna continua indubbiamente a impegnare anche il nostro presente1. La curiositas moderna si è trasformata in una vuota evocazione dell’innovazione a ogni costo che mette paradossalmente insieme rottamatori e leader di estrema destra. Nondimeno l’identità moderna, in decadenza quanto si vuole, reca memoria di se stessa. Non è mai dimentica della necessità di legittimare uno statuto destinato a essere – come si avrà modo di vedere  –  consustanzialmente instabile. Come ci ha insegnato Marie-José Mondzain sottostiamo a un’economia del simbolico che attraversa il tempo e lo stabilizza. Le origini della modernità sono lontane, come ricorda ancora Mondzain, deposte addirittura nel mondo bizantino. In questo modo il nostro cosmo e lo stesso mondo occidentale si definiscono come un universo fondato su di una strutturazione economica delle energie, dunque su di una forma dinamica in cui il passaggio energetico si costituisce e deve costituirsi secondo un equilibrio dinamico ma non entropico. È un equilibrio che – come rileva Mondzain – si riverbera nelle articolazioni del monoteismo secondo un andamento trinitario. La configurazione del

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processo triadico – come si può derivare per esempio da Agostino – mira costantemente a prendere le distanze dalla possibilità che l’articolazione delle figure divine dia luogo a una situazione gerarchica. Questo, a ben vedere, dipende anche dal fatto che se si adisse a una situazione gerarchica si avrebbe a che fare con un blocco della struttura dinamica che compone il movimento delle tre figure. Secondo Agostino la Trinità rinvia a una sequela che prevede la sottomissione del Figlio al Padre. Questa tuttavia non comporta l’inferiorità dell’uno nei confronti dell’altro. Ciò produce un equilibrio dinamico in cui l’invisibile (il Padre) si mantiene a contatto con il visibile (il Figlio)2. L’aspetto chenotico è dunque funzionale a quello dinamico, processuale del rapporto: ciò fa sì che la relazione tra il visibile e l’invisibile non venga mai interrotta, e che venga così a prodursi un riconoscimento reciproco delle figure trinitarie. Avviene così che la relazione tra le prime due figure sia funzionale anche alla legittimazione di quella terrena secondo un andamento che fonderà una metafora permanente dei processi di legittimazione politica. «Eli Eli lama sabactàni» di Gesù sulla Croce non si coglie probabilmente in tutta la sua drammaticità se non sul fondamento di questa drammatica interruzione per cui il Figlio, proprio nel momento della Passione, approfondisce il sentimento della propria tragedia sentendosi drammaticamente delegittimato. Tutto ciò è per altro per così dire confermato dal fatto che dapprima il Figlio è al di sotto degli angeli e, infine, accanto al Padre. In assenza di questo sfondo non si coglie nulla della struttura narrativa, diegetica, dinamica della strutturazione del potere occidentale nelle sue forme storiche che ne asseverano la legittimità e ne strutturano la legittimazione. 16

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Quale archetipo? L’equilibrio dinamico, profondamente connesso all’identità della Moderne individuata dai romantici e poi da Hegel, ed esteso da quest’ultimo a tutto il tempo precedente, è densissimo di conseguenze. Il modello trinitario – come sottolinea ancora Mondzain3 – svolge qui un ruolo fondamentale: a) per quanto concerne l’organizzazione della visione, cioè dello spazio del mondo orientato in direzione della profondità e della prospettiva; b) nella strutturazione della relazione tra visibile e invisibile che è all’origine delle strutture di legittimazione del potere politico. Sullo sfondo, ritroviamo l’identità cristiana della Moderne, che si configura come un’identità chenotica, e cioè – quantomeno inizialmente – strutturalmente in perdita. Abbiamo a che fare con una struttura formale: 1) attraversata dal tempo; 2) in quanto tale sempre esposta alla perdita di energia che è propria delle forme aperte. La modernità necessita dunque di forme dinamiche, e quantomeno in tendenziale perdita, analoghe da questo punto di vista all’andamento simbolico della Croce. Esse producono uno scambio simbolico che avviene secondo il principio di un dare o di un investimento che anticipa l’esborso, e si espone così al rischio per poi recuperare “con gli interessi” il capitale investito. Dal punto di vista dello scambio simbolico e della sua struttura – e solo da questo probabilmente – si ravvisa così una analogia strutturale tra cristianesimo e capitalismo. Abbiamo comunque, sempre ancora a che fare con una cultura degli archetipi simbolici. E l’archetipo simbolico per eccellenza che configura in senso proprio e metaforico la modernità è la Trinità. La 17

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dialettica tra il Padre e il Figlio  –  riprendendo le tesi di Mondzain  –  che attraversa lo Spirito è fondamentale per costituire un regime dinamico che consenta di tenere fermo, o meglio di rinsaldare nuovamente, contra Hegel, l’elemento ctonio e quello superno. Questa volta tuttavia la dialettica si è fatta dinamica, ed è anzi la dynamis suprema, quella che si esprime nella contemporaneità. Questo genera la stabilità instabile che è propria del moderno, l’unica stabilità che gli sia consentita, la quale si trasferisce nelle sue forme di legittimazione del potere invisibile. È un archetipo plastico, secondo quanto ha magistralmente mostrato Hans Belting in Firenze o Bagdad, soffermandosi sul significato della teologia trinitaria per il configurarsi dello sguardo in profondità e dunque per l’assunzione stessa della profondità all’interno dello sguardo4. È solo grazie a una funzionamento idealmente “a triangolo” dell’andamento trinitario che lo sguardo si organizza sulla base di un orizzonte lontano e di un centro che fa da termine insieme a quo e ad quem della visione. Entro questo schema si genera anche quello scambio energetico sul quale si è soffermata in un magnifico libro Marie-José Mondzain5. Per esprimere in termini molto generici la tesi di Mondzain, nel farsi carne del Verbo si esprime una teoria della legittimità e del potere che percorre l’Occidente cristiano quale vicenda della relazione del monarca, di colui che solo detiene il potere legittimo6, con il principio invisibile che rende paradossalmente intranseuente la sua figura mortale. Qui prende forma il principio della legittimità di un potere e di un tempo, una teologia politica che è tutt’ora vigente sia pur adottando percorsi nevrotici e contorti. La crisi è molto precedente Hamlet, in cui si palesa in tutta la sua potenza la relazione impossibile con 18

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l’invisibile7. Essa interrompe l’economia del simbolico. Questo rende cieco l’archetipo. Viene meno qui quella che potrebbe definirsi l’«economia di scambio tra l’invisibile e il visibile» che dice della legittimità di un potere in quanto esso – per riprendere ancora Cacciari – coniuga potestas e auctoritas8. In questo modo si interrompe l’economia simbolica e si acceca l’archetipo rendendo impossibile lo scambio simbolico che decade così a uno scambio commerciale tra eguali. L’oggetto dello scambio diviene ora un oggetto presente che assume ipso facto un volto carismatico. Andiamo così incontro a una sorta di pornografia del potere, in cui l’immagine, in quanto eidolos, diviene un idolo a tutti gli effetti. Quanto tutto ciò abbia a che fare con la crisi delle nostre democrazie, e con la svolta verso forme autoritarie della democrazia potrebbe forse cominciare a emergere da queste considerazioni. È come se, con le democrazie autoritarie e i leader populistici, avessimo a che fare con quella che Adorno definisce come “aura putrefatta”. Archetipo eterno L’economia capitalistica nasce da un errore circa lo scambio simbolico, per cui colui il quale investe si espone in prima battuta per poi venire risarcito con gli interessi solo in un secondo momento, esponendosi a un rischio emorragico e dando così luogo a un ordine/disordine entropico. Quello che fonda la Moderne è così un Messia entropico che è la premessa del mondo moderno e della Moderne come sistema. È un ordine/disordine orientato a una preventiva perdita continua di energia quello che così si propone. Abbiamo contemporaneamente a che fare con una forma del divino intesa secondo il modello di 19

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una perdita energetica volontaria in attesa di venirne risarciti in un secondo tempo. È questo archetipo quello che viene progressivamente a depotenziarsi. L’archetipo è muto quando la comunicazione che si era stabilita al livello dell’economia dell’immagine si è infranta. Nella dialettica tra il Padre e il Figlio attraversata e resa possibile dallo Spirito si genera un andamento dinamico della storia che al tempo stesso è un andamento legittimo. La figura terrena è infatti sorretta e giustificata anche nella sua spoglia mortale dall’ipostasi intranseunte che si pone al suo stesso livello e, al tempo stesso, la sorregge. È una lunga storia che in un tortuoso percorso giunge sino a oggi. Quando questo link viene meno si avvia la vicenda dell’archetipo muto. La nostra storia. Viviamo senza archetipi evocandoli a ogni giro di giostra di un mondo che non riconosciamo. Nondimeno, è per l’appunto la nostra vicenda. L’archetipo è divenuto cieco, si è opacizzato enfatizzando tuttavia così il richiamo dell’origine. Il problema è che l’accecamento dell’archetipo, che è uno dei fenomeni che caratterizzano la modernità, ha dietro di sé una storia imponente, e tuttavia esso non smette di esercitare la sua funzione di modello. Si potrebbe definire questo versante della questione come uno degli elementi centrali di ogni morfologia politica. Non viviamo cioè nell’età nella quale l’archetipo non esiste più, bensì in un’età in cui esso mantiene la sua funzionalità senza che sia dato aver accesso a esso. E questa non è una novità degli ultimi tempi, bensì un fenomeno di lunga o lunghissima durata che perdura quantomeno dalla crisi shakespeariana della sovranità per giungere sino al romanticismo tedesco (quantomeno se consideriamo attendibile l’analisi che ne fornisce Carl Schmitt9). 20

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È qualcosa che si affaccia in tutta la crisi romantica, il cui potenziale si evidenzia già nel Novalis dello Heinrich von Ofterdingen con la metafora della discesa nella miniera e prosegue nella inquietante vicenda di quello che si potrebbe definire l’“inconscio romantico”, attraverso Bachofen10, per riaffiorare infine nella Parigi ctonia di Walter Benjamin. La modernità è dominata dal suo fondo ctonio come da una voragine. In fondo la scoperta freudiana dell’inconscio null’altro è che questo: la scoperta che il soggetto è andato a fondo con l’archetipo che lo sorregge. Esso ha perduto di legittimità. L’inconscio sorge, come inconscio individuale, nevrotico e iroso dentro l’archetipo accecato. La nascita dell’inconscio individuale, da questo punto di vista, null’altro è che la perdita di quello collettivo. Lo scontro tra Jung e Freud riguarda in fondo la storia dell’inconscio la cui topica fa semplicemente seguito. In fondo ora è proprio questa la tragedia di Antigone, quella di non poter più essere un’emergenza di una legge antecedente, quella del sangue. Qui davvero la bella eticità si interrompe e l’inconscio sorge così propriamente come in-conscio. Il colloquio notturno di Hamlet con l’ombra del padre fa in fondo da penchant alla decapitazione di Luigi XVI e la prepara. Il re può essere decapitato proprio in quanto e solo in quanto il colloquio con l’invisibile è venuto meno. L’intensità dinamica del moderno è tutta connessa alla possibilità che la relazione con il fondamento non sia andata perduta, e che anzi alla fine essa possa riaffiorare. La disperazione circa la perdita di fondamento crea surrogati quali il katéchon, quel «potere che frena» che, non a caso, viene a fronteggiarsi con una rinascita messianica nel confronto tra Schmitt e Taubes. È questa la crisi del nostro tempo, quale più di quarant’anni orsono venne diagnosticata da Massimo 21

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Cacciari in Krisis11, una crisi connessa all’identità messianica del moderno, e che soltanto la rammemorazione di questa identità messianica può restituire. È l’ordine del Nomos a essere investito da questa crisi dell’invisibile. Esso genera mostri, leader sbandati e senza nome, accecati dall’invisibile cui non hanno (più) accesso, che affondano nella propria ombra sempre più fugace. Il messianismo è dunque tutto interno all’identità “laica” del potere occidentale, alle sue strutture di significazione. Si può addirittura aggiungere che, in assenza di messianismo, non si danno politiche legittime, e che il potere legittimo è sempre un potere messianico. Su queste basi la crisi attuale trova forse nuove motivazioni che consentono di meglio identificarla dinanzi a laicismi rozzi e senza memoria e a populismi alla lettera criminali perché privi di ogni legittimità.

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ANSELM KIEFER E LE FIGURE DELL’IMMEMORIALE12

Mai, forse, come nel nostro tempo invaso da immagini di ogni provenienza, è divenuto necessario capire chi siano i padroni della memoria. Sono loro a possedere le chiavi dell’identità presente e futura. Proprio per questo ogni riflessione sulla memoria è necessariamente una riflessione sul potere, e l’inverso. La cosa non è nuova ma è ampiamente testimoniata, per esempio, nella vicenda della rappresentazione della figura imperiale nel suo trascorrere dal mondo pagano a quello cristiano, laddove la figura dell’imperatore assume prerogative che consentono un passaggio privo di lacerazioni dall’uno all’altro universo religioso13. La riflessione sul principio e il fondamento in Massimo Cacciari è da questo punto di vista assolutamente politica, laddove l’immemoriale è principio di quell’unità del tempo storico senza la quale esso si trasformerebbe in puro divenire, in quel vuoto storicistico denunziato da Friedrich Nietzsche nella seconda Considerazione inattuale. Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Ogni memoria è così “memoria in figura”, e questo ci consente di sviluppare il discorso ricorrendo all’esempio assolutamente cruciale, in questo quadro, di Anselm Kiefer. Raramente una data di nascita è così potentemente simbolica come nel caso di questo grande testimone architetto della memoria collettiva. È utile ricordare 23

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che egli nasce in un anno tragico e assolutamente cruciale per la storia tedesca, nel marzo del 1945, a due mesi dalla fine della Seconda guerra mondiale. I suoi percorsi artistici, come fotografo e performer, si focalizzano subito su forti temi politici e simbolici, come nella serie Besetzungen presentata durante la prima mostra personale nel 1969 alla Galerie am Kaiserplatz. Come ben si ricorderà, le prime opere sono incentrate su di un confronto critico e dolente con il passato nazionalsocialista rimosso e occultato dalla generazione precedente. E qui si giunge al punto cruciale. Dal 1970, per venire a un passo fondamentale della sua formazione, Kiefer è allievo di Joseph Beuys il cui influsso profondo lo indurrà a confrontarsi con i materiali in quanto donatori di senso, e, insieme, con temi storici, religiosi, filosofici e mitologici. Proprio in questo periodo Kiefer comincia a lavorare su cicli pittorici come Deutschlands Geisteshelden (1973), approfondendo, a partire dagli anni Ottanta, la storia ebraica e il dramma dell’Olocausto. La formazione giuridico-filosofica segna profondamente la sua ricerca artistica ed estetica. Gli eventi storici, politici e sociali, astratti dal loro contesto originario, assumono nella sua opera un significato potentemente simbolico, veicolano valori assoluti e condivisi, riuscendo a proporre una soluzione figurativa carica di profonde significazioni metafisiche. Le opere di Kiefer affondano nella vicenda storica, e nel suo versante tragico, mentre la vicenda storica si riverbera nel mito e nell’archetipo anche grazie all’utilizzazione di suggestioni che derivano dall’antico, dalla cultura degli assiri, dei babilonesi, dei sumeri sino all’ebraismo. L’artista diviene in questo quadro alchimista e sciamano, colui che forgia e che 24

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plasma la materia per narrare la condizione umana e la sua costante aspirazione al divino. Anselm Kiefer mescola nella sua pittura, fortemente neo-espressionista, materiali diversi dotati di un potente aspetto fisico e materico e di un richiamo simbolico altrettanto se non più potente: argilla, cenere, lacca, legno si mescolano al colore denso che emerge sulla tela. Anche sotto il profilo dei materiali si delinea la necessità di fare i conti con una memoria che è anche un epos comune, una narrazione che dovrebbe esser continua, e che è invece interrotta da lacune tragiche, da morti e omissioni, come viene segnalato per esempio dalla presenza di indumenti privi di un corpo, che rilevano un’assenza, una lacuna, probabili incombenti indizi di una scomparsa taciuta, di una morte rimossa. La lacunosità della vicenda storico-mitica rinvia naturalmente anche al confronto con la generazione dei padri, e al silenzio grottesco e imbarazzato che ha avvolto, nella Germania del boom economico degli anni Cinquanta del secolo scorso, la vicenda nazionalsocialista. Si tratta dunque, per Kiefer, di ricomporre e suturare la memoria, dopo averne denunziato il colpevole smarrimento. È inutile rilevare come questo tema, che rinvia per altro a un dialogo a distanza con altri grandi artisti tedeschi contemporanei come Georg Baselitz e Gerhard Richter, rilanci e proponga figurativamente il tema filosofico della soggettività, e dell’identità soggettiva da intendersi, nel caso di Kiefer, come un’identità mitico-narrativa. Le immagini di Kiefer sono così sin dall’inizio narrazioni mentre il loro contenuto è metanarrativo, rinvia alla presenza di archetipi che orientano nel disastro incombente del presente, che ricompongono il caos attraverso confronti a distanza nello spazio e nel tempo. Abbiamo dunque a 25

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che fare con immagini emblematiche che, attraverso il confronto con l’archetipo mitico o letterario o figurativo, formulano un giudizio sul presente. Quello che, con ottime ragioni, può definirsi il percorso del pensiero simbolico, espressivo e insieme figurativo di Kiefer mette dunque necessariamente capo a una rivisitazione del mito attraverso gli strumenti che il mito stesso mette a disposizione. Su questa base Kiefer sembrerebbe percorrere il sentiero additato da Horkheimer e Adorno volto a realizzare una dialettica dell’Illuminismo. È dunque il tema delle radici e così pure quello del riconoscimento dell’Altro e dell’autoriconoscimento a costituire una sorta di basso profondo nell’opera di Kiefer. Il tema della memoria culturale, soprattutto attraverso il nesso con il motivo più tragico della tradizione tedesca, quello dell’Olocausto e del suo occultamento, rinvia poi, come ha messo bene in luce Lisa Saltzman, alla questione della rappresentazione dell’irrappresentabile, e cioè al sublime14. Qui, dunque, attraverso la mediazione di una delle massime categorie estetiche, per l’appunto quella del sublime, si ripropone la questione formulata da Adorno, e da allora ininterrottamente ripresa sino a Georges Didi-Huberman: se e come sia lecito fare arte “dopo Auschwitz”. Per dirla in altri termini, si tratta dell’interrogativo che concerne la questione se l’arte possa venire a contatto con l’orrore, e come questo debba eventualmente avvenire. La nozione di sublime, tradizionalmente carica di una valenza etica inscindibile da quella estetica, si propone su questa base, in Kiefer, come un dilemma tragico. Se il sublime moderno reca sul proprio sfondo il problema contraddittorio della rappresentazione dell’irrappresentabile  –  ecco che, nel caso di Kiefer, si propone in tutta la sua forza la domanda se sia lecito 26

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forzare: se l’irrappresentabile vada rappresentato15. Esso  –  sembrerebbe rispondere Kiefer, e certamente noi con lui – non va indubbiamente rappresentato, ma può essere accolto all’interno di un percorso critico di scandaglio delle radici. Se il nazionalsocialismo aveva voluto essere un ritorno epico-tragico alle mitologie dell’originario16 – ecco che Kiefer riprende genialmente il tema di una radice abitabile che coincide del tutto naturalmente con una rivisitazione delle tradizioni fondanti. È uno scandaglio che oltrepassa romanticamente la Germania per andare ben oltre, in direzione della rivisitazione di una mitologia storica e simbolica nella quale si affacciano i grandi nomi della tradizione classico-romantica tedesca, da Goethe a Kleist per limitarsi a due colossi. Il mito e la tradizione vengono rivisitati attraverso il mito, attraverso la necessità di rivivere una tradizione fondante come davvero fondante, dunque inclusiva e non escludente come avveniva invece con il nazionalsocialismo. In questo quadro si colloca anche il tema, davvero centrale, della foresta che avvolge la tradizione romantica per venire al movimento dei Wandervogel al quale Nietzsche stesso fu profondamente legato17. La foresta nella sua aura magica e mitica, che Kiefer affronta da bambino in fasce sottraendosi ai bombardamenti alleati e poi, giovanissimo, sotto la guida del suo maestro Joseph Beuys, diviene il luogo accogliente e misterioso che cela e manifesta insieme un’aspirazione all’infinito. Che è anche quella delle cattedrali gotiche che ci riconducono a Herder, al giovane Goethe, alla pittura nazarena. I simboli dell’abitare percorrono l’opera di Kiefer. Abitare significa sempre abitare gli archetipi, ma abitare gli archetipi non significa altro che stabilire dove si è sulla base della provenienza che ci è stata 27

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assegnata. In questa strategia di rivisitazione delle radici, che non ne nega la necessità e il conforto talora anche ammaliante e terribile, si colloca, polemicamente, anche il famoso saluto nazista che generò incomprensioni e polemiche tanto violente quanto ingiustificate nei confronti dell’artista. Le radici sottratte producono ricadute violente in un originario tanto più fittizio in quanto nasce da un debito onirico18. La memoria storica e quella culturale occupano il centro della scena dell’opera di Kiefer che per molti versi costituisce un confronto à rebours con la tradizione tedesca, in particolare quella classico-romantica la quale viene intesa proprio come il mondo delle radici. Si tratta di un confronto a tutto campo che non attraversa solo la tradizione figurativa ma anche quella letteraria. È un confronto volto a individuare, come già si diceva, nella dialettica storica il motivo dell’originario in cui situarsi, un motivo cui pure la cultura nazionalsocialista aveva dedicato un’attenzione quanto mai inquietante. Va subito precisato che questa relazione così forte dell’opera di Kiefer con la memoria culturale produce un confronto con il canone che si realizza attraverso il medium figurativo e non, come tradizionalmente avviene, attraverso quello letterario. È una grande rivoluzione, uno spostamento di senso che colpisce tanto più in quanto la trasmissione, il canone culturale, si sono effettivamente spostati sempre più negli ultimi decenni da uno all’altro ambito facendo parlare addirittura di un pictorial o iconic turn della cultura contemporanea19. Ma potremmo parlare addirittura di una sorta di crisi di paradigmi, di un’ambiguità che attraversa il linguistico e il figurativo, che percorre l’arte contemporanea, e non il solo Kiefer ma, per fare soltanto un altro nome, anche un artista come Joseph 28

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Kosuth. Quella della distinzione tra segno e immagine è per altro una vicenda sottile di spostamento e indefinitezza dei limiti che possono far emergere il corpo della scrittura nella sua qualità morfologica e non solo in quella concettuale di trasmissione del senso. Ma vale anche il percorso inverso, per cui l’immagine può far cenno, anche nella sua pienezza materica, in direzione del concetto senza per questo affondare nella catacresi del segno20. Il tema della memoria nell’opera di Kiefer viene declinato come la presa d’atto di un’incommensurabile frattura e, insieme, come un’opera di ricucitura e quasi di rammendo di un tessuto lacerato. Il tessuto della memoria viene inteso da Kiefer come un tessuto organico e vivente, laddove l’immagine stessa sviluppa una qualità performativa. Non si tratta di semplici rappresentazioni ma di luoghi abitati e abitabili che definiscono anche una provenienza. Il tessuto organico della memoria fa del percorso pittorico un percorso di rigenerazione. E si tratta di un tessuto cicatriziale, e quasi di un rammendo che attraversa la tradizione tedesca come un rimosso che ha mille difficoltà a emergere per poi affacciarsi repentinamente e quasi violentemente alla superficie. Il confronto con un passato rimosso troppo vicino, indipendentemente da quanto esso sia recente, che affiora con violenza, al cui emergere dirompente bisogna far corrispondere una forma che lo contenga e configuri, percorre la riflessione pittorica di Kiefer la quale assume così anche una valenza terapeutica. La ristrutturazione della memoria avviene attraverso una messa in forma che ha nel mezzo pittorico il suo medium privilegiato. È così che la riflessione di Kiefer è quella di uno dei grandissimi poeti della memoria tedesca il quale 29

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riflette visivamente con un rigore che fa competere il suo linguaggio espressivo con quello propriamente concettuale. Ma forse quella che va più sottolineata è proprio l’intenzione di superare il limite, l’implicazione non necessaria che esclude il concetto dalla rappresentazione e l’opposto, per ritrovare quell’unità profondissima di immagine e pensiero che dell’immagine era stata propria a partire dai Padri cappadoci, per venire a Nicea e giungere infine all’emblematica di età barocca. Abbiamo così a che fare con immagini che non sono rappresentazioni bensì narrazioni. Il tema della memoria culturale è, per altro, un tema che Kiefer condivide con altri grandi artisti tedeschi di oggi come Gerhard Richter nella cui opera la memoria e il rimosso si affacciano nell’immagine quasi come fantasmatiche emergenze. Basti pensare, per quanto riguarda quest’ultimo, alla serie di opere dedicate ai componenti della banda Baader-Meinhof, emergenze, in bianco e nero, di una memoria insieme vicina e lontana. Sono forme della memoria culturale che approfittano del mezzo pittorico per svilupparsi. La storia tedesca – è inutile ricordarlo – è a tutti gli effetti una vicenda della Zerrissenheit, per riprendere Hegel, una vicenda di lacerazioni e di ricuciture. Le immagini di Kiefer attraversano con la potenza del negativo hegeliano le lacerazioni per serbare quella memoria in figura che è essa stessa Versöhnung, conciliazione non tanto perché la colpa venga dimenticata o messa da parte, ma perché nella possibilità stessa della narrazione sta il principio del superamento del trauma. Kiefer risponde, è costretto a rispondere, già lo si è visto, per motivi familiari e generazionali, connessi alla coscienza storica individuale e collettiva, alla domanda se si possa fare arte dopo Auschwitz. È 30

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un interrogativo che percorre drammaticamente la tradizione estetico-filosofica tedesca a partire dalla riflessione e della drammatica denuncia di Theodor W. Adorno per irradiarsi di lì e proporsi come una sorta di grande metro di valutazione dell’arte contemporanea. La questione è di una portata e di una gravità davvero assolute. E ci conduce nelle vicinanze di quell’“ideale del nero”21, in particolare di quella lirica che fa delle peripezie della forma e del linguaggio il nucleo profondo della propria sfida al mondo, il cui exemplum per eccellenza è l’opera di Paul Celan, poeta non a caso amato sia da Adorno che da Kiefer. Qui affiora un interrogativo centrale non solo per l’arte tedesca ma per l’arte contemporanea in generale. Una sfida che supera l’arte per coinvolgere l’etica stessa dell’immagine. La esprime Didi-Huberman con il titolo magistrale Immagini nonostante tutto. Possiamo riformulare la questione nei seguenti termini: può l’arte farsi carico della coscienza storica? Rappresentare l’immaginario collettivo, il rimosso, la verità “troppo” profonda e costituirne il metro di misura critico? È un interrogativo che ha un sottinteso ancora più impegnativo e inquietante: può l’arte incrociare nuovamente il mito inteso come il terreno fondante una cultura? È una questione che ci riconduce alle origini. È una domanda che ci riconduce al di qua della coscienza estetica, al di qua di quei Libri carolini che la inaugurano nella nostra tradizione allontanando l’immagine dalla verità per fornirle un contenuto estetico e illustrativo22. L’immagine si configura così come il luogo di una contesa che ravviva il passato iconofilo e iconoclasta della tradizione greca e cristiana, a partire dalle contese che hanno attraversato Bisanzio sulle quali non a caso Kiefer torna nella serie Bilderstreit. L’immane battaglia per e delle immagini che lacera 31

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e anima il nostro mondo testimonia così che non abbiamo memoria che dell’immemoriale, vera e propria conditio sine qua non di ogni ricostruzione del (nostro) passato. Mentre il pensiero che dice non può che essere pensiero in figura.

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AFRODITE OGGI. LA BELLEZZA E LA NOTTE

Sin dalle sue origini la bellezza si propone come un evento necessario. La sua potenza s’impone come una sorta di prima intellegibilità dell’essere, come una simpatia immediata, come il dono di una regolarità miracolosa le cui regole solo dopo verranno a svelarsi. La bellezza nasce dunque in un ambiente inizialmente notturno che rischiara grazie al bisogno umano di ritrovarsi in un mondo. Ha come propria dolente premessa un ordine oscuro che essa riconduce alla luce del piacere e della conoscenza. Nasce dall’interrogativo deposto nel buio, o che è il buio stesso, e anzi la sua sagacia consiste nel concepire il buio come un interrogativo rifiutandosi di ridurlo a cieca tenebra. Colui che viene dopo sta in realtà prima per riprendere il Vangelo di Giovanni (Gv 1, 30-31); così pure è per la luce che sta prima e non dopo la notte, e rende quest’ultima intellegibile. La luce antecede dunque ontologicamente la notte, anche se è la notte a precederla temporalmente. Esse convivono in un ciclo ininterrotto di morti e rinascite. È questa precedenza ontologica, che non è temporale, quella che va interrogata a proposito della scaturigine della bellezza, la quale, per l’appunto, anticipa ciò che sta prima di lei. La bellezza promette l’agnizione del giorno che la notte al tempo stesso minaccia e custodisce. È il giorno infatti che 33

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riconosce la notte e la sua potenza generativa, e non l’inverso, e che in questo modo stabilisce la sua precedenza (non superiorità) ontologica. A farsi paladino dell’usteron proteron non è solo il Vangelo di Giovanni ma anche un sapere più antico, quello deposto nella Teogonia di Esiodo, laddove si narra della nascita di Afrodite. La quale viene alla luce dopo che un abbraccio mortale, quello tra Gea e Urano, ripugnante in sé, per i suoi contraenti e per la progenie che ne scaturisce, è stato sciolto. Crono si vede quasi costretto a evirare e a uccidere il padre per liberare, su richiesta di quest’ultima, la madre, e il cosmo stesso dall’unione cupa e infelice. Dallo sciogliersi del legame, alla lettera mortale, tra Urano e Gea, fra terra e cielo che si sovrappongono chiudendo ogni orizzonte, sorge Afrodite, la quale approda a Citera. Progenie del seme paterno che si diffonde come spuma nel mare, essa si libera di ogni elemento solo materico, non elaborato, per divenire forma pura che si staglia nelle fattezze più nitide e desiderabili: è ciò che noi denominiamo bellezza. Scrive Esiodo: Quanti ebbero origine da Gea e da Urano  / i più temibili dei figli furono odiosi al loro genitore / dal principio: non appena uno di loro nasceva, / li nascondeva tutti e non li lasciava venire alla luce / nel seno profondo di Gea, e godeva della malvagia opera, / Urano, ma dentro gemeva Gea immane  / stipata, e allora meditò un tranello astuto e crudele. / Subito, prodotta la specie del grigio adamante / costruì un grande falcetto e parlò ai suoi figli, / e disse, facendosi coraggio afflitta nell’animo / “Figli miei e di un padre scellerato, se mai voleste / obbedirmi, vendicheremmo l’infame oltraggio del padre / vostro: lui per primo, infatti, tramò opere indegne.

Gea dunque, per proteggere i suoi figli dalla voracità di Urano, li costringe nell’oscurità del suo 34

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seno. Crono accoglie l’invito della madre, uccide il padre, e infine, dopo averlo evirato, ne scaglia in mare i genitali. Dalla spuma marina che sorge intorno ad essi, che simbolicamente mitiga la violenza edipica, originaria, sorge Afrodite:

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in essa una fanciulla crebbe; e prima a Citera divina / giunse, poi di qui andò a Cipro cinta dalle acque  / Scese a terra la dea veneranda e bella, e l’erba attorno / agli agili piedi cresceva23.

Il sorgere della bellezza coincide (meglio: è) l’emergere di un limpido orizzonte da un groviglio notturno e caotico. Afrodite, per altro, esprime la bellezza attraverso forme nitide, agili, quasi prive di ogni gravità che rinviano per antitesi e insieme rammemorano il conflitto cruento e crudele che è all’origine del loro sorgere. Essa esprime un’intelligenza che verrebbe da definire morfologica, legata allo sguardo sulla forma: è un’intelligenza pre- e forse post-concettuale, intuitiva, veloce ed efficace. Attrae e provoca lo sguardo quasi attonito e piacevolmente meravigliato di uno spettatore primigenio che scopre che il mondo presenta (quantomeno talora) un ordine discreto, perfetto e subito intuibile. Afrodite fornisce, per così dire in diretta, le coordinate di questo/del mondo. Si tratta di una molteplicità di enti diversi che possono convivere grazie a un ordine mobile, plastico, variegato ma intellegibile, e intellegibile proprio in quanto variegato e, insieme, immediatamente evidente. La bellezza mitica allontana dunque la paura del mito, quella di essere inghiottiti da una natura caotica, e semplicemente condannati a sparire infine in un nulla tetro, neutro, anonimo24. Proprio per questo la bellezza è dotata di una qualità erotica, di un’attrattiva potente. Non si tratta tuttavia di una seduzione minacciosa. La bellezza, attraverso 35

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colei che simbolicamente la incarna, suggerisce che un certo mondo è abitabile, che esso è dotato di un ordine in forza del quale qui e solo qui siamo in grado di fondare e condurre la nostra esistenza. Qui, dunque, siamo indotti a insediarci25. Non tutte le notti, dunque, sono confusive; alcune contengono invece in sé il mistero dell’alba. La notte è anche germe, grembo e germinazione, come ricorda Novalis negli Inni alla notte. Il quinto si conclude proprio con la promessa insieme sognante e veggente del nuovo regno, ove gli esseri non conoscono più separazione, sono tutti pervasi dall’amore che annulla ogni resistenza fisica e rende elastici e porosi i corpi. E dalla piena commistione del giorno e della notte, dalla miracolosa integrazione degli opposti che scaturisce quella plenitudo realitatis che è l’estensione della bellezza nella felicità: il divino che – come già in Afrodite – si è fatto mondo o il volto divino del mondo che non conosce più lacerazioni. Scrive Novalis nella chiusa del quinto Inno: L’amore è liberato, / non più separazione. / La vita ondeggia piena / come un mare infinito / Solo una notte d’estasi – / Solo un poema eterno – / è il sole di noi tutti / è il volto di Dio”26.

Per altro le ombre sono anche principio di uno sguardo non idealizzato sulla realtà che non rimane prigioniero del nitore un po’ fittizio delle forme classiche, come rileva Vietar Hugo, allievo, come gran parte della stagione romantica, di William Shakespeare, nella Préface al Cromwell ammettendo il grottesco accanto al bello. Ancora una volta, con toni quasi propagandistici, vengono riaffermate le ragioni della commistione degli opposti e del chiaroscuro: [La poesia] si metterà a fare come la natura, a mischiare nelle sue creazioni, senza tuttavia 36

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confonderle, l’ombra alla luce, il grottesco al sublime, in altri termini, il corpo all’anima, la bestia allo spirito. Tutto è collegato27. Forse solo in questo quadro è possibile cogliere il significato salvifico che iterativamente è stato attribuito alla bellezza a partire da Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, ove essa si propone come l’idea che tutte le riunisce in vista di una rigenerazione delle relazioni umane, più precisamente del tessuto sociale e politico che ora non sarà più fondato su rapporti formali quali sono quelli previsti dallo stato moderno, ma si configurerà come un ordito vivente, quasi una struttura sociale corallina28. La bellezza si fa così politica, edifica la comunità umana mantenendo la sua originaria promessa. Anche a questa luce vanno lette le famose parole di Ippolit nell’Idiota di Dostoevskij – «La bellezza salverà il mondo» –, le quali, anche in forza della loro formulazione facile a trasformarsi in uno slogan, hanno dato il via al grande stream, talora una vera e propria deriva pop, della bellezza redentrice (molto spesso dimentica delle proprie origini). Perché mai la bellezza dovrebbe addirittura salvare il mondo? E come si caratterizza la sua potenza? Afrodite ci svela questo mistero. La bellezza mette a giorno in senso figurato e reale la potenza generativa della notte. In questo suo aspetto inaugurale essa getta un ponte tra il mondo greco e quello cristiano: risemantizza la notte, che non è più così il grembo mortale nel quale tornare per scomparire per sempre, ma la genesi del futuro, il grembo di un mondo nuovo. Essa diviene così un patrimonio comune del mondo classico e di quello cristiano-moderno. 37

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PERCHÉ L’AMORE NON È UN SENTIMENTO…

L’amore è un link, una connessione che interferisce di volta in volta con tutte le congiunzioni dell’universo visibile. Non accetta l’impotenza. E sta prima di coloro che si amano. È l’intelligenza primigenia, il logos semplice e originario, la potenza prima che istituisce rapporti per sottrarsi al caos pur essendone figlia. Non c’è amore che non sia intelligenza del mondo. Esso è la relazione per eccellenza, è dunque votato alla creazione di un mondo in quanto cosmo ordinato che pone in relazione gli esseri fra loro facendo in modo che essi possano riconoscersi gli uni negli altri. Esso è dynamis e sforzo intenso verso la luce: si realizza dopo il caos originario che resta costantemente sul suo sfondo. In quanto creatore di universi intellegibili l’amore è sempre in bilico sul caos che deve sconfiggere, è sempre sul crinale del nulla. L’amore è da questo punto di vista votato a generare con intelligenza, ed è paradossalmente indotto a farlo sulla base di un sentimento ritenuto spesso totalmente idiosincratico e di volta in volta incomparabile per quanto universalmente condiviso. Pensare l’amore è dunque pensare il link, il legame che connette gli esseri. Riflettere sull’amore significa così costantemente pensare il Tu che ci sta dinanzi chiunque Egli/esso sia. Soffermarsi sull’amore significa riflettere sul link in assenza del quale né l’Io 38

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né il Tu sussisterebbero. L’amore è dunque sempre una forma di autoriconoscimento: è un nesso fondamentale concernente l’essere delle persone e delle cose e la loro comprensione e autocomprensione. Grazie all’essere amato sappiamo chi siamo, e ciò avviene attraverso una mediazione, se vogliamo una forma, che stabilisce la natura di questo rapporto. Il legame d’amore è dunque sempre antecedente gli amanti. Esso è il conio degli amanti. Senza di esso l’Io e il Tu amato-amante non sussisterebbero. La natura di questo Io e di questo Tu è peraltro quanto mai variegata: può concernere gli innamorati, Dio, i famigliari, gli amici, i nostri eroi eponimi, i diseredati della terra, un paesaggio, un’opera d’arte ecc. Addentrarsi nell’amore significa dunque, fra l’altro, considerare le varie forme storiche assunte da questo legame che si articola in figure diverse, le quali sono al contempo, come si accennava poco fa, anche differenti forme dell’articolazione del mondo stesso. E soltanto mettendo in conto che ogni amore desideri con forza divenire un mondo, realizzando così se stesso, possiamo concepire le figure storiche diverse di questo sentimento. Le variegate forme dell’amore generano mondi tra loro diversi. L’amore è dunque ben più che un semplice stato d’animo. Non è certamente solo un evento interiore. Le modificazioni di questo sentire coincidono con i mutamenti del mondo da esso creato. L’amore è dunque un logos, e le sue configurazioni non riguardano mai semplicemente un sentimento intimo e privato ma configurano costantemente un’ontologia e una visione del mondo. Su questa base è possibile organizzare un lessico dell’amore che è anche l’indice della sua storia. Soffermiamoci qui solo su due passaggi fondamentali di questa vicenda che hanno un significato 39

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essenziale anche per quanto riguarda l’idea di produzione artistica. Negli inizi mitici della sua vicenda l’amore si definisce essenzialmente come una cosmogonia. È la narrazione esiodea sulla nascita di Afrodite a rammentarcelo, laddove la dea della bellezza e dell’amore sorge da un conflitto immane che coinvolge le potenze del cielo e della terra, mentre questo conflitto genera per l’appunto un mondo. A questo proposito bisogna rifarsi al mito esiodeo della nascita di Afrodite dalle acque così come esso viene narrato nella Teogonia. È un mito che esprime la possibilità e insieme la necessità che si dia un ordine oltre il caos e dunque oltre il terrore nei suoi confronti. Il mito esprime inoltre, al tempo stesso, la necessità che sia il caos a darsi prima della forma, e che sia proprio l’oscurità ove tutto si confonde a esprimere l’ordine del mondo nel suo tratto discreto e luminoso. Esso dice della possibilità che si dia un ordine oltre il magma originario, che si dia una forma capace di sovrastarlo. Esso esprime così anche la possibilità stessa che l’essere sia, che esso, in tutta la sua mirabile e misteriosa contingenza, si distacchi dal nulla. Il caos dell’amore diviene così il motore della propria stessa autochiarificazione. Esso non è solo un sentimento ma una potenza immane dell’essere attraverso il quale quest’ultimo viene alla luce. Per tornare ancora una volta alla narrazione della Teogonia esiodea, il mito narra di come Afrodite sia sorta dal violento sciogliersi, a opera di Crono, dell’amplesso di Urano e Gea, un’unione incestuosa che, facendo coincidere cielo e terra, non consente letteralmente di vedere nulla e tutto trattiene entro di sé. Esso è molto eloquente a proposito del profilarsi dell’essere su di uno sfondo oscuro e conflittuale. L’unione di terra e cielo è alla lettera cecità assoluta, 40

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caos primigenio che occlude la luce e l’individuazione delle forme del mondo. La scena mitica è quanto mai cruda agli inizi per poi cambiare di segno: dalla spuma che fuoriesce dai genitali di Urano, caduti in mare dopo esser stato evirato dal figlio Crono su incitamento della madre, sorge Afrodite, prima spuma delle acque e poi splendida figura della bellezza che trae con sé Eros. Essa viene alla luce dalla schiuma che fuoriesce in mare dai genitali di Urano, sconfigge con la sua nascita il caos e consente, potentissima, che, con il suo apparire, si manifesti anche la possente regolarità dell’essere. Scrive Esiodo: E come ebbe tranciato i genitali con l’acciaio  / li scagliò dalla terraferma nel mare dai molti flutti / così furono portati nel mare per molto tempo, e attorno una bianca  / schiuma sorgeva dall’immortale membro: in essa una fanciulla crebbe; e prima a Citera divina / giunse poi di qui andò a Cipro cinta dalle acque. / Scese a terra la dea veneranda e bella, e l’erba attorno / agli agili piedi cresceva; Afrodite / [la dea nata dalla schiuma e Citerea dalla bella corona] / la chiamarono dei e uomini, poiché nella schiuma / crebbe; ma anche Citerea, poiché giunse a Citera, / e Ciprogenea, perché venne alla luce a Cipro cinta dai flutti/ [e membrofila perché essa nacque dai genitali.] / Eros l’accompagna e il bel desiderio la segue, / da quando appena nata si recò dalla stirpe degli dei; / dal principio lei possiede quest’onore e l’ha ottenuto in sorte / quale fato tra gli uomini e gli dei immortali / discorsi di vergini, sorrisi e inganni / e la dolce voluttà e l’amore di miele29.

La bellezza è dunque desiderabile, suscita amore in fondo poiché promette che il mondo sia abitabile e non una selva oscura e insidiosa: perspicuo e chiaro nelle forme del suo apparire nonostante l’oscurità profonda che pervade il suo fondo. Qui ci si può insediare: le insidie del mondo sono state vinte 41

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dall’apparire di Amore. Per questo Afrodite è eros, oggetto di desiderio intenso, antropologicamente e ontologicamente necessario e inestirpabile. Dall’amore non ci si può allontanare, né ci si deve purificare. In questo quadro esso potrà individuare una propria sistematica, potrà organizzarsi in un ordine dell’eros e dell’essere come testimonia il Simposio platonico che configura, nel discorso di Diotima pronunciato da Socrate, un’escalation nella sublimazione che è anche una gerarchizzazione dell’amore, un suo ascendere di vetta in vetta, dall’amore dei bei corpi, a quello delle belle anime, a quello delle leggi e delle attività umane, e poi delle scienze per venire infine all’amore del bello in sé. In questo contesto l’eros struttura una gerarchia, esso assume una dimensione energetica che a sua volta si istituisce come un’ascesa per cui i passaggi attraverso le diverse forme d’amore rappresentano anche un progresso gerarchico nelle forme dell’essere. L’eros si definisce così in due momenti assolutamente fondamentali del pensiero greco come motivo cosmogonico che determina la strutturazione dell’essere. L’amore è così conchiuso, in questo quadro, o nel temenos, nel recinto del sacro, o in quello dell’archetipo che ne stabilizza le sorti e allontana il dramma dalle vicende che lo riguardano. La modernità determina al contrario una secolarizzazione dell’amore, che lo desacralizza, fa sì che esso lasci dietro di sé gli archetipi per immergersi nella scena mondana. E la secolarizzazione moderna dell’amore ne compromette in fondo le sorti. L’amore incontra così il disordine, si fa passione e arbitrio. Esso appartiene ora insieme alla libertà dettata dall’inclinazione e alla necessità cieca del desiderio. L’amore rovescia così di segno la propria collocazione: esso viene a posizionarsi nel frame del disordine e della cecità della passione sotto l’ombra 42

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minacciosa della trasgressione. Il romanzo diviene in questo quadro il grande testimone di questa instabilità di eros. Alle origini di tutto questo c’è una trasformazione della forma del divino. La concezione del divino si è radicalmente trasformata con il cristianesimo: un nuovo dio è sorto, un dio fanciullo che cresce e che matura, e non è, come Afrodite, sin dall’inizio formato e tutto compreso della sua missione. È anche il dio destinato ad abbandonare la terra dopo un breve e folgorante soggiorno mortale, è il dio dell’infinito rimpianto, il dio il cui ritorno va atteso in saecula saeculorum. L’eros greco, che prevedeva sempre la presenza dell’amato, si trasforma in un eros della lontananza che dalla lirica trobadorica giunge quantomeno sino al Tristano e Isotta wagneriano. Tutta la modernità legge l’amore attraverso questo schermo, intendendolo come passione sempre insatura laddove, proprio su questa via, esso naufraga e s’immerge in quel caos dal quale il mito esiodeo l’aveva sollevato. L’amore moderno eleva malinconici inni alla distanza irredimibile, narra con grande frequenza delle sofferenze dell’abbandono, è schiavo inoltre dell’inclinazione individuale che si confonde spesso con l’arbitrio irrazionale. E la cecità della passione si accompagna per parte sua, contraddittoriamente ma ineluttabilmente, alla necessità incombente della pulsione. Tutto ciò avviene in concomitanza con il fuoriuscire del dio dal temenos del sacro per immergersi nella promiscuità del mondo. L’incarnazione è infatti kenosis, discesa infinita del dio che per amore soffre il distacco dal Padre, che amando si svuota del proprio essere. L’amore trasforma così, sulla base di una così potente metafora, le proprie coordinate e si afferma, come già si diceva, come amore che vive 43

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e soffre (e segretamente forse gioisce) della distanza irredimibile dall’amato. A tutto ciò si aggiunge una nota fondamentale: l’adorazione del fanciullo divino apre al nuovo come a un ideale. In questo contesto non si può non soffermarsi sul Prologo del Vangelo di Giovanni, che aggiunge molto di decisivo a quanto sopra si diceva. Nel Prologo giovanneo si annuncia il tema del conflitto, della disarmonia come motivo del sorgere del creato. Qui emergono anche le ragioni profonde di una radicale modifica dell’amore che apre anche a una vera e propria rivoluzione concernente i principi dell’essere, dunque del vivere e del sentire. Giovanni, come ben sappiamo, afferma che: In principio era il Verbo, / e il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio. / Egli era in principio presso Dio: / tutto era stato fatto per mezzo di lui,  / e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste, / In lui era la vita / e la vita era la luce degli uomini; / la luce splende nelle tenebre, / ma le tenebre non l’hanno accolta (Gv 1, 1-5).

Se il mondo greco aveva così pensato a un unico principio generatore che si raccoglieva nella physis, ecco che ora si apre un altro orizzonte: la luce e le tenebre non sono solo antagoniste e nemiche ma in fondo anche alleate nel dar luogo al chiaroscuro del mondo. Come rileverà Victor Hugo nella Préface al Cromwell, le cose del mondo non vanno come vorrebbe la levigatezza dell’ideale classico che anela a una realtà nitida, monotonamente limpida e perspicua nelle sue forme, ma si profilano secondo un andamento ad alti e bassi, un passo chiaroscurale dove il sublime si congiunge al grottesco. Inoltre la duplicità polare dei principi dal cui conflittuale incontro deriva un terzo, le cui caratteristiche non sono prevedibili sulla base della polarità 44

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di partenza, illumina a distanza il significato del dio fanciullo facendone la metafora del nuovo, la promessa di un tempo di avvento e di rigenerazione. Emerge così definitivamente lo schema dell’amore moderno che non solo è un inno alla lontananza ma anche all’evento del nuovo che si afferma come valore. L’amore moderno per così dire inventa una visione del mondo fatta propria ed elaborata a fondo, sul piano delle poetiche, in primo luogo dai romantici tedeschi. Essa guarda alla fine del tempo come a un totale messianico rinnovamento. È così che proprio il romanticismo tedesco, del quale siamo largamente eredi e debitori, pone al proprio centro l’evento del novum come cardine di una nuova estetica che fa propri ed enfatizza i principi della filosofia della storia illuministica intesa come progresso e avanzamento, e schiude così un cammino che di qui conduce sino all’avanguardia storica. Siamo così figli del nuovo e dell’imprevedibile. Ma siamo diventati figli pensosi, molto meno ottimisti di quanto non lo fossero i nostri antenati, dubbiosi e scoraggiati rispetto al fatto che l’impari conflitto tra la luce e le tenebre generi nuovamente l’accecante bellezza del fanciullo divino.

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FANTASMI, FANTASMAGORIE, AGNIZIONI. A PROPOSITO DI REGARDS DI BOLTANSKI

Necessitiamo sempre più di agnizioni e riconoscimenti. Non c’è investimento che non trascorra attraverso un terzo, un polo libidico grazie al quale prendono forma e si incarnano i due che, senza il terzo, non sussisterebbero. Soltanto dando corpo a un simbolo, e così rendendo il nostro un corpo simbolico, siamo noi stessi, e noi stessi in questo corpo. La scaturigine della memoria è quel corpo simbolico da cui defluiscono nel tempo linfa e sangue. Il corpo simbolico è costruzione di identità, dunque invenzione del nostro passato tra i mille, e così, in prospettiva, invenzione pregnante del futuro. Tutto questo ci rinvia a una questione di radici e di evanescenze delle medesime che è l’unicum veramente in questione richiesto dal tempo come nutrimento simbolico e reale. Niente è più necessario di sapere chi siamo, donde veniamo, dunque quali siano gli oggetti patici cui facciamo riferimento. Forse null’altro siamo che un incontro di narrazioni. Il tempo percorre inesausto le nostre esistenze nel tentativo di congiungere l’high and low, la Storia e le storie infinite delle nostre vite. È questa la tragedia della storia e della storicità stessa. Mai confluiranno l’high and low, la storia alta e le storie basse degli pseudo-protagonisti di un processo cui molto raramente si appartiene davvero. La tragedia dell’Olocausto si staglia in questo contesto esemplare come il dramma per eccellen46

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za della contemporaneità. È il più disperante dei territori anche perché è quanto mai difficilmente simbolizzabile. Non c’è infatti identità nel dolore ma, solo, eventualmente, nella condivisione di esso. Non è un caso che la vicenda dell’Olocausto ci guidi paradossalmente in direzione di una riflessione sulla monumentalità che è anche un’autoriflessione del monumento intorno a se stesso. Cos’altro infatti è il monumento se non il punto di incrocio impossibile di due asintoti, dell’idea che la storia individuale possa mai congiungersi a quella collettiva? Punto di incrocio impossibile laddove la storia individuale non si piega a una logica che la sovrasta, mentre la storia collettiva è segnata da quel percorso tra le rovine di cui parla Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia. I due itinerari non possono dunque incrociarsi e volerli forzosamente congiungere, come ci insegnano Boltanski ma anche Peter Eisenman. Farlo significa collocarsi dalla parte degli oppressori. Il loro intersecarsi a ogni costo è scaturigine dell’anima più profonda della furia persecutoria del nazionalsocialismo che in questo consiste, nella falsa donazione di un’identità che non sussiste, nel dire che i molti sono uno quando continuano a essere, già di per sé dolorosamente, molti. L’identità delle vittime riverbera da uno sguardo lontano luminoso, come avviene in Regards. Ogni vittima appartiene infine solo alla propria storia, che non è simbolizzabile. La vittima è colui/colei al quale l’identità viene negata in forza di una violenza materiale che spezza il vincolo simbolico. È questo il dramma di una modernità sempre più antica, minacciata, tarda e stanca che procura false identità le quali non sono infine donazioni di quell’identità autentica che non è un unico, ma sempre un molteplice che si fa uno. Ciò avviene dopo una/ 47

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la storia, dopo una vicenda orrenda che avvolge i singoli che vengono arbitrariamente accomunati da inquietanti estranee bandiere. I volti di Boltanski sono questo e contrario: un’identità post hoc, quella eticamente richiesta dalla vicenda personale che è troppo privata per essere consegnata alla Storia, al Regime, a ogni regime di senso. Perlomeno da questo punto di vista proprio questi volti sono i silenziosi fratelli degli altrettanto silenziosi parallelepipedi di Eisenman nel Mahnmal all’Olocausto situato, come ben sappiamo, presso il Reichstag e nelle vicinanze della porta di Brandeburgo a Berlino. È un memoriale composto di asimmetrici parallelepipedi che segnano vie che si possono percorrere in mille modi, ognuna simbolo di una storia collettiva che non esiste se non per i torturatori, e che solo lo spettatore-attore può ridestare iuxta propria principia narrando, con il proprio cammino nella selva dei parallelepipedi, le relazioni negate reintroducendo così il caso e la libertà. Anime dunque. Di luogo in luogo. L’anima salvaguarda la vita. La psyché è animazione, soffio vitale, il principio di ogni vivente, e si estende attraverso di questo, così che, in fondo, offendere una vita significa offenderle tutte. Anima è anche humus vitale, il principio di ogni vivente il quale è scaturigine di una comunità, movimento aggregante della vita stessa. A ben vedere di nulla siamo più responsabili che della nostra provenienza. È quanto suggeriva Jacob Burckhardt nella Storia della civiltà greca a proposito dei Mongoli che fuggivano dinanzi al nemico senza combattere salvo che questi insidiassero le loro tombe. È quanto ci rammentano oggi i vividi fantasmatici occhi di Regards che ci invitano a non compiere il tradimento supremo dell’oblio, nel quale ne andrebbe di loro non meno che di noi. 48

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Gli sguardi di Regards testimoniano di questa permeabilità del passato che avvicina le sponde dello Stige e rende irrimediabilmente lecito quanto è interdetto dalle logiche di un cattivo Illuminismo, greco e moderno. Davvero, per dirla con Hegel, nulla è più difficile che “tenere fermo ciò che è morto”. Il cadavere è un reperto osservativo che funge da modello di una considerazione obiettivante del mondo. Esso è in fondo il residuo ideologico, peraltro molto concreto e reale, della morale fittizia, quella che ipocritamente pronuncia la sentenza della morte, la quale tuttavia sovrasta ineluttabile i vivi con ben altro sguardo. I Regards di Boltanski, che riemergono dal carcere dell’Ade, sono lì a testimoniarlo. E a testimoniarlo non solo come espressive, delicate tenui presenze di ciò che è stato, ma anche come muti fattori di uno spazio pubblico rinnovato, quanto mai eloquenti proprio nel loro riserbo. In breve per far rinascere la storia ci vogliono i fantasmi. Le mute presenze evocate da Boltanski, dotate di un dolcissimo sguardo che ci avvolge a distanza, erodono i sigilli che suggellano le porte di Acheronte. Si ridestano le anime che chiedono di essere assegnate a un’altra storia. Con questo passo si ricongiungono, quantomeno post hoc, due lembi del tragico iato che separa la storia dalle vite individuali. Su questa via si rinnova interiormente lo spazio pubblico. Così facendo si dà seguito al destino delle immagini. Che si abbarbicano tenaci, come fanno i bimbi con il corpo materno, a quello di ognuno di noi.

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DREAM, GEIST. STRATEGIE DEL REGNO

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Il sogno e il Regno Ogni immagine, anche il sogno dunque, è un progetto. Da questo punto di vista ogni immagine è influente, perfettamente razionale e del tutto strutturata. Quando un’immagine non realizza il suo sogno, ciò dipende esclusivamente da un difetto delle tecnologie del momento cui nel futuro si porrà, o si spera di porre rimedio attraverso tecnologie più adeguate. Il Dream è sempre pronto, per dirla con Hegel, a farsi Geist, spirito vivente. L’immagine è un reame che attende di definire i propri confini, e conduce con sé sempre un conflitto tra poteri e potenze. Non a caso anche il percorso di questa mostra si inoltra con forza nelle angosce primigenie per promettere un nostos, un ritorno, un luogo nel quale ci sia consentito riconoscerci poiché ci è famigliare, ed è nostro. Ogni luogo è così, quantomeno inizialmente, anche in forza di questa malinconica aura domestica, un’immagine di sogno: promette un’agnizione. Se così non fosse, non sarebbe un luogo. Piccolo o grande che esso sia, ogni sogno vuole insediarsi e non ammette di non farlo. È del resto questa un’eredità dell’Occidente cristiano che ha profonde ricadute per quanto riguarda le politiche e/o le strategie dell’immagine. Sempre di 50

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nuovo si ripete sotto le forme più diverse uno stesso schema: l’immagine emerge e si annunzia come una promessa: la fonte originaria è quella della nuova parousia del Cristo. Egli non tornerà che per affermare definitivamente la sua sovranità, la quale per altro verso si è già instaurata. Il Regno è stato fondato infatti al tempo della prima venuta del redentore. In questo contesto non c’è dunque trascendenza nel senso verticale del termine. E anzi, intesa in questo senso, la trascendenza è sin dalle origini un equivoco. Alle origini essa è, per dirla in termini figurativi, in orizzontale, dinanzi a noi. È il sogno che deve insediarsi e che così ineluttabilmente farà. Ma c’è ben di più a proposito dell’annuncio originario del Regno. Se la Grazia di Dio è ovunque in ragione della venuta del Salvatore, non resta che affermare che questo, in cui siamo e viviamo, è il Regno di Dio che minaccia ogni altro potere mondano. Immense frustrazioni dovute essenzialmente al non avvenuto ritorno del Messia renderanno tutti più cauti, e invertiranno la traiettoria della trascendenza collocandola in orizzontale. Ma la cosa è in fondo ridicola. Non c’è, a ben vedere, trascendenza che non sia innanzi tutto un Tu. Il sogno è dunque originariamente e sempre una sfida, e il campo di lotta è questo mondo sul quale scorrerà sangue vero. Come si diceva, è un gioco delle potenze. Un gioco la cui mossa originaria è già sempre l’ultima: null’altro e nulla di meno è la posta in gioco che il Regno di Dio, la vita che non conosce morte e entropia. Ben lo sa il giovanissimo Hegel quando si congeda, al collegio teologico di Tübingen dai suoi compagni e amici Hölderlin e Schelling con la frase di commiato «Il regno dei Cieli!». È esso il pegno futuro. È indubbio per altro che il Regno si è già insediato: i suoi lineamenti non sarebbero 51

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altrimenti riconoscibili, e non ci si potrebbe neppure intendere circa cosa davvero stiamo sognando. Il sogno è dunque costantemente rêverie del Regno che impelle. È un sogno che s’impone, che chiede legittimazione e riconoscimento. Sogno onnipotente e creativo, e tuttavia angosciato, come rileva con grande saggezza Freud in Il poeta e la fantasia. Sotto le vesti dell’arte – verrebbe da aggiungere: di ogni mitopoiesi – si cela, agli occhi di Freud, l’onnipotenza del soggetto creatore. L’immagine dunque non è mai innocua, il sogno non è mai mera parvenza. Sognando, per tornare a Freud, desideriamo essere riconosciuti nella nostra quiddità unica, ineffabile. L’immagine è una struttura dell’autoriconoscimento. La mitopoiesi è la forma moderna grazie alla quale si attribuisce a un soggetto un luogo. Quello regolato dalla nostra legge. Il sogno è dunque potente, regale, vuole affermarsi sulla e nella vita, disegnarne i luoghi, addirittura attribuirli ai soggetti di competenza. Esso vuole la sovranità, produrre il regno dai confini invalicabili e sempre integri. Il Regno è inconcusso per antonomasia: è la vita senza entropia, esentata dalla morte. Identità del Regno Ogni Dream è dunque Geist, ogni sogno vuole incarnarsi e divenire spirito vivente. Ogni sogno del regno è quello di un’identità possibile e insieme definitiva. Non c’è sogno che si soffermi sulle soglie dell’apparenza: di volta in volta esso è un progetto (talora ancora tecnologicamente carente). L’attesa messianica si rinnova nel tempo storico come ha ricordato Giorgio Agamben30. E le inquietudini del sogno si accompagnano a quelle del Regno. La 52

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potenza eversiva originaria del kerygma, dell’annunzio cristiano, si riversa nel tempo lungo di una miriade di trasformazioni che si riverberano infine anche nelle famose parole di Karl Marx nell’Ideologia tedesca, secondo cui il comunismo è il sogno di qualcosa cui manca solo la coscienza per poterlo realizzare31 – che ribadiscono l’assoluta consistenza del sogno. È questo il sogno che si fa consapevolmente realtà effettuale e vivente. Tra Hegel e Marx, al di là di ogni apparente atteggiamento critico del secondo nei confronti del primo, non vi è stacco a questo livello: lo spirito (e così pure il sogno) o è vivente, o non è. Il sogno dunque null’altro è – secondo quanto già si diceva – che una forma dell’immaginario che progetta e cerca le vie propriamente tecnologiche per realizzarsi. Ogni sogno ha dunque a che fare con il realizzarsi e il rinnovarsi di un’identità che è una legge del luogo. Le contraddizioni naturalmente non mancano. L’accelerazione temporale moderna produce sempre più la necessità di immagini-guida, le quali sono per così dire travolte dalla stessa velocità con cui vengono proposte per affermare il loro di volta in volta nuovo dominio. Ognuna di esse divora l’altra e diviene in breve obsoleta, mentre altre s’insinuano in suo luogo con una sempre maggiore velocità che è il segno o meglio il sintomo di quanta necessità ci sia di esse, e di quanto i soggetti siano implicati in questa tanto produttiva quanto nevrotica ricerca di identità. È l’universo dei nonluoghi, del Regno catafratto. Davvero non c’è freno, e sempre più la domanda di identità si incrementa a ridosso della sua ritmica obsolescenza. Davvero, a riprendere Calderon, la vita è sogno, e il sogno – aggiungiamo noi – si fa mondo. Il mondo nel quale viviamo è popolato di immagini che sono sogni deteriorati: è questa la “società dello spettacolo”, un universo attraversato da immagini53

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guida che scorrono confuse l’una sull’altra. Anch’esse restano tuttavia un sogno creativo (anche se quanto mai caduco) che prende piede nell’immane mercato delle identità. In breve è di volta in volta in questione, proprio sul mercato delle “identità liquide”, la ricchezza più grande: sapere chi siamo al fine di non perderci più. La mitopoiesi artistica è il crisma di questo gioco che è ben più grande di lei. Ogni gioco dell’identità è per altro mitopoietico – ma solo l’arte sa giocarlo davvero mettendone a giorno l’intensità di gioia e sofferenza. Dinanzi a un cammino tanto estremo non può non affacciarsi in tutta la sua antica attualità la metafora antica del katéchon, del «potere che frena» evocato da San Paolo (nella Seconda lettera ai Tessalonicesi 2, 6-7) che ha intensamente impegnato di recente la riflessione filosofico-politica italiana32. Essa si abbatte con una attualità davvero sorprendente su di un mondo pervaso da rancore e nostalgia per il tempo che fu, dominato da nazionalismi, da localismi quasi vernacolari. Il sogno sognato si è ora trasformato: il desiderio del Regno, della vita eterna e perfetta si è pervertito nel suo opposto: nel trionfo delle spinte entropiche che cercano disperatamente una forma che le racchiuda e ne freni la deriva verso la morte. Lo spirito ha invertito la sua rotta: si è ora fatto spazio onirico mentre il sogno è dimentico dello spirito vivente che da sempre lo ha nutrito. Le spinte entropiche sono del resto in fase di incremento già dalla prima modernità a voler percorrere in un attimo un arco di tempo che va dalle poetiche del primo romanticismo tedesco per culminare nel grande saggio di Ernst Jünger, La mobilitazione totale. È un percorso lunghissimo quello che viene a proporsi e quanto mai significativo per cogliere quello che sta ora accadendo. Non bisogna dunque, a questo pro54

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posito, lasciarsi ingannare dall’immensa accelerazione temporale che ha coinvolto il nostro tempo. In realtà il panorama odierno non è affatto inedito, ma si prepara in un tempo lunghissimo, quasi bimillenario.

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Rarefazione del Regno Sin dall’inizio le immagini sognanti sono inquiete. Altrettanto fragili e instabili sono le strutture del Regno. Anche la nostra instabilità politica viene da lontano: deriva in fondo da quel sommarsi, nella figura divina di Cesare, del potere del tribuno e di quello di pontefice massimo. È un paradosso, connesso alla figura del sovrano del tutto contingente, reso possibile dal suo incarnarsi nella persona di Cesare. Abbiamo a che fare con sogni instabili e con fragili regni33. Ogni sogno dichiara in fondo la potenza dell’Io che vuole identificarsi nelle sue costellazioni. Il nostro mondo potrebbe essere identificato come l’esito ultimo di queste esplosioni che ci inducono a produrre sempre più immagini di sogno, disperse sul pianeta sotto forma di bandiere, T-shirt, selfie, lusso, umili oggetti d’uso, patrie, dialetti in un profluvio di immagini mediate tecnologicamente le quali dovrebbero attestare la nostra identità, il nostro luogo. L’identità, il bene supremo, è divenuta il prodotto di un immane mercato che la riproduce nella consapevolezza di rispondere a una richiesta tanto più intensa quanto più è disorientata. Va dunque assolutamente rilevato che la più grande impresa oggi presente sul mercato, la multinazionale più diffusa è quella della produzione di identità. Proprio quest’ultima è la merce più richiesta e, di conseguenza, anche quella più prodotta. In tutto questo la mitopoiesi è impazzita ma è pur sempre mitopoiesi artistica. Attraverso le 55

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forme del visibile ci viene detto chi siamo. Tuttavia l’abito non calza mai e bisogna dunque farne un altro. È la logica inflessibile del mercato delle identità. Il richiamo del Regno resta nondimeno suadente. È il sogno eterno dell’anello che tutto/tutti congiunga che giunge da lontano. È il Ring che unisce gli sguardi e le volontà volgendole in direzione di un unico fuoco, è l’anello che le piega a un punto di vista comune. Ma l’anello è andato irrimediabilmente in frantumi, e con esso il katéchon, il potere che frena: esso conteneva gli sguardi divergenti entro un unico orizzonte. Combinava nelle proprie icone a tutti note le attese di ognuno rendendole universali. Finita quest’epoca, bisogna ora imparare a sognare nuovamente, e a sognare diversamente, a escogitare nuovi passaggi e vie della mitopoiesi simbolica.

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MODIFICAZIONI DELL’INFINITO

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Forme dell’infinito L’infinito si dice in molti modi. È l’immensità degli spazi celesti, è l’infinito della serie numerica, quello dell’amore, e ce ne sono ancora molti altri. C’è poi un infinito verticale e un infinito orizzontale. C’è un’infinità che si cela all’occhio umano, e che è il principio ultimo di ogni cosa, e c’è un’infinità che costituisce l’esito agognato di un anelante cammino. Ci sono poi categorie che peculiarmente appartengono al finito, come quelle di forma, determinazione, limite, e categorie che appartengono all’infinito, come quelle di caos, divenire, illimitato. La prima forma dell’infinito, quella «verticale», che rinvia a un principio creatore trascendente, appartiene prevalentemente all’antichità e al Medioevo mentre la seconda, quella “orizzontale”, sulla quale si verrà tra breve, al mondo moderno. Inseguire l’infinito è in ogni caso una delle prerogative dei Moderni che vogliono ritrovarlo rincorrendolo nel tempo dopo averlo perduto negli spazi eterni. La fascinazione dell’infinito aumenta in corrispondenza con la fuga delle divinità dalla natura sensibile e con l’emergere di un Dio che si è ritratto nei più nascosti recessi celesti. La vertigine dell’infinito non esercitò invece un richiamo per gli Antichi che temevano di essere attratti al suo interno e annientati nella sua voragine 57

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uterina. Non a caso la bellezza greca è compiutezza formale, specificazione del limite che si fa principio della distinzione della forma. Le divinità olimpiche tutelano, Zeus regnante, un ordine che è contrario a ogni forma di eccesso. Che è refrattario nei confronti di ciò che è smisurato e imponderabile, dunque, naturalmente, dell’infinito. L’esuberanza turbolenta, è ben vero, viene talora riammessa in una forma eccezionale, dopo esser stata estromessa dal piano nobile. È quanto avviene con i culti dionisiaci. Ciò nondimeno per i Greci solo ciò che è finito può esser dotato di regolarità e perfezione, può dunque essere bello. L’infinito rappresenta infatti una minaccia. Per esempio, i numeri irrazionali vengono esclusi dall’orizzonte delle ricerche, dai Pitagorici, poiché proseguendo si giungerebbe a numeri dotati di una sequenza interminabile e comunque non regolare. È questo il caso della radice quadrata di due. Come rileva Paolo Zellini, giungiamo così ai confini minacciosi del nulla che costantemente lambisce l’idea di infinito: «Un numero irrazionale sembra comunque sprovvisto di un’esistenza attuale: esso non può essere esibito come l’insieme di “tutte” le sue cifre»34. La perfezione antica coincide dunque con l’idea di un cosmo finito. Esso non sarebbe per altro un cosmo se non fosse finito. Solo ciò che è finito, infatti, può essere morfologicamente perfetto. L’ideale della bellezza, che rinvia alla compiutezza cosmica, compete dunque solo a ciò che è ben raccolto entro i propri confini. E sempre questo sarà per altro la bellezza. Non c’è, infatti, bellezza senza limite. La sua stessa fascinazione verrebbe meno se la bellezza non ci indicasse il confine, l’orizzonte, l’habitat che ci è stato assegnato. Tuttavia, dinanzi a ogni bellezza, che si tratti di un 58

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essere vivente, di un paesaggio o di un’opera d’arte, rinasce ineluttabilmente il più contraddittorio degli interrogativi: come può qualcosa di finito risplendere di una luce infinita? Come può il limite contenere l’illimitato? Ogni bellezza configura così un paradosso. Questo è per altro insito anche nel racconto esiodeo della nascita di Afrodite la quale, se pure non proviene dall’infinito, è comunque generata da una situazione caotica originaria che si piega poi alle ragioni della forma attraverso un immane e sanguinoso travaglio. Il mito esiodeo affidato alla Teogonia, narra, lo sappiamo bene, di come Afrodite sia sorta dalle acque a seguito della violenta interruzione, a opera di Crono, dell’amplesso di Urano e Gea, un’unione incestuosa e insieme caotica. Indubbiamente anche caotica poiché se cielo e terra si congiungono non c’è spazio per l’orizzonte, dunque per il sorgere di tutti gli esseri viventi e non viventi nella loro irripetibile singolarità. È inutile dire che la narrazione mitica dell’unione di Urano e Gea ci conduce nei pressi dell’infinito. Il caos, infatti, è il parente più prossimo dell’indeterminato mentre l’infinito è ciò che per essenza è privo di definizione. Afrodite inaugura così il regno della forma e della misura e annunzia la sua auspicabile vittoria sull’indeterminato. Sorgendo dalle acque essa dà luogo a un mondo non più caotico, bensì chiaro nei suoi lineamenti, perspicuo nelle sue fattezze, dunque abitabile e ordinato. È questo che rende attraente la bellezza e che ne fa in fondo anche un ideale ecologico. La bellezza esercita, infatti, sin dalle origini su di noi la sua potenza e la sua fascinazione poiché ci invita a radicarci e a creare un mondo nuovo, a riprodurre qui e non altrove le nostre vite. E dunque a guardare con rispetto ai delicati equilibri che sono venuti creandosi (ciò, naturalmente, non esclude affatto che la bellezza sia ambigua, dotata di un volto di Giano bifronte, che 59

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essa possa sempre esibire il suo volto infero e crudele lasciandolo emergere inaspettato da quello accogliente. La bellezza, in breve, può ricondurci nel caos dopo averci salvato da esso). È dunque del tutto naturale che, passando dal mito alla filosofia, Anassimandro, che propone l’infinito come un principio caotico dell’essere e come sua ragione ultima, lo definisca come l’ápeiron, l’indeterminato. L’infinito assume in questo quadro una posizione fondamentale, che in fondo non smetterà più di avere, quella di principio delle cose finite. Ma le insidie dell’infinito sono troppo potenti per intenderlo come semplice possibilità delle cose finite. I filosofi eleatici rivendicarono la compiutezza dell’essere e i paradossi che derivano dall’accogliere la pluralità degli enti e il divenire. Si rammentino i paradossi di Zenone sull’infinito, come quello famosissimo su Achille e la tartaruga, per cui Achille, in corsa con la tartaruga, non la raggiungerà mai in quanto questa, avendo a disposizione un certo vantaggio in partenza, si troverà sempre su di un punto della linea che sta oltre quello in cui si trova Achille. Il cristianesimo erediterà l’idea dell’infinito come principio teologizzandolo. Con il Dio cristiano abbiamo a che fare con una divinizzazione dell’infinito che era sconosciuta al mondo greco il quale pensava il divino e la perfezione nelle forme della finitezza. Saranno, nel terzo secolo, i Padri cappadoci Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa a pensare Dio nei termini di una perfezione infinita, mentre sarà Tommaso d’Aquino a proporre l’infinità di Dio come conseguenza della sua perfezione rovesciando così completamente, quantomeno a questo riguardo, i presupposti che reggevano il pensiero antico35. In questo vastissimo cammino l’infinito si verticalizza: non è l’infinito dei numeri, non è l’incontenibilità del divenire che si disperde in 60

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mille infiniti rivoli, non è l’esuberanza eccessiva che produce l’informe ma è invece l’immagine adeguata, e tuttavia inaccessibile, della perfezione divina. L’infinito produce una verticale che dagli impenetrabili misteriosi recessi celesti conduce sino all’universo mortale da noi tutti condiviso.

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Specchiarsi nell’infinito Da questo punto di vista la bellezza e l’opera d’arte possono proporsi come una sorta di compensazione, come il ricettacolo finito e visibile dell’invisibile36. Su questa base la bellezza moderna tenta talora di farsi carico del supremo dei paradossi. Quello di avvolgere in una forma finita un contenuto infinito. Abbiamo così a che fare con una forma che rischia la frantumazione per l’eccessivo carico e che deve rinascere dalle sue stesse ceneri immensamente rafforzandosi, realizzando così uno sforzo eroico. Null’altro sono le poetiche del sublime, in fondo, che un’estrema testimonianza di questa immensa fuga dei contenuti dalle forme che lasciano un soggetto solo e svuotato a resistere contro il destino, contro l’immane emorragia che ha preso il posto di quello che un tempo era il cosmo. Il sublime, da Kant a Friedrich, non riflette che questo sentimento di anelito all’infinito che testimonia la sua irrimediabile perdita, mentre la soggettività si ritrova a coltivare nella solitudine il conflitto che l’ha generata. Goethe ci invita in questo contesto ad abbassare lo sguardo verso terra per ritrovare l’infinito che sembrava scomparso definitivamente nei recessi dell’ineffabile e della lontananza. E descrive così, nello Studio su Spinoza, il generarsi delle forme naturali (ma anche di quelle artistiche) in termini che richiamano il modo nel quale un biologo come Gerald Edelman 61

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definisce il meccanismo delle sinapsi del cervello, un gioco potenzialmente infinito di combinazioni possibili che non possono essere previste a partire dalle componenti originarie. È l’infinito combinatorio, artistico ancora prima di farsi arte. Veniamo a Goethe:

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Il concetto di Esserci e di perfezione è un unico e uno stesso concetto; se seguiamo questo concetto tanto quanto ci è possibile, diciamo che pensiamo l’infinito. L’infinito, però, o l’esistenza perfetta, non può essere pensato da noi. Possiamo solo pensare cose che o sono limitate, o vengono limitate dalla nostra psiche. Abbiamo dunque un concetto di infinito in quanto possiamo pensare che c’è un’esistenza perfetta al di là della capacità di apprensione di uno spirito limitato. Tutte le esistenze limitate sono nell’infinito, e pure non essendo parti dell’infinito partecipano piuttosto dell’infinità […]. Ciò che chiamiamo parti di un essere vivente, è talmente inseparabile dal tutto che le stesse parti possono essere comprese soltanto nel e con il tutto; e né le parti possono essere adoperate come misura del tutto, né il tutto come misura delle parti. Perciò, com’è stato detto precedentemente, sosteniamo che un essere vivente limitato è partecipe dell’infinito, o meglio, ha qualcosa in sé d’infinito, qualora non si voglia sostenere che non si possa interamente comprendere il concetto di esistenza e perfezione dell’essere vivente, anche di quello più limitato, e che quindi si debba ritenerlo infinito come l’immenso tutto in cui le esistenze sono comprese37.

L’infinità goetheana si configura dunque come le infinità delle relazioni possibili che intercorrono tra gli enti nel quadro di un modello olistico. È un modello straordinariamente attuale, anche dal punto di vista artistico, sul quale torneremo alla fine di queste considerazioni. L’età di Goethe inseguirà per altro con pervicacia la possibilità contraddittoria di assegnare al finito 62

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un contenuto infinito. È la questione del simbolo che dividerà Hegel e i romantici, laddove questi ultimi riterranno che l’opera d’arte possa riferirsi adeguatamente all’infinito, mentre Hegel negherà con sarcasmo l’idea che la verità infinita possa oggi realizzarsi davvero in chiave mitopoietica e simbolica. I romantici furono tuttavia molto meno ingenui di quanto Hegel li ritenesse. Essi furono ben consapevoli che il loro esperimento poteva tutto sommato riuscire poiché, rispetto all’infinito e alla trascendenza, stavano introducendo un vocabolario nuovo. Le strutture della trascendenza perdono ai loro occhi il significato di principio dell’essere per assumere quello di termine ultimo di un’agnizione impossibile. L’infinito diviene su questa via il termine di un lunghissimo cammino, di un’«infinita approssimazione». È su questa via che si muove, negli ultimissimi anni del Settecento e nei primissimi dell’Ottocento, il primo Romanticismo tedesco, quello della cerchia di Jena. E bisogna subito dire che la trasformazione dell’infinito produce per parte sua una miriade di conseguenze molto concrete: fra le altre, sentimenti e forme poetiche nuove. L’amore romantico non è pensabile, infatti, se non sulla base dell’ideale di una reciproca agnizione degli amanti che avverrà, oltre tutte le peripezie terrene, nella fine messianica dei tempi. Questo potenzia e depotenzia insieme l’amore. L’amore che è impossibile qui e ora, proprio in quanto la sua volontà di eternizzarsi è provvisoriamente vinta dalla morte, ci induce a guardare alla vita dal punto di vista di uno sguardo ultimo. Il capolavoro romantico che ci insegna tutto questo è lo Heinrich von Ofterdingen di Novalis, il grande romanzo che tratta come di un unico tema dell’amore e della poesia. La narrazione è alimentata da uno sguardo visionario, che si colloca alla fine 63

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dei tempi, in un territorio trasfigurato in cui non si danno più separazioni tra gli esseri, nel quale tutto è in uno e uno è in tutto. La notte degli amanti si celebra nel romanzo novalisiano, non ora, nell’imeneo terreno, ma alla fine dei tempi. La morte di Matilde è il malinconico preludio del realizzarsi compiuto del vincolo dei due innamorati che si trasfonde su tutto il creato. Il realizzarsi dell’amore al di là della morte costituisce, poi, la premessa per il sorgere di un mondo trasfigurato, per la “poetizzazione” del mondo. L’amore che trasfigura poeticamente il mondo ci consente così di accedere all’eschaton e di produrre una visione impossibile, che proviene dalla fine dei tempi, dall’apocatastasi ove tutto si rinnova per tornare allo stato originario. È uno sguardo paradossale, come si diceva, che non coincide naturalmente con quello dello spettatore attuale, ma proviene da una terra ove tutto si è arrestato e ogni inquietudine è messa a tacere. Ogni essere è qui compenetrato da tutti gli altri, e tutto è in tutto. È un occhio visionario, “impossibile”, quello che scruta l’orizzonte, è uno sguardo ideale che anticipa lo spettatore fisico: Non più distinti, Enrico e Matilde Si confusero in un’unica immagine. […] Irrompe il mondo nuovo E oscura la più viva luce di sole, […] E quanto, prima, era quotidiano Appare nuovo e portentoso. Uno in tutto, e tutto in uno, L’effige di Dio nell’erba e nelle pietre. Lo spirito di Dio negli uomini e nelle bestie, Questo si deve indurre nei nostri animi. Più nessun ordine di tempo e di spazio, Qui l’avvenire dentro al passato. Il regno di Amore è fondato, Favola comincia a filare.

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[…] Tutte le cose devono penetrare l’una nell’altra, l’una deve attraverso l’altra attecchire e maturare; Ciascuna cosa in tutte le cose si figura, […] Il mondo diventa sogno, il sogno mondo38.

L’infinito “in orizzontale” non è così, già per Novalis, solo l’infinito dell’amore (romantico) che si traduce in poesia ma anche quello della poesia romantica, che si traduce a sua volta in amore, nel vincolo che fonda, avvolge e tiene congiunto tutto l’essere. Questa infinità può così divenire l’elemento costitutivo del nuovo epos prodotto dalla poesia romantica, come ci rammenta Friedrich Schlegel in uno dei suoi frammenti più famosi, il 116 dell’“Athenaeum”, la grande rivista del primo Romanticismo tedesco. La poesia romantica è così una poesia infinita, votata a un eterno divenire: La poesia romantica è una poesia universale progressiva. Il suo scopo non è solo quello di unificare nuovamente tutti i generi separati della poesia e di porre in contatto la poesia con la filosofia e la retorica. Essa vuole, e deve anche, ora mescolare ora fondere, poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia della natura, rendere la poesia vivente e sociale e la vita e la società poetiche, poetizzare l’arguzia e riempire e saturare le forme d’arte con la più pura materia culturale d’ogni specie e animarle con slanci di humor. Essa comprende tutto ciò che è solamente poetico, dal più grande sistema dell’arte, che a sua volta comprende in sé altri innumerevoli sistemi, al sospiro, al bacio che il fanciullo poetante esala in un canto spontaneo. […] Il genere poetico romantico è ancora in divenire; anzi questa è la sua essenza peculiare, che può soltanto eternamente divenire e mai essere compiuto. […] Esso non può essere esaurito da alcuna teoria, e solo una critica divinatoria potrà osare di voler caratterizzare il suo ideale. Esso solo è infinito, così come esso solo

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riconosce come sua prima legge che l’arbitrio del poeta non tollera alcuna legge39.

Questa poesia fa i conti con una particolare forma dell’infinito, quella dell’indeterminazione e del caos, con il sentimento di disorientamento e di estrema frammentazione di un’età minacciata nei propri ordinamenti e nelle proprie stesse coordinate di senso da un evento come la Rivoluzione francese. È un’epoca che la poesia romantica vuole riassumere titanicamente nel suo seno. La definizione romantica della modernità estetica è, così, lucida e contraddittoria insieme. Dinanzi a un tempo votato alla dispersione, della quale sembra essersi impadronita una forza centrifuga infinitamente potente che distrugge gli ordinamenti consacrati, che non conosce più gli universali, che fra l’altro, sul piano artistico, non vuole più riconoscere la tradizionale partizione dei generi letterari, si rende necessario il sorgere di una superforma plastica, quanto mai potente, in grado di accostare la particolarità sempre più minuta e dispersa e di riassumerla nel proprio seno. È una forma insieme malleabile, leggera e potente, che intende chiudere un’altra volta il cerchio intorno a un mondo che sembra ogni volta sfuggirle in quanto è diventato troppo veloce, troppo mobile e convulso, eccessivamente dominato dall’enfasi dell’accelerazione temporale40. La poetizzazione romantica del mondo è così un tentativo, consapevolmente caduco, di muovere scacco all’infinito attraverso un’infinita totalizzazione poetica. In un altro passo dello stesso frammento Schlegel scrive ancora della poesia romantica: Essa comprende tutto ciò che è solamente poetico, dal più grande sistema d’arte, che a sua volta comprende

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in sé altri innumerevoli sistemi, al sospiro, al bacio che il fanciullo poetante esala in un canto spontaneo. […] Solo essa può divenire come l’epos uno specchio di tutto il mondo circostante, un’immagine dell’epoca. E tuttavia essa può, meglio d’ogni altra, anche librarsi sulle ali della riflessione poetica a metà tra l’oggetto rappresentato e il soggetto rappresentante, scevra da ogni interesse reale e ideale, potenziare sempre e di nuovo tale riflessione e moltiplicarla come in una serie interminabile di specchi41.

Tornare a Tolomeo Alla luce della considerazioni precedenti non può stupire la necessità nostalgica, malinconica e nevrotica insieme di ritrovarsi entro limiti sicuri che fa sì che talora i Moderni tentino di ristabilire i confini dell’universo, si alimentino della fantasia inconscia di ritrovare le certezze del cosmo tolemaico. Lo riconobbe, a modo suo, anche Friedrich Nietzsche quando decise di abbandonare il sognante progetto di rinnovare la classicità tragica prendendo congedo anche dall’insegnamento di filologia classica all’università di Basilea. In un breve frammento postumo del giugno-luglio 1878 egli scrisse: Quando scorsi l’insicurezza dell’orizzonte della civiltà moderna, fui colto dall’angoscia. Pur vergognandomi un po’, mi misi a lodare la civiltà sotto la campana di vetro. Alla fine mi feci coraggio e mi gettai nel libro mare del mondo42.

La partita era del resto ormai persa da tempo. E Nietzsche se ne rese tragicamente conto. L’anello agognato che pieghi il flusso incessante del divenire, evocato anche da grandi ammiratori di Nietzsche come Stefan George e Gottfried Benn, non riemerse dagli abissi nei quali era sprofondato. La “mobilitazione 67

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totale”, per riprendere la felice formulazione di Ernst Jünger, sempre più pervasivamente avvinse il mondo moderno che, a questo proposito, resta anche il nostro. L’infinito della frammentazione avvolge le nostre vite, e le rende sempre meno coerenti, dunque anche sempre meno sensate. E ciò matura ben prima del postmoderno e dei nonluoghi di Marc Augé. Sono, com’è ben noto, le stazioni, gli aeroporti, i centri commerciali e così via, luoghi nei quali siamo costretti a stazionare stanchi e un po’ estranei e disorientati. Sradicati e come collocati in un’immensità troppo vasta nella quale è venuto a mancare da moltissimo tempo anche il punto di riferimento “sublime” di un Dio ritrattosi nei più remoti recessi celesti, un punto di riferimento ancora disponibile per lo spettatore (interno ed esterno al quadro) dei paesaggi sublimi di Friedrich. Dinanzi al senso di dispersione e di disorientamento di chi non conosce contesto e continuità non resta che andare alla ricerca di identità fittizie, o creare maschere caricaturali del divino come il mitico Po della Lega Nord di un tempo. Nel caso migliore si ritrovano invece le radici attraverso lo slow food e il “chilometro zero”. Quantomeno da questo punto di vista non c’è oggi nulla di davvero molto nuovo sotto il sole. Già Karl Jaspers, per esempio, parlando di nichilismo, aveva lucidamente descritto questo andamento nella Psicologia delle visioni del mondo del 1919: Ciò che è stato positivo nel mondo, ciò che ha costituito l’oggetto di un’autentica esperienza di vita, diventa oggetto di sensazione per il nichilista. Ogni visione del mondo del passato, ogni religiosità, ogni arte, tutto egli tenta una volta; tutto deve portargli la «sostanza» […]. L’uomo deve eccitarsi e raggiungere una qualche cosa, vuole adorare ed è contento solo che abbia un oggetto a ciò adatto. Infine diventa abitudine e si acquieta in

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una qualsiasi tecnica, comunità, personalità, forma mistica di un oggetto qualsiasi43.

Ci troviamo dunque dinanzi all’esigenza forse inconsapevole ma impellente di trovare nuove forme dell’infinito, se vogliamo realizzare quelli che, in senso lato, potremmo definire nuovi miti, nuovi racconti delle origini. “Mitologie della ragione”, cui la tecnica non è estranea, le avrebbero definite, non senza buoni motivi, i romantici. E, a questo proposito, abbiamo probabilmente molte più chance di un tempo. Le nuove tecnologie hanno modificato, infatti, la percezione del mondo e le forme dell’esperienza consentendo nuove rivoluzioni dell’immaginario. Non è affatto detto, per altro, che le nuove mitologie debbano essere di natura religiosa. Potrebbe semplicemente trattarsi di nuove modalità di formulare una narrazione comune, di articolare i presupposti di una comunità condivisa e partecipata dai suoi membri all’interno dell’universo dominato da spinte così potentemente centrifughe. Ancora una volta l’arte, e in particolare le arti visive possono fornire suggestioni importanti per uscire dall’impasse. Mi limiterò a pochissime indicazioni e a un solo esempio. L’esempio cui voglio riferirmi è il Weather Project di Olafur Eliasson realizzato a Londra, alla Tate Modern nel 2003. Si ha qui a che fare, come ben sappiamo, con un nuovo sole, capace addirittura di abbronzare, che illumina e, per così dire, “inventa”un nuovo ambiente e modifica anche il modo di sentire. È un sole che si sostituisce al sole fisico ma che svolge funzioni analoghe a quest’ultimo. I limiti tra il fisico, il biologico e l’artificiale così come quelli tra la scienza e la tecnica sono stati qui ampiamente superati sull’uno e sull’altro versante, sul versante della natura e su quello dell’artificio culturale. Né

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si può più dire da che parte veramente stiamo, o se si possa ancora tener fermo a un’alternativa di questo genere. Ciò nondimeno il nuovo sole mantiene il valore simbolico che viene tradizionalmente attribuito al vecchio. Esso scalda, ravviva l’ambiente con la sua luce, raccoglie simbolicamente intorno a sé e rende possibile la comunità dei viventi. A far nostra la tesi di Edgar Morin per cui l’uomo è l’unico essere che si crea il proprio mondo-ambiente, ecco che abbiamo qui a che fare con una tecnica che produce l’ambiente “naturale” umano. Un ambiente che è sempre impregnato di artificio anche quando è naturale. Nel caso del Weather Project abbiamo a che fare con un medium interattivo, con il quale, come si diceva, entriamo in una relazione di mutuo scambio. È un medium entro cui siamo. Potremo definirlo un medium tecnologico quasi organico, rovesciando così gran parte delle diagnosi un po’ retoriche che riguardano il rapporto tecnica/soggettività nella loro impostazione novecentesca classica per cui la soggettività è dominata dall’artificio della tecnica, quell’artificio che dovrebbe invece costituire il suo strumento di dominio del mondo. Qui non sussiste estraneità con il medium. Per altro verso abbiamo a che fare con un medium narrativo, in quanto esso funziona solo nel quadro di una relazione interattiva, di scambio e dialogo con il soggetto che lo utilizza. Tutto questo è per un verso inedito mentre, per altro verso, è del tutto antico, e si profilava, per esempio, già con il tempio greco che, nello spazio inaugurale del rito e del sacro, scandiva i confini e così i territori entro i quali doveva svolgersi la vita della polis. Il sole di Eliasson rinvia a un sentimento quasi primigenio e religioso. E questo sentimento matura e si sviluppa non all’aria aperta ma entro una struttura museale. Le mura del museo entro cui sorge il nuovo sole

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raccolgono, dunque, una comunità che “epicamente” vive una situazione di pieno contatto e di continuità con una natura che è insieme la prima e la seconda. Il nuovo sole, proprio aggregando intorno a sé una comunità, produce rapporti, vicende. In breve, produce narrazioni che nascono, si sviluppano e si esauriscono all’interno del piccolo mondo nebbioso che viene illuminato dalla luce e scaldato dal calore del nuovo sole. Un occhio onniveggente produce, all’interno di un contesto chiuso, quasi un analogon del cosmo tolemaico, un sistema simbolico nuovo (e insieme atavico) che vive della sua vita quasi interinale. Non è difficile riscontrare in questo quadro i tratti essenziali di una nuova mitologia poetica che si nutre di simboli elementari ma potenti. Chiediamoci per ultimo: è legittimo chiamarla nuova mitologia? È lecito farlo purché si prenda coscienza di quello che, del resto, è sin da subito evidente. E cioè che si tratta di una mitologia nella quale non si propongono nuovi culti o divinità. Abbiamo a che fare con narrazioni dell’origine che possono ma non devono necessariamente incontrarsi con il discorso religioso. Si tratta piuttosto di riaperture feconde dello spazio pubblico nel quale potranno intersecarsi, com’è auspicabile che sia, le motivazioni più diverse. Sono nuovi spazi molto commisti e meticci. Sono esperimenti di una laicità nuova rischiarata dai suoi motivi religiosi che gli uomini fondano solo se dipendono da, narrano e assegnano luoghi e tempi a un’umanità spaesata solo se sono stati irretiti, avvinti essi stessi dal piacere della narrazione.

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Note 1 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Genova, Marietti, 1992. 2 Cfr. Agostino, De Trinitate, I. 11,22. 3 Cfr. M.-J. Mondzain, Image, Icon, Economy : The Byzantine Origins of the Contemporary Imaginary, Redwood, Stanford University Press, 2004 . 4 Cfr. H. Belting, I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente, Torino, Bollati Boringhieri, 2010. 5 Cfr. M.-J. Mondzain, Image, Icon, Economy: The Byzantine Origins of the Contemporary Imaginary, Redwood, Stanford University Press, 2004. 6 Si veda su questo punto naturalmente il famosissimo passo della Seconda lettera ai Tessalonicesi 2, 1-17, ove l’affacciarsi del mysterium iniquitatis e dell’Anticristo si delinea come il prodursi del falso monarca in luogo di quello autentico. 7 Cfr. a questo proposito il magistrale saggio di M. Cacciari, Hamletica, Milano, Adelphi, 2009, pp 13-14. 8 Cfr. M. Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano, Adelphi, 2013. 9 Cfr. C. Schmitt, Romanticismo politico, Milano, Giuffré, 1981. 10 Cfr. A. Bauemler, Der Mythos von Orient und Occident, München, Beck, 1956, trad. it. (parziale) in J.J. Bachofen. A. Baümler, F. Creuzer, Dal simbolo al mito, 2 voll., a cura di G. Moretti, Milano, Spirali, 1983. 11 Cfr. M. Cacciari, Krisis, Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Milano, Feltrinelli, 1976. 12 Una prima versione di questo testo è stata proposta, il 26 novembre 2014, come laudatio di Anselm Kiefer in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filosofia presso l’Università di Torino. Ringrazio le dott.sse Arianna Bona e Anna Musini del Gam di Torino e, naturalmente, Danilo Eccher per le loro preziose indicazioni. 13 Cfr. H. Bredekamp, Kunst als Medium sozialer Konflikte. Bilderkämpfe von der Spätantike bis zur Hussitenrevolution, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1975, pp. 15-28. 14 Cfr. L. Saltzmann, Anselm Kiefer and Art after Auschwitz, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1999. 15 Cfr. G. Didi-Huberman, Immagini nonostante tutto, Milano, Raffaello Cortina, 2004.

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16 Cfr. M. Frank, Gott im Exil. Vorlesungen über die neue Mythologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1988. 17 Cfr. F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, Milano, Adelphi, 1975. Per ciò che concerne il tema della foresta cfr. Ch. Weikop, Forests of Myth, Forests of Memory, in K. Soriano, Ch. Weikop, R. Davey, Anselm Kiefer, London, Royal Academy of Arts, 2014, pp. 30-47. Si rinvia a questo catalogo (ivi, p. 233) anche per quanto riguarda una bibliografia scelta su Kiefer. 18 Rileva M. Cacciari in altro contesto: «L’epoca dell’immagine del mondo, dell’identità tra ón e legómenon trapassa a sua volta in quella dell’immagine seriale; il suo ideale regolativo consiste nella costruzione della cosa come la matematica costruisce i propri concetti. E, dunque, siamo costretti a chiederci di nuovo: un nominare, un immaginare, il nostro próblema è compito impossibile?» (Labirinti filosofici, Milano, Adelphi, 2014, p. 341). Cfr. anche Id., Dell’inizio, Milano, Adelphi, 2001. 19 Cfr. W.J.T. Mitchell, Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, Milano, Cortina, 2017. Mi sia consentito inoltre rinviare a O. Breidbach, F. Vercellone, Pensare per immagini, Milano, Bruno Mondadori, 2010. 20 Mi sia consentito rinviare qui al mio Dopo la morte dell’arte, Bologna, il Mulino, 2013, pp. 64-72. 21 Cfr. T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Torino, Einaudi, 2009. 22 Cfr. M. Bettetini, Contro le immagini, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 105-128. 23 Esiodo, Teogonio, a cura di E. Vasta, Milano, Mondadori, 2004. 24 Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, Bologna, il Mulino, 1991. 25 Mi permetto di rinviare a questo proposito, e anche per ciò che concerne l’interpretazione del mito esiodeo, al mio Oltre la bellezza, Bologna, il Mulino, 2008. 26 Novalis, Inni alla notte, V. 27 V. Hugo, Sul grottesco, con una introduzione di E. Franzini, trad. it. di M. Mazzocut-Mis, Milano, Guerini e Associati, 1990, p. 39. 28 G.W.F. Hegel (?), F.W.J. Schelling (?), F. Holderlin, Il più antico progromma di sistema dell’idealismo tedesco, introduzione, traduzione e commento di L. Amoroso, Pisa, Ets, 2007. 29 Esiodo, Teogonia, a cura di G. Vasta, Milano, Mondadori, 2004, pp. 1-17.

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30 Cfr. G. Agamben Il tempo che resta. Un commento alla ‘Lettera ai Romani’, Torino, Bollati Boringhieri, 2000. 31 Cfr. K. Marx, Ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti. 32 Cfr. G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, Torino, Bollati Boringhieri, 2009; M. Cacciari, Il potere che frena, Milano, Adelphi, 2013; R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Torino, Einaudi, 2013. 33 Cfr. P.G. Monateri, L’augurio. Impero, legge e stato di eccezzione, Milano-Udine, Mimesis, 2017. 34 P. Zellini, Breve storia dell’infinito, Milano, Adelphi, 19965, p. 58. 35 Cfr. W. Pannenberg, Voce: Unendlichkeit, in J. Ritter, Historisches Wörterbuch der Philosophie, Basilea, Schwabe, 2001, col. 141. 36 È il caso per esempio di Cusano: cfr. a questo proposito G. Cuozzo, Raffigurare l’invisibile. Cusano e l’arte del tempo, Milano-Udine, Mimesis, 2012, per es. p. 70. 37 J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante, a cura di S. Zecchi, Parma, Guanda, 1983, pp. 123-124. 38 Novalis, Enrico di Ofterdingen, traduzione italiana di T. Landolfi, Milano, Guanda, 1978, pp. 156-157. 39 F. Schlegel, Frammenti critici e poetici, a cura di M. Cometa, Torino, Einaudi, 1998, pp. 43-44. I corsivi sono nostri. 40 Per quanto riguarda l’accelerazione del tempo come connotato della modernità nascente e dei suoi sviluppi cfr. il classico bellissimo saggio di R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Bologna, Clueb, 2007, in particolare il cap. I. 41 Cfr. Schlegel, Frammenti critici e poetici cit., p. 43. 42 F. Nietzsche, Opere, edizione critica a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964 ss., vol. IV/III, p. 350. 43 K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo [1919], Roma, Astrolabio, 1950, p. 341.

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Dopo l’arte, oltre l’estetica

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IL MITO DOPO L’ARTE. HEGEL E IL FUTURO DELLA BELLEZZA

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Il Romanticismo e Hegel Non si può certo affermare che il Romanticismo tedesco costituisca in modo consapevole e tematico un antecedente dell’idea di “fine” o “morte dell’arte”. Il Romanticismo, quantomeno quello tedesco, è indubbiamente attraversato da una duplice inclinazione. È rivolto per un verso a riaffermare la centralità dell’arte, e la sua peculiare verità, in contrasto con un mondo che tende a divenire refrattario nei confronti del primato metafisico della bellezza. Per molti versi, e quantomeno nel nostro quadro, il romanticismo costituisce insomma un movimento che reagisce, in modo accorto e dolente, all’idea che la bellezza abbia perduto la propria sacralità, che essa si presenti in un quadro ormai solo secolare. All’idea, in breve, che la bellezza stia avviandosi in direzione di una deriva “estetica”. Ciò coincide con il sorgere di un’arte autonoma, la quale si crea le proprie istituzioni deputate. Si tratta di un’arte che afferma la propria paradossale assolutezza non più nella pretesa di intrecciare intorno al proprio centro tutto il tessuto di una cultura come avveniva con i Greci secondo l’immaginario classicistico. È invece un’arte che si racchiude su di sé. Dà forma a una dimensione diminuita dell’Assoluto, e cioè a quell’assoluto dell’arte che dipende dallo scindersi della bellezza 77

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dagli altri trascendentali che la accompagnavano nella tradizione medioevale: unum, ens, verum, bonum. Nel quadro della proposta romantica, l’idea di morte dell’arte non si propone dunque lessicalmente in questa forma. Si propone bensì come un conflitto incipiente della bellezza nei confronti dell’estetismo. Questo consente di cogliere e unificare una varietà di temi all’interno del romanticismo: dal primato della verità dell’arte all’idea di una nuova mitologia che ripristini la sua centralità nel quadro della cultura. La preoccupazione più intensa del Romanticismo riguarda un’arte che possa dileguare i propri significati nell’apparenza estetica, che perda attrito nei confronti della realtà, quello che potremmo definire il suo spessore simbolico. Qui prende forma il conflitto tra i romantici e Hegel. Quest’ultimo ritiene che ogni tentativo in questa direzione non possa che andare incontro a una débâcle inevitabile, a un fraintendimento fondamentale circa il ruolo dell’arte nella modernità1. Se per Hegel la bellezza costituisce l’incarnazione sensibile dell’idea, la quale prendendo forma sensibile struttura un mondo, nel caso dei romantici abbiamo invece a che fare con un’arte che si propone essa stessa come assoluta, fondata solo su se stessa proprio in quanto essa è stata absoluta, sciolta da ogni legame nei confronti dell’assoluto vero e proprio (in questo caso – stando agli ambiti di competenza della bellezza – dal vero e dal buono). Nonostante il suo statuto depauperato, essa produce tuttavia il proprio orizzonte totalizzante. È quanto testimonia l’idea di “poesia romantica” quale si configura nel frammento 116 dell’Athenaeum in quanto “poesia universale e progressiva”, in quanto genere poetico in eterno divenire che deve raccogliere intorno a sé i disiecta membra della realtà. Si tratta di un genere poetico che esercita un immane sforzo centripeto, 78

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che si produce, per così dire, alla ricerca della realtà e intende accoglierla nel suo seno. Inglobandone i frammenti, restituendoli al loro status coeso, di realtà in senso enfatico. Abbiamo qui a che fare con un abbagliante gioco di specchi, con un vorticoso scambio dei ruoli tra apparenza e realtà. La sfida è paradossale: l’apparenza estetica, la poesia, l’arte debbono donare consistenza a una realtà che sembra essere andata affossandosi. È l’apparenza che, attraverso un travaglio alchemico, rende reale il reale. Ci troviamo così dinanzi a una sorta di assolutezza paradossale, a un assoluto di secondo grado che sopravviene in assenza del primo e che costringe la nuova forma artistica ad autoproporsi, a una sorta di autorappresentazione in assenza del conforto che le derivi da un più autorevole status. Si avvia così una lunga vicenda che conduce sino all’avanguardia storica: l’arte vuole ricongiungersi alla vita e supplisce nel suo specchio alla vita assente. È così che l’arte autonoma, attraverso un faticoso travaglio, che ha nell’ambito del primo romanticismo molti momenti significativi, si orienta verso un nuovo assoluto, un assoluto solo artistico che costituisce il surrogato temporale di quello intemporale andato perduto. Ora, se i romantici guardano spesso con sospetto a questo processo di secolarizzazione dell’arte, attraverso il quale si genera l’arte moderna, Hegel tende invece ad asseverarne il volto positivo. Questo è il vero e proprio punto attraverso il quale si può dirimere il confronto a distanza tra Hegel e i romantici. Laddove questi ultimi rivendicano un significato positivo al simbolo e al mito che Hegel tende invece a svalutare nell’ambito della sua estetica. È strategica da questo punto di vista la posizione che Hegel attribuisce nelle Lezioni alla “forma d’arte simbolica”, qualificata come “pre-arte”, laddove 79

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il romanticismo tedesco, in tutto il suo sviluppo, da Jena a Heidelberg, vede nel simbolo e nel mito degli elementi che strutturano il suo programma poetologico, mentre Hegel, già dal periodo jenese, non riconosce più legittimità a un progetto di questa natura2. È quasi inutile ricordare come, a più riprese, in ambito romantico, si presenti l’idea di una “nuova mitologia” poetica, una “mitologia della ragione” che tragga dalla filosofia del presente, dall’idealismo (perlo meno nel caso esemplare di Friedrich Schlegel) le proprie risorse. Friedrich Schlegel si esprime programmaticamente, a questo proposito, nel Dialogo sulla poesia. Qui nel Discorso sulla mitologia Schlegel, com’è ben noto, programmaticamente afferma: Io sostengo che la nostra poesia manca d’un centro quale era la mitologia per quella degli antichi, e tutto l’essenziale per cui la poesia moderna resta addietro all’antica può essere espresso con il dire che non abbiamo una mitologia. Ma, aggiungo, siamo prossimi ad averne una, o, piuttosto, s’avvicina il momento nel quale dobbiamo seriamente collaborare a crearne una. Poiché essa verrà a noi per una via del tutto opposta a quella dell’antica, che fu dapprima la prima fioritura della giovanile fantasia, riattaccandosi e informandosi immediatamente a ciò che di più vicino e di più vivo era nel mondo sensibile. La nuova mitologia deve, all’opposto, venir tratta dalla più remota profondità dello spirito; deve essere la più artistica di tutte le opere d’arte perché deve comprendere tutte le altre, un nuovo letto e un nuovo vaso per l’antica primigenia sorgente della poesia, la poesia infinita che cela i germi di tutte le altre poesie3.

Ma anche lo stesso Hegel procede su questa via nel primo Programma di sistema dell’idealismo tedesco e così pure Schelling nel Sistema dell’idealismo trascendentale4. Si tratta di “mitologie della ragione”, 80

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di mitologie moderne, che traggono spunto dal proprio opposto, per l’appunto la ragione, per costruire il proprio tessuto simbolico. Il mito verrebbe così a riproporsi come il tessuto unitario dell’arte5. Su questa base, esso consentirebbe di fornire riconoscibilità e una partecipazione universale alle figure della creazione poetica. In questo modo la nuova mitologia viene a proporsi come una versione rinnovata, consapevole, tecnicizzata se vogliamo, del vincolo di ethos e polis che animava la vita artistica e religiosa del mondo greco. Un vincolo che, agli occhi dello Hegel della Fenomenologia dello spirito, come testimoniano le famosissime pagine dedicate all’Antigone di Sofocle, è andato del tutto dissolto senza possibilità che esso venga mai a risorgere. La legge del sangue e quella della polis si sono definitivamente separate. Alla secolarizzazione dell’arte il romanticismo tedesco risponde così con una consapevole razionalizzazione, o per dir meglio, tecnicizzazione del mito. Si tratta di un’immensa scoperta e di un passo che divide Hegel dai romantici e che tuttavia non va affatto confuso con un’ingenua risacralizzazione dell’arte. Il mito in questo caso risplende e persuade per la sua dotazione tecnico-razionale che crea intorno a sé una comunità. È un effetto problematico che tuttavia la fine del Novecento ci avrebbe fatto conoscere bene, attraverso l’arte di massa, il fumetto, i kolossal cinematografici sino alle serie televisive. Come è noto, attraverso questa via si toglie profondità psicologica al personaggio per consentire all’azione di articolarsi senza troppi intoppi e attriti. Potremmo dire che così il principio o in principio stia l’intreccio mentre lo sviluppo psicologico, in profondità, del personaggio viene dopo. La vicenda, il plot narrativo precede idealmente la psicologia 81

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del personaggio. Con ciò si apre un lungo cammino che conduce, per l’appunto, anche attraverso il melodramma ottocentesco, verso l’arte di massa. Se dunque il romanticismo tedesco costituisce, per molti aspetti, il preludio della mass art, ecco che esso, già sulla base di questo assunto così generico, ci guida su di un cammino decisamente alternativo rispetto a quello hegeliano. L’alternativa che si definisce qui è fondamentale. Costituisce una sorta di filo rosso all’interno della vicenda estetica, e della storia della “morte dell’arte”. Se diamo ascolto ai romantici abbiamo a che fare con una trasformazione dell’arte e della sua fruizione che ci conduce lontano, sino al dibattito polemico tra Benjamin e Adorno a proposito dell’arte di massa. In questo quadro l’arte di avanguardia rappresenta, agli occhi di Adorno, il modello di un’arte notevolmente spiritualizzata, che rinvia all’interiorità del singolo, mentre la mass art rinvia a una percezione comune, poco tematica, distratta dell’arte. Non a caso Adorno è un discepolo di Hegel, mentre Benjamin viene dall’insegnamento romantico. Nondimeno, prima di anticipare possibili sviluppi, è opportuno tornare a Hegel. L’arte come “passato” Abbiamo anticipato il destino della “morte dell’arte”, prima ancora di capire di che cosa si tratti. È necessario dunque soffermarsi su Hegel. Laddove il confronto di Hegel con il romanticismo costituisce il filo rosso di un percorso di lunghissima durata che conduce sino al cuore pulsante dell’estetica novecentesca. Le Lezioni di estetica di Hegel, redatte nella loro forma finale e pubblicate da Gustav Hotho, nonostante il dibattito sorto intorno alla fedeltà con cui riproducono il dettato

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filosofico hegeliano6, hanno il grande vantaggio di presentare uno schema concettuale molto perspicuo. In questo quadro, se proviamo a proporci molto didatticamente la domanda “che cosa è per Hegel l’estetica?”, possiamo fornire una risposta molto semplice: l’estetica è filosofia dell’arte in quanto filosofia della storia dell’arte. Per altro è ben noto che, per Hegel, il termine “estetica” è di per sé inadeguato a illustrare il vero significato di questa disciplina filosofica speciale che si integra e dipende dal sistema. Questo nucleo elementare è il presupposto di tutto ciò che segue, anche per quanto riguarda la vicenda della “fine” o della “morte dell’arte” hegeliana, sino ai suoi estremi esiti. Nelle Lezioni di estetica, storia e sistema, anche per via dell’intervento di Hotho, tendono a coincidere. Il pensiero sistematico avvolge la storia nel suo manto e la struttura. Per altro verso l’estetica viene perentoriamente definita come “filosofia dell’arte” o come “filosofia della bella arte”. Hegel si pronuncia, a questo proposito, sin dall’inizio: Queste lezioni sono dedicate all’Estetica; il loro oggetto è il vasto regno del bello e, più dappresso, il loro campo è l’arte, anzi, la bella arte. […] A causa dell’improprietà, meglio della superficialità di questo nome, si è poi cercato di forgiarne altri, per es. quello di “Callistica”. Tuttavia, anche questo termine si mostra insufficiente, poiché la scienza che qui si intende, considera non il bello in generale, ma puramente il bello dell’arte. Noi vogliamo perciò contentarci del nome di Estetica, giacché come semplice nome è per noi indifferente, e del resto è così entrato nel linguaggio comune che può essere conservato come nome. Tuttavia il vero e proprio termine per la nostra scienza è “filosofia dell’arte”, e più specificamente “filosofia della bella arte”7.

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In questo quadro si impongono, com’è ben noto, due fattori fondamentali e interdipendenti: per un verso viene meno il bello di natura che, nella stagione che va da Kant al primo Schelling, aveva avuto un peso fondamentale. Per altro verso viene in primo piano il bello artistico. E il bello artistico è l’esito di un lungo travaglio, deriva da un’attività consapevole che modifica l’assetto della natura per avvicinarla alla soggettività spirituale. Solo la bellezza artistica è dunque degna di esser definita tale: Documento acquistato da () il 2023/04/12.

Infatti la bellezza artistica è la bellezza generata e rigenerata dallo spirito, e, di quanto lo spirito e le sue produzioni stanno più in alto della natura e dei suoi fenomeni, di tanto il bello artistico è superiore alla bellezza della natura. Formalmente considerando, qualsiasi cattiva idea che venga in mente all’uomo, sta anzi più in alto di qualunque prodotto della natura, poiché in esso è sempre presente la spiritualità e la libertà. […] Ora, se abbiamo detto in generale che lo spirito e la sua bellezza artistica stanno più in alto del bello naturale, abbiamo invero stabilito poco più che nulla, poiché “più in alto” è un’espressione interamente indeterminata, che indica ancora come coesistenti nello spazio della rappresentazione bellezza artistica e bellezza naturale, e denota una differenza quantitativa, perciò esteriore. La superiorità dello spirito e della sua bellezza artistica di fronte alla natura non è però soltanto relativa, ma lo spirito solo è il vero, quel che tutto in sé abbraccia, cosicché ogni bello è veramente bello, solo in quanto partecipe di questa superiorità e da questa prodotto. In questo senso il bello naturale appare solo come un riflesso del bello appartenente allo spirito, come un modo imperfetto, incompleto, un modo che secondo la sua sostanza è contenuto nello spirito stesso8.

La bellezza riflette dunque l’attività spirituale dell’uomo che si rivolge alla natura fuori di sé per modificarla e destituirla della sua estraneità. 84

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Per altro la bellezza è dotata per Hegel di un contenuto etico-religioso nel quale si riverbera la sua potenza e il suo incanto. Essa è un vincolo che unisce la comunità. È un vincolo che tiene inestricabilmente congiunti l’ethos e la polis. Non si tratta di un vincolo naturale; esso anzi reca entro di sé la vicenda del lungo travaglio che l’ha prodotta. I fattori che congiungendosi ne hanno determinato il sorgere, divenendo coscienti di sé, come si è accennato sopra a proposito di Antigone, ne produrranno anche la fine. È in questo quadro che la bellezza viene, com’è ben noto, definita da Hegel “parvenza sensibile dell’idea”9. L’apparenza costituisce in questo quadro un modo di manifestarsi della verità. Su questa base l’arte si struttura come una visione del mondo. Essa rappresenta per così dire la summa simbolica di un universo: Ma quel che noi vogliamo trattare è l’arte libera nei suoi fini come nei suoi mezzi […]. Ora, solo in questa libertà la bella arte è arte vera, ed adempie primariamente al suo compito supremo solo quando si è posta nella sfera comune con la religione e la filosofia, ed è soltanto una specie e un modo di portare a coscienza ed esprimere il divino, i più profondi interessi dell’uomo, le verità più ampie dello spirito. Nelle opere d’arte i popoli hanno riposto le loro concezioni e rappresentazioni interne più valide, e per la comprensione della saggezza e della religione la bella arte è spesso una chiave e presso molti popoli anzi l’unica. L’arte ha in comune questa destinazione con la religione e la filosofia, ed è soltanto una specie e un modo di portare a coscienza ed esprimere il divino, i più profondi interessi dell’uomo, le verità più ampie dello spirito. Nelle opere d’arte i popoli hanno riposto le loro concezioni e rappresentazioni interne più valide, e per la comprensione della saggezza e della religione la bella arte è spesso una chiave e presso molti popoli anzi l’unica. L’arte ha in comune questa destinazione con la religione e la filosofia, ma nel modo

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peculiare ch’essa manifesta sensibilmente anche ciò che è supremo e lo rende quindi più vicino al modo di apparire della natura, ai sensi e al sentimento10.

L’arte dunque non si limita a essere oggetto di contemplazione, ma orienta attivamente l’agire sociale. Per esprimere nel modo più compiuto la verità che le compete, l’arte necessita dunque di un contesto adeguato. È quella che Hegel definisce la condizione universale del mondo. È l’“epoca eroica” che ha come riscontro un universo mitico compiuto e conchiuso. La quiete dell’ideale prende forma, senza conati che produrrebbero, con lo sforzo, elementi di deformità, nella cerchia delle divinità olimpiche. Il divino assume la forma che gli compete dandosi una configurazione sensibile, esprimendosi figurativamente: D’altra parte il divino, per quanto gli convengano unità ed universalità, è egualmente in se stesso essenzialmente determinato e, liberandosi con ciò dall’astrazione, si presta a essere intuito e a ricevere un’immagine. Se esso viene concepito e rappresentato figurativamente dalla fantasia sotto forma di determinatezza, si presenta allora una molteplicità del determinare e solo a questo punto incomincia il vero e proprio regno dell’arte ideale11.

Lo spirito si addentra così nella realtà sensibile; vive in un fecondo intreccio con questa: è dunque coinvolto in vicende, azioni, gesta, narrazioni. Ben diversa è la situazione nell’universo moderno. Viene così a delinearsi una contrapposizione decisiva. Essa riguarda il mondo moderno e la legalità astratta che vige in quest’ultimo. Nel mondo moderno ogni individuo svolge, nell’ambito della totalità, una funzione del tutto limitata al contrario di quanto non avvenga nel mondo mitico dove all’opposto l’eroe domina compiutamente la situazione ed è padrone del proprio agire: 86

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Qualsiasi azione conforme al diritto, all’etica e alle leggi i singoli individui facciano nell’interesse e nel corso del tutto, il loro volere e realizzare, così come loro stessi, rimangono, rispetto al tutto, sempre insignificanti e semplice esempio. Infatti le loro azioni sono sempre la realizzazione del tutto parziale di un caso singolo e non realizzazione di questo come di un’universalità, nel senso che quest’azione, questo caso venga con ciò reso legge o sia portato ad apparire come legge. […] L’applicazione delle leggi non dipende quindi da un individuo, ma è il risultato di una multilaterale cooperazione in un ordinamento stabilito. […] Perciò noi abbiamo richiesto per la libera configurazione dell’individualità le condizioni opposte, in cui la validità dell’etico poggia soltanto sugli individui che per la loro particolare volontà e l’eminente grandezza ed efficienza del loro carattere si collocano in cima alla realtà in cui vivono12.

Abbiamo dunque a che fare con un cosmo compatto e coerente, ove, fra l’altro, le arti non tendono a svilupparsi autonomamente ma come un vincolo comune che tiene congiunte architettura, scultura, poesia, musica e danza, mentre, modernamente, le arti si indirizzano ciascuna verso un autonomo sviluppo13. In questo universo nel quale ethos e polis sono una cosa sola l’eroe può dominare completamente le sue gesta e le loro conseguenze. Egli è completamente padrone delle proprie azioni e delle loro conseguenze e la sua esperienza non conosce frammentazioni. Questo è anche il motivo per il quale Ulisse trionfa come un eroe nella strage dei Proci: egli può farsi giustizia da solo. Poiché egli stesso è la legge. Un Ulisse moderno non sarebbe invece un eroe ma un volgare criminale che non riconosce le norme che vigono astrattamente per tutti e per ognuno. La bellezza è dunque indisgiungibile dall’universo mitico-religioso nel quale essa solo può 87

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trovare sviluppo. Con ciò Hegel compie un duplice passo per cui da una parte è partecipe di un ideale classicistico che condivide con la sua epoca. Per altro verso, tuttavia, egli ne produce il tramonto poiché riconosce nello stesso mondo classico un che di divenuto, attraversato dall’elaborazione spirituale, dal negativo, e dunque condannato a sua volta a un necessario tramonto14. Il bello artistico o l’ideale, in quanto “manifestazione sensibile dell’idea”, in quanto è compiutamente partecipe del divenire spirituale e ne esprime in modo eminente la verità, si configura come una successione di visioni del mondo che propongono in modo più o meno adeguato questo stesso contenuto di verità. L’apparenza non è dunque illusione e questo testimonia del significato eminente dell’arte nell’ambito del pensiero hegeliano. E, se c’è un momento in cui l’arte, riassumendo la verità di un mondo, ne riflette compiutamente e ne orienta l’agire, si tratta tuttavia di un passaggio necessario ma contingente che condurrà ben oltre l’egemonia dell’arte. È in questo quadro che Hegel, nell’Introduzione all’Estetica, enuncia l’idea della «fine dell’arte dal lato della sua suprema destinazione» connessa alla «formazione riflessiva della nostra vita odierna»: Qualunque atteggiamento si voglia assumere di fronte a ciò, è certo che ora l’arte non arreca più quel soddisfacimento dei bisogni spirituali, che in essa hanno cercato e solo in essa hanno trovato epoche e popoli precedenti; soddisfacimento che, almeno dal lato della religione, era legato nel modo più intimo con l’arte. Sono trascorsi i bei giorni dell’arte greca, come pure l’età dell’oro del basso Medioevo. La formazione riflessiva della nostra vita odierna ci crea il bisogno, sia in relazione alla volontà che al giudizio, di fissare punti di vista generali e di regolare in conseguenza il particolare, cosicché forme universali, leggi, doveri,

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diritti, massime valgono come motivi determinanti e sono ciò che fondamentalmente ci guida. Ma per l’interesse artistico come per i prodotti nell’arte noi richiediamo in generale piuttosto una vitalità in cui l’universale non sia presente come legge e massima, ma operi come identico al cuore e al sentire, così come anche nella fantasia l’universale ed il razionale sono contenuti come portati in unità con una apparenza concreta, sensibile. Perciò il nostro tempo, per la sua situazione generale non è favorevole all’arte. Lo stesso artista, nell’esercizio della sua arte, non soltanto è sollecitato ed influenzato a introdurre nel suo lavoro sempre più pensieri della riflessione che risuona alta intorno a lui […] ma l’intera formazione spirituale è tale che egli stesso sta dentro un simile mondo riflessivo coi suoi rapporti, e né potrebbe farne astrazione con la volontà e la decisione, né con un’educazione particolare o con l’allontanarsi dai rapporti della vita, fingersi ed effettuare un isolamento particolare che ristabilisca il perduto. Per tutti questi riguardi l’arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato15.

La «formazione riflessiva della nostra vita odierna» coincide così con un più generale movimento che induce a lasciare da parte l’arte come cuore pulsante nel quale si fa presente il contenuto spirituale e nel quale si esprime la consapevolezza di sé di un mondo storico. Come anticipato, storia e sistema si incrociano in modo probabilmente troppo deterministico nelle Lezioni rispetto allo stesso insegnamento hegeliano. Tuttavia quella che verrebbe da definire la storia interna del movimento dell’idea del bello artistico al’interno delle Lezioni di estetica contiene entro di sé il principio di un’escalation e di un processo che conducono necessariamente alla “fine dell’arte”. Il processo che conduce dalla forma d’arte simbolica a quella classica e a quella romantica si fonda su di un 89

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paradigma molto necessitante non privo tuttavia di tratti paradossali o contraddittori. Hegel muove, com’è ben noto, dall’idea che il paradigma dell’arte, secondo quanto ha per altro mostrato anche nell’Enciclopedia, è quello di un’integrazione dell’idea con il sensibile. Pur partendo da un paradigma di questa natura, egli sembra tuttavia disattenderlo nel percorso attraverso le diverse forme d’arte. Qui si prospetta infatti un primo, davvero immenso, periodo, quello dell’arte simbolica, che va dalla “religione di Zoroastro” sino al “simbolismo del sublime” e al “simbolismo cosciente della forma d’arte del paragone” che prevede uno squilibrio fondamentale tra la forma e il contenuto spirituale. Quest’ultimo cerca se stesso laddove mai potrebbe adeguatamente ritrovarsi. Se guardiamo poi all’arte classica, essa stabilisce per un brevissimo arco di tempo l’equilibrio previsto da Hegel come paradigma dell’arte, quello tra forma e contenuto. Ma si tratta di un equilibrio di breve durata che viene subito meno per dare luogo a un nuovo squilibrio funzionale, quello tra il contenuto e la forma sensibile nell’ambito della forma d’arte romantica. In quest’ultimo caso, com’è ben noto, il contenuto spirituale sovrasta la forma sensibile e non può più riconoscersi in quest’ultima, trovare qui il proprio habitat. Ora, considerando anche il fatto che l’arte romantica copre, nella sua estensione storica, tutta l’arte dell’evo cristiano, è ben evidente che le Lezioni producono un paradigma contraddittorio dell’arte16. L’epoca della “pre-arte” simbolica e quella dell’arte romantica nelle quali si affaccia un fondamentale squilibrio tra la forma e il contenuto artistico ricoprono un’estensione immane, mentre l’arte classica sostanzialmente si limita a occupare, per quanto riguarda la sua estensione temporale, il periodo estremamente breve, se confrontato con gli 90

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altri, dell’Atene dell’età di Pericle. Diviene dunque evidente, anche solo alla luce di una considerazione puramente “quantitativa”, che il paradigma classico o classicistico dell’arte risulta contraddittorio. A imporsi come modello prevalente è infine quello dello squilibrio, se non della conflittualità, di forma e contenuto. Volendo avvalorare un’ipotesi di questa natura viene da dire che l’arte sopravvive con una straordinaria ricchezza al proprio paradigma, quello che la condanna a una fine necessaria. Se Benedetto Croce ha dunque ben ragione di ritenere che la “morte dell’arte” in Hegel dipende fondamentalmente dal paradigma utilizzato nelle Lezioni, non si può non aggiungere che questo stesso modello, che prevede una compiuta integrazione del contenuto spirituale nella forma sensibile, lascia fortemente perplesso il lettore dell’Estetica. È sicuramente di qui che è necessario prendere le mosse per guardare avanti, e anche per intravedere altri cammini a partire dallo stesso Hegel. Non solo Hegel sembra infatti talora avvalorare l’idea di una significazione perenne dell’arte che, in quanto forma dello spirito assoluto, manifesta costantemente, in tutto il proprio sviluppo, la verità nella sua più alta destinazione, anche se non nella modalità più adeguata e compiuta. Bisogna tuttavia aggiungere che, in alcuni passi, Hegel sembra addirittura inclinare verso altre soluzioni meno consentanee con l’idea di un primato dell’arte classica e più disponibili nei confronti di una concezione meno limitativa circa la portata della significazione artistica. In un passaggio delle Lezioni Hegel sembra per esempio accennare a una superiorità della poesia rispetto al pensiero che: volatilizza la forma della realtà a forma di puro concetto, e, quand’anche coglie e conosce le cose reali nella loro particolarità essenziale e nella loro esistenza, eleva

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pur tuttavia anche questo particolare nell’elemento ideale universale in cui soltanto il pensiero è presso se stesso [; è] una verità che non si rivela, a sua volta, nel reale, come potenza configurante ed anima di esso. Il pensiero è solo una conciliazione del vero e della realtà nel pensiero, ma il creare e formare poetico è una conciliazione sotto la forma stessa, anche se solo spiritualmente rappresentata, di un’apparenza reale17.

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In un altro passo Hegel sembra prospettare l’idea che l’arte sia un appello, un interrogativo: Le piume variopinte e dai colori vivaci degli uccelli brillano anche se nessuno le vede, il loro canto risuona anche se nessuno lo ascolta; il fiore del fico d’India, che vive solo una notte, appassisce senza essere ammirato nelle selvagge foreste del sud, e queste foreste, l’intreccio della loro bellissima e lussureggiante vegetazione dagli aromi intensissimi, periscono senza essere goduti. Ma l’opera d’arte non è per sé così naturale: è invece essenzialmente una domanda, un’apostrofe rivolta a un cuore che vi risponda, un appello indirizzato all’animo e allo spirito18.

Se venisse meno la sua natura interrogativa e misteriosa, l’opera perderebbe anche il suo incanto e la sua fascinazione. Sarebbe un noioso enigma di cui abbiamo perduto la chiave, che, del resto, poco ci interesserebbe ritrovare. È un paradigma ermeneutico che si affaccia inatteso nelle pagine dell’Introduzione all’Estetica. L’opera d’arte costituisce un costante interrogare che non esaurisce mai la propria vocazione. In questo modo essa si rinnova nel tempo e non lo subisce passivamente come avviene per l’opera d’arte classica che declina dinanzi alla potenza inesorabile del Fato19. 92

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Riflessioni conclusive Torniamo ora all’alveo principale delle proposte offerte dalle Lezioni di estetica per giungere al punto di arrivo di questo saggio: il rapporto di Hegel con i romantici in relazione alla proposta di una nuova mitologia. È una sfida di grande significato storico, mentre il suo riverbero teorico concerne da vicino anche il presente. L’arte romantica, in quanto preludio e realizzazione di quella moderna, laddove essa si identifica con tutta l’arte dell’Occidente cristiano, è dunque un’arte votata all’intimità spirituale, un’arte soggettivistica che ha lasciato da parte il mondo esterno per affidarsi a una riflessione su di sé e sui suoi mezzi. È un’arte la quale, enfatizzando i propri motivi costruttivi, la propria essenza tecnica, si ritrae dal mondo per racchiudersi in un universo solo suo, quello della coscienza estetica, dell’art pour l’art. È il paradosso assolutamente inevitabile, dati i presupposti di partenza, dinanzi al quale Hegel ci colloca. Questo ha poi una conseguenza fondamentale per quanto riguarda la sistematica estetica di Hegel, ma anche per noi in quanto la diagnosi hegeliana è a questo proposito molto precisa. Tutto ciò significa, per Hegel, che l’architettura e la scultura, l’arte pubblica, divengono arti secondarie nel mondo moderno. Potremmo dunque tradurre l’idea hegeliana di “fine” o “morte dell’arte” moderandone la portata e l’ampiezza. La morte dell’arte produce la fine dell’arte pubblica facendo invece proliferare l’arte come istituzione e dunque anche l’arte come finzione consapevole di sé. L’arte come istituzione è poi, per parte sua, l’esito della morte dell’arte che confina quest’ultima nei limiti dell’immaginario estetico privo di influenza sul mondo.

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La modernità fondata sulla soggettività pura e dispiegata trova qui la sua grande impasse20. Questa è la sfida dinanzi a cui viene a trovarsi l’arte moderna e in parte anche quella postmoderna. È un’arte che non esercita più alcuna influenza sulla vita ma che ha una grande nostalgia di averne nuovamente. È questo un filo rosso che ci conduce attraverso tutta (o quasi) la vicenda della “morte dell’arte” per giungere sino all’avanguardia storica, e ancora più avanti, sino ai nostri giorni. È questo per altro un filo rosso che ci conduce anche da Hegel a Nietzsche, laddove quest’ultimo vede nell’arte un passato del quale siamo tuttavia tutt’oggi debitori. L’arte è per Nietzsche un «commovente ricordo delle gioie della giovinezza»: 223. Tramonto dell’arte. Come nella vecchiaia ci si ricorda della gioventù e si celebrano feste della memoria, così l’umanità starà presto, rispetto all’arte, nel rapporto di un commovente ricordo delle gioie della giovinezza. Forse l’arte non è stata mai compresa così profondamente e con tanta anima come oggi che la magia della morte sembra avvolgerla e trasfigurarla. Si pensi a quella città greca dell’Italia meridionale, che in un solo giorno dell’anno celebrava ancora le sue feste greche, fra tristezza e lacrime per il fatto che sempre più la barbarie straniera trionfava sui costumi della sua tradizione; non si è mai goduto così bene l’ellenico, in nessun luogo si è mai sorseggiato con tanta voluttà questo dorato nettare, come tra questi Elleni morenti. Presto si considererà l’artista come una magnifica reliquia, e a lui, come a un meraviglioso straniero, dalla cui forza e bellezza dipese la felicità di epoche passate, si renderanno onori quali non ne riserviamo facilmente ai nostri simili. Il meglio di noi è stato forse ereditato da sentimenti di epoche anteriori, a cui per via diretta quasi non possiamo più giungere; il sole è già tramontato, ma il cielo della nostra vita arde e risplende ancora di esso, sebbene non lo vediamo più21.

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L’arte, afferma inoltre Nietzsche nell’aforisma che precede il passo ora citato, c’insegna a guardare alla vita «con interesse e piacere». Essa avrà, nell’ultima fase della produzione nietzschiana, la funzione di lievito per l’accrescersi della vita. Ora tuttavia Nietzsche guarda a essa melanconicamente, ma non senza riconoscenza, come a una potenza che appartiene a un passato che è stato messo da parte dal progresso di una ragione più matura e illuministicamente ispirata22. Quella che viene dunque ora a mancare è l’arte in quanto potenza eternizzante quale si era configurata nella prima fase dell’opera di Nietzsche, e alla quale Nietzsche aveva fatto riferimento in particolare nella seconda Considerazione inattuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Grazie a Nietzsche diviene definitivamente perspicuo lo schema di filosofia della storia al quale fa capo l’idea di “morte dell’arte” in tutto il suo percorso. Abbiamo qui a che fare con lo schema classico di un passaggio dal mito al logos in cui la maturità della ragione illuministica finisce per sovrastare l’antico “incanto del mondo”. Quantomeno a questo riguardo Benedetto Croce ha indubbiamente ragione quando afferma: «L’arte-religione è inevitabilmente disciolta dalla filosofia»23. L’arte finisce per restare vittima di questo schema di filosofia della storia implicita. È per altro il confronto in negativo con l’arte a indurre, quantomeno inizialmente, la riflessione filosofica a ritenere che la maturazione della ragione illuministica volgerà verso lo sviluppo di una razionalità che produce il disincanto del mondo. L’arte, per parte sua, non potrà che far sua questa croce. Dovrà, in altri termini, farsi carico di una tecnica che è l’opposto del sorgere spontaneo della bellezza dal seno della natura. Per molti versi e in ambiti profondamente 95

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lontani gli uni dagli altri (si potrebbe andare da Argan ad Adorno) si affaccia così l’idea che l’arte consapevolmente moderna debba confrontarsi (se non identificarsi) con ciò che la minaccia, e cioè con la tecnica. Adorno annunzia l’esigenza di un’arte che incorpori, quasi con un movimento mimetico, quella tecnica che dovrebbe negarla, così che l’arte, con intenti emancipativi o critici, sia resa in grado di fare i conti con il mondo cui appartiene24. Una nuova mitologia della tecnica, violentemente polemica nei confronti dell’art pour l’art, percorre del resto l’arte dell’avanguardia a partire dal costruttivismo russo. Sino a qui ci troviamo dinanzi a un passo tutto sommato inevitabile. Se il nemico ti sovrasta non ti resta che morire eroicamente o passare dalla sua parte. Ma è il modo in cui la tecnica viene intesa in questo quadro che è notevolmente problematico. Si è proposta, in modo insistito, un’idea di tecnica che fa capo a una tradizione notevolmente variegata, che va da Max Weber a Martin Heidegger. Quantomeno a questo proposito, questa tradizione esprime tuttavia una valutazione unitaria. Si tratta cioè del presupposto per cui la tecnica è un fattore del disincanto moderno del mondo, il volto maturo di una razionalità strumentale o rivolta allo scopo. Viene escluso invece, in questo quadro, quanto in fondo è implicito nell’idea di tecnica: e cioè che essa sia un originario fattore di incantamento25. L’idea che la tecnica non solo modifichi la natura, ma produca anche un’“altra natura” e nuovi mondi, un sistema di equilibri nuovo che non coincide con il precedente. Se ci mettiamo su quest’ultima via, l’origine, la natura dietro di noi, non costituisce più un parametro assoluto di valore; e la tecnica non costituisce l’esito di un necessario tradimento della 96

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natura. La valutazione dei prodotti della tecnica viene a riguardare esclusivamente il nuovo sistema di equilibri che nel frattempo è sorto, e che deve essere considerato in quanto tale. Per fare un passo oltre, sarà dunque necessario ripensare la tecnica e la stessa nozione di arte in relazione a questa. In particolare sarà necessario guardare alla forma più matura dell’idea di “fine dell’arte”, quella formulata da Hans Belting nel volume La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte26. Qui si rivela che proprio il concludersi del grande capitolo della vicenda che ha convogliato l’universo dell’immagine all’interno della storia dell’arte consente all’immagine di liberarsi dalle maglie nelle quali Kant l’aveva involontariamente imprigionata pensando a una bellezza priva di ogni interesse, per l’appunto solo estetica. L’immagine è ora in grado di riacquistare un’autonomia rispetto al proprio supporto, e dunque di esercitare una rinnovata potenza o, se vogliamo, una nuova influenza sul mondo. Tutto questo coincide non casualmente, come ha sottolineato Nicolas Bourriaud, con una odierna profonda modificazione della consapevolezza di sé dell’arte contemporanea che tende a scegliere un cammino estraneo allo spazio della rappresentazione per insinuarsi nell’esistenza e produrre «forme di vita»27. Da questo punto di vista ha ragione Bourriaud a concludere, dopo Croce, in tutt’altro contesto e senza far riferimento a lui, che l’idea di «morte dell’arte» sta e cade con i presupposti idealistici che l’hanno prodotta28. Una inedita alleanza tra l’arte e la tecnica viene così a proporsi. Essa può condurci al di là dell’idea del disincanto del mondo, e forse verso un suo meditato e tecnologico “reincantamento”. Ma non soltanto. Essa può anche essere d’aiuto per riflettere su di un’arte che voglia riprendere il proprio ruolo nella coscienza pubblica e su di una tecnica che voglia 97

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essere meno omologante e anonima e più disponibile a soddisfare la necessità di definire spazi non spaesati e anonimi, come gli ansiosi nonluoghi di Marc Augé. Potrebbero essere luoghi dotati di un’identità, ospitali, figli di quella natura seconda che è la tecnica, la quale sembrerebbe volersi ora familiarizzare con la prima. Si tratta di contesti e mondi che riproducono a loro modo l’incanto mitico senza per questo dar seguito a un progetto neopagano, all’idea di una ridivinizzazione del mondo. Qui sta in fondo il passaggio che Hegel non aveva visto. Nuova mitologia non significa ridestare la valenza magico-religiosa dell’immagine. Alcuni esempi dell’arte virtuale sembrano per esempio confermare un’ipotesi di questo genere. Come ha osservato Oliver Grau, si va verso una rivoluzione del modello della fruizione, dalla contemplazione all’“immersione”, dall’estraneità alla vita evocata dall’art pour l’art a una nuova appartenenza al mondo attraverso l’arte29. La necessità di realizzare un’arte che sia ancora un vincolo per l’uomo e per la sua esistenza nel mondo, più volte evocata con toni esoterici da Martin Heidegger, sembra paradossalmente realizzarsi non contro la tecnica ma grazie a questa. L’idea di una nuova classicità tecnologica, a prima vista un paradossale ossimoro, sembra invece profilarsi come una chance effettiva per il nostro tempo. Sempre meno, da molti punti di vista, la tecnologia appare votata a un destino di disincantamento del mondo. E sempre più la tecnica artistica si configura invece come una modalità di produrre realtà, mentre le sue immagini costituiscono un repertorio potente di produzione di identità nuove, se vogliamo d’incantamento. Questo modifica naturalmente in profondità la relazione tra arte e scienza, poiché il concetto di creatività, che anche in ambito biologico ha avuto un recente significativo sviluppo30, può addentrarsi in ter98

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ritori che prima sembravano lontani od ostici nei suoi confronti. Dall’immagine digitale alle nuove possibilità dischiuse dal rendering dell’immagine e al lavoro di artisti come Olafur Eliasson è sempre più evidente che la tecnologia si propone, quantomeno in alcuni suoi momenti particolarmente significativi, come motivo di un nuovo “reincantamento del mondo”, verrebbe da dire che essa prospetta una nuova realtà e una rinnovata appartenenza al mondo. È il caso, per esempio, dello sguardo sulla città attraverso i filtri dei colori dell’arcobaleno realizzato con Your Rainbow Panorama da Olafur Eliasson in Danimarca allo ARoS Aarhus Kunstmuseum. Non è solo l’esperienza propriocettiva che si modifica a contatto con l’ambiente immersivo di quest’opera, è anche l’esperienza della relazione con lo spazio metropolitano a modificarsi nel senso di un rinnovato approccio alla città contemporanea, i cui lineamenti, le cui strutture moderne e tecnologiche vengono sospese nel loro significato funzionale e trascinate in uno spazio magico e surreale. Non si tratta soltanto di una suggestione, ma anche di un progetto, di un’indicazione su come edificare la città futura e i suoi spazi, rendendoli per così dire più lievi e leggeri e dunque meno invasivi nei confronti dell’ambiente. Sembra in altri termini aprirsi la possibilità di una tecnologia più inventiva, più accorta nei confronti dei luoghi e della natura, meno devastante. Una vera e propria “tecnica artistica” che sia anche una tecnica della natura. Su questa via l’arte svolge nuovamente un ruolo inaugurale. Al tempo stesso essa prefigura i lineamenti di una razionalità rinnovata, in grado di connettere il globale al locale, la ragione tecnologica con l’esigenza, densa di risonanze ecologiche, di rinnovare, sotto fattezze tecnologiche, il vincolo del luogo e della comunità nell’universo globalizzato. È il germinale risorgere della romantica “mitologia della ragione”. 99

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L’ESTETICA DI LUIGI PAREYSON COME ERMENEUTICA DELL’ARTE

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Oltre Croce e la filosofia dell’arte Il lungo confronto di Luigi Pareyson con l’estetica concerne, com’è ben noto, soprattutto la prima fase del suo pensiero, anche se si può dire che Pareyson non abbandonò mai l’arte in quanto interesse della sua riflessione teorica. Se volessimo riassumere la parabola del pensiero pareysoniano all’interno dell’estetica, potremmo, sia pure con qualche incertezza, definirla come un passaggio dall’ermeneutica dell’arte all’ermeneutica del mito. Ciò nondimeno la considerazione della tradizione letteraria restò sempre centrale nel suo pensiero, in particolare in riferimento ad alcuni grandissimi autori, primo fra i quali Dostoevskij. Possiamo in ogni caso affermare che l’estetica di Pareyson preconizzi, con estrema lucidità e con molto anticipo, quello che sarà un fenomeno europeo, e cioè la fine della stagione, iniziata con il romanticismo tedesco, dell’estetica come filosofia dell’arte, come specificazione di un orientamento metafisico più vasto, universale non solo quanto alla sua portata ma anche quanto alla sua latitudine, alle sue caratteristiche inglobanti e onnicomprensive31. Tutto ciò avviene in Pareyson proponendo nella sua Estetica un modello estraneo alla struttura classica della filosofia dell’arte, mettendo a strettissimo contatto l’estetica con l’ermeneutica. Questo è il vero punto 100

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dirimente e innovativo a partire dal quale si può cogliere il significato della riflessione di Pareyson, e in particolare di un’opera così significativa come l’Estetica nell’ambito del panorama contemporaneo. L’estetica di Pareyson mette in questione l’impianto classico, di conio romantico e hegeliano, della filosofia dell’arte otto-novecentesca che perdura, a ben vedere, sino ad Adorno; e riesce a realizzare un passo così significativo poiché mette a tema la relazione tra estetica ed ermeneutica. Com’è ben noto Estetica. Teoria della formatività esce nel 1954 ma conosce diverse edizioni successivamente riviste sino all’ultima del 1988, passando per vari editori, da Filosofia, a Sansoni a Bompiani32. Per altro l’interesse per l’estetica resta il fuoco centrale del pensiero pareysoniano per circa un ventennio dal dopoguerra sino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso33. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, Pareyson si volse poi sempre più verso tematiche etiche e religiose. Al centro dell’estetica, com’è ben noto, è l’idea di formatività. Sullo sfondo, come Pareyson dichiara sin dall’inizio, c’è l’insegnamento di Augusto Guzzo secondo il quale la vita umana va intesa come «invenzione di forme»34. La formatività è un concetto che non è di pertinenza della sola sfera estetica ma riguarda la vita spirituale nel suo complesso. Abbiamo dunque a che fare con una teoria che studia la formatività in tutta la vita spirituale, indicando in ogni operazione umana quel carattere formativo per cui essa è, insieme, produzione e invenzione, cioè «fa» inventando il «modo di fare», vale a dire giunge a «realizzare» solo procedendo per tentativi verso la riuscita, producendo così opere che sono «forme»35. L’arte deriva così, secondo Pareyson, dallo sviluppo di una formatività che pervade tutta l’attività 101

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umana. Mentre una sorta di nisus formativus pervade la natura stessa. Si palesa qui un’accentuazione dell’influsso di Goethe che è del tutto centrale in questa fase della riflessione pareysoniana per ammissione dello stesso Pareyson (e che verrà invece meno nell’ultimo Pareyson in corrispondenza con un mutato clima spirituale, con una mutata temperie di pensiero che non ritiene più di ritrovare in una prospettiva in senso lato morfologica il proprio centro)36. In questo quadro la centralità della prospettiva morfologica, per larga parte condivisa anche dallo Schelling della «filosofia dell’identità», altro importante punto di riferimento per Pareyson in quest’epoca, apre lo spettro dei significati dell’arte in direzione della natura e della poiesis spostando così il fuoco dello sguardo. Quella di Pareyson è dunque già una critica della coscienza estetica autonoma, che prende forma e si configura ben prima di quella di Hans Georg Gadamer. E ci guida in una direzione diversa. Ci guida cioè in direzione di una critica della coscienza estetica che non concerne principalmente, come avviene invece in Verità e metodo, la questione del suo legame con la coscienza storica. Su questa via, il cui preludio è Goethe, l’arte precede la coscienza storica, mentre esibisce la propria autonomia come un evento originario, quasi primigenio. L’arte deriva dunque per il Pareyson dell’Estetica dall’accentuazione intenzionale e programmatica d’un’attività ch’è presente in tutta intera l’esperienza umana, e che accompagna, anzi costituisce ogni manifestazione dell’operosità dell’uomo (E, 18).

Pareyson prosegue affermando che: Ciò che propriamente chiamiamo arte, è la “formatività”, cioè un tal “fare” che, mentre fa, inventa il “modo di fare”: produzione ch’è, al tempo stesso e indivisibil-

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mente invenzione. Tutti gli aspetti dell’operosità umana, dai più semplici ai più articolati, hanno un carattere, ineliminabile ed essenziale, di formatività (ibidem).

Questo costituisce la premessa per riconoscere e sottolineare il carattere filosofico dell’estetica. E si tratta di una natura squisitamente filosofica della disciplina che impedisce che l’estetica sia qualificata come filosofia «seconda» rispetto a una considerazione del fondamento cui sarebbe dedita la filosofia «prima» secondo la tradizione classica della filosofia dell’arte. Pareyson rammenta a questo proposito che: Anzitutto l’estetica non è una parte della filosofia, ma la filosofia intera concentrata sui problemi della bellezza e dell’arte, e in secondo luogo le questioni concrete dell’estetica per il fatto d’esser particolari non cessano affatto di essere filosofiche. […] Piuttosto si può dire che l’estetica è un felice esempio del punto d’incontro delle due vie della riflessione filosofica: la via all’insù, che trae risultati universali dalla meditazione sull’esperienza concreta, e la via all’ingiù, che si serve di questi risultati per interpretare l’esperienza e risolverne i problemi (ibidem).

Il punto di vista che qui Pareyson va articolando  – ed è uno dei fattori fondamentali del suo pensiero – è prima ancora antihegeliano che anticrociano, mentre rammenta per certi versi Gentile per il quale l’arte «è sempre un momento od aspetto della compiuta sintesi attuale dello spirito»37, costantemente autosuperantesi e riaffiorante nel quadro di un andamento ciclico. La formatività, e dunque l’arte, costituiscono delle costanti antropologiche e ontologiche che non dipendono da una maturazione storica di alcun tipo. L’autonomia dell’arte potrebbe, da questo punto di vista, essere riposta, proseguendo e certamente forzando Pareyson, addirittura nell’evoluzione 103

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del vivente e precedere lo sviluppo propriamente culturale della specie umana38. In ogni caso, prescindendo da questa considerazione a margine, Pareyson sottolinea costantemente il carattere di «fare» della creazione artistica, con un richiamo alla consapevolezza dell’artista che contesta, anche sulla scorta dell’insegnamento di Paul Valéry39, il motivo platonico dell’ispirazione per sottolineare invece quanto l’opera sia, per così dire, guida a se stessa nel perseguire il proprio intento formativo. Considerazioni di questa natura relativizzano naturalmente la coscienza estetica come fattore necessario d’identificazione dell’oggetto artistico. Siamo al di là della “morte dell’arte” e dell’art paur l’art che ne costituisce la necessaria premessa. Se, per Hegel, la maturazione storica del contenuto spirituale induce l’arte a un necessario tramonto, quantomeno in quanto essa può costituire il vertice di una cultura – ecco che lo sguardo di Pareyson ci induce invece a guardare le cose da un punto di vista notevolmente diverso. L’arte è, come già si è visto, la specificazione di una più universale «formatività» di per sé indipendente da variabili storiche, o storicometafisiche. Pareyson si ritrova, sulla base di questo approccio, a elaborare un concetto di forma dinamica che lo mette a diretto contatto con l’indeterminazione della forma, che prelude all’idea di un’«opera aperta» poi sviluppata da Umberto Eco40. Questa intuizione di Pareyson è del tutto fondamentale; poiché lo mette a contatto con l’arte contemporanea, consentendogli per altro di costruire un’estetica che non si confonda con le poetiche. Si ha così un’estetica non partitica o faziosa, che tuttavia fa a meno delle grandi invarianti categoriali dell’estetica classica per insistere sul processo di formazione dell’opera, 104

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e sull’articolazione della regola che a essa presiede. È un’estetica che propone l’opera e il processo della sua formazione prima di ogni categoricità. Anche se fa dell’opera il proprio epicentro, questa riflessione si sviluppa tuttavia con una notevole consapevolezza del rilievo dell’estetica come disciplina che struttura la riflessione filosofica sull’arte. Forse non è inutile ricordare, in questo contesto, che lo sguardo critico nei confronti di Croce, che avvalora la dinamicità della forma, si prepara in un grande storico dell’arte come Lionello Venturi41. In ogni caso è proprio una concezione dinamica della forma a consentire a Pareyson di articolare il suo confronto con Croce. Il rifiuto dell’identità immediata, non processuale, del rapporto intuizione/espressione sarà, per altro, come già sopra si diceva, il passo che consentirà di mettersi a contatto con l’arte contemporanea. Per venire ora a Croce, come ben si ricorderà, ogni vera intuizione, ogni intuizione riuscita è espressione. V’è tra i due lati una sorta di corrispondenza totale. Croce afferma nell’Estetica del 1902: Ogni vera intuizione, o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in una espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle42.

Si va, in questo quadro, in una direzione che esalta la riuscita formale e, con la riuscita formale, la bellezza che da quest’ultima non può distinguersi. Croce lo sottolinea poco oltre il passo sopra citato e, con ciò, entriamo in uno dei luoghi cruciali non solo dell’Estetica del 1902, ma di tutta la riflessione di Croce in questo ambito: 105

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Nell’atto estetico, l’attività espressiva non si aggiunge al fatto delle impressioni, ma queste vengono da essa elaborate e formate. Ricompaiono, per così dire, nell’espressione come acqua che sia messa in un filtro e riappaia la stessa e insieme diversa dall’altro lato di questo. L’atto estetico è, perciò, forma e nient’altro che forma43.

Abbiamo dunque a che fare con un’opera di travaso che non lascia residui. Il bello dovrà pertanto intendersi come espressione riuscita e il brutto come espressione non riuscita. Nondimeno in quest’opera di trasferimento dell’intuizione in espressione, scaturigine, per il medium del sentimento, di liricità, è assente qualsiasi elemento processuale, dinamico nel processo di strutturazione o di messa in forma dell’opera d’arte. È in questo quadro che s’inserisce la critica aperta e sottintesa di Pareyson nei confronti di Croce. Infatti grazie alla concezione di una forma dinamica, Pareyson si rende in grado: a) di avvalorare il cammino verso la forma medesima nei suoi vari passaggi, i quali dunque risultano di per sé significativi; b) su questa via divengono pertinenti nella valutazione dell’opera d’arte elementi che Croce escludeva, come lo spunto, i materiali, la tecnica. Su questa base si ricava inoltre un’apertura implicita verso la possibilità di una critica della varianti; c) sulla base di una concezione dinamica della forma si acquisisce inoltre la possibilità di connettere la forma all’interpretazione; e dunque: d) di riconoscere il significato intrinseco e non estrinseco dell’esecuzione, della ricezione, della critica, della storicità, e addirittura della patina (Brandi) nella considerazione dell’opera d’arte. Questo consente per altro verso a Pareyson di proporre l’idea di un’estetica della produzione senza sottovalutare tutti i motivi che concernono quella che nel senso più lato 106

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si potrebbe definire la fruizione dell’opera d’arte. La considerazione e il peso del momento produttivo viene così temperato dal motivo dell’interpretazione e della ricezione nell’ambito di una costruzione teorica estremamente equilibrata e meditata. Centrale è dunque per Pareyson il carattere inventivo, di tentativo attraverso il quale si edifica l’opera d’arte. Pareyson sottolinea costantemente come l’invenzione formale abbia un carattere di esperimento e ricerca: È evidente allora che la riuscita presuppone, appunto, un fare che ha da essere anche invenzione del modo di fare. Quale che sia l’opera da fare, il modo di farla non lo si sa in anticipo con evidenza, ma è necessario scoprirlo e trovarlo, e solo dopo che lo si sarà scoperto e trovato si vedrà chiaramente ch’esso era appunto il modo in cui l’opera andava fatta; e per scoprire e trovare come bisogna fare è necessario procedere tentando, cioè figurando e inventando varie possibilità […] finché si arrivi finalmente alla scoperta dell’unica possibilità che in quel punto l’operazione stessa richiedeva per essere condotta a termine e menata a buon porto, e che si rivela allora, una volta scoperta, come quella che si doveva saper trovare. Il formare, dunque, è essenzialmente un tentare, perché consiste in un’inventività capace di figurare molteplici possibilità e insieme di trovare fra di esse quella buona, quella ch’è richiesta per la propria riuscita. Del resto il tentare si estende a tutta la vita spirituale, e investe tutti i campi dell’operosità umana, il che conferma che il suo ambito è quello stesso della formatività, ché tutta la vita spirituale è formativa; e certamente questo destino dell’uomo, di non poter operare se non procedendo per tentativi, è segno della sua miseria e grandezza a un tempo: l’uomo non trova senza dover cercare, e non può cercare se non tentando, ma nel tentare figura e inventa, sì che ciò che trova lo ha, propriamente, inventato (E, 60-61).

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Da questo punto di vista Pareyson accetta, al contrario di Croce, di inoltrarsi in quello che potremmo definire il laboratorio dell’artista, di riconoscere nell’esercitazione, nello spunto e anche nell’improvvisazione elementi centrali per la considerazione e per la valutazione dell’opera d’arte. Per altro verso Pareyson può ricordare come la materia e la tecnica non siano da intendersi separatamente dall’opera, bensì siano parte integrante della sua formazione. Egli si inserisce così, senza chiamarlo esplicitamente in causa, in un dibattito aperto pochi anni prima, nel 1951, da Giulio Carlo Argan con Walter Gropius e la Bauhaus44. Arte e interpretazione Quale esito di un cammino aperto e tuttavia predisposto da una legge che è intrinseca al divenire e al farsi dell’opera, l’arte è indissolubilmente connessa all’interpretazione. Ed è connessa all’interpretazione sia dal versante dell’artista che la crea sia dal punto di vista dell’interprete che la fruisce. L’interpretazione, per altro, si realizza in quanto ha per oggetto una forma e per soggetto una persona. Costitutivo dell’uomo, in quanto persona, è la conoscenza che si dà attraverso l’interpretazione; si tratta di una conoscenza «molteplice e infinita» (E, 186). L’interpretazione si fonda su di una considerazione dinamica della forma, che si confronta con l’opera d’arte nella sua mobile unità morfologica. Si annuncia qui, proprio a contatto con una considerazione insieme ermeneutica e morfologica dell’opera d’arte, l’idea del circolo ermeneutico che verrà articolata in un contesto diverso da Hans Georg Gadamer in Verità e metodo. In un passaggio che si riferisce 108

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alle opere mutile, la cui tesi può ben essere estesa all’insieme della teoria estetica, Pareyson afferma: È ben vero che il tutto non si può cogliere se non percorrendo le parti, perché l’intero si manifesta attraverso la loro connessione; ma questo vincolo che collega le parti non è esterno a ciascuna di esse, perché piuttosto è l’irradiazione di ogni parte dal tutto, si che l’intenzione profonda di chi percorre le pani per cogliere l’intero è di vedere il tutto presente in ogni parte a reclamare ciascuna di esse e a congiungerle tutte insieme. […] Si tratta di ritrovare la forma con una considerazione dinamica, che colga il tutto nell’atto di reclamare le proprie parti e scorga le parti nell’atto di rispondere all’appello della forma formante (ivi, 113).

È l’efficacia operativa della forma, che presiede allo strutturarsi dell’opera, a guidare l’interpretazione e a mettere a contatto l’artista con il fruitore facendoli partecipare di un unico processo creativo45. Abbiamo dunque a che fare con un’interpretazione, e questo costituisce un’intuizione di primissimo livello che distingue profondamente Pareyson da Gadamer, che congiunge, dunque, l’artista e il fruitore, e così attività e passività46. In questo contesto la relazione tra il soggetto e l’oggetto dell’interpretazione sfugge a qualsiasi oggettivabilità su entrambi i lati: Il conosciuto è una forma e il conoscente è una persona (E, 180).

Il peso, e se si vuole la responsabilità «storica» dell’interpretazione non viene affidata esclusivamente alla sua Wirkungsgeschichte, alla «storia degli effetti», ma concerne anche la sua realizzazione e la sua riuscita. In questo quadro si profila la responsabilità dell’interprete che, congiunta al primato della persona, imprime un accento etico all’atto dell’interpretazione. Su questa base la co109

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gnizione estetica assume un significato universale. La conoscenza nel suo complesso infatti, non solo quella dell’opera d’arte, va ora intesa come «sintesi indisgiungibile di recettività e attività» e dunque come «interpretazione» (ivi, 182). E l’interpretazione, nella quale ne va dunque non solo della comprensione ma anche della riuscita dell’opera, è per altro continuamente percorsa dal rischio del fallimento. Si tratta di un rischio che costituisce (ciò che in Croce risulterebbe del tutto inaccettabile) un motivo positivo del concretarsi stesso dell’opera che deriva da un processo di autointerpretazione della propria forma formante. Pareyson afferma inoltre che ogni tipo di conoscenza che non abbia carattere oggettivante, che non derivi da un atteggiamento epistemologico che «definisce e costituisce il suo oggetto», è di natura interpretativa. E questo genere di conoscenza è continuamente esposta, come si diceva sopra, al rischio di non riuscire, di incontrare cioè il duplice limite «dell’incomprensione e dell’in comprensibilità» (ivi, 186). Ma è proprio qui che si annida la ricchezza della conoscenza interpretativa la quale fa sì che la forma sia guardata «in una determinatissima prospettiva, che la mette in luce in un determinato modo», mentre «nella determinatezza inconfondibile della forma infiniti sono gli aspetti e le prospettive» (ivi, 187). Scaturisce di qui la possibilità e insieme la necessità di «infinite interpretazioni possibili» (ibidem), per cui la conoscenza è caratterizzata da una inesauribile ricchezza che scaturisce dall’incontro tra la persona che interpreta e la forma che viene interpretata47. L’opera si realizza dunque anche nel corso del processo dell’interpretazione che coinvolge, secondo quanto si è visto, tanto l’artista quanto l’interprete, il quale è partecipe del processo creativo. 110

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Pareyson introduce l’idea per cui «vedere le cose come “persone” comporta l’impossibilità di ridurre le persone a “cose”» (E, 208), e accentua così l’aspetto etico insito nella sua prospettiva estetica consentaneo con il suo personalismo ontologico. Per altro verso, soggiunge Pareyson, non è dato conoscere le cose se non «personificandole», restituendole alla loro vita e alla loro indipendenza (ibidem). In questo quadro Pareyson propone molte e notevoli sollecitazioni che rinviano a una analisi dell’atto della lettura inteso come atto partecipe della regola costruttiva dell’opera, secondo un orientamento che, forse ripreso da Valéry48, troverà decenni più tardi ulteriori importanti sviluppi nell’estetica della ricezione di Wolfgang Iser il quale sottolineerà, soffermandosi sull’Atto della lettura49, il carattere di indeterminatezza del testo letterario. Leggere per Pareyson significa, lasciando forse risuonare un’eco schlegeliana, «impadronirsi dell’opera stessa rendendola presente e viva, cioè facendone operare l’effetto» (E, 223). L’opera d’arte esige inoltre sempre l’esecuzione che costituisce un suo elemento integrante. L’esecuzione/interpretazione garantisce infatti che la molteplicità e infinità dell’opera non contraddica ma anzi legittimi e rafforzi la sua identità. In questo quadro la distanza storica o culturale non costituisce, secondo una prospettiva che verrà altrimenti sviluppata da Gadamer in Verità e metodo, attraverso la nozione di «fusione di orizzonti», un ostacolo alla sua comprensione e non può darsi una distanza storica o culturale tale da annullare il contenuto, la portata dell’opera, la possibilità di fruirne e di attualizzarla. Una possibilità di interpretare che non deve essere utilizzata ad libitum ma esercitata costantemente all’interno del vigile vincolo dettato dalla forma formante che è operante nell’opera. 111

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Gettare lo sguardo oltre e dire come questo pensiero estetico che fa di Luigi Pareyson uno dei pensatori più fecondi nell’ambito dell’estetica del secondo Novecento, sia ulteriormente maturato, con accenti anche diversi da quelli originari, nella sua stessa opera grazie all’elaborazione di una teoria ermeneutica che ne fa uno dei maestri dell’ermeneutica novecentesca, attraverso la proposta di un «pensiero tragico» che ha nel pensiero di un romanziere-filosofo come Dostoevskij uno dei suoi punti di riferimento fondamentali, non è questione che si possa ora proporre in questa sede. E indubbio tuttavia che la svolta in direzione di un «pensiero tragico» tenderà a interrompere l’unità morfologica del suo pensiero introducendo uno iato incolmabile tra il fondamento e le sue conseguenze, tra la forma formante e quella formata. Si interrompe quella felice armonia e unità che Pareyson aveva ammirato in Goethe e nello Schelling della filosofia dell’identità, per approdare invece a una filosofia meno fiduciosa e più amara, che non ammette più elementi di continuità tra il fondamento invisibile e le forme del visibile.

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LA MORFOLOGIA OLTRE L’ESTETICA. RICORDO DI OLAF BREIDBACH

Olaf Breidbach è mancato il 22 luglio 2014. Poche persone sono state in grado, come lui, di compiere un periplo scientifico e filosofico così ampio che è andato dalla biologia, alla storia della scienza, all’estetica senza che si potessero intravvedere in esso crepe o incoerenze. Nato nel 1957 in Renania, egli studiò arte, scienza, filosofia, biologia e paleontologia all’università di Bonn. Ottenne due dottorati, il primo nel 1982, in filosofia, con una tesi dedicata al concetto di organico in Hegel, e un altro in scienze naturali (Dr. rer. Nat.) nel 1984. Negli anni tra il 1985 e il 1987 lavorò come borsista Liebig presso l’università di Colonia. Rientrò quindi a Bonn e fondò un gruppo dedicato agli sviluppi neuronali. Dal 1995 insegnò come professore ordinario di Storia della Scienza presso l’Istituto di Storia della Medicina, della Scienza e della Tecnica che ha sede nello Ernst-Haeckel-Haus di Jena. Il confronto con Haeckel non poteva che presentarsi come quanto mai fruttuoso nonostante tutta la diffidenza di Breidbach per gli utilizzi ideologici dell’opera di quest’ultimo. Il confronto con Haeckel proponeva infatti sin dall’inizio al centro dell’attenzione la relazione arte-scienza, uno dei temi che hanno fatto da filo rosso del suo percorso scientifico e anche della nostra amicizia. Comincerei di qui per articolare anche la rivisitazione di un progetto comune, quello 113

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sulla morfologia, che condusse alla fondazione del Centro Interdipartimentale di Morfologia Francesco Moiso presso l’Università di Udine (2006), e poi al Centro Interuniversitario di Ricerche sulla Morfologia Francesco Moiso presso l’Università di Torino (2013), e a varie pubblicazioni comuni. È solo su questo punto che qui intenderei soffermarmi per delineare la prospettiva comune che si era delineata, soprattutto, naturalmente, per merito suo, e poi i compiti che si affacciarono sul presente e sul futuro, grazie alle sue indicazioni negli anni della nostra collaborazione. Da Haeckel, del quale negli ultimi anni andava curando il Carteggio presso la Nationale Akademie der Wissenschaften Leopoldina, e del quale fornì numerose edizioni di testi, Breidbach fu attratto non solo dal punto di vista di una considerazione scientifica che superava molte remore di tipo ideologico connesse agli aspetti più inquietanti di questo biologo e teorico della biologia che mal si armonizzavano, tra l’altro, anche con la sua fede cattolica. Egli era attratto da Haeckel in particolare dal punto di vista dell’elaborazione morfologica che metteva a contatto arte e scienza50. In particolare era attratto dalla commistione haeckeliana di Darwin e Goethe, dalla morfologia haeckeliana che cercava nella continuità delle forme dei radiolari una legge dell’evoluzione e della classificazione di questi protozoi51. Ciò che attraeva Breidbach era che la continuità formale non poteva intendersi che come arbitraria, o meglio, per l’appunto, come puramente formale, come soltanto estetica. Ciò significava far emergere e problematizzare il nesso tra parola e immagine nella nostra tradizione, quel nesso così problematico e conflittuale per cui l’immagine viene sospinta, a partire dal platonismo, 114

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sul fronte dell’illusione mentre la parola su quello della verità. È all’interno di questo quadro che si inseriscono anche le ricerche goetheane di Breidbach52, la sua attenzione alla neuroestetica, il suo interesse per l’immagine e la sua logica peculiare condiviso in innumerevoli colloqui e nei due volumi a quattro mani Pensare per immagini e Anschauung Denken53. In questo quadro lo sguardo su Goethe e quello sull’immagine si propongono come elementi-cardine di una coscienza antiestetica, e antiestetistica dell’immagine stessa che vuole fondare il proprio procedere su di un andamento che, goetheanamente, la congiunge alla conoscenza, e la disgiunge dalla sudditanza al logos della parola. Forse, in tutta l’estesissima opera di Olaf Breidbach nulla era più presente del progetto di ristabilire quel logos che l’immagine aveva perduto nel corso dei tempi, a partire dalla condanna platonica affidata al decimo libro della Repubblica. Si è trattato di un lungo percorso che il contemporaneo mondo dell’immagine sembra aver rovesciato, anche se, a mio avviso, vi sono molti dubbi che le cose vadano davvero in questo senso. Più volte Olaf Breidbach aveva sottolineato, spesso in colloqui personali, il valore dello schizzo a fronte dell’immagine compiuta e conclusa, mostrando come il carattere di tentativo dell’immagine finisca per contrastare con quella sua dimensione solo retinico-oculare, per così dire cellofanata, che sembra renderla disponibile innanzitutto alle logiche del mercato che nel volto vivido dell’apparenza fondano l’attrattiva della merce54. È dunque la logica dell’immagine quella che Breidbach vuole approfondire a partire da Haeckel per venire agli studi su Goethe e a quelli realizzati insieme, in un cammino che ci conduce ben oltre 115

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la separazione dei logoi, quello dell’immagine e quello discorsivo, e dei saperi per giungere a una loro feconda integrazione55. È questo uno dei punti di vista che si estendono nella riflessione storica e teorica di Breidbach, in particolare per quanto riguarda il continente estetico che è quello sul quale posso maggiormente esprimermi in questo contesto, laddove altri studiosi hanno già egregiamente tratteggiato profili ben più compiuti della figura di Breidbach56. È indubbio tuttavia che, dal punto di vista estetico, egli volesse muovere in direzione di un rinnovamento della morfologia goetheana che accostasse un approccio fenomenologico alla prospettiva di un’estetica neuronale. È quanto per esempio già emerge con chiarezza nel capitolo dedicato alla Morphologie di Goethes Metamorphosenlehre. Soffermandosi sulla Farbenlehre Breidbach afferma: A Goethe non interessavano le leggi dell’ottica. Ne andava per lui di una visione del mondo, che si definisce nell’occhio e che si struttura a partire dall’occhio. […] L’idea goetheana di morfologia che si fonda sull’andamento della natura è, quanto alla sua peculiare configurazione, il processo nel quale questa stessa natura si sviluppa nella sua molteplicità57.

La questione era dunque per lui quella dello strutturarsi del visibile secondo configurazioni che si profilano come “visioni immersive”, a riprendere il punto di vista di Oliver Grau58. La morfologia rinvia cioè a un universo in cui la forma-immagine non è, né può essere adeguatamente concepita sulla base del modello della rappresentazione pellicolare retinica. Abbiamo piuttosto a che fare con immagini dentro cui siamo, immagini abitabili che costituiscono il nostro mondo-ambiente. In questo senso si era inteso andare 116

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verso la definizione di stili della visione, che sono stili culturali. Da questo punto di vista si poteva scrivere insieme nelle Conclusioni di Pensare per immagini: Le intuizioni sono definite soltanto in base al fatto che noi le poniamo in una cornice e che così le possiamo considerare, entro un orizzonte adeguato, come un elemento certo per noi. Questa cornice è l’antiporta dell’esperienza vissuta del singolo, il primo passo che si evolve sino a diventare uno stile condiviso di pensiero. In tal modo, determinando cioè una costanza quanto ai modi della visione, il pensiero si universalizza. L’universalità che qui viene a proporsi ha il volto dello stile, dell’unità visiva.59

In quanto sintesi percettive le immagini esibiscono una loro tendenza a incarnarsi, a essere molto più di quell’apparenza nella quale la coscienza estetica vorrebbe confinarle. Esse sembrano votate all’embodiment. È un’inclinazione a costituirsi come sintesi percettive ispiratrici di un’estetica neuronale che invita a unire natura e cultura in un unico plesso nel quale esse sono inestricabilmente congiunte60. L’estetica neuronale ci rinvia dunque all’idea di un superamento della coscienza estetica in direzione di un accadimento radicale dell’immagine che si sottrae così al suo statuto contemplativo. Può diventare una pura forma per il fatto di essere stata estrapolata da ogni contesto per essere vissuta del tutto autonomamente, laddove nell’ottica che qui si va sviluppando l’immagine diviene un vero e proprio ambiente culturale. Si tratta di un ambiente culturale che sviluppa le proprie prerogative producendosi come mondo-ambiente sia in un ambito interno, psichico quanto in quello esterno propriamente mondano. Si potrebbe anzi aggiungere che l’habitat interiore da questo punto di vista non si distingue da quello esterno, laddove si tratta di immagini che 117

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popolano le nostre vite, ne costituiscono il frame indispensabile per la loro elaborazione e la loro autocomprensione. Si tratta dunque di immagini che non superano solo l’alternativa di natura e cultura ma anche quella tra mondo interno e mondo esterno. Sono immagini che psichizzano il mondo tanto quanto culturalizzano il bios. Di volta in volta, con il loro stesso emergere, esse si espongono a essere accolte o rifiutate. Il loro rivelarsi e il loro imporsi fa riflettere sul fatto che accanto a un’estetica neuronale, sempre più impellente si profila la necessità di un’etica dell’immagine.

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IL KATÉCHON E LA LEGITTIMITÀ DEL NOSTRO TEMPO. NOTE SU ESTETICA E TEOLOGIA POLITICA

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Il ritorno del katéchon e la legittimità del nostro tempo La metafora paolina del katéchon o del “potere che frena” si abbatte con un’attualità davvero sorprendente su di un mondo pervaso da rancore e nostalgia per il tempo che fu, dominato da nazionalismi, da localismi quasi vernacolari, che ha perso di vista le forme di legittimazioni tradizionali. Immediatamente, così, veniamo ribaltati sul presente. Il tema della “legittimità dell’età moderna”, a riprendere il titolo del famoso libro di Hans Blumenberg, non è per altro affatto inconsueto, si radica bensì in un tempo lontano61. Sappiamo ormai troppo bene chi siamo, quasi non avessimo più inconscio. L’oggi lacerato dalle mille identità sembra voler rinunziare a questo eccesso di consapevolezza come se si fosse improvvisamente spalancato un abisso confusivo. Esso non dipende affatto da una crisi esantematica. Le spinte entropiche e centrifughe sono una situazione tipica già della prima modernità e della modernità matura – a voler percorrere un arco che va dalle poetiche del primo romanticismo tedesco per culminare nel grande saggio di Ernst Jünger, La mobilitazione totale, ovvero all’idea di un tempo dominato dalla sola dynamis, renitente alla stasis. Abbiamo a che fare 119

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con la grande paura, nutrita dalla modernità, di un tempo votato all’entropia, da intendersi qui in senso lato come inclinazione alla perdita di energia. Quello che viene a proporsi è un percorso lunghissimo e quanto mai significativo per cogliere ciò che sta ora accadendo. Non bisogna a questo proposito lasciarsi ingannare dall’immensa accelerazione temporale che ha coinvolto il nostro tempo62. In realtà il panorama odierno non è affatto inedito, ma si prepara nel corso dei secoli. Nulla è più indicativo a questo proposito delle difficoltà, per non dire del vero e proprio fallimento del processo di razionalizzazione del mondo sul quale Max Weber aveva a suo tempo attratto lo sguardo63. Il procedere lineare della secolarizzazione si sviluppa in realtà con andamento sussultorio coinvolgendo anche la sfera politica che ha sempre più difficoltà a legittimarsi ricorrendo a meccanismi solo secolari rinunziando alla sfera del sacro. È in questo quadro che va inteso l’interesse sempre più intenso per la teologia politica nell’ambito della filosofia italiana. Come è noto, esso è al centro della riflessione filosofica dagli anni Cinquanta del secolo scorso con la pubblicazione del Nomos della terra di Carl Schmitt. A partire da Massimo Cacciari per venire a Roberto Esposito e a Giorgio Agamben, la riflessione sul katéchon si è sviluppata in un quadro in cui l’esegesi della questione neotestamentaria proposta nella Seconda lettera ai Tessalonicesi intende aprire il cammino alla comprensione e all’autocomprensione del nostro tempo64. Si tratta di una questione squisitamente filosofico-politica – e non a caso essa non ha destato un particolare interesse in ambito teologico e storico-religioso (per esempio, nell’Index patristicus manca questa voce). Oggi, come si avrebbe intenzione di mostrare in questa sede, è divenuto evidente il suo risvolto estetico (e anche 120

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estetistico), che è per altro connesso all’idea stessa di katéchon, di una forma che trattiene e contiene. È proprio sul piano estetico, per altro verso, che viene a definirsi quella distinzione fondamentale tra legittimità e legalità che si sviluppa nel dialogo polemico tra Schmitt e Blumenberg65. Centrale nel confronto tra i due è, com’è ben noto, ancora una volta il concetto di secolarizzazione, la corrispondenza tra simboli trascendenti i quali, affini alla forma estetica, sono in grado di fare dei molti una compagine, e la molteplicità irrelata che costituisce uno dei contrassegni della modernità. Come un’alternativa potente alle posizioni di entrambi si prospetta il pensiero di Jacob Taubes che lascia trasparire profonde nervature benjaminiane. Per quanto riguarda il confronto Taubes-Schmitt non è una questione di diagnosi ma di prognosi: l’Ausnahmezustand, lo schmittiano “stato d’eccezione” contraddistingue implicitamente o esplicitamente per entrambi la situazione presente. E tuttavia tra i due si stabilisce una sorta di abisso che Taubes sottolinea: lo stato di eccezione contraddistingue per Schmitt il momento in cui si afferma nuovamente, grazie alla persona del sovrano, la legittimità di un dominio assoluto. Per Benjamin, e forse anche per Taubes, invece la situazione di eccezione è permanente. Essa implica, per Benjamin, una decisione tranchant, che riapre i giochi, cui corrisponde, in una forma che rinvia alle poetiche dell’avanguardia, la situazione del totalmente nuovo, lo stato messianico, cui si ha accesso tramite un istinto alla felicità che costituisce un’intrinseca promessa edenica. Si tratta per Benjamin all’opposto di Schmitt, di interrompere nella Jetztzeit, nel qui e ora, la catena del tempo, secondo quanto eminentemente testimoniano le Tesi di filosofia della storia66. È una propensione del tempo al futuro che ribalta 121

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il senso degli eventi definendo l’ultima delle estasi temporali (e non la prima) come ciò cui davvero apparteniamo. È ora opportuno venire ai precedenti storici della questione teologico-politica che è al centro di queste riflessioni, quella del katéchon, del potere che frena.

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Il katéchon tra antico e moderno La questione del katéchon ha dei precedenti importanti nella filosofia antica e nell’Antico Testamento, ma si sviluppa poi – come è ben noto – in tutta la sua portata nella Seconda lettera ai Tessalonicesi di Paolo67, ove si afferma che l’avvento dell’Anticristo si sta preparando, ma che esso incontrerà l’attrito di un katéchon, per l’appunto di un “potere che frena”. Quest’ultimo svolge un ruolo al tempo stesso positivo e negativo: per un verso esso non consente l’avvento dell’Anticristo, e dunque di un male radicale, mentre, per altro verso, a venire impedita è anche la nuova parousia del Cristo che dovrebbe distruggere l’avversario quando e a condizione che esso si riveli. A questa ambiguità del katéchon è connesso tutto il suo destino futuro, un percorso nel quale la valenza negativa del concetto cederà sempre più il passo a interpretazioni positive68. Paolo si rifà a fonti altotestamentarie che tendono ad accentuare il volto negativo del katéchon, inteso come ciò che, per l’appunto, frena l’avvento del Messia (ancora oggi, vale la pena di ricordarlo, i partiti religiosi in Israele accusano quelli laici di costituire un freno all’avvento del Messia). La questione è quantomai delicata in quanto rinvia per un verso all’affermarsi dell’unico potere legittimo, il Regno di Dio annunziato dalla venuta del Cristo che riafferma la sua signoria sul 122

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mondo. Ogni altro regno o potere, a questa luce, risulta o illegittimo o ha un significato secondario rispetto al primo. L’Anticristo si propone inoltre sotto forme maliose e fascinatrici. A leggere il testo paolino con gli occhi di oggi, potremmo dire che si tratta di fattezze estetizzanti. Egli esercita un potere seduttivo che assumerà modernamente le parvenze dell’ideologia, di un’apparenza che vuole accreditarsi come il vero. Il monito di Paolo è chiarissimo: egli ammonisce affinché non ci si faccia ingannare da chiunque profetizzi che il giorno del Signore è vicino. L’Anticristo si palesa così come il vicario illegittimo, come l’impostore, come colui che si propone in luogo del vero Signore mimandone le fattezze. Ancora una volta, attraverso il motivo mimetico, si affaccia una determinazione estetica tangente con la politica. La questione della legittimità, quella del vero potere è dunque anche, a questa luce, una questione estetica. In questo schema non è prevista la possibilità di una diadochia: uno soltanto può essere il sovrano legittimo69. Veniamo al passo paolino. Scrive Paolo annunziando l’avvento dell’Anticristo: Nessuno si inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. […] Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene. Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo annienterà con il soffio della sua bocca e con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli, di segni e di prodigi menzogneri, e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati. Dio

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perciò manda loro una forza di seduzione perché essi credano alla menzogna, e siano condannati tutti coloro che, invece di credere alla verità, si sono compiaciuti dell’iniquità70.

Si avvia, a partire da qui, un percorso che si articola in un quadro temporale sterminato che va da Tertulliano a Girolamo a Crisostomo, per svilupparsi ulteriormente, e non senza interruzioni significative, con Costantino I ed Eusebio di Cesarea, sino alla Riforma, a Lutero e Calvino, per poi attraversare più tardi il pensiero russo, da Rozanov a Šestov, e venire quindi al suo punto culminante con il grande confronto Schmitt/Taubes sullo sfondo del quale aleggia l’ombra, quanto mai accattivante e in fondo vincente, di Walter Benjamin. Cos’è in gioco nel corso di tutta questa plurimillenaria vicenda? Null’altro che la forma di legittimazione del potere politico. Si delineano, per contrasto, sul lato opposto, le caratteristiche del potere illegittimo che è essenzialmente un potere ideologico, e un’ideologia del potere che si afferma adottando spoglie false, seducenti e mentitrici. Per quanto questa interpretazione sia molto debitrice della nostra contemporaneità, è difficile smentire che il passo paolino ci conduca in questa direzione. Il katéchon frena il processo messianico, la storia della salvezza. Pur svolgendo un ruolo negativo, esso è tuttavia funzionale al complesso dello sviluppo di quest’ultima. Com’è stato rilevato, la questione del katéchon ha un’inflessione curiosa laddove esso costituisce un limite alla nuova parousia del Cristo, che viene tuttavia spesso guardato con malinconia non appena viene meno71. In ogni caso da Ireneo a Gerolamo a Ticonio il katéchon, che esso venga direttamente o meno tematizzato, agisce come un freno nei confronti della nuova parousia del Cristo72. 124

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La sua connotazione, quantomeno inizialmente, è dunque negativa. Esso può essere inteso, come avviene in Gerolamo, come l’Impero che frena il nuovo avvento, o – in Ireneo e Ticonio – come la parte oscura della Chiesa. Fu Agostino, in fondo sulla scia di Tertulliano, attraverso la duplicazione dei Regni e delle Città divina e umana, a conferire a Roma un significato centrale, quantomeno limitatamente alla sfera prettamente politica, mettendo così a tacere il conflitto dei Regni che si cela dietro alla questione del katéchon. Tertulliano riconosce, in Contra Apologeticos, nell’Impero un vero e proprio freno, per l’appunto un katéchon che argina la dissoluzione finale, l’avvento della fine del mondo. Quest’ultima viene intesa come un evento negativo e non invece salutata come l’accadimento messianico. La continuità dell’Impero è una salvaguardia di tutti e non si identifica con la civiltà romana e con i suoi vizi73. Nella prima fase della sua storia, la questione del katéchon contiene entro di sé, più o meno celatamente, quella del conflitto dei Regni, la domanda, davvero potente, circa il luogo del Regno di Dio, da collocarsi sull’orizzontale di una vocazione storico-messianica piuttosto che sulla verticale della trascendenza74, con conseguenze potenzialmente conflittuali sul piano della legittimità dell’uno o dell’altro imperium. A ciò fa seguito – ci sia concessa un’ipotesi sicuramente outrée – una sorta di costruzione della (e costrizione alla) trascendenza. Verrebbe in altri termini da ipotizzare che la trascendenza, quella che potrebbe definirsi in questo caso come la messa in verticale della fede, derivi in parte dalla frustrazione nei confronti della mancata seconda venuta del Cristo. Questo passo, che si prepara in Agostino, produce, come si è detto, una sorta di dislocazione dei piani che consegna ad autorità diverse le chiavi del regno dei cieli e di quello 125

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di questa terra e del suo governo75. La trascendenza e la sua costruzione consentono così che si definisca un ordine che tempera e integra le istanze originariamente contrapposte. Attraverso questo passaggio il katéchon rovescia il suo segno: esso assume un significato e una portata definitivamente positiva e azzera il significato negativo che esso aveva all’origine. È un processo che ha forse il suo culmine ideale, molti secoli dopo, nel De Monarchia dantesco, laddove il contemperarsi dei due momenti prefigura un ordine perfetto: A tutte le argomentazioni che precedono dà conferma un fatto memorabile: cioè la situazione dell’umanità che il figlio di Dio o attese, o quando volle, egli stesso predispose prima di farsi uomo per la salvezza degli uomini. Se infatti ripercorriamo la storia dell’umanità a partire dalla caduta dei nostri primi parenti, che fu la falsa via, origine di ogni nostro traviamento, troveremo che solo sotto la perfetta Monarchia del divo Augusto il mondo fu tutto in pace. E che allora il genere umano sia stato felice nella tranquillità di una pace universale, lo ammettono tutti gli storici; lo attestano poeti illustri e si è degnato di attestarlo anche l’interprete della mansuetudine di Cristo; ed infine Paolo chiamò questo stato felicissimo “pienezza dei tempi”. E veramente pieni furono i tempi e le cose temporali tutte, perché nessuna istituzione per la nostra felicità mancò allora di chi la rendesse efficiente. Ma come sia diventato poi il mondo da quando questa tunica inconsutile dovette per la prima volta subire la lacerazione da parte dell’artiglio della cupidigia, lo possiamo leggere, e vorremmo, ahimè, non vederlo76.

D’ora in poi perdere il katéchon, avvedersi del suo tramonto produrrà una nostalgia vertiginosa, una malinconia che non riguarda l’Apocalisse mancata bensì il terrore del suo realizzarsi, l’avvento di un’irredimibile catastrofe da evitarsi a qualsiasi costo. È questo, in fondo, il passaggio che ci conduce sino al 126

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capitolo ultimo della vicenda, quello concernente la triade Schmitt-Taubes-Benjamin: qui il confronto si svilupperà lungo un asse che mette a confronto l’apologia schmittiana del katéchon, del potere che frena, inteso come ultimo baluardo nei confronti dell’avvento di un caos avvertito come nichilistico, e la necessità rinnovata di un esito messianico che oltrepassi le rovine della storia le quali, proprio in forza del loro volto barbarico, danno ragione alle speranze di Walter Benjamin e Jacob Taubes. Ripercorrere la vicenda del katéchon per gettare lo sguardo sul presente significa, per dirla molto in breve: 1) trasferirci dalla sfera prettamente teologica a quella filosofico-politica connotata in questo caso da potenti inflessioni estetiche, e cioè calarsi nella storicità del potere mondano della quale il katéchon è parte integrante nelle interpretazioni successive, 2) che lo vedono incarnarsi ora nell’Impero ora nella Chiesa cattolica. La storia antica del katéchon ci fa assistere, come si accennava sopra, a una trasformazione della sua interna struttura che ne modifica profondamente l’assetto. Il katéchon, che ha dapprima una valenza e un significato puramente negativi nell’interpretazione paolina, viene assumendo, come si è accennato sopra, nella Patristica latina, attraverso Tertulliano e Crisostomo, una valenza positiva. La questione è di un significato difficilmente sottovalutabile per ciò che concerne le forme di legittimazione del potere occidentale. Sulla base di questo cammino la forma dell’Impero viene via via a emanciparsi dalla romanità per palesarsi come una forma intemporale del potere politico. E la questione del potere legittimo è connessa alla radice all’idea di un potere monocratico che non ammette che un sovrano, un arconte legittimo. Tutto il resto scivola, in quest’ottica, nella dimensione di un vicariato illegittimo. A partire dall’invasione romana 127

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e dal conflitto tra gli Zeloti e l’Impero romano77, che si configura come la figura primigenia di un immane conflitto reale e simbolico insieme, per venire al passo di Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, e al suo implicito conflitto con Roma, andando innanzi, sono costantemente in questione l’arconte legittimo e quello fittizio. Quest’ultimo è la vera propria figura dell’ideologia, o l’ideologia in figura: l’arconte illegittimo rappresenta il principe senza carisma, che dunque è destinato a tramontare nel giro di breve. Egli è una figura dell’apparenza, dell’apparenza estetica laddove vorrebbe simboleggiare l’eterno, mentre null’altro è che il signore fittizio, l’eidolon e non il vero sovrano, dunque transeunte, ciò che dunque è destinato a tramontare in breve tempo. La figura dell’ideologia è dunque quella della sostituzione del sovrano legittimo con l’impostore: è il doppio come realtà e incubo come ci insegna la leggenda della maschera di ferro. L’ideologia e la sua figura nascono dunque attraverso la figura dello scambio, della sostituzione del vero signore con un falso arconte. Essa cerca di imporre il doppio apparente o l’apparenza estetizzante del doppio, e questo ci conduce da Erode sino a Hitler nella satira di Chaplin, passando per la meravigliosa fiaba di Hoffmann, Il piccolo Zaccheo detto Cinabro, a venire infine alla denuncia della Chiesa confessante tedesca che non riconosce legittimità alcuna al Führer nel nome di un solo Signore. Benjamin, Taubes, Schmitt Passando subito al Novecento per approfondire l’attualità della questione, abbiamo a che fare con una ripresa del katéchon che ne modifica profondamente il significato. All’antica dimensione dell’attesa messiani-

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ca se ne congiunge un’altra tutta secolare: è l’affacciarsi sulla scena del nichilismo. I due aspetti della questione si saldano tra di loro in una miscela inaspettata e in qualche modo esplosiva. L’attesa messianica, il nuovo regno si affaccia ora come una minaccia – agli occhi di Carl Schmitt, il quale riesuma la questione del katéchon78 – che assume le vesti della rivoluzione bolscevica, promessa di catastrofe e rovine irredimibili, e non certo dell’agognata apocatastasi. L’evo cristiano sembra così prolungarsi verso la sua fine cercando dei punti di resistenza. L’immaginario corre verso la fine dei tempi, in un clima più che naturalmente buio e pessimistico che legge la fine come catastrofe e non come avvio di un mondo nuovo79. Sull’altro versante, da Benjamin a Taubes, la speranza messianica sembra rinnovarsi proprio grazie a un’adozione del nichilismo che trae paradossalmente profitto dal panorama di rovine su cui affaccia il presente. In questo contesto la speranza messianica rinnova inaspettatamente il suo antico vigore. La diagnosi concernente il momento critico incarnato dall’oggi è la medesima agli occhi dei due grandi interlocutori, Taubes e Schmitt, i quali divergono tuttavia radicalmente quanto alla prognosi, alla prospettiva sul futuro80. Anche in questo caso i risvolti estetici della questione si lasciano avvertire sin dall’inizio. Per un verso abbiamo a che fare con un problema che concerne la forma in quanto elemento in grado di chiudere e, latamente, di concludere, di fornire un significato stabile e non soggetto a eccessive oscillazioni. Per utilizzare in chiave metaforica i termini, si potrebbe dire che abbiamo a che fare con un tentativo di contrapporre all’entropia moderna, alla tendenza nichilistica alla dispersione energetica una reazione negentropica. La metafora della Vulgata della forma qui tenet esprime queste assonanze e sembra proporsi come contrappeso dinamicamente positivo 129

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a una dynamis negativa, a un’instabilità sistematica che – per utilizzare Ernst Jünger – contrassegna l’epoca della mobilitazione totale. Emerge – sia detto di passaggio – su queste basi l’esigenza già espressa dai Romantici tedeschi di una forma dinamica, di una forma in movimento capace di captare i disiecta membra di un universo in costante divenire81. Tralasciamo tuttavia per il momento questo aspetto per sottolineare invece che la proposta benjaminiana e quella taubesiana ci conducono – rispetto a Schmitt – su di un versante opposto, ma non meno nobile e consolidato nella tradizione estetica e filosofica: quello dell’estetica delle rovine. Si tratta in questo caso di rovine che rappresentano un vero e proprio geroglifico: non come nel caso delle rovine settecentesche, si pensi a Piranesi, indici di un passato ctonio che vuole riaffiorare, ma alfabeto tuttora da comporre di una lingua del futuro ancora da inventare. L’identità messianica, connessa all’idea di katéchon, che si era andata celando durante quasi tutta la sua storia, ricompare alla fine come una sorta di rimosso che affiora nella piena maturità del momento storico-spirituale. La pratica del nichilismo, evocata da Benjamin, prelude alla fine della storia del katéchon, e all’avviarsi di un’altra vicenda che più intimamente ci appartiene. Quello che è in gioco – con Benjamin e Taubes – è l’indirizzo del tempo messianico, il suo significato ultimo, quell’orientamento che vede nel tempo della fine la chance della Erlösung, di una redenzione che si fonda su di un atto di decisione. Essa interrompe il susseguirsi monotono degli attimi e introduce un tempo nuovo. Questa decisione che interrompe introduce la pratica programmatica del nichilismo che viene evocata da Benjamin nel Frammento teologico-politico. È l’idea di un tempo messianico che tragga profitto dalle rovine del tempo. Tutto questo si salda naturalmente 130

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con l’immagine dell’angelo della storia della quarta delle Tesi di filosofia della storia il quale, come è ben noto, attraversa un panorama di rovine sospinto da un vento che lo conduce innanzi senza che egli possa sapere dove davvero stia andando in quanto procede a ritroso, di spalle82. Benjamin aggiunge, come si accennava, che ci troviamo dinanzi a una pratica positiva del nichilismo, il vero e proprio fantasma che si era parato agli occhi di Schmitt. Si annunzia qui – come già si diceva sopra – una nuova poetica delle rovine molto consentanea al nostro tempo. Alle rovine settecentesche che indicano l’attualità di un passato che può farsi modello solo a saperlo sapientemente ricostruire, si sostituiscono delle nuove rovine che semplicemente additano il futuro senza volgere indietro lo sguardo. Si tratta, senza mezzi termini, della proposta di un’ermeneutica del futuro. Queste rovine sono gli epigoni di una catastrofe il cui senso ultimo sarà definito in un futuro redento che viene a configurarsi come una vera e propria apocatastasi. È così l’idea, o il paradosso, di un nichilismo messianico quella che viene e a profilarsi. Essa esclude dal proprio orizzonte il nichilismo del nietzschiano “uomo più piccolo” oscurato dalle proprie piccole voglie, da quella pluralità di piccole pulsioni desideranti che attraversano l’uomo tardo-moderno83. Il potere instabile Quella che viene a profilarsi non è così tanto una fine definitiva, quanto una lunga agonia che diviene quasi una sorta di stato cronico del paziente. Ed è su questo aspetto che ci si soffermerà nell’ultima parte di questo contributo. È un quadro generale che rende edotti di un potere costitutivamente 131

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instabile, costantemente esposto allo “stato di eccezione”, che si regge sulla base di una struttura dinamico-conflittuale. Va aggiunto che la legittimità del potere si definisce, nel mondo cristiano, grazie alla sua capacità di confermarsi nel proprio supporto sovrasensibile, di produrre una rappresentazione imperitura del proprio sé che faccia aggio su quella transeunte84. Si tratta in fondo di una legittimazione estetica nel senso che essa trascorre attraverso un riverbero, un’autorappresentazione che sancisce a monte quello che accade a valle. La struttura del potere reca così traccia di una relativa ma sistematica instabilità e dynamis che rinvia alla questione – necessità della sua legittimazione. Potremmo dire che abbiamo a che fare con una strutturazione del potere intimamente esposta – per via della sua strutturazione dinamica – all’instabilità e dunque all’eccezionalità. È una forma del potere che si vincola a simboli trascendenti e, insieme, si struttura su simboli della trascendenza. La trascendenza, tra l’altro, può talora anche immanentizzarsi. È per esempio il caso di Carlo Magno, del Re che nuota, per riprendere Horst Bredekamp. Grazie alla sua figura maestosa, radunando intorno a sé, nelle acque della piscina di Aachen, figli, ottimati e la stessa guardia reale, Carlo esercita un potere embedded, connesso alla sua figura fisica possente. Si tratta pertanto di un potere costantemente congiunturale, instabile, in particolare se messo a confronto con le teocrazie orientali, in quanto esso è connesso al suo corpo e alla sua persona85. Andando indietro nel tempo  –  sia detto di passaggio  –  già la struttura del potere imperiale, vero e proprio modello delle configurazioni successive del potere politico, dipende, sia pure da un ben altro punto di vista, dalla congiunzione del tutto eccezionale della carica di 132

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pontefice massimo e di quella di pretore, riunendo così entro di sé prerogative eterogenee e d’ordine giuridico e religioso86. Il potere occidentale appare così irrequieto e la sua sanzione sin dalle origini instabile. Ma ciò non va del tutto a suo discapito. Si tratta di un potere dinamico e/o di una intima dynamis del potere che connota la sua struttura occidentale in contrapposizione alla struttura ieratica dell’impero d’Oriente. Questa struttura instabile, conflittuale, dinamica ha bisogno per convalidarsi di simboli stabili  –  e qui veniamo al versante estetico della questione – che trattengano l’irrequietudine che sta sullo sfondo. Possono essere l’immagine dell’imperatore, ma anche quello dell’acconciatura dell’imperatrice che fa sfoggio di sé sui mosaici di tutto l’impero. Il katéchon, il potere che frena, si articola (anche) in una simbologia estetica universale che è tale, universale, solo in quanto coagula, trattiene entro di sé l’instabilità e la tendenziale entropia che la nutre. (Va sottolineato che più profondamente il katéchon cela e rivela al tempo stesso, quantomeno originariamente, il conflitto tra i Regni, quello di Dio e quello dell’uomo, un conflitto indicibile à la lettre che si sviluppa su questa terra e che ha questa principalmente come posta in gioco. Il Regno di Dio non è in altri termini alle origini un altro mondo, ma questo stesso mondo che si fa altro). Cosa significa universale in questo quadro? Qui la trascendenza dell’universale prende un aspetto diverso rispetto a quello cui ci ha abituati un certo lessico religioso. Non dobbiamo guardare in verticale ma in orizzontale. I simboli katecontici sono universali solo in quanto trattengono entro di sé in un’unica facies sguardi che provengono da 133

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parti diverse. La prospettiva non modifica in altri termini la consistenza della struttura simbolica. È questa in fondo la cellula originaria del pluralismo moderno. Il katéchon addita una dinamica formale quanto mai significativa, laddove si dimostra che il nostro potere mondano è costitutivamente dotato di una struttura instabile, e che la crisi, lo “stato di eccezione”, per riprendere Carl Schmitt, è dunque permanente. Esso, per tornare agli inizi del discorso, trattiene e dà forma al male  –  e, così facendo, venendo a contatto con esso, paradossalmente impedisce che emerga nella sua dimensione esantematica e apertamente patologica. Solo emergendo, per altro, il male, da intendersi in questo caso principalmente come entropia, andamento verso la morte, è davvero tale e può essere sconfitto. È una vicenda che va vista anche e soprattutto nella prospettiva del presente. In questo quadro, per dirla molto, troppo perentoriamente, il katéchon è ciò che oggi – a ragione o meno non è qui in discussione – ci manca. Siamo l’epoca che non conosce più il potere che frena. L’epoca che vive una crisi immensa di legittimazione e di autolegittimazione. Dall’antico, al moderno, al postmoderno si è passati all’antropocene. All’epoca entropica per eccellenza87. La questione è politica, o meglio estetico-politica. C’è da chiedersi, alla luce delle considerazioni precedenti, da cosa l’instabilità dipenda, se essa sia contingente, connessa a un oggi che ha per così dire intrapreso una rotta eccentrica o se sia invece legata e quasi iscritta in un più lontano destino. Questo modifica in profondità la diagnosi relativa all’instabilità del nostro tempo e delle nostre forme della sovranità. 134

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Questioni di provenienza C’è dunque da interrogarsi nuovamente circa la nostra provenienza, e questo ci consente di guardare al presente. Per capire se siamo precipitati improvvisamente in un baratro, in un luogo al quale siamo estranei e nel quale è impossibile riconoscersi, o se questo frangente stesse preparandosi da molto tempo sulla base di un’instabilità costitutiva delle forme di sovranità che abbiamo ereditato. Per dirla in altri termini, c’è da chiedersi se il diluvio di immagini identificanti e confusive insieme dal quale siamo sovrastati dalla moda, al lusso alla politica, se il manifestarsi della società dello spettacolo, secondo la definizione di Guy Debord, sia un evento, dal punto di vista storico, recente o recentissimo o se invece faccia parte di un percorso che perdura nel tempo. Si potrebbero intendere le forme simboliche attuali della legittimazione e dell’autoriconoscimento, anche quali forme tarde e degenerate del katéchon, per leggere quindi anche il presente in un’ottica che discende della sua dinamica. In questo modo si potrebbe riconoscere nel presente ipertecnologico, invaso dallo tsunami delle immagini, sempre meno dispensatore di sicurezze, l’esito di un lunghissimo percorso nel quale già il primo incastro è instabile. Instabile per altro è già sin dall’inizio la dinamica del potere imperiale: Cesare, come si diceva, incarna la duplice carica di sommo pontefice e di pretore, riunendo nella sua persona, in modo contingente, la duplice prerogativa, l’unione delle due legislazioni e dei due regni che resterà poi elemento costitutivo della regalità. Il vincolo universale proprio del potere imperiale è da questo punto di vista sempre e costantemente instabile e provvisorio. Se i due elementi vengono a scindersi ci si viene così a trovare con un potere senza 135

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legittimazione, per riprendere Massimo Cacciari che si rifà a sua volta a Benjamin, con una potestas priva di auctoritas, e con una richiesta di legittimazione che gira a vuoto intorno a immagini-guida insature, incapaci di fornire quello che esse sembrerebbero promettere. È il mercato odierno dell’immaginario, il quale non fa altro che inviare sigilli del sé a un Io sempre più incerto e confuso nei più diversi ed eterogenei ambiti (spesso tuttavia in relazione tra di loro): dal lusso, al glamour, alle identità politiche, religiose ecc. La questione in breve è questa: se la crisi di legittimità, e cioè delle forme di autorappresentazione del potere odierno, crisi patente e a tutti visibile, dipenda da un terremoto che ci conduce – per dirla in modo molto approssimativo – al di fuori e al di là del sistema simbolico dell’Occidente cristiano oppure se questa crisi non si collochi invece proprio nel cuore di questo stesso sistema. Da questo punto di vista non saremmo di fronte a un evento traumatico bensì dinanzi a qualcosa che si prepara lungamente nel corso dei secoli. E questo cambia la prospettiva e l’ottica dello sguardo. In questo contesto ricostruire una storia del katéchon in relazione al suo esito “apocalittico”, davvero rivelativo, significherebbe interrogarsi in modo essenziale sul presente. L’affacciarsi nel nostro tempo di una dimensione sempre più influente dell’estetico e dell’estetizzazione potrebbe così dipendere anche da una crisi del katéchon che non ha rinunciato alle proprie prerogative nella civiltà dell’immagine. Al contrario la sua presenza è sempre più incalzante. Esso continua a produrre simboli, identità e identificazioni apparentemente universali e, in realtà, sempre più singolari e addirittura idiosincratici ed embedded, connessi al corpo proprio. Nel mondo del crollo delle élites, nel quale i leader carismatici si succedono incessantemente gli

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uni agli altri, si lascia dunque forse avvertire l’ultima eredità del katéchon, ormai slabbrato e decaduto sino a configurarsi come un nevrotico movimento in cui la richiesta di legittimazione coincide col crollo del nuovo leader carismatico e con un nuovo avvicendamento al vertice. Davvero la potenza del sacro – per dirla con Hans Joas  –  aleggia sulle nostre teste inquietante come un richiamo ambiguo ma difficilmente estirpabile.

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La bellezza, le rovine e la perdita dei trascendentali Siamo così dinanzi a un’esteticità che ha perduto il trascendentale della bellezza, vero e proprio katéchon, simbolo monocratico di un’epoca e del suo stile. Al crollo della bellezza come trascendentale sembra corrispondere un nuovo paesaggio di rovine. In questo caso le rovine vanno intese secondo un doppio registro: sia in quanto reperti decaduti di un mondo che non sussiste più, sia in quanto simboli di un nuovo mondo. Esse non riempiono più le volte del trascendentale, ma sono discese verso terra e qui allignano. Le rovine sono in breve sintomi e segni di una nuova sistemazione del simbolico. Se – per rifarci a un simbolo potente – la bellezza era un tempo una forma conclusiva, un’invariante simbolica che regnava come una sorta di trascendentale sopra tutte le sue forme concrete, ora abbiamo a che fare con una sorta di frantumazione nominalistica. La bellezza si fa embedded, si incarna proteiforme in mille corpi diversi. Difficile dire se si tratti di una pluralizzazione della bellezza e, in breve, più in generale, se la questione abbia a che fare con il pluralismo88. Piuttosto, verrebbe da dire, la pluralizzazione della bellezza deriva da una risistemazione del simbolico e dei suoi sistemi. 137

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Sembrerebbe che il contatto tra high and low, annunziato e sponsorizzato da Andy Warhol, si realizzi sempre più intenso e talora quasi impercettibile  –  come quando la famosa frase di Nietzsche in Così parlò Zarathustra «Bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante» andò a finire su innumerevoli t-shirt in un’estate catalana. In questo caso, naturalmente, quasi nessuno era in grado di riconoscere l’autore del testo, che poteva comodamente essere attribuito a qualche fantasioso giovane villeggiante molto affezionato alla vita notturna eccessiva del luogo. Per dirla in breve, con l’autorità della bellezza si perde anche l’autorialità. Come si diceva sopra, si tratta di una vera e propria rivoluzione dei sistemi simbolici. La perdita tendenziale del trascendentale della bellezza è sintomo e segnale di una rivoluzione nominalistica in atto che impegna ambiti sempre più vasti in una sequenza impressionante e imprevista che va dall’ultimo dei trascendentali medioevali sino ai diritti umani figli della cultura illuministica. È come se, nell’epoca dei sovranismi, avessimo a che fare con una generale rovina degli universali, e con una sorta di corporeizzazione dei valori. La questione delle rovine si propone così come una sorta di possibile rivoluzione del simbolico nel nostro tempo, laddove la bellezza stessa sembra costituire, per tornare a quanto sopra si diceva, la memoria del katéchon perduto. Cos’è la bellezza infatti, a cosa è dovuto il suo incanto, se non al fatto che essa è in grado di tenere a freno il contenuto, i frammenti cui essa dona forma e significato? Raccogliendoli in una forma, essa ne frena la dispersione e si rivela così come un davvero meraviglioso veicolo semantico. Le rovine della bellezza si trasformano così in una sorta di mercato delle icone: non si tratta 138

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tanto di un’effettiva pluralizzazione della bellezza, ma del fatto che non sussiste più – almeno apparentemente – alcuna leadership (che non sia quella del mercato). Nient’altro è il mondo estetizzato, in fondo, che il mondo senza leadership, quantomeno stabile, l’universo nel quale ogni icona si afferma come legittima per poi decadere, e lasciarsi sostituire dalla successiva. Questo vale per i leader come per i modelli della bellezza. La cosa è paradossale, ma funziona quasi ovunque all’incirca nello stesso modo: né il potere né la bellezza detengono più principi di legittimazione minimante stabili. Questo produce una sorta di avventurosa rivoluzione permanente in cui ogni puntata assomiglia sempre più a un episodio di Dynasty: a ogni nuovo volto o facies del potere mondano o della bellezza ne fa seguito un’altra che si configura come aspirante a rappresentare l’icona legittima – e così via. È una perversa dialettica estetica, che imita il katéchon, e che avvolge sia il potere mondano sia la bellezza in quanto sua icona: entrambe sono sempre vicarie palesemente illegittime dell’unica figura autentica. Sono vicari potenti poiché richiamano l’origine, e intenderebbero incarnarla. Ma sono kitsch – per dirla con Adorno89 – poiché la tradiscono e devono ogni volta essere sostituite da icone “davvero” autentiche, dunque sempre più kitsch. Il richiamo dell’origine diviene funzionale al mercato delle icone. Il grande supermarket che garantisce il nuovo spettro dell’eternità.

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Note 1 Cfr. A. Gethmann-Siefert, Die Funktion der Kunst in der Geschichte. Untersuchungen zu Hegels Ästhetik, “Hegel-Studien”, n. 25 (1984), Bonn, Bouvier, pp. 87 ss.; Id., Ist die Kunst tot und zu Ende? Überlegungen zu Hegels Ästhetik, “Jenaer philosophische Vortäge und Studien”, n. 7 (1993), Erlangen-Jena, Palm und Enke. 2 Cfr. O. Pöggeler, System und Geschichte der Künste bei Hegel, in Welt und Wirkung von Hegels Ästhetik, a cura di A. Gethmann-Siefert, O. Pöggeler, Bonn, Bouvier, 1986, pp. 1-27. 3 F. Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, a cura di V. Santoli, Firenze, Sansoni, 1967, p. 192. 4 G.W.F. Hegel (?), F.W.J. Schelling (?), F. Holderlin, Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, Pisa, Ets, 2007; F.W.J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 302. 5 Cfr., per uno sguardo complessivo su tutta la questione nell’ambito della ricchissima bibliografia su questo tema, M. Cometa, Iduna. Mitologia della ragione, Palermo, Novecento, 1984; M. Frank, Il dio a venire. Lezione sulla nuova mitologia, Torino, Einaudi, 1994. 6 Cfr. a questo proposito, per uno sguardo riassuntivo sulla questione autorevolmente aperta da A. Gethmann-Siefert, P. D’Angelo, Introduzione a G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica. Corso del 1823. Nella trascrizione di H.G.. Hotho, Roma-Bari, Laterza, 20114. 7 G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Introduzione di S. Givone, Torino, Einaudi, 1997, p. 5, d’ora in poi citato in nota con l’abbreviazione “Est” cui fa seguito il numero della pagina. 8 Est, pp. 6-7. 9 Ivi, p. 129. 10 Ivi, p. 12. 11 Ivi, p. 200. 12 Ivi, pp. 208-209. 13 Cfr. a questo riguardo O. Pöggeler, System und Geschichte der Künste bei Hegel cit., pp. 8-9. 14 Restano decisive a questo proposito le considerazioni di H. Kuhn, Die Vollendung des klassischen deutschen Ästhetik durch Hegel, Berlin, Junker und Dünnhaupt, 1931, ora anche in Id., Schriften zur Ästhetik, München, Kösel, 1966, pp. 15-144.

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Est, pp. 16-17. Cfr., a proposito di questo paradigma ancipite che percorre l’estetica di Hegel, P. D’Angelo, Simbolo e arte in Hegel, Roma-Bari, Laterza, 1989, in particolare pp. 179-233. 17 Est, p.  1091. Cfr., a proposito di questo passo, G. Cantillo, Intervento introduttivo, in G. Cantillo, C. Ciancio, A. Trione, F. Vercellone (a cura di), Ontologia dell’immagine, Roma, Aracne, 2012, in particolare pp. 15-16. 18 Ivi, p. 84. 19 Cfr. Est, pp. 564-575. 20 A proposito della concezione hegeliana della modernità cfr. R.B. Pippin, Hegel, modernity and Habermas, in Idealism as Modernism. Hegelian Variations, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 157-184. 21 F. Nietzsche, Umano troppo umano, in Opere, vol. IV, t. I, a cura di G. Colli, M. Montinari, Milano, Adelphi, 1965, pp. 157-158. 22 Cfr. C. Gentili, “Morte dell’arte” e “morte di Dio”. Confronti testuali e relazioni concettuali, in M.C. Fornari (a cura di), Nietzsche. Edizioni e interpretazioni, Pisa, Ets, 2006, pp.  179-192. 23 B. Croce, La “fine dell’arte” nel sistema hegeliano, in Storia dell’estetica per saggi, Bari, Laterza, 1967, p. 221. 24 Cfr. a questo proposito T.W. Adorno, Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1977, in particolare pp. 49-51, 84-88, 301-306. 25 Cfr. a questo proposito A. Gell, The Technology of Enchantment and the Enchantment of Technology, in Anthropology, Art and Aesthetics, a cura di J. Coote, A. Shelton, Oxford, Clarendon, 1992, pp. 40-63. Mi permetto inoltre di rinviare a questo proposito a F. Vercellone, Le ragioni della forma, Milano, Mimesis, 2011, pp. 9-16. 26 Trad. it. Torino, Einaudi, 1990; cfr. anche H. Belting, Das Ende der Kunstgeschichte. Eine Revision nach zehn Jahren, München, Beck, 1995. 27 Cfr. N. Bourriaud, Forme de vie. L’art moderne et l’invention du soi, Paris, De Noël, 1999. 28 Cfr. ivi, pp. 167-169. 29 Cfr. O. Grau, Virtual Art. From Illusion to Immersion, Cambridge (Mass.), The Mit Press, 2003. 30 Cfr. a questo proposito per esempio il libro di S. Kaufman, Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione, Torino, Codice, 2010. Cfr. inoltre I. Singer, Modes of Creativity, Cambridge (Mass.), The Mit Press, 2011. 31 Mi sia consentito per quanto concerne l’idea della fine dell’estetica in quanto filosofia dell’arte rimandare al mio: Oltre 15

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la bellezza, Bologna, il Mulino, 2008. Per un’eccellente ricognizione complessiva dell’estetica italiana del secolo scorso cfr. P. D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento, edizione riveduta e aggiornata, Roma-Bari, Laterza, 2007. 32 L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Torino, Filosofia, 1954; seconda edizione rivista: Bologna, Zanichelli, 1960; terza edizione riveduta: Firenze, Sansoni, 1974; mentre l’edizione tuttora in commercio è, com’è noto: Milano, Bompiani, 1988, cui ci si riferirà in questo testo con la sigla “E”, cui fa seguito il numero della pagina. 33 Per ciò che concerne il susseguirsi dei corsi pareysoniani e la produzione teorica e storiografica di Pareyson in ambito estetico cfr. F. Tomatis, Vita, filosofia, bibliografia, Brescia, Morcelliana, 2003, pp. 69-71. 34 L. Pareyson, Prefazione a Estetica. Teoria della formatività, terza edizione riveduta, cit., p. 7. 35 Ivi, p. 8. 36 È quanto Pareyson rileva a distanza di molti anni negli appunti pubblicati con il titolo La natura tra estetica e antologia (L. Pareyson, Essere, libertà, ambiguità, a cura di F. Tomatis, in Id., Opere complete, vol. 19, Milano, Mursia, 1998): «Quand’ero giovane rimasi affascinato da questa concezione / goetheano fervente molti anni molti corsi. / Però sentivo che mancava qualcosa, perché non teneva conto del fatto che l’attività umana è tentativa, e che l’operazione dell’artista è un’avventura che non si sa come va a finire, e che l’opera comincia a esistere solo quando è stata fatta. […] Ne trassi una teoria proponendomi di restar fedele allo spirito di Goethe […], ma a cui dovetti dare uno svolgimento estremamente sottile, e mi costò una ricerca di continui riequilibri per tenere le cose in bilico e non lasciar preponderare una parte» (pp. 112-113). I corsi su Goethe e Schelling sono ora contenuti in L. Pareyson, Estetica dell’idealismo tedesco III. Goethe e Schelling, a cura di M. Ravera, Milano, Mursia, 2003. 37 G. Gentile, La filosofia dell’arte, seconda edizione riveduta, in Id., Opere, vol. VIII, Firenze, Sansoni, 1950, p. 194. 38 È la tesi di W. Menninghaus, Wozu Kunst? Ästhetik nach Darwin, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2011. 39 Cfr. per es. L. Pareyson, L’estetica di Paul Valéry, in Id., Opere, vol. Il, Problemi dell’estetica. II. Storia, a cura di M. Ravera, Milano, Mursia, 2000, pp. 38-40. 40 U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, 1962.

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41 Cfr. naturalmente L. Venturi, Il gusto dei primitivi (1926), Torino, Einaudi, 1972. Per quanto concerne il rapporto VenturiCroce mi permetto di rinviare al mio Forma ed estetismo. La Torino di Cobetti e di Lionello Venturi; in F. Vercellone, Morfologie del Moderno, Genova, Marietti, 2006, pp. 177-191. 42 B. Croce, Estetica, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 12. 43 Ivi, p. 31. 44 Einaudi, Torino 1951. Cfr. E, 134-136. 45 Cfr. E, 141. 46 Cfr. ivi, 180-181. 47 Cfr. E, 188-189. 48 Cfr. L. Pareyson, Le origini dell’estetica di Valéry cit., p.  25. 49 Cfr. W. Iser, Der implizite Leser. Kommunikationsformen des Romans von Bunyan bis Beckett (1972), München, Fink, 19943; Id., Der Akt des Lesens (1976), München, Fink, 19944. 50 Cfr. E. Haeckel, Generelle Morphologie der Organismen, Berlin, Reimer, 1866; rist. an., 2 voll., Berlin - New York, De Gruyter, 1988. 51 Cfr., fra l’altro, O. Breidbach, Bildwelten der Natur, München, Prestel, 2006; E. Haeckel, Kunstformen der Natur, a cura di O. Breidbach, München, Prestel, 2012. 52 Cfr. in particolare O. Breidbach, Goethes Metamorphosenlehre, München, Fink, 2006. 53 Cfr. O. Breidbach – F. Vercellone, Pensare per immagini. Tra arte e scienza, Milano, Bruno Mondadori, 2010; O. Breidbach, F. Vercellone, Anschauung Denken, München, Fink, 2011. 54 Cfr. G.C. Argan, Progetto e destino, in Id., Progetto e destino, Milano, il Saggiatore, 1965, pp. 9-74. 55 Per ciò che concerne il cammino iniziale nella separazione dei logoi cfr. M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Roma-Bari, Laterza, 2006. 56 Rinviamo a J. Jost, Obituary for Olaf Breidbach, “Theory in Biosciences”, 2014, pp. 1-7; e a T. Bach, Olaf Breidbach (1957-2014), “‘Sudhoffs Archiv’” Zeitschrift für Wissenschaftsgeschichte”, vol. 98, n. 2, 2014, pp. 132-139. Per quanto concerne la «neuronale Ästhetik», cfr. S. Tedesco, Critica del rivoluzionismo e pensiero morlologico, “Iride”, n. 75, maggio-agosto 2015, pp. 371-381. L’elenco completo delle pubblicazioni di Olaf Breidbach insieme alla sua biografia è reperibile sul sito dello Haeckel-Haus: www. ehh.uni-jena.de. Cfr. in particolare O. Breidbach, Goethes Metamorphosenlehre, F München, Fink, 2006.

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O. Breidbach, Goethes Metamorphosenlehre cit., pp. 230-231. Cfr. O. Grau, Virtual Art. From Illusion to Immersion, Cambridge (Mass.) - London, The Mit Press, 2003. 59 O. Breidbach, F. Vercellone, Pensare per immagini cit., p. 134. 60 Cfr. O. Breidbach, Neuronale Ästhetik, München, Fink, 2013. 61 Cfr. H. Blumenberg, Legittimità dell’età moderna, Genova, Marietti, 1992. 62 Cfr. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Bologna, Clueb, 2007. 63 Cfr. a questo riguardo innanzi tutto H. Joas, Die Macht des Heiligen. Eine Alternative zur Geschichte der Entzauberung, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2017. 64 Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; Id., Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Roma, Laterza, 2013; M. Cacciari, Dell’inizio, Milano, Adelphi, 1990, pp.  623-630; Id., Il potere che frena, Milano, Adelphi, 2013, che contiene la più compiuta ricostruzione, della vicenda del katéchon; R. Esposito, Cattolicesimo e modernità in Carl Schmitt, in R. Racinaro (a cura di), Tradizione e modernità nel pensiero politico di Carl Schmitt, Napoli, Esi, 1987; R. Esposito, Immunitas: protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002; Id., Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Torino, Einaudi, 2013. Sulla questione del katéchon nel confronto con Croce in vista della genesi di un “pensiero vivente” cfr. Id., Il pensiero vivente, Torino, Einaudi, 2010, p. 181. 65 Cfr. H. Blumenberg e C. Schmitt, L’enigma della modernità, Roma-Bari, Laterza, 2011. 66 Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, per es. pp. 45-47. 67 Seconda lettera ai Tessalonicesi 2, 1-12, in particolare 6-7. 68 Cfr. a questo proposito F. Monateri, Messianesimo e teologia politica. Il katéchon tra Taubes e Schmitt, “Trópos”, n. 1, 2019, pp. 101-125, in cui tra l’altro, molto opportunamente, viene messa in evidenza la presenza decisiva di Benjamin nella relazione intellettuale tra i due. 69 Su questo tema si soffermerà polemicamente nei confronti di Carl Schmitt E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, Brescia, Queriniana, 1983. 57

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70 Seconda lettera ai Tessalonices 2, 3-4, 7, 8, 9, 10, 11. La versione italiana di questo passo paolino è tratta dalla Bibbia di Gerusalemme, Bologna, Edb, 2009. 71 Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002, p. 76. 72 Cfr. Ireneo, Adversus Haereses, Roma, Città Nuova, 2009, V, XXV, 1; Gerolamo, Lettera ad Algasiam, in Lettere, Milano, Rizzoli, 1989, p. CXXI; Ticonio, Liber regularum, II, 10, in P. Camastra (a cura di), Il Liber regularum di Ticonio, Monopoli, Viverein, 1998. 73 Cfr. Tertullliano, Contra Apologeticos, par. 28-32. 74 Cfr. su questi temi innanzi tutto G. Filoramo, Il sacro e il potere. Il caso cristiano, Torino, Einaudi, 2009, in particolare pp. 31-78. 75 Cfr. a questo proposito in particolare Agostino, De civitate Dei, 4. 76 Dante, Monarchia I, XVI, in Id., Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1965. 77 Cfr. M. Hengel, Gli zeloti. Ricerche sul movimento di liberazione giudaico dai tempi di Erode I al 70 d.C., Brescia, Paideia, 1996. 78 Dopo una prima occorenza nel 1942 in Terra e mare, C. Schmitt sviluppa il tema del katéchon soprattutto in Il nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus publicum europaeum, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2003. 79 Si propone così l’alternativa, proposta da Giorgio Agamben, in Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai romani, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, tra il tempo della fine e la fine del tempo. Cfr. per es. ivi, p. 63. 80 Cfr. innanzi tutto a questo proposito J. Taubes e C. Schmitt, Ai lati opposti delle barricate. Corrispondenza e scritti 1948-1987, Milano, Adelphi, 2018. 81 Mi permetto di rinviare, per quanto riguarda le origini del problema, al mio Nature del tempo. Novalis e la forma poetica del romanticismo tedesco, Milano, Guerini&Associati, 1998. 82 Entrambi questi testi benjaminiani sono comparsi in italiano in W. Benjamin, Sul concetto di Storia, Torino, Einaudi, 1997. 83 Cfr. M. Cacciari, Il potere che frena cit., pp. 83-89. 84 È quanto suggerisce G. Filoramo, Il sacro e il potere. Il caso cristiano cit., pp.  63-64: «Il Cristo della parousia è, comunque, da un punto di vista teologico-politico, una figura del potere, anzi del

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potere per antonomasia, del potere nel suo stesso fondamento, del potere “assoluto”. Si sarebbe tentati di dire che, dal punto di vista cristiano, se è vero che ogni potere viene da Dio, questo potere si realizza e si fonda, trovando la sua rappresentazione e visibilità soltanto nella sovranità di Cristo». 85 Cfr. H. Bredekamp, Der schwimmende Souverän. Karl der Größe und die Bildpolitik des Körpers, Berlin, Wagenbach, 2014. 86 Cfr. P. Monateri, L’augurio. Impero, legge e stato di eccezione, Milano-Udine, Mimesis, 2017. 87 Cfr. a questo riguardo e in questo contesto P. Sloterdijk, L’antropocene: uno stato processuale ai margini della terra?, in Id., Che cosa è successo nel xx secolo?, Torino, Bollati Boringhieri, 2017, pp. 9-35. 88 Mi permetto di rinviare per la discussione di questi temi al mio, Oltre la bellezza, Bologna, il Mulino, 2008. Cfr. inoltre per quanto riguarda una presa di partito sostanzialmente relativistica a proposito della pluralità della/e bellezza/e, C. Sartwell, I sei nomi della bellezza, Torino, Einaudi, 2006. 89 Cfr. T.W. Adorno, Kitsch, in Id., Gesammelte Schriften 18, Musikalische Schriften V, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1984, pp. 791-794.

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Civiltà dell’immagine

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IL NICHILISMO E LE NUOVE FORME DELL’IMMAGINARIO TARDO-MODERNO

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La scomparsa del medium Una polemica senza fine ci introduce nell’universo contemporaneo dell’immagine. L’immagine non si dà più a riconoscere in quanto universo distinto dal mondo, quale mondo dell’apparenza “sospeso” sulla realtà. Può addirittura accadere che essa introietti il proprio medium. Ed è per l’appunto il medium a rendere riconoscibile l’immagine. Esso la rende percepibile in quanto immagine evitando che si confonda con la realtà. È questa la barriera che non solo oggi ma più volte è stata infranta nella storia dell’immagine, a partire da Zeusi e Parrasio per venire, procedendo in modo assolutamente lacunoso, alle fantasmagorie settecentesche e oggi al 3D. Ed è questa la barriera che dal Settecento tardo a oggi ci siamo abituati a definire come nichilismo. Se andiamo all’origine del problema del nichilismo, al suo affacciarsi nella lettera aperta che Jacobi indirizza a Fichte nel 1799, abbiamo esattamente a che fare con queste coordinate della questione che rinviano a un dissolversi della realtà nell’apparenza come tendenza della contemporaneità. Ciò vale dal 1799 sino a oggi. Scrive Jacobi: «Per il fatto stesso che io risolvendo e smembrando sono giunto ad annullare tutto quello che è al di fuori dell’io, mi si è mostrato 149

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che ogni cosa era un bel nulla al di fuori della mia immaginazione libera ma ristretta entro certi limiti»1. Mentre più avanti Jacobi scrive ancora: «E così, mio caro Fichte, non deve prendersela se Ella o chicchessia vorrà chiamare “chimerismo” quella dottrina che io contrappongo all’idealismo, accusandolo di nichilismo»2. In casi come questi sintetizzati così efficacemente da Jacobi nella sua critica alla filosofia di Fichte (che ebbe peraltro una vastissima risonanza e significato), l’immagine si confonde con l’ambiente circostante. Essa si configura come la realtà o come qualcosa di inquietantemente prossimo a questa. Siamo, per dirla con Oliver Grau, “immersi” nell’esperienza estetica dell’immagine. Sprofondiamo in essa e intratteniamo nei suoi confronti una relazione che non è più semplicemente contemplativa ma interattiva. L’immagine assume il ruolo minaccioso di un soggetto nonostante la chiara consapevolezza che non si ha a che fare con una realtà vivente. Bisogna tuttavia sottolineare che il nichilismo non propone, quantomeno a questo proposito, una novità assoluta. Fa sì piuttosto che la soggettività dell’immagine divenga il carattere preponderante di un’epoca. Che le immagini siano dotate di una loro soggettività è una vecchia vicenda che, più o meno consapevolmente, ci è nota. Basti pensare al mondo delle fiabe e al romanzo gotico per venire sino a Paul Klee. L’immagine acquisisce, in tutti questi casi, uno statuto soggettivo. È un fantasma, un revenant che viene da lontano. Sulla base di questo statuto ambiguo, essa minaccia la condizione quotidiana nel suo tratto più banale e oggettivo. Sembra voler alludere alla possibilità di una morte non definitiva per cui ciò che era un soggetto non è definitivamente divenuto un cadavere, un oggetto. 150

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Che il morto sia davvero morto è peraltro uno dei presupposti tanto ovvi da risultare inconfessati (e dunque tanto più degni di interrogazione) della nostra cultura. Esso fonda l’idea di oggettività, per dirla con Hegel, sull’esigenza di cui l’Intelletto si fa latore di «tenere fermo ciò che è morto»3. In altri termini l’oggettività esiste in quanto essa è il mortuum, ciò che è definitivamente trascorso e si è irrigidito, assumendo così le fattezze di ciò che è definitivo. E l’oggettività è, com’è ben noto, la condizione e la premessa della conoscenza e dell’impresa scientifica. I confini tra il vivo e il mortuum sono stati messi in questione dalla peculiare “realtà” dell’immagine venuta a rianimarsi, grazie a un singolare e straniante atavismo, nel mondo contemporaneo. Si mette così anche Hegel in discussione da un punto di vista che non sembra toccare direttamente l’estetica ma che, in realtà, la coinvolge profondamente. E che dimostra che i significati messi in moto dall’arte hanno territori di competenza molto più ampi rispetto a quelli che tradizionalmente le vengono riservati quando la si intenda soltanto come il mondo della bella apparenza. Il limite tra il vivo e il morto che sembrava consolidato viene paradossalmente messo in questione dalle tecnologie che sconvolgono i limiti dettati dalla razionalità classica. La cosa non è del resto del tutto nuova. Si prepara a lungo nel tempo. I primi passi moderni della vicenda avvengono quasi in coincidenza con quello che è considerato l’atto di nascita dell’estetica moderna, la pubblicazione della Critica del Giudizio di Kant in cui, com’è ben noto, viene annunciato il presupposto di una bellezza priva di ogni interesse che garantisce, su questa base, la propria autonomia. Per preparare il cammino all’arte museale, e così alla “fine” hegeliana dell’arte. Parallelamente si 151

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delinea tuttavia un altro cammino, poco rispettoso nei confronti dell’ortodossia estetica ma in realtà estremamente prolifico e influente. Esso mette capo non a una cultura estetica dell’opera ma a una cultura estetizzante dello spettacolo. È il nichilismo realizzato. Quello che cadrà, quasi due secoli più tardi, sotto la mannaia critica di autori peraltro molto lontani tra loro come Heidegger e Adorno, Debord e Baudrillard. È un cammino che si delinea già a fine Settecento, come rammenta Oliver Grau, grazie alle tecniche della fantasmagoria. Grau rammenta che gli spettacoli nei quali venivano proposte fantasmagorie produssero, già a partire dal xvii secolo, veri e propri effetti terrifici sul pubblico. Per esempio il viaggiatore Rasmussen Walgenstein propose alla corte del re di Danimarca Frederik III uno spettacolo di lanterna magica nel quale, attraverso lo spettro della lanterna, venivano rappresentate storie e vicende bizzarre4. L’effetto dello spettacolo fu così impressionante e vivo, perlomeno su alcuni dei presenti, che il re dovette ordinare che si ripetesse tre volte l’esperimento con la lanterna per mostrare che si trattava per l’appunto “soltanto” di una finzione. Se la lanterna, osserva Grau, fosse finita non nelle mani di un uomo di spettacolo come Walgenstein ma di individui privi di scrupoli, gli effetti avrebbero potuto davvero divenire imprevedibili. Si trattava di fittizie manifestazioni soprannaturali, di raccapriccianti apparizioni di fantasmi. Veniva spettacolarmente varcato, per riprendere quanto si diceva prima, il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La lanterna magica continuò poi a evolvere tecnicamente nel xviii secolo consentendo una maggiore articolazione e addirittura il movimento delle immagini5. Essa costituisce un’antenata della tecnica cinematografica 152

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e si configura, secondo quanto sottolinea Grau, come un “medium immersivo”6. I “media immersivi” escludono lo sguardo contemplativo nei confronti del proprio oggetto per attrarre lo spettatore nello spazio della rappresentazione. Gli effetti orrifici vennero ovviamente amplificati dal perfezionamento del mezzo tecnico che consentì in seguito, come si diceva poco sopra, di proiettare immagini in movimento. A fine Settecento uno strano personaggio belga, medico, pittore, aeronauta e prete, Étienne-Gaspard Robertson, esporta la lanterna nella Parigi postrivoluzionaria. La fama delle sue rappresentazioni rende testimonianza di una sorta di crisi incipiente della sensibilità illuministica che cede le proprie prerogative dinanzi al richiamo delle tenebre e all’evocazione dell’aldilà. La scenografia dello spettacolo svolgeva in questo caso un ruolo fondamentale. Si accedeva al luogo dove esso avveniva attraverso un cimitero. L’atmosfera cupa, per l’appunto cimiteriale, faceva da antiporta alla rappresentazione che avveniva in un’oscurità totale. Qui, preannunciata da fulmini e pioggia, accompagnata da musiche evocative talora di grandi compositori come Mozart e Beethoven, si preparava nientemeno che l’apparizione dei trapassati. Fra questi potevano trovarsi anche figure politiche del massimo rilievo decedute di recente, come Danton e Robespierre. L’effetto sul pubblico e le sue reazioni erano davvero ragguardevoli tanto che lo spettacolo veniva sconsigliato alle donne incinte che avrebbero potuto perdere il bambino per via dello spavento. Abbiamo dunque a che fare con una tendenziale scomparsa o occultamento del medium artistico secondo quanto rileva Oliver Grau. È, se vogliamo, quello che potrebbe definirsi come il principio della cornice, o meglio è la cornice come principio di iden153

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tificazione dell’immagine a venir meno. Ci troviamo davanti a una sia pure tendenziale identificazione dell’immagine con il suo medium che determina il più temuto tra gli effetti estetici: l’illusionismo. Lo spettro del conflitto tra Zeusi e Parrasio si ripropone in questo contesto con tutta la sua forza. L’illusione determina uno sviamento sensoriale, produce l’errore. Ma questo non è in fondo che un aspetto della questione. Nella fantasmagoria si definisce un altro aspetto del problema che è forse il più significativo. L’illusionismo interrompe infatti la quiete della coscienza estetica e chiama lo spettatore in scena. Crea un transito inedito. Produce una forma di fruizione dell’opera d’arte che è ben differente dal distacco contemplativo proposto dalla coscienza estetica moderna così come essa viene descritta e interpretata da Hans-Georg Gadamer in Verità e metodo7. Viene meno lo sguardo contemplativo del conoscitore che caratterizza l’arte moderna. L’illusione non è infatti semplicemente un errore ma crea una relazione peculiare tra il soggetto e l’opera, e predispone un mondo-ambiente nuovo anche se da considerarsi come fittizio sulla base di una previa e sottaciuta decisione concernente l’ontologia dell’immagine, da intendersi come irrealtà, come universo fittizio, “nichilistico”. L’operazione è molto ambigua, e testimonia in fondo della grande e minacciosa creatività sottintesa dal concetto di nichilismo. Si produce così una decisiva rivoluzione non solo della fruizione, ma anche del concetto di opera messa in forse nel suo carattere compiuto e definitivo. Questo si connette al venir meno dell’interdetto del transito tra il mondo dei vivi e quello dei morti che lo spettacolo “fantasmagorico” sembrerebbe promettere. È questa l’ambiguità della fantasmagoria che crea in fondo una novità nella caratterizzazione 154

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dell’esperienza estetica che ora partecipa della vita e assume un aspetto performativo: può produrre comportamenti, azioni e conseguenze anche gravi, come per esempio quella di far perdere un bambino a una donna in attesa. La neutralizzazione “estetica” dell’arte deriva probabilmente dall’oscura percezione di un rischio davvero dirompente. Che potrebbe mettere a repentaglio, come si è accennato, uno dei fondamenti della razionalità occidentale, la distinzione tra il regno dei vivi e quello dei morti. Da questo punto di vista la critica platonica all’immagine illusionistica affidata al decimo libro della Repubblica verrebbe a mostrare il suo significato più profondo. Non si tratta tanto di evitare l’errore prodotto dalla visione di qualcosa di analogo a un miraggio, quanto di difendere le fondamenta dell’impianto della ragione da un antagonista potentissimo. L’“Illuminismo” platonico, accusando l’arte mimetica di essere un’illusione mendace, nega all’immagine lo statuto di soggettività e ricaccia, così facendo, i defunti oltre le sponde dello Stige. È questo un passo grazie al quale si istituisce uno dei pilastri fondamentali anche della ragione moderna. E questo ci consente di tornare a Hegel e, in seguito, ai giorni nostri. L’arte va secondo Hegel incontro alla propria fine per via di un’asfissia causata dallo sviluppo rigoglioso e trionfale del concetto, dopo essersi ridotta a pura esperienza estetica pur di essere accolta nel mondo della ragione matura e illuminata. La quale accondiscende, per così dire, a creare l’estetica come disciplina seconda e periferica che diviene poi filosofia dell’arte per dare in qualche modo una collocazione all’estraneo che si è insinuato tra le mura di casa. 155

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La rinascita dell’immagine dopo la morte dell’arte Paradossalmente l’antica potenza dell’immagine sembra risuscitare e potersi oggi riproporre con una forza inedita anche grazie alle tecniche digitali. Ma qui affiora e si rivela anche un arcano della situazione che ci consente di approfondire il tema della razionalità dell’immagine, laddove molto difficilmente ogni discorso sulla razionalità contemporanea può esimersi dall’affrontare questo argomento. Che trascina con sé naturalmente anche la questione della tecnica. Come premessa a tutto questo bisogna affermare sin da subito che, naturalmente, non è possibile presupporre una divisione di principio tra i territori dell’immagine e quelli del concetto8. Si tratterebbe di una distinzione che non tiene conto fondamentalmente della natura anche figurativa della scrittura quale veicolo della razionalità concettuale e della natura anche segnica dell’immagine, uno stato alla quale essa può sempre tornare quasi per catacresi, per esempio quando venga meno la sua qualità mimetica e/o espressiva. L’immagine null’altro è dal punto di vista che qui si intende adottare, riservandoci di argomentare a fondo questa tesi in altre sedi, che un veicolo espressivo che si implementa su di un determinato medium senza il quale essa non potrebbe effettuarsi e dunque veicolarsi9. Da questo punto di vista l’immagine è sempre tecnologica, mentre la tecnologia contemporanea ricorre sempre più frequentemente all’immagine la quale esprime peculiarmente su questa via la propria particolare efficacia. Questa presa d’atto dovrebbe tacitare almeno in parte, o quantomeno consentire una revisione della diagnosi del nichilismo contemporaneo come “invasione delle immagini” che si riversano nel mondo reale10. Quantomeno in quest’ottica il colpo 156

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viene attutito: il nichilismo deriva da una lunga maturazione storica che, in qualche modo, relativizza il significato del fenomeno e il suo effetto traumatico. Abbiamo peraltro contemporaneamente a che fare anche con una maturazione della ragione tecnologica che non era prevista nel quadro delle concezioni classiche della razionalità moderna, le quali avevano profetizzato il suo sviluppo sfrenato in direzione di una tecnologia avvolgente, rigida e monocratica. È una tesi condivisa in fondo da pensatori fra loro molto diversi e lontani come Max Weber e Martin Heidegger. Si tratterà su questa base, per parte nostra, allora: a) di approfondire il carattere fondamentalmente tecnico dell’immagine in quanto essa è sempre debitrice delle sue implementazioni su di un determinato supporto; b) di riconoscere le modificazioni che la stessa ragione tecnologica matura a contatto con l’immagine. Tutto questo produce anche una trasformazione profonda sia dell’arte sia dell’esperienza estetica alle soglie di quella che, anticipando le cose e con un po’di coraggio, potrebbe definirsi la nuova mitologia contemporanea11. Sia qui sufficiente osservare che, a partire dall’avanguardia per venire alla video art e più in generale all’esperienza che si produce con le nuove tecniche digitali, si assiste a una vera e propria trasformazione dell’esperienza estetica che da contemplativa diviene “immersiva” o “interattiva”12. È un’interattività che si diffonde tra l’altro, com’è noto, nell’esperienza del world wide web. Come già si diceva, in quanto l’esperienza dell’arte da contemplativa diviene interattiva, abbiamo a che fare con una profonda trasformazione delle sue caratteristiche. L’esperienza contemplativa è un’esperienza che rinvia senza continuità da un istante all’altro. L’esperienza interattiva, che si propone a contatto con le nuove tecnologie, è invece 157

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un’esperienza narrativa, dialogante, che matura a contatto con un medium tendenzialmente “attento”, tutt’altro che nichilistico, talora addirittura plastico che risponde alle nostre aspettative e in alcuni casi anche alle nostre sollecitazioni. Naturalmente tutto ciò produce notevoli problemi teorici ed etici. Questo dipende indubbiamente anche dal fatto che abbiamo a che fare con un medium di natura particolare, con il quale entriamo in una relazione di mutuo scambio. È un medium entro cui siamo. Potremmo definirlo un medium “vivente” rovesciando così il rapporto tecnica/soggettività così come viene tradizionalmente concepito nella tradizione filosofica del Novecento, per cui l’umanità è dominata da una tecnologia che dovrebbe invece costituire lo strumento del suo dominio del mondo. Si aggiunga qui ancora un elemento fondamentale: abbiamo a che fare con un medium narrativo. Esso funziona infatti solo nel quadro di una relazione interattiva, di scambio e di dialogo con il soggetto che lo utilizza. Si impone dunque, a contatto con l’immagine, una relazione dalle vastissime implicazioni: per esempio, proprio in quanto abbiamo a che fare con una narrazione, diviene fluida la distinzione tra comunicazione verbale e comunicazione per immagini. Il rapporto interattivo con l’immagine ne mette peraltro a giorno le virtualità performative dalle quali discende l’esigenza sempre più pressante di un’etica dell’immagine e delle nuove tecnologie13. Sulla base di questa relazione “vivente” con l’immagine, è lecito affermare che abbiamo oggi a che fare con una mitologia “laica”, con una mitologia senza dèi14. Si tratta, a tutti gli effetti, di una “mitologia della ragione”, per riprendere la proposta di Schelling e dei Romantici di Jena, che vive rinnovandosi sulla base di un’intensa relazione tecnologica e interattiva 158

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con i suoi fruitori. Lo statuto di quest’opera è dunque essenzialmente “aperto”, ontologicamente fluido. Essa fuoriesce in maniera definitiva dall’esperienza estetica classica per ospitare entro di sé l’interazione con l’ambiente e dunque nuove inedite forme di soggettività volte a progettare veri e propri contesti di vita. La nuova mitologia è dunque rinata sotto forme che Hegel non avrebbe mai previsto nella sua polemica con i Romantici. Essa rappresenta il sorgere di una nuova narratività della quale il soggetto tardo-moderno necessita come di un nutrimento essenziale per correggere gli sbandamenti indotti dall’universo dei nonluoghi. L’opera d’arte tende dunque a farsi mondo, a profilarsi non come un’opera d’arte totale, ma come un’opera che ambienta il mondo circostante dando così una qualche risposta all’esigenza di radicamento degli individui sempre più diffusa nel nostro mondo. L’immagine in questo quadro non avrebbe dunque quell’effetto di sradicamento dell’esistenza dal suo contesto e dal suo senso che era implicita nell’accusa di nichilismo da Jacobi ai nostri giorni. Per dirla schiettamente, di arte, e di un’arte così caratterizzata, abbiamo oggi molto bisogno. L’esperienza postmoderna della convivenza ibrida di stili e tradizioni, la vita nei nonluoghi di Marc Augé, questi ultimi davvero nichilistici, si rivela sempre più impraticabile. E si affaccia, non senza motivo, una nuova necessità di radicamento del quale l’opera d’arte si fa testimone, attraverso il medium dell’immagine, chiamando a una rinascita dell’arte pubblica che si affianchi all’arte delle gallerie e dei musei, il cui significato di selettivi scrigni della memoria artistica e culturale è naturalmente, peraltro, del tutto imprescindibile. Abbiamo così a che fare in molte occasioni con opere che radicano e ammantano di se 159

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stesse l’esistenza dei singoli e delle collettività. Sono opere, come The Weather Project di Olafur Eliasson o il cosiddetto Big Bean di Anish Kapoor a Chicago15, che donano un’identità collettiva, formano una comunità o quantomeno contribuiscono a crearla. Sono caratteristiche che venivano normalmente, per quanto riguarda il discorso sull’arte, ascritte al mito. In questo senso si è detto che è in atto una rinascenza mitologica. Abbiamo da fare con “miti d’oggi”, a voler ricordare Barthes, con nuove “mitologie della ragione” a riprendere l’insegnamento dei Romantici, consapevoli tuttavia della marcata mediazione tecnologica sulla quale queste mitologie fondano la loro efficacia pubblica16. Si ripropone dunque l’incantamento mitico? Certo. Ma non siamo in presenza di mitologie estetistiche e dunque nichilistiche, laddove non ci sono nuovi dèi a guidarci. E questa è la sfida quanto mai salutare che dobbiamo far nostra guardando, attraverso le nuove forme dell’immaginario, non solo oltre il nichilismo ma anche oltre l’idea stessa di nichilismo. Mentre abbiamo certamente anche a che fare con una trasformazione profonda dei modelli di razionalità possibile che sembrano individuare la via di un pluralismo inedito per la ragione moderna (e forse non solo per questa). Avendo a che fare con un modello che ricorre in modo intenso all’immagine, diviene ben più difficile configurare la ragione tecnologica come una ratio fondata su di un’articolazione monologica e monotona à la Metropolis di Fritz Lang. Si tratta piuttosto di una ragione che modifica i propri linguaggi attraverso i diversi media in cui si esprime. Il differenziarsi dei media produce un obiettivo modificarsi dei modelli di razionalità possibile, laddove questi ultimi rappresentano forme di vita, chance di trasformazione della razionalità 160

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dallo stadio della necessità a quello della possibilità. Si schiude così un’opportunità non del tutto inedita, che a ben vedere era già stata sondata nell’ambito del confronto dei Romantici di Jena con l’Illuminismo. È quella di una razionalità che inventa mondi invece che asseverarne l’immutabilità.

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L’EDUCAZIONE ESTETICA NELLA CIVILTÀ DELL’IMMAGINE. IPOTESI SUL FUTURO PROSSIMO17

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Antico e Moderno ovvero organismo contro meccanismo La modernità reca entro di sé, potente, una segnatura schilleriana. Non a caso Annemarie Gethmann-Siefert ha ravvisato in quella schilleriana la radice più profonda dell’estetica di Hegel. L’arte prefigura infatti per entrambi un’integrazione simbolica di soggetto e mondo così intensa e significativa da proporsi come il centro vivente di una cultura18. Il primato del bello artistico sul bello naturale che viene, in questo contesto, stabilito da Hegel ha poi notevolissime conseguenze, che sono state a più riprese rilevate19. Non ultima fra esse è il fatto che, in questo modo, si fornisce implicitamente alla tecnica artistica un primato inedito. È un orientamento hegeliano che si riflette profondamente nelle lezioni di Estetica, nelle quali l’idea di una bellezza artistica, e cioè di una bellezza “costruita”, produce un cortocircuito pericoloso, laddove essa rappresenta un vero e proprio vestibolo a quella che è stata poi definita la “morte dell’arte”. In effetti, come ho cercato di mostrare altrove20, l’idea di una bellezza solo artistica coincide con quella di una bellezza che viene fatta e non presupposta, di una bellezza tecnologicamente improntata. Quest’idea contrasta con l’essenza della bellezza che, in quanto misura, prevede di fondare un ordine ma non di essere a sua volta fondata. 162

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È una nuova, moderna caratteristica tecnologica della bellezza. Ed è una coloritura tecnologica che sembra tacitamente escludere l’ipotesi kantiana, affidata alla prima introduzione alla terza Critica, che prevede che sia in atto non una tecnica antagonista della natura, ma una tecnica che viene espressa dalla natura stessa21. Potremmo dire che la modernità sorga nel segno del contrasto tra cultura e natura e nel segno del conflitto tra l’una e l’altra. Va aggiunto quanto poi è ben noto, e cioè che la conflittualità agonistica di tecnica e natura, ispirata a un rigoroso catastrofismo, attraversa la modernità matura fornendole il suo profilo più compiuto. Quest’ultima vive nel segno di una tecnica e di una tecnologia estranee alla natura, da intendersi anzi come antinatura. Abbiamo a che fare con un modello che si fonda su un sistema di equivalenze secondo le quali: a) la tecnica è artificio; b) l’artificio è di natura meccanica; c) il meccanico si contrappone all’organico; d) laddove i due modelli costituiscono un contrasto perfetto in quanto l’organismo non prevede, o comunque non è indifferente alla sostituzione delle sue parti o componenti, mentre il meccanismo lo è. L’organismo si profila, in quest’ottica, come un modello di perfezione funzionale molto superiore a quella rappresentata dal meccanismo. Questo dipende dal fatto che la relazione tra le sue parti o componenti è molto più intima, e dunque riuscita, di quella che si stabilisce tra le parti di un meccanismo, al punto da proporre ogni organismo come un unicum, quasi, per l’appunto, si trattasse di un’opera d’arte. La funzionalità organica si palesa in quest’ottica come una funzionalità di livello superiore a quella meccanica. Ed è così che, per la proprietà transitiva, la suprema funzionalità è quella rappresentata dall’arte 163

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che coagula in una dimensione organica ma consapevole quanto il vivente esprime inconsapevolmente. Abbiamo a che fare con un lunghissimo percorso, che s’inoltra nella Frühromantik, incontra sul suo cammino lo Schelling del Sistema dell’idealismo trascendentale, attraversa il positivismo “eretico”di pensatori a loro modo eccentrici come Gustav Fechner e Jean Marie Guyau, per giungere sino a Paul Klee il quale, nella conferenza di Jena Sull’arte moderna, approssima, com’è ben noto, attraverso la metafora dell’opera come albero e soffermandosi sulla corrispondenza tra la chioma e le radici, l’idea di funzione alla vita22. La contrapposizione organico-meccanico si profila così come un elemento stabile in un panorama per altro molto mutevole, mentre essa assume spesso un accento connesso alla filosofia della storia: l’antico è avvicinato all’organico e al vivente, mentre il moderno al meccanico e all’astratto. Non a caso, per tornare al tardissimo Settecento tedesco, e Rousseau è ben presente sullo sfondo23, lo stato moderno viene definito come un Uhrwerk, come un orologio meccanico, nelle Lettere sull’educazione estetica, mentre l’Erstes Systemprogramm des deutschen Idealismus lo definisce come un Radwerk, come una ruota meccanica. Ogni Stato, infatti, non può non trattare uomini liberi come rotelle di un meccanismo; ma non deve farlo; perciò deve finire. Vedete da voi che qui tutte le idee della pace perpetua etc. non sono che idee subordinate a un’idea più elevata. […] Per ultima l’idea che le unifica tutte, l’idea della bellezza, prendendo la parola nell’elevato senso platonico24.

È evidente l’ascendenza schilleriana di questo ultimo assunto del Systemprogramm. La bellezza rappresenta un modello di perfezione di carattere 164

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organico. È il presupposto di una nuova mitologia poetica, che Hegel, ammesso che sia lui l’estensore non solo materiale di questo testo, respingerà nelle Lezioni di estetica ritenendo irreversibile il percorso che conduce dall’“epoca eroica” della grecità classica al mondo cristiano-borghese dominato dall’astrazione. Ma il problema sta proprio qui: è vero che la modernità s’identifica, o piuttosto deve identificarsi, con il modello dell’astrazione/estraniazione del Sé/alienazione? La contrapposizione organico-meccanico costituisce da questo punto di vista la formalizzazione dell’opposizione tra una tentazione regressiva e una emancipativa? Non sarà invece presente nell’utopia romantica ben più che un semplice anelito regressivo: l’idea di una superiore e più funzionale utilizzazione delle risorse e delle energie? È questa davvero la questione da dirimere, magari anche per intravedere il limite dello stesso progetto romantico. Che cosa significa e a cosa rinvia la perfezione dell’organismo? Si tratta della perfetta corrispondenza funzionale e reciproca tra le parti e il tutto. Ebbene, siamo così introdotti e rinviati a un modello che intravede nella natura organica un modello di bellezza: si tratta, a ben vedere, di un modello ecologico, laddove l’organizzazione morfologica del bello allude a un perfetto utilizzo delle energie. Il modello della bellezza è, in altri termini, un modello che consente il minimo di dispersione di energie in quanto essa riesce a creare un circuito chiuso e autosufficiente. Un circuito la cui realizzazione è del tutto utopistica in quanto non prevede, come eventi interni, la consumazione dell’essere e la morte. È un modello di perfetta conservazione delle energie che annunzia, per l’appunto, in un circuito quasi ermeticamente chiuso, l’eterno riproporsi di 165

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una vita eterna. Non a caso questo modello viene talora ricondotto a quello del classico, in quanto paradigma di una perfetta inclusione dell’arte nella vita, che prelude al formarsi di una comunità a sua volta perfettamente integrata ove ethos e polis si congiungono indissolubilmente. È esemplare per esempio, in questo quadro, il passaggio nella quarta delle Lettere sull’educazione estetica ove lo stato greco viene paragonato a un polipo le cui membra intessono l’una con l’altra un’inestricabile relazione reciproca di natura organica mentre, per contro, lo stato moderno costituisce un composto in cui le parti sono connesse da un vincolo solo esteriore (meccanico), cui fa da pendant la frammentazione dell’individuo moderno: Questa scissione, che arte e dottrina iniziarono nell’intimo dell’uomo, fu resa completa e generale dal nuovo spirito del governo. Certo non era da aspettarsi che la semplice organizzazione delle prime repubbliche sopravvivesse alla semplicità dei primi costumi e rapporti; ma invece di salire a una vita animale superiore decadde a un volgare e rozzo meccanismo. Quella natura di polipo propria degli Stati greci, in cui ogni individuo godeva di una natura indipendente e, se necessario, poteva diventare un tutto, fece posto a un ingegnoso congegno, in cui dall’accozzamento di parti infinitamente numerose, ma inanimate, si forma nel tutto una vita meccanica. Allora vennero staccati l’uno dall’altro lo Stato e la Chiesa, le leggi e i costumi; il piacere fu separato dal lavoro, il mezzo dallo scopo, lo sforzo dal compenso. Eternamente legato solo a un piccolo frammento del tutto, l’uomo stesso si forma solo come un frammento e non avendo mai altro nell’orecchio che il monotono rumore della ruota ch’egli gira, non sviluppa mai l’armonia del suo essere, e invece di esprimere nella sua natura l’umanità, diventa soltanto una copia della sua occupazione, della sua scienza25.

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La metafora dell’orologio meccanico s’insinua qui senza parere, e rimanda all’acosmismo moderno e all’astrazione che pesa sull’esperienza della Moderne, un’esperienza che ha perduto il suo Mittelpunkt cosmico26. Come ha rilevato David S. Landes, misurare il tempo è qualcosa di innaturale, che ci si è imposto per i più vari motivi di razionalizzazione della vita sociale ed economica; si tratta tuttavia di motivi che non hanno in quanto tali a che fare con la nostra percezione del tempo, con il tempo vissuto e tantomeno con il tempo naturale27. Il tempo meccanizzato, quello evocato e realizzato dal pendolo, viene magnificamente rappresentato, da Wackenroder in La meravigliosa fiaba orientale di un santo ignudo, come un’imposizione incoercibile, come un movimento coatto e nevrotico affine all’infinito girare su se stessa di una ruota: Questa bizzarra creatura non aveva mai pace della sua dimora, né di giorno, né di notte, perché gli sembrava di sentire sempre incessantemente nelle orecchie la ruota del tempo, il sibilo della sua rotazione. Non poteva far nulla nei confronti di quel fracasso, né intraprendere nulla; la violenta angoscia che lo spossava nella perenne attività, gli impediva di vedere o sentire altro che come la terribile ruota girasse e rigirasse con fragore, con un violento fischiare del vento di tempesta che arrivava fino alle stelle e oltre. Come una cascata di mille e mille fragorosi torrenti che scrosciavano giù dal cielo, che si riversavano all’infinito senza un momento di pausa, senza la calma di un secondo, risuonava nelle sue orecchie e tutti i suoi sensi erano violentemente concentrati su quell’oggetto, la sua ansia lavorativa era sempre più catturata e trascinata nel vortice di quella violenta confusione, sempre più mostruosi si confondevano tra loro i suoni monotoni: egli non poteva trovare pace, e giorno e notte lo si vedeva nella concitazione più tesa e violenta, come quella che è di un uomo impegnato a girare una gigantesca ruota. […] Si

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adirava quando vedeva che i viandanti, che andavano da lui in pellegrinaggio, stavano tranquilli a osservarlo oppure andavano e venivano parlottando tra di loro. Tremava dalla rabbia e mostrava loro l’inarrestabile rotazione della ruota eterna, lo scorrere monotono e ritmico del tempo, digrignava i denti perché questi non sentivano e non notavano nulla del meccanismo nel quale anch’essi erano invischiati e trascinati e li scaraventava lontano da sé se si avvicinavano troppo durante i suoi attacchi di follia. Se volevano evitare di mettersi in pericolo, dovevano imitare energicamente il suo spossante movimento28.

In questo quadro, dominato dalla metafora della ruota, la permutabilità delle diverse componenti coincide con l’eteronomia dei fini. Per contro l’organico rappresenta un’unità che detiene in se stessa il proprio centro. È su questa base che la tecnica si configura come un modello orientato in direzione dell’eterogenesi dei fini, laddove essa non contiene per l’appunto in sé il proprio centro, che è invece disposto in altro che fa da guida e da input originario. In questa chiave, che non prevede l’idea di una tecnica intenzionale, che abbia in se stessa il proprio motivo di orientamento e direzione, e che non ammette che una tecnica cieca volta a produrre esseri eterodiretti, essa si prospetta come il modello di una procedura anonima e necessariamente straniante. È inutile sottolineare tutte le conseguenze che derivano da questo rapporto antagonista tra tecnica e natura che esclude, come già si diceva, l’idea che la natura stessa sia dotata di una téchne interna. È un’ipotesi, come ben si ricorderà, che Kant aveva preso in considerazione nella prima Introduzione alla Critica del Giudizio, per poi cassarla in seguito, lasciando tuttavia l’impressione nel lettore che questa rinunzia fosse dovuta a cautela eccessiva. Kant scriveva: 168

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Il giudizio teleologico, invece, presuppone un concetto dell’oggetto, e giudica della possibilità di questo secondo una legge della connessione di cause ed effetti. Tale tecnica della natura potrebbe pertanto chiamarsi p l a s t i c a, se questo termine non fosse già usato in un’accezione più generale, cioè per la bellezza naturale come per le intenzioni della natura; per cui essa, se si vuole, si può chiamare t e c n i c a  o r g a n i c a della natura: espressione che infatti designa il concetto di finalità non solo per il mondo della rappresentazione, ma anche per la possibilità delle cose stesse29.

Sembrerebbe qui prospettarsi la possibilità di individuare un altro cammino dello sviluppo tecnologico che non ha avuto poi storicamente un prosieguo, così come del resto Kant lasciò cadere un’ipotesi avvertita come troppo radicale. È tuttavia ben vero che, in quest’ottica, viene a decadere, senza che neppure venga sperimentata, l’idea di una tecnica che possa assumere un atteggiamento meno aggressivo, più friendly nei confronti della natura. Viene anche a cadere, non senza che talora se ne affacci la reminiscenza, l’idea apparentemente contraddittoria e tuttavia affascinante di macchine morfologiche che, quantomeno idealmente, riprendano la causalità del vivente. È una possibilità, se non un’ipotesi, che si profila a partire dall’Allgemeines Brouillon di Novalis per venire, come si accennava sopra, a Fechner e a Guyau. È l’ipotesi di un cammino della natura verso la “moralità” che si annunzia in Novalis, e che prelude a un’integrazione sempre maggiore dei singoli esseri quanto al loro corpo proprio, ma non solo: anche gli uni in relazione con gli altri, sino al realizzarsi di una natura spirituale, tale in quanto attraversata da infinite relazioni30. Dietro l’enfasi del progetto romantico si cela un’idea che, quantomeno 169

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dal punto di vista assiologico, e indipendentemente dalla sua praticabilità, è indubbiamente affascinante: si tratterebbe cioè di cambiare paradigma e di passare dall’inorganico all’organico, dal meccanico al vivente, e di creare su questa base macchine a bassissimo tasso di dispersione energetica, dunque molto performanti e poco inquinanti. C’è da chiedersi se le nuove tecnologie offrano una chance in questa direzione e se, su questa base, si possa pensare a una nuova “educazione estetica dell’umanità”. Lo sviluppo di una tecnica meccanicisticamente intesa ci conduce invece verso la deriva che ben conosciamo. Essa mette capo a una definizione della tecnica come modello dell’eterogenesi dei fini e dell’alienazione moderna. La tecnoscienza rappresenta tutto questo in quanto essa ha dichiaratamente il suo centro fuori di sé. Che cosa cambia se pensiamo la tecnica come natura e l’inverso: la natura come tecnica? In questo quadro si andrebbe verso un superamento non di un modello meccanicistico, ma dell’idea stessa del meccanicismo che non è coerente con la funzionalità, e cioè con la vocazione più profonda della macchina, la cui destinazione intrinseca è quella di superare ogni modello meccanicistico per migliorare la propria efficienza. Ora il fatto che le cose non vadano così “romanticamente”, che ogni organismo sia in realtà dotato di forti momenti di dispersione, i quali rinviano per parte loro a un tinkering, a un bricolage della natura31, non significa che non si abbia a che fare con un modello assiologicamente potente, sul quale è forse il caso di meditare ancora. In ogni caso, rifacendoci a Varela e Maturana, anche se non si può dire che la natura organica sia dotata di una struttura meno entropica rispetto all’universo inorganico e quello meccanico, 170

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si può certo affermare che essa è in grado di autoorganizzarsi e di imporsi un’autoregolazione32. Per tornare a noi, le macchine meccaniche sarebbero da questo punto di vista macchine limitate o difettose proprio per via di una cattiva integrazione tra le parti tra loro e nella loro relazione totale – e questo produce un effetto di inquinamento e dispersione energetica. Si aprirebbe qui la prospettiva di una critica non economica ma energetica del capitalismo, sulla quale ci si riserva eventualmente di sviluppare in altra sede osservazioni più puntuali. In ogni caso l’idea di una tecnica organica riflette esigenze profonde, anche se storicamente si affaccia per l’appunto nella prima Introduzione alla Critica del Giudizio di Kant attraverso l’idea di una tecnica della natura. Potremmo definirla con un ossimoro che prelude, ante litteram, a un superamento della dicotomia tecnica/natura, natura/cultura. Si tratta di una distinzione della quale è naturalmente figlio anche lo schema schilleriano, di derivazione kantiana (di quel Kant che non volle proseguire sulla via della prima Introduzione), che articola un’alterità netta tra la legge morale e la natura, un divario che Schiller prova a mitigare dopo averlo fatto proprio. Ora se c’è da pensare al modello di una macchina organica, dobbiamo far rientrare in scena quell’esperienza della bellezza che sino ad ora è rimasta un po’ sullo sfondo. È necessario in breve riflettere a quale genere di esperienza estetica metta capo questo percorso. E, successivamente, riflettere nuovamente a quell’educazione estetica che Schiller aveva proposto nelle sue Lettere in una forma rinnovata anche sulla base del fatto che qui ci troveremmo strutturalmente, al di là dell’alternativa tra tecnica/cultura e natura. Trattandosi di macchine strutturate da un numero di principio infinito di relazioni laddove ogni elemento 171

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risulta implicito in un sistema di indefinite correlazioni, dovremmo ritenere che esse intensifichino lo scambio con il mondo sino a metter capo a un’esperienza ancor più compiuta e meno frammentaria di quella realizzata dagli organismi viventi33. Come possiamo immaginare questo tipo di macchine? Si tratterebbe di macchine in senso lato sensibili, che forniscono una risposta sinestetica e interattiva alla relazione con il fruitore. Si tratterebbe di macchine “atmosferiche”34. Ed esse prevederebbero anche una modificazione del sentire il quale non potrebbe più essere costruito e decodificato sulla base dell’alternativa tra Gefühl e Empfindung, sentimento e sensazione – per riprendere terminologia e tradizione tedesca tra un sentire interno e una sensibilità rivolta all’esterno. Si tratterebbe di macchine figlie di una nuova concezione del “sentire in prossimità” nelle quali l’esperienza estetica si vede riattivata in tutte le sue polarità sensibile/sentimentali. Educazione estetica In quest’ottica, sarebbe ancora proponibile l’idea schilleriana di un’“educazione estetica dell’umanità”? Proviamo a delineare la situazione a grandissime linee per capire se il modello teorico che si è venuto proponendo possa avere o meno qualche riscontro reale. Viviamo in un mondo che è sempre più popolato da immagini che non ci limitiamo a contemplare dall’esterno, ma con le quali talora condividiamo lo stesso spazio come esemplarmente avviene oggi con il 3D e con la playstation. Questo rilancia certamente l’idea di educazione estetica, mentre non è evidente di primo acchito il nesso con il modello di tecnica 172

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organica che si è tentato di descrivere sopra a grandi linee e per approssimazione. Proviamo ancora a muovere qualche provvisorio passo avanti. A rifletterci bene la questione dell’immagine presenta oggi alcune lontane ma significative analogie con quanto era a suo tempo avvenuto con il concetto di classico che si era per l’appunto profilato nel tardo Settecento come modello di una Bildung, di una formazione universale. È un concetto che racchiude un modello di perfezione e di bellezza, che tiene dunque intrinsecamente congiunte la dimensione estetica e quella pedagogica. Nel caso del classico, come in quello della situazione odierna dell’immagine, abbiamo così a che fare con un’identità che vuole essere o è globale, con una pretesa di universalità quasi imperialistica35. Tuttavia, mentre il classico costituisce un richiamo alle tradizioni fondanti, e indica una volontà restaurativa, l’identità fornita dall’immagine sul piano pubblico, quotidiano, politico, artistico, scientifico, deriva da un’ambivalente quanto sfumata frattura del rapporto con queste tradizioni. Mentre il classico si profilava così, agli occhi dei suoi estimatori sette-ottocenteschi, come un trionfo della “religione dell’umanità”, abbiamo qui a che fare con una sorta di avvicendamento antropologico che conduce dall’Homo faber all’Homo videns. Il predominio dell’immagine deriva dunque da una lacerazione, da una modificazione che interessa le strutture profonde del nostro corpo proprio e culturale. I cui esiti sono per alcuni aspetti temibili e imprevedibili. Le Digital Humanities stanno per esempio intervenendo in modo molto significativo sui canoni della tradizione. Il senso degli eventi sembra ora trasferirsi, quantomeno in parte, dal corretto instaurarsi del rapporto tra presente e passato veicolato dalla storia, a meccanismi più semplici e forse addi173

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rittura primordiali, come l’analogia, la similitudine, l’anacronismo. Sono meccanismi che si radicano nelle strutture del profondo. Questo, sia detto di passaggio, ha notevolissime conseguenze sul piano pedagogico e su quello, a esso correlato, dell’intelligibilità della nostra tradizione culturale. Se i manuali sono diventati d’un colpo difficilissimi agli occhi degli studenti, questo non dipende principalmente dal fatto che sono i professori a esprimersi in termini troppo tecnici, e neppure, naturalmente, dal fatto che i giovani siano meno intelligenti di un tempo. Abbiamo a che fare piuttosto, per esprimerci molto velocemente, con un tacito tracollo delle tradizioni culturali che necessitano di una loro profonda riorganizzazione. Tornando a noi, una civiltà nella quale l’immagine svolge un ruolo così spiccato suscita un terrore arcaico, un terrore che tutti i grandi critici della civiltà dell’immagine, da Debord a Baudrillard, da Adorno a Fumaroli hanno evocato denunciandola come una cultura mortuaria36. È il timore atavico che il confine tra i vivi e i morti non venga rispettato. Che le immagini, cui il culto dei morti è per altro profondamente legato, non siano in realtà null’altro che vuote apparenze, veri e propri fantasmi che infettano e corrompono, con la loro irruzione, il mondo dei viventi. Le immagini che popolano la nostra vita sarebbero, quantomeno da questo punto di vista, affini a spaventosi revenants. E se, secondo quanto Hegel insegnava, non si “tiene fermo il mortuum” distinguendolo, grazie alla sua inerzia ormai definitiva, da ciò che vive, viene meno uno dei grandi presupposti che fondano la modernità, quello dell’aggettivazione come presupposto della conoscenza scientifica. Su questa via si rischia di cadere in una situazione avvertita come priva di ordine e di vita, anarchica e mortuaria insieme. In 174

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particolare, prima dell’avvento dei visual studies, si è avuto difficoltà a circoscrivere in un ambito peculiare e stabile, autonomamente caratterizzato dal punto di vista filosofico e scientifico, il mondo delle immagini. L’avvento dei visual studies ha consentito di riconoscere che esse sono forme dotate di una grammatica peculiare, di un’ontologia autonoma, di una propria ermeneutica. Mentre le immagini implementate di volta in volta su media tecnologici diversi producono le forme di una vita nuova. Sono gli ambiti principali di una possibile ripresa del progetto morfologico goetheano37. L’immagine viene così a costituire l’elemento cardine di un’identità nuova che non è più plurale come le identità tradizionali, ma unica, anche se capace di differenziarsi in se stessa grazie ai propri media tecnologici e di inglobare così voracemente le differenze tra i saperi e le culture, proponendo tutto il volto variegato del mondo nelle sue griglie. L’immagine tende, in altri termini, a farsi essa stessa mondo. Abbiamo a che fare con un flusso quantitativo immane di immagini che vengono veicolate in particolare dalla rete, e che si configurano molto spesso in termini del tutto affini o simili dal punto di vista formale o strutturale nonostante le molteplici differenze di contenuto che le attraversano. Per venire alle scienze, esemplari sono a questo riguardo le immagini che concernono la ricerca sul cervello le quali diffondono uno stile assolutamente monotono, ma ampiamente mutuato da altri piani, non ultimo quello artistico. Naturalmente ci sono dei vantaggi nel fare così. Ciò che può essere contemplato attraverso dei modelli rende in qualche modo più perspicuo quello che in una formula sarebbe più difficilmente accessibile. Tuttavia, e in ogni caso, l’immagine digitale compie un potente 175

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esercizio di semplificazione riducendo le modalità significative a pochi elementi sintattici: il simbolo, il segno e la cifra. In questo quadro molto sintetico non è inopportuno, per ultimo, interrogarsi sulle chances dell’immagine. A fronte di un’immagine che ha talora perduto la propria plasticità (una plasticità che era stata variamente rivendicata in una variegatissima e spesso eterogenea tradizione che va dai Padri cappadoci sino a Paul Klee), la propria elasticità, che è anche capacità di autoriflettere su di sé come esemplarmente testimonia la personale di Michelangelo Pistoletto al Louvre che mise a contatto, rispecchiandole, realtà toto coelo diverse38, si aprono anche opportunità diverse39. Su questa via entriamo dunque a contatto con una profonda mutazione dei caratteri dell’esperienza estetica, che è profondamente modificata, quantomeno in ambito figurativo, dalle nuove caratteristiche dell’immagine. L’esperienza estetica – com’è stato a più riprese rilevato – si va trasformando da esperienza eminentemente contemplativa in un’esperienza “immersiva”40. Lo spettatore vive così nell’immagine come nel proprio mondoambiente. La distinzione tradizionale tra tecnica e natura viene qui meno. L’esperienza estetica è in questo quadro un’esperienza-pilota che ci guida attraverso la trasformazione dei comuni, abituali mondi percettivi. Proprio queste trasformazioni rendono sempre più incerti i confini che dividono l’immagine artistica da quella non artistica. Ed è in questo quadro che può proporsi in tutto il suo spettro la questione del “futuro dell’immagine”, e anche la scommessa su questo futuro connessa all’idea di una nuova morfologia, ma anche all’impellente prospettiva di ridisegnare il progetto schilleriano di un’“educazione estetica 176

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dell’umanità”. Non si tratterà più, a questo punto, di integrare nuovamente cultura e natura, secondo le direttive originarie del progetto schilleriano, ma di cogliere come l’immagine venga a costituirsi come un nuovo mondo-ambiente che non rispetta le divaricazioni tradizionali tra l’una e l’altra, tra artificio tecnico e mondo della vita. L’immagine assume in questo quadro un aspetto performativo, che allude a nuove possibilità di situarsi e abitare un mondo. In questo mondo, che non prevede più le partizioni sicure della modernità classica, in cui tecnica e natura tendono a confondere i loro confini, o comunque a non denunciarli, dobbiamo imparare a vivere. Il destino della nuova educazione estetica sarà così connesso a immagini fortemente performative che producono comportamenti e trasformazioni del mondo e degli universi percettivi a partire dal fatto che esse sono attive funzioni quasi-organiche, e non solo questo ma anche vere e proprie proposte fatte da interlocutori tecnologici. Su questa via si avrà a che fare con un mondo che queste immagini ambientano come una seconda natura che si affianca e quasi si sovrappone alla prima. L’educazione estetica costituirà in questo contesto anche un’educazione dei sentimenti che tenderanno a definirsi secondo modalità altre da quelle consuete riferite forse troppo intensamente all’intimità dell’io. I sentimenti ora tenderanno a prodursi come climi o atmosfere, sistemi anch’essi performativi di appartenenza al mondo, e a un mondo sempre più fatto di immagini. I modelli di integrazione sociale entrano così in una nuova storia sulle cui conseguenze ed esiti è ben difficile esprimersi, tanta è la forza del cambiamento in atto.

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L’UNIVERSALITÀ DELL’ERMENEUTICA NEL TEMPO DELL’“IMMAGINE DEL MONDO”

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Dalla tecnoscienza all’arte Non si potrebbe intendere il significato del sapere ermeneutico prescindendo da quella“cultura della crisi” il cui sviluppo è così ampio nel periodo tra le due guerre, e impegna un numero di pensatori così significativo da indurre a pensare che la cifra fondamentale dell’epoca sia costituita dal vis à vis delle Humanities con la suprema moderna perversione del sapere scientifico: il suo definitivo declino in quanto sapere autonomo per assoggettarsi senza riserve alle esigenze performative dell’universo tecnologico41. Questo è anche il centro di quello che potrebbe definirsi come nichilismo: la perdita di connessione tra i saperi dalla cui integrazione soltanto può derivare quell’emergere del senso senza il quale il sapere stesso non sa né di sé né di altro. L’ermeneutica è da questo punto di vista una disciplina che sutura e getta ponti in quanto restituisce il senso del sapere. Mentre il senso delle cose – aggiungiamo noi – è, per dirla in breve, come le si vive. Il senso va inteso in altri termini – mi sia concessa in via preliminare una tesi così perentoria – in quanto “forma di vita”. Questo passaggio, ancorché ora così velocemente formulato, ci rende per altro edotti, come si vedrà meglio oltre, di quanto sia stretto il nesso estetica-ermeneutica, e 178

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di quanto esso sia stringente forse al di là di quanto lo stesso Hans Georg Gadamer avesse indicato. In questo contesto risulta quasi inutile ricordare quanto l’avanguardia di inizio secolo e prima ancora l’arte che, a partire dal Romanticismo, si è riconosciuta nel segno della Moderne estetica, abbia inteso come propria vocazione quella di farsi mondo42, di realizzarsi come una forma di vita, come un mondo-ambiente. È quasi inutile risalire ai primordi filosofici di questa questione, che si possono con buona probabilità far risalire alle pagine hegeliane della Fenomenologia dello spirito dedicate all’Antigone sofoclea. Qui, e poi nelle Eumenidi, secondo una lunga tradizione che ci conduce da Hegel a Bachofen, si assiste al dissaldarsi della legge del sangue dall’ethos della polis. Si dischiude cioè un cammino che, quantomeno simbolicamente, apre la via all’arte moderna in quanto arte autonoma. Si può poi legittimamente supporre che l’interrompersi del vincolo tra ethos e polis non sia estraneo al separarsi e al rendersi definitivamente indipendenti gli uni dagli altri dei mezzi artistici i quali, dopo questa crisi, dovranno nuovamente essere ricondotti da Batteux a un unico principio. È come se l’infrangersi di questo legame, producendo una più articolata differenziazione delle sfere dell’esistenza, avesse dissolto la compattezza dell’universo delle arti mettendo capo alle arti autonome, pensate sulla base del proprio specifico mezzo. Indipendentemente dalla verità storica di questo assunto, è come se l’arte moderna intendesse la propria assiologia come una inversione di tendenza, come reintegrazione del proprio senso, come un suo ristabilirsi per l’appunto come “forma di vita”. Non è un caso, da questo punto di vista, che un’intera e quanto mai significativa stagione dell’arte moderna e contemporanea abbia mirato e miri 179

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a realizzare l’opera d’arte totale, e la riuscita di questo tentativo è una sfida rivolta al nemico per antonomasia, il moderno dominio tecnologico. Una contrapposizione così rigida lascia tuttavia dubbiosi. E viene da chiedersi se la vocazione più profonda della tecnica non sia quella di farsi arte, come Martin Heidegger aveva a suo tempo auspicato43. L’auspicio di Heidegger era quello di avere così a che fare con una tecnica che intenda compiere un periplo su se stessa, che la induca a trasformarsi in un paradigma autocostruttivo della natura per rifarci all’idea kantiana di “tecnica della natura” affidata alla Prima Introduzione alla Critica del Giudizio. La questione comporta una decisa rivoluzione dello sguardo. Abbiamo infatti a che fare con una sfida rivolta alla tecnica in nome della tecnica stessa. Non va intesa dunque come una sfida antitecnologica, come se l’arte tentasse un regresso al mito, dopo aver affrontato il deserto del “disincanto del mondo”. La tecnica, in questo quadro, non costituisce semplicemente un fattore o meglio il fattore di una ragione che produce lo sradicamento e la dissoluzione dell’humus e dei vincoli che connettono l’uomo al proprio mondo. Se realizza questo, essa non è in fondo all’altezza di se stessa per un difetto di crescita che la rende mostruosa invece che giovevole. Già Martin Heidegger, come sopra si diceva, aveva del resto orientato il discorso in direzione di questa finalità artistica della tecnica, sulla quale per altro si è soffermato anche un antropologo come Alfred Gell44. Se, per riprendere le suggestioni di Ortega, la tecnica rappresenta il “sobresaliente” nel quale si riflette l’intrinseca trascendenza dell’essere umano nei confronti del mondo45, questo significa che la tecnica non è assiologicamente orientata ad adottare un atteggiamento antagonista nei confronti della 180

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natura. Pensare qualcosa di simile produce infatti, innanzitutto, un controsenso logico: se la tecnica costituisce il sinonimo di un agire efficiente che ha come proprio interlocutore la natura, non si può certo essere efficienti scegliendo il percorso che produce il maggiore attrito, mettendosi paradossalmente in conflitto con ciò/con colui con il quale si intende invece collaborare. L’arte sembrerebbe collocarsi adeguatamente in questo quadro chiedendo al mezzo tecnico di essere all’altezza di se stesso, di produrre una seconda natura indisgiungibile dalla prima che ne prosegua l’andamento e lo assecondi, che approfitti e dia seguito alle sue energie mettendo così capo a un mondo non ostile nei confronti della “prima” natura. Si tratterà di un mondo non meno ma più armonico e omogeneo in forza del realizzarsi delle finalità della tecnica. Né potrebbe essere diversamente laddove, per definizione, la finalità del sapere tecnologico è quella di promuovere la convivenza umana nelle condizioni più favorevoli a quest’ultima, e, dunque, le meno conflittuali possibili46. Su questa base sembrerebbe indubbiamente tramontare un modello di tecnologia intesa come alienazione del soggetto dalle forme di vita che la tradizione ci ha consegnato, e dal quale siamo stati per altro beneficati e resi al tempo stesso vittime. La tecnica sembrerebbe in questo quadro realizzare un modello di estraniazione efficiente laddove i due termini sono apparentemente consentanei, l’uno all’altro funzionali, mentre, in realtà, sono contradditori. L’ideale sarebbe quello di un modello univoco, omogeneo, onnipervasivo di produzione che garantirebbe la propria efficacia sulla base della propria impersonalità. Mentre la personalizzazione del processo produttivo, il suo assumere un’inclinazione personale, gli assegna immediatamente, 181

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in questo quadro potentemente razionalistico, un aspetto idiosincratico che contrasta con le aspettative di una riuscita in chiave di ottimizzazione della performance. L’individualizzazione della tecnica, la sua eventuale natura artistica sembrerebbe da questo punto di vista costituire un aspetto che contrasta con la razionalità rivolta allo scopo. Si tratta quasi di un riassunto del tutto essenziale, e dunque necessariamente molto superficiale, della situazione di un’epoca che ritrova nella tecnica il proprio unico comune denominatore. L’estraniazione e lo sradicamento sembrerebbero da questo punto di vista fare da pendant con l’efficienza, mentre il radicamento culturale o in situ di un modello produttivo, il suo esprimere un’individualità singolare o collettiva sembrerebbero qui fare a pugni con la sua possibilità di offrire dei buoni risultati. Si giunge a conseguenze paradossali e smentite dall’evidenza, che sono tuttavia quelle consuete nell’ambito della “cultura della crisi”. Si potrebbe paradossalmente giungere a dire che, nel quadro che si è venuto delineando, la condizione perché la tecnica si affermi è che nessuno si riconosca nei suoi meccanismi, nessuno li faccia davvero “propri”. Avremmo in altri termini a che fare con un’universalità solo negativa, che contempla tutti proprio perché non contempla ognuno di noi. Proprio questo esprimeva la cultura della crisi: l’idea di una tecnologia che estrania gli individui ai contesti e ai luoghi. Abbiamo dunque, così, a che fare con un modello di tecnica come espropriazione dell’“aura”, dei mondi di appartenenza. Tutto questo si esprime anche in una sorta di fine metaforica e reale della vita delle forme che riflette sul piano filosofico ma anche su quello delle scienze umane l’immane sconvolgimento proposto dalla maturazione di questo tipo di tecnologia. A 182

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partire dalla Metafisica della tragedia di György Lukács, per venire a Georg Simmel e al Freud del Disagio della civiltà, per limitarsi ad alcuni punti di riferimento fondamentali, si radicalizza storicamente una sorta di scissione delle forme dalla vita che sancisce quanto sopra si diceva: che il mondo è divenuto irriconoscibile per l’uomo.

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La malattia tecnologica e la terapia ermeneutica È in questo quadro che si propone il progetto di un’ontologia ermeneutica fondato sulla prospettiva di “gettare ponti”, per utilizzare la felice formulazione di Jürgen Habermas47. Essi avrebbero il compito di suturare le ferite e le lacerazioni prodotte dall’insorgere e dallo sviluppo della modernità nel tessuto vivente delle tradizioni e delle forme di vita trasmesse dal passato. I ponti gettati dall’ermeneutica, in questo quadro, costituiscono anche una sorta di tessuto cicatriziale, un tentativo di riconnettere la vita alle forme nelle quali essa si esprime e si è tradizionalmente espressa, in breve al proprio senso. Da questo punto di vista e in questo quadro l’ermeneutica viene ad assumere un indubbio aspetto terapeutico. A distanza di cinquant’anni da Verità e metodo vi è davvero da chiedersi se questo tentativo sia riuscito, se gli strumenti dei quali l’ontologia ermeneutica si era dotata fossero sufficienti a contrastare la gravità del male. Per riuscire a impostare questo interrogativo non può sfuggire che l’ermeneutica stessa aveva sviluppato il suo compito riparatore e terapeutico essenzialmente confrontandosi con il logos della tradizione scritta sul quale si fonda l’asse della trasmissione culturale in Occidente, lasciando fondamentalmente da parte il 183

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vasto ambito dell’immagine. La vocazione principale dell’ontologia ermeneutica è quella di contrastare il volto monologico della ratio tecnico-scientifica attraverso una riattivazione del rapporto linfatico con le tradizioni fondanti, ripristinando il contatto con il loro logos profondo depositato nel linguaggio. Forse senza tenere sufficientemente conto che proprio in forza dello sviluppo unilaterale di questo logos solo linguistico, le tradizioni fondanti erano andate incontro a una crisi di paradigmi di grande portata che ne metteva in questione le fondamenta. Prescindendo da questo passaggio che andrebbe certamente approfondito, vengo subito al punto saliente della questione. Viene cioè ora da chiedersi se non possa essere più utile e proficuo, anche in termini di potenza dell’intervento che si vuol realizzare, in questo quadro, utilizzare la tecnica come pharmakon, invece di ricorrere a una riattivazione di tradizioni il cui canone è venuto logorandosi nel confronto polemico con la tecnica. La questione si propone nel modo più perspicuo se si pensa che la tecnica, attraverso una sorta di movimento onniavvolgente, si è impadronita del canone stesso, lo ha fatto proprio trasformando in questo cammino anche se stessa. È indubbio, in altri termini, che la trasformazione della tecnica attraverso il digitale ne abbia alleggerito il dominio rendendolo più friendly e domestico, mentre ha trasformato alla radice il canone culturale stesso mettendo in questione il paradigma della storicità come suo asse fondamentale. La trasformazione della tecnica ha per altro verso reso possibile realizzare quella che è forse l’aspirazione principe dell’avanguardia: ricondurre l’arte alla vita, fare dell’arte stessa un mondo-ambiente accanto agli altri. Si potrebbe supporre che l’avanguardia artistica abbia individuato la via che le consente di 184

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superare quella sorta di gap tecnologico che accompagna il destino dell’arte moderna per cui il destino delle singole arti si definisce, quantomeno stando a Batteux, sulla base del loro mezzo espressivo, e va inteso, prima di ogni accostamento ad altri mezzi, innanzi tutto nella sua autonomia48. La frammentazione dei media narrativi costituisce per altro una mortificazione delle capacità narrative delle opere d’arte le quali si incrementerebbero notevolmente sulla base di una loro fusione che consentisse di ampliare i limiti della narrazione oltre la sfera del dire per renderla un prodotto sinestetico, “multisenso”. Ed è la molteplicità dei sensi che vengono messi in gioco a consentire che quanto in prima battuta si manifestava come un prodotto soltanto artistico, divenga poi un mondo abitabile. Su questa via, e lungo questo cammino, abbiamo innanzi tutto ma non solo a che fare con un’intensificazione dell’esperienza artistica, nella sua natura vivente, momentanea, puntuale, quella auspicata da larga dell’avanguardia degli inizi del secolo scorso, in primis dal Futurismo che si proponeva, per esempio, un «ingigantimento del senso umano»49: Alla concezione dell’imperituro e dell’immortale, noi opponiamo, in arte, quella del transitorio e dell’effimero. Noi trasformeremo così in una gioia acuta il nevermore di Edgar Poe, e insegneremo ad amare la bellezza di un’emozione o di una sensazione in quanto essa è unica e destinata a svanire irreparabilmente 50.

L’amplificazione dell’esperienza sensibile produce anche una tendenziale modificazione sinestetica dell’esperienza dell’arte in relazione ai sensi di competenza che intervengono ora sinergicamente lavorando finalmente in modo solidale e non più separato. L’esperienza franta dell’oggetto artistico 185

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che fa sì che per ogni singola arte sia pertinente un singolo senso (per la musica l’udito, per la pittura la vista e così via…) viene ora superata riattivando un’esperienza totale e sinestetica dell’opera che rinvia all’ideale, a lungo perseguito anche dall’avanguardia, di un’opera d’arte totale. Abbiamo anche a che fare con un tendenziale superamento di una fruizione dell’opera fondata su di un modello estetico molto razionalistico che frantuma la totalità vivente dell’esperienza per meglio identificarla con un medium ad hoc51; è in gioco un’attivazione in chiave amplificata dei cinque sensi e, inoltre una vera e propria evoluzione estetica della sensibilità che induce un’attivazione estetica di sensi che non sono tradizionalmente rivolti all’arte come il gusto e l’olfatto, e una riattivazione di quelli che sono stati esclusi, nell’ambito dell’esperienza moderna dell’opera d’arte, dalla sfera di competenza di quest’ultima, com’è avvenuto con il tatto. Potremmo dire che si ha a che fare con un “recupero” dei sensi della prossimità che si risintonizzano con quelli della distanza (vista e udito) di tradizionale competenza estetico-artistica52. Tutto questo mette capo alla possibilità di una nuova ambientazione estetico-artistica del mondo che invera le ambizioni più alte e apparentemente inesaudibili della Moderne estetica. Su questa via abbiamo a che fare con un modello di opera che costituisce un contesto di vita, una narrazione comune che individua e identifica il confine di una determinata collettività e le dona quell’identità cui aspira per riconoscersi in un mondo avvertito (nuovamente) come proprio. Sembrerebbe in breve realizzarsi il sogno inaugurato da Karl Friedrich Eusebius Trahndorff, proseguito da Richard Wagner e poi in fondo mai dismesso di realizzare l’opera d’arte totale. Si tratta di un’opera che dovrebbe istituire 186

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una narrazione comune, ripristinare le prerogative narratologiche del mito senza necessariamente rieditarne quelle religiose. È quanto il romanzo in fondo non è riuscito a fare prendendo a fatica sulle proprie spalle un’eredità mitologica che la soggettività moderna non è in grado di condividere che frantumatamente. Se il romanzo deriva così, secondo Paul Ricœur, da un mythe brisé 53, recando nelle proprie trame il segno di questa sofferenza, ecco che la tecnica contemporanea sembra voler ricomporre il mito che è andato frantumandosi e disperdendosi. Del resto la nuova mitologia contemporanea, in quanto riproposizione di un discorso sulle origini che riflette la necessità profonda degli esseri umani di essere narrati, di ricostruire in altri termini attraverso terzi il filo delle loro storie, non può verosimilmente proporsi altrimenti oggi che in un contesto tecnologico che si è immensamente arricchito quanto a media comunicativi. Né possiamo scandalizzarci di questo riaprendo l’ormai antica polemica contro la civiltà dello spettacolo che ci conduce dal confronto Adorno/Benjamin sino a Guy Debord e poi, più recentemente, a Mario Vargas Llosa54: poiché ciò che si affaccia, sotto la veste di un’immagine che sembrerebbe essersi fatta mondo, null’altro è che la necessità atavica di individuare una narrazione entro la quale collocarci, l’esigenza di istituire un’identità donata e non soltanto costruita. In questo quadro per capire se un mito, o se una qualsivoglia narrazione sia buona e cattiva, non possiamo accusare il medium, cosa che risulta semplicemente grottesca, ma dobbiamo individuare il nucleo della narrazione che dal medium viene implementata55. In breve abbiamo a che fare con una tecnica che accoglie il bisogno umano di essere narrati, informati sulle origini e dunque collocati nel mondo. Per fare 187

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questo l’arte ha necessità di un’adeguata implementazione tecnologica, quella che le ha sinora impedito di realizzare il suo sogno di costituire un mondo a sua immagine e somiglianza mortificandola nelle sue aspirazioni e nelle sue potenzialità performative, vincolando la realizzazione artistica alla purezza del mezzo utilizzato. Non abbiamo dunque a che fare, in questo nuovo panorama, con una rivincita dell’arte sulla tecnologia bensì, del tutto all’opposto, con la necessità dell’arte di escogitare un apparato tecnologico all’altezza del proprio ideale. Su questa base si potrebbero seguire gli alti e i bassi, mimare i toni facondi e quelli più modesti di questa vicenda dell’opera d’arte totale. È una storia che non ci guida soltanto nella vicenda “alta” dell’arte, ma anche nei meandri low della mass art, là dove si radica per certi versi nel modo più crudo e genuino la necessità, davvero antropologicamente connotabile, di “essere narrati” come dimostra per esempio la diffusione sempre meno “segreta”, anche tra un pubblico raffinato, dei serials televisivi. È una necessità, come rivelerebbe anche la mini-trasgressione quasi coatta di cui si è detto sopra, che potrebbe configurarsi come una vera fame di immagini e di storie. Tutto questo universo si costituirebbe dunque, nell’ambito dell’esistenza umana, come qualcosa di ben più e di ben diverso che non una semplice forma di evasione. In questo quadro l’immane massa di immagini che avvolge le nostre esistenze, talora come una nube tossica, potrebbe rappresentare anche la reazione parossistica, eccessiva e ipertecnologica a una tecnologia la quale risponde al di sotto delle aspettative che si ripongono in essa, al di sotto di quella che è la sua mission fondamentale: produrre contesti, donare radici e racconti, in una chiave invece di sradicamento dell’individuo dai luoghi 188

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e dalle comunità di appartenenza. La stessa mass art sembrerebbe riproporre proprio la necessità di cui sopra si diceva, quella di assegnare una storia, attraverso vicende recitate da personaggi comuni ma avventurosi, agli individui dispersi nel deserto tecnologico. In questo quadro la tecnologia risulta essere resiliente e ambivalente: una sorta di vaccino o antidoto contro le sue stesse perversioni, un vero e proprio pharmakon antropologicamente settato. È tutt’altro che casuale dunque che l’arte tenda a riconnettere, nel percorso che, attraverso il secondo Ottocento, ci conduce dall’avanguardia sino a oggi, il tessuto suddiviso e frammentato delle singole arti e, con esso, quello della cultura stessa. L’avanguardia non tende, in altri termini, a pensare e a produrre l’arte come una forma dell’apparenza estetica, bensì come un ambiente culturale entro il quale si sperimenta un mondo nuovo. Proprio l’arte si fa latrice in questo quadro di una nuova universalità. Se la tecnica viene interpretata e vissuta come un elemento omologante, sradicante da gran parte della cultura della crisi, ecco che l’arte sembra costituire un movimento che contrasta l’imporsi del dominio uniformante della tecnica facendo propria l’idea di una tecnica artistica che produce mondi unificando e coagulando media tecnologici divenuti prigionieri, nonostante se stessi, di una mentalità razionalistica che suddivide e separa sulla base dell’ideale di una cattiva funzionalità. Come si accennava, un’intera e quanto mai significativa stagione dell’arte moderna mira a realizzare l’opera d’arte totale, e la riuscita di questo tentativo non dipende da una rivincita dell’arte sulla tecnologia bensì, del tutto all’opposto, dalla necessità dell’arte di escogitare un apparato tecnologico all’altezza del proprio ideale. Su questa base si potrebbero seguire 189

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gli alti e i bassi, i toni facondi e quelli più modesti di quella vicenda, cui già sopra si accennava, che ci conduce dal Biedermeier, alle Arts and Crafts sino al Bauhaus, e da Wagner sino a Stockhausen. L’opera d’arte totale può realizzarsi e cioè fondare un nuovo ambiente culturale solo se riesce a superare i limiti razionalistici dell’invenzione tecnologica per guardare alla tecnologia come modello di una ragione finalmente davvero performativa e performante. Il logos trasformato: dalla parola all’immagine Abbiamo dunque a che fare con una trasformazione profonda dei veicoli della trasmissione culturale che si accompagna al prodursi dell’immagine in una situazione sempre più di primo piano. L’immagine produce intense variazioni di senso connesse a quella che Georges Didi-Huberman ha definito la sua “sovradeterminazione”. Essa si colloca sull’asse di un “anacronismo” necessario connesso al suo carattere di irruzione nel presente, tale per cui la sua individualità storica e dunque la sua distanza temporale è indissolubilmente connessa a una distonia che è la ragione profonda della sua significazione metatemporale e per altro verso ipertemporalizzata, sempre “presente”, situata, affettiva56. E non va dimenticato in questo quadro che, per contro, l’universalità dell’ermeneutica si fonda sull’universalità del linguaggio e del logos che esso veicola, secondo una tradizione che da Wilhelm von Humboldt ci conduce sino a Hans Georg Gadamer, facendo scivolare in secondo piano la contiguità di parola e immagine. Come ben si ricorderà, la mediazione storica, nel quadro che l’ontologia ermeneutica di Gadamer viene configurando, costituisce il fondamento dell’uni190

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versalità del sapere ermeneutico57. Questo ultimo è un sapere votato alla ricontestualizzazione dei suoi contenuti, un sapere il quale, per riprendere la ben nota e già citata espressione di Habermas, “getta ponti”. È il principio della mediazione storica quello cui l’ermeneutica mette capo, superando l’estraneità della coscienza storica. Su questo punto Gadamer è molto esplicito in particolare là dove fa della Horinzontsverschmelzung (“fusione di orizzonti”) il cardine della propria prospettiva. Ora, in quanto l’ontologia ermeneutica si fonda su di una ricucitura della frattura tra passato e presente, abbiamo a che fare con un sapere dotato di una vocazione terapeutica. L’ermeneutica, quantomeno la sua versione gadameriana, si fonda così sull’intelligenza della mediazione storica che è in grado di rimediare ai guasti di un presente che subisce la “cattiva” universalizzazione di una tecnica dimentica dei contesti e dei luoghi. La vocazione dell’ermeneutica sarebbe allora, forzando indubbiamente un po’ il dettato di Gadamer, quella di ricreare luoghi, intendendo, in fondo, ridestare la vocazione universale implicita in ogni radicamento che sempre necessita di legittimarsi come “vero”, potremmo più opportunamente dire come “contestualmente vero”. Da questo punto di vista, nonostante tutte le perplessità espresse da Gadamer nei confronti dell’ermeneutica romantica, il sapere ermeneutico sembrerebbe riprendere e rieditare proprio il principio dell’Individuelle-Allgemeine di tradizione romantica e schleiermacheriana58. Su questa via, secondo Gadamer, si riattiva anche il logos vivente che nel linguaggio si è venuto depositando. È il linguaggio, ai suoi occhi, il depositario del logos mentre, più o meno tacitamente, affiora che esso non appartiene con la stessa forza all’immagine. La scelta, come si vede, è molto tradizionale e molto forte insieme. 191

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E, in fondo, viene smentita dalle evidenze storiche. Verrebbe da supporre che quanto è avvenuto sulla base di una sorta di cambio di paradigmi che ha proposto l’immagine in primo piano in concorrenza e talora in collaborazione con il logos della parola, non sia che l’espletarsi, sul piano della successione storica, di qualcosa che è intrinseco al movimento stesso della comprensione59. In breve, non è forse vero, come già Schleiermacher aveva intuito nella Dialektik60, che, quando comprendiamo qualcosa, ciò avviene sempre grazie alla trasformazione di un detto in un’immagine? In altri termini ancora si potrebbe affermare che la performatività della parola derivi e si realizzi grazie alla sua trasformazione in immagine. Il “mondo vero” è diventato psiche… Il predominio dell’immagine si configura, per altro con ottime ragioni dalle quali si traggono tuttavia conseguenze non sempre plausibili, come l’origine di una svolta nell’autocomprensione del nostro tempo. E cioè saremmo, grazie all’industria culturale, dinanzi a una spettacolarizzazione del mondo che ha attratto reiterate, e spesso giustificate censure a partire dalla polemica di Adorno con Walter Benjamin61. Questo avviene, alla luce di una grande tradizione critica che culmina nella Società dello spettacolo di Guy Debord, come l’esito di un lavoro di decontestualizzazione tale per cui l’immagine sovrasta il mondo come un universo dell’apparenza molto pervasiva e vagamente euforizzante astutamente e strategicamente dimentica dell’“effettiva” consistenza del mondo. Le armi utilizzate non sembrano tuttavia essere all’altezza del conflitto in corso. Ci sono molte ragioni che inducono a pensare che la questione non si può efficacemente 192

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affrontare su queste basi. È ben evidente che l’idea di un’apparenza che contrasta il reale è il retaggio di un platonismo tanto evidente e pervasivo quanto lasciato implicito, al quale la vicenda artistica si è definitivamente sottratta, come ha mostrato Arthur Danto, con l’esempio Andy Warhol62. Viene da rammentare in questo contesto che da sempre l’immagine contribuisce a costruire mondi-ambiente, come ricorda in modo esemplare già Henri de Focillon, mentre la questione viene sottoposta a un’ampia e preziosa disamina da Oliver Grau in Virtual Art 63. Per altro verso ben lungi dall’essere a-logica, l’immagine vive nel costante confine con il logos linguistico. La performatività del logos, come già si è ricordato sopra rifacendosi alla Dialettica di Schleiermacher, si rivela e realizza nel suo trasformarsi in logos-immagine. Per esempio l’ordine o l’indicazione ricevuta sono efficaci e passibili di una risposta celere proprio perché essi si concretano in un’intuizione, assumono cioè lo statuto dell’immagine. L’antitesi logos/immagine si trasforma qui in una contiguità profonda tale per cui la performatività del logos si realizza grazie all’immagine, meglio ancora si potrebbe dire che il logos venga interiorizzato sotto le fattezze dell’immagine che allontana l’estraneità e ne costituisce l’incarnazione sensibile. Da questo punto di vista la critica alla civiltà dell’immagine può meglio giustificarsi come la critica a un logos che non ha meditato a fondo le proprie ragioni, ed è ancora terrorizzato, frenato e irretito dalla maschera della violenza mitica della quale si vorrebbe liberare. Su questo siamo chiamati a riflettere, evitando qualsiasi demonizzazione dell’universo dell’immagine che finisce infine per restare prigioniera del meccanismo che censura. Nel suo derivare e nel suo inverare il logos della parola l’immagine è per altro dotata di un con193

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tenuto universale che le deriva dal modo particolare in cui essa è icona, che non ha nulla a che fare, anzi l’opposto, con l’anonimità di un nuovo esperanto. L’universalità dell’immagine si sviluppa sulla base di un inevitabile radicamento antropologico, così che essa si configura sempre, come si accennava sopra, riferendoci sempre a Schleiermacher, come un Individuelle-Allgemeine, Individuale-Universale. L’immagine costituisce così il principio di una razionalità che localizza, nel senso che dona e crea l’individualità e dunque il luogo. Quella che viene qui a prospettarsi è così una sorta di immagine terapeutica nei confronti di una tecnica straniante figlia di una cattiva universalità. Per altro verso l’immagine, come ha magistralmente mostrato Hans Belting, è in fondo sempre un’immagine tecnica in grado di implementarsi solo grazie a un medium determinato che si riverbera su di un corpo64. Ora si tratterebbe di cogliere quali siano i luoghi dell’immagine in quanto – ora forse possiamo dirlo – “luoghi ermeneutici”, luoghi di una ricontestualizzazione possibile. Per un certo verso ogni immagine è un luogo possibile, potremmo dire “un luogo al futuro”, mentre ogni luogo, in quanto situazione mentale, è anche un’immagine. La costruzione di un perimetro e di confini che creano un luogo nella spazio infinito, che pertiene all’immagine, è per altro di natura tecnica, ed è quello che definiamo in senso proprio e in senso lato arte. La premessa di tutto questo è una sostanziale continuità tra la sintesi percettiva e la “sintesi tecnologica”, nel senso che, fondamentalmente, ogni sintesi possibile è già sempre una sintesi derivante da un dispositivo. L’immagine, in altri termini, è costantemente costruita, reca entro di sé in senso proprio un indice tecnico, mentre ciò ci rinvia all’im194

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possibilità sempre più evidente di una divaricazione netta tra tecnica e natura. Potremmo dire che qui si prospetta, a voler osare molto temerariamente una tesi che ci si ripromette di sviluppare più ampiamente in altra sede, che qui si ha a che fare con una trasformazione dell’ordinamento della realtà che corrisponde a una variazione nella stessa autocomprensione della Moderne: si va da un modello tendenzialmente meccanicistico che è quello che pervade la fisica newtoniana sino alla Naturphilosophie kantiana, per venire a un’autocomprensione organicistica che è quella che si annunzia, anche sulla scorta del giudizio teleologico kantiano, in Goethe, nel primo Schelling e nella Frühromantik, per giungere infine a una psichizzazione dell’idea di realtà. È un iter che si annunzia già nelle Ideen di Herder ove si prospetta un cammino che, attraverso un lungo periplo metamorfico, conduce all’umanità e poi oltre di essa. Potremmo definirlo come un cammino che va dal fisico allo psichico. Si delinea qui un cammino di filosofia della storia che coincide con un passaggio di stato, con una modificazione decisiva della consistenza ontologica dell’ente. Il segno della redenzione si installa metaforicamente nella struttura dell’essere e ne orienta fisiologicamente lo sviluppo. In questo quadro si colloca anche molta filosofia successiva in ambito romantico, si pensi per esempio ad autori come Novalis, in particolare all’Allgemeines Brouillon, e poi, in ambito postromantico, a pensatori come Fechner e Guyau65. Questa “psichizzazione” della realtà è senza dubbio quella alla quale anche tutti noi stiamo assistendo e in qualche modo contribuendo con le tecniche digitali. Essa reca con sé una carsica, segreta, quanto infine quanto mai influente modificazione della trasmissione culturale. 195

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Naturalmente bisogna intendersi ora, quantomeno a grandi linee, su che cosa significhi fisico e psichico. Potremmo utilizzare come criterio per definire questo tipo di entità sulla base della quantità di relazioni che esse intrattengono con il loro interno e verso l’esterno. Lo psichico si potrebbe definire, in questo quadro, come una moltiplicazione a potenza infinita delle possibilità relazionali di un oggetto determinato che si compie e ha, al tempo stesso, come sua premessa, un’attivazione sinestetica dei cinque sensi i quali, intervenendo congiuntamente, amplificano, per così dire, la “portata oggettiva” dell’oggetto. È come se l’orientamento captato e/o intrapreso dall’avanguardia mettesse capo a una rivoluzione del concetto di realtà. Quest’ultima viene realizzata attraverso la sua implementazione su di un medium tecnico-sensoriale del tutto amplificato. La produzione di una percezione sinestetica mette così capo, su questa via, a una trasformazione effettiva della realtà e delle sue articolazioni di senso che non vengono più affidate all’esegesi di sensi separati. Questo produce un’intensificazione e un’idealizzazione della realtà che s’innalza a uno stato ulteriore e più integro. È un cammino molto significativo che trasforma, tra l’altro, radicalmente la fruizione estetica che da contemplativa si fa interattiva moltiplicando i sensi di competenza che intervengono nella fruizione dell’opera, mettendo in gioco anche quelli legati alla prossimità fisica con l’oggetto. Questo produce anche una trasformazione radicale della stessa consistenza ontologica dell’oggetto artistico. Come ha scritto Nicolas Bourriaud: «Ogni opera d’arte potrebbe esser così definita come un oggetto relazionale, il luogo geometrico di una negoziazione con innumerevoli interlocutori e destinatari»66. 196

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È proprio questo approccio relazionale all’immagine artistica che ci aiuta a intenderla e viverla come un luogo. In questo modo essa può configurarsi anche come un antidoto nei confronti di quel flusso immenso di immagini che percorrono oggi tutti gli spazi della nostra vita. Abbiamo a che fare con una marea immane di immagini che trova un limite nel fatto che le immagini tendono a iscriversi in un corpo, oppure a dissolversi nel nulla. Come ha rilevato Hans Belting in Antropologia delle immagini: Il rapido ritmo con il quale le immagini ci appaiono alla vista trovano una compensazione in quello altrettanto rapido con cui esse si dileguano. Le immagini alle quali nella nostra memoria corporea applichiamo un significato simbolico sono altre da quelle che consumiamo e dimentichiamo. Se nel corpo possiamo individuare il soggetto quale “luogo delle immagini” che noi stessi siamo, allora possiamo dire che esso resta una pièce de résistance contro la fuga dei media che, nelle attuali difficoltà, sembrano muoversi astutamente attraverso la sovrapproduzione figurativa67.

Torniamo a noi, venendo nuovamente alla tesi per cui l’universalità dell’ermeneutica si fonda sull’universalità del linguaggio. È ben evidente che questa stessa universalità è di natura metalinguistica poiché non è dato cogliere che cosa renda tra loro commensurabili le varie lingue, e forse anche i vari linguaggi, se non un elemento metalinguistico che è appunto l’immagine che funziona da medium intuitivo della comunicazione. Comprendere significa da questo punto di vista interrompere il flusso della temporalità per produrre contemporaneità, in altri termini comprensione intuitiva senza la quale la comunicazione s’incaglia. Comprendere significa, in questo quadro allora, invertire la rotta del tempo, riavvolgerne il filo e fare in modo che quell’estensione 197

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temporale che produce disorientamento e un senso di inanità e disperazione si arresti per produrre il proprio opposto, quella contemporaneità nel tempo che si riassume nel Verweile doch, in quell’indugiare che chiude il Faust goetheano. Comprendere diviene da questo punto di vista una forma dell’anacronismo e un modo dell’abitare: è riprendere all’inverso il gomitolo del tempo, riavvolgendolo in un luogo che è anche il proprio luogo. Ciò rende la comprensione storica e la coscienza della mediazione storica assolutamente insufficienti a svolgere il compito di creare luoghi in opposizione agli anonimi nonluoghi della tarda modernità. Ora tutto questo invera in fondo la vocazione terapeutica dell’ermeneutica e la risolve in una destinazione che potrebbe definirsi morfologica. Il lavoro della comprensione è, a ben vedere, un lavoro di radicamento che trasforma il tempo puro della temporalità storica in un tempo-spazio, in una forma o in un succedersi di forme che sono quelle in cui si sviluppa l’esistenza umana. L’esperienza in senso lato terapeutica dell’ermeneutica non consiste dunque tanto nell’enfatizzare la sua vocazione storicistica, nell’enfasi gettata sulla relatività dell’esistenza e delle comunità umane le quali sarebbero così convogliate in direzione di una quieta autoconsapevole convivenza in una contemporaneità a ben vedere poi ben poco innocua e pacificata. L’ermeneutica mette capo a un movimento opposto, e proprio a questo proposito realizza la sua vocazione terapeutica riabilitando, ricreando e rinnovando i luoghi nell’anonimo paesaggio dei nonluoghi sui quali Marc Augé ha magistralmente attratto la nostra attenzione. Essa finisce per risolversi nella morfologia in quanto realizza quell’utopia platonica del comprendere, che è l’intendersi sulla cosa stessa. Il cammino attraverso 198

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i logoi va oltre i logoi stessi, o meglio abolisce il loro statuto astratto facendo di essi una verità in atto nell’intuizione che si trasforma così in una forma vivente. È questa forma vivente che produce il luogo e il radicamento in esso, un logos nuovo, nell’accezione etimologica del termine, secondo un andamento che produce una sorta di modifica nel concetto di universalità. Abbiamo a che fare, come già si diceva e ora si può forse più convincentemente ribadire, non con un’individualità astratta ma con una sorta di riformulazione dell’Individuelle-Allgemeine proposto da Schleiermacher. Il riconoscimento individuale non avviene se non nel quadro di un ri-radicamento che costituisce il vero e proprio volto terapeutico del lavoro ermeneutico che ora scopre il proprio lato morfologico. È un lavoro di radicamento che non rinunzia alla tecnica, ma che, al contrario, sembra voler inverare e rinnovare ulteriormente la promessa di universalità di quest’ultima. L’universalità morfologica, quella dell’immagine, non è infatti rivolta al passato, ma al futuro, si propone in altri termini come un progetto. Potremmo definire la creazione di questa universalità come un lavoro utopico rivolto a riconciliare cultura e natura compiendo sin dall’inizio un salto al di là della loro stessa separazione. Potremmo formulare diversamente la cosa riprendendo un’osservazione di Edgar Morin: l’uomo è l’unico essere che si crea il proprio ecosistema68. Alla luce di queste considerazioni l’estetica tende a risolversi non nell’ermeneutica ma nella morfologia assecondando un orientamento che privilegia, tra le estasi temporali, non più il passato ma il futuro. Tutto questo non significa tuttavia affatto, come già si accennava sopra, che l’universalità dell’immagine sia un nuovo esperanto. Questo passo produce invece una diversa attitudine nei confronti dell’idea stessa 199

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di universalità: si va infatti verso una universalità non logica e indifferente ma personale e analogica, un’universalità che produce relazioni e appartenenza. Il grande schiacciante Moloch dinanzi al quale la Kulturkritik si era trovata è quello di un’universalità logica che respinge l’appartenenza e la schiaccia sotto l’ombra di un universale disprezzo. In questo caso abbiamo invece a che fare con un’universalità analogica e anche, aggiungerei, metabolica. Il riempimento intuitivo risponde a una sorta di “fame di immagini”, a un bisogno di orientamento e di radicamento che l’immagine nega e veicola al tempo stesso. È un’universalità che deriva da una logica analogico-combinatoria che produce riconoscimenti logico-patici da parte di coloro che ne attraversano i percorsi. Ci troviamo dunque in un quadro tutt’altro che relativistico. Esso implica, fra l’altro, per riferirci ora al logos linguistico, che parlare significa costantemente parlare non da un certo punto di vista, ma da un certo luogo. E che ciò coincida con il nostro ineliminabile radicamento. La logica del luogo e dei luoghi deve così sostituirsi a quella dei punti di vista nella discussione su identità/differenze e nuove universalità evitando così di cadere nell’alternativa, proposta molto autorevolmente nel mondo cattolico da Joseph Ratzinger, tra relativismo e verità trascendente. Il luogo è una forma dell’abitare che non ha nulla a che fare con una dispersione relativistica; esso si definisce piuttosto come un’autocostruzione di confini, dunque come un’immagine. In quanto l’immagine è destinata a iscriversi in un luogo e in un corpo, ecco che essa è volta a produrre una sorta di reincantamento del mondo. Ogni immagine deriva, è prodotta da una sorta di tensione “erotica” implicita nella sua necessità di incarnarsi, che la induce a concretizzarsi in un 200

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mondo, e a generare un mondo. È una via che viene indicata, in termini diversi, anche da Michelangelo Pistoletto il quale afferma che è necessario orientarsi in direzione di un “Terzo Paradiso”, che fa seguito al giardino dell’Eden e all’euforica Babele tecnologica. Egli soggiunge che bisogna andare in direzione di una “reintegrazione del rapporto tra uomo e natura”, che costituisce la speranza, il mito positivo del nostro tempo attraverso il quale «l’arte si assume nuovamente la direzione che dovrà tenere unito il mondo»69. Questo reincantamento, che può naturalmente trovare nell’arte pubblica uno dei propri punti di forza, fa riflettere su di una potenza performativa dell’immagine alla cui luce può essere tentata una sorta di critica dell’economia politica dell’estetica volta a individuare le virtualità socialmente terapeutiche delle politiche dell’immagine.

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NUOVO ROMANTICISMO. LA CIVILTÀ DELL’IMMAGINE

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Immaginare il canone Recentemente un grande storico dell’arte e dell’immagine come Horst Bredekamp rilevava che è forse «dai tempi dell’iconoclasmo bizantino e dei movimenti protestanti radicali che non si è più riflettuto con la medesima forza sullo status delle immagini come si è fatto negli ultimi quattro decenni»70. Tutto questo dipende, continua Bredekamp, dalla notevolissima quantità di immagini derivanti dalle fonti più diverse che si diffondono attraverso il globo: grazie agli smartphone, ai giornali, ai canali televisivi e così via assistiamo e subiamo una vera e propria invasione di immagini. Gli interrogativi che sorgono in un contesto di questo genere sono moltissimi. Per esempio: che cosa significa avere a che fare con un canone sbilanciato in direzione dell’immagine invece che della scrittura? È come se avessimo a che fare con un’inversione di tendenza fortemente contrastata nella nostra tradizione culturale. Veniamo da una tradizione che, a più riprese, ha affrontato il conflitto tra immagine e parola come media della trasmissione della tradizione e come media comunicativi, un conflitto che sembrerebbe essersi risolto nel secondo Settecento con una provvisoria, ma apparentemente conclamata e incontrovertibile vittoria del logos verbale. 202

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Il passaggio che conduce di qui alla nascita dell’estetica è davvero denso e pieno di significato. Si tratterà di un passaggio che, attraverso Winckelmann e Kant, condurrà in direzione della definizione del continente estetico inteso come un universo di pure forme, prive di ogni interesse che non sia per l’appunto quello connesso alla contemplazione estetica. È grazie infatti alla descrizione winckelmanniana del Laocoonte nei Pensieri sull’imitazione dell’arte antica che Lessing potrà pronunciare un verdetto di separazione delle arti che divide parola e immagine. Il perceptum estetico diviene così qualcosa di astratto che prescinde dall’unità sinestetica della percezione che si realizza in forme dense di senso. Non sarà difficile, sulla base di un’astrazione così potente, fare, come avverrà in Kant, dell’esperienza estetica un’esperienza priva di ogni attrattiva. Ripromettendoci di riprendere più ampiamente questa tesi, possiamo sin d’ora affermare che, nel caso della nascita dell’estetica, abbiamo a che fare con un’alba stentata che segnerà una svolta potente nella storia dell’immagine, quella svolta che ci conduce in direzione della sua asignificatività la quale, attraverso Kant, trascorrerà come un legato quasi inoppugnabile all’estetica contemporanea con una serie di conseguenze davvero dirompenti e incalcolabili. Via via, ed è inconfutabile l’eredità platonica su questo capitolo, l’immagine viene liberandosi dal suo legame con il logos e viene con esso in conflitto. Platone destina l’immagine ai territori dell’apparenza in fondo sulla base ideale della sfida tra Zeusi e Parrasio, sulla base cioè dell’accusa di fomentare uno sviante illusionismo. L’immagine è copia di copia in quanto è ineluttabilmente illusionistica: essa aggiunge alle due dimensioni che le sono proprie una terza, la profondità, che è sorgente di illusione. Ed è tanto 203

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più sorgente di illusione quanto più essa è tecnicamente realizzata in modo felice. Si manifestano, a questo livello, delle inquietanti sequenze concettuali. L’immagine è sviante perché produce illusioni, e ciò è dovuto al fatto che essa è tale non per natura, ma in quanto è tecnicamente, artificiosamente costruita in modo da produrre una terza dimensione inesistente la quale si sovrappone alle due originarie. Su questa base, quella di un’immagine da intendersi severamente come rappresentazione bidimensionale, abbiamo a che fare con un’immagine a-logica. Si tratta di un’immagine in cui è sconsigliabile o impossibile dimorare, di un prodotto artificioso che genera disorientamento. Madame Bovary è in fondo già qui: la catastrofe della sua vita è alla fin fine preconizzata dal decimo libro della Repubblica platonica – in altri termini: guai a chi volesse vivere l’immagine o nell’immagine – costui correrebbe rischi mortali. Per affrontare l’immagine bisogna mitridatizzarsi nei suoi confronti, consegnarla cioè ai territori dell’apparenza che si è sciolta dalla realtà. In nuce la coscienza estetica, che sorge dopo Kant, è in fondo già contenuta qui, mentre, per altro verso, il sorgere dell’apparenza estetica denunzia la decisione definitiva intorno a un plurimillenario conflitto tra parole e immagine, in cui ne va della logica della comunicazione e dei suoi mezzi. Ma c’è di più: è in gioco qui anche la tecnica che viene letta, sulla base di questo intendimento dell’immagine, come un artificio insidioso. Quello che si risolve con la nascita dell’estetica è dunque un contenzioso che interviene in modo notevolmente influente sulla cultura europea, un conflitto che riesplode a più riprese in modo molto potente e che, infine, viene messo a tacere proprio con la nascita, anch’essa quanto mai contraddittoria, 204

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di una nuova disciplina filosofica. Paradossalmente la nascita dell’estetica fa sì che quello che era un conflitto patente e più volte riesploso in modo conclamato71, a partire per l’appunto dall’iconoclastia bizantina, venga messo a tacere, quasi narcotizzato a evitare che esso riesploda nuovamente in tutta la sua portata dirompente. È dunque come se ci venissimo a trovare dinanzi a un immane rimosso e, poi, improvvisamente, dinanzi alla civiltà dell’immagine quasi fossimo dinanzi a un mostruoso ritorno di quanto è stato refoulé. Ci troviamo così dinanzi a una trasformazione occulta del canone culturale le cui variazioni non sono state percepite positivamente poiché l’effetto apocalittico ha finito per fare aggio sull’analisi dei sistemi in via di modificazione. La definizione “società dello spettacolo” che era venuta a costituire una sorta di emblema del cambiamento in atto, costituiva più un’espressione del disagio nei confronti del cambiamento in corso che non una sua vera comprensione72. L’idea che ci si venisse a trovare in un mondo derealizzato ha finito per influire in modo pesantemente negativo sulla valutazione dei mutamenti in atto. È come se lo schema platonico, quello che in fondo è alla radice dell’iconoclastia antica come di quella moderna, avesse finito per agglutinare intorno a sé problemi della più diversa provenienza e carattere. La demonizzazione di quella che viene descritta come una “civiltà dello spettacolo” o come “civiltà dell’immagine” finisce in fondo per non rendere conto della quantità di problemi che sono scesi sul tappeto indotti dalla trasformazione che si sta imponendo73. Per esempio: che cosa significherà, dal punto di vista pedagogico, mettersi in contatto con le modificazioni del canone? Abbiamo ancora a che fare con un canone? Come lo 205

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si potrà eventualmente proporre ai discenti di oggi? Che cosa significa per altro verso ritrovarsi dinanzi a una tradizione ammutolita? Ed essa è ammutolita o semplicemente sta trascorrendo in altri alvei? E si potrebbe continuare chiedendoci che cosa significhi, dal punto di vista etico, vivere entro una civiltà dominata dall’immagine. Sorgono insomma nuovi interrogativi all’interno di un universo a un tasso di popolazione iconica sempre più densa: per esempio, con che immagini desideriamo vivere e con quali invece non desideriamo farlo? Sorgono questioni ontologiche del tutto influenti e ben poco astratte: che cosa significa infatti, per esempio, vivere in un ambiente costituito da immagini che sono divenute forme di vita? Il conflitto delle immagini La vicenda che qui viene storicamente a prospettarsi volgendo lo sguardo all’indietro è quella di un immane e sotterraneo conflitto dei logoi che produce una serie di rovesciamenti dei fronti grazie ai quali possiamo giungere sino a oggi. Il logos dell’immagine sembra prospettarsi come un logos che viene stralciato quasi violentemente dalla sua vicenda storica per esservi riammesso a singhiozzo a tappe successive. Si tratta di istanze che si rovesceranno con il neoplatonismo, in una sorta di gioco di rifrangenze che ci conduce sino all’estetica del Settecento. È un logos segreto che riemerge per esempio nell’ottavo libro delle Enneadi, laddove Plotino apre il cammino a un’arte antiprospettica fondata sulla luminosità che produce tutti gli oggetti sullo stesso piano. Alla prospettiva si sostituisce una dimensione di corrispondenze degli oggetti su di un

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piano unico che ci condurrà di qui sino alla Natività di Botticelli. Come è stato rilevato il cristianesimo primitivo sviluppò una pittura fortemente debitrice delle teorie plotiniane che ebbero una ricca fortuna anche nel Medioevo74. Ma è soprattutto un passaggio importante a proporsi con i Padri cappadoci, come testimonia esemplarmente il trattato Contro Eunomio di Gregorio di Nissa, laddove il generarsi della Trinità non nega la semplicità della figura divina. Se qui si parla di “modalismo”75, la questione fondamentale che viene a proporsi è quella dell’autoriflessività dell’immagine, della sua capacità di tornare su se stessa e di guardarsi che costituisce il filo rosso che ci guida quando si vuole cogliere il suo logos. Potremmo così inizialmente affermare che il logos dell’immagine coincide con la sua capacità di estendersi in una autoriflessività non discorsiva, in cui si trascorre da un soggetto alla sua amplificazione condotta su di un modello di “riconoscimento di sé e del mondo” che è quello di un logos che modifica la propria espressività guardando a sé all’interno e al di fuori di sé. Il modello della riflessività o della riflessione assume in questo quadro una sua declinazione particolare76. E, a questo riguardo, bisogna tornare alla Patristica del iii secolo. Quello che affiora in Basilio di Cesarea e in Gregorio di Nissa, che si pone sulle sue tracce, è la proposta teologica di pensare la Trinità in figura. La questione riguarda la processualità trinitaria che non può che articolarsi secondo una sequenza che deve sintetizzare successione e contemporaneità, pena il decadere della pari dignità delle tre figure della Trinità. Come rileva Anka Vasiliu a proposito di Basilio di Cesarea, il termine chiave è qui eneikonizomai che esprime nella forma media un tornare dell’atto su se stesso; significa: “riflettersi iconicamente”77. Abbiamo 207

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così a che fare, sulla base di questa semantica, con un sistema dinamico che indica una stretta coappartenenza tra le tre figure della Trinità come testimonia anche Sullo Spirito Santo di Gregorio di Nissa78. Soltanto sulla base di una dimensione energetica di questa natura, che si trasferisce in immagine, per cui l’icona è dynamis e Gloria insieme nel transito distinto-indistinto dei momenti nell’identità79, è possibile pensare la sequenza delle figure senza cadere in un’eresia come quella dei Sabelli, combattuta da Gregorio per cui la derivazione del Figlio dal Padre, comporterebbe la natura finita del primo. L’eikon realizza la comunità dei tre momenti80. L’Immagine nel suo autorivelarsi diviene così un modello di Rivelazione tout court81. L’idea che l’immagine si fondi su di un modello autoriflessivo, e che questo costituisca un movimento di autorivelazione del suo essere, è per altro un modello di lungo corso che ci conduce sino alla filosofia del tardo Fichte e di lì al Romanticismo via Novalis, sino all’arte contemporanea come testimoniano per esempio Paul Klee e poi Michelangelo Pistoletto. È un percorso di assoluto rilievo nel quale affiora che il logos dell’immagine si connette alle virtualità di autoriflessione della medesima. Afferma Fichte nella Logica trascendentale II: Il sapere è perciò un librarsi soggettivo su un oggetto, un essere-immagine (Bildseyn) di un raffigurato, e certamente un tale essere-immagine, che si comprende nella sua immaginalità (Bildwesen), di contro all’oggettività in quanto è sua immagine il sapere prende le mosse dall’immagine o dalla rappresentazione. Il sapere è immagine e si comprende, si concepisce anche nella sua essenza immaginale. […] Il sapere si rivela e si testimonia dunque da sé: sarebbe un uscire dall’immagine e un comprendere l’immagine in quanto immagine: è pertanto un’inferenza dall’immagine all’oggetto82.

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Paradossalmente queste sono le conclusioni alle quali perverrà anche Novalis negli Studi su Fichte, laddove questi sostiene, in polemica con il “primo” Fichte, qualcosa di molto affine al punto di approdo di Fichte stesso nel testo sopra citato. Novalis afferma infatti negli Studi su Fichte la relazione ontologica che connette immagine e autoscienza: «L’autocoscienza è […] un’immagine dell’essere nell’essere»83. In questo quadro amplissimo e profondamente sensibile a influenze neoplatoniche, si affaccia il vero e proprio volto principale di tutta la partita che si giocherà intorno all’immagine. Non si tratta tanto di soffermarsi, a questo proposito, sullo stato attuale degli studi sulla Romantik, quanto di chiederci quanto lo spirito profetico della Frühromantik si sia per molti versi inverato in un presente quasi banale. Il tema è quello della possibile o impossibile autoriflessività dell’immagine che si definisce come forma adeguata dell’autocoscienza. Non c’è logos dell’immagine che possa distinguersi dalla sue possibilità autoriflessive mentre, per contro, l’irrazionalità dell’immagine va di pari passo con una sua caratterizzazione in termini puramente rappresentativi. È questo uno degli elementi che discendono dal neoplatonismo e dalla Frühromantik per giungere sino a oggi con notevoli possibilità diagnostiche concernenti il nostro presente. Arrischiamo una tesi che potrebbe condurci dalla Frühromantik a oggi. Si potrebbe affermare che, per non cadere nell’illusionismo, ogni immagine sia e insieme debba essere “immagine di…” nel duplice senso del genitivo, soggettivo e oggettivo. L’immagine è sempre immagine di qualcosa in quanto è immagine di sé e l’inverso. In breve l’immagine è sempre allo specchio e si guarda, riflette un mondo riflettendo su di sé. È questa la peculiare simbolicità dell’immagine che raccoglie entro di sé la tradizione dell’emblemati209

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ca barocca per trascorrere nel Romanticismo e venire sino a oggi. Il simbolo romantico non è in fondo null’altro che uno sviluppo radicale dell’emblema. L’inscriptio e la subscriptio dell’immagine vengono agglutinati dall’immagine stessa che diviene così un’immagine densa di logos, esemplare e dotata di una coestensione discorsiva. Questo tratto che ci conduce dall’emblematica barocca sino al simbolo romantico costituisce un capitolo nella vicenda del conflitto dei logoi, una vicenda che li vede su questa linea singolarmente alleati. L’immagine in questo contesto non rappresenta semplicemente, ma agisce rappresentando, accompagnata dal duplice logos che l’attraversa e che essa ha fuso in sé. L’immagine dice di sé stessa e in questo modo essa diviene un exemplum, acquisisce una sorta di esemplarità che ci conduce dall’età barocca sino alla pubblicità che si fonda in fondo proprio su questa esemplarità, reale o fittizia in questo frangente non ha rilievo, dell’immagine. L’immagine supera lo scacco platonico inurbandosi nuovamente dopo che la Repubblica platonica la aveva esclusa dalla polis esibendo una capacità di autoriflettersi che si estende dall’arte alla scienza. Essa si prospetta come il logos futuro che si esercita grazie alla sua capacità autoriflessiva di inglobare l’altro logos facendolo proprio pur nella sua peculiare declinazione. L’immagine, in questo quadro, è a tutti gli effetti un soggetto che guarda, ci osserva, ci invita ad adottare comportamenti e modelli di vita. Essa vede sé stessa nell’alterità dello spettatore che la ospita come logos, narrazione, estensione discorsiva del suo nucleo prettamente iconico, capacità performativa di proporsi come sguardo sul mondo e come exemplum. Andava in questa direzione già Paul Klee quando affermava:

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E ogni figurazione, ogni combinazione avrà la sua particolare espressione costruttiva, ogni figura il suo volto, la sua fisionomia. Le figure oggettive ci guardano, ilari e severe, più o meno tese, consolatrici e spaventevoli, sofferenti o sorridenti. Esse ci guardano in tutte le antitesi della dimensione psico-fisiognomica, la cui gamma può estendersi sino al tragico e al comico.84

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Conclusioni L’immagine è divenuta il paesaggio nel quale viviamo. Ed è lo sguardo dal quale siamo attraversati. Non guardiamo soltanto l’immagine ma ci guardiamo attraverso di essa, mentre la consistenza ontologica del nostro mondo è sempre più segnato proprio dall’immagine. Dai selfie, agli smartphone, alle procedure di diagnostica clinica abbiamo sempre più a che fare con una paradossale diffusione, ma poremmo addirittura parlare di democratizzazione dell’immagine del nostro sé che attraversa le più diverse sfere di esistenza. La nostra stessa intimità, la stessa idea di intimità è messa in questione in questo quadro laddove il nostro interno viene messo in mostra, reso pubblico quasi a testimoniare un nuovo commovente straniato sentimento di sé. Basti pensare alle ecografie dell’embrione che diventano quasi sostituti di foto commoventi del nascituro. Il nostro interno si esteriorizza, l’invisibile si è fatto sempre più visibile. Si sviluppa qui uno sguardo sull’interno, uno sguardo sul divenire, sul formarsi stesso della vita. L’interdetto kantiano viene aggirato, lo sguardo genetico, quello dall’interno è divenuto possibile. L’immagine diviene così la forma suprema dell’autocoscienza, di un’autocoscienza che è divenuta in grado di esteriorizzarsi, di guardare a se stessa 211

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attraverso il proprio riflesso. Lo sguardo sull’interno può addirittura essere brevettato come avviene per i segmenti di Dna su Google,85 mentre la questione più impellente per cogliere tutto il meccanismo è il meccanismo stesso. Il problema sarà cioè quello di cogliere come si visualizza quanto si visualizza. Questo evidenzia che ogni sguardo è sin dall’inizio autoriflessivo, un principio di messa in forma del mondo e del sé e dunque di autoriconoscimento. Il medium tecnico non è in questo contesto un mero medium strumentale: implementando l’immagine esso implementa il modo in cui guardiamo a noi stessi. La storia della tecnologia entra così a far parte della storia dell’autocoscienza, mentre la tecnologia non si profila più come una terra desolata destinata a enfatizzare l’estraniazione a sé e il disincanto del mondo, bensì a creare l’autocoscienza secondo una sua forma determinata che dipende dalle visualizzazioni di volta in volta intervenute. La tesi di Novalis secondo la quale l’autocoscienza è un’immagine dell’essere nell’essere, sembrerebbe trovare qui la sua più clamorosa e paradossale conferma. È ben evidente che qui la diagnosi classica sulla tecnologia come fattore di estraniazione viene meno, mentre essa, al contrario, diviene piuttosto un fattore di consapevolezza e di auto-consapevolezza. È grazie alle implementazioni tecnologiche dell’immagine che diveniamo consapevoli di noi stessi. Su questa via per altro si rovescia e innova lo schema classico dell’autocoscienza facendo di essa non più una certezza interiore, ma un mondo-ambiente, un’“immagine immersiva”. Sempre di più le immagini divengono luoghi, “nicchie”86, luoghi di una natura culturalizzata e di una cultura naturalizzata, vissuta come un mondo-ambiente quasi primigenio.

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Note 1 F.H. Jacobi, “Jacobi a Fichte”, in Idealismo e realismo (1787), a cura di N. Bobbio, Torino, De Silva, 1948, p. 178. 2 Ivi, p. 191. 3 G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito (1807), a cura di G. Garelli, Torino, Einaudi, 2008, p. 24. 4 Cfr. O. Grau, Remember the Phantasmagoria! Illusion Politics of the Eighteenth Century and Its Multimedial Afterlife, in Id. (a cura di), Media Art Histories, London-Cambridge (Mass.), The Mit Press, 2006, pp. 142-143. 5 Cfr. ivi, p. 145. 6 Cfr. ivi, pp.  144-149, per quanto riguarda l’evoluzione settecentesca della lanterna magica e gli spettacoli di Étienne-Gaspard Robertson. A proposito della storia e dell’attualità dell’esperienza estetica dell’“immersione”, cfr. O. Grau, Virtual Art. From Illusion for Immersion, London-Cambridge (Mass.), The Mit Press, 2003. 7 Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), a cura di G. Vattimo, Milano, Bompiani, 1983. 8 Cfr. circa il nascere di una razionalità fondata sul concettoscrittura, M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Roma-Bari, Laterza, 2006. 9 Sullo sfondo di questa argomentazione si colloca naturalmente H. Belting, Antropologia delle immagini (2001), a cura di S. Incardona, Roma, Carocci, 20132. 10 Per quanto riguarda il carattere attivo da sempre detenuto dall’immagine, cfr. H. Bredekamp, Theorie des Bildakts, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2010. 11 Cfr. a questo proposito F. Vercellone, Dopo la morte dell’arte, Bologna, il Mulino, 2013. 12 Cfr. a questo riguardo R. Diodato, Immagine, arte, virtualità. Per un’estetica della relazione, Brescia, Morcelliana, 2020. 13 Cfr. A. Fabris, Etica delle nuove tecnologie, Brescia, La Scuola, 2012. 14 Mi sia consentito rinviare nuovamente per un’estesa argomentazione al mio Dopo la morte dell’arte cit. 15 Il titolo originale è Cloud Gate. 16 R. Barthes, Miti d’oggi (1972), trad. di L. Lonzi, Torino, Einaudi, 2005. 17 Ringrazio vivamente Sara Franceschelli, Olaf Breidbach, Ugo Perone e Angelo Vianello per le loro preziose indicazioni e suggestioni.

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18 Cfr. A. Gethmann-Siefert, Die Funktion der Kunst in der Geschichte. Untersuchungen zu Hegels Ästhetik, Bonn, Bouvier, 1984. 19 Cfr. in particolare a questo proposito T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri, G. Matteucci, Torino, Einaudi, 2009, pp. 100-103. 21 Cfr. per un primo sguardo complessivo sulla questione. M. Nacci, Tecnica e cultura della crisi (1914-1939), Torino, Loescher, 1982. Per ciò che concerne lo sviluppo dei modelli scientifici in età romantica a partire da Kant, cfr. S. Poggi, Il genio e l’unità detta natura. La scienza della Germania romantica (1790-1830), Bologna, il Mulino, 2000. 22 Cfr. P. Klee, Sull’arte moderna, in: Paul Klee. Preistoria del visibile, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 1996, pp. 28-35. 23 Cfr. E. Cassirer, Rousseau, Kant, Goethe, a cura di G. Raio, Roma, Donzelli, 1999. 24 G.W.F. Hegel (?), F.W.J. Schelling (?), F. Holderlin, Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, a cura di L. Amoroso, Pisa, Ets, 2007, pp. 21-23, cui si rinvia anche per quanto concerne una ricostruzione del dibattito su questo testo. Ci si limita a segnalare in proposito: R. Bubner, a cura di, Das älteste Systemprogramm. Studien zur Frühgeschichte der deutschn Idealismus, Bonn, Bouvier, 1973; Ch. Jamme, H. Schneider (a cura di), Mythologie der Vernunft. Hegels älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1984. 25 F. Schiller, Dell’educazione estetica dell’uomo in una serie di lettere, in Id., Saggi estetici, a cura di C. Baseggio, Torino, Utet, 1951, pp. 220-221 (corsivo nostro). Cfr. U. Perone, Schiller. La totalità interrotta, Milano, Mursia, 1982. 26 Cfr. W. Rehm, Experimentum medietatis. Studien zur Geistes- und Literaturgeschichte des 19. Jahrhunderts, München, Rinn, 1947. 27 Cfr. D.S. Landes, Storia del tempo. L’orologio e la nascita del mondo moderno, Milano, Mondadori, 1984, in particolare la prima parte. Sulla storia degli orologi in età moderna, cfr. C.M. Cipolla, Le macchine del tempo, Milano, Feltrinelli, 2003. 28 W.H. Wackenroder, Opere e lettere. Scritti di arte, estetica e morale in collaborazione con Ludwig Tieck, a cura di E. Agazzi, Milano, Bompiani, 2014. 29 I. Kant, “Prima Introduzione” alla Critica del Giudizio, in Id. Critica del Giudizio, a cura di A. Bosi, Torino, Utet, 1993, pp. 124-125. Cfr. per la questione della teleologia in Kant in

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particolare in relazione a questo testo: G. Garelli, La teleologia secondo Kant, Bologna, Pendragon, 1999, pp. 118-140 (con relativa bibliografia). 30 Cfr. per guanto riguarda Novalis, che costituisce l’inizio quanto mai significativo di questo percorso in ambito immediatamente postkantiano, F. Vercellone, Nature del tempo. Novalis e la forma poetica del romanticismo tedesco, Milano, Guerini&Associati, 1999, pp. 83-127. 31 Cfr. F. Jacob, Evolution and Tinkering, “Science”, New Series, vol. 196, n. 4295 (Jun 10, 1977), pp. 1161-1166. 32 Cfr. H.R. Varela, F. Maturana, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Venezia, Marsilio, 1985, pp. 125 ss. 33 Per quanto riguarda la realizzazione di macchine morfologiche, cfr. http://youtu.be/Z4bRYKlvWIo; http://youtu.be/ E6Nuik4WPtQ, a cura di S. Franceschelli, Y. Mahieu e dell’Ensad. 34 Per quanto riguarda l’estetica delle atmosfere fondata da G. Bohme e da H. Tellenbach, mi limito qui a ricordare i due volumi di T. Griffero. Atmosferologia, Roma-Bari, Laterza, 2010; Quasi-cose. La realtà dei sentimenti, Milano, Bruno Mondadori, 2013 ai quali si può attingere per ulteriori informazioni bibliografiche. 35 Cfr. naturalmente per quanto riguarda il concetto di classico, la sua ricezione moderna e le sue prospettive, S. Settis, Futuro del classico, Torino, Einaudi, 2004. 36 Cfr. in particolare a questo proposito G. Debord, Commentari alla società dello spettacolo. La società dello spettacolo, con una nota di G. Agamben, Milano, Sugarco, 1990. Cfr. inoltre per lo sviluppo di questa diagnosi F. Vercellone, Dopo la morte dell’arte, Bologna, il Mulino, 2013, in particolare pp. 96-103. 37 Cfr. innanzi tutto a questo proposito O. Breidbach, F. Vercellone, Pensare per immagini. Tra scienza e arte, Milano, Bruno Mondadori, 2010. 38 Michelangelo Pistoletto. Année 1. Le Paradis sur Terre, Paris, Louvre, 25 aprile - 2 settembre 2013. 39 Cfr. innanzitutto a proposito del carattere performativo e delle possibilità “autoriflessive” dell’immagine nell’ambito di una bibliografia ormai molto ampia: H. Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, a cura di F. Vercellone, Milano, Raffaello Cortina. 2015. 40 Cfr. O. Grau, Virtual Art: From Illusion to Immersion, Cambridge (Mass.), The Mit Press, 2003. Mi permetto inoltre di rinviare al mio Il futuro dell’immagine, Bologna, il Mulino, 2017, pp. 80-85.

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41 Cfr. a questo proposito innanzi tutto per uno sguardo complessivo sulla questione M. Nacci, Tecnica e cultura della crisi (1914-1939), Torino, Loescher, 1982. 42 Cfr. P. Bürger, Teoria dell’avanguardia, Torino, Bollati Boringhieri, 1990; N. Bourriaud, L’art moderne et l’invention du soi, Paris, Denoël, 1999; N. Bourriaud, Estetica relazionale, Milano, 2010. 43 Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1968. 44 A. Gell, The Technology of Enchantment and the Enchantment of Technology, in J. Coote, A. Shelton (a cura di), Anthropology, Art and Aesthetics, Oxford, Oxford University Press, 1992. 45 Cfr. J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla tecnica e altri saggi di scienza e filosofia, trad. e cura di L. Taddio, Milano, Mimesis, 2012. 46 Che questo sia in consentaneo al procedere evolutivo della natura viene suggerito da A. Nowak, con R. Highfield, Supercooperatori. Perché abbiamo bisogno l’uno dell’altro, Torino, Codice, 2012. 47 Cfr. J. Habermas, Urbanisierung der Heideggerschen Provinz (1979) in Philosophisch-politische Profile, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1981, pp. 392-401. 48 È una vicenda che si definisce a partire da C. Batteux, Le Belle Arti ricondotte a un unico principio, a cura di E. Migliorini, Palermo, Aesthetica, 1983. Cfr per es. pp. 54-55: «così la pittura imita la bella natura con i colori, la scultura con i rilievi, la danza per mezzo dei movimenti e degli atteggiamenti del corpo. La musica la imita mediante i suoni inarticolati e la poesia, infine, per mezzo della parola misurata. Ecco i caratteri distintivi delle arti principali. E se accade talvolta che queste arti si mescolino e si confondano come, per esempio, nella poesia, così la danza fornisce i gesti agli attori nel teatro, così la musica dà il tono di voce nella declamazione, così il pennello decora il luogo della scena; questi sono dei servizi che si rendono mutualmente, in virtù del loro fine comune e della loro alleanza reciproca, ma ciò avviene senza scapito dei loro diritti particolari e naturali. Una tragedia senza gesti, senza musica, senza decorazione è sempre un poema. È un’imitazione espressa mediante i discorsi misurati. Una musica senza parole è sempre musica. Essa esprime il pianto e la gioia indipendentemente dalle parole, che l’aiutano, in verità, ma non le aggiungono né le tolgono niente che alteri la sua natura e la sua essenza. La sua espressione essenziale è il suono, nella stessa

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maniera che quella della pittura è il colore, e quella della danza è il movimento del corpo. Ciò non può essere contestato». 49 Cfr. F.T. Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in Teoria e invenzione futurista, Milano, Arnoldo Mondadori, 19963, p. 69. 50 Cfr. F.T. Marinetti, Guerra solo igiene del mondo, in Teoria e invenzione futurista cit., p. 303. 51 Cfr. F. Vercellone, Il futuro dell’immagine, Bologna, il Mulino, 2017. 52 Cfr. a questo riguardo K. Korsmeyer, Making Sense of Taste, Ithaca - New York, Cornell University Press, 2002; N. Perullo, Il gusto come esperienza. Saggio di filosofia ed estetica del cibo, Slow Food, 2012. 53 Cfr. P. Ricœur, Tempo e racconto, trad. di G. Grampa, 3 voll., Milano, Jaca Book, 2008. 54 Mi limito qui a ricordare. G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo e La società dello spettacolo, con una nota di G. Agamben, Milano, SugarCo, 1990; M. Vargas Llosa, La civiltà dello spettacolo, Torino, Einaudi, 2013. Per una argomentazione di questa tesi mi sia consentito rinviare a F. Vercellone, Dopo la morte dell’arte, Bologna, il Mulino, 2013, in particolare pp. 96 ss. 55 Per un approfondito sguardo su tutta la questione cfr. A. Fabris, Etica delle nuove tecnologie, Brescia, La Scuola, 2012. 56 Cfr. a questo proposito innanzitutto G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, trad. S. Chiodi, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. 57 Ci si riferisce naturalmente qui in primo luogo a H.G. Gadamer, Gesammelte Werke Bd.I: Hermeneutik I: Warheit und Methode, Tübingen, Mohr Siebeck, 1990. 58 Cfr. in proposito M. Frank, Das Individuelle AllgemeineTextstrukturierung und – Interpretation nach Schleiermacher, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1977. 59 Cfr, a questo proposito M.-J. Mondzain, L’immagine che uccide. La violenza come spettacolo dalle Torri gemelle all’Isis, Bologna, Dehoniane, 2017. 60 F.D.E. Schleiermacher, Vorlesungen über die Dialektik. Kritische Gesamtausgabe, voll. 10/1, 10/2, Berlin, de Gruyter, 2002. 61 Mi sia consentito rinviare a questo proposito a F. Vercellone, Dopo la morte dell’arte cit., 2013, pp. 96 ss.

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62 Cfr. A. Danto, Andy Warhol, trad. P. Carmagnani, Torino, Einaudi, 2010. 63 Cfr. H. De Focillon, La vita delle forme, Torino, Einaudi, 2002, in particolare pp. 175-177; O. Grau, Virtual Art. From Illusion to Immersion, Cambridge (Mass.), The Mit Press, 2003. Fondamentale è poi in questo contesto H. Bredekamp, Theorie des Bildakts, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2010. 64 Cfr. H. Belting, Antropologia dell’immagine, Roma, Carocci, 2011. 65 Mi sia consentito rinviare in questo quadro a proposito di Guyau a F. Vercellone, Estetica dell’Ottocento, Bologna, il Mulino, 1999, e per quanto riguarda G.T. Fechner cfr. lo scritto comparso sotto pseudonimo: Anatomia comparata degli angeli, a cura di E. Vinassa de Regny, Milano, Lampi di stampa, 2003. 66 N. Bourriaud, Estetica relazionale cit., p. 26. 67 H. Belting, Antropologia dell’immagine cit., p. 45. 68 E. Morin, Il metodo. 3. La conoscenza della conoscenza, Milano, Raffaello Cortina, p. 273. 69 Cfr. M. Pistoletto, Re-incantamento del mondo, in A. Martinengo (a cura di), Oltre il disincanto. Proposte per il reincantamento del mondo, Roma, Aracne, 2013. 70 Cfr. H. Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, a cura di F. Vercellone, Milano, Raffaello Cortina, 2015, p. 5. 71 Cfr. a questo proposito H. Bredekamp, Kunst als Medium sozialer Konflikte. Bilderkämpfe von der Spätantike bis zur Hussitenrevolution, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1975. 72 Cfr. G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo e La società dello spettacolo, Milano, Sugarco, 1990. 73 Mi permetto di rinviare a questo proposito per un primo approccio alla questione, concernente in particolare le trasformazioni dell’esperienza estetica e il suo significato, al mio Dopo la morte dell’arte, Bologna, il Mulino, 2013, pp. 125-138. 74 Cfr. Plotino, Enneadi, II, 8, 1. Sulla questione cfr. le osservazioni, che qui riprendiamo, di M. Bettetini, Contro le immagini: le radici dell’iconoclastia, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 31-34. Sull’influenza di questa teoria cfr. anche W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, vol. II: L’estetica medievale, Torino, Einaudi, 1979, p. 365. 75 Cfr. G. di Nissa, Contro Eunomio, in Id., Opere dogmatiche, a cura di C. Moreschini, Milano, Bompiani, 2014, p. 998.

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76 Cfr. G. di Nissa, Contro Eunomio, in Id., Opere dogmatiche, a cura di C. Moreschini, Milano, Bompiani, 2014, p. 998. 77 Cfr. A. Vasiliu, EIKÔN. L’image dans le discours des trois Cappadociens, Paris, Puf, 2010, p. 202. 78 Cfr. G. di Nissa, Sullo Spirito Santo, in Id., Opere dogmatiche, a cura di C. Moreschini, Milano, Bompiani, 2014, §§ 4-20, pp. 1946-1993. 79 Cfr. A. Vasiliu, EIKÔN. L’image dans le discours des trois Cappadociens cit., p. 207. 80 Cfr. ivi, p. 211. 81 Cfr. ivi, p. 213. 82 J.G. Fichte, Logica trascendentale II. Sul rapporto della logica con la filosofia, a cura di A. Bertinetto, Milano, Guerini, 2004, pp. 50-51. 83 Novalis, Studi su Fichte, in Id., Opera filosofica, vol. I, a cura di G. Moretti, Torino, Einaudi, 1993, p. 63. 84 P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, trad. it. di F. Saba Sardi, M. Spagnol, Milano, Feltrinelli, 1959, p. 91. 85 Cfr. su questi temi e le loro implicazioni etiche e giuridiche H. Nowotny, G. Testa, Geni a nudo. Ripensare l’uomo del xxi secolo, Torino, Codice, 2012, in particolare i capitoli 5 e 6. 86 Sul concetto di “nicchia” in ambito biologico nell’ambito della ricchissima bibliografia sul tema cfr. almeno: K.N. Laland, J. Odling-Smell, M.W. Feldman, Niche Construction and Cultural Change, “Behavioral and Brain Sciences”, a. XXIII, n. 2, 2000, pp.  131-175; E.G. Flynn, K.N. Laland, N.L. Kendel, J.R. Kendel, Developmental Niche Construction, “Developmental Science”, a. XVI, n. 2, 2013, pp. 296-313; T.C. Scott Philipps, K.W. Laland, D.M. Shuker, T.M. Dickins, S.A.West, The Niche Construction Perspective: a Critical Appraisal, “Evolution. International Journal of organic Evolution”, a. LXVIII, n. 5, 2014, pp. 1231-1243.

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FONTI

Anselm Kiefer e le figure dell’immemoriale, in E. Severino, V. Vitello (a cura di), Inquieto pensare. Scritti in onore di Massimo Cacciari, Brescia, Morcelliana, 2015. Afrodite oggi. La bellezza e la notte, in D. Eccher (a cura di), The dark side. Chi ha paura del buio?, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2019. Perché l’amore non è un sentimento…, in D. Eccher (a cura di), Love. L’arte contemporanea incontra l’amore, Milano, Skira, 2017. Fantasmi, fantasmagorie, agnizioni, in D. Eccher (a cura di), Boltanski. Anime. Di luogo in luogo, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2017. Dream, Geist. Strategie del Regno, in Dream. L’arte incontra i sogni, Milano, Skira, 2018. Modificazioni dell’infinito, in D. Eccher (a cura di), Collezioni. Allestimento 2013/2014, vol. IV, Torino, Allemandi & C., 2015. Dopo l’arte, oltre l’estetica Il mito dopo l’arte. Hegel e il futuro della bellezza, in S. Chiodo, Il futuro della bellezza, “Studi di estetica”, n.  46, Bologna, Clueb, 2012. L’Estetica di Luigi Pareyson come ermeneutica dell’arte, “Annuario Filosofico”, n. 27, 2011. La morfologia oltre l’estetica. Ricordo di Olaf Breidbach, “Annuario filosofico”, n. 30, 2014. Il «katéchon» e la legittimità del nostro tempo. Note su estetica e teologia politica, “Iride”, n. 87, 2019.

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Il nichilismo e le nuove forme dell’immaginario tardomoderno, “Aut Aut”, n. 364, 2014: Hegel dopo la morte dell’arte. Postcoloniale e revisione dei saperi. L’educazione estetica nella civiltà dell’immagine. Ipotesi sul futuro prossimo, “Annuario filosofico”, n. 29, 2013. L’universalità dell’ermeneutica nel tempo dell’“immagine del mondo”. Note e riflessioni, “Lo sguardo – Rivista di Filosofia”, n. 20, 2016. Nuovo romanticismo. La civiltà dell’immagine, in G. Lingua, S. Racca (a cura di), La cornice simbolica del legame sociale. Prospettive sugli immaginari contemporanei, Milano-Udine, Mimesis, 2016.

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FEDERICO VERCELLONE INSEGNA ESTETICA PRESSO L’UNIVERSITÀ DI TORINO. I SUOI ULTIMI LIBRI, TUTTI PUBBLICATI DA IL MULINO, SONO DOPO LA MORTE DELL’ARTE (2013), IL FUTURO DELL’IMMAGINE (2017), SIMBOLI DELLA FINE (2018).

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L’idea che attraversa questo libretto è che la modernità possa essere intesa come l’età dell’archetipo cieco. Questo non significa affatto che si abbia a che fare con un tempo davvero moderno secondo la vulgata più corriva, con un’età cioè che funziona proprio perché ha rinunziato a ogni arcaismo. Si tratta bensì di un’epoca nevrotica che vive di e in ciò che manca e al quale non ha più accesso. Né l’archetipo la illumina, né essa riesce a trovare da sola le risorse per far luce. Esso si trasforma oggi in un pullulare di icone instabili che non riescono, se non per tempi brevissimi, a divenire dei modelli. Il mercato ha stravolto l’archetipo, producendone mille e mille, ma non ne ha messo a tacere la fascinazione che anzi si è fatta sempre più influente e suggestiva.

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