Variazioni su Grazia. Percorsi deleddiani 9788855293129, 9788855293488

"Variazioni su Grazia" comprende una serie di saggi tematici nati dal raffronto fra testi deleddiani e di auto

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Italian Pages 256 [250] Year 2022

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Table of contents :
Studi letterari
Studi letterari |
Prefazione
Introduzione
Il
e il
e
Paesaggi in Deledda e Pirandello
Il Po e dintorni
La malattia
La religiosità
La donna
La scrittura
La solitudine
Ut pictura poësis
Incontri
I contastorie
Indice dei nomi
Indice
Studi letterari
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Variazioni su Grazia. Percorsi deleddiani
 9788855293129, 9788855293488

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ANGELA GUISO

Variazioni su Grazia Percorsi deleddiani

Studi letterari

Collana diretta da Gianni Turchetta

Studi letterari | 2

Angela Guiso

Variazioni su Grazia Percorsi deleddiani Prefazione di Martha King

Parte dei saggi quivi contenuti sono stati oggetto di una precedente pubblicazione (Grazia Deledda. Temi Luoghi Personaggi, Iris, Oliena 2005), della quale il presente volume costituisce una riedizione rivista e ampliata.

© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Studi letterari ISSN: 2785-3608 n. 2 – maggio 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-312-9 ISBN – Ebook: 978-88-5529-348-8 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: QUARTU S.E., ITALIA – MAGGIO 12, 2012: Monumenti aperti 2012 – Sardegna – dettaglio di un costume tradizionale sardo © GIANFRANCO – stock.adobe.com

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Prefazione di Martha King

Grazia Deledda’s fortune continues to grow steadily. In her native Sardinia her reputation as an important twentieth-century writer of novels and short stories has been abetted by the thoughtful efforts of scholars such as the author of this collection of meditations, whose profound knowledge of her compatriot’s work and cultural and geographical background has served to enhance Deledda’s already substantial but still somewhat marginalized place in the Italian literary canon. Outside Sardinia, Deledda’s reputation in the English-reading world got an early boost from the internationally famous writer, D. H. Lawrence, who accompanied his translation of La Madre with a very perceptive and still valid introduction. Lawrence’s ‘discovery’ of the novel, with its «presentation of sheer instinctive life» consequently spawned other English translations in the early years of the past century. What Lawrence said of her work in 1922 still holds true: although D’Annunzio and Matilde Serao are unreadable today, «we can still read Grazia Deledda with genuine interest». The last decades of the twentieth century up to the present have also witnessed a revival of genuine interest in Deledda’s fiction in England and the United States. This has been due

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in part to the efforts of women scholars to establish her rightful place in world literature, while at the same time new or reprinted translations of her novels and collection of short stories have introduced her to a new generation of readers outside the Italian peninsula. Angela Guiso draws these international threads closer by showing interesting parallels between a novel written by an AngloSaxon writer, well established in the literary canon, and one of Deledda’s. While enumerating the thematic similarities between Emily Brontë’s Wuthering Heights, and Grazia Deledda’s semiautobiographical Cosima, Angela Guiso also emphasizes the lack of affinity between their localities, or Home Lands. Though akin in some ways, they achieved their literary aspirations through entirely different childhood experiences. The small gray stone parochial house in the north of England where Emily Brontë grew up is much more somber and tree – bound than Deledda’s house in sight of looming Mt. Ortobene; and the persistent cawing of ravens that punctuate the windy ambiance of Hawort on the edge of the Yorkshire moors contrasts dramatically with the prevailing silence of Deledda’s seasonally sunlit or frozen Barbagia countryside. Perhaps the elements common to these two writers’ lives and landscapes are isolation and its accompanying solitude, two elements that must have motivated the women’s extraordinary literary creativity as much as the raw material of life they both drew from, driven on by that «sheer female instinctive passion» they both shared. *** La fortuna di Grazia Deledda continua a crescere costantemente. Nella nativa Sardegna la sua fama di importante scrittrice del ventesimo secolo è stata avallata degli sforzi di studiosi come l’autrice di questa raccolta di saggi, la cui profonda conoscenza

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dell’opera e dell’ambiente culturale e geografico della sua conterranea contribuisce a rafforzare il posto notevole, ma tuttora marginale, che la scrittrice occupa nel panorama letterario italiano. Fuori dalla Sardegna, in ambito anglosassone, la conoscenza di Deledda ha ottenuto uno stimolo considerevole dallo scrittore di fama internazionale D. H. Lawrence, che ha accompagnato la sua traduzione di La madre con un’intuitiva e ancora valida introduzione. Nei primissimi anni del secolo scorso ‘la scoperta’ del romanzo da parte di Lawrence, con la sua «presentazione di una vita puramente istintiva», ha logicamente prodotto altre traduzioni. Ciò che Lawrence ha detto dell’opera di Deledda nel 1922 rimane valido ancora adesso: mentre D’Annunzio e Matilde Serao sono oggi noiosi, «noi possiamo tuttora leggere Grazia Deledda con interesse genuino». L’ultima decade del ventesimo secolo ha visto, in Inghilterra e negli Stati Uniti, il risveglio di un interesse autentico per la prosa deleddiana. Questo è in parte dovuto agli sforzi delle studiose di restituirle il posto che le spetta nell’ambito della letteratura mondiale, mentre, nel contempo, le ristampe e le recenti traduzioni dei romanzi e raccolte di novelle l’hanno fatta conoscere a una nuova generazione di lettori fuori della penisola italiana. Angela Guiso, fra gli altri temi di cui si interessa, in questo libro tira i fili di rapporti letterari internazionali e li annoda in un’unica trama con la proposta di interessanti parallelismi fra un romanzo scritto da una scrittrice anglosassone nel suo riconoscibile canone letterario e uno della Deledda. Nello stesso tempo, elencando le somiglianze tematiche fra Cime tempestose di Emily Brontë e il semi autobiografico Cosima di Grazia Deledda, mette in evidenza la mancanza di affinità dei luoghi d’origine, o Home Lands. In ogni caso, in modi quasi simili, entrambe le scrittrici hanno percorso fino alla fine le loro aspirazioni letterarie, nonostante le diverse esperienze infantili.

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La piccola casa parrocchiale di pietra grigia nel Nord dell’Inghilterra dove E. Brontë crebbe è molto più cupa e delimitata dagli alberi di quella della Deledda in vista dell’incombente Ortobene, mentre il continuo gracchiare dei corvi che enfatizza l’atmosfera di Hawort, al limitare della brughiera dello Yorkshire, contrasta drammaticamente con il predominante silenzio della campagna barbaricina, soleggiata o ghiacciata a seconda delle stagioni. Quasi certamente gli elementi comuni alle biografie e ai paesaggi delle due donne sono l’isolamento e la solitudine, due elementi che devono aver stimolato la straordinaria creatività letteraria di entrambe tanto quanto i segni tangibili della realtà alla quale attingono, guidate da quell’«autentica passione femminile» che ambedue hanno condiviso.

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Introduzione

Nella produzione di Grazia Deledda sono presenti temi generici e universali come l’Amore, il Male, la Morte, la Religione, la Solitudine e contenuti più circoscritti, inseriti in uno specifico contesto storico e culturale, quale il Destino. Insieme ve ne sono altri, come quello della Donna, tanto vasti da configurarsi «arcitemi»1. Alcuni hanno reso possibile proprio la fioritura del romanzo e dunque compaiono anche nell’opera della scrittrice, sebbene risentano delle specifiche coordinate temporali e delle singolari prospettive culturali in cui la loro narrazione si struttura. È vero anche che nella produzione deleddiana sono presenti campi tematici, figli di distinte risoluzioni artistiche, e meglio emersi nel suo percorso formativo, che si sono definiti impulsi prioritari alla narrazione come, ad esempio, la Malattia. Naturalmente, accanto ai temi convivono i «motivi»2. Per certi aspetti i Luoghi possono rientrare in quest’ambito, soprattutto

1.  C. Bertoni - M. Fusillo, Tematica romanzesca o topoi letterari di lunga durata?, in F. Moretti (a cura di), Il Romanzo, vol. IV, Einaudi, Torino 2003, pp. 31-58. 2.  Per motivi si intendono le «unità concrete di contenuto, facili da circoscrivere, e spesso designati attraverso un sintagma che già contiene in nuce

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quando riferiscono la contiguità e la lontananza, gli interni e gli esterni, occasioni critiche che determinano, più delle grandi astrazioni, i crismi di una Weltanschauung riconoscibile e irripetibile. Vicino a questi può collocarsi quello della Scrittura come occasione di narrazione e non solo come indispensabile strumento per la composizione. Percorrendo questi itinerari è possibile il recupero di icone e motivi che diano atto della varietà delle risposte deleddiane agli stimoli di una letteratura evidentemente non solo nazionale e contemporanea, ma collocabile in un ambito i cui confini si perdono, per certi aspetti, negli albori della cultura occidentale e cristiana. Modi di narrare in cui accanto alle forme di una prima, originale, «autoctona fabulazione», per certi versi «mitica», coesistono le immagini della successiva sintesi culturale3. Fra le altre cose si assiste alla presenza di una serie di personaggi, alcuni dei quali primordiali e altri investiti dal «paradosso divino» per il quale il demoniaco si coniuga col religioso, nella contraddizione simbiotica del sacro metafisico accanto al profano superstizioso e terragno4. Sono le eccezioni ad altre figure immerse, più modestamente, nel quotidiano e con le quali si rappresentano i desideri, i sogni e le ribellioni di un’epoca e di un’identità culturale.

l’articolazione narrativa». L’opinabilità delle due categorie – temi e motivi – viene rimarcata dagli stessi autori secondo i quali «una divisione così netta non sembra in effetti praticabile. Quel che è certo è che «la distinzione tra tema e motivo […] ricalca da vicino grandi polarità come astratto e concreto, soggettivo e oggettivo, metatestuale e testuale» (ivi, pp. 31-32). 3.  F. Cocco, Grazia Deledda dentro il mito d’isola?, in U. Collu (a cura di), Grazia Deledda nella cultura contemporanea, Atti del Seminario di Nuoro, 25-27 settembre 1986, Consorzio per la pubblica lettura “S. Satta”, Nuoro 1992, vol. I, p. 60. 4.  Ibidem.

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Per quanto riguarda poi le influenze stilistiche, di cui l’opera deleddiana testimonia, esse si collocano accanto alle forme di una tradizione storica precisa. Nelle prime si riconoscono i profondi mutamenti culturali, le seconde riferiscono di persistenze e discontinuità. Si precisano, insieme, i caratteri di un originale contesto geografico perché le proiezioni inconsce, rappresentate anche nei luoghi fisici, coabitano con i riferimenti certi e indubitabili della realtà, e i simboli metamorfici si fanno sintesi di tensioni smisurate e limitata quotidianità. Il discorso andrà dipanandosi trasversalmente perché certi temi e motivi, presenti in nuce in qualche opera, si precisano meglio in altre. Nel tempo, il nucleo centrale dell’immaginario deleddiano, l’Isola, smette d’essere luogo geografico e si definisce come riassunto di consuetudini culturali, sostrato antropologico insieme laico e religioso. Come è vero che l’elaborazione dell’idea del distacco fisico dalla realtà strettamente contingente favorisce l’affermarsi di un’immagine della Sardegna frutto di un’operazione della memoria, sfumata nei contorni sebbene irripetibile e viva. La ricorrenza, pur nello sviluppo, di temi e idee, la ricchezza prismatica dei personaggi, la mutevolezza e, insieme, il definirsi dei luoghi e delle figure costituiscono la migliore garanzia della riconoscibilità di uno stile. La varietà delle rappresentazioni, la diversa resa coloristica, anche nell’idea che ut pictura poësis, dicono, infatti, la complessità delle sollecitazioni e quella delle risposte, e tuttavia il grumo dell’immaginario è la definita visione delle cose perché, attraverso il racconto straniato di desideri e angosce, si passano in rassegna le contraddizioni di una società e di un’epoca. Le opere offrono un ampio campionario, siano esse romanzi o novelle. Sebbene mantengano una distinta fisionomia nel loro diverso strutturarsi, affrontano tematiche simili e dietro alle loro trame è possibile riconoscere un identico sostrato simbolico e ideologico. Nella vasta produzione della scrittrice si

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osservano costanza e presenza, e dunque è verosimile che il racconto offra spunti ai romanzi o sia lente d’ingrandimento di singoli eventi e personaggi, mentre il romanzo si costituisce luogo di raccolta e sinossi di più articolate teorie; moltiplicazione di piccoli episodi e mosaico complesso in cui si compongono idee e costumi. L’indagine ha interessato Autori della letteratura sarda e italiana fino a comprendere quella europea con rimandi a tematiche simili a quelle deleddiane, ma anche a dettagli stilistici secondo le indicazioni della letteratura comparata. Alla luce dei risultati è facile ammettere l’importante ruolo che la scrittrice ricopre ancora oggi e che altri le hanno già riconosciuto nella letteratura mondiale al femminile. Ma altre ancora sono le ragioni che dicono l’attualità della scrittrice. Fra le altre, il suo impegno per la Sardegna che la spingeva a farsi promotrice culturale come dimostrano i resoconti di viaggio di Michail N. Semenov, Amelie Posse e Marie Gamél Holten. Allo stesso modo, interventi polemici, a lei attribuibili, la ritraggono ferma paladina dei diritti e dell’immagine delle donne sarde, e confermano la vitalità e l’entusiasmo di tante lettere, serbatoio cui attingere per una conoscenza che voglia dirsi compiuta, dell’animo, delle aspirazioni e delle delusioni di una scrittrice che ha segnato la letteratura della Sardegna e contribuisce, ancora oggi, a far conoscere l’Italia nel mondo.

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Il vicino e il lontano

Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 anche la Sardegna di Grazia Deledda partecipa al generale processo di uniformazione culturale con l’apertura a movimenti filosofici e letterari. In particolare, la sua letteratura, da una parte assume forme che indicano atteggiamenti di conservazione di caratteri specifici della realtà sarda, e dall’altra accoglie motivi che denotano una positiva tensione al mutamento. Il complesso fenomeno non reca necessariamente in sé valenze ideologiche e nostalgiche, anzi assume un carattere conoscitivo e autoconoscitivo: l’attenzione, infatti, si concentra su un ben definito microcosmo sociale sia per cogliere codici di comportamento culturale e morale (e sottolineare eventuali eccezioni) sia per creare congrui strumenti di espressività linguistica. Prende dunque forma, insieme a quello sociale, un microcosmo dell’immaginario in cui non si rileva la sola persistenza di tradizioni locali e regionali, ma anche l’unione di atteggiamenti linguistici e comportamenti morali, di linee del paesaggio, di fede e ideologia, di storia e antropologia. Tutto questo acquista una netta visibilità quando si contiene entro un certo confine che sia, a un tempo, frontiera – al cui interno si obbedisca a imperativi etici oltre che a scelte indivi-

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duali – e linea di demarcazione di un preciso ambito naturale e storico. In questo senso, chi legge i romanzi e le novelle di Deledda ha la netta sensazione che la scrittrice abbia lasciato in eredità il suo orizzonte geografico perché vi si riconoscesse il luogo, oltre che il tempo, di una cultura che, come quella sarda, si era affermata nel confronto con il mondo circostante, primo fra tutti quello naturale. E indubitabilmente i luoghi privilegiati sono quelli che si profilano man mano che si sale fino in cima all’Ortobene prima di tutto e, via via, su altre cime, e si abbracciano di un abbraccio ideale e circolare le montagne e i paesi intorno, come si registrano i colori e i profumi in obbedienza alla varietà del paesaggio e, nel contempo, alle emozioni dell’uomo. Ma il microcosmo è anche la fitta trama simbolica di uno spazio artistico ben più ampio di quello strettamente geografico in cui la narrazione si colloca, e che i personaggi disegnano quando stabiliscono equivalenze con altri luoghi per effetto dell’evocazione memoriale, dell’aspirazione e del sogno, e attraverso gli artifici della similitudine e della metafora. I contesti sardi in cui si stagliano le diverse vicende possono ridursi a due grandi categorie ugualmente care alla scrittrice: i luoghi della Natura e quelli della Storia. Apparentemente più ovvi, anche se scenograficamente affascinanti i primi, più dettagliati e veri perché nutriti e mutuati dall’esperienza personale, diretta, autobiografica quasi, i secondi. Affermare che i diversi luoghi nei vari romanzi si equivalgono significherebbe coglierne però la sola datità esterna, e invece quegli stessi luoghi, pur così uguali all’apparenza, sono intimamente differenti perché filtrati, ricomposti, consegnati da numerosi punti di vista e dunque simbolicamente unici. Nel romanzo capolavoro Canne al vento agli elementi sempre presenti si aggiunge un dato che solo paesaggistico non

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è: la presenza del Castello che assume il significato autonomo di emblema del passato e nel contempo conferisce significati difformi a elementi che pure si ripetono in tanti altri romanzi. Andando per ordine si comincerà da alcune considerazioni relative alla Natura e alla visione prospettica del lontano, per utilizzare un avverbio costantemente evocato dalla scrittrice sulla falsariga di tante rime leopardiane. Gli elementi naturali che ricorrono con maggiore frequenza, come si è detto, sono i monti e le valli presenti anche in questo romanzo. In particolare la descrizione delle montagne, cui la scrittrice annette notevole importanza, si coniuga a elementi marini. I riferimenti in tal senso sono disseminati in modo massiccio nella quasi totalità dell’opera. Nella Via del male «Maria e Francesco meriggiavano nel bosco, […] davanti a quegli sfondi così azzurri e luminosi che davano l’illusione di un mare lontano»1. Nel Tesoro il gioco delle nuvole consegna allo spettatore un paesaggio ambiguo ed enigmatico nel quale, per un felice ossimoro, il granito si scioglie in acqua e il mare, nell’uguale risoluzione retorica, diventa di pietra mentre il vento cala dai monti fattisi mare col suo carico di vapori. Val la pena riportare il brano per intero: Dal giorno seguente le nuvole cominciarono ad accavallarsi sull’orizzonte, rappresentando, come nella ballata di Gautier, strani miraggi di piombo, miniati fuoco o sfumati in toni grigi, nebbiosi ed umidi. Erano città di bruma, palazzi e torri sottili, trasparenti come veli di pioggia, e cattedrali fantastiche, cupole di granito umido, parchi e giardini dipinti a pastello, ponti d’acciaio gettati attraverso larghi fiumi stagnanti e lividi, e pianure allagate di vapori rossastri e lontani laghi vitrei e

1.  G. Deledda, La via del male, in Ead., Romanzi e novelle, vol. II, Mondadori, Milano 1945, p. 351.

20 foreste violacee che tremavano camminando e dissolvendosi verso ignoti lidi e infine mari di pietre, scogli turchinicci e montagne altissime […]. Elena non scendeva più nel giardinetto, ove gli alberi oramai spogli del tutto ripiegavano i rami rossastri, cosparsi di perle gialle di resina quasi liquida, al soffio del vento freddo, che portava dalle montagne larghe ondate di vapori grigi ed amari come fumo.2

In Sino al confine il tramonto colora di lilla e di rosso le cose, e nel contempo suscita la sensazione del mare: «Il tramonto indorava le rocce, il suolo, le foglie degli alberi; coloriva di lilla e di rosso l’orizzonte, dava l’illusione del mare alla linea cerulea delle montagne lontane»3. La stessa soluzione narrativa viene proposta in diversi romanzi ed è giusto sottolineare la sostanziale fedeltà a un’immagine, a prescindere dall’epoca in cui essi sono stati scritti. Ecco come si presentano momenti narrativi simili rispettivamente in L’Incendio nell’oliveto: Tornavano ad affacciarsi tutti e due sul muro, silenziosi, come due viaggiatori sul ponte d’un piroscafo. Il salire dell’ombra dalla valle dava invero l’impressione dell’onda che cammina. Aveva già varcato la linea dello stradone e saliva sulla zona della montagna ancora illuminata dal sole; si arrampicava sulle rocce, riempiva tutte le rughe delle chine pietrose: in breve solo le cime, sopra la fascia dei boschi violacei, emersero come isole dorate, nel cielo glauco come un orizzonte marino […] e parve davvero di approdare ad una riva solitaria.4

2.  G. Deledda, Il tesoro, in Ead., Romanzi e novelle, vol. V, Mondadori, Milano 1969, p. 170. 3.  G. Deledda, Sino al confine, in Ead., Romanzi e novelle, vol. VI, Mondadori, Milano 1955, p. 429. 4.  G. Deledda, L’incendio nell’oliveto, in Ead., Romanzi e novelle, vol. II, cit., p. 688.

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Nella Chiesa della solitudine: La terra era nera, così che in certi punti sembrava cosparsa di fondi di caffè, ma dai lati della strada […] vi risaltavano meglio i massi di granito quasi argentei, picchiettati di scintille nere, che affioravano come scogli fra l’erba umida lunga e scura simile alle alghe. Tutto d’altronde aveva alcunché di fondo marino, per i meandri della valle e le impronte ondulate del terreno come se il mare in antiche epoche arrivasse fino alle falde dei monti e all’altura dove sorgeva il paese. E i monti stessi, sopra la casa di Concezione, avevano un aspetto arido, scaglioso, con le coste frastagliate, corrose, come un tempo battute dalle onde. Solo più in alto nereggiavano i boschi secolari di querce.5

In Colombi e sparvieri il monte di Galtellì si staglia in un paesaggio inconsueto. Questa volta non è il mare a riflettere i colori del cielo e di ciò che si affaccia dalle rive, bensì accade il contrario. Il cielo è uno «specchio ove pareva si riflettessero le rocce del paesaggio […], e il monte di Galtellì sullo sfondo d’oro del mare sorgeva simile ad un enorme scoglio azzurro coperto da un velo rosa»6. In Canne al vento il «Monte Albo giù in fondo fra le nuvole come una nave incagliata in un mare burrascoso, pareva dominasse ancora l’inverno»7. Anche nei racconti che riecheggiano alcuni motivi del capolavoro, come L’ultima, si ritrovano elementi simili. Ecco un esempio: «il vento che scendeva sempre più forte dai monti del nord, dava come un ondular d’acqua nell’ombra ai giuncheti della pianura»8. Nel racconto Le scarpe, ancora, «La giorna-

5.  G. Deledda, La chiesa della solitudine, Mondadori, Milano 1956, p. 8. 6.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, in Ead., Romanzi e novelle, vol. I, Mondadori, Milano 1941, p. 199. 7.  G. Deledda, Canne al vento, ivi, p. 504. 8.  G. Deledda, L’ultima, in Ead., Chiaroscuro, ivi, p. 721.

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ta veniva su triste e grigia; le nuvole correvano come enormi matasse nere arruffate, dai monti al mare, dal mare ai monti, attaccandosi alle rocce e agli scogli che le districavano un po’: i corvi passavano gracchiando sopra la brughiera contorta dal vento»9. Senza paura di forzare il testo, si può dire che quest’immagine del monte – mare sia dominante nei suoi vari aspetti a partire dal movimento ondoso e ripetitivo per finire con l’onda che tracima emergendo da fonde oscurità. Singolare risulta la presenza dell’aggettivo azzurro nelle sue varianti. In La via del male «gli sfondi sono azzurri», l’orizzonte «ha uno sfondo glauco e liquido» mentre «gli scogli» sono «turchinicci». In Sino al confine il tramonto «dava l’illusione del mare alla linea cerulea delle montagne lontane». Nell’Incendio nell’oliveto il cielo «è glauco come un orizzonte marino» mentre Annarosa, la protagonista, definisce, ancora, il cielo «glauco». In Colombi e sparvieri il monte di Galtellì «sorgeva simile ad uno scoglio azzurro», oppure è «un cono azzurro». Ma «fantasime azzurre» vagavano già nei pensieri della giovane Grazia quando scriveva ad Andrea Pirodda nel 189210, così come, a suo dire, «La parola azzurrità» è uno dei tanti neologismi che il Pompeiano mi rimprovera»11. A suo tempo D’Annunzio aveva inaugurato l’abuso del suddetto colore e, dunque, glauca è, foscolianamente, la Zacinto di Laus vitae, e sempre in Laus vitae «azzurra» è la «fluidità [che] mi ricorse», come «azzurri» sono i golfi e i bosfori del «Mediterraneo Mare». 9.  G. Deledda, Le scarpe, ivi, p. 626. 10.  G. Deledda, Lettere ad Andrea Pirodda, in F. Di Pilla (a cura di), Grazia Deledda. Premio Nobel per la letteratura 1926, Fabbri, Milano 1966, pp. 317, 359. 11.  L. Pompeiano, Medaglioni artistici (Grazia Deledda), in «Vita sarda», III, n. 4, 1893, pp. 6-7.

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Nella stessa opera (a mo’ d’esempio): «Pe’ solchi tremano i fili del novo / fromento e con lor treman l’ombre, / e non si stingue il fil verde / dall’ombra sua cerula, e tutto / è un tremolio verdazzurro / che parmi aver quasi ai precordii»12. Il «verdazzurro» rimanda al riflesso della «cerula ombra crepuscolare» da una parte e, dall’altra, rafforza l’evocazione marina compiuta nell’addizione del movimento ondoso e del colore. Il «tremolio», infatti, concorre ad accentuare l’impressione del lieve moto ondulatorio. Ma nella stessa occasione poetica anche gli occhi sono «cesii, «cesii come quelli del fanciullo» in Il fanciullo di Alcyone, «cesii» come «gli occhi di Palla madre nostra» in La spica. Ugualmente, «le rugiade» di Laus vitae sono «celesti», mentre «le ombre dei colonnati inazzurravano l’erba novella». «Cerule» sono molte cose fra cui una gemma: «più cerula che il cielo d’Agrigento» mentre gli uomini sono «inazzurrati dall’indaco» e le rondini volano in Lungo l’Affrico e «il loro volo sembra fatto azzurro». È evidente che l’azzurrità non risponde ai soli intenti di trascrizione mimetica, ma si carica di ulteriori effetti simbolici così come è ugualmente chiaro che all’azzurrità viene attribuito quasi un valore sacrale. Uomini e cose vengono come nobilitati ed elevati nella misura in cui sono precisati e rilevati dal suddetto colore. Con questo, peraltro, non si vuole affermare il suo uso esclusivo, quanto la sua importanza nella gerarchia coloristica. Secondo Diego Marani «il blu è il colore della trascendenza e delle forze celesti. […] Il Cristo e la Vergine portano un mantello blu».

12.  La presente e le successive citazioni relative alla poesia dannunziana sono tratte da G. D’Annunzio, Laudi. Del Cielo. Del Mare. Della Terra e degli Eroi, in Id., Versi d’amore e di gloria, dir. L. Anceschi, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. II, Mondadori, Milano 1984.

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Sempre per Marani, il blu è il colore dei lapislazzoli, parola persiana. Si distingue dal celeste, più chiaro, e dal turchino, invece più scuro. Celeste prende il nome dal cielo, cerulo e ceruleo sono sinonimi. Ma c’è anche il cilestro, il mavì e il cesio. Il turchino è un azzurro scuro e viene dal turchese, pietra turca. Un suo sinonimo è il blu comune […]. D’Annunzio scrive: «Una bella mattina d’ottobre, piena di cobalto e di sole». […] Un azzurro indefinito è il glauco, celeste con sfumature verdi o grigie.13

È singolare che il critico si avvalga di un unico esempio tratto dalla prosa dannunziana per supportare la sua tesi sulla simbologia dei colori e in particolare di una variante dell’azzurro, ma è certamente straordinaria la gamma di azzurrità presente nella tavolozza del poeta. D’altronde, nell’ambito del discorso sulla valenza simbolica di alcune immagini naturali, rilevante risulta in L’annunzio – sempre di D’Annunzio – l’assegnazione di proprietà terrestri a paesaggi marini: Gittate le reti su i giardini del Mare ove rose voraci s’aprono tra il fluttuare dell’erbe confuse; cogliete il ramo vivo nella selva dei coralli ove fremono eretti gli ippocampi, cavalli esigui, e le meduse trapassano in torme leni come in aere nube; togliete i fiori equorei, molli come le piume, dolci come le ciglia chiuse.

Naturalmente l’attribuzione metamorfica risponde a quelle precise risoluzioni di poetica così ben formulate nella poesia Il fanciullo. In questa sorta di ars poetica dell’Alcyone, infatti,

13.  D. Marani, Arcobaleno di parole, in «Il Sole 24 Ore», 18 maggio 2003, p. 27.

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il divino fanciullo che ispira il canto del poeta vate sa indagare la luce e l’ombra dentro a una totale adesione alla visione panica. La natura è l’occasione in cui si ripete il miracolo della continua trasformazione; il cosmo, infatti, viene pervaso da un incessante mutamento, modifica veste e tempi fino alle radici del mito. Pensare che Deledda abbia ripreso suggestioni dannunziane pare verosimile essendo stata, a suo tempo, un’attenta lettrice dei paesaggi di Terra Vergine così come afferma attraverso le parole del personaggio Jorgi di Colombi e sparvieri, peraltro nel tentativo di stabilire più distanze che equivalenze con uno dei suoi maestri. Io in quel tempo rileggevo Terra vergine e sognavo grandi fiumi luminosi con isole coperte di canne e di giuncheti, ombreggiate di boschi di salici e di pioppi; tutto un paesaggio caldo, fantastico, velato di vapori rosei, popolato di donne belle e voluttuose. E queste donne le vedevo coperte anch’esse di veli fluttuanti, coi capelli sciolti e gli occhi in color di viola come il cielo al crepuscolo. Il mondo reale intorno a me era nitido e duro; un mondo fatto di roccia e di macchie dai rami contorni come membra che la lotta eterna col vento ha indurito e ripiegato ma non vinto.14

Che dietro Jorgi si celi la scrittrice è indubbio, pur essendo il personaggio una sua parziale rifrazione. Che in quell’occasione essa faccia, per così dire, ammenda di trascorse passioni è ugualmente evidente, così come, d’altra parte, è innegabile che le stesse abbiano lasciato traccia proprio in quei luoghi narrativi che avevano necessità d’essere corretti con altre proposte. D’altra parte, il reclamare una propria specificità avvalora la tesi del suo affrancamento da sentieri già percorsi per esiti più

14.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., p. 200.

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aderenti alla complessità dei richiami culturali e alla tipicità identitaria. In ogni caso basta rifarsi all’edizione critica della stessa Alcyone per ricostruire la vicenda compositiva della raccolta e sapere che era uscita in volume nel 1903 presso i Fratelli Treves di Milano, dopo alterne vicissitudini. Quegli stessi Fratelli Treves che portavano avanti una riconoscibile politica editoriale e annoveravano fra i propri autori Deledda stessa. Ancora, non si deve tralasciare il riferimento alla lettura dell’opera del poeta da parte di Antonino, uno dei personaggi di Cosima. Ma è anche certo che non basta affermare, come la scrittrice fa nella lettera del 22 giugno 1893 al De Gubernatis, «Mio fratello, che mi lascia ampia libertà di leggere, scrivere e ricevere ogni cosa, mi ha ceduto subito i mutos del Bellorini. Io leggo ogni cosa, che sia artistica e utile ai miei studi, ed ho letto quasi tutti i romanzi di Zola e di Bourget e i versi di D’Annunzio, molto peggiori di questi mutos» per crederla immune da influssi e condizionamenti15. Intanto, pur non sapendo esattamente a cosa si riferisse relativamente alla produzione poetica dannunziana, non bisogna dimenticare che entro quella data, il 1893, D’Annunzio aveva pubblicato Intermezzo di rime in cui tentava il riscatto della metrica tradizionale a danno di quella «barbara» e sperimentava temi innovativi, lontano dal provincialismo dei primi versi carducciani. Scrive, quindi, tra il 1886 e il 1890, l’Isaotta Guttadauro e Altre poesie, in seguito confluite nella Chimera tra madrigali, nona rima, sestine e ballate, per poi cimentarsi nella trasposizione poetica del suo amore per Barbara Leoni con le Elegie romane, avviate fin dal 1887. Senza andare oltre, non è azzardato affermare che, se anche non conosceva questa produzione ultima, Deledda era di certo

15.  G. Deledda, Lettere ad Angelo De Gubernatis, in F. Di Pilla (a cura di), Grazia Deledda, cit., p. 416.

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a conoscenza di quella precedente e certamente non si potevano imputare al poeta vate disattenzioni di sorta verso quell’affascinante sperimentalismo che lo poneva all’avanguardia nel panorama non solo italiano ma europeo. Si può, in ogni caso, affermare che «D’Annunzio, accompagnato da Cesare Pascarella e da Edoardo Scarfoglio, giunse a Nuoro il 28 maggio 1882. “A Nuoro”, scrive Scarfoglio [Libro di Don Chisciotte], “ci giunsero le prime copie del Canto nuovo” [finito di stampare in Roma il 5 dello stesso mese]»16. Ma il testo che in qualche modo autentica l’antica passione di Deledda verso il Poeta, e in quelli che volentieri si chiamerebbero tempi non sospetti, è Cosima. Particolarmente significativa la nota (I), dell’edizione “Omnibus”, riferita al brano seguente: «Sulla figura di Gabriele D’Annunzio, allora in tutto il suo più radioso splendore, circonfusa inoltre dell’aureola di notizie leggendarie, egli si appoggiava sopra tutto, come il credente si appoggia alla colonna del tempio per riceverne forza e maestà». Nella nota si puntualizza: «Cancellate, ma leggibili, nel manoscritto seguivano le parole: “Questo tempio, questo San Graal col tabernacolo d’oro più sfolgorante del sole era la poesia di Gabriele D’Annunzio”»17. Sempre in Cosima, Antonino recita «i versi ultimi del suo diletto poeta». Si tratta del quarto rondò dell’Intermezzo melico di Isaotta Guttadauro, apparso sulla «Tribuna» nel 1886. È, inoltre, interessante ricordare che La via del male del 1896, la cui ispirazione si può ricondurre ai tempi della sua permanenza nella vigna ricordata nella lettera a Luigi Falchi dell’ottobre del 189018, doveva intitolarsi L’indomabile, titolo che riecheggiava 16.  G. Deledda, Cosima, in Ead., Romanzi e novelle, vol. III, Mondadori, Milano 1950, p. 1036 (note a cura di A. Baldini). 17. Ivi, p. 970. 18.  G. Deledda, Lettera a Luigi Falchi, vedi nota di A. Baldini in Cosima, cit. Si veda inoltre la Lettera ad Angelo De Gubernatis del 1894, cit., p. 494.

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L’invincibile di G. D’Annunzio, prima redazione del successivo Il trionfo della morte. Ancora a proposito dell’icona monte-mare, così diffusa nella narrativa deleddiana, è giusto sottolineare che essa è un’immagine densa di sollecitazioni vitali ed evoca profondi risvegli che salgono dagli abissi del buio; inoltre, è trasparente allusione alla vita ed evidente archetipo dell’ascesa verso l’alto-salvezza. Il mare, i monti, le valli sono tutti Natura. Senza avventurarsi in una frettolosa interpretazione psicoanalitica, e tuttavia non prescindendo totalmente da essa, bisogna registrare che nei suoi canoni più diffusi l’immagine primordiale del mare rappresenta insieme quella materna e l’inconscio. Questa invariabile associazione acquista, come è evidente, un interesse particolare. Non è dunque ipotizzabile pensare ai monti deleddiani come al colle leopardiano nell’accezione di frontiera lotmaniana. I monti, semmai, in questa continua attribuzione di caratteri tipicamente marini, diventano non già limite all’immaginazione ma varco perché il mare non è nascosto dall’altitudine, ma, piuttosto, evocato da essa; tracima quasi, talora inonda con prepotenza, irrompe nella realtà non più solo fisica. Perciò, non più baluardo o difesa, i monti sono la porta che apre a nuove esperienze. La possibilità di una comunicazione tra i due spazi non è, dunque, «bruscamente respinta», secondo quanto afferma Juri Lotman nell’analisi de L’Infinito di Giacomo Leopardi, se è vero che i monti non sottraggono il mondo esterno chiudendo quasi per intero l’orizzonte, bensì lo introducono19. A questo proposito è opportuno insinuare un’altra ipotesi per la quale la presenza del mare, la sua continua evocazione nella 19. Cfr. J.M. Lotman, Tipologia della cultura, tr. it. di M. Barbato Faccani et al., a cura di R. Faccani e M. Marzaduri, Bompiani, Milano 1975, pp. 18-21.

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descrizione di paesaggi montani sarebbe il tentativo di richiamare caratteri tipici dell’insularità in una sorta di recupero identitario che, per questa via, e cioè con l’intreccio di caratteri fisici, porterebbe a compimento la dimensione più strettamente antropologica. La conseguenza implicita sarebbe, ovviamente, la contemporaneità nell’immaginario di forme naturali ed esperienze totalizzanti. La compiutezza del recupero definirebbe, altresì, il dominio di una cultura dal carattere multiforme in cui la chiusura dei luoghi dell’interno viene superata con l’apertura verso il mare. La libertà o il suo desiderio non avrebbero potuto essere rappresentate meglio. Secondo Hans Blumenberg – afferma M. Cohen –, il significato fondamentale del mare per l’immaginario consiste nel costituire «un confine assegnato dalla natura allo spazio delle imprese umane», un limite talora demonizzato come «sfera dell’imprevedibilità, dell’anarchia e del disorientamento» […] nel caso del mare aperto l’unico limite a ciò che può accadere è l’impensabile.20

Per questa serie di ragioni sarebbe preferibile la categoria del vicino-lontano al binomio dentro-fuori. Quando i vari personaggi abbandonano la visione del basso, del vicino, e salgono all’osservazione del monte sono all’immagine del mondo, ma tutto è già compreso nel medesimo orizzonte geografico. Niente è precluso, neanche la speranza di un allontanamento dal quotidiano per esperienze che si intuiscono più positive che negative, come ha dimostrato la stessa vicenda privata della scrittrice. Gli spazi vicini sono talvolta luoghi di spente reliquie e si connotano, così come la memoria, ambito di negatività riflettendo pensieri di assenza e di morte. Ne sono prova in Canne al vento, oltre al Castello, le case diroccate, l’abitazione delle dame Pintor, la stessa atmosfera di greve disfacimento. 20.  M. Cohen, Il mare, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Temi, luoghi, eroi, Einaudi, Torino 2003, pp. 432-433.

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Tuttavia, per quanto circoscritta, la vita è rappresentata da alcune immagini come quella del poderetto o del nido che ripetono talora attributi marini. [Efix] ogni tanto si fermava volgendosi a guardare il poderetto tutto verde fra due muraglie di fichi d’India; e la capanna lassù nera fra il glauco delle canne e il bianco della roccia gli pareva un nido, un vero nido. Ogni volta che se ne allontanava lo guardava così, tenero e melanconico, appunto come un uccello che emigra: sentiva di lasciar lassù la parte migliore di se stesso, la forza che dà la solitudine, il distacco dal mondo.21 E un silenzio grave odoroso scendeva con le ombre dei muricciuoli, e tutto era caldo e pieno d’oblio in quell’angolo di mondo recinto dai fichi d’India come da una muraglia vegetale, tanto che lo straniero (Giacinto), arrivato davanti alla capanna, si buttò steso sull’erba ed ebbe desiderio di non proseguire il viaggio.22 Giacinto schiacciava le noci con le sue forti mani, tendendo l’orecchio al tintinnio delle greggi che passavano dietro la casa. Era quasi notte; il Monte era diventato scuro e là dentro in quell’umida stanza dalle pareti macchiate di verde pareva d’essere in una grotta, lontani dal mondo.23

La considerazione successiva, che la scrittrice riferisce a Noemi, appare particolarmente densa di significati, sebbene ancora una volta venga evocata l’immagine ricorrente del nido. Stavolta, contrariamente agli altri che sono già stati presentati e che saranno analizzati più avanti, si tratta di un nido capovolto, riferito peraltro a una chiesa. Noemi, dunque, «Rivedeva la chiesetta grigia e rotonda simile a un gran nido capovolto in mezzo all’erba del vasto cortile». Il che, da una parte, può

21.  G. Deledda, Canne al vento, cit., p. 388. 22. Ivi, p. 421. 23. Ivi, pp. 410-11.

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voler significare il luogo raccolto, di cui si accentua l’intimità, e che lo rende ancora più sacro e inviolabile, dall’altra l’immagine corrispondente al desiderio del nascondimento o negazione del presente se si accompagna alla «cinta di capanne in muratura entro cui si pigiava tutto un popolo variopinto pittoresco come una tribù di zingari». Da un lato prende corpo l’immagine della chiesa, non già nido vero ma «clausura», luogo di un vagheggiato allontanamento dal mondo, dall’altro la raffigurazione del paese, con una vita pigiata, circoscritta, chiusa dentro una sorta di recinto – caravanserraglio, scena teatrale in cui si rappresenta la finzione dell’allegria più che la gioia autentica. E poco importa se a essere vissuta con questi sentimenti è una festa. La vita va esorcizzata per la malinconica Noemi, almeno quella presente, che si vive – o non vive? – intorno a lei. E, insieme, vanno negati i suoi colori. Resta un’ultima immagine, più vera, con il più profondo sedimento etimologico: il mare. A questa, la donna affida la sua voglia di vivere o il tentativo di sopravvivere, allo «sfondo azzurro, gli alberi mormoranti, il mare che luccicava laggiù fra le dune argentee». Uno sfondo azzurro, tanto lontano da essere evocato con un «laggiù», separato, distinto dal suo mondo. E così, «pensando a queste dolci cose, Noemi sentiva voglia di piangere»24. Ma la chiesa, qui evocata in modo struggente da Noemi, diventa ancora altro da sé, come emerge con evidente icasticità e insistenza nella descrizione della festa del Rimedio. Utilizzando le originali categorie analitiche dell’antropologo Marc Augé, si può anche affermare che la festa «si compie come le parole, […] nella convivenza e nell’intimità complice dei locutori», in una chiesa che sembra avere le caratteristiche del «territorio retorico […] in cui tutti compongono una co24.  Ivi, p. 403.

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smologia […]. Luogo identitario – dunque – relazionale, storico […] che […] integra in sé i luoghi antichi […] repertoriati, classificati, e promossi “i luoghi della memoria”»25. Pertanto, la festa che tanta importanza riveste nella narrativa deleddiana sembra conformarsi alla definizione che il Merleau-­ Ponty della Fenomenologia della percezione dà dello spazio antropologico – differente da quello geometrico – «inteso come spazio “esistenziale”, luogo di un’esperienza di relazione con il mondo da parte di un essere essenzialmente situato “in rapporto ad un ambiente”»26. Mentre, per quanto attiene agli altri passi precedenti, la poesia di Giovanni Pascoli ha suggerito in modo trasparente alcuni simboli che acquistano innegabilmente un valore nuovo nel contesto della narrativa deleddiana. Ma, come si è visto in riferimento a Noemi e non solo a lei, anche quelli che apparentemente evocano la vita, sono in realtà luoghi compositi in senso proprio e in senso figurato. Non sono, infatti, solo metafore che abbiano un unico senso. Accuratamente cintati, thémenos, recinti sacri, ridestano anch’essi memorie ancestrali, arcaiche immagini archetipiche. In altri momenti essi sono il chiuso universo nel quale matura, resiste, una via di salvezza, l’utero materno che custodisce la vita. Il poderetto di Efix, per citare l’esempio più importante, è in fondo l’orto con tutto il corredo di trasformazioni etimologiche, l’imago materna imprescindibile che, come tutte le immagini fondamentali, è capace di rovesciarsi nel suo opposto. Ne è prova la trasformazione seguita all’allontanamento di Efix per il percorso di espiazione.

25.  M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthèra, Milano 1993, p. 54. 26.  Ivi, pp. 75-76. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, pp. 326 ss.

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La coppia morte-vita emerge, dunque, come metafora ossessiva dall’intero romanzo. Duplice, come duplice è la prospettiva vicino-lontano. Lo spazio che fa da sfondo all’azione è il breve recinto di un paese in decadenza dove convivono le immagini della vita che, con il Montale di In limine, potremmo chiamare «pomario» con le sue piante da frutto e gli intrichi d’erbe27 e, insieme, i segni della morte: il morto viluppo di memorie, il non orto ma «reliquario», per dirla sempre con Montale e per tacere della «vigna» di Renzo dei Promessi sposi 28. Tuttavia, se si vuole, la sorte può essere vinta: è possibile cioè il rovesciamento prospettico, unico amuleto di salvezza. Una salvezza che giunge da lontano, dal pertugio dei monti che non chiudono ma aprono verso il mare, quel mare che i vari personaggi scoprono o meglio vedono, verbo caro alla scrittrice, quando si allontanano da Galte, attribuendogli in questo modo l’implicito significato di speranza. Non più, dunque, l’idea di una Sardegna chiusa all’alterità, ma disponibile all’apertura, desiderosa d’esperienze nuove. Con il suo mosaico iconico, di cui Canne al vento con i luoghi della Baronia e gli altri che le fanno da corredo costituisce un tassello importante, Deledda consegna la propria visione del mondo. Al di là della suggestiva geometria degli spazi fisici e simbolici emerge, a quella correlata, l’idea del tempo rappresentata da Giacinto. L’irrompere del ragazzo spezza la linea dell’eterno ricordo e accelera gli eventi nel rapido movimento temporale. Lo spazio, pertanto, muta per l’urgere del tempo. Alla prospettiva del troppo vicino subentra quella del lontano. Gli anni di Giacinto, come «gli anni» di Gonzalo de La cognizione

27.  E. Montale, In limine, in Id., Ossi di seppia, in Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1990, p. 7. 28.  Cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, Signorelli, Milano 1974.

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del dolore di Carlo Emilio Gadda29, penetrano nella teca della memoria e danno inizio al.vortice dei sentimenti e alla consapevolezza rapidissima di un presente che reclama i suoi diritti. Danno compiutezza ad alcuni processi fino ad allora solo differiti: dall’espiazione di Efix, sempre inconsapevolmente rimandata, all’improvvida passione di Noemi che, implicitamente, annulla la distanza temporale che la separa dal nipote fino alla successiva soluzione del matrimonio con il cugino, alla debolezza di Ester che trova la sua definitiva soluzione nella morte, alla fine di Pottoi con la pervicace certezza di un’unione post mortem all’uomo della sua vita. Tutti i personaggi del passato fanno i conti con il presente fino a quel momento esorcizzato dall’esercizio di un’ostinata memoria: «[Noemi] Riviveva talmente nel passato che il presente non la interessava quasi più»30. Ed ecco che con l’arrivo di Giacinto il nido, il poderetto, il recinto, l’eterno grembo della grande madre Natura dismettono la funzione fino allora ricoperta di crogiolo di private alchimie, esclusivo esercizio vitale. Il fuori irrompe rompendo gli argini. In questo senso si capisce perché il Monte incombente, in assoluta sintonia con i ruderi di un paese fatiscente, significativa eccezione di immagini straordinarie di cui è ricca, come si è visto, la narrativa deleddiana, nella prima parte della vicenda sia assimilabile a un mare che ha perso i suoi significati positivi, in cui Lia è stata inghiottita, divenuta assente agli affetti, al rispetto della tradizione, ai ruoli che il suo ceto imponeva. Ma nel prosieguo della vicenda, quando finalmente si spezza la lunga catena del ricordo e cessa il risucchio del passato, anch’esso si capovolge e contribuisce a ridisegnare il mutato

29.  C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 1987. Fra le altre, si veda la p. 413. 30.  G. Deledda, Canne al vento, cit., p. 406.

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contesto della vicenda31. Elemento importante di una lettura dei luoghi al femminile, si sovraccarica di senso per il giungere di Giacinto. Attraverso il ragazzo è Lia che torna, restituita dal mare. Nonostante tutto, come la vicenda insegna, il mare è ancora immagine di fecondità, di rinascita e di ritorno alla vita, in aderenza al profilo disegnato in tanti altri romanzi attraverso le straordinarie combinazioni con i monti.

31.  A questo proposito si veda la Prefazione a Nel deserto di G. Deledda, a cura di A. Guiso, Editrice «L’Unione Sarda», Cagliari 2004.

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Natura e città

La geografia deleddiana si compone di spazi e di misure. Accanto all’ovvia bipartizione tra campagna e città, si colloca la prevedibile ripartizione delle proporzioni, quantità non sempre scontata. Ecco imporsi, nella descrizione di paesi o centri abitati, la massiccia presenza di diminutivi e vezzeggiativi che non solo connotano la povertà o la pochezza materiale di chi vi abita in un gioco scopertamente metonimico, ma anche il contrasto tra l’opera dell’uomo – naturalmente limitata – e l’opera di Dio – naturalmente illimitata. Anche quando si tratta di case belle e ricche, le stesse sono una parziale eccezione alla regola ferrea delle casupole che riescono a stento tra i viottoli stretti. In Cosima così si rappresenta il quartiere di S. Pietro: La casa più importante è però quella abitata dal canonico, di fronte alla nostra: un vero fortilizio, con cortili e giardini interni, uno dei quali, quello pensile, pieno di rose, di melograni, e un gelso alto carico di piccoli frutti violetti. Di là si stende un panorama di case e casupole che formano il quartiere più caratteristico e popolato della piccola città, e il campanone bianco della chiesa del Rosario emerge sopra i tetti bassi e scuri come un faro fra gli scogli.1 1.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 939.

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Viceversa, nel Giorno del giudizio di Salvatore Satta, il rione di S. Pietro acquista i seguenti caratteri: Nuoro non era che un nido di corvi, eppure era come e più della Gallia, divisa in tre parti […] San Pietro Santu Predu è il cuore nero di Nuoro. Seuna è la tavolozza di un pittore che diventa quadro. Con le sue inquadrature bianche alla finestra e il cielo che sovrasta libero e sereno, potrebbe essere un villaggio marino: basterebbe che ci fosse il mare. San Pietro non ha colori: ha case già alte che danno su vie strette che non sono più vicoli, e per vedere il cielo bisogna guardare in su.2

Per entrambi gli autori due quartieri della stessa città richiamano il mare seppure con motivazioni diverse. In Grazia Deledda i «tetti bassi e scuri» del rione di San Pietro sono come «scogli» dai quali emerge una chiesa del Rosario fattasi «faro» con tutto il corredo di significati positivi; per Salvatore Satta è invece Seuna, la contrada antagonista, a richiamare il mare. Anche qui l’evocazione marina reca con sé le connotazioni positive legate, fra le altre, alla varietà dei colori. È significativo che per l’uno – Salvatore Satta – Santu Predu sia «il cuore nero» di Nuoro, per l’altra – Grazia Deledda – lo stesso quartiere sia, ugualmente, scuro. Diversa è, al contrario, la percezione della misura delle case. Per Deledda le case di San Pietro sono basse, per Satta alte. Per quanto limitati, questi segni sono indicativi della diversa sensazione che la stessa città sollecita nei due scrittori. Per Deledda le case piccole e modeste si pongono in totale aderenza con quanto la scrittrice afferma relativamente al paesaggio naturale, sconfinato e libero da misure coercitive. Per lo scrittore le case sono coerentemente alte perché rispondono all’idea del fortino con cui egli apre la descrizione di Nuoro. Sembra d’essere in un Medioevo delle idee, nel pieno della conservazione di caratteri aviti, e in questo senso le case sono

2.  S. Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi, Milano 1979, pp. 26, 31-32.

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baluardo ed è comprensibile una loro rivisitazione ottica verso l’alto, lo stretto, il chiuso. Il sole stesso è impedito nella sua luce, così come chi volesse valicarne i confini senza la dovuta autorizzazione. Sempre in Deledda, nel romanzo Il vecchio della montagna, la descrizione, presumibilmente diurna, del vicinato di S. Ussula si apre in questo modo: A Nuoro smontò nel vicinato di S. Ussula, davanti a una casetta d’apparenza meno miserabile delle altre […]. La viuzza era deserta; alcune galline giallastre e nere correvano silenziose, lasciando l’impronta delle zampe sulla polvere e acchiappando al volo qualche mosca. Sulla facciata di granito della casetta s’aprivano due finestre di legno rosso con un piccolo vetro nel mezzo; la porta d’entrata dava in un cortile aperto, quasi tutto occupato dal babizone, bizzarro riparo composto da quattro tronchi che ne sostenevano altri sui quali s’ammucchiava una grande quantità di legna da ardere.3

Come si vede, sulla facciata di granito dell’abitazione ci sono due finestre spalancate sul vasto cortile e, tuttavia, questo non consente l’affrancamento dal vicinato angusto. Successivamente: Era notte; la luna alta sul cielo illuminava i bassi tetti delle casupole e le viuzze erbose: gli alberi e i cespugli degli orticelli e dei cortiletti di Sant’Ussula stendevano la venatura dei loro rami ignudi sullo sfondo azzurro – latteo dell’aria; canti rauchi d’ubriachi risuonavano in lontananza.4

La luna stabilisce un’incolmabile distanza tra sé e quel mondo, tanto più lontano quanto più essa è alta e luminosa. Sebbene illuminate, infatti, le «casupole» non smettono d’essere tali,

3.  G. Deledda, Il vecchio della montagna, in Ead., Romanzi e novelle, vol. IV, Mondadori, Milano 1955, p. 51. 4. Ivi, p. 107.

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così come «le viuzze», «gli orticelli» e «i cortiletti». La lezione leopardiana non viene evidentemente raccolta. La luce lunare non stempera il sentimento delle cose già rappresentato in precedenza; le viuzze rimarcano la loro modestia, i tetti non mutano ugualmente colore. Semmai, la lontananza attenua il canto degli ubriachi in un trascolorare che è dei suoni ma non dei colori. Che a essere rappresentata sia la città o il borgo poco importa, da Nuoro ai paesi del circondario, da Cosima a Canne al vento, a Cenere, a Colombi e sparvieri. In Cenere il paese di Fonni viene descritto «con le sue case di scheggia e i suoi viottoli di pietra». Simili sono i modi in cui vengono raffigurati i paesi del circondario. Mamoiada emerge «tra il verde degli orti e dei noci, col campanile chiaro disegnato sull’azzurro tenero del cielo; da lontano il quadretto aveva le tinte delicate d’un acquerello», ma non appena la corriera si avvia «su per lo stradone polveroso», ecco che i colori mutano e «il profilo del paesetto prese tinte cupe, ancor più forti di quelle del paesaggio»5. Orune, il cui nome viene mutato in Oronou, è un villaggio dalle «casette rossastre fabbricate sul cocuzzolo grigio di una vetta di granito, con le sue stradicole ripide e rocciose, e sembra emergere dalla nebbia come scampato dal diluvio»6. Ma, sempre in Cosima, la descrizione del centro di Nuoro conosce nuove sfumature, sebbene i luoghi di partenza riconfermino i caratteri finora rilevati e condivisi da tutti i villaggi con alcune attribuzioni che non compromettono sostanzialmente l’uguale profilo architettonico o alterano l’omogeneo impianto coloristico. Per la piccola scolara: il viaggio per arrivare al convento che serve da caseggiato scolastico, è tutto avventuroso […]; bisogna scendere per strade

5.  G. Deledda, Cenere, in Ead., Romanzi e novelle, vol. II, cit., p. 156. 6.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., p. 147.

41 strette mal selciate, attraverso casette di povera gente, fino alla piazza; questo è il quartiere aristocratico, con case alte, balconi, tende inamidate alle finestre.7

È evidente che il quartiere aristocratico si discosta da quello precedente per le case alte, i balconi e le tende inamidate alle finestre. Finalmente l’angustia dei diminutivi, che è artificio per connotare la povertà o la ristrettezza delle condizioni di vita dei suoi ospiti, cede il posto agli accrescitivi. Ora dalla piazza ha inizio «lo stradone principale, che attraversa il paese, prende il nome di via Maggiore. E finalmente c’è un lungo palazzo signorile, che con le sue logge e i suoi cornicioni forma la meraviglia di Cosima». E più giù un mondo di cui la bambina ignorava l’esistenza e che genera ammirazione e meraviglia, «il Cafè con le porte vetrate, e, dentro, gli specchi e i divani: e qua e là negozi e mercerie, botteghe di panno e botteghe di commestibili»8. Maria Giacobbe descrive la via Maggiore, il Corso, in questo modo: Lì, al Ponte di ferro, non troverai un ponte ma solo delle strade larghe e in discesa che s’incrociano. Ma, fra queste, il Corso lo riconoscerai facilmente perché è lastricato di granito ed è circondato da case alte e antiche, con molti negozi e caffè al piano terreno.9

Fra le due scrittrici si stringe un patto narrativo per la sostanziale condivisione degli elementi costitutivi del paesaggio. Tuttavia, messa da parte la minuziosa descrizione dei particolari, Giacobbe procede con pennellate ampie e condensate e tuttavia si riconosce l’uguale angolo visuale della più illustre concittadina, lo stesso cono d’attrazione, sebbene spoglio di colori. 7.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 947. 8. Ivi, pp. 947-948. 9.  M. Giacobbe, Gli arcipelaghi, Biblioteca del Vascello, Roma 1995, p. 126.

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In Giacobbe sono piuttosto le geometrie a rendere i luoghi distinguibili. In Deledda gli altri quartieri si pongono in cerchio rispetto alla piazza centrale, hanno gli stessi colori e la medesima angustia; rientra nella regola anche Santu Nofre. In Marianna Sirca «Le sorelle bellissime, fiere, […] vivevano ritirate nella loro casupola sotto la collina di Santu Nofre»10. Chi vive, lo fa dunque all’interno di spazi ridotti. Ma si vive anche fuori, nei luoghi deputati al lavoro che, nonostante non sia presente nella misura in cui viene descritto nei romanzi padani, non viene tuttavia dimenticato. E così viene citato il Molino, particolarmente importante per l’economia della comunità se si avverte la necessità di descriverlo con le seguenti modalità: «In alto era l’ansito del molino, un palpito maschio in contrasto col richiamo femmineo d’una campana che suonava a vespro»11. La felice risoluzione metonimica risulta più efficace e pregnante di minuziose descrizioni e stabilisce sotterraneamente la divisione dei luoghi al maschile e al femminile. Non sfugge inoltre la scoperta connotazione sessuale della campana che rimanda allusivamente allo scambio erotico con l’ansito del molino. Il Seminario stesso è fondamentale per lo sviluppo della vicenda raccontata in La madre, punto obbligato per il percorso di fede del protagonista. «Ecco la strada in salita, – dunque – e in alto l’arco che unisce il Seminario alla casa del Vescovo, incurvato come una grande cornice sul quadro del chiaro paesaggio di casette, d’alberi, di scalini di granito, con la torre della cattedrale in fondo»12. Sembra di vedere lo squarcio di un interno. L’arco del Seminario è la cornice di un grazioso quadretto dalle tinte tenui e non è casuale che si collochi in alto come è

10.  G. Deledda, Marianna Sirca, in Ead., Romanzi e novelle, vol. I, cit., p. 733. 11.  G. Deledda, Canne al vento, cit., p. 498. 12.  G. Deledda, La madre, in Ead., Romanzi e novelle, vol. I, cit., p. 904.

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giusto per un luogo del Signore. In fondo, appunto nel punto più alto della salita, si staglia la torre della Cattedrale. Non c’è comunanza con i quartieri intorno. L’arco-cornice, di fatto, è frontiera-limite invalicabile e perciò stesso acquista o potenzia il suo carattere sacrale. Ugualmente non va dimenticata la notazione iniziale Ecco la strada in salita con i sottesi significati simbolici. È certamente in salita la strada che porta a Dio sia perché Dio è l’alto per eccellenza sia perché la via che a Lui conduce è irta di difficoltà. Denotazione e connotazione si sposano in un sintagma brevissimo e adeguato. Non vengono tralasciati, anche se solo per una citazione, altri spazi deputati alla fatica e significativi dell’economia di sussistenza delle popolazioni barbaricine. Ecco il Dazio: «Dormii all’aperto in compagnia dei fruttivendoli baroniesi che avevano fermato i loro carri davanti al casotto del dazio»13. Quindi Il Frantoio con la descrizione del lavoro e dei colori. Qui la resa coloristica è particolarmente interessante. Uomini e animali condividono lo stesso colore fosco senza la trasmissione di sentimenti negativi. Il fiume d’olio sembra scorrere dentro «lo stanzone irregolare, attiguo alla casetta dei fratelli, […], tanto da rendere quest’ultimo scuro eppure lucido, come scavato in una montagna di schisto». La densità dell’olio appena macinato si riversa su ciò che lo spazio lungo e stretto contiene; pertanto, «nero, come unto anch’esso, era il forte cavallo paziente che faceva girare la ruota dentro la vasca rotonda dove venivano pestate le olive: la pasta violacea di queste, versata entro sporte dubbie, rotonde, la spremeva il torchio di ferro»14. Dove la scrittrice si ripete in forme quasi ossessive è nella descrizione della casa paterna che ricorre con poche modificazio-

13.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., p. 197. 14.  G. Deledda, Cosima, cit., pp. 997-998.

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ni in romanzi e racconti. Qui gli interni delle varie abitazioni reiterano gli stessi particolari con una singolare insistenza sulla scala d’ardesia o di granito o di lavagna, la cucina con i suoi arredi, i pianerottoli e altri luoghi, riferiti secondo moduli topici. Ecco un esempio da Marianna Sirca: Ecco il pianerottolo sopra la scala ripida di ardesia un po’ scura fra le due nude pareti bianche, col pavimento di antichi mattoni scrostati. Sul pianerottolo s’aprivano gli usci delle camere gialliccie di umido. Tutte le stanze erano umide, a causa di un grande pergolato che copriva il cortile fra la casa e la strada; le pareti intonacate con la calce si macchiavano di verde e qua e là i soffitti di legno si marcivano, sebbene spesso rinnovati. Solo la cucina al piano terreno, con la finestra che dava su un orticello a levante e la porta sul cortile, era calda e allegra perché col focolare sempre acceso.15

La scala, descritta in modi simili, è ugualmente presente in brevi racconti, per es. La casa del poeta16, e in grandi romanzi come Cosima17, allo stesso modo la cucina, uno degli ambienti in cui si conduceva gran parte della giornata dell’intera famiglia, è presente sia in La casa del poeta18 sia in Cosima19. E questi non sono che pochi esempi.

15.  G. Deledda, Marianna Sirca, cit., p. 768. 16.  «E questa è la scala: la prima rampata è di granito rosso […] le altre […] sono di scalini in muratura ricoperti di lastre di lavagna» (G. Deledda, La casa del poeta, in Ead., Romanzi e novelle, vol. V, cit., p. 677). 17.  «A destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia, a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina» (G. Deledda, Cosima, cit., p. 925). 18.  «Questa è l’antica cucina, ancora paesana, con le pareti affumicate, le padelle di rame, le graticole, gli spiedi. E questo il camino» (G. Deledda, La casa del poeta, cit., p. 677). 19.  «Tutto era grande e solido, nelle masserizie della cucina: le padelle di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la

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L’alternativa agli angusti spazi urbani dei romanzi ambientati nel microcosmo deleddiano è rappresentata dagli spazi esterni. Anche in questi si conservano gli abituali riferimenti se c’è anche solo una casa colonica. Si veda in Marianna Sirca dove sono presenti pochi elementi sufficienti a connotare l’ambiente esterno: la casa, i soveri, la tanca. Il luogo in cui Marianna conduce la propria esistenza viene circoscritto nella breve misura di un sommario narrativo. La donna diventa un elemento naturale, mancando la distanza fra sé e il luogo. L’assoluta sintonia è demandata proprio alle brevi pennellate con cui si disegna il quadro. Dentro la stessa cornice, la donna condivide sentimenti e colori in un perfetto rapporto simbiotico. Marianna Sirca, dopo la morte di un suo ricco zio prete, dal quale aveva ereditato il patrimonio, era andata a passare alcuni giorni in campagna, in una piccola casa colonica, che possedeva nella Serra di Nuoro, in mezzo a boschi di soveri […] Andava […] a passare giornate intere nella Tanca popolata di greggi e di armenti e dove una casa colonica aveva sostituito la primitiva capanna dei pastori sardi.20

Gli spazi esterni sono illimitati e immenso è l’aggettivo spesso usato, ma la maestosità promana da tutto l’insieme. Così in Canne al vento: «Monte Corrasi, Monte Uddè, Bella Vista, Sa Bardia, Santu Juanne, Monte Nou sorgevano dalla conca luminosa come i petali di un immenso fiore aperto al mattino, e il cielo stesso pareva curvarsi pallido e commosso su tanta bellezza»21. La catena montuosa viene esaltata nei suoi elementi costitutivi, in questo senso i nomi servono a identificare e a rendere

scansia per le stoviglie […]. C’era il camino, ma anche il focolare centrale segnato da quattro liste di pietra» (G. Deledda, Cosima, cit., pp. 925-926). 20.  G. Deledda, Marianna Sirca, cit., pp. 729-730. 21.  G. Deledda, Canne al vento, cit., p. 471.

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irripetibili i singoli monti che appartengono a comunità e territori specifici. Ma nell’alto essi compongono un unico fiore, ne sono i petali immensi e colorati al sorgere del sole. Insieme alla straordinaria ampiezza sono altre qualità superlative a definire la maestosità dei luoghi. Ed ecco Monte Spada dove si dice facesse «un freddo intensissimo; la nebbia riempiva la valle, copriva l’immensa chiostra dei monti: solo qualche alta cresta nevosa emergeva argentea simile al profilo d’una nuvola bianca, e il Monte Spada appariva or si or no come un enorme blocco di bronzo tra il velo mobile della nebbia»22. L’immensità della chiostra dei monti e l’enormità del blocco di bronzo sono sostitutivi di qualunque aggettivazione; accreditano una natura ineguagliabile. Uguale sembra essere la percezione della Natura in Salvatore Satta, ma nello scrittore, diversamente che in Deledda, vi è la risposta del basso verso l’alto. È come se si disegnasse un circolo magico dove ogni punto rimandasse all’altro e si costruis­ se la sintassi inesprimibile di una natura partecipe al chiaro di una magica luna: «Dal monte Corrasi si diffuse un immenso chiarore e apparve lontana, inaccessibile, eppure vicina la luna. Tutta la landa ne fu inondata e come per un misterioso richiamo i grilli cominciarono a cantare, i mirti a odorare, gli oleandri lungo i torrenti secchi ad agitarsi dalla gioia»23. I monti della narrativa deleddiana sono sempre al di fuori da misure umane, come già si è visto, ma anche capaci di suscitare sentimenti inquietanti perché rievocano forme inconsuete e risoluzioni lontane dall’architettura sarda: richiamano ora piramidi e ora guglie e, insieme, edifici ciclopici e misteriosi come nella descrizione di Santu Juanne.

22.  G. Deledda, Cenere, cit., pp. 172-173. 23.  S. Satta, Il giorno del giudizio, cit., p. 260.

47 L’ovile era quasi in cima al monte di Santu Juanne, una specie di prealpe di là della quale il Gennargentu chiude l’orizzonte con le sue cime e i suoi profili argentei. Enormi rocce di granito, sulle quali il musco disegnava un bizzarro mosaico nero e verde, si accavallavano stranamente le une sulle altre formando piramidi, guglie, edifizi ciclopici e misteriosi.24

Ma la Piramide si riconosce anche nel Monte Gonare, oltreché nel monte di Santu Juanne, cosicché antiche civiltà ormai concluse si coniugano nell’immaginario a fantasie senza storia, e tutto si mescola in una strana percezione di cose ormai fuori dal tempo dell’uomo e dentro il tempo di favolosi giganti. Per questo non si può solo parlare di animismo e ortografia ma di sincretismo di tempi. La mescolanza dei riferimenti implica i nuraghi e la storia autoctona, ma non solo. Le guglie possono essere impressione individuale e fantasiosa e fantastica ricreazione di elementi naturali, ma anche obelischi e piramidi e cuspidi di più famose civiltà. Quando le immagini e la storia di un territorio non bastano per una rappresentazione che si vuole complessa, ecco l’appiglio a una più vasta storia dell’umanità, all’opera più faticosa ed esaltante di uomini di ogni epoca. Le piramidi appartengono a un’epoca storicamente definita ma sono oggi dentro l’immaginario di chi se ne appropria per rendere ancor più comunicabile il grande. La nebbia diradavasi; in alto il cielo appariva d’un azzurro umido solcato come da grandi pennellate di biacca: le montagne si delineavano livide nella nebbia. Un raggio di sole illuminava finalmente la chiesetta di Gonare sulla cima del monte piramidale, che sorgeva su uno sfondo di nuvole color piombo.25

24.  G. Deledda, L’edera, Mondadori, Milano 19614, p. 41. 25.  G. Deledda, Cenere, cit., p. 25.

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Monte S. Giovanni ripete i cumuli di macigni di Santu Juanne e nel silenzio di un’alba triste appare un cimitero ciclopico. I Monti finiscono dunque per popolarsi di creature chimeriche e ridanno senso ad assetti architettonici persi nei meandri di un’antica memoria. Rinascono, insieme, ricordi e mito. Si ergono insieme cattedrali fantastiche, riconoscibili come guglie smisurate e pietre appena sbozzate. Lo spirito del mondo trova qui il suo primo e ultimo rifugio e la misura della perfezione nell’abbraccio della natura. L’alba cominciava a rischiarare il cielo, sopra il monte S. Giovanni. La grande vallata dormiva ancora, con le rupi, i muraglioni di granito, i cumuli di macigni, chiari appena fra il verde scuro delle fratte: e nel silenzio dell’alba triste, pareva, coi suoi monumenti fantastici di pietra e le sue macchie melanconiche, un cimitero ciclopico, sotto le cui rocce dormissero i giganti delle leggende paesane.26

Le montagne del Gennargentu schiacciano con la loro maestosità una Fonni ridotta a scheggia nel duplice gioco di riduzione minimale da una parte e, dall’altra, nel riferimento in sineddoche, alla pietra. Un orizzonte favoloso circonda il villaggio: le alte montagne del Gennargentu, dalle vette luminose, quasi profilate d’argento, dominano le grandi valli della Barbagia, che salgono, immense conchiglie grigie e verdi, fino alle creste ove Fonni, con le sue case di scheggia e i suoi viottoli di pietra, sfida i venti e i fulmini.27

Si può affermare d’essere all’interno di una zona di regionalità letteraria, e dunque di fronte a un ben definito microcosmo sociale e a un preciso orizzonte geografico, arricchito di reminescenze geografiche e storiche, riplasmate dalla sensibilità

26.  G. Deledda, L’edera, cit., p. 196. 27.  G. Deledda, Cenere, cit., p. 172.

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di chi vive quegli spazi. La presenza insistente di alcuni luoghi depone allora a favore della ricostruzione di un paesaggio ideale, luogo circolare con al centro Nuoro. I paesi vi ruotano intorno, insieme ai colori e agli odori apparentemente diversi. Combinandosi, essi profumano della medesima parola, non più solo immagini ma sintesi di esperienze personali; luoghi reali e proiezione di desideri e sentimenti, eredità e detrito di una memoria atavica che, finalmente, si compone in un ambito riconoscibile eppure lontano, nella memoria e nel tempo, alla fine di un viaggio in cui tutto si accorda armonicamente per la vivacità dei colori e la persuasione del dato concreto. Tuttavia, non si può negare che l’insistenza su alcuni caratteri sia l’affermazione di una prospettiva dell’alto perché è fuor di dubbio che le casupole sono tali nel paese più grande come in quello più piccolo e connotano negativamente, in entrambi i casi, il lavoro dell’uomo. L’artefice di tali costruzioni non può certo competere con le grandi opere della Natura. È anche vero che la povertà è l’attributo che maggiormente emerge, ma è altrettanto vero che quanto più i vari edifici vengono descritti accanto alle montagne e alle costruzioni naturali, tanto più se ne denunciano carenze, miseria e umiltà. È dunque plausibile che il narratore deleddiano schiacci verso il basso, il piccolo e il misero gli elementi della storia per privilegiare epifanie naturali, consapevole della persistenza di una caratura originaria che si conserva, sembrerebbe, a dispetto dell’opera dell’uomo. A questo proposito vengono in soccorso alcune note biografiche. Per esempio, nella lettera al De Gubernatis dell’8 novembre 1892, la scrittrice confessa «Vivo in una casetta tranquilla perduta in una piccola città che è poi un grosso villaggio: le montagne sono il mio orizzonte»28. Sembra di leggere una fra le tante descrizioni presenti nei romanzi, qui a corredo del di-

28.  G. Deledda, Lettere ad Angelo De Gubernatis, cit., p. 393.

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scorso sulla natura. Dalla notazione emerge che le montagne si ergono tanto da impedire altre visioni senza alcun senso di soffocamento quanto, piuttosto, di quiete. L’affermazione, peraltro, non significa l’assunzione di un francescanesimo di maniera per la lode di un creato primigenio di cui l’isola sarebbe cultrice e depositaria, anche se è innegabile che le opere e i giorni dell’uomo vengono ridotti, nell’esercizio della scrittura, a favore dell’alto. La distanza prospettica favorisce, perciò, la lontananza da quel quotidiano che potrebbe svilire il desiderio di ampi spazi, e traduce quella che potrebbe chiamarsi “psicologia del desiderio”. Infatti, se da un lato la visione dall’alto degrada il dato esperienziale, dall’altro pone chi ne scrive nell’ipotesi della prospettiva futura, della proiezione verso il fuori. Come si è detto, se i monti smettono d’essere monti per diventare mare, movimento e fluidità, anche l’uomo che tende verso l’alto smette di radicarsi in un unico luogo e si pone nell’attesa del mondo e di nuove prove. Lontana da ideologie conservative, così come la sua biografia insegna, Deledda lo è ancora di più nel farsi della scrittura. L’ammissibilità dell’attesa si definisce nel preludio catartico delle pause descrittive, che sono pause solo perché l’azione del racconto trova una sua stasi, ma si costituiscono fermento di un personale agire prossimo, lievito di un’ansia e di un desiderio che si compiono, frattanto, nel divenire del racconto. Il dato reale, a questo punto, viene trasceso per comporsi in altra dimensione, vera anch’essa perché nutrita di speranze, realizzabili nel futuro del tempo concreto, ma anche, fin d’ora, realizzate nel desiderio. Niente di più lontano da regressioni verghiane, da riduzioni d’orizzonti e da pratiche di conservazione di caratteri atavici. Chi desidera, si pone nell’ottica del superamento del quotidiano, e se i personaggi possono talora rappresentare una coscienza informe, ancora legata a inalterabili prassi sociali, o sono esitanti testimoni di nuove pruderies; se, ancora, le loro

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scelte sono indistinte, tuttavia essi non sono i depositati assoluti dell’ideologia deleddiana. Testimoni di una mutata concezione della vita e delle cose possono essere benissimo altre immagini come quelle naturali, meno subordinate a vincoli di morale e di costume, e più libere d’interpretare aspirazioni nuove senza il rischio di censure perché meno scoperte nell’indicare strade alternative, nuovi percorsi. A tale proposito viene in soccorso la lettera al De Gubernatis citata in precedenza, dove si afferma: Come mi pare di averle scritto io sono molto giovine: ho appena varcato i venti anni, ma sembro molto più fanciulla ancora. Benché conservi qualcosa di selvaggio e di caratteristico, – forse il riflesso dell’ambiente in cui vivo, – non rassomiglio punto alle altre fanciulle sarde, perché, attraverso il circolo di montagne deserte e leggendarie che chiudono il mio orizzonte, sento tutta la modernità della vita, dei tempi nuovi e dei nuovi ideali.29

Anche alcuni personaggi interpretano bene il medesimo messaggio. Ne è prova convincente Anania, il protagonista di Cenere, nel momento in cui, raggiunta la vetta del Gennargentu, si lascia andare a considerazioni tali da ipotizzare sub condicione mutamenti di canoni antropologici sedimentati. Si assiste, cioè, all’ipotetica realizzazione di una sorta di eroe romantico – a metà strada fra il bandito autoctono e lo Zarathustra di Nietzsche – dentro uno sfondo naturale in cui si stemperino gli aspri sentimenti ed elementi caratteriali che Deledda aveva ben delineato in Tradizioni popolari di Nuoro30. Se mi nascondessi su queste montagne e vivessi solo, cibandomi d’erbe e di uccelli? Perché l’uomo non può viver solo,

29.  Ibidem. 30.  G. Deledda, Tradizioni popolari di Nuoro, Ilisso, Nuoro 2010, pp. 43-44.

52 perché non può spezzare i lacci che lo avvincono agli altri uomini e lo strangolano? Zarathustra? Sì, ma anch’Egli una volta scrisse: «Oh, quanto sono solo! Non ho più nessuno con cui possa ridere, nessuno che mi consoli dolcemente».31

Pensieri dettati da una Natura che rende buoni. La resipiscenza conclusiva è figlia del dubbio di chi vive in società e, tuttavia, la parte iniziale non per questo perde la sua suggestione. Il mito di una Natura salvifica, peraltro, è spesso presente dentro tante descrizioni poetiche del periodo. Questo non implica la necessaria attribuzione di caratteri d’ingenuo animismo a entità naturali, anche se, in tanti momenti, è innegabile la traduzione in forme magiche di montagne e rocce e paesaggi naturali. Essi mantengono caratteri riconoscibili, colori condivisibili e tuttavia il loro stagliarsi alti nel cielo – se ci si riferisce ai monti – o la loro dimensione ciclopica, per quanto riguarda altri elementi, sono troppo evidenti per non consentire sull’importanza che viene loro attribuita. L’iperbole non va sottaciuta ed è un indizio che chiede d’essere letto come sintomo, non più freddo dato materiale ma ricco di connotazioni sentimentali. Il realismo in questo modo si stempera in romanticismo senza confermare l’horror dei romantici. Anzi, l’apprezzamento e l’ammirazione per le rilevanti estensioni naturali definiscono la particolare valenza del romanticismo deleddiano, lontano dalle paure e dallo sgomento che l’uomo prova di fronte al troppo grande. In questo modo, infatti, si stabilisce una sorta di equivalenza tra la grandezza materiale e l’intensità del desiderio, e il rapporto con la natura smette d’essere altro da sé. Se oltraggio c’è, e c’è l’oltraggio di chi idealmente osa porsi al di là delle montagne, è quello di chi ammette lo smisurato per realizzare la propria identità.

31.  G. Deledda, Cenere, cit., p. 173.

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L’avvilente quotidianità è così superata, la Natura non è già più solo dato esterno ma ricchezza antropologica, mentre le montagne vengono introiettate per essere rappresentative del desiderio che in parte viene soddisfatto nella presa d’atto del grande. Dominato nella prassi della descrizione, il grande viene in questo modo rimodellato dalla coscienza. L’esterno può, pertanto, consolidarsi in dato psicologico e continua tensione verso mutamenti d’orizzonte e pratiche di vita. Chi esprime bene questo sentimento è ancora Anania, il protagonista di Cenere: «Come la natura è grande, e come è bella, e come è forte!» pensò Anania, intenerito: «Nel suo cuore immenso tutto è puro: ah se ci trovassimo qui soli, tutti e tre, io, Margherita e lei, chi più penserebbe alle cose impure che ci separano?» […]. Per tre ore l’ascesa continuò, lenta e pericolosa. […] L’isola svolse i suoi cerulei panorami, disegnati di montagne chiare, di paesi grigi, di stagni lucenti, e qua e là sfumati nella linea vaporosa del mare.32

Bastano poche pennellate per congiungere i caratteri geografici dell’isola. Niente viene dimenticato, dai monti al mare, compresi gli stagni. L’abbraccio ideale, l’identificazione con il territorio stabiliscono l’aderenza ai suoi caratteri contraddittori, finalmente riuniti e amalgamati nell’operazione della scrittura, tutti egualmente credibili, nessuno subalterno nell’ideale fratellanza. Ma l’ampiezza è attributo di altri spazi a cominciare dai cortili antistanti le chiese per finire con le tanche e le valli. Il perché si attribuisca la vastità a spazi aperti e naturali come le tanche e le valli non ha bisogno di spiegazioni particolari. L’ampiezza di quei luoghi da una parte risponde agli stessi criteri e necessità che sovrintendono alla descrizione dei monti,

32.  Ivi, pp. 172-173.

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alti tanto quanto queste sono vaste, dall’altra consente anche alle tanche di definirsi facilmente come luoghi naturali. Delimitandone la superficie, l’uomo ha posto un limite territoriale e, insieme, ridotto la propria illusione di poter gestire l’intera Natura. La tanca, peraltro, può facilmente leggersi come luogo deputato al silenzio nell’essere custode di una religiosità primitiva e ingenua, occasione di comunione tra l’uomo e Dio. A questo punto è facile reperire analogie tra questi luoghi e quelli dove Dio, per convenzione, è custodito. Il luogo sacro per eccellenza rimane la chiesa, ma la sua appendice sono gli spazi esterni non potendo, il fabbricato, spogliarsi delle caratteristiche attribuzioni. Alla chiesa vengono, infatti, riconosciuti l’età vetusta e la connessa decadenza che talora servono a giustificare l’aspetto malridotto; peraltro essa è spesso imponente come si conviene alla funzione cui assolve. Ma la chiesa e la tanca sono anche testimoni e cultrici di una muta staticità: apparentemente diverse per la finalità che le caratterizzano, in realtà sono simboli di un presente eternizzato, luoghi fuori dalla storia e repliche di un cerchio magico nel cui spazio si combinano i caratteri di un mondo rurale immobile ma colmo dell’originaria purezza. La chiesa è occasione di comunione con Dio, la tanca di un’adesione totale alla Natura, corrispettivo laico del Dio cristiano. Aree in cui l’uomo della storia ridiventa l’uomo dello spazio germinale, della vicinanza alla genesi. Altre volte c’è la scoperta identificazione del luogo aperto con la chiesa stessa, come si deduce facilmente da questo passo del romanzo La via del male, che vede coinvolto il protagonista Pietro: Una sera infatti quando fu lassù, nel suo aronzu, egli sentì bisogno di pregare, come una donnicciuola. Intorno a lui il paesaggio, sublime di tristezza, taceva sotto il crepuscolo argenteo. […] Tutto il paesaggio, del resto, pareva un deserto, mai abitato dall’uomo e vigilato soltanto da una deità selvaggia o dallo spirito di un eremita preistorico.

55 Pietro s’inginocchiò per terra, si fece il segno della croce e pregò: gli sembrava d’essere in una chiesa senza pareti; le stelle ardevano sull’orizzonte, ceri lontani accesi da spiriti invisibili; il ginepro esalava un odore d’incenso.33

I modi in cui viene espresso lo stato d’animo del personaggio ripetono echi della poesia leopardiana. Il crepuscolo argenteo è la dimensione migliore in cui comporre l’ansia religiosa, ma qui la religiosità viene proposta nelle forme di un paganesimo mai sopito perché più che con un Dio trascendente si ha il desiderio di una corrispondenza con una divinità naturale. Il trascendente assume dimensioni terrene seppure dentro una ritualità dichiaratamente cattolica per lo slittamento, in metafora, delle componenti naturali nella scenografia chiesastica e nei segni della tradizione religiosa. Che così si possa intendere o no, il luogo naturale riporta a quell’eterna preistoria di cui si individuano i caratteri inalterabili e la purezza dell’origine. L’incontaminato è dunque, ancora e sempre, custodito da luoghi che, per questo, sono sacri. Con ciò non si vuol vedere la riconferma di un’immagine mitica della Sardegna, di un’isola priva di storia quanto, piuttosto, la riprova di peculiarità culturali e antropologiche che nella preistoria hanno concepito i propri segni irripetibili e originali e una grandezza specifica. Che poi in vari luoghi della vasta produzione deleddiana ci sia una trascolorazione mitica grazie ad alcuni artifici come la rassegna di posti descritti secondo modalità riconducibili alle tradizioni popolari e a un animismo inesperto e primitivo è da discutere. Piuttosto, a questo proposito pare di trovarsi di fronte al recupero di certo romanticismo di marca inglese o europea. Sulle scelte della scrittrice e sulla loro interpretazione vanno riconsiderate le riflessioni di Alberto M. Cirese in Intellettua33.  G. Deledda, La via del male, cit., pp. 244-245.

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li, folklore, istinto di classe, dove afferma che «la prospettiva della eternità immutabile ha largamente e radicatamente costituito il filtro e l’ottica con cui in Sardegna s’è guardato alla Sardegna»34. Per la quale ci sarebbero due ragioni: a livello oggettivo la reale ed eccezionale arcaicità agro – pastorale dei modi di produzione e di vita, ed a livello soggettivo una più forte carica di rivalsa contro una storia altrui soltanto subita. […] Un modo dunque di autoidentificazione di cui la storia dell’isola spiega l’insorgenza e la persistenza. Ma proprio questa spiegazione storica esclude che l’immagine dell’isola prodotta attraverso l’ottica della eternizzazione sia poi l’immagine vera e autentica della Sardegna.

Pertanto, la Sardegna di Deledda «non può essere la Sardegna in una sua qualche esclusiva “autenticità” se non per chi ne condivida, consapevolmente o no, l’ideologia…». In altre parole, a patto di approvare l’insieme delle prospettive che hanno dato vita a un’immagine peculiare dell’isola attraverso la scelta di certi dati e secondo una certa ottica. Lo studioso continua la sua analisi operando dei distinguo fra la scrittrice e altri intellettuali sardi schierati ideologicamente. Tuttavia, superata l’analisi del Cirese, per spiegare alcune scelte deleddiane vale l’interpretazione delle numerose metafore che sono l’escamotage con il quale l’individuo partecipa alla realtà, poiché esse «postulano la disponibilità verso il nuovo, la rinuncia in un certo senso alla sicurezza data per la ricerca di qualcosa che lo superi». Secondo quest’interpretazione psicologico-linguistica, vera quanto un’indagine antropologico-storica, «l’individuo rigido, fissato funzionalmente sugli oggetti, l’individuo che accetta la realtà come oggetto di continue ristrutturazioni, la interpreta in funzione della sua dinamica

34.  A.M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, Einaudi, Torino 1975, p. 44.

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affettiva, è disposto ad entrare in conflitto con essa» e a risolvere il conflitto tramite nuove aree d’esperienza35. Quest’ipotesi interpretativa postula che «la metafora rappresenta un’alternativa al modo concettuale di percepire e rappresentare la realtà, la via ad una logica intuitiva, fonte di continue creazioni»36. Con queste premesse il percorso deleddiano dell’accostamento di elementi oggettivamente non accostabili – l’icona monte-mare, per esempio, – a segni con significati diversi da quelli abituali (fra cui gli elementi naturali), e con un significato diverso da quello usuale, se da un lato rispecchia la realtà, dall’altro la padroneggia proprio in quanto la ricrea, superando per questa via quell’immobilismo di cui molta critica la vuole, per certi versi, testimone e paladina. D’altra parte, l’uso delle immagini naturali risponde a un criterio contrario a quello che in genere richiede una cultura di livello alto. In altre parole, una lingua «altamente logico-astratta e che lascia poco spazio alla creatività individuale, è infatti un valido strumento conservatore, perché è attraverso la lingua che l’individuo acquisisce certe modalità di rielaborazione della realtà, certi stereotipi di pensiero»37. Se questo vale per la lingua in genere, a maggior ragione conta per la lingua letteraria in cui si riconoscono scelte rispondenti anch’esse a ragioni di carattere ideologico.

35.  A. Fonzi - E. Negro Sancipriano, La magia delle parole: alla riscoperta della metafora, Einaudi, Torino 1975, p. 7. 36. Ivi, p. 15. 37.  Ivi, p. 63. Sempre a questo proposito si vedano, B. Bernstein, Classi sociali e sviluppo linguistico: una teoria dell’apprendimento sociale, in E. Cerquetti (a cura di), Sociologia dell’educazione, Franco Angeli, Milano 1969, pp. 38-66, e M. Moreno, La dimensione simbolica, Marsilio, Padova 1973.

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Paesaggi in Deledda e Pirandello Due Nobel isolani a confronto

Due premi Nobel figli di due isole, due intellettuali che avevano scelto di vivere a Roma e, per caso, nello stesso quartiere Nomentano, lei in via Porto Maurizio 15, dal 1912, ora via Imperia, lui in via Antonio Bosio 15, prima via Torlonia, al Villino “Chiarini”, dal 1920. Il villino di Deledda fu venduto dagli eredi nel 1953 e distrutto negli anni ’60, il periodo del boom della speculazione edilizia. Quello di Pirandello è, a tutt’oggi, all’ultimo piano, sede dell’Istituto di studi pirandelliani e sul teatro contemporaneo. Dopo la laurea a Bonn, il 21 marzo 1891, Pirandello vuole tornare a Roma perché, «scrive alla sorella: “Io voglio il Sole, io voglio la Luce”. In Sicilia ne troverebbe più che a Roma, ma la Sicilia non offre le opportunità della Capitale. Così, nel 1891, torna per sempre a Roma»1. E per dieci volte cambia abitazione. Mettere a confronto due protagonisti così diversi non è stato difficile dentro il perimetro del paesaggio, parola che ha dietro di sé una lunga storia. Li accomuna l’immagine del pino, 1.  M. Onofrio, La Roma borghese e multiforme di Pirandello, https://www. pi­randelloweb.com/roma-e-pirandello.

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presente in Grazia Deledda, nei romanzi La giustizia e Cosima, e nel racconto Sotto il pino2, albero disegnato, a suo tempo, da Remo Branca e di cui la scrittrice scrive a Luigi Falchi l’8 ottobre del 1890, quando ancora non era stata costruita la casa dentro la vigna cui fa cenno nella nota presente in Cosima: Spesso vado in una campagna suggestiva: una pianura melanconica, deserta, senza alberi. La nostra vigna è l’ultima; due pini alti fremono continuamente sotto il cielo d’un azzurro triste di viola mammola […]. Da sotto il pino ove è inciso il nome di Sebastiano Satta che deve aver sentito la triste poesia di questo luogo, io guardo la vastità desolata e desidero andare, andare attraverso questa infinita eppur dolce tristezza della natura sarda. Chissà? se diventerò ricca, mi farò una casa qui sotto l’incessante murmure dei pini.3

Il pino di Luigi Pirandello, privato della sua chioma dalla tromba d’aria del 1997, si trova sopra il cippo di pietra nel quale sono conservate le ceneri dello scrittore, ricordato nella poesia trascritta nella targa commemorativa (28 giugno del 1867):  Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli 2.  G. Deledda, Sotto il pino, in Ead., Il cedro del Libano, in Novelle, a cura di G. Cerina, Ilisso, Nuoro 1996, vol. VI, pp. 228-231. 3.  L. Falchi, L’opera di Grazia Deledda (con due appendici di lettere inedite), La Prora, Milano 1937, p. 145. Nella nota 1 della stessa pagina: «Questi due pini ricompaiono in una descrizione di luoghi campestri nel romanzo La Giustizia. A proposito di essi, nel cit. volume Confidenze, io scrivevo: “Amici nuoresi, se quei pini, intorno a cui fiorì un sogno di fanciulla della più grande tra le donne d’Italia e in cui il poeta nostro incise il suo nome, preso dalla triste poesia di quel luogo, esistono ancora, onorateli di segni d’affetto: essi devono essere sacri alla spiritualità isolana”». Anche in Cosima, nota di A. Baldini, cit.

61 d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano

A Roma, vicino alle mura aureliane, crescono due pini, vicinissimi e ricurvi l’un verso l’altro, quasi alla ricerca di un abbraccio. Entrambi ricordano il pino arcuato di Due cavalieri davanti al rosso, di Vasilij Kandinskij del 1911. Ancor più delle parole, il quadro racconta l’impossibile – ma teoricamente possibile solo nei territori dell’arte – avvicinamento di due protagonisti della letteratura italiana, oltre il transeunte di invidie e maldicenze. Al 1911, infatti, come il quadro, risale il romanzo pirandelliano Suo marito che avrebbe dato fuoco alle polveri dell’antipatia che covava sotto le ceneri. A parte la notazione esterna, qui si intende partire da una riflessione di Martin Heidegger tratta da L’epoca dell’immagine del mondo, laddove il filosofo afferma: «Riflettere sul Mondo Moderno significa cercare la moderna immagine del mondo [Weltbild]», contrapposta a quelle medioevale e antica. Con «Mondo» egli designa ciò di cui si parla e cui ci si rapporta, e che ha un mero valore ontico, cosale, finito, che il filosofo chiama «ente». Non solo comprensivo del «cosmo» o della «natura», ma anche della «storia»4. Con «Immagine», invece, indica non «una raffigurazione del mondo, una sua «imitazione», ma ciò che ha prodotto «l’uomo stesso» con l’inversione dello sguardo rispetto all’epoca antica e al Medioevo5. Si è anche tenuta presente l’opera La prospettiva come “forma simbolica” di Erwin Panofsky6 dove viene rigettata, nella pars destruens, la tesi dell’esclusivo valore 4.  M. Heidegger, L’epoca dell’immagine nel mondo, in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 86. 5.  Ivi, p. 89. 6.  E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, tr. it., a cura di G.D. Neri, Feltrinelli, Milano 1966.

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mimetico e naturalistico della prospettiva – e di conseguenza dell’arte pittorica – con la proposta, nella pars construens, della rappresentazione dello spazio letta, viceversa, nei suoi riferimenti culturali, relativi alle epoche in cui vengono prodotte. Insieme, si è dato credito alla definizione che Merleau-Ponty dà dello spazio antropologico, citata in precedenza. Sia Deledda che Pirandello sono dentro la modernità, sia pure in modi differenti. In particolare, secondo Clara Incani: Forte delle lezioni ricavate dalla pittura e in particolare dal­ l’impressionismo, Grazia Deledda ha dedicato grande attenzione non solo agli elementi dei suoi paesaggi, alle loro caratteristiche e posizioni, ma altresì allo sfondo o spazio in cui li ha collocati, proprio al fine di ottenere una composizione armonica e conclusa in sé, giocata sui contrasti fra i due, sui pieni e sui vuoti, sulla plasticità, sulla diversa intensità della luce, sui colori.7

In ogni caso la scrittrice, anche per la contiguità con la sorella pittrice Nicolina8, oltre che con gli artisti della sua cerchia romana, dispone di una serie di riferimenti all’arte pittorica che dissemina nella sua vasta opera, si tratti di romanzi o di novelle. Cita, per es., Segantini in La Giustizia, Both in Dopo il divorzio, Salvator Rosa in Nel deserto, Rembrandt in Cosima e, sempre in Cosima, Zuloaga y Zabaleta, Perugino in La dama bianca, Rubens in Il sogno del pastore, Raffaello in Un giorno, Piranesi in Via Cupa, Poussin in Pasqua9. Pirandello, pittore egli stesso, indica fra i maestri Picasso e André Derain, ma anche Braque e De Chirico. 7.  C. Incani, Luoghi, paesaggi, uomini per voce di Grazia Deledda. Geografia e letteratura, Scuola sarda, Cagliari 2007, p. 200. 8.  M.E. Ciusa, Grazia e Nicolina. Storia di un sodalizio familiare e artistico, in U. Collu (a cura di), Grazia Deledda nella cultura contemporanea, cit., vol. II, pp. 75-82. 9.  Cfr. C. Incani, Luoghi, paesaggi, uomini, cit., pp. 205-206.

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Cosima Laddove la scrittrice rivela la sua originale modernità è nella mirabile sequenza del pino, presente in Cosima, che si articola in otto momenti. Inizialmente, in sommario, ci sono la casa e il pino che si muta, per il «vigilava solitario», in elemento simbolico: In ottobre ci fu, come al solito, la vendemmia. No, non come al solito, poiché la madre, d’accordo con Andrea, aveva fatto costruire una piccola casa di pietra nella vigna, sotto un pino che vigilava solitario la grande distesa quasi tutta selvaggia come una landa, e dichiarò che voleva abitarci per qualche settimana.10

Quindi, il focus è sul pino e su tutte le specie di uccelli che lo abitano, in particolare passeracei, dentro una pausa narrativa. E il pino, sopra la casetta che ancora odorava di calce, vibrava tutto di canti d’uccelli: ce n’erano di tutte le specie, soprattutto di passeracei, poiché era l’unico rifugio del luogo, e il loro chiassoso concerto strideva anche di voci di battaglia; tutti però d’intesa nello scavare i fichi nella vigna e piluccare l’uva, nonostante gli spauracchi drizzati qua e là dall’ingegnoso colono.11

Successivamente, l’albero è dentro un vasto segmento, intercalato da pause descrittive, con il color rosso che dilaga dal tramonto fino alle cose intorno e, finalmente, si sdilinguisce in rosa. Lo sguardo si allunga avanti e indietro, si allarga dalla vigna alle distese della pianura, torna sul pino, quindi si riporta sulla vicina brughiera e muove fino ai monti lontani dalle sfumature luministe. Non è un caso che Deledda nomini Émile Claus in Nostalgie. Infine ritorna al troppo vicino, in cui sono evidenti gli influssi della poetica pascoliana e del Gelsomino notturno, con l’immagine ingigantita della cocci10.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 1006. 11.  Ivi, p. 1007.

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nella – dal «dorso rosso scuro di lacca» – che, dalla veste di Cosima, sale fino alla mano e pare guardarla dello stesso sguardo della protagonista fino al volo finale, spiccato dall’«unghia rosea di tramonto»: il tramonto arrossava la vigna, la vasca e i salici scintillavano; le distese della pianura avevano la calma e melanconica poesia della steppa, come Cosima l’aveva intraveduta in qualche racconto russo: ma il punto centrale del paesaggio, il più bello, era il pino solitario entro il quale vibravano le fiamme del sole che pareva vi si annidasse come un grande uccello di porpora. E Cosima se ne andò per un sentiero della brughiera, dove avrebbe potuto camminare finché voleva, poiché non c’era pericolo di sperdersi, e dalla vigna potevano sorvegliarla con un solo sguardo. Le erbe sembravano colore di rosa, ogni seme, ogni fiorellino, ogni bacca, aveva come un occhio d’oro che rispondeva al suo sguardo; e i monti lontani, color d’acquamarina, svaporavano nel cielo arancione e verde e rosso che a poco a poco trascolorava e cambiava tinta. Una coccinella salì, da un cespuglio, sulla veste di Cosima, come su un cespuglio più alto: andò su, su, tranquilla, fino al braccio di lei, fino alla sua mano. Era un essere meraviglioso e quasi terribile: sopra il piccolo dorso piatto di un rosso scuro di lacca, era disegnato un viso umano perfetto, con gli occhi, il naso, la bocca, tutti un po’ obliqui come nelle maschere giapponesi: parve a Cosima che quegli occhi la guardassero, con la stessa meraviglia misteriosa con cui lei li guardava. Arrivata all’estremità del dito medio, sull’unghia rosea di tramonto, la coccinella aprì due piccole ali iridate e volò via. Cosima avrebbe voluto imitarla, ma i suoi piedi erano legati alla terra, ed ella avrebbe dovuto camminare fino all’estremità del mondo per potersi slanciare così. Quando il sole sparì, uno stupore quasi infantile parve incantare ogni cosa: il cielo si fece trasparente come l’acqua, e la stella che apparve sull’orizzonte vi tremolò come appunto riflessa dal mare.12

12.  Ivi, p. 1016.

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Dal quarto momento ha inizio il processo metamorfico che si matura nel quinto, con la cessione dei caratteri umani agli elementi naturali: Tacquero un momento: si sentiva il friggere sommesso della padella sulla fiamma: un odore di gente umile ma rassegnata usciva da quella stanzetta solitaria. Il pino vibrava ancora di fruscii, di pigolii, di vaghi lamenti, e dalla lontananza dello stradone arrivava il rumore di un passo di cavallo: Andrea.13

Ora «il pino urlava come un mostro» mentre «il vento gridava e piangeva» e «solo il pino pareva potesse combattere con l’uragano come un eroe inferocito contro un intero esercito». C’è un quadro dell’espressionista tedesco Walter Gramatté, Urlo, del 1918, in cui sembra condensarsi la modernità di questo intervento: Durante la notte si scatenò una forte bufera: la grandine mitragliava la piccola casa, e il pino urlava come un mostro. Dietro gli scurini mal connessi i vetri della finestra parvero spaccarsi e spargersi in frammenti d’oro e d’ametista, con un rombo spaventoso. Lampi e tuoni. Non c’è da nascondere che Cosima aveva paura e la madre tremava come una fronda sbattuta dal vento […]. Il vento gridava e piangeva nella pianura come nel mare, e solo il pino pareva potesse combattere con l’uragano come un eroe inferocito contro un intero esercito.14

Infine si compie il processo di totale adesione all’oggetto rappresentato, appena schermato da quel «pareva». La procedura mimetica, con le parole in presa diretta, è compiuta. Tra l’uomo e la Natura nessuna distanza più, più nessuna distanza tra il soggetto e l’oggetto, con il prestito della voce e del messaggio che, in vece di Cosima, viene formulato dal pino, con l’illuminante conclusione autoriale: «Poi tacque anche l’albero».

13.  Ivi, p. 1017. 14.  Ivi, p. 1018.

66 All’alba il tempo si calmò, d’un tratto, dopo un tuono formidabile che parve un ordine militare: la battaglia doveva cessare. Solo il pino continuò in un suo lieve brontolio, quasi pensieroso. Cosima lo sentiva nel sonno lieve del mattino: e le pareva che il pino mormorasse: «Perché tutto questo? Si combatte, si soffre, si tormenta per nulla: la forza del vento è vana; tutto è vano e vuoto; eppure bisogna combattere perché così vuole Dio».15

La scrittrice è consapevole di aver operato una metamorfosi. La sua non è stata l’operazione dell’imitare, ma la presa di possesso e la restituzione di una nuova realtà, differente dalla precedente in un’originale ideazione artistica, tra oro, argento, perle, rubini, smeraldi e diamanti, che ricorda L’albero della vita di Gustav Klimt del 1905-1909. […] ma quando Cosima aprì la finestruola vide uno spettacolo indimenticabile: centinaia di uccelli svolazzavano sui rami battuti dal sole, e parevano d’oro e d’argento: ogni loro battere d’ali faceva cadere gocce simili a scintille: e ad ogni ago delle foglie era infilata una perla dai colori dell’iride. Pareva un albero magico, fatto di uccelli, di rubini, smeraldi e diamanti. E fu certo una giornata di miracoli, quella. Tutto sembrava trasformato; tutto, nell’orto, nella vigna sebbene spoglia, nella brughiera riarsa, tutto riluceva e sorrideva. Dio era passato con un corteo di tuoni e fulmini, ma trovando gli uomini di buona volontà si placava e ritornava paterno.16

Non è un caso che sia proprio in Cosima – l’opera testamento, scritta verso la fine della vita e scoperta dopo la sua morte – la consapevolezza definitiva della sua moderna iconografia. Di Cosima – un altro suo nome – e non di Grazia si racconta in terza persona, la distanza opportuna per vedersi e rievocare infanzia e adolescenza.

15.  Ibidem. 16.  Ivi, p. 1018.

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Il verbo vedere è quello prediletto, ancora qui, nella fase conclusiva della sua vasta narrazione, dove la casa paterna è l’occasione favorevole per l’affaccio sul mondo dell’immaginario, il prologo del futuro narrare. Così avviene che, quando nasce la sorella Peppa, Cosima bambina salga lungo la sua casa, ancora oggetto inesplorato, e veda: una finestrina vuota, aperta sulla parete interna fra una rampata e l’altra, e, affacciandovisi, ella fantasticava un precipizio, una cascata di lava […] e soprattutto una finestra più grande, segnata ma non aperta sull’alto della parete che finiva sul soffitto […]. Cosima si incantava ogni volta a guardarla; l’apriva con la sua fantasia, e mai in vita sua vide un orizzonte più ampio e favoloso di quello che si immaginava nello sfondo di quel segno polveroso e pieno di ragnatele.17

È una finestra sulla verità, una manifestazione dell’assoluto, una porta sull’anima. La scrittrice si pone oltre il Merleau-­ Ponty di «io sono tutto ciò che vedo»18. In questo diventa maestra: ricrea ciò che vede, completa l’incompletezza, oltrepassando quell’«ambiguità» che il filosofo francese vede nelle cose del mondo, ricalcando il Poeta del racconto La casa del poeta, quasi epifania del credo heideggeriano per il quale l’Essere si manifesta nella poesia prima del suo definitivo scomparire19. L’altro da sé non è la più somma di attimi e di cose garantite e indubitabili, ma l’elaborazione di una nuova mappa mentale e geografica, che significa la progressiva costruzione di una corearea, a cominciare dalla casa, parcella di quell’«area centrale ricca, popolata e sicura. Sì che una ragazza la possa attraver-

17.  G. Deledda, La madre, cit., p. 936. 18.  M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 576. 19.  M. Heidegger, Perché i poeti, in Id., Sentieri interrotti, cit., pp. 247-297.

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sare senza timore»20 ovvero un centro personale tutto suo, che è anche lo spazio dove cresce la coscienza che le fantasticherie coesistono con i disinganni, e che l’amore, vagheggiato o realizzato, può accompagnarsi alla più amara delle sofferenze come la morte prematura della sorella Enza. È possibile anche affermare una sorta di contiguità con le ragioni di Cézanne il quale, mentre gli impressionisti andavano appuntando coscienziosamente sulle loro tele quella percezione cromatica che la natura offriva: si rese presto conto che tale rivelazione era decisiva ma non sufficiente, e così si allontanò dopo breve dal percorso dell’amico Pissarro per affrontare quello che sarebbe stato il suo grande compito: «realizzare» – per usare la sua espressione preferita– ovvero cercare con tutte le forze di far emergere la realtà nascosta sotto il velo delle apparenze, una realtà diversa, più solida e più densa, simile a un’architettura da ricostruire, dotata di una logica in grado di fare appello ai sentimenti più intimi dell’uomo trovandosi in una più stretta relazione con i bisogni dello spirito. In questo senso sarebbe giunto a giustificare la deformazione rispetto all’apparenza attuale come responso inconscio al bisogno di rendere più evidente possibile l’armonia formale delle figure.21

Considerazioni che fanno il paio con le domande:

20.  F. Moretti, Atlante del romanzo europeo. 1800-1900, Einaudi, Torino 1997, p. 17. Moretti riferisce il concetto a Jane Austen. Qui, quello stesso concetto può ben esprimere la costruzione progressiva della mappa deleddiana, che si riferisce alla Sardegna, al Lazio e a luoghi del Nord Italia, menzionati nei romanzi e novelle. 21.  L. Piantelli, Mele e arance. Da Paul Cézanne a Virginia Woolf. Estetica e romanzo modernista, intr. di F. Orestano, Aracne, Roma 2011, p. 126. A proposito di una lettura modernista del romanzo deleddiano, si veda M. Heyer-Caput, “Dopo il divorzio” (1902, 1905, 1920) di Grazia Deledda: ‘opus in fieri’ sul riso del moderno, in «altrelettere», 17-09-2013, pp. 6-35; doi: 10.5903/al_uzh-13.

69 C’è una logica, dietro la mescolanza di luoghi reali e luoghi immaginari che è così tipica del romanzo moderno? C’è forse una funzione narrativa specifica assolta dagli uni e dagli altri? Ci sono, cioè, degli eventi che tendono ad accadere nei luoghi reali ed altri che preferiscono invece quelli immaginari?22

Anche per Deledda, in questo tirocinio della vita e del mondo, la scoperta è vitale e rende plausibile, anche per gli artifici retorici di cui dispone, una mescolanza di luoghi tra reali e immaginari, così che Il mare [è] il grande mistero, la landa di cespugli azzurri, con a riva una siepe di biancospini fioriti; il deserto che la rondine sognava di trasvolare verso le meravigliose regioni del continente.23

Una tensione barocca, la si potrebbe definire, per le frequenti combinazioni fra campi semantici diversi. Qui è il mare a vestirsi di cespugli, in altri luoghi sono i monti a essere mare. Se per Leopardi e Calvino il compito della letteratura consiste nel tentativo di descrivere l’ignoto, l’indeterminato, il vago, Deledda coglie e trascrive, al primo sguardo, l’illimite e l’indeterminato, accompagnati dalla meraviglia di un’eterna prima volta. Non è un caso che nella novella A cavallo, vero gioiello di impressionismo letterario dentro la raccolta del 1926, Il sigillo d’amore, la scrittrice riaffermi la validità di scelte tante volte contestate: accusata di avere, nei miei racconti, sciupato troppo colore e troppa vernice per questi paesaggi, ho voluto rivederli nell’età in cui la fanciullezza non fa più belle della realtà le nostre visioni esterne colorandole del suo divino splendore interno: riveduti dalle impazienti automobili che adesso palpitano nelle vene stradali dell’isola e le riempiono di vita nuova, li ho tro-

22.  F. Moretti, Atlante del romanzo europeo, cit., p. 22. 23.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 973.

70 vati ancora più belli, nella loro immota e sacra solitudine che vive di sé stessa e pare anzi si rattristi quando viene turbata.24

Il rischio è, semmai, quello di recingere il suo smisurato campo visivo, tale da contenere il perenne stupore, lo sprone del suo narrare dentro quello che Giovanna Cerina chiama «il favoloso apprendistato di Cosima»25. In questo è vicina a Virginia Woolf secondo cui quel che uno scrittore decide di trascrivere «è il proprio stato mentale. Lei vuole servirsi di quella mente, oltre all’occhio, per rendere completa la sua immagine verbale, così da rivelare la verità sotto l’apparenza»26. Una consapevolezza che vale anche per Deledda e quella particolare tipologia di autori e di artisti dalla spiccata sensibilità “moderna”, capaci di allontanare la realtà dagli esclusivi rapporti spazio temporali e causali, misurabili e controllabili, e di restituirle quell’essenza molteplice, ambigua ed evasiva, che meglio si manifesta quando i sensi si affinano. Quella peculiare concezione del vedere che ha contraddistinto il Novecento in arte e in letteratura, e che ha attraversato il dibattito contemporaneo sul Modernismo, con il riconoscimento della ricchezza di soluzioni espressive per le quali è anche giudicato un grande e complesso movimento estetico. In Cosima, in particolare, provvidenziale fu il soccorso del fratello Andrea che: la mandò a prendere lezioni d’italiano, poiché a dire il vero ella scriveva più in dialetto che in lingua, da un professore del ginnasio. Ma […] più efficaci furono le lezioni pratiche che il fratello volonteroso le procurò facendole conoscere tipi

24.  G. Deledda, A cavallo, in Ead., Il sigillo d’amore, in Novelle, cit., vol. IV, p. 278. 25.  G. Cerina, Il favoloso apprendistato di Cosima, in U. Collu (a cura di), Grazia Deledda nella cultura contemporanea, cit., vol. I, p. 203. 26.  L. Piantelli, Mele e arance, cit., p. 46.

71 di vecchi pastori che raccontavano storie più meravigliose di quelle scritte sui libri, e portandola in giro, nei villaggi più caratteristici della contrada.27 Ma anche dopo ella veniva a contatto col popolo, col vero popolo, laborioso e mite […] Cosima li osservava, li studiava, ne imparava il linguaggio, le superstizioni, le maledizioni, le preghiere […] così le venne lo spunto per un nuovo romanzo; attinto dal vero: attinto come la pasta nere delle olive dalla vasca del frantoio, che si mutava in olio, in balsamo, in luce; e gli mise un titolo grigio, che sotto però nascondeva anch’esso il seme del fuoco: lo intitolò Rami caduti .28

Ancora una metamorfosi dentro la singolare abilità poietica con il rimando inevitabile alla natura e alle sue trasfigurazioni, ai colori, alla luce che irrora il grigio, e al fuoco che sempre arde. Quale il posto della scrittura in questo lungo apprendistato? Da una parte rifugio consolatorio, per Cosima ha una valenza altamente etica, se l’obiettivo è il riscatto femminile dalle pastoie di una società gretta, tesa a vanificare lo sforzo dell’emancipazione. E nella capanna del Monte la definitiva consacrazione. «La nicchia della primordiale dimora» sostituisce l’altare, «il calamaio» e gli altri oggetti della scrittura, «l’immagine sacra». Oggettivazione laica dell’arte, essi sono, al contempo, un atto di fede, mentre il poeta è sacerdote come per Aristotele e Petrarca.

Paesaggi urbani. Benedizione, Il viaggio, La madre Nella novella Benedizione Pirandello propone l’immagine di un violento temporale dentro la storia di un recalcitrante Don Marchino, sacerdote di borgata, che benedice di notte, essendovi 27.  G. Deledda, Cosima, cit., pp. 970-971. 28.  Ivi, pp. 1000-1001.

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costretto, la giovane Nunziata, una sua precedente parrocchiana, convinta di avere il malocchio, come il marito, il figlio e una capra: tutti malati. Il prete le chiede di scegliere chi benedire fra il figlio e la capra, e lei decide per la capra che, guarita, procurerebbe il latte al marito. Ma il finale, tutto pirandelliano, sebbene differito, è anticipato dall’unico, intenso stralcio paesaggistico, in teoria pausa narrativa, di fatto anticipazione diegetica. – «Gildino»… chiamò [Nunziata] – Il ragazzo non rispose. E allora ella provò uno strano sgomento allo spettacolo della natura quasi tutta in fuga, nell’urlante veemenza del vento. Fuggivano squarciate pel cielo, con disperata furia, le nuvole, a schiera infinita, e pareva si trascinassero con la luna; gli alberi si contorcevano cigolando, spasimando senza requie, come per radicarsi e fuggire pur là, pur là, dove il vento portava le nuvole a un tempestoso convegno.29

Gildino è morto, ma viene taciuto. Il focus sul paesaggio con l’«urlante veemenza del vento», la «disperata furia» delle nuvole, gli alberi che «si contorcevano cigolando, spasimando senza requie» è appena successivo a «il ragazzo non rispose». La natura viene chiamata a rispondere in luogo del personaggio. Come fa il pino di Cosima. Si fa personaggio metonimico essa stessa, dando fiato ai sentimenti di angoscia, allo spasimo, all’orrore della morte, le stesse emozioni materne dei momenti successivi. Il narratore pirandelliano cede prima la parola a una natura antropomorfa, quindi alla madre che pare dare sfogo al dolore con la stessa intensità presente nella xilografia del 1919, La madre, del belga Frans Masereel, con una madre disperata, in primo piano, al centro della via, e due ali di folla silenziosa appena dietro. Nella novella Il viaggio, sempre Pirandello pone in primo piano una ragazza inizialmente promessa al cognato, fratello del 29.  L. Pirandello, Benedizione, in Id., Novelle, a cura di R. Messina, Derva, Napoli 1991, p. 97.

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marito. Il marito muore e lei, vedova ormai da molti anni, a causa di un ipotetico tumore, deve andare a Palermo. L’accompagna il cognato. Da lì inizia una storia d’amore che si conclude tragicamente. Tutto nasce dentro un paese. L’angustia e l’oppressione sono negli occhi di chi guarda e compone una realtà soffocante e grigia – «le casette di pietra e calce», i «doccioni di creta e tubi di latta» – con un narratore che, dall’alto, la bagna di un intenso colore azzurro. Già esaltato dal Romanticismo e nel fiore azzurro, «blaue Blume», di Enrico di Ofterdingen di Novalis, il blu è colore sulle cui sfumature si sofferma Kandinskij fino alla tesi secondo cui l’azzurro che «precipita nel nero acquista una nota di tristezza struggente, affonda in una drammaticità che non ha e non avrà mai fine»30. Da Van Gogh, al cielo in cui si staglia l’Albero Rosso di Piet Mondrian, agli spazi celesti da cui è attratto l’Icaro di Matisse, nel, e col cielo, si esprimono, fra gli altri, vigore e intensità. Ecco Pirandello e il suo Viaggio: Soltanto la fede cieca in un compenso oltre la vita poteva far sopportare senza disperazione il lento e greve squallore in cui svolgevano le giornate, una dopo l’altra tutte uguali, in quella cittaduzza montana, così silenziosa che pareva quasi deserta, sotto l’azzurro intenso e ardente del cielo, con le straducole anguste, male acciottolate, tra le casette di pietra e calce, coi doccioni di creta e tubi di latta scoperti.31

Nel romanzo La madre di Deledda32, c’è fin dall’inizio un paesaggio notturno, in cui a predominare sono il nero e il grigio, 30.  V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, tr. it. di E. Pontiggia, SE, Milano 1989, p. 63. 31.  L. Pirandello, Il viaggio, in Id., Novelle, cit., p. 110. 32.  Riguardo al romanzo La madre si veda il capitolo Tracotanza e vendetta, in A. Guiso, Il doppio segno della scrittura. Deledda e oltre, pref. di S. Maxia, Delfino, Sassari 2012, pp. 29-45.

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appena interrotti dal «chiarore ora azzurro ora giallo della luna»: Il chiarore ora azzurro ora giallo della luna, travolta da grandi nuvole in corsa, illuminava il prato erboso, la piazzetta sterrata davanti alla chiesa e alla parrocchia, e due fila di casupole serpeggianti ai due lati di una strada in pendio che andava a perdersi fra le macchie della vallata. E in mezzo a questa appariva, come un’altra strada grigia e tortuosa, il fiume che a sua volta andava a confondersi tra i fiumi e le strade del paesaggio fantastico che le nuvole, spinte dal vento, componevano e scomponevano ogni tanto sull’orizzonte allo sbocco della valle.33

Quindi una natura sconvolta, partecipe dell’angoscia della Madre: Gli ontani in fila davanti al parapetto della piazza della Chiesa, si sbattevano furiosi al vento, neri e sconvolti come mostri. Al loro fruscio rispondeva il lamento dei pioppi e dei canneti della valle: e a tutto quel dolore notturno, all’ansito del vento e al naufragare della luna fra le nuvole, si confondeva l’angoscia agitata della madre che inseguiva il figlio. Ed ecco che, invece di dirigersi alla porta come un semplice visitatore, egli andava dritto alla porticina dell’orto, e questa si apriva e si chiudeva dietro di lui come una bocca nera che lo ingoiasse.34

La natura è tutt’uno col soggetto rappresentante, sebbene in Deledda si riconoscano almeno tre modalità di visione: «l’assunzione di un punto di vista, fisso e di solito elevato», «la definizione di un quadro – in senso albertiano – ossia la delimitazione o incorniciamento del paesaggio», «l’organizzazione, su piani differenti, degli elementi che lo compongono»,

33.  G. Deledda, La madre, cit., p. 879. 34.  Ivi, pp. 879-880.

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collocati «a diversa distanza dagli occhi»35. In questo caso il paese sembra schiacciato verso il basso. Il romanzo La madre, pubblicato nel 1920, offre l’intensa rappresentazione di un dramma di coscienza, con la positiva, ma non ovvia, soluzione finale grazie al sacrificio della protagonista femminile. Il fervore affettivo della madre e il senso del pericolo, da lei intensamente percepito, sono il velo attraverso cui si compone la topografia di eventi, luoghi e personaggi, ritrasmessi per effetto di un filtro interiore in un intrico simbiotico di oggettività e soggettività. Fin dall’inizio il sacerdote suo figlio viene presentato come una figura inquietante, conforme al paesaggio minaccioso e ostile: Paulo aveva svoltato di là e attraversava quasi di volo, come un grande uccello nero, con le falde del mantello svolazzanti, il prato che si estendeva davanti ad una casa addossata quasi al ciglione che chiudeva l’orizzonte sopra il villaggio […] e due fila di casupole serpeggianti ai due lati d’una strada in pendio che andava a perdersi fra le macchie della vallata. E in mezzo a questa appariva, come un’altra strada grigia e tortuosa, il fiume che a sua volta andava a confondersi tra i fiumi e le strade del paesaggio fantastico che le nuvole, spinte dal vento, componevano e scomponevano ogni tanto nell’orizzonte allo sbocco della valle.36

La suggestiva gamma di sfumature poggia anche sul riferimento al fiume, letto come una seconda strada, con i riconoscibili presagi del pericolo paventato dalla madre. La descrizione è, come altre volte, un momento narrativo in cui ancora il tempo si reitera e dove si organizza il prosieguo del racconto. Ecco la «casa antica addossata quasi al ciglione» che «chiudeva l’orizzonte sopra il villaggio» in cui si sottolineano l’estraneità e l’al-

35.  C. Incani, Luoghi, paesaggi, uomini, cit., p. 187. 36.  G. Deledda, La madre, cit., p. 878.

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terità della casa solitaria rispetto alle «casupole serpeggianti», successivamente chiamate «povere casette arrampicate», con le suggestive qualificazioni, quasi imperiosi moventi della vicenda. Questo, invece, il modo in cui il narratore descrive l’interno della casa: Una stanza vasta, che dava sull’orto, con la volta a cupola, il pavimento di cemento battuto seminato di pietruzze di mare; un gran camino si sprofondava in una parete, con due sedili ai lati e davanti un canapè antico; le pareti imbiancate con la calce ornate di armi, teste di cervi con le corna, di quadri con le tele nere che cadevano a brandelli e dove appariva solo, qua e là, montante nell’ombra, qualche mano di colore terroso, qualche scorcio di vino, o una treccia di donna o qualche frutto.37

Con la ricomposizione prospettica dell’ampio vano della casa antica, Deledda mostra la distanza tra la casa e le casupole, cioè a dire tra l’opulenza e l’indigenza per la quale un intero villaggio condivide la medesima sorte. Ancora un’altra immagine in grigio e nero, con uno spruzzo di bianco: Da un uscio socchiuso si intravedevano altre stanze un po’ buie, con le finestre chiuse […] e la padrona viene, quasi di corsa ma un po’ diffidente; viene dalle stanze buie; vestita di nero; il suo viso pallido, stretto fra due conchiglie di trecce nere e le mani bianche scarne emergono dall’ombra come quelle delle figure dei quadri intorno. Ed anche quando appare tutta, nella luce della stanza, la sua persona piccola e sottile ha qualche cosa di sfuggente, di sospettoso. I suoi occhi, grandi, foschi, fissano subito il cestino delle frutta deposto sulla tavola, poi avvolgono con uno sguardo profondo la donna che sta ad aspettare, e un sorriso rapido che è di gioia ma anche di derisione, le illumina la bocca triste e sensuale.38

37.  Ivi, p. 884. 38.  Ivi, p. 885.

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L’assunzione del punto di vista della madre si traduce in una pregevole grammatica visuale, in cui l’immagine femminile è ritratta attraverso la coppia ossimorica «la bocca triste e sensuale», dove la positività del «sensuale» si spegne per l’essere «triste» coerentemente con l’operazione di deminutio.

Uno, nessuno e centomila Con Uno, nessuno e centomila, capolavoro pirandelliano, fin da subito Gengè Moscarda, il protagonista della storia, è chiamato a riflettere sul suo naso che pende a destra, come dice la moglie. La prima, ironica coscienza di Vitangelo è quella di provare a capire ciò ch’egli non è, in un tentativo che si attua attraverso il rifiuto delle maschere fittizie. Nei capitoli otto, e fino all’undicesimo incluso, l’opposizione tra la «vita» e le «forme» si muta nel contrasto tra la natura e il distacco dell’uomo dal mondo naturale. La natura è vista secondo la nuova prospettiva elaborata dalla sua interiorità, ovvero come un organismo provvisto di vita autonoma, disgiunto da propositi raziocinanti e dai rapporti che ciascuno stabilisce con la «forma», la costruzione di sé cui la vita lo vincola. Il filtro è la recente consapevolezza ed è significativa la consegna a un’inedita diversità – negazione della precedente identità – fuori dal perimetro urbano «Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? e sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti ora dalla città; cioè, sì, da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive più così per vivere, come queste piante, senza saper di vivere»39. Con la consegna a una bizzarra eccentricità, a una nuova gnoseologia, per gli altri follia, Moscarda si pone in un altro spazio 39.  L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Mondadori, Milano 1987, p. 53.

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reale e logico, ammettendo l’uguale importanza degli elementi naturali posti nell’alto e nel basso, in un’operazione di singolare originalità. Anche in queste evenienze narrative non si può dimenticare che, se si affronta il tema del paesaggio, la domanda preliminare riguarda il registro visivo che lo scrittore ha «applicato all’osservazione, contemplazione e rappresentazione del reale» e come interagiscono «nel suo paesaggismo i vari elementi della moderna visione del mondo»40. Nel romanzo pirandelliano le nuvole e gli alberi, come gli uccelli e, in lontananza, i monti azzurri, superano le barriere di una visione superlativamente antropocentrica, dove l’uomo, riportandosi ad aneliti mai dimenticati, evoca il desiderio del volo, ma senza la sua costruzione – degenerazione dentro un velivolo: «Qua cari miei avete veduto l’uccellino vero, che vola davvero, e avete smarrito il senso e il valore delle ali finte e del volo meccanico. Lo riacquisterete subito là, dove tutto è finto e meccanico, riduzione e costruzione». Si postula, dunque, che solo nella follia sarebbe possibile accettare la natura come valore assoluto, e smascherare, viceversa, l’insania della costruzione di case e città, allo stesso modo in cui l’uomo costruisce una «forma» per gli altri e li riconosce in quella «forma» che è costretto, a sua volta, a interpretare per non sconvolgere l’ordine del mondo, che è poi un mondo alternativo a quello naturale, con leggi stabilite e plausibili per l’uomo che ne è il responsabile. Questo in cui si vive è dunque: «un altro mondo nel mondo: mondo manifatturato, combinato, congegnato; mondo d’artificio, di stortura, d’adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e valore soltanto per l’uomo che ne è l’artefice». Solo nella Natura parrebbe porsi la salvezza, per l’intrinseca inabilità – incoscienza di quella a darsi una «forma» e, dun-

40.  C. Incani, Luoghi, paesaggi, uomini, cit., pp. 186-187.

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que, ad alterare un ordine perenne. Moscarda risolve la nuova prospettiva antropologica nella tensione allo smemorarsi e nel porsi domande: Ah, non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi più neanche del proprio nome! Sdrajati qua sull’erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole […]. Sa forse d’essere la nuvola? Né sanno di lei l’albero e la pietra, che ignorano anche se stessi; e sono soli.41

Ecco la rappresentazione della dicotomia fra uomo e natura, ecco l’oltraggio quando, secondo il Gadda della Cognizione del dolore, «ogni oltraggio è morte»: «sentite, sentite: sù nel bosco dei castagni, picchi d’accetta. Giù nella cava, picchi di piccone. Mutilare la montagna, atterrare alberi per costruire case. Là, nella vecchia città, altre case. Stenti, affanni, fatica d’ogni sorta; perché? Ma per arrivare a un comignolo signori miei»42. Pare superfluo riaffermare che ogni realtà urbana, anche quella romana, in cui vissero entrambi gli scrittori, viene rappresentata, nelle loro opere, attraverso scelte coerenti con l’impostazione generale che privilegia la natura. Deledda, in questo senso, sale in cattedra, ma è vero anche che all’epoca del loro vivere la città eterna andava cambiando e cresceva a ritmo incessante, in conformità al resto d’Europa dove la popolazione era passata dai 370 milioni del 1890 ai 480 milioni del 191443, e i nuovi quartieri si ponevano dentro provvisorie periferie, nelle quali, come Deledda dice nel Cedro del Libano44, «l’odore dell’asfal-

41.  L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, cit., p. 54. 42.  Ivi, pp. 55-56. 43.  Cfr. C. Incani, Luoghi, paesaggi, uomini, cit., p. 108. 44.  G. Deledda, Il cedro del libano, cit., p. 242.

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to ha ucciso il profumo della campagna» e, come scrive nella Danza della collana45, resistevano gli «avanzi dei parchi invasi dalla marea delle nuove costruzioni [e dai] fiumi delle strade ancora non terminate». Un nuovo paesaggio urbano, nuove periferie, ma anche sentimenti di simpatica ironia, non solo di esclusiva condanna: Nulla di più esasperante di quelle case alte che, in faccia alle ville e ai parchi di palme e cedri forse più belli dei giardini pensili di Babilonia, sventolano dalle loro finestre luride stracci e stracci che si agitano al vento con saluti di miseria insolente, di allegria ironica, quasi di beffe per l’austera compostezza dei luoghi dei ricchi. Eppure non c’è cosa più viva ed eccitante di voi, stracci di via Nomentana dove via Alessandria sbocca col suo fiume di umanità inferiore, voi che comunicando il vostro brivido disperato al malumore fin qui opaco e duro gli ridestate l’istinto a ribellarsi, a sollevarsi, a cercare i mezzi per convertire il fango in oro…46

Due passeggiate Due passeggiate, l’una diurna, l’altra notturna: due passeggiate in solitudine, la prima, placida, di Grazia Deledda, descritta in prima persona in Viali di Roma47, l’altra, travagliata, del protagonista pirandelliano dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Si è alla fine dell’autunno:

45.  G. Deledda, La danza della collana, in Ead., Dieci romanzi, Newton Compton, Roma 1993, p. 811. 46.  G. Deledda, Cura, in Ead., Il flauto nel bosco, in Novelle, cit., p. 246. 47.  G. Deledda, Viali di Roma, in Ead., Il sigillo d’amore, cit., p. 375.

81 È triste eppure bello, in queste sere dell’estremo autunno, dopo una giornata di lavoro e di solitudine, andarsene soli lungo certi viali di Roma […] Quello che io preferisco è il viale davanti al Policlinico. Ci si può camminare ad occhi chiusi, e il marciapiede di asfalto è così molle e soffice che il passo non vi risona.

Gli alberi spogli, il cielo pallido, l’impressione del mare per i «vapori colorati» dello «sfondo arioso»: questi gli elementi di un paesaggio luminoso e tuttavia dimesso. A destra le Mura Aureliane dalle quali giunge il lieto «rumore» della vita, a sinistra «i padiglioni con le vetrate illuminate, i balconi ancora chiari al crepuscolo, i portici che sembrano preludere all’ingresso di palazzi incantati, danno anch’essi l’illusione che là dentro tutto sia bello e felice». Nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1915) lo scrittore siciliano fin dal principio propone una Roma ctonia e misteriosa, dove l’uomo è quasi schiacciato dal paesaggio, nonostante la visione dal basso verso l’alto, subisce Castel Sant’Angelo e le costellazioni, e tuttavia accoppia l’imponenza di quella mole all’immensità delle stelle in uno sforzo visivo verso l’infinito. Vive uno straordinario «sgomento», forse per il riverbero delle luci stesse nell’acqua nera del fiume e «l’orrore delle vie deserte» mentre il sentimento dell’incertezza predomina su tutto, nell’aderenza all’assioma modernista che il mondo è ciò che si percepisce. Pervenuti in fondo al Corso Vittorio Emanuele, passammo il ponte. Ricordo che mirai quasi con religioso sgomento la fosca mole rotonda di Castel Sant’Angelo, alta e solenne sotto lo sfavillio delle stelle. Le grandi architetture umane, nella notte, e le costellazioni del cielo pare che s’intendano tra loro. Nella frescura umida di quell’immenso sfondo notturno, sentii quel mio sgomento sobbalzare, guizzare come per tanti brividi, che forse mi venivano dai riflessi serpentini dei lumi degli altri ponti e delle dighe, nell’acqua nera, misteriosa, del fiume. […] Incerto della via, incerto di tutto, nel vuoto orrore delle

82 vie deserte, piene di strane ombre vacillanti nei radi riverberi rossastri dei fanali, a ogni soffio d’aria, sui muri delle vecchie case, pensavo con terrore e con nausea alla gente che dormiva sicura in quelle case e non sapeva com’esse apparissero di fuori a chi errava sperduto per la notte, senza che per lui ce ne fosse una, ove potesse entrare.48

I Quaderni rappresentano una pietra miliare non solo riguardo al punto di vista pirandelliano sul cinema, ma dentro le sue stesse scelte narrative col racconto della vicenda di Serafino, cineoperatore della Kosmograph che, giorno dopo giorno, registra gli avvenimenti che accadono nel suo ambito di lavoro fra cui la storia di Varia Nestoroff, un’attrice russa seduttrice di vari uomini. Nella scena finale del romanzo Serafino riprende la morte in diretta e, da testimone della scena, filma impassibile, ma ammutolisce per sempre. Le corrispondenze fra quest’opera pirandelliana e la riflessione sulla tecnica proposta da Heidegger49 sono evidenti. Se Anassagora intendeva la tecnica come pro-duzione, creazione di qualcosa, nell’interpretazione del filosofo tedesco essa acquista il carattere di pro-vocazione nel senso che svela ciò che è nascosto. Di fatto, la tecnica è nel destino dell’uomo e ha conseguenze rispetto alla sua essenza e a quella della verità. Ne consegue che anche la macchina dell’operatore Serafino non sia un medium di rappresentazione del reale soltanto alla fine, ma fin dall’inizio. Sarebbe, da questo punto di vista, vanificata la dicotomia tra «vita» e «forma», tra realtà e finzione, punto centrale della poetica dello scrittore siciliano, senza dimenticare che il cinema non è realtà ma si modifica in realtà

48.  L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Id., Tutti i romanzi, a cura di I. Borzi e M. Argenziano, Newton Compton, Roma 1993, p. 705. 49. Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, tr. it., a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 14-15.

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mentre la realtà si fa finzione, in una prassi del rovesciamento nel quale la macchina non finge. 50

50.  A questo proposito si veda A. Guiso, Dalla luna ariostesca a Matrix. Linee di un percorso pirandelliano, in Finzioni e finzioni, illusione a affabulazione in Pirandello e nel modernismo europeo. Atti del Convegno internazionale di Lovanio-Anversa, 19-21 maggio 2010, a cura di B. Van der Bossche, M. Jansen, N. Dupré, Cesati, Firenze 2012, pp. 253-268.

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Il Po e dintorni

I luoghi della solitudine e quelli della comunità sono diversamente rappresentati, si riferiscano all’Isola o al Nord Italia dei romanzi Nostalgie del 1905, L’ombra del passato del 1906 e Annalena Bilsini del 1927, riguardo ai quali è bene precisare che l’ambito di riferimento è l’ampio tratto del bacino del Po studiato dalla scrittrice per motivi diversi: per via del marito, nativo di Cicognara, per le vacanze che vi trascorreva e per la naturale curiosità che la sosteneva quando si trattava di rappresentare gli sfondi di nuove vicende. I primi luoghi le appartengono per diritto, avendoli ereditati col sangue e l’educazione, e accettati col sentimento nella corrispondenza a colori e profumi; i secondi per una sorta di processo d’adozione. Tra questi ultimi rientrano i campi coltivati e la religione del lavoro, uniti in una consueta, eppure singolare simbiosi, che rende possibile l’alternanza del bucolico col georgico e non esclude l’eccezione del locus amoenus laddove il lavoro come costrizione si definisca locus asper. Alla natura incontaminata dei paesaggi sardi, da cui l’uomo è lontano e della quale è spesso semplice spettatore, succede il paesaggio agrario della pianura padana, simile a quello celebrato da tanta poesia di Giovanni Pascoli. Tuttavia, anche il

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Nord Italia può essere lo sfondo di storie nelle quali si perpetuano gli antichi valori e le passioni inalterate già celebrate in precedenza; pretesto, dunque, per risoluzioni non solo riferite a specifici ambiti geografici nell’idea che motivi esistenziali si ripetono sotto qualsiasi latitudine. In momenti narrativi come questi il vasto mondo diventa lo scenario di eterni sentimenti e i luoghi diversi sono l’occasione accidentale per comporre storie in cui l’uomo rappresenta sé stesso con i dubbi e le contraddizioni di sempre. Certamente qui contano i paesaggi piani e uniformi, ma in quale misura essi concorrono alla definizione di rapporti umani differenti da quelli descritti in opere precedenti, dentro la linea di altri orizzonti? Possono essere i luoghi, sebbene diversi, ispiratori di sentimenti alternativi o ripropongono invece schemi inalterati con la riedizione di norme e divieti? Il milieu – in questo caso l’ambiente geografico e culturale di provenienza – detta ancora norme letterarie? E ancora, il reticolo disegnato dagli assi spaziale e temporale può avere, nei contesti padani, la sua rilevanza o poco può contro eredità arcaiche presenti da sempre nell’immaginario di chi, come la scrittrice, aveva vissuto in società chiuse? È certo che lo spazio artistico è dato dalla confluenza del campo fisico e dei sottesi significati culturali, e, insieme, dall’ingegno e dalle valutazioni esistenziali di chi scrive. D’altra parte, le valutazioni esistenziali, frutto di rielaborazione culturale, recano con sé il marchio d’origine; sfumato, forse, ma incancellabile. L’altro dubbio si riferisce all’interiorità in quanto prospettiva, e dunque se il punto di vista ab interiore possa, e in quale misura, orientare l’articolazione e gli scioglimenti testuali. È possibile, in altre parole, allargando il concetto, che la Weltanschauung sia anche determinata da una proiezione all’esterno di sentimenti autoriali, e regoli la minore o maggiore complessità dell’intreccio e la scelta dei personaggi?

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Secondo Martha King: Many passages from Nostalgie can be read as Deledda’s personal reflections, reactions and inevitable disillusions in adjusting to marriage, in-laws, and the large city that had been the focus of dreams for so many years.1 Fictional Regina [la protagonista del romanzo] and real Grazia, of course, diverge in many ways, as the rule of fictional verity directs the plot and characterizations and not consistency to real life. Deledda used her own life as the material to be refined through the processes of the imagination for the end product.2

La stessa Martha King riporta la seguente considerazione: As Joyce Carol Oates has observed, critics often “fail to see how the creative artist shares to varying degrees the personalities of all his characters, even those whom he appears to detest – perhaps, at times, it is these characters he is really closest to”.3

1.  M. King, Grazia Deledda. A Legendary Life, Trobador Publishing, Leicester 2005, p. 108: «Molti passi di Nostalgie possono essere letti come riflessioni personali della Deledda, reazioni a delusioni inevitabili al suo adattarsi al matrimonio, ai suoceri e alla grande città che era stata al centro della sua attenzione per tanti anni». 2.  Ivi, p. 110: «La Regina della narrazione [la protagonista del romanzo], in realtà Deledda stessa, non ne è l’esatta trascrizione perché la regola della verità narrativa condiziona la trama e la caratterizzazione dei personaggi, e non certo l’adeguatezza o la corrispondenza alla vita reale. Per ottenere il prodotto desiderato, Deledda usava la sua vita come materiale da rifinire attraverso il processo dell’immaginazione». 3.  Ivi, p. 224, nota 252; cit. da S.M. Gilbert - S. Gubar, The Madwoman in the Attic. The Woman Writer and the Nineteenth-Century Literary Imagination di Yale University Press, New Haven 1984, pp. 68-69: «Come afferma Joyce Carol Oates, spesso i critici trascurano di notare come l’artista creativo condivida a vari livelli le personalità dei suoi personaggi, anche di quelli che apparentemente detesta – a volte, forse, è proprio a quelli che si sente più vicino».

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Il romanzo padano Nostalgie diventa, dunque, pretesto per l’ulteriore rappresentazione di sentimenti che mutano per le emergenze della vita e non perché lo sfondo è cambiato, o non solo per questo. Ed ecco che: However, this novel does seem to lack focus while Deledda delves into too many aspects of her new exposure to bourgeois personal distress and disillusion in a new situation, and not with her tentative excursion into feminism, lack of work for women, adultery, and so forth. […] As a continuing meditation on her life story, a mirror of her spiritual and physical progression, this novel is of interest, but it never joined the list of her readers’ favorites.4

Secondo Mariangela Vicini: «Si potrebbe affermare, da un punto di vista strettamente letterario, che in quest’opera, sono presenti tracce del romanzo borghese e dei suoi canoni, nonché istanze sveviane, riconoscibili nelle ampie parentesi narrative dedicate alla psicologia del profondo»5. Un po’ come in Nel deserto, altro romanzo frettolosamente dimenticato e invece, come questo, vissuto al femminile, con la narrazione di sentimenti e la visione di oggetti ridisegnati simbolicamente6. Fatte salve queste interpretazioni, è anche vero che il modo in cui, nei romanzi padani, viene descritto il lavoro, e cioè il prodotto dell’interazione fra uomo e ambiente, determina scelte 4.  M. King, Grazia Deledda, cit., p. 114: «In ogni caso questo romanzo è dispersivo per il fatto che la Deledda si sofferma su troppi aspetti della sua recente immersione nei disagi tipicamente borghesi della sua nuova condizione, fa una timida escursione nel femminismo, la disoccupazione femminile, l’adulterio e così via. […] Nel rappresentare una costante riflessione sulla sua vicenda personale, uno specchio del suo percorso fisico e spirituale, questo romanzo è indubbiamente interessante e tuttavia non è riuscito ad essere annoverato tra quelli più amati dai suoi lettori». 5.  M. Vicini, Introduzione, in G. Deledda, Nostalgie, Editrice «L’Unione Sarda», Cagliari 2004, p. XII. 6. Cfr. G. Deledda, Nel deserto, cit.

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contingenti ma, di fatto, non modifica i sentimenti e la visione del mondo presenti altrove. In questo senso la condizione esistenziale si presenta eternamente uguale a sé stessa. Ecco, dunque, che lo spazio naturale si coniuga alla presenza dell’uomo in una relazione complementare secondo antichi rapporti di reciprocità: da una parte dà apporti economici, dall’altra si definisce come ambito di collaborazione. La scrittrice, nonostante tutto, ha saputo cogliere un dato fondamentale della mentalità di quei luoghi: la cultura della fatica come opportunità di crescita e svincolamento dalle pastoie della stretta necessità. Ne è testimonianza una conversazione riportata da Stanis Ruinas, nella quale riferisce le ragioni del romanzo Annalena Bilsini, scritto quasi a onorare gli abitanti dei luoghi d’adozione di cui sottolinea l’indole particolarmente docile e la generosità dell’impegno. Sono stata l’anno scorso in Lombardia, e ho visitato i paesi di Casalmaggiore Viadana, di Casalbellotto, Gabbionella, Cicognone, Roccadello, Colorno…; paesi nei quali si trovano i parenti di mio marito, che è lombardo. Sono stata fortemente colpita da quei paesi incantevoli e dall’indole buona, docile, affettuosa degli abitanti, che sono civilissimi ed hanno l’anima bella come il paesaggio e il cielo di quei posti meravigliosi. Io ho una grande ammirazione per quella gente forte, sana, laboriosa, tenace. E dal canto suo, quella magnifica gente mi vuol molto bene. […] Fra quel meraviglioso popolo e in quella terra splendida pensai il romanzo che sto per completare.7

Nella libertà dal bisogno i rapporti fra le persone nella vita reale, e tra personaggi nel contesto narrativo, si definiscono come scelta. Senza dimenticare che le conseguenze dell’obbedienza ai ritmi della natura, che si articola anche nella relazione con gli animali, sono diverse se a condurre il filo della narrazione 7.  S. Ruinas, La Sardegna e i suoi scrittori, Campitelli, Foligno 1927, pp. 5455.

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è un giovane ambizioso o un ragazzo che si affaccia alla vita, con le pretese e i sogni che spesso si scontrano con norme mal vissute. Il mondo ordinato nelle geometrie dei rapporti umani e le regole alle quali assoggettarsi esistono anche per essere trasgrediti, e i percorsi più ovvi, non solo quelli geografici, vengono rifiutati per altri meno scontati e corrispondenti all’attesa del domani e alla pausa dal quotidiano. Se l’obiettivo è l’allontanamento dalla casa o dalle abitudini, come accade ad Adone, giovane protagonista di L’ombra del passato, il luogo sarà ovviamente diverso da quelli consueti e il suo profilo dimensionato alle aspettative8. Tutto questo si pone ovviamente come alternativa alla routine, mentre il quotidiano, dal canto suo, presenta paesaggi uguali. L’ambiente, gli usi, la terminologia in Annalena Bilsini rimandano alla zona mantovana di confine e precisamente a Cicognara, Roncadello, Casalbellotto che nel romanzo viene mutato più semplicemente in Casalotto. L’ambiente è tipico di quelle zone con i richiami ai mestieri tradizionali, in particolare in L’ombra del passato allo zolfanellajo, al casèr, al barcaiuolo, al fabbro, al tabaccajo, alla cestaia, allo scoparo, al falegname, e in Annalena Bilsini ai commercianti di scope. Per quanto attiene ai luoghi, le distese di saggina e quelle di grano e i filari d’uva, il ponte di chiatte sul Po e i campi che vengono misurati in biolche anziché in pertiche. Le usanze sono anch’esse caratteristiche del mantovano come il bere in vino; i termini, ugualmente, come i puttini, ecc. Questo porta a definire meglio i caratteri di un testo in parte realista, rappresentato da una forte ridondanza e prevedibilità dei contenuti con la descrizione della sfera sociale e dell’ambiente di lavoro dei personaggi. Si è di fronte a scene

8.  G. Deledda, L’ombra del passato, Editrice «L’Unione Sarda», Cagliari 2004.

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ritualizzate della vita quotidiana con cerimonie religiose e infatti la chiesa e la messa sono spesso presenti insieme ai pasti di famiglia e ad ambiti come la casa, da sempre oggetto privilegiato di descrizioni di interni. Ma la connotazione d’ordine sociale, piuttosto che la denotazione di un tratto fisico o caratteriale, è procedura insistente e serve ad alimentare il mito della religione del lavoro. Crea inoltre una comunità di agenti più che di parlanti e una coralità che vincola le proprie scelte ai giudizi sociali. Lo sfondo è l’ampio paesaggio fluviale, la distesa luminosa delle acque e dell’orizzonte, i profili boscosi e lontani su cui si innalzano i campanili e incombe la minaccia delle piene. A Cicognara Deledda giungeva da Roma di tanto in tanto col marito. Li amava quei luoghi come terra sua fino a parlare del nostro Po, del nostro argine, della mia Cicognara e fino a chiudere il telegramma di ringraziamento alle felicitazioni dei cicognaresi dopo il Nobel con un Evviva Cicognara. Qualche tempo prima della composizione di Annalena Bilsini, anzi forse proprio nella speranza di trovare materiale per un nuovo romanzo che non fosse, come quasi tutti gli altri suoi, di argomento sardo, si fermò un po’ di tempo a Cicognara per studiare tipi e ambiente, quando vi era parroco Don Mazzolari9. Don Mazzolari diventerà lo straordinario parroco di Annalena Bilsini. Quel prete lungo e tutto ossa, col viso scavato, con gli occhi pallidi sotto la fronte alta a picco come una roccia, senza labbra e senza capelli […]. Il suo viso è come una lampada che rischiara.10

9.  E. Macchi, Grazia Deledda. Nel centenario della nascita (1871-1936), TipoLito F.lli Ferrari, Casalbellotto 1972. 10.  G. Deledda, Annalena Bilsini, in Ead., Romanzi e novelle, vol. I, cit., p. 1114.

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Personaggi, luoghi e termini idiomatici disegnano, dunque, un quadro riconoscibile nella sua verosimiglianza. Schegge di un ampio mosaico che piano piano si ricompone, i luoghi sono a un tempo sineddoche di quel complesso di elementi che costituisce il bacino del Po, e metonimia di una piana matassa che ha necessità di sbrogliarsi in tutti i suoi colori. L’eccezione a un’arte di maniera è l’insistenza su alcuni particolari, occasione di lettura sentimentale nella corrispondenza d’amorosi sensi con un territorio amato per alcuni elementi in particolare: l’ampiezza del fiume e il suo colore singolare, i pioppi e il campanile sullo sfondo lontano. Così in L’ombra del passato: La barca scendeva verso Brescello […] il Po quella mattina era bellissimo, sempre più largo, d’un azzurro latteo iridescente. Verso le rive l’acqua rifletteva i boschi capovolti; sopra le muraglie di sabbia delle isole, i pioppi tremolavano come alberi d’argento, e i canti degli usignoli e i richiami insistenti dei cuculi parevano uscir dall’acqua, da boschi sepolti nel fiume, […] e anche un campanile bianco, all’orizzonte, pareva sorgere dall’acqua, come una vela.11

Il Po è dunque bellissimo nel suo essere grande e largo e luogo del sogno, e in questo senso la barca scivola sul suo letto e trascina con sé aspettative e speranze legate alla presenza di un mondo ignoto. E infatti, «la barca […] si allontanò rapida e nera sul fiume azzurro. Adone la seguì con gli occhi, finché poté vederla». Da quel momento il ragazzo passa in rassegna i luoghi noti e anticipa il percorso dello zio Carlino. L’uomo dovrà prima scendere a Brescello, quindi attraversare una lunga strada attraverso campi e campi, paesi e paesi, fiumi larghi e stretti, montagne assai più alte dell’argine. Ma il viaggio non sarebbe finito lì: la barca sarebbe andata lonta-

11.  G. Deledda, L’ombra del passato, cit., p. 13.

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no lontano per fermarsi all’orizzonte «dove sorgeva un paese incantato»12. Il fiume riconferma i significati topici: al suo scorrere sono legate le speranze di un mondo migliore. È certo che non può sostituire nei significati più profondi il mare, perché del mare non ha l’invalicabilità, perché consente un rapido ritorno, perché, contrariamente al mare, l’attesa è premiata. Il fiume è una via liquida, in ciò sta il suo fascino, ma anche il suo limite. Il rapporto con la terraferma non viene tralasciato nonostante la scrittrice si lasci trasportare dal suo antico sentimento per la vastità e il mistero marino, ricreati attraverso la fervida fantasia del ragazzo. All’orizzonte si profilano alte montagne, nella ripetizione di paesaggi insulari, ma anche fiumi e paesi e campi e, finalmente, un’altra riva molto lontana, a sorpresa definitiva risoluzione di un orizzonte più vicino. Una linea rotonda in cui si compone la frontiera di un nuovo ambito valoriale che in luoghi specifici situa le vicende di nuovi racconti. D’altra parte, anche l’alto ha modo di essere raffigurato nell’innalzamento di una torre. In L’ombra del passato, Adone gioca a rivendicare diritti con il suo amico Marco, e così: Quando si trattava però di lodare le chiese del suo paese, la torre, il prato, il palazzo Dargenti o Davide del Nin non ammetteva repliche. – La nostra torre è più alta, sì, è più alta della vostra: cento metri di più. – Sì, perché lo dici tu! La nostra è più alta, l’ha detto persino il prevosto.13

Ecco che lo sguardo si fa lente d’ingrandimento e coglie particolari minuziosi, e il tatto e la vista partecipano, anch’essi,

12. Ivi, p. 14. 13. Ivi, p. 92.

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delle percezioni sensoriali, e un notturno è rappresentato in tono lieve: «Il chiarore della luna al tramonto si fondeva con la luce azzurrognola dell’alba, e un velo leggerissimo di nebbia fluttuava sulla città addormentata»14. Un’alba è disegnata con alcune pennellate: «Sedette su un mucchio di ghiaia umida […] Il sole spuntava in fondo alla lunga e dritta strada, allora tutta fiancheggiata d’alberi d’alto fusto»15. Un tramonto si ammanta di colori intensi: «Guardando dall’argine, verso il tramonto, si scorgeva come un immenso anello di fuoco che circondava l’orizzonte: il fiume verde e roseo sembrava un lago fra i boschi immobili delle rive, e tutte le cose tacevano, come morte per mancanza d’aria»16. Anche l’olfatto ha modo di definirsi in rapporto alle cose, ingresso privilegiato di sensazioni intime e profonde: La notte era tiepida, silenziosa, profumata dall’odore dell’erba e dei meloni. Già qualche striscia di nebbia grigiastra velava le stelle dell’orizzonte: e gli alberi neri sullo sfondo incolore del cielo parevano davvero fantasmi, ma erano troppo neri, troppo fermi per incutere spavento.17

La nebbia è cosa insistente, greve come la morte, e le cose vi si immergono immobili: sono distese di boschi, sono alberi solitari, le città invece sono smembrate nei costituenti principali, case e viottoli, centro e periferie mentre gli sguardi d’insieme sono rari e affidati agli occhi del bambino protagonista di L’ombra del passato, il piccolo Adone, che scopre in Viadana «una città grandiosa». Soprattutto egli ammirava l’acciottolato delle vie; anche il ponte di chiatte sul Po gli sembrava una cosa magnifica.18

14. Ivi, p. 107. 15. Ivi, p. 108. 16. Ivi, p. 131. 17. Ivi, p. 164. 18. Ivi, p. 33.

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Ma l’argine è, fra tutti, una sorta di sentiero dal valore archetipico dotto nel senso che ad esso dà Northrop Frye, variante della piaggia dantesca e insieme luogo primigenio19. Dietro c’è la visione ideologica di una natura incontaminata secondo quanto andava predicando Giovanni Pascoli, natura buona, mater dell’uomo, avvolta da un velo di sacralità. D’altra parte la sua raffigurazione è provocazione per risoluzioni e scelte alternative, è alchimia di sensazioni indistinte, crogiuolo di sensazioni torbide in cui il bene debba ancora definirsi rispetto al male, valore rispetto al disvalore, sogno notturno o notte tout court in cui, paradossalmente, non si confondano i contorni delle cose ma divengano chiare le premesse dell’agire futuro. L’argine è sentiero, breve viaggio in cui il sole penetra ma non abbaglia, possibile alba o crepuscolo e, leopardianamente, tregua razionale e sentimentale, insieme, del dolore; la cecità è del meriggio o della notte. All’argine e alla sua penombra la scrittrice annette notevole importanza, e se è frontiera fisica perché separa, è anche qualificazione intima e magmatica. Ora una cosa ora l’altra, positiva o negativa. Usato nella rappresentazione dei luoghi mantovani, viene localizzato anche in altri ambiti narrativi e circostanze indeterminate. Presente in romanzi e novelle, è diverso nella sua significatività. In L’ombra del passato è misura della bontà di caratteristiche psicologiche. E così: «Adone […] andava via sconsolato; percorreva l’argine polveroso, s’internava nel suo viottolo, s’arrampicava sugli alberi, saltava i fossi, o si sdraiava sull’erba e sognava. La natura era già per lui pietosa e consolatrice, come non lo era più neppure la mamma»20. Non sfugge l’importanza di questa dichiarazione quasi programmatica che risponde a requisiti francescani. La natura è più che la mamma, pieto19.  N. Frye, Anatomia della critica. Quattro saggi, tr. it. di P. Rosa-Clot e S. Stratta, Einaudi, Torino 1969, pp. 130-131; 134-135. 20.  G. Deledda, L’ombra del passato, cit., p. 58.

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sa e consolatrice, immune da ombre di tradimento, costante e inalterabile. Il viottolo s’innesta lungo l’argine, ne è diramazione. Esattamente come il fiume con le sue anse, l’argine è un letto nei cui rivoli ferve la vita delle persone. Dentro il viottolo si compone invece la coscienza informe di Adone. Luogo privilegiato nel generale privilegio, il viottolo è anche simbolo della natura: Arrivato davanti alla chiesa, invece di proseguire per la bella strada comunale, svoltò e percorse di nuovo il viottolo Dargenti. Questo viottolo era per lui un luogo delizioso. Percorrendo le altre strade, larghe e strette, l’argine, le cavdagne erbose, egli era un monello cattivuccio come tutti i monelli: lungo il viottolo Dargenti, invece, come il bandito nel folto del bosco, egli si sentiva padrone di sé; considerava sua proprietà i nidi, le erbe, le bacche, le rane del fosso verdastro che stendevasi lungo il muro del parco; ma diventava pensieroso, quasi cosciente.21

A definire il valore della natura viene chiamato il maestro elementare di Adone che avrà anche il compito di diffondere una verità indiscussa; a questo punto l’asserto avrà il valore dell’assioma. «Sì, una volta il maestro aveva detto: ‘Fanciulli, amate i campi, la sacra natura. L’uomo dei campi è l’essere che più s’avvicina alla perfezione: egli non conosce le corruzioni e le ipocrisie del mondo, e conserva la sua anima semplice e pura’».22 In quanto depositario di cultura il maestro asserisce quasi una verità di fede ma, nel contempo, celebra i requisiti del vir bonus già teorizzati da Esiodo con Le opere e i giorni, dal Catone del De agri cultura e accolti dal Virgilio delle Georgiche e via via fino al Pascoli delle Myricae. Non sono ancora i tempi della politica agraria del ventennio ma già la si insinua

21. Ivi, p. 22. 22. Ivi, p. 97.

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e, insieme, si esprime la sensibilità e il rispetto verso la Natura e chi con essa convive. L’argine, però, non è solo il luogo di una natura ineguagliata, diventa anche l’occasione di un’inedita risoluzione come in Il bacio del gobbino, dove si fa frontiera in cui il male ha modo di illuminarsi.23 Inizialmente il narratore di quel racconto afferma che la strada percorsa dal protagonista è diritta. Il gobbino-postino, infatti, nel compimento del suo dovere quotidiano pedala «vertiginosamente senza vedere altro che la china verdissima del fiume». «Ma non si può correre così dritti fino al mare» commenta la voce narrante facendo presagire una diversa risoluzione rispetto alle premesse. Vi è quindi una deviazione espressa da elementi lessico-semantici particolarmente significativi quando il gobbino curva verso l’interno della valle. Ecco dunque che la bicicletta «si piega, scivola per il sentiero obliquo della china a destra, imbocca il viottolo fitto di siepi e vi sparisce come nella gola di un pescecane». L’itinerario può essere agevolmente rappresentato con una linea diritta rotta improvvisamente da una deviazione che conduce a un viottolo all’interno della vallata: «Nel viottolo, dopo la grande luce […] il gobbino provò un senso notturno di freddo, di buio, adesso bisognava andare adagio, perché il terreno era sabbioso ed umido»24. Sull’erba, tra i fiori alti e gialli […] [Adone] si sentiva tranquillo, come legato ad essi da una misteriosa simpatia. L’erba era la sua mamma, i fiori i suoi fratelli : e il cielo grande e azzurro, che qualche volta pareva sparso di piume bianche e gri­gie, era la volta della sua momentanea dimora.25

23.  G. Deledda, Il bacio del gobbino, in Ead., La casa del poeta, cit., p. 654. 24. Ivi, p. 654. 25.  G. Deledda, L’ombra del passato, cit., p. 58.

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Assieme all’idea di una natura positiva, c’è la confluenza mo­ ralistica di bello e bene che l’estetica postromantica aveva messo al bando. Peraltro, il locus amoenus non è circoscritto a un unico circuito narrativo, ma si articola in diversi momenti de­ scrittivi e si colora e complica di un’incerta caratura sentimentale, e così appaiono a distanza, disseminati nel testo, brandelli di paesaggio in un gioco di rifrazione metonimica. Attraverso uno svolgimento che separa ed elenca ciascuna componente del quadro, il locus amoenus finisce così per diffondersi e accrescersi; in realtà è una proiezione letteraria di re­minescenza bucolica di un luogo e di un tempo immobili nella breve felicitas. Se nei romanzi “lombardi” il perimetro del locus amoe­nus è li­mitato nonostante la sua dilatazione metonimica, la superficie disegnata dal lavoro è ben più ampia, ma si connota anch’essa come luogo esemplare. In L’ombra del passato alla domanda di Adone «La città è bella non è vero?», lo zio Giovanni risponde: «È bella sì, ma si vive meglio in campagna. Io ho provato a vivere in città. Ma poi so­ no scappato. Vi è tutto cattivo, tutto guasto o falsificato. Ho letto che ora falsificano le uova: le fanno a macchina»26. L’immagine di una città dove si corrompe ciò che in natura è autentico e inalterato riecheggia tesi presenti nei romanzi francesi e inglesi, e ri­pete insofferenze scapigliate consegnate alla tradizione letteraria, prima che da altri, da schemi mutuati dalla poesia di Baudelaire. L’icona dei luoghi del lavoro si profila attraverso riferimenti topografici precisi, attributi reali come «l’aja», «le foglie delle zucche», «l’osteria», «le stradiole», «le botteghe artigianali» al centro del paese, «la torre», ma viene ulteriormente irrobustita per l’uso di frequenti epiteti in luogo dei nomi propri tali da disegnare un ceto sociale composito eppure riferibile

26. Ivi, p. 17.

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a contesti specifici e con termini che riportano a un’esclusiva area geografica. Esclamazioni come «Corpu d’un Diu», «Ti dò uno scapaccione », «sgambirlo!», «El ghè, el ghè!», sollecitazioni come «Andom, sgambirlo!», qualificazioni vezzeggiative come «puttini», definizioni come «paisan» o «portinèr» in luogo di barcajuolo, e tante altre locuzioni idiomatiche da un lato rafforzano il verosimile, dall’altro qualificano proprio il campo d’azione. Che la scrittrice fosse riuscita nel suo intento risulta evidente dalle note di Ettore Macchi su Annalena Bilsini scritte per il centenario della sua nascita. Anche il titolo del breve intervento critico è significativo: Annalena Bilsini. Fiera contadina cicognarese27. L’autenticazione della verosimiglianza dei paesaggi e dell’ambiente operata dal Macchi non potrebbe essere più convinta e convincente, e dimostra la perfetta corrispondenza scritturale ai confini e caratteri di precisi spazi sociali tali che anche un

27.  Afferma il Macchi: «Il romanzo, prima ancora che l’inno alla santità e all’amore della famiglia, alla sanità fisica e morale dei suoi componenti, mi sembra l’inno alla terra, alla nostra terra, dato che il romanzo ha la sua ambientazione nella pianura padana, nella zona di confine tra la provincia di Mantova e quella di Cremona. In questo romanzo, il lavoro dei campi acquista quasi il valore di una religione. E sentite se non è il nostro ambiente, se non sono i nostri campi e i paesaggi a noi tanto noti e cari: “la raccolta del frumento fu discreta, e buona quella del granturco e dei foraggi: ma la speranza maggiore i Bilsini la riponevano nell’uva. Intanto non smettevano un giorno di lavorare”. […] Fin dalla prima pagina, senti subito l’ambiente, gli usi, la terminologia della zona mantovana di confine e precisamente Cicognara, di Roncadello e di Casalbellotto, che nel romanzo è semplicemente mutato in Casalotto. L’ambiente? Quello tipico che noi ben conosciamo: il S. Michele, per i traslochi invece del S. Martino, fabbricanti e commercianti di scope, distese di saggina accanto a quelle di grano e ai filari d’uva […] il costume così diffuso e così caro a quei paesi di offrire cordialmente e abbondantemente il vino […] invece del caffè e del tè, agli ospiti di qualsiasi rango» (E. Macchi, Grazia Deledda, cit., pp. 26-27).

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indigeno li riconoscesse come propri con l’uso del possessivo nostri. Ancora una volta l’uso della geografia è funzionale all’invenzione letteraria, nel senso che gli accadimenti avvengono in luoghi reali scelti e rivisitati da una sensibilità aderente alla veridicità, nonostante la trasfigurazione letteraria.

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La malattia

Nel 1936 G. Deledda scrive La chiesa della solitudine, una delle sue ultime opere; nello stesso anno, infatti, muore di cancro dopo aver subito l’operazione i cui echi si raccolgono proprio in quell’opera. La chiesa della solitudine non viene annoverata tra i suoi capolavori eppure possiede tratti distintivi presenti nei componimenti maggiori anche se si avverte la contiguità – ma non poteva essere diversamente – con la sua vicenda personale. Era troppo coinvolta, la scrittrice, in un evento che aveva cambiato la sua vita, per lasciare in ombra acuiti sentimenti religiosi o topoi già ampiamente proposti, la cui assenza, peraltro, avrebbe consentito uno svolgimento narrativo meno scontato. La protagonista, Concezione, ripete, anch’essa, moduli già visti pagando lo scotto dei riferimenti scopertamente cattolici o riferibili a un contesto dichiaratamente morale. A cominciare dal congedo dall’ospedale, il suo viaggio appare un cammino d’espiazione per una colpa lontana e la ripetizione di scelte masochistiche perseguite con ostinazione. Nel farsi della storia sembra d’essere già oltre l’umano, nel mezzo di un itinerario il cui esito è segnato, mentre il meccanismo dell’attesa viene quasi inibito e tutto pare già scritto fin dalle prime pagine. Lo

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scioglimento è prevedibile non solo perché è giusto che così sia in una logica cristiana, ma perché il canone narrativo sino a quel momento privilegiato non consente scelte diverse, ovvero uniformarsi a una narrazione di maniera. Se è vero che manca lo sviluppo è anche vero che non era quella la prima volta che l’autrice si cimentava in operazioni di un certo tipo, seppure con risoluzioni differenti. D’altra parte, nei tempi in cui scriveva, la malattia era un invito tematico troppo ghiotto al quale sfuggire, pena il ritrovarsi senza un richiamo avvincente, per quanto non privo di una certa morbosità. Senza considerare che già grandi autori avevano privilegiato quel tema tra gli altri e i protagonisti di troppe opere avevano smesso le vesti dell’eroe per rivestire quelle più umane e sicuramente più attraenti del debole e ammalato. Certamente D’Annunzio insegnava ancora il mestiere del Superuomo, e tuttavia lo spirito di certo crepuscolarismo faceva presa, così come alcuni non-eroi o eroi deboli di Thomas Mann. Fin dalla scrittura di Colombi e sparvieri Deledda aveva dimostrato la predilezione per quell’argomento con la scelta meditata del protagonista Jorgi, vicino al quale si muovono due personaggi femminili con ruoli diversi ma anche complementari nella consueta duplicazione del carattere donnesco. In La chiesa della solitudine, invece, la malattia è di una donna ferma nell’abbandono dei piaceri della vita e di uno in particolare, l’amore, verso il quale è attratta ma al quale rinuncia. La specularità con Jorgi è chiarissima. Colombi e sparvieri, romanzo per il quale la scrittrice nutriva fondate aspettative, è considerato tra i migliori non solo per la complessità strutturale e l’originalità di qualche soluzione stilistica – come ad esempio l’introduzione della narrazione in prima persona del protagonista Jorgi – ma anche per la persistente introspezione psicologica e la presenza di alcune tematiche sviluppate in modo differente rispetto ad altre opere.

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I felici intrecci strutturali relativi agli spazi e i rimandi all’articolata psicologia del protagonista, insieme ai riferimenti a caratteristiche antropologiche e a echi più propriamente storici, depongono a favore della complessità semantica e rendono convincente l’intreccio. Tuttavia, l’elemento di spicco è certamente Jorgi che si configura vittima ed eroe, povero tra i poveri in una ripetizione del pharmacós, figura Christi. Il suo negarsi alla storia nel condurre una misera vita all’interno della sua abitazione diventa occasione per la storia. Il pervicace rifiuto ad accogliere soluzioni quasi necessarie, come l’obbedire alle leggi dell’ineludibile codice barbaricino, determina la reazione di quanti gli stanno intorno, ma a muovere all’azione i personaggi sono la curiosità e l’odio piuttosto che i buoni sentimenti. Per queste ragioni Jorgi può essere considerato un principio dinamico passivo poiché sollecita le risposte degli altri pur sottraendosi a loro, mentre, ovviamente, la stasi prevale sul moto e la sua casa diventa luogo di intreccio di relazioni o replica dei rapporti che fuori si intessono e che lo riguardano, nonostante tutto. Egli è malato, si diceva, ma di quale malattia? Pretu, «il servetto» così riferisce: «Dicevano che vi siete ammalato perché il nuovo fidanzato di Columba, quella che era la vostra sposa, sapete, vi ha legato, cioè vi ha fatto una malìa»1. Giorgio, invece, parla del suo male con prete Defraia in questo modo: «Il medico dice ch’è una forma di nevrastenia acutissima: forse e senza forse questa è una menzogna pietosa. Io credo che sia una paralisi»2.

1.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., p. 159. 2.  Ivi, p. 162.

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Il sacerdote, a sua volta, interpreta così le sue parole: «Una paralisi non le avrebbe prodotto questi effetti: sì, deve essere una forma di nevrastenia, […] la malattia del secolo»3. La paralisi dell’azione, sia essa dovuta alla malattia sia essa conseguente a un meditato rifiuto di aderire al codice della vendetta, si connota come follia ed estraneità ai valori di una società con l’ipotesi del contemporaneo rovesciamento di senso, carnevale eventualmente incontrollabile e tanto più erosivo in quanto scaturito da un membro di quella stessa società. Ma quale rapporto intrattiene Jorgi con le protagoniste femminili? Inizialmente egli attribuisce esclusiva precedenza alla passione per la fidanzata Columba, ma questa priorità cede il passo all’amore per Dio e a un collaterale riconoscimento di valori alternativi. Il motivo è da ricercarsi nella serie di disavventure in cui la donna, suo malgrado, è implicata. Vi è fin qui, implicita, una mutata – pessimistica – rappresentazione del mondo. Mariana, viceversa, potenzia il topos della donna angelo, figura salvifica con effetti taumaturgici, mentre la contemporanea presenza di due donne dal carattere opposto concorre a ribadire la consueta ambiguità femminile. La riproposta della duplicità ca­ratteriale risponde, forse, a uno schematismo di comodo così come all’adesione a forme consacrate da una lunga tradizione culturale che affonda le sue radici nella Bibbia, ma consente innegabilmente la descrizione di psicologie complesse e dà lievi­to alla narrazione per le ulteriori dinamiche interne che si stabiliscono e le soluzioni alternative che si rendono possibili. In Elias Portolu, romanzo pubblicato nel 1903, la fidanzata di Pietro, Maddalena, viene presentata senza intermediazio3.  Ibidem.

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ni prospettiche con «la bocca sensuale e gli occhi obliqui e socchiusi, un po’ voluttuosi»4. Se nessun diaframma scompone la sua fisionomia non si può negare che l’aggettivo sensuale riferito al­la bocca serva a caratterizzare meglio l’intero personaggio. Questa qualità viene anzi riconfermata e quasi amplificata dal successivo voluttuosi riferito agli occhi che sono, per giunta, obliqui e socchiusi e lasciano presagire insieme qualcosa di ignoto, oscuro, e tuttavia conturbante e desiderabile. L’obliquità, peraltro, è connotazione spaziale dai forti rimandi morali. Inoltre l’uso del verbo affascinavano, semanticamente complesso, rimanda al significato in lingua italiana ma raccoglie anche gli echi del sardo dove fascino si declina e complica in malìa. La fascinazione a questo punto indica un effetto nefasto perché determina la perdita dell’autonomia personale a tutto favore d’altri. Chi cade preda di fascinazione – di malìa – è dunque destinato a percorrere strade oblique anch’esse nella riedizione di archetipi religiosi profondamente radicati nella cultura occidentale. Ma la malattia di Jorgi è innanzitutto una malattia senza frontiere. È, insieme, portato antropologico e occasione di uniformità con altre culture, e Deledda ne era pienamente cosciente se la nevrastenia di cui soffre il protagonista è la malattia del secolo nella definizione di Prete Defraia, l’intellettuale del romanzo, alla pari con lo stesso Jorgi, studente. Singolare risulta il tempismo, se così si può definire, della scrittrice. Il suo romanzo, infatti, anticipa di molto la pubblicazione, avvenuta nel 1923, di La coscienza di Zeno di Italo Svevo. La proposta della pubblicazione di Colombi e sparvieri in appendice al «Corriere della Sera» è contenuta in due lettere diverse, la prima del 27 maggio del 1911, la seconda del

4.  G. Deledda, Elias Portolu, in Ead., Romanzi e racconti, vol. I, cit., p. 39.

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6 giugno dello stesso anno, entrambe da Roma5. L’opera uscì, invece, sulla «Nuova Antologia» tra gennaio e marzo dell’anno successivo. Non si tratta, ovviamente, di congetturare su similarità fra romanzi così diversi e, tuttavia, non si può ignorare la sensibilità della scrittrice alle tematiche più attuali e la loro anti­ cipazione rispetto a quanti hanno operato in altri ambiti e con altre opportunità. È certo, in ogni caso, che con Jorgi ci si trova di fronte a un’insolita declinazione del motivo dell’inetto e dunque è quanto mai opportuno non circoscrivere in angusti ambiti culturali soluzioni che oggettivamente sono all’avanguardia. Già Giuseppe Antonio Borgese, con la perspicacia che lo caratterizzava, a suo tempo aveva parlato del trinomio Verga Tozzi Deledda per le caratteristiche che li accomunavano. In realtà il Borgese, in un lontano articolo rispose indirettamente e una volta per tutte affermando che per spiriti come Deledda «le mode hanno il valore di abiti; smessi o da smettere; tanto più belli quanto più paiono nuovi: sotto, rimangono uguali. E cosa si può dire di meglio a un artista?». Ma il Borgese non creò scuole o correnti o fazioni […] e intese, a sua volta, il fenomeno letterario con una intensità e una dirittura insolite e rare […] e non fu casuale il titolo di una successiva raccolta, del 1924: Tempo di edificare, iniziato nel nome di Giovanni Verga definito «l’edificatore, del vecchio tempo, più devoto e paziente», e dedicato alla cara memoria di Federico Tozzi, «uno dei primissimi edificatori della nuova giornata letteraria d’Italia». E tanto in Verga come nel Tozzi e in Deledda, il Borgese vedeva le espressioni di quella stupenda fio­ritura del romanzo

5. Cfr. P. Zambon - P.L. Renai, Preliminare di indagine sulle novelle di G. Deledda per il «Corriere della Sera» (1909-1914), in «Problemi», XIX, n. 79, 1987, pp. 138-157.

107 popolaresco che la moda ha seppellito ma che la gloria un giorno o l’altro risusciterà.6

A questo del Borgese va senz’altro aggiunto l’ulteriore trinomio Deledda Tozzi Svevo, almeno relativamente al tema del­ l’inettitudine. Accanto a quello tozziano e sveviano è infatti ve­rosimile porre un inetto deleddiano. L’inazione di Jorgi e la sua volontà malata confermano la presenza della noluntas schopenhaueriana e sono in sintonia con il ri­fiuto di misurarsi con l’esistente. Quando si operano questi ri­mandi e si propongono comparazioni non si vogliono, in ogni ca­so, affermare priorità stilistiche o entrare nel merito di valori differenti. Ferme restando le peculiarità che rendono gli intel­lettuali in questione interpreti originali nel panorama del nove­cento e nei rispettivi ambiti culturali e geografici, si deve poter affermare con forza che le soluzioni tematiche possono essere univoche mentre la loro interpretazione viene tradotta da sensi­bilità e linguaggi diversi. È certo che in Deledda il super-io sociale non può essere rappresentato dalla moneta capitalista, così come è vero che manca la polemica antiborghese presente in Svevo, ma è vero anche che nella scrittrice è ugualmente la società a creare la malattia. Quando si lascia intendere che non c’è altra possibilità di guarigione che nell’integrazione all’interno dei valori di una società arcaica è allora che si dimostra l’efficacia della polemica.7 Incapace di vivere virilmente il momento presente, il personaggio disadattato e colpevole si rifugia nell’inazione e nel sogno di santità e innocenza di una società senza conflitti. Una sorta 6.  G.A. Borgese, La vita e il libro. Saggi di letteratura e di cultura contemporanee (1909-1910), in N. Valle, Grazia Deledda, intr. di B. Tecchi, Società Poligrafica Sarda, Cagliari, già presente in Id., Antichi e moderni, Società Poligrafica Sarda, Cagliari 1971, pp. 174-175. 7.  Sull’inettitudine dei personaggi di Italo Svevo, si veda S. Maxia, Lettura di Italo Svevo, Liviana, Padova 1965.

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di senilità, dunque, in cui la mancanza d’azione si configura come passaggio nella vita attraverso la sua negazione. Il ricorso a Dio, «Io sto davanti a Dio, zia Giusé! Egli solo può rendermi giustizia!»8, altro non sarebbe che il desiderio di demandare ad altri – fossero pure Dio – la possibilità di scelte personali. Con il suo invito: «Ma tu non stare così, come le lucertole sotto la pietra. Un uomo deve sempre difendere il suo onore»9, Zia Giuseppa si colloca, stilisticamente, nell’am­ bito di un riconoscibile realismo e manifesta, nella sua forma di parlante popolare, l’assunzione di un punto di vista corale in cui se si è uomini bisogna agire. Secondo questa logica chi non agisce non è uomo ma lucertola. Dietro la similitudine c’è la lezione di Verga ma dietro ai contenuti c’è Freud anche, e tanto decadentismo. Una lezione ripresa e adattata a una realtà antropologicamente caratterizzata, in perfetta aderenza e rispetto a norme, valori e luoghi naturali e psicologici specifici. Il ricorso stesso a soluzioni esterne, come l’arrivo risolutorio di Mariana, non è il tributo alla soluzione di una palingenesi di comodo dal sapore esclusivamente cristiano ma, in quest’ottica, si configura apporto significante all’inettitudine portata al successo. Intanto, però, è utile precisare che la donna assume su di sé l’intero peso della malattia, mentre l’uomo viene aiutato nel suo percorso da creature femminili e grazie ad esse trova modo di ristabilirsi. È anche possibile che dietro il racconto di tale vicenda si voglia rappresentare una sorta di aberrante darwinismo sociale. Potrebbe essere tesi suggestiva, ma in ogni caso è certo che la donna rappresenta una scommessa vincente. Infatti costruisce 8.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., p. 153. 9. Ivi, p. 155.

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varchi tra le asfissianti norme collettive pur senza realizzare mutamenti sociali definitivi. A questo proposito, non bisogna dimenticare il discorso con cui Deledda apriva Tradizioni popolari di Nuoro in cui dava un giudizio sulla popolazione del nuorese10. Sulla base di quanto la scrittrice affermava, l’uomo barbaricino, in conformità con le leggi non scritte della balentia, deve dimostrarsi giustiziere – eroe romantico in sostituzione di una giustizia spesso assente. Ma in questo romanzo, entrando in gioco la religione e il suo dettato morale, si riconosce l’ambiguo rapporto con il divino, dove l’ambiguità regola l’indistinzione tra la maledizione e la fatalità e dimostra l’incertezza sullo status del protagonista e sulle sue scelte. Quando Dio o il destino entrano nel mondo per istituire un ordine alternativo a quello esistente, ecco che il divino si pone come la dimensione problematica dell’uomo di fronte all’azione. Da ciò nasce la necessità di sentirsi fuori dal mondo. Di fronte all’inettitudine di Jorgi, vera e propria malattia sociale che nella società troverà i propri anticorpi, si pone la malattia di Concezione. Già Verga aveva rappresentato il tumore di Mastro-Don Gesualdo, e dunque dal punto di vista dell’adesione a tematiche già percorse Deledda poteva considerarsi perfettamente in regola, ma la malattia questa volta è tipicamente femminile e implica rinunce differenti da quelle pretese da altri tipi di tumore. In questo caso si tratta della rinuncia alle prerogative della propria femminilità. Bandito il matrimonio insieme all’aspirazione all’amore, non resta che rintanarsi nella propria abitazione e coltivare quella che, per altri versi, è una variante dell’inettitudine maschile.

10.  G. Deledda, Tradizioni popolari di Nuoro, cit., pp. 42-45.

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Il desiderio di realizzarsi viene conculcato, ma questa volta non si tratta come per Jorgi di fastidio della vita, di senescenza della speranza. Questa volta c’è la forza di una coercizione praticata volontariamente. Tuttavia, sebbene mutilata, offesa nel corpo e nella mente, Concezione non rifiuta di misurarsi con i rischi della vita. È vero che gli uomini che pretendono da lei un impegno amoroso sono poco autorevoli e dunque poco attraenti, Aroldo, però, non viene completamente dimenticato. Le stesse abluzioni, descritte in modo dettagliato, sono il sintomo di una cura del corpo che, rinnegata a parole, viene ribadita nei fatti. Vale la pena di riportare il brano nella sua interezza per significare l’importanza che esso assume nell’economia del racconto. Più tardi, mentre la madre preparava i ravioli tradizionali, di cacio fresco e mentuccia, Concezione fece scaldare un paiolino d’acqua per lavarsi. Bisognava pur fare un po’ di pulizia personale, dare anche al corpo la sua parte di freschezza e di rinnovamento. Mentre l’acqua si scalda, Concezione, davanti alla finestruola della camera, si scioglie i capelli, li divide, li manda tutti giù sul viso e sul petto come una tenda nera: col pettine grosso, col pettine fitto, con un’antica spazzola da panni, ne fa cadere una nevicata di forfora; poi li ricacciò indietro e ripeté la faccenda, fino ad arrossare la cute, che infine strofinò con un fazzoletto bagnato e insaponato: mezzi primitivi, che tuttavia le lasciarono i capelli freschi e gonfi come acconciati da un abile parrucchiere.11

Chi leggesse la descrizione di Zoraide, la protagonista di La meccanica di Carlo Emilio Gadda, autore che per scelte tematiche e stilistiche si pone agli antipodi del narrare deleddiano, 11.  G. Deledda, La chiesa della solitudine, cit. pp. 94-96.

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sarebbe sorpreso per le similarità, mutatis mutandis, delle operazioni suddette condotte da due personaggi femminili tanto diversi.12 D’altra parte, nessuna meraviglia se la scrittrice, attenta a cogliere le nuove tendenze, si pone in questo caso dentro a quel vitalismo rappresentato da una figura femminile tenace e capace, per certi aspetti, di ribellarsi all’ipocrisia borghese come dimostrerà quando rifiuterà matrimoni di comodo con una coerenza inflessibile, seppure dentro alle scelte cristiane dettate dal credo dell’autrice stessa. Da questo punto di vista, tuttavia, Deledda è tutta dentro un filone che partendo da Italo Svevo e Aldo Palazzeschi, continuava in «Solaria» attraverso Giovanni Comisso e il primo Elio Vittorini e che confluiva, in quegli anni, nell’esaltazione della vitalità dell’infanzia e nel mito dell’America di cui pure vi è traccia nel romanzo L’ombra del passato. In ogni caso il prosieguo della descrizione è la miglior prova dell’ottimismo verso un futuro pieno di promesse e certamente non può non sorprendere che a rappresentare la sanità sia un’ammalata, che a dire la forza incoercibile del sentimento amoroso, quello del passato e dell’avvenire, sia chi ha subito una mutilazione dell’attributo femminile per eccellenza, talmente ricco di significati simbolici da rendere superflua qualunque altra considerazione. E portato in camera il paiolino chiuse a chiave l’uscio: adesso si trattava di fare le abluzioni, e cinque litri d’acqua le sembrarono anche troppi. Lentamente, con ordine, le sue vesti furono stese sulla sponda del letto: il corpetto di lana, la camicetta di cotone a quadretti bianchi e blu; e poi un altro corpetto di tela con una parvenza di merletto alla scollatura, e il sottanino di lana a maglia, e infine la camicia lunga e larga come la mi-

12.  C.E. Gadda, La meccanica, Garzanti, Milano 1991, pp. 11-12.

112 sericordia divina. E apparve tutta nuda, bruna ma lucida, col seno che le mancava; pareva un’amazzone di bronzo dorato. E con l’agilità pronta di un’amazzone ella si piegava e sollevava, strofinandosi con un panno insaponato le gambe lunghe e sottili, le ginocchia piccole dove appariva un po’ di rosso come su una melagrana che comincia a maturare, sul ventre piatto quasi rientrante, sotto le ascelle pulite come quelle di una bambina. Infine, trattandosi delle spalle, il panno vi fu buttato a tracolla; e su e giù, e su e giù, dall’omero all’ascella opposta, l’abluzione fu completa; e l’asciugatoio non fu risparmiato, tanto che lasciò qualche striscia rossa sul bel dorso e i fianchi rabbrividenti. Brividi piacevoli, ai quali seguiva un senso di caldo, tanto caldo che ella avrebbe voluto restare nuda coi capelli sciolti umidi come di rugiada. Le pareva di essere tornata fanciulla, quando correva all’appuntamento dietro i ciglioni bianchi di margheritine; e le parole e i consigli di Serafino, nonostante il seno mutilato e il ricordo degli ammonimenti del dottore dell’ospedale, le davano un calore di gioia. Vivere; voleva vivere; amare, dimenticare le sue pene e i suoi scrupoli. Gli occhi di Aroldo le sorridevano nell’azzurro della piccola finestra; e il pensiero di richiamarlo non le sembrava più tanto innaturale.13

Tralasciando le precisazioni riguardo alla figura e alla psicologia femminile, abilmente disegnate per lo scivolamento del punto di vista che, inizialmente ab esteriore, procede ab interiore, è facile riconoscere in Concezione l’aspirazione a una vita libera dalle coercizioni che la mutilazione impone. La narrazione minuziosa ha lo scopo di esibire un corpo giovane e non può certo dirsi oziosa; infatti nell’impianto del racconto occupa uno spazio più significativo di un sommario narrativo in cui la narrazione avanzi sveltamente. La pausa apparente è, in realtà, luogo dove si coagulano le contraddizioni della vicenda e in cui si assiste alla contemporanea affermazio-

13.  G. Deledda, La chiesa della solitudine, cit., pp. 94-96.

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ne di femminilità e bellezza e alla presenza della malattia che quelle nega. Per tutto questo, l’ostentazione dei sensi temporaneamente soddisfatti si configura come il fuggevole tentativo di eludere il proprio destino, mentre l’alternativa sarebbe rinnegare la vita e porsi nella prospettiva dell’oltremondo. Diversamente da altri, in questo romanzo viene affermato il ruolo femminile di aspirante madre, pertanto, nel momento in cui manca la scelta di poterlo diventare se la sorte ne offre la possibilità, non resta che chiudersi spazialmente e interiormente in un’attesa sterile. In questo modo si potenzia un ruolo altre volte posto in secondo piano, ma mai negato aprioristicamente. Concezione è dunque paradigma della rinuncia se la vita compromette le potenzialità che la natura generalmente offre, e attraverso la sua vicenda si esprime il declino dell’esistenza. La conclusione è anch’essa senza speranza poiché la malattia diventa ragione di vita proprio quando l’essere ammalati ne è la negazione. È tuttavia interessante leggere la malattia di Concezione con i parametri offerti da Susan Sontag, per la quale: Come un tempo si riteneva che la tbc derivasse da un eccesso di passione, e colpisse gli spericolati e i sensuali, così oggi molti credono che il cancro sia una malattia della passione insufficiente, e colpisca le persone sessualmente represse, inibite, prive di spontaneità, incapaci di esprimere collera. Queste diagnosi apparentemente opposte sono in realtà versioni non tanto differenti di una stessa concezione (e meritano, a mio parere, lo stesso credito). Entrambe le spiegazioni psicologiche sottolineano infatti l’insufficienza o la deformazione dell’energia vitale. La tbc era celebrata come malattia di passione, ma era anche considerata malattia di repressione. […] Come ora si vede nel cancro il salario della repressione, così si spiegava un tempo la tbc come conseguenza rovinosa della frustrazione. Oggi c’è chi crede che una cosiddetta vita sessuale liberata tenga lontano il cancro, praticamente per la stessa ragione che portava a prescrivere ai tubercolotici frequenti rapporti ses-

114 suali a fini terapeutici. […] Secondo la mitologia del cancro, è generalmente una repressione costante degli istinti a provocare la malattia.14

Tutt’altra interpretazione propone un’altra scrittrice, Gianna Manzini, per un certo periodo contemporanea di Deledda essendo nata a Pistoia nel 1896. Secondo il suo modo di vedere, infatti, la malattia potenzia le doti femminili, affina la sensibilità e in qualche modo sollecita all’azione. La tematica in oggetto è una delle costanti della sua narrativa e così in Gelosia, un racconto di Incontro col falco, si afferma che una donna è veramente donna quand’è malata, ma questa affermazione che può sembrare sorprendente comporta evidentemente un’esaltazione della malattia nel senso che affina le qualità tipicamente femminili fino ad arricchire la donna di una profonda sensibilità poiché è sì causa di debilitazione fisica ma nel contempo crea orizzonti vasti e profondi, quelli che i sani non hanno nonostante siano in possesso della serenità propria della salute.15

Dunque, la malattia è un momento qualificante della vita mentre in sua assenza c’è lo scontato grigiore di una vita familiare vissuta tra persone sbiadite e prive di spessore intellettuale. È appena il caso di dire che a determinare concezioni così diverse in intellettuali che vivono nel medesimo periodo concorrono fattori differenti a partire dall’ambiente di provenienza fino a ragioni d’ordine stilistico, ma è anche opportuno ricordare che sotto il cielo della Sardegna il ruolo della donna veniva interpretato in modi storicamente definiti. La stessa economia familiare poggiava altresì sul lavoro femminile e certo la malattia veniva vissuta come possibile impo14.  S. Sontag, Malattia come metafora. Aids e cancro, tr. it. di E. Capriolo e C. Novella, Einaudi, Torino 1992, pp. 22-23. 15.  G. Manzini, Incontro col falco, Corbaccio, Milano 1929, p. 49.

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verimento e mancanza oggettiva di braccia lavorative; in ogni caso l’universo antropologico trova parziale risoluzione nei camuffamenti delle riproduzioni artistiche. Nel caso in questione si deve affermare che il nucleo centrale dell’immaginario deleddiano è certamente la Sardegna, prima che geografico, luogo di modelli di una consuetudine culturale calata in un sostrato antropologico laico e religioso insieme. È vero anche che il riferimento a dati biografici si rende necessario quando si considerino i diversi periodi dell’attività della scrittrice, a partire dall’osservazione che da diversi anni si era allontanata dalla Sardegna. Di certo aveva elaborato l’idea del distacco fisico dalla realtà strettamente contingente favorendo nel contempo l’affermarsi di un rapporto profondamente spirituale in cui l’immagine dell’isola sfumava fino ad acquistare una connotazione leggendaria e mitica. Una Sardegna frutto di un’operazione della memoria, immutabile ma sfumata nei suoi orizzonti realistici, più simbolo che luogo concreto, ma anche occasione per una reiterata affermazione di valori inalterabili. Di più, quanto detto chiarisce che la malattia riveste funzioni e ruoli diversi, da quello di protagonista a tutti gli effetti per il nuovo impulso all’azione come in La chiesa della solitudine, a quello di importante comprimaria come in Colombi e sparvieri. Se nell’esordio di entrambi i romanzi il tema funge da movente per capovolgimenti di ipotesi iniziali o ribaltamenti di prevedibili prassi esistenziali, in Cenere, non già nel prologo o nella parte mediana bensì nell’epilogo – l’ottavo capitolo –, dà ulteriore stimolo al mutamento di situazioni altrimenti carenti di ampiezza narrativa, divenendo risolutiva della storia.16 16.  G. Deledda, Cenere, cit., pp. 170-197.

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In ogni caso, mentre i protagonisti dei primi due romanzi sono posseduti dalla malattia al punto da farne il fulcro della loro esistenza e motore dell’azione anche nel suo produrre una stasi apparente, in Cenere per Zia Grathia la malattia diventa l’occasione per ammorbidire posizioni pregresse rendendo possibile l’incontro di Anania con Olì. Zia Grathia, infatti, non avrebbe acconsentito all’appuntamento fra madre e figlio se non in conseguenza del precario stato di salute della donna. In altre parole, la malattia non si presenta come opportunità narrativa primaria ma è ulteriore possibilità al definirsi della psicologia dei protagonisti e apporto al caratterizzarsi dell’azione. Realizzazione di presupposti narrativi, dunque, perché in essa e con essa i protagonisti dichiarano status psicologici fino allora incompiuti e, insieme, si accostano a personaggi che altrimenti esaurirebbero presto le potenzialità implicite nella storia. Nel caso di Cenere Zia Grathia non avrebbe modo di riapparire, Olì sarebbe poco persuasa alla conclusione della vicenda e lo stesso Anania non misurerebbe lo spessore di sentimenti e pulsioni contrastanti in mancanza del ritratto della madre sofferente. Coagulo di reazioni, punto culminante della storia ed eventualità narrativa soddisfatta, la malattia è il crocevia di possibili narrativi supplementari. Canne al vento ribadisce ciò che si è detto. Risale proprio al diciassettesimo capitolo la narrazione della malattia di Efix e lo scioglimento della vicenda. L’ampio sogno del vecchio servo sarebbe privo dello spessore simbolico se perdesse il carattere di delirio dovuto alla febbre, così come il desiderio della confessione risulterebbe meno urgente se mancasse la spinta della malattia. Ma la malattia stimola, anche qui, nuove opportunità. La confessione stessa non è, propriamente, un fatto automatico e immediatamente conseguente all’aggravarsi delle condizioni di

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salute perché, in un primo momento, Efix tenta di sottrarsi alla sua impellenza. La consapevolezza della sua necessità è dunque la conclusione di un percorso inizialmente refrattario: [Ester] “Efix, anima mia, vuoi che chiamiamo prete Paskale? Ti leggerà il Vangelo e questo ti solleverà…”. Ma Efix la guardava fisso, con gli occhi vitrei nel viso nero brillante di gocce di sudore; il terrore della fine lo soffocava, aveva paura che l’anima gli sfuggisse d’improvviso dal corpo, come era fuggito lui dalla casa dei suoi padroni, e scacciata dal mondo dei giusti si mettesse a vagabondare inquieta e dannata coi fantasmi della valle; eppure rispose di no, di no. Non voleva il prete: più che della morte e della sua dannazione aveva paura di rivelare il suo segreto.17

Dilazione allo scioglimento è, tuttavia, in una contraddizione solo apparente, sua sollecitazione, il morbo – la compromissione del fegato – consente l’allungamento e la maggiore articolazione di spazi narrativi e si determina come sfondo del matrimonio di Noemi narrato attraverso gli occhi malati di Efix. Rende inoltre possibili la riconsegna alla storia dello stesso Giacinto e le riflessioni altrimenti edulcorate e sfumate che invece acquistano quella consistenza che lo stesso titolo in sintesi certifica, vera filosofia di vita e linfa dell’opera. Sia in Cenere che in Canne al vento, tuttavia, la malattia è conseguente alle condizioni ambientali e al genere di vita che i personaggi conducono. Il riferimento alla povertà e ai mali endemici di zone malsane della Sardegna è evidente così come è evidente il tributo che per questa via la scrittrice paga a certo naturalismo. È certo, infatti, che la vita di Olì, condotta fra gli stenti e la povertà, dovesse portare quasi necessariamente a soluzioni di un certo tipo perché una vita malata, come ben

17.  G. Deledda, Canne al vento, cit., p. 541.

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certifica il duro giudizio di Anania, è il luogo dove la malattia fisica assume una valenza morale, ne diventa anzi la metafora. Anania si turbò nell’udire quella voce: era ancora la voce d’un tempo, sì, la voce lontana, la voce di lei. Sì, quella donna era lei, era lei, la madre, la sola, la vera, l’unica madre! Era la carne della sua carne, il membro malato, il viscere fracido che lo straziava, ma dal quale non poteva staccarsi senza lasciar la vita.18

Ecco che le scelte di Deledda diventano sintomatiche della curiosità e apertura a soluzioni diverse pur nello stesso ambito tematico. Obbediente a canoni già dati e rispettosa dei tributi che l’ambiente di provenienza richiedeva, la scrittrice è nel contempo originale interprete di istanze più ampie che si riferiscono a un più vasto ambito culturale e di cui sono prova gli atteggiamenti improntati all’inettitudine e le malattie nervose.

18.  G. Deledda, Cenere, cit., p. 179.

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La religiosità

Chiunque venga chiamato a dare lettura di una tematica ampia com’è la religiosità in Grazia Deledda, pone a sé stesso l’esigenza di scegliere un itinerario per non ripetere strade già ampiamente percorse. D’altra parte, il rischio di soffermarsi a lungo su una materia così complessa è dato dalla monumentalità stessa della sua opera. Il concetto di religiosità, peraltro, si deve intendere in un senso vasto, e comprende di volta in volta: 1.  l’adesione e l’obbedienza, anche farisaica, a precetti, riti e liturgia della chiesa, 2.  l’osservanza dei canoni che regolano la civile convivenza in una società, nella fattispecie quella sarda, che si basa su un assetto connotato secondo un riconoscibile ordine morale, 3.  un più intimo ossequio alle norme religiose. In particolare, nell’ambito deleddiano si colloca anche la memoria – riaffermata attraverso la scrittura – di una superstizione che si declina in riti scaramantici, spesso fraintendimento della religione ufficiale per la necessità di risoluzioni tempestive legate alla quotidianità e all’urgenza di un’immediata tutela, pur nell’attesa fiduciosa e incrollabile di un più lontano miracolo, ritenuto possibile nel pieno abbandono fideistico.

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Dietro alla superstizione, peraltro, è facilmente riconoscibile la sopravvivenza di un paganesimo certamente sublimato ma non completamente superato, e quel timore panico che accompagna da sempre il concetto stesso di sacer, rispetto e paura insieme. Che le opere di Grazia Deledda abbiano una profonda valenza morale è indubitabile; che questa sia nata da esperienze prima di tutto individuali è chiaro, come è altrettanto chiaro che le stesse letture cui si era conformata nel lungo periodo di apprendistato letterario avessero rafforzato la naturale religiosità. In particolare, dietro alcuni capolavori s’intravede Dostoevskij come, ad esempio, nel XV capitolo di Canne al vento. Lo stesso Nicola Tanda, e con lui tanti altri, sottolinea l’omologia tra i russi e Deledda relativamente «al sentimento di colpa e [al] desiderio di riscatto»1. Tanda, che pure non vuole parlare di religiosità, afferma, citando Carlo Bo, che «la stessa sua religione è il legame eterno tra gli uomini e gli eventi, dove non ci sono vincitori, ad eccezione del dolore che solo ci porta all’invocazione di Dio e soprattutto della sua volontà»2. Alle domande, tutte ugualmente legittime: 1.  Da che cosa nasce questo bisogno di religiosità? 2.  Può essere, quella della scrittrice e dei personaggi – per effetto di un prevedibile rispecchiamento – la religiosità confidente e ingenua dell’abbandono ottimistico a Dio in ogni tempo della propria esistenza? 3.  È invece, un rivolgersi a Dio solo dopo aver commesso il peccato in un percorso di espiazione che ristabilisca il patto violato, secondo procedure più bibliche che evangeliche?

1.  N. Tanda, La Deledda a Roma, in Grazia Deledda a 70 anni dal Nobel, Atti del Convegno “G. Deledda”, Galtellì, 25-27 ottobre 1996, Comune di Galtellì-Puddu & Congiu, Galtellì-Senorbì 1999, p. 65. Dello stesso autore si veda: Spiritualità nella letteratura sarda contemporanea, in «Nae», II, n. 9, 2004, pp. 9-13. 2.  N. Tanda, La Deledda a Roma, cit., p. 65.

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4.  Chi s’intravede in trasparenza: il Dio biblico o il Cristo della redenzione? si devono dare risposte differenti per il fatto che le opere stesse sono diverse. Nonostante risulti difficile tracciare un itinerario articolato secondo categorie di successione temporale nell’ipotesi di scoprire motivi che, prima solo in nuce, trovino poi modi e tempi per uno sviluppo compiuto, tuttavia si devono riconoscere, accanto a soluzioni semplici, forme più sottili e complesse che rispondono alla molteplicità delle sollecitazioni. In Anime oneste del 1896 era stato detto «l’uomo pecca, e nel peccato è già il suo castigo»3, mentre da Il vecchio della montagna in poi, cioè a partire dal 1900, viene svolto il tema predominante «il male che si fa, si sconta prima di tutto in questa vita». Sembrerebbe dunque che l’unica alternativa a questo rischio sempre incombente sia non commettere il male. Ma nell’universo deleddiano, dominato dalle passioni incoercibili, la risposta a questa richiesta non può che essere negativa, e dunque, una volta commesso il male, bisogna pagarne il fio. Afferma Bonaventura Tecchi: «L’uomo pecca, e già nel peccato è il suo castigo. Accettare il rimorso come dolore; e il dolore – qualunque siano le sue forme: segreto assillo o mortificazioni esterne – accettarlo come espiazione, sino in fondo». E sempre Tecchi: «Il dramma, cioè la presenza del male, è il destino del mondo che la scrittrice rappresenta, dove le passioni nascono nel silenzio e nella solitudine»4. Vicina in questo al pensiero contemporaneo, Deledda ammette il male come fatto. Se questa per molti versi poteva essere la 3.  G. Deledda, Anime oneste, Editrice «L’Unione Sarda», Cagliari 2004, p. 99. 4.  B. Tecchi, Introduzione, in N. Valle, Grazia Deledda, cit., pp. 34-35.

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posizione di Federigo Tozzi (intellettuale che la scrittrice ben conosceva e a cui viene appaiata insieme al Verga dal Borgese) Dostoevskij, lo scrittore più problematico al quale si accosta proprio relativamente al problema del male, ritiene che la sua presenza nel mondo conduca inevitabilmente a porre il problema di Dio e della relazione dell’uomo con Lui. E questo perché – secondo Dostoevskij – il male è frutto di una libertà che si sottrae all’essere da cui proviene e si fa essa stessa assoluta. Nell’interpretazione di Antonio Pieretti «si fonda cioè sul rifiuto, da parte dell’uomo, di sottomettere la propria libertà alla norma divina […]. Il male, riguardato nella prospettiva cristiana, si rivela dunque come l’evento umano mediante il quale la creatura si pone al posto del Creatore»5. La libertà che rifiuta la norma ricevuta è una libertà che si fa incondizionata e con ciò stesso si pone al posto di Dio. I casi di Raskol’nikov, di Stavrogin, di Kirillov e di Ivan sono altrettanto emblematici perché spiegano la colpa come assunzione di una libertà «tracotante» che pone in discussione la norma e Dio stesso. Nell’opera deleddiana questa prospettiva viene a essere capovolta. Emerge, cioè, la mancanza di una siffatta consapevolezza, nel senso che i vari protagonisti si lasciano condurre dalle passioni per effetto di una malìa che promana da una donna, spesso Eva piuttosto che Maria, e indotti da quella forza inesorabile che si chiama destino. Il destino può, a questo livello, rientrare nello stesso ambito semantico del male. Non si dà solamente l’antagonismo di due realtà strettamente associate: la colpa e l’infelicità, il peccato e la sofferenza, la malvagità e la pena, il criminale e la vittima. «Il male nel mondo affonda le sue radici in un ancora più oscu-

5.  A. Pieretti, Introduzione, in Id. (a cura di), Giobbe: il problema del male nel pensiero contemporaneo, Cittadella, Assisi 1999, p. 12.

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ro male del mondo». Così il filosofo esistenzialista Pietro Prini6. La soggezione dell’uomo, come di ogni altro animale, alla privazione e al bisogno, alle aggressioni del mondo circostante, alle carestie, ecc. e in particolare l’abbandono dell’uomo «all’isolamento ed alla solitudine della sua volontà d’individuazione […] sono altrettante forme del rifiuto d’amore della Terra Madre»7. La Terra Madre, ovvero la natura, espellerebbe gli uomini dalla sua cerchia d’amore, ma non perché si rendano autonomi nella celebrazione della propria libertà: infatti li vincola e li inibisce, come individui, tanto più invincibilmente alle proprie leggi. Il terricidio a cui pare avviarsi l’età della tecnica ha la sua vera radice nel profondo, nell’horror naturae che ha avuto tanta eco nel tema manicheo, giudaico, paleocristiano della salvezza come liberazione dalla natura catturante e come salto nella “seconda natura” attraverso i riti dei seppellimenti simbolici, della circoncisione mutilatrice o dell’annegamento battesimale nel ‘bagno di una nuova nascita’, come dice S. Paolo.8

È la percezione che ne aveva la scrittrice stessa quando affermava, attraverso le parole del dottore di Jorgi in Colombi e sparvieri: Tu dici una sacrosanta verità, Jorgeddu! Spesso la filosofia anche la più rudimentale dà la mano alla scienza. Che cosa è, in fondo, la nostra malinconia, la nostra incessante inquietudine? Noi tendiamo a ritornare alla terra donde siamo venuti. […] Noi siamo animali degenerati, e la nostra vita non è naturale, così come non è naturale la vita dell’uccello in gabbia, del serpente nei giardini zoologici. Noi tendiamo verso quello che una volta era il nostro stato naturale, la vita in mezzo alla natura, i contatti istintivi coi nostri simili, l’appagamento completo 6.  P. Prini, Perché il male? Note di approccio al suo mistero, ivi, p. 20. 7.  Ibidem. 8.  Ivi, p. 22.

124 dei nostri sensi. Tutto ciò che si oppone alla vita animale, che è la nostra vera vita, è fonte della nostra infelicità. Allora, dato questo spostamento, visti inutili i nostri sforzi, l’unico conforto che ci resta è il pensiero della morte, il ritorno alla materia primitiva, la riunione completa con la madre terra.9

Caratteristiche che sembrano essere, in ultima analisi, proprie del destino deleddiano – «visti inutili i nostri sforzi, l’unico conforto che ci resta è il pensiero della morte» – che per questa via non corrisponde più all’idea pagana di forza superiore in antagonismo con il Dio della tradizione biblico cristiana. E che altro sono gli innamoramenti proibiti se non la risposta a una sessualità insoddisfatta, sebbene sublimati e mediati attraverso le forme sovrastrutturali che la civiltà propone come «resti della messa» di La leggenda di Aprile10 o «la festa» di Elias Portolu11? Così come è sempre l’amore a determinare la vicenda di Efix e tante altre. Nell’universo deleddiano la libertà non si colloca al livello del peccato, il peccato non essendo una scelta o l’affermazione di una volontà superiore come nei personaggi dostoevskiani e neppure hybris come nella tragedia classica. In questo senso un’eccezione significativa può ben essere la vicenda della protagonista di L’edera, il romanzo uscito a puntate sulla Nuova Antologia nel gennaio e febbraio del 1908. Annesa, la protagonista, disperata, porta a termine la «diabolica tentazione» di uccidere uno zio malato d’asma con la speranza dell’eredità. Il delitto viene perpetrato in una notte tempestosa e, secondo Momigliano, si allinea lungo la via «dell’allucinante potenza degli assassinii di Dostoevskij».

9.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., p. 172. 10.  G. Deledda, La leggenda di Aprile, in Ead., La casa del poeta, cit., pp. 659662. 11.  Cfr. G. Deledda, Elias Portolu, cit, pp. 37-58.

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La “natura” o la “necessità” sembrano generalmente governare il destino dell’uomo, pertanto, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il peccato non è una libera separazione da Dio ma si configura quasi reato in senso giuridico. Sia chiaro, in ogni caso, che i personaggi sono all’interno di leggi che conoscono troppo bene per non essere consapevoli che opponendoglisi le violano e, tuttavia, si abbandonano all’urgenza del bisogno, di quelle forze cioè che ne determinano in qualche modo l’umanità nella riaffermazione della finitudine. Non mancano gli echi di un determinismo positivista, coerentemente con le istanze del contesto culturale che, peraltro, comincia a volgersi a esperienze esistenzialiste come quelle dostoevskiane. Dietro c’è la presenza dell’insegnamento biblico o l’aderenza a leggi che facilmente si riconoscono come bibliche. Ma posto che non si possa affermare con sicurezza quanto abbia potuto una morale rigida come quella biblica, si può comunque ritenere che ci fosse un sostrato favorevole o addirittura che la stessa religiosità naturale del popolo sardo si muovesse nella direzione di una norma rigorosa e improntata a sentimenti di colpa ed espiazione. La Bibbia, tuttavia, supporta agevolmente quanto si va asserendo. Si legga Is 64,4-5: Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia le nostre impurità ci hanno portato via come il vento.12

12.  La presente e le successive citazioni inerenti alla stessa tematica sono tratte da La Bibbia di Gerusalemme, testo biblico di La Sacra Bibbia della CEI, “editio princeps” 1971, pres. di G. Ravasi, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1971.

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Il Salmo 51 (vv. 1-5) pare particolarmente significativo a definire la qualità del pentimento e la conseguente espiazione, trattando di Davide allorché andò da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Betsabea: Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato. Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto; perciò sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio. Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre.

Ogni uomo nasce impuro (Gb 14,4) e per ciò stesso è portato al male. «Chi può trarre il puro dall’immondo? Nessuno». Questa impurità fondamentale è qui allegata come una circostanza attenuante (1Re 8,46 ss.) di cui Dio deve tenere conto. La dottrina del peccato originale sarà esplicitata nella Lettera ai Romani 5,12-21, in correlazione con la rivelazione della redenzione per mezzo di Gesù Cristo. Ma nella Lettera ai Romani (7,14-24) si parla dell’uomo sotto il dominio del peccato, prima della “giustificazione”: Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato

127 che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?

In Elias Portolu Elias s’innamora di Maddalena e la passione che egli considera incestuosa, poiché la ragazza è la fidanzata del fratello Pietro, gli provoca ribrezzo. Tormentato tra il desiderio e il divieto, Elias non risolve la situazione né, ugualmente, rinuncia alla passione. D’altra parte, Canne al vento propone una doppia colpa. Efix ha, infatti, causato involontariamente la morte del suo padrone, don Zanne, nell’aiutare la figlia Lia, di cui è segretamente innamorato, a fuggire. Sia l’amore per Lia che l’omicidio del vecchio pesano sulla coscienza di Efix che si sottopone a prove di durissima espiazione quando verrà considerato responsabile della cattiva condotta di Giacinto. Solo nel momento estremo, dopo aver consumato la sua espiazione, potrà morire in pace nel riconoscimento dell’intervento provvidenziale di Dio. Relativamente all’espiazione si possono dunque fare alcune considerazioni che, per quanto diverse, possono essere ugualmente accettabili e cioè che all’interno del determinismo essa potrebbe configurarsi come effetto del peccato commesso mentre il processo di espiazione dovrebbe diventare il luogo della libertà, nella consapevolezza che solo in quella occorrenza possa essere ristabilito il patto con Dio precedentemente violato. Infatti, dentro le regole dell’alleanza fra l’uomo e Dio c’è l’idea della promessa e dedizione di quest’ultimo che non solo ha come destinatario la libertà umana ma la fa sussistere. Solo l’alleanza o la promessa-impegno di Dio fa effettivamente esiste-

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re la libertà umana che, se accolta, la rende piena e autentica. Però perché sia davvero tale, l’espiazione dovrà necessariamente accompagnarsi al dolore che in quanto nasce in rapporto al Creatore Lo coinvolge, inducendoLo ad assumersi la responsabilità del negativo che c’è nel mondo e ad accoglierLo su di Sé con la Sua sofferenza. Ecco allora che in un contesto che si ispiri alla fede cristiana nella reinterpretazione cattolica – passaggio successivo a una visione biblica – il male, dopo aver interessato il rapporto tra l’uomo e Dio, ristabilisce il patto d’alleanza. Il dolore, perciò, si propone come il luogo della solidarietà tra uomo e Dio e dunque si può affermare che la riunione fra Dostoevskij e Deledda avvenga lungo quest’asse. Il dolore è il luogo della solidarietà fra Dio e l’uomo: solo nella sofferenza Dio e l’uomo possono congiungere i loro sforzi. È estremamente tragico che solo nel dolore Dio riesca a soccorrere l’uomo e l’uomo giunga a redimersi ed elevarsi a Dio. Ma è proprio in questa consofferenza divina e umana che il dolore si rivela come l’unica forza che riesce ad avere ragione del male.13

Secondo Luigi Pareyson «questo principio è uno dei capisaldi del pensiero tragico»14. Ancora un’altra via era aperta alla scrittrice sempre riguardo al problema del male, ma questa volta attraverso l’uso della ragione. Più che alla sua rimozione attraverso la conoscenza, secondo il modello proprio della tradizione occidentale, si poteva anche integrarlo nella struttura dell’esistenza nella quale la liberazione dal male appare ammissibile. L’alternativa, in realtà, era possibile ed era stata seguita anche da scrittori che lei apprezzava, ovvero la giustificazione del

13.  Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, p. 478. 14.  Ibidem.

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male non esplicitamente dichiarata ma ammessa attraverso la celebrazione delle passioni, motori ineludibili della nostra esistenza, cariche vitali del superomismo come in Terra vergine di Gabriele D’Annunzio15. Questa stessa alternativa talvolta si è profilata anche nella sua narrativa ma non è stata percorsa fino in fondo. Ne è un esempio probante Sino al confine del 1910, ma anche lì la scrittrice si è fermata al di qua della soglia. Il romanzo, peraltro, è stato relegato ingiustamente ai confini dell’itinerario deleddiano, nonostante fosse piaciuto al Borgese che nel 1911 vi aveva trovato pagine straordinarie, e a Bonaventura Tecchi che ancora nel 1960 ammoniva che si trattava di un testo da studiare, invito infine raccolto16. La razionalità di Francesco si erge contro il fatalismo irrazionale di Gavina che, insieme all’abbandono definitivo di Priamo, abbandona la passione e la chiarificazione cosciente dei desideri taciuti ma non soppressi. Francesco rappresenta il libero arbitrio, la forza della ragione che può spiegare e guidare gli eventi. Con la spontanea e coerente liberazione delle forze vitali il ragazzo tenta di sconfiggere la superstiziosa religiosità di Gavina e la sua cupa introiezione del peccato, rappresentando, insieme, la razionalità e l’esigenza di una naturalità gioiosa di discendenza roussoviana.

15.  G. D’Annunzio, Terra vergine, Mondadori, Milano 1992. 16. Cfr. A. Dolfi, Del romanzesco e del romanzo. Modelli di narrativa italiana tra Otto e Novecento, Bulzoni, Roma 1992, § 1.3. «Sino al confine»: rimozione e isteria nella topica narrativa, pp. 42-50.

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La donna

Personaggi femminili Nella vasta narrativa deleddiana la donna occupa un posto importante e sembra ricoprire i ruoli che da sempre la tradizione le ha assegnato. Secondo le parole di Serafino, il sacerdote di La chiesa della solitudine: «La donna è fatta per sposarsi, per crearsi una famiglia, compiere il proprio ciclo, come lo hanno compiuto le nostre madri e le nostre nonne»1. Nello stesso romanzo, il selvatico Felice Giordano, riguardo alla figlia, afferma con orgoglio: «Anche mia figlia, la madre dei ragazzi lavora come una serva; sempre a far pane, a lavare i panni, a preparare il cibo, a cucire e badare alla casa»2. Remundu Corbu, il nonno di Columba, la protagonista di Colombi e sparvieri, in un impeto di rabbia a proposito di Jorgi, il fidanzato di lei da sempre mal tollerato, così le si rivolge: Lo hai attirato tu, non io! Sei tu che gli hai aperta la porta di notte, e te lo sei preso nella tua camera come una donna 1.  G. Deledda, La chiesa della solitudine, cit., p. 82. 2.  Ivi, p. 40.

132 perduta. Perché hai fatto questo? Io dovevo romperti la testa, allora, non adesso; sono invece stato vile e ti ho lasciato fare quello che volevi. Perché eri orfana e tua madre è morta raccomandandomi di trattarti bene.3

Mai come in questi passaggi emerge il ruolo che la società le ha cucito addosso e mai come in questi momenti si afferma la funzione maschile di guardiano dell’onore e garante della perpetuazione dei valori aviti. L’amore non è sentimento duraturo e la società ne è consapevole. Sulla sua caducità non si basa di certo la solidità della famiglia che risponde, prima di tutto, a ragioni di carattere economico e quindi a criteri d’ordine morale. Per questo vengono banditi i comportamenti ambigui, come viene affermato nel passo successivo: Ah, no, una donna che di giorno tace e alla notte apre la porta al suo amante, non è donna da trattarsi bene! Al diavolo chi crede in lei! Essa è la rovina della casa, e tu, tu sei stata la rovina della mia!… non hai imitato tua madre, che perché la famiglia non si disgregasse volle sposare suo cugino, il figlio di mio fratello. No, tu hai guardato il figlio di un capraio, uno studentello senza casa e senza testa, un ragazzo corrotto, che non era della tua razza né del tuo grado.4

Lo studentello senza casa e senza testa è espressione di forte pregnanza ed efficacia e dice molto più di lunghi discorsi. La società infatti non riconosce valore alla cultura e in questo caso c’è una perfetta corrispondenza con l’ideologia della roba di verghiana memoria con in più l’affermazione dell’orgoglio della razza e del grado che altro non vuol significare se non l’elevato ceto sociale d’appartenenza e, di fatto, la consistenza patrimoniale senza titoli nobiliari, assenti o poco importanti nel centro Sardegna. 3.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., p. 254. 4.  Ibidem.

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Per la propria moglie, al contrario, lo stesso Remundu ha parole di lode: «Quella era stata una donna! Mai lagrime, mai preghiere né lamenti. Nei tristi tempi ella era stata come una verga di acciaio che non si piega»5. La vera donna per Remundu non deve esibire sentimenti, piuttosto deve saper dissimulare il dolore e sopportare pazientemente, e soprattutto in silenzio, le avversità. Insomma, deve comportarsi come un vero uomo e non indulgere in lamentazioni che la degraderebbero al livello di una donnicciola! Tuttavia, finché è madre e figlia e sposa nella scontata adesione-obbedienza a codici di comportamento tradizionali, la figura femminile non costituisce attrattiva per la scrittrice, ma quando essa si propone in altra dimensione, depotenziando le caratteristiche del ruolo, si staglia con prepotente autonomia rispetto a tanti altri personaggi di spessore, anche maschili. Ciò non significa, beninteso, che possa essere considerata, usando abusate categorie narratologiche, protagonista nel senso stretto del termine6. Prima di tutto perché in genere non si muove nello spazio se non in quello definito-circoscritto dagli usi e costumi sardi. In secondo luogo perché, sebbene sollecitata dalle diverse vicende che la coinvolgono intimamente e soffra o nutra tensioni oniriche, non può essere definita un personaggio compiutamente dinamico. Ciò nonostante la tensione al mutamento è una sua caratteristica e il peccato, il rimorso e l’espiazione in cui spesso incorre, sia essa Maria de La via del male o Olì di Cenere o Columba di Colombi e sparvieri o la protagonista di tante novelle, non 5. Ivi, p. 239. 6.  Ph. Hamon, Per uno statuto semiologico del personaggio, in Id., Semiologia, lessico, leggibilità del testo narrativo, tr. it. di A. Martinelli, Pratiche, ParmaLucca 1977, pp. 85-127.

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sono altro che il tentativo, sociologicamente malriuscito, di oltrepassare il ruolo che la società sembra averle cucito addosso, un’imposizione a stento tollerata. Pertanto, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la stessa passione amorosa, molte volte sperimentata e assurta a un’importanza preminente nel contesto di tanta produzione, non è solo una pulsione fatalistica o fatale, ma potrebbe configurarsi come un tentativo di esperire le potenzialità individuali, un tentativo di vivere. Anche in questo contesto tematico il destino è certamente una forza incontrollabile se vista da lontano, un po’ come la fiumana di verghiana memoria, ma se si usa la lente d’ingrandimento e si leggono da vicino tanti accadimenti risulta chiaro che, nonostante il divieto intimamente introiettato di turbare un ordine sedimentato, c’è chi nel mondo della scrittrice non crede alle maledizioni per i trasgressori e non considera l’eventuale disubbidienza come una forma di intolleranza a un’inesorabile volontà esterna. «Balle» – dice, infatti, il dottore di La chiesa della solitudine – «le maledizioni le ha sparse Dio prima di tutti sulla terra e sugli uomini: il vero perché ancora bene non si sa ma è certo che il dolore e il male sono leggi naturali, come le tempeste, le guerre, la morte»7. Lo stesso dottore alle contestazioni di Concezione, la protagonista femminile, «Si tratta che io non ho mai avuto fortuna in amore. È il destino, la sorte, la mala sorte», reagisce in questo modo: «Parole. La sorte ce la facciamo noi»8. La fatalità che incombe su tante vicende deleddiane e ne condiziona gli esiti, sembrerebbe, a tutta prima, impedire alla storia, e a precise responsabilità individuali, l’attribuzione degli esiti nefandi-nefasti. 7.  G. Deledda, La chiesa della solitudine, cit., p. 126. 8. Ivi, p. 123.

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In realtà, il trasgredire è opposizione all’esistente spesso tradotto nei modi della rappresentazione religiosa per mezzo di una ricorrente simbologia e di alcuni schematismi. La passione di cui sono vittime tanti personaggi deleddiani, uomini o donne, e che si connota come motore primo dell’agire trasgressivo, induce a una duplice lettura. Da una parte è vero che con il pentimento e l’espiazione si torna sociologicamente alla condizione di partenza e al ripristino dell’ordine (l’esempio estremo può essere rappresentato dalla morte di Olì, protagonista in absentia di Cenere), dall’altra è innegabile che l’infrazione c’è stata o la si è ipotizzata al punto da mettere in dubbio le cose sacre e infrangere i tabù. La donna, dunque, perché di lei soprattutto si tratta, manifesta l’ansia del mutamento anche se spesso con il rituale del sacrificio ne sminuisce l’efficacia e, tuttavia, dal punto di vista della funzione, generalmente non perde il potenziale che la natura le assegna e la cultura da sempre le attribuisce nelle diverse civiltà. La ripetizione dell’archetipo della fertilità, che immediatamente le si riconosce, sollecita e determina la consapevolezza del personaggio maschile e contribuisce al suo mutamento, non sempre positivamente. Sebbene contenga in sé l’idea della crescita per motivi diversi, l’innamoramento diventa nefasto quando viola regole sociali o morali ferree e genera l’ossessione del peccato. Seppure con questi limiti, seppure mettendo in pericolo il proprio ruolo sociale, e dunque ponendone in discussione l’immutabilità, che è quanto la società ha stabilito per lei, il personaggio femminile non nega ma addirittura potenzia l’implicita funzione muliebre. Nella panoramica di figure femminili che si stagliano con maggior icasticità, La madre occupa un posto di notevole rilievo e mantiene immutato il suo ruolo per l’efficacia dei suoi interventi.

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La sua presenza si riscontra in momenti differenti della narrativa deleddiana, dal romanzo La madre, dove si narra di una tentazione d’amore vinta da un sacerdote grazie al sacrificio salvifico della madre, a La chiesa della solitudine in cui è presente un breve apologo raccontato dal flebotomo amico di Concezione: Io avevo curato il malato, ma troppo tardi ero stato chiamato: adesso egli moriva, e non voleva il prete, non voleva che rivedere sua madre. Si arrivò al posto: la donna sedette accanto al figlio, per terra, e gli prese la mano. Non si dissero una parola, rimasero così circa un’ora, finché io dichiarai che era tempo di finirla. La vecchia si alzò; e vidi una cosa inaudita: il malato aveva ripreso un colore naturale; sedette, domandò da bere. Riaccompagnai la donna a casa sua ed ella neppure mi ringraziò. Il giorno dopo il malato, miracolosamente guarito, tornò su fra i cinghiali e le pietre, la vecchia fu trovata morta, per una misteriosa infezione al sangue. Capisci: con la sua volontà, con la sua potenza d’amore, ella aveva assorbito il veleno dal corpo del figlio e lo aveva salvato.9

D’altra parte, in Colombi e sparvieri si afferma: «il bandito non deve avere che la madre; tutte le altre donne sono sue nemiche»10. Chi desta l’attenzione della scrittrice e nutre la sua fantasia inducendola alle soluzioni narrative che conosciamo è però soprattutto la donna amante. Ma è al punto di vista maschile che spesso il narratore cede il privilegio della visione dell’oggetto del desiderio, ed ecco allora il manifestarsi di una duplice personalità femminile e la creazione di immagini speculari talvolta rappresentate nella stessa figura come in Maddalena di Elias Portolu: 9. Ivi, p. 196. 10.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., p. 220.

137 Maddalena non era molto alta, né veramente bella, ma piacentissima, svelta, con una finissima carnagione bruno-rosea, gli occhi lucenti sotto le folte sopracciglia, e la bocca sensuale. Il corsetto rosso-scarlatto, aperto sulla candida camicia, e il fazzoletto fiorito d’orchidee e di rose, la rendevano abbagliante. Tra le rozze figure di Pietro e di zio Portolu ella sembrava la grazia tra la forza selvaggia. Da vicino i suoi occhi lucenti, dalle grandi palpebre, dalle lunghe ciglia, un po’ obliqui e socchiusi, un po’ voluttuosi, affascinavano nel vero significato della parola.11 Ma Elias non vide che gli occhi obliqui e ardenti di Maddalena, e sentì voglia di piangere come un bambino.12 In fondo alla cumbissia Maddalena guardava, e ogni tanto chinava le larghe palpebre, le lunghe ciglia, e sembrava allora una Madonna melanconica e rassegnata.13

Ecco come viene presentata Concezione di La chiesa della solitudine: «Il fatto è che lui (l’Aroldi) si era innamorato forte di Concezione, quella strega dagli occhi di fata»14. «Sembri una zingara mascherata da monaca» si rivolge a lei il dottore, a conferma di quanto detto in precedenza. E sempre il dottore: «tu, amica mia […] sei buona e cattiva nello stesso tempo, sei la vera figlia di Eva»15. In Colombi e sparvieri Mariana rappresenta la donna angelo, a un tempo creatura salvifica e immagine speculare di Columba. Qualunque sia il contesto in cui il sentimento trova modo di manifestarsi: l’interno di una chiesa o le cumbessias o la tanca o l’interno di una casa; qualunque sia il ruolo della donna, me-

11.  G. Deledda, Elias Portolu, cit., p. 39. 12.  Ivi, p. 42. 13.  Ivi, p. 43. 14.  G. Deledda, La chiesa della solitudine, cit., p. 27. 15. Ivi, p. 125.

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glio se appartenente a un ceto socialmente elevato come Marianna Sirca o Noemi di Canne al vento o Maria di La via del mare l’amore nasce perché l’uomo si lascia ammaliare dall’elemento demoniaco. L’insidia è rappresentata, come si è visto, dalla bocca sensuale e dagli occhi obliqui che, ancor prima di essere caratteristiche fisiche, sono connotazioni morali e giustificano i riferimenti alla tradizione biblica e cristiana. D’altra parte, gli studi etnologici dimostrano ampiamente gli attributi della donna sarda. La ricca tradizione attestata dagli studi di Dolores Turchi mostra che le stesse «fate sarde non erano che antiche sacerdotesse con prerogative di tipo sciamanico»16. Questo prova l’importanza della figura femminile in un campo che si pensa fosse esclusivamente riservato all’uomo. La stessa Turchi, in un passo successivo, autentica la sostanziale condivisione del potere sciamanico fra uomo e donna con l’affermazione che «il dominio del fuoco era una delle qualità che ogni sciamano, fosse esso maschio o femmina, doveva possedere, come traspare dalle leggende che si riferiscono a questo tipo di prova»17. E talora accade che l’uomo, per un processo di proiezione freudiana, sentendosi aggredito, reagisca come Pietro di La chiesa della solitudine che «si era fatto torvo, acceso dal desiderio di assalirla, baciarla, morderla in viso». Ma sono vari i momenti che confermano le tesi sopra esposte, ed ecco allora la malìa. In La chiesa della solitudine Concezione è così apostrofata: «la vera malìa, certo l’Aroldi l’ha avuta da te» e il narratore stesso sottolinea: «con quelle misure, Concezione lo aveva legato, stregato».

16.  D. Turchi, Le fate di Giave, in Ead., Lo sciamanesimo in Sardegna, Newton Compton-Edizioni della Torre, Roma-Cagliari 2001, p. 36. 17. Ivi, p. 42.

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La malìa, d’altra parte, è della stessa sorella di Concezione; di Concezione, infatti, la donna rappresenta il negativo fotografico: Aveva appestato il giovane, solo perché egli amava Concezione: lo faceva morire lentamente, ed egli avrebbe finito con lo sfasciarsi come un avanzo di barca abbandonata sulle onde, e perdersi anche davanti a Dio.18

In ogni caso, la raffigurazione della duplicità caratteriale e morale risponde a precise scelte di campo. Seppure filtrata attraverso il punto di vista di Jorgi, infatti, si percepisce la netta consapevolezza di risoluzioni stilistiche di matrice pittorica e dunque esterne prima ancora che di contenuto. Le donne del mondo reale, infatti, sono «vestite di panno ruvido e di velluto rasato, come se rappresentassero il giorno e la notte assieme, ma senza crepuscoli, l’amore e l’odio ma senza pervertimenti»19. Peraltro, in una lettera del 13 luglio del 1893 ad Angelo De Gubernatis, la scrittrice aveva individuato nella doppiezza l’attributo femminile costante. Nell’ammettere d’essere una sensitiva, così come l’aveva designata il suo corrispondente, Deledda infatti scriveva: Sì, Ella ha ragione a chiamarmi sensitiva. Forse non c’è un’altra fanciulla che provi così acutamente e stranamente le sensazioni della vita – e ciò, lo sento, è un male terribile. Tanto più che non posso dominarmi e fingere. Perciò sono amata ed odiata, odiata dalle donne, specialmente, il cui emblema, ad ogni passo della vita, è la finzione.20

D’altra parte, questa scelta sembra andare nella direzione già percorsa da altri grandi interpreti del Decadentismo. Se è vero

18.  G. Deledda, La chiesa della solitudine, cit., pp. 135-136. 19.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., p. 200. 20.  G. Deledda, Lettere ad Angelo De Gubernatis, cit., p. 421.

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infatti che sia in Colombi e sparvieri come La chiesa della solitudine da una parte il doppio è rappresentato dalle figure di Columba e la sorella di Concezione, dall’altra da Mariana e Concezione, rispettivamente simboli del male e del bene, nel D’Annunzio di Il piacere l’ambivalenza donnesca viene disegnata da Elena e Maria21, mentre nello Svevo del romanzo Senilità la dicotomia muliebre è espressa in forme speculari alla personalità dei protagonisti maschili. Per Emilio Brentani Angiolina è Ange, per Stefano Balli, l’amico – rivale di Emilio, la stessa donna è Giolona22. Si sa della diversa fortuna delle due opere in oggetto e quindi non si può parlare di una loro uguale circolazione nel contesto culturale italiano, e tuttavia la duplice soluzione al femminile era evidentemente legata alla complessità dei segni che la realtà porgeva, mentre l’unilateralità interpretativa veniva cancellata a tutto favore di valutazioni differenziate. Naturalmente questa definizione del doppio femminino non basta a circoscrivere la gamma delle proposte deleddiane23. Nella sua vasta opera si dispiegano le sfaccettature di svariati caratteri quando pure la riduzione a due sarebbe già sufficiente a rappresentare la molteplicità. In ogni caso, l’itinerario programmatico con la rivendicazione di caratteri tipicamente sardi si conferma come volontà di riaffermazione di spe-

21.  Cfr. G. D’Annunzio, Il piacere, Mondadori, Milano 1986. 22.  Cfr. I. Svevo, Senilità, Feltrinelli, Milano 1998. 23.  Sul doppio deleddiano si vedano: A. Guiso, L’oltre e la sua ricerca. Indagine sul doppio nella narrativa di Grazia Deledda, Video Memory, Nuoro 2000; Ead., Novelistic doubling/ideological unity in the narrative of Grazia Deledda, tr. ingl. di S. Wood, in S. Wood (a cura di), The Challenge of the Modern. Essays on Grazia Deledda, Troubador Press, Leicester 2007, pp. 133-152 (ed. it., Doppio romanzesco e unità ideologica nella narrativa di Grazia Deledda, in S. Wood [a cura di], Grazia Deledda. Una sfida alla modernità, Iris, Oliena 2012, pp. 135-154); A. Guiso, Il doppio segno della scrittura, cit.

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cificità culturali e identitarie senza trascolorazioni nel vieto realismo. Eppure, per quanto siano presenti in misura preponderante, le donne amanti non rappresentano la totalità dell’universo femminile. Sono altresì ritratte donne volitive che aderiscono a canoni antropologici sardi come Zia Giuseppa Fiore di Colombi e sparvieri che attraverso la sofferenza coltiva il codice della vendetta mostrando di saper attendere che si compia quella giustizia che non è certamente rappresentata dalle leggi scritte. Rivolgendosi a Jorgi, ella afferma: Son vedova, son sola […] e benché il vecchio sparviero [Remundu Corbu] abbia cercato di ridurmi alla miseria, non c’è riuscito… Egli mi ha frodato, egli mi ha rubato ma non del tutto […]. Egli si impossessò di tutto: la casa dove sta lui era mia, la tanca dove pascola il suo bestiame era mia […]. E cominciò la lite; ma era il tempo delle inimicizie e la giustizia non giudicava bene le cose nostre perché credeva che tutte le testimonianze fossero false, che tutti parlassero e agissero secondo il proprio odio personale. Così io perdetti la lite e mio marito morì di crepacuore. Ma la donna è paziente, figliuolino mio; essa non muore di crepacuore perché aspetta, perché crede nel giorno della giustizia; e Giuseppa Fiore è una donna! Tu mi capisci.24

Così come Zia Giuseppa Fiore, anche i numerosi banditi che popolano la narrativa deleddiana accettano le leggi non scritte della balentia in sostituzione di una giustizia assente, ma insieme a questa riflessione bisogna annotare la libertà di valutazione che la scrittrice si concede nei confronti della visione delle cose sarde, evidente nella giustificazione implicita dell’agire individuale e della necessità del delinquere almeno in alcuni momenti cruciali. 24.  G. Deledda, Colombi e sparvieri, cit., pp. 155-156.

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Nel discorso quasi programmatico con cui apriva Tradizioni popolari di Nuoro dava, fra gli altri, un giudizio sulla popolazione del nuorese: Ha i difetti e le virtù e le passioni dell’uomo primitivo e le superstizioni che del resto sono patrimonio generale di tutti i popoli e che non furono disdegnate neppure da spiriti grandi, cominciando da Lutero e terminando a moltissimi grandi uomini viventi. Uccide per passione spinto dal puntiglio della vendetta.25

Con grande lucidità riconosce la persistenza di atteggiamenti e superstizioni che nel periodo in cui visse non erano solamente suoi ma di intellettuali come Giovanni Pascoli e infatti nel discorso L’era nuova che il poeta tenne a Messina nel 1899, un testo fondamentale per conoscere la sua ideologia – specie riguardo alla scienza, al destino dell’uomo, alla vita e alla morte, alla felicità e infelicità –, straordinaria risulta la ripetizione della parola destino e di altri termini della stessa area semantica26. L’uomo, dunque, è in balia del destino e di ciò che lo accompagna non solo nei chiusi e arcaici spazi della Sardegna ma anche nel più vasto ambito europeo, e secondo Jung elabora archetipi che non vengono mai meno e che si ritrovano facilmente anche nelle opere della scrittrice sarda. La riflessione finale non poteva che essere riservata al romanzo Cosima, considerato il testamento della scrittrice, dove si chiariscono meglio alcuni nodi relativi alla funzione femminile oltre che riconducibili al suo apprendistato culturale. Un bildungsroman è stato giustamente definito per la presenza del topos del viaggio, non solo nel senso di itinerario interiore di crescita e di progressiva consapevolezza, a partire dall’ansia di vivere in un ambiente limitato fino a quella di possede-

25.  G. Deledda, Tradizioni popolari di Nuoro, cit.,p. 43. 26.  Cfr. G. Pascoli, L’era nuova. Pensieri e discorsi, Egea, Milano 1994.

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re elevate potenzialità, ma proprio come racconto di percorsi esterni che acquistano lo spessore di paradigmi di conoscenza, di affinamento di percezioni sensoriali e di educazione alle abilità mitopoietiche. La Sardegna o, meglio, Nuoro come un’infanzia certo, ma anche come occasione di maturazione se, dopo la storia con Fortunio, Cosima può affermare: Anche questa lezione le servì per la scuola della vita, sentì che ella davvero non rassomigliava e non doveva rassomigliare alle ragazze di buona famiglia, che commettono incoscienti ma astute i loro peccatucci d’amore; che Dio le aveva dato una intelligenza superiore alla comune e soprattutto una coscienza limpida e profonda come un’acqua nella quale si vede ogni filo di luce e di ombra, per guidarsi da sola nella strada della verità.27

Anonima continentale Più che attraverso le numerose protagoniste femminili di svariati romanzi condizionate nel loro sviluppo dai canoni narrativi, è in altre occasioni che emerge l’indole combattiva e polemica di Deledda e la sua moderna concezione della donna. La forza delle sue convinzioni, la disinvoltura con cui afferma la conquista dell’autonomia femminile nell’ambito culturale della chiusa Sardegna e, insieme, la consapevolezza dei limiti rappresentati dall’insularità emergono certamente dagli epistolari ma anche da altre occorrenze che la scrittrice, quando è il caso, sa cogliere con tempestivo profitto. Nel 1893, mentre è impegnata nella densa corrispondenza epistolare col Conte Angelo De Gubernatis, la rivista quindicinale

27.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 996.

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«Vita Sarda» pubblica una vivace polemica fra una non meglio identificata lettrice, che assomma caratteristiche tipicamente deleddiane, e Luigi Pompejano, responsabile di una rubrica che firma con lo pseudonimo di L’Uomo che ride. La polemica prende l’avvio dalle affermazioni provocatorie dell’intellettuale riguardo a una supposta ignoranza letteraria delle donne sarde. Di fatto il Pompejano le declassa a tutto vantaggio di quelle «continentali». La risposta dell’agguerrita anonima lettrice non si fa attendere. Insieme alla contestazione delle affermazioni contenute nella rubrica, la donna si fa carico di una difesa a oltranza delle donne sarde ed enumera le ragioni della loro disaffezione a una cultura alta. A sua volta, il giornalista mitiga il giudizio ma circoscrive l’impegno culturale a un paio di donne fra cui Deledda e l’anonima lettrice. La vivacità dei toni, il piglio, l’orgoglio della propria identità e alcuni riferimenti tematici e culturali sono troppo simili a quelli emersi nel continuo dialogo fra Deledda e il De Gubernatis, e non solo, per non indurre a identificare l’anonima lettrice con Deledda stessa. Tutto ha inizio nel numero 11 del giugno 1893, anno III, di «Vita Sarda – Periodico Quindicinale di Lettere, Scienze e Arti», con l’articolo titolato Chiacchiere e sbadigli e proseguirà nei numeri 12 del 9 luglio, 13 del 23 luglio, 14 del 6 agosto e 15 del 20 agosto. Nel primo articolo L’uomo che ride afferma: Ma ci saranno in realtà, e specialmente qui da noi, delle signore e delle signorine che s’interessino alla lettura di un periodico che si chiama letterario? Ahimè, io ho – e vorrei aver torto! – una pessima opinione delle signore sarde. Intendiamoci, veh, pessima quanto a letteratura.28

28.  A. Romagnino (a cura di), Vita Sarda. 1891-1893, EDES, Cagliari 1978, 11 giugno 1893, p. 2.

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Nel numero 12 del 9 luglio 1893, anno III, in un articolo dal titolo Per le donne sarde (lettera aperta al cronista di «Vita Sarda»), Una donna sarda che sta al continente così risponde alle accuse rivolte dal Pompejano: Ah, signor cronista mondano della Vita Sarda, vogliamo smetterla una volta per sempre questa inveterata abitudine sarda, di denigrare tutto ciò che è nostro, di disprezzare ciò di cui dovremmo andare orgogliosi per portare alle stelle di continuo, anche senza conoscerlo e senza far distinzioni, ciò che appartiene al continente? […] Che cosa penseranno di quell’articolo i lettori sardi non lo so, i continentali diranno senza dubbio della Sardegna: «Che paese è quello, dove le donne sono tanto primitive e i giornalisti… diciamo così, fin de siècle, da canzonarle senza riguardo?» Vede bene che, dato pure e non concesso che avesse detto la verità, il suo articolo farebbe in ogni modo poco onore alla nostra isola diletta, di cui noi abbiamo il dovere di rialzare il prestigio. […] Povera Sardegna! Come si potrà pretendere che sia tenuta dai forestieri in quel conto che si merita, quando i suoi stessi figliuoli sono i primi ad avvilirla, insultando ingenerosamente alle sue sventure?29

Sono gli stessi accenti appassionati presenti in diverse lettere al De Gubernatis tra cui quella del 12 giugno 1893 in cui Deledda si riferisce alla costituzione di una Società per il folklore e nella quale afferma: Il mio entusiasmo non ha punto scemato, benché veda io pure le difficoltà che si parano innanzi a questo progetto che parrebbe semplicissimo, – difficoltà causate da molte ragioni, fra cui principale è la tetra sfiducia che tutti i sardi hanno verso ogni cosa che possa loro giovare. Avvezzi a vedersi trascurati, a sentire la loro terra calunniata, hanno finito col rinchiudersi in un’apatia quasi selvaggia, – specialmente nei centri più caratteristici […] – e ciascuno cerca di lavorare 29. Ivi, 9 luglio 1893, p. 6.

146 per sé, senza curarsi dell’altro. Ma non importa; io spero di scuoterli lo stesso.30

Ma l’anonima lettrice di «Vita Sarda» sembra particolarmente offesa dall’accusa, rivolte alle sarde, di non leggere le opere straniere se non in traduzione. Per chi non lo sapesse, questo è il massimo grado a cui possa arrivare la cultura di una signora sarda: leggere il più facile tra i nostri poeti moderni, e Daudet nelle traduzioni! Non è poco però! Chi potrebbe pretendere da una donna, Dio mio! che leggesse le poesie del Carducci o un romanzo francese nell’originale? Ho detto «da una donna», ma volevo dire «da una donna sarda», perché nel continente non è così.31

Accusa che può tradursi in offesa se rivolta a chi invece le opere, almeno quelle francesi!, può bensì leggerle nella versione originale32. Lo stesso riferimento a Carducci è un’ulteriore conferma della vera identità dell’anonima lettrice. All’epoca della sua giovinezza quel movimento (il Decadentismo), come è noto – sostiene lo Spagnoletti –, trionfava in tutta la letteratura europea: e non sorprende perciò se anche la scrittrice sarda ne subì il fascino specialmente nei versi. Sono questi una parentesi che si può circoscrivere a un solo volu-

30.  G. Deledda, Lettere ad Angelo De Gubernatis, cit., p. 413. 31.  A. Romagnino (a cura di), Vita Sarda, cit., p. 6. 32.  Per G. Spagnoletti, che riferisce gli antecedenti letterari di Il vecchio della montagna, «si ricorderà è […]che la Saga di Gösta Berling era già apparsa nel 1891, e poteva essere conosciuta dalla scrittrice sarda in traduzione francese» (G. Spagnoletti, Introduzione, in G. Deledda, I grandi romanzi, Newton Compton, Roma 1993, p. 10). Sempre Spagnoletti parla del posto che i francesi occupano nel retroterra culturale della scrittrice: «I francesi – egli afferma – occupano il primo posto, anche per la devozione che la Deledda nutrì sempre per Balzac, di cui più tardi tradusse Eugénie Grandet» (ibidem). A questo proposito si veda in particolare F. Di Pilla, Letture francesi di Grazia Deledda, Bulzoni, Roma 1982.

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metto da lei pubblicato nel ’96, Paesaggi sardi, nel quale oltre l’influenza del D’Annunzio “paradisiaco”, si riscontra quella del Carducci “barbaro”33. La generosità e la freschezza stessa dei toni possono, peraltro, attribuirsi sia alla giovane Deledda che alla lettrice di «Vita Sarda», e infatti «l’uomo che ride non crede alla sincerità delle mie opinioni – dichiara l’anonima scrivente – mi dispiace per lui. Vuol dire che comincia a non esser più tanto giovane […]. La giovinezza è l’età della fede, e lo scetticismo non viene che con le rughe e coi capelli bianchi». D’altra parte, uguale è in entrambe le donne, sia pure per vie diverse, evidentemente, l’entusiasmo nella difesa delle ragioni femminili e degli intellettuali sardi e, in ultima analisi, dell’Isola. Straordinario sembra il richiamo, nell’anonima sarda («qui corro ancora il rischio d’essere chiamata ‘Nova Eleonora’, ma non importa!»), a quell’Eleo­nora d’Arborea di cui Deledda parlerà nella poesia Vertex, che pubblicherà nel numero 19 della medesima rivista, di cui è interessante riportare qualche passaggio: … E ne l’eburnee notti vaporose / del misterioso autunno, al singhiozzare / de le foglie morenti, – de la luna / ai crocei raggi, / davanti a la natura palpitante / ne l’agonia dell’anno al grande Iddio / di Dante di Spinoza di Colombo / pur penserei, / e nella solitudine sublime, / sola coi venti, immemore del mondo, / aperti i campi del pensiero mio / a grandi idee, / scriverei sulla carta opere immense, / assiomi nuovi e verità immortali, / con la mia penna pingerei i delubri / dell’infinito. / Vorrei lassù, lassù, su i monti eccelsi, / perduti ne le nebbie occidentali,/ tra le querce una torre solitaria/ di pietra grigia,/ Vorrei viver lassù per non far nulla, / per non scrivere più versi infecondi,/ né più sognare visioni strane/ sì come questa.34

33. Cfr. G. Spagnoletti, Introduzione, cit., p. 10. 34.  A. Romagnino (a cura di), Vita Sarda, cit., 15 ottobre 1893, pp. 6-7.

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Sempre su Eleonora, d’altra parte, Deledda aveva già pubblicato in «Ultima Moda» del 22 giugno 1890 l’articolo Eleonora d’Arborea. Ecco, infine, la risposta del Pompejano che, apparentemente, mostra di non conoscere l’interlocutrice mentre dichiara il nome di Deledda. Noi non pretendiamo che le nostre donne sien tutte come la Deledda o come Lei, ché allora sarebbe un volere troppo: desidereremmo semplicemente che all’istruzione femminile, e non alla femminile soltanto, venisse dato in Sardegna un maggiore sviluppo. E sopra tutto, gentile anonima, non dia delle lezioncine di patriottismo a chi da anni lavora con pochi compagni a tener desta nella patria la fiammella dell’Arte, a prezzo di sacrifici che Ella, lontana, neppure suppone.35

Ecco la risposta dell’anonima che invece di convincere il lettore sulle buone ragioni della scelta dell’anonimato, lo persuade proprio del contrario. Si legga attentamente il passaggio in questione: Ella, signor cronista, insinua con un terribile punto interrogativo, preceduto da cinque terribili puntini, questo dubbio atroce nell’animo del lettore: che il mio articolo sia stato ispirato dal desiderio di segnalarmi come eccezione. Davvero, la trovata non potrebbe essere più spiritosa! È un bel modo di segnalarsi come eccezione, difendere le proprie compaesane accusate press’a poco di analfabetismo, mentre sarebbe tanto comodo confermare l’accusa e far maggiormente spiccare la propria abilità di saper mettere insieme, male o bene il nome col verbo! E per giunta stampare l’articolo senza firma! […] L’ho taciuto perché il mio oscurissimo nome non sarebbe stato un argomento in favore delle donne sarde […] È convinto? Se no, lo lascio libero di credermi, se vuole, una donna-eccezione. Per me fa lo stesso.36

35. Ivi, 23 luglio 1893, p. 7. 36. Ivi, 6 agosto 1893, p. 5.

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Gli inviati speciali Che la scrittrice fosse donna intraprendente è cosa nota, che abbia saputo superare con insolita maestria e capacità avverse condizioni di partenza non è un mistero, che fosse anche un’ottima promotrice culturale e in qualche modo intermediaria di un turismo ante litteram è notizia che si consolida man mano che vengono alla luce nuovi documenti che attestano questa singolare inclinazione. Fra gli altri ci si riferisce a Sardegna. Isola sconosciuta della scrittrice danese Marie Gamél Holten37. Non una viaggiatrice anonima, come si era pensato in un primo momento, ma una delle traduttrici danesi di Deledda, avendo tradotto con il titolo Efter skilsmisse il romanzo Dopo il divorzio, e donna di singolare sensibilità e dinamismo38. Il testo in questione, ritrovato in modo fortunoso, è il resoconto di ben due primavere trascorse dalla donna nel primo decennio del 1900 in un’isola considerata ancora selvaggia e primitiva. Al momento mancano le ragioni per crederla inviata in Sardegna di Deledda e tuttavia è verosimile pensare che proprio la conoscenza della scrittrice sarda e della sua opera l’abbiano indotta, ancora giovanissima, a intraprendere quel viaggio irto di pericoli. Val la pena ricordare che lo stesso David H. Lawrence aveva tratto impulso al suo viaggio in Sardegna dalla traduzione del romanzo La madre, anche se Deledda non può esserne considerata responsabile. In ogni caso, Gamél Holten è l’ultima testimone, diretta o indiretta poco importa, di quella caratteristica della scrittrice

37.  M. Gamél Holten, Sardegna. Isola sconosciuta, tr. it. di A. Bodenhoff Salmon, Iris, Oliena 2005. Sulla scrittrice danese si veda S. Severini, Poligrafia pittoresca. La scrittura eccentrica di Marie Gamél Holten tra l’Italia e la Danimarca del primo Novecento, Tesi di dottorato, Università di Genova, 2020. 38.  Cfr. M. Giacobbe, Grazia Deledda a Stoccolma, in U. Collu (a cura di), Grazia Deledda nella cultura contemporanea, cit., vol. II, p. 433.

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sarda di farsi promotrice e madrina della sua terra e della sua cultura. I suoi romanzi hanno solleticato fantasie e desideri, ma è certo che ancora più motivante fosse la capacità, quando ne aveva l’occasione, di spingere personalmente gli amici ad avventurarsi all’interno dell’isola piuttosto che lungo le coste fin troppo battute da un turismo già da allora più attento alle bellezze naturali da consumare nel breve tempo di uno sguardo. Altri avevano preceduto Gamél Holten e altri ancora percorrevano nel medesimo tempo itinerari paralleli – considerata la contemporaneità della loro presenza nell’isola – indotti dalla conoscenza di Grazia Deledda, che lei traduceva in lettere di raccomandazione per amici e conoscenti. Due scrittori, in particolare, fanno esplicito riferimento alle sue lettere, il russo Michail N. Semenov, personaggio di indubbio fascino per la straordinarietà della sua vita che lo pone accanto all’italiano D’Annunzio e ai bohémiens francesi, da una parte, e di cui invece a Giuseppe Dessì piace riconoscere la convergenza con la scrittrice per le condizioni di vita in cui, a suo giudizio, versavano contadini russi e gente sarda. Un intervento, quello del Dessì, per certi aspetti ancora significativo e tuttavia molto riduttivo ed esterno alle ragioni più intime e vere che in qualche modo possono aver determinato l’amicizia fra due personaggi così diversi39. In realtà, i rapporti che legavano l’intellettuale russo alla scrittrice sarda erano molto più profondi di quanto si possa credere. Da editore, responsabile di una rivista letteraria e libraio, non era improbabile che potesse conoscerla, o potesse forse conoscere qualche sua opera in traduzione pur non essendone l’artefice. Se non per questi motivi, è certo che per un’altra via i due intellettuali erano contigui ed era la stessa che legava Semenov a Gor’kij. A suo tempo, infatti, egli era stato il talent scout di uno

39.  Cfr. G. Dessì (a cura di), Scoperta della Sardegna, Il Polifilo, Milano 1967.

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fra gli scrittori più celebrati e controversi del 900 russo, appunto quel Maksim Gor’kij, grande ammiratore di Deledda40. Fra le altre cose, le note biografiche di entrambi aiutano a comprendere che essi soggiornarono in Italia in periodi vicini e non è improbabile che frequentassero gli stessi salotti romani. D’altra parte, l’affetto di Gor’kij per la scrittrice risulta dai rapporti epistolari. Egregia Maestra [così le si rivolge], La vostra lettera mi ha tanto commosso, sebbene mi pare che l’apprezzamento di cui mi onorate come scrittore non merito. Sono felice di poter scrivere a voi stessa, ché ho letto tutte le vostre opere tradotte in russo, disgraziatamente prima non potevo leggere in italiano; anche adesso lo faccio con grande difficoltà, ma tutto ciò che ho letto mi ha profondamente commosso. Nelle vostre opere sento la vostra grand’anima, sento l’ardente amore per l’umanità, l’amore che non vuol nascondere la parte melanconica della vita. Voi mi avete aiutato a capire meglio la vita e l’anima del vostro popolo ed io ho una grandissima stima di voi. Le mie lettrici predilette siete voi e la Lagerlöf, ella al nord, voi al sud, tutte e due vi siete messe nelle prime file dei lottatori per lo spirito e la bellezza, siate dunque salutate! Prima di tutto le donne sono le Madri dell’Umanità ed io credo che quando esse capiranno questa grande loro parte, tutta la nostra vita sarà più chiara, più lieta, più nobile. Mi pare che vicino è il tempo quando la Madre, come simbolo della vita e dell’amore, sarà l’eroina dei romanzi, dei drammi e della tragedia e ancora troppo poco detto! Sarò felice anch’io di avere la possibilità di vedervi e stringere la vostra nobile mano. M. Gorkij.

Da tutto ciò consegue che la letteratura italiana dell’inizio secolo non intratteneva solo legami con quella più strettamente 40.  Cfr. M.N. Semenov, Bacco e sirene. Memorie, tr. it., De Carlo, Spoleto 1950, p. 142.

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europea, in particolare francese e inglese, come ancora troppo spesso si legge, ma anche con quella slava in un rapporto di reciprocità. Dostoevskij e Tolstoj erano letti in Italia, ma D’Annunzio, Verga e Deledda, a loro volta, venivano letti e ammirati in Russia anche da intellettuali come Gor’kij, notoriamente antagonista di Dostoevskij. Agli inizi del 900, come ancora riporta Semenov, erano state tradotte in Russia le opere di autori come Edgar A. Poe, Shelley, Withman e Wilde41. «La casa editrice Scorpione» aveva pubblicato «le traduzioni di Verlaine, Verhaeren e Maeterlinck. […] Baltrusciaitis […] tradusse la maggior parte delle opere di D’Annunzio e di Hauptmann»42. D’altra parte, le notizie di M. Luisa Dodero Costa non fanno che confermare il fecondo scambio tra la letteratura russa e quella italiana43. A questo punto sarebbe il caso di riconsiderare secondo nuovi parametri il problema della circolazione e del consumo letterari ridisegnando, nel contempo, una nuova geografia della letteratura per confermare che l’Europa era già un concetto condiviso più di un secolo fa. D’altronde, nel caso di Deledda, la sua conoscenza prima e dopo il Nobel è attestata anche dalle numerose traduzioni in quelle lingue che apparentemente erano ai margini della grande letteratura europea. Oltre che nei paesi più maturi culturalmente, la sua opera veniva infatti letta in Polonia come in Cecoslovacchia; stupisce meno che fosse conosciuta in Romania che per cultura e lingua poteva certamente vantare una maggiore affinità con la letteratura italiana. In ogni caso, resta il fatto che lo stravagante «nar-

41.  Cfr. ivi, pp. 233-235. 42.  Ivi, p. 229. 43.  Cfr. M.L. Dodero Costa, Grazia Deledda in Russia, in U. Collu (a cura di), Grazia Deledda nella cultura contemporanea, cit., vol. II, pp. 399-403.

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ratore» russo, come Semenov amava definirsi, in vista del suo viaggio per la Sardegna aveva come meta Nuoro. Era proprio la località barbaricina la destinazione del suo viaggio, espressa con chiarezza nell’affascinante memoriale Bacco e Sirene. E fu proprio Deledda a motivare il viaggio nell’Isola, a convincere il bizzarro intellettuale che valeva la pena. Quando Semenov mette piede in Sardegna, annota subito di essersi imbattuto «in una locanda alla Cervantes, e (di aver bevuto) caffè con latte di pecora»44. Ma la meta del mio viaggio – aggiunge – era Nuoro, piccola città nel centro dell’Isola. Avevo diverse lettere di raccomandazione della scrittrice sarda Grazia Deledda per abitanti di quella città. Da Sassari presi il treno e arrivai a Macomer, dove dovetti aspettare due ore il treno per Nuoro. […] A Nuoro presi alloggio nell’unica locanda, che teneva una tedesca di Sassonia, donna Anna. […] Per fortuna aveva dimenticato tutte le pietanze tedesche e ci cucinò meravigliosi arrosti di capretto al forno all’uso sardo e preparò divinamente le pernici allo spiedo. In breve conobbi tutti gli abitanti della città, nonché le autorità, i negozianti, i pastori e i conduttori di asinelli.45

Egli segue diligentemente l’itinerario suggeritogli, e con intelligenza e sensibilità coglie le particolarità senza pregiudizi, relativizzando i punti di vista. Ridimensiona pertanto i vicendevoli preconcetti di popolazioni vicine, dei Corsi nei confronti dei Sardi e viceversa, dimostrando in quell’occasione d’essere l’uomo di mondo scaltrito e al di sopra delle parti come in tanti altri momenti della sua vita. Non bisogna tuttavia meravigliarsi che la scrittrice conoscesse persone così originali, sorprende piuttosto l’attaccamento alla Sardegna, nonostante la lontananza e le nuove occasioni della

44.  M.N. Semenov, Bacco e sirene, cit., p. 313. 45. Ivi, pp. 313-314

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sua vita. In realtà avverte sempre l’impegno per la sua terra, come già era stato in occasione della fondazione della Società per il folklore di Angelo De Gubernatis, anche se allora le ragioni potevano essere diverse. Con Amelie Posse diventa ancora più chiaro l’intento di divulgatrice culturale che aveva assunto nei confronti della Sardegna, e soprattutto d’interprete della sua gente. Amelie Posse riconosce appieno queste sue qualità. Si può facilmente immaginare quale fosse l’idea che allora circolava della Sardegna, un’idea cui molti viaggiatori avevano contribuito, così come il fraintendimento di certa narrativa, a torto interpretata non come frutto dell’adesione a canoni letterari imperanti nel periodo (basti pensare al Naturalismo se non propriamente al Verismo), ma come discutibile documento antropologico. Insomma, Deledda era donna affascinante e Posse lo dichiara apertamente: «Avevo incontrato spesso Grazia Deledda, e andai a trovarla per chiederle informazioni sulla sua isola natale»46. È Roma il luogo dei loro incontri, la città più cosmopolita di quel periodo, la stessa dove era approdato Semenov, il salotto buono della letteratura italiana: «Mi diede lettere di presentazione e molti buoni consigli su come trattare con i suoi corregionali, alteri e primitivi ma cordiali», continua Posse: «In seguito, ebbi spesso occasione di verificare quanto corrette e rispondenti al vero fossero le sue descrizioni psicologiche. Innumerevoli volte incontrai caratteri e individui, specie tra la gente di paese, che sembravano usciti dai suoi libri. E questo avveniva già prima che diventasse famosa fino al punto di ottenere il premio Nobel». Il giudizio lusinghiero sulla perspicacia della scrittrice è in qualche modo la riprova che ciò che scriveva aveva il sapore della vita reale e che spesso proprio il «mondo», il realismo,

46.  A. Posse, Interludio di Sardegna, Tema, Cagliari 1998, p. 58.

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avesse la meglio sull’arte. Ma Posse volge anche lo sguardo intorno e raffronta la pochezza del contesto e la grandezza di chi lo abita: Quando vedete la sua casa dozzinale e priva di gusto, con quelle pretenziose cosette da due soldi e quei brutti quadri insignificanti, pensereste di aver a che fare con una maestrina di provincia dalla mentalità ristretta. Ma sono sicura che, anche se non l’avessi conosciuta e non avessi già letto i suoi libri, la calda espressione di umanità e di saggezza del suo viso mi avrebbe persuaso del contrario. Fu davvero molto interessante conoscere una persona così di talento che non si preoccupava affatto dell’estetica, e la cui aspirazione alla bellezza era concentrata esclusivamente sull’opera letteraria.47

Nella lettera del 6 giugno del 1901, inviata all’avvocato Giuseppe Pinna da Roma, Deledda conferma la sua vocazione di paladina della sua terra. È lo stesso Gonario Pinna, anche lui famoso avvocato e figlio di Giuseppe, a testimoniare della sua generosità in un saggio riportato nella «Nuova Sardegna» del 196848. In occasione della venuta di uno scrittore, l’intellettuale sarda così scrive a Giuseppe Pinna: Onorevole amico, mi permetto presentare e raccomandare a Lei, come al più eletto rappresentante di Nuoro, il sig. Wilhelm Hörstel, che viene in Sardegna, incaricato da grandi giornali tedeschi di illustrare l’Isola nostra. L’Hörstel è un egregio scrittore amantissimo dell’Italia, e viene in Sardegna animato da una vera simpatia per l’Isola. Bisogna però aiutarlo nell’opera che egli si propone di fare, con il parlargli schiettamente dei nostri bisogni e dei nostri mali, senza lasciarlo cadere però nelle esagerazioni di tutti quelli che scrissero sulle cose nostre. Nel Suo studio Ella potrà presentarlo

47.  Ibidem. 48.  G. Pinna, «La felicità sognata nella sua casa di Nuoro ora era nelle sue mani piccole ma forti», in «La Nuova Sardegna», 12 maggio 1968, p. 3.

156 a Sebastiano Satta e ai pochi altri nuoresi che possono dare delle notizie vere sulle cose nostre….

Secondo Gonario Pinna, con l’amore [per la Sardegna] rimase sempre vivo – nella scrittrice – il desiderio di farne conoscere la struttura arcaica ma eticamente salda, il tessuto sociale prevalentemente pastorale, le tradizioni popolari radicate nei secoli e straordinariamente interessanti (non dimentichiamo che, sin da giovanissima, ebbe insieme con la vocazione per la narrativa, il “pallino” dello studio del folklore, […] la vita, insomma del popolo sardo e specialmente del pastore sardo.49

Le ragioni elencate dall’avvocato Gonario Pinna sono le stesse che muovevano i viaggiatori amici di Deledda a visitare la Sardegna. Chi andava alla ricerca dell’Eden perduto con la speranza di ritrovarlo in Sardegna si appagava della visione del suo mare e delle coste. Quanti avevano interesse per l’uomo, le sue radici, la sua cultura, preferivano avventurarsi nell’interno. Naturalmente era possibile che talvolta gli esiti non corrispondessero agli intenti iniziali, ma ciò che qui si vuole affermare è che la scrittrice indicava itinerari più articolati e profondi per raggiungere quel cuore di tenebra, il punto focale di una civiltà da cui risalire per capire la cultura dell’isola, le sue tradizioni e i suoi bisogni. Il punto zero di ogni successiva comprensione.

49.  Ibidem.

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La scrittura

L’esercizio psicologico della scrittura e la riflessione filosofica su di essa, insieme all’annebbiarsi della coscienza e agli sforzi per ricostruirla, sono possibili attraverso il recupero della biografia. Per questa via, l’immaginario rivive sotto mutate forme. È proprio attraverso queste procedure che la ricerca linguistica e letteraria, seppur consapevole dell’inevitabile falsità di ogni trascrizione letteraria della vita, stimola a trasformare frammenti della vita in scrittura. La trascrizione di esperienze e impulsi privati, fra gli altri, ha avuto una parte notevole nella composizione di alcuni concetti-tema di forte pregnanza semantica e artefici di ampi sviluppi narrativi insieme all’elaborazione di alcune parole-tema come malattia, religione, morte. La più importante, tuttavia, sembra essere la parola-tema scrittura. Ad essa è legata la funzione della memoria considerata in rapporto al vissuto individuale: l’attenzione, in questo caso, si ferma su una scoperta interamente affidata al soggetto scrivente. Sul piano dei significati, come pare ovvio, la memoria appare spesso associata a un’area di tematiche esistenziali; di motivi memoriali, peraltro, è ricca la letteratura contemporanea. In questo tipo di scrittura l’effetto di distanziamento è ottenuto con la narrazione in terza persona o tramite la rappresen-

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tazione di luoghi reali e riconoscibili, che siano lo sfondo di vicende con protagonisti inventati. Le impressioni fuggevoli e i sistemi di idee astratte, le osservazioni accurate e l’esplorazione di momenti intimi, la trascrizione delle emozioni e quella della comunicazione sociale, gli eccessi sentimentali e le esaltazioni interiori sono altrettante scelte che differenziano scritture diverse. Quando poi si parla di donne di fronte alla scrittura le opinioni sono varie e, spesso, dissonanti. Non è questo l’ambito per commentare posizioni articolate, è, piuttosto, questa, l’occasione per porre in rilievo le affinità di due grandi scrittrici di fronte al fenomeno della scrittura in due opere particolarmente significative e nelle quali, seppure con modalità ed esiti disuguali, si rispecchiano motivi autobiografici. La distanza dei luoghi in cui le autrici vissero e scrissero non potrebbe essere più vasta, il contesto culturale, la stessa formazione non depongono a favore di un percorso comparativo e, tuttavia, vi sono ragioni letterarie e umane che giustificano il confronto. Singolare, prima di tutto, appare la serie di coincidenze che lega più strettamente di quanto possa sembrare le vicende letterarie di Emily Brontë e Grazia Deledda. C’è più di un motivo per parlare di convergenze che si riferiscono a idee comuni e risoluzioni tematiche, pur nell’innegabile diversità dovuta ai contesti ambientali1.

1.  Le ragioni di una comparazione letteraria possono essere diverse e, a prima vista, non sempre convincenti. Relativamente al confronto in questione, quello fra Brontë e Deledda, a parte le evidenti affinità tematiche che consentirebbero ulteriori accostamenti con altre scrittrici, un ruolo importante hanno giocato le riflessioni di Cesare Segre. «Si fa storia di un’unica letteratura per pura convenzione» – dice il critico – «gli scrittori non limitano certo le loro letture a testi nella propria lingua, né sono soltanto sensibili a movimenti culturali e spinte ideali del loro paese; ciò vale ancor più per lo studio degli autori del passato: basti pensare alla Bibbia e ai classici greci

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Le accomunano, inoltre, la sensibilità femminile e le difficoltà a imporsi in un mondo maschile, ma soprattutto il vivere in un isolamento che le motiva a una ferrea volontà. La stessa presenza di numerosi archetipi biblici rinvenuti in entrambe, e che rimanda alla severa educazione religiosa, insieme all’aderenza al romance secondo le indicazioni di Northrop Frye, depone a favore di un possibile, lecito, accostamento.2 Degna di considerazione appare certamente la stessa coincidenza della loro applicazione scritturale. Deledda scrive a quattordici anni, come ci informa in Cosima, la Brontë anche. Aveva, infatti, cominciato a scrivere in versi proprio a quattordici anni anche se la prima poesia datata risale al 1836. La stessa sorte accomuna le due scrittrici riguardo alle difficoltà incontrate inizialmente. Al loro nome può essere aggiunto anche quello di Jane Austen.

e latini. Una percentuale di comparatismo è dunque immancabile, nonché benvenuta. […] Ma se si prendono in esame opere più eterogenee per dislocazione o ispirazione, l’attività comparativa imbocca altre strade, soprattutto quella degli universali, o se si preferisce, degli archetipi. Le differenze tra gli uomini in tutto il pianeta sono meno decisive che le rassomiglianze. Vale dunque la pena di interrogarsi su elementi formali o contenutistici comuni tra opere di culture diverse, proprio per rendersi conto di quanto rende simile il nostro modo di descrivere e raccontare la realtà, d’inventare trame narrative, di metaforizzare. Non si può negare che grava su queste ricerche il pericolo del dilettantismo: quando i riflettori sono superficiali, le conclusioni affrettate. Ma i vantaggi di uno studio, come dicono i linguisti, contrastivo, sono evidenti. E questo studio contrastivo è anche più sintomatico quando si tratti di opere non tanto remote, però impiantate e sviluppate con intendimenti del tutto lontani. […] Particolarmente interessanti i casi in cui le rassomiglianze non siano nel contenuto delle azioni, ma nella forma del loro manifestarsi…» (C. Segre, Ritorno alla critica, Einaudi, Torino 2001, pp. 193-194). 2.  Riguardo alla teoria del romance si legga N. Frye, Anatomia della critica, cit.; a proposito degli archetipi biblici si veda anche, dello stesso Frye, Favole d’identità. Studi di mitologia poetica, tr. it. di C. Monti, Einaudi, Torino 1973.

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Precisamente riferendosi alla Brontë e alla Austen, Virginia Woolf dirà che «il (loro) genio è tanto più convincente per la loro capacità […] di proseguire per la loro strada imperturbate da voci di scherno e di critica»3. Proprio Cime tempestose, il capolavoro della Brontë, presenta alcune interessanti affinità tematiche con Cosima, l’opera deleddiana che per motivi diversi molti giudicano paradigmatica. A questo proposito, inizialmente l’attenzione si soffermerà dove si colloca la vicenda di Catherine Linton – figlia di Cathe­ rine Earnshaw e di Egdar Linton – e di Hareton – figlio di Hindley Earnshaw e dunque nipote della prima Catherine – e che si definisce, diventa addirittura, la svolta sostanziale del romanzo inglese4. Entrambi i personaggi sopra citati, infatti, si costituiscono, fra gli altri, come l’emblema della risoluzione dell’infanzia bloccata: quella di Catherine Earnshaw e di Heathcliff, il suo inseparabile e tenebroso compagno di giochi. Nel momento in cui la loro vita si arresta fino a configurarsi stasi di morte si pone, di fatto, un argine insormontabile al naturale processo della maturità. A suo tempo, Georges Bataille aveva affermato che l’incompiutezza erotica della loro storia, nel senso di mancato soddisfacimento carnale, aveva impedito la dialettica del morire e del vivere, del dare e dell’avere certamente, ma anche del consumarsi e spegnersi dell’individuo nell’atto condiviso. Egli aveva, pertanto, tratto la conclusione che tale limitazione avesse portato di necessità a una condizione malefica e letale.

3.  V. Woolf, Le donne e la scrittura, tr. it., a cura di M. Barrett, La Tartaruga, Milano 1995, p. 42. 4.  La Storia di Wuthering Heights è divisa in due parti: la prima narra di Cathy e Heathcliff, la seconda – quella di cui ci si occupa – dei loro figli e della morte di lui. È la seconda parte, col suo happy ending, che rende il libro un romanzo; mentre nella prima meglio si precisa la vena romantica, e più precisamente gotica, che lo ha reso una tragedia.

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In questa straordinaria tensione erotica, sempre evocata e mai consumata, se non attraverso allusivi abbracci spasmodici anche di fronte alla voyeuristica signora Dean, si gioca gran parte del Romanticismo e del gotico del romanzo, affascinante proprio per le ambiguità delle situazioni irrisolte5. Catherine Linton, diversamente dalla madre, scioglie una situazione bloccata e rende buono ciò che buono non era. A un primo momento in cui la ragazza sconta aspramente la colpa d’essere figlia di Linton e Catherine fino all’abiezione di un dolore cieco, succede, come nella migliore tradizione cristiana, la ripresa e la rinascita. Fino ad allora agnello sacrificale, Catherine scampa al dolore immeritato proprio in conseguenza della morte del demone Heathcliff e al cambiamento dei luoghi, importanti tanto da configurarsi protagonisti essi stessi, costituire lo sfondo del farsi della storia e disegnare nel contempo quello che, con termine felice, Franco Moretti chiama Home Land6. I luoghi, dunque, insieme al tempo, disegnano lo spazio privilegiato del romanzo che facilmente si può dire rurale, come di alcuni di Jane Austen. La domanda, una tra le tante, è come sia potuta accadere questa miracolosa trasformazione e perché. La prima risposta che viene in mente è che sono cambiati i luoghi. Tutti abbandonano Wuthering Heights, tranne il vecchio Joseph, e si rifugiano in Thrushcross Grange, mentre il come rimanda a uno strumento cui la scrittrice annette notevole importanza. I libri e la lettura diventano occasione di odio e, insieme, strumenti del suo esorcismo. La mancanza del libro o della sua frequentazione descrive meglio di qualunque altra cosa la povertà morale e definisce il profilo del male. È significativo, a

5.  G. Bataille, Emily Brontë, in Id., La letteratura e il male, tr. it. di A. Zanzotto, Mondadori, Milano 1991, pp. 13-29. 6.  F. Moretti, Atlante del romanzo europeo, cit., pp. 15-20.

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questo riguardo, considerare quale valenza etica la donna attribuisca alla cultura se l’assenza di quest’ultima contribuisce a definire compiutamente il già feroce ritratto di Heathcliff. Con il riferire quello che pare essere l’estremo difetto, infatti, Catherine completa la fotografia dell’uomo. Non c’è più niente da aggiungere: l’ignoranza diventa – anch’essa – un carattere demoniaco. «I was always reading, when I had them», […] said Catherine, «and Mr Heathcliff never reads; so he took it into his head to destroy my books».7

In Cosima il rapporto che l’omonima protagonista del capolavoro deleddiano istituisce con la cultura è talmente precoce e sentito da connotarsi come occasione di progressiva presa di coscienza, non solo di un ampio patrimonio culturale ma anche delle proprie aspirazioni. Anche leggendo di nascosto i libri del fratello maggiore e quelli che esistevano in casa, pensava a una vita lontana, diversa dalla sua, e che pure le sembrava di aver un giorno conosciuto. Così, giovanissima, lesse i primi romanzi: uno dei quali era I Martiri di Chateaubriand che lasciò nella sua fantasia una traccia profonda8. Come per Catherine anche per Cosima la lettura consente il manifestarsi di fermenti che lievitano “nonostante” i luoghi angusti in cui essa vive. Nella lettera al De Gubernatis dell’8 novembre 1892 questo concetto è già chiaramente espresso. In quell’occasione la scrittrice afferma: «Le montagne sono il mio 7.  «Leggevo sempre, quando avevo i libri», dirà Catherine al signor Lockwood, «[…] e il signor Heathcliff non legge mai; così ha pensato bene di distruggere i miei libri». Le citazioni in inglese sono tratte da E. Brontë, Wuthering Heights, a cura di D. Daiches, Penguin Books, London 1965, pp. 331-346; la traduzione in italiano è tratta da Cime tempestose, a cura di A.L. Zazo, con uno scritto di J.C. Oates, Mondadori, Milano 1993, pp. 311-327. 8.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 950.

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orizzonte, i libri i miei amici, il silenzio, lo studio, i sogni sono i cavalieri della piccola corte del mio ingegno»9. D’altra parte, il successivo interesse per la scrittura non prescinde dalla scoperta prima e dal consolidamento del sentimento d’amore poi. E così: piegata sul suo scartafaccio […] ella si slancia nel mondo delle sue fantasie, e scrive, scrive, per un bisogno fisico, come altre adolescenti corrono per i viali dei giardini, o vanno a un luogo loro proibito; se possono, a un convegno d’amore. Anche lei, nella sua scrittura, combina convegni d’amore: è una storia, la sua, dove la protagonista è lei, il mondo è il suo, il sangue dei personaggi, le loro ingenuità, le loro innocenti follie sono le sue. Il titolo del libro non può essere che quello che è: Rosa di macchia.10

Cosima sembra ripetere tratti caratteristici di Emma Bovary, mostrando un temperamento romantico e appassionato, incapace di darsi pace nella mediocrità del quotidiano, in fuga nel sogno e nell’immaginazione11. Le sue aspirazioni non si conciliano evidentemente con la realtà della sua vita. Tuttavia, mentre lo scollamento fra immaginazione e realtà fa sì che nella vita Emma sia incapace di agire e attenda che qualcosa o qualcuno apporti un grande cambiamento, poiché non sa crearlo da sé, in Cosima la stessa situazione produce soluzioni differenti. La donna, in realtà, esorcizza questo pericolo con la scrittura nonostante l’ingenuo trasporto per gli uomini che seducono la sua fantasia e la inducono a perdersi dietro passioni velleitarie. La fruizione passiva dei romanzi viene superata proprio dall’esercizio scrittorio che la pone al riparo dal bovarismo di maniera col determinare l’emancipazione e il porre le basi di una futura indipendenza. 9.  G. Deledda, Lettere ad Angelo de Gubernatis, cit., p. 393. 10.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 985. 11.  G. Flaubert, Madame Bovary, tr. it. di B. Oddera, Fabbri, Milano 1968.

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Al libro e alla cultura è legata, in Cime tempestose, la stessa storia d’amore di Catherine Linton e Hareton. Il loro innamoramento è anche la storia del rifiuto prima e della concessione del libro poi. L’ammissione di Hareton al gran tempio della cultura – considerato il valore sacrale che essa ha per Catherine – è figlia di un processo, di fasi dialettiche in cui si nega e si afferma, e quel che prima veniva sottratto sarà poi concesso. Inizialmente si assiste al dolore di Catherine per la mancanza di lettura e all’accusa contro Hareton, incolpato di invidia e di complicità con Heathcliff. Catherine prima afferma di non aver veduto neanche un libro per settimane, e pertanto di essere stata indotta dalla sua sete di sapere a cercare fra le opere edificanti di Joseph con profonda irritazione di quest’ultimo, mentre nella camera di Hareton avrebbe trovato un tesoro nascosto: «Libri in latino e greco e libri di racconti e di poesie [some Latin and Greek, and some tales and poetry]». Erano quelli che lei stessa aveva portato con sé e che le erano stati rubati. «A voi non servono», aggiunge nella sua requisitoria, «oppure li avete nascosti per cattiveria, affinché, poiché non potete goderne, nessun altro ne goda [that as you cannot enjoy them, nobody else shall]». Quindi ribadisce con orgoglio: «Ma la maggior parte sono scritti nella mia mente e incisi nel mio cuore, e voi non potete privarmene [But I’ve most of them written on my brain and printed in my heart, and you cannot deprive me of those!]». Più che oggetti come sono per gli altri, «gazze» che prendono «cucchiai d’argento [a magpie gathers silver spoons]», essi per lei sono vecchi amici, confermando quella fedeltà espressa attraverso la loro permanenza nella teca memoriale e nello scrigno del suo cuore come si addice ai tesori veri: tesori infatti essi sono («My treasures») per lei.

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E davanti al signor Lockwood che prende le difese di Hareton, Catherine rivendica il diritto a un sapere esclusivo, dal quale il rozzo Hareton sarebbe, ancora e a ragione, lontano. D’altra parte, Hareton non sa opporre se non un evidente disagio, consapevole dei propri limiti. «Oh!» she replied, «I don’t wish to limit his acquirements […] still, he has no right to appropriate what is mine, and make it ridicolous to me with his vile mistakes and mispronunciations! Those books, both prose and verse, were consecrated to me by other associations, and I hate to have them debased and profaned in his mouth! Besides, of all, he has selected my favourite pieces that I love the most to repeat, as if out of deliberate malice!» Hareton’s chest heaved in silence a minute; he laboured under a severe sense of mortication and wrath, which it was no easy task to suppress.12

Il racconto di Lockwood prosegue incentrandosi sull’ira e lo scherno di Catherine e sul profondo dispiacere di Hareton che assiste senza reagire al rogo dei libri che ormai hanno assunto, com’è evidente, un valore feticistico. Insieme ai libri vanno in fumo speranze e sogni d’amore. Brucia, insieme ai libri, il piacere tante volte provato dal discepolo nei confronti della sua precettrice, mentre si assiste alla riedizione del topos dell’incendio in cui ora brucia la cultura e che rimanda, immediatamente, al novecentesco Auto da fé di Elias Canetti.13

12.  «Oh» rispose Catherine «non intendo certo limitare le sue conoscenze […] ma non ha il diritto di appropriarsi di quello che mi appartiene e di rendermelo ridicolo con i suoi clamorosi errori e i suoi sbagli di pronuncia! Quei libri, in prosa o in versi, mi erano sacri per altri legami, e detesto sentirli avviliti e profanati nella sua bocca! Inoltre, ha scelto tra tutte le mie poesie preferite, quelle che più amo recitare, come se lo avesse fatto per deliberata cattiveria!». Hareton rimase un istante in silenzio, ansando pesantemente; era sotto l’influsso di un profondo senso d’umiliazione e di collera che non gli era facile frenare. 13.  E. Canetti, Auto da fé, Garzanti, Milano 1967.

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Inizialmente Lockood esce dalla stanza nell’idea di liberare il ragazzo dall’imbarazzo. Hareton lo segue ma subito dopo rientra portando una mezza dozzina di libri che getta in grembo a Catherine esclamando: «Prendeteveli! Non voglio più sentir parlar di loro né leggerli né pensarci! [Take them! I never want to hear, or read, or think of them again!]». Ma Catherine mostra una volta di più il suo carattere fermo e ribelle. «Adesso non li voglio più [I won’t have them, now]», è la sua risposta bizzosa e dai toni offensivi: «Ormai li collegherò a voi e li odierò per questo! [I shall connect them with you, and hate them]». Quindi procede irridendo Hareton col mimare la sua goffaggine nella lettura. Alla fine con la raccolta dei libri e il loro lancio nel fuoco, si assiste al miscuglio di sentimenti dolorosi che si agitano nel profondo di entrambi. A un’attenta lettura risultano chiare sia l’importanza dei libri sia la caratura feticistica che essi acquistano per Hareton. In luogo di Catherine – o forse in sua attesa? –, essi erano stati un piacere, si augurava anzi che questo piacere si ripetesse. Per Catherine, d’altronde, essi sono parte di sé stessa e rifiuta l’idea di una loro possibile alienazione, indirettamente negandosi al possesso di Hareton. Ed ecco, in una prospettiva completamente mutata, ancora filtrata dal punto di vista di Lockwood, il racconto di una scena che dice l’evoluzione della storia. Riferendosi a due personaggi di cui non fa il nome, ma che si intuisce siano Catherine e Hareton, egli riporta i momenti dell’approccio alla lettura frammisti a quelli d’amore. Per il diligente Hareton il premio sono infatti i baci di Catherine. La lettura, evidentemente, non è la ragione prima dell’impegno; essa è, piuttosto, inscindibile dal sentimento. L’esercizio della lettura è, comunque, carico difficile e procede per fasi e la Brontë ne registra l’avanzamento in modo puntuale:

167 I could both see them and hear them talk before I entered, and looked and listened in consequence, being moved thereto by a mingled sense of curiosity, and envy that grew as I lingered. «Con-trary!» said a voice, as sweet as a silver bell – «That for the third time, you dunce! I’m not going to tell you, again – Recollect, or I pull your hair!» «Contrary, then», answered another, in deep, but softened tones. «And now, kiss me, for minding so well». «No, read it over first correctly, without a single mistake».14

La lettura ha finalmente termine, seppur con qualche errore, ma l’allievo chiede un compenso che gli viene assegnato sotto forma di baci. Quindi, maestra e discepolo si dirigono verso la porta con l’intenzione di fare una passeggiata nella brughiera. I luoghi sono ancora una volta profondamente intrecciati ai sentimenti che accompagnano i protagonisti. Ne sottolineano la naturale convergenza d’intenti e disegnano quel reticolo complesso che completa il coerente spazio artistico. La brughiera diventa lo sfondo entro il quale si compone la storia, quasi ne rafforza la valenza non solo sentimentale ma antropologica così come era stato per i protagonisti della prima parte della vicenda. Anche in Cosima il percorso letterario della protagonista finisce d’essere solo letterario quando diventa porta per nuove conquiste. Così come la scrittura anche l’amore ha le sue tappe. Così come nella scrittura anche nell’amore non c’è solo innalzamento ma stasi e ritorno indietro. Così come la scrittura anche l’amore ammette gioie e delusioni. Pertanto, finché il processo scritturale non è compiuto, 14.  Potevo vederli e sentirli prima di entrare; guardai e ascoltai, mosso da un senso di curiosità e di invidia che, più indugiavo, più si faceva intenso. «Con-tra-rio!» diceva una voce dolce come un campanello d’argento. – «È già la terza volta, zuccone! Non intendo dirtelo ancora. Cerca di ricordartelo o ti tirerò i capelli». «Contrario, va bene» rispose una voce profonda, ma tenera «e ora dammi un bacio per essere stato così bravo». «No, prima leggi correttamente senza un solo errore».

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l’amore è un sentimento più fantastico che reale, più sognato che realizzato. È tuttavia interessante soffermarsi proprio su queste tappe e stabilire la misura del rapporto simbiotico fra scrittura e amore. Antonino […] fu il primo, il lungo amore di Cosima. E quando Santus si ustionò a causa della ruota pirotecnica, solo la compagnia di Antonino pareva fargli piacere: si chiudevano per lunghe ore nella camera alta della casa, e se Cosima, con la forza della curiosità e della passione, riusciva a mettersi in ascolto nel pianerottolo li sentiva leggere ad alta voce e commentare e discutere di cose letterarie. Antonino recitava i versi ultimi del suo diletto poeta: una mattina la sua voce risonò più alta del solito, e nell’umile sereno silenzio della piccola casa patriarcale, si diffuse come una musica che raccontava di città lontane, luminose di fontane, di statue, di giardini, popolate solo di amanti, di donne bellissime, di gente felice.15

Se Antonino rappresenta la fase dell’innamoramento ‘da lontano’, una fase che può essere definita trobadorica, anche la scrittura di Cosima muove i primi passi e, guarda caso, il soggetto sono le passioni, la ripetizione dei suoi sogni. Da lì il declinarsi della prima opera. In modi completamente diversi si presenta la vicenda di cui è protagonista Fortunio. Nel sentimento per Fortunio, infatti, si raccolgono spinte diverse. Cosima oppone alla sensualità del suo innamorato, da cui è turbata, gli strumenti – il baluardo – di una ferrea educazione religiosa e l’aiuto di una razionalità che non cede. Con Fortunio, tuttavia, nonostante la resistenza, il rapporto diventa più stretto. L’amore, di fatto, manifesta per intero i suoi tratti intrinseci, concedendo spazio a quell’erotismo che, relativamente ad Antonino, era stato bandito.

15.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 961.

169 Poi un’altra cosa accadde: un altro poeta si accorse di lei; e questo era vicino, e accostabile, oh anche troppo accostabile, poiché egli faceva di tutto per esserlo. Ma, ahimè, era un ben piccolo e triste e meschino poeta, in tutto. Era zoppo, fin dalla nascita; non poteva studiare per mancanza di mezzi, non riusciva a trovare un posto decoroso per mancanza di studio.16

E dopo la sua descrizione, ecco come viene riferito un loro incontro: A dire il vero anche lui arrossì e le labbra tremarono: ma ciò valse a far notare a Cosima che egli aveva una bella bocca, carnosa ma non sensuale, o, se mai, di una sensualità sana e attraente come quella di un frutto maturo. Per la prima volta ella ebbe la sensazione di ciò che doveva essere un bacio, la sensazione fisica: un bacio carnale, fra due che si desiderano e sono spinti ad attaccarsi l’uno all’altro da una terribile forza di natura: e anche la sua bocca tremò, ma come quella di un bambino che sta per piangere e neppure lui sa perché.17

Eccone un altro: Ella si lasciava baciare da lui, ne sentiva il calore della persona, i tremiti e gli ansiti di eroe incatenato, la violenza impotente con la quale egli avrebbe voluto possederla e portarsela via; una fredda, quasi malvagia forza di analisi la sosteneva in quella specie di lotta dei sensi contro se stessa e contro l’altro; e ne usciva stanca, disgustata, amara di umiliazione e di rimorso.18

In Cime tempestose parte del XXXII cap. è dedicato al racconto della signora Dean sul mutamento di rapporti fra Catherine e Hareton. La definitiva agnizione del cugino e il contemporaneo – diverso – credito avvengono tramite un libro. Avvolto 16.  Ivi, p. 989. 17.  Ivi, p. 990. 18.  Ivi, p. 995.

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in un bel nastro, il libro diventa messaggero di promesse d’amore, schermo di una profferta che, viceversa, sarebbe nuda e impossibile. Catherine employed herself in wrapping a handsome book neatly in white paper; and having tied it with a bit of ribband, and addressed it to «Mr Hareton Earnshaw», she desired me to be her ambassadress, and convey the present to its destined recipient. «And tell him, if he’ll take it, I’ll come and teach him to read it», she said, «and, if he refuse it, I’ll go upstairs, and never tease him again». 19

La pace è fatta, i due ragazzi sono ormai sullo stesso piano. Il dirozzamento di Hareton procede velocemente, sulle ali di un sapere sempre più consapevole. La signora Dean racconta da un luogo sufficientemente lontano per riportare i termini della conversazione, ma volgendosi vede due visi tanto luminosi chini sul libro da convincerla che pace è fatta. Quindi la complicità fra i due ragazzi cresce velocemente nonostante qualche momentanea battuta d’arresto. Earnshaw was not to be civilized with a wish; and my young lady was no philosopher, and no paragon of patience; but both their minds tending to the same point – one loving and desiring to esteem; and the other loving and desiring to be esteemed – they contrived in the end, to reach it.20

19.  Catherine era occupatissima ad avvolgere in carta bianca un bel libro; dopo averlo legato con un nastro e averci scritto sopra l’indirizzo «per il signor Hareton Earnshaw», mi chiese di farle da ambasciatrice e di portare il dono al destinatario. «E digli, se lo prenderà, che io gli insegnerò a leggere» aggiunse «se invece rifiuta, me ne andrò in camera mia e non lo stuzzicherò più». 20.  Non si poteva civilizzare Earnshaw con un colpo di bacchetta magica, e la mia padroncina non era né un filosofo, né un paragone di pazienza; ma poiché le loro menti si indirizzavano a uno stesso scopo – una amando e volendo dare stima, l’altra amando e volendo riceverla – riuscirono, infine, a raggiungere quel comune obiettivo.

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Particolarmente significativo risulta l’uso di parole e concetti che facilmente si possono riferire all’area illuministica. In un primo momento sembra che entrambi vengano smentiti, considerato l’uso ripetuto della congiunzione negativa, in realtà se ne riafferma l’eterna attualità. La lettura mantiene pertanto la sua funzione “civilizzatrice” e, pur «non essendo la padroncina» – «my young lady was», secondo la signora Dean, «no philosopher, and no paragon of patience»: «né un filosofo, né un paragone di pazienza» –, condivide l’obiettivo di Hareton: amare e stimare. Il superamento della situazione infantile tipica della prima coppia di protagonisti, Catherine Earnshaw e Heathcliff, insieme alla risoluzione dell’identificazione con l’altro nell’implicita negazione della dialettica dell’io e del tu, indicano l’acquisizione di una progressiva maturità sia intellettuale che sentimentale. Non a caso le parole adoperate da Lockwood: «but both their minds tending to the same point» (le loro menti si indirizzavano a uno stesso scopo): « one loving», (l’una amando), «… the other loving», (l’altra amando), – dove l’uso degli indefiniti one, (l’una), e the other, (l’altra), pur nell’univocità dell’obiettivo, costituisce prova di autonomia – sanciscono la simbiosi fra il pensare e il sentire. Superato l’erotismo istintivo e infantile di Catherine Earnshaw e Heathcliff, l’amore si dispiega in modo compiuto attraverso usuali fasi canoniche. Resta inteso che il necessario preambolo rimane il libro, topico nella sua funzione ‘galeotta’, per riferirsi all’esempio meglio conosciuto, quello dantesco. Seppure lontana dall’epilogo tragico che accompagna i protagonisti del canto dantesco, l’immagine filtrata dal punto di vista di Lockwood ripete in modo ossequiente la plastica scrittura dantesca riproducendo l’intimità e il cerchio entro cui si collocano, intensamente soli e complici, i protagonisti del romanzo inglese.

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D’altra parte, il Romanticismo consente la migliore rilettura dei sentimenti ed emenda dai sensi di colpa un Medioevo attento a ribadire l’aspetto etico delle vicende e il loro valore paradigmatico più che i sentimenti dell’uomo. Tuttavia se il lontano archetipo funziona lo fa con le modifiche che ogni epoca apporta e di cui, nel contempo, lo arricchisce. Esattamente come per Catherine e Hareton, anche per Cosima e Fortunio il manifestarsi della passione è stato possibile grazie all’uso del libro che da luogo di contenuti culturali si trasforma in contenitore di lettere appassionate. Binario esclusivo di conversazione e d’incontro fra Cosima e Fortunio per la condivisione degli interessi culturali, esso riacquista la funzione del suo archetipo dantesco: far da tramite al disvelamento di sentimenti reciproci. La letteratura ruffiana pone però dilemmi d’ordine etico. Già Dante aveva stabilito il distacco dalla fase giovanile della sua poesia proprio attraverso i prediletti Paolo e Francesca, posti fra i lussuriosi nonostante l’obbedienza ai canoni d’amore. Il problema si pone anche alla scrittrice sarda, anch’essa cattolica e ubbidiente agli insegnamenti religiosi. Quale posto assegnare alla cultura? Può la letteratura, attraverso i personaggi della sua opera, costituirsi come occasione di allontanamento da una realtà sentita come opprimente e angusta e porsi come rifugio consolatorio? Si sarebbe in tal caso di fronte a una soluzione tipicamente romantica. O è, invece, stimolo a operare come l’arte e fingere una vita di stampo dannunziano? Operazione, quest’ultima, legittimata dall’ammirazione per il poeta e ribadita in questo stesso romanzo. Una valenza strettamente etica sembra dunque mancare a patto di ritenere altamente morale il riscatto individuale e femminile dalle pastoie di una società gretta, tesa a vanificare gli sforzi di chi cerca il riscatto. Ma il binomio amore e letteratura può essere frequente occasione di scrittura epistolare e conferma di solidi principi morali.

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A questo proposito si legga la lettera del 24 Febbraio 1892, inviata ad Andrea Pirodda: Vedi, il giorno del mio onomastico fu un tristissimo giorno per me, eppure è bastato il tuo simbolico regalo per rendere lucente il mio fosco orizzonte, per farmi sorridere e sperare […]. Io ti ringrazio tanto, tanto. Ecco, il piccolo libro morbido, in colore della speranza e della fede, è davanti a me, e resterà sempre davanti a me. Leggerò in esso, ogni sera, la preghiera della notte, e pregherò per te, e pregherò per me, affinché sia sempre buona, sempre degna di te, e pregherò Iddio che ci renda felici e abbrevi i giorni della nostra lontananza…21

Il libro regalato in occasione dell’onomastico suscita sentimenti d’amore per Andrea e ratifica i sensi della religiosità della scrivente. Non a caso vengono citate la fede e la speranza, due virtù teologali, mentre la terza, la carità, viene declinata nella più terrena e immediata passione amorosa anche se, nel suo essere caritas cristiana, spirituale e metafisica, non viene dimenticata. La sua evocazione, seppure rifratta, è infatti presente nelle righe successive: «Non è vero che mi ami molto? Ripetimelo sempre: la tua parola per me è il verbo divino, la luce dello spirito. […] Il tuo amore mi rende buona e felice»22. Il libro, dunque, viene ancora una volta utilizzato come tramite d’amore. La società non consente la manifestazione dei sentimenti? Ecco allora che esso si trasforma da enciclopedia del sapere in ‘contenitore’. In «caso estremo» come dice la giovane Deledda al Pirodda, ma in «caso estremo», come pure ripete, «puoi metter la lettera in un giornale o in un libro e mandarmelo con la servetta della tua padrona».23

21.  G. Deledda, Lettere ad Andrea Pirodda, cit., pp. 315-316. 22. Ivi, p. 317. 23. Ivi, p. 359

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Intanto il pubblico è già nella mente di Cosima e, di rimando, di Deledda: un «pubblico» di «lettori, specialmente giovani, intelligenti, e affini all’anima e alle fantasie di Cosima». «Il libro invece», dice Cosima, «ebbe un successo femminile: lo lessero le fanciulle, e si ritrovarono, coi loro amori più libreschi che reali, coi loro convegni notturni immaginari, con le loro finte ali di struzzo che non possono volare»24. Dove il non possono volare la dice lunga sulla coscienza del limitato valore consolatorio della scrittura e del quale Deledda diventa – in questo straordinario rispecchiamento – consapevole. Le soluzioni romanzesche della prima fase sono, dunque, invenzione fantastica e resistono il tempo di una lettura. Per Cosima, quasi Grazia, è così ma questo non inficia le alternative proposte a patto che la finzione si dissolva. La scrittura d’amore, d’altronde, è il luogo in cui Fortunio dà il meglio di sé stesso. Fortunio fu certo, almeno in apparenza, fortunato con Cosima. Ma lo fu perché era audace e spinto, in fondo, da un misterioso senso di odio verso di lei. […] E in Cosima egli sentiva l’artista: mentre lui era diseredato in tutto, anche nelle sue velleità di intellettuale. […] Le lettere che cominciò arditamente a scriverle, facendogliele pervenire incollate nelle copertine dei libri che si scambiavano apertamente, erano belle, poetiche, sensuali; forse le cose migliori che egli scrisse in tutta la sua, d’altronde breve, carriera di scrittore.25

La conoscenza individuale, mediata da strumenti culturali, apparentemente consente di porre su uno stesso piano scrittrici differenti; in realtà le esperienze vengono consumate secondo modalità specifiche.

24.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 987. 25. Ivi, pp. 990-991.

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In Cime tempestose il rapporto fra Catherine e Hareton si consolida grazie alla procedura di insegnamento – apprendimento, laddove alla donna viene restituita la varietà di connotazioni topiche legate alla fertilità, nascita e quant’altro; in Cosima, invece, la donna raggiunge la comprensione di modalità sentimentali, ma non modifica lo statuto culturale – se non in parte – del suo interlocutore. Piuttosto, completa la propria educazione sentimentale con i limiti o, se si preferisce, con i caratteri che l’educazione religiosa impone. L’infanzia è ormai trascorsa, la maturità viene raggiunta anche attraverso la cultura e l’amore oltre che attraverso le esperienze dolorose che la vita esige. I percorsi sono dunque diversi. Nel primo romanzo la seconda coppia di personaggi, grazie al sapere, porta a compimento un processo che si era arrestato provocando dolore e angoscia, nel secondo l’infanzia si matura in adolescenza e rende possibili incontri e relazioni più intensi e compiuti. Il tutto sullo sfondo di paesaggi naturali ugualmente intriganti e misteriosi in cui trovano eco antiche leggende. Una natura popolata di fate dove miti e leggende si intrecciano e rendono possibile il groviglio di sentimenti e passioni di cui paiono il rispecchiamento. Ma se la cultura – la lettura della scrittura poetica per Catherine, la scrittura come esperienza coesistente con la lettura, ma certamente più di quest’ultima importante, per Cosima – è occasione di riscatto: Così quando si venne a sapere che la sua sorellina Cosima, quella ragazzina di 14 anni che dimostrava meno e sembrava selvaggia e timida come una cerbiatta bambina, era invece una specie di ribelle a tutte le abitudini, le tradizioni, gli usi della famiglia e anzi della razza poiché si era messa a scrivere versi e novelle, e tutti cominciarono a guardarla con una certa stupita diffidenza, se non pure a sbeffeggiarla e prevedere per lei un quasi losco avvenire, Andrea prese a protegger-

176 la e tentò, in modo invero molto intelligente ed efficace, di aiutarla.26

lo è innanzi tutto per coloro che quelle storie hanno scritto. Si considerino innanzitutto i vertiginosi legami e i rispecchiamenti che gli echi biografici hanno in Cime tempestose dove realizzano, «per via della loro fiabesca implausibilità, un’ancestrale autenticità», secondo Joyce Carol Oates in La magnanimità di Cime tempestose27. Infatti: La ragione dell’adozione da parte del signor Earnshaw dello zingaro, del folletto, del demonio orfano, del “cuculo” dalla pelle scura, non vengono mai chiarite all’interno della storia; ma è forse istruttivo sapere che il bisbisnonno di E. Brontë, Hugh Brunty, aveva adottato a Liverpool un trovatello dai capelli neri, che a sua volta adottò il loro nonno, il più giovane Hugh.28

Questi soli riferimenti danno la misura del riflettersi della biografia di Emily nell’opera. Si consideri anche e soprattutto il luogo di residenza della famiglia Brontë, la Canonica nelle brughiere dello Yorkshire, ovvero ai confini del mondo. Quella stessa brughiera è la Natura con la quale i primi due protagonisti si identificano. Sembra riecheggino gli echi dell’antica ballata danese: Il re degli Elfi – tradotta da Herder e alla quale J.W. Goethe donò nuova vita – in cui lo scenario era un paesaggio nordico notturno, ventoso e inquietante29. 26. Ivi, p. 969. 27.  J.C. Oates, La magnanimità di Cime tempestose, in E. Brontë, Cime tempestose, cit., p. XII. 28.  Ibidem. 29.  Cfr. J.W. Goethe, Ballate, tr. it., a cura di R. Fertonani, Garzanti, Milano 1990.

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Romantica, invece, la Brontë lo è secondo le modalità del W. Wordsworth di questa famosa poesia: «Esci alla luce delle cose / Fa della natura la tua nutrice […] / Un’emozione in un bosco a primavera / Può insegnarti di più sull’uomo, / Di più sul bene e sul male / Di quanto possano tutti i sapienti»30. I luoghi delle scrittrici, dunque, non perdono, semmai potenziano, lo statuto di autenticità pur nella rivisitazione poetica. Basti leggere cos’è il Monte per Grazia/Cosima – per di più in riferimento alla scrittura – per riconoscere la medesima necessità di costruire poeticamente quella Home Land cui si è già fatto cenno, circuito nel quale si muovono sia Brontë nei personaggi del suo romanzo, sia Deledda: Ma poi [le ragazze] uscirono nel bosco e si confortarono con lo sfarzo del meraviglioso luogo pieno di recessi, di divani coperti di musco, di quadri e broccati mai visti gli uguali, dei quali erano ricchi gli sfondi. Solo Cosima non si era disillusa: anzi l’interno dell’abitazione, col suo odore di umido e di felci, coi suoi arnesi trogloditici, con quella porticina coperta dalla tenda verdone del bosco, quei sedili di pietra grezza, quell’anfora di creta e i recipienti pastorali di sughero e di corno, le diedero uno strano senso di ricordanze remote come quello che provava da bambina incosciente nel veder apparire la piccola nonna materna, quella nonnina che partecipava della natura delle fate nane della tradizione locale, che abitavano nelle casette di granito in mezzo ai monti e agli altipiani rocciosi; […] per Cosima […] era tutta una rete di mistero, uno svolgersi di cose sorprendenti, come s’ella galleggiasse in un fondo oceanico, circondata, non dal selvaggio bosco di elci e dalle rocce fantastiche, ma da tutte le meraviglie delle foreste sottomarine.31

30.  W. Wordsworth - S.T. Coleridge, Il rovescio della medaglia, in Iid., Ballate liriche, tr. it. di F. Marucci, intr. e note di A. Brilli, Mondadori, Milano 1979, vv. 15-24, p. 11. 31.  G. Deledda, Cosima, cit., p. 982.

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È nella capanna del Monte che la scrittura acquista un valore sacrale. Quello stesso che verrà ribadito anche in altri luoghi e che darà il titolo, metonimicamente, alla raccolta La casa del poeta e alla novella omonima. Trovò anche, nella primordiale dimora, una specie di nicchia, che avrebbe dovuto servire per qualche lumino e qualche immagine sacra, e della quale, invece, ella si servì per deporvi il calamaio, la penna il suo scartafaccio e alcuni libri, formandone così un altarino per i suoi misteri d’arte.32

La «nicchia» della «primordiale dimora» sostituisce l’altare cristiano, «il calamaio» e gli altri oggetti della scrittura «l’immagine sacra». Tutti sono l’oggettivazione laica dell’arte, mistero-atto di fede, che si consuma sul Monte, luogo sacro come le tante alture bibliche ed evangeliche. Immune da sentimenti di empietà, l’inconsueta simbiosi di sacro e profano potenzia la valenza e del sacro e del profano, e ripropone l’attualità di un’antica lettura. Anche qui, come in Petrarca e in Aristotele, infatti, il poeta è sacerdote se è vero che «i primi a teologizzare furono i poeti»33. Dentro questa cornice, la scrittura riacquista autonomia e completezza. Non più ancella dell’amore, è pronta a servire la verità di un’ispirazione autentica. Immune da compromissioni, seppure dentro a un cantuccio lontano dal mondo, essa è immagine dell’eterna fiammella divina.

32.  Ivi, p. 983. 33.  F. Petrarca, Le Familiari, a cura di U. Dotti, Argalìa, Urbino 1974, X, 4, 1.

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La solitudine

Al giornalista Gabriele Gabrielli Deledda affida due preziose interviste: una su «La Sicilia» il 14 –15 giugno del 1905 a proposito di Nostalgie, il romanzo padano-romano, l’altra, per «Il Giornale d’Italia», il 26 maggio 1910, con relativa cronaca del viaggio deleddiano a Parigi nel 1910, riguardo a Nel deserto, il romanzo romano-sardo. La prima intervista propone una serie di riflessioni che esulano dallo stretto resoconto narrativo per spaziare su altri temi come, ad esempio, il rapporto conflittuale con la stampa, non solo per i contenuti degli articoli, «falsi e volgari», ma perfino per l’abitudine di pessime istantanee a cui, pare, Deledda non voleva far l’abitudine: «vi fotografano a tradimento con delle macchinacce istantanee, sono vere e proprie macchine… diffamatorie», tema già affrontato in altre situazioni. – E così, dopo Nostalgie, s’è rimessa al lavoro? – Oh se mi ci son rimessa! Io lavoro sempre, incessantemente. Ora sto scrivendo delle novelle che raccoglierò in volume, poi farò un libro per fanciulli. – E pensa a qualche altro romanzo? V’ho già pensato, ed anzi, l’ho già incominciato a scrivere per incarico della Revue des deux mondes. 

180 – Ed il titolo? – I tre re. – E Nostalgie? Ella capì al volo la mia domanda: È il romanzo su cui ho più lavorato, ma che m’ha dato amarezze. Non l’hanno capito, o forse non l’hanno voluto capire […]. Passiamo oltre, dunque. Deledda con questo suo nuovo romanzo pubblicato sulla Nuova Antologia e da questa in volume, con questo suo nuovo romanzo, dico, che si pubblica già sulla grande rivista londinese Fortinghtly Review, e che fra breve sarà pubblicato dalla viennese Neue Freie Presse e dalla rivista madrilena: Labor Nuevo, ha vinto una di quelle battaglie che decidono una guerra, però che guerra le facevano tutti quelli che, più o meno apertamente, dicevano: Ella non sa uscire dalla Sardegna, dove Pietro Benu uccide; dove Elias e Maddalena peccano per amore; dove prete Porcheddu se la gode, non concependo la vita se non nel piacere e nel godimento.

Sia Nostalgie che Nel deserto segnano il distacco da luoghi e personaggi ancorati alla sua terra, dentro il perimetro romano. Ma nell’articolo del Gabrielli, relativamente a Nel deserto, c’è la conferma del metodo di lavoro deleddiano, del successo che la scrittrice incontrava oltralpe, e della modernità di quel romanzo. Si riportano ampi stralci dell’intervista per evidenziare il suo racconto della fabula narrativa, le consapevoli scelte di contenuto improntate all’etica – «romanzo casto», Deledda chiama l’opera, con l’obiettivo di ampliare il suo pubblico–, e la presenza di una nuova figura femminile dentro una realtà urbana e una società differenti da quella barbaricina, da cui marca il distacco con parole chiare: «Troppe volte ho ridetto vicende tragiche, ho raccontato passioni violente e colpevoli. Questa volta ho voluto scrivere un romanzo che possa entrare in tutte le famiglie, anche le più puritane. Molto ho attinto dalla vita».

181 Un angolo del «Caffè Napoletano» sul «Boulevard des Italiens» e in quest’angolo Grazia Deledda. Lei qui? Io qui… […] – Tre romanzi quest’anno? – Tre romanzi. Uno già pubblicato e…: *** «Sino al confine», un altro – «Il nostro padrone» – che uscirà fra giorni, se non è già uscito, edito dal Treves ed il terzo che sarà pubblicato contemporaneamente in francese ed in tedesco sul «Correspondant» e sulla «Deutsche Rundschau» per venir fuori, poi, in veste italiana, solamente l’anno venturo. – E questo terzo volume, vertice o angolo del nuovissimo triangolo romantico?… – L’ho intitolato «Nel deserto». – Un romanzo coloniale?

Ecco la sua definizione di «deserto»: – Non scherzi. Il deserto è il vuoto ch’è sempre d’intorno ad una fanciulla che lotta disperatamente nella vita e che, sia nel paese che in una grande città, si sente sempre sempre più sola sola, tristemente sola, tragicamente sola, come perduta in un deserto sconfinato. Ho voluto raccontare la vita di una povera fanciulla che, senz’aiuti, lotta per conquistare un posto nella società, piccolo grande non importa, purché le permetta di vivere. Non la solita operaia, né ancor più la solita maestrina; ma una giovinetta che, uscita dal suo borgo natio, si trova subito a lottare e a penare.

Di seguito il racconto della fabula1 e il giudizio etico: 1. «Un amore le sorride ed a questo amore ella si aggrappa. L’uomo non è bello né giovane: è un vedovo ed ha un bambino.[…]Uno zio della fanciulla s’oppone a questo matrimonio perché non ha fede né nell’uomo né nella professione che questi esercita – è un giornalista: un corrispondente di giornali spagnoli ed americani –; ma la nipote tien fermo e pone la sua piccola mano ignara in quella grossa e già vacillante del compagno che ha trovato sulla sua via. Dopo tanto penare la fanciulla crede di aver raggiunta la felicità. Crede?

182 – Un romanzo casto? – Casto, per signorine, s’immagini, lo pubblica il «Correspondant». Troppe volte ho ridetto vicende tragiche, ho raccontato passioni violente e colpevoli. Questa volta ho voluto scrivere un romanzo che possa entrare in tutte le famiglie, anche le più puritane. Molto ho attinto dalla vita.

Il luogo in cui si svolge la vicenda è la Roma di borgata, della piccola borghesia tesa alla sopravvivenza: – Ed in quale città si svolge questa trama romanzesca? – A Roma in buona parte. Descriverò così la vita della capitale. Non quella fastosa e spendereccia, ma quella umile e triste. Con brevi tratti dirò le dolorose vicende della piccola borghesia che si dibatte fra mille strettezze, fra mille angoscie: povera gente che vive d’espedienti e di piccoli debiti, umiliata, derisa, incompresa. Descriverò la vita delle camere mobiliate, di questa piaga pur necessaria alla vita di mille, diecimila, centomila famiglie. InPurtroppo la realtà è diversa! Lo zio muore e siccome aveva qualche migliaio di lire, dispone del suo denaro in modo ch’ella possa ereditarlo solamente quando la miseria più nera picchierà alla sua porta. […] Dal matrimonio nasce un bambino, e la brava madre divide il suo affetto tra il figlio del marito ed il figlio suo; e la vita ha ancora per lei qualche sorriso. D’un tratto però il marito muore. Ella, per non ricadere nella miseria – anche perché si crede diseredata dallo zio, che ha disposto che il testamento venga comunicato alla nipote solo quando potrà entrare in possesso dell’eredità, s’industria ad affittar camere mobiliate. Gli affari non vanno male, l’idillio dura un pezzo ma, quando dall’amore platonico si sta per passare a quello materiale, Ella sa che l’uomo è ammogliato è diviso dalla moglie. Siccome lo ama sempre, ancora, per non cadere, per non diventare l’amante di un uomo che non potrà sposarla, fugge, lascia la città, e sola, sconsolata, povera, coi due bambini, torna nella terra che la vide nascere, nel suo piccolo paese. Che cosa farà? Non lo sa ella stessa. Laggiù, nel paese, v’è una vecchia zia: chiederà aiuto e conforto a lei. Ma dalla zia sa la buona novella. Oramai le condizioni del testamento si sono purtroppo avverate: la miseria nera e lo sconforto grande hanno rigettata nel paese natio la derelitta: il peculio dello zio le spetta. È quasi un premio alla virtù, pel lungo sacrificio, per la lunga lotta sostenuta per non cadere, non scivolare nel fango…».

183 dustria nata dalla miseria e che dalla miseria s’abbevera di umiliazioni; industria che dà appena tanto da poter vivere e che spesso toglie la pace alle famiglie gettandole nel disonore. Roma, più che tutte le altre città italiane, è stretta tra i tentacoli di questo vischioso polipo. La vita è cara, gli alloggi carissimi, e le piccole famiglie della borghesia, rintanandosi in due camerette – le più povere e le più buie della casa –; e là vivono, mangiano, dormono – cedono le altre, le più belle ai primi venuti, ai migliori offerenti […] Tutto un microcosmo bizzarro, pettegolo, orpellato nel quale ho messa la mia umile eroina.

La plastica visione di una scrittrice di successo: La piccola sala del «Napolitano» – qualche cosa come la terza saletta dell’«Aragno» – è quasi piena. Ecco il viso arguto e buono di Camillo Antona Traversi; più in là la piccola testa calva di Alberto Lécuyer, il traduttore francese di Deledda, di Butti, Bracco, Praga; Jean Dornis, squisita scrittrice per quanto bella signora; lo scrittore russo Bistrock, banditore in Francia del verbo tolstoiano; lo scrittore spagnolo Edoardo Brax, fortunato scopritore di un editore milionario che ha comprato per la Spagna tutti i romanzi della nostra originale romanzatrice sarda; Mario Costa con la sua aria sonnolenta e triste; l’ingegnere Boggiano, autore del trionfante psefografo, che presto sarà adottato dal Parlamento francese; ed altri, ed altri molti, noti ed ignoti.

Dell’opera, appartenuta a un periodo particolarmente fecondo dell’ispirazione deleddiana (1911), è utile sottolineare la contiguità ideologica e intellettuale con Colombi e sparvieri (1912) e Canne al vento (1913). In quel tempo la scrittrice viveva a Roma e gli echi del suo soggiorno sono presenti anche in queste pagine di cui è protagonista Lia, una giovane donna che lascia l’isola per recarsi nella capitale su invito di uno zio misantropo e insoddisfatto. Sulla soglia di un ’900 alla ricerca della verità, le parole di Zarathustra dicono la profonda solitudine della condizione esistenziale, e il profeta le pronuncia

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su un’alta montagna, risemantizzando una delle grandi icone della tradizione biblica. Nel romanzo Cenere, a interpretare un novello Zarathustra, Deledda delega Anania, mentre la meditazione sullo stato dell’uomo, in aderenza al modello prescelto, si articola su uno sfondo montano. Non è solo la montagna a costituirsi esclusiva risoluzione iconica dell’isolamento. A significare quest’ultimo, Deledda sceglie anche l’immagine del deserto, e attraverso una personale mediazione semiologica la reinterpreta con parafrasi ed equivalenze nell’omonimo romanzo Nel deserto. Entrambe le rappresentazioni spaziali confermano, peraltro, la valenza archetipica, e dunque l’universalità della loro funzione referenziale e la priorità rispetto ad altre figure più sbiadite della vita solitaria. Si può senz’altro sostenere che la citazione di autorevoli fonti e la riproposta di topoi formalizzati assicurassero al romanzo coerenza e unità. Occorre ricordare che in momenti temporalmente vicinissimi, Deledda attribuiva il nome Lia a due creature femminili di altrettanti romanzi, e che la speciale presenza in absentia di Lia di Canne al vento si affidava al filtro della memoria e alla frammentaria scompostezza evocativa di Kallina nella condanna dell’«assassino» Efix. In Canne al vento di Lia aleggiava dunque il solo nome insieme ai ricordi smozzicati di sorelle e vicini, il ricordo intero veniva invece ricomposto nel pozzo memoriale del vecchio servo. La donna che emerge dal fondo lutulento del più famoso romanzo è, invece, una nuova creatura cui è stato concesso di riprendere daccapo il filo del discorso interrotto. Risuscitata alla vita e alla finzione romanzesca, riparte dal grado zero della narrazione Ma tanto quella era ribelle quanto questa è indolente. Quali argomenti depongono a favore della lettura di Nel deserto in quanto redditio? La considerazione che una storia parallela funziona come espediente giustificativo a posteriori della trama del racconto successivo (o contemporaneo, considerata

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la complessa elaborazione in tempi lunghi di Canne al vento), rendendo manifesto il post hoc ergo propter hoc narrativo. Di fatto, il racconto è ancorato a un’extra storia che, in filigrana, lo duplica, dichiara e predetermina. In obbedienza all’anfibologia di fondo, l’autrice procede per prima cosa alla reiterazione dei luoghi di partenza che, in particolare in Nel deserto, si innalzano nel «palmizio» e si coricano nel mare. Si assiste infine, sempre in Nel deserto, al ritorno di Lia con un figlio proprio, occasione di ricomposizione dell’ordine violato come nelle tragedie che si rispettino. L’oltraggio della fuga di Lia di Canne al vento è finalmente emendato, e ciò che non trovava sbocco in un romanzo avrà modo di vivere e morire in un altro nella parafrasi narratologica di Claude Bremond e dei suoi possibili narrativi 2. I luoghi sono la traduzione simbolica della condizione della figura femminile, sospesi tra la rappresentazione oleografica di una lontana marina – con in più una pennellata del Gauguin del Giorno di Dio – espressione di una solitudine spaziale successivamente introiettata, e la raffigurazione di una folla cittadina variopinta e chiassosa, a metà strada tra l’espressionismo del Kubin di Die andere Seite e di un futurismo rutilante. A Roma la giovane donna incontra Justo, un argentino destinato per un breve periodo a essere suo marito. L’isola e la città costituiscono i due poli in cui si smembra la vicenda della protagonista, ma l’illusione è solo temporanea. Sia lei che il lettore diventano contemporaneamente consapevoli dell’inganno dei luoghi cui non corrisponde alcuna alterità del personaggio. L’autoinganno è invece quello di cui Lia nutre inizialmente l’il-

2.  C. Bremond, La logica dei narrativi possibili, in Aa. Vv., L’analisi del racconto, Bompiani, Milano 1969, pp. 97-122. Secondo lo studioso è possibile la seguente articolazione narrativa: Miglioramento da ottenere, Processo di miglioramento, Miglioramento ottenuto, con le ovvie eccezioni che non confutano la sostanziale tripartizione strutturale delle vicende.

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lusione del proprio cambiamento, ma appena si solleva il velo della menzogna si assiste alla riluttante ammissione dell’errore: «Io non spero nulla da me», ella disse, ricadendo nella sua tristezza, «non ho fatto mai nulla di buono né di utile, neanche quando me lo sono proposto fermamente. Ma la colpa non è mia. Non mi hanno insegnato a lavorare: sono sempre vissuta come un essere passivo, inerte»3. C’è dietro una Deledda attenta alle menzogne dell’io e agli insegnamenti di Schopenhauer, e dunque tesa a raccogliere l’invito a ricercare la cosa in sé, non al di fuori dell’uomo, ma nella Volontà che si agita nel più profondo di ciascuno, ovvero la tendenza cieca, istintiva, incosciente (Wille) che muove pulsioni e bisogni, non quella cosciente, il progetto razionale (wollen). È tale la natura della volontà che, una in tutti gli esseri, «identica sotto tutte le sue forme», si oggettiva in modo diverso a seconda degli individui, ma nell’uomo assume la maschera della ragione che, alla ricerca di giustificazioni, non oppone che false motivazioni se la volontà è la sola molla di ogni azione e pensiero, e il vero io non è l’io razionale. La vita di Lia scorre intanto entro gli argini elevati da una rude educazione che vieta e non concede. La contraddizione di una città che offre e di una donna che non dispone si risolve, di conseguenza, nel nulla di fatto; città e personaggio non trovano punti d’incontro così come avviene con l’isola. Il disamore per i luoghi viene temporaneamente superato in una condizione liminare. La soglia, simbolo spesso presente, è ben rappresentata dal litorale in cui sembrano comporsi le lacerazioni dei vari personaggi. È in questa soglia simbolica che hanno tregua i dubbi e si alimenta la speranza di risoluzione. La pausa è però di breve durata e consente alla vicenda di farsi

3.  G. Deledda, Nel deserto, cit., pp. 138-139.

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esteriormente processo dinamico, di fatto indolente regresso, che è dell’azione perché è dei personaggi. La diversa provenienza dei personaggi, la Sardegna, l’Argentina, la penisola italiana, il differente back ground, non li garantisce dall’essere uguali. Il principio da cui muove questa considerazione è che le cose tendono a perseverare nel tempo in un conatus di autoconservazione. In Nel deserto, tuttavia, la mancanza di un’effettiva evoluzione viene comprovata dagli incontri fra Lia e il pittore – per il quale posa come modella e ai cui approcci sfugge, spaventata – e fra Lia e Piero Guidi, l’inquilino separato dalla moglie, di cui si innamora. Lia e Piero Guidi giocano a recitare ruoli insostenibili, Lia di donna ligia a regole e leggi arcaiche, Piero a impossibili vincoli. La realtà di una condizione reciprocamente ottusa è espressa simbolicamente dall’obbedienza, da una parte a decreti inappellabili e moralmente inviolabili, dall’altra a lacci giuridici. Sia lei che lui si fanno scudo di pianti e sospiri e di un tempo dilatato, ancora simbolo di un intatto schermo interiore. Mentre la figura maschile accampa diritti in nome dell’amore, il personaggio femminile si trincera dietro l’evocazione di un destino maligno che conculca anche la forza di una passione i cui gemiti vengono a stento trattenuti. È certo che sia proprio Piero a farla innamorare per la prima volta, ma l’amore è un sentimento a singhiozzo, da cui tralucono i bagliori della passione ma del quale mancano le parole. Il silenzio alimenta echi inespressi e rende più tonda la coscienza dell’esistere e più profondo il solco della reciproca diffidenza. Chi gioca un ruolo non secondario è, in Lia e Piero, il sentimento della colpevolezza. Si tratta, secondo l’espressione di Charles Hesnard, dell’«universo morbido della colpa». Si è parlato a questo proposito di Dostoevskij. La sua opera sovrabbonda di personaggi autopunitivi, smaniosi di confessare colpe, chiedere castighi e offrire riscatti. Certamente, il

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cristianesimo occhieggia ancora, seppure pallidamente, anche  in  questo personaggio femminile, piuttosto preda della nevrosi del fallimento e tesa debolmente verso paradisi di salvezza.

Il deserto Mai titolo si è rivelato più appropriato a definire la materia di un romanzo. In modo sintetico, infatti, precisa il carattere della donna e si profila nelle tante facce mistificatorie legando vicendevolmente le traversie dei personaggi coinvolti a vario titolo. Si è detto che la montagna e il deserto appartengono alla migliore iconografia dell’ascetismo cristiano, luoghi del sacrificio in attesa di una possibile liberazione dalla pena. Ma qui nessun Dio si concede in cambio della penitenza. Facce della stessa metafora della solitudine, entrambe le icone sono l’esatto contrario del mondo degli uomini e il loro tempo non ha storia, costituendosi come lunga durata. Non è ancora il momento delle risoluzioni metafisiche del Buzzati del Deserto dei tartari, o di eliotiane terre desolate, ma già se ne colgono i prodromi anche in questa occasione narrativa, dove il deserto è simbolo di una vita condotta all’insegna della routine quotidiana, priva di slanci e impedita nel suo naturale svolgimento, prima che da ostacoli esterni, proprio da limiti interiori. Non bastano le continue riflessioni formulate da una donna consapevole a dare slancio a un’esistenza sbiadita, le pulsioni vengono represse, ora dalle rigide difese di un’educazione arcaica, ora da un frainteso senso del destino. Per la verità, la forza del destino, tante volte invocata come alibi narrativo, questa volta non trova ampio svolgimento. Piuttosto, viene richiamata come extrema ratio senza accampare pretese di primogenitura per comportamenti ineluttabili.

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«O Solitudine! Tu patria mia, solitudine!», dice sempre Zarathustra, riconoscendola luogo del privilegio4. Ma qui è lo stereotipo del deserto a descrivere meglio d’altri la solitudine e di luoghi e di personaggi. Il doppio femminile, invece, all’occorrenza si libera spavaldamente dai lacci dell’ossequio angusto ai dettami di una legge entro cui tutto deve comporsi, in primis le contraddizioni. Alla fine della storia con Piero, la donna penserà che «tutto era finito davvero: egli se ne andava da una parte, ella se ne sarebbe andata da un’altra: e di nuovo il deserto in mezzo a loro». «Di nuovo», dunque, a dire non solo lo stato presente quanto l’eterna condizione mai alterata concretamente da eventi reali. Destino, questo, davvero ineluttabile. Ecco le ragioni di una definizione e del perché il significato primo smette d’essere tale nello sfolgorio prismatico che rende la parola complessa e riferibile a una serie di situazioni. E dunque il deserto si complica di ulteriori rimandi e Piero ne definisce un altro aspetto. «Il povero deve contentarsi della solitudine», afferma «nella quale, d’altronde, egli è condannato a vivere». Da ultimo, viene evocato come migliore risoluzione possibile per corroborare uno smunto afflato artistico e quindi proporsi all’immaginario del pittore, l’altro personaggio maschile, nella sua dimensione favolosa: «Fare un deserto, un’immensità, in una stamberga come questa?», egli si chiede riferendosi allo sfondo di un suo quadro. «No, no, io rompo tutto e vado davvero in Egitto; ho bisogni di spazio, di verità; qui si soffoca, e l’orizzonte pare davvero di cartone…». Il 26 settembre del 1911, Emilio Cecchi recensisce sulla «Tribuna» (in Cronaca di Letteratura) il romanzo Nel deserto. Secondo il critico, la novità è costituita dalla presenza di personaggi sardi fuori dai loro confini, e dunque di fronte alla novità di

4.  Cfr. F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, tr. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, vol. II, p. 223.

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luoghi e di comportamenti. Ravvisa la persistenza della «lentezza» e «monotonia» deleddiane, tuttavia «elementi della sua robustezza», indizio ed effetto di coerenza narrativa, compostezza e solidità stilistica senza tralasciare la consueta attenzione ai paesaggi, ma soprattutto rileva l’altro sentimento che la scrittrice sarda aveva individuato come tema privilegiato, facendone il titolo del romanzo Nostalgie, il romanzo da molti criticato, con cui Deledda, nel 1905, aveva aperto a nuovi orizzonti e nuove sfide, corroborata dalle sue stesse scelte di varcare il Tirreno per vivere a Roma. Dai romanzi di ambiente sardo, in alcune opere più recenti, [Deledda] è passata ora a presentare i suoi conterranei nella vita turbinosa delle grandi città continentali. Il colore delle sue descrizioni, il tono dei suoi periodi, il patto della sua poesia non sono cambiati, non hanno assunto dal contatto con una civiltà più mossa, più inquieta, qualcosa di tormentato, di sottile. […] Di questa umanità, dicevo, vi è un elemento quella monotonia che, come legame di un affetto atavico, trattiene Deledda dall’influsso delle mode che pervertono. È una monotonia, una ottusità tutta latina, italiana, che testimonia della profondità e della spontaneità dell’ispirazione. […] Roma, è sentita e rappresentata con tratti energici coloriti in certi suoi risvegli mattutini, nella grandiosità mondana di certe sue ore crepuscolari, nella sua rude tristezza che chiude il formicolio di infinite creature in pena e soffoca il basso aliare di infinite nostalgie verso terre remote dove la vita è semplice e gli affetti non sono febbrili e tormentati, e l’anima non si sente sola. Salvador e Nino sono due fra le più naturali e vivaci figure infantili, nelle quali, da qualche tempo, io mi sia imbattuto in un romanzo italiano.

Il saggio è parzialmente apparso nella Prefazione, a cura di Angela Guiso, a Nel deserto di Grazia Deledda, Editrice «L’Unione Sarda», Cagliari 2004.

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Ut pictura poësis

Nell’incipit di Tradizioni popolari di Nuoro, così scriveva Deledda: Nuoro è chiamata scherzosamente, dai giovani artisti sardi, l’Atene della Sardegna. Infatti, relativamente, è il paese più colto e battagliero dell’isola. Abbiamo artisti e poeti, scrittori ed eruditi, giovani forti e gentili, taluni dei quali fanno onore alla Sardegna e sono avviati anche verso una relativa celebrità.1

«Atene della Sardegna» rimanda all’idea di un cenacolo dove si esercitava una dialettica intelligente e liberale, ma l’affermazione va parzialmente riletta. Se con la scelta degli artisti, suoi amici, deputati a illustrare la sua opera, come emerge dagli epistolari organici e dalle lettere sparse, la scrittrice esercitava un mecenatismo illuminato è vero anche che, accordando il suo placet e la sua protezione, garantiva loro una notevole pubblicità. Ciò le consentiva, nel contempo, quel riconoscimento che andava ricercando fin da giovane, tanto più in quanto viveva dentro un ambiente ostile da cui voleva allontanarsi. Un

1.  G. Deledda, Tradizioni popolari di Nuoro, cit., p. 42.

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malessere che esprime nella novella autobiografica La casa paterna, inclusa nella raccolta Nell’azzurro. Avevo pubblicato i miei primi lavori, i miei primi bozzetti, a quindici anni: prima di vedere il mio nome stampato, fulgidi sogni, larve dai mantelli di raso, incoronate di fiori, avevano popolato la mia mente: erano i fantasmi della Gloria! Figuratevi dunque il mio dolore, la mia rabbia, la mia delusione quando, nella mia città natia i miei lavori furono accolti in una scoraggiante guisa e mi valsero le risa, la maldicenza, la censura di tutti e specialmente delle donne.2

Per raggiungere i suoi obiettivi Deledda muoveva in varie direzioni. Il suo «metodo» prevedeva innanzitutto la richiesta di informazioni su quanti dovessero pubblicare i suoi libri. Ne è esempio la richiesta al Provaglio riguardo al Lupini3, al De Gubernatis4 e al Boccafurni, direttore di «Roma letteraria»5. Illuminante la lettera del 31 ottobre del 1894: E inoltre, scrivendomi tu, parlami appunto del De Rossi, perché, sai bene il mio metodo, desidero sempre conoscere anche un po’ personalmente le persone con cui devo stringere amicizia o magari semplice relazione.6

La seconda modalità consisteva nello spingere le sue pubblicazioni con insistenti richieste di recensioni. Varie sono le lettere al Provaglio in tal senso; quella del 31 ottobre del 1994 è ancora importante:

2.  G. Deledda, La casa paterna, in Ead., Nell’azzurro, in Novelle, cit., vol. I, p. 109. 3.  Cfr. G. Deledda, Lettere a Epaminonda Provaglio (1891-1900), in Ead., Opere scelte, intr. di E. De Michelis, vol. I, Mondadori, Milano 1964, pp. 1005, 1012. 4.  Ivi, p. 1041. 5.  Ivi, p. 1081. Si legga anche la nota 3. 6.  Ivi, p. 1083.

193 Mio carissimo amico, […] A proposito della Piccola Antologia passerai al De Rossi questa errata corrige, pregandolo di inserirla nel prossimo numero, e gli ricorderai di far parlare dei miei Racconti Sardi, come mi promise. Gli dirai pure che spero vivamente che egli, dei racconti, ne scriva presto un articoletto sul Fanfulla della domenica. Mi farai questo piacere?7

Sempre al Provaglio, che si celava dietro lo pseudonimo di Elda di Montedoro, così si rivolgeva il 30 gennaio 1892: Carissima Elda, […] quindi tutti i giornali sardi hanno parlato del mio romanzo si tratta di Fior di Sardegna e naturalmente tutti trés bien. Ora tocca ai grandi giornali; La gazzetta letteraria, il Fanfulla della domenica, La cronaca d’arte, La tribuna illustrata eccetera eccetera. Ho amici in tutti questi giornali, e tutti mi hanno promesso formalmente di occuparsi del mio romanzo. Vedremo. Ad ogni modo credo che il signor Perino non siasi pentito di averlo pubblicato.8

Eurialo De Michelis, nella nota 1 della medesima pagina, scrive: non trovo che a questa data abbiano recensito Fior di Sardegna né L’avvenire di Sardegna né L’Unione Sarda, i due giornali di Cagliari e nemmeno La Nuova Sardegna, Sassari. Vita Sarda ne aveva dato appena l’annunzio, il 6 dicembre 1891. Quanto alla Sardegna, Sassari, dove la D. contava un fedelissimo amico […] la recensione di lui vi apparve solo il 3 marzo […] Certo, dunque dando al Provaglio notizia del suo successo isolano, col dipiù di signorile disinvoltura che accivetta nelle parole francesi, la D. barava. Giovine e isolata, ma sapeva che il successo crea il successo; e faceva da parte sua il necessario per aiutarlo.

7.  Ibidem. 8.  Ivi, p. 960.

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Il commento conclusivo fotografa la realtà: una donna «giovine e isolata» fu capace di creare da sé il suo successo! La sua visionarietà, il credere tenacemente in sé stessa, la portavano a creare aspettative. Ad Andrea Pirodda, Nuoro, il 19 dicembre 1892, Deledda così scrive: Giacché ti sei abbonato alla «Natura ed Arte» vedrai che belle cose che io ci pubblicherò. Ora, dopo un bozzetto, mi ci stamperanno un articolo sulle donne sarde, con macchiette del Ballero, poi scriverò un altro articolo sulle leggende sarde.9

Quale fosse la sua coscienza di sé emerge, fra le altre, dalla lettera a Luigi Falchi del 7 maggio 1893 a proposito della costituenda Società italiana per il folklore e del connesso coordinamento. È lì che la scrittrice decide di guidare il gruppo sardo dopo un’iniziale, ma breve indecisione: «io mi metto modestamente tra le file: o meglio, sì, mi metto a capo, giacché un capo deve esserci»10. Ad Angelo de Gubernatis, invece, così si rivolge, subito dopo, il 22 giugno 1893: In fondo in fondo ho una vena caustica che mi fa ridere delle debolezze umane – mie e degli altri – e ad ogni modo sono superiore alla moltitudine e sono felice dei miei stessi sconforti perché essi appunto mi fanno fede della mia superiorità.11

E non sono che due esempi. Sempre nella stessa lettera nel S.P. (Post Scriptum!) scrive: «Le sarei tanto grata se mi facesse

9.  G. Deledda, Le lettere. Per amore e per la gloria, Editrice «L’Unione Sarda», Cagliari 2012, vol. I, p. 77. Su «Natura ed Arte», n. 11, 1893-1894, le Leggende Sarde saranno illustrate da Antonio Ballero. 10.  Del 7 maggio 1893 è invece la lettera a Luigi Falchi, cit. 11.  G. Deledda, Lettere ad Angelo De Gubernatis (1892-1909), a cura di R. Masini, Centro di studi filologici sardi-CUEC, Cagliari 2007, p. 39.

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pubblicare presto Le leggende Sarde nella «Natura ed Arte», dove, anche, si racconta la modalità del sollecito» (S.P. 5 agosto 1893). Tutto era nato già prima del 1895, dai rapporti epistolari con quanti sapeva avrebbero avuto un peso nel suo avvenire letterario: Epaminonda Provaglio, De Gubernatis e Stanis Manca. Preparava con oculatezza i primi passi, soprattutto intratteneva rapporti con le riviste dell’epoca dalle copertine bellissime, vere opere d’arte su cui disegnavano gli artisti migliori del periodo che avrebbero accompagnato i suoi successi letterari. In Italia, a cavallo tra Ottocento e Novecento, l’immagine pittorica, il disegno, l’illustrazione, la caricatura divennero straordinariamente importanti. Fu una vera e propria rivoluzione che impose cambiamenti radicali alla grande impresa editoriale e alla stampa popolare: la parola doveva essere necessariamente accompagnata dall’immagine, possibilmente un’illustrazione a colori. Tutta una serie di nuove riviste, che facevano capo al gruppo del «Corriere della Sera», fu caratterizzata da questa impostazione: la «Domenica del Corriere», di grande formato con tavole a colori dal vero di Achille Beltrame; «La Lettura», dove lavoravano talenti come Antonio Rubino e Alberto Martini; «Il romanzo mensile», il romanzo popolare illustrato alla portata di tutti. Ben presto furono seguite da altre che muovevano dal medesimo presupposto: «Il Secolo XX» [Treves], «La Tribuna Illustrata» e così via. […] Perfino l’austera «Illustrazione Italiana», fiore all’occhiello del­l’Editore Treves, dovette tener conto dei tempi nuovi, della rivoluzione tecnologica della carta stampata che, dalla vecchia Europa continentale e dagli Stati Uniti, invadeva il nostro paese. […] L’intesa tra scrittori e illustratori era un sintomo di quanto la prima “letteratura disegnata” fosse allora considerata una nuova formidabile occasione di espressione, un nuovo

196 modo di raccontare anziché un’attività marginale e di poca importanza.12

E la scrittrice ne era perfettamente consapevole. Ecco perché operava in due direzioni: da una parte era dentro le riviste, dall’altra sceglieva, quando poteva farlo, i suoi amici pittori, investendo su di loro ed essendone al contempo il loro talent scout. La lunga collaborazione con le riviste, fondamentale trampolino di lancio e di consolidamento della sua fama, è presente in modo ossessivo: le serviva per accreditarsi presso cotanti amici, in primis. Di seguito alcuni rapidi esempi. Dalle Lettere a Epaminonda Provaglio, da Nuoro, il 15 maggio 1892: Ora sono entrata anche nella Natura ed Arte, autorevole rivista di Casa Vallardi diretta dal De Gubernatis: fra numeri comincierà [sic!] a pubblicare una mia novella sarda, e il direttore mi ha scritto già tante volte, così gentilmente! – dalla Cronaca d’Arte, poi, dove mi promettono di parlare di Fior di Sardegna, mi chiedono pure qualche cosa. – Vedi dunque che vado sempre avanti! A poco a poco! C’è molto tempo innanzi a me ed io non mi affretto, perché, per mia natura, sono calma e paziente! Quando arriverò sarò giunta, non è vero?13

A Stanis Manca il 14 settembre 1892, «vedete, i migliori giornali: dalla «Natura ed arte» alla «Vita moderna», mi hanno spalancato le loro porte»14. L’occasione per parlarne era sta-

12.  C. Gallo - G. Bonomi, La straordinaria storia de “Il giornalino della Domenica”, in Iid. (a cura di), Il giornalino della Domenica. Antologia di fiabe, novelle, poesie, racconti e storie disegnate, BD, Milano 2007, pp. 15-16. 13.  G. Deledda, Lettere a Epaminonda Provaglio, cit, p. 998. 14.  G. Deledda, Amore lontano. Lettere al gigante biondo (1891-1909), a cura di A. Folli, Feltrinelli, Milano 2010, p. 118.

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ta la pubblicazione di Gabina. Racconto sardo del 1 settembre 1892 su «Natura ed Arte». Sempre al Provaglio, a fine novembre 1892: In questo mese con la lenta febbre che mi rodeva la testa, ho scritto solo un bozzetto e un articolo sulle donne sarde per la rivista del Vallardi «Natura ed Arte» che paga generosamente i suoi collaboratori. La novella pubblicata nel n. 19 mi è stata pagata quasi come un romanzo.15

Ancora al Provaglio, l’11 novembre 1893, in una lettera particolarmente importante, riferiva i suoi progressi «Ora io scrivo in quattro o cinque buoni giornali, come il Fanfulla della domenica, la Natura ed arte, La famiglia, la Roma letteraria ecc. Ma i miei scritti sono riprodotti anche in altri giornali»16. Sempre in quella lettera emerge la notevole importanza che Deledda attribuiva alla sua immagine: Chi è Ernesto Perfetto, sei tu? Il mio ultimo ritratto è bruttissimo e non te lo mando: mi fa coi capelli irti, le labbra grossissime, mentre le ho quasi sottili, e grassa, mentre sono trasparente. Se riuscirà bene ti manderò quello che mi farò intiero appena farà bel tempo, perché qui non si fotografa se non c’è il sole. Del resto sono sempre eguale a quello che ài tu, soltanto un po’ più magra.17

Lettera a Palmiro, Nuoro, 1 agosto 1911: Avrai veduto «la Lettura» con le orribili illustrazioni tranne la fotografia: Nicolina dice che i tuoi baffi, lì, fanno paura. Però dirai a Simboli, se lo vedi, che non dia più quelle brutte fotografie: anche i puttini sono orribili.18

15.  Lettere a Epaminonda Provaglio, cit., pp. 1021-1022. 16.  Ivi, p. 1057. 17.  Ivi, pp. 1058-1059. 18.  G. Deledda, Le lettere. Per amore e per la gloria, cit., vol. X, p. 28.

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D’altra parte, la sua attenzione per gli amici pittori più titolati è sempre vigile: nella lettera a Stanis Manca del 9 gennaio del 1892, vantava di conoscere bene Giacinto Satta: «Conosco quasi tutti i collaboratori di Vita Sarda, dal Giacinto Satta, la cui vita è un vero romanzo alla Murger»19. Un giudizio più lusinghiero sul Satta esprimerà nella lettera ad Angelo De Gubernatis del 29 ottobre 1893: «Le mando un racconto di Natale, con le belle illustrazioni fatte appositamente da un mio buon amico, che è il migliore degli artisti sardi, per la Natura ed Arte, cioè per il suo numero di Natale»20. Molta narrativa di Grazia Deledda è nata così; successivamente, in modo progressivo, le nuove soluzioni editoriali hanno mutato il progetto stesso della scrittrice (essendo consapevoli che lingua, stile, taglio dell’opera mutano anche in relazione all’organizzazione della produzione editoriale) e, a quelle connesse, modificato i modi della primitiva ricezione della sua opera. Non è esagerato dire che molte sue immagini letterarie siano state pensate e scritte per essere illustrate. D’altra parte, «colore locale» è un’espressione ricorrente della scrittrice, sia per quanto riguarda Giuseppe Biasi, ovvero un pittore noto e inerente al suo vissuto, che riguardo a personaggi della sua narrativa come “il pittore” del romanzo Nel deserto, sulla cui pittura l’amico, «un uomo alto e rosso» «trovava difetti di disegno, di colore, di prospettiva: piano piano pareva si divertisse a raschiare il quadro. Mancava l’aria, il colore locale, la verità!»21. Il sodalizio di Grazia Deledda col sassarese Giuseppe Biasi comincia nell’estate del 1908, a Nuoro, durante una gita sul monte Ortobene. Nel 1909 il «Giornalino della Domenica»

19.  G. Deledda, Amore lontano, cit., p. 92. 20.  G. Deledda, Lettere ad Angelo De Gubernatis (1892-1909), cit., p. 80. 21.  G. Deledda, Nel deserto, cit., p. 162 (corsivo mio).

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le chiede di collaborare con una serie di novelle che rappresentino costumi e tradizioni degli abitanti della Sardegna. Al programma del «Giornalino» è interessato anche Giuseppe Biasi, che già il 26 febbraio 1905, durante il soggiorno romano, aveva eseguito per «L’Avanti della Domenica» una caricatura di Grazia Deledda. Riconoscendosi nel manifesto elaborato dagli artefici dell’iniziativa, nell’agosto del 1909 Deledda avvia le trattative con Vamba per ufficializzare la collaborazione con il giornale […] Non mancarono gli ostacoli al raggiungimento dell’intesa. L’accordo fu infine raggiunto, grazie anche a Giuseppe Biasi che, interessato a prestare la propria esperta matita ai racconti deleddiani, interviene a più riprese per scongiurare lo stallo delle trattative, recependo tutta l’importanza della buona riuscita dell’operazione. Sarebbe stato un peccato, infatti, non sfruttare quella ghiotta occasione, da cui sarebbe potuta venir fuori una «cosa veramente interessante», come Biasi stesso confidò a Bertelli in una lettera del 26 agosto 1909 […] «La Deledda, infatti, sagace amministratrice delle proprie finanze, si rifiutava di vendere la proprietà assoluta delle sue novelle, secondo quanto il Bertelli le andava richiedendo».22

La scrittrice avrebbe sempre ricavato una grande impressione dalla visione delle tavole dell’illustratore conterraneo, che – lei sosteneva – «più di ammirarle io le sento, e mi sembrano perfette per l’animo, per il colore locale che le rende vive e palpitanti. La sua arte è certo destinata ad un grande avvenire ed io glielo auguro di tutto cuore»23. Il 26 dicembre 1909 il «Giornalino della Domenica» pubblica la novella deleddiana Il maialino di Natale (con tre illustrazio22.  A. Scardicchio, Grazia Deledda narratrice per l’infanzia, in «Bollettino ’900», n. 1-2, 2013, risorsa online: http://www3.unibo.it/boll900/numeri/ 2013-i/. 23. Vamba, Santa giovinezza! Libro per ragazzi, Bemporad, Firenze 1927, Lettera a Giuseppe Biasi, Roma 11 gennaio 1909, p. 333.

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ni di Biasi) che in un secondo momento avrà per titolo Il vecchio Moisè, storia di un guardiano abilissimo nell’intrattenere i bambini con i suoi racconti (come quello incentrato sul furto di un maia­lino subito in occasione del Natale), presente nella raccolta Il dono di Natale. Un’altra dimostrazione di come Deledda ritornasse sui propri testi, anche a distanza di anni, ripubblicandoli con aggiustamenti in occasione di una nuova stampa. Il 20 novembre 1910 viene pubblicata la novella I sette fratelli, successivamente dentro la raccolta Chiaroscuro, (con due illustrazioni di Giuseppe Biasi), quindi Il Pastorello, il 25 dicembre 1910. Infine, il 21 novembre 1911, I tre vecchi con illustrazione di Antonino Pirari24. Giuseppe Biasi è lo stesso pittore invocato nella lettera a Albertini del 12 novembre 1914 inviata da Roma, Via Porto Maurizio 15: Un’altra cosa vorrei chiederLe, e cioè chi eseguirà le illustrazioni del mio romanzo sulla Lettura [L’incendio nell’oliveto]: spero sarà il pittore Biasi, e anzi colgo l’occasione per raccomandarglielo vivamente. In tutti i modi desidero ch’Ella mi rassicuri anche su questo punto, perché, naturalmente, vorrei che le illustrazioni venissero eseguite da un artista che intenda i tipi e il colore locale del racconto.25 24.  L’artista nuorese realizzò una copertina per il numero 17 dell’ottobre 1921 de «Il giornalino della Domenica» fondato da Vamba e diretto da Giuseppe Fanciulli. In quel numero de «Il giornalino», Fanciulli parla di Pirari in questi termini: «Antonino Pirari, giovane ed eccellente pittore di Nuoro, che, quasi ragazzo, illustrò per il Giornalino, nel 1911, una novella di Grazia Deledda, e da allora sempre conserva la più viva simpatia per queste pagine […]. La composizione riprodotta nella copertina, con una magnifica tricromia, rappresenta un Contadino di Nuoro sull’aia, nell’atto di raccogliere il grano con la pala; la forte figura dal vivido costume è circonfusa di sole, in un’immensità di silenzio ardente». 25.  G. Piroddi, Grazia Deledda e il «Corriere della Sera». Elzeviri e lettere a Luigi Albertini e ad altri protagonisti della terza pagina, EDES, Sassari 2016, p. 22.

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L’incendio nell’oliveto sarà pubblicato sulla «Lettura» nel 1917. Ma le sue novelle furono effigiate da altri grandi pittori: da Riccardo Salvadori, illustratore di Marianna Sirca su «La Lettura» 1915, a Silvio Bicchi della novella Lo stracciaiolo del bosco su «La lettura», Enrico Sacchetti de La fuga in Egitto sul «Secolo XX» 1925, Giulio Rosso della raccolta di novelle Dono di Natale nella prima edizione del 1930, Pio Pullini del sussidiario del 1931. L’altra pregevole rivista nella quale Deledda pubblicò alcune novelle fu «La grande illustrazione», considerata il più lussuoso (e raro) periodico italiano del Novecento cui collaborarono scrittori come Guido Gozzano, Marino Moretti, Sibilla Aleramo, Umberto Saba, Massimo Bontempelli, Luigi Pirandello, Tommaso Marinetti, Camillo Sbarbaro, Vincenzo Cardarelli, Federigo Tozzi, Clemente Rebora. Ragguardevole il corredo illustrativo con litografie di Basilio Cascella e figli, e di Plinio Nomellini; le xilografie di Armando Cermignani e le illustrazioni di Bruno Angoletta, Vittorio Grassi, Gino Severini, Gae­ tano Previati e altri. Pregevoli le copertine dei Cascella, Aleardo Terzi, Enrico Lionne, Umberto Bottazzi, Plinio Nomellini. Nel gennaio del 1914 venne pubblicata la novella deleddiana Sotto l’ala di Dio, successivamente presente dentro la raccolta Il fanciullo nascosto, con illustrazione di Tommaso Cascella. A questo proposito ecco ciò che scrive all’amico Marino Moretti il 21 settembre 1914: «Nomellini mi fece vedere i suoi disegni per “La Grande Illustrazione”: io spero che almeno il numero dove ci sarà la mia novellina mi verrà mandato, poiché, le ripeto, io non ricevo la bella rivista»26.

26.  G. Deledda, Le lettere. Per amore e per la gloria, cit., vol. III, p. 73.

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Nell’agosto 1914 la scrittrice pubblica L’augurio del mietitore, a dicembre dello stesso anno Lo spirito del Male, entrambe confluite nella raccolta Il fanciullo nascosto. Un’altra tessera importante di questo itinerario dell’immagine, in questo caso filmica, è La Grazia, uno dei film muti italiani più belli che trae ispirazione dalla novella Gabina, accompagnata dall’arte di Giuseppe Biasi e Melkiorre Melis. Gabina appare in «Natura ed Arte», il primo settembre 1892, quindi, col titolo Di notte, in Racconti sardi. Nel 1921 viene arrangiata da Deledda e Claudio Guastalla e diventa un libretto d’opera pubblicato dalla Ricordi col titolo La Grazia. Nel 1923 debutta al Costanzi di Roma. Dalla novella al palcoscenico lirico La Grazia cambia il finale, ma conserva i cori sardi, le scene sono firmate da Giuseppe Biasi con le musiche di Vincenzo Michetti. Nel 1929 la trasposizione cinematografica avviene per la regia di Aldo De Benedetti. L’autore dei bozzetti e costumi è ora Melkiorre Melis27. Nel 1936 su «Illustrazione Italiana», Brunetta (Bruna Moretti Mateldi) correda dei suoi disegni il romanzo La chiesa della solitudine. La storica dell’arte Paola Pallottino la considera la

27.  La Grazia, un film muto del 1929, è stato restaurato nel 2005 dal quotidiano «L’Unione Sarda» su un progetto ideato e curato da Sergio Naitza e Susanna Puddu, con la colonna sonora originale composta da Romeo Scaccia. Come ha dichiarato il curatore del progetto Sergio Naitza: «La Grazia porta con sé i segni di una vitalità artistica, di una intelligente mediazione fra più piani: il cinema, il teatro, l’opera lirica e la pagina letteraria uniti dal nome di Grazia Deledda. È un film di forte impatto melodrammatico, giocato su contrasti d’ambiente (il mondo pastorale e quello borghese), su psicologie che ruotano sui sentimenti primari di amore, odio, vendetta, perdono. Nel cortocircuito visivo fra naturalismo ottocentesco ed interni déco, si nota la mano di Melkiorre Melis, autore dei bozzetti e dei costumi, a loro volta ispirati a quelli di Giuseppe Biasi che li realizzò per l’opera lirica: nel complesso un film che piega l’elemento sardo ad uso creativo, senza scadere nel vieto folklorismo» (https://www.lanuovasardegna.it/tempo-libero/2021/10/17/ news/la-grazia-rinasce-il-film-muto-della-deledda-1.40822486).

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massima illustratrice italiana del Novecento, versatile, ironica e graffiante, l’unica a pubblicare su «Harper’s Bazaar» e su «Vogue»28. Si pensava che con Biasi, Melkiorre Melis, Mossa De Murtas, pittori del capo di sopra, il discorso sugli artisti sardi del primo momento deleddiano fosse chiuso. Poi sarebbero venuti, lei ancora vivente, il nuorese Bernardino Palazzi nel 1936 e l’illustrazione, su «La Lettura» de L’esempio, e altri, più recenti. Oggi disponiamo di una lettera di Francesco Ciusa, pubblicata nell’Unione Sarda da chi scrive, l’unico artista assente all’appello dell’«Atene sarda». Era il tassello che mancava per ricomporre quel mosaico che, pazientemente, ben prima, cioè, del suo viaggio a Roma, Deledda aveva pazientemente intessuto. Prima d’oggi non si sapeva se il più grande scultore della Sardegna avesse, almeno idealmente, risposto all’appello, lui che per la sua arte, difficilmente avrebbe potuto essere chiamato a effigiare racconti o romanzi, ebbene, oggi si apprende che anche lui rispose all’appello dell’Atene Sarda e della sua rappresentante più celebre. Anche lui, ovvero, pensa a un monumento nella sua arte, e il motivo ispiratore è niente meno che Cosima, la cui copertina, nella prima edizione del 1937, era stata effigiata dal nipote Giovanni Ciusa Romagna. Di seguito la lettera, indirizzata Al Comune di Nuoro e all’On.le Comitato Nuorese per le Onoranze a Grazia Deledda. Niente sistemazione della chiesa. È profanazione non lasciarla quella che è, nuda e cruda, come l’ha vista e sentita la nostra grande. Tutto al più sollevarla, abbassando il terreno intorno, di due alti gradini per accedere ad un marciapiede che circonda la chiesa. Così, solo, daremo base di monumento alla

28. Cfr. P. Pallottino, Le figure per dirlo. Storia delle illustratrici italiane, Treccani, Roma 2019.

204 semplice umile nudità nella grandezza solenne della vasta solitudine che ha drizzato il cuore alla nostra gigante scrittrice. Anche internamente lasciarla quello che è. Solo al centro della chiesa; rispettando alzate e muri, come sono, un ampio lucernaio per illuminare, in pieno, un gruppo di granito raffigurante la tomba dei giganti con ai lati due gigantesche figure quasi accovacciate, vigilanti, e in modo diano l’impressione che drizzandosi vadino [sic] a toccare il cielo! L’attuale Chiesa della Solitudine, a Nuoro, in cui si trova la salma della scrittrice non risponde ai requisiti indicati da Francesco Ciusa. Ciò non toglie che la progressione a onde centrifughe che Deledda aveva perseguito ha un che di straordinario: da Nuoro a Sassari e Cagliari, all’Italia, al mondo.

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Incontri Grazia Deledda, Sebastiano e Salvatore Satta, Marino Moretti

Può sembrare un azzardo accostare due intellettuali tanto diversi come Deledda e Salvatore Satta, eppure ciò è forse necessario per ridisegnare nuovi rapporti, una nuova geografia culturale e introdurre convergenze a partire da una serie di documenti cartacei e tele di pittori, finora inediti, anche di recentissima acquisizione. Un processo ancora in fieri al quale, al momento, si può solo fare parziale cenno. Lei scrittrice con istruzione regolare fino alla quarta elementare, lui giurista finissimo e scrittore iperdotto. Una donna, Deledda, fra le altre cose, nata trent’anni prima di Salvatore Satta, ciò che può non essere un tempo infinito, se non fosse per i rivolgimenti occorsi tra la fine del secolo e gli inizi del 1900. Sovvertimenti che lo scrittore non poteva aver conosciuto nella stessa misura. Preliminarmente, la questione non può essere affrontata, sul piano del metodo, senza una corretta prospettiva storiografica, lontana sia da una «visione localistica dei fatti culturali»1 sia da un esame che ignori le specificità regionali. È certo, però, che la contiguità fra i due autori deriva anzitutto dal fatto che 1.  L. Fortini - P. Pittalis, Isolitudine. Scrittrici e scrittori della Sardegna, Iacobelli, Roma 2010, p. 10.

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siano nati nello stesso luogo, di cui, giocoforza, hanno condiviso valori e mentalità. Secondo Laura Fortini e Paola Pittalis i due scrittori sono entrambi «figure dell’alterità»2, per il mutamento di un’identità lontana da forme di chiusura, conseguente a nuovi incontri e avvenimenti, e a possibili forme interlocutorie nel «rappresentarsi» o raccontarsi a sé stessi: «specchiarsi». All’isola che «separa e unisce», si sostituisce, in entrambi, la prassi dell’andare via e del tornare, fisicamente o nelle forme del vagheggiamento poco importa, e delle scelte narrative, spesso correlate a percezioni inedite e a impreviste occasioni identitarie. Dove entrambi scrivono sulla propria pelle il termine straniero con tinte, valori e finalità differenti. Nella Nuoro di fine Ottocento, Deledda era e si sentiva una straniera, così come accade per Salvatore Satta e la sua delusione del vivere a Nuoro, espressa benissimo nella lettera al senatore nuorese prima, e ministro poi, Salvatore Mannironi3. Volenti o nolenti, essi sono stati fruitori, a parte subiecti, si potrebbe dire, dello schema e della scala di valori prevalenti nella società barbaricina di fine ’800, di cui Giovanni Pirodda individua le contraddizioni, o ambiguità, per la coesistenza del vecchio e «nuovo mondo»4. Agli inizi del ’900 il clima culturale muta «per la reazione idealistica, le esperienze ispirate al decadentismo e le istanze delle avanguardie»5. con la preminenza di 2.  Ibidem. 3. Cfr. S. Satta, Lettera a Salvatore Mannironi, da S.V. (San Viglio di Marebbe?) del 10 ottobre 1926, in «Jesus», 1987. 4.  G. Pirodda, L’attività letteraria tra Otto e Novecento, in L. Berlinguer A. Mattone (a cura di), La Sardegna, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi, Torino, Einaudi 1998, p. 1097. 5.  Ivi, p. 1098. Una più puntuale riflessione del ruolo svolto da Sebastiano Satta in A. Guiso, Sebastiano Satta o della mediazione inconsapevole nella letteratura in Sardegna, in D. Manca (a cura di), L’isola antica che s’inciela.

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modelli ed esempi letterari non corrispondenti, se non molto parzialmente, alle istanze degli scrittori sardi, «a contatto con una realtà isolana agitata da crisi economiche e sociali»6. La conseguenza è che gli intellettuali sono stati interpreti «di un’identità divisa», italiana e sarda, nonostante l’impegno profuso nella difficile elaborazione culturale e simbolica. Le due tradizioni, d’altra parte, rimandano a realtà talmente lontane da sfuggire alla possibilità di confronti, pronte, piuttosto, a cedere a scontri culturali, accompagnati dai conflitti sociali. «È la percezione di tali contraddizioni a conferire alla fisionomia intellettuale di Sebastiano Satta un carattere dolorosamente dilemmatico»7. Al di là del comune luogo di nascita, perché leggere il Poeta Vate come collante fra i due più grandi scrittori nuoresi? Perché Sebastiano Satta è certamente modello etico, oltre ad avere una coscienza esegetica della realtà isolana, a parte la stima affettuosa che lo unisce a Grazia Deledda, come emerge dalle lettere del poeta a Grazia Deledda8. Da quelle lettere (Vigilia di Natale 1908? s.d., 9 febbraio 1909, 30 marzo, 1909, 29 maggio 1909, 25 settembre 1909,1 dicembre 1909, 29 luglio 1910) emergono l’affetto e la stima del poeta, quasi la sua dipendenza, per le richieste di pubblicazione in riviste nazionali, mentre dalle risposte implicite, affiora la sollecitudine amorevole della scrittrice nei suoi confronti. Le ragioni tuttavia sono ancora varie e corre l’obbligo di elencarle: perché, ancora più di Deledda, egli è cosciente della contraddizione di rappresentare la civiltà della sua terra in un momento di transizione e di crisi, in una lingua come l’italiano,

Sebastiano Satta: il personaggio e il ruolo a 150 anni dalla nascita, Atti della giornata di studi, Nuoro, 20 maggio 2017, EDES, Sassari 2017, pp. 23-42. 6.  G. Pirodda, L’attività letteraria tra Otto e Novecento, cit., p. 1097. 7.  Ibidem. 8.  S. Satta, Lettere a Grazia Deledda, in «Ichnusa», n. 12, 1956, pp. 21-30.

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in gran parte estranea, con la difficoltà di cantare liricamente temi e vicende. A ciò si aggiunge la sua esperienza di una realtà vissuta nelle aule del tribunale e una prassi sociale interpretata attraverso la continua interferenza delle valenze linguistiche ed espressive della lingua poetica italiana. Da parte sua Salvatore Satta, a suo tempo, scriveva poesie che inviava all’amico Claudio Delitala, e della cui perdita molto si dispiacque, come riportato nell’articolo commemorativo per l’amico defunto9. Nelle lettere alla fidanzata ci sono alcuni riferimenti alle poesie di Sebastiano, il 7 febbraio del ’39 alla Madre, il 16 febbraio ’39, al Palo telegrafico, infine, il 4 marzo ’39, alla Ninnananna funebre10, da cui emergono l’affettuoso riconoscimento e ammirazione nei confronti del grande parente, «zio o prozio» come lo chiama in una lettera a Bernardo Albanese. Sebastiano Satta, è presente a pieno titolo nel suo parterre letterario insieme a Dante, Leopardi, Manzoni, al D’Annunzio delle Laudi, a Pascoli, alle prose di Mauriac, Pascal, Gogol’ e Dostoevskij. Amore per il poeta che affiora anche dalla testimonianza dell’amico di Satta, Giuseppe Bettiol, giurista di spessore e friulano di nascita, il quale così rievoca momenti dell’amicizia con Salvatore Satta: E quante volte – sino a ricordarli ancora adesso a più di quarant’anni di distanza – lo sentivo declamare i versi di suo zio Sebastiano Satta […] E così di poesia in poesia imparammo a memoria quasi tutti i canti barbaricini su quella terra sassosa ed aspra che diede all’Italia quella schiera gloriosa di poeti e scrittori per cui si poteva pensare che l’Italia poetica fosse la città, il golfo di Trieste. Ma per noi l’Italia era la Barbagia. Ciò per merito di Satta che pure aveva il cuore diviso tra Trieste e Nuoro.11

9.  Cfr. S. Satta, Gli anni di Sassari, in «La Nuova Sardegna», 20 marzo 1973. 10.  S. Satta, Mia indissolubile compagna. Lettere a Laura Boschian 1939-1971, a cura di A. Guiso, Ilisso, Nuoro 2017. 11.  G. Bettiol, L’uomo Satta, in Aa. Vv., Studi in memoria di Salvatore Satta, CEDAM, Padova 1982, vol. I, pp. 155-159.

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L’altro collante fra Deledda e Salvatore Satta, ancora una volta, è l’arte e l’amore di entrambi per Biasi. Riguardo allo scrittore, l’interesse per la pittura di Biasi è testimoniato dall’aver voluto fortemente alcuni suoi quadri, uno dei quali sarà un dono a un benefattore. Si può legittimamente pensare che l’autore del Giorno del giudizio sia stato mosso, oltre che dal gusto personale, da un processo di immedesimazione identitaria, la stessa in cui si era riconosciuta Deledda, intravedendo nei quadri da lui scelti un’intonazione coerente e unitaria, nel significato e nello stile, con il suo sentire. A testimoniare l’importanza dell’acquisto di quadri di Biasi ci sono quattro lettere inedite al nipote Fausto Satta, figlio del fratello maggiore Giacomo, notaio in Cagliari12. Di fatto, delle opere di Biasi – di Palazzi non si sa – secondo recentissime acquisizioni documentarie, egli entra in possesso pochi anni prima della sua scomparsa. 14 aprile 1970 Caro Fausto, grazie della tua lettera. Ho apprezzato il tuo interesse per i quadri di Biasi, e credo o spero di aver fatto un buon acquisto. L’idea di completare l’impresa con la bellissima xilografia del matrimonio, che mi era molto piaciuta, mi sembra buona. Comunque, i posteri vedranno, se non passerà la bardana, capeggiata da qualche altro Salvatore. Motivo per cui ti consegno? in assegno BNL, anzi Credit. Per la trascrizione del possesso, io direi che ritiri tu intanto i quadri, e te li goda, senza farmi pagare il deposito. Credo che qualcuno di noi verrà, prima o poi. Filippo tornerà il 30 giugno, e può darsi che il Tirreno gli sembri un guado rispetto all’Ocea­no. Spedirli mi pare che sia pericoloso, oltre che dispendioso.

12.  Le lettere sono di proprietà del Prof. Luigi Satta, figlio secondogenito di Salvatore Satta.

210 11 maggio 1970 Ora io devo fare un regalo all’amico, e penso a una xilografia di Biasi a colori o a 2 in bianco e nero. Credi che se ne trovino di interessanti anche per un non sardo? Fammi una indagine e una proposta. 15 giugno 1970 Venendo dovresti portare i quadri di mia spettanza, e potresti provvedere ad acquistare la xilografia a colori da regalare al benefattore […]. A mio avviso il soggetto migliore per un continentale dovrebbe essere il Paesaggio di Aritzo: ma tu devi giudicare, assumendo la responsabilità estetica. 26 giugno 1970 Biasi. Vorrei proporre alla tua sapienza mercantile di indurre la Signora a contentarsi di […]. Se no, prendi pure i quadri, e a giro di posta, secondo il mio stile, ti manderò l’importo. […] E poi verrete a Roma ad ammirare le nostre pareti.

Al momento, chi scrive dispone di fotografie che si riferiscono a una linoleografia del 1934 e a un olio di Biasi, appartenuti a Salvatore Satta. Secondo il giudizio di Giuliana Altea13, interpellata, la linoleografia, pubblicata molte volte, di cm 35 × 30,5, All’abbeveratoio, è del 1934 circa. Il quadro a olio (cm 51,5 × 31,5) è della fine degli anni Trenta-inizio Quaranta. La dicitura sul retro dell’olio (Scelti per Commissione per Venezia) potrebbe riferirsi alla Mostra dell’arte antica e moderna di Venezia (1949) ma, afferma Altea: «escluderei si tratti di un pezzo mandato alla Biennale, dati carattere, dimensioni e data». Nel quadro c’è una strada inondata di luce, i monti sullo sfondo, due viandanti dietro i quali si allunga l’ombra. Oltre a Biasi, a far da collante fra i due scrittori nuoresi è l’arte di Bernardino Palazzi con le differenze che occorre stabilire fra 13. Cfr. G. Altea - M. Magnani, Giuseppe Biasi, Ilisso, Nuoro 1998; G. Altea (a cura di), Giuseppe Biasi. La collezione della Regione Sardegna, Ilisso, Nuoro 2008.

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il legame Biasi-Deledda, rispetto a quello fra Palazzi-Deledda. Nel primo, di cui si è parlato nel capitolo Ut pictura poësis, si riconosce, prepotente, il modello di Hans Jauss sull’ermeneutica letteraria14 con il rimando ai rapporti fra testo visivo e illustrazione, a partire dal precetto oraziano dell’ut pictura poësis, che riguarda la traducibilità e transcodificazione del testo letterario, valido anche quando è lo scrittore ad accogliere le linee e i colori di un pittore che lo esprima, meno cogente nel rapporto Deledda-Palazzi. Tuttavia è ancora una volta una rivista il terreno di incontro fra Deledda e un artista. «La Lettura», frequentata da Palazzi dal 1934 al 1943, il 3 marzo 1936 – la scrittrice sarebbe morta alcuni mesi dopo – accoglie infatti i disegni per L’esempio di Grazia Deledda e per l’Avventura notturna di Mercede Mundula, ambientate entrambe in Sardegna. A testimoniare il rapporto fra Palazzi e Deledda è anche la presenza di una «cartella» del pittore, di cui parla Nicola Valle sull’«Unione Sarda» del 1984, e di un racconto della scrittrice – La cerbiatta – compreso nel vol. I di Romanzi e novelle della collezione “Omnibus” Mondadori. Secondo il Valle: «Una buona occasione, tra l’altro, per una rilettura di Deledda; rilettura mai deludente, anzi di continuo crescente interesse, malgrado il passare degli anni ed il mutare dei gusti e delle mode». Palazzi, come il Biasi del 40/41 è un artista che ritorna in Sardegna. Sia lui che gli scrittori nuoresi “scrivono”, con mezzi diversi, di Sardegna e di Barbagia secondo il processo della «restituzione», risarcimento, che Nereide Rudas nell’Isola dei coralli analizza bene. In ogni caso, per Palazzi il distacco fisico dalla terra natale non si è mai trasformato in un allontanamento radicale: egli subisce il fascino dei suoi luoghi, colori, costumi e tradizioni ed è spesso in Sardegna, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, e a Nuoro almeno una volta l’anno. 14.  H.R. Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, tr. it., il Mulino, Bologna 1988, 2 voll.

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Il quadro di Palazzi, in possesso di Satta, una sorta di straordinario Sartiglia e Mamuthones, da datare agli anni ’50, è decisamente interessante, anzi «bello» per Rita Pamela Ladogana – a suo tempo richiesta di un giudizio – ed è certo un «inedito». Al quadro sattiano può senz’altro riferirsi il giudizio di Ladogana15. Con queste nuove acquisizioni e conoscenze si disegna sempre più chiaramente il cerchio di valori condivisi, dove si compongono, armoniosi, i colori e le forme di un’isola dentro il diverso narrare di un più ampio panorama artistico e letterario sardo. Infine, c’è il rapporto documentato tra Marino Moretti e Grazia Deledda e quello tra il poeta cenesaticese e Salvatore Satta. L’epistolario organico di Moretti con Deledda si interrompe 15. «Negli oli degli anni Cinquanta, tra cui ricordiamo Sos Mamuthones (fig. 106), Le Comari (fig. 104), La Sartilla, la Cavalcata sarda (commissionata dalla Regione Autonoma della Sardegna), Palazzi inventa la sua Sardegna: compie un processo di trasfigurazione che approda ad una visione elegante e fascinosa che non ha precedenti negli esempi dell’arte isolana. Le donne in costume hanno una grazia particolare che le accomuna alle dame di corte, gli uomini compiono gesti e movimenti con una delicatezza da cavalieri e i Mamuthones sembrano maschere in sfilata al carnevale di Venezia piuttosto che misteriosi personaggi portatori di significati ancestrali […]. Il venir meno dell’interesse per il dato folkloristico ed estetizzante avvicina Palazzi all’esperienza di altri artisti isolani attenti alla ricerca introspettiva, da Giuseppe Biasi a Carmelo Floris, ma soprattutto a Giovanni Ciusa Romagna, con il quale ha in comune la predilezione per una tavolozza chiara e luminosa. […] Le opere di argomento sardo sono realizzate con un linguaggio pittorico che contiene gli elementi del rinnovamento linguistico portato avanti da Palazzi a partire dagli anni Cinquanta; fanno eccezione per la loro unicità rispetto al resto della produzione, alcuni dipinti definiti con un linguaggio che si attesta su toni marcatamente espressionistici. Ne sono un esempio il grande olio intitolato Sartilla e Mamuthones (fig. 109) che, come ha sottolineato la critica, oltre a farci pensare al pittore belga Ensor, sia per la presenza macabra dello scheletro sia per l’“affollamento” della scena, ci immerge nell’atmosfera atemporale di un racconto che ha il sapore delle immagini romanzesche del Medioevo russo dipinte dal giovane Kandinskij» (R. Ladogana [a cura di], Bernardino Palazzi, Ilisso, Nuoro 2005, pp. 104-105, 108).

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nel 1923, ma l’amicizia continua. Tuttavia Moretti ha rivestito anche un ruolo importante nella biografia dello scrittore Salvatore Satta, quando il giurista inviò al Premio Viareggio del 1928 il suo primo romanzo La veranda, scritto presumibilmente quando Satta era un giovane avvocato di venticinque anni. Da giurato, Moretti sostenne la candidatura del libro, ma il libro non ebbe fortuna, per la scarsa “sanità” del romanzo, che lo rendeva improponibile – scriverà Moretti – «al troppo delicato, al troppo sensibile, al troppo spaurito pubblico italiano». Passarono molti anni, Moretti smarrì la sua copia del manoscritto, per un lungo periodo lo si credette smarrito, ma, all’inizio del 1981, il manoscritto della Veranda riappare in modo del tutto accidentale fra le carte giuridiche dello scrittore nuorese. Di Moretti esistono due lettere inviate a Salvatore Satta16 che si riferiscono al De profundis, a dire che, ancora, la strada di entrambi è stata attraversata da uno stesso, se non uguale, destino intellettuale. Scandicci (Firenze) 29 gennaio [19]48 Villa Santa Maria Caro Signore, lessi alcuni mesi fa qualche pagina del Suo De Profundis: ricordo che mi parvero bellissime. E bellissime sono realmente, perché proprio ieri sera ne ho avuto conferma dall’amico Corrado Tumiati il quale m’informò ch’ebbe già la fortuna di leggere per intero il libro nato dalla meditazione degli ultimi grandi eventi in una sconsolata campagna. È proprio vero che i libri tutti (non voglio dire solo questi) non si possono pubblicare in Italia? Il ricordo della Veranda mi ha accompagnato, credo, per più di vent’anni (un ricordo che era anche un rimorso, sebbene non ci avessi allora nessuna colpa e la colpa fosse quasi tutta, come sempre, dell’editore); e un giorno mi sono valso del caso 16.  Le due lettere sono conservate nel FASS (Fondo Autori e Scrittori Sardi) dell’Università di Sassari.

214 della Veranda per far qualcosa contro i premi e le commissioni letterarie di cui penso tutto il male possibile. La Sua lettera mi ha dato un grande conforto: sarebbe troppo poco o troppo vieto dire che ha procurato una delle poche soddisfazioni in una lunga e povera vita di scrittore, povera soprattutto di eventi. Debbo confessare che anche il manoscritto della Veranda andò perduto e di questo, proprio di questo, non mi potei consolare per tanti anni. Era un bel libro: mi pare ancora d’esserne certo. E di libri belli, stampati, non ce ne sono! Grazie! Le stringo la mano, se permette, con amicizia. Suo, Marino Moretti Scandicci (Firenze) aprile [19]48 Villa Santa Maria Caro Professor Satta, perdoni se non l’ho ringraziata subito del dono del Suo De Profundis che ho però trovato qui solo giorni fa tornando da Milano. Ho cominciato subito a leggere – e continuato fin troppo rapidamente – le sue dense pagine. Non leggevo cose Sue dal tempo della Veranda e non so s’era maggiore la curiosità o l’emozione. Lei ha scritto un libro molto forte, direi quasi un tragico libro, e non Le nascondo che, come lettore, ne sono ancora tanto sconvolto. Ci si sente, noi, come lettori, anzi come lettori italiani tutti colpevoli, tutti «uomini della tradizione», se non che grande è in fondo, la pietà anche per l’uomo tradizionale, e «la storia dell’uomo tradizionale è la storia di una patria». Bisognerebbe che tutti gli italiani potessero leggere il terribile capitolo XXI; ma gli italiani purtroppo, amano altre letture, anche se taluno d’essi può prender parte a un trattato con qualche franchezza. Io mi auguro intanto che questi pochi lettori superstiti s’accorgano un pizzico che l’autore di De Profundis è anche l’autore della Veranda. Mi creda il Suo dev[otissi]mo Marino Moretti

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I contastorie

Un grido nella notte e Il vecchio Moisè: un vecchio racconta. Descrizione del modo tenuto da Grazia Deledda nella rappresentazione di un motivo-chiave delle sue novelle. «Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre» Eugenio Montale, Le occasioni

Anche a Grazia Deledda, da sempre immersa dentro gli ampi parametri di una cultura orale, la scrittura ha certamente accordato una nuova articolazione e organizzazione della memoria collettiva seppure col rischio di incorrere nell’immutabilità, se è vero che il testo scritto parafrasa in qualche modo la morte di qualsiasi narrazione che si nutra di umanità, dialoghi, atmosfere, ripetizioni con i quali riprodursi per eternarsi nelle variazioni infinite del racconto. Eppure nelle novelle deleddiane si coglie la vivacità della somiglianza, a volte l’analogia con il passato, in ogni caso la dipendenza, talvolta equivalenza, con il mondo originario, dove la tradizione giocoforza si solidifica sotto l’inchiostro e i segni grafici, ma non muore. Dove, anche, il vincolo culturale si conferma nel rispetto di miti e riti antichi. Si può affermare che se il mezzo d’espressione muta – dall’oralità alla scrittura – non necessariamente muta il legame con l’al-

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tro, la chiamata a una conoscenza condivisa. In questo modo l’esposizione diventa informazione e formazione, relazione, ragguaglio perfino, fino a essere piacevole passatempo se distillato al calor bianco dell’inventiva, dell’originalità che solo l’arte concede. I legami culturali quasi si rafforzano con i lettori che quello stesso humus conoscono, vivono e hanno vissuto, e ai quali spesso la scrittrice si è rivolta, mentre per gli altri, che da quel mondo sono lontani (lettori anch’essi ricercati con determinazione), una novella, una storia deleddiana diventano occasione di nuove epifanie o una faccia dell’immenso prisma del racconto, la trasfigurazione di temi e motivi diversamente accolti e indagati. Se Deledda è stata conquistata dal tema dell’oralità, questo è in parte dovuto agli anni dell’ascolto di quanti tramavano storie con voci differenti. Numerosi narratori, di entrambi i sessi e di età diverse, hanno nutrito il suo entusiasmo affabulatorio. In fondo è anche di questi aedi che la scrittrice e le sue novelle sono debitrici del loro esserci nel vasto mondo delle lettere.

Le ragioni di una scelta narrativa Nel 1894, su «Natura ed Arte»1 Deledda pubblica una lunga riflessione sul patrimonio narrativo orale della Sardegna attribuendo, seppure in modo sfumato, la presenza di innumerevoli leggende anche a ragioni di ordine economico e storico. Nel frattempo, dal dicembre del 1893 al maggio 1895, andava scrivendo sulla «Rivista delle tradizioni popolari italiane» di Firenze, in 12 puntate, Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna – che pubblicò intorno ai vent’anni – in seguito a un invito (da lei molto sollecitato) del direttore Angelo de Gubernatis. 1.  III, n. 10, 15 aprile 1894.

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Dal testo di «Natura ed Arte» emerge l’idea di un’isola favolosa, non già piattaforma su un mare d’acqua verde smeraldo, ma zattera galleggiante su antichi tesori. Al barlume di un’edulcorata coscienza sociale, seppure avvolto in un’aura favolosa – «la stretta mancanza di denari» che genera «il bisogno di immaginarsi tesori immensi» –, Deledda aggiungeva la pennellata del mistero che, in ambito cattolico, si manifestava con le sembianze del diavolo. Un’altra notazione riguarda la riconoscibile circolarità topologica tra la scrittura degli inizi e i momenti conclusivi della sua narrativa, e dunque i luoghi che, sia nel 1894 come in Cosima, sono «i siti misteriosi nelle nostre montagne», «siti o roccie o grotte». In particolare «nelle piccole montagne di Nuoro, le verdi e granitiche montagne di Orthubene [sic], che sono forse le più belle del Logudoro». Val la pena leggere almeno l’incipit del lungo testo: Contos de fuchile – racconti da focolare –, con questo dolce nome che rievoca tutta la tiepida serenità delle lunghe serate famigliari passate accanto al paterno camino, da noi vengono chiamate le fiabe, le leggende e tutte le narrazioni favolose e meravigliose, smarrite nella nebbia di epoche diverse dalla nostra. Il popolo sardo, specialmente nelle montagne selvagge e negli altipiani desolati dove il paesaggio ha in sé stesso qualcosa di misterioso e di leggendario, con le sue linee silenziose e deserte o con l’ombra intensa dei boschi dirupati, è seriamente immaginoso, pieno di superstizioni bizzarre e infinite.

Per tutta la vita Deledda scrive di novelle con fiabe e leggende come altri autori contemporanei2 che rispondono a varie istanze:

2.  Per la varia definizione di questo genere letterario si vedano: L. Pirandello, Romanzo, racconto e novella, in «Le Grazie», n. 4, 16 febbraio 1897 (saggio poi ripubblicato da F. Rapazzo: Un articolo di Pirandello sulle forme narrative, in «Allegoria», III, n. 8, 1991, pp. 155-160), e L. Pirandello, Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa (1908), ora in Id., Saggi e inter-

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1)  le attese del lettore di giornali che destinavano, nella terza pagina, uno spazio apposito a prose brevi; 2)  la sua familiarità, fin dall’infanzia, con le forme brevi della narrativa orale; 3)  l’interesse per il «racconto di eventi minimi, quotidiani, incontri, l’apparire fugace di figure, impressioni, atmosfere, paesaggi, stati d’animo. Alle origini di questa scelta c’è, come modello di riferimento, quello letterario delle novelle pubblicate nelle riviste per signorine oltre ai modelli codificati dei racconti orali, trasmessi in forme ritualizzate»3. Coerente con il dettato del persuadēre, al bisogno ludico univa la trasmissione di un antico magistero e sedimentati valori per delectāre certamente, ma anche docēre, su cui si fonda una società fortemente coesa e tradizionalista. «Deledda vive e sente come proprio l’immaginario popolare alimentato dalle storie favolose raccontate dai servi di casa ai bambini e agli adulti, nelle sere d’inverno o nei pomeriggi estivi, (narratori non di professione, ma specializzati) ai bambini e agli adulti»4. Affermazione che va corretta e ampliata come

venti, a cura di F. Taviani, Mondadori, Milano 2006, pp. 685-712; A. Asor Rosa, La novella occidentale dalle origini a oggi, Edizioni moderne Canesi, Roma 1960; E. Pagliarani - W. Pedullà, Introduzione, in Iid. (a cura di), I maestri del racconto italiano. Il meglio da Verga ai nostri giorni, Rizzoli, Milano 1964; C. Segre, Lingua, stile e società, Feltrinelli, Milano 1974, p. 56; M. Guglielminetti, Sulla novella italiana. Genesi e generi, Milella, Lecce 1990; G. Guglielmi, La prosa italiana del novecento. Tra romanzo e racconto, Einaudi, Torino 1998. Ancora A. Asor Rosa, Un’Italia di racconti, in «Nuovi Argomenti», n. 17, gennaio-marzo 2002, pp. 248-254, e R. Luperini, Il trauma e il caso: appunti sulla tipologia della novella moderna in Italia, in «Moderna», V, 1, 2003, pp. 15-22; G. Davico Bonino (a cura di), Donne allo specchio. I più bei racconti della letteratura italiana al femminile, Rizzoli, Milano 2015. 3.  G. Cerina, Dalla leggenda folklorica al racconto fantastico, in Grazia Deledda a 70 anni dal Nobel, cit., p. 134. 4.  Ivi, p. 135.

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dimostra la lettura delle 258 novelle dei sei volumi editi da Ilisso5 più altre 106). Per quanto brevi, più dei romanzi esse accoglievano inserzioni (alle volte dopo un rapido cappello, dove il tempo della storia e quello del racconto si corrispondevano) di fatti remoti, talvolta lunghe analessi (anche di prolessi si potrà parlare nel caso di Il mio padrino con la presenza di ciò che, inerente all’«ordine», Genette chiama «esche vere», ovvero «manovre preparatorie implicite»7 che solo più tardi troveranno il loro significato). Altre volte si trattava di isole fantastiche, viventi di vita propria, autonome dalla storia principale. In ogni caso, il piacere del racconto inerisce a piccole porzioni in cui qualcuno parli e tramandi, senza essere necessariamente un vecchio servitore, ma “anche” un vecchio servo, un sagrestano, un possidente, una vecchia, la nonna del narratore allodiegetico e financo un narratore autodiegetico che possa dirsi una “quasi Grazia”, come nella novella Racconti a Grace dove la celebrazione dello statuto del «vecchio che racconta», assume definitive sembianze femminili in una apoteosi del ruolo della donna, 5.  G. Deledda, Novelle, cit. 6. «Dopo uno spoglio accurato del Corriere della Sera negli anni in cui Deledda vi collaborò, si sono individuate alcune novelle mai più ripubblicate […]. Si è pensato di utilizzarle come oggetto di analisi di questo studio, soprattutto per la loro originalità, dato che non sono mai più apparse (perlomeno nella stessa forma), in nessun altro testo oltre il quotidiano milanese, non sono state mai studiate. I testi che prenderemo in esame sono: Il fiore caduto (apparsa il 16 maggio 1912), L’amico (apparsa il 24 settembre 1912), La morte e la vita (apparsa il 24 luglio 1913), Ritratto di contadina (26 gennaio 1926), L’uomo del nuraghe (9 settembre 1934), Pane quotidiano (12 agosto 1935), Agosto felice (30 agosto 1935), Il primo volo (19 settembre 1935), Pane casalingo (19 gennaio 1936), Battesimo d’Adamo (La Lettura aprile-maggio 1902)» (A. Sanna, La narrativa breve di Grazia Deledda. Studio e confronto, Tesi di dottorato, Università di Granada, 2013). 7.  G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, tr. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino 1972, p. 123.

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e perciò tanto più importante “voce” che narra di antiche tradizioni. Fin da subito: Grazia vive la fase aurorale di un duplice apprendistato: assimila, attraverso «il mistero della favola» (Cosima), valori etici e culturali e al contempo apprende modelli, tecniche, ritmi ascoltando le molte storie che rispondono a una tipologia varia, non rigidamente codificata: storie di banditi, storie drammatiche, leggende religiose come quelle di Gesù e San Pietro o leggende profane di magie e di eventi fantastici, parabole e aneddoti esemplari, come quelli di Salomone, racconti di beffa, di paura, fiabe o racconti fiabeschi variamente ibridati. I momenti di questo apprendistato sono rievocati in vari romanzi e novelle come luoghi narrativi formalizzati nella loro valenza cronotopica.8

I romanzi e le novelle richiamano di frequente situazioni rituali di racconto, spesso con la conferma del “motivo” oggetto di analisi. Si legga la scena che ritrae la piccola Cosima, nel romanzo omonimo, mentre ascolta, con il capo appoggiato al grembo di Nanna, la leggenda-fiaba del muflone raccontata dal servo Proto nella cucina paterna. In ogni caso modelli dominanti in molte novelle sono gli archetipi formalizzati della narrazione popolare o le «forme semplici». La definizione della fiaba come «forma semplice» risale a Jolles (1930), ma qui la si ripropone nella rilettura di Lavinio, riferita a Jolles medesimo, secondo cui: quando una forma semplice si attualizza (cioè passa dalla langue alla parole […] o, aristotelicamente, dalla potenza all’atto, avanza in una direzione che può portarla fino a quella fissazione definitiva che si trova nelle forme colte […]. È comunque meglio non accettare l’etichetta di «forma sem-

8.  G. Cerina, Dalla leggenda folklorica, cit., pp. 134-135.

221 plice», così come non si può accettare la nozione stessa di «racconto primitivo».9

Il modello da cui parte Deledda è quello della narrazione orale, con motivi tradizionali proposti in modi canonici o sperimentali con la mescidanza di motivi e forme, talvolta con la trasformazione della leggenda in racconto fantastico. Si coglie dunque l’eco dell’originaria oralità soprattutto nella mimesi con relativi calchi e sintagmi. Esperienza che la accomuna, fra gli altri, al Pitrè o al Capuana. Ma forse bisogna anche rivedere il debito contratto con tanto altro patrimonio orale10.

Un grido nella notte Le novelle che si è scelto di analizzare in questa sede e indicate nel titolo di questo scritto, a dimostrazione del motivo ricorrente “del vecchio che racconta”, si trovano dentro due raccolte individuate con il criterio della corrispondenza del motivo e della lontananza cronologica per verificare l’eventuale distanza stilistica e l’uso di calchi in sardo a cominciare da Chiaroscuro (1912)11, raccolta che rimanda alla prima fase di collaborazione con il «Corriere», dal 1909 al 1914. In particolare la prima novella analizzata, Un grido nella notte12, fu pubblicata il 19 marzo 1911, tra racconti in gran parte ascrivibili al filone del bozzetto realistico, figli di una narrativa con contenuti più rap9.  C. Lavinio, La magia della fiaba. Tra oralità e scrittura, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 11-12. 10.  A questo proposito cfr. P. Pittalis, Il sardo come lingua letteraria, in E. Blasco Ferrer - P. Koch - D. Marzo (a cura di), Manuale di linguistica sarda, de Gruyter, Berlin-Boston 2017, p. 227. 11.  G. Deledda, Novelle, cit., vol. III, pp. 25-192. 12.  Ivi, pp. 42-46.

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presentativi che inventivi. D’altra parte molti testi scritti per il «Corriere» di quegli anni sono di ambientazione sarda con soluzioni narrative differenziate. In Un grido nella notte per la prima volta dentro la raccolta appare la scrittrice – «fin da quando ero bambina io» – con la storia del vecchio ziu Taneddu che ha tutto il sapore dell’autobiografia per i ricordi di quelle sere d’estate. La trama in sé e per sé è piuttosto banale, ma è interessante vedere come meccanismi di quella cultura orale abbiano avuto una parte importante. La piccola Grassiedd’elè, come la chiama il vecchio ziu Taneddu, registra e appunta nella memoria fatti suoni e soprattutto colori della sua infanzia; in fondo prodromi della scoperta del mondo di Cosima. Lo sfondo è Nuoro, «il vicinato di Sant’Ussula» (anche Sant’Ursula), come in altre evenienze narrative per esempio in La via del male, il primo, vero romanzo del 1896 e ne Il vecchio della montagna, di poco successivo (del 1899). Tre vecchi vi trascorrono le giornate e il narratore omo-allodiegetico (osservatore testimone) si ferma ad ascoltare i loro racconti. Il prediletto fra i tre è ziu Taneddu. Del suo racconto è protagonista la moglie, Franzisca Portolu, che, in una notte d’autunno, essendo egli assente, non raccoglie il grido terribile che risuona proprio dietro la loro casa. Si saprà all’indomani della morte di un diciottenne, Anghelu Pinna. Il ragazzo, ferito da ignoti, muore per emorragia. Se aiutato per tempo, si sarebbe salvato. Da quel momento la donna muta carattere. Dopo due anni dall’episodio, durante la festa dei santi Cosimo e Damiano, la si vede uscire correndo dalla Chiesa. Successivamente racconta di aver ballato con i morti e di esser corsa fuori sfilandosi di dosso la tunica per sfuggire alle mani del fantasma di Anghelu Pinna.

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Si è dentro la tradizione del racconto «po fai a timere», secondo Lavinio13 («pro fàcher tìmere» in nuorese). È verosimile che di questi racconti fosse ricca l’infanzia della scrittrice. Dal punto di vista stilistico dentro la mimesi dialogica alcuni passaggi rimarcano la funzione fatico-conativa con formule di contatto come: «è vero, Jubá» o «fratellini miei» o «ragazzini». Il sintagma «guardava il gregge» è semplificazione anche semantica del più corretto «custodiva i branchi di porci e di maialini» di Il vecchio Moisè, la seconda novella in esame, ne Il dono di Natale del 193014, e riferito dal narratore omodiegetico di quel racconto. Altri sono i calchi: «Per pregare pace all’anima» (pro precare pache a s’anima) o «feci dire le messe». Anche il riferimento al narratario intradiegetico15, «Grassied­ d’elè», è il risultato di un gioco linguistico con il continuum fonico tra il diminutivo del nome in sardo della scrittrice e il suo cognome per l’apocope della vocale finale di Grassiedda e l’aferesi della sillaba iniziale di Deledda. Dentro il parlato della moglie del vecchio Taneddu ci sono le tracce di un italiano popolare: «se io uscivo e guardavo e alle voci che domandavano rispondevo». Lo stesso Ziu Taneddu si omologa alle scelte linguistiche della moglie ed ecco: «se non gridavo, […] mia moglie non moriva». È interessante rimarcare che le particolarità ora riferite sono all’interno della mimesi dialogica e non nel discorso diegetico16, senza dimenticare l’in13.  C. Lavinio, La magia della fiaba, cit, p. 5. 14.  G. Deledda, Il dono di Natale, in Ead., Novelle, cit., vol. V, pp. 249-253. 15.  Per G. Genette, Figure III, cit., pp. 307-308: «Come il narratore, il narratario è uno degli elementi della situazione narrativa, e s’inserisce al medesimo livello diegetico; cioè non si confonde a priori col lettore (anche virtuale) più di quanto il narratore non si confonda necessariamente con l’autore. A narratore intradiegetico, narratario intradiegetico». 16.  Per l’opposizione tra diegesi e mimesi valga G. Genette, Figure II. La parola letteraria, tr. it., Einaudi, Torino 1969, pp. 209-210.

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tervento del narratore presente: «fin da quando ero bambina io, i tre vecchi vivevano là, tali e quali sono ancora adesso», che autentica il sentimento di piacere che accompagnava da sempre l’ascolto di “storie”. Così ancora: «ziu Taneddu, ziu Jubanne e ziu Predumaria raccontavano storie che mi piacevano tanto perché non le capivo bene e adesso mi piacciono altrettanto perché le capisco troppo». La conferma di un immutato interesse si accompagna alla consapevolezza dell’importanza del patrimonio culturale della Sardegna in una Deledda ormai cittadina romana. Già Lavinio aveva dimostrato che la prassi dei sardismi «tesi a riprodurre mimeticamente le “cadenze” del mondo narrato (soprattutto quando i personaggi vengono fatti parlare direttamente), permette di ascriverli immediatamente (nella maggior parte dei casi) a una scelta consapevole della scrittrice»17. D’altra parte il fenomeno si giustifica in quanto: Preliminarmente, la questione in essere non può essere affrontata, sul piano del metodo, senza una corretta prospettiva storiografica, lontana ugualmente da una «visione localistica dei fatti culturali»18 e da un quadro che ignori «le specificità regionali»19 «in un paese così policentrico in fatto di lingua e cultura» come l’Italia20. Un fenomeno che affonda le radici in quella mancanza di centro, per Asor Rosa21 causa della 17.  C. Lavinio Narrare un’isola. Lingua e stile di scrittori sardi, Bulzoni, Roma 1991, pp. 96-97. Relativamente alle scelte linguistiche deleddiane si legga P. Zambon - P.L. Renai, La collaborazione di Grazia Deledda al «Corriere della Sera» e le varianti delle novelle dall’edizione in quotidiano all’edizione in volume, in U. Collu (a cura di), Grazia Deledda nella cultura contemporanea, cit., vol. II, pp. 225-266. 18.  L. Fortini - P. Pittalis, Isolitudine, cit., p. 10. 19.  Ibidem. 20.  S. Maxia, Narrativa in Sardegna, in «Società sarda», n. 9, 1998, p. 57. 21.  A. Asor Rosa, Canone della letteratura italiana, www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=499.

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continua mediazione e confronto fra la letteratura italiana e i molteplici elementi derivanti dalle realtà locali, regionali, paesane, comunali22.

Il vecchio Moisè Le raccolte La casa del poeta, Il dono di Natale e La vigna sul mare, furono pubblicate negli anni di maggior successo di Deledda (1930-1932). In particolare la raccolta Il dono di Natale, nella quale è presente Il vecchio Moisè, la seconda novella qui prescelta, raccoglie 17 componimenti. Alcune sono fiabe eterogenee che accostano motivi tratti dalla tradizione europea, altre invece ritraggono figure e momenti quotidiani. Spesso i racconti sono filtrati dallo sguardo innocente e stupito di una bambina: «Quell’inverno lontano fu nefasto per la mia piccola città di Nuoro. Sebbene bambina, io lo ricordo come non ricordo tempi recenti»23. Deledda pubblica molte novelle di ambientazione natalizia. Diversi giornali tra cui il «Corriere della Sera» le proponevano al lettore della famosa terza pagina. Il primo testo natalizio, il Natale in Sardegna, è però un articolo di costume che racconta gli usi e costumi sardi per la festa di Natale e compare nel giornale romano L’ultima moda nel 1891.24 Ne Il vecchio Moisè lo sfondo è sempre Nuoro, sebbene non venga nominata dal narratore omodiegetico. Il protagonista della novella è Moisè, forse un soprannome per il suo aspetto fisico, certo un riferimento al profeta biblico per la nota de22.  L’intera citazione è di A. Guiso, Sebastiano Satta o della mediazione inconsapevole, cit., p. 26. 23.  G. Deledda, Il voto, in Ead., Il dono di Natale, cit., pp. 214-217. 24.  Riguardo al genere “Racconti di Natale” si veda la nota 34 di P. Zambon P.L. Renai, Preliminare di indagine, cit., p. 64.

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vozione religiosa della scrittrice. È il resoconto di una notte di Natale ed è un racconto iterativo, espresso da «e raccontava». Si narra del furto di un maialino da parte del fidanzato della sorella di Moisè, e del dono fattone alla fidanzata. Moisè era allora un ragazzo di undici anni e doveva custodire il gregge anche la notte di Natale, la terza in quel ruolo. Il futuro cognato è un valente narratore di storie paurose, abilità che sfrutta per impaurire il ragazzo e portare a termine il furto. Il giovanissimo guardiano di porci, infatti, pur avendo, di notte, sentito i maialini grugnire, segno della presenza di intrusi, non esce, per paura, dalla capanna. Il cane non abbaia, si rincuora. Ma due giorni dopo il padre si accorge che manca un maialetto e lo bastona. L‘unico a beffarsi di lui è proprio il cognato, che niente avrebbe dovuto sapere. Solo anni dopo Moisè viene a sapere che proprio lui era stato l’autore del furto e della sua punizione. La ragione? Troppo povero per poter fare alla fidanzata il regalo dovuto. Rispetto a Un grido nella notte non c’è soluzione di continuità tra lo stile della diegesi e quello della mimesi, pur essendo presenti le eccezioni di calchi, ad es.: «mi toccava di stare lassù», di termini sardi e della ninnananna Su ninnicheddu presente in Tradizioni popolari di Nuoro. È comunque indicativo, in entrambi i testi scelti, il ricorso a medesimi verba narrandi, quasi un’omologazione del raccontare nonostante la diversità cui si è appena fatto cenno.

I contastorie In Racconti sardi (1894)25 otto novelle trattano temi ispirati alla realtà locale. In Ancora magie26 il vecchio che racconta è 25.  G. Deledda, Novelle, cit., vol. I, pp. 115-190. 26.  Ivi, pp. 140-145.

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Zio Salvatore, prima «il nostro vecchio fattore» quindi, per dichiarazione dello stesso: «non sono stato sempre agricoltore: ero nato per diventare qualcosa di grande, prete almeno, ma i casi e l’estrema povertà della mia buona mamma, non lo permisero. Tuttavia durante la mia fanciullezza feci il sagrestano nella nostra chiesetta di San Giuliano, e solo allorché, smessa ogni vocazione religiosa, pensai di ammogliarmi, mi scossi via il profumo d’incenso e di cera che esalava dalle mie vesti, e, vestitemi le ghette mi posi a lavorare la terra». La dama bianca, presente anch’essa nella raccolta, secondo Dino Manca è: novella attinta dal serbatoio della tradizione orale sarda e che si struttura secondo le modalità del racconto nel racconto con una sorta di breve cornice iniziale (anche se in un caso si tratta di una leggenda narrativizzata dal narratore di primo grado). Il primo narratore, rappresentato e testimone, interrompe il fluire della diegesi principale (funzionale solo a introdurre le narrazioni che seguiranno) per innestarvi e fagocitarvi, quasi a mo’ di matrioska, altre microstorie che si muovono su piani temporali differenti e che della storia principale ne costituiscono il paradigma.27

Il luogo è «vicino ad uno dei più pittoreschi villaggi del Nuorese» dove «noi abbiamo un podere coltivato da una famiglia dello stesso villaggio». Così Deledda: Il capo di questa famiglia, già vecchio28, ma ancora forte e vigoroso, – strano tipo di sardo con una soave e bianca testa di santo, degna del Perugino, – viene ogni tanto a Nuoro per recarci i fitti ed i prodotti del podere, e ogni volta ci racconta

27.  D. Manca, Introduzione, in G. Deledda, Il ritorno del figlio, ed. critica a cura di D. Manca, Centro di studi filologici sardi-CUEC, Cagliari 2005, pp. XXI-XXII. 28.  D’ora in avanti i corsivi evidenziano le caratteristiche di colui che racconta e tramanda.

228 bizzarre storie che sembrano leggende, – invece accadute in realtà tra i monti, i greppi, e le pianure misteriose ove egli ha trascorso la sua vita errabonda, e a molte delle quali egli ha preso parte. Egli si chiama Zio Salvatore. Ecco dunque l’ultima storia che egli ci ha raccontato, che molti non crederanno, e che pure è realmente avvenuta in questa terra delle leggende, delle storie cruente e sovrannaturali, delle avventure inverosimili.

Le raccolte successive sono rispettivamente La regina delle tenebre (1902), I giuochi della vita (1905), Amori moderni (1907), Il nonno (1908). La prima è ancora legata al feuilleton, sulle orme dei Racconti sardi e Le tentazioni; viceversa le altre tre riecheggiano nuove inclinazioni culturali con ambienti e temi alternativi. In questo momento Deledda, già dentro il clima culturale romano, vuole rispondere alle attese di un pubblico diversamente esigente. Oltre che con il «Corriere della Sera» collabora con «Nuova Antologia», «La Riviera Ligure», «La Lettura», «La Tribuna», «La Rassegna». In La regina delle tenebre (1902)29 la novella La giumenta nera30 presenta il «vecchio» Juanne Battista, «custode» dell’omonima chiesa campestre «nelle campagne del nuorese». «Il vecchio raccontò una lunga storia, d’una dama che aveva i demoni in corpo, e che andava a cavallo, di notte, per le campagne, come una fantasima». Come in Un grido nella notte, nella silloge Chiaroscuro (1921), dentro La vigna nuova31 è sempre un vecchio a tessere la trama del racconto; è Don Innassiu Boy che «dall’alto della china ove finiva la zona coltivata a vigne […] assisteva alla ripiantagione delle viti distrutte dalla filossera. Come tutti i vecchi egli rim-

29.  G. Deledda, Novelle, cit., vol. I, p. 154. 30.  G. Deledda, Novelle, cit., vol. II, pp. 27-101. 31.  G. Deledda, Novelle, cit., vol. III, pp. 189-192.

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piangeva i bei tempi passati» e «raccontava alla nipotina Onoria, studentessa ginnasiale, gli usi antichi»32. Nella raccolta Il fanciullo nascosto (1928)33 il luogo della novella Il primo viaggio34 è Nuoro e chi tramanda le sue memorie è Donna Itria. «Vecchia com’era e dopo aver girato mezzo mondo – a Lourdes per devozione, a Barcellona per affari, a Roma come testimone in un famoso processo – Donna Itria ricordava sempre il suo primo viaggio: ricordo che si perdeva nella notte dei tempi»35. Nella Croce d’oro36, presente nello stesso florilegio, si affaccia invece «un mezzadro d’un nostro piccolo podere nella valle». Eravamo quasi alla vigilia di Natale, ed io che dovevo scrivere una novella d’occasione per un giornale straniero ancora non avevo trovato l’argomento. Allora pensai di andare a raccogliere qualche leggenda. (Vivevo ancora nell’Isola). Conoscevo un vecchietto che ne sapeva tante: era un mezzadro d’un nostro piccolo podere nella valle: d’estate e d’autunno veniva su, […] Ma d’inverno non veniva, o veniva di rado e non c’interessava tanto perché portava le olive e le olive sono amare. Dunque si andò a trovarlo laggiù: […]. – Che storie vuoi che ti racconti? […] E se vuoi storie cercale nei libri, tu che sai leggere.37

Nella Potenza malefica38 appare «un vecchio ciabattino misterioso»:

32.  Ivi, p. 189. 33.  Ivi, pp. 193-343. 34.  Ivi, pp. 247-250. 35.  Ivi, p. 247. 36.  Ivi, pp. 269-274. 37.  Ivi, pp. 269-270. 38.  Ivi, pp. 289-292.

230 Quando ero ragazzina io, ricordo, a me ed a tutti i bambini «signori» del vicinato ci ricuciva e risolava le scarpette, – primitive scarpette a lacci, con doppio arco di bullette lucenti come stelle, – un vecchio ciabattino misterioso che abitava una stamberga poco distante da casa mia. […] La prima ad accorrere per sentire le cose terribili che diceva, ero io […]. Adesso vi conterò […]. Erano storie e storie, una più impressionante dell’altra.39

Anche Giustizia divina, nel Flauto nel bosco (1928)40 (27 testi scritti dal ’21 al ’23), propone un vecchio: A questo fatto straordinario ho proprio assistito io – raccontò un vecchio a noi donne sedute all’ombra della capanna da bagno e ad una raggiera di ragazzi e giovani seminudi sdraiati intorno, pancia a terra, col corpo nel sole e la testa nell’ombra. – Da giovane mi divertivo ad assistere ai dibattimenti nella Corte d’assise. […] Vi racconterò, adesso che abbiamo tempo, alcune di queste storie: e oggi voglio cominciare con una che ancora, alla distanza di mezzo secolo, mi turba e m’impressiona, e della quale mi sono ricordato in molte circostanze.41

In Un pezzo di carne dentro la raccolta Il sigillo d’amore (1926)42 (tre le novelle sarde: A cavallo, Il nome del fiume, Il sigillo d’amore) chi racconta a una Deledda, ormai scrittrice, è una donna, come si vedrà, simile alla protagonista de Il pane: Ma tutte queste cose le sai meglio di me, – dice poi con un risolino di compiacenza per l’evidente interesse con cui si vede ascoltata: – piuttosto ti racconterò un fatto curioso, dal quale, se vuoi, puoi trarre una novella. Mettendoci un po’ di arte, come tu puoi fare, diventa una novella straordinaria: io ci ho pensato, anzi volevo scriverla io, ma mi tocca troppo, è una

39.  Ivi, pp. 289-290. 40.  G. Deledda, Novelle, cit., vol. IV, pp. 205-208. 41.  Ivi, p. 205. 42.  Ivi, pp. 322-325.

231 cosa troppo mia perché io possa scriverla. Però ho bisogno di raccontarla, e sono venuta da te per questo.43

Così come c’è una donna in Lo spirito dentro la capanna44: – Qui, vede, ci ha lasciato la vita il mio povero marito. Sono poche parole, a dirle, queste; e sembrano niente; invece è una storia lunga che a raccontarla tutta ci vorrebbe un libro. – Meglio, meglio, – l’incoraggio io, – raccontate pure – Allora le dirò proprio tutto.45

Ma anche in Comincia a nevicare46, presente ne Il dono di Natale (1930)47 c’è una donna, la nonna di Grazia in un preciso riferimento all’infanzia: poco fa la piccola nonna, che per la sua statura il suo viso roseo rassomigliava a noi bambine, ed era più innocente e buona di noi, raccontava per la millesima volta che un anno, quando anche lei era davvero bambina (Nel 1000, diceva il fratellino studente, già scettico e poco rispettoso della santa vecchiaia), una lunga nevicata aveva sepolto e quasi distrutto il paese. […] Ed ecco che ricomincia a raccontare; ed i particolari terribili di quella volta aumentano la nostra ansia, che in fondo però a qualche cosa di piacevole. Pare di ascoltare una fiaba che da un momento all’altro può mutarsi in realtà.48

Nel racconto L’anellino d’argento49 c’è invece un giovanissimo «servetto d’ovile»: In Sardegna esistono ancora le case delle fate. […] Il mio sogno, da bambina, era di visitare queste Domus de Janas e po43.  Ivi, p. 322. 44.  Ivi, pp. 397-402. 45.  Ivi, p. 399. 46.  G. Deledda, Novelle, cit., vol. V, pp. 194-196. 47.  Ivi, pp. 187-258. 48.  Ivi, pp. 194-195. 49.  Ivi, pp. 201-203.

232 terci penetrare: ma essendo esse lontane dall’abitato, perlopiù in luoghi deserti e rocciosi, la cosa non era facile. Le storielle che un servetto d’ovile raccontava ogni volta che veniva in paese per cambiarsi la camicia per andare a messa, aumentavano il mio desiderio. Questo servetto raccontava dunque di aver più volte visitato le Domus de Janas.50

Lo stesso “servetto” è protagonista de La casa della luna51, nei fatti il prosieguo del racconto precedente: «Quello stesso ragazzo che ci condusse con esito tanto negativo a cercare la casa delle fate, affermava di sapere anche dov’è la casa della madre della luna e quella della madre dei venti»52. Sempre nella stessa raccolta si trova il fondamentale scritto Il pane 53 con i racconti di una «infornatrice». Uno in particolare: Le cose che raccontava erano tutte interessanti, specialmente dopo aver preso il caffè o mangiato tre piatti di maccheroni e bevuto un bel bicchiere di vino. […] L’infornatrice diventava loquace e raccontava le storie di tutte le famiglie della città, comprese quelle degli antenati; e la mia fantasia pescava in quella narrazione più che nei libri stampati di avventure novelle. […] A riferire tutte le sue storie ci sarebbe da scrivere altri dieci libri, oltre quelli felicemente scritti: però oggi ne ricordo solo una, che doveva essere vera, poiché la donna la raccontava spesso senza varianti, mentre le altre subivano sovente grandi modificazioni.54

Degna di rilievo risulta la notazione metanarrativa di Deledda (qui, e per altri aspetti, in Un pezzo di carne), che trova l’equi50.  Ivi, p. 201. 51.  Ivi, pp. 204-206. 52.  Ivi, p. 204. 53.  Ivi, pp. 207-209. 54.  Ivi, p. 208.

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valente teorico nella riflessione di Lavinio secondo cui nella comunicazione narrativa popolare capita di sentire narrare più volte la stessa fiaba (e ciò facilita la sua memorizzazione), mentre «il testo narrato è tanto più facilmente memorizzabile quanto più è esteso quantitativamente, ricco di ripetizioni e, dunque, meno denso quanto a distribuzione delle informazioni»55. Ne Il mio padrino56 è, ancora, una Deledda ormai adulta a parlare stavolta della notte della sua nascita e di come fu deciso chi fosse il suo padrino: Questo mio padrino veniva a trovarlo (mio padre) da un paese allora lontano, perché le linee automobilistiche ancora non tagliavano la dura solitudine delle terre di Sardegna. […] Dopo la cena (il padre e il padrino) rimanevano loro due soli a tavola, con la bottiglia che si inclinava ora verso l’uno ora verso l’altro salutandoli, […] Una di quelle notti la serva andò a chiamare la mia piccola nonna: entrambe salirono nella camera di mia madre poco dopo lasciò il baritono giù dove erano due amici. Disse: – Padrone, la padrona ti manda a dire che ha comprato una bambina, adesso, pochi minuti or sono. […] – Ecco una bella occasione per diventare compari. – Benissimo; e come la chiameremo? – La chiameremo Grazia. E così l’ospite diventò mio padrino. Io sentivo raccontare da lui questo avvenimento molti anni dopo.57

È invece un frate cappuccino colui che racconta in Natura in fiore58 dentro La vigna sul mare (1932)59: «Tutti gli anni, per

55.  C. Lavinio, La magia della fiaba, cit, p. 127. 56.  G. Deledda, Il dono di Natale, cit., pp. 233-235. 57.  Ivi, p. 234. 58.  G. Deledda, Novelle, cit., vol. V, pp. 342-345. 59.  Ivi, pp. 261-422.

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Pasqua, da tempi remotissimi, veniva giù a far colazione dai Bardi un frate cappuccino. Veniva giù, da dove? Pasqua non lo sapeva precisamente, da dove», ma dopo l’invito «a tavola, a tavola. E ci racconti dov’è stato tutti questi anni, padre Flaminio», cominciava il suo lungo racconto.

Racconti a Grace Ma è in Racconti a Grace60, ancora in La vigna sul mare, che si raggiunge l’acme e la celebrazione della magna mater del romanzo sardo che avoca a sé l’indispensabile elargizione del racconto. Il cerchio si chiude. Il narratore autodiegetico, la nonna di Grace (ed è notevole la capacità profetica di leggere nel futuro da parte della grande scrittrice per l’idea che la nipote possa chiamarsi con un nome inglese), è finalmente una Grazia ormai vecchia che tramanda, insegna, diverte secondo regole prima orali, quindi definitivamente codificate dalla scrittura che ne avvalora la necessità, conferma il rimando alla stirpe, alla storia dell’immaginario di un’intera zona geografica se non della Sardegna intera. La scrittura di esperienze quasi favolose ma non fiabesche diventa allora parte integrante del canone, della nobiltà del regionalismo letterario dentro un contesto nazionale. Fra venti anni, speriamo anche trenta, la vecchia nonna Grazia dirà alla sua bella nipotina Grace, figlia di suo figlio e di una nuora inglese o americana, o magari gagliarda e fiera ciociara: – Tu, mia carissima, ieri nel pomeriggio hai pregato la tua mamma di accompagnarti a fare uno spuntino nella pineta di Cervia, vicina a quella famosa di Ravenna: in un’ora e tre quarti, per via aerea, siete arrivate felicemente lassù. […] Ma questo viaggio, cara la mia Grace, è un portento di rapidità in confronto a quello mio primo. Il mio primo viaggio, se non

60.  Ivi, pp. 389-392.

235 contiamo quelli sui plaustri latini, ai tempi della mia beata infanzia, lo feci in diligenza: e fu il più bello della mia vita. Si andava da Nuoro, gagliardo cuore di Sardegna, a Casteddu Mannu, Cagliari, Karalis fenicia, per la celebre festa di Santo Efisio, ai primi di maggio. Avevo undici anni. La festa della primavera e quella della mia fanciullezza coincidevano dunque con la sagra del grande Santo sardo.61

Ecco la Cagliari deleddiana: E solo dopo quella del treno, l’arrivo a Cagliari, il nostro Casteddu Mannu, il Castello Grande, la più bella e forte città del mondo, che sola può competere con la sua rivale Sassari, gloriose metropoli entrambe, superiori a tutti i Castelli, le Ville, i Fori antichi e moderni. Al carpentiere – mago brillavano di fierezza gli occhi: pareva che l’incanto della radiosa città, delle sue palme, dei suoi bastioni, delle sue torri leggendarie, lo avesse creato lui con le sue stregonerie; zio Andrea piangeva lagrime azzurre, mentre il suo duro amico Antonio, come al solito, lo sbeffeggiava. E quando dall’aerea loggetta medioevale di un’antica casa della città alta, Casteddu ‘e susu, si vide per la prima volta il bel golfo veramente angelico (Golfo degli Angeli), tutto increspato di argento, mi parve che quel movimento luminoso lo destasse il guizzare dei pesci. E indossò il vestito buono, […] e si andò per la città festante. Si va, si va, stretti nella nostra piccola comitiva, con le scarpette nuove che fanno male, con la testa che, a veder tante meraviglie, palazzi grandi, balconi fioriti, negozi di lusso, monumenti e giardini, e bastimenti e barche, e sopra tutto la processione del Santo, che da sacerdoti e gentiluomini in costume spagnolo viene condotto per due giorni a Pula, si tramuta in una vera girandola. […] Stracittadini si doveva essere, in quei giorni che la nostra Capitale ci ospitava all’ombra della sua Torre dell’Elefante. E si va, e si va, di meraviglia in meraviglia.62

61.  Ivi, pp. 389-390. 62.  Ivi, pp. 391-392.

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Da qui il testimone passa a Maria Giacobbe, l’altra grande scrittrice nuorese. Ecco la sua Cagliari dentro Maschere e angeli nudi, ritratto di un’infanzia: Quando, alzando lo sguardo dalle radici colossali che spuntavano dal marciapiede come rocce, e seguendone i lisci tronchi argentei, arrivai alla verde magnificenza coriacea delle loro chiome, ebbi un’inoppugnabile conferma dell’impressione che Cagliari mi aveva dato sin dal momento in cui, svegliandomi da una sonnolenza che mi aveva colto durante il viaggio, mamma mi aveva messo in piedi sul marciapiede della stazione che mi era parsa enormemente imponente ed elegante. Cagliari era un mondo in tutto e per tutto diverso da quello dove ero nata e dove avevo vissuto sino a quel momento, Cagliari era un mondo di totale bellezza dove la paura, la volgarità e la violenza non potevano esistere. Forse Cagliari era il cognome di Paradiso.63

Nessun’altra come Giacobbe, in Sardegna ha dedicato al genere autobiografico opere intere se si esclude appunto Deledda, di Nuoro come lei, con Cosima, una quasi autobiografia dietro lo schermo di una terza persona che, tuttavia, proprio in Racconti a Grace, novella della maturità – e finalmente tralasciando la prevalente funzione di personaggio testimone – sceglie una scrittura in prima persona che affermi il valore di una vita e del suo racconto al femminile, degno di essere tramandato alla nipote come, prima, aveva fatto con lei la sua «piccola nonna» nuorese.

Con lo stesso titolo, il saggio è già apparso nel volume a più mani Oralità narrativa, cultura popolare e arte. Grazia Deledda e Dario Fo, Atti del Convegno di Nuoro, 10-11 dicembre 2018, a cura di C. Lavinio, ISRE-AIPSA, Nuoro-Cagliari 2019. 63.  M. Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto di un’infanzia, Il Maestrale, Nuoro, 1999, p. 47.

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Indice dei nomi

Aleramo, Sibilla:  201. Albertini, Luigi:  200. Alighieri, Dante:  172, 208. Altea, Giuliana:  210 e n. Anceschi, Luciano:  23 n. Andreoli, Annamaria:  23 n. Angoletta, Bruno:  201. Antona Traversi, Camillo:  183. Argenziano, Maria:  82 n. Asor Rosa, Alberto:  218 n., 224 n. Augé, Marc:  31, 32 n. Austen, Jane:  68, 159, 160, 161. Baldini, Antonio:  27 n., 60 n. Baltrušaitis, Jurgis:  152. Balzac, Honoré de:  146. Barbato Faccani, Manila:  28 n. Barrett, Michèle:  160 n.. Bataille, Georges:  160, 161. Baudelaire, Charles Pierre:  98. Bellorini, Egidio:  26. Berlinguer, Luigi:  206 n.

Bernstein, Basil:  57. Bertelli, Luigi (Vamba):  199, 200. Bertoni, Clotilde:  13 n. Bettiol, Giuseppe:  208 e n. Biasi, Giuseppe:  198, 199 e n., 200, 202 e n., 203, 209, 210, 211, 212 n. Bicchi, Silvio:  201. Blasco Ferrer, Eduardo:  221 n. Blumenberg, Hans:  29. Bo, Carlo:  120. Boccafurni: 192. Bodenhoff Salmon, Annette:  149 n. Bonomi, Andrea:  32 n. Bonomi, Giuseppe:  196 n. Bontempelli, Massimo:  201. Borgese, Giuseppe Antonio:  106, 107, 122, 129 Borzi, Italo:  82 n. Both, Jan:  62. Bottazzi, Umberto:  201. Bourget, Paul:  26.

238 Bracco, Roberto:  183. Branca, Remo:  60. Braque, Georges:  62. Brax, Edoardo:  183. Bremond, Claude:  185 e n. Brilli, Attilio:  177 n. Brontë, Emily:  10, 11, 12, 158 e n., 159, 160, 162 n., 166, 176 e n., 177. Butti, Enrico:  183. Canetti, Elias:  165 e n. Capriolo, Ettore:  114 n. Cardarelli, Vincenzo:  201. Carducci, Giosuè:  146, 147. Cascella, Basilio:  201. Cascella, Michele:  201. Cascella, Tommaso:  201. Catone:  96. Cerina, Giovanna:  60 n., 70 e n., 218 n., 220 n. Cerquetti, Enea:  57 n. Cermignani, Armando:  201. Cézanne, Paul:  68. Chateaubriand, François-René de: 162. Chiodi, Pietro:  61 n. Cirese, Alberto Mario:  55, 56 e n. Ciusa, Francesco:  203, 204. Ciusa, Maria Elvira:  62 n. Ciusa Romagna, Giovanni:  203, 212. Claus, Émile:  63. Cocco, Franco:  14. Cohen, Margaret:  29 n. Coleridge, Samuel Taylor:  177 n.

Collu, Ugo:  14 n., 62 n., 70 n., 149 n., 152 n., 224 n. Comisso, Giovanni:  111. Costa, Mario:  183. Daiches, David:  162 n. Daudet, Alphonse:  146. D’Annunzio, Gabriele:  9, 11, 22, 23 n., 24, 26, 27, 28, 102, 129 e n., 140 n., 147, 150, 152, 208. Davico Bonino, Guido:  218 n. De Benedetti, Aldo:  202. De Chirico, Giorgio:  62. De Gubernatis, Angelo:  26, 27, 49, 139, 144, 145, 146, 154, 162, 163, 192, 194, 195, 196, 198, 216. De Michelis, Eurialo: 192 n., 193. Derain, André:  62. Delitala, Claudio:  208. Dessì, Giuseppe:  150. Di Pilla, Francesco:  22 n., 26 n., 146 n. Dodero Costa, Maria Luisa:  152 e n. Dolfi, Anna:  129 n. Dostoevskij, Fëdor Michajlovič: 120, 122, 124, 128, 152, 187, 208. Dotti, Ugo:  178 n. Dudreville, Leonardo:  201. Dupré, Natalie:  83 n. Eleonora, giudicessa d’Arborea: 147, 148. Esiodo: 96.

239 Faccani, Remo:  28 n. Falchi, Luigi:  27, 60, 194. Fanciulli, Giuseppe:  200 n. Flaubert, Gustave:  163 n. Fertonani, Roberto:  176 n. Folli, Anna: 196 n. Fonzi, Ada:  57 n. Fortini, Laura:  205 n., 206, 224 n. Floris, Carmelo:  212 n. Frye, Northrop:  95 e n., 159 e n. Fusillo, Marco:  13 n. Gabrielli, Gabriele:  179, 180. Gadda, Carlo Emilio:  34 e n., 79, 110, 111 n. Gallo, Claudio:  196 n. Gamél Holten, Marie:  16, 149 e n., 150. Genette, Gérard:  219 e n., 223 n. Giacobbe, Maria:  41 e n., 42, 149 e n., 236 e n. Gilbert, Sandra M.:  87 n. Goethe, Johann Wolfgang von: 176 e n. Gogh, Vincent van:  73. Gogol’, Nikolaj Vasil’evič: 208. Gor’kij, Maksim:  150, 151, 152. Gozzano, Guido:  201. Gramatté, Walter:  65. Grassi, Vittorio:  201. Guastalla, Claudio:  202. Gubar, Susan:  87 n. Guglielmi, Guido:  218 n. Guglielminetti, Marziano:  218 n. Guiso, Angela:  10, 11, 35 n., 73 n., 83 n., 140 n., 190, 206 n., 208 n., 225 n.

Hamon, Philippe:  133 n. Hauptmann, Gerhart:  152. Heyer Caput, Margherita:  68 n. Heidegger, Martin:  61 e n., 67, 82 e n. Herder, Johann Gottfried:  176. Hesnard, Charles:  187. Hörstel, Wilhelm:  155. Incani, Clara:  62 e n., 75 n., 78 n., 79 n. Jansen, Monica:  83 n. Jauss, Hans Robert:  211 e n. Kandiskij, Vasilij Vasil’evič: 61, 73 n., 212 e n. King, Martha:  9, 87 e n., 88 n. Klimt, Gustav:  66. Koch, Peter:  221 n. Kubin, Alfred:  185. Ladogana, Rita Pamela:  212 e n. Lavinio, Cristina:  220, 221 n., 223 e n., 224 e n., 233 e n., 236 n. Lawrence, David Herbert:  9, 11, 149. Lécuyer, Alberto:  183. Leoni, Barbara:  26. Leopardi, Giacomo:  28, 69, 208. Lionne, Enrico:  201. Lorenzini, Niva:  23 n. Lotman, Jurij Michajlovič:  28 n. Luperini, Romano:  218 n. Macchi, Ettore:  91 n., 99 e n. Maeterlinck, Maurice:  152.

240 Magnani, Marco:  210 n. Manca, Dino:  206 n., 227 e n. Manca, Stanis:  195, 196, 198. Mann, Thomas:  102. Mannironi, Salvatore:  206. Manzini, Gianna:  114 e n. Manzoni, Alessandro:  33 n., 208. Marani, Diego:  23, 24 e n. Marinetti, Tommaso:  201. Martinelli, Antonio:  133 n. Marucci, Franco:  177 n. Marzaduri, Marzio:  28 n. Marzo, Daniela:  221 n. Masereel, Frans:  72. Masini, Roberta:  194 n. Matisse, Henri:  73. Mattone, Antonello: 206 n. Mauriac, François:  208. Maxia, Sandro:  73 n., 107, 140, 224. Mazzolari, Primo:  91. Merleau-Ponty, Maurice:  32 e n., 62, 67 e n. Melis, Melkiorre:  202 e n, 203. Messina, Raffaele:  72 n. Michetti, Vincenzo:  202. Momigliano, Attilio:  124. Mondrian, Piet:  73. Montale, Eugenio:  33 e n., 215. Monti, Ciro:  159 n. Montinari, Mazzino:  189 n. Moreno, Mario:  57 n. Moretti, Franco:  29 e n., 68 n., 69 n., 161 e n. Moretti, Marino:  201, 205, 212, 213. Moretti Mateldi, Bruna:  202. Mossa De Murtas, Mario:  203.

Mundula, Mercede:  211. Naitza, Sergio:  202 n. Negro Sancipriano, Elena:  57 n. Neri, Guido Davide:  61 n. Nietzsche, Friedrich:  51, 189 n. Nomellini, Plinio:  201. Novalis: 73. Novella, Carmen:  114 n. Oates, Joyce Carol:  87, 176 e n. Oddera, Bruno:  163 n. Onofrio, Marco:  59 n. Orestano, Francesca:  68 n. Pagliarani, Elio:  218 n. Palazzi, Bernardino:  203, 209, 210, 211, 212 e n. Palazzeschi, Aldo:  111. Pallottino, Paola:  202, 203 n. Panofsky, Erwin:  61 e n. Pareyson, Luigi:  128 e n. Pascal, Blaise:  208. Pascoli, Giovanni:  32, 85, 95, 96, 142 e n., 208. Pascarella, Cesare:  27. Pedullà, Walter:  218 n. Petrarca, Francesco:  71, 178 e n. Piantelli, Livio: 68 n., 70 n. Pietro di Cristoforo Vannucci (Il Perugino):  62, 227. Picasso, Pablo:  62. Pieretti, Antonio:  122 e n. Pinna, Giuseppe:  155. Pinna, Gonario:  155 e n., 156. Pirandello, Luigi:  59, 60, 62, 71, 72 e n., 73 e n., 77 n., 79 n., 82, 201, 217 n.

241 Piranesi,Giovanni Battista:  62. Pirari, Antonino:  200 e n. Pirodda, Andrea:  22, 173, 194. Pirodda, Giovanni:  206 e n., 207 n.. Piroddi, Gianbernardo:  200 n. Pittalis, Paola:  205 n., 206, 221 n., 224 n. Poe, Edgar Allan:  152. Pompeiano, Luigi:  22 en. Pontiggia, Elena:  73 n. Posse, Amelie:  16, 154 e n., 155. Poussin, Nicolas:  62. Previati, Gaetano:  201. Prini, Pietro:  123 e n. Provaglio, Epaminonda: 192, 193, 195, 197. Pullini, Pio:  201. Puddu, Susanna:  202 n. Raffaello Sanzio:  62. Ravasi, Gianfranco:  125 n. Rebora, Clemente:  201. Rembrandt, Harmenszoon van Rijn: 62. Renai, Pier Luigi:  106 n., 224 n., 225 n. Romagnino, Antonio: 144 n., 146 n., 147 n. Rosa, Salvator:  62. Rosa-Clot, Paola:  95 n. Rosso, Giulio:  201. Rubens, Pieter Paul:  62. Rudas, Nereide:  211. Ruinas, Stanis:  89 e n. Saba, Umberto:  201. Sanna, Alessandra:  219 n.

Sacchetti, Enrico, 201. Sbarbaro, Camillo:  201. Salvadori, Riccardo:  201. Satta, Fausto:  209. Satta, Giacinto:  198. Satta, Giacomo:  209. Satta, Luigi:  209 n. Satta, Salvatore:  38 e n., 46 e n., 205, 206, 208 e n., 209 e n., 210, 212, 213. Satta, Sebastiano:  60, 156, 205 e n., 206 n., 207 e n., 208, 225. Scaccia, Romeo:  202 n. Scardicchio, Andrea:  199 n. Scarfoglio, Edoardo:  27. Segantini, Giovanni:  62. Segre, Cesare: 158 n., 159 n., 218 n. Semenov, Grigorij Michajlovič: 16, 150, 151 n., 152, 153 e n., 154. Serao, Matilde:  9, 11. Severini, Gino:  201. Severini, Sara:  149 n. Shelley, Percy Bysshe:  152. Sontag, Susan:  113, 114 n. Spagnoletti, Giacinto:  146 e n., 147 n. Stratta, Sandro:  95 n. Svevo, Italo:  105, 107 e n., 111, 140 e n. Tanda, Nicola:  120 e n. Taviani, Ferdinando:  218 n. Tecchi, Bonaventura:  107 n., 121 e n., 129. Tolstoj, Lev:  152.

242 Tozzi, Federigo:  106, 107, 122, 201. Turchi, Dolores:  138 e n. Valle, Nicola:  107 n., 121 n., 211. Van den Bossche, Bart:  83 n. Vattimo, Gianni:  82 n. Verga, Giovanni:  106, 108, 109, 122, 152. Verhaeren, Émile:  152. Verlaine, Paul:  152. Vicini, Mariangela:  88 e n. Virgilio: 96. Vittorini, Elio:  111. Wilde, Oscar:  152. Withman, Walt:  152. Wood, Sharon:  140 n. Woolf, Virginia:  70 n., 160 e n. Wordsworth, William:  177 e n. Zambon, Patrizia:  106 n., 224 n., 225 n. Zampa, Giorgio:  33 n. Zanzotto, Andrea:  161 n. Zazo, Anna Luisa:  162 n. Zecchi, Lina:  219 n. Zola, Émile:  26. Zuloaga y Zabaleta, Ignacio:  62.

Indice

Prefazione di Martha King

p. 9

Introduzione

p. 13

Il vicino e il lontano

p. 17

Natura e città

p. 37

Paesaggi in Deledda e Pirandello. Due Nobel isolani a confronto  Cosima   Paesaggi urbani. Benedizione, Il viaggio, La ma dre   Uno, nessuno e centomila   Due passeggiate Il Po e dintorni

p. 59 p. 63 p. 71 p. 77 p. 80 p. 85

La malattia

p. 101

La religiosità

p. 119

La donna   Personaggi femminili   Anonima continentale   Gli inviati speciali

p. 131 p. 131 p. 143 p. 149

La scrittura

p. 157

La solitudine   Il deserto

p. 179 p. 188

Ut pictura poësis

p. 191

Incontri. Grazia Deledda, Sebastiano e Salvatore Satta, Marino Moretti

p. 205

I contastorie   Le ragioni di una scelta narrativa   Un grido nella notte   Il vecchio Moisè   I contastorie   Racconti a Grace

p. 215 p. 216 p. 221 p. 225 p. 226 p. 234

Indice dei nomi

p. 237

Studi letterari Collana diretta da

Gianni Turchetta

1. Salvatore Bulla, Grazia Deledda. Prospettive del religioso per una rilettura critica. 2. Angela Guiso, Variazioni su Grazia. Percorsi deleddiani.

La monografia Variazioni su Grazia. Percorsi deleddiani comprende una serie di saggi tematici nati dal continuo raffronto fra testi della scrittrice e di autori italiani e stranieri. Il senso del Sacro, la concezione della Donna, la Malattia, la Scrittura, la Solitudine, l’Arte, i rapporti con la tradizione orale trovano posto accanto agli scenari della sua biografia, sardi e non solo. Una dimensione spaziale che include le coordinate geografiche e i luoghi dell’anima e dell’ispirazione, un vicino e un lontano dentro cui l’Isola trova una nuova misura. A 150 anni dalla nascita della scrittrice nasce l’esigenza di ampliare il contesto culturale della sua narrativa, spesso rappresa in un ingiustificato ambito insulare e dentro movimenti e correnti non sempre adeguati a spiegare scelte originali. Attraverso percorsi trasversali si scoprono le affinità con la letteratura nazionale e mondiale, e alcune intuizioni che scrittori più accreditati avrebbero successivamente cavalcato con maggior successo. Temi universali declinati in modi singolari, luci inedite sui rapporti con artisti e intellettuali italiani e stranieri, documenti che confermano la sua forte personalità sono presenti, insieme, in questo libro che si pone come nuovo contributo per consolidare il ruolo della scrittrice nella letteratura al femminile.

Studiosa della letteratura italiana contemporanea, Angela Guiso è autrice di monografie e saggi - alcuni dei quali tradotti all’estero - sui maggiori Autori del ’900: da Primo Levi, a Gadda, Consolo, Pirandello, Del Giudice e Flaiano. È considerata una delle più autorevoli interpreti di Grazia Deledda e di Salvatore Satta di cui ha curato gli ultimi due epistolari inediti.

€ 10,00

Studi Letterari | 2 ISSN: 2785-3608 Collana diretta da Giovanni Turchetta

ISBN ebook 9788855293488