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Italian Pages 201 [209] Year 1988
S A G G I
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G U I D A
B URDIEU
LA PAROLA E IL POTERE
La questione del rapporto tra il linguaggio e il potere è tornata ad imporsi in questi ultimi anni all'attenzione delle scienze umane. Dopo un lungo periodo in cui le discipline più disparate hanno gareggiato tra loro nel celebrare la potenza magica delle parole, si è tornati a diffidare della forza rituale dei discorsi. Opera che inaugura la num a indagine critica delle strutture linguistiche, il libro di Bourdieu mostra che questa diffidenza non si muta necessariamente in misologia. Bourdieu disincanta l'universo delle parole, mette a nudo i riti solenni del discorso, ma inventa anche una nuova gaia scienza che, alla maniera di Nietzsche, ripotenzia e rhitalizza il bUO oggetto. Guidato da questa scienza, il lettore potrà Sl'orgere come, tanto nelle trite espressioni del linguaggio quotidiano quanto nella lingua solenne dei filosofi (magistrali pagine sono, a questo proposito, dedicate al linguaggio pastorale di Heidegger) sia all'opera un gioco che, attraverso atti più o meno ritualizzati, ha per armi essenziali le parole dette e non dette, per obiettivo la conquista di poteri molteplici, per stratel(ia la distinzione.
René Magritte La clef des songes 1930 (part.)
Saggi 8
Pierre Bourdieu
La parola e il potere L'economia degli scambi linguistici
Guida editori
Titolo originale: Ce que parler veut dire. L'économfe des échanges lingulstiques Paris, Librairie Arthème Fayard, 1982 Traduzione di Silvana Massari
Copyright 1988 Guida editori Napoli Grafica di Sergio Prozzillo
Introduzione
Nel Saggio per introdurre in filosofia, il concetto di grandezza negativa, Kant immagina un uomo con dieci gradi di avarizia che si avvicina di dodici gradi all'amore per il prossimo e un altro, con tre gradi di avarizia, capace di un'intenzione conforme di sette gradi, che produce un'azione generosa di quattro gradi; ne conclude che il primo è moralmente superiore al secondo, benché, rispetto all'atto, due gradi contro quattro, egli sia indiscutibilmente inferiore. Forse ci si dovrebbe sottomettere a una tale aritmetica dei meriti per giudicare i lavori scientifici. .. Certamente le scienze sociali pendono dal lato dell'avaro di sei gradi e si potrebbero meglio valutare i loro meriti, se si potessero mettere nel conto, alla maniera di Kant, quelle stesse forze sociali su cui esse devono avere la meglio. Ciò è particolarmente vero, se l'oggetto in questione è quello proprio della disciplina la cui influenza si esercita sull'insieme delle scienze sociali, quella lingua una e indivisibile, fondata, secondo Saussure, sull'esclusione di ogni variazione sociale intrinseca o, secondo Chomsky, sul privilegio accordato alle proprietà formali della grammatica a detrimento delle costruzioni funzionali. Avendo, un po' prima che la moda fosse al suo apice, intrapreso un lavoro scolastico, fortunatamente mai pubblicato, nel quale mi basavo sulla «lettura» metodica del Cours de linguistique générale, nella speranza di poter fondare una «teoria generale della cultura», sono stato più di altri sensibile agli effetti più vistosi del potere esercitato dalla disciplina sovrana, che si tratti di trascrizioni letterali . degli scritti teorici, di trasferimenti meccanici, di concetti considerati per il loro valore
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Introduzione
nominale o ancora di prestiti selvaggi che, dissociando l'opus operatum dal modus operandi, portano a reinterpretazioni inaspettate e talvolta assurde. Tuttavia, la resistenza alle infatuazioni mondane non è un rifiuto destinato ad autorizzare l'ignoranza, e sia l'opera di Saussure che, più tardi, quando mi sono reso conto dell'insufficienza del modello della parola (e della pratica) come esecuzione, l'opera di Chomsky, che riconosce un posto alle disposizioni generatrici, mi sono sembrate porre alla sociologia quesiti fondamentali. Resta il fatto che non si può dare la dovuta importanza a questi problemi se non a condizione di uscire dai limiti insiti nell'intenzione stessa della linguistica strutturale in quanto teoria pura. Tutto il destino della linguistica moderna è racchiuso nella convinzione iniziale con la quale Saussure separa la «linguistica esterna» dalla «linguistica interna» e, attribuendo a quest'ultima il titolo di linguistica, esclude ogni ricerca che metta in relazione la lingua con l'etnologia, con la storia politica di coloro che la parlano e ancora con la geografia dello spazio in cui è parlata, poiché esse non apporterebbero nulla di nuovo alla conoscenza della lingua considerata in se stessa. La linguistica strutturale, nata dall'autonomizzazione della lingua dalle condizioni sociali_ di produzione, riproduzione e utilizzazione, non poteva assurgere a scienza sovrana tra le scienze sociali senza esercitare un'influenza ideologica, fornendo apparenza di scientificità alla naturalizzazione di quei prodotti della storia che sono gli oggetti simbolici: il trasferimento del modello fonologico al di fuori del campo della linguistica ha per effetto la generalizzazione all'insieme dei prodotti simbolici, tassonomie di parentela, sistemi mitici o opere d'arte, dell'operazione iniziale che ha reso la linguistica la più naturale tra le scienze sociali, separando lo strumento linguistico dalle condizioni sociali di produzione e uso. Va da sé che le diverse scienze non erano tutte predisposte ad accogliere allo stesso modo questo cavallo di Troia. Il rapporto particolare che unisce l'etnologo al suo oggetto, la neutralità di «spettatore imparziale», conferitagli dallo statuto di osservatore esterno, hanno fatto dell'etnologia la vittima scelta. Insieme, naturalmente, alla tradizione della storia dell'arte o della letteratura: in questo caso, l'importazione di un metodo di analisi, che presuppone la neutralizzazione delle funzioni, non ha fatto
Introduzione
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altro che consacrare il modo di apprendimento dell'opera d'arte preteso in ogni epoca dall'intenditore, e cioè la disposizione «pura» e puramente «interna», priva di ogni riferimento «riduttore» ali'« esterno»; è così che la semiologia letteraria, come il mulino da preghiera 1 in un altro campo, ha portato il culto dell'opera d'arte a un più alto grado di razionalità senza modificarne le funzioni. In ogni modo, l'aver messo tra parentesi il sociale - il che permette di trattare la lingua o ogni altro rapporto simbolico come finalità senza fine - ha contribuito non poco al successo della linguistica strutturalista, conferendo il fascino di un gioco senza conseguenze agli esercizi «puri» di un'analisi esclusivamente interna e formale. Bisognava dunque trarre tutte le conseguenze dal fatto, fortemente rimosso dai linguisti e dai loro imitatori, che «la natura sociale della lingua è una delle sue caratteristiche interne», come afferma il Cours de linguistique générale, e che l'eterogeneità sociale è inerente alla lingua. Tutto ciò, ben sapendo che l'impresa comporta dei rischi, soprattutto quello di una certa apparenza di grossolanità, che è propria delle analisi più sottili e rigorose, capaci - e colpevoli, insieme - di lavorare al ritorno del rimosso; ben sapendo, in breve, che bisogna scegliere di pagare la verità a un prezzo più alto per ottenere un profitto di distinzione più debole•.
I Il mulino da preghiera è, nella religione buddhista, una sorta di cilindro che contiene vari rotoli di carta sui quali sono scritte formule sacre (N.d.t.). • La seconda parte di questo libro riprende, in forma più o meno profondamente modificata, testi già pubblicati: per il capitolo 1, Il linguaggio autorizzato. Nota sulle condizioni sociali dell'effettualità del discorso rituale, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 5-6, novembre 1975, pp. 183-190, per il capitolo 2, I riti di istituzione, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 43, giugno 1982, pp. 58-63 (trascrizione di una comunicazione presentata al Convegno su «I riti di passaggio oggi», Neuchàtel, ottobre 1981), per il capitolo 4, Descrivere e prescrivere, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 38, maggio 1981, pp. 69-74. La terza parte riprende: per il capitolo 2, La lettura di Man:; qualche osservazione critica a proposito di « Quelques remarques critiques à propos de «Lire le Capita!», in «Actes de la recherche en sciences sociales», 5-6, novembre 1975, pp. 65-79; per il capitolo 3, n Nord e il Sud. Contributo ad un'analisi dell'effetto Montesquieu, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 35, novembre 1980, pp. 21-26.
L'economia degli scambi linguistici
La sociologia può sottrarsi a tutte le forme di dominio, che la linguistica e i suoi concetti esercitano ancora oggi sulle scienze sociali, solo a condizione di portare alla luce le operazioni di costruzione dell'oggetto sulle quali questa scienza si è fondata, e le condizioni sociali della produzione e circolazione dei suoi concetti fondamentali. Se si è potuto cosi facilmente applicare il modello linguistico all'ambito dell'etnologia e della sociologia, è perché si è attribuito alla linguistica l'essenziale: la filosofia intellettualista, che fa del linguaggio un oggetto di intellezione piuttosto che uno strumento di azione e di potere. Accettare il modello saussuriano e i suoi presupposti significa considerare il mondo sociale come un universo di scambi simbolici e ridurre l'azione a un atto di comunicazion~ che, come la parole saussuriana, è destinato a essere decifrato attraverso una cifra, un codice, una lingua, una cultura 1• Per rompere con questa filosofia sociale, occorrerebbe dimostrare che se è legittimo considerare i rapporti sociali - e gli stessi rapporti di dominio - come interazioni simboliche, come rapporti di comunicazione che implicano la conoscenza e il riconoscimento, non si deve però dimenticare che i rapporti cli comunicazione per eccellenza, quali sono gli scambi linguistici, sono anche rapporti di potere simbolico in seno ai quali si 1 Ho cercato di analizzare altrove l'inconscio epistemologico dello strutturalismo, cioè i presupposti che Saussure ha lucidamente impiegato nella costruzione dell'oggetto proprio della linguistica, successivamente dimenticati o rimossi dagli utilizzatori del modello saussuriano (cfr. BOURDIEU, Le sens prattque, Paris, Ed. de Minuit, 1980, pp. 51 e ss.).
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La parola e il potere
attualizzano i rapporti di forza tra i locutori o i loro gruppi rispettivi. In breve, per tentare di elaborare un'economia degli scambi simbolici, bisogna superare l'alternativa consueta tra l'economicismo e il culturalismo. Ogni atto di parola, e più generalmente ogni azione, è una congiuntura, un incontro di serie casuali indipendenti: da un lato le disposizioni, socialmente formate, dell'habitus linguistico, che implicano una certa propensione a parlare e a dire cose determinate (interesse espressivo) e una certa facoltà di parlare definita: la facoltà linguistica, cioè, di generare all'infinito discorsi grammaticalmente conformi, e la capacità sociale che permette di utilizzare adeguatamente questa competenza in una situazione determinata; dall'altro, le strutture del mercato linguistico che si impongono come sistema di sanzioni di censure specifiche. Questo modello semplice della produzione e della circolazione linguistica, inteso come legame tra gli habitus linguistici e i mercati sui quali essi offrono i loro prodotti, non mira né a rifiutare né a sostituire l'analisi propriamente linguistica del codice; esso però permette di comprendere gli errori e i fallimenti cui si condanna la linguistica quando, a partire da uno solo dei fattori in gioco, la competenza propriamente linguistica, definita astrattamente, al di là di tutto ciò che essa deve alle condizioni sociali di produzione, tenta di rendere conto della singolarità congiunturale del discorso. Infatti, fino a che i linguisti ignoreranno il limite costitutivo della loro scienza, non -resterà loro altra scelta che quella di cercare disperatamente nella lingua ciò che è insito nelle relazioni sociali in cui la lingua agisce, o di fare della sociologia senza saperlo, con il pericolo poi di scoprire nella stessa grammàtica ciò che la sociologia spontanea del linguista vi ha inconsciamente immesso. La grammatica definisce solo parzialmente il senso, è nel legame con un mercato che si opera la determinazione completa del significato del discorso. Una parte non irrilevante delle determinazioni, che formano la definizione pratica del senso, arriva al discorso automaticamente e dall'esterno. All'origine del senso ogijettivo, che si genera nella circolazione linguistica, c'è in primo luogo il valore distintivo che risulta dal legame che i locutori operano, in maniera più o meno inconscia, tra il prodotto
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linguistico offerto dal locutore socialmente caratterizzato e i prodotti simultaneamente proposti in un determinato spazio sociale. Inoltre, il prodotto linguistico si realizza completamente come messaggio solo se considerato come tale, cioè decifrato, e solo se gli schemi di interpretazione, che i riceventi mettono in opera nella loro appropriazione creativa del prodotto proposto, hanno più o meno la possibilità di distanziarsi dagli schemi che hanno orientato la produzione. Attraverso questi effetti inevitabili il mercato contribuisce non solo a creare il valore simbolico, ma anche il senso del discorso. In questa ottica potremmo riconsiderare il problema dello stile: questo «scarto individuale nei confronti della norma linguistica», questa elaborazione particolare che tende a conferire al discorso proprietà distintive, è qualcosa di percepito che esiste solo in relazione a soggetti percettori, dotati di quelle disposizioni diacritiche che permettono di fare distinzioni tra modi di dire diversi e arti di parlare distintive. Ne consegue che lo stile, dalla poesia comparata alla prosa o dalla dizione di una classe (sociale, sessuale o generazionale) comparata a quella di un·altra classe, esiste solo in relazione ad agenti dotati di schemi di percezione e di valutazione che gli permettono di essere un insieme di differenze sistematiche, sincreticamente apprese. Sul mercato linguistico, non è la langue che circola, ma discorsi stilisticamente caratterizzati, sia dal lato della produzione, nella misura in cui ogni locutore trasforma la lingua comune in un proprio dialetto, che da quello della ricezione, nella misura in cui ogni ricevente contribuisce a produrre il messaggio percepito e valutato, portandovi tutto ciò che fa parte della sua esperienza individuale e collettiva. Ciò che è stato detto del discorso poetico può essere esteso a ogni altro tipo di discorso, poiché ogni discorso porta a elevata intensità, quando vi riesce, l'effetto che consiste I}ello stimolare le varie esperienze individuali. Se, a differenza della denotazione, che rappresenta «la parte invariabile e comune a tutti i locutori»2, la connotazione rinvia alla singolarità delle esperienze individuali, ciò accade perché essa è frutto di una relazione socialmente caratterizzata, in cui i riceventi fanno uso dei loro diversi st,rumenti di appropriazione 2 Cfr. c. MOUNIN, La Communication poétique, précédé de Avez-vow lu Char?, Paris, Gallimard, 1969, pp. 21-26.
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simbolica. Il paradosso della comunicazione sta nel fatto che essa suppone un medium comune che non ha efficacia - lo vediamo soprattutto nel caso limite in cui si tratta, come accade nella poesia, di trasmettere un'emozione - se non stimola e ravviva esperienze individuali, cioè socialmente caratterizzate. Prodotta dalla neutralizzazione dei rapporti pratici all'interno dei quali agisce, la parola a più usi del dizionario non ha alcuna esistenza sociale: in pratica, la parola esiste solo se immersa in situazioni, al punto che il nucleo di senso che attraversa i diversi mercati, restando relativamente invariato, può passare inosservato 3 • Come osservava Vendryès, se le parole ricevessero tutti i signift'"::"' cati possibili contemporaneamente, il discorso sarebbe un gioco di parole continuo; ma se, come nel caso di louer-locare e di louer-laudare, tutti i sensi che queste parole possono avere fossero perfettamente indipendenti, tutti i giochi di parole (ideologici in particolare) diverrebbero impossibili 4 • I sensi diversi di una parola si definiscono nella relazione tra il nucleo invariato e la logica specifica dei diversi mercati, essi stessi oggettivamente posti in relazione al mercato in cui si definisce il senso più comune. Questi sensi diversi esistono simultaneamente solo per la coscienza colta che li fa sorgere, rompendo la solidarietà organica tra la competenza e il mercato. La religione e la politica traggono i loro migliori effetti ideologici dalla possibilità che racchiude la polisemia inerente 3
L'attitudine a cogliere simultaneamente i sensi diversi di una stessa parola
(spesso misurata da tests d'intelligenza) e, a fortiori, l'attitudine a manipolarli praticamente (ad esempio riattivando il significato originario delle parole comuni, come amano fare i filosofi) sono un'utile misura dell'attitudine tipicamente erudita a sottrarsi alla situazione e a rompere il legame pratico che unisce una parola a un contesto pratico, rinchiudendola in uno dei suoi sensi, per considerare la parola in se stessa e per se stessa, cioè come luogo geometrico di tutte le relazioni possibili rispetto a situazioni trattate come altrettanti «casi particolari del possibile». Se questa attitudine a rappresentare diverse varietà linguistiche successivamente e soprattutto simultaneamente è forse tra le più inegualmente ripartite, è perché la padronanza delle diverse varietà linguistiche, e soprattutto il rapporto col linguaggio che tale padronanza presuppone, non possono essere acquisiti se non in determinate condizioni di esistenza, in grado di autorizzare un rapporto distaccato e gratuito con il linguaggio (cfr. in P. BOURDIEU e J.c. POUSSERON, Rapport pédagoglque et communlcation, l'analisi delle varianti secondo l'origine sociale dell'ampiezza del registro llngulstico, cioè secondo il grado di padronanza delle diverse varietà linguistiche). 4 J. VENDIIEYÈ'I, lntf'oduction llnguistique à l'Histolre, Paris, Albin Michel, 1950, p. 208.
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all'ubiquità sociale della lingua legittima. In una società differenziata, i nomi cosiddetti comuni, lavoro, famiglia, madre, amore, ricevono in realtà significati diversi, o anche antagonisti, per il fatto che i membri della stessa «comunità linguistica» utilizzano tra loro, bene o male, la stessa lingua e non lingue diverse, dal momento che l'unificazione del mercato linguistico fa decisamente in modo che ci siano sempre più significati per uno stesso segno 5 • Bachtin ricorda che, in periodo di rivoluzioni, le parole prendono sensi opposti. Infatti, non ci sono parole neutre: l'inchiesta mostra, ad esempio, che .gli aggettivi utilizzati più frequentemente per esprimere i gusti acquisiscono spesso sensi diversi, talvolta opposti, secondo le classi; la parola soigné «accurato», scelta dai piccolo-borghesi, è rifiutata dagli intellettuali, per i quali essa fa precisamente piccolo-borghese, misero, meschino. La polisemia del linguaggio religioso, e l'effetto ideologico di unificazione degli opposti o di negazione delle divisioni che esso produce, dipendono dal fatto che, al prezzo di reinterpretazioni che implicano la produzione e la ricezione del linguaggio comune da parte dei locutori che hanno posizioni diverse nello spazio sociale e dunque anche intenzioni e interessi diversi, il linguaggio religioso giunge a parlare a tutti i gruppi e, insieme, ad essere parlato da tutti i gruppi; al contrario del linguaggio matematico, che non può garantire l'univocità della parola gruppo se non controllando rigorosamente l'omogeneità del gruppo dei matematici. Le religioni che noi definiamo universali non lo sono nello stesso senso e alle stesse condizioni della scienza. Il ricorso a un linguaggio neutralizzato s'impone tutte le volte che si tratta di stabilire un consenso pratico tra agenti o gruppi di agenti che hanno interessi parzialmente o totalmente differenti: in primo luogo nel campo della lotta politica legittima, ma anche nelle transazioni e interazioni della vita quotidiana. La comunicazione tra le classi (o, nelle società coloniali o semicoloniali, tra etnie) rappresenta sempre una situazione critica per la lingua in uso, qualunque essa sia. Essa tende infatti a provocare il ritorno s Gli imperativi della produzione, e anche del dominio, impongono un minimo di comunicazione tra le classi, di conseguenza l' acces.,o dei più bisognosi (ad e.1empio gli immigrati) a una sorta di minimo linguistico vitale.
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al senso più apertamente carico di connotazioni sociali: «quando si pronuncia la parola contadino davanti a qualcuno che ha appena lasciato la campagna, è difficile prevedere la sua reazione». Da questo momento in poi non esistono più parole innocenti. Questo effetto oggettivo di smascheramento spezza l'unità apparente del linguaggio comune. Ogni parola, ogni locuzione minaccia di prendere due sensi antagonisti secondo le modalità di reazione del mittente e del ricevente. La logica degli automatismi verbali che riportano subdolamente all'uso comune, con tutti i valori e i pregiudizi che gli sono solidali, nasconde il pericolo permanente della gaffe, capace di vanificare in un istante un consenso sapientemente serbato al prezzo di strategie di prudenza reciproca. Non si comprende affatto, tuttavia, l'efficacia simbolica dei linguaggi politici o religiosi, se la si riduce al solo effetto dei malintesi che portano individui del tutto opposti a riconoscersi nello stesso messaggio. I discorsi colti possono trarre la loro efficacia dalla corrispondenza nascosta tra la struttura dello spazio sociale, nel quale sono prodotti, (il campo politico, religioso, artistico o filosofico) e la struttura del campo delle classi sociali, all'interno della quale i riceventi sono situati e in rapporto alla quale interpretano il messaggio. L'omologia tra le opposizioni costitutive dei campi specializzati e il campo delle classi sociali è all'origine di un'anfibologia essenziale, che è particolarmente evidente quando i discorsi esoterici, diffondendosi al di fuori del campo ristretto, subiscono una sorta di universalizzazione automatica e cessano di essere semplici proposte di dominanti o di dominati in seno a un campo specifico per diventare proposte valide per tutti i dominanti o per tutti i dominati. ---.. Resta il fatto che la scienza sociale deve prendere atto dell'autonomia della lingua, della sua logica, delle sue proprie regole di funzionamento. In particolare, non si possono comprendere gli effetti simbolici del linguaggio se non si prende in considerazione il fatto, mille volte attestato, che il linguaggio è il primo meccanismo formale le cui capacità generative sono illimitate. Non c'è nulla che non possa essere detto, persino il nulla può e&'ìere detto. Nei limiti della grammatica, tutto può essere ~nunciato attraverso la lingua. Da Frege in poi, è noto che le parole possono avere un senso anche senza riferirsi a nulla. Ciò
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equivale a dire che il rigore. formale può- mascherare persino discorsi che prendono semanticamente il volo. Tutte le teologie religiose e tutte le teodicee politiche hanno tratto profitto dal fatto che le capacità generative della lingua possono eccedere i limiti dell'intui~ne o della ':eri.fica. empiti.e.a RE'.! produrre discoisi formalmente corretti ma semanticamente vuo.iì'. I rituali rappresentano il limite di tutte le situazioni di imposizione in cui, attraverso l'esercizio di una competenza tecnica che può essere molto imperfetta, si esercita una competenza sociale, quella del locutore legittimo, autorizzato a parlare e a parlare con autorità. Benveniste notava che le paroler che nelle lingue indoeuropee servono a indicare il diritto, si rifanno alla radice dire. Il dire diritto, formalmente conforme, pretende con ciò stesso, e con possibilità non trascurabili di successo, di dire il diritto, cioè il dover essere. Coloro che, come Max Weber, hanno contrapposto al diritto magico o carismatico del giuramento collettivo o dell'ordalia un diritto razionale fondato su quel che è calcolabile e prevedibile, dimenticano che il diritto più rigorosamente razionalizzato non è altro che un atto di magia ben riuscito. Il discorso giuridico è una parola creatrice che fa esistere ciò che essa enuncia. Questa parola rappresenta il limite al quale tendono tutti gli enunciati performativi, benedizioni, maledizioni, ordini, auguri o insulti: cioè, la parola divina, la parola del diritto divino che, come l'intuitus originarius che Kant attribuisce a Dio, dà vita a ciò che enuncia, distinguendosi così da tutti gli enunciati derivati, constativi, semplici registrazioni di un dato preesistente. Non si dovrebbe mai dimenticare che la lingua, per la sua infinita capacità generativa, ma anche originaria, nel significato che le attribuisce Kant, e che le deriva dal suo potere di dar vita producendo la rappresentazione collettivamente riconosciuta e cosi realizzata dell'esistenza, è senza dubbio il supporto per eccellenza del sogno di un potere assoluto.
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La produzione e la riproduzione della lingua legittima L'avete detto, cavaliere! Ci dovrebbero ~re leggi a protezione delle conoscenze acquisite. Prendete, ad esempio, uno dei nostri alunni bravi, che sia anche modesto e diligente e che sin dalle prime classi abbia avuto il quaderno di grammatica. Che abbia passato poi vent'anni a pendere dalle labbra dei suoi professori, finendo col crearsi una sorta di piccolo gruzzolo intellettuale. Questo gruzzolo non ha forse lo stesso valore di una cosa o del denaro? P. CLAUDEL,
La scarpetta di raso
«Rispetto alle ricchezze che comportano un possesso simultaneo senza subire alcuna alterazione, il linguaggio istituisce naturalmente una comunità piena, in cui tutti, attingendo liberamente al tesoro universale, concorrono spontaneamente alla sua conservazione» 1• Descrivendo l'appropriazione simbolica come una sorta di partecipazione mistica cui si accede in modo universale e uniforme e di cui dunque non si è mai privati, Auguste Comte esprime in maniera esemplare l'illusione del comunismo linguistico che ossessiona la teoria linguistica. Così Saussure, ricorrendo, come Auguste Comte, alla metafora del tesoro e applicandola indifferentemente alla «comunità» o all'individuo, risolve il problema delle condizioni economiche e sociali dell'appropriazione della lingua senza avere bisogno di porlo esplicitamente. Egli parla di «tesoro interiore», di «tesoro depositato dalla pratica delle parole negli individui appartenenti alla stessa comunità», di «somma di tesori di lingua individuali», o ancora di «somma di impronte depositate in ogni cervello». Chomsky ha il merito di prestare esplicitamente al soggetto parlante, nella sua universalità, la competenza perfetta che la tradizione saussuriana gli accordava tacitamente: «La teoria linguistica ha a che fare fondamentalmente con un locutore-ascoltatore ideale, inserito in una comunità linguistica I A. coMTE, Système de politique positive, T. Il, Statique sociale, 5 8 ed., Paris, Siège de la societé positiviste, 1929, p. 254 (il corsivo è mio).
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completamente omogenea, che conosce la sua lingua perfettamente, al riparo dagli effetti grammaticalmente non pertinenti, quali limiti della memoria, distrazioni, slittamenti di attenzione o di interesse o errori nell'applicazione della sua conoscenza della lingua. Tale è stata, mi sembra, la posizione dei fondatori della linguistica generale moderna, e nessun motivo convincente si impone per modificarla 2 ». In breve, da questo punto di vista la «competenza» chomskyana non è che un altro nome della langue saussuriana 3 • Alla lingua come «tesoro universale», posseduto come proprietà indivisa da tutto il gruppo, corrisponde la competenza linguistica come «deposito» di questo «tesoro» in ogni individuo o come partecipazione di ogni membro della «comunità linguistica» a tale bene pubblico. Un mutamento di termini nasconde la fictio juris per la quale Chomsky, convertendo le leggi immanenti del discorso legittimo in norme universali della pratica linguistica corretta, evita il problema delle condizioni economiche e sociali dell'acquisizione della competenza legittima e della costituzione del mercato in cui si stabilisce e si impone la definizione stessa del legittimo e dell'illegittimo4. 2 N. CHOMSKY, Aspects of the Theory of Syntax, Cambridge, M.I.T. Press, 1965, p. 3; o ancora, N. CHOMSKY e M. HALLE, Principes de phonologie génératioe, trad. P. Encrevé, Paris, Le Seuil, 1973, p. 25 (il corsivo è mio) [Saggi dt Fonologia, tr. it. di D. Cormo, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 92-124). 3 Chomsky ha egli st~ operato esplicitamente questa identificazione, perlomeno per la competenza definita come «conoscenza della grammatica» (N. CHOMSKY e M. HALLE, Princtpes, cit.), o come «grammatica generativa interiorizzata» {N. CHOMSKY, Current Jssues in Ltngutstic Theory, London, The Hague, Mouton, 1964, p. 10 [Problemi di teoria linguistica, Torino, Boringhieri, 1975). 4 Malgrado coroni la sua teoria della «competenza comunicativa», analisi dell'essenza della situazione di comunicazione, con una dichiarazione sulle proprie intenzioni relative al grado di repressione e al grado di sviluppo delle forze produttive, Habermas non sfugge all'effetto ideologico di assolutizzazione del relativo che è inscritto nei silenzi della teoria chomskyana della competenza (J. HABERMAS, Toward a Theory of Communicatioe Competence, in H.P. DREITZEL, «Recent Sociology», 2, 1970, pp. 114-150). Fosse anche decisoria e provvisoria, e destinata solo a «rendere possibile» lo studio delle «deformazioni della pura intersoggettività», l'idealizzazione (perfettamente visibile nel ricorso a nozioni quali «padronanza degli universali costitutivi del dialogo» o «situazione di parola determinata dalla soggettività pura») ha per effetto quello di eliminare praticamente dai rapporti di comunicazione i rapporti di forza che vi si realizzano sotto una forma trasfigurata: prova ne sia il prestito, non criticato, di concetti come quello di illocutionary farce che tende a porre nelle parole - e non nelle condizioni istituzionali della loro utilizzazione - la forza delle parole.
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Lingua ufficiale e unità politica Per mostrare come i linguisti non facciano altro che incorporare alla teoria un oggetto precostituito di cui essi dimenticano le leggi sociali di costituzione e di cui mascherano in ogni caso la genesi sociale, non c'è miglior esempio dei paragrafi del Cours de linguistique générale nei quali Saussure discute dei rapporti tra la lingua e lo spazio 5. Volendo dimostrare che non è lo spazio che definisce la lingua, ma la lingua che definisce il suo spazio, Saussure osserva che né i dialetti né le lingue conoscono confini naturali, poiché, per esempio, una innovazione fonetica come la sostituzione della s alla e latina determina da sola, con la forza intrinseca della sua logica autonoma, la sua area di diffusione tra i soggetti parlanti che accettano di esserne i portatori. Questa filosofia della storia, che fa della dinamica interna della lingua il solo principio che limita la sua diffusione, occulta il processo propriamente politico di unificazione, al termine del quale un insieme determinato di «soggetti _parlanti» si .rib:(wa praticamente spinto ad accettiµ-e la lingua ufficiale. La langue saussuriana, questo codice contemporaneamente legislativo e comunicativo, che esiste e sussiste al di là di coloro che lo utilizzano («soggetti parlanti») e delle sue utilizzazioni (parole), possiede infatti tutte le proprietà co~unemente riconosciute alla lingua ufficiale. Contrariamente al dialetto, essa ha beneficiato delle condizioni istituzionalmente necessarie alla sua codificazione e alla sua imposizione. Così riconosciuta e conosciuta (più o meno completamente) nel raggio di una certa autorità politica, essa contribuisce di rimando a rafforzare l'autorità che fonda il suo dominio: essa garantisce, infatti, tra i membri della «comunità linguistica», tradizionalmente definita, da Bloomfield in poi, come «gruppo di persone che utilizzano lo stesso sistema di segni linguistici» 6, quel minimo di 5 F. DE SAUSSURE, Cours de Lingulstique générale, Paris e Lausanne, Payot, 1916, 5 8 edizione, 1960, pp. 275-280 [Corso di linguistica generale, tr. e cura di Tullio De Mauro, Bari, Laterza, 1985]. 6 L. BLOOMFIELD, Language, London, George Allen, 1958, p. 29. Come la teoria sall$urlana della lingua dimentica che la lingua non si impone per la sua sola forza e che ~a deve i suoi limiti geografici a un atto politico di istituzione, atto arbitrario e misconosciuto come tale (e dalla st~a scienza della lingua), allo st~o modo, la teoria bloomfildiana della «comunità linguistica» ignora le condizioni politiche e istituzionali dell'«intercomprensione».
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comunicazione che è la condizione della produzione economica e, ad un tempo, del dominio simbolico. Parlare della lingua, senza ulteriori precisazioni, come fanno i linguisti, significa accettare tacitamente la definizione ufficiale di lingua ufficiale di un'unità politica. Si tratta di quella lingua che, nei limiti territoriali di tale unità, si impone a tutti i connazionali come la sola legittima, e in modo tanto più imperativo quanto più la circostanza è ufficiale (parola che traduce con molta precisione il formal dei linguisti di lingua inglese) 7• Prodotta da autori che hanno autorità per scrivere, fissata e codificata dai grammatici e dai professori che hanno anche il compito di trasmetterne la padronanza, la lingua è un codice, nel senso di una cifra che permette di stabilire equivalenze tra suoni e significati, ma anche nel senso di un sistema di norme che regolano gli usi linguistici. La lingua ufficiale è legata allo Stato. Tanto nella sua genesi quanto nei suoi usi sociali. È nel processo di fondazione dello Stato che si creano le condizioni per la costituzione di un mercato unificato e dominato dalla lingua ufficiale. Obbligatoria nelle occasioni e negli spazi ufficiali (scuola, amministrazioni pubbliche, istituzioni politiche, ecc.), la lingua di Stato diventa la norma teorica con la quale tutti gli usi linguistici sono oggettivamente valutati. Nessuno è tenuto a ignorare la legge linguistica, che ha il suo corpo di giuristi, grammati~i, agenti di imposizione e controllo, e maestri investiti del potere di sottoporre universalmente all'esame e alla sanzione giuridica del titolo scolastico .ruso linguistico dei soggetti parlanti. - Perché sia scelto, tra i tanti, un modo di espressione che sia il solo legittimo (una lingua nel caso del bilinguismo, un uso della lingua nel caso di una società divisa in classi), occorre che il mercato linguistico sia unificato e che i differenti dialetti (di classe, regione o etnìa) siano praticamente valutati sulla base della lingua e del suo uso legittimo. L'integrazione in una stessa «comunità linguistica», frutto del dominio politico riprodotto costantemente dalle istituzioni capaci di imporre il riconosci7 L'aggettivo Jormal che si usa per un linguaggio controllato, curato, forzato, in opposizione a familiare, non curato, o per una persona compassata, ricercata e formalista, prende anche il senso dell'aggettivo francese ufficiale (a formai dinner), cioè perfetto nelle forme, e in debita forma nelle regole (fr,rmal agreement).
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mento universale della lingua dominante, è la condizione dell'instaurazione di rapporti di dominio linguistico.
La lingua standard: un prodotto «normalizzato» Come i differenti rami dell'artigianato che, prima dell'avvento della grande industria, costituivano, secondo le parole di Marx, «tanti piccoli domini» separati, così le varianti locali della lingua d'oil fino al XVIII secolo e i dialetti regionali, che tuttora permangono, sono differenti di parrocchia in parrocchia e, come mostrano le carte dei dialettologi, i tratti fonologici, morfologici e lessicali si diffondono in aree mai perfettamente sovrapponibili, che solo casualmente coincidono con i confini delle circoscrizioni amministrative o religiose 8 • In assenza, infatti, dell'oggettivazione nella scrittura e soprattutto della codificazione quasi giuridica che sempre accompagna la costituzione di una lingua ufficiale, le «lingue» esistono solo nella pratica, cioè sotto forma di habitus linguistici parzialmente organizzati e di produzion,i orali di tali habitus 9. Da tempo non si chiede altro alla lingua che di garantire un minimo di intercomprensione negli incontri (d'altronde molto rari) tra paesi vicini o regioni. Non c'è ragione di erigere a norma uno dei modi di parlare (benché permanga, nelle differenze percepite, la tendenza a cercare l'occasione per affermare una superiorità). Fino alla Rivoluzione francese, il processo di unificazione linguistica si confonde col processo di formazione dello Stato monarchico. I «dialetti» talvolta dotati di alcune proprietà generalmente attribuite alle «lingue» (la maggior parte di essi 8 Solo un transfert della rappresentazione della lingua nazionale porta a pensare che esistono dei dialetti regionali, divisi in sottodialetti essi stessi suddivisi, idea formalmente smentita dalla dialettologia (cfr. F. BRUNOT, Histoire de la langue française des orlgines à nos i ours, Paris, A. Colin, 1968, pp. 77-78). E non è un caso che i nazionalismi cedjlno quasi sempre a questa illusione, poiché essi sono condannati a riprodurre, una volta bionfanti, il processo di unificazione, di cui essi denunciavano gli effetti. 9 Lo si vede bene dalle difficoltà che suscita, durante la Rivoluzione, la traduzione dei decreti: essendo la lingua pratica sprovvista di vocabolario politico e divisa in dialetti, si deve creare una lingua media (come fanno oggi i difensori delle lingue d'oc i quali producono, in particolare attraverso la fissazione e la standardizzazione dell'ortografia, una lingua difficilmente accessibile ai locutori comuni).
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compaiono nell'uso scritto della lingua, atti notarili, deliberazioni comunali, ecc.) e le lingue letterarie (come la lingua poetica dei paesi d'oc), «lingue artificiali» differenti da ciascuno dei dialetti in uso su un territorio, cedono progressivamente il posto, già fin dal XIV secolo, almeno nelle province centrali di lingua d'oil, alla lingua comune che viene elaborata a Parigi in ambienti colti e che, promossa a lingua ufficiale, viene usata nella forma conferitale dagli usi dotti, cioè scritti. Simmetricamente gli usi popolari e puramente orali di tutti i dialetti regionali soppressi retrocedono allo status di patois a causa della parcellizzazione (legata all'abbandono della forma scritta) e della disgregazione interna (per prestito lessicale o sintattico), prodotte dalla svalutazione sociale di cui esse formano l'oggetto. Lasciati ai contadini, tali usi sono giudicati in termini negativi e peggiorativi rispetto agli usi eruditi o letterari (come mostra il cambiamento di significato della parola patois che, da «linguaggio incomprensibile», giunge a indicare un «linguaggio corrotto e volgare come il linguaggio usato dal popolo più misero». Dizionario di Furetière, 1690). La situazione linguistica è molto diversa nei paesi di lingua d'oc: bisogna aspettare il XVI secolo e la costituzione progressiva di un'organizzazione amministrativa legata al potere reale (con, notoriamente, l'apparizione di una moltitudine di agenti amministrativi di rango inferiore, luogotenenti, vicari, giudici, ecc.) per vedere il dialetto parigino sostituire, negli atti pubblici, i differenti dialetti di lingua d'oc. L'imposizione del francese come lingua ufficiale non porta all'abolizione totale dell'uso scritto dei dialetti, né come lingua amministrativa o politica né tantomeno come lingua letteraria (con il perpetuarsi dell'esistenza di una letteratura sotto l'ancien régime); quanto ai loro usi orali, i dialetti restano predominanti. Una situazione di bilinguismo tende ad instaurarsi: mentre i membri delle classi popolari, e particolarmente i contadini, si limitano all'uso del dialetto locale, i membri dell'aristocrazia, della borghesia del commercio e degli affari e soprattutto della piccola borghesia letterata (le stesse fasce individuate dall'abate Gregorio nella sua indagine e che hanno, a diversi livelli, frequentato quelle istituzioni di unificazione linguistica che sono i collegi dei gesuiti) hanno molto spesso accesso alla lingua ufficiale, scritta o parlata, malgrado la loro padronanza del dialetto (ancora usato in situazioni private o anche pubbliche); ciò permette loro di espletare la funzione di intermediari. I membri di queste borghesie locali di curati, medici o professori, che devono la loro posizione alla padronanza degli strumenti di espressione, hanno tutto da guadagnare dalla politica di unificazione linguistica della Rivoluzione: la promozione della lingua ufficiale allo status di lingua nazionale fornisce loro, infatti, il monopolio in campo politico e più generalmente nella
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comunicazione con il potere centrale e con i suoi rappresentanti, comunicazione che, sotto tutte le repubbliche, contraddistingue i notabili locali. L'imposizione della lingua legittima sugli idiomi e i patois fa parte delle strategie politiche destinate ad assicurare eternità alle conquiste della Rivoluzione attraverso la produzione e la riproduzione dell'uomo nuovo. La teoria di Condillac che fa della lingua un metodo, permette di identificare la lingua rivoluzionaria con il pensiero rivoluzionario: rinnovare la lingua, ripulirla degli usi legati alla vecchia società e imporla così purificata, significa affermare un pensiero che è esso stesso purgato e purificato. Sarebbe ingenuo limitare la politica di unificazione linguistica ai soli bisogni tecnici di comunicazione tra le diverse zone del territorio e, in particolare, tra Parigi e le province, o vedervi il risultato diretto di un centralismo di Stato deciso a schiacciare i «particolarismi locali». Il conflitto tra il francese dell'intellighenzia rivoluzionaria e gli idiomi o i dialetti è una lotta per il potere simbolico il cui scopo è la formazione e la riforma delle strutture mentali. In breve, non si tratta solo di comunicare ma di far riconoscere un discorso d'autorità nuovo, col suo nuovo vocabolario politico, i suoi termini di istruzione e di riferimento, le sue metafore, i suoi eufemismi e la rappresentazione del mondo sociale che esso veicola, rappresentazione che, essendo legata agli interessi nuovi dei gruppi nascenti, non può essere espressa con dialetti locali modellati dagli usi legati agli interessi specifici dei gruppi contadini.
Solo quando appaiono gli usi e le funzioni nuove di cui ha bisogno la formazione di una nazione, un gruppo del tutto astratto e basato sul diritto, solo allora diventano indispensabili la lingua standard, impersonale e anonima, gli usi ufficiali per cui deve essere utilizzata, e, al tempo stesso, il lavoro di normalizzazione dei prodotti degli 1iabitus linguistici. Risultato esemplare di questo lavoro di codificazione e normalizzazione, il dizionario accumula, con sapiente registrazione, la totalità delle risorse linguistiche raccolte nel corso del tempo e, in particolare, tutte le possibili utilizzazioni della stessa parola (o tutte le possibili espressioni dello stesso significato), giustapponendo usi socialmente non comuni, cioè particolari (salvo poi evidenziare gli usi che oltrepassano i limiti di accettabilità con un segno di rinvio come Are., Pop. o Dial.). In questo modo, il dizionario forrtisce un'immagine abbastanza esatta della lingua nel senso che le attribuisce Saussure, « somma di tesori di lingue individuali» che è predisposta a
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ricoprire le funzioni di codice «universale». La lingua normalizzata ha la facoltà di funzionare oltre l'obbligo e il soccorso della situazione, e di essere emessa e decifrata da emittenti e riceventi qualunque, i quali ignorano tutto di se stessi e degli altri, cosi come vogliono le esigenze di previsione e calcolo burocratiche, che presuppongono funzionari e clienti universali, senza altre qualità se non quelle assegnate loro dalla definizione amministrativa del loro stato. Nel processo di elaborazione, legittimazione e imposizione di una lingua ufficiale, il sistema scolastico ha una funzione determinante: «costruire le somiglianze da cui deriva la coscienza comune che è il cemento della nazione». Per questo George Davy prosegue, ricordando la funzione del maestro di scuola, maestro di discorso e, dunque, di pensiero: «Per la funzi~ne- che ha, egli (l'istitutore) agisce quotidianamente sulla facoltà di espressione di ogni idea e di ogni emozione: sul linguaggio. Insegnando ai bambini, che conoscono il linguaggio in modo confuso o parlano dialetti o patois diversi, la stessa lingua, una, chiara e definitiva, egli li orienta in una maniera del tutto naturale a vedere e a sentire le cose nello stesso modo; egli lavora inoltre a creare la coscienza comune della nazione» 10 • La teoria whorfiana - o, se si vuole, humboldtiana - 11 del linguaggio, che sostiene una simile visione dell'azione scolastica come strumento di «integrazione intellettuale e morale», nel senso di Durkheim, presenta con la filosofia durkheimiana del consenso una affinità testimoniata del resto dallo slittamento che ha permesso il trasferimento della parola codice dal diritto alla linguistica: il codice, nel senso di segni convenzionali che regolano la lingua scritta, riconosciuta come lingua corretta, in opposizione alla lingua parlata (conversational language), implicitamente considerata inferiore, acquista forza di legge attraverso il sistema di insegnamento Il!. c. DAVY, Eléments de sociologie, Paris, Vrin, 1950, p. 233. La teoria linguistica di Humboldt, nata dalla celebrazione dell' « autenticità» linguistica del popolo basco e dall'esaltazione della coppia lingua-nazione, intrattiene una relazione intellegibile con la concezione della missione unificatrice dell'Università, di cui Humboldt si è servito nel fondare l'Università di Berlino, 12 La grammatica riceve, per la mediazione del sistema scolastico, che mette al suo servizio il proprio potere di certificazione, una vera efficacia giuridica: se la grammatica e l'ortografia (ad esempio, nel 1900, l'accordo del participio passato coniugato con il verbo avere) sono l'oggetto di ordinanze, è perché IO 11
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Il sistema cli insegnamento, la cui influenza acquisisce maggiore intensità nel XIX secolo 13, contribuisce direttamente alla svalutazione dei modi cli espressione popolari, relegati allo stato cli «gergo» e cli «linguaggio incomprensibile» (come indicano·le annotazioni marginali dei maestri), e all'imposizione del riconoscimento della lingua legittima. Tuttavia il ruolo determinante nella svalutazione dei dialetti e nell'instaurazione della gerarchia degli usi linguistici va senza dubbio attribuito alla relazione dialettica tra la scuola e il mercato del lavoro o, più precisamente, alla relazione tra l'unificazione del mercato scolastico (e linguistico), legato all'istituzione cli titoli scolastici riconosciuti in tutta la nazione e indipendenti, almeno ufficialmente, dalle caratteristiche sociali o regionali dei loro portatori, e l'unificazione del mercato del lavoro (con, tra l'altro, lo sviluppo dell'amministrazione e del corpo dei funzionari)' 14 • Per ottenere che i detentori cli competenze linguistiche subalterne collaborassero alla distruzione dei loro strumenti di espressione, sforzandosi cli parlare «francese» coi figli, oppure, generalmente, «francese» in famiglia, nell'intento più o meno esplicito di accrescere il loro valore sul mercato scolastico, era necessario che la scuola fosse considerata il mezzo principale o, addirittura, unico per accedere ai ruoli amministrativi, tanto più ambiti quanto più debole era l'industrializzazione. Questa condizione si verificò più frequentemente nei paesi dove prevaleva il dialetto e «l'idioma» (escluse le regioni dell'est) che nei paesi nordici della Francia, dove invece prevaleva il patois.
attraverso gli esami e i titoli, che es.se permettono di ottenere, reclamano l'acces.ro a posti e posizioni sociali. 13 Cosi, in Francia, il numero delle scuole, dei bambini scolarizzati e, di conseguenza, la quantità e la dispersione nello spazio del personale insegnante aumentano in maniera costante, fin dal 1816, cioè ben prima dell'ufficializzazione dell'obbligo scolastico. 14 È certamente in questa logica che si compre_nde la relazione paradossale tra la lontananza linguistica delle diverse regioni nel XIX secolo e il contributo che es.se apportano alla funzione pubblica nel XX secolo: i dipartimenti che, secondo l'inchiesta portata avanti da Victor Duruy nel 1864, hanno, sotto il Secondo Impero, le percentuali più alte di adulti che non parlano il francese e di bambini, compresi tra i 7 e i 13 anni, che non sanno leggere o parlare tale lingua, forniscono, fin dalla prima metà del XX secolo, un numero particolarmente elevato di funzionari, fenomeno esso stesso legato, è noto, ad un tasso alto di scolarizzazione nell'insegnamento secondario.
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L'unificazione del mercato e il dominio simbolico In effetti, se non si deve trascurare il contributo che l'intento politico di unificazione (visibile anche in altri campi, come quello del diritto) apporta alla fabbricazione della lingua, che i linguisti recepiscono come un dato naturale, occorre, tuttavia, anche guardarsi dall'attribuire ad esso l'intera responsabilità dell'uso generalizzato della lingua dominante, di una dimensione, cioè, propria dell'unificazione del mercato dei beni simbolici, che accompagna l'unificazione dell'economia come anche della produzione e della circolazione culturali. Lo si vede bene nel caso del mercato degli scambi matrimoniali, dove prodotti un tempo destinati a circolare nel recinto protetto dei mercati locali, obbedienti a proprie leggi di formazione dei prezzi, si sono trovati bruscamente svalutati dalla generalizzazione dei criteri di valutazione dominanti e dal discredito dei valori contadini, da fenomeni, cioè, che hanno comportato il crollo del valore dei contadini, spesso condannati al celibato. Visibile in tutti i campi della vita (sport, canzone, abbigliamento, -habitat, ecc.) il processo di· unificazione, produzione e circolazione dei beni economici e culturali, determina l'obsolescenza progressiva della vecchia maniera di produzione degli habitus e dei loro prodotti. Si comprende così perché le donne siano più pronte, come i sociolinguisti hanno spesso osservato, ad adottare la lingua legittima (o la pronuncia legittima). Per la docilità che hanno nei riguardi degli usi dominanti, per la divisione del lavoro legata al sesso, che le spinge al consumo, e per la logica del matrimonio che rappresenta per loro la via d'accesso principale, se non la sola, a un'ascesa sociale, via che esse percorrono dal basso verso l'alto, le donne sono più predisposte ad accettare, soprattutto a scuola, le nuove esigenze del mercato dei beni simbolici. Così, gli effetti del dominio, che sono legati all'unificazione del mercato, si manifestano solo at&-averso la mediazione di istituzioni e meccanismi specifici, la cui politica propriamente linguistica, e gli interventi espliciti da parte di gruppi di pressione, rapprese~tano solo l'aspetto più superficiale. E, il fatto che essi presuppongano l'unificazione politica linguistica e economica, che indirettamente essi contribuiscono a rinforzare, non implica affatto che si debbano attribuire i progressi della lingua ufficiale
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all'efficienza diretta di leggi giuridiche (le quali possono imporre, nella migliore delle ipotesi, l'acquisizione, ma non l'utilizzazione generalizzata e la riproduzione autonoma della linguJL legittima). Ogni dominazione simbolica presuppone, da parte di chi la subisce, una sorta di complicità che non è sottomissione passiva a un obbligo esterno, né tantomeno libera adesione a certi valori. Il riconoscimento della legittimità della linguà ufficiale non ha nulla della credenza espressamente professata, deliberata e revocabile, e nulla di un atto intenzionale di accettazione di una «norma»; esso è insito, allo stato pratico, nelle disposizioni che sono inconsciamente inculcate, attraverso un lungo e lento processo di acquisizione, dalle sanzioni del mercato linguistico e adattate, aldilà di ogni calcolo cinico e di ogni obbligo coscientemente sentito, alle possibilità di profitto materiale e simbolico che le leggi di formazione dei prezzi, tipiche di un determinato mercato, promettono oggettivamente ai detentori di un certo capitale linguistico 15 • La caratteristica del dominio simbolico risiede precisamente nel fatto che esso presuppone da parte di colui che lo subisce un atteggiamento di sfida all'alternativa comune tra la libertà e l'obbligo: le «scelte» dell'habitus (come quella, per esempio, che consiste nel correggere la r in presenza di locutori legittimi) sono compiute senza coscienza né imposizione, in virtù di tendenze che, benché siano un prodotto indiscutibile di determinismi sociali, si sono costituite incosciamente e liberamente. La propensione a ridurre la ricerca delle cause a una ricerca di responsabilità impedisce di constatare che l'intimidazione, violenza simbolica che si ignora come tale (nella misura in cui può non implicare alcun atto di intimidazione}, può essere esercitata solo su una persona predisposta (nel suo habitus) a sentirla, magari proprio mentre altri l'ignorano. È ancora più vero dire che la causa della timidezza risiede nel rapporto tra la situazione o la persona che intimidisce (che può negare l'ingiunzione che rivolge) e la persona intimidita; o meglio, tra le condizioni sociali di produzione dell'una e dell'altra. Il che rinvia, per gradi, alla struttura sociale. 15 Ciò significa che gli «usi linguistici» non si lasciano facilmente modificare dai decreti, come spesso credono i partigiani di una politica volontarista di «difesa della lingua».
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Tutto consente di supporre che le istruzioni determinanti per la costruzione dell'habitus si trasmettano, senza passare per il linguaggio e per la coscienza, attraverso suggestioni che sono inscritte negli aspetti apparentemente insignificanti delle cose, delle situazioni o delle abitudini della vita quotidiana: così, gli usi, i modi di guardare, di comportarsi, di stare in silenzio, o anche di parlare («sguardi di disapprovazione», «toni» o «arie di rimprovero», ecc.) sono carichi di ingiunzioni forti e difficili da annullare proprio perché silenziosi e insidiosi, insistenti e insinuanti (è questo il codice segreto che è esplicitamente all'opera nelle crisi tipiche del ménage familiare, le crisi dell'adolescenza o le crisi di coppia: l' apparente sproporzione deriva dal fatto che le azioni o le parole più anodine sono percepite come ingiunzioni, intimidazioni, ultimatum, moniti, minacce, e denunciate come tali con tanta più violenza quanto più esse seguitano ad agire oltre la coscienza e la rivolta che suscitano). Il potere di suggestione che è esercitato attraverso cose e persone e che non comunica al bambino ordini, non impartisce, cioè, ciò che egli deve fare, ma ciò che egli è, per indurlo a diventare quel che deve essere, è la prova della forza che Qgni potere simbolico potrà esercitare in seguito su un habitus predisposto a percepirlo. Il rapporto tra due persone può essere tale che a una delle due basta semplicemente apparire per imporre all'altra, senza volerlo e tantomeno ordinarlo, una definizione della situazione e del suo ruolo (come persona intimorita, ad esempio) tanto più assoluta e indiscutibile quanto più non ha bisogno d'essere affermata chiaramente. Il riconoscimento, che questa violenza invisibile e silenziosa estorce, si mostra in alcune asserzioni, come quelle che permettono a Labov di stabilire che la stess·a valutazione della r è presente in locutori che appartengono a classi differenti e che, dunque, si distinguono nella pronuncia di questa consonante. Tuttavia, esso non è mai così manifesto come nelle correzioni istantanee o permanenti alle quali i dominati, con uno sforzo disperato, sottomettono, consciamente o inconsciamente, gli aspetti stigmatizzati della loro pronuncia, del loro lessico (con tutte le forme di eufemismo) e della loro sintassi, o come nello smarrimento che fa loro «perdere i mezzi», rendendoli incapaci di «trovare le parole», come se fossero all'improvviso privati della loro lingua 16 • 16 ll linguaggio «disintegrato», registrato dall'inchi~a condotta presso locutori appartenenti a classi subalterne, è cosi il prodotto della relazione di inchi~a.
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Scarti distintivi e valore sociale Nel trascurare, dunque, il valore particolare oggettivamente riconosciuto all'uso legittimo della lingua e i fondamenti sociali di questo privilegio, ci si condanna all'uno o all'altro di due opposti errori: da un lato, l'errore di assolutizzare inconsciamente ciò che è oggettivamente relativo e, in questo senso, arbitrario, cioè l'uso dominante, cercando esclusivamente tra le prop~età della lingua, come la complessità della sua struttura sintattica, il fondamento del valore che gli è riconosciuto, in particolare, sul mercato scolastico; dall'altro, l'errore di sfuggire a questa forma di feticismo per cadere nell'ingenuità per eccellenza del relativismo colto che, dimenticando che lo sguardo ingenuo non è relativistico, rifiuta la circostanza di fatto della legittimità e opera una relativizzazione arbitraria dell'uso dominante, socialmente riconosciuto come legittimo, e non solo da coloro che esercitano il potere. Per riprodurre nel discorso colto la feticizzazione della lingua legittima che si opera nella realtà, basta descrivere, seguendo Bernstein, le caratteristiche del «codice elaborato» senza mettere in relazione questo prodotto sociale con le condizioni sociali della sua produzione e riproduzione, cioè almeno, come ci si potrebbe aspettare sul piano della sociologia dell'educazione, con le condizioni scolastiche: il «codice elaborato» assume in questo modo carattere di norma assofota di tutte le pratiche linguistiche, che non possono più essere pensate se non nella logica della deprivaiione. Al contrario, ignorare ciò che l'uso popolare e quello colto devono alle loro relazioni obiettive e alle strutture del rapporto di dominio tra le classi, che essi riproducono nella loro propria logica, porta a canonizzare la «lingua» delle classi dominanti: è in questa direzione che si orienta Labov, allorché la preoccupazione di riabilitare la «lingua popolare», difendendola dagli attacchi dei teorici della deprivazione, lo spinge ad opporre alla verbosità e al vaniloquio pomposi degli adolescenti borghesi la precisione e la concisione dei bambini dei ghetti neri. Ciò significa non tener conto che, come egli stesso ha mostrato (con l'esempio dei recenti emigrati che giudicano molto severamente gli accenti devianti, vale a dire il loro stesso accento), la «norma» linguistica si impone a tutti i membri di una stessa «comunità linguistica», e questo soprattutto sul mercato scolastico e in tutte le situazioni ufficiali dove il verbalismo e la verbosità sono spesso di rigore.
L'unificazione politica e la relativa imposizione di una lingua
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ufficiale instaurano tra i differenti usi di questa lingua rapporti del tutto diversi dai rapporti teorici (come la relazione tra mouton e sheep, che Saussure ricorda per teorizzare il carattere arbitrario del segno) tra lingue diverse, parlate da gruppi politicamente ed economicamente indipendenti: tutti gli usi linguistici sono commisurati agli usi legittimi, quelli dei dominanti, ed è all'interno del sistema di varianti praticamente concorrenti che si instaura realmente e si definisce, ogni volta che si trovano riunite le condizioni extralinguistiche per la formazione di un mercato linguistico, il valore probabile oggettivamente promesso alle produzioni linguistiche dei differenti locutori e, conseguentemente, il rapporto che ciascuno di essi può intrattenere con la lingua e, contemporaneàmente, con la sua stessa produzione. In questo modo, le differenze linguistiche che separavano i cittadini di regioni diverse cessano di essere particolarismi incommensurabili: rapportate de facto al campione unico della lingua «comune», esse sono gettate nell'inferno dei regionalismi, delle «espressioni scorrette e degli errori di pronuncia» puniti dai maestri di scuola 17 • Relegati allo stato di gerghi dialettali volgari, impropri nelle occasioni ufficiali, gli usi popolari della lingua ufficiale subiscono una svalutazione simbolica. Un sistema di opposizioni linguistiche sociologicamente pertinenti tende a porsi come ciò che non ha nulla in comune con il sistema di opposizioni linguisticamente pertinenti. In altri termini, le differenze, messe in evidenza dal confronto tra i diversi modi di parlare, non si limitano a quelle che il linguista costruisce in funzione del proprio criterio di pertinenza: __per guanto vasta sia la parte del funzionamento della lingua che sfugge alla variazione, esiste, nel campo della pronuncia, del 17 Quando, al contrario, una lingua da sempre subalterna accede allo status di lingua ufficiale, subisce una rivalutaz;ione il cui effetto è quello di modificare profondamente la relazione che i suoi utilizzatori intrattengono con essa. In questo modo i conflitti detti linguistici non risultano più irreali e irrazionali (il che non wol dire che vi siano diretti interessi in gioco) di quanto credano coloro che considerano solo gli obiettivi economici (in senso ristretto): il rovesciamento dei rapporti di forza simbolici e della gerarchia dei valori accordati alle lingue concorrenti ha effetti economici e politici assolutamente reali, che si tratti dell'appropriazione di posti e di privilegi economici riservati ai detentori della competenza legittima o dei profitti simbolici associati al possesso di una identità sociale prestigiosa o almeno non stigmatizzata.
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lessico e anche della grammatica, un insieme di differenze significativamente associate a differenze sociali che, trascurabili agli occhi del linguista, sono invece pertinenti per il sociologo perché.esse flP}no parte di un sistema di opposizioni linguistiche che non è altro che la titrad~one di un sistema dj differenze sociali. Una sociologia strutturale della lingua, schiusa da Saussure ma costruita contro l'astrazione che egli opera, deve darsi come oggetto la relazione che unisce sistemi strutturati di differenze linguistiche sociologicamente pertinenti e sistemi parimenti strutturati di differenze sociali. Gli usi sociali della lingua devono il loro valore propriamente sociale al fatto che essi tendono a organizzarsi in sistemi di differenze (tra le varianti prosodiche e ~colatorie o lessicologiche e sintattiche) che riproducono nell'ordine simbolico degli scarti differenziali il sistema delle differenze sociali. .Parlare significa appropriarsi dell'uno o dell'altro degli stili espre.wvi già costituiti nell'uso e attraverso l'uso e oggettivamente presenti in una gerarchia di stili che esprime, nel suo ordine, la gerarchia dei gruppi corrispondenti. Questi stili, sistemi di differenze classificati e classificanti, gerarchizzati e gerarchizzanti, caratterizzano coloro che se ne appropriano e la stilistica spontanea, dotata di un senso pratico delle equivalenze tra i due ordini di differenze, individua le classi sociali attraverso classificazioni di indici stilistici. Privilegiando le costanti linguistiche pertinenti, a detrimento delle variazioni sociologicamente significative per la costruzione di questo artificio che è la lingua «comune», si agisce come se la capacità di parlare, più o meno universalmente diffusa, sia identificabile al modo socialmente condizionato di realizzarla, di realizzare, cioè, una capacità naturale, che presenta tante varietà quante sono le condizioni di acquisizione. La competenza sufficiente per produrre frasi in grado di essere comprese può essere del tutto insufficiente a produrre frasi in grado. di essere ascoltate e riconosciute accettabili in tutte le situazioni in cui si parla. Qui come altrove, l'accettabilità sociale non si limita alla sola accettabilità grrunmaticale. I locutori sprovvisti di competenza~ l~gittim4 ·si trovaI).o esclusi di fatto da.gli universi sociali in cui essa è richiesta, o condann~ti al silenzio. Ciò che è raro, dunque, non è la capacità di parlare che, essendo inscritta nel patrimonio biologico, è universale, dunque essenzialmente
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non distintiva 18 , ma la competenza necessaria per parlare la li!)~a legi_ttima che, poiché dipende dal patrimonio sociale, ritraduce le distinzioni sociali nella logica propriamente simbolica degli scarti differenziali o, in una parola, della distinzione 18 • La costituzione di un mercato linguistico crea le condizioni per una concorrenza oggettiva nella quale e per mezzo della quale la competenza legittima può funzionare come capitale linguistico che produce, in occasione di ogni scambio sociale, un profitto di distinzione. Dal momento che deriva in parte dalla rarità dei prodotti (e delle competenze corrispondenti), tale profitto non corrisponde esclusivamente al costo di formazione. Il costo di formazione non è una nozione semplice e socialmente neutra. Esso comprende - a livelli variabili secondo le tradizioni scolastiche, le epoche e le discipline - «costi» che possono largamente superare il minimo «tecnicamente» necessario per assicurare la trasmissione della competenza propriamente detta (se è davvero possibile dare una definizione strettamente tecnica della formazione necessaria e sufficiente per ricoprire una funzione e una definizione della funzione stessa, soprattutto se si tiene conto che ciò che è stato chiamato «distanza dal ruolo» - cioè dalla funzione - rientra sempre più nella definizione di questa man mano che si sale nella gerarchia delle funzioni): sia che, ad esempio, la lunghezza degli studi (che rappresenta una buona parte del costo economico della formazione) tenda a essere valorizzata per se stessa e indipendentemente dal risultato che produce (determinando talvolta, tra le «scuole di élite», una sorta di gara nel prolungamento del ciclo degli studi), sia che, non essendo le due opzioni esclusive, la qualità sociale della competenza acquisita, che si esprime attraverso l'uso simbolico delle pratiche, cioè il modo di compiere gli atti tecnici e di mettere in opera la competenza, appaia come indissociabile dalla lentezza dell'acquisizione, essendo gli studi brevi o accelerati 18 Solo il facoltativo può dar luogo a effetti di distinzione. Come dimostra Pierre Encrevé, nel caso di legamenti obbligatori sempre osservati e da tutti, comprese le classi popolari, non c'è posto per il gioco. Quando le regole strutturali della lingua sono sospese con i legamenti facoltativi, riappare il gioco con i relativi effetti di distinzione. 10 Non c'è ragione di prendere posizione nel dibattito tra nativisti (dichiarati o meno), che fanno dell'esistenza di una predisposizione innata la condizione dell'acquisizione della capacità di parlare, e i genetisti, che mettono l'accento sul processo di apprendimento: basta infatti che non tutto sia inscritto nella natura e che il processo di acquisizione non si riduca a una semplice maturazione, perché si producano differenze linguistiche capaci di funzionare come segni di distinzione sociale.
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sempre sospettati di lasciare sui loro prodotti i segni della forzatura o le stimmate del recupero. Questo consumo ostentato di apprendimento (cioè di tempo), apparente spreco tecnico che ricopre funzioni sociali di legittimazione, rientra nel valore socialmente attribuito a una competenza socialmente garantita (cioè « attestata» dal sistema scolastico).
Poiché il profitto di distinzione dipende dal fatto che l'offerta di prodotti (o di locutori), corrispondente a un livello determinato di qualificazione linguistica (o, più generalmente, culturale), è inferiore a quella che essa sarebbe, se tutti i locutori avessero beneficiato delle condizioni di acquisizione della competenza legittima allo stesso livello dei detentori della competenza più rara 20 , esso è logicamente distribuito in funzione delle possibilità di accesso a queste condizioni, cioè in funzione della posizione occupata nella struttura sociale. Siamo lontani, malgrado le apparenze, dal modello saussuriano di homo linguisticus che, simile al soggetto economico della tradizione walrasiana, è formalmente libero nelle sue traduzioni verbali (libero ad esempio di dire popo per chapeau, come i bambini), ma può essere capito, avere scambi e comunicare solo a condizione di conformarsi alle regole del codice comune. Questo mercato, che conosce solo la concorrenza pura e perfetta tra agenti intercambiabili come i prodotti che essi scambiano e le «situazioni» nelle quali operano gli stessi scambi, tutti ugualmente sottomessi al principio di massimizzazione del rendimento informativo (come altrove al principio di massimizzazione dell'utilità), è tanto lontano, e lo vedremo meglio in seguito, dal mercato linguistico reale quanto il mercato «puro» lo è dal mercato economico teale, coi suoi monopoli e oligopoli.
All'effetto proprio della rarità distintiva si aggiunge il fatto che, per la relazione che unisce il sistema delle differenze linguistiche al sistema delle differenze economiche e sociali, si ha a che fare non con un universo relativistico di differenze capaci di relativizzarsi a vicenda, ma con un universo di scarti, gerarchizzato in relazione a una forma di discorso (pressappoco) universalmente riconosciuta come legittima, cioè come cam20 L'ipotesi dell'eguaglianza delle po~ibilità di acces.ro alle condizioni di acquisizione della competenza linguistica legitti_ma è una semplice sperimentazione mentale che ha la funzione di illuminare uno degli effetti strutturali dell'ineguaglianza.
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pione del valore dei prodotti linguistici. La competenza dominante funziona come capitale linguistico che assicura un profitto di distinzione nel rapporto con le altre competenze, solo se si verificano le condizioni (unificazione del mercato e distribuzione ineguale delle possibilità di accesso agli strumenti di produzione della competenza legittima e ai luoghi di espressione legittimi) necessarie a garantire ai gruppi detentori la possibilità di imporla come sola competenza legittima sui mercati ufficiali (mercato mondano, scolastico, politico, amministrativo) e nella maggior parte delle interazioni linguistiche in cui sono all'opera tali mercati 21 • Ciò fa sì che coloro i quali vogliono difendere un capitale minacciato, come attualmente in Francia la conoscenza delle lingue antiche, siano condannati a una lotta totale: si può salvare il valore della competenza solo a condizione di salvare il mercato, cioè l'insieme delle condizioni politiche e sociali di produzione dei produttori-consumatori. I difensori del latino o, in altri contesti, del francese o dell'arabo, si comportano come se la lingua da loro preferita possegga un valore anche al di fuori del mercato, per sue intrinseche virtù (come le qualità «logiche»); ma, in pratica, essi difendono il mercato. 11 _~uolo,..._che il s~t~a di insegnamento attribuisce..all~~verse lingue (o ai diversi contem.itfoulfurali), è una posta in gioca còs.ì ìmportante, perché questa istituzione ha il monopolio della produzione massiccia dei produttori-consumatori, dunque della riproduzione del mercato da cui dipende il valore sociale della competenza linguistica e la sua capacità di funzionare come capitale.linguistico.
Il campo letterario e la lotta per l'autorità linguistica Così, attraverso la mediazione della struttura del campo linguistico, intesa come sistema di rapporti di forza propria21 Le situazioni in cui le produzioni linguistiche sono espressamente sottoposte a valutazione, come gli esami scolastici o i colloqui di assunzione, ricordano che ogni scambio linguistico è OCC!lSione di valutazione: numerose inchieste hannoaiiiiostrato che Te-caratteristiche linguistiche influenzano molto fortemente la riuscita scolastica, le possibilità di assunzione, la riuscita professionale, l'atteggiamento dei medici (che accordano più attenzione ai pazienti di ambiente borghese e ai loro discorsi, formulando ad esempio nei loro riguardi diagnosi meno pessimiste) e più generalmente l'inclinazione dei riceventi a cooperare con il mittente, ad aiutarlo o ad accordare credito alle informazioni che egli fornisce.
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mente linguistici, basati sulla distribuzione diseguale del capitale linguistico (o, se si preferisce, delle possibilità di incorporare le risorse linguistiche espresse), la struttura dello spazio degli stili espressivi riproduce, nel suo ordine, la struttura degli scarti che obiettivamente separano le condizioni di esistenza. Per capire bene la struttura di questo campo, e, in particolare, l'esistenza, all'interno del campo di produzione linguistico, di un sottocampo di produzione limitato, che deve le sue proprietà fondamentali al fatto che i produttori producono prioritariamente per gli altri produttori, occorre fare una distinzione tra il capitale necessario alla semplice produzione di un parlare comune più o meno legittimo e il capitale di strumenti d'espressione (che presuppone l'appropriazione di risorse depositate, in forma oggettivata, nelle biblioteche, nei libri e, in particolare, nei «classici», nelle grammatiche, nei dizionari) necessario alla produzione di un discorso scritto, degno di essere pubblicato, cioè reso ufficiale. La produzione di strumenti di produzione come le figure di parole o di pensiero, i generi, i modi o gli stili legittimi e, più in generale, tutti i discorsi votati a «rappresentare l'autorità», citati come esempio nell'«uso corretto», conferisce, a colui che l'esercita, un potere sulla lingua, sui singoli utilizzatori della 1ingua e anche sul loro capitale. La lingua legittima ha non solo il potere di garantire il suo perpetuarsi nel tempo, ma anche e soprattutto quello di definire la sua estensione nello spazio. Solo questa sorta di creazione continua, che si opera nelle lotte incessanti tra le varie· autorità che si trovano impegnate, all'interno del campo di produzione specializzata, nella concorrenza per il monopolio dell'imposizione del modo d'espressione legittimo, può garantire la permanenza della lingua legittima e del suo valore, cioè del riconoscimento che le è accordato. Una delle proprietà generiche dei campi è che la lotta per la posta in gioco dissimula la complicità per i principi del gioco; più precisamente, essa tende continuamente a produrre e a riprodurre il gioco e le poste, riproducendo, dapprima in coloro che si trovano direttamente impegnati, ma non solo in loro, l'adesione pratica al valore del gioco e alla posta che determina il riconoscimento della legittimità. Cosa ne sarebbe infatti della vita letteraria, se ci si scontrasse non sullo stile di questo o di quell'autore, ma sul valore delle dispute intorno allo stile? È alla fine che ci si chiede se il gioco è valso la candela.
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Le lotte tra gli scrittori sul modo legittimo di scrivere contribuiscono, per la loro stessa esistenza, a produrre sia la lingua legittima, definita dalla distanza che la separa dalla lingua «comune», sia la credenza nella legittimità. Si tratta non tanto del potere simbolico che gli scrittori, i grammatici o i pedagoghi possono esercitare a titolo individuale sulla lingua, potere che è forse più limitato di quello che essi possono esercitare sulla cultura (imponendo, ad esempio, una nuova definizione della letteratura legittima, adatta a trasformare la «situazione di mercato»), quanto piuttosto del contributo che essi danno, al di là di ogni intenzionale ricerca di distinzione, alla produzione, alla consacrazione e all'imposizione di una lingua distinta e distintiva. Nel lavoro collettivo che si compie attraverso le lotte per l'arbitrium et fus et norma loquendi di cui parlava Orazio, gli scrittori, autori più o meno autorizzati, devono fare i conti con i grammatici, detentori del monopolio della consacrazione e della canonizzazione degli scrittori e delle scritture legittimi, i quali contribuiscono alla costruzione della lingua legittima selezionando, tra i prodotti offerti, quelli che sembrano loro meritevoli di essere consacrati e incorporati alla competenza legittima attraverso l'insegnamento scolastico, e imponendo loro, a tale scopo, un lavoro di normalizzazione e di codificazione atto a circoscriverli e a renderli facilmente riproducibili. I grammatici, che possono trovare alleati tra gli scrittori d'istituzione e nelle accademie, e si attribuiscono il potere di creare norme e di imporle, tendono a consacrare e a codificare, facendone un prodotto della ragione, della razionalizzazione, un uso particolare della lingua; essi contribuiscono così a determinare il valore che i prodotti linguistici dei diversi utilizzatori della lingua possono ricevere sui diversi mercati e, in particolare, sui mercati più direttamente sottomessi al loro controllo diretto o indiretto, come il mercato scolastico, delimitando l'universo delle pronuncie, delle parole o dei toni accettabili, e fissando una lingua censurata ed epurata degli usi popolari, in p(lrticolare dei più recenti. Le variazioni corrispondenti alle diverse configurazioni del rapportQ di forza tra le autorità, che si affrontano continuamente sul campo della produzione letteraria, invocando in proprio favore principi di legittimazione molto diversi, non possono dissimulare le invarianze strutturali che, nelle situazioni storiche più diverse, impongono ai protagonisti di ricorrere alle stesse strategie, e agli stessi argomenti, per affermare e legittimare la loro pretesa a legiferare sulla lingua e per condannare quella dei loro concorrenti. Così, contro il «bell'uso» dei mondani e contro
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le pretese che gli scrittori hanno di detenere la scienza infusa del buon uso, i grammatici invocano sempre l'uso ragionato, cioè «il senso della lingua» dato dalla conoscenza dei principi di «ragione» e di «gusto» che sono costitutivi della grammatica. Gli scrittori, invece, le cui pretese s'avanzano soprattutto con il Romanticismo, invocano il genio contro la regola, professando di ignorare i richiami all'ordine da parte di coloro che Hugo chiama con alterigia i «grammatisti» 22 •
Lo spossessamento oggettivo delle classi subalterne non è sempre visto come tale dai protagonisti delle lotte letterarie (sappiamo ~he sono sempre esistiti scrittori pronti a lodare la lingua degli «scaricatori di Port au Foin», a riverniciare di colorite espressioni popolari il vocabolario 23 , o a imitare i modi di parlare del popolo). Resta, tuttavia, il fatto che tale spossessamento ha in qualche modo a che fare con l'esistenza di un corpo di professionisti oggettivamente in possesso del monopolio dell'uso legittimo della lingua legittima, i quali producono, a uso personale, una lingua speciale, predisposta, inoltre, a ricoprire una funzione sociale di distinzione nei rapporti tra le classi e nelle lotte che in campo linguistico oppongono le classi tra loro. Esso ha, inoltre, a che fare con l'esistenza di una istituzione come il sistema di insegnamen_to, che, delegato a sanzionare, in nome della grammatica, i prodotti eretici e a inculcare la norma esplicita che ostacola gli 22 Piuttosto che moltiplicare all'infinito le citazioni di scrittori o di grammatici, che avrebbero senso solo alla luce di un'esatta analisi storica dello stato del campo nel quale esse sono, in ogni caso, prodotte, ci si contenterà di rinviare coloro i quali desiderano avere un'idea concreta di questa lotta permanente a B. QUEMADA, Les dictionnaires du français moderne, 1539-1863, Paris, Didier, 1968, pp. 193, 204, 207, 210, 216, 226, 228, 229, 230 n: 1, 231, 233, 237, 239, 241,242, e F. BRUNOT, Histoire, cit., specialmente t. 11-13, passim, La lotta per il controllo della pianificazione linguistica del norvegese come descritta da Haugen, permette di osservare una simile divisione dei ruoli e delle strategie tra gli scrittori e i grammatici (cfr. E. HAUGEN, Language Conflict and Language Planning, The Case of Norwegian, Cambridge, Harvard Urtjversity Press, 1966, specialmente pp. 296 e ss.). 23 «Mettre un bonnet rouge au dictionnaire», letteralm~nte «mettere un berretto rosso al dizionario». L'espressione fa riferimento atl un verso delle Contemplations, l, 7. (« ..• Et sur les bataillons d'alexandrins carrés / Je fis soufler un vent révolutionnaire / Je mis un bonnet rouge au dictionnaire») e ha significato sociale e politico al tempo stesso. Cfr. il riferimento al noto berretto frigio in uso durante la Rivoluzione francese (N.d.t.).
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effetti delle leggi dell'evoluzione, contribuisce notevolmente a rendere subalterni alcuni usi della lingua e a consacrare l'uso dominante come il solo legittimo, per il solo fatto di inculcarlo. Tuttavia, legare direttamente l'attività degli scrittori o dei professori all'effetto cui essa contribuisce oggettivamente, cioè la svalutazione della lingua comune che deriva dall'esistenza stessa di una lingua letteraria, significherebbe ignorare l'essenziale: coloro i quali sono impegnati nel campo letterario contribuiscono al dominio simbolico solo perché gli effetti, che essi sono spinti a ricercare per la loro posizione nel campo e per gli interessi a questa connessi, simulano ai loro occhi e a quelli degli altri gli effetti esterni che .in genere sorgono, e l'effetto stesso del riconoscimento della lingua comune. Le particolarità dell'eccellenza linguistica sono, per esprimerci in due parole, la distinzione e la correzione. Il lavoro che si compie in campo letterario produce le forme di una lingua originale, realizzando un insieme di derivazioni che hanno come principio uno scarto rispetto agli usi più frequenti, cioè «comuni», «correnti», «volgari». La distinzione nasce sempre dallo scarto, volontario o no, rispetto all'uso più diffuso, «luoghi comuni», «sentimenti abituali», toni «triviali», espressioni «volgari», stile «scorrevole» 24 • Le definizioni degli usi della lingua così come degli stili di vita sono sempre relazionali: il linguaggio «ricercato», «scelto», «nobile», «alto», «castigato», «sostenuto», «distinto», porta in sé un riferimento negativo (lo indicano le stesse parole che lo definiscono) al linguaggio «comune», «corrente», «abituale», «parlato», «familiare» o, per andare oltre, «popolare», «crudo», «grossolano», «trascurato», «libero», «triviale», «volgare» (senza parlare dell'innominabile charabia, del «gergo», del «francese approssimativo e scorretto» o del «linguaggio misto»). Le opposizioni che danno origine a questa serie e che, prese in prestito dalla lingua legittima, si 24 Posdamo contrapporre uno stile in sé, prodotto oggettivo di una «scelta» inconscia o anche forzata (come la «scelta» oggettivamente estetica di un mobile o di un vestito, imposta dalla necessità economica), ad uno stile per sé, prodotto di una scelta che, anche se vissuta come libera e «pura», è essa stessa determinata, ma dalle regole specifiche dell'economia dei beni simbolici, come ad esempio il riferimento esplicito o implicito alla scelta forzata di coloro che non hanno scelta; il lusso stesso non ha senso se non in rapporto alla necessità.
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organizzano secondo il punto di vista dei dominanti, sono sostanzialmente due: l'opposizione tra «distinto» e «volgare» (o «raro» e «comune») e l'opposizione tra «forzato» (o «sostenuto») e «trascurato» (o «libero»), che rappresenta certamente la precisazione, nella gradazione della lingua, dell'opposizione precedente, cli applicazione più generale. Come se il principio della gerarchizzazione dei modi di parlare di classe non fosse altro che il livello di controllo che essi manifestano e l'intensità della correzione che essi presuppongono. E, effettivamente, la lingua legittima è una lingua semiartificial~ che deve essere sostenuta da un lavoro permanente di correzione, che incombe sulle istituzioni particolarmente preposte a tale scopo e, nello stesso tempo, sui singoli locutori. Attraverso la mediazione dei grammatici, che fissano e codificano l'uso legittimo, e dei maestri, che lo impongono e lo inculcano con innumerevoli azioni di correzione, il sistema scolastico tende, in questo campo come altrove, a produrre il bisogno dei propri esercizi e dei propri prodotti, lavoro e strumenti di correzione 25 • La lingua legittima deve la sua costanza (relativa) nel tempo (come nello spazio) al fatto di essere continuamente preservata, attraverso una prolungata azione di ammaestramento, dalla tendenza all'economia dello sforzo e della tensione, che porta, ad esempio, alla semplificazione analogica (vous faisez e vous disez per Qous faites e vous dites). Per di più, l'espressione esatta, cioè corretta, deve le sue caratteristiche sociali al fatto che essa può essere prodotta solo da locutori che abbiano la padronanza pratica delle regole colte, esplicitamente elaborate attraverso un lavoro di codificazione e espressamente inculcate attraverso un lavoro pedagogico. 25 Tra gli errori causati dall'uso di concetti come quelli di «apparato» o di «ideologia», il cui ingenuo finalismo è elevato a potenza dagli «apparati ideologici di Stato», non è irrilevante l'errore causato dall'ignoranza dell'eco.nomta delle istituzioni di produzione di beni culturali: basti pensare ad ese~pi~ all'industria culturale orientata verso la produzione. di servizi e strumenti di correzione linguistica (con, tra l'altro, l'edizione di libri di testo, grammatiche: dizionari, «guide alla corrispondenza», «raccolte di dlscorsi modello», per bambini, ecc.) e alle migliaia di agenti che operano nei settori fubbli~i ~ privati i cui inter~i materiali e simbolici più vitali sono inv~ti nei giochi di concorrenza che li portano a contribuire, per per il decesso del Presidente Anouar Sadat». Il portavoce autorizzato è colui al quale spetta di parlare in nome della collettività; ciò gli spetta per privilegio e per dovere, è la sua propria funzione, la sua competenza (nel senso giuridico della parola). L'essenza sociale è l'insieme di questi attributi e di queste funzioni sociali, prodotti dall'atto di istituzione come atto solenne di categorizzazione che tende a produrre ciò che esso designa. In questo modo l'atto di istituzione è un atto di comunicazione particolare: esso significa a qualcuno la propria identità, nel senso che gliela esprime e gliela impone dichiarandola di fronte a tutti (kategoresthai, in origine: accusare pubblicamente), chiarendogli così con autorità ciò che egli è e deve essere. Esemplare di ciò è il caso dell'ingiuria, una sorta di maledizione (sacer significa anche maledetto) che cerca di circoscrivere la sua vittima in un'accusa che funziona come un destino. Come anche, e forse in maniera più pregnante, il caso dell'investitura o della nomina, un giudizio di attribuzione sociale che dà a colui che ne è l'oggetto tutto ciò che è insito nella definizione sociale. È attraverso l'effetto di attribuzione statutaria (noblesse oblige) che il rituale di istituzione produce i suoi effetti più «reali»: colui che è istituito si sente in dovere di essere conforme alla sua definizione, all'altezza della sua funzione. L'erede designato (secondo un criterio più o meno arbitrario) è riconosciuto e
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trattato come tale da tutto il gruppo, e innanzitutto dalla sua famiglia, e questo trattamento differente e distintivo non può che incoraggiarlo a realizzare la sua essenza, a vivere conformemente alla sua natura sociale. I sociologi della scienza hanno stabilito che i più grandi successi scientifici sono da attribuire ai ricercatori formatisi nelle istituzioni scolastiche più prestigiose: questo si spiega in parte con la crescita del livello delle aspirazioni soggettive che determinano il riconoscimento collettivo, cioè oggettivo, di queste aspirazioni e l'assegnazione a una classe di agenti (gli uomini, gli studenti delle scuole superiori, gli scrittori consacrati, ecc.) ai quali queste vocazioni sono accordate e riconosciute come diritti o privilegi (in contrasto con le pretese dei pretendenti), ma anche assegnate, imposte come doveri, attraverso incessanti incoraggiamenti e richiami all'ordine. Penso al disegno di Schulz in cui Snoopy, appeso al tetto della sua cuccia, dice: «Come si può essere modesto quando si è il migliore?». Bisognerebbe dire semplicemente: quando è pubblicamente noto - effetto di ufficializzazione - che si è il migliore, aristos. «Diventa ciò che sei». Questa è la formula che sottende la magia performativa di tutti gli atti di istituzione. L'essenza data dalla nomina, l'investitura, è, nel vero significato, unjatum (ciò vale soprattutto per le ingiunzioni, talvolta tacite, talvolta esplicite che i membri della famiglia rivolgono continuamente al bambino e che variano per intenzione e intensità secondo la classe sociale e, all'interno di questa, secondo il sesso e il rango dei membri del gruppo). Tutti i destini sociali, positivi o negativi, consacrazione o stimmate, sono egualmente fatali, voglio dire mortali, poiché confinano coloro che essi distinguono in limiti che sono loro assegnati e che essi stessi fanno loro riconoscere. L'erede che si rispetti si comporterà come erede e sarà ereditato dall'eredità, secondo la formula di Marx; cioè investito dalle cose, appropriato dalle cose di cui egli si è appropriato. Salvo incidenti, naturalmente; c'è infatti l'erede indegno, il prete che getta il saio alle ortiche, il nobile che deroga o il borghese che degenera. Ritroviamo il confine, il limite sacro. Della muraglia di Cina, Owen Lattimore diceva che essa non aveva solo la funzione di impedire agli stranieri di entrare in Cina, ma anche quella di impedire ai Cinesi di uscirne: la funzione di tutti i
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confini magici - che si tratti del confine tra maschile e femminile, o tra eletti e esclusi in un sistema scolastico - è quella di impedire a coloro che sono all'interno e dal lato buono della linea, di uscirne, di derogare, di degradarsi. Le élites, diceva Pareto, sono destinate alla «decadenza» quando smettono di credere, quando perdono il morale e la morale, e oltrepassano la linea, dal lato sbagliato. Un'altra funzione dell'atto di istituzione è anche quella di scoraggiare sempre la tentazione del passaggio, della trasgressione, della diserzione, delle dimissioni. Tutte le aristocrazie devono spendere molte energie per fare accettare agli eletti i sacrifici implicati nel privilegio o nell'acquisizione delle modalità durature che rappresentano la condizione della conservazione del privilegio. Quando il partito dei dominanti è quello della cultura, cioè, quasi sempre, dell'ascesa, della tensione e dello sforzo, il lavoro di istituzione deve fare i conti con la tentazione della natura, o della contro-cultura. (Vorrei indicare, tra parentesi, che parlando del lavoro di istituzione e considerando l'attività, più o meno dolorosa, d'inculcare modalità durature una componente essenziale dell'operazione sociale dell'istituzione, non faccio altro che dare il suo pieno significato alla parola istituzione. Avendo ricordato, seguendo Poincaré, l'importanza della scelta delle parole, non penso sia inutile indicare che basta raccogliere i diversi significati di instituere e institutio per avere l'idea di un atto inaugurale di costituzione, di fondazione, di un'invenzione, cioè, che porta attraverso l'educazione a modalità durature, ad abitudini e usi). La strategia universalmente adottata per evitare la tentazione di derogare consiste nel naturalizzare la differenza, nel farne una seconda natura inculcandola e incorporandola sotto forma di habitus. Cosi si spiega il ruolo impartito alle pratiche ascetiche, cioè alla sofferenza corporea nei riti negativi, destinati, come dice Durkheim, a produrre persone fuori del comune, distinte anche negli apprendimenti universalmente imposti ai nuovi membri dell'élite (apprendimento di lingue morte, isolamento prolungato, ecc.). Tutti affidano al corpo, considerato come memoria, i loro depositi più preziosi, e si comprende così l'uso che i riti di iniziazione fanno, in ogni società, delle sdfferenze inflitte al corpo, se si tiene conto che, come hanno dimostrato molte esperienze psicologiche, le persone aderiscono tanto più fortemente a un'istituzione quanto più i riti di iniziazione che essa ha
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imposto loro sono severi e dolorosi. L'inculcare, il lavoro attraverso il quale si realizza l'imposizione duratura del confine arbitrario, può mirare a naturalizzare le cesure decisorie che fanno parte di un arbitrario culturale - quelle che si esprimono nella coppia fondamentale di opposizione, maschile/femminile, ecc. - , sotto forma di senso del limite, che spinge gli uni a mantenere la loro posizione e a conservare le distanze e gli altri a stare al loro posto e a contentarsi di ciò che sono, a essere ciò che devono essere, privati così anche della stessa privazione. Esso può anche tendere a inculcare modalità durature, come i gusti di classe che, essendo all'origine delle «scelte» dei segni esterni, che evidenziano la posizione sociale e cioè l'abbigliamento, ma anche l'hexis corporea, o il linguaggio, trasformano gli agenti sociali in portatori di segni distintivi (i cui segni di distinzione sono solo una sottoclasse) in grado di unire e di separare sia i confini che i divieti espliciti, per esempio, l'omogamia di classe. Più che i segni esterni al corpo, come le decorazioni, le uniformi, i galloni, le bandiere, ecc., i segni interni, cioè tutto ciò che chiamiamo modi (il modo di parlare - gli accenti -, il modo di camminare o di comportarsi, tandatura, il portamento, il modo di mangiare, ecc., e il gusto, l'origine, cioè, della produzione di tutte le pratiche destinate, con o senza intenzione, a significare e a rivelare la posizione sociale attraverso il gioco delle differenze distintive), sono destinati a funzionare come richiami all'ordine, attraverso i quali si ricorda a coloro che potrebbero dimenticarlo il posto assegnato loro dall'istituzione. La forza del giudizio categorico di attribuzione, realizzato dall'istituzione, è così grande da poter resistere a tutte le smentite pratiche. Sono note le analisi di Kantorowicz a proposito dei «due corpi del re»: il re consacrato sopravvive al re biologico, mortale, esposto alle malattie, all'imbecillità o alla morte. Allo stesso modo, se lo studente dell'Ecole Polytechnique si rivela non portato per la matematica, noi pensiamo che egli lo faccia di proposito e che abbia investito le sue capacità in cose più importanti. Il migliore esempio, tuttavia, dell'autonomia dell'ascription dall'achievement - possiamo per una volta ricordare Talcott Parsons -, oppure dell'autonomia dell'essere sociale dal fare, è certamente fornito dalla possibilità di ricorrere a strategie di condiscendenza che permettono di spingere più lontano la smentita della definizione sociale senza che si cessi pertanto di
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essere percepiti attraverso di essa. Chiamo strategie di condiscendenza le trasgressioni simboliche del limite che permettono di avere contemporaneamente i profitti della conformità alla . definizione e quelli della trasgressione: è il caso dell'aristocratico che dà una pacca allo stalliere e di cui si dice «è alla mano» (sottinteso per un aristocratico, cioè per un uomo la cui essenza superiore non prevede una tale condotta). Nei fatti, la cosa non è così semplice e bisognerebbe introdurre una distinzione: Schopenhauer parla da qualche parte di «comico pedante», cioè della risata provocata da un personaggio quando compie un'azione non inscritta nei limiti del suo concetto (come se, dice, un cavallo si mettesse a defecare a teatro) e pensa ai professori, ai professori tedeschi, come il professor Unrat dell'Angelo Azzurro 1, il cui concetto è cosi fortemente definito che la trasgressione dei limiti è chiaramente visibile. A differenza del professor Unrat che, trasportato dalla passione, perde il senso del ridicolo o, il che è lo stesso, della dignità, colui che è consacrato sceglie deliberatamente di oltrepassare il limite, ha il privilegio dei privilegi, quello che consiste nel prendersi delle libertà in virtù di questo privilegio. È cosi che nel campo dell'uso della lingua i borghesi, e soprattutto gli intellettuali possono permettersi delle forme di ipocorrezione, di rilassamento, proibite ai piccolo-borghesi, che sono invece condannati all'ipercorrezione. Insomma, uno dei privilegi della consacrazione consiste nel fatto che, dando agli investiti un'essenza indiscutibile e indelebile, essa autorizza trasgressioni altrimenti proibite: colui che è sicuro della propria identità culturale può giocare con la regola del gioco culturale, può giocare col fuoco, può dire che gli piace Cajkovskij o Gershwin, o anche, è questione di « faccia tosta», Aznavour o i films di serie B. Atti di magia sociale così differenti come il matrimonio o la circoncisione, la collazione di gradi o di titoli, la vestizione del cavaliere, la nomina, le cariche, gli onori, l'imposizione di una sigla, l'atto di apporre una firma o un ghirigoro, hanno successo solo se l'istituzione, nel senso attivo di atto che tende a istituire qualcuno o qualcosa perché dotato di questo o di quello status, di 1 Il personaggio del romanzo di Heinrich Mann Il' dell'omonimo film di Von Stemberg del 1930, professore apparentemente rigido che perde la testa per una ballerina (N.d.t.).
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questa o di quella proprietà, è garantita da tutto il gruppo o da un'istituzione riconosciuta: quand'anche questo atto fosse compiuto da un agente singolo, debitamente autorizzato a farlo con forme legittime, cioè secondo convenzioni ritenute convenienti per luogo, strumenti, momento, ecc., e il cui insieme forma il rituale conforme, cioè socialmente valido, dunque efficiente, esso troverebbe fondamento nella fede di tutto un gruppo (che può essere fisicamente presente), cioè nelle modalità socialmente disposte a conoscere e a riconoscere le condizioni istituzionali di un rituale valido (il che implica che l'effettualità simbolica del rituale varierà, simultaneamente o successivamente, secondo il grado cui i destinatari sono più o meno preparati e che essi sono più o meno disposti ad accogliere). È quanto dimenticano i linguisti che, sulla scia di Austin, cercano nelle parole stesse la «forza illocutoria» che esse detengono talvolta in quanto performative. Diversamente dall'impostore, che non è colui che gli altri credono, che, in altre parole, usurpa il nome, il titolo, i diritti o gli onori di un altro, diversamente anche dal semplice «facente-funzione», supplente o ausiliario che ha il ruolo di direttore o di professore, senza possedere i giusti titoli, il mandatario legittimo, ad esempio il portavoce autorizzato, è un oggetto di fede garantito, certificato nella sua conformità; egli ha la realtà della sua apparenza, è realmente ciò che gli altri credono sia perché la sua realtà - di prete, di professore o di ministro-, è fondata non sulla fede o sulla pretensione singola (sempre esposta a essere contestata e sminuita: per chi si prende?, chi crede di essere?, ecc.), bensì sulla fede collettiva, garantita dall'istituzione e materializzata dal titolo o da simboli come i galloni, l'uniforme o altri attributi. Le testimonianze di rispetto, quelle che consistono ad esempio nel chiamare qualcuno col suo titolo (Signor Presidente, Eccellenza, ecc.), sono altrettante ripetizioni dell'atto inaugurale di istituzione compiuto da un'autorità universalmente riconosciuta, dunque basata sul consensus omnium; essi hanno valore di giuramento di fedeltà, di testimonianza di riconoscimento nei riguardi della persona particolare alla quale essi si rivolgono, soprattutto nei riguardi dell'istituzione che l'ha istituita (per questo il rispetto delle forme e delle forme di rispetto, il quale determina la cortesia, è così profondamente politico). La fede di tutti, preesistente al rituale, è la condizione dell'effettualità del rituale. Si sfondano solo porte aperte. E il
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senso di sorpresa che fa nascere l'effettualità simbolica svanisce, se si pensa che la magia...delle parole non fa che palesare schemi - le disposizioni - precostituiti. Per concludere, vorrei porre un problema che, temo, potrà sembrare metafisico: i riti di istituzione, qualunque essi siano, non potrebbero esercitare il potere che hanno (penso al caso più evidente, quello delle «illusioni», come diceva Napoleone, come le decorazioni e altri segni di distinzione) se non fossero capaci di dare almeno l'apparenza di un senso e di una ragione d'essere a esseri che non hanno ragione di esistere: gli esseri umani; di dare, in breve, loro la sensazione di avere una funzione o, più semplicemente, una importanza e di strapparli cosi all'insignificanza. Il vero miracolo prodotto dagli atti di istituzione consiste nel fatto che essi lasciano credere, agli individui consacrati, che essi hanno un motivo di esistere, che la loro esistenza serve a qualcosa. Ma, per una sorta di maledizione, la natura essenzialmente diacritica, differenziale, distintiva del potere simbolico fa in modo che l'accesso della classe eletta all'Essere abbia come contropartita la caduta inevitabile della classe complementare nel Nulla o nell'infimo Essere.
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La confusione dei dibattiti intorno alla nozione di regione e, più genericamente, di «etnìa» o di «etnicità» (eufemismi colti che hanno sostituito la nozione di «razza», comunque sempre presente nella pratica) è dovuta, da un lato, al fatto che la preoccupazione di sottomettere alla critica logica i categoremi del senso comune, emblemi o stimmate, e di sostituire ai principi pratici del giudizio quotidiano i criteri logicamente controllati e empiricamente fondati della scienza, porta a trascurare che le classificazioni pratiche sono sempre subordinate a funzioni pratiche e orientate alla produzione di effetti sociali; dall'altro lato, al fatto che le rappresentazioni pratiche più esposte alla critica scientifica (ad esempio, i discorsi dei militanti regionalisti sull'unità della lingua occitana) possono contribuire a produ"e ciò che apparentemente esse descrivono o designano, cioè la realtà oggettiva alla quale li sottopone la critica oggettivista per mostrarne le illusioni e le incoerenze. Ma, più profondamente, la ricerca dei criteri oggettivi dell'identità «regionale» o «etnica» non deve far dimenticare che, nella pratica sociale, questi criteri (ad esempio, la lingua, il dialetto o l'accento) sono oggetto di rappresentazioni mentali, cioè di atti di percezione e di valutazione, di conoscenza e riconoscimento, nei quali gli agenti investono i loro interessi e presupposti, e di rappresentazioni oggettuali in cose (emblemi, bandiere, simboli, ecc.) o in atti, strategie di manipolazione simbolica che mirano a determinare la rappresentazione (mentale) che gli albi possono farsi di queste proprietà e di coloro che ne sono portatori. In altre parole, i tratti e i criteri, che gli
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etnologi e i sociologi oggettivisti esaminano sulla base della loro percezione e valutazione nella pratica, funzionano come segni, emblemi o stimmate, e anche come poteri. Stando cosi le cose, e non ~ndovi soggetto sociale che possa ignorare praticamente ciò, le proprietà (oggettivamente) simboliche, fossero anche le più negative, possono essere utilizzate strategicamente in funzione degli interessi materiali, ma anche simbolici, del loro portatore 1 • È possibile capire quella forma particolare di lotta per le classificazioni che è la lotta per la definizione dell'identità «regionale» o «etnica», solo se si supera l'opposizione che la scienza opera, per rompere con le prenozioni della sociologia spontanea, tra la rappresentazione e la realtà, e a condizione di includere nel reale la rappresentazione del reale, o, più esattamente, la lotta delle rappresentazioni, nel senso di immagini mentali, ma anche di manifestazioni sociali destinate a manipolare le immagini mentali (e anche nel senso di deleghe incaricate di organizzare le manifestazioni che possono modificare le rappresentazioni mentali). Le lotte per l'identità etnica o regionale, cioè per le caratteristiche (stimmate o emblemi) legate all'origine attraverso il luogo d'origine e i segni durevoli relativi ad esso (come ad esempio l'accento), rappresentano un caso particolare delle lotte per le classificazioni, lotte per il monopolio del potere di far vedere e di far credere, di far conoscere e di far riconoscere, di imporre la definizione legittima delle divisioni del mondo sociale e di fare e disfare i gruppi: esse hanno infatti come obiettivo il potere di imporre una visione del mondo sociale attraverso principi di divisione che, quando si impongono al gruppo intero, producono il senso e il consenso sul senso, in particolare sull'identità e sull'unità del gruppo, il che costituisce poi la realtà stessa dell'unità e dell'identità del gruppo. L'etimologia della parola 1 La difficoltà che esiste nel concepire adeguatamente l'economia del simbolico si nota ad esempio nel fatto che un certo autore (o. PAlTEIISON, Conte:rt and Choice in Ethnic Allegiance: A. Theo1'etical F1'amewo1'k and Caribbean Case Study, in Ethntcity, Theory and Experience, Ed. N. Glazer e D.P. Moynihan, Cambridge, Mass, Harward University Press, 1975, pp. 305-349) sfuggendo per caso all'idealismo culturalista che è di regola in questi campi, permette la manipolazione strategica dei tratti «etnici», riduce l'interesse che egli pone all'origine di queste strategie ad un interesse strettamente economico, ignorando cosi tutto ciò che, nella lotta per le classificazioni, obbedisce alla ricerca della massimizzazione del prodotto simbolico.
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regione (regio), così com'è descritta da Émile Benveniste, riporta all'origine della divisione, atto magico, cioè propriamente sociale di diacrisi.s che introduce per decreto una discontinuità definitiva nella continuità naturale (tra le regioni dello spazio, ma anche tra le età, i sessi, ecc.). Regere fines, l'atto che consiste nel «tracciare con linee diritte i confini», nel separare «l'interno dall'esterno, il regno del sacro dal regno del profano, il territorio nazionale dal territorio straniero», è un atto religioso compiuto dal personaggio investito della più alta autorità, il rex, responsabile di regere sacra, di fissare le regole che danno vita a ciò che esse dettano, di parlare con autorità, di pre-dire, nel senso di chiamare in vita, con un dire esecutorio, ciò che si dice, di far avverare il futuro che si enuncia 2 • La regio e i suoi confini (Jines) sono solo la traccia morta dell'atto di autorità che consiste nel circoscrivere il paese, il territorio (che si dice anche fines), nell'imporre la definizione (altro significato di jinis) legittima, conosciuta e riconosciuta, dei confini e del territorio, insomma il principio di di-visione legittima del mondo sociale. Questo atto di diritto, che consiste nell'affermare con autorità una verità che ha forza di legge, è un atto di conoscenza che, fondato come tutti i poteri simbolici sul riconoscimento, dà vita a ciò che enuncia (l'auctoritas, come ricorda ancora Benveniste, è la capacità di produrre dell'auctor) 3 • Anche se egli non fa altro che dire con autorità ciò che è, e anche se si contenta di enunciare l'essere, l'auctor produce un cambiamento nell'essere: per il fatto di dire le cose con autorità, cioè di fronte a tutti e in nome di tutti, pubblicamente e ufficialmente, egli le sottrae all'arbitrario, le sanziona, le santifica, le consacra, facendole esistere come degne di esistere, come conformi alla natura delle cose, come «naturali». Nessuno direbbe oggi che esistono criteri atti a fondare classificazioni «naturali» in regioni «naturali» separate da confini «naturali». Il confine 'non è altro che il prodotto di una divisione più o meno fondata nella «realtà» a seconda che gli elementi che essa raccoglie abbiano più o meno somiglianze reciproche forti 2 E. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II, «Pouvoir, droit, religion», Paris, Ed. de Minuit, 1969, pp. 14-15 (e anche, a proposito di Krainein, come potere di predire, p. 41) [tr. it., cit, II, Potere. Diritto. Religione]. 3 E. BENVENISTE, Le vocabulaire, cit., pp. 150-151.
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(dato per scontato che si potrà sempre discutere sui limiti delle variazioni tra gli elementi non identici che la tassonomia considera simili). Tutti concordano nell'osservare che le «regioni» delimitate in funzione dei diversi criteri concepibili (lingua, habitus, cultura ecc.) non coincidono mai perfettamente. Ma non è tutto: la «realtà», in questo caso, è sociale da ogni lato e le classificazioni più naturali si appoggiano a tratti che non hanno nulla di naturale e che sono, in gran parte, frutto di una imposizione arbitraria, cioè di uno stato precedente del rapporto di forza nel campo delle lotte per la delimitazione legittima. Il confine, che è il prodotto di un atto giuridico di delimitazione, produce la differenza culturale nella misura in cui ne è il prodotto: basti pensare alrazione del sistema scolastico in campo linguistico per renderci conto di come la volontà politica possa disfare ciò che la storia ha fatto 4. Così, la scienza che pretende di proporre i criteri più attendibili deve guardarsi dal dimenticare che essa non fa altro che registrare uno stato della lotta per le classificazioni, cioè uno stato del rapporto delle forze materiali o simboliche tra coloro che sono legati all'una o all'altra modalità di classificazione, e che invocano spesso l'autorità scientifica per dare fondamenti reali e ragionati alla divisione arbitraria che intendono imporre. Il discorso regionalistico è un discorso performativo che mira a imporre come legittima una nuova definizione dei confini e a far conoscere e riconoscere la regione così delimitata contro la 4 La differenza culturale è certamente il prodotto di una dialettica storica della differenziazione cumulativa. Come Paul Bois ha mostrato a proposito dei contadini dell'Ovest le cui scelte politiche sfidavano la geografia elettorale, ciò che crea la regione non è lo spazio bensì il tempo, la storia (P. BOIS, Paysans de l'Ouest, Des structures économiques et sociales aux optlons politlques depuis l'époque révolutlonnaire, Paris-La Haye, Mouton, 1960) [tr. it. Contadini dell'Ovest, a cura di L. Accati, Rosemberg e Sellier, 1975]. Si potrebbe fare la stessa dimostrazione a proposito delle «regioni1> berberofone che, al termine di una storia differente, erano abbastanza «diverse» dalle «regioni» arabofone, da suscitare nei colonizzatori trattamenti diversi (ad esempio nella scolarizzazione), dunque in grado di rinforzare le differenze che avevano utilizzato come pretesto e produrne nuove (quelle legate all'emigrazione verso la Francia, ad esempio), e così via. Fino ai «paesaggi» e ai «suoli» cari ai geografi, eredità, cioè prodotti storici di determinismi sociali (cfr. c. REBOUL, Determinants sociaux de la fertilité des sols in «Actes de la recherche en sciences sociales », 17-18 nov. 1977, pp. 85-112. Nella stessa logica e contro l'uso ingenuamente «naturalistico» del col)cetto di «paesaggio», bisognerebbe analizzare l'influenza dei fattori sociali sui processi di «desertificazione»).
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definizione dominante che l'ignora, e che esso disconosce e, dunque, riconosce e legittima. L'atto di categorizzazione, nel momento in cui è riconosciuto o è esercitato da un'autorità riconosciuta, esercita da sé solo un potere; le categorie «etniche» o «regionali», come le categorie di parentela, istituiscono una realtà servendosi del potere di rivelazione e di costruzione esercitato attraverso l'oggettivazione nel discorso. Il fatto di chiamare «occitana» 5 la lingua parlata da coloro che sono detti «Occitani» per il fatto stesso di parlare questa lingua (che nessuno parla veramente perché essa è il risultato di molti modi di parlare differenti) e di nominare «Occitania» la regione (nel senso di spazio fisico) dove questa lingua è parlata, pretendendo così di farla esistere come «regione» o come «nazione» (con tutte le implicazioni storiche che hanno questi concetti nel momento considerato), è una finzione che produce certamente un effetto 6 • L'atto di magia sociale, -ehe -consiste. nel dare vita alle cose nominate, può avere effetto solo se colui che lo compie è in grado di far riconoscere alla sua parala il potere che essa si arroga attraverso una usurpazione provvisoria o definitiva, e cioè il potere di imporre una nuova visione. e una nuova divisione del mondo sociale: regere jines, regere sacra, consacrare un nuovo -limite. L'effettualità del discorso performativo, che pretende di far avverare ciò che enuncia nell'atto stesso di enunciarlo, è proporzionale all'autorità di colui che lo proferisce: la formula «Vi autorizzo a partire» non è, eo ipso, un'autorizzazione se colui che lo dice non è autorizzato ad autorizzare, se cioè egli non ha autorità per autorizzare. Ma l'effetto di conoscenza, che esercita l'oggettivazione nel discorso, non dipende solo dal riconoscimento accordato a colui che tiene un discorso, ma anche dalla misura in cui il discorso, che annuncia al gruppo la sua identità, è fondato nell'oggettivazione del gruppo cui si rife5 L'aggettivo «occitano» e, a fortiori, il sostantivo «Occitania» sono parole colte e recenti (create attraverso la latinizzazione della lingua d'oc in lingua occitana), destinate a designare realtà colte che, almeno per ora, esistono solo sulla carta. 6 Di fatto, questa lingua è un artefatto sociale, inventata al prezzo di un'indifferenza definitiva alle differenze, che produce a livello della «regione» l'imposizione arbitraria di una norma unica contro la quale si rivolge il regionalismo e che potrebbe assurgere a vera origine degli usi linguistici solo al prezzo di un ammaestramento sistematico e analogo a quella che ha imposto l'uso generalizzato del francese.
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risce, cioè dal riconoscimento e dal credito che gli accordano i
membri del gruppo e anche dalle caratteristiche economiche e culturali che essi hanno in comune, perché è solo in funzione di un principio determinato di pertinenza che può venir fuori il legame tra queste proprietà. Il potere esercitato sul gruppo, che si intende far esistere, è inseparabile dal potere di fare il gruppo, esso impone principi di visione e di divisione comuni, dunque una visione unica della sua identità e una visione identica della sua unità 7 • Il fatto che le lotte per l'identità, per un essere percepiti che esiste fondamentalmente per riconoscimento degli altri, abbiano come obiettivo l'imposizione di percezioni e categorie di percezione, spiega il posto determinante che la dialettica della manifestazione, come del resto la strategia del manifesto nei movimenti artistici, occupa in tutti i movimenti regionalistici o nazionalistici 8 : il potere quasi magico delle parole dipende dal fatto che l'oggettivazione e l'ufficializzazione compiuta dalla nomina pubblica, di fronte a tutti, ha come effetto quello di sottrarre la particolarità, che è all'origine del particolarismo, all'impensato, cioè all'impensabile (è il caso del patois, una lingua innominabile, che si impone come lingua in grado di essere parlata pubblicamente); l'ufficializzazione trova il suo compimento nella manifestazione, atto tipicamente magico (il che non vuol dire che esso sia sprovvisto di efficacia) attraverso il quale il gruppo empirico - virtuale, ignorato, negato, rimosso - si rende visibile, manifesto, agli altri gruppi e a se stesso, attestando così la sua esistenza come gruppo conosciuto e riconosciuto e, dunque, aspirante alla istituzionalizzazione. Il mondo sociale è così rappresentazione e volontà, ed esistere socialmente è anche essere percepito e percepito come distinto. 7 I fondatori della Scuola Repubblicana si davano esplicitamente come scopo quello di inculcare, tra l'altro, attraverso l'imposizione della lingua «nazionale», il sistema comune di categorie di percezione e di valutazione in grado di creare una visione unitaria del mondo sociale. 8 Il legame, ovunque attestato, tra i movimenti regionalistici e i movimenti femministi (e anche ecologici) dipende dal fatto che tali movimenti, diretti contro le forme di dominazione simbolica, presuppongono disposizioni etniche e competenze culturali (visibili nelle strategie usate) che si incontrano piuttosto nell'intellighenzia e nella piccola borghesia recente (cfr. P. BOURDIEU, La dtstinctton, Paps, Ed. de Minuit, 1979, in particolare le pp. 405-431) [tr. it. La Dtstinzione,'Critica Sociale del Gusto, a cura di G. Viale, Bologna, Il Mulino, 1983].
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In realtà, non si deve scegliere tra l'arbitraggio oggettivistico, che commisura le rappresentazioni (in tutti i significati del termine) alla «realtà», dimenticando che esse possono far avverare nella realtà, attraverso l'effettualità propria dell'evocazione, ciò che rappresentano, e l'impegno soggettivistico che, privilegiando la rappresentazione, ratifica sul terreno della scienza il falso che è presente nella scrittura sociologica e che consente ai militanti di passare dalla rappresentazione della realtà alla realtà della rappresentazione. Si può sfuggire a tale alternativa, prendendola come oggetto o, più precisamente, considerando, nell'ambito della scienza dell'oggetto, i fondamenti oggettivi dell'alternativa tra oggettivismo e soggettivismo, che divide la scienza e le impedisce di afferrare la logica specifica del mondo sociale; questa «realtà» è il luogo di una lotta permanente per la definizione della «realtà». Afferrare in un colpo solo ciò che è istituito, senza dimenticare che si tratta solo della risultante, in un momento determinato, della lotta per far esistere o «non esistere» ciò che esiste, e le rappresentazioni, enunciati performativi che aspirano a far esistere ciò che essi enunciano, ristabilire contemporaneamente le strutture oggettive e il rapporto con queste strutture, a partire dall'ambizione a trasformarle, significa fornire a se stessi il mezzo per comprendere meglio la «realtà» e, dunque, per prevedere con più esattezza le sue potenzialità e, più precisamente, le possibilità che essa offre oggettivamente alle diverse ambizioni soggettive. Quando è ripreso nelle lotte per la classificazione che esso si sforza di oggettivare - e, a meno di vietarne la divulgazione, non si vede come sia possibile impedirgli questo uso - il discorso scientifico si rimette a funzionare nella realtà delle lotte per la classificazione: esso è destinato ad apparire come critico o complice, secondo il rapporto complice o critico che il lettore intrattiene con la realtà descritta. Cosi, il solo fatto di mostrare può funzionare come modo di additare, mettere all'indice, mettere sotto accusa (Kategoresthai) o, al contrario, come modo di far vedere e volere. Ciò vale sia per le classificazioni in classi che per le classificazioni in «regioni» o in «etnìe». Da questo sorge la necessità di esplicitare completamente la relazione tra le lotte per il principio di divjsione legittima, che si svolgono in campo scientifico, e le lotte che si svolgono in campo sociale (e che, per la loro logica particolare, concedono grande
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importanza agli intellettuali). Ogni presa di posizione che aspira all'«oggettività» rispetto all'esistenza attuale o potenziale, reale o prevedibile di una regioJ:Ie, di un'etnia o di una cl~ sociale e, ad un tempo, rispetto alla pretesa di istituzione che si afferma nelle rappresentazioni «partigiane», co~tituisce una patente di realismo o un verdetto di utopismo, che contribuisce a determinare le possibilità oggettive che questa entità sociale ha per accedere all'esistenza 9. L'effetto simbolico che il discorso scientifico esercita, consacrando uno stato delle divisioni e della visione delle divisioni, è tanto più inevitabile quanto più, nelle lotte simboliche per la conoscenza e il riconoscimento, i criteri detti «oggettivi», quelli stessi che conoscono gli studiosi, sono utilizzati come armi: essi designano i tratti sui quali può basarsi l'azione simbolica di mobilitazione.per produrre l'unità reale o la fede nell'unità (tanto nel gruppo che in altri), la quale tende, in particolare attraverso le azioni di imposizione dell'identità legittima (quali quelle esercitate dalla scuola e dall'esercito), a generare l'unità reale. Insomma, i verdetti più «neutri» della scienza contribuiscono a modificare l'oggetto della scienza: dal momento in cui la questione regionale o nazionale è oggettivamente posta nella realtà sociale, foss'anche da una minoranza che agisce (che può trarre profitto dalla sua debolezza anche servendosi della strategia propriamente simbolica della provocazione e della testimonianza per affermare reazioni, simboliche o meno, che implicano un riconoscimento), ogni enunciato sulla regione funziona da argomento in grado di favorire o sfavorire l'accesso della regione al riconoscimento e, per questa via, all'esistenza. Nulla è meno ingenuo del problema che divide gli studiosi: e cioè sapere se bisogna far entrare nel sistema criteri che pertengono non solo alle proprietà cosiddette «oggettive» (come l'ascendenza, il territorio, la lingua, la religione, l'attività economica, ecc.), ma anche quelle cosiddette «soggettive» (come il e Come giudicare, se non come affermazioni obbligatorie della pretesa all'auctoritas magica del censor dumeziliano iscritta nell'ambizione del sociologo, le recite obbligate dei tem canonici sulle classi sociali (ritualmente paragonate.al census statistico) o, ad un livello di ambizione superiore e in uno stile meno classico, le profezie che annunciano «nuove classi» e «nuove lotte» (o il declino ineluttabile delle «vecchie classi» e delle «vecchie» lotte), due generi che occupano un posto notevole nella produzione cosiddetta sociologica?
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sentimento di appartenenza, ecc.), cioè le rappresentazioni che gli agenti sociali si fanno delle divisioni della realtà e che contribuiscono alla realtà delle divisioni 10 • Quando, per la loro formazione e i loro interessi specifici, gli studiosi vogliono essere giudici di tutti i giudizi e critici di tutti i critici, essi si rifiutano di cogliere la logica propria di una lotta in cui la forza sociale delle rappresentazioni non è necessariamente proporzionata al loro valore di verità (commisurata al grado in cui esse esprimono lo stato del rapporto di forze materiali nel momento considerato}: infatti, come pre-visioni, queste mitologie «scientifiche» possono produrre la propria verifica se giungono a imporsi alla fede collettiva e a creare le condizioni della propria realizzazione. Tuttavia, gli studiosi non ottengono migliori risultati quando, rinunciando alla distanza dell'osservatore, si assumono la responsabilità della rappresentazione degli agenti, in un discorso che, a meno di procurarsi i mezzi per descrivere il gioco nel quale si produce questa rappresentazione e la fede sulla quale è fondata, non è altro che uno dei contributi alla produzione di una fede, che si tratterebbe di descrivere nei suoi fondamenti e nei suoi effetti sociali. Si può dire che, finché sottoporranno la loro pratica alla critica sociologica, i sociologi saranno determinati, nel loro orientamento verso l'uno o l'altro dei poli, oggettivista o soggettivista, dell'universo dei rapporti possibili con l'oggetto, da fattori sociali, quali la posizione che essi occupano nella gerarchia sociale della loro disciplina (cioè il loro livello di competenza statutaria che, in uno spazio geografico socialmente gerarchizzato, coincide spesso con la loro posizione centrale o locale, 10 I motivi della ripugnanza spontanea degli «studiosi» verso i criteri «soggettivi» meriterebbero una lunga analisi: esiste il realismo ingenuo che porta ad ignorare tutto ciò che non si può mostrare o toccare con mano; esiste l'economicismo che porta a riconoscere, come determinanti dell'azione sociale, solo quelli visibilmente inscritti nelle condizioni materiali dell'esistenza, vi sono gli interessi legati alle apparenze della «neutralità assiologica» che, in più di un caso, determinano la differenza tra lo «studioso» e il militante e impediscono l'introduzione nel discorso «colto» di problemi e concetti contrari alla danza; c'è infine e soprattutto il punto d'onore scientifico che porta gli o~rvatori - tanto più fortemente quanto meno essi sono garantiti dal loro status e dalla loro scienza - a moltiplicare i segni della rottura con le rappresentazioni del senso comune e a condannarsi ad un oggettivismo riduttore, incapace di far entrare la realtà delle rappresentazioni comuni nella rappresentazione scientifica della realtà.
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fattore questo particolarmente importante quando si tratta di regione o di regionalismo) e anche nella gerarchia tecnica; strategie «epistemologiche» opposte, come il dogmatismo dei seguaci dell'ortodossia teorica e lo spontaneismo dei sostenitori della partecipazione al movimento, hanno, infatti, in comune il fatto di fornire una via di fuga dalle esigenze del lavoro scientifico che consente di non rinunciare alle ambizioni, all'auctoritas, allorché non si può o non si vuole rispondere a queste esigenze, o, perlomeno, alle più apparenti, a quelle, cioè, più scolastiche (come la frequentazione dei testi canonici). Tuttavia, i sociologi possono anche esitare, in balla del rapporto con l'oggetto, tra l'oggettivismo e il soggettivismo, il biasimo o l'elogio, la complicità mistificata e mistificatrice e la demistificazione riduttrice, poiché accettano la problematica oggettiva, cioè la struttura stessa del campo di lotta nel quale la regione e il regionalismo sono in gioco, anziché oggettivarlo; e poiché partecipano al dibattito sui criteri, che permettono di spiegare il senso del movimento regionalista o di predirne il futuro, senza interrogarsi sulla logica di una lotta che ha come effetto precisamente la determinazione del senso del movimento (è regionale o nazionale, progressivo o regressivo, di destra o di sinistra, ecc.) e i criteri in grado di determinare questo senso. In breve si tratta, qui come altrove, di sfuggire all'alternativa tra la registrazione «demistificatrice» dei criteri oggettivi e la ratifica mistificata e mistificatrice delle rappresentazioni e della volontà, per tenere insieme ciò che nella realtà procede insieme: le classificazioni oggettive, cioè incorporate e oggettivate, spesso sotto forma di istituzione (come i confini giuridici) e il rapporto pratico, esercitato o rappresentato, con queste classificazioni e, in particolare, le strategie individuali o collettive (come le rivendicazioni regionaliste) attraverso le quali gli agenti mirano a mettere queste classificazioni al servizio dei loro interessi materiali o simbolici, o a conservarle e trasformarle; o ancora i rapporti di forza oggettivi, materiali o simbolici, e gli schemi pratici (cioè impliciti, confusi e più o meno contraddittori) grazie ai quali gli agenti classificano gli altri agenti e, ad un tempo, valutano la posizione che essi occupano in questi rapporti oggettivi e le strategie simboliche di presentazione e di rappresentazione di sé, che essi oppongono alle classificazioni e alle rappresentazioni (di se stessi) che gli altri impongono loro 11 • 11
La ricerca marxista sulla questione nazionale o regionale si è trovata
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In breve è solo a condizione di esorcizzare il sogno di una « scienza reale» investita del diritto regale di regere fines e di regere sacra, del potere legislativo di decretare l'unione e la separazione, che la scienza può darsi come oggetto il gioco stesso, in cui ci si contende il potere di amministrare i confini consacrati, cioè il potere quasi divino sulla visione del mondo, e in cui non c'è altra scelta, per chi ambisce ad esercitare tale potere (e non a subirlo), che quella di mistificare o di demistificare.
bloccata, e certamente fin dall'origine, dall'effetto dell'utopismo internazionalista (sostenuto da un evoluzionismo semplice) e dall'economicismo, senza parlare degli effetti delle preoccupazioni strategiche del momento, che hanno spesso predeterminato i verdetti di una «scienza» orientata verso la pratica (e sprovvista di una scienza vera e della conoscenza dei rapporti tra la pratica e la scienza). Certamente l'effettualità di questi fattori è ben visibile nelle tesi, tipicamente performative, del primato della solidarietà di classe sulla solidarietà «etnica» o nazionale, spesso smentito dai fatti. Ma l'incapacità di storicizzare questo problema (che, come il problema del primato delle relazioni spaziali o delle relazioni sociali e genealogiche, è posto e risolto nella storia) e la pretesa «teoreticista», incessantemente affermata, di designare le «nazioni vitali» o di produrre i criteri scientifici convalidati dell'identità nazionale (cfr. c. HAUPT, M. LOWY, c. WEILL, Les marxistes et la question nationale, Paris, Maspero, 1974), sembrano dipendere direttamente dal livello al quale il proposito regalista di determinare e di dirigere orienta la conoscenza reale dei confini e dei limiti: non è un caso che Stalin sia l'autore della «definizione» più dogmatica e più essenzialista della nazione.
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Descrivere e prescrivere: le condizioni di possibilità e i limiti dell'effettualità politica
L'azione propriamente politica è po~bile per il fatto che gli agenti, facendo parte del mondo sociale, hanno una conoscenza (più o meno adeguata) di questo mondo e per il fatto che si può agire sul mondo sociale agendo sulla conoscenza che essi ne hanno. Quest'azione mira a produrre e a imporre rappr~entazioni (mentali, verbali, grafiche o teatrali) del mondo sociale che siano capaci di agire su questo mondo, agendo sulla rappr~ntazione che ne fanno gli agenti. O, più precisamente, a fare e a disfare i gruppi - e, contemporaneamente, le azioni collettive che ~ possono intraprendere per trasformare il mondo sociale conformemente ai loro inter~ - producendo, riproducendo o distruggendo le rappr~entazioni che rendono visibili questi gruppi a se stessi e agli altri. Oggetto di conoscenza per gli agenti che lo praticano, il mondo economico e sociale ~ercita un'azione che prende la forma non di una. determinazione meccanica, ma di un effetto di conoscenza. È chiaro che, almeno nel caso dei dominati, questo effetto non tende a favorire l'azione politica. Sappiamo infatti che l'ordine sociale deve in parte la sua stabilità al fatto di imporre schemi di classificazione che, essendo conformi alle classificazioni oggettive, producono una forma di riconoscimento dell'ordine, quella che implica il disconoscimento del carattere arbitrario dei suoi fondamenti: la corrispondenza tra le divisioni oggettive e gli schemi classificatori, tra le strutture oggettive e le strutture mentali, è all'origine dell'ad~one originaria all'ordine costituito. La politica ha inizio proprio con la denuncia di questo contratto tacito di ad~ione all'ordine costituito che determina la
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doxa originaria; in altre parole, la sovversione politica presuppone una sovversione cognitiva, una conversione della visione del mondo. Ma la rottura eretica con l'ordine costituito e con le tendenze e le rappresentazioni che esso genera negli agenti abituati alle sue strutture presuppone la coincidenza tra il discorso critico e una crisi oggettiva, in grado di rompere l'unione immediata tra le strutture incorporate e le strutture oggettive di cui esse sono il frutto e di istituire una sorta di epochè pratica, di sospensione dell'adesione originaria all'ordine costituito. La sovversione eretica sfrutta la possibilità di cambiare il mondo sociale cambiando la rappresentazione di questo mondo che contribuisce alla sua realtà, o, più precisamente, opponendo una previsione paradossale, utopia, progetto, programma, alla visione ordinaria, che concepisce il mondo sociale come mondo naturale: enunciato performativo, la pre-visione politica è una pre-dizione che mira a far avverare ciò che enuncia; essa contribuisce praticamente alla realtà di ciò che enuncia per il fatto di enunciarlo, di prevederlo e di farlo pre-vedere, di renderlo concepibile e soprattutto credibile, e di creare cosi la rappresentazione e la volontà collettive che possono contribuire a produrlo. Ogni teoria, la parola lo indica, è un programma di percezione; tanto più vero se si tratta di una teoria del mondo sociale. Esistono certamente pochi casi in cui il potere strutturante delle parole, la loro capacità di prescrivere sotto l'apparenza di descrivere, o di denunciare sotto l'apparenza di enunciare, sono cosi indiscutibili. Numerosi «dibattiti di idee» sono meno irreali di quanto appaiono se si considera il livello a partire dal quale si può modificare la realtà sociale modificando la rappresentazione che ne fanno gli agenti. Si osservi come la realtà sociale di una pratica come l'alcolismo (ma lo stesso sarebbe per l'aborto, la droga o l'eutanasia) cambia a ~onda che sia considerata una tara ereditaria, un decadimento morale, una tradizione culturale o un comportamento di compensazione. Una parola come paternalismo colpisce particolarmente, insinuando il sospetto su tutto ciò che, attraverso una negazione permanente del calcolo, costituisce l'incantesimo della relazione di dominio. Come le relazioni gerarchiche, organizzate secondo il modello delle relazioni magiche, delle quali il gruppo familiare è il luogo per eccellenza, tutte le forme di capitale simbolico,
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prestigio, carisma, fascino, e le relazioni di scambio attraverso le quali questo capitale si accumula, scambio di servizi, di doni, di attenzioni, di cure, di affetto, sono particolarmente vulnerabili dall'azione distruttrice delle parole, che svelano e disincantano. Ma il potere costituente del linguaggio (religioso o politico), e degli schemi di percezione e di pensiero che esso produce, è evidente innanzitutto nelle situazioni di crisi: queste situazioni, paradossali, extra-ordinarie, richiedono un discorso extra-ordinario, capace di portare a livello di principi espliciti, generatori di risposte (quasi) sistematiche, i principi pratici dell'ethos e di esprimere tutto ciò che può avere di inaudito e di ineffabile la situazione creata dalla crisi. Il discorso eretico deve non solo contribuire a rompere l'adesione all'universo del senso comune, professando pubblicamente la rottura con l'ordine comune, ma anche, e nello stesso tempo, produrre un nuovo senso comune che comprenda, investite dalla legittimità conferita dalla manifestazione pubblica e dal riconoscimento collettivo, le pratiche e le esperienze fino ad allora taciute o represse di tutto un gruppo. Infatti, poiché ogni linguaggio che gode dell'ascolto di tutto un gruppo è un linguaggio autorizzato, investito dell'autorità del gruppo, esso autorizza ciò che designa nel momento stesso che lo esprime, attingendo la sua legittimità dal gruppo sul quale esercita la sua autorità e che contribuisce a produrre come tale, offrendo un'espressione unitaria alle sue esperienze. L'effettualità del discorso eretico risiede non tanto nella magia di una forza immanente al linguaggio, come l'illocutionary jorce di Austin, o nella persona del suo autore, come il carisma di Weber - due concetti schermo che impediscono di interrogarsi sui motivi degli effetti che essi designano soltanto-, quanto piuttosto nella dialettica tra il linguaggio autorizzante e autorizzato e le disposizioni del gruppo che lo autorizza e lo arroga a sé. Questo processo dialettico si realizza in ciascuno degli agenti in questione, in primo luogo nel produttore del discorso eretico, attraverso il lavoro di enunciazione che è necessario per esteriorizzare l'interiorità, per nominare l'innominato, per dare cioè a dispos~oni pre-verbali e pre-riflessive, e ad esperienze ineffabili e inosservabili, un inizio di oggettivazione con parole che, per loro natura, le rendono comuni e, ad un tempo, comunicabili, sensate e socialmente sanzionate.
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Esso, tuttavia, può anche realizzarsi nel lavoro di drammatizzazione particolarmente visibile nella profezia esemplare, capace di svalutare le evidenze della doxa, e nella trasgressione che è indispensabile per nominare l'innominabile, per forzare le censure, istituzionalizzate o interiorizzate, che impediscono il ritorno del rimosso, in particolare nell'eresiarca stesso. Ma è nella costituzione dei gruppi che ci si rende meglio conto dell'effettualità delle rappresentazioni, e in particolare delle parole, delle parole d'ordine e delle teorie che contribuscono a creare l'ordine sociale, imponendo i principi di di-visione e, soprattutto, il potere simbolico del teatro politico che realizza e ufficializza le visioni del mondo e le divisioni politich,. Il lavoro politico di rappresentazione (in alcune parole o teorie ma anche in alcune manifestazioni, cerimonie o in ogni altra forma di simbolizzazione delle divisioni o delle opposizioni) fa si che un modo di vedere o di vivere il mondo sociale, fino ad allora relegato allo stato di tendenza spesso confusa (imbarazzo, rivolta, ecc.), acquisisca l'oggettività di un discorso pubblico o di una pratica esemplare. Ciò permette agli agenti non solo di scoprire che tra loro esistono caratteristiche comuni al di là della diversità delle situazioni particolari che isolano, dividono, smobilitano, ma anche di costruire la loro identità sociale sulla base di esperienze o di tratti che sono inconciliabili, finché manca il principio di pertinenza in grado di costituirli in indici dell'appartenenza a una stessa classe. Il passaggio dallo stato di gruppo spontaneo allo stato di gruppo istituito (classe, nazione, ecc.) presuppone la costruzione di un principio di classificazione capace di produrre l'insieme delle proprietà distintive che caratterizzano l'insieme dei membri di questo gruppo e di annullare, nello stesso tempo, l'insieme delle proprietà non pertinenti, che una parte o la totalità dei suoi membri possiede sotto altri titoli (ad esempio le caratteristiche di nazionalità, età, sesso, ecc.) e che potrebbero fungere da base per altre costruzioni. La lotta è dunque all'origine stessa della formazione della classe (sociale, etnica, sessuale, ecc.): non esiste gruppo che non sia il luogo di una lotta per l'imposizione del principio legittimo di formazione dei gruppi e non esistono classificazioni di proprietà, che si tratti di sesso o di età, dell'istruzione o della ricchezza, che non possano servire da base a divisioni e a lotte propriamente politiche. La costruzione dei
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gruppi subalterni, sulla base di questa o di quella differenza specifica, è inseparabile dalla decostruzione dei gruppi istituiti sulla base di proprietà o di qualità generiche (gli uomini, i vecchi, i francesi, i parigini, i cittadini, i patrioti, ecc.) che, in un altro stadio dei rapporti di forza simbolici, definivano l'identità sociale, talvolta anche l'identità legale, degli agenti in questione. Ogni tentativo di istituire una nuova divisione deve infatti commisurarsi con la resistenza di coloro che, occupando la posizione dominante nello spazio così diviso, hanno interesse al perpetuarsi di un rapporto dossico con il mondo sociale che porta ad accettare come naturali le divisioni costituite o a negarle simbolicamente attraverso l'affermazione di un'unità (nazionale, familiare, ecc.) più forte 1• In altre parole, i dominanti sono strettamente legati al consenso, accordo fondamentale sul senso del mondo sociale (così convertito in mondo naturale, dossico) che è basato sull'accordo sui principi di divisione. Alla tendenza che incoraggia la critica eretica risponde la tendenza opposta del!'ortodossia. I dominati si attengono al discorso e alla coscienza, cioè alla conoscenza, poiché non possono costituirsi in gruppo isolato, mobilitarsi o mobilitare la forza che essi potenzialmente hanno se non a condizione di mettere in questione le categorie di percezione del!'ordine sociale, le quali, essendo frutto di questo ordine, impongono loro il riconoscimento di quest'ordine e di conseguenza la sottomissione ad esso. I dominati sono tanto meno adatti a operare la rivoluzione simbolica, che costituisce la condizione della riappropriazione dell'identità sociale, di cui essi sono privati, anche soggettivamente, per il fatto di accettare le tassonomie dominanti, quanto più sono ridotte le forze di sovversione e la competenza critica che essi hanno accumulate nel corso delle lotte precedenti, e quanto più è debole, di conseguenza, la coscienza delle proprietà positive o, più probabilmente, negative che li determinano: privati delle condizioni economiche e culturali della presa di coscienza della I Cosi si spiegano tutte le condanne della «politica», identificata nelle lotte tra partiti o fazioni, che i conservatori non hanno n'lai smesso di prof~are durante il corso delle storia, da Napoleone m a Pétain (cfr. M, MARCEL, Inventalre dea apolltlsmea en France, in «Aswciation française de science politique», La dépolltisatlon, mythe ou réallté?, Paris, Armand Colin, 1962,
pp. 49-51).
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loro privazione e rinchiusi nei limiti della conoscenza che i loro strumenti di conoscenza autorizzano, i sottoproletari e i contadini proletarizzati impegnano spesso, nei loro discorsi e nelle azioni destinati a sovvertire l'ordine di cui sono vittime, i principi di divisione logica che sono all'origine di questo ordine (cfr. le guerre di religione).
Al contrario, i dominanti, non potendo ripristinare il silenzio del/,a doxa, si sforzano, attraverso un discorso puramente reazionario, di sostituire tutto ciò che minaccia l'esistenza stessa del discorso eretico. Non trovando nulla da ridire sul mondo sociale, essi si sforzano di imporre, universalmente, con un discorso che fa appello alla semplicità e alla trasparenza del buon senso, il sentimento di evidenza e di necessità che questo mondo impone loro. Essendo interessati al laisser-Jaire, essi lavorano ad annullare la politica in un discorso politico spoliticizzato, frutto di un lavoro di neutralizzazione o meglio di negazione, che mira a ripristinare lo stato di innocenza originaria della doxa e che, essendo orientato verso la neutralizzazione dell'ordine sociale, prende in prestito sempre il linguaggio della natura. Questo linguaggio politico non definito politicamente è caratterizzato da una retorica dell'imparzialità, ispirata da effetti di simmetria, di equilibrio, di giusta misura, e sostenuta da un ethos della benevolenza e della decenza, attestato dal sottrarsi alle forme più evidenti della polemica, dalla discrezione, dal rispetto ostentato per l'avversario, in breve da tutto ciò che manifesta la negazione della lotta politica come lotta. Questa strategia della neutralità (etica) trova il suo compimento naturale nella retorica della scientificità.
Questa nostalgia della protodoxa si esprime con semplicità nel culto di tutti i conformismi per il «popolo buono» (il più delle volte rappresentato dai contadini), di cui gli eufemismi del discorso ortodosso («la gente semplice», le «classi modeste», ecc.) designano la caratteristica essenziale, cioè la sottomissione all'ordine costituito. Infatti, la lotta tra l'ortodossia e l'eterodossia, il cui luogo è il campo politico, dissimula l'opposizione tra le tesi politiche (ortodosse ed eterodosse), cioè l'universo di ciò che può essere enunciato politicamente nel campo politico e tutto ciò che resta al di fuori della discussione (nel campo), cioè al di fuori del discorso, e che, relegato allo stato di doxa, si trova a essere accettato senza discussione né esame da coloro che si scontrano a livello di scelte politiche dichiarate.
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La lotta, la cui posta in gioco è la conoscenza del mondo sociale, non avrebbe oggetto se ogni agente trovasse in se stesso il principio di una conoscenza infallibile della verità della sua condizione e della sua posizione nello spazio sociale e se gli stessi agenti non potessero riconoscersi in discorsi o classificazioni differenti (secondo la classe, l'etnia, la religione, il sesso, ecc.) o in valutazioni opposte dei prodotti degli stessi principi di valutazione; gli stessi effetti di queste lotte sarebbero totalmente imprevedibili se non ci fosse nessun limite alla allodoxia, all'errore di percezione e soprattutto di espressione, e se la propensione a riconoscersi nei differenti discorsi e nelle diverse classificazioni proposte fosse egualmente probabile per tutti gli agenti, qualunque sia la loro posizione nello spazio sociale (dunque le loro disposizioni) e qualunque siano le strutture di questo spazio, la forma delle distribuzioni e la natura delle divisioni, secondo le quali esso si organizza realmente. L'effetto di pre-visione o di teoria (considerato come effetto di imposizione di principi di di-visione conseguente a ogni esplicitazione) opera nel margine di incertezza che risulta dalla discontinuità tra le evidenze silenziose dell'ethos e le manifestazioni pubbliche del logos: grazie alla allodoxia, che la distanza tra l'ordine della pratica e l'ordine del discorso rende possibile, le stesse disposizioni possono riconoscersi in prese di posizione molto diverse, talvolta opposte. Ciò vuol dire che la scienza è destinata a esercitare un effetto di teoria, ma in una forma del tutto particolare: manifestando in un discorso coerente e empiricamente valido ciò che è ignorato, o secondo i casi, implicito o rimosso, essa trasforma la rappresentazione del mondo sociale e, ad un tempo, il mondo sociale, nella misura in cui rende possibili pratiche conformi a questa rappresentazione trasformata. Cosi, se è vero che possiamo far risalire a un tempo lontano nella storia le prime manifestazioni della lotta di classe e anche le prime espressioni più o meno elaborate di una «teoria» della lotta di classe (nella logica dei «precursori»), resta il fatto che è solo dopo Marx e dopo la formazione di partiti capaci di imporre (su grande scala) una visione del mondo sociale organizzato secondo la teoria della lotta di classe, che si può parlare di classi e di lotta di classe. Coloro che in nome del marxismo cercano le classi e la lotta di classe nelle società precapitalistiche e premarxiste, commettono l'errore teorico tipico di quella combinazione tra
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realismo scientista e economicismo che spinge tutta la tradizione marxista a cercare le classi nella realtà del mondo sociale spesso ridotta alla sua dimensione economica 2: paradossalmente, la teoria marxista, che ha esercitato un effetto di teoria senza equivalenti nella storia, non accorda alcuna importanza all'effetto della teoria nella sua teoria della storia e delle classi. Realtà e volontà, la classe (o la lotta di classe) è realtà nella misura in cui è volontà ed è volontà nella misura in cui è realtà: le pratiche e le rappresentazioni politiche (e in particolare le rappresentazioni della divisione in classi) che, in un momento determinato del tempo, possono essere osservate e misurate in una società costantemente esposta alla teoria della lotta di classe, sono in parte frutto dell'effetto di teoria, supposto che tale effetto debba una parte della sua effettualità simbolica al fatto che la teoria della lotta di classe è fondata, oggettivamente, su proprietà oggettive o incorporate, e goda della complicità delle disposizioni del senso politico. Le categorie secondo le quali un gruppo pensa se stesso, e rappresenta la propria realtà, contribuiscono a determinare la realtà di tale gruppo. Ciò significa che tutta la storia del movimento operaio, e delle teorie attraverso le quali esso ha costruito la realtà sociale, è presente nella realtà di tale movimento considerato in un momento determinato del tempo. Le categorie di percezione del mondo sociale, i gruppi che si costituiscono di conseguenza su queste categorie, sono il frutto delle lotte che fanno la storia del mondo sociale 3 • La descrizione scientifica, anche la più strettamente constativa, tende sempre a funzionare come prescrizione capace di conbibuire alla sua propria verifica, esercitando un effetto di teoria adatto a favorire l'avvento di ciò che essa enuncia. Come la formula «la seduta è aperta», cosi la tesi «ci sono due classi» può essere considerata un enunciato constativo o un enunciato performativo. È questo che rende inbinsecamente indecidibili tutte le tesi politiche che, come l'affermazione o la negazione li La tensione, sempre presente nei lavori dei teorici marxisti, tra scientismo sociologista e volontarismo spontaneista è certamente dovuta al fatto che, secondo la loro posizione nella divisione del lavoro di produzione culturale e anche secondo lo stato nel quale si presentano le classi sociali, i teorici mettono l'accento sulla classe intesa come condizione o sulla classe intesa come volontà. 3 Ciò fa sl che la storia (e in particolare la storia delle categorie di pensiero) rappresent;i una delle condizioni attraverso le quali il pensiero politico prende possesso di se stesso.
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dell'esistenza delle classi, delle regioni o delle nazioni, prendono posizione sulla realtà delle differenti rappresentazioni della realtà o sul loro potere di costituire la realtà. La scienza, che potrebbe mettere fine a questi dibattiti, fornendo una misura oggettiva del livello di realismo delle posizioni in questione, non può far altro che descrivere, secondo la logica, lo spazio delle lotte che hanno per posta, tra l'altro, la rappresentazione delle forze impegnate nelle lotte e delle loro possibilità di successo: tutto ciò senza ignorare che ogni valutazione «oggettiva» di questi aspetti della realtà, in gioco nella realtà stessa, è in grado di esercitare effetti del tutto reali. Come non considerare il fatto che la previsione può funzionare non solo nell'intenzione del suo autore, ma anche nella realtà del suo divenire sociale, sia come self-Julfilling prophecy, rappresentazione performativa, in grado di esercitare un effetto propriamente politico di consacrazione dell'ordine costituito (tanto più potente quanto più essa è riconosciuta), sia come esorcismo, in grado di suscitare azioni atte a smentirla? Come ha ben detto Gunnar Myrdal, le parole chiave del lessico dell'economia, non solo termini come «principio», «equilibrio», «produttività», «adeguamento», «funzione», ecc., ma anche concetti più centrali, più tipici, come «utilità», «valore», «costi reali», o «soggettivi», ecc., senza parlare di nozioni quali «economico», «naturale», «imparziale», (alle quali bisognerebbe aggiungere quella di «razionale»), sono sempre contemporaneamente descrittive e prescrittive 4 • La scienza, anche la più neutra, esercita effetti che non sono affatto neutri: cosi, per il solo fatto di stabilire e di divulgare il valore della funzione di probabilità di un avvenimento, cioè, come indica Popper, la forza di propensione a prodursi che questo avvenimento ha (caratteristica oggettiva, inerente alla natura delle cose), è possibile contribuire a rinforzare la «pretesa di esistere», come diceva Leibniz, di questo avvenimento, persuadendo gli agenti a prepararsi e a sottomettersi a esso, o al contrario incitandoli a mobilitarsi per contrastarlo, servendosi della conoscenza del probabile per renderne più difficile se non impossibile l'apparizione. Allo stesso modo, non basta sostituire 4 c. MYRDAL, The Pollffcal Element In the Development of Economie Theory, New York, Simon and Scbuster, 1964, in particolare pp. 10-21.
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all'opposizione scolastica tra due modi di concepire la differenziazione sociale, come insieme di strati gerarchizzati o come insieme di classi antagoniste, il problema, capitale per ogni strategia rivoluzionaria, di sapere se, nel momento considerato, le classi subalterne costituiscano un potere antagonista in grado di definire i propri obiettivi, in breve una classe mobilitata, o, al contrario, uno strato basso di una gerarchia, definito dalla sua distanza dai valori dominanti, o in altre parole, se la lotta tra le classi sia una lotta rivoluzionaria, che mira a ribaltare l'ordine costituito, o una lotta di concorrenza, una sorta di corsa a inseguimento nella quale i dominati si sforzano di impadronirsi delle proprietà dei dominanti. Nulla è più esposto alla smentita del reale, e dunque anche meno scientifico, di una risoluzione di questo problema che, basata esclusivamente sulle pratiche e sulle disposizioni degli agenti nel momento considerato, trascuri di prendere in considerazione l'esistenza o la non-esistenza di agenti o di organizzazioni in grado di confermare o di indebolire l'una o l'altra delle visioni, sulla base di previsioni più o meno realiste delle probabilità oggettive dell'una o dell'altra possibilità, previsioni e probabilità esse stesse suscettibili di essere influenzate dalla conoscenza scientifica della realtà. Tutto permette di supporre che l'effetto di teoria che può essere esercitato, nella stessa realtà, da agenti e da organizzazioni in grado di imporre un principio di di-visione o, se si vuole, di produrre o di rinforzare simbolicamente la propensione sistematica a privilegiare alcuni aspetti del reale e a ignorarne altri, sia tanto più potente e soprattutto durevole quanto più l'esplicitazione e l'oggettivazione hanno basi nel reale e quanto più le divisioni immaginate corrispondono esattamente alle divisioni reali. In altri termini, la forza potenziale mobilitata dalla formazione simbolica è tanto più importante quanto più le proprietà classificatorie, attraverso le quali si caratterizza esplicitamente e si riconosce un gruppo, corrispondono perfettamente alle caratteristiche di cui sono oggettivamente dotati gli agenti di un gruppo (e che definiscono la loro posizione della divisione degli strumenti di appropriazione del prodotto sociale accumulato). La scienza dei meccanismi sociali, che, come i meccanismi di eredità ohlturale legati al funzionamento del sistema scolastico o i meccanismi di dominazione simbolica connessi all'unificazione
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del mercato dei beni economici e culturali, tendono a garantire la riproduzione dell'ordine costituito, può essere messa al servizio di un lamer-faire opportunista, interessato a razionalizzare (nel duplice senso) il funzionamento di quem meccanismi. Ma essa può anche servire da fondamento a una politica orientata verso fini totalmente opposti, la quale, rompendo sia con il volontarismo dell'ignoranza, o della disperazione, che con il lamer-faire, si armerebbe della conoscenza dei meccanismi per tentare di neutralizzarli, e troverebbe nella conoscenza del probabile non tanto un incitamento al fatalismo o all'utopismo irresponsabile quanto il fondamento di un rifiuto del probabile, fondato sulla padronanza scientifica delle leggi di produzione dell'eventualità rifiutata.
Analisi del discorso
Non esiste una scienza del discorso considerato in sé e per sé; le proprietà formali delle opere schiudono il loro senso solo se le si confronta, da un lato, con le condizioni sociali della loro produzione - cioè con le posizioni che occupano i loro autori nel campo di produzione - dall'altro, con il mercato per il quale sono state prodotte (e che può essere il campo di produzione stesso), e anche, qualora occorra, coi mercati sui quali di volta in volta esse sono accolte. La scienza dei discorsi, in quanto pragmatica sociologica, si situa in un posto oggi non ancora occupato, benché essa abbia molti precursori, il Pascal delle Lettere provinciali, il Nietzsche de L'Anticristo o il Marx de L'ideologia tedesca; essa infatti si occupa di scoprire nelle proprietà più tipicamente formali dei discorsi gli effetti delle condizioni sociali della loro produzione e circolazione. L'istituzione parla con una certa retorica da establishment, e i processi formali tradiscono le intenzioni oggettivamente iscritte negli obblighi e nelle necessità di una posizione sociale. L'analisi coglie contemporaneamente le caratteristiche sociali dello stile e le caratteristiche sociali dell'autore: dietro tale effetto retorico, Marx individua la Scuola che lo ha prodotto producendo la posizione e le disposizioni del suo produttore; in ambedue gli elementi Marx e Nietzsche individuano varianti delle strategie sacerdotali. Le stesse cause producono gli stessi effetti. Non è strano, perciò, trovare nella polemica tra Marx e Stirner analisi che si riferiscono alle letture francesi di Marx, Come non è strano che i processi più tipici del discorso d'importanza si trovino in filosofi molto lontani nello spazio teorico, come Althusser e
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Heidegger, poiché essi hanno in comune il senso della superiorità teorica che costituisce lo status di filosofo. E nemmeno è sorprendente il fatto che l'analisi delle strategie retoriche, attraverso le quali Montesquieu mira a dare esteriorità di scienza a una mitologia semiprivata, colga procedimenti tipici delle false scienze di ieri e di oggi. Ma per affermare il metodo affinandolo, occorrerebbe moltiplicare gli studi dei casi 1 e trarne a poco a poco i principi di una vera pragmatica sociologica.
1 In tale logica, avremmo potuto qui ricordare il caso de l'Education sentimentale, dove il lavoro di messa in forma corrisponde a una forma, la struttura della classe dirigente (o la posizione impossibile di Flaubert in questa struttura), riprodotta con una forma che risponde alle leggi del campo letterario (cfr. P. BOURDIEU, L'lnvention de la ote d'artiste, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 2, marzo 1975, pp. 67-94). O ancora, lo studio della Critica del giudizio, che mostra come la coerenza del discorso evidente dissimuli i frammenti sparsi di un discorso rimosso e oggettivamente coerente sul mondo sociale (cfr. P. BOURDIEU, La distinction, cit., pp. 565-585) [tr. it., cit.].
1
Censura e messa in forma Losco. Questa parola designa grammaticalmente ciò che apparentemente determina un senso e finisce poi per determinarne un altro completamente differente. Si usa in particolare per frasi la cui costruzione contiene un'anfibologia nociva alla comprensione del1'elocuzione. La disposizione particolare delle parole in una frase ne determina l'ambiguità. Apparentemente queste parole sembrano voler significare una cosa, mentre in realtà ne significano un'altra: nello stesso modo in cui le persone mabiche sembrano guardare da un lato, ma di fatto guardano dal lato opposto. Encyclopédie méthodique, grammaire et littérature, tomo II.
M. BEAUZÉE,
I linguaggi specialistici, che gli specialisti producono e riproducono attraverso un'alterazione sistematica della lingua comune, sono, come ogni discorso, il prodotto di un compromesso tra un interesse espressivo e una censura costituita dalla struttura stessa del campo nel quale si produce e circola il discorso. Più o meno «riuscita» secondo la competenza specifica del produttore, questa «formazione di compromesso», per usare un'espressione di Freud, è il &utto di strategie di eufemizzazione che consistono nel mettere in forma e dare delle forme: queste strategie tendono a soddisfare l'interesse espressivo, pulsione biologica o interesse politico (nel senso ampio del termine), nei limiti della struttura delle chances del profitto materiale o simbolico che le differenti forme del discorso possono procurare ai differenti produttori in funzione delle posizioni che essi occupano nel campo, cioè nella struttura della distribuzione del capitale specifico che è in gioco in questo campo 1 • 1 È possibile rimpatriare sul terreno della politica, dove spesso si sono formati, i concetti elaborati dalla psicoanalisi solo sé si tiene presente che il
modello freudiano è un caso particolare di un modello più generale, secondo il quale ogni espressione è frutto di una transazione tra l'interesse espressivo e la necessità strutturale di un campo che agisce sotto forma di censura. La repressione sociale, esercitata in seno all'unità domestica considerata come
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La metafora della censura non deve ingannare: ciò che determina l'espressione, determinando ad un tempo la sua forma e l'accesso ad essa, è la struttura stessa del campo e non una qualsiasi istanza giuridica particolarmente predisposta a designare e a reprimere la trasgressione di una specie di codice linguistico. Questa censura strutturale è esercitata dalle sanzioni del campo, che funziona come un mercato in cui si formano i prezzi delle differenti specie di espressione. Essa si impone a ogni produttore di beni simbolici, compreso il portavoce autorizzato, la cui parola rappresentativa dell'autorità è più di ogni altra sottomessa alle norme del decoro ufficiale. Tale censura condanna coloro che occupano posizioni subalterne all'alternativa del silenzio o allo scandalo del parlare schietto. Essa ha tanto meno bisogno di manifestarsi sotto la forma di divieti espliciti, imposti e sanzionati da un'autorità istituzionalizzata, quanto più i meccanismi che garantiscono la ripartizione degli agenti nelle diverse posizioni (meccanismi che, proprio per la perfetta riuscita dei loro effetti, vengono sovente dimenticati) sono in grado di far si che le differenti posizioni siano occupate da agenti atti e inclini a tenere il discorso (o a restare in silenzio), compatibilmente con la definizione oggettiva della posizione (ciò spiega il posto che le procedure di cooptazione accordano sempre agli indici apparentemente insignificanti della disposizione alla messa in forma). La censura non è mai cosi perfetta e invisibile come nel caso in cui un agente non ha altro da dire se non ciò che è oggettivamente autorizzato a dire: in tal caso, egli non ha da essere nemmeno censore di se stesso, poiché è una volta per tutte censurato attraverso le forme di percezione e di espressione interiorizzate, che impongono la loro forma a tutte le sue espressioni. Tra le censure più efficaci e meglio nascoste vanno annoverate tutte quelle che consistono nell'escludere alcuni agenti dalla campo di rapporti di forza di tipo particolare (e variabili per la loro struttura secondo le condizioni sociali), è peculiare nella sua forma (quella dell'ingiunzione tacita e della suggestione) e si riferisce ad una classe determinata di Inter~, le pulsioni sessuali: ma l'analisi freudiana della sintassi del sogno, e di tutte le ideologie delle quali si fa uso privato, fornisce gli strumenti necessari per capire il lavoro di eufemizzazione e di messa in forma che si realizza tutte le volte in cuj una pulsione biologica o sociale deve scendere a patti con una censura sociale.
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comunicazione, escludendoli dai gruppi che parlano o dai luoghi in cui si parla con autorità. Per rendersi conto di ciò che si può e non si può dire in un gruppo, bisogna considerare non solo i rapporti di forza simbolici che si stabiliscono e che mettono alcuni individui nell'impossibilità di parlare (ad esempio, le donne) o li obbligano a conquistare a viva forza il diritto alla parola, ma anche le stesse leggi di formazione del gruppo, (ad esempio, la logica dell'esclusione conscia o inconscia) che fungono da censura preventiva.
Le produzioni simboliche devono le loro proprietà più specifiche alle condizioni sociali della loro produzione e, più precisamente, alla posizione del produttore nel campo di produzione che ordina, contemporaneamente e con diverse mediazioni, l'interesse espressivo, la forma e la forza della censura che gli è imposta e la competenza che permette di soddisfare l'interesse, nei limiti di questi obblighi. La relazione dialettica, che si stabilisce tra l'interesse espressivo e la censura, impedisce di distinguere nell'opus operatum la forma e il contenuto, ciò che è detto e il modo in cui è detto o anche la maniera in cui è percepito. La censura esercitata dalla struttura del campo, imponendo la messa in forma, determina la forma che i formalisti a tutti i costi vogliono sottrarre ai determinismi sociali e, inscindibilmente, il contenuto, indissociabile dalla sua espressione conforme, dunque impensabile (nel vero senso) al di fuori delle forme conosciute delle norme riconosciute. La censura determina anche la forma della ricezione; produrre un discorso filosofico nelle forme, cioè con quei segni convenzionali (sintassi, lessico, riferimenti ecc.) dai quali si riconosce un discorso filosofico e attraverso i quali un discorso si fa riconoscere come filosofico2, vuol dire creare un prodotto che 2 A tal fine, nulla conbibuisce in maggior misura dello status di «filosofo» riconosciuto al suo autore e dei segni e dei simboli - titoli universitari, casa edibice o, semplicemente, il nome proprio -, dai quali si riconosce la sua posizione nella gerarchia filosofica. Per ben comprendere questo effetto è sufficiente immaginare cosa sarebbe la lettura della pagina sulla centrale elettrica o sul vecchio ponte del Reno (cfr. M, HEIDEGGER, Vortrage und Auftlitze, Pfullingen, Verlag Gunther Neske, 1954) [tr. it. Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976, pp. 11-12]) che vale al suo autore la consacrazione a «primo teorico della lotta ecologica» da parte di uno dei suo commentatori (R, sceÉIIEII, Heidegger, Paris, Seghers, 1973, p. 5), se essa fosse firmata con il nome del leader del movimento ecologico o con il nome di un ministro della Qualità della Vita o ancora con le iniziali di un piccolo gruppo di
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richiede di essere riconosciuto secondo le forme, cioè nel rispetto delle forme che esso si dà o, come è ben chiaro in letteratura, in quanto forma. Le opere legittime esercitano una violenza che le mette al riparo dalla violenza necessaria a cogliere l'interesse espressivo, poiché esse esprimono tale interesse solo sotto una forma che lo nega: la storia dell'arte, della letteratura o della filosofia testimoniano l'effettualità delle strategie di messa in forma attraverso le quali le opere consacrate impongono le norme delle propria percezione; non esiste una eccezione nel «metodo» dell'analisi strutturale o semiologica che pretenda di studiare le strutture indipendentemente dalle funzioni. Ciò vuol dire che un'opera appartiene a un campo particolare per la sua foma non meno che per il suo contenuto: immaginare ciò che Heidegger ha detto in un'altra forma, la forma, per esempio, del discorso filosofico in voga nella Germania del 1890, oppure quella che si usa oggi nei saggi di scienze politiche all'Università di Yale o di Harvard, o un'altra forma ancora, significa immaginare un Heidegger impossibile (un Heidegger «errante» o emigrato nel 1933) o un campo di produzione parimenti impossibile nella Germania in cui Heidegger operava. La forma, attraverso la quale le produzioni simboliche partecipano più direttamente delle condizioni sociali della loro produzione, è anche ciò attraverso cui si esercita il loro effetto sociale più specifico, la violenza propriamente simbolica, che può essere esercitata da colui che la esercita e subita da colui che la subisce solo in una forma tale da essere misconosciuta come tale, cioè riconosciuta come legittima.
La retorica della falsa frattura Il linguaggio specialistico si distingue dal linguaggio scientifico per il fatto che nasconde l'eteronomia sotto le apparenze dell'autonomia: incapace di funzionare senza l'assistenza del linguaggio ordinario, esso deve produrre l'illusione di indipendenza con strategie di falsa frattura, ricorrendo a procedimenti differenti secondo i campi e, nello stesso campo, secondo le liceali di sinistra (va da sé che questi differenti attributi diverrebbero del tutto verosimili se accompagnati da qualche modifica nella forma).
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posizioni e i momenti. Esso può, ad esempio, scimmiottare la proprietà fondamentale di ogni linguaggio scientifico, la determinazione dell'elemento attraverso l'appartenenza al sistema 3 • Le parole, che la scienza rigorosa prende in prestito dalla lingua comune, devono il loro senso al sistema costituito e la scelta (spesw inevitabile) di ricorrere a una parola comune, piuttosto che a un neologismo o i a un puro simbolo arbitrario, può scaturire solo dalla preoccupazione di utilizzare la capacità di manifestare relazioni insospettate, che trattano a volte il linguaggio come una sorta di deposito di un lavoro collettivo 4 • La parola gruppo dei matematici è un simbolo perfettamente autosufficiente, perché interamente definito dalle operazioni e dalle relazioni che determinano la sua struttura e che sono all'origine delle sue caratteristiche. Al contrario, la maggior parte degli usi particolari di questa parola, recensiti dai dizionari - ad esempio, in pittura «l'unione di più personaggi che crea un'unità organica in un'opera d'arte» o, in economia, «un insieme di imprese unite da legami diversi» - hanno un'autonomia molto debole rispetto al senso originario della parola, e sarebbero inintellegibili per chiunque non avesse la padronanza pratica di questo senso. Non si contano le parole heideggeriane prese in prestito dal linguaggio quotidiano; esse sono però trasfigurate dal lavoro di messa in forma che dà un'apparenza di autonomia alla lingua filosofica, inserendo queste PIJI'Ole, attraverso l' accentuazione sistematica di parentele formali, in una rete di relazioni 3 e Ogni sistema, in fondo, non conosce altro che le proprie forme primitive e dunque non potrebbe parlare di altro» (J. NICOD, La géometrle dana le monde senalble, Paris, PUF, nuova edizione, 1962, p. 15). Nella stessa linea Bachelard OSMtrva che il linguaggio scientifico pone delle virgolette per evidenziare che le parole del linguaggio comune o del linguaggio scientifico precedente, che esso conserva, sono completamente ridefinite e il loro significato dipende dal sistema di relazioni teoriche nel quale esse sono inserite (c. BACHELARD, Le matérlalisme Taffonnel, Paris, PUF, 1953, pp. 216-217) [tr. it. n Materialismo Tazumale, a cura di L. Semerami, Dedalo, 1975]. 4 Il problema del linguaggio si pone in modo particolare alle scienze sociali, se si considera che esse devono tendere alla pura diffusione dei risultati, condizione della «defeticizzazione» dei rapporti sociali e della riappropriazione del mondo sociale: l'uso delle parole del linguaggio comune porta in sé il pericolo della regressione verso il senso comune, correlativa alla perdita del senso imposto dall'inserimento delle relazioni scientifiche nel sistema; il ricorso a neologismi o a simboli astratti manifesta, meglio delle semplici «virgolette», la TottuTa rispetto al senso comune, ma contemporaneamente rischia di produrre una rottura nella comunicazione della visione scientifica del mondo sociale.
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evidenziate nella forma sensibile del linguaggio, dando cioè l'impressione che ciascun elemento del discorso dipenda dagli altri contemporaneamente, sia in quanto significante che in quanto significato. E cosi che una parola comune come Fursorge, asmstenza, si trova legata in modo sensibile, per la sua stessa forma, a tutto un insieme di parole della stessa famiglia, Sorge, cura, Sorgfalt, sollecitudine, Sorglosigkeit, incuria, sorgenvoll, premuroso, besorgt, preoccupato, Lebenssorge, cura della vita, Selbstsorge, cura di sé. Il gioco con le parole che hanno la stessa radice, molto frequente nei detti e nei proverbi di ogni cultura, è solo uno dei modi formali, ma certamente il più sicuro, per produrre la sensazione della relazione necessaria tra due significati. L'associazione per allitterazione o per assonanza, che instaura relazioni quasi materiali di somiglianza di forma e di suono, può anche produrre associazioni formalmente necessarie atte a far nascere una.relazione nascosta tra i significati o, più ~o, a farla esistere attraverso il solo gioco delle forme: i giochi di parole filosofici del secondo Heidegger, ad esempio, Denken = Danken, pensare = ringraziare, o gli intrecci in forma di scioglilingua su Sorge als besorgende Filrsorge, la «cura in quanto aver cura prendente cura», potrebbero dare un'impressione di verbalismo se l'intreccio delle allusioni morfologiche e dei rinvii etimologici non producesse l'illusione di una coerenza globale della forma, dunque del senso e, di qui, l'illusione della necessità del discorso: Die Entschlossenheit aber ist nur die in der
Sorge gesorgte und al,s Sorge mogliche Eigentlichkeit dieser selbst (La decisione è nient'altro che ciò di cui la cura ha cura, e, in quanto cura, è l'autenticità possibile della cura stessa) 5 • Tutte le risorse potenziali della lingua comune sono messe in gioco per dare la sensazione che esiste un legame necessario tra tutti i significati e che la relazione tra. i significanti e i significati si stabilisce solo grazie alla mediazione del sistema det concetti filosofici, parole «tecniche», forme nobilitate di parole comuni (Entdeckung, scoperta, e Entdeckheit, l'essere allo scoperto), nozioni tradizionali (Dasein, parola comune a Heidegger, 5 M. HEmECGm, Sein und Zeit, Tiibingen, Niemayer (I ed., 1927), 1963, pp. 300-301 [tr. it. E&sere e Tempo, Longanesi, Milano, 197011 , a cura di Pietro Chiodi, p. 452]. Heidegger si spingerà sempre oltre in questa direzione man mano che, aumentando la sua autorità, egli si sentirà più autorizzato al verbalismo perentorio, che è il limite di ogni discorso di autorità.
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Jaspers e a qualcun altro), usate tuttavia, con un leggero spostamento, destinato a segnare uno scarto allegorico (ontologico, metafisico, ecc.), neologismi creati per dare origine a distinzioni ipoteticamente impensate e per produrre in ogni caso la sensazione dell'oltrepassamento radicale (esistenziale e esistentivo; temporale, zeitlich, e temporal'fl, temporal, opposizione che non ha, d'altronde, alcun ruolo oggettivo in Sein und Zeit). La messa in forma produce, inseparabilmente, l'illusione della sistematicità e, attraverso questa e la frattura tra linguaggio specializzato e linguaggio ordinario che essa stessa opera, l'illusione dell'autonomia del sistema. Entrando nella rete delle parole morfologicamente simili e, nello stesso tempo, etimologicamente imparentate, in cui essa si inserisce, e nella trama lessicale heideggeriana, la parola Fursorge si ritrova priva del suo senso originario, quel senso che si schiude senza ambiguità nell'espressione Sozialfiirsorge, assistenza sociale: trasformata, trasfigurata, la parola perde la sua identità sociale e il suo senso ordinario e assume un senso indiretto (che rende approssimativamente la parola procura dal punto di vista etimologico). È cosi che il fantasma sociale dell'assistenza (sociale), simbolo dello «Stato provvidenza» o dello «Stato Assicurazione», che Cari Schmitt o Ernst Jiinger denunciano con un linguaggio meno eufemistico, può manifestarsi in un discorso legittimo (Sorge e Fursorge sono al centro della teoria della temporalità}, ma sotto una forma tale da non dare l'impressione di esserlo. È attraverso l'inserimento nel sistema della lingua filosofica che si realizza la negazione del senso originario, quello che la parola resa tabù prende in riferimento al sistema della lingua comune e che, ufficialmente rigettato fuori del sistema evidente, seguita ad avere un'esistenza sotterranea. La negazione è all'origine del doppio gioco che autorizza la doppia informazione di ogni elemento del discorso, sempre definito simultaneamente dall'appartenenza a due sistemi, il sistema evidente dell'idioletto filosofico e il sistema latente della lingua ordinaria. Far subire all'interesse espressivo la trasformazione necessaria per farlo accedere all'ordine di ciò che è dicibile in un campo determinato, per strapparlo all'indicibile e all'innominabile, non consiste solo nel mettere una parola al posto di un'altra, una parola accettabile al posto di una parola censurata. Questa forma elementare di eufemizzazione ne nasconde un'altra molto
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più sottile, quella che consiste nell'utilizzare la proprietà essenziale del linguaggio, il primato delle relazioni sugli elementi, della forma sulla sostanza, secondo l'opposizione saussuriana, per mascherare gli elementi rimossi inserendoli in una rete di relazioni che ne modifica il valore senza modificarne la «sostanza» 11. L'effetto di occultamento, attraverso la messa in forma, si esercita in pieno solo attraverso i linguaggi specialistici prodotti da specialisti con una esplicita intenzione di sistematicità. In questo caso, come in tutti i casi di camuffamento attraverso la forma, attraverso la buona forma, oggetto di studio della Gestalttheorie, i significati resi tabù, teoricamente riconoscibili, restano praticamente sconosciuti; presenti come sostanza, i significati sono, come il viso nascosto tra le foglie, assenti come forma, assJnti dalla forma. L' ~ressione maschera le esperienze primitive del mondo sociale e i fantasmi sociali che ne sono all'origine, e ad un tempo li svela; essa li dice, dicendo col suo modo di dire che non li dice. Essa può enunciarli solo sotto una forma che li rende irriconoscibili, poiché non può riconoscersi come un'espressione che li enuncia. Sottomessa alle norme tacite o esplicite di un nuovo campo particolare, la sostanza primitiva si dissolve, se possiamo dire, nella forma; mettendosi in forma, mettendo le forme, essa si fa forma e sarebbe inutile cercare in un luogo determinato, in un insieme di parole chiave o di immagini, il centro di questo cerchio che è dappertutto e in nessun luogo. Questa messa in forma è inseparabilmente trasformazione e transustanzazione; la sostanza significata è la forma significante nella quale essa si è realizzata. La messa in forma fa si che il limitare la negazione a ciò che essa nega, al fantasma sociale che ne è all'origine, diventi contemporaneamente giusto e ingiustificato. Per il fatto che questa «Aufhebung della rimozione», come dice Freud, usando una parola hegeliana, nega e conserva contemporane~ente la rimozione e il rimosso, essa permette di accumulare tutti i profitti, il profitto di dire e di smentire ciò che è detto attraverso il modo di dire. È chiaro che l'opposizione tra l'Eigentlichkeit, e È una strategia spontanea della corteda che non può realmente neutralizzare ciò che un ordine o un'interrogazione hanno di aggressivo, arrogante o inopportunp, se non integrandoli in un insieme di manifestazioni simboliche verbali o meno, destinate a mascherare il significato bruto dell'elemento considerato isolatamente.
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cioè rautenticità, e l'Uneigentlichkeit, «l'inautenticità», «modi cardinali dell'esserci», come dice Heidegger, attorno ai quali, dal punto di vista delle letture più interne, si organizza tutta l'opera, non è altro che una forma particolare e particolarmente sottile dell'opposizione comune tra l'«élite» e le «masse». Tirannico («la dittatura del «Sl», inquisitore (il «Si» è interessato a tutto) e livellatore, il «Si», das Man, il «comune», si sottrae alle responsabilità, si scarica della sua libertà, si dà alla frivolezza e alla facilità, in breve si comporta come un assistito che vive in maniera irresponsabile, a carico della società. Occorrerebbe mostrare, in questo passaggio mille volte commentato 7 , i luoghi comuni dell' aristocraticismo universitario, nutrito di topoi sull'agora, antitesi della scholè, tempo libero-e-scuola: l'orrore per la statistica (è il tema della «medietà» ), simbolo di tutte le operazioni di «livellamento» che minacciano la «persona» (qui designata Dasein) e i suoi attributi più preziosi, !'«originalità» e il «~greto»; l'odio verso tutte le forze «livellatrici» (altri direbbero «massificanti») e certamente, e in primo luogo, l'orrore per le ideologie egalitarie che minacciano le conquiste ottenute con sforzo («ciò che è stato conquistato al prezzo dello sforzo»), vale a dire la cultura, capitale specifico del mandarino, figlio delle sue opere, e che incoraggiano la,« frivolezza» e la «facilità» delle «masse»; la rivolta contro i meccanismi sociali come l'opinione, nemica ereditaria del filosofo, che ritorna qui attraverso i giochi su ofjentlich e 6jjentlichkeit, «pubblico», e «opinione pubblica», e contro ciò che simboleggiano «l'assistenza sociale», la democrazia, i partiti, le ferie pagate (oltraggio al monopolio della scholè e delle meditazioni nel bosco) e la «cultura di massa», la televisione e Platone in edizione tascabile 8 • Heidegger dirà meglio tutto ciò e con il suo stile pastorale inimitabile nell'EinftJhrong indie Metaphysik, composta nel 1935, nella quale egli 7 -M. HEIDF.GGER, Sein cit., pp. 126-127 [tr. it. Essere e Tempo, p. 200-201). e Nel momento in cui scrivevo queste pagine non avevo precisamente in mente questo passaggio del saggio sull'«oltrepassamento della metafisica» (1936-1946) dedicato a quell'aspetto del regno della «tecnica» che è il «dirigismo letterario»: «Il bisogno di materiale umano è soggetto alle regole dell'ordinamento dell'apparato esattamente come il bisogno di libri di lettura amena o di poesie, per la produzione dei quali il poeta non è in nulla più importante dell'apprendista rilegatore, che aiuta a rilegare le poesie per una biblioteca di fabbrica, per esempio andando a prendere in magazzino il cartone che occorre perla confezione del libro». (M. HEIDF.GGER, VortTage, cit. Il corsivo è mio) [tr. it. Saggi, cit., p. 62).
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mostrerà come il trionfo dello spirito scientifico-tecnologico nella civiltà occidentale finisce e si compie nella «fuga degli dei, la distruzione della terra, la massificazione dell'uomo, la supremazia del mediocre» (die Flucht der Gotter, die Zerstorung der Erde, die Vermassung des Menschen, der Vorrang des Mittel-mllssigen) 9 • È altrettanto chiaro che tra spiriti filosoficamente distinti, questa opposizione tra il distinto e il volgare non potrebbe avere una forma volgare. L'aristocraticismo universitario distingue forme distinte e forme volgari dell'aristocraticismo: questo senso della distinzione filosofica 10 fa si che gli avversari di Heidegger cerchino sempre invano nelle sue opere, e persino nei suoi scritti politici, le tesi più palesi del nazismo, e anche che i suoi seguaci non ces.gno mai di dar prova dell'intenzione di distanziarsi dalle forme più evidenti del disprezzo per le masse 11 • L'opposizione, che si potrebbe chiamare «primaria» - nel duplice senso - funzionerà nell'opera solo sotto la forma che essa ha preso una volta per tutte. E l'opera non cesserà di trasformarsi, in proporzione all'evoluzione immobile del sistema, per assumere forme nuove ma sempre altamente sublimate. Mettere in forma è di per sé mettere in guardia: è un atto che, in virtù della sua superiorità, esprime la distanza sovrana tra sé e tutte le determinazioni, soprattutto quando si tratta di concetti in «ismo», che riducono l'unicità irriducibile di un pensiero all'uniformità di una classe logica; la distanza tra sé e tutti i determinismi, soprattutto i determinismi sociali, che riducono la singolarità insostituibile di un pensatore alla banalità di una classe (sociale). È questa distanza, questa differenza che si trova istituita esplicitamente nel mezzo del discorso filosofico sotto la forma dell'opposizione tra l'ontologico e l'ontico (o l'antropologioo) e che dà al discorso già eufemizzato una seconda difesa, inattaccabile: ogni parola porta ormai la traccia indelebile della frattura che separa il senso autenticamente ontologico dal senso 9 Altro sintomo di questo aristocraticismo, la connotazione peggiorativa di tutti gli aggettivi che servono a qualificare l'esistenza prefilosofica: «inautentico», «volgare», «quotidiano», «pubblico», ecc. 10 Occorrerebbe sistematicamente recensire tutta la simbolica in virtù della quale il disporso filosofico annuncia la sua superiorità di discorso dominante. 11 Pensiamo, ad esempio, agli sviluppi del biologismo (cfr. M, HEIDEGGER, Nietuche, Paris, Gallimard, 1961, in particolare t. Il, p. 247).
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comune e volgare e che si iscrive talvolta nella sostanza significante, con uno di quei giochi fonologici cosi spesso imitati (existentielll exislenzial) . Cosi il doppio 'gioco con parole sdoppiate trova un prolungamento naturale nel mettere in guardia contro le letture «volgari» e «volgarmente» «antropologiche» che riporterebbero in superficie i significati sconfessati ma non rinnegati e destinati, attraverso la sublimazione filosofica, alla presenza assente di un'esistenza fantomatica: «Il termine "prendersi cura" ha in primo luogo un significato prescientifico e può voler dire: condurre a termine, concludere, "venire a capo" di qualcosa. L'espressione può anche significare: prendersi cura di qualcosa nel senso di "procurarsi qualcosa". In senso più largo, l'espressione viene usata anche come equivalente a: preoccuparsi che un'impresa fallisca. "Prendersi cura" significa qui qualcosa come temere. In contrapposizione a questi significati prescientifici e ontici, l'espressione "prendersi cura" è usata, nelle presenti indagini, come termine ontologico (esistenziale) indicante l'essere di un possibile essere-nel-mondo. Il termine non vuol significare che l'Esserci sia innanzi tutto e prevalentemepte economico e "pratico", ma che l'essere dell'Esserci dev'essere chiarito come cura (Sorge). Questo termine è, a sua volta, da assumersi ontologicamente come concetto strutturale. Esso non 1ia nulla a che fare con la "tribolazione", la "tristezza", le "preoccupazioni" della vita, quali si rivelano onticamente in ogni Esserci» Ili, Ili M. HEIDF.CGER, Seln, cit., pp. 56-57 [tr. it., cit., p. 97]. Queste strategie di mes.,a in guardia avrebbero potuto risvegliare i sospetti dei lettori francesi, se es.,i non fossero stati mes.,i in condizioni di ricezione tale da avere poche probabilità di capire le connotazioni nascoste che Heidegger rifiuta precedentemente (almeno finché le traduzioni le cancellano sistematicamente in nome della scissione tra l'ontico e l'ontologico). Infatti, agli ostacoli che un'opera crea all'analisi e che sono frutto di strategie di eufemizzazione cosi coscienti e sistematiche, si aggiunge in questo caso uno degli effetti più perniciosi dell'esportazione dei prodotti culturali, la sparizione di tutti i segni sottili dell'appartenenza sociale o politica, di tutti i segni, spesso molto discreti, dell'importanza sociale del discorso e della posizione intellettuale del suo autore, insomma di tutte le piccole unità del discorso delle quali l'indigeno è la prima vittima, llla che egli può, nello stesso tempo, apprendere meglio di chiunque altro, hon appena entra in pos.,esso delle tecniche di oggettivazione. Pensiamo, açl esempio, a tutte le connotazioni «amri'tinistrative» che Adorno (/argon àer Eigentllchkelt, Zur deutschen _Ideologie, Frankfurt, Suhrkamp, 1964, pp. 66-70) scopre sotto i termini «esistenziali» di «incontro» (Begegnung), di colloquio, o sotto le parole come Auftrag (missione) e Anliegen, parola molto ambigua, contemporanea-
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L'imposizione di una frattura netta tra il sapere sacro e il sapere profano, che è costitutiva dell'ambizione di tutti i corpi di specialisti che mirano a garantire il monopolio di un sapere o di una pratica sacra definendo gli altri come profani, prende una forma originale: presente ovunque, essa divide in un certo senso ogni parola, dandole un significato non corrispondente a ciò che essa sembra significare, iscrivendo nella parola, con le virgolette o con un'alterazione della sostanza significante, o con un semplice collegamento etimologico o fonologico a un insieme lessicale, la distanza che separa il senso «autentico» dal senso «volgare» o «semplice» 13 • Discreditando·i significati primi, che continuano a funzionare come supporto nascosto di molte relazioni sostitutive del sistema evidente, ci si dà la possibilità di portare il doppio gioco, se così possiamo dire, a un secondo livello. Infatti, malgrado l'anatema che li colpisce, questi significati sconfessati hanno ancora una funzione filosofica, poiché hanno il ruolo di referente negativo in rapporto al quale si definisce la distanza filosofica, la «differenza ontologica» che separa l' «ontologico» dall' «ontico », cioè l'iniziato dal profano, solo responsabile, per la sua incultura e per la sua perversione, dell'evocazione colpevole di significati volgari. Utilizzare altrimenti le parole quotidiane, riattivare la verità sottile, l'etumon, che la routine dell'uso ordinario lascia nell'abbandono, significa fare del giusto rapporto con le parole l'origine del successo o dell'insuccesso dell'alchimia filologico-filosofica: «Se un alchimista, non iniziato nell'intimo del suo sentimento, fallisce nei suoi esperimenti, questo avviene non solo perché egli utilizza elementi grossÒlani, ma soprattutto perché pensa in base alle proprietà comuni di questi elementi grossolani e non in base alle virtù degli elementi ideali. Così, una volta operato lo sdoppiamento completo e assoluto, noi facciamo piena esperienza dell'idealità 14 ». Anche il linguaggio possiede elementi sottili che la sottigliezza filologico-filosofica libera, come la dualità grammamente oggetto di una richiesta amministrativa e desiderio che tiene a cuore, e già usata in modo deviato, indiretto, nella poesia di Rillce. 13 Nella stessa logica si comprenderà l'uso che altre varianti del profetismo sacerdotale fanno oggi della «frattura epistemologica», sorta di passaggio iniziatico, compiuto una volta per tutte, del limite definitivamente tracciato tra la scienza e l'idelogia. 14 c. BACHELAJID, Lematérlalisme, cit., 1963, p. 59 [tr. it., cit.].
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ticale del greco on, contemporaneamente sostantivo e forma verbale che permette a Heidegger di dire: «Così, ciò che di primo acchitto poteva sembrare una sottigliezza grammaticale è, in verità, l'enigma dell'essere 15 ». In questo modo, facendo affidamento sull'effettualità della negazione filosofica, si può arrivare a ricordare i significati censurati e trarre un effetto supplementare dal rovesciamento completo della relazione tra il sistema evidente e il sistema nascosto che provoca questo ritorno del rimosso: come non vedere infatti una prova della potenza del «pensiero essenziale» nella sua attitudine a fondare nell'essere delle realtà così derisoriamente contingenti come la «sicurezza sociale» e così indegne del pensiero, che le si nomina solo tra virgolette 16? È così che, in questo «mondo rovesciato», dove l'avvenimento non è mai altro che l'illustrazione dell'«essenza», il fondamento viene a essere fondato da ciò che fonda 17 • «L'aver cura (Filrsorge), come ad esempio, l'assistenza sociale, si fonda nella costituzione ontologica dell'esserci in quanto con-essere. L'urgenza empirica dell'assistenza sociale deriva dal fatto che l'esserci si mantiene innanzitutto e per lo più nei modi difettosi dell'aver cura» 18 • Questo riferimento visibile e invisibile, invisibile a forza di essere visibile, contribuisce a mascherare, con la sua audacia, il fatto che non si è mai cessato di parlare di assistenza sociale in tutta un'opera ufficialmente consacrata ad una proprietà ontolo15 M. HEIDF.GGER, Holzwege, Frankfurt am Main, Klostermann, 1950 [tr. it. Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firenze, Nuova Italia, 1984, p. 321]. 16 A titolo di ulteriore esempio, e in particolare caricaturale, délla potenza del «pensiero essenziale», si può leggere il testo della conferenza del 1951, «Costruire, Abitare, Pensare» [Saggi e discorsi, cit., p. 96] dove la crisi dell'alloggio è «superata» in quanto tale e prende l'aspetto di crisi del senso ontologico dell' «abitare». 17 Questo effetto tipicamente «filosofico» è predisposto ad essere indefinitivamente riprodotto in tutti gli incontri tra «filosofi» e «profani», in particolare tra specialisti delle discipline positive, inclini a riconoscere la gerarchia sociale della legittimità che conferisce al filosofo la posizione di ultima istanza, culminante e fondativa ad un tempo. Questa azione professorale trova sicuramente un ottimo impiego negli usi «cattedratici». Il testo filosofico, frutto di esoterlzzazione, sarà esoterlzzato al prezzo di un lavoro di commento che il suo esoterismo renderà indispensabile e che trova i suoi migliori effetti nelle (false) concretizzazioni che vanno, in senso inverso, dalla falsa frattura alla riattivazione del significato primo, inizialmente eufemizzato e cosi esoterizzato, ma accompagnato dalla riproduzione delle messe in guardia («non è altro che un esempio») destinate a mantenere la distanza iniziatica. 18 M. HEIDF.GGER, Sein, cit., p. 121 [tr. it., cit., p. 193].
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gica dell'esserci, il cui «bisogno empirico» (comune, volgare, banale) di assistenza, non è altro che una manifestazione legata ad eventi particolari. «Perché menti dicendomi che vai a Cracovia affinché io creda che tu vai a Lemberg, mentre è a Cracovia che tu vai?»: offrendo un'illustrazione perfetta del paradigma della lettera rubata, che Lacan illustra con questa storia 19 , Heidegger tende a far credere, proclamando ciò che veramente fa, che egli non fa veramente ciò che non ha mai cessato di fare. Non c'è dubbio infatti: l'assistenza sociale, Sozialfarsorge, è proprio ciò che si preoccupa per gli assistiti e «al loro posto», ciò che li sgrava dalla preoccupazione di se stessi, autorizzandoli così alla spensieratezza, alla facilità e alla frivolezza, nello stesso modo in cui la Fursorge filosofica, variante sublime della precedente, sgrava il Dasein dalla preoccupazione o, come diceva (o avrebbe potuto dire) il Sartre del 1943, libera il Per-sé dalla libertà, votandolo così alla «cattiva fede» e allo «spirito serio» dell'esistenza «inautentica». «Il 'Sì' (cioè colui che si è abbandonato all'assistenza degli altri) è dunque colui che sgrava ogni singolo Esserci nella sua quotidianità. Non solo. In questo sgravamento di essere, il 'Sì' si rende accetto all'Esserci perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili. Appunto perché il 'Sì', mediante lo sgravamento, si rende accetto ad ogni singolo Esserci, può mantenere e approfondire il suo dominio ostinato 20 ». Il gioco con le forme sensibili del linguaggio trova il suo compimento quando concerne non tanto parole isolate, ma coppie di termini, cioè relazioni tra termini antagonisti. Differentemente dai semplici giochi di parole filosofici fondati sull'assonanza o l'allitterazione, i giochi di parole «cardinali», quelli che orientano e organizzano in profondità il pensiero, giocano con le forme sensibili in quanto esse sono contemporaneamente forme verbali e forme di classificazione. Queste forme totali, che riconciliano le necessità indipendenti del suono e del senso nel 19 J. LACAN, Ecrlts, Paris, Le Seuil, 1966, pp. 11-61 [tr. it. Scritti, a cura di G. Contri, Torino, Einaudi, 1974]. 20 M. HEIDEGCER, Sein, cit., pp. 127-128 [tr. it., cit., pp. 202-203]. Essendo lo stile «filosofico» heideggeriano la somma di un piccolo numero di effetti indefinitamente ripetuti, si è preferito evidenziarli in uno stesso passaggio, rispetto ad un parametro - l'analisi dell'assistenza. Occorrerebbe rileggere d'un fiato il passaggio in cui essi si trovano tutti concentrati per notare come essi si articolano praticamente in un discorso.
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miracolo di un'espressione doppiamente necessaria, sono la forma trasformata di un materiale linguistico già politicamente informato, informato, cioè, secondo i principi di opposizione oggettivamente politici, e, cosi, inscritto e conservato nel linguaggio comune. La predilezione di tutte le lingue colte per il pensiero per coppie non si spiega in altro modo: ciò che è censurato e rimosso in questo caso, non è un termine tabù, considerato isolatamente, ma una relazione di opposizione tra parole che rinvia sempre a una relazione di opposizione tra gruppi sociali 21 • La lingua comune non è solo una riserva infinita di forme sensibili offerte ai giochi poetici o filosofici o, come nell'ultimo Heidegger e nei suoi epigoni, alle libere associazioni di ciò che Niewche chiamava Begriffsdichtung, essa è anche un deposito di forme di appercezione del mondo sociale, di luoghi comuni, dove sono depositati i principi della visione del mondo sociale comuni a tutto un gruppo (germanicolwe"lsch o latino, comune/distinto, semplice/complesso, rurale/urbano, ecc.). La struttura dei rapporti di classe è nominata e appresa solo attraverso forme di classificazione che, si tratti anche di quelle veicolate dal linguaggio comune, non sono mai indipendenti da tale struttura (cosa che dimenticano gli etnometodologi e tutti gli analisti formalisti): infatti, benché le opposizioni più «marcate» socialmente (volgare/distinto) possano ricevere significati estremamente differenti secondo gli usi e gli utilizzatori, il linguaggio comune, frutto del lavoro accumulato di un pensiero dominato dai rapporti di forza tra le classi e, a maggior ragione, il linguaggio colto, frutto di campi dominati dagli interessi e dai valori delle classi dominanti, sono in qualche modo ideologie primarie che si prestano più «naturalmente» a usi conformi ai valori e agli interessi dei dominanti 22 • Ma, laddove il lavoro 21 Cosi le innumerevoli coppie di opposizione immaginate dagli etnologi e dai sociologi per giustificare la distinzione tra le società studiate dall'etnologia e le società che sono oggetto di studio della sociologia - «comunità»/«società», folk/urbano, tradizionale/moderno, società fredde/società calde, ecc. - costituiscono il migliore esempio della serie di opposizioni parallele e interminabili, perché ogni rappresentazione particolare evidenzia UD aspetto parziale dell'opposizione fondamentale, molteplice e a più sensi, tra le soéietà senza classi e le società divise in classi, e anche perché essa fornisce l'espressione più compatibile alla convenienza e alla convenzione che cambia da UD campo ad UD altro e da uno stato ad un altro dello stesso campo, cioè più o meno all'infinito. 22 È evidente che la lingua offre ai giochi ideologici altre po~ibilità rispetto a
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comune cli eufemizzazione, quello della «scienza politica», ad esempio, mette una parola al posto cli un'altra o neutralizza visibilmente il senso comune cli una parola troppo marcata da un esplicito mettere in guardia (le virgolette ad esempio), o da una definizione distintiva, Heidegger procede in maniera infinitamente più complessa: utilizzando la parola comune, ma in un contesto d'uso che, attraverso il gioco continuo coi differenti sensi della parola, richiede una lettura filologica e polifonica, atta a evocare il senso comune, egli rimuove ufficialmente questo senso e, con le sue connotazioni peggiorative, lo condanna nell'ordine della comprensione volgare e volgarmente «antropologica»23. L'immaginazione filosofica che, come il pensiero mitico, prova diletto quando la relazione puramente linguistica, materialmente attestata dall'omofonia, si sovrappone a una relazione di senso, gioca con forme verbali che nel loro più profondo legame sono forme classificatorie: cosi in Wom W esen der Wahrhett, l'opposizione tra l'«essenza» (Wesen) e la «non-essenza» o la «disessenza» (Un-wesen) si sdoppia nell'opposizione sotterranea, evocata e rifiutata ad un tempo, tra l'ordine - sorta di termine fantasma - e il disordine, uno dei sensi possibili di Un-wesen. Le opposizioni parallele, varianti inegualmente eufemizzate di qualche opposizione «cardinale», esse stesse grossolanamente riducibili le une alle altre, e delle quali l'opera di Heidegger posteriore alla Kehre (inversione, svolta) fornisce numerosi esempi, affermano, sotto forma sublimata, e tanto più universale nelle sue applicazioni quanto più è misconosciuta (come nell'opposizione tra l'ontico e l'ontologico), l'opposizione originaria colpita da tabù, costituendola in assoluto e iscrivendola nell'essere (effetto di ontologizzazione) nello stesso momento in cui la negano simbolicamente, sia riducendo un'opposizione assoluta e totale a una qualunque delle opposizioni secondarie, cioè superficiali e parziali, che possono derivarne, oppure a uno dei termini più manipolabili (nell'esempio citato Un-wesen) di una opposizione quelle esaminate da Heidegger. È cosi che il gergo politico dominante sfrutta principalmente le potenzialità di ambiguità e di malinteso contenute nella molteplicità degli usi di clime o degli usi particolari (legati a campi specialistici). 23 Si potrà controbattere a queste analisi che esHl non fanno altro che evidenziare caratteristiche dell'uso heideggeriano del linguaggio che Heidegger stes.ro rivendica espreMarnente - almeno nei suoi scritti più recenti -: in effetti, queste false 6onfessioni si inseriscono, come si cercherà di mostrare in seguito, nel lavoro di Selbitinterpretation e di SelbBtbehauptung, al quale si dedica completamente il secondo Heidegger.
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secondaria, sia con una strategia che, pur non escludendo la precedente, nega puramente e semplicemente l'opposizione originaria attraverso l'universalizzazione fittizia di uno dei termini della relazione - come quando si inscrive nell'universalità del Dasein, «l'infermità» e «l'impotenza» (Ohnmacht), fondamento di una forma di eguaglianza e di solidarietà nell'indigenza. I giochi di parole su Un-wesen cumulano tutti questi effetti, realizzando una forma di conciliazione dei contrari che ha un equivalente solo nella magia: l'assolutizzazione dell'ordine costituito (evocato solo attraverso il suo contrario, come nei sogni il vestito può significare la nudità) coincide con la negazione simbolica, attraverso l'universalizzazione, del solo termine visibile della relazione di dominio che fonda quest'ordine 24 •
Tutto è cosi fatto per impedire ogni tentativo indecente di esercitare sul testo la violenza, di cui Heidegger stesso riconosce la legittimità quando la applica a Kant, che pennette di «afferrare al di là delle parole ciò che queste parole vogliono dire». Ogni esposizione del pensiero originario che rifiuta la parafrasi ispirata all'idioletto intraducibile è, agli occhi dei custodi del deposito, qualcosa da condannare 25 • Il solo modo di dire ciò che vogliono dire queste parole, che non dicono mai ingenuamente ciò che vogliono dire, o, il che è lo stesso, che lo dicono sempre, ma solo in modo non semplice, consiste nel ridurre l'irriducibile, nel tradurre l'intraducibile, nel dire ciò che vogliono dire nella forma semplice, che essi, nell'esercizio della loro fondamentale funzione, negano. L' « autenticità» non designa semplicemente la proprietà esclusiva di un'«élite» socialmente determinata, essa indica una possibilità universale - come l'«inautenticità» - che appartiene tuttavia solo a 24 È attraverso strategie non paradossali - che si vogliono scientifiche -che la «politologia», che identifica l'oggettività scientifica con la «neutralità etnica», cioè con la neutralità tra le classi sociali delle quali essa nega l'esistenza, contribuisce alla lotta delle classi, apportando l'aiuto di una falsa scienza a tutti i meccanismi. che contribuiscono a produrre la falsa coscienza del mondo sociale. 25 A rigore, non esiste parola che non sia un hapax intraducibile: cosi, ad esempio, la parola «metafisica» non ha in Heidegger il significato che ha in Kant, né nel secondo Heidegger il significato che ha nel primo. Su questo punto Heidegger non fa altro che portare agli estremi una caratteristica essenziale dell'uso filosofico del linguaggio: la lingua filosofica come somma di idioletti a intersezioni parziali che non può essere adeguatamente utilizzata se non da locutori capaci di riferire ogni parola al sistema nel quale (essa) prende il significato che essi intendono dargli («nel senso di Kanh).
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coloro che giungono ad appropriarsene afferrandola come tale e aprendosi contemporaneamente la possibilità di «sfuggire» all'«inautenticità», al peccato originale, cioè, che attraverso la conversione di alcuni, viene a essere convertito in una colpa responsabile di se stessa. È ciò che dice con molta chiarezza Jiinger: «Avere il destino nelle proprie mani, o lasciarsi trattare come un numero: questo è il dilemma che ciascuno di noi deve risolvere ai nostri giorni, tuttavia ciascuno è solo nel mettervi fine (... ). Vogliamo parlare dell'uomo libero, così come esce dalle mani di Dio. Egli non è un'eccezione, né rappresenta un'élite. Lungi da questo: egli si nasconde in ogni uomo e le differenze esistono solo nella misura in cui ogni individuo sa attualizzare questa libertà che ha ricevuto in dono 26 ». Eguali per libertà, gli uomini sono diseguali nella capacità di servirsi autenticamente della loro libertà e solamente una élite può appropriarsi delle possibilità, universalmente offerte, di accedere alla libertà dell'élite. Questo volontarismo etico - che Sartre spingerà agli estremi - trasforma la dualità oggettiva dei destini sociali in una dualità dei rapporti con l'esistenza, facendo dell'esistenza autentica «una modificazione esistenziale» del modo comune di afferrare l'esistenza quotidiana, cioè una rivoluzione nel pensiero27; far cominciare l'autenticità con l'apprensione dell'inautenticità, con il momento di verità in cui il Dasein si scopre nel!'angoscia di progettare l'ordine nel mondo attraverso la sua decisione, sorta di «salto» (kierkegardiano) nello sconosciuto 28 , oppure, al contrario, descrivere la riduzione dell'uomo allo stato di strumento come un altro modo di apprendere l'esistenza quotidiana, quella del «Sì» che, considerandosi come uno strumento, «prendendosi cura» degli strumenti in quanto essi sono strumentali, diventa strumento, si adatta agli altri come uno strumento si adatta agli altri strumenti, ricopre una funzione che gli altri potrebbero ricoprire altrattanto bene e, ridotta allo stato di 26 E. J(lNCER, Essai sur l'homme et le temps, t. I, Traité du Rebelle [Der Waldgang, 1951], Monaco, Edition du Rocher, 1957, t. I; pp. 47-48. (Alla p. 66 si troverà un riferimento evidente, anche se implicito, ad Heidegger). 27 «L'ipseità autentica non riposa su alcuna .ritua:done d'eccezione che sopraggiungerebbe ad un soggetto liberato dall'influenza del "Si"; ~a può ~ e solo 14na modificazione esistenziale del "Sì", definito come "esistentivo/essenziale"»: M. HEIDEGGER, Seln, cit., p. 130 e anche p. 179 [tr. it., cit., p. 200]. 28 M. HEIDEGGER, Seln, cit., pp. 259-301 e 305-310.
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elemento intercambiabile di un gruppo, oblia se stesso, così come lo strumento nega se stesso nel compimento della sua funzione; tutto ciò significa ridurre la dualità oggettiva delle condizioni sociali alla dualità di modi di esistenza che le prime favoriscono in maniera palesemente ineguale; significa, nello stesso tempo, considerare coloro che si assicurano l'accesso all'esistenza autentica, così come coloro che «si abbandonano» all'esistenza «inautentica», responsabili di ciò che sono, gli uni per la loro «decisione» 29 che li strappa all'esistenza comune e schiude loro il possibile, gli altri per la loro «sottomissione» che li vota alla «deiezione» e all'«assistenza sociale». Questa filosofia sociale è in perfetta armonia con la forma nella quale essa si esprime. Basta infatti ricollocare il linguaggio heideggeriano nello spazio dei linguaggi contemporanei, in cui la sua distinzione e il suo valore sociale si determinano oggettivamente, per comprendere che questa combinazione stilistica particolarmente improbabile è rigorosamente omologa alla combinazione ideologica che essa deve veicolare: per sottolineare solo i punti pertinenti, la lingua convenzionale e ieratica della poesia post-mallarmeana alla Stephan George, la lingua accademica del razionalismo neokantiano alla Cassirer e infine la lingua dei «teorici» della «rivoluzione conservatrice» come Moller van den Bruck 30 , oppure più vicino certamente a Heidegger nello spazio politico, Ernst Jiinger 31 • In opposizione al linguaggio strettamente ritualizzato ed epurato, soprattutto nel vocabolario, della poesia post-simbolista, il linguaggio heideggeriano, che ne è la trasposizione in campo filosofico, accoglie, grazie alla licenza che la logica propriamente concettuale della Begrifjsdichtung implica, parole (ad esempio Farsorge) e temi che sono esclusi dal discorso esoterico dei grandi iniziati 32 e anche 29
Jcl, pp. 332-333, 387, 388, e 412-413.
The Polttics of Cultural Despair, Berkeley, Univesity of California Press, 1961. 31 w.z. LAQUEUR, Young Germany, A Hutory of the German Youth Movement, London, Routledge, 1962, pp. 178-187. 32 Lo stile di George è stato imitato da una generazione intera in particolare attraverso la mediazione del «Movimento giovanile» (lugendbewegung}, sedotto dal suo idealismo aristocratico e dal suo disprezzo per il «razionalismo arido»: «Il suo stile fu imitato, le sue frasi sovente citate; soprattutto là, dove egli parla di colui che ha volteggiato sul fuoco e che ~guirà in eterno il fuoco, oppure del bisogno di una nuova mobilità la cui autorità non derivi dalla corona e dallo scudo, o, ancora, dal Fiihrer che, col suo stendardo nazionale guiderà i 30 F. STDIN,
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dalla lingua altamente neutralizzata della filosofia universitaria. Forte dell'autorità della tradizione filosofica, che vuole che si tragga profitto dalle infinite potenzialità di pensiero contenute nel linguaggio comune 33 e nei proverbi popolari, Heidegger introduce nella filosofia universitaria (secondo la parabola del forno di Eraclito che egli commenta con compiaci.mento), parole e cose fino ad allora bandite, dando loro una nuova nobiltà mediante l'imposizione di tutti i problemi e di tutti gli emblemi della tradizione filosofica, e inserendole nelle trame ordite dai giochi verbali della poesia concettuale. La differenza tra i portavoce della «rivoluzione conservatrice» e Heidegger, che introduce nella filosofia la quasi totalità delle loro tesi e numerose parole da loro usate, risiede interamente nella forma che rende irriconoscibili tali idee e termini. Sfuggirebbe, tuttavia, certamente la specificità del discorso heideggeriano se si ridu~e all'uno o all'altro degli aspetti antagonisti la combinazione originale di distanza e di prossimità, di superiorità e di semplicità realizzata da questa variante pastorale del discorso accademico: questo linguaggio imbastardito sposa perfettamente l'intenzione di un elitismo alla portata delle masse che offre la promessa della salvezza filosofica ai più «semplici», purché essi siano capaci di capire, al di là dei messaggi sofisticati dei cattivi pastori, la riflessione «autentica» di un Fahrer filosofico che non è altro che un Fars-precher, umile vicario, e perciò sacralizzato, del verbo sacro.
seguaci verso il futuro Reich attraverso tumulti e sinistri presagi» (w.z. LAQUEUII, Young, cit., p. 135). 33 Heidegger evoca esplicitamente la tradizione - e più precisamente la deviazione che Platone fa subire alle parole eldos - per giustificare l'uso «tecnico» che egli fa della parola Gestell: «Secondo il significati:> comune, la parola Gestell indica una suppellettile, per esempio uno scaffale per libri. Si chiama Gestell anche uno scheletro. E altrettanto raccapricciante quanto questo scheletro, appare il senso che pretenderemmo ora di attribuire alla parola Gestell, per non parlare dell'arbitrio che si manifesta nel maltrattare in tal modo le parole della lingua esistente. Si può spingere la stranezza oltre questo punto? Certo no. Pure, questa stranezza è un antico uso del pensiero». [M. m:mECGER, La qtJeltione della tecnica, in Saggi e Discorsi, cit., p. 15]. Contro la stessa accusa di «arbitrarietà disordinata» Heidegger, rivolgendosi ad uno studente, lo esorta ad «apprendere il mestiere del pensiero» [M. HEIDF.GGER, Saggi, cit.].
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La lettura interna e il rispetto delle forme Fritz Ringer ha certamente ragione nel riconoscere la verità della reazione dei «mandarini» tedeschi al nazionalsocialismo nelle parole di Spranger che, nel 1932, giudicava «il movimento nazionale degli studenti ancora autentico nel suo contenuto, ma indisciplinato nella forma 34 ». Secondo il logocentrismo universitario, il cui limite è rappresentato dal feticismo verbale della filosofia heideggeriana, la filosofia filo-logica per eccellenza, è la buona forma che costituisce il buon senso. La realtà del rapporto tra l'aristocraticismo filosofico, forma suprema dell'aristocraticismo universitario, e ogni altra specie di aristocraticismo - anche quando si tratta dell'aristocraticismo autenticamente aristocratico dei Junker e dei loro portavoce si esprime nel mettere in forma e nel mettere in guardia contro ogni specie di «riduzionismo», cioè contro ogni distruzione della forma che mira a riportare il discorso alla sua espressione più semplice e dunque ai determinismi sociali della sua produzione. Prova ne sia la forma che prende in Habermas l'interrogazione su Heidegger: «Dal 1945, e da sponde opposte, si parla del fascismo di Heidegger. È essenzialmente il Discorso di rettorato del 1933, in cui Heidegger ha celebrato il "rivolgimento dell'esistenza della Germania", che è stato al centro di questo dibattito. Se la critica si ferma a questo punto, essa resta schematica. Al contrario, è più interessante sapere come l'autore di Sein und Zeit (e questo libro rappresenta l'avvenimento più importante in campo filosofico dopo La Fenomenologia di Hegel}, come un pensatore del suo rango abbia potuto abbassarsi a un modo di pensare così palesemente elementare quale rivela d'essere, a uno sguardo lucido, il pathos senza stile di questo richiamo all'autoaffermazione dell'università tedesca» 35 • Si noti come non è sufficiente essere in guardia contro un che di «altezzoso», che può avere «l'atteggiamento linguistico di Martin Heidegger scrittore» 38 , 34 E, SPRANGER, Meln Konfllkt mlt der natfonalsozfallstischen Reglerung, 1933, Universitas Zeitschrift ftir Wissenschaft, Kunst und Literatur, 10, 1955, pp. 457-473, citazione da F. RINGER, The Declfne of the German Mandarfna, The German Academfc Communlty, 1890-1933, Cambridge, Harvard University Prea, 1969, p. 439. 35 J. HABERMAS, Penaer aoec Hefdegger contTe Hefdegger, in Profils phflosophlques et polftfques, Paris, Gallimard, 1974, p. 90 (il corsivo è mio). 36 J, HABERMAS, Profila, cit., p. 100.
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per rompere con la cura dell'«altezza» del discorso, questo senso della dignità filosofica che il filosofo manifesta principalmente nel suo rapporto con la lingua. V« altezza» dello stile non è una proprietà accessoria del discorso filosofico. Essa è ciò attraverso cui si annuncia che questo discorso è un discorso autorizzato, investito, in virtù della sua conformità, dell'autorità di un corpo delegato a garantire una sorta di magistero teorico (a dominante logica o morale secondo gli autori e le epoche). Essa permette anche di non dire cose che non hanno posto nel discorso in forma o che non possono trovare portavoce capaci di dare loro la giusta forma; essa permette anche che alcune cose, altrimenti indicibili o irrecepibili, trovino il modo di esser dette e comprese. Gli stili sono gerarchizzati e gerarchizzanti, nel linguaggio comune così come nel linguaggio colto a un pensatore di «alto rango» conviene un linguaggio di «alta portata»: è questo che rende il «pathos senza stile» del discorso del 1933 sconveniente agli occhi di coloro che hanno il senso della dignità filosofica, cioè il senso della loro dignità di filosofi; gli stessi che salutano come un avvenimento filosofico il pathos filosoficamente raffinato di Sein und Zeit. È per !'«altezza» dello stile che sono messi in evidenza il rango del discorso nella gerarchia dei discorsi e il rispetto che è dovuto a esso. Non si considera una frase quale «la vera crisi dell'abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca dell'essenza dell'abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare» 37 come si considererebbe una frase del linguaggio comune quale «la crisi dell'alloggio si aggrava» o anche una frase del linguaggio scientifico quale «A Berlino, nella Hausvogteiplatz, quartiere d'affari, il prezzo del metro quadro, che nel 1865 era di 115 marchi, è salito a 344 marchi nel 1880 e a 990 marchi nel 1895» 38 • In quanto discorso in forma, il discorso filosofico impone le norme della sua ricezione 39 • La messa in forma, che 37 M. HEIDF.CGER, Saggi, cit., p. 108. 38 M. HALBWACHS, Classes sociales et
morphologle, Paris, Ed. de Minuit, 1972, p. 178. Va da sé che una tale frase è in partenza esclusa da ogni discorso filosofico che si rispetti: il senso della distinzione tra il «teorico» e l'«empirico» è di fatto una dimensione fondamentale del senso della distinzione filosofica. 39 Occorrerebbe - per estrapolare questa filosofia implicita dalla lettura filosofica Il la filosofia della storia dalla filosofia che ne è solidale - recensire sistematieamente tutti i testi (frequenti in Heidegger e nei suoi commentatori) nei quali si avvertono l'aspettativa di un trattamento puro e puramente formale,
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impone al profano una distanza rispettosa, protegge il testo dalla «trivializzazione» (come dice Heidegger) destinandolo a una lettura interna, nel duplice senso di lettura rinchiusa nei limiti del testo stesso e di lettura riservata a un gruppo chiuso di professionisti. Basta interrogare gli usi sociali per capire che il testo filosofico si definisce come un testo che può essere letto solo dai «filosofi», cioè dai lettori precedentemente convertiti, pronti a riconoscere - nel duplice senso - il discorso filosofico come tale e a leggerlo come esso vuol essere letto, cioè «filosoficamente», secondo un'intenzione pura e puramente filosofica, esludendo ogni riferimento a ciò che gli è estraneo, poiché il discorso, essendo fondamento di se stesso, non ha alcunché di esteriore. Il cerchio istituzionalizzato del disconoscimento collettivo, che è alla base della credenza nel valore di un discorso ideologico, si instaura solo quando la struttura del campo di produzione e di circolazione di questo discorso è tale che la negazione che esso opera, dicendo ciò che dice con una forma che mira a mostrare che non lo dice, incontra interpreti capaci di disconoscere nuovamente il contenuto che esso nega; quando, cioè, ciò che la forma nega è disconosciuto nuovamente, vale a dire conosciuto e riconosciuto nella forma e solo nella forma in cui esso si compie negandosi. In breve, un discorso di negazione richiede una lettura formale (o formalista) che riconosca e riproduca la negazione iniziale, anziché negarla per scoprire ciò che essa nega. La violenza simbolica contenuta in ogni discorso ideologico, in quanto disconoscimento che richiede un ulteriore disconoscimento, si esercita solo nella misura in cui il discorso ideologico ottiene, da parte dei suoi destinatari, di essere trattato come esso desidera, cioè con il rispetto che merita, nelle forme, in quanto forma. Una produzione ideologica è tanto più riuscita quanto più è in grado di far trovare in torto chiunque tenti di ridurla alla sua verità oggettiva: è proprio dell'ideologia dominante far cadere la scienza dell'ideologia sotto l'accusa di ideologia; enunciazione della verità nascosta del discorso fa scandalo perché dice «l'ultima cosa che c'era da dire». Le strategie simboliche, anche le più raffinate, non possono
r
l'esigenza di una lettura interna, circoscritta nello spazio delle parole, o, il che è lo stesso, l'irriducibilità dell'opera «autogenerata» ad ogni determinazione storica - escluse, evidentemente, le determinazioni interne alla storia autonoma della filosofia o, a rigore, alla storia delle scienze matematiche o fisiche.
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mai produrre completamente le condizioni della loro riuscita, e sarebbero votate all'insuccesso, se non potessero contare sulla complicità attiva di tutto un corpo di difensori dell'ortodossia che orchestra, amplificandola, la condanna iniziale delle letture riduttrici 40 • A Heidegger basta affermare che «la filosofia è, per sua st~
essenza, inattuale: essa appartiene infatti a quel genere di cose il cui destino è di non trovare mai una immediata risonanza nel presente, e anche di non doverla mai incontrare» 41 , o ancora che «appartiene all'essenza dei filosofi autentici l'essere necessariamente disconosciuti dai loro contemporanei» 42 , variazioni sul tema del «filosofo maledetto» particolarmente pittoresche nel linguaggio heideggeriano, che tutti i commentatori si sono affrettati a riaffermare 43 : «È nel destino di ogni pensiero filosofico, quando esso supera un certo grado di fermezza e di rigore, essere mal compreso dai contemporanei che esso mette alla prova. Classificare come apostolo del patetico, promotore del nichilismo, avversario della logica e della scienza, un filosofo che ha 40 Non è il sociologo che importa il linguaggio dell'ortodoma: «Il destinatario della Lettera sull'Umanismo unisce una profonda conoscenza di Heidegger allo straordinario dono della lingua, il che ne fa uno dei maggiori interpreti di Heidegger in Francia». (w.J. IUCHAJU>SON, s.J. HEIDEGGER, Through Phenomenology to Thought, la Haye, M. Nijhoff, 1963, p. 684, a proposito di un articolo di J. Beaufret); o ancora: «Il sensibile studio (di Albert Dondeyne) sostiene e appoggia la tesi che la differenza ontologica è l'unico punto di riferimento nel lavoro di Heidegger. Non tutti gli heideggeriani di stretta osservanza saranno d'accordo, forse, con l'idea stessa dell'autore, secondo la quale esiste un rapporto tra Heidegger e "la grande tradizione della philosophia perennis"» (ibid.). 41 M, HEIDEGGER, EinftJhrung in die Metaphyrik, dritte, unverilnderte/Auflage, Tubingen, M. Niemeyer, 1966 [tr. it. Introduzione alla metafisica, a cura di G. Masi, Milano, Mursia, 1968, p. 20], 42 M, HEIDEGGER, Nietzsche, I, p. 213. L'opera, dice da qualche parte Heidegger, «sfugge alla biografia» che non può che «dare un nome a qualcosa che non appartiene a nessuno». 43 È sorprendente notare come Heidegger, del quale è ben noto l'accanimento nel rifiutare tutte le letture esterne o riduttrici alla sua opera (Lettere a Jean Wahl, a Jean Beaufret, ad uno studente, a Richardson, colloquio con un filosofo giapponese, ecc.), non esiti ad usare contro i suoi concorrenti (Sartre in particolare) degli argomenti di sociologismo «volgare» dando al tema della «dittatura della dimensione pubblica» [Lettera sull'Umanismo, a cura di A. Bixio e G. Vattimo, Torino, S.E.I., 1975 pp. 79-80] il senso propriamente sociale - se non sociologico - che aveva senza dubbio in Sein und Zeit, e precisamente in un passaggio dove egli si applica a stabilire che l' «analitica esistenziale» del "Si" non ha assolutamente, come effetto, quello di apportare solamente al passaggio un contributo alla sociologia» (p. 41). Questa riutilizzazione di Heidegger I da parte di Heidegger II testimonia (con quel «solamente» della frase citata) che, se tutto è ri-negato, nulla è rinnegato.
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avuto come unica e costante preoccupazione il problema della verità, è uno dei travestimenti più strani, colpa della leggerezza di un'epoca» 44 • «Il suo pensiero si presenta come qualcosa di estraneo alla nostra epoca e a tutto ciò che è attuale» 45 • È così che la Lettera sull'umanismo, l'opera più considerata e più spesso citata da tutti gli interventi diretti destinati a manipolare strategicamente la relazione tra il sistema evidente e il sistema latente e, di qui, l'immagine pubblica dell'opera, ha funzionato come una sorta di lettera pastorale, matrice infinita di commenti che permettono ai semplici vicari dell'Essere di riprodurre per loro conto la distanza inscritta in ciascuna delle messe in guardia del maestro e di situarsi cosi dal lato giusto della divisione tra sacro e profano, tra iniziati e profani. Man mano che l'onda si diffonde, con cerchi sempre più larghi, autointerpretazioni, commenti ispirati, tesi colte, opere di iniziazione e infine manuali, man mano che si scende nella gerarchia degli interpreti e che diminuisce l'importanza delle frasi o delle parafrasi, il discorso esoterico tende a ritornare alla sua realtà, ma, come nelle filosofie emanatiste, la diffusione è accompagnata da una perdita in valore, se non in sostanza, e il discorso «trivializzato » e «volgarizzato» porta il marchio della degradazione, contribuendo cosl. ad alzare ancora il valore del discorso originale o originario.
Le relazioni che si instaurano tra l'opera del grande interprete e le interpretazioni o le sovrainterpretazioni che essa richiede, o tra le auto-interpretazioni destinate a correggere e a prevenire le interpretazioni infelici o malevoli e a legittimare le interpretazioni conformi, sono del tutto simili - fatta eccezione per l'humour, bandito dalla pompa e dal compiacimento accademici -, a quelle che, a partire da Duchamp, si instaurano tra l'artista e il corpo degli interpreti: la produzione, in entrambi i casi, fa intervenire l'anticipazione dell'interpretazione, prendendosi gioco degli interpreti, richiedendo l'interpretazione, e la sovrainterpretazione, sia per accoglierle in nome dell'inesauribilità essenziale dell'opera, sia per respingerle attraverso una sorta di sfida artistica all'interpretazione, che è un modo poi di affermare la trascendenza dell'artista e del suo potere creatore, cioè del suo potere di critica e di autocritica. La filosofia di 44
J.
BEAUFREI',
Introduction aw: phUosophfes de l'exi.stence. De Klerkegaard
à Hefdegger, Paris, Den~-Gonthier, 1971, pp. 111-ll.2. 411 o. POccELER, La pensée de M. Hefdegger, Paris, Aubier-Montaigne, 1963, p. 18 [Der Denkweg Martin Hefdeggers, Pfullingen, N~ke, 1963].
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Heidegger è certamente il primo e il più compiuto dei ready made filosofici, opere fatte per essere interpretate e fatte da l'interpretazione o, più esattamente, dalla dialettica viziosa - antitesi assoluta della dialettica della scienza - tra l'interprete che procede necessariamente per eccesso e il produttore che, attraverso le sue smentite, i suoi ritocchi, le sue correzioni, instaura tra l'opera e tutte le interpretazioni la differenza che esiste tra l'Essere e la semplice delucidazione degli essenti 48 • L'analogia è meno artificiale di quanto sembri a prima vista: affermando che il senso della «differenza ontologica» che separa il suo pensiero da tutto il pensiero precedente 47 è anche ciò che separa le interpretazioni «volgari», infraontologiche e ingenuamente «antropologiche» (come quella di Sartre) dalle interpretazioni autentiche, Heidegger rende la sua opera inaccessibile e condanna ogni lettura che, intenzionalmente o meno, si attiene al senso volgare, riducendo, ad esempio, l'analisi dell'esistenza «inautentica» a una descrizione «sociologica», come fanno alcuni interpreti ben intenzionati, ma mal ispirati, e come fa lo st~ sociologo, ma con tutt'altra intenzione. Porre nell'opera stessa la distinzione tra due letture dell'opera, significa ottenere dal lettore che egli, davanti ai più sconcertanti giochi di parole o alle più evidenti banalità, ritorca su di sé le magistrali messe in guardia, non comprendendo molto e, tuttavia, supponendo che la sua comprensione sia autentica poiché si astiene dal giudicare un autore che si è posto nella posizione di giudice di ogni comprensione. Come il prete che, come osserva Weber, dispone dei mezzi per far ricadere sui laici la responsabilità dell'insuc~o dell'impresa culturale, la grande profezia sacerdotale si assicura così la complicità degli interpreti, che non hanno altra scelta se non quella di ricercare la necessità dell'opera perfino negli incidenti, negli slittamenti o nei lapsus o di precipitare negli abissi dell' «errore», dell' «erranza». Ecco, di sfuggita, un esempio notevole di rilancio interpretativo che spinge a mobilitare tutte le risorse accumulate dall'inter48 Da questo punto di vista posnamo accostare questa intervista recente di Marcel Duchamp (apparsa nel VH 101, n. 3, autunno 1970, pp. 55-61) alla Lettera sull'Umanismo, con le sue innumerevoli smentite, i suoi giochi di astuzia coll'interprete, ecc. 47 Si obietterà che questa «pretesa» è 51& st51a smentita nella Lettera; ciò però non le impedisce di affermarsi di nuovo un po' oltre (pp. 122-134).
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nazionale degli interpreti per sfuggire al semplicismo precedentemente denunciato con un gioco di parole magistrale: «in inglese questo termine (en-ance) è un artefatto, ma con una garanzia: il senso primo del latino errare è to wander, vagare, il secondo senso to go astray, smarrirsi, o to en-, errare, nel senso di sviare dal giusto sentiero to wander from the right path), deviare. Questo duplice senso è contenuto nel francese en-er, vagabondare ma anche ingannarsi. In inglese, i due sensi sono contenuti nella forma aggettivale, en-ant, errante o colui che sbaglia: il primo senso (to wander, vagare) è usato per descrivere persone che vagano alla ricerca di avventura (cavalieri erranti), il secondo senso significa "deviare dal giusto o dal corretto", "errare". La forma nominale, en-ance, non è giustificata dall'uso inglese normale, ma noi lo introduciamo (seguendo l'esempio dei traduttori francesi, pp. 96 e ss.), con l'intenzione di suggerire ambedue i significati, e cioè wandering about, andare alla ventura, e going astray (erring), smarrirsi, essendo il primo la base del secondo. Ciò sembra essere fedele alle intenzioni dell'autore. In questo modo sono evitate, nei limiti del possibile, le interpretazioni più semplicistiche che sorgerebbero spontaneamente se si traducesse usando la parola en-or, errore». (w.J. RICHAIU>SON, Heidegger, cit., p. 224, n. 29, il corsivo è mio; cfr. anche p. 410, sulla distinzione tra poesy e poetry).
Cauzioni, autorità, garanti, i testi sono naturalmente la posta in gioco di strategie che, in questi campi, sono efficaci solo se si dismnulano come tali, e soprattutto - è la funzione della credenza - agli occhi dei loro stessi autori; la partecipazione al capitale simbolico, che è loro connessa, ha come controparte il rispetto delle convenzioni che definiscono in ogni caso, secondo la distanza oggettiva tra l'opera e l'interprete, lo stile della relazione che si stabilisce tra loro. Bisognerebbe analizzare più profondamente, per ogni singolo caso, quali sono gli interessi specifici dell'interprete, rivelatore, portavoce autorizzato, commentatore ispirato o semplice ripetitore, secondo la posizione che occupano l'opera interpretata e l'interprete nel momento considerato e nelle loro rispettive gerarchie, e determinare in cosa e come tale posizione orienta l'interpretazione. Sarebbe certamente difficile, ad esempio, comprendere una posizione in apparenza cosi paradossale come quella degli heideggeriano-marxisti francesi - i cui precursori sono Marcuse 48 e Hobert 49 - se si 48 H. MARCUSE,
Bettriige zur Phimomenologie dea historlschen Materlallsmus,
in «Philosophische Hefte», I, 1982, pp. 45-68. 49 c. HOBERT, Das Dasetn im Menschen, Zeulenroda, Spom, 1937.
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trascurasse il fatto che l'impresa heideggeriana di uscir fuori dall'ambito dei suoi ristretti confini precedeva le attese di quei marxisti preoccupati di rompere il proprio isolamento associando la più prestigiosa delle filosofie del momento alla plebeia philosophia per eccellenza, allora fortemente sospettata di «trivialità» 50. Tra tutte le combinazioni contenute nella Lettera sull'Umanismo 51 nessuna strategia poteva toccare più efficacemente i marxisti «distinti» della strategia di secondo grado, che consiste nel reinterpretare in riferimento a un contesto politico nuovo - che imponeva il linguaggio del «dialogo fruttuoso col manismo» -, la strategia tipicamente heideggeriana di (falso) oltrepassamento attraverso la radicalizzazione che il primo Heidegger esprimeva contro il concetto marxista di alienazione (Entfremdung): «L'ontologia fondamentale», che fonda «l'esperienza dell'alienazione», così come la descrive Marx (cioè in modo ancora troppo «antropologico»), sull'alienazione fondamentale dell'uomo, la più radicale che ci sia, cioè l'oblio della verità dell'Essere, non rappresenta forse il nec plus ultra del radicalismo 52? Basta rileggere il resoconto di una discussione tra Jean Beaufret, Henri Lefebvre, François Chàtelet e Kostas Axelos 53 per convincersi che questa inaspettata combinazione filosofica dipende poco da ragioni strettamente «interne»: «Sono rimasto incantato e preso come da una visione - questa parola non è molto esatta - tanto più sorprendente in quanto essa contrastava con la trivialità della maggior parte dei testi filosofici pubblicati da qualche anno» (H. Lefebvre); «Non c'è antagonismo tra la visione cosmico-storica di Heidegger e la concezione so È la stessa logica che ha condotto recentemente a delle «combinazioni», apparentemente più fondate, di marxismo e strutturalismo o freudismo, al punto che Freud (interpretato da Lacan) ha fornito una nuova garanzia per giochi di parole concettuali, alla maniera di Heidegger. 51 Cfr. M, HEIDEGGER, Lettera sull'Umanismo, cit., la smentita della lettura «esistenzialista» di Sefn und Zelt; pp. 88-93, la smentita dell'interpretazione dei concetti di Sefn und Zelt, come «secolarizzazione» di concetti religiosi; p. 89, la smentita della lettura «antropologica» o «morale» dell'opposizione tra l'autentico e l'inautentico; p. 97, la smentita, un po' forzata del «nazionalismo» delle analisi sulla «patria» (Hefmat), pp. 104 e ss. 52 Cfr. M. HEIDDEGER, Lettera sull'Umanismo, cit., pp. 106 e ss. 53 K. AXELOS, Arguments d'une recherche, Paris, Ed. de Minuit, 1969, pp. 93 e ss; cfr. anche K, AXELOS, Elnftihrung in eln kanjtiges Denken aber Marx und Heldegger (Introduzione ad un pensiero futuro su Marx e Heidegger), Tilbingen, Max Niemeyer Verlag, 1966.
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storico-pratica di Marx» (H. Lefebvre); «La base comune esistente tra Marx e Heidegger, ciò che a mio avviso li lega, è la nostra stessa epoca, quella della civiltà industriale altamente avanzata e della universalizzazione della tecnica (... ) I due pensatori hanno, insomma, in comune almeno lo stesso oggetto (... ). Ciò li distingue dai sociologi, ad esempio, che analizzano, qua e là, le manifestazioni particolari» 54 (F. Chàtelet); «Marx e Heidegger danno ambedue prova di radicalità nell'interrogarsi sul mondo, essi mostrano una stessa critica radicale del passato e una stessa preoccupazione per l'avvenire del pianeta» (K. Axelos); «Heidegger si proprone essenzialmente di aiutarci a capire ciò che dice Marx» 0- Beaufret); «L'impossibilità di essere nazista è tutt'uno con il mutamento di Sein und Zeit in Zeit und Sein. Se Sein und Zeit non ha salvato Heidegger dal nazismo, Zeit und Sein, che non è un libro, ma una raccolta di meditazioni fatte a partire dal 1930 e di pubblicazioni posteriori al 1946, lo ha allontanato dal nazismo per sempre» U. Beaufret); «Heidegger è sicuramente materialista» (H.-Lefebvre); «Heidegger, con uno stile molto differente, continua l'opera di Marx» (F. Chatelet).
Gli interessi specifici degli interpreti e la logica stessa del campo, che orienta verso le opere più prestigiose i lettori più inclini all'oblazione ermeneutica, non sono sufficienti a spiegare come la filosofia heideggeriana abbia potuto essere riconosciuta, nei settori più differenti del campo filosofico, come il compimento più distinto dell'intenzione filosofica. Questo destino sociale non poteva compiersi che sulla base di una precedente affinità delle disposizioni, affinità che rinvia essa stessa alla logica del reclutamento e della formazione del corpo dei professori di filosofia, alla posizione del campo filosofico nella struttura del campo universitario e di quello intellettuale, ecc. L'aristocraticismo piccoloborghese di questa élite del corpo professorale formata dai professori di filosofia, spesso provenienti dagli strati inferiori della piccola borghesia e arrivati, a forza di prodezze scolastiche, alla sommità della gerarchia delle discipline letterarie, là, dove il sistema scolastico offre un angolo di follia, fuori dal mondo e da ogni potere sul mondo, non poteva che concordare con questo prodotto esemplare di una disposizione omologa. 54 Si vede qui all'opera, cioè nella sua verità pratica, lo schema della «differenza ontologica» tra l'Essere e l'essente: è forse un caso che essa sorge quando si tratta di evidenziare le distanze e di ristabilire le gerarchie, tra la filosofia e le scienze sociali in particolare?
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Non c'è effetto, tra quelli apparentemente più specifici del linguaggio heideggeriano, l'effetto di pensiero radicale e planetario, l'effetto di enfatizzazione delle fonti e l'effetto di «pensiero fondatore» e, più in generale, tra quelli che costituiscono la retorica molle dell'omelia, variazione sulle parole di un testo sacro che funziona come matrice di un commento senza fine e insistente, animato dalla volontà di esaurire ciò che per definizione è inesauribile, non c'è effetto, ripetiamo, che non rappresenti il limite esemplare, dunque la legittimazione assoluta dei modi e dei tic professionali che permettono ai «profeti della cattedra» (Kathederpropheten), come dice Weber, di riprodurre quotidianamente l'illusion~ dell'extraquotidianeità. Tutti gli effetti del profetismo sacerdotale riescono in pieno solo sulla base della complicità profonda che unisce l'autore e gli interpreti nell'accettazione dei presupposti impliciti nella definizione sociologica della funzione di «piccolo profeta stipendiato dallo Stato», come dice ancora Weber: tra questi presupposti quello che meglio avvalora gli interessi di Heidegger è l'assolutizzazione del testo che ogni lettura colta opera. C'è stato bisogno di una trasgressione dell'imperativo accademico alla neutralità così straordinaria, come l'adesione del filosofo al partito nazista, perché fosse posto il problema, d'altronde immediatamente allontanato come indecente, del «pensiero politico» di Heidegger. E ancora una forma di neutralizzazione: i professori di filosofia hanno a tal punto interiorizzato la definizione che esclude dalla filosofia ogni riferimento esplicito alla politica che essi dimenticano che la filosofia di Heidegger è, in ogni suo lato, politica. La comprensione rimarrebbe formale e vuota nelle forme se non fosse spesso la maschera di una comprensione più profonda e più oscura che si costruisce sull'omologia più o meno perfetta delle posizioni e sull'affinità degli habitus. Comprendere significa anche capire le mezze parole e leggere tra le righe, operando in modo pratico (cioè spesso in modo inconscio) le associazioni e le sostituzioni linguistiche che il produttore ha inizialmente operato: così si risolve praticamente la contraddizione specifica del discorso ideologico che, effettuale in virtù della sua duplicità, può esprimere legittimamente l'interesse di classe o di una frazione çli classe solo con una forma che lo dissimula o lo tradisce. Implicito nell'omologia delle posizioni e nell'orchestrazione più o meno perfetta degli habitus, il riconoscimento
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pratico degli interessi, di cui il locutore è il portavoce, e il riconoscimento pratico della forma particolare di censura che ne impedisce l'espr~one diretta, dà immediatamente a~o, al di fuori di ogni operazione cosciente di decodificazione, a ciò che il discorso vuol dire 55 • Questa comprensione al di là delle parole nasce dall'incontro tra un interesse espressivo non ancora espresso, cioè rimosso, e la sua espr~one nelle forme, vale a dire un' espr~one già realizzata secondo le norme di un campo 56 •
55 È la comprensione cieca che caratterizza questa dichiarazione apparentemente contraddittoria di Karl Friedrick von Weizicker (citazione da J. HABER· MAS, Proftls, cit., p. 106): «Ero un giovane studente quando ho cominciato a leggere E&tere e Tempo, apparso poco tempo prima. Oggi p~ in tutta verità confessare che all'epoca non avevo capito aswlutamente nulla. Ma non potevo sottrarmi all'impressione che era solamente ll che il pensiero affermava i problemi che io intuivo essere dietro la fisica teorica moderna. Ancora oggi gli renderei questa giustizia». 56 Lo stesso Sartre, che avrebbe sorriso o si sarebbe indignato davanti alle professioni di fede élitarie di Heidegger, qualora esse fossero state presentate a lui con i tratti del «pensiero di destra» secondo Simone de Beauvoir (che curiosamente ha dimenticato Heidegger), non aveva altro modo di comprendere la maniera in cui l'opera di Heidegger esprime la propria esperienza del mondo sociale, quella che parla anche nelle pagine della Nausée, se non quella che si presentava a lui sotto una forma corrispondente alle convenienze e alle convenzioni del campo filosofico.
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Il discorso d'importanza Qualche riflessione sociologica su « Quelques remarques critiques à propos de "Lire Le Capitai"»•
Sebbene Sancio un tempo, e quando era In stato di avvilimento, avesse ogni sorta di •scrupoli• a godere di un beneficio ecclesiastico, ha tuttavia finito col decidere In considerazione delle mutate circostanze e del suo passato tirocinio come lanu/us di una devota confraternita dt •cacciarsi dalla testa• questi scrupoh E diventato arcivescovo dell'isola Baratarla e cardinale, e, in tale superiorità sieda con ana solenne e dignità di arciprete Ira i primi del nostro concilio.
Nena sua nuova posizione •frate Sanc•D• ci appare indubbiamente cambiato. Egli rappresenta L'ECCLESIA TRIUMPHANS In contrasto alrECCLESIII MILITANS ne:la quale prima si trovava. Le fanfare di guerra •dei libro• hanno caduto il passo a •Stirner•. Ciò dimostra tutta la ver,tà dal proverbio francese qu'/1 ny a qu'un pas du subi/ma au rldicule. Sancio orma, si chiama semplicemente •Stlrner•, da quando è diventato padta della chiesa a scriva lettera pastorali. Ha imparato da ,..._ _ _ __ Feuarbach
• JmENNE BALIBAR, Sur la dialec«que h'8totique. Quelques remarques crfflques à propos de "Lire Le Capital", «La Pensée»,, 170, agosto 1973, pp. 27-47. •• Questo testo di Marx, come i successivi, è tratto da L'ideologia tedesca. I disegni e l'impaginazione sono di Jean-Claude Mézières. [Abbiamo utilizzato l'edizione italiana a cura di Fausto Codini, Roma, Editori Riuniti, 1983 (N.d.t.)].
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«Quando si hanno doveri sacri - dice Nietzsche - non si è già consacrati da un simile dovere?» La dialettica sacerdotale del consacrante, sacralizzato dagli atti di sacralizzazione, si accentua con la combinazione delle dichiarazioni di umiltà (cfr. «non inutile», «senza privilegio alcuno», «limitati ma importanti», ecc.) e dei segni di enfasi (cfr. il raddoppiamento pomposo: «alle tesi e alle formulazioni», «invocate e utilizzate», «in Francia e all'estero», «di porre e di risolvere»; o la designazione enfatica dell'impresa: «sul terreno del materialismo storico», «nel lavoro collettivo», «un giorno, di là da venire, occorrerà consacrare a questo uso un'analisi storica speciale, e, ad un tempo, critica e completa», «poiché ora cominciamo a saperlo», ,:·...
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alrautodetermlnazione: egli si stanca tanto da annotare il processo verbale di questo autolnterrogatorlo che visibilmente questo lo la dimagrire.
t vero11imile che la tendenza relativiata innegabilmente presente in alcune mie fonnnlazioni di Lire Le Capilal (il più delle volte con una tenninologia di tipo strutturalista~ è il contraccolpo e l'effetto indiretto della tendenza evoluzionista nella quale erano caduti un gran numero di marxiati. (p. 45)
t nece&Bario constatare, per ritornare al mio punto di partenza, che uno degli orien· tamenti del mio testo Lire Le Capilal arriva preciaamente a rendere rigorosamente impensabili questi stadi, cioè queste trasformazioni storiche qualitative, almeno nel senso economiata ed evoluzionista corrente di estati di &viluppo•, tappe lineari nella realizzazione di una tendenza in Bé stessa immutata. (p. 46)
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cui sono denunciate, senza pietà, le minime tracce di eresia che i nemici più accaniti del marxismo, «antimarxisti» o «cosiddetti marxisti», non hanno nemmeno sospettato! La disciplina dominante è dominata dal suo ste90 dominio: la pretesa di governare il sapere empirico, e le scienze che lo producono, conduce, in questa variante dell'ambizione filosofica, alla pretesa di dedurre l'avvenimento dall'essenza, il dato storico dal modello teorico. Se l'auto-critica fosse condotta fino in fondo, essa scoprirebbe che si tratta di ripudiare non solo l'ambizione iniziale a dedurre i modi di produzione esistenti (cfr. «Noi non possiamo in alcun modo dedurre se il modo di questa costituzione», «deducibile dallo schema di struttura della formazione sociale in generale») da una sorta di scolastica combinatoria dei modi di produzione possibili e delle loro trasformazioni, ma anche la pretesa «teorica», che è all'origine di questa ambizione e che trova la sua giustificazione «teorica» nel rifiuto del «relativismo» e dello «storicismo», la pretesa, cioè, di una «scienza» senza pratica scientifica, di una «epistemologia» ridotta a un discorso giuridico sulla scienza degli altri.
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La retorica della scientificità: contributo a un'analisi dell'effetto Montesquieu I Guasconi hanno un'immaginazione più viva dei Normanni. MALEBRANCHE,
La ricerca della verità
Chiunque volesre analizzare il funzionamento di una tradizione colta non avrebbe esempio più pertinente di quello dei commenti suscitati dalla teoria del clima di Montesquieu: un problema che risale all'Antichità classica, oggetto di concorso nelle Accademie (fino a Pau, nel 1743, qualche anno prima della pubblicazione de L'Esprit des lois: «La differenza del clima, nel quale gli uomini nascono, contribuisce a creare quella degli spiriti?»); tante «fonti», reali o presunte, trovate proprio per accendere e alimentare dispute erudite, innumerevoli commenti che, secondo la legge del genere, concordano tutti parzialmente e considerano il testo canonico troppo seriamente ma non abbastanza per interrogarsi non tanto sulle verità (o sull'originalità) delle tesi che il testo professa, quanto sulla logica del modo di argomentazione di cui esso si serve per produrre un effetto di verità. Non varrebbe la pena interrompere la litania dei celebranti per tentare di costituire l'oggetto di culto in oggetto di scienza, e, più precisamente, in documento per la scienza della scienza sociale, se queste specie di stati crepuscolari, in cui la scienza sociale nascente esita tra il mito e la scienza, non offrissero una buona occasione per comprendere la logica dei miti colti che ossessionano ancora la scienza sociale. La teoria del clima è infatti un notevole paradigma della mitologia «scientifica», discorso fondato sulla credenza (o sul pregiudizio) che sbircia verso la scienza e che è caratterizzato dalla coesistenza di due principi intrecciati di coerenza: una coerenza dichiarata, di andazzo scientifico, che si afferma attraverso il moltiplicarsi dei
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segni esterni della scientificità, e una coerenza nascosta, mitica nella sua origine. Questo discorso a doppio gioco e a doppio senso deve la sua esistenza e la sua effettualità sociale al fatto che, nell'età della scienza, la pulsione inconscia che porta a dare a un problema socialmente importante una risposta unitaria e totale, alla maniera del mito o della religione, può essere soddisfatta solo se si prendono in prestito i modi di pensiero o di espressione della scienza.
L'apparato scientifico Quando, per un bisogno di disciplina epistemologica, c1 s1 applica a mostrare le incoerenze della mitologia razionalizzata 1, ci si vieta contemporaneamente di cogliere ciò che conferisce una consistenza e un'effettualità sociale sufficiente a motivare una simile critica - e a resistergli-, cioè l'unione tra l'apparato «scientifico» (che ha un'effettualità simbolica indipendente dal suo valore di verità) e la rete di significati mitici che gli garantiscono una coerenza di un altro ordine. In altre parole, la rottura più radicale con la tendenza agiografica, che porta naturalmente i celebranti a giustificare tutto 2 , non implica il I Pierre Gourou, che evidenzia tutte le incoerenze dal libro XIV fino al libro XVII de l'Esprit des lois, senza capirne l'origine, propriamente mitica, che dà la sua vera coerenza a questo discorso apparentemente incoerente, ha ragione nell'osservare che: «Era interessante evidenziare questi punti di vista di Montesquieu perché essi sono in noi - pronti a venir fuori - cosi come lo erano in lui. Pure noi pensiamo, anche se un'osservazione più corretta rispetto all'epoca di Montesquieu può parzialmente smentirlo, che le persone del Nord sono più alte, più calme, più lavoratrici, più oneste, più intraprendenti, più degne di fede, più disinteressate delle persone del Sud» (P. OOURou, Le terminisme physique dans "l'Esprit des lois", l'Homme, settembre-dicembre 1963, pp. 55-11). Ma se l'opposizione Nord/Sud continua ad esistere nelle menti, che si tratti dei «paesi sviluppati» e paesi «in via di sviluppo» (l'asse Nord-Sud») o, all'interno di una stessa nazione, dell'opposizione tra le regioni («Il Nord e il Sud») sarebbe un anacronismo credere che Montesquieu (il quale, secondo questo metodo di classificazione sarebbe un «uomo del Sud») pensi in questo modo all'opposizione tra il Nord ed il Sud della Francia, che apparirà solo più tardi, secondo gli studi fatti da Roger Chartier. 2 Eccone un esempio: «Ancora una volta, non ridiamo di questo esperimento rudimentale (si tratta di un esperimento sulla lingua di una pecora che Montesquieu riporta all'inizio del libro XIV sul clima); al contrario di Brèthe de la Gressaye, noi scopriamo in questo esperimento una anticipazione del sistema
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fatto che si rinunci a tener conto di tutti gli elementi della retorica della scientificità, che, oltre ad attestare una scientificità d'intenzione, contribuiscono all'effettualità specifica della mitologia «scientifica». Sono tutti prestiti della scienza medica del '700, la teoria degli umori e soprattutto la teoria delle fibre, elaborate da John Arburthnot 3 • «L'aria fredda fa restringere le estremità delle fibre esteriori del nostro corpo; ciò aumenta la loro elasticità e favorisce il ritorno del sangue dalle estremità al cuore. E~a diminuisce la lunghezza delle fibre in questione, ne aumenta dunque ancora la forza. L'aria calda, al contrario, rilassa l'estremità delle fibre e le allunga; ne diminuisce dunque la forza e l'elasticità» (XIV, 2; p. 382) 4 • Una psicanalisi dello spirito scientifico non tralascerebbe di rilevare le immagini primitive e le opposizioni mitiche che si insinuano, in favore della polisemia delle parole (equilibrio, potenza, molla, ecc.), nella descrizione anatomica e fisiologica: la metafora della dilatazione si combina con lo schema del teso (o indurito) e del rilassato, per stabilire, sotto le apparenze della descrizione scientifica, l'equivalenza tra freddo e forza (caldo e debolezza) che è all'origine, e lo vedremo in seguito, della coerenza mitica 5 • Nello stesso modo potremmo mostrare come la vaso-motorio di circolazione sanguigna e una forma dell'adattamento dell'organismo al clima. Ma l'importante è che Montesquieu, proprio nel momento in cui lo si potrebbe credere solamente interessato a costruzioni intellettuali, prepara invece un esperimento (P. VERNIÈIIE, Monte8quieu et l'Esprit des loia ou la Tal.son impuTe, Paris, SEDES, 1977, p. 79). 3 Appunti per la sociologia della tradizione colta: «Uno dei più grandi successi dell'abate Dedieu, nel corso della sua carriera dedicata in gran parte allo studio di Montesquieu, fu la scoperta, come fonte della teoria dell'influenza del clima, del libro Essay conceming the Ejfects of AiT on Human Bodies di John Arburthnot (R. SHACKLErON, The Evoluffon of Monte8quieu's TheoTY of Climate, in «Revue intemationale de philosophie», IX, 1955, Fascicolo 3-4, pp. 317-329). • MONTESQUIEU, De l'Esprit de8 lol&, Genève 1748, e Paris, Clamques Garnier, 2 volumi, 1973. I riferimenti rinviano ai libri, in cifre romane, e ai capitoli, in cifre arabe. [Per le citazioni abbiamo utilizzato l'edizione italiana Lo Spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, voi. I, Torino, UTET, 1973, alla quale rinvia il numero delle pagine (N.d.t.)]. 5 La prova che questo senso sottintf/80 è ben chiaro è fornita dalla traduzione di un commentatore: «L'aria calda, al contrario, allunga~ indebolisce questa fibra, il sangue circola meno velocemente. Il clima freddo rende dunque il corpo più vigoroso, la circolazione del sangue più veloce mentre il calore infiacchl&ce, distende, paTalizza». (A. MERQUJOL, Montesquieu et la géogTaphie politique, in « Revue intemationale d'histoire politique et constitutionelle », Vll, 1957, pp. 127-146).
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teoria degli umori si combina con le rappresentazioni pm profonde dei cibi (il maiale, ad esempio, XXIV, 25) per spiegare la dieta alimentare, altra mediazione possibile tra il clima e le disposizioni corporali e mentali. Ma l'allestimento e l'apparato «scientifici» non si limitano solo all'uso delle parole e dei modelli dotti e nemmeno ricorrono agli esperimenti (l'osservazione al microscopio di una lingua di pecora). Tutto indica che Montesquieu, basandosi sul modello di Descartes, intende fondare una scienza dei fatti storici che sia in grado di cogliere, come la fisica, «i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose» (I, p. 53). È in nome della scienza, della fede nel progresso della scienza e nel progresso attraverso la scienza (enunciata in termini molto cartesiani nel Discours sur les motijs qui doivent nous encourager aux sciences del 1725) che egli trasgredisce i limiti della conoscenza scientifica, soccombendo a ciò che, alla considerazione di una scienza più avanzata, apparirà come una forma di presunzione, o addirittura di usurpazione.
La coerenza mitica E pertanto, sotto l'apparenza scientifica, la base mitica affiora. Senza addentrarsi in una lunga analisi, si può restituire, sotto forma di uno schema semplice, la rete di opposizioni e di equivalenze mitiche, vera struttura fantasmatica che sostiene tutta la «teoria». Questa rete di relazioni è generata da un piccolo numero di opposizioni che in genere sono evocate da uno solo dei loro termini, il solo designato 8, e si riferiscono tutte a un'opposizione generatrice, quella del padrone (di se stesso, e dunque degli altri) e dello schiavo (dei sensi e dei padroni). Gli uomini del Nord, uomini davvero uomini, «attivi», virili, irrigiditi, tesi come molle («L'uomo - dice Montesquieu - è come una molla: fun8 Cosi, numerose caratteristiche negative dei popoli meridionali sono evocate solo allo scopo di evidenziare le virtù dei popoli del Nord: « Maggior fiducia in se stesi, vale a dire maggior coraggio; maggior conoscenza della propria superiorità, vale a dire minor desiderio di vendetta ; maggior consapevolezza della propria sicurezza, cioè maggior franchezza, meno sospetti, meno sottigliezza e, meno astuzia» (XIV 2; pag. 382). (Nello schema sono stati m~ tra parentesi i temi non trattati che appaiono solo per effetto di simmetria, e solo in secondo piano).
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ziona meglio quanto più è tesa»), persino nelle loro passioni, nella caccia, nella guerra o nel bere. Al contrario, gli uomini del Sud, sono destinati alla servitù, all'impero dei sensi, della sensazione ma anche dell'immaginazione, origine della pleonexia erotica e anche dei tormenti del sospetto e della gelosia; sono condannati alla passività (femminile) davanti alla passione passiva per eccellenza, l'amore fisico, insaziabile e impetuoso, passione della donna, intesa come passione per la donna e passione femminile e femminilizzante, passione che snerva, indebolisce, infiacchisce, priva di elasticità 7 • Questi atteggiamenti rilassati e fiacchi, in una parola effeminati 8 , danno origine a un'umanità doppiamente serva, e votata a subire la dominazione, salvo a sapersi dominare. Questo lato dell'opposizione fondamentale si realizza nel fantasma del serraglio 9, luogo dell'amore che «nasce e si calma incessantemente», e della poligamia, apparente servitù della donna che trova origine nella servitù dell'uomo rispetto ai sensi, dunque rispetto alle donne. Vediamo che, attraverso l'opposizione principale tra maschile e femminile, il rapporto con la donna e con la sessualità governa questa mitologia che, come accade spesso, è il prodotto della combinazione di fantasmi sociali e fantasmi sessuali, socialmente appresi. Non è certo un caso che Montesquieu ponga esplicitamente il 7 È evidente la complicità profonda tra il gioco di parola e il gioco dei fantasmi scientificamente garantiti. Si pensi, ad esempio, alle condanne mediche dell'onanismo (fiorite nel XVIII secolo) e alle condanne verso tutte le forme di intemperanza che rovinano «l'economia animale» sprecando la «forza vitale»: la lotta contro la masturbazione occupa un posto di primo piano nel XVIII secolo nell'ambito del discorso repremvo sulla sessualità. A partire dal 1710, con la pubblicazione a Londra dell'opera del Dr. Bekker, Onan ou le péché affrew: d'onanisme, e fino alla fine del secolo, 76 opere (libri, opuscoli, articoli) sono dedicate a quima «funima abitudine» (T. TARCZTI.O, L'Onanisme di Tissot, Dix-huitième siècle, Représentations de la vte sexuelle n. 12, 1980, pp. 79-96). s Un uso molto simile della parola effeminato lo troviamo in Diderot: «Se gli si perdonava il suo gusto effeminato per la galanteria, egli era davvero un uomo d'onore» (DmERoT, Jacques le fataliste et son maitre, Paris, Gallimard, 1973, p. 145) [tr. it. Jacques il fatalista e a suo padrone, a cura di G. Matoli, Torino, Einaudi, 1979). 9 Jean Starobinski ha ben visto l'ambivalenza dell'immagine del serraglio di lspahan, realizzazione compiuta della servitù, e del dispotismo dell'Oriente: « Le immagini "voluttuose" sono descritte con troppo compiacimento per non corrispondere alle brame immaginarie di Montesquieu» (J. STAR0BINSKI, Montesquieu par lut-meme, Paris, Le Seuil, 1953, pp. 67-68).
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NORD= FREDDO
SUD= CALDO
malattie fredde, suicidio (XIV, 12)
malattie calde, lebbra, sifilide, peste (XIV, 11)
INDURITO (teso) = FORTE
RILASSATO (vile) = DEBOLE
forza di corpo e di spirito fiducia in se stesso = CORAGGIO = FRANCHEZZA.
debolezza = scoraggiamento, (desiderio di vendetta= sospetti, astuzie, delitti) = viltà (XVII, 2)
Insensibilità (a) al dolore (b) e ai piaceri (c)
SENSIBILITÀ estrema ai piaceri, (dei sensi) (d) = amore= SERRAGLIO (XIV, 2)
musica calma (opere inglesi)
musica violenta (opere italiane)
(immaginazione ridotta) (XIV,
IMMAGINAZIONE viva = sospetto (c) = GELOSIA (XVI, 13)
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(attività)= VIRILITÀ (f)
PASSIVITÀ fisica, OZIO intellettuale
(nobile) impresa = sentimento generoso= curiosità
immutabilità delle leggi e dei costumi (g)
caccia, viaggi, guerra, vino (XIV, 2)
monachesimo (XIV, 7)
(monogamia - eguaglianza tra i sessi)
POLIGAMIA («servitù domestica») (XVI, 2, 9)
LIBERTÀ (XIV, 13) = monarchia e repubblica
SERVITÙ DISPOTISMO (h)
CRISTIANESIMO
MAOMETTISMO
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a) «Le sensazioni sono pertanto meno vive» (XIV, 2, p. 384). b) «Bisogna scorticare un Moscovita perché provi una forte sensazione» (XIV, 2, p. 385). c) «Nei climi del Nord a mala pena si fa sentire l'aspetto fisico dell'amore» (XIV, 2, p. 385). d) «Si amal'amorepersestesso, èl'unicacausadifelicità, èla vita» (XIV, 2, p. 385). «Nazioni amanti dei piaceri» (XVI, 8, p. 386). e) « La natura che ha dato a questi popoli una debolezza che li rende irresoluti, ha dato loro anche un'immaginazione così viva che tutto li colpisce all'eccesso» (XIV, 3, p. 387). «La legge degli Alemanni (... ) non puniva il delitto dell'immaginazione, ma quello degli occhi. Ma quando una nazione germanica si trasportò in Spagna (... ), l'immaginazione dei popoli si accese, quella dei legislatori si riscaldò del pari, la legge sospettò tutto per un popolo che poteva tutto sospettare (XIV, 14, p. 389). f) «I popoli guerrieri, valorosi e attivi, sono vicini ai popoli effeminati, pigri, irresoluti» (XVII, 3, p. 452). «Secondo i calcoli che si fanno in parecchie parti d'Europa, risulta che vi nascono più maschi che femmine, al contrario, le relazioni sull'Asia e sull'Africa ci dicono che laggiù nascono molte più femmine che maschi» (XVI, 3, pp. 431-432). g) «Se a questa debolezza di organi che fa ricevere ai popoli d'Oriente le impressioni più forti del mondo, voi unite una certa pigrizia istintiva dello spirito, naturalmente legate a quelle del corpo che faccia si che lo spirito non sia capace di alcuna iniziativa, di alcuno sforzo, di alcun freno, potrete comprendere come l'anima, la quale ha ricevuto una volta determinate impressioni, non possa più mutarle. E per questo motivo che le leggi, i costumi o le maniere (... ) sono oggi in Oriente quali erano mille anni fa» (XIV, 4, pp. 387-388). h) «Nei climi caldi, dove di solito regna il dispotismo, le passioni si svegliano e si attutiscono, più presto che altrove» (V, 15, p. 144). «Nei climi caldi le donne sono già da marito a otto, nove o dieci anni, cosi l'infanzia e il matrimonio vanno quasi sempre insieme. A venti anni sono già vecchie; la ragione non si accompagna mai in loro alla bellezza. Quando la bellezza vuole affermare il suo potere, la ragione lo fa rifiutare; quando la ragione potrebbe ottenerlo, la bellezza è scomparsa. Le donne devono rimanere sottomesse poiché la ragione non può loro procurare durante la vecchiaia un impero che la bellezza non aveva loro concesso nemmeno durante la giovinezza». (XVII, 2, pp. 428-429). «Vi sono climi ove l'elemento fisico ha una tale forza che la morale non vi può quasi niente. Lasciate solo un uomo con una donna: le tentazioni diventeranno delle cadute, l'attacco sarà sicuro, la resistenza nulla. In siffatti paesi, invece dei precetti, c'è bisogno di catenacci» (XVI, 8, p. 436). «Abbiamo già detto che il gran caldo snerva l'energia e abbatte il coraggio degli uomini; e che nei paesi freddi si ha una certa forza di corpo e di spirito che rende gli uomini capaci di azioni prolungate, faticose, importanti e ardite (... ). Non bisogna quindi meravigliarsi se la viltà dei popoli dei climi caldi li ha resi quasi sempre schiavi e che il coraggio dei popoli dei climi freddi li ha mantenuti liberi» (XVII, 2, pp. 449-450).
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La parola e il potere
problema dei «legami del governo domestico con quello politico» (XVI, 9, p. 437), poiché è qui che si intrecciano, oltre la sac.ualità e la politica, la trama delle ragioni coscienti, in cui è in questione una «servitù domestica» nel senso di un «impero sulle donne», e la catena nascosta dei fantasmi inconsci socialmente organizzati in cui sono in gioco, invece, l'impero esercitato dalle donne (col tema della astuzia, forza dei deboli) e il dispotismo come il solo mezzo per sfuggire a tale impero che resta agli uomini, specialmente a quelli sottomessi a questo potere universalmente malejico 10 • Non bisogna chiedere al mito, anche «razionalizzato», più logica di quanto ne possa offrire: Benché sempre presente, nella totalità, nel pensiero dell'autore e dei suoi lettori (i quali, ad esempio, per passività intendono femminilità), il sistema di relazioni mitiche non si manifesta mai come tale, e la logica lineare del discorso permette di effettuare solo una ad una, dunque succac;ivamente, le relazioni che lo costituiscono. Nulla vieta allora all'intenzione razionalizzatrice, che determina la mitologia «scientifica», di scoprire la relazione mitica attraverso una relazione «razionale» che la rafforza e la rimuove ad un tempo. Per esempio, la relazione mitica tra la passività e la femminilità o tra l'attività e la virilità, che non si esprime mai come tale, si stabilisce sotto la maschera di una «legge» demografica che attribuisce un'eccedenza di ragazzi ai popoli «guerrieri» del Nord e un'eccedenza di ragazze ai popoli «effeminati» del Sud (XVI, 4); nello stesso tempo, il nesso tra i «liquori alcolici», bevande (e passioni) forti degli uomini forti, e i popoli «guerrieri», secondo il quale questi popoli appaiono «furiosi» e non, come accade altrove, «stupidi», si istituisce solo attraverso la mediazione di una teoria «colta» della traspirazione (XVI, 10), che serve anche a giustificare il rifiuto che alcune civiltà del Sud oppongono al consumo di maiale (XXIV, 26); e ancora, il legame che unisce direttJ!IIlente la passività o la sensualità alla poligamia può instaurarsi a livello di logica evidente sia sotto la forma biologica, col tema della pubertà precoce delle donne del Sud (XVI, 2), che sotto la forma demografica, col tema già incontrato dell'eccedenza di donne 10 « Supponiamo un momento che la leggerezza e le indiscrezioni, i gusti e le avversioni delle nostre donne, le loro passioni, grandi e piccole si trovassero trasportate in µn governo orientale nella misura e nella libertà che godono da noi, quale padre di famiglia potrebbe rimanere tranquillo un solo momento? Ovunque persone sospette, ovunque nemici, lo Stato ne sarebbe scosso, fino alle fondamenta e si vedrebbero scorrere dei fiumi di sangue» (XVI, 9).
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(XVI, 4). Il discorso colto funziona come una rete di eufemismi che permettono alla pulsione sociale di esprimersi sotto una forma socialmente accettabile e persino approvata e prestigiosa. È così che la verità mitica, enunciata all'inizio sotto la forma scientificamente eufemizzata, dunque, dissimulata, dell'opposizione tra l'aria fredda che restringe le fibre e l'aria calda che le allenta, si dichiara apertamente, cinquanta pagine oltre, a favore dell'«allentamento» delle censure, che autorizza e impone la logica del sunto: «Non bisogna meravigliarsi se la lassezza dei popoli dei climi caldi li ha resi quasi sempre schiavi e se il coraggio dei popoli dei climi freddi li ha mantenuti liberi» (XVII, 2, pp. 449-450). Ril~atezza delle fibre, dei costumi, della molla vitale e dell'energia virile, lassezza; per generare miti socialmente accettabili, è sufficiente lasciar giocare le parole, lasciare che il gioco delle parole sia tale. Come avviene con lasso che significa contemporaneamente disteso, molle, debole, impaurito, la maggior parte delle parole hanno più sensi, sufficientemente distinti e indipendenti perché il loro accostamento nel motto di spirito, ad esempio, produca un effetto di sorpresa, e tuttavia abbastanza imparentati perché il richiamo all'unità appaia ragionevolmente fondato. I fantasmi sociali, generati dall'inconscio colto dello scrittore, hanno dalla loro la complicità e la docilità di una lingua e di una cultura, prodotti accumulati nel corso del tempo dall'inconscio sociale. Montesquieu non ha avuto bisogno di Aristotele, né di Bodin, né di Chardin, né dell'abate Du Bos, né di Arburthnot, né di Espinard de la Borde, né di tutte le «fonti sconosciute» che gli eruditi non finiscono mai di scoprire, per spiegare i principi fondamentali della sua «teoria» del clima 11 ; gli è bastato attingere a se stesso, cioè all'inconscio sociale che egli aveva in comune con tutti gli uomini colti del suo tempo 12 e che è all'origine delle «influenze» che n Per un controllo delle «fonti», si veda in particolare R. MERCIER, La théorie dea climats dea ,,Réfle:dom critiques» à ,d'Esprit dea lois,,, in «Revue d'histoire littéraire de la France», 53° anno, gennaio-marzo 1953, pp. 17-37 e 159-174. 12 «Se c'è stata una teoria popolare, una verità ammessa quasi da tutti e all'epoca in que.mone, è stata proprio quella delle influenze del clima e del suolo sulla salute, sulla felicità individuale e collettiva, sulla fprma dei regimi politici, sulla legislazione privata e pubblica» (A. MERQUIOL; Montesquieu), cit. La logica stessa del rilancio erudito che porta ad estendere incessantemente l'universo delle «fonti» (o delle «influenze») solleva il problema sociologicamente poco pertinente della «originalità» (cfr. ad esempio P, VERNIÈRE, Montesquieu, cit., pag. 8.2). (Gli stessi che os.servano che Montesquieu può far pas.sare per personali idee già formulate prima di lui considerano implicitamente come
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La parola e il potere
costoro hanno potuto esercitare su di lui. Resta il fatto che la tradizione colta, per l'autorizzazione o per il rafforzamento che conferisce al fantasma sociale e per l'autorità e la legittimità che dà alla sua espressione, fa parte delle condizioni sociali di possibilità del mito colto, della sua forma, vale a dire del linguaggio di tipo scientifico di cui esso si orna, e, certamente, della sua stessa esistenza. Ma anche della sua ricezione: sarebbe penoso altrimenti pensare che, tra tanti commentatori, nessuno abbia avuto l'idea di analizzare la logica specifica della mitologia «scientifica», che, particolarmente visibile nella teoria del clima, è certamente presente nell'insieme de l'Esprit des lois 13 • Le opere legittime richiedono una sottomissione e un compiacimento che allentano l'attenzione logica ogni qual volta l'inconscio sociale trae il suo tornaconto 14 e tentano di escludere la possibilità che si possa trattare come oggetto di scienza ciò che si dà invece come oggetto di culto e soggetto di scienza. Significherebbe rendere giustizia all'autore de l'Esprit des lois attribuire il suo nome all'effetto di imposizione simbolica del tutto particolare che è prodotto, sovrapponendo alle proiezioni del fantasma sociale, o alle precostruzioni del pregiudizio, l'apparenza di scienza che si ottiene attraverso il transfert dei metodi o delle operazioni di una scienza più compiuta o semplicemente «fonte» e dunque come origine di «influenza», ogni opera che racchiude un'idea vicina a quella di Montesquieu e recensita nella biblioteca del filosofo). 13 Ci si può chiedere se il principio dell'unità organica che ci si compiace di riconoscere ne l'Esprit des lois e che è attestato dai legami visibili tra la teoria dei regimi (e in particolare del dispotismo) e la teoria del clima (e tante altre corrispondenze relative alla condizione delle donne, al diritto di conquista, ecc.) non sia dello stesso tipo e se la «teoria» del clima non abbia basi mitiche (cfr. «l'impero del clima è il primo tra gli imperi», XIX, 14). 14 Basta considerare gli epigoni della teoria del clima, dalla Ecole de la science sociale di Le Play, A. de Préville, H. de Tourville, P. Bureau, ;p, Deschamps e E. Demolins, alla Ecole des sciences politiques e ai suoi esercizi di geografia politica, dall'Anthropo-géographie di Ratzel alla Geopolitik, per avere un'idea dei fondamenti (politici) dell'adesione ad una «teoriu che ha come effetto, tra le altre cose, quello di concepire la sparizione della storia, riducendo il determinismo storico, che lascia spazio all'azione storica, al determinismo fisico, che porta ad accettare o a giustificare l'ordine costituito (è d'altronde la funzione che Montesquieu attribuisce al principio del determinismo fisico: «Una legge che appare ingiusta alla ragione teorica, e che si è tentati di correggere in nome del Diritto naturale, è in realtà il prodotto di una lunga serie di cause ed effetti; essa è in rapporto a molte altre leggi; non la si potrebbe cambiare senzjl contravvenire allo spirito generale della nazione; per questo la migliore tra le teorie è in realtà un errore politico. È dunque preferibile
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più prestigiosa. Effetto che, anche se sconosciuto alla fisica e alla biologia 15, ha trovato il suo terreno fertile nelle scienze sociali, dove non si contano più le «teorie» ottenute attraverso l'imitazione meccanica della biologia e soprattutto della fisica 1e.
rinunciare all'assoluto della giustizia per salvaguardare l'ordine tradizionale, foss'anche imperfetto». (F. STAROBINSKI, Montesquieu, cit., pp. 86-87). 15 c. CANGUJLHEM, ldéologie et rationalité dans lnistoire des sciences de la vie, Paris, Vrin, 1977, pp. 39-43. 16 Si può leggere come un contributo ad una patologia dello spirito scientifico l'opera di WEIINEII STARK, The Fundamental Forms of Social Thought (London, Routledge and Kegan, 1962) che ricorda alcune forme teratologiche dell'organicismo (Bluntschli, Schilffle, Lilienfeld) o del meccanicismo (Pareto naturalmente, ma anche Carey, Lundberg, Dodd, ecc.) e anche, nella stessa logica, lo studio di CYNTHIA EAGLE RUSSE'IT, The Concept of Equilibrlum in Amerlcan Social Thought, New Haven, Yale University Press, 1966.
Indice dei nomi
Accettabilità, 59-60, 65-66, 71. AoollNO, 145. AJ.THUSSER, 135, 169-194. AusnN, 55-59, 83-95, 106, 123. Autorità, v. capitale simbolico, performativo. BACHELAIID, 141,148. BACHTIN, 15, 73.
BALIBAR,
169-194.
BALLY, 63. BENVENISTE,
17, 56, 85, 111. BERNSTEIN, 31. BERRENDONNER, 57, 62. BLOOMFIELD, 21. Bo1s (P.), 111. BRUNOT, 23, 39. Cambiamento (linguistico), 42-46. Campo (letterario}, 36-42, (v. censura, mercato). Campo (linguistico), 42-46. CANGUILHEM, 197. Capitale linguistico, 29, 34-36, 42, 47-52 (v. competenza, performativo, simbolico), 54-59, 80, 87, 111113, 116, 122, 163, 180. CASsIRER, 155. Censura, 60-63, 68-70, 71-73, 75, 137-167. CHARTIER, 186. CHOMSKY, 5, 6, 20. Classe (sociale), 128, 130. Collisione (stilistica), 64. Competenza, 50 (v. capitale, habitus). CoMTE, 19.
Concorrenza (lotta di), 44-46. 25. Condiscedenza, 48-51, 52, 61, 104105. CoRNULIER, 55. Corpo (hexis corporea), 66, 71-72. Correzione, 40-41, 60-63, 67 (v. ipercorrezione, ipocorrezione). Cortesia, 63, 73, 106. Credenza, v. riconoscimento.
CoNDILLAC,
DAVY, 26. Diritto, 17. Distinzione, (v. scarto, profitto, stile, valore). Donne (e linguaggio), 28, 67, 74. Doxa, 122, 125-127. 0uCROT, 57. Dmutm:IM, 26, 100, 103. ENCREVt, 34, 44. Enunciazione (lavoro di), 123. Epochè, 122. Eresia, 122-123. Eufemismo, 62, 64, 69, 126, 137, 143. Facoltativo, 34-52. FLAUBERT, 136. Forma (messa in), 59, 61, 62, 64, 6970, 89, 138-140, 143, 144, 157-160 (v. censura, eufemismo). F'REcE, 16. FREuo, 137. · Frontiera, v. limite confine. GEDRGE,
155.
Indice dei nomi
200
GoURou, 188. Grammatica (incorporata), 42. Gruppo, 114-125, 128 (v. cl-). IIABERMAS, 20, 83, 157-158. Habitus (linguistico), 12, 23, 29, 52, 53, 59, 63, 65-66, 67. ffALBWACHS, 158. HAUGEN, 39. liEa>F.GGER, 136, 140-167. HUMBOLDT, 26. Identità, v. gruppo. Importanza (linguaggio di), 54, 58, 135, 169-183. Insulto, 57, 59, 72, 80-101. Intimidazione, 29-30, 65. Ipercorrezione, 43-44, 67, 105. lpocorrezione, 43-44, 105 (v. condiscendenza). Istituzione, 55-58, 79, 80, 97-107, 114-116. }ASPERS, 143. }UNGER, 143, 154, 155. KANT, 5, 17, 136. KANTOROWIC:Z, , 58, LABOV,
104.
30, 31, 70, 71.
LACAN, 150. LAKoFF, 69-70. LAQUEUR, 155. LATTIMORE, 102. LEIBNIZ, 129. Lettura, 161-162. Limite, 98, 102-103, 109-119 (v. regione). Liturgia (crisi della), 91-95. Magia, 100-101 (v. performativo). Manifestazione, 114,123 (v. ufficiale). MARCEL, 125. Marx, 23, 102, 127-128, 133-134, 169192. Mercato, 12, 29, 34, 47-75, 135; (unificazione del) 28-30, 52, 168. Mil.NER, 80. Ministero, 58, 81, 95. Mitologia («scientifica»), 117, 187197. Mo~UIEU, 136, 187-197.
MOUNIN, MYRDAL,
13. 129.
Negazione, 126, 143-144, 149, 159. N1con, 141. NIETZSCHE, 135, 151, 170. Nomina, 57, 79, 101 (v. insulto, performativo). Ortodossia, 125-127, 160 (v. doxa, eresia). PASCAL, 135. Performativo, 51, 54-59, 80-81, 8395, 106, 112-116, 122, 129 (v. capitale). Po1NCARÉ, 97, 103. Politica (azione), 14-17, 121-131. PoPPER, 129. Portavoce, 53, 58, 60, 81, 83, 85, 101, 106, 138, 158 (v. ministero). Previsione, 122, 127-131. Probabilità, 129-131. Profitti (previsione dei), 59-75. Profitto (di distinzione), 34-36, 47, 49, 52, 55, 60. QUÉMADA,
39.
Rappresentazione, 81-85, 91, 99, 109119. fu:BouL, 112. fu:cANATI, 56. Regione, 109-119, 187-197. Religione, 14-17, 89-95. Riconoscimento, 29, 30, 43, 49, 50, 54, 58, 62, 123, 125 (v. capitale simbolico); scarto tra - e conoscenza, 43, 50, 68, 87-95, 114. RINGER, 157. Rituale, 54, 80, 87, 97-107. RUWET, 80.
SARTRE, 154,162,167, SAUSSURE, 5, 6, 20, 21, 32, 33, 35, 83, 143. Scarto, 33, 45-46, 49. SCHMITT, 143. SCHOPENHAUEII, 105. SCHRAMM, 58. Scientificità (retorica della), 126, 187197.
Indice dei nomi
191, 197. STERN, 155. Stile, 13, 33, 40, 44, 45, 47, 71, 74, 85, 135; (articolatorio) 71-75. STIRNER, 135. Sublimazione, 147 (v. eufemismo). STAROBINSKI,
Teoria (effetto della), 80, 122, 127131. TROUBEI'ZKOY, 44. TURNER, 97.
201
Ufficiale, 21-23, 49-53, 57, 61, 64, 69, 70, 80, 85, 114, 138. Valore (distintivo), 12, 33, 40, 46, 47, 50, 53, 66, 74, 155. VAN GENNEP, 97. VENDRYES, 14. Virilità, 71-75.
WEBER, 17, 53, 123, 162, 166. WHORF,
26.
Indice
Introduzione
5
L'economia degli scambi linguistici
9
1. La produzione e la riproduzione della lingua legittima 2. La formazione dei prezzi e la previsione dei profitti
19 47
Linguaggioepoteresimbolico (;>·
77
1. Il linguaggio autorizzato: le condizioni sociali dell'effettualità del discorso rituale 2. I riti di istituzione 3. La forza della rappresentazione 4. Descrivere e prescrivere: le condizioni di possibilità e i limiti dell'effettualità politica
83 97 109 121
Analisi del discorso
133
1. Censura e messa in forma 2. Il discorso d'importanza. Qualche riflessione sociologica su «Quelques remarques critiques à propos de "Lire le Capitai"» 3. La retorica della scientificità: contributo a un'analisi dell'effetto Montesquieu
137
Indice dei nomi
199
169 187
Finito di stampare nel febbraio 1988 per conto di Guida editori, Napoli presso La Buona Stampa, Ercolano
ISBN 88-7042-907-5
1. Emmanuel Lévinas, L'aldilà del versetto
Micbel Ragon, Lo spazio della morie Tzvetan Todorov, Simbolismo e interpretazione Maurice Keen, La Cat•alleria Woligang Reinhard, Storia dell'espansione europea 6. Murray Edelman, Gli usi simbolici della politica 7. Klaus Heinrich, Parmenide e Giona
2. 3. 4. 5.
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