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Italian Pages 128 Year 2013
dello stesso autore per elèuthera David Graeber Frammenti di antropologia anarchica David Graeber Critica della democrazia occidentale nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta
David Graeber
Oltre il potere e la burocrazia l’immaginazione contro la violenza, l’ignoranza e la stupidità
prefazione di Adriano Favole
elèuthera
Titoli originali: Dead zones of the imagination (2006), On The Phenomenology Of Giant Puppets (2012) Traduzione dall’inglese di Alberto Prunetti © David Graeber © 2013 elèuthera This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Il saggio Dead zones of the imagination è stato originariamente pubblicato dalla rivista «HAU: Journal of Ethnographic Theory», n. 2, 2012 progetto grafico di Riccardo Falcinelli il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]
Indice
Prefazione di Adriano Favole Riferimenti bibliografici
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prima parte Le zone morte dell’immaginazione su violenza, burocrazia e lavoro interpretativo Riferimenti bibliografici
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seconda parte Fenomenologia dei mega-pupazzi
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Prefazione di Adriano Favole
La traduzione, in un solo anno, di ben quattro saggi di antropologia scritti dallo stesso autore, è un evento raro e forse unico nel panorama editoriale italiano. David Graeber [2012a, 2012b, 2012c, 2012d] si sta in effetti imponendo sulla scena internazionale come uno degli antropologi di riferimento [González Díez 2013]. Se la sua produzione etnografica dedicata ai Merina del Madagascar era passata quasi del tutto inosservata [Graeber 1995, 2007], a rendere celebre il suo lavoro che unisce teoria e attivismo politico è stata la sua antropologia impegnata all’interno dei movimenti che in Italia sono noti come «no global» – una definizione che Graeber (come molti altri) non ama affatto, preferendo espressioni come globalization movements o «movimenti per una giustizia globale». Nonostante che, come lo stesso autore non cessa di ricordare in molte delle sue pubblicazioni, ci sia un legame stretto tra le esperienze di ricerca svolte nelle comunità rurali del Madagascar e le sue riflessioni (e azioni) sui temi della democrazia diretta, della critica anarchica al potere e allo Stato, al neoliberismo e al capitalismo, sono le teorie e le etnografie dei 7
«movimenti» ad aver fatto presa nel pubblico americano e, più di recente, italiano e internazionale. Il primo dei due saggi pubblicati in questo libro è il frutto della revisione e dell’approfondimento della prestigiosa Malinowski Memorial Lecture, tenuta da Graeber nel 2006 [2012e]. Il secondo è una etnografia dei «movimenti» (pubblicata fino ad ora solo online) costruita con uno sguardo da vicino e dall’interno, dedicata in particolare agli aspetti simbolici dell’attività distruttiva dei Black Bloc e dell’attività creativa dei realizzatori dei grandi pupazzi esibiti nel corso delle manifestazioni (Seattle, Washington, Miami…) contro il neoliberismo e la globalizzazione «selvaggia». I due testi sollevano importanti questioni per gli antropologi e per tutti coloro che lavorano per una democrazia diretta e partecipata. Si tratta di sassi gettati nello stagno, senza particolari pretese di approfondimento teorico e di completezza bibliografica, scritti con l’obiettivo di creare perturbazioni, provocazioni e dibattiti attorno a questioni di grande rilevanza per la società contemporanea. L’opprimente peso della burocrazia, oggetto di interesse del primo saggio, è una di queste. Perché la burocrazia è oggi così ossessivamente presente nei nostri lavori e nella nostra vita quotidiana? Di recente, in una lettera aperta al nuovo ministro dell’Università Maria Chiara Carrozza, il presidente del corso di laurea in filosofia dell’Università Tor Vergata di Roma, Giovanni Salmeri, ha denunciato la «farragine burocratica», il «labirinto di Cnosso», la «stupidità» e l’«arroganza», il «delirio burocratico» che opprime coloro che oggi insegnano e lavorano nelle Università italiane (lo stesso si potrebbe osservare per la scuola e per gran parte dell’amministrazione pubblica). Le riforme universitarie approvate dai governi precedenti hanno infatti introdotto sistemi di autovalutazione e di accreditamento dei corsi di studio che, senza rendere più chiara e agevole agli studenti la scelta del percorso universitario, obbligano i docenti a un costante e umiliante lavoro di compilazione di enormi schede informative, spesso con un linguaggio ermetico e incomprensibile. Invece di soddisfare 8
le legittime esigenze degli studenti che chiedono ai docenti «un incontro umano, un’esperienza, un consiglio, un orizzonte di vita», ci si trova a occupare il proprio tempo a «decifrare leggi fumose e contraddittorie, a partecipare a interminabili riunioni di indottrinamento amministrativo, a compilare moduli…»1. Può l’antropologia aiutarci a comprendere il delirio burocratico in cui siamo immersi e quindi a difenderci da esso? Per Graeber, la chiave di volta va cercata nel nesso tra burocrazia e violenza strutturale. «Quel che intendo argomentare è che le situazioni create dalla violenza – in particolare dalla violenza strutturale, espressione con cui indico le forme diffuse di diseguaglianza sociale che sono in ultima istanza sostenute dalla minaccia di un’aggressione fisica – tendono invariabilmente a creare quelle forme di intenzionale cecità che normalmente associamo alle procedure burocratiche». L’ipertrofia burocratica che attanaglia molte società occidentali, sostiene l’antropologo americano, è una forma di semplificazione e, insieme, di impoverimento estremo della realtà sociale. L’imposizione di una burocrazia asfissiante si radica in primo luogo nell’incapacità (o non volontà) di chi sta al potere di impegnarsi in quello che Graeber chiama «lavoro interpretativo» – è ciò che, nella vulgata mediatica, si definisce il «distacco» della politica dalla realtà. Si tratta di una situazione niente affatto inedita nella storia occidentale. Dallo schiavismo, al razzismo, al sessismo, fino all’attuale «ossessione burocratica», è avvenuto spesso che chi sta ai vertici delle catene del comando non sia per nulla interessato a cogliere il punto di vista dei dominati. Sono stati al contrario gli schiavi, le donne oppresse da sistemi patriarcali, le minoranze etniche discriminate a cercare di «capire» i dominanti e i loro punti di vista, e non viceversa. E anche oggi, privi della volontà di immergersi nelle vite concrete delle persone comuni – ridotte dalle statistiche e dai sondaggi a una collettiva e anonima «opinione pubblica» – molti potenti affidano a norme burocratiche spesso incomprensibili, o talmente ridondanti da risultare inapplicabili, il persistere del loro dominio. 9
Il rispetto della burocrazia, dice Graeber – e qui la sua tesi non mancherà di far discutere gli studiosi – non è però garantito dall’interiorizzazione delle norme, da forme di egemonia o dall’incorporazione di dispositivi di controllo e disciplina. In ultima analisi, è invece la violenza strutturale, una violenza a volte potenziale, ma «concreta» e «attiva», a garantire il rispetto di regole burocratiche spesso inutili e dannose per gran parte della popolazione. «Razzismo, sessismo e povertà non potrebbero esistere se non in un ambiente definito dalla minaccia di una concreta forza fisica. Insistere su questa distinzione avrebbe senso solo se qualcuno volesse al tempo stesso insistere, per un qualche motivo, sulla possibilità che sia esistito un sistema patriarcale che abbia operato nell’assenza totale di violenza domestica o di episodi di aggressione sessuale. Ma un sistema del genere, a quanto mi risulta, non è mai stato osservato». Se gli eccessi della burocrazia nascondono strutture della diseguaglianza volte a mantenere (o ad accrescere, come è avvenuto negli ultimi anni) il divario tra ricchi e poveri, tutto ciò è garantito, in sostanza, dalla violenza monopolizzata dallo Stato e affidata alle forze dell’ordine (da cui la definizione dei poliziotti come «burocrati armati»). L’analisi di Graeber, originale anche se a tratti poco circostanziata, prende le distanze sia dalla visione weberiana della burocrazia intesa come tratto saliente (seppure «triste» e «grigio») della razionalità moderna, sia dalla visione negativa e decostruttiva di Michel Foucault. Weber e Foucault – è la provocatoria ipotesi dell’antropologo – sono accomunati, in positivo il primo, in negativo il secondo, da una visione «razionale» ed «efficace» della burocrazia. «Ritengo anche che non sia una coincidenza se questi autori a volte sembrino le uniche due persone dotate di intelligenza che nella storia umana abbiano creduto onestamente che a caratterizzare la burocrazia sia il concetto di ‘efficacia’ […]. Attraverso concetti come la governamentalità e il biopotere, le burocrazie statali finiscono per plasmare i parametri dell’esistenza umana in forme molto più invasive di quelle che Weber avrebbe mai potuto concepire». 10
Al contrario, secondo Graeber, le cifre essenziali della iper-burocrazia di alcuni Stati contemporanei sono invece la «stupidità» e l’«inefficienza». Stupidità nel senso di ignoranza delle esigenze e del punto di vista delle persone concrete; inefficienza nel senso dell’incapacità di governare fenomeni complessi come le migrazioni e le varie forme di globalizzazione. Prendendo decisamente le distanze dall’idea secondo cui l’antropologia, nel corso della sua storia, avrebbe manifestato complicità e compiacenze con i sistemi coloniali, Graeber esalta, al contrario, il carattere rivoluzionario dell’etnografia. Da Bronislaw Malinowski a Edward Evans-Pritchard – per limitarci a due antenati classici – il tentativo di «cogliere il punto di vista» dei nativi si è posto decisamente contro i sistemi di violenza e dominazione coloniale: «Gli imperi hanno poco, forse nessun interesse nella documentazione del materiale etnografico». L’etnografia, intesa come metodologia di ricerca che permette di cogliere e immedesimarsi «nei punti di vista altrui», è, anche oggi, uno strumento antiburocratico e antiimperialista, perché permette di cogliere esperienze e significati «densi» che sono incastonati nella concretezza delle relazioni umane. L’etnografia mette in moto quel lavorìo di interpretazione e immedesimazione che la «fredda» burocrazia occulta e rende impossibile. Forma di potere-senza-sapere – per riprendere l’espressione che Keith Breckenridge [2008] utilizza a proposito del regime sudafricano coloniale – l’iper-burocrazia, con la sua pretesa di disciplinare e regolare tutte le relazioni umane, chiudendole in weberiane «gabbie di acciaio», uccide l’immaginazione, la creatività, l’invenzione di nuove forme di socialità, politica ed economia. Lungi dal garantire una equa distribuzione delle risorse, essa limita fortemente la creatività (e, in definitiva, la libertà) – si pensi, per rimanere in campo accademico, ai vincoli tematici e gestionali che pongono molti progetti finanziati dalla Comunità europea o da altri enti di ricerca –, creando quelle «zone morte dell’immaginazione» che danno il titolo al primo saggio di Graeber. 11
In un recente volume dedicato ai movimenti sociali, Amalia Rossi e Alexander Koensler [2012] riflettono sul contributo che l’antropologia può offrire allo studio delle mobilitazioni di «piazza» [Dei, Aria 2010] e alle manifestazioni pubbliche del dissenso. Da un punto di vista metodologico, l’etnografia e l’osservazione partecipante appaiono strumenti importanti, come mostra la loro diffusione in diversi ambiti disciplinari; inoltre, visto il carattere diffuso e internazionale dei movimenti, l’antropologia, con il suo sguardo comparativo, permette di cogliere aspetti e nessi che sfuggono all’occhio dello storico e del sociologo; infine, ed è un punto centrale, occorre sottolineare la propensione degli antropologi a indagare punti di vista e prospettive periferiche e «altre», a insinuarsi negli interstizi dei sistemi globali attraverso lo studio di gruppi o comunità che abitano ai margini. È in queste periferie (interne ed esterne ai paesi dominanti) che oggi emergono idee e pratiche resistenti e alternative rispetto ai sistemi dominanti. Per dirla con l’efficace ossimoro di Roberto Malighetti [2012], è la «centralità dei margini» a fornire agli antropologi una prospettiva ampia e profonda. Il secondo saggio di David Graeber pubblicato in questo volume è una sorta di etnografia della comunicazione e delle immagini (o della «guerra delle immagini») relativa ad alcune delle grandi manifestazioni e contestazioni new global, da Seattle a Washington, da Praga a Québec, fino a Genova e Miami. Al centro dell’attenzione vi sono i gruppi Black Bloc, ben noti al pubblico italiano dopo il G8 di Genova e i giganteschi pupazzi che hanno animato numerosi forum di protesta in Nord America e altrove – di cui le cronache mediatiche italiane si sono viceversa ben poco occupate. Graeber ha partecipato ad alcune di queste manifestazioni, occupandosi soprattutto di comunicazione con i media (e finendo anche arrestato). Il saggio racchiude in effetti una riflessione sulle potenzialità e sui limiti di una antropologia impegnata all’interno dei movimenti. Perché proprio le immagini dei Black Bloc che distruggono vetrine e quelle degli enormi pupazzi co12
lorati raffiguranti i politici oggetto di derisione, oppure simboli come la Liberazione, i Martiri di Chicago, la chiave inglese del Fronte di Liberazione Animale, hanno colpito l’opinione pubblica americana? E perché la polizia è sembrata temere di più i pupazzi dei Black Bloc? Il blocco omogeneo e anonimo dei distruttori di ricchezza e i grandi pupazzi sempre diversi l’uno dall’altro, appaiono a Graeber in «opposizione strutturale». I Black Bloc, attraverso la distruzione della proprietà (facciate delle aziende e della banche, ipermercati, edifici governativi), rappresentano la «società potlatch» in cui siamo immersi. Una società e un’economia che distruggono incessantemente ricchezza attraverso il consumo sfrenato e l’ideologia di una crescita senza fine. Al contrario, i pupazzi sembrano dar conto di quel bisogno di immaginare nuove realtà, di dare libero corso a quella creatività sociale oggi bloccata da quel mantra ripetuto senza sosta secondo cui «non ci sono alternative» al sistema economico e sociale in cui viviamo. Tentando un bilancio dei movimenti a più di dieci anni da Seattle, Graeber sottolinea il successo nella denuncia delle politiche liberiste degli anni Novanta. Se allora «negli Stati Uniti, politici e giornalisti concordavano unanimemente che solo radicali ‘riforme di libero mercato’ avrebbero potuto garantire lo sviluppo economico, sempre e comunque», già nel 2001 «era un luogo comune vedere anche i giornali ufficiali, gli stessi che pochi mesi prima avevano denunciato i dimostranti come ragazzetti ignoranti, dichiarare che avevamo vinto la battaglia delle idee». Il grande lavoro che rimane da fare, tuttavia, è la messa a punto e la diffusione di quelle pratiche di azione e democrazia diretta, quella radicale riforma del processo decisionale, quella «politica prefigurativa» che Graeber teorizza in molti dei suoi lavori. Uscire dalle zone morte dell’immaginazione sostenute dalla burocrazia e da chi ritiene che non ci sono alternative per fabbricare nuove idee e pratiche di democrazia è il messaggio forte dell’antropologia di Graeber. 13
Nota alla Prefazione 1. G. Salmeri, Moriremo di burocrazia? Lettera aperta al ministro Carrozza, www. ilsussidiario.net/News/Educazione/2013/6/11/UNIVERSITA-Moriremo-diburocrazia-Lettera-aperta-al-ministro-Carrozza/401999/, pubblicato il 6 giugno 2013.
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Riferimenti bibliografici
Aria Matteo, Dei Fabio, Memoria, rituali e politica: note per un’antropologia storica delle piazze, «Religioni e Società», 66, 2010, pp. 41-53. Breckenridge Keith, Power without knowledge. Three nineteenth century colonialisms in South Africa, «Journal of Natal and Zulu History», 26, 2008, pp. 3-31. González Díez Javier, David Graeber, un’antropologia per la rivoluzione, «L’Indice dei Libri del Mese», 7/8, 2013, p. 14. Graeber David, Dancing with corpses reconsidered: an interpretation of famadihana (in Arivonimamo, Madagascar), «American Ethnologist», 22, 1995, pp. 258-278. Graeber David, Lost people. Magic and the legacy of slavery in Madagascar, Indiana University Press, Bloomington, 2007. Graeber David, Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta, elèuthera, Milano, 2012a (ed. or. 2007). Graeber David, Debito. I primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano, 2012b (ed. or. 2011).
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Graeber David, Rivoluzione: istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano, 2012c (ed. or. 2009). Graeber David, La rivoluzione che viene. Come ripartire dopo la fine del capitalismo, Manni, San Cesario di Lecce, 2012d (ed. or. 2009). Graeber David, Dead zones of imagination. On violence, bureaucracy and interpretative labor, «HAU. Journal of Ethnographic Theory», 2, 2012e, pp. 105-128. Malighetti Roberto, Presentazione. La centralità dei margini, in A. Koensler e A. Rossi (cur.), Comprendere il dissenso. Etnografia e antropologia dei movimenti sociali, Morlacchi Editore, Perugia, 2012, pp. 7-11. Rossi Amalia, Koensler Alexander, Introduzione: comprendere il dissenso, in A. Koensler, A. Rossi (cur.), Comprendere il dissenso. Etnografia e antropologia dei movimenti sociali, Morlacchi Editore, Perugia, 2012, pp. 13-34.
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prima parte
Vorrei ringraziare David Apter, Keith Breckenridge, Giovanni da Col, Kryzstina Fevervary, Andrej Grubacˇic´, Casey High, Matthew Hull, Jennifer Jackson, Erica Lagalisse, Lauren Leve, Andrew Mathews, Christina Moon, Stuart Rockefeller, Marina Sitrin, Steve Cupid Theodore e Hylton White per i consigli, i suggerimenti e l’incoraggiamento a proseguire il progetto. Questo saggio è dedicato a mia madre, in omaggio al suo impegno politico e morale, alla sua irriverenza, al suo buon senso.
Le zone morte dell’immaginazione su violenza, burocrazia e lavoro interpretativo
1. Questo saggio esplora alcuni ambiti della vita umana che mettono a disagio gli antropologi, ovvero quegli ambiti esistenziali, resi possibili dalla violenza, che sono caratterizzati dalla rigidità, dalla cialtroneria, dalla smemoratezza e dalla totale stupidità1. Per «violenza» non intendo qui quegli atti occasionali e spettacolari che ci vengono in mente non appena viene evocata questa parola, quanto piuttosto quelle forme noiose, monotone e onnipresenti di violenza strutturale che definiscono le condizioni stesse della nostra esistenza; quelle minacce, più o meno velate, di uso della forza fisica contenute nelle norme che determinano dove è possibile sedersi, stare in piedi, mangiare o bere nei parchi e negli altri spazi pubblici, fino alle minacce, alle intimidazioni fisiche o alle aggressioni che puntellano l’imposizione di tacite norme di genere. Chiameremo questi ambiti – che hanno a che fare con quasi ogni aspetto delle nostre esistenze, anche se a nessuno piace parlarne troppo – «aree di semplificazione violenta». A dire il vero, si potrebbe sostenere che quanti si occupano di teoria sociale 19
sembrano nutrire una particolare avversione per gli argomenti di questo tipo, forse perché sollevano questioni irrisolte sullo statuto della teoria sociale stessa. Soprattutto gli antropologi non amano dilungarsi su queste tematiche, perché più di tutti sono attratti da quelle che si potrebbero definire «aree di ricchezza simbolica o di densità di significato», in cui la «descrizione densa» diventa possibile. Questa propensione è comprensibile, ma tende a distorcere la nostra percezione di cosa sia veramente il potere e di come operi, in modi che sono senza dubbio autoreferenziali e che, al tempo stesso, non riconoscendo la cecità strutturale, diventano di fatto essi stessi forme di cecità strutturale. Comincerò con una breve storia per capire cosa sia la burocrazia. Qualche anno fa mia madre ha una serie di infarti. Diventa presto evidente che non può più vivere a casa senza assistenza. Dal momento che la sua assicurazione sanitaria non copre l’assistenza domestica, diversi operatori sociali ci consigliano di fare domanda per Medicaid, il programma di sostegno sanitario per persone di basso reddito. Per accedere a Medicaid, non bisogna avere un reddito annuo superiore a seimila dollari. Ci siamo allora organizzati per spostare altrove i suoi risparmi: tecnicamente si tratterebbe di una frode, ma è una piuttosto atipica dal momento che il governo paga migliaia di operatori sociali per spiegare ai cittadini come realizzarla. Poco dopo però mia madre ha un altro infarto grave ed è costretta a seguire un programma di riabilitazione a lungo termine in una casa di cura. Quando termina quel programma ha ormai bisogno di assistenza domestica continua, ma c’è un problema: la pensione che percepisce le viene accreditata sul conto in maniera automatica e lei non è quasi più in grado di firmare, così, se io non mi procuro una delega sul suo conto per saldare le spese mensili, quel denaro sarebbe presto aumentato e lei non avrebbe più potuto godere del programma sociale Medicaid. E questo nonostante la montagna di moduli che ho firmato per far andare a buon fine la pratica. Mi reco quindi nella banca di mia madre, ritiro i moduli necessari e li porto nella 20
casa di cura. I documenti, però, devono essere autenticati davanti a un notaio. L’infermiera al banco informazioni mi comunica che c’è un notaio convenzionato con la casa di cura, con il quale è necessario fissare un appuntamento: solleva la cornetta del telefono e mi mette in contatto con una voce incorporea, che infine mi fa parlare con il notaio. Questi mi informa subito del fatto che devo prima ottenere un’autorizzazione dal responsabile interno addetto alla previdenza sociale. E riaggancia. Allora mi faccio dare il nome e il numero di stanza di questo responsabile interno, prendo pazientemente l’ascensore e mi presento nel suo ufficio, solo per scoprire che la voce incorporea con cui ho parlato prima al telefono altri non è che il responsabile. Che a quel punto alza il telefono e dice: «Marjorie, sono io. Stai facendo impazzire quest’uomo con tutte queste assurdità. Anzi, stai facendo impazzire anche me». Dopodiché mi fissa un appuntamento per l’inizio della settimana successiva. Una settimana dopo il notaio arriva puntualissimo, mi accompagna al piano di sopra, si accerta che io abbia riempito la parte del modulo che spetta a me (come mi ripete più volte) e poi, alla presenza di mia madre, comincia a riempire la parte di sua competenza. Sono un po’ perplesso per il fatto che, oltre a me, non chieda anche a mia madre di firmare, ma do per scontato che sappia quel che sta facendo. Il giorno dopo vado in banca con quel documento. La donna allo sportello gli dà un’occhiata e mi chiede perché mia madre non l’abbia firmato. Poi lo mostra al suo superiore, che mi dice di tornare indietro e farlo firmare. Evidentemente il notaio non aveva la più pallida idea di quel che stava facendo. Pertanto, prendo dei nuovi moduli, compilo la mia parte e chiedo un nuovo appuntamento. Il giorno fissato il notaio arriva sempre puntualissimo e dopo alcune imbarazzate considerazioni sulle difficoltà causate dal fatto che ogni banca ha moduli di delega completamente diversi, ci spostiamo al piano di sopra. Io firmo, mia madre – con qualche difficoltà – firma e il giorno dopo torno in banca. Un’altra 21
impiegata, in uno sportello diverso da quello utilizzato la volta precedente, esamina i moduli e mi chiede perché io abbia firmato nello spazio in cui c’è scritto di scrivere il mio nome in stampatello, mentre ho scritto il mio nome in stampatello nello spazio in cui avrei dovuto firmare. «Davvero? Ma ho fatto solo quello che mi ha detto il notaio». «Però qui c’è scritto chiaramente ‘firma’». «Eh, sì. Mi sa che mi ha detto una cosa sbagliata. Un’altra volta. In ogni caso, i dati ci sono tutti, no? Sono solo invertiti. Non credo sia davvero un problema. Abbiamo abbastanza fretta e non vorrei dover aspettare un altro appuntamento». «Consideri che di norma non accettiamo questi moduli se le firme non sono apposte di persona davanti a noi». «Ma mia madre ha avuto un infarto ed è costretta a letto. Per questo ho avuto bisogno di una delega notarile». Mi dice che deve consultare il suo superiore e torna dopo dieci minuti, mentre il suo capo rimane a portata d’orecchio, per annunciarmi che la banca non può accettare i moduli in quella forma. E per giunta, anche nel caso in cui fossero stati riempiti correttamente, avrei comunque dovuto portare una dichiarazione del medico di mia madre che certifichi la sua capacità di intendere e di volere. Le faccio allora presente che prima nessuno mi ha mai menzionato questa dichiarazione. «Che cosa?», interviene all’improvviso il superiore, «chi le ha dato questi moduli senza informarla della dichiarazione medica?». Dal momento che l’impiegata colpevole era stata amichevole, eludo la domanda, facendo piuttosto notare che sul libretto bancario di mia madre è riportata in modo chiaro la dicitura «in custodia a David Graeber». Ovviamente mi risponde che quello vale solo in caso di morte della titolare del conto. Come spesso accade in questi casi, il problema è diventato ben presto un banale esercizio accademico, perché mia madre è morta poche settimane dopo. 22
All’epoca, questa esperienza mi è apparsa molto sconcertante. Dal momento che la mia vita è stata sempre relativamente lontana da questo tipo di problemi, mi sono ritrovato a chiedere in continuazione ai miei amici: ma è questa la vita quotidiana per la maggior parte delle persone? Per lo più le risposte sono state affermative. Certo, l’incompetenza del notaio era fuori dalla norma. Tuttavia, qualche tempo dopo ho dovuto dedicare un mese della mia vita a risolvere le intricate conseguenze dovute dapprima all’errore di un impiegato dell’ufficio motorizzazione dello Stato di New York che aveva registrato il mio nome come «Daid», e poi all’errore di un funzionario di una società di telefonia che aveva registrato il contratto a nome «Grueber». Per qualche ragione storica, le burocrazie del settore pubblico e privato sono organizzate di modo da garantire che una significativa porzione degli attori in gioco non sia capace di eseguire i propri compiti come auspicato. Ma questi casi esemplificano bene quella che definirei una forma utopica di pratica, grazie alla quale coloro che gestiscono un sistema, quando scoprono che esso produrrà regolarmente taluni specifici fallimenti, arrivano alla conclusione che il problema non sta nel sistema ma nell’incapacità degli esseri umani che ne fanno parte (o dell’umanità in genere). Da intellettuale, la cosa più fastidiosa è stata probabilmente il fatto che avere a che fare con quei moduli bancari ha contribuito a far diventare stupido anche me. Come ho fatto a non rendermi conto che stavo scrivendo in stampatello il mio nome dove c’era scritto di firmare, e questo nonostante stessi investendo un mucchio di energia mentale ed emotiva in quella faccenda? Come ho capito poi, il problema stava nel fatto che gran parte di quell’energia era spesa nel tentativo di comprendere e influenzare chi, in quel momento, sembrava avere un potere burocratico su di me, mentre quel che serviva era un’interpretazione accurata di una o due parole di origine latina e un’esecuzione corretta di alcune funzioni assolutamente meccaniche. L’aver dedicato così tanto tempo a ingegnarmi per non rinfacciare brutalmente al notaio la sua in23
competenza, o per ottenere la comprensione di qualche funzionario di banca, ha avuto come risultato quello di farmi abbassare la guardia quando mi chiedevano qualcosa che rasentava l’idiozia. Insomma, era una strategia errata perché, nonostante chiunque possa fare uno strappo alla regola, le persone che mi trovavo di fronte ne erano invece incapaci; oltretutto, mi avevano fatto capire che, se mi fossi intestardito a sfidarli, le mie recriminazioni, anche su un’assurdità totale, sarebbero servite soltanto a mettere nei guai qualche funzionario di basso livello. Da antropologo, la cosa probabilmente più curiosa per me era il fatto che tutto questo lasciasse poche tracce nella letteratura etnografica. Dopotutto, noi antropologi ci siamo specializzati nei rituali che hanno a che fare con la nascita, il matrimonio, la morte e altri riti di passaggio. Ci interessiamo in maniera particolare dei gesti rituali che risultano efficaci da un punto di vista sociale, quando l’atto stesso di dire o fare qualcosa lo rende socialmente vero. Eppure, in molte società contemporanee sono proprio le scartoffie, più di qualsiasi altra forma rituale, a risultare socialmente efficaci. Per esempio, mia madre ha lasciato disposizioni di essere cremata senza alcuna cerimonia. Ciononostante, il mio ricordo più forte del funerale domestico è quello dell’impiegato grassottello e cordiale che mi ha assistito nella compilazione di un documento di quattordici pagine necessario per ottenere il certificato di morte, che ho scritto con una biro su carta copiativa, così da essere emesso in tre copie. «Quante ore passi al giorno a riempire moduli del genere?», gli ho chiesto. «Non faccio altro», mi ha risposto con un lungo sospiro mentre sollevava una mano bendata per una forma incipiente di sindrome del tunnel carpale. Ma senza quei moduli, mia madre non sarebbe legalmente – e quindi socialmente – morta. Perché allora non c’è una profusione di tomi etnografici sui riti di passaggio britannici o nordamericani, con lunghi capitoli dedicati alla modulistica e alle scartoffie? La risposta è scontata: le scartoffie sono noiose. Si possono descrivere i rituali che 24
le circondano. Si possono osservare i modi in cui le persone ne parlano, o i modi in cui reagiscono. Ma per quanto riguarda i documenti cartacei in sé, non ci sono molte cose interessanti da dire al riguardo. Gli antropologi sono irresistibilmente attratti dalle aree di densità. Gli strumenti interpretativi che abbiamo a disposizione sono più adatti a guidarci attraverso trame complesse di significanti e significati, così da comprendere intricati simbolismi rituali, rappresentazioni sociali, forme poetiche o reti di parentela. Ciò che accomuna tutto questo è la tendenza a essere infinitamente ricco e, al tempo stesso, aperto. Se uno si impegna ad analizzare in maniera esaustiva ogni significato, ogni motivazione, ogni associazione simbolica presente in un rituale Swazi iNcwala, o in un combattimento di galli balinese, o in un’accusa di stregoneria Zande, o in una saga familiare messicana, può riempire una vita intera. O magari più d’una, se si prova a intrecciare questo ventaglio di relazioni con gli altri elementi individuati nei campi sociali o simbolici che questi lavori di ricerca invariabilmente fanno emergere. Al contrario, i documenti cartacei sono pensati per essere estremamente semplici e autoreferenziali. Anche quando la loro struttura è complessa, talvolta in maniera assolutamente frustrante, lo è attraverso un incessante accumulo di componenti estremamente semplici e tuttavia apparentemente contraddittori. Proprio come un labirinto, non si aprono su niente al di fuori di se stesse. Pertanto, non c’è davvero molto da interpretare. Per esempio, una «descrizione densa» alla maniera di Clifford Geertz sulla richiesta di un mutuo ipotecario non sarebbe possibile, non importa quanto denso sia il documento. E se qualche spirito spavaldo volesse comunque cimentarsi nell’impresa per provarne la fattibilità, sarebbe ancora più difficile immaginare che qualcuno sia poi disposto a leggerne il resoconto.
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2. Spesso i romanzieri riescono a trasformare in grande letteratura il vuoto, la circolarità, se non addirittura l’idiozia, che contrassegnano la burocrazia. E ci riescono facendoli propri, ovvero realizzando opere letterarie che riproducono quella stessa forma labirintica priva di senso. Pertanto, gran parte della migliore letteratura su questo tema prende la forma di una commedia dell’orrore. In questo senso, Il Processo di Franz Kafka è senza dubbio un’opera paradigmatica, ma se ne possono citare molte altre, da Memorie trovate in una vasca da bagno di Stanislaw Lem, che richiama molto Kafka, fino a Il Palazzo dei sogni di Ismail Kadarè, o a Tutti i nomi di José Saramago. Per non parlare poi di opere che sono pervase da questo spirito burocratico, come quasi tutta l’opera di Jorge Luis Borges, oppure Comma 22, sulle burocrazie militari, e È successo qualcosa, sulle burocrazie aziendali, di Joseph Heller (considerati due capolavori contemporanei del genere), fino a Il re pallido di David Foster Wallace, una fantasiosa meditazione sulla natura della noia ambientata in un ufficio dell’Agenzia delle Entrate nel Midwest. È interessante osservare che quasi tutte queste opere di narrativa non si limitano a mettere in evidenza la comica assurdità della vita burocratica, ma la miscelano con un sottofondo di violenza, ossia danno rilievo a quegli aspetti che molto probabilmente la letteratura sociale scientifica metterebbe da parte. È indubbiamente vero che ci sono opere di antropologia che affrontano in parte queste tematiche: pensiamo per esempio alle riflessioni di Jack Goody sull’idea di lista in L’addomesticamento del pensiero selvaggio, che si concentrano sulla autoreferenzialità dei sistemi burocratici di classificazione, o a quelle di Roland Barthes in Sade, Fourier e Loyola, che si concentrano sul momento in cui questa logica viene applicata, almeno a livello immaginario, a quasi ogni aspetto corporeo della vita umana: le passioni, gli atti sessuali, la devozione religiosa. Nondimeno, la maggior parte 26
di questi lavori non si occupa di burocrazia in maniera esplicita. Ci sono, nella letteratura antropologica, opere che riprendono quelle modalità dell’assurdo così ben evidenziate nei testi letterari, come l’opera di Matthew Hull sulle scartoffie come rituale [2008, 2010, 2012], il recente Red Tape [2012] di Akhil Gupta, che affronta i fallimenti della burocrazia indiana nei programmi di riduzione della povertà, o l’opera di Andrew Mathews sul corpo forestale messicano [2005, 2011]. Sono però opere fuori dalla norma. Il cuore della letteratura antropologica sulla burocrazia, anche all’apice della «svolta letteraria», ha preso una direzione completamente diversa, interrogandosi non sul perché la burocrazia produca risultati assurdi, ma sul perché così tante persone lo pensino. L’opera antropologica più conosciuta sulla burocrazia è The Social Production of Indifference di Michael Herzfeld [1992], che inquadra il problema in questo modo: In molte democrazie industriali, dove si ritiene che lo Stato rispetti le persone, la gente si lamenta in modo facilmente prevedibile dei mali della burocrazia. Non importa che il loro sdegno sia spesso ingiustificato: quel che conta è la loro capacità di attingere a un’immagine precostituita di mal funzionamento. Se non ci si potesse lamentare della burocrazia, la burocrazia non esisterebbe: la burocrazia e le lamentele stereotipe contro la burocrazia sono entrambe parti di un più vasto universo che potremmo molto semplicemente chiamare l’ideologia e la pratica della responsabilità [1992, 3].
Per comprendere questo sistema in termini culturali – vale a dire per individuare le aree di ricchezza simbolica, diffuse nell’analisi antropologica, in cui le vittime possono per esempio rappresentare se stesse come dei «poveri cristi» e immaginare i funzionari locali come incarnazioni del dispotismo orientale – bisogna uscire dagli uffici ed entrare nei bar. 27
Le radici simboliche della burocrazia occidentale non vanno cercate, in prima battuta, nelle forme ufficiali della burocrazia, anche se in essa se ne possono trovare tracce significative. Queste sussistono soprattutto nelle reazioni popolari alla burocrazia, nei modi in cui la gente comune in realtà gestisce e concettualizza le relazioni burocratiche [1992, 8] 2 .
Con questo non si può dire che Herzfeld e altri che lo hanno seguito su questa scia, per esempio Navaro-Yashin [2002], rifiutino esplicitamente l’idea che è proprio questo calarsi nei codici burocratici e nei regolamenti a far agire le persone in modi che, in qualsiasi altro contesto, sarebbero considerati idioti. Ognuno è ben consapevole, per esperienza propria, che le cose stanno di norma così. Ma ai fini dell’analisi culturale, di rado la verità è considerata una spiegazione adeguata. Al più ci si può aspettare un «sì, ma…», dando per assodato che quel «ma» introduce tutto ciò che è davvero rilevante: per esempio, il fatto che le lamentele sull’idiozia agiscano in modo sottile per re-inscrivere i soggetti delle lamentele all’interno dello stesso campo morale della responsabilità abitato dai burocrati, o il fatto che questo concorre a creare un certo concetto di nazione, e così via. Non appena ci allontaniamo dall’etnografia ed entriamo nei domini più rarefatti della teoria sociale, sappiamo che verrà meno anche quel «sì, ma…». A dire il vero, c’è spesso una forte empatia – oserei dire un’affinità elettiva – tra gli studiosi, che in genere sono anche burocrati dell’accademia, e i burocrati oggetto dei loro studi. Consideriamo il ruolo egemonico svolto nella teoria sociale statunitense da Max Weber negli anni Cinquanta e Sessanta e da Michel Foucault a partire dagli anni Settanta. Senza dubbio la loro popolarità aveva molto a che fare con la facilità con cui entrambi questi autori potevano essere adottati come pensatori anti-Marx: le loro teorie venivano infatti utilizzate, spesso in forme estremamente semplificate, per sostenere che il potere non è solo o soprattutto un modo per controllare la produzione quanto 28
piuttosto un elemento pervasivo, inevitabile e sfaccettato di ogni società. Ritengo anche che non sia una coincidenza se questi autori a volte sembrino le uniche due persone dotate di intelligenza che nella storia umana abbiano creduto onestamente che a caratterizzare la burocrazia sia il concetto di «efficacia». Weber ha visto le forme burocratiche di organizzazione, pubbliche e private, come l’incarnazione stessa della razionalità impersonale, talmente superiori a ogni altra possibile forma di organizzazione da poter inglobare ogni cosa, chiudendo l’umanità in una «gabbia di acciaio» priva di qualunque gioia, spirito o carisma [1958, 181]. Foucault era più sovversivo, ma in un modo che paradossalmente rendeva il potere burocratico più (e non meno) efficace. Nelle sue ricerche su manicomi, ospedali, prigioni e altro ancora, i corpi, i soggetti, la stessa verità diventano tutti il prodotto di discorsi amministrativi. Attraverso concetti come la governamentalità e il biopotere, le burocrazie statali finiscono per plasmare i parametri dell’esistenza umana in forme molto più invasive di quelle che Weber avrebbe mai potuto concepire. È difficile evitare la conclusione che, in entrambi i casi, la loro popolarità sia in gran parte dovuta al fatto che il sistema universitario americano in quel periodo si è esso stesso trasformato in un’istituzione sempre più finalizzata a produrre funzionari per un apparato amministrativo imperiale su scala globale. Durante la Guerra Fredda, tutto questa era abbastanza esplicito, specialmente nei primi anni, quando boasiani come Margaret Mead e Ruth Benedict e weberiani come Clifford Geertz si sono spesso ritrovati a operare all’interno degli apparati di intelligence militare o addirittura a essere finanziati con fondi della cia [Ross, 1998]3. Gradualmente, nel corso delle mobilitazioni studentesche contro la guerra in Vietnam, questa sorta di complicità è stata messa in questione. Max Weber – o, per essere più precisi, la versione di Weber promossa da sociologi come Talcott Parsons ed Edward Shils [1951], che è poi diventata la base per la Modernization Theory del Dipartimento di Stato americano – è arrivato 29
a essere considerato l’incarnazione di tutto ciò che i radicali volevano rifiutare. Non molto tempo dopo, Foucault, prelevato dal suo ritiro in Tunisia e insediato nel Collège de France grazie alla rivolta del Maggio ’68, ha preso il posto lasciato libero da Weber. Si potrebbe persino ipotizzare la graduale ascesa di una sorta di divisione del lavoro all’interno delle università americane, con il lato ottimistico affidato a Weber, reinventato (in una forma ancor più semplificata) per addestrare i burocrati sotto l’etichetta della «teoria della scelta razionale», e il lato pessimistico affidato ai foucaultiani. L’influenza di Foucault, a sua volta, si dispiegava proprio all’interno di alcuni ambiti accademici che erano diventati il paradiso degli ex pensatori politici radicali, anche se ormai avevano perso qualsiasi tipo di accesso al potere politico e avevano sempre meno ascendente sui movimenti sociali. Il che conferiva un particolare appeal all’enfasi messa da Foucault sul nesso potere/sapere, cioè all’affermazione che le forme di conoscenza sono sempre anche forme di potere sociale, forse addirittura le forme di potere sociali più importanti. Senza dubbio, un compendio storico così condensato non può che apparire caricaturale e ingiusto, eppure ritengo che ci sia una profonda verità in questo discorso. Non siamo solo attratti verso le aree di densità, dove utilizziamo al meglio le nostre capacità interpretative. Abbiamo anche l’abitudine di identificare quel che è interessante con quello che è importante e diamo per scontato che i luoghi di densità siano anche luoghi di potere. Il potere della burocrazia dimostra che spesso questo non è vero. Questo saggio, tuttavia, non ha a che fare in prima istanza con la burocrazia (e neanche con le ragioni per cui questa sia trascurata in antropologia e nelle discipline affini), ma con la violenza. Quel che intendo argomentare è che le situazioni create dalla violenza – in particolare dalla violenza strutturale, espressione con cui indico le forme diffuse di diseguaglianza sociale che sono in ultima istanza sostenute dalla minaccia di un’aggressione fisica – tendono invariabilmente a creare quelle forme di intenzionale 30
cecità che normalmente associamo alle procedure burocratiche. Per dirla in maniera più grossolana: il problema non è tanto che le procedure burocratiche siano di per sé stupide o inclini a produrre comportamenti che esse stesse definirebbero stupidi, quanto che servono a gestire situazioni sociali che sono già insensate perché si fondano sulla violenza strutturale. Questo approccio ci consente di penetrare in profondità in argomenti che sono al tempo stesso interessanti e importanti: per esempio, l’effettiva relazione tra le forme di semplificazione tipiche della teoria sociale e quelle tipiche delle procedure amministrative. 3. Non siamo abituati a considerare le case di riposo, le banche o le strutture sanitarie come istituzioni violente, se non forse in un’accezione molto astratta e metaforica. Ma la violenza a cui mi riferisco in queste righe non è epistemica, è concreta. Queste sono tutte istituzioni che hanno a che fare con la distribuzione delle risorse all’interno di un sistema di diritti di proprietà regolati e garantiti dai governi, all’interno di un sistema che in ultima istanza si basa sulla minaccia dell’uso della forza. «Forza», a sua volta, è un modo eufemistico per dire «violenza». Tutto questo è abbastanza ovvio. Ma ciò che risulta interessante da un punto di vista etnografico è rilevare quanto poco i cittadini delle democrazie industriali riflettano su questo fenomeno, o come cerchino, quasi in modo istintuale, di diminuirne l’importanza. Per fare un esempio, è proprio questo che permette agli studenti universitari di trascorrere intere giornate tra gli scaffali delle biblioteche, tutti assorbiti dai trattati teorici sul declino della coercizione come fattore rilevante della vita moderna, senza mai riflettere sul fatto che se provassero a far valere il loro diritto di entrare in biblioteca senza mostrare un documento d’identità valido, degli uomini armati interverrebbero subito per espellerli 31
fisicamente da quei locali, usando tutta la forza necessaria. Sembra quasi che più permettiamo ad alcuni aspetti della nostra vita quotidiana di cadere sotto il dominio delle regole burocratiche, più tutti coloro che vi sono implicati concordino nel minimizzare il fatto (perfettamente ovvio a chi gestisce il sistema) che alla base di tutto questo c’è la minaccia della forza fisica. A dire il vero, si può estendere lo stesso ragionamento al modo in cui viene utilizzata l’espressione «violenza strutturale» nella teoria sociale contemporanea, dato che il modo in cui la utilizzo qui è decisamente poco convenzionale. Il termine risale al dibattito sviluppatosi intorno agli «studi sulla pace» degli anni Sessanta e viene coniato da Johann Galtung [1969, 1975; cfr. Lawler, 1995] per rispondere all’accusa che definire «pace» una semplice assenza di atti di aggressione fisica significa trascurare l’esistenza di strutture di sfruttamento umano molto più insidiose. Galtung percepisce che il termine «sfruttamento» è troppo gravato dalla sua identificazione con il marxismo e propone in alternativa l’espressione «violenza strutturale», che rimanda a ogni apparato istituzionale la cui azione produce di per sé e regolarmente danni fisici o psicologici a una parte della popolazione o impone limiti alla loro libertà. La violenza strutturale può pertanto essere distinta sia dalla «violenza personale» (cioè la violenza riconducibile a un agente umano identificabile), sia dalla «violenza culturale» (cioè quelle credenze e quelle visioni del mondo che giustificano i danni inflitti). Peraltro, il termine è stato adottato nella letteratura antropologica proprio in questa accezione [cfr. Bourgois 2001, Farmer 2004 e 2005, Gupta 2012]. Secondo Paul Farmer, antropologo e medico, l’espressione è adeguata per descrivere le sofferenze e la mortalità precoce di molti contadini haitiani poveri tra i quali ha lavorato: […] perché questa sofferenza è «strutturata» da processi e forze storicamente determinate (e spesso economicamente dirette) che concorrono a vincolare la capacità di azione, sia attraverso le abitudini e
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i rituali, sia attraverso, come più spesso accade, le asperità della vita. Per molti, inclusa la gran parte dei miei pazienti e informatori, tanto le grandi quanto le piccole scelte della vita sono limitate da razzismo, sessismo, violenza politica e devastante povertà [2002, 40].
In tutte queste formulazioni, la «violenza strutturale» è considerata alla stregua delle strutture che producono effetti violenti, al di là del fatto che ci siano o meno atti di violenza fisica. Si tratta in realtà di una formulazione piuttosto diversa dalla mia, più in linea con la tradizione femminista [Scheper-Hughes, 1992; Nordstrom e Martin 1992], che considera questi aspetti come vere e proprie strutture di violenza, dal momento che a renderli possibili e a permettere loro di avere effetti violenti è solo la paura costante della violenza fisica. Razzismo, sessismo e povertà non potrebbero esistere se non in un ambiente definito dalla minaccia di una concreta forza fisica. Insistere su questa distinzione avrebbe senso solo se qualcuno volesse al tempo stesso insistere, per un qualche motivo, sulla possibilità che sia esistito un sistema patriarcale che abbia operato nell’assenza totale di violenza domestica o di episodi di aggressione sessuale. Ma un sistema del genere, a quanto mi risulta, non è mai stato osservato. Per come è fatto il mondo oggi, quella formulazione non ha senso. Se ammettessimo l’esistenza di un luogo in cui le donne siano escluse da certi spazi per paura di un’aggressione fisica o sessuale, che cosa otterremmo esattamente distinguendo tra gli attacchi fisici veri e propri, la paura ispirata da questi attacchi, i presupposti che hanno portato gli uomini a portare a termine queste aggressioni o la polizia a pensare che quelle donne «se la sono cercata», e la convinzione indotta in buona parte delle donne che in quegli spazi una donna non ci dovrebbe proprio andare? O ancora distinguendo tutti quei fenomeni dalle conseguenze «economiche» sulle donne, che proprio a causa di tutto ciò non possono essere assunte in certi tipi di lavori? In realtà tutto questo costituisce una sola struttura di violenza4. 33
Il problema principale con l’approccio di Galtung, come osserva Catia Confortini [2006], è che considera le strutture come entità astratte, fluttuanti, mentre qui abbiamo a che fare con processi materiali in cui la violenza e la minaccia della violenza giocano un ruolo costitutivo cruciale. In effetti, si potrebbe sostenere che sia proprio questa tendenza all’astrazione a lasciar credere, a chi ne è coinvolto, che la violenza che puntella il sistema non sia responsabile dei propri effetti violenti. Gli antropologi, però, farebbero bene a non commettere questo stesso errore. Tutto diventa più chiaro quando si volge l’attenzione al ruolo del governo. In molte delle comunità rurali con le quali gli antropologi hanno più familiarità, comunità in cui le moderne tecniche amministrative sono apertamente considerate imposizioni esterne, queste connessioni sono più semplici da vedere. Nel Madagascar rurale dove ho fatto la mia ricerca sul campo, per esempio, si dà per scontato che i governi operino in primo luogo attraverso la paura. Al tempo stesso, data l’assenza di una significativa interferenza governativa nelle minuzie della vita quotidiana (vedi le normative sull’edilizia, la regolamentazione del trasporto nautico, l’immatricolazione e l’assicurazione obbligatoria dei veicoli, eccetera), appare ben evidente che lo scopo principale della burocrazia statale è la registrazione delle proprietà tassabili. All’epoca della mia ricerca, uno dei risultati più curiosi è stato che questo tipo di informazioni sull’area da me studiata – dati dettagliati sulle dimensioni di ogni famiglia e del suo patrimonio in termini di terra, animali e, per i periodi più antichi, schiavi – era esattamente quello che si reperiva negli archivi malgasci relativi al xix e al principio del xx secolo. Viceversa, per tutto il tempo che ho vissuto in quella comunità rurale non sono riuscito a ottenere in loco queste stesse informazioni, probabilmente perché molti sospettavano che fossero proprio le informazioni alle quali era interessato uno straniero arrivato dalla capitale e dunque erano poco propensi a svelargliele. 34
Oltretutto, l’esperienza coloniale ha avuto come conseguenza di associare le relazioni di comando – sostanzialmente una relazione duratura in cui un adulto fa di un altro un’estensione della propria volontà – alla schiavitù e di identificare la schiavitù con l’essenza dello Stato. Nella comunità che ho studiato, queste associazioni venivano più facilmente alla luce quando la gente parlava delle grandi famiglie schiaviste del xix secolo, i cui figli erano diventati l’élite amministrativa dell’era coloniale, in gran parte (come veniva sempre rimarcato) grazie alla loro fissazione per l’istruzione e alla loro capacità di cavarsela con le scartoffie. In altri contesti, le relazioni di comando, soprattutto in ambienti burocratici, erano codificate linguisticamente, cioè strettamente identificate con il francese. Il malgascio, al contrario, era visto come il linguaggio adatto per le discussioni, per le spiegazioni e per le scelte consensuali. Ma gli stessi funzionari di livello inferiore, quando volevano imporre delle norme in maniera arbitraria, quasi sempre cominciavano a parlare in francese. Ricordo in particolare un’occasione in cui un funzionario, che aveva parlato molte volte con me in malgascio e non sapeva che io capissi il francese, rimase spiazzato quando un giorno mi presentai nel suo ufficio proprio quando tutti avevano deciso di andarsene via prima. «L’ufficio è chiuso», mi disse in francese, «se ha qualche pratica da espletare deve tornare domattina alle otto». Feci finta di essere confuso e sostenni in malgascio di non capire il francese, ma questi si guardò bene dal ripetere la frase nella lingua locale e continuò a ripetere quelle parole in francese. Altri in seguito mi confermarono quel che sospettavo: parlando in malgascio, avrebbe poi dovuto spiegare perché l’ufficio chiudeva in anticipo. E in effetti, in malgascio si considera il francese «la lingua del comando», cioè la lingua appropriata per i contesti in cui le spiegazioni, le discussioni e in ultima analisi il consenso non sono richiesti, dato che alla base di quel tipo di discorso c’è la minaccia della violenza5. In Madagascar, il potere burocratico in certo modo si riscatta agli occhi della popolazione per il suo legame con l’istruzione, te35
nuta in grande considerazione in modo quasi universale. Tuttavia, l’analisi comparativa suggerisce l’esistenza di una relazione diretta tra il livello di violenza adottato da un sistema burocratico e il livello di assurdità che produce. Keith Breckenridge [2008], per esempio, ha ampiamente documentato i regimi di «potere senza sapere» tipici del Sud Africa coloniale, in cui la coercizione e le scartoffie hanno in gran parte preso il sopravvento sulla necessità di comprendere i soggetti africani. Il sistema dell’apartheid, in funzione a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, era stato preannunciato da un nuovo sistema di pass progettato per semplificare le precedenti regole che obbligavano i lavoratori africani a portare con sé la corposa documentazione relativa ai contratti di lavoro, poi sostituita con un singolo libretto di identità che riportava «nome, residenza, impronte digitali, dati fiscali e il ‘diritto’ ufficiale di vivere e lavorare in determinate aree urbane» [Breckenridge 2005, 84]. Nient’altro. I funzionari governativi apprezzarono il nuovo sistema in quanto snelliva i controlli amministrativi, e così fecero anche i poliziotti sollevati dall’incombenza di dover parlare con i lavoratori africani (che li chiamavano universalmente dompas, cioè «stupidi pass», proprio per questa ragione). Similmente, la brillante etnografia sul servizio forestale messicano nello Stato di Oaxaca, scritta da Andrew Mathews [2005, 2011], dimostra che è proprio la diseguaglianza strutturale di potere tra funzionari governativi e contadini locali a permettere alle guardie forestali di rimanere in una sorta di bolla ideologica che consente loro di attenersi a idee inoppugnabili, come quelle sugli incendi delle foreste che li rendono gli unici nello Stato di Oaxaca a non capire gli effetti provocati dalle loro procedure. Ci sono tracce della relazione tra coercizione e assurdità anche nei termini usati in inglese per riferirsi alla burocrazia. In particolare va notato che molti dei termini colloquiali che rimandano alla follia burocratica – per esempio SNAFU, Catch-22 e termini simili – di fatto derivano dal gergo militare. Più in generale, i politologi hanno da tempo osservato una «correlazione negati36
va», come sostiene David Apter [1965, 1971], tra coercizione e informazione. In altre parole, se nei regimi relativamente democratici il rischio è di essere travolti da un eccesso di informazione, dato che le autorità politiche vengono bombardate da continue richieste di delucidazioni, nei regimi autoritari più questi sono repressivi, meno le persone hanno qualcosa da dire (e non a caso questi regimi sono costretti ad affidarsi in modo rilevante a spie, servizi d’intelligence e polizia segreta).
4. La qualità intrinseca della violenza di portare a decisioni arbitrarie, evitando le discussioni, i chiarimenti e le negoziazioni tipiche delle relazioni sociali più egualitarie, è appunto ciò che consente alle sue vittime di ritenere stupide o irragionevoli le procedure create a partire dalla violenza. Si potrebbe dire che chi opera affidandosi alla paura che incute l’uso della forza non è obbligato a impegnarsi granché nel lavoro interpretativo, e infatti in genere non lo fa. Si tratta di un aspetto che non ha ricevuto una grande attenzione nell’emergente letteratura sulla «antropologia della violenza». Anzi, quest’ultima si è mossa nella direzione opposta, mettendo piuttosto in evidenza i modi in cui gli atti di violenza possono diventare significativi e comunicativi. Neil L. Whitehead, per esempio, in un’antologia intitolata semplicemente Violence, si spinge a sostenere che gli antropologi dovrebbero indagare le ragioni per cui le persone sono così propense a parlare di «violenza insensata». La violenza, suggerisce, si comprende meglio se la si paragona alla poesia: Le azioni violente, non meno di qualsiasi altra forma comportamentale, sono profondamente impregnate di significati culturali e sono l’espressione di una capacità agente individuale all’interno di modelli di
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comportamento storicamente radicati. La capacità agente individuale, utilizzando simboli, icone e altre forme culturali esistenti, può quindi essere considerata «poetica» per il sostrato saturo di regole che la sottende e per la maniera in cui questo sostrato è declinato, che consente l’emergere di nuovi significati e di nuove forme di espressione culturale [Whitehead, 2004, 9-10].
Quando metto in discussione l’enfasi posta sulla natura significativa della violenza, non sto suggerendo che questo punto fondamentale non sia in certo modo veritiero. Sarebbe assurdo sostenere che gli atti di violenza non siano intesi come atti di comunicazione oppure negare che siano contornati da simboli o capaci di generare miti. Tuttavia ritengo che, come nel caso della burocrazia, questa sia un’area in cui gli antropologi sono particolarmente inclini a confondere la profondità interpretativa con la significatività sociale, ovvero a dare per scontato che gli aspetti più interessanti della violenza siano anche, necessariamente, quelli più importanti. Dunque, sì, gli atti violenti tendono ad avere un elemento comunicativo, ma questo è vero per qualsiasi altra forma di azione umana. Anzi, secondo me, quel che è veramente rilevante nel ricorso alla violenza è che è forse la sola forma di azione umana che persiste anche di fronte alla possibilità di avere effetti sociali in assenza di comunicazione. Per essere più precisi, la violenza potrebbe anche essere la sola forma di azione umana grazie alla quale è possibile ottenere effetti relativamente prevedibili dalle azioni di persone delle quali si ignora tutto. Per influenzare le azioni degli altri in qualsiasi altro modo hai bisogno di sapere almeno qualcosa di queste persone: chi pensano di essere, chi pensano che sei tu, che cosa si aspettano da una certa situazione, a cosa sono favorevoli, a cosa sono contrari. Ma se li prendi a bastonate in testa, tutte queste domande diventano irrilevanti. Se è vero che gli effetti che si possono produrre menomando o uccidendo qualcuno sono molto limitati, nondimeno sono reali e 38
possono essere criticamente conosciuti in anticipo con una certa precisione. Una qualsiasi forma alternativa di azione, che non rimandi a conoscenze o significati condivisi, non ha invece alcun effetto prevedibile. Non solo, ma se i tentativi di influenzare gli altri con la minaccia della violenza richiedono comunque un certo livello di conoscenza condivisa, questa può essere minima. Molte relazioni umane – in particolare quelle durature, sia che si tratti di amici o di nemici – sono estremamente complicate, dense di esperienze e significati. Mantenerle richiede un costante e spesso ingegnoso lavoro di interpretazione, un infinito lavorio di immedesimazione nei punti di vista altrui. Minacciare gli altri con un’aggressione fisica permette di dare un taglio netto a tutti questi problemi. Rende possibili relazioni di tipo molto più schematico, del tipo «supera questa linea e ti sparo». Per questo la violenza è molto spesso l’arma preferita degli stupidi. Si potrebbe anche dire che una delle tragedie dell’esistenza umana è il fatto che la violenza sia una forma di stupidità alla quale è molto difficile replicare con una risposta intelligente. È però necessario fare qui una precisazione cruciale. Se due parti si affrontano in un contesto violento in maniera relativamente equa, come per esempio due generali alla testa di due eserciti nemici, questi hanno buone ragioni per cercare di entrare nella testa degli altri. È solo quando una parte detiene un vantaggio schiacciante nella propria capacità di infliggere un danno fisico che queste ragioni vengono meno. Ma questo ha ripercussioni profonde perché implica che la caratteristica più peculiare della violenza – la sua capacità di ignorare quello che chiamo lavoro interpretativo – diventa più rilevante proprio quando la violenza è meno visibile, ovvero quando gli atti spettacolari di violenza fisica hanno meno probabilità di verificarsi. Sono queste le situazioni a cui mi riferivo quando parlavo di violenza strutturale, rifacendomi all’ipotesi che le diseguaglianze sistemiche sostenute dalla minaccia della forza possono essere considerate di per sé forme di violenza. Per questa ragione, le situazioni di violenza 39
strutturale producono invariabilmente strutture altamente asimmetriche di identificazione immaginativa. Questi effetti sono più visibili quando le strutture di diseguaglianza assumono forme profondamente interiorizzate. Un classico delle situation-comedy americane degli anni Cinquanta giocava scherzosamente con l’impossibilità di comprendere le donne. Le battute (fatte sempre da uomini) rappresentavano la logica femminile come sostanzialmente estranea e incomprensibile. Allo stesso tempo, non si aveva mai l’impressione che le donne oggetto di quelle battute avessero problemi a capire gli uomini. E per ovvie ragioni: le donne non avevano altra scelta se non capire gli uomini. Questa era la consolidata immagine della famiglia patriarcale, quando le donne, prive di accesso a fonti autonome di sussistenza, non avevano altra scelta che dedicare tutto il loro tempo e le loro energie a comprendere quel che passava nella testa degli uomini. Per fortuna, ai nostri giorni non devo più spiegare che le configurazioni patriarcali di questo tipo sono esempi primari di violenza strutturale, retti da norme che rimandano direttamente alla minaccia della forza fisica, in forme più o meno sottili. Questo tipo di retorica sui misteri del sesso femminile sembra essere un tratto perenne del patriarcato. Generazioni di scrittrici, a cominciare da Virginia Woolf [1927], ne hanno documentato anche l’altra faccia: i continui sforzi delle donne per controllare, contenere e correggere l’ego di uomini pieni di sé e smemorati, un lavoro continuo di identificazione immaginativa, o in altre parole di lavoro interpretativo. E questo accade a ogni livello. Si dà sempre per scontato che le donne siano capaci di immaginare come funzionano le cose dal punto di vista maschile, ma la stessa cosa non vale per i maschi. Questo modello comportamentale è così interiorizzato dagli uomini che molti reagiscono all’idea di fare altrimenti come se questa fosse un atto di violenza. Un esercizio molto popolare tra gli insegnanti di scrittura creativa nelle scuole superiori americane consiste nel chiedere agli studenti di 40
immaginare di essere trasformati per un giorno in una persona dell’altro sesso. A quel punto devono descrivere la loro giornata. A quanto pare i risultati sono straordinariamente omogenei. Tutte le ragazze scrivono testi lunghi e dettagliati che dimostrano chiaramente come abbiano dedicato parecchio tempo a riflettere sul tema. Una buona parte dei ragazzi, invece, si rifiuta spesso di portare a termine il saggio proposto. Chi di loro riesce ad arrivare fino in fondo, dà in genere prova di non avere la minima idea di cosa significhi essere una ragazza adolescente, mostrandosi oltretutto risentito per aver dovuto riflettere su quel genere di cose6. Niente di quello che sto dicendo risulta sorprendente per chi conosce la teoria femminista o i Critical Race Studies. E infatti queste mie riflessioni si sono ispirate a un brano della scrittrice nota con lo pseudonimo di bell hooks: Sebbene non sia mai esistito un insieme ufficiale di [studiosi] neri che si siano riuniti in quanto antropologi e/o etnografi per studiare la «bianchitudine», la gente di colore, dalla schiavitù in poi, ha condiviso nelle reciproche conversazioni una conoscenza «speciale» di questa bianchitudine, ottenuta attraverso un’osservazione ravvicinata dei bianchi. Ed è «speciale» perché non è una forma di conoscenza che è stata pienamente registrata nella forma dei documenti scritti: il suo scopo era aiutare il popolo nero a tirare avanti e sopravvivere in una società a supremazia bianca. Per anni i domestici neri, che lavoravano nelle case dei bianchi, hanno agito come informatori che restituivano conoscenza alle comunità segregate, fornendo dettagli, fatti, letture psicoanalitiche sull’«Altro» bianco [hooks, 1992, 165].
Se c’è un difetto nella letteratura femminista, direi che è quello di avere troppo concentrato l’attenzione sull’oppresso piuttosto che sulla cecità e l’idiozia del suo oppressore7. Si può quindi sviluppare una teoria generale del lavoro interpretativo? Il punto di inizio è verosimilmente quello di riconoscere che ci sono due elementi cruciali che, sebbene collegati, hanno 41
bisogno di essere formalmente distinti. Il primo è il processo di identificazione immaginativa come forma di conoscenza, cioè il fatto che all’interno delle relazioni di dominio sono in genere i subordinati quelli a cui tocca il lavoro di comprendere effettivamente come funzionino le relazioni sociali. Chiunque abbia lavorato nella cucina di un ristorante, per esempio, sa che se qualcosa va male e spunta il padrone arrabbiato per capire che cosa è successo, è molto improbabile che questi conduca un’indagine approfondita o che addirittura presti attenzione ai lavoratori che si agitano per spiegare la loro versione. È più facile che dica loro di starsene tutti zitti e poi imporre in modo arbitrario una storia che consenta un giudizio immediato, del tipo «sei quello nuovo e hai già fatto casino: continua così e sei licenziato». Sono quelli che non hanno il potere di assumere e licenziare che devono poi farsi carico di capire che cosa è andato storto per evitare che accada di nuovo. Lo stesso accade nelle relazioni durature: tutti sanno che i domestici sono ben informati sulle famiglie dei loro datori di lavoro, ma l’opposto non succede quasi mai. Il secondo elemento è un modello comportamentale che deriva dall’identificazione empatica. È curioso che sia stato Adam Smith il primo a osservare, nella sua Teoria dei sentimenti morali (1762), il fenomeno che oggi chiamiamo «affaticamento compassionevole». Gli esseri umani, suggeriva, sono normalmente inclini a identificarsi a livello immaginario con i loro simili e di conseguenza a sentire come proprie le gioie e i dolori altrui. I poveri, tuttavia, sono così sventurati che quegli stessi osservatori che in altri casi mostrerebbero una sensibilità empatica nei loro confronti devono affrontare la tacita scelta tra rimanere completamente sconvolti o cancellare l’idea della loro esistenza. Il risultato è che chi sta in fondo alla scala sociale dedica parecchio tempo a immaginare le possibili prospettive di chi sta in cima (preoccupandosene sinceramente), mentre il caso opposto si dà molto raramente. Che si tratti di padroni e servi, di uomini e donne, di datori di 42
lavoro e manodopera, di ricchi e poveri, la diseguaglianza strutturale – ciò che ho chiamato la violenza strutturale – crea strutture immaginarie altamente asimmetriche. Dal momento che ritengo che Smith fosse nel giusto quando osservava che l’immaginazione porta all’empatia, ne deriva che le vittime della violenza strutturale sono inclini a preoccuparsi di chi ne è beneficiario più di quanto i beneficiari di questa violenza sono inclini a preoccuparsi delle loro vittime. E questa è, dopo la violenza diretta, la forza più potente che perpetua le relazioni asimmetriche.
5. Ritengo che tutto questo abbia delle interessanti implicazioni teoretiche. Nelle democrazie industriali dei nostri giorni, l’amministrazione legittima della violenza rimanda a ciò che con un eufemismo è stata definita «l’applicazione della legge». Rimanda cioè a funzionari di polizia il cui vero ruolo, come hanno ripetutamente messo in evidenza diversi studi sociologici sulle forze dell’ordine [per esempio Bittner 1970 e 1985; Waddington 1999, Neocleous 2000], ha più a che fare con l’applicazione scientifica della forza fisica per risolvere i problemi amministrativi di tutti i giorni che con l’applicazione della legge contro il crimine. Sostanzialmente, i poliziotti sono burocrati armati. Allo stesso tempo, però, sono diventati nel corso degli ultimi cinquant’anni un elemento ossessivamente presente nell’identificazione immaginativa della cultura popolare. Siamo arrivati al punto che è diventato normale per il cittadino di una democrazia industrializzata contemporanea trascorrere varie ore al giorno intento a leggere libri, guardare film o seguire spettacoli televisivi che ti invitano a guardare il mondo dal punto di vista di un poliziotto, partecipando in maniera vicaria alle gesta della polizia. Se non altro, tutto ciò getta un’ombra sulle infauste profezie di Weber a 43
proposito della gabbia di ferro: come si è scoperto, le burocrazie impersonali sono in grado di produrre a getto continuo eroi carismatici di un qualche tipo, in un assortimento infinito di mitici detective, spie e ufficiali di polizia, tutte figure il cui impiego non a caso consiste nell’operare lì dove le strutture burocratiche destinate a mettere ordine nell’informazione incontrano e fanno appello a una concreta violenza fisica. Ancora più sorprendenti sono, a mio avviso, le implicazioni sullo stesso statuto della teoria. Il sapere burocratico ha principalmente a che fare con la schematizzazione. In pratica, la procedura burocratica ignora le sottigliezze dell’esistenza sociale reale e riduce ogni cosa a formule preconcette di tipo statistico o meccanico. Che si tratti di moduli, regolamenti, statistiche o questionari, si tratta sempre di una semplificazione. Di fatto, non è poi tanto differente dal padrone che si aggira arrabbiato per la cucina e prende decisioni affrettate e arbitrarie riguardo a quel che è andato storto: in ogni caso si tratta di applicare modelli preesistenti molto semplici a situazioni complesse e spesso ambigue. Così, chi è costretto a relazionarsi con l’amministrazione burocratica rimane con l’impressione di avere a che fare con persone che per qualche strana ragione hanno deciso di indossare occhiali che permettono di vedere solo il 2 percento della realtà. Ma qualcosa di simile non accade anche nella teoria sociale? Una descrizione etnografica, anche una molto buona, cattura nel migliore dei casi il 2 percento di quello che accade in una faida Nuer o in un combattimento di galli balinese. Un’opera di riflessione teorica di norma riesce a mettere a fuoco solo una piccola parte della realtà, cogliendo forse la tessitura di un paio di fili in un tessuto di circostanze umane infinitamente complesso, che poi userà come linee guida per compiere alcune generalizzazioni, magari sulle dinamiche del conflitto sociale, sulla natura dei comportamenti o sul principio gerarchico. Non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato in questo tipo di riduzione teoretica. 44
Al contrario, sono convinto che un processo di questo tipo sia necessario se si vuole dire qualcosa di clamorosamente nuovo sul mondo. Consideriamo il ruolo dell’analisi strutturale, notoriamente avallata da Edmund Leach, circa cinquant’anni fa (1959), nella prima Malinowski Memorial Lecture. Ai nostri giorni l’analisi strutturale è considerata un procedimento decisamente passé così come l’opera complessiva di Claude Lévi-Strauss è considerata vagamente irrilevante. A me questo sembra inopportuno. Se è stata giustamente abbandonata l’idea che lo strutturalismo fornisca una sorta di chiave genetica per svelare i misteri della cultura umana, abbandonare al contempo anche la pratica dell’analisi strutturale significa a mio parere farsi derubare di uno strumento davvero ingegnoso. Perché il grande merito dell’analisi strutturale è quello di fornire una tecnica quasi a prova di imbecille per fare quel che dovrebbe fare qualsiasi buona teoria, ossia semplificare e schematizzare un materiale complesso in un modo tale da poter arrivare a dire qualcosa di inaspettato. Detto per inciso, è così che sono arrivato al precedente ragionamento su Weber e gli eroi prodotti a gettito continuo dalla burocrazia. È cominciato tutto con un esperimento volto a spiegare l’analisi strutturale agli studenti di un seminario che ho tenuto a Yale: avevo appena spiegato, grazie a una tabella, che i vampiri potevano essere concepiti come inversioni strutturali dei lupi mannari (ma anche di Frankenstein o della Mummia), quando qualcuno mi suggerì di applicare lo stesso principio ad altri casi. Mi resi velocemente conto, con mia grande soddisfazione, che anche James Bond poteva essere concepito come un’inversione strutturale di Sherlock Holmes (vedi Figura 1).
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Sherlock Holmes
James Bond
Dilettante
Professionista
Asessuato (uso di droghe)
Erotomane
Alla ricerca di informazioni su atti di violenza passati
Alla ricerca di informazioni su atti di violenza futuri
Eliot Ness
Philip Marlowe
Poliziotti televisivi Inversione negativa La Mummia
Frankenstein
Una domanda inappropriata di conoscenza sul passato conduce alla violenza
Una domanda inappropriata di conoscenza sul futuro conduce alla violenza
Figura 1: James Bond come inversione strutturale di Sherlock Holmes
È stato proprio mentre abbozzavo questa mappa che mi è diventato evidente, una volta enunciata l’opposizione iniziale, come tutto fosse organizzato esattamente attorno alla relazione tra informazione e violenza, come appunto ci si aspetterebbe per gli eroi dell’era burocratica. Da parte mia, preferisco considerare una figura eroica qualcuno come Lévi-Strauss, un uomo con il coraggio intellettuale necessario per portare avanti il suo modello fino alle estreme conseguenze, non importa quanto assurde queste potessero tal46
volta rivelarsi (o, se preferite, quanto dovesse violentare la realtà per applicarlo). Ciò che intendo è che, fin quando si rimane nell’ambito della teoria, la semplificazione può essere una forma di intelligenza. I problemi arrivano quando la violenza non è più metaforica. Lasciatemi passare adesso dai poliziotti immaginari a quelli reali. Un ex funzionario della polizia di Los Angeles, convertitosi poi in sociologo [Cooper, 1991], ha rilevato che una schiacciante maggioranza delle persone pestate dalla polizia non sono successivamente giudicate colpevoli di alcun reato. «I poliziotti non pestano gli scassinatori», osserva, e la ragione è semplice: la maniera migliore per scatenare una reazione violenta da parte della polizia è mettere in discussione il suo diritto di «definire la situazione». Se quel che ho detto finora è vero, questo è proprio ciò che dovremmo aspettarci: il manganello della polizia è il punto esatto in cui si incontrano l’imperativo burocratico dello Stato teso a imporre uno schema amministrativo semplificato e la sua pretesa al monopolio della forza coercitiva. È quindi sensato ritenere che la violenza burocratica sia soprattutto rivolta contro coloro che sostengono schemi o interpretazioni alternative. Al tempo stesso, se si accetta la nota definizione di Jean Piaget [1936] dell’intelligenza matura come capacità di coordinarsi tra multiple prospettive (attuali e potenziali), si può vedere qui come il potere burocratico, nel momento in cui si rivolge alla violenza, si trasforma letteralmente in una forma di stupidità infantile. Non è questo il contesto per approfondire alcuni aspetti specifici, ma mi sarebbe piaciuto argomentare perché ritengo che questo approccio possa suggerire maniere nuove per affrontare problemi vecchi. Da una prospettiva marxista, per esempio, si potrebbe osservare che la mia nozione di lavoro interpretativo, che lascia fluire senza intoppi la vita sociale, implica una distinzione fondamentale tra l’ambito della produzione sociale (la produzione di persone e di relazioni sociali), dove il lavoro immaginativo è relegato alle persone in fondo alla scala sociale, e l’ambito della 47
produzione di merci, dove gli aspetti creativi del lavoro sono delegati a chi sta ai vertici della scala sociale. In entrambi i casi, le strutture della diseguaglianza producono strutture immaginarie asimmetriche. Un altro aspetto da approfondire rimanda a ciò che siamo soliti chiamare alienazione, che in gran parte risulta essere l’esperienza soggettiva di vivere all’interno di queste strutture asimmetriche. Il che a sua volta comporta un certo numero di implicazioni per qualsiasi politica di liberazione8. Ai nostri fini, tuttavia, sarà sufficiente richiamare l’attenzione su alcune delle implicazioni in campo antropologico. La prima è che molte delle tecniche interpretative che applichiamo sono state storicamente le armi del debole piuttosto che gli strumenti del potere. In un saggio contenuto in Writing Culture, Renato Rosaldo [1986] propone la sua ben nota tesi: EvansPritchard, irritato perché nessuno voleva parlare con lui, si è ritrovato a fissare l’insediamento Nuer di Muot Dit «dalla soglia della sua tenda» e a quel punto lo ha trasformato nell’equivalente del Panopticon foucaultiano. La logica di questo ragionamento vuole che ogni conoscenza raccolta in situazioni asimmetriche sia al servizio di una funzione disciplinare. Per me, questa è un’assurdità. Il Panopticon benthamiano era una prigione. C’erano le guardie. I prigionieri sopportavano quello sguardo fisso e ne interiorizzavano i dettami, perché se provavano a fuggire o a resistere potevano essere puniti, o addirittura uccisi9. In assenza di un apparato coercitivo, un’osservazione così attenta è invece l’equivalente dei pettegolezzi di vicinato, privo oltretutto di qualsiasi sanzione da parte della pubblica opinione. Al di sotto di questa analogia si cela, a mio avviso, il presupposto che una conoscenza ampia di questo tipo sia inerente a qualsivoglia progetto imperiale. Tuttavia, anche il più veloce scrutinio della documentazione storica rende evidente che gli imperi hanno scarso o nullo interesse a raccogliere e studiare il materiale etnografico. Sono piuttosto interessati alle questioni che toccano la legge e i modi di amministrare. Per le informazioni su aspetti 48
esotici come costumi, usanze matrimoniali o riti funebri, bisogna inevitabilmente fare ricorso ai resoconti di viaggio, come quelli di Erodoto, Ibn Battuta o Zhang Qian, ovvero alle descrizioni di quei territori che cadono al di fuori della giurisdizione degli Stati ai quali appartiene il viaggiatore10. La ricerca storica ha poi rivelato che gli abitanti di Muot Dit, in gran parte ex seguaci di un profeta chiamato Gwek, l’anno precedente avevano subìto alcuni bombardamenti della raf ed erano stati costretti a dislocarsi [Johnson 1979, 1982, 1994]: tutta la vicenda era di fatto il risultato della tipica stupidità burocratica, sostanzialmente un’incomprensione sulla natura del potere nelle società Nuer, unita al tentativo di separare le popolazioni Nuer e Dinka, che avevano convissuto per generazioni. Quando EvansPritchard fece la sua comparsa, i Nuer erano ancora sottoposti ai raid punitivi delle autorità britanniche. Queste avevano addirittura chiesto all’antropologo di andare nella terra dei Nuer in qualità di loro spia. Sulle prime Evans-Pritchard aveva rifiutato, poi si era detto d’accordo (precisando, a posteriori, di averlo fatto «perché era dispiaciuto per loro»). Sembra in effetti che abbia evitato con cura di raccogliere le informazioni specifiche alle quali erano interessate le autorità britanniche (soprattutto quelle sui profeti, che erano ritenuti i leader della resistenza) e che abbia fatto del suo meglio, grazie alle competenze acquisite sul funzionamento della società Nuer, per scoraggiare gli abusi più idioti e «umanizzare» le autorità [Johnson 1982, 245]. Da etnografo, si è ritrovato a fare qualcosa simile al tradizionale lavoro delle donne: salvare il sistema dal disastro con interventi avveduti, volti a proteggere quegli uomini al potere, pieni di sé e smemorati, dalle conseguenze della loro cecità. Sarebbe stato meglio rimanere con le mani pulite? È una domanda che attiene alla coscienza individuale. Ma ho il sospetto che i più insidiosi rischi etici si pongano su un livello completamente differente. A mio avviso, il problema cruciale sta nel capire se il nostro lavoro teorico sia in ultima istanza orientato a sman49
tellare o disarticolare alcuni effetti di queste strutture immaginarie asimmetriche o se, come è facile che accada quando anche le nostre migliori idee sono sorrette dalla violenza burocratica, finisca di fatto per rinforzarle.
6. La teoria sociale può essere considerata una sorta di semplificazione radicale, una forma di ignoranza calcolata, volta a rivelare modelli che altrimenti non potrebbero essere visti. Il che vale per questo saggio, come per qualsiasi altro. Se questo saggio ha in gran parte schivato la letteratura antropologica esistente su burocrazia, violenza e ignoranza11, non è perché io ritenga che questa letteratura non sia illuminante ma solo perché volevo capire quali diversi spunti critici si potessero ottenere guardando le cose con lenti diverse (o forse si potrebbe dire con paraocchi diversi). Non si creda, però, che i paraocchi non possano avere effetti diversi gli uni dagli altri. Ho cominciato questo saggio con le scartoffie sulla malattia e la morte di mia madre per affermare una tesi. Ci sono zone morte che infestano le nostre esistenze, aree talmente svuotate di ogni possibile profondità interpretativa che sembrano respingere qualsiasi tentativo di dare loro valore o significato. Sono spazi, come ho scoperto, in cui il lavoro interpretativo non funziona più. Non sorprende dunque che non ci piaccia parlarne. Sono spazi che respingono la capacità immaginativa. Ma se li ignoriamo, rischiamo di diventare complici di quella violenza che li ha creati. Infatti, una cosa è affermare che un padrone che frusta una schiava attua una forma di azione comunicativa dotata di senso, attraverso la quale veicola l’esigenza di un’indiscussa obbedienza, creando al tempo stesso la terrificante e mitica immagine di un potere assoluto e arbitrario (cosa certamente vera). Ma altra cosa è pretendere che sia tutto qui quel che accade, o che sia questo ciò 50
di cui si deve parlare. Tutto sommato, se non proviamo ad andare avanti a esplorare che cosa davvero voglia dire «indiscussa» – la capacità del padrone di ignorare completamente la capacità della schiava di interpretare ogni situazione, l’incapacità della schiava di dire qualcosa anche quando è consapevole delle evidenti crepe nel ragionamento del padrone, le forme di cecità e di stupidità che ne derivano, il fatto che queste obblighino la schiava a spendere ancora più energie per comprendere e anticipare le confuse percezioni del padrone – allora, non stiamo forse facendo, pur se in scala minore, lo stesso lavoro della frusta? Proprio per questa ragione Elaine Scarry [1985, 28] ha definito la tortura una forma di «stupidità». Non serve in realtà a far parlare le proprie vittime. Anzi, in definitiva, è proprio l’opposto. C’è però un altro motivo se ho iniziato il saggio con la storia di mia madre. Come la mia apparentemente inesplicabile confusione sulle firme nella delega notarile rende chiaro, queste zone morte dell’immaginazione possono, almeno temporaneamente, rendere chiunque un idiota. Ed è appunto quello che ho nuovamente riscontrato quando il mio essere un accademico di sesso maschile mi ha portato a scrivere una prima bozza di questo saggio senza rendermi conto che molti dei miei ragionamenti riproducevano alcuni punti chiave delle idee femministe. Tutte queste forme di cecità derivano in ultima analisi dal tentativo di farsi strada attraverso situazioni definite dalla violenza strutturale. Ci vorrà un’enorme quantità di lavoro per cominciare a rimuovere queste zone morte dal nostro cammino. Ma riconoscerne l’esistenza è il primo passo necessario.
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Note alla prima parte 1. Questo saggio si basa sulla relazione presentata alla Malinowski Memorial Lecture del 2006, intitolata Beyond Power/Knowledge: An Exploration of the relation of power, ignorance and stupidity. Si tratta di una versione rivista in modo sostanziale del saggio che per alcuni anni è rimasto disponibile online sul sito web della London School of Economics and Political Sciences. 2. Per una valida sintesi aggiornata della letteratura antropologica sulla burocrazia, rimando a Colin Hoag [2011]. 3. Giusto per capire questi collegamenti va detto che Geertz è stato uno studente di Clyde Kluckhohn a Harvard, il quale non solo è stato «un tramite importante per il finanziamento degli studi che interessavano la cia» [Ross, 1998] ma ha anche collaborato alla parte antropologica del famoso manifesto weberiano per le scienze sociali di Parsons e Shils [1951]. Kluckhohn ha inoltre messo in contatto Geertz con il Center for International Studies del mit, allora diretto dall’ex responsabile della sezione Ricerche economiche della cia, che a sua volta lo ha convinto a lavorare sullo sviluppo dell’Indonesia. Il Center for International Studies aveva tra i suoi fini dichiarati l’elaborazione di «un’alternativa al marxismo», in gran parte attraverso quella che sarebbe stata conosciuta come la Modernization Theory [White, 2007], anch’essa su basi weberiane. 4. Le femministe ribadiscono spesso che «la violenza contro le donne è strutturale» [per esempio, Fregoso, 2010, 141; World March of Women, 2009], nel senso che le minacce e le aggressioni fisiche sottendono quelle istituzioni e configurazioni che a causa dei loro effetti possono essere descritte come forme di «violenza strutturale». Allo stesso modo, Catia Confortini [2006, 350] sostiene che quando si comprendono le «strutture» come processi materiali si può vedere non solo che «la violenza diretta è uno strumento usato per costruire, alimentare e riprodurre la violenza strutturale», ma che questa rende possibili le stesse categorie di mascolinità e femminilità. Nancy Hartsock [1989] ricorre ad argomenti simili nella sua critica di Foucault. 5. Giusto per essere chiari, chi usa l’espressione «violenza strutturale» dando per supposto che tali strutture non siano effettivamente fondate sulla violenza fisica, lo fa perché si attiene a una definizione tipicamente liberale di «violenza» (nel senso di aggressione fisica verso gli altri), o a una definizione tipicamente
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conservatrice (nel senso di danno illegittimo a beni o persone). Dissimili dunque dalla definizione tipicamente radicale che include anche la minaccia di aggressione fisica [Coady, 1986; cfr Graeber, 2009, 448-49]. 6. La ragione più immediata per cui i ragazzi adolescenti sono contrari a immaginare se stessi nei panni delle ragazze è ovviamente l’omofobia. A questo punto bisogna chiedersi perché l’omofobia sia tanto potente e perché assuma queste forme. Tutto sommato, molte ragazze adolescenti sono altrettanto omofobiche, ma questo non impedisce loro di immaginare se stesse nei panni dei ragazzi. 7. I testi chiave della Standpoint Theory femminista, scritti da Patricia Hill Collins, Donna Haraway, Sandra Harding, Nancy Hartsock e altri, sono raccolti in un’antologia curata da Harding [2004]. Aggiungerei che anche la storia di questo saggio fornisce un esempio significativo della smemoratezza di genere di cui parlo. Quando ho inquadrato per la prima volta il problema, non avevo ben individuato questo filone di ricerca, sebbene il mio ragionamento ne fosse stato evidentemente influenzato in maniera indiretta: solo l’intervento di un’amica femminista, Erica Lagalisse, mi ha reso consapevole di quale fosse la fonte effettiva di queste idee. 8. Ho esplorato alcune di queste implicazioni in maniera più dettagliata (a proposito di alienazione e di politiche di liberazione) in un saggio intitolato Revolution in reverse [Graeber, 2011]. 9. Di fatto, il modo in cui l’immagine del Panoptico è stata adottata dall’accademia, ovvero come un argomento contro il primato della violenza nelle forme contemporanee di potere, è un esempio perfetto di come gli accademici possano diventare complici di quei processi grazie ai quali le strutture fondate sulla violenza si rappresentano come qualcosa di diverso. 10. Sarebbe interessante documentare gli alti e bassi dell’interesse verso l’etnografia nei differenti imperi storici per vedere se esistono dei modelli ricorrenti. Per quanto mi risulta, il primo grande impero ad aver raccolto una documentazione sistematica di tipo etnografico, culinario e medico all’interno dei propri domini è stato l’impero mongolo. 11. C’è stato di recente un piccolo boom di studi antropologici sull’ignoranza [per esempio, Gershon, Raj, 2000; Scott, 2000; Dilley, 2010; High, Kelly, Mair, 2012], e alcuni degli esempi più recenti hanno preso in considerazione
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anche alcune delle tesi presenti nella versione originaria di questa Malinowski Memorial Lecture. Ma anche qui si può osservare almeno una piccola sbandata nella direzione opposta, per esempio quando High, Kelly e Mair sostengono, nella loro introduzione, che se un approccio di critica politica al soggetto è comunque valido, la peculiarità di un «approccio etnografico» consisterebbe nel considerare l’ignoranza non in termini puramente negativi, come assenza di sapere, ma «come un fenomeno concreto con una propria storia», di cui pertanto bisogna comprendere la «produttività» [2012, 15-16]. Il che richiama molto il discorso foucaultiano sul potere. L’etnografia detesta il vuoto. Ma il vuoto esiste.
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seconda parte
Fenomenologia dei mega-pupazzi
Quello che segue è un saggio interpretativo che esplora le forme dell’azione diretta, così come si sono affermate in Nord America, e le mobilitazioni di massa organizzate dal cosiddetto movimento antiglobalizzazione, insieme alla guerra delle immagini che le hanno accompagnate. Questa indagine inizia con una semplice osservazione: dell’insieme di questo movimento il cittadino medio conosce giusto un paio di cose, e cioè innanzi tutto che ci sono frequentemente persone vestite di nero che rompono le vetrine e poi che spesso compaiono sulla scena dei giganteschi pupazzi colorati. La prima cosa che intendo fare è capire perché proprio queste immagini hanno colpito tanto l’immaginazione popolare. Ma voglio anche cercare di capire perché la polizia, tra le due immagini, sembra avercela di più con i pupazzi. Sono infatti molti gli attivisti che hanno rilevato questa profonda avversione verso i mega-pupazzi da parte delle forze dell’ordine. Le strategie di prevenzione attuate dalla polizia mirano spesso a sequestrare o a distruggere questi pupazzi prima ancora che facciano la loro comparsa sulle strade. E infatti una delle principali 63
preoccupazioni degli attivisti che progettano azioni di questo tipo è quella di nasconderli affinché non siano intercettati e distrutti dalla polizia prima della manifestazione. Anche perché per molti agenti l’avversione verso i pupazzi non è soltanto di tipo strategico ma proprio personale, addirittura viscerale. I poliziotti odiano i pupazzi, e gli attivisti si scervellano per capire il perché di tanto odio. Questo saggio deriva appunto da una constatazione così sconcertante ed è scritto dal punto di vista di un attivista. Faccio parte da anni del movimento per una giustizia globale1 e ho partecipato attivamente ad azioni grandi e piccole, cercando in tutto questo tempo di dare una risposta al quesito appena sollevato. Se questo fosse soltanto un saggio sulla psicologia della polizia, il mio coinvolgimento mi metterebbe in una situazione precaria, dal momento che renderebbe difficile ottenere dai poliziotti delle interviste approfondite. È scontato che, essendo attivo nel movimento, ho avuto frequenti occasioni per scambi casuali con i poliziotti, ma questi scambi verbali non sono in genere così illuminanti. Del resto, l’unica conversazione prolungata che io abbia avuto con un poliziotto sul tema dei pupazzi è avvenuta mentre ero ammanettato, cosa che se non altro rende molto difficile prendere appunti. A ogni modo, questo saggio non scende nello specifico psicologico del poliziotto, o dell’attivista, ma in quello che gli Annales delle discipline storiche amano chiamare la «struttura della congiuntura»: quella peculiare e sempre mutevole interazione simbolica tra Stato, capitale, mass media e movimenti di opposizione che la globalizzazione ha fatto esplodere. Dal momento che ogni pianificazione strategica deve cominciare da una comprensione di questi elementi, chi è coinvolto in tali azioni finisce per ritrovarsi in mezzo a discussioni infinite sullo stato effettivo di quella congiuntura. Ritengo dunque che questo saggio sia un contributo all’incessante dibattito in corso, un contributo che è al tempo stesso necessariamente estetico, critico, etico e politico. E sono inoltre convinto che in definitiva servirà 64
a perseguire i propositi e le ispirazioni del movimento seppure in un’altra forma. Perché i pupazzi? Perché le vetrine? Perché queste immagini paiono avere un potere mitico? Perché i rappresentanti dello Stato reagiscono in questo modo? Qual è la percezione della gente comune? Chi è la «gente comune»? Come è possibile trasformare in qualcos’altro la «gente comune»? Porsi queste domande significa cominciare a mettere assieme le tacite regole che sottendono il gioco della guerra simbolica, dai suoi presupposti di base fino ai dettagli del modo in cui le regole d’ingaggio sono negoziate in ogni specifica azione, per riuscire infine a comprendere la posta in gioco nelle nuove forme di politica rivoluzionaria. Sono personalmente convinto che le implicazioni di questi processi conoscitivi siano di per sé rivoluzionarie. Da qui deriva la struttura non convenzionale di questo saggio, che parte da un’analisi del simbolismo dei mega-pupazzi, per poi passare a una discussione sulle strategie comunicative della polizia e infine arrivare a una riflessione sulla natura della violenza e sullo stato della politica internazionale. Si tratta, in altre parole, del tentativo di comprendere un momento storico dalla prospettiva di chi è situato al suo interno.
Ridefinizione di una problematica Secondo un’opinione diffusa, gli eventi che hanno avuto luogo a Seattle nel novembre 1999, attorno al Summit dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (wto), avrebbero segnato la nascita di un nuovo movimento in Nord America. In realtà, sarebbe meglio dire che Seattle ha segnato il momento in cui un movimento globale, molto più ampio, ha fatto la sua prima comparsa sulle sponde nordamericane, un movimento che risale almeno alla rivolta zapatista del 1994. Nondimeno, le manifestazioni di Seattle sono state considerate una vittoria spettacolare e 65
sono state seguite a breve da una serie di mobilitazioni simili tra il 2000 e il 2001 – a Washington, Praga, Québec City e Genova – in un crescendo di dimensioni ma anche di livelli di repressione statale. L’11 settembre 2001 e la successiva «guerra al terrorismo» hanno cambiato le regole del gioco, consentendo ai governi di intensificare rapidamente la repressione. In America, questo è stato subito evidente a Miami nel novembre 2003, durante il Summit per l’Area di Libero Commercio delle Americhe, per la violenza inusuale adottata dalla polizia contro i dimostranti. Tuttavia, lo sbandamento che questo ha comportato tra le fila del movimento non è stato provocato solo dai livelli più alti di repressione. Bisogna considerare anche un’altra spiegazione, per quanto paradossale possa apparire: il movimento ha raggiunto molto velocemente i suoi scopi più immediati. Dopo Seattle, l’operazione messa in cantiere dal wto si è impantanata e non è mai stata rimessa davvero in carreggiata. I più ambiziosi programmi di commercio globale erano stati mandati a monte. Le conseguenze sul dibattito politico sono state ancora più straordinarie. Di fatto, l’impatto è stato talmente sensazionale che per molti è diventato difficile anche solo ricordarsi quali erano i toni del discorso pubblico prima di Seattle. Alla fine degli anni Novanta il Washinghton consensus, come si diceva allora, non aveva oppositori di rilievo. Negli Stati Uniti, politici e giornalisti concordavano unanimemente che solo radicali «riforme di libero mercato» avrebbero potuto garantire lo sviluppo economico, sempre e comunque. Nei media ufficiali, chi provava a mettere in discussione i dogmi di questa fede veniva trattato come se fosse uscito di senno. Essendo diventato politicamente attivo proprio nei primi mesi del 2000, posso affermare che, nonostante l’entusiasmo per quel che era accaduto a Seattle, a quell’epoca ritenevamo che sarebbero stati necessari cinque o dieci anni per incrinare quella visione. Di fatto ne sono bastati due, o anche meno. Alla fine del 2001 era un luogo comune vedere anche i giornali ufficiali, gli stessi che pochi mesi prima avevano denunciato i dimostranti co66
me ragazzetti ignoranti, dichiarare che avevamo vinto la battaglia delle idee. Proprio come era avvenuto in gran parte del movimento antinucleare negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, ci si è resi conto che il metodo dell’azione diretta è così efficace da raggiungere gli scopi a breve termine in tempi molto rapidi, obbligando così gli attivisti a darsi da fare per ridefinire la natura del movimento. Presto sono sorte divisioni tra chi era solo «contro le multinazionali» e chi «contro il capitalismo». Via via che le idee e le forme di organizzazione anarchiche diventavano sempre più importanti, i sindacati e le ong hanno cominciato a fare marcia indietro. Ai nostri fini, l’aspetto cruciale è che tutto questo è diventato un problema perché il movimento sin dal principio ha lanciato il suo messaggio in maniera efficace. Tuttavia, devo qui introdurre una precisazione cruciale: il successo ha riguardato solo il messaggio negativo del movimento, ovvero ciò contro cui lottavamo. È stato relativamente facile far passare il messaggio che organismi come il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio o la Banca Mondiale erano antidemocratici e irresponsabili, o che le politiche neoliberali stavano devastando il pianeta, spingendo milioni di esseri umani verso la morte, la miseria e la disperazione. Se i media ufficiali non avevano inizialmente alcuna intenzione di citare i nostri portavoce o di pubblicare i nostri comunicati, non passò molto tempo prima che gli intellettuali e le «teste d’uovo» accreditati (incoraggiati da economisti che avevano saltato il fosso, come Joseph Stiglitz) cominciassero a ripetere quelle stesse cose come se le avessero scoperte loro. Certo, i maggiori editorialisti americani si guardavano bene dal riportare tutti gli argomenti sollevati dal movimento, soprattutto quelli che identificavano la radice dei problemi nella natura stessa dello Stato e del capitalismo, ma in ogni caso il senso del messaggio riuscì a essere veicolato. La stessa cosa però non è avvenuta per quanto riguardava il messaggio positivo del movimento, ovvero ciò per cui lottavamo. Se si può identificare una fonte di ispirazione primaria nel movi67
mento per una giustizia globale, questo è il principio dell’azione diretta. Si tratta di un concetto che sta al cuore della tradizione anarchica e di fatto, nel corso del tempo, molti degli organizzatori del movimento sono arrivati a considerarsi anarchici o almeno fortemente influenzati dalle idee anarchiche. E hanno cominciato a vedere le manifestazioni di massa non solo come occasioni per mettere in evidenza la natura antidemocratica e illegittima delle istituzioni esistenti, ma anche come strategia per illustrare queste idee in forme che dimostrassero di per sé come tali istituzioni non siano necessarie, fornendo così un esempio vivente e genuino di democrazia diretta. In questo contesto, la parola chiave diventa «processo», nel senso di «processo decisionale». Quando i membri della Direct Action Network o di gruppi simili devono decidere se lavorare con qualche altro gruppo, la prima domanda che si pongono è «che tipo di processo decisionale usano?». O, in altri termini, praticano la democrazia interna? Votano a maggioranza o usano una forma consensuale? Esiste una leadership formale? Questioni del genere sono considerate più rilevanti delle prese di posizione ideologiche2. Allo stesso modo, se parlate con qualcuno che è appena stato in una manifestazione importante e gli chiedete che cosa ha trovato di nuovo ed emozionante in quell’esperienza, probabilmente ascolterete lunghe descrizioni sull’organizzazione dei gruppi di affinità, sui metodi di coordinamento, sulla gestione di blocchi e presidi, sulla comunicazione assembleare verso l’esterno o sull’apparente miracolo di un processo decisionale consensuale in cui migliaia di persone coordinano le proprie azioni senza alcuna struttura formale di leadership. C’è un termine tecnico per descrivere tutto questo: «politica prefigurativa». L’azione diretta è una forma di resistenza che, nella sua stessa struttura, intende prefigurare la società libera che si desidera creare. L’azione rivoluzionaria non è una forma di immolazione, un’arcigna consacrazione a fare tutto ciò che è necessario per raggiungere un mondo futuro finalmente libero. È piuttosto la sfida costante ad agire come se si fosse già liberi. 68
Il messaggio positivo era quindi una nuova visione della democrazia. Tuttavia, il movimento ha platealmente fallito nel suo tentativo di convogliare questo messaggio a un più largo pubblico. I gruppi come il Direct Action Network sono stati piuttosto efficaci nel disseminare i loro modelli decisionali all’interno dei circuiti militanti (anche perché questi modelli funzionano molto bene), ma al di là di questi circuiti non hanno avuto una grande fortuna. I primi tentativi di innescare un dibattito pubblico sulla natura della democrazia sono stati completamente ignorati dai media ufficiali. E lo stesso è accaduto per le nuove forme di organizzazione: i lettori dei giornali ufficiali o gli spettatori della televisione, anche quelli che seguivano le vicende del movimento in maniera assidua, non hanno avuto modo di venirne a conoscenza.
Immagini mediatiche Non voglio però lasciare al lettore l’impressione che chi fa parte del movimento per una giustizia globale si ponga come obiettivo prioritario quello di far passare i propri messaggi attraverso i media. Anzi, uno degli aspetti insoliti che caratterizzano molti attivisti di questo nuovo movimento è proprio il fatto di essere apertamente ostili a ogni tentativo di influenzare ciò che chiamano «il sistema mediatico», o addirittura, in certi casi, di averci qualcosa a che fare. A loro avviso, società come la cnn o la Associated Press sono imprese capitaliste e dunque sarebbe infantile pensare che siano disposte a offrire un’amichevole vetrina a chi si oppone attivamente al capitalismo, per non parlare della possibilità di veicolare messaggi apertamente anticapitalisti ai loro utenti. Una buona parte degli attivisti ritiene che l’apparato mediatico, in quanto elemento chiave della struttura di potere, dovrebbe essere considerato di per sé uno dei possibili obiettivi dell’azione diretta. In effetti, tra i risultati più importanti del movimento c’è quello di aver sviluppato una rete internazionale di media completamente nuovi e alternativi, 69
un progetto mediatico basato sulla partecipazione e realizzato dagli stessi attivisti per lo più su Internet, che da Seattle in avanti ha dato copertura in tempo reale alle grandi mobilitazioni con diverse modalità comunicative: video, radio, carta stampata, email. Tutto questo rientra molto bene nello spirito dell’azione diretta. Tuttavia, continuano a esserci attivisti, anche anarchici, che sono disposti a interagire con i media tradizionali. Io stesso posso essere considerato uno di questi. Durante svariate mobilitazioni, mi sono ritrovato a passare molto del mio tempo a organizzare conferenze stampa, preparare comunicati e rispondere alle interviste telefoniche dei giornalisti. E questo ovviamente spiega il severo disprezzo di cui sono stato oggetto da parte di alcuni circoli anarchici hardcore. Nondimeno, sono anch’io convinto che la critica anarchica sia in gran parte corretta, soprattutto nel caso degli Stati Uniti. Nella mia esperienza, molti opinionisti e un certo numero di reporter diffidano delle manifestazioni di protesta, che non considerano come vere «notizie», ma come eventi artificiali orditi per influenzarli3. A quanto pare, sono disposti a coprire mediaticamente gli eventi artificiali solo quando sono preparati dalle autorità riconosciute. Ma se devono coprire gli eventi organizzati dagli attivisti, allora diventano acutamente consci del rischio che corrono di essere manipolati, soprattutto nel caso di manifestazioni di protesta che reputano «violente». Dal punto di vista di un giornalista, si tratta di un dilemma, perché la violenza di per sé è già notizia. Una manifestazione «violenta» ha molte più probabilità di avere una copertura mediatica. Ma proprio per questa ragione, l’ultima cosa che i giornalisti vorrebbero pensare di se stessi è di aver permesso a manifestanti violenti di «sequestrare» i media per veicolare il loro messaggio. La faccenda è ulteriormente complicata dal fatto che i giornalisti usano una definizione piuttosto stravagante di «violenza», qualcosa tipo «un danno a persone o cose non autorizzato dalle autorità costituite». Pertanto, se anche un solo manifestante danneggia una vetrina di Starbucks, in quel caso si può parlare di «proteste violente», ma se la polizia 70
parte all’attacco di chiunque sia presente con manganelli, taser e proiettili di plastica, la scena non può essere descritta come un atto di violenza. In simili circostanze, non sorprende che sia la rete di media anarchici a dover fare la valutazione dei danni. Si comincia allora a comprendere perché nella copertura dei media prevalgano le immagini dei Black Bloc che mandano in frantumi le vetrine assieme a quelle dei pupazzi colorati. Veicolare il reale «messaggio» è di fatto escluso. Quasi tutte le manifestazioni più importanti sono state accompagnate da giornate di seminari pubblici in cui intellettuali radicali analizzavano le politiche del Fondo Monetario Internazionale o dei paesi del G8, discutendo possibili alternative. Per quel che ne so io, nessuno di questi seminari è mai stato coperto dalla stampa ufficiale. È indubbiamente difficile e complicato visualizzare un «processo» e oltretutto i meeting sono in genere off limits per i giornalisti. Nondimeno, è difficile spiegare la relativa mancanza di attenzione dei media ufficiali verso i blocchi stradali o gli happening di strada, i raduni della critical mass o l’esposizione di striscioni. Sono tutti eventi spettacolari, pubblici e spesso di grande impatto visivo. Dal momento che è quasi impossibile descrivere come un violento chi si impegna in simili tattiche, il fatto che molto spesso questi attivisti finiscano pestati, gasati, spruzzati con gli urticanti, colpiti con proiettili di plastica o ammanettati dalla polizia, pone un ovvio dilemma narrativo al quale molti giornalisti cercano di sottrarsi4. Ma tutto questo, da solo, non sembra fornire una spiegazione adeguata al fenomeno5. Torniamo allora alla mia osservazione iniziale, e cioè che esiste una spinta irresistibile ad associare le immagini dei manifestanti in nero che infrangono le vetrine con quelle dei mega-pupazzi colorati. Perché questo avviene? Se non altro, le due immagini palesano una netta opposizione strutturale. Gli anarchici del Black Bloc vogliono rendersi anonimi e intercambiabili, identificabili solo grazie alla loro affinità politica, alla loro volontà di impegnarsi in azioni militanti e alla loro 71
mutua solidarietà. Di qui l’uniforme nera composta da magliette, cappucci e bandane indossate come una maschera. Al contrario, i pupazzi di cartapesta usati nelle azioni sono unici e individuali: pur essendo tutti dipinti a colori vivaci, variano ampiamente per forma, dimensione e ideazione. Così, da un lato abbiamo figure anonime, senza volto, in nero, molto simili tra loro, dall’altro troviamo divinità policrome con le sembianze di uccelli, maiali e politici. I primi sono una massa anonima, distruttiva, tremendamente seria; i secondi sono un insieme molteplice che mette in scena una creatività eccentrica. Se l’accostamento delle due immagini risulta di forte impatto, è perché questa giustapposizione dice qualcosa di importante sugli obiettivi perseguiti dall’azione diretta. Cominciamo a prendere in esame la distruzione della proprietà. Atti del genere sono tutt’altro che casuali e seguono severe linee guida di tipo etico: è vietato danneggiare beni personali, per esempio, e ogni attività commerciale che provveda al sostentamento diretto del suo proprietario. Bisogna inoltre prendere ogni precauzione per evitare di ferire gli esseri umani. Gli obiettivi, spesso oggetto di attente ricerche che anticipano l’azione, sono le facciate delle grandi aziende, delle banche, degli ipermercati, così come quelle degli edifici governativi o di altri simboli del potere statale. Quando descrivono le loro tattiche, gli anarchici fanno spesso riferimento al situazionismo (Guy Debord e Raoul Vaneigem sono gli autori francesi più diffusi nelle librerie anarchiche). Il consumismo capitalista ci rende infatti spettatori passivi e isolati, in relazione l’uno con l’altro solo attraverso una comune fascinazione verso un gioco infinito di immagini che sono, in definitiva, rappresentazioni di quel senso di appartenenza e di comunità che abbiamo perso. La distruzione della proprietà è quindi un tentativo di «rompere l’incantesimo», di deviare e ridefinire una situazione. È un assalto diretto allo Spettacolo. Prendiamo in esame le parole del famoso comunicato rilasciato il 30 novembre 1999 dai Black Bloc di Seattle, in particolare il paragrafo intitolato Sulla violenza contro la proprietà: 72
Quando rompiamo una vetrina, noi aspiriamo a distruggere la sottile maschera di legittimità dietro cui si celano i diritti di proprietà privata. Al contempo, intendiamo esorcizzare quel tipo di relazioni sociali violente e distruttive di cui sono ormai impregnate tutte le cose che ci circondano. «Distruggendo» la proprietà privata, noi convertiamo il suo limitato valore di scambio in un esteso valore d’uso. La vetrata di un megastore diventa una fessura attraverso la quale passa una ventata di aria fresca nell’atmosfera opprimente di un ipermercato (almeno fino a quando la polizia non decide di sparare i lacrimogeni vicino alla barricata che blocca la strada). Un distributore automatico di giornali diventa l’attrezzo con cui creare questa fessura, o con cui costruire una piccola barricata per reclamare lo spazio pubblico, o ancora la pedana su cui salire per avere una visione più favorevole. Un cassonetto diventa l’ostacolo frapposto all’avanzata di un plotone di sbirri antisommossa e una fonte di luce e di calore. La facciata di un palazzo diventa una bacheca su cui apporre messaggi capaci di veicolare il ribollire di idee per un mondo migliore.
> Lo sfondamento della vetrina di un caffè Starbucks a Seattle, 1999.
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Dopo il 30 novembre, molte persone non guarderanno più una vetrina o un martello nello stesso modo in cui li guardavano prima. Gli usi potenziali dell’intero arredo urbano sono enormemente aumentati. Il numero delle vetrine infrante impallidisce di fronte al numero degli incantesimi che abbiamo rotto, incantesimi che ci vengono imposti dall’egemonia delle grandi aziende per farci stare buoni, per non farci pensare a tutte le violenze perpetrate in nome della proprietà privata, a tutte le potenzialità di una società senza di loro. Le vetrine infrante possono essere chiuse con assi di legno (sprecando gli alberi delle nostre foreste) e infine sostituite, ma la frantumazione delle idee dominanti auspicabilmente persisterà per molto tempo a venire6.
Distruggere la proprietà significa dunque infrangere un panorama urbano segnato dalle infinite facciate del potere economico e dal suo rutilante immaginario, che pare monumentale, eterno e immutabile,per dimostrarne invece l’effettiva fragilità. Significa letteralmente mandare in frantumi le illusioni che alimenta. Che dire allora dei pupazzi? Di nuovo, questi sembrano perfettamente complementari all’altra immagine. I mega-pupazzi di cartapesta sono infatti creati con i materiali più effimeri – fantasia, carta e fil di ferro – e trasformati in qualcosa di simile a un monumento (pur se in modo caricaturale). Un mega-pupazzo è la derisione dell’idea stessa di monumento7 e di tutto ciò che i monumenti rappresentano: l’incolmabile distanza, la monocroma solennità e soprattutto la sottintesa stabilità, il tentativo da parte dello Stato di trasformare la propria storia e i propri principi in verità eterne. Se l’altra immagine si propone di mandare in frantumi lo Spettacolo dell’esistente, questa mi sembra suggerire la capacità di produrne di nuovi a gettito continuo. Di fatto, dal punto di vista degli attivisti la questione fondamentale è ancora il «processo» (in questo caso il processo di creazione). Ci sono riunioni in cui ci si scambiano le idee per escogitare soggetti e forme, ma per la maggior parte del tempo 74
> Un laboratorio per la costruzione dei mega-pupazzi.
le reti e le intelaiature giacciono per giorni al suolo in garage, cortili, magazzini o capannoni semi-industriali, insieme a secchi di vernice e attrezzi di vario tipo, mentre piccole squadre si aggirano tra tutto questo materiale, impegnate a modellare, fumare, dipingere, mangiare, suonare musica, gironzolare e discutere animatamente. Ogni cosa è progettata per essere comunitaria, egualitaria e significativa. E non ci si aspetta che gli oggetti durino. Sono in gran parte costituiti di materiali deperibili e pochi reggerebbero a un acquazzone. Alcuni sono deliberatamente distrutti o dati alle fiamme nel corso delle azioni. E in ogni caso, in assenza di un deposito adeguato, di solito cominciano rapidamente a sfaldarsi. Quanto alle raffigurazioni vere e proprie, sono chiaramente finalizzate a racchiudere, e quindi esprimere, una sorta di universo. Di solito i costruttori di pupazzi – o puppetistas, come talvolta si definiscono – mirano a una sorta di equilibrio tra immagini negative e positive. Così, da un lato ci può essere il Grande Maiale che rappresenta la Banca Mondiale e dall’altro il mega-pupazzo 75
> Dall’alto in basso, in senso orario: il mega-pupazzo della Democrazia diretta realizzato dalla School of Americas Protest; le Tartarughe marine di Seattle (30 novembre 1999); le raffigurazioni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (16 aprile 2000); le raffigurazioni delle Multinazionali realizzate in occasione della Convention per le primarie del partito democratico (Los Angeles, 2000).
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che rappresenta la Liberazione, le cui enormi braccia possono bloccare un’intera autostrada. La maggior parte delle raffigurazioni più famose identificano gli attivisti impegnati nell’azione in corso e le cose che indossano o trasportano. Per esempio, un mega-pupazzo a forma di uccello, che ha sfilato nelle manifestazioni contro la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale del 16 aprile 2000 a Washington, era replicato da centinaia di piccoli uccelli collocati sui cartelli distribuiti a tutti i partecipanti. Allo stesso modo, i mega-pupazzi raffiguranti i Martiri di Chicago, gli Zapatisti, la Statua della Libertà o la chiave inglese del Fronte di Liberazione Animale erano riprodotti identici sugli emblemi, sugli adesivi o sulle magliette di chi prendeva parte a queste manifestazioni. Tuttavia, le immagini che colpiscono di più sono quelle negative: i mega-pupazzi che raffigurano il controllo sulla società da parte delle multinazionali, fatti sfilare durante la Convention dei democratici nel 2000, con George W. Bush e Al Gore che si muovono come marionette; o il gigantesco poliziotto antisommossa che spruzza spray urticante; o la serie infinita di effigi che sono servite a ridicolizzare il potere. Ovviamente, la derisione e la distruzione delle effigi è una delle forme di protesta politica più antiche e diffuse. Il crollo dei regimi è spesso segnato dalla distruzione delle statue. L’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Baghdad – a quanto pare una messa in scena organizzata – ha rappresentato, nella mente di tanti, il momento esatto in cui il regime è finito. Analogamente, durante la visita di George W. Bush in Gran Bretagna, nel 2004, i dimostranti hanno eretto innumerevoli statue, grandi e piccole, del presidente americano al solo fine di abbatterle. Tuttavia le immagini positive sono trattate con più rispetto delle effigi. Di seguito riporto un brano da alcune mie riflessioni scritte a caldo sul tema, annotate in fretta e furia (e in parte riviste) subito dopo essere stato nel laboratorio di pupazzi di Filadelfia, poco prima della Convention repubblicana del 2000. 77
Appunti dal mio diario di strada, 31 giugno 2000 La domanda che continuo a pormi è: perché li chiamano «pupazzi»? Normalmente si pensa ai pupazzi come a figure che si muovono in funzione dei movimenti di un qualche burattinaio. Ma questi pupazzi hanno poche parti mobili, quasi nessuna. Sono più che altro statue mobili, a volte trasportate di peso, a volte indossate da un attivista. Ma allora in che senso sono pupazzi? I pupazzi sono grandi e molto visibili, ma anche delicati ed effimeri. Di solito vanno a pezzi alla fine di una singola manifestazione. La combinazione tra grandi dimensioni e leggerezza li rende ai miei occhi un ponte tra parole e realtà. Sono forme di transizione: rappresentano la capacità di rendere reali le idee, di far loro assumere forme concrete, di trasformare la nostra visione del mondo in qualcosa che abbia un impatto fisico equivalente e una forza spettacolare maggiore della macchina che muove la violenza di Stato, con la quale devono confrontarsi. L’idea che siano estensioni delle nostre menti e delle nostre parole contribuisce a spiegare l’uso del termine «pupazzi», «marionette». Non si muovono per estensione di una volontà individuale, e se lo facessero contraddirebbero l’importanza della creatività collettiva. Se sono i personaggi di una rappresentazione, questa rappresentazione ha un autore collettivo; se sono manipolati, lo sono da tutti coloro che partecipano a quei cortei, spesso passando di mano in mano da un attivista all’altro. Sono, in definitiva, l’emanazione di un immaginario collettivo. Pertanto, sarebbe contraddittorio se diventassero pienamente solidi o se fossero manipolati da un solo individuo.
I pupazzi possono anche essere indossati come costumi e nelle grandi manifestazioni in effetti si trasformano in costumi identificativi. Ogni grande mobilitazione ha un proprio totem (a volte anche più di uno): le famose tartarughe marine a Seattle nel 1999, gli uccelli e gli squali a Washington nel 2000, la Danza macabra degli scheletri alla Convention repubblicana di Filadelfia nel 2000, il caribù per l’insediamento di Bush o i frammenti 78
> Effige di George W. Bush abbattuta in Gran Bretagna nel 2004.
della Guernica di Picasso per le manifestazioni di protesta contro l’imminente invasione dell’Iraq nel 2003, costruiti in modo da poter essere scomposti e poi riassemblati. In effetti, di solito non c’è una chiara linea divisoria tra pupazzi, costumi, striscioni, simboli e altri oggetti scenici. Ognuno di questi è progettato per combinarsi con gli altri, per rafforzarsi a vicenda. I pupazzi in genere sono circondati da un Carnival Bloc, da un «blocco carnevalesco» esteso, formato da clown, trampolieri, mangiafuoco, giocolieri, ciclisti su velocipedi, cheerleaders sovversive e spesso intere bande musicali militanti, come la Infernal Noise Brigade della Bay Area californiana o la Hungry March Band di New York, specializzate in musica Klezmer o circense, oltre agli onnipresenti tamburi e fischietti. La metafora circense sembra particolarmente adatta allo spirito anarchico, probabilmente perché i circhi sono comunità tradi79
zionalmente composte da individualità forti, impegnate tuttavia in un’impresa estremamente cooperativa che ha tra i propri fini la trasgressione dei limiti. La famosa battuta di Tony Blair del 2004, quando disse che non avrebbe fatto marcia indietro «per colpa di un circo anarchico itinerante», per molti non fu un insulto. Di fatto, c’è un numero consistente di gruppi circensi esplicitamente anarchici e il loro numero non è inferiore negli Stati Uniti a quello dei tanti predicatori ciarlatani. Il riferimento non è casuale: al momento, infatti, ogni manifestazione ha la sua frangia circense che si muove tra i grandi blocchi stradali per sollevare gli animi (attraverso il teatro di strada) e cercare, con spirito critico, di sdrammatizzare i momenti di maggiore tensione o di potenziale conflitto. Quest’ultimo aspetto è di cruciale importanza. Dal momento che l’azione diretta, al contrario delle manifestazioni autorizzate, evita scrupolosamente i servizi d’ordine o i mediatori formali (che spesso la polizia cerca di cooptare), queste squadre circensi, insieme ai puppetistas, svolgono di fatto la stessa funzione mediatrice. Ecco un resoconto di prima mano dei membri di un gruppo di affinità di Chapel Hill (Paper Hand Puppet Intervention), che spiega come le cose funzionino in pratica: Due anni fa Burger e Zimmerman hanno portato alcuni pupazzi a Seattle durante le violente proteste contro il wto, e a un certo punto si sono uniti a un gruppo che stava assediando l’edificio in cui si teneva l’incontro. «I manifestanti avevano fatto cordone incrociando le braccia tra di loro», racconta Zimmerman, «e la polizia li aveva prima spruzzati con lo spray urticante e poi li aveva pestati. Adesso minacciava di tornare all’attacco nel giro di cinque minuti». Ma i manifestanti tenevano la posizione con le braccia unite e gli occhi che lacrimavano a causa dello spray urticante. Burger, Zimmerman e i loro amici arrivarono con i trampoli, i clown, un pupazzo alto dodici metri e una danzatrice del ventre. Camminavano avanti e indietro lungo la linea dei dimostranti, invitandoli a cantare. Quando i poliziotti tornarono, si trovarono a dover prima fronteggiare l’enorme pupazzo. In qualche modo, quel circo
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variopinto riuscì a contenere la situazione. «Non potevano spingersi fino ad attaccare un gruppo di persone che stavano cantando», racconta Zimmerman, spiegando che immettere un po’ di umorismo e festosità in un contesto pesante è il fine ultimo di un intervento con i pupazzi8.
Secondo coloro che costruiscono e portano in piazza i mega-pupazzi, tra le varie strategie circensi questa è la più efficace. «I pupazzi non sono graziosi, come i Muppets», sostiene Peter Schumann, direttore del Bread and Puppet Theater, il gruppo teatrale che ha reso popolari i pupazzi nelle proteste politiche degli anni Sessanta. «Sono effigi, sono divinità, sono creature dotate di significato»9. A volte in maniera letterale, come nel caso delle divinità Maya che hanno accolto a Cancún i delegati del wto nel settembre 2003. Tuttavia, se mantengono una sorta di qualità divina, sono palesemente divinità folli, bizzarre, ridicole. Sembra quasi che il processo di creare ed esibire questi pupazzi sia un modo per impadronirsi del potere di creare dèi, ma al contempo prendersi
> Divinità Maya costruita per il Summit dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Cancún, 2003.
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gioco di quel potere. Qui ci si trova di fronte a una sensibilità profondamente anarchica. Nell’anarchismo ci si imbatte in un impulso simile ogni volta che ci si avvicina a un processo di significazione fortemente mitico. Lo si vede nelle dottrine dei seguaci di John Zerzan e in altri primitivisti, i quali creano consapevolmente nuovi miti (la loro versione del Giardino dell’Eden, della Caduta, della prossima Apocalisse) che sembrano implicare non solo l’accettazione di un’ecatombe umana come effetto collaterale di un auspicato collasso industriale di dimensioni planetarie, ma anche l’abolizione dell’agricoltura e addirittura del linguaggio, per poi frenare davanti all’idea che tutto questo accada davvero. È un impulso chiaramente presente anche nell’opera di Peter Lamborn Wilson, le cui meditazioni sul ruolo del sacro nell’azione rivoluzionaria sono scritte sotto il nom de plume di un folle poeta ismailita pederasta, ovvero Hakim Bey. È ancora più evidente tra i gruppi anarchici di ispirazione pagana, come Reclaiming, che a partire dal movimento antinucleare degli anni Ottanta10 si sono specializzati nell’inscenare stravaganti satire di rituali pagani, che nondimeno loro percepiscono come riti non solo reali ma anche efficaci. Anzi, ai loro occhi questi rappresentano le più profonde verità spirituali sul mondo11. I pupazzi si limitano a spingere questa logica al suo estremo. La loro sacralità è il potere stesso della creatività, dell’immaginazione, o più precisamente il potere di trasformare l’immaginazione in realtà. Si tratta, tutto sommato, dell’ideale ultimo di ogni pratica rivoluzionaria, come recita il famoso slogan del Maggio ’68: «L’immaginazione al potere». Ma al tempo stesso sembra quasi dire che la democratizzazione del sacro possa avvenire solo nelle modalità burlesque. Di qui deriva una costante autoderisione che non è però volta a diminuire l’importanza e la serietà di quel che si afferma, quanto piuttosto a riconoscere che in ultima istanza, pur essendo una creazione umana, la divinità rimane comunque tale e che prendere troppo sul serio la sacralità può diventare pericoloso. 82
La guerra simbolica della polizia Come ho evidenziato, gli anarchici evitano di costruire le proprie strategie attorno ai media, ma non si può dire lo stesso per la polizia. È ovvio che gli eventi del 30 novembre 1999 a Seattle sono stati una sorpresa per il governo americano. La polizia locale era chiaramente impreparata alle tattiche sofisticate adottate da centinaia di gruppi di affinità che circondavano l’hotel dove si teneva la riunione e che, almeno per il primo giorno, sono in effetti riusciti a bloccare gli incontri istituzionali. Il primo impulso del comando di polizia è stato quello di rispettare la non violenza delle azioni12. Ma dopo le ore 13,00 del 30 novembre, quando Madeleine Albright telefona al governatore dello Stato dall’interno dell’hotel dicendogli di fare tutto quello che è necessario per rompere l’assedio13, la polizia intraprende un assalto in grande stile con gas lacrimogeni, spray urticante e bombe assordanti. Anche allora molti poliziotti esitano, mentre altri si gettano nella mischia con furia selvaggia, aggredendo e arrestando gruppi di ignari cittadini che stavano facendo shopping nel distretto commerciale di Seattle. Alla fine il governatore si è visto obbligato a chiamare la Guardia Nazionale. Anche se i media si sono affrettati a rappresentare le azioni della polizia come una doverosa risposta alle azioni dei Black Bloc, che sono invece iniziate molto dopo, il ricorso alle truppe federali è stata una sconfitta simbolica plateale e innegabile. E infatti, immediatamente dopo Seattle, gli apparati di polizia, a livello nazionale e internazionale, hanno intrapreso delle iniziative concertate per sviluppare una nuova strategia. Ovviamente, i dettagli di queste decisioni non sono di pubblico dominio, ma a giudicare dagli eventi successivi sembra che la loro (non sorprendente) conclusione sia stata che la polizia di Seattle non sia ricorsa alla violenza con la necessaria rapidità. La nuova strategia, presto messa in pratica a Washington, Windsor, Filadelfia, Los Angeles e Québec City, si configura come una sorta 83
di violenza preventiva. Il problema che si pone è come giustificare tutto questo a fronte di un movimento che è in larga parte non violento, impegnato in azioni che nella stragrande maggioranza dei casi non possono essere definite criminali14, un movimento, oltretutto, il cui messaggio sembra avere, almeno potenzialmente, un forte richiamo pubblico. Possiamo anche riformulare così il problema: i summit e gli altri eventi che sono diventati gli obiettivi del movimento (incontri commerciali, Convention politiche, meeting del Fondo Monetario Internazionale) erano eventi sostanzialmente simbolici. In gran parte non servivano a prendere decisioni politiche formali, ma erano piuttosto occasioni di incontro, rituali autocelebratori, scampagnate per gli uomini più ricchi e potenti del pianeta. Di norma, le azioni intraprese non pretendevano tanto di annullare i meeting quanto di creare la sensazione di essere assediati in chi vi partecipava. Non si voleva mettere nessuno in pericolo. Le catapulte potevano scagliare soltanto pupazzetti di peluche, come a Québec City. Lo scopo era quello di mettere sotto assedio questi incontri con una folla rumorosa, grazie alla quale i partecipanti dovevano spostarsi scortati da forze di sicurezza pesantemente armate, i cocktail party venivano annullati e le auto-celebrazioni fallivano miseramente. Niente poteva essere più efficace per mandare in frantumi quell’aurea di trionfo che aveva circondato questo tipo di incontri internazionali negli anni Novanta. Tutto sommato, l’idea che in un contesto del genere le «forze dell’ordine» non avrebbero reagito in maniera aggressiva era ingenua. Ai loro occhi, la non violenza di chi faceva blocchi e picchetti era del tutto irrilevante; o meglio, era una questione sensibile solo perché avrebbe potuto creare problemi nella percezione pubblica. Anzi, da questo punto di vista era un problema serio: come rappresentare i manifestanti nelle vesti di una minaccia per l’ordine pubblico, cosa che avrebbe giustificato misure estreme, se non aggredivano mai fisicamente qualcuno? 84
Per rispondere a questa domanda basterebbe lasciar parlare gli eventi. Se si guarda a quel che è successo nei mesi immediatamente successivi a Seattle, la prima cosa che balza evidente è la serie di attacchi preventivi per reagire a minacce che, proprio come le armi di distruzioni di massa in Iraq, non si sono mai materializzate. Aprile 2000, Washington Qualche ora prima che le manifestazioni di protesta contro il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale abbiano inizio, la polizia arresta preventivamente seicento persone e chiude il Converger Center verso il quale confluiscono i partecipanti. Il capo della polizia Charles Ramsey dichiara a gran voce di aver scoperto al suo interno un laboratorio per la produzione di bombe molotov e di spray urticante fatto in casa. La polizia di Washington ammetterà in seguito che un simile laboratorio non esisteva affatto (avevano in realtà trovato del diluente usato per progetti artistici e alcuni peperoni necessari a cucinare un gazpacho). In ogni caso il centro rimane chiuso, mentre le installazioni artistiche e gran parte dei pupazzi sono sequestrati.
Luglio 2000, Minneapolis A pochi giorni da una protesta in programma contro la International Society of Animal Geneticists, la polizia locale afferma che gli attivisti hanno fatto esplodere una bomba al cianuro in un McDonald’s del posto e potrebbero essere implicati nel furto di alcuni esplosivi. Il giorno dopo la dea perquisisce una casa usata dagli organizzatori, ne trascina fuori gli abitanti tutti insanguinati e sequestra i loro computer e alcune scatole piene di materiale propagandistico. In seguito la polizia ammetterà che non c’è mai stata un’esplosione al cianuro e che non c’è ragione di pensare che gli attivisti detenessero esplosivo di alcun tipo.
Agosto 2000, Filadelfia Poche ore prima delle proteste contro la Convention repubblicana, la polizia, sostenendo di aver ricevuto una soffiata, perquisisce il la-
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boratorio in cui si stanno preparando striscioni, pupazzi e altre elaborazioni artistiche, arrestando settantacinque attivisti che si trovavano all’interno dell’edificio. Il capo della polizia, John Timoney, dichiara di aver scoperto nel laboratorio esplosivi C4 e palloni pieni di acido cloridrico. In seguito la polizia ammetterà che non sono stati trovati né acido né esplosivi. Tuttavia, fino alla fine della manifestazione i fermati non saranno rilasciati, mentre i pupazzi, gli striscioni, le opere d’arte e i volantini preparati per la protesta saranno sistematicamente distrutti.
Pur essendo possibile che ci si trovi di fronte a una serie impressionante di errori fatti in buona fede, mi sembra più realistico pensare che questi siano attacchi premeditati al materiale che gli attivisti avevano intenzione di usare per diffondere il loro messaggio (e ovviamente è questa seconda ipotesi quella sostenuta dagli attivisti, soprattutto dopo Filadelfia). Non a caso, gli organizzatori che stavano progettando in parallelo le proteste contro la Convention dei democratici a Los Angeles hanno chiesto e ottenuto che fosse impedito alla polizia di attaccare preventivamente il loro centro logistico. Ma da allora, nelle settimane che precedono le mobilitazioni più importanti, la preoccupazione principale è stata quella di nascondere e proteggere i pupazzi. Dopo Filadelfia era anche evidente che la polizia aveva adottato una precisa strategia mediatica. I suoi portavoce apparivano ogni giorno in vivaci conferenze stampa durante le quali lanciavano accuse selvagge contro i manifestanti, ben consapevoli che i giornalisti incaricati di coprire quegli eventi (gli stessi che per svolgere il loro lavoro hanno bisogno di mantenere buone relazioni con la polizia) avrebbero fatto passare tutto quello che veniva detto in modo acritico, pubblicando di rado una smentita se la notizia si rivelava poi falsa. In quegli anni ho spesso lavorato nei collettivi che si occupavano della comunicazione con i media e posso testimoniare che gran parte di quel che facevamo era ribattere a quella che chiamavamo «la bugia del giorno». Il primo giorno la polizia annunciava il sequestro di un camion pieno 86
di rettili velenosi che gli attivisti intendevano liberare nel centro della città, per essere poi costretti ad ammettere che il camion apparteneva a un negozio di animali e non aveva niente a che fare con i manifestanti. Il secondo giorno la polizia dichiarava che gli anarchici avevano gettato dell’acido in faccia a un loro agente, così abbiamo cercato di capire cosa fosse realmente successo. La storia è stata subito abbandonata, ma se mai qualcosa era arrivato addosso a un poliziotto, era probabilmente semplice vernice rossa lanciata contro un muro. Il terzo giorno la polizia ci accusava di aver disseminato «bombe al ghiaccio secco» per tutta la città. Per prima cosa abbiamo cercato di capire cosa mai fossero queste «bombe al ghiaccio secco», e saltò fuori che la polizia aveva ripreso questa idea da un celebre «ricettario anarchico», l’Anarchist Cookbook. Quel che è interessante in merito a quest’ultima vicenda, è che non divenne mai una notizia: ormai anche i giornalisti si erano stufati di riportare le storie roboanti inventate dalle autorità. Ma il problema è che non era diventata una notizia nemmeno il fatto che le prime due dichiarazioni dell’ufficio stampa della polizia fossero false, insieme alle affermazioni sull’acido e gli esplosivi rinvenuti nel laboratorio dei pupazzi o al fatto che il capo della polizia mentisse intenzionalmente alla stampa. I media non riportarono neanche la vera ragione delle proteste, ovvero che gli attivisti cercavano di richiamare l’attenzione sul problema delle carceri e del «complesso detentivo-industriale» che gli stava dietro, una frase che abbiamo ripetuto all’infinito ma che non è mai comparsa in alcun articolo (probabilmente perché era contrario all’etica del giornalismo permettere ad alcuni manifestanti violenti di «sequestrare» i media per i loro scopi). Nello stesso periodo sono cominciati a comparire resoconti sempre più bizzarri su quel che era accaduto a Seattle. Durante le proteste per il wto nessuno, neanche la polizia di Seattle, aveva accusato gli anarchici di niente di più di qualche vetrina rotta: era la fine di novembre del 1999. Nel marzo 2000, appena tre mesi dopo, il «Boston Herald» riferiva che, in preparazione di un 87
convegno sulle biotecnologie, alcuni poliziotti di Seattle erano arrivati a Boston per insegnare agli agenti della polizia locale come affrontare le «tattiche di Seattle», volte ad attaccare la polizia «con blocchi di cemento, armi ad aria compressa, fionde e grandi pistole ad acqua riempite con candeggina e urina»15. A giugno, la giornalista del «New York Times» Nichole Christian, a quanto pare sulla base di fonti interne alla polizia di Detroit, scriveva che i manifestanti di Seattle avevano «lanciato molotov, sassi ed escrementi contro delegati e poliziotti». In risposta a questo articolo il Direct Action Network di New York aveva organizzato un picchetto di fronte alla sede del «New York Times» e il giornale era stato costretto a ritrattare, ammettendo che le autorità di Seattle confermavano che nessun oggetto era stato lanciato contro esseri umani16. Eppure, questo tipo di articoli diventavano la norma. Anzi, ogni volta che veniva lanciata una nuova mobilitazione, sui giornali locali appariva la solita lista di «tattiche di Seattle» (che a quanto pare è stata riprodotta anche nei manuali di addestramento dei poliziotti di pattuglia). Prima del Summit delle Americhe del 2003, per esempio, le circolari distribuite agli uomini d’affari del posto e ai gruppi civici elencavano le «tattiche di Seattle» che bisognava aspettarsi di vedere in strada dopo la calata degli anarchici: Fionde da caccia: grandi fionde usate per scagliare bulloni o sfere di acciaio: un’arma pericolosa e letale. Bombe molotov: un fitto lancio era già avvenuto a Seattle e a Québec City, producendo danni ingenti. Piedi di porco: utilizzati per spaccare vetrine, automobili, ecc., ma anche per rimuovere pietre dal marciapiede e lanciarle contro gli agenti di polizia, com’era stato fatto ripetutamente a Seattle. Pistole ad acqua: caricate con acido o urina17.
Tuttavia, secondo gli stessi resoconti della polizia locale, nessuna arma o tattica di questo genere è stata utilizzata a Seattle e 88
nessuno ha mai provato che siano state usate nelle mobilitazioni successive che hanno avuto luogo negli Stati Uniti18. A Miami, il risultato prevedibile è stato la chiusura e lo svuotamento di gran parte del centro cittadino appena i primi manifestanti hanno cominciato a muoversi. La manifestazione di Miami, la prima convocata nel nuovo clima securitario seguito all’11 settembre, segna il picco di questa strategia che combina una disinformazione aggressiva con gli attacchi preventivi contro i manifestanti. Durante le azioni, il capo della polizia – ancora una volta John Timoney – spinge i suoi agenti a diffondere un’infinità di accuse contro gli attivisti, come il lancio di sassi, di bottiglie, di contenitori pieni di urina e feci contro gli agenti. Ma al solito, nonostante l’onnipresenza delle telecamere e le centinaia di arresti, nessun giornalista è riuscito a produrre un’immagine in cui si vede un’azione del genere e nessun attivista è mai stato incriminato e condannato per aver aggredito un poliziotto con una di queste sostanze. Da parte sua, la strategia della polizia consisteva per lo più in perquisizioni e aggressioni preventive contro i manifestanti, ricorrendo all’arsenale completo delle vecchie e nuove armi «non letali» (taser, spray urticanti, proiettili di plastica, di gomma, di legno, gas lacrimogeni e così via) e con regole d’ingaggio che permettevano di sparare contro chiunque. Anche qui i pupazzi occupavano il centro della scena. Nei mesi precedenti il Summit, il consiglio municipale di Miami aveva tentato di far passare una legge che rendeva illegale l’utilizzo dei pupazzi, sulla base del fatto che potevano essere usati per nascondere bombe o altre armi19. Quel tentativo fallì perché era manifestamente anticostituzionale, ma il messaggio era arrivato. Così, a Miami i Black Bloc hanno dedicato gran parte del loro tempo e delle loro energie a proteggere i pupazzi. Anzi, questa manifestazione fornisce l’esempio più lampante dell’animosità che molti poliziotti nutrono contro questi grandi simulacri di cartapesta. Secondo un testimone oculare, dopo che la polizia è riuscita a 89
> La raffigurazione del Sole creata per le manifestazioni di protesta contro il Summit dell’Area di Libero Commercio delle Americhe nel 2003. Tutti i pupazzi di Miami sono stati distrutti dalla polizia.
respingere i manifestanti dalla Seaside Plaza, costringendoli ad abbandonare i loro pupazzi, nella mezz’ora successiva gli agenti hanno passato il loro tempo a distruggere sistematicamente i pupazzi, colpendoli, prendendoli a calci e facendoli a pezzi. Un poliziotto è arrivato al punto di caricare un pupazzo sull’auto di servizio con la testa che usciva dal finestrino e poi guidare in modo da spappolarla contro i cartelli stradali e i paletti che delimitavano la carreggiata.
Radunare le truppe L’esempio di Boston è particolarmente significativo perché prova come alcuni elementi della polizia di Seattle abbiano addestrato altri poliziotti a rispondere a tattiche violente che secondo i portavoce della stessa polizia di Seattle non sono state utilizzate. 90
Anche se è difficile capire cosa ci sia dietro o chi siano davvero queste «fonti d’intelligence della polizia» continuamente citate (si entra qui in una zona grigia in cui le informazioni sono raccolte, incrociate e scambiate tra le varie forze di sicurezza pubbliche e private, talvolta collegate agli stessi think tanks conservatori, attivando modalità circolari che rinforzano quelle informazioni tanto che alla fine nessuno è più sicuro di cosa sia vero e cosa sia falso), è però facile rendersi conto che una delle principali preoccupazioni subito dopo Seattle sia stata quella di garantire l’affidabilità delle truppe. A Seattle, i funzionari hanno scoperto che gli agenti si considerano i guardiani della sicurezza pubblica e che proprio per questo sono apparsi poco risoluti, o quanto meno titubanti, quando è stato loro ordinato di caricare un gruppo di ragazzine sedicenni (bianche) che manifestavano in modo non violento. Tutto sommato, si trattava proprio del tipo di persone che in genere suppongono di dover proteggere e dunque quelle immagini non potevano non colpire direttamente la sensibilità del poliziotto di strada. Questo spiegherebbe l’enfasi particolare sui fluidi corporei: le pistole a spruzzo piene di candeggina e urina o i pretesi lanci di escrementi contro gli agenti. In realtà si tratta di un’ossessione poliziesca che non ha niente a che fare con la sensibilità anarchica. Quando ho chiesto agli attivisti quale fosse l’origine di queste fandonie, molti hanno ammesso di non averne alcuna idea. C’è chi ha suggerito che forse, nella difesa di un centro sociale occupato messo sotto assedio dalla polizia, un secchio pieno di deiezioni è l’unica arma disponibile da poter scagliare, ma nessuno ha mai sentito o visto qualcuno trasportare escrementi in una manifestazione per lanciarli contro la polizia, né si spiegano perché qualcuno lo vorrebbe fare. C’è chi ha sottolineato che un mattone probabilmente non ferirà un agente in assetto antisommossa, però lo rallenterà. Ma che senso avrebbe lanciargli contro dell’urina? Tuttavia, immagini del genere riemergono ogni volta che la polizia cerca di giustificare un attacco preventivo contro i 91
dimostranti. A volte nelle conferenze stampa la polizia arriva a mostrare sacchetti di escrementi e barattoli pieni di urina che a sentir loro avrebbero scoperto negli zaini o nei centri operativi degli attivisti20. Sono dichiarazioni che hanno senso solo all’interno di quella particolare visione dell’onore tipica delle istituzioni che, come la polizia, operano in base a un ethos militare. Agli occhi degli agenti, la giustificazione che più legittima il ricorso alla violenza è la salvaguardia della dignità personale. Coprire una persona di escrementi e urina è il più grave sfregio all’onore che possano concepire. Qui c’è un chiaro rimando a quella immagine degli anni Sessanta che vedeva i contestatori dell’epoca pronti a «sputare sui soldati in uniforme» di ritorno dal Vietnam: questa immagine, il cui effetto mitico continua fino ai nostri giorni (e non solo nei circoli di destra), è ancora ben vivida nonostante il fatto che ci siano scarse prove sulla sua veridicità21. È come se qualcuno avesse pensato: se sputare contro un’uniforme è già un insulto, cosa può esserci di peggio? Che in tutto questo ci sia stata una qualche forma di coordinamento si può dedurre dal fatto che al tempo delle Convention dei democratici e dei repubblicani, nell’estate del 2000, i sindaci e i capi della polizia di tutta l’America cominciarono a dichiarare con regolarità, spesso in termini sorprendentemente simili (e senza uno straccio di prova), che gli anarchici sono in realtà un mucchio di figli-di-papà che si coprono il volto mentre rompono le vetrine per non farsi riconoscere in televisione dai loro ricchi genitori. Questa accusa fu ben presto ripresa come un’ovvia verità dai conduttori dei talk show conservatori e dagli esperti di sicurezza di tutta l’America22. Il palese messaggio lanciato agli agenti di strada era: «Smettetela di pensare che la vostra missione sia quella di proteggere una banda di banchieri e politici che vi disprezzano da manifestanti di cui magari condividete le idee sull’economia. Piuttosto, approfittate di questa possibilità per pestare i figli di quei banchieri e di quei politici». In un certo senso, si potrebbe dire che il messaggio era perfettamente calibrato per il 92
livello di repressione richiesto, dal momento che si lasciava intendere che l’uso della forza era appropriato, ma non fino al punto di ammazzare qualcuno: ammazzare o mutilare un manifestante, con il rischio che fosse il figlio o la figlia di un senatore o di un amministratore delegato, avrebbe probabilmente provocato uno scandalo. Uno degli allarmi regolarmente lanciati dalla polizia è che i pupazzi potrebbero essere usati per nascondere armi o esplosivi23. Se intervistati sul loro atteggiamento verso i pupazzi, questa è la risposta tipica, che tuttavia non basta a spiegare le vette di astio vendicativo viste a Miami o in altre azioni (che tra l’altro provano come la polizia sia ben consapevole che non c’è niente di esplosivo nascosto lì dentro, altrimenti non li farebbero a pezzi con tanta furia). Questa antipatia sembra avere ragioni più profonde e molti attivisti hanno avanzato delle ipotesi al proposito: L’opinione di David Corston-Knowles Bisogna tenere a mente che queste persone sono addestrate a essere paranoiche. Devono veramente chiedersi se un oggetto tanto grande, non ispezionabile, possa contenere esplosivi, anche se questa idea può sembrare assurda agli occhi di un manifestante non violento. Il poliziotto pensa che il suo lavoro non sia solo quello di far rispettare la legge, ma anche di mantenere l’ordine. E questo lavoro lo prende sul serio: le grandi manifestazioni e i mega-pupazzi non sono ordinati, servono a creare qualcosa – una società diversa, un modo diverso di vedere le cose – e la creatività è l’antitesi dello status quo.
L’opinione di Daniel Lang Be’, circola questa teoria: ai poliziotti non piace trovarsi di fronte a uno spettacolo più imponente del loro. In fondo, di norma lo spettacolo sono loro: con le tenute antisommossa, gli elicotteri, i cavalli e le file di motociclette lucide. Quindi forse si scocciano se qualcuno gli ruba la scena con qualcosa di più spettacolare, qualcosa che colpisce di più visivamente. Vogliono battere i concorrenti.
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L’opinione di Yvonne Liu È perché sono tanto grandi e ai poliziotti non piace qualunque cosa li sovrasti. Per questo vogliono andare a cavallo. E poi i pupazzi sono buffi, strambi e rotondi. Hai mai fatto caso a quanto i poliziotti amino le linee rette? Stanno sempre schierati in fila, ti vogliono costringere a stare in fila… credo che trovino scandalose le cose irregolari e rotonde.
L’opinione di Max Uhlenbeck Li odiano perché guardandoli si ricordano di come anche loro siano dei pupazzi.
Tornerò a breve su questa questione.
Analisi I: il principio hollywoodiano dei film Per le forze di sicurezza, radunare le truppe è stata probabilmente la cosa più facile da fare. Il problema vero era come affrontare il fatto che una buona fetta dell’opinione pubblica americana si rifiutasse di considerare il movimento per una giustizia globale come una minaccia. L’unico sondaggio sul tema di cui ho notizia (condotto da Zogby America tra gli spettatori televisivi all’epoca della Convention repubblicana del 2000) appurò che circa un terzo degli intervistati si dichiarava «orgoglioso» quando vedeva le proteste in televisione e che meno del 16 percento aveva una reazione negativa non meglio qualificata24. Colpisce il fatto che il campione fosse costituito da spettatori televisivi, dal momento che la copertura televisiva degli eventi durante la Convention era estremamente negativa verso i manifestanti e trattava le proteste come una minaccia alla sicurezza. C’è una spiegazione semplice che chiamerei «il principio hollywoodiano dei film». Gran parte degli americani, quando vede uno scontro drammatico in televisione, si chiede: «Se questo fos94
> Una tipica immagine delle forze di polizia durante le proteste di Seattle nel novembre 1999.
se un film di Hollywood, chi sarebbero i buoni?». Di fronte a una sfida tra un gruppo di giovani idealisti che non fanno male a nessuno e un gruppo di poliziotti in assetto antisommossa schierati in difesa dei tecno-burocrati, la risposta è ovvia. Singoli poliziotti fuori dagli schemi possono anche diventare degli eroi, ma i poliziotti antisommossa non lo diventeranno mai. In effetti, nei film di Hollywood i poliziotti antisommossa non compaiono. Chi più li ricorda sono le truppe d’assalto imperiali di Guerre stellari, che con il loro leader Darth Fener incarnano nella cultura popolare americana uno dei più noti archetipi del male. Il punto non è sfuggito agli anarchici, che da alcuni anni a questa parte trasmettono dai loro altoparlanti la marcia delle truppe d’assalto imperiali quando le unità antisommossa cominciano ad avanzare. A questo punto, il problema per le forze dell’ordine è diventato: come fare a invertire questa percezione? Come mettere i manifestanti nei panni dei cattivi? 95
Subito dopo Seattle l’attenzione è stata portata sulle vetrine rotte. Come abbiamo visto, questa immagine ha avuto una sua utilità, ma per sostenere la necessità di misure più drastiche, i danni materiali alla proprietà privata non sono stati sufficienti. Cosa prevedibile, nei termini della mia analisi: infatti, nell’economia morale di Hollywood, la distruzione della proprietà privata è un peccato veniale. Anzi, la popolarità di film come Terminator, Arma letale o Die Hard dimostra come molti americani apprezzino la distruzione della proprietà privata. Se non provassero una gioia nascosta all’idea che qualcuno faccia a pezzi la filiale della loro banca o il McDonald’s all’angolo (per non parlare delle auto della polizia, dei centri commerciali e delle mega-macchine edili), sarebbe difficile spiegarsi perché siano disposti a pagare regolarmente il biglietto per guardare un’infinità di volte i loro eroi idealisti distruggere tutto questo, ma facendo sempre in modo – grazie alla magia del cinema, ma anche grazie ai metodi dei Black Bloc – che gli innocenti passanti rimangano incolumi. È dunque molto verosimile che un gran numero di americani abbia, prima o poi, accarezzato la fantasia di fare a pezzi la propria banca. Nella terra dei demolition derby e dei monster trucks, si potrebbe dire che i Black Bloc anarchici abbiano portato alla luce un risvolto nascosto del sogno americano. Ovviamente sono solo fantasie. Molti americani della classe lavoratrice non approvano apertamente che si distruggano le vetrine di uno Starbucks, anche se, al contrario dei ceti intellettuali, non considerano queste azioni una minaccia per la nazione, né tanto meno qualcosa che richieda una repressione in stile militare.
Analisi II : la distruzione creativa e la privatizzazione del desiderio Si potrebbe arrivare ad affermare che i Black Bloc siano gli ultimi eredi di una tradizione artistico-rivoluzionaria che passa 96
per i dadaisti, i surrealisti e i situazionisti (molto presenti, questi ultimi, nelle librerie anarchiche), una tradizione che cerca di mettere il capitalismo di fronte alle sue contraddizioni per rivolgergli contro le sue stesse forze distruttive. Le società capitaliste (quella americana in particolare) sono essenzialmente società potlatch, ovvero società costruite attorno a una distruzione spettacolare di beni di consumo25. Le fondamenta sulle quali poggiano rimandano a ciò che viene definito «economia», che a sua volta rimanda al nesso tra «produzione» e «consumo», in base al quale nuovi prodotti vengono continuamente vomitati per poi essere continuamente distrutti. Tutto si fonda sull’infinita espansione della produzione industriale, il principio contro cui si scagliano con veemenza i Black Bloc anarchici, quasi tutti anticapitalisti e con una forte coscienza ecologica. Ma un meccanismo come quello descritto comporta anche il rischio di inculcare una passione molto particolare: il desiderio di distruggere, di fare a pezzi la proprietà privata, che può facilmente diventare il piacere di fare a pezzi anche le strutture relazionali che rendono il capitalismo possibile. È in definitiva un sistema che può rinnovarsi solo coltivando il piacere segreto di prospettare la propria distruzione26. In realtà, si potrebbe sostenere l’esistenza di due diverse correnti nel pensiero artistico-rivoluzionario del ventesimo secolo, entrambe rimaste imbrigliate nell’immagine ambivalente del potlatch. Negli anni Trenta del Novecento, per esempio, Georges Bataille rimase affascinato dalla descrizione di Marcel Mauss della spettacolare distruzione di beni che aveva luogo nei potlatch dei Kwakiutl, che in seguito sarebbe diventata la base della sua teoria della dépense, del dispendio, ovvero della creazione di significati attraverso la distruzione, che a suo dire stava venendo meno nel moderno capitalismo (e su questo punto si potrebbe ironizzare a lungo). Tuttavia, quello su cui Bataille e altri autori dopo di lui si sono concentrati non era il potlatch vero e proprio ma un ridotto numero di potlatch inusuali che avevano avuto luogo alla fine del xix secolo, in un momento segnato dal rapido declino 97
della popolazione Kwakiutl e da un piccolo boom economico che aveva inondato la regione con una quantità di beni di consumo senza precedenti. I potlatch generalmente non implicavano affatto la distruzione di beni di consumo: erano solo il modo in cui i membri più ricchi redistribuivano una parte della loro ricchezza alla comunità. In altre parole, se l’immagine degli indiani che danno fuoco a migliaia di coperte e ad altri beni risulta di forte impatto, non è perché rappresenta una verità fondamentale sulla società umana che il capitalismo consumista ha dimenticato, ma perché riflette la verità ultima di quello stesso capitalismo. Nel 1937 Bataille, assieme a Roger Callois, fondava un gruppo chiamato Collegio di sociologia, che avrebbe approfondito le sue intuizioni fino ad arrivare a una teoria generale della festa, in cui si sosteneva che una vera azione rivoluzionaria è possibile solo rivendicando il principio del sacro e il potere del mito incarnato nelle feste popolari. Idee simili sono state sviluppate negli anni Cinquanta da Henri Lefebvre e dal gruppo dell’Internazionale Lettrista, il cui giornale, curato da Guy Debord, si chiamava appunto «Potlatch»27. C’è qui ovviamente una linea diretta che parte dai situazionisti, per i quali l’arte è una forma di azione diretta rivoluzionaria, e che arriva al movimento punk e all’anarchismo contemporaneo. Se i Black Bloc incarnano una delle due tradizioni, ovvero la fascinazione per la distruzione consumista incoraggiata dal capitalismo che può, in ultima analisi, essergli ritorta contro, i pupazzi rappresentano sicuramente l’altra, ovvero il recupero del sacro e di un’esperienza non alienata della festa collettiva. Chi oggi, nei movimenti radicali, costruisce questi pupazzi è ben consapevole che la sua arte risale fino ai giganti e ai draghi, ai Gargantua e ai Pantagruel delle feste medievali. Anche chi non ha letto François Rabelais o Michail Bachtin conosce verosimilmente la nozione di «carnevalesco»28. I raduni del movimento sono spesso descritti come «carnevali anticapitalisti» o «feste resistenti». Il riferimento di base sembra il mondo tardomedievale che ha preceduto 98
l’avvento del capitalismo, in particolare il periodo successivo alla Peste nera, quando l’improvviso calo demografico ha messo nelle mani delle classi lavoratrici una quantità di denaro senza precedenti. In gran parte quel denaro è finito in feste popolari di ogni sorta, che si sono moltiplicate fino a occupare molte date del calendario annuale. Oggi li avremmo chiamati «momenti di consumo collettivo», celebrazioni della carnalità, dei piaceri turbolenti, e taciti attacchi – se dobbiamo credere a Bachtin – del principio stesso di gerarchia. Si potrebbe sostenere che la prima fase del capitalismo, quella «puritana», come viene talvolta descritta, sia cominciata con un assalto concertato a questo mondo, condannato dai proprietari terrieri in ascesa e dai nuovi capitalisti come pagano, immorale e deleterio per la disciplina del lavoro. Ovviamente, un movimento che aspirava a bandire ogni momento di festività pubblica non poteva durare a lungo: il regno di Cromwell in Inghilterra è vituperato ancora oggi per aver dichiarato illegale il Natale. Ma ancora più importante è il fatto che il capitalismo delle origini, una volta eliminate le occasioni di consumo festivo e collettivo, dovette risolvere il problema di come vendere i suoi prodotti, alla luce del bisogno di espandere continuamente la produzione. Il risultato finale è quello che mi piace chiamare un processo di privatizzazione del desiderio, la creazione di forme di consumo assolutamente individuali, o familiari, e semi-furtive, nessuna delle quali, come ci viene sempre ricordato, deve soddisfare pienamente, altrimenti l’intera logica dell’espansione incessante smette di funzionare. Se è alquanto difficile pensare che gli strateghi della polizia siano a conoscenza di queste dinamiche, l’esistenza stessa della polizia rimanda però a una cosmologia politica che considera disordinate le forme di consumo collettivo, sempre suscettibili, come i carnevali medievali, di trasformarsi in insurrezioni violente. «Ordine» significa che i cittadini devono starsene a casa a guardare la televisione29. Per la polizia, dunque, quello che i rivoluzionari considerano l’eruzione del sacro attraverso una rinata festività popolare, non è 99
altro che «un assembramento disordinato», ovvero una di quelle occorrenze che sono programmati a disperdere. Tuttavia, poiché questa idea della festa come minaccia non sembrava far presa su vasti settori del pubblico televisivo, la polizia è stata costretta a cambiare la sceneggiatura. E abbiamo così assistito a una guerra simbolica attentamente programmata, con la quale si è cercato di eliminare le immagini fluttuanti dei pupazzi colorati, sostituendole con quelle delle bombe e dell’acido cloridrico: le sostanze che, nelle fantasie dei poliziotti, si celano sotto lo strato di cartapesta.
Analisi III: le leggi di guerra Per capire fino in fondo il ruolo dei mega-pupazzi, bisogna affrontare anche la questione delle regole d’ingaggio. Ho già toccato indirettamente questo argomento quando ho suggerito che i politici, affermando che i manifestanti erano figli-di-papà ricchi e viziati, hanno lasciato intendere ai poliziotti che potevano usare metodi brutali, senza però ammazzare o menomare nessuno, e che dunque le tattiche messe in campo dovevano attenersi a questa indicazione. Da una prospettiva etnografica, una delle cose più interessanti a proposito dell’azione diretta è comprendere come si negoziano in pratica le regole. È ovvio che delle regole esistono: ci sono linee che la polizia non può oltrepassare senza rischiare uno scandalo e ci sono infinite linee che è meglio per gli attivisti non oltrepassare. In ognuna delle due parti si agisce come se il singolo fosse impegnato in un gioco le cui regole sembrano essere state elaborate da processi decisionali propri, senza consultarsi con gli altri giocatori. Ma alla fine le cose non stanno così. Ho cominciato a riflettere su queste faccende durante la Convention repubblicana a Filadelfia nell’estate del 2000. Avevo lavorato soprattutto nel gruppo che si occupava di comunicazione, ma il giorno dell’azione il mio compito era quello di girare per le strade e prendere appunti su cosa stava accadendo. Mi sono 100
ritrovato ad accompagnare una colonna di Black Bloc che doveva fare un’azione diversiva per allontanare i poliziotti da un blocco stradale e portarli verso un’altra parte della città. Ma la polizia non ha abboccato e in breve il Bloc si è ritrovato a girare in tondo nel centro di Filadelfia. Appunti dal mio diario di strada, 1 agosto 2000 … davanti a una colonna di settecento anarchici, in rapido movimento, sbucati fuori dal nulla, piccole squadre di poliziotti abbandonano le loro auto, che poi gli anarchici coprono di scritte con la vernice spray o fanno a pezzi. In un’ora sono colpite un paio di dozzine di auto della polizia, una lunga limousine e numerosi edifici istituzionali. Alla fine arrivano di rinforzo alcune unità di poliziotti in bicicletta e in breve le forze in campo si equivalgono. A questo punto, quel che segue si può descrivere come un episodio di guerra non violenta. Alcuni ragazzi del Black Bloc tentano di bloccare un bus trafficando con le valvole poste sul retro, ma una squadra di poliziotti in bicicletta li atterra e li ammanetta, disponendo le loro biciclette a formare una piccola fortezza dentro cui tenerli prigionieri. Un folto gruppo di manifestanti spunta da un’altra direzione e i poliziotti si ritrovano assediati nel loro ciclo-fortino, circondati da Black Bloc che urlano insulti, lanciano contenitori pieni di vernice, fanno tutto quel che si può tranne attaccarli fisicamente. In questo caso il Bloc non è così forte da poter liberare i compagni arrestati prima dell’arrivo dei rinforzi; girano però voci di casi in cui il «dis-arresto» è riuscito. In questa occasione la polizia ha almeno un «ferito»: un poliziotto grasso, travolto dalla tensione e dal caldo, sviene e deve essere allontanato e rianimato con i sali. Appare evidente che entrambe le parti hanno regole d’ingaggio ben precise. Gli attivisti tendono a definire in anticipo i principi ai quali attenersi. Ci sono sicuramente differenze tra chi adotta le classiche regole non violente della disobbedienza civile e gli anarchici più militanti fra i quali mi trovo adesso, ma tutti concordano sulla necessità di non aggredire direttamente gli esseri umani e di non danneggiare la proprietà privata personale o gli esercizi a conduzione familiare. Da
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parte sua, la polizia può invece aggredire i manifestanti quando lo ritiene necessario, ma almeno in questa occasione sembra consapevole di doversi comportare in modo che nessuno venga ammazzato e che solo una sparuta minoranza finisca in ospedale, cosa che, in assenza di un addestramento specifico e di tecnologie appropriate, richiede una notevole dose di controllo. Queste regole di base sono state applicate dappertutto, anche se le situazioni sono state estremamente mutevoli nel corso della giornata: se gli scontri con i Black Bloc sono stati intensi e pieni di rabbia, talune aree della protesta sono state scosse solo dal suono dei tamburi che accompagna i rituali e le danze pagane, e altre infine hanno inscenato un chiassoso e grottesco carnevale. La colonna di Black Bloc che stavo accompagnando alla fine si è unita con altri manifestanti, occupando insieme il centro della città. L’ufficio del Procuratore distrettuale è stato completamente ricoperto di vernice e molte auto della polizia sono state distrutte. Tutto è avvenuto velocemente, ma nel frattempo sempre più unità di poliziotti in bicicletta hanno cominciato a seguirci da vicino, minacciando di dividere il Bloc e di isolare gruppi più piccoli per poterli poi arrestare. Così, ci siamo messi a correre sempre più veloci, rimbalzando tra vicoli e parcheggi. Alla fine il gruppo più numeroso è arrivato in una piazza dove si teneva una manifestazione autorizzata: un posto ritenuto sicuro, quindi. Ma le cose non sono andate così. In breve gli agenti antisommossa hanno circondato la piazza bloccandone ogni uscita, mostrando l’intenzione di voler eseguire arresti di massa. Sono cose che in genere si riducono a una questione di numeri: per fare un arresto di massa, servono due agenti sul campo per ogni manifestante da arrestare, o anche tre se le vittime provano a resistere e sanno come comportarsi (per esempio, incrociando le braccia e stringendosi in una fila compatta). In una situazione del genere si può presumere che i ragazzi del Black Bloc sappiano esattamente cosa fare; gli altri, che pensavano di partecipare a un evento sicuro, sono invece del tutto impreparati, anche se possono comunque guardarsi intorno per capire come muoversi. Ma di fatto sono intrappolati, non hanno modo di ricevere aiuto dall’esterno e la
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polizia continua ad arrestarne un gran numero. C’è tensione nell’aria. Gli attivisti che fino a quel momento si stavano occupando di carcere e del «complesso detentivo-industriale» si aggirano disorientati attorno a un enorme cartellone, mentre il Black Bloc, ridotto ora a duecento persone con cappucci neri e maschere antigas, si ricompatta in un mini-consiglio e poi si raccoglie di fronte ai cordoni della polizia in due distinti punti della piazza, cercando una breccia nelle loro linee (di solito ci sono quando cominciano a schierarsi). Ma non serve. Rimango nella piazza e scambio qualche battuta con un amico, Brad, che si lamenta di aver perso lo zaino, con tutte le sue cose, durante un attacco della polizia al laboratorio dei pupazzi, avvenuto quella stessa mattina. Ci mangiamo una mela (nessuno di noi ha ancora mangiato) e guardiamo quattro artisti di strada in bicicletta, che indossano enormi teste di capra in cartapesta e innalzano cartelli con su scritto «capre con diritto di voto». Le «capre» fanno uno slalom tra le fila della polizia cantando un brano acapella rap. «Vedi cosa puoi fare con i pupazzi?», mi dice ridendo Brad. «Nessun altro riuscirebbe a farla franca». Le «capre» sono solo l’avanguardia. Dieci minuti dopo parte l’«attacco dei pupazzi», che in questo caso non sono veri pupazzi (tutti distrutti nel raid mattutino contro il laboratorio, durante il quale sono stati arrestati anche i musicisti). Si tratta del Revolutionary Anarchist Clown Bloc, guidato da due tipi su bici gigantesche, che al suono di pifferi e trombette distribuisce confetti e stelle filanti. Al loro fianco si schierano i «Milionari per Bush (o Gore)», vestiti in smoking e abiti da sera. In tutto saranno trenta o quaranta, ma riescono a cambiare l’atmosfera generale, rendendo tutto più caotico. I Milionari cominciano a distribuire banconote false alla polizia («come forma di ringraziamento per aver soppresso il dissenso»), e allora i clown iniziano a picchiare i Milionari con rumorosi martellini di gomma. A quel punto arrivano anche i monocicli e i mangiafuoco. Nella confusione che segue, si creano delle fratture tra le fila dei poliziotti e la gente in piazza ne approfitta per incunearsi e uscire dall’assedio, verso la salvezza, con il Black Bloc davanti a tutti.
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Soffermiamoci un istante su questa idea di guerra non violenta. Si potrebbe sostenere che qui non ci sia nulla di metaforico. A dispetto di Clausewitz, la guerra non è mai stata una semplice prova di forze priva di regole. Quasi tutti i conflitti armati hanno visto la presenza di accordi complessi e dettagliati tra le parti in lotta. Quando avviene una guerra totale, priva di regole, colui che la perpetra, che sia Attila o Cortés, rimane indelebilmente impresso nella memoria storica anche per mille anni. Ci sono sempre delle regole. Come osserva lo storico militare israeliano Martin Van Creveld, in ogni conflitto armato devono di norma esserci regole accettate dalle parti nei seguenti casi: – per concordare tregue e intavolare negoziati (per esempio garantendo l’inviolabilità dei negoziatori); – per trattare la resa e la gestione dei prigionieri; – per identificare i non combattenti e determinare le loro prerogative (per esempio, il personale medico); – per stabilire quali siano i tipi e i livelli di forza consentiti tra combattenti, ovvero quali siano le armi e le tattiche disonorevoli o illegittime (per esempio, né Hitler né Stalin hanno cercato di assassinarsi a vicenda o hanno fatto ricorso ad armi chimiche) 30.
Secondo Van Creveld, queste regole sono necessarie per un uso efficace della forza. Infatti, per far funzionare un esercito, bisogna non solo tenere vivo un certo senso dell’onore e della disciplina, ma anche poter continuare a pensare di essere «i buoni». In altre parole, senza regole sarebbe impossibile mantenere un comportamento morale e una struttura di comando. Un esercito che non obbedisce alle regole degenera in una banda di predoni, e di fronte a un vero esercito una banda di predoni è sconfitta. Van Creveld sostiene che ci sono altre ragioni che rendono necessarie delle regole, per esempio il fatto che la violenza è così terrificante che gli esseri umani la circondano immediatamente di regole. Ma una delle cose più interessanti, che fa capire quanto il campo di 104
battaglia sia un’estensione del campo della politica, è il fatto che senza regole non si capisce chi ha vinto, dato che in ultima analisi su questo punto serve il consenso di entrambe le parti. Torniamo adesso al caso della polizia. Sicuramente i poliziotti si considerano una sorta di soldati. Ma pur combattendo una guerra («la guerra contro il crimine»), sanno di essere coinvolti in un conflitto in cui la vittoria è, per definizione, impossibile. Quali sono dunque le conseguenze di questo ragionamento sulle regole d’ingaggio? In parte la risposta è scontata. Quando si tratta di usare la forza – quali tipi di armi e tattiche usare a seconda delle circostanze – la polizia opera sotto vincoli molto più severi dell’esercito. Alcuni di questi vincoli rimangono sottintesi, altri sono legali ed espliciti. Indubbiamente, ogni volta che un poliziotto spara deve esserci un’indagine, ed è appunto questo il motivo per cui esiste una serie infinita di armi «non letali» (taser, proiettili di gomma, spray urticanti e via dicendo) usate per controllare gli assembramenti, armi che non sottostanno agli stessi vincoli. Ma in parte, quando la polizia conduce un’azione in cui non si ritiene necessario l’uso letale della forza e in cui non è implicato l’eventuale arresto di un sospetto, non esistono quasi limiti a quello che può fare (almeno limiti che si possano far rispettare)31. Se dunque nelle categorie segnalate da Van Creveld ci sono infiniti vincoli, chiunque sia stato coinvolto nei movimenti di azione diretta può testimoniare che in tutti gli altri campi la polizia viola sistematicamente le supposte regole, anzi ricorre regolarmente a pratiche che in guerra sarebbero considerate scandalose e disonorevoli. La polizia arresta regolarmente i mediatori. Se i membri di un gruppo di affinità occupano un edificio, e qualcuno non entra nell’edificio ma fa da intermediario con la polizia, può accadere che l’intermediario sia l’unico a essere arrestato. Se si negozia un accordo, quasi sempre la polizia lo disattende. La polizia spesso attacca o arresta le persone a cui promette un salvacondotto e regolarmente coinvolge il personale sanitario negli scontri. Se chi compie un’azione in una parte della città prova a 105
creare una «zona verde», sicura, in un’altra parte della città, cioè prova a delimitare un’area in cui tutti sono d’accordo a non provocare le autorità e a non infrangere la legge, in modo da distinguere tra combattenti e non combattenti, la polizia sicuramente attaccherà questa «zona verde». Perché? Le ragioni sono tante. Alcune sono banalmente pragmatiche: non devi trovare un accordo su come trattare i prigionieri se tu puoi arrestare i manifestanti, ma i manifestanti non possono arrestare te. In senso più ampio, un comportamento del genere implica il rifiuto di ogni idea di equivalenza, che invece varrebbe se due eserciti si fronteggiassero in una guerra convenzionale. Invece la polizia rappresenta lo Stato e lo Stato ha il monopolio dell’uso della violenza all’interno dei propri confini. Pertanto, in quel territorio la polizia è per definizione incommensurabile con gli altri cittadini. Questo è essenziale per comprendere la natura della polizia. Alcuni studi di sociologia sostengono che un poliziotto dedica solo il 6 percento del suo tempo a quello che può essere considerato, anche alla lontana, «lotta al crimine». I poliziotti non sono altro che un gruppo di burocrati governativi di basso profilo, armati e addestrati ad applicare la forza fisica per contribuire alla risoluzione di problemi amministrativi. Sono burocrati con la pistola sia quando si occupano di bambini smarriti, sia quando si occupano di ubriachi rissosi o di concerti non autorizzati nei parchi pubblici: il solo elemento comune in tutte queste situazioni è la possibilità di imporre «soluzioni non negoziabili sostenute dall’uso potenziale della forza»32. Il termine chiave credo sia «non negoziabile». La polizia non negozia, almeno sulle questioni importanti, perché negoziare implica un’equivalenza. E quando è obbligata a negoziare, in genere poi non rispetta l’impegno preso33. In altre parole, la polizia si trova in una situazione paradossale. Il suo lavoro incarna il monopolio della forza coercitiva da parte dello Stato, eppure nell’applicare quella forza la sua libertà è molto limitata. Rifiutandosi di considerare la controparte un avversario degno di rispetto (e pertanto un proprio pari), i rappre106
sentanti dello Stato si attengono al principio dell’assoluta incommensurabilità, che per definizione devono mantenere. Per questo i risultati sono catastrofici quando vengono rimosse le restrizioni sull’uso della forza da parte della polizia. E non è un caso se ogni volta che una guerra viola le regole, infliggendo terribili atrocità ai civili, viene invariabilmente definita «un’azione di polizia». È ovvio che niente di tutto questo risponde veramente alla domanda su come siano negoziate le regole d’ingaggio, ma almeno contribuisce a chiarire perché la negoziazione non si può fare direttamente nel corso delle azioni. Questo sembra particolarmente vero negli Stati Uniti: in altri paesi, dall’Italia al Madagascar, le regole della resistenza civile possono essere elaborate piuttosto esplicitamente e le manifestazioni di protesta finiscono per essere una sorta di gioco in cui le regole sono chiaramente comprese da entrambe le parti. Un buon esempio sono le tattiche adottate dalle «tute bianche» italiane tra il 1999 e il 2001: i manifestanti si coprivano con strati di imbottiture spugnose e camere d’aria gonfiate e si lanciavano contro gli sbarramenti, impegnandosi al tempo stesso a non aggredire fisicamente nessun essere umano. Come mi hanno detto i dimostranti, le regole erano in gran parte negoziate in anticipo: «Pestateci quanto vi pare fin tanto che colpite l’imbottitura; noi non picchieremo ma cercheremo di scavalcare gli sbarramenti. Vediamo chi vince!». In effetti, la situazione era tale che una negoziazione era diventata inevitabile, ma prima degli incontri del G8 a Genova, il governo italiano aveva optato per una politica di repressione violenta, tanto che aveva chiesto la consulenza della polizia di Los Angeles per addestrare le forze italiane a non interagire con i manifestanti, di modo che nessuna delle due parti si umanizzasse agli occhi dell’altra34. Negli Stati Uniti, infatti, la polizia si oppone per principio a queste negoziazioni (tranne i casi in cui gli stessi manifestanti cerchino di farsi arrestare, provando a negoziare i termini dell’arresto). È però ovvio che, a un qualche livello, le negoziazioni devono avere luogo. O meglio, qualunque sia questo livello, lì c’è il pote107
re, dal momento che, come avviene in politica, il vero potere non è vincere in una data situazione, ma definirne le regole e fissarne i paletti; non è vincere una disputa, ma determinare l’oggetto del contendere. È chiaro che il potere non sta tutto da una parte. Potremmo sostenere che anni di lotta politica e morale hanno creato una situazione in cui la polizia, di norma, deve accettare forti restrizioni nell’uso della forza. Questo è ovviamente più vero quando si ha a che fare con persone definite «bianche», ma di fatto esiste un limite reale alla loro capacità di reprimere il dissenso. Il problema per chi agisce in base al principio dell’azione diretta è che queste regole d’ingaggio (soprattutto riguardo l’uso della forza) sono in continua rinegoziazione, ma all’interno di istituzioni verso cui gli anarchici nutrono, per principio, forti riserve. In genere, si ricorre a parole come «diritto» e «brutalità poliziesca», per sostenere le proprie ragioni, nelle aule di tribunale, magari con il supporto di politici aperti e di organizzazioni liberal, ma in realtà bisogna dare battaglia «nel tribunale dell’opinione pubblica». Questo significa usare i media ufficiali, perché il pubblico in questo caso è un po’ più vasto dei propri simpatizzanti. E ovviamente, il fatto stesso che gli esseri umani siano organizzati in un «pubblico», siano ridotti a spettatori atomizzati, per un anarchico è di per sé un problema. La soluzione proposta è l’autorganizzazione: gli anarchici vorrebbero vedere il pubblico, abbandonato il ruolo di spettatore, organizzarsi in un insieme infinito di comunità e associazioni volontarie basate sulla democrazia diretta e interconnesse. Tuttavia, nel linguaggio condiviso da media e politici, quando un «pubblico» mette in atto un processo di questo tipo, cioè si autorganizza in qualche modo (magari formando associazioni politiche o sindacali), smette di essere un «pubblico» e diventa un «gruppo con interessi specifici». Agli occhi di media e politici, per definizione questo crea una contrapposizione con il pubblico interesse (il che spiega come mai anche coloro che partecipano pacificamente alle manifestazioni autorizzate, esprimendo punti di vista condivisi dalla maggioran108
za degli americani, non siano mai descritti come parte integrante dell’«opinione pubblica»). Le negoziazioni si svolgono quindi in maniera indiretta. Ogni parte sostiene le proprie ragioni attraverso i media, mettendo in atto quella guerra simbolica attentamente programmata che la polizia porta avanti in maniera aggressiva, ma che gli attivisti, in particolar modo gli anarchici, non hanno nessuna voglia di condurre. Anzi, cercano in larga parte di eludere questo gioco e in parte ci riescono creando i propri media. Ma provano anche a usare i media ufficiali per veicolare scenari che, se probabilmente li priveranno del favore delle classi medie suburbane, potranno però galvanizzare i sostenitori potenzialmente rivoluzionari: le minoranze oppresse, gli adolescenti alienati, i lavoratori poveri. Per questo molti Black Bloc erano decisamente soddisfatti, dopo Seattle, vedendo che i media avevano «sensazionalizzato» la distruzione della proprietà. Inoltre, si cerca di eludere il gioco deciso dalle autorità provando a riprendersi il potere di rinegoziare le regole d’ingaggio sul campo di battaglia. Ed è appunto questa la cosa che la polizia considera del tutto inaccettabile.
Perché dunque i poliziotti odiano i pupazzi? Torniamo allora al concetto di lotta attraverso i pupazzi. A Filadelfia, subito dopo le proteste, abbiamo organizzato una conferenza stampa in cui l’attenzione principale è stata fatta convergere su uno dei pochi puppetistas sfuggiti agli arresti del mattino. Durante la conferenza stampa e nel dibattito successivo con i giornalisti, abbiamo sottolineato come i puppetistas fossero di fatto i nostri peacekeepers: il loro scopo principale era appunto di allentare la tensione nelle situazioni potenzialmente violente. Se l’interesse primario della polizia fosse davvero quello di mantenere l’ordine pubblico, come dicono, sarebbe allora assurdo attaccare preventivamente proprio i «pacificatori». 109
A questo punto dovrebbe essere facile capire perché la polizia non vede le cose nello stesso modo. Avevamo tutte le ragioni per sostenere che l’attacco contro il laboratorio dei pupazzi non era giustificato dal desiderio di proteggere il pubblico, bensì da ragioni politiche35. Era del tutto ovvio. Ma quei proclami demenziali su acidi ed esplosivi erano parte di una guerra simbolica. Oltretutto, le modalità con cui i pupazzi sono usati per allentare la tensione in una situazione potenziale violenta sono completamente diverse da quelle adottate dai protest marshall, ovvero i responsabili dei servizi d’ordine dei manifestanti. I poliziotti apprezzano la presenza dei protest marshall, perché questi sono organizzati in una catena di comando che la polizia tende immediatamente a trattare come se fosse una semplice estensione della propria (cosa che spesso si dimostra vera). Al contrario dei protest marshall, i pupazzi non possono essere usati per trasmettere ordini. Piuttosto, come i clown o le caricature dei «Milionari», il loro scopo è influenzare e ridefinire le situazioni di potenziale conflitto. Può essere utile a questo punto riflettere sulla natura della violenza – o, se preferite, della «forza» – rappresentata dalla polizia. Come ho già detto prima, un ex ufficiale della polizia di Los Angeles, scrivendo a proposito del caso Rodney King, ha rilevato che in molti casi di pestaggio da parte della polizia risulta poi che la vittima non aveva commesso alcun reato. Infatti, i poliziotti non pestano ladri e scippatori. Se volete far diventare violento un poliziotto, la maniera più semplice è mettere in discussione il suo diritto a definire la situazione, qualcosa che un ladro o uno scippatore tendenzialmente non fa36. Tutto questo ha senso se teniamo a mente che i poliziotti sono sostanzialmente dei burocrati con la pistola e che le procedure burocratiche altro non sono che le modalità con cui definire le situazioni. O, per essere più precisi, le procedure burocratiche sono l’imposizione di una gamma ristretta di schemi prestabiliti a una realtà sociale che è infinitamente più complessa: una folla può essere al tempo stes110
so ordinata e disordinata; un cittadino può essere bianco, nero, ispanico o polinesiano; chi fa una petizione può avere o non avere con sé una valida foto identificativa. Ci sono semplificazioni che si possono mantenere solo in assenza di un dialogo: pertanto, la quintessenza della violenza burocratica prende la forma di un manganello saldamente impugnato non appena qualcuno «ribatte» a un agente. Ho cominciato questo saggio sostenendo che era un tentativo di interpretazione. Di fatto, è stato più che altro un saggio sugli esiti frustranti di questo tentativo, o in altre parole sui limiti dell’interpretazione. In definitiva, credo che questa frustrazione si possa far risalire alla natura stessa della violenza, sia o meno di tipo burocratico. La violenza è un fenomeno unico tra le forme di azione umana in quanto può avere ricadute dirette sull’attività di persone che non si conoscono affatto. Se si vogliono influenzare in un modo o nell’altro le azioni di qualcuno, bisogna in genere avere un’idea di come questa persona si veda, di cosa voglia, di cosa pensi stia accadendo. Serve insomma un lavoro di interpretazione, cosa che richiede a sua volta un certo grado di identificazione immaginativa. Ma se dai una botta in testa a qualcuno, tutto questo lavoro diventa irrilevante. Ovviamente, se due contendenti in un contesto violento hanno forze equivalenti, entrambi faranno di tutto per entrare nella mente dell’altro, ma se l’accesso alla violenza è estremamente squilibrato, questo bisogno interpretativo viene meno. E, come abbiamo già visto, è appunto questo il tratto principale delle situazioni di violenza strutturale, cioè quelle fondate su una diseguaglianza diffusa che viene in ultima analisi puntellata dalla minaccia della forza. I dettagli del lavoro interpretativo messo in campo contro la violenza strutturale sono infinitamente complessi e non è questo il contesto per sviscerarli in tutte le loro ramificazioni. Ma vanno qui evidenziati almeno due punti cruciali. Il primo è che la fila di poliziotti in tenuta antisommossa è il punto preciso in cui la violenza strutturale si fa concreta e per111
tanto funziona come una sorta di muro che blocca l’identificazione immaginativa. L’addestramento alla non violenza si basa per l’appunto sul tentativo di fare una breccia in quella barriera, insegnando agli attivisti a tenere costantemente in mente quello che i poliziotti stanno verosimilmente pensando. Ma anche qui, abbiamo a che fare con concetti molto elementari, quasi a livello animale («un poliziotto andrà nel panico se viene messo con le spalle al muro», «non far nulla che possa essere interpretato come un tentativo di raggiungere la sua pistola»). Per molti anarchici, l’esistenza di quel muro immaginativo è frustrante, perché la moralità anarchica si basa sull’imperativo dell’identificazione immaginativa37. In molte occasioni ho visto i consulenti legali ricordare agli attivisti che, qualunque sia la loro inclinazione, non devono parlare con i poliziotti che li stanno arrestando, non importa quanto aperti o interessati possano apparire, perché di norma stanno solo carpendo informazioni che saranno poi usate in sede processuale a carico dell’arrestato. Anche durante le proteste ci sono infinite speculazioni su quel che stanno pensando i poliziotti mentre usano i lacrimogeni o i manganelli contro cittadini non violenti, ma dal tenore di queste speculazioni si capisce che in realtà nessuno ne ha la più pallida idea. E invece il ruolo della polizia è proprio quello. La disciplina militare è finalizzata a rendere i sentimenti e le opinioni dei singoli agenti non solo impenetrabili ma anche assolutamente irrilevanti. Ovviamente nessun muro è completamente impenetrabile: con la giusta pressione, prima o poi cederà. Chi organizza le azioni di massa è consapevole che esistono momenti nella storia, quando le campagne di resistenza civile fanno crollare i governi, quando gli anarchici sono vittoriosi, in cui la polizia si rifiuta di aprire il fuoco contro i manifestanti. Per questo l’immagine dei poliziotti che piangono dietro le loro maschere antigas a Seattle è stata così importante per loro. Ma anche i funzionari addetti alla sicurezza conoscono bene questo principio, e infatti hanno dedicato molte energie, nei mesi successivi a Seattle, a radunare le loro truppe. 112
Il primo punto è dunque questo muro che blocca l’identificazione immaginativa. Il secondo punto rimanda invece al fatto che la giustapposizione tra immaginazione e violenza riflette un conflitto più vasto tra due principi dell’azione politica, o meglio tra due concezioni della realtà politica. La prima – chiamiamola «ontologia politica della violenza» – sostiene che la realtà ultima è definita dalla forza, dove «forza» è un eufemismo per indicare varie tecnologie di coercizione fisica. Essere «realisti» nelle relazioni internazionali, per esempio, non significa riconoscere le realtà materiali (peraltro trasformate negli «interessi» di quelle entità immaginarie chiamate «nazioni»), ma essere disponibili ad accettare la realtà della violenza. Gli Stati-nazione sono reali perché possono ammazzarti. E qui la violenza è l’elemento che definisce veramente le situazioni. La seconda concezione potrebbe essere descritta come una «ontologia politica dell’immaginazione». Non si tratta tanto di mettere «l’immaginazione al potere» quanto di riconoscere che l’immaginazione – l’immaginario – è all’origine del potere (e qui va notato che, dopo i situazionisti, il teorico francese più presente nelle librerie anarchiche è Cornelius Castoriadis)38. Non sorprende dunque che la capacità immaginativa sia sempre stata pervasa da un senso di sacralità. Quel che gli anarchici cercano di fare è sfidare sistematicamente il diritto della polizia e delle autorità in genere a «definire la situazione». E lo fanno proponendo infiniti scenari alternativi o, più precisamente, insistendo sul potere di cambiare uno scenario ogni volta che lo si desideri. I pupazzi sono l’incarnazione stessa di quella sfida. Questo implica che sulla strada, durante le manifestazioni, gli attivisti cercano di riportare l’effettivo processo politico di negoziazione nelle strutture stesse dell’azione. Ma per vincere la competizione devono continuamente cambiare la definizione di qual è il campo da gioco, quali ne sono le regole, quali i limiti. E tutto questo avviene in diretta, sul campo39. Una situazione nata come una guerra non violenta si trasforma in una situazione circense, o 113
in una performance teatrale, o in un rituale religioso, e altrettanto facilmente può tornare alla fase precedente. Ovviamente, dal punto di vista della polizia tutto questo è solo un raggiro. Per loro i manifestanti che alternano il lancio di barattoli di vernice con numeri di danza e canto non stanno combattendo in maniera corretta, anzi violano tutte le regole del combattimento, rompono tutti gli accordi. Le autorità devono sostenere questo punto per una questione di principio, perché altrimenti dovrebbero ammettere l’esistenza di una situazione di potere duale, negando quindi l’assoluta incommensurabilità dello Stato. In certo modo, ci troviamo qui di fronte al ben noto paradosso che riguarda il potere costituente. Come molti pensatori italiani e tedeschi amano ricordare, dal momento che nessun sistema crea se stesso (detto altrimenti, nessun dio capace di istituire un ordine morale è poi tenuto a rispettare quella stessa morale), anche ogni ordine politico e giuridico può essere creato solo da una forza che è poi estranea a quella legalità40. Nella moderna storia euro-americana, la legittimità delle costituzioni viene fatta risalire fondamentalmente a una qualche rivoluzione popolare, ovvero al punto preciso in cui, nei miei termini, la politica della forza incontra la politica dell’immaginazione. Di fatto, la rivoluzione è proprio ciò a cui aspirano i costruttori di pupazzi, anche se cercano di avvicinarsi a questo obiettivo usando una quantità minima di violenza reale. Ma a scatenare le reazioni violente delle forze dell’ordine è a mio avviso proprio il loro tentativo di far emergere il potere costituente (il potere dell’immaginazione popolare, capace di creare nuove forme istituzionali) non in brevi momenti, ma in maniera permanente, sfidando così la capacità delle autorità di definire la situazione. Pretendere che le regole d’ingaggio possano essere costantemente rinegoziate sul campo di battaglia, che si possa sempre cambiare la narrazione nel mezzo del racconto, è parte di un fenomeno più esteso che spiega anche perché gli anarchici non vogliono affidarsi ai buoni uffici delle organizzazioni progressiste o dei media più aperti. Spiega insomma la loro ostilità verso quei 114
supposti benefattori che di fatto chiedono, come prerequisito per il loro aiuto, il diritto di collocare gli anarchici all’interno della loro cornice narrativa predeterminata. Ma l’azione diretta è, per definizione, non mediata. Vuole far piazza pulita di queste cornici predeterminate e portare il potere di definire le situazioni nelle strade. Ovviamente, in condizioni ordinarie, vale a dire al di fuori di quei momenti magici in cui la polizia rifiuta di sparare, questo si può fare in maniera molto limitata. Nel frattempo, la lotta politica e morale «nei tribunali dell’opinione pubblica» (e anche in quelli della legge) sembra inevitabile. Alcuni anarchici sono contrari, altri accettano di malavoglia. Tutti concordano che l’azione diretta è l’aspirazione ideale. Questo ci aiuta a capire perché i mega-pupazzi, straordinariamente creativi ma al tempo stesso intenzionalmente effimeri, costruiti per ridicolizzare quell’idea di verità eterna rappresentata dai monumenti, possono diventare il simbolo di questo tentativo di riconquistare il potere della creatività sociale41, il potere di ricreare e ridefinire le istituzioni. Di fatto, riescono a rappresentare tutti quei fenomeni, come le nuove forme di organizzazione o l’enfasi sui processi decisionali – che scompaiono nelle descrizioni del movimento fatte dai media ufficiali. I pupazzi incarnano la permanenza della rivoluzione. Agli occhi delle «forze dell’ordine», è proprio questo a renderli ridicoli e al tempo stesso quasi demoniaci. Agli occhi di molti anarchici, è proprio questo a renderli ridicoli e al tempo stesso quasi divini42.
Alcune labili conclusioni Questo saggio finisce così là dove avrebbe dovuto cominciare, dalla necessità di ripensare completamente l’idea di «rivoluzione». Se quanti sono impegnati nelle politiche di azione diretta si percepiscono, in vario modo, come «rivoluzionari», pochi però operano all’interno della classica visione rivoluzionaria secondo 115
la quale la nuova società viene costruita attraverso uno scontro violento e apocalittico con lo Stato. Ancor meno sono coloro che vogliono arrivare alla rivoluzione attraverso la conquista del potere statale, per trasformare la società attraverso i suoi stessi meccanismi. D’altro canto, un gran numero di attivisti non è neanche interessato a una «ritirata strategica» (come nell’«esodo» rivoluzionario di Virno) o alla costituzione di nuove comunità autonome43. Si potrebbe dire che le politiche di azione diretta, con il loro tentativo di creare forme di organizzazione alternative ai margini del potere statale, stanno cercando di esplorare un territorio intermedio che sta proprio nello spazio tra queste due alternative. Una sintesi che non è ancora stata colta in tutta la sua rilevanza. Se non altro, alcuni degli scenari teorici delineati in questo saggio forniscono un punto di vantaggio nella comprensione del momento storico attuale. Consideriamo il concetto di «guerra contro il terrorismo». Molti hanno parlato con costernazione del concetto di «guerra permanente», che oggi appare banalizzato. In effetti, se il xx secolo può essere definito come un secolo di guerra permanente (quasi l’intero periodo tra il 1914 e il 1991 è stato dedicato a combattere o a preparare una guerra di qualche tipo), non è chiaro se il xxi secolo possa essere descritto negli stessi termini. A mio avviso, quella che gli Stati Uniti stanno tentando di imporre al mondo non è affatto una guerra. A causa della diffusione delle armi nucleari, è ormai un truismo affermare che le guerre aperte tra gli Stati non scoppiano più e tutti i conflitti vengono rubricati come «azioni di polizia». Bisogna però tenere a mente che anche le «azioni di polizia» hanno i loro tratti distintivi: i poliziotti ritengono di essere impegnati in una guerra largamente priva di regole, contro un nemico senza onore (verso il quale pertanto non si è obbligati ad agire onorevolmente) e in un contesto in cui la vittoria definitiva è impossibile. Gli Stati hanno una forte tendenza a definire le relazioni con la propria popolazione nei termini di una guerra invincibile di qual116
che tipo. Da questo punto di vista, lo Stato americano è stato uno dei più espliciti: negli ultimi decenni abbiamo visto degenerare una guerra contro la povertà in una guerra contro il crimine, poi contro le droghe (la prima a estendersi a livello internazionale), e infine contro il terrorismo. Ma come ben illustra questa sequenza, l’ultima non è affatto una guerra ma il tentativo di estendere al resto del pianeta una propria logica interna. Il tentativo di instaurare uno Stato di polizia diffuso e globale. In definitiva, ho il sospetto che la reazione di panico da parte dello Stato sia stata più una reazione al successo di un rivolta anticapitalista permanente, per quanto contenuta, che una risposta alla minaccia rappresentata da un Osama bin Laden (il quale ha indubbiamente fornito un utile pretesto). E questo perché, anche su scala globale, la lotta politica e morale ha creato nuove regole d’ingaggio che per gli Stati Uniti rendono molto difficile colpire direttamente quelli contro cui queste sono rivolte44. Per farla breve: se la struttura della violenza più appropriata per un’ontologia politica dell’immaginazione è la rivoluzione, la struttura immaginaria più appropriata per un’ontologia politica della violenza è proprio il terrorismo. Si potrebbe dire che sotto questo aspetto i Bush e i bin Laden lavorano in sinergia (ed è significativo che se al-Qaeda nutre una qualche gigantesca visione utopica – la riunificazione della diaspora islamica dell’Oceano Indiano? la ricostituzione del Califfato? – non è che ne abbia parlato granché). Certo, questo è un po’ semplicistico. Per comprendere il regime americano in quanto struttura globale e al tempo stesso comprenderne le contraddizioni, credo che si debba tornare al ruolo cosmologico della polizia nella cultura americana. Si tratta di una caratteristica tipica della vita negli Stati Uniti: molti cittadini americani, che nel corso della loro giornata evitano ogni circostanza che possa portarli a contatto con la polizia, appena tornano a casa passano delle ore a guardare film che li invitano a considerare il mondo dal punto di vista di un poliziotto. Non è 117
stato sempre così. È difficile trovare un film americano precedente al 1960 in cui il ruolo dell’eroe sia incarnato da un poliziotto. Nel corso degli anni Sessanta, tuttavia, la polizia ha preso all’improvviso il posto che nell’industria dell’intrattenimento americana prima apparteneva ai cowboy45. Non si può dire che la scelta fosse casuale, come non è casuale il fatto che l’esportazione in ogni angolo del pianeta delle immagini televisive e cinematografiche dei poliziotti americani abbia seguito i ritmi di espansione dei loro omologhi in carne e ossa. Quel che vorrei piuttosto sottolineare è che entrambi sono caratterizzati (nella fiction e nella realtà) da un’impunità extra-legale e che, paradossalmente, questo li rende capaci di impersonificare un potere costituente rivolto contro se stesso. Il poliziotto hollywoodiano, come il cowboy, è un eroe solitario che va contro tutte le regole (il che è accettabile, anzi necessario, dal momento che i suoi antagonisti sono gente senza onore). Di fatto, è proprio il poliziotto-eroe-solitario quello che si dà più da fare per distruggere sistematicamente le proprietà altrui, un aspetto che piace molto agli spettatori dei film d’azione. In altre parole, i poliziotti possono apparire come eroi in questi film soprattutto perché sono gli unici a poter violare la legge. È il potere costituente che si rivolge contro se stesso, perché i poliziotti, sugli schermi e nella realtà, non provano a creare (o a istituire) alcunché. Mantengono solo lo status quo. In un certo senso, si tratta di uno slittamento ideologico molto intelligente, il complemento perfetto di quella privatizzazione del desiderio (del consumatore) prima citata. Fintanto che l’idea di una festività popolare perdura, lo slittamento avverrà nell’ambito della fiction, con il ruolo di capo-potlatch attribuito a quella stessa figura che, nella vita reale, ha l’incarico di sopprimere violentemente ogni autentica eruzione di festività popolare. Tuttavia, al pari di ogni altra, anche questa formulazione ideologica è fortemente instabile e irta di contraddizioni, come dimostrano le iniziali difficoltà della polizia americana a soffocare il movimento per una giustizia globale. A mio avviso, va piuttosto vista come 118
un modo per gestire una situazione di estrema alienazione e insicurezza che può essere mantenuta solo con una sistematica coercizione. Di fronte a qualsiasi cosa che mostri anche remotamente i tratti di un’esperienza creativa non alienata, un simile approccio tende a sembrare grottesco come la pubblicità di un deodorante durante un disastro nazionale. Ma ovviamente io sono un anarchico. E il problema degli anarchici rimane quello di capire come portare quel tipo di esperienza – e il potere immaginativo che c’è dietro – nelle vite quotidiane di tutti coloro che stanno all’esterno delle piccole bolle autonome che sono riusciti a creare. È un problema che continua a porsi, ma ci sono ragioni per credere che prima o poi il potere cosmologico poliziesco, e con questo il potere stesso della polizia, semplicemente svanirà.
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Note alla seconda parte 1. Sto utilizzando l’espressione più comunemente adottata dagli attivisti in Nord America, mentre respingo fermamente il termine «antiglobalizzazione» per definire questo movimento. In passato ho proposto di introdurre il termine globalization movement, ma alcuni ritengono che non sia abbastanza chiaro. In Europa si usa spesso il termine «altermondialista» o «globalizzazione alternativa», ma nessuna di queste formule è entrata nell’uso comune negli Stati Uniti. 2. Ovviamente, si dà per scontato che i gruppi in questione siano sostanzialmente affini: di fronte a un gruppo apertamente razzista o sessista, nessuno si interrogherebbe sulle sue pratiche decisionali interne. La questione di fondo è che le modalità del processo decisionale sono molto più importanti delle affiliazioni settarie che hanno dominato la politica radicale in passato, del tipo anarcosindacalisti contro ecologisti radicali o piattaformisti, e così via. A volte questi fattori giocano ancora un loro ruolo, ma anche in questo caso è probabile che le obiezioni siano sollevate in termini di processo decisionale. 3. Un giornalista come Bill Borders, senior editor del «New York Times», riassume bene questa politica. Messo alle strette dalla fair, un’associazione che si occupa di monitorare i media, sulle ragioni per cui il suo giornale non aveva coperto le manifestazioni di protesta per l’insediamento di Bush (le seconde per partecipazione numerica contro un insediamento presidenziale in tutta la storia americana), ha risposto di non considerarle delle notizie autentiche, ma «eventi messi in scena», «al solo scopo di essere coperti dai media» (cfr. Activism Update: «New York Times» Responds on Inaugurational Criticism, 22 febbraio 2001). La fair ha allora ribattuto chiedendo perché la parata ufficiale dell’insediamento non sia stata giudicata con la stessa ottica. 4. Un effetto della peculiare definizione di violenza adottata dai media americani è la convinzione che le tattiche gandhiane, in linea di massima, non funzionino negli Stati Uniti. Tra gli scopi della disobbedienza civile non violenta c’è quello di mettere in luce la violenza insita nello Stato, dimostrando che è pronto a brutalizzare anche quei dissidenti che non sono nelle condizioni di infliggere danni fisici. Ma dagli anni Sessanta i media americani si sono decisamente rifiutati di rappresentare come violente le attività autorizzate delle forze di polizia. Negli anni immediatamente successivi a Seattle, per esempio, gli attivisti della
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costa occidentale che si battono per difendere le foreste hanno sviluppato tecniche per «fare blocco», immobilizzando le loro braccia con tubi di pvc rinforzati con il cemento, che li rendono inoffensivi e difficili da spostare. Si tratta di una classica strategia gandhiana. La risposta della polizia è stata l’elaborazione di quelle che possono essere considerate tecniche di tortura: spray urticanti spruzzati negli occhi di attivisti che non possono muoversi. Dato che anche questo non ha provocato il clamore dei media (e in effetti i tribunali hanno sostenuto la legittimità di questa pratica), in molti hanno concluso che in America le pratiche gandhiane non funzionano. È significativo che a Seattle molti dei Black Bloc che hanno deciso di non ricorrere alla strategia del «fare blocco», optando per strategie più mobili e aggressive, provenisse proprio dalle fila dei movimenti per la difesa delle foreste, gli stessi che in passato avevano utilizzato tecniche non violente come il tree-sit [sedersi sugli alberi per evitarne il taglio, N.d.T.]. 5. Gli attivisti che trasportano i pupazzi in manifestazione sono stati attaccati e arrestati dalle forze dell’ordine numerose volte, ma per quanto mi risulta i media ufficiali non ne hanno mai parlato. 6. Da David e X of the Green Mountain Anarchist Collective (eds.), The Black Bloc Papers, Black Clover Press, Baltimore, 2002, p. 53. Il riferimento alla trasformazione del valore di scambio in valore d’uso è chiaramente ispirato ai testi situazionisti. 7. Devo questa frase a Ilana Gershon. 8. Da Puppet Masters: Paper Hand Puppet Intervention brings its brand of political theater back to Chapel Hill, «Independent Online», 8 agosto 2001, http:// www.indyweek.com/indyweek/puppet-masters/Content?oid=1184299. 9. Temi simili ricorrono in molte interviste ai puppetistas. Ecco le parole di Mattyboy dello Spiral Q Puppet Theater di Filadelfia: «Ho 23 anni e ho perso tredici amici per colpa dell’aids. È una guerra, una pestilenza. Questo è l’unico modo che ho per farci i conti. Con i pupazzi creo la mia mitologia. Li riporto in vita come divinità»; Daisy Freid, The Puppets are coming, «Philadelphia Citypaper», 16-23 gennaio 1997. Segnalo un libro illustrato sull’attività del Bread and Puppet Theater: Ronald T. Simon, Marc Estrin (eds.), Rehearsing with Gods: photographs and essays on the Bread & Puppet Theater, Chelsea Green Pub. Co., White River Junction (VT), 2004. 10. Barbara Epstein, Political Protest and Cultural Revolution: Non-violent Direct
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Action in the 1970s and 1980s, University of California Press, Berkeley,1991. 11. Il Pagan Bloc è sempre stato presente nelle azioni più importanti da Seattle in avanti e, al contrario dei Quaccheri o di altri sostenitori cristiani della disobbedienza civile, ha dichiarato di riconoscere le pratiche dei Black Bloc come una forma di non violenza, arrivando talvolta a stringere una tacita alleanza. 12. Il primo giorno delle proteste di Seattle i videomaker hanno registrato alcuni capi della polizia mentre rassicuravano gli attivisti sul fatto che la polizia di Seattle «non ha mai attaccato i manifestanti non violenti e mai li attaccherà». Poche ore dopo le stesse persone hanno cambiato completamente idea. 13. La miglior fonte che ho trovato su questi eventi è The Costs of Global Governance: Security and International Meetings since WTO Seattle di Joseph Boski, una relazione presentata alla Cyber Conference, Globalization: Governance and Inequality, tenutasi a Ventura, California, il 31 maggio-1 giugno 2002. 14. Bloccare una strada tecnicamente non è un reato, ma una «infrazione» o «violazione», vale a dire l’equivalente legale del mancato pagamento di un parcheggio o dell’attraversamento pedonale fuori dalle strisce. Se si violano queste ordinanze per ragioni non politiche, ci si può aspettare di ricevere una multa, non di essere portati a forza in una stazione di polizia e passare una notte agli arresti. 15. José Martinez, Police prep for protests over biotech conference at Hynes, «Boston Herald», 4 marzo 2000. 16. Corrections, «New York Times», 6 giugno, p. A2. Il titolo originale dell’articolo di Nichole Christian era, significativamente, Detroit Defends Get-Tough Stance (Detroit difende il pugno di ferro), «New York Times», 4 giugno 2000, p. A6. Nella correzione si legge: «Un articolo pubblicato domenica a proposito delle proteste in programma a Detroit e a Windsor, nell’Ontario, contro un Summit interamericano previsto a Windsor in questi giorni, riportava notizie errate sulle proteste dello scorso novembre al Summit dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Seattle. Le manifestazioni di Seattle sono state in larga misura pacifiche. Le autorità hanno dichiarato che gli oggetti lanciati erano indirizzati contro la proprietà privata e non contro le persone. Nessun attivista è stato accusato di aver lanciato oggetti di alcun tipo contro i delegati o i poliziotti, tanto meno pietre e bombe molotov». 17. All’epoca, la trascrizione di questo documento circolava ampiamente nelle
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mailing list degli attivisti. Secondo un articolo del «Miami Herald» (Joan Fleischman, Trade protesters mean business, analyst warns, 1 ottobre 2003), l’autore di queste righe era «l’agente in pensione della dea Tom Cash, 63 anni, oggi direttore generale di Kroll Inc., un’impresa di consulenza internazionale in materia di sicurezza e affari. A sua volta Cash ha sostenuto di aver avuto le sue informazioni da «fonti d’intelligence della polizia». 18. Un certo numero di molotov è stato lanciato a Québec City, a quanto pare da attivisti del posto. Ma il Canada francofono ha una tradizione militante molto peculiare. 19. Si veda per esempio Brendan I. Koerner, Can Miami Really Ban Giant Puppets?, «Slate», 12 novembre 2003. 20. Viene da chiedersi dove li abbiano effettivamente presi. Nella mia esperienza un esempio tipico è quello delle proteste avvenute a New York contro il World Economic Forum all’inizio del 2002. La polizia a un certo punto ha attaccato alcuni manifestanti che facevano parte di una folla in attesa che il corteo autorizzato si muovesse: li avevano infatti visti distribuire dei grandi cartelli di plexiglass da piegare e usare anche come scudi. Alcuni sono stati trascinati via e arrestati. In seguito la polizia ha fatto circolare differenti versioni sui motivi dell’attacco, ma quella che alla fine è stata data per buona sosteneva che gli arrestati fossero in procinto di attaccare il vicino Plaza Hotel. La polizia dichiarava di aver trovato addosso agli arrestati «tubi e contenitori pieni di urina», ma in questo caso non hanno mai esibito le prove. Si tratta di un episodio di cui ho conoscenza diretta, dato che non solo conoscevo gli arrestati ma mi trovavo a pochi passi da loro al momento dell’arresto. Erano alcuni studenti di una piccola università liberal del New England che avevano concordato di farsi riprendere da una troupe televisiva del programma abc Nightline mentre si preparavano per la manifestazione (sfortunatamente la troupe non era sul posto al momento dell’arresto). Sarebbe arduo immaginarsi un gruppo meno criminale di loro. Inutile dire quanto fossero confusi e sbigottiti di fronte all’accusa della polizia di essere venuti alla manifestazione con una dotazione di contenitori pieni di urina. In casi del genere, quando la polizia parla di urina o escrementi, gli attivisti danno per certo che la polizia ha piazzato prove false. 21. Non è provato che i contestatori degli anni Sessanta sputassero contro i soldati, proprio come non lo è che le prime femministe bruciassero veramente
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i loro reggiseni, o almeno nessuno è riuscito a trovare un riscontro concreto su questi episodi. La storia sembra nascere alla fine degli anni Settanta o all’inizio degli Ottanta e, come ha ben dimostrato il documentario Sir! No Sir!, l’unico veterano che ha sostenuto pubblicamente che un episodio del genere gli era veramente accaduto stava verosimilmente mentendo. 22. Non sono riuscito a determinare con certezza chi sia stato il primo a mettere in giro queste voci a livello pubblico, anche se mi pare di ricordare che furono lanciate simultaneamente dall’allora sindaco repubblicano di Los Angeles Richard Riordan e da un portavoce del partito democratico di Filadelfia durante i preparativi per le rispettive primarie in quelle città. L’affermazione rispondeva soprattutto agli stereotipi conservatori sulla cultura liberal da sempre accusata di essere «elitaria», ma ha avuto una diffusione sorprendentemente ampia. Come ha fatto notare Steven Shukaitis, è stata ripresa anche da ambienti che invece guardavano con simpatia a questi movimenti (cfr. Space, Imagination // Rupture: The Cognitive Architecture of Utopian Political Thought in the Global Justice Movement, «Journal of Contemporary History», University of Sussex, 8, 2005). Pur non avendo fatto, nel corso delle mie ricerche, un’analisi sistematica del background socio-economico degli anarchici, posso però basarmi sui sei anni di esperienza personale per affermare che i figli-di-papà nel movimento sono estremamente rari. Ce ne saranno uno o due nelle città più grandi, spesso noti proprio perché riescono a mettere a disposizione più risorse, ma io stesso conosco per ogni figlio-di-papà almeno due o tre anarchici che provengono invece da famiglie di militari. 23. Una delle maggiori preoccupazioni è il fatto che i perni in legno usati nella costruzione dei pupazzi possano essere estratti e usati come bastoni oppure impiegati per rompere le vetrine. 24. Reuters/Zogby, Convention Protests Bring Mixed Reactions, 21 agosto 2000. «In un sondaggio di Zogby America su 1.004 adulti, il 32,9 percento si è dichiarato orgoglioso dei manifestanti, mentre il 31,2 percento si è dichiarato diffidente. Un altro 13,2 percento si è dichiarato vicino alle ragioni dei manifestanti, a fronte di un 15,7 percento che si è dichiarato irritato e un 6,9 percento che si è dichiarato incerto». Considerando la prevalente ostilità della copertura mediatica, il fatto che un terzo degli intervistati fosse comunque «orgoglioso» e che meno di uno su sei fosse certo di avere una reazione negativa, è un risultato rilevante.
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25. Probabilmente anche intorno alla distruzione della capacità produttiva, che deve rinnovarsi all’infinito. 26. Può essere significativo che le principali esportazioni statunitensi siano costituite a) da film d’azione hollywoodiani e b) da personal computer. Riflettendoci, possono essere visti come una coppia complementare alla coppia mattone-contro-vetrina/mega-pupazzo prima descritta; o forse la coppia mattone/pupazzo può essere considerata un riflesso de-sublimato e sovversivo dell’altra coppia, in cui il primo termine rappresenta un peana alla distruzione della proprietà e il secondo l’incessante capacità di creare nuove ed effimere immagini al posto di quelle più vecchie e permanenti. 27. Una parte di questa storia viene ripresa, e portata avanti fino all’esperienza di Reclaim the Streets e ai carnevali anticapitalisti contemporanei, nel saggio di Gavin Grindon, The Breath of the Possible, in David Graeber, Steven Shukaitis (eds.), Constituent Imagination, AK Press, Oakland, 2006. 28. Un buon testo su queste tematiche è History of Radical Puppetry del Wise Fool Puppet Collective (www.zeitgeist.net/wfca/radpup.htm), che fa risalire l’arte dei pupazzi non alle feste bensì ai drammi misterici del Medio Evo, fornendo comunque un’interessante prospettiva storica. 29. Così oltretutto si sintonizzano sui programmi che adottano il punto di vista della polizia, la stessa che preferisce tenerli lontani dalle strade. Torneremo su questo punto. 30. Martin Van Creveld, The Transformation of War, Free Press, New York, 1991. 31. Cfr. Egon Bittner, Aspects of Police Work, Northeastern University Press, Boston, 1990, per una buona rassegna sociologica sulle procedure di polizia e più generale sul tema della «discrezionalità». Molti americani, supponendo che la polizia sia normalmente impegnata a prevenire o investigare i crimini, pensano che la sua condotta sia vincolata da un’infinità di norme burocratiche. Di fatto, una delle maggiori scoperte della ricerca sociologica sulla polizia è che dedica una percentuale sorprendentemente ridotta del proprio tempo ai reati veri e propri. 32. La citazione è di Bittner. Vedi anche Mark Neocleus, The Fabrication of Social Order: A Critical Theory of Police Power, Pluto Press, London, 2000. 33. Si tenga presente che i «negoziatori della polizia» sono utilizzati in genere
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nelle situazioni in cui ci sono degli ostaggi. In altre parole, per costringere la polizia a negoziare bisogna letteralmente puntare una pistola contro la testa di qualcuno. Ma anche in queste situazioni non ci si può aspettare che la polizia mantenga le sue promesse: in effetti, potrebbe facilmente sostenere di essere moralmente obbligata a non mantenerle. 34. Gli organizzatori delle manifestazioni di Genova affermano unanimemente di essere rimasti scioccati quando, una volta iniziate le azioni, i poliziotti di cui avevano i numeri di telefono si rifiutarono all’improvviso di rispondere alle loro chiamate. 35. Devo ancora venire a conoscenza di un qualunque passante che sia stato ferito da una turbolenta azione anarchica, mentre in ogni operazione su larga scala è del tutto normale che i passanti finiscano intossicati, feriti o addirittura arrestati dai poliziotti. 36. Marc Cooper, Dum Da Dum-Dum, «Village Voice», 16 aprile 1991, pp. 28-33. 37. Pëtr Kropotkin, forse il pensatore anarchico che più ha sviluppato una teoria etica esplicita, sosteneva che ogni forma di moralità si basa sull’immaginazione. Molti anarchici contemporanei sembrano concordare, quanto meno implicitamente, su questo punto. 38. In particolare la sua opera più nota: L’istituzione immaginaria della società. La storia del pensiero di sinistra (un tema che non posso sviluppare qui pienamente) gira, già dalla fine del xviii secolo, intorno al presupposto che creatività e immaginazione fossero i principi ontologici fondamentali. Questo è palese nel Romanticismo, ma vale anche per Marx, che nel suo famoso paragone tra l’ape e l’architetto identifica nel ruolo dell’immaginazione nella produzione ciò che rende gli umani differenti dagli animali. A sua volta Marx rifletteva a partire da prospettive già diffuse nel movimento operaio dei suoi giorni. Credo che questo aiuti a spiegare la ben nota affinità che gli artisti d’avanguardia hanno sempre provato verso le politiche rivoluzionarie. Il pensiero di destra ha sempre accusato la sinistra di ingenuità per il suo rifiuto di riconoscere l’importanza dei «mezzi di distruzione», sostenendo che ignorare il ruolo fondamentale della violenza nella definizione delle relazioni umane può solo produrre effetti perniciosi. 39. Si può fare qui un’analogia con la disarticolazione delle modalità operative innescata dal processo decisionale consensuale. Da un certo punto di vista,
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si può considerare il processo decisionale consensuale come un tentativo di fondere insieme il processo deliberativo con quello esecutivo. Se non esiste un meccanismo separato di coercizione che possa obbligare una minoranza a conformarsi alle decisioni della maggioranza, il voto maggioritario perde la sua efficacia. D’altronde, il processo di ricerca del consenso è volto a produrre risultati che non necessitano di un meccanismo separato per essere messi in pratica perché l’accordo tra le parti è già stato realizzato all’interno del processo decisionale stesso. 40. Mi riferisco qui ovviamente alle opere di Carl Schmitt e Walter Benjamin e a quelle più recenti di Toni Negri e Giorgio Agamben. 41. La maglietta del collettivo Arts in Action, che realizza gran parte dei pupazzi, riporta una citazione di Bertolt Brecht: «L’arte non è uno specchio per riflettere la realtà, ma un martello con cui darle forma». 42. È interessante notare come esista una lunga tradizione nel pensiero nordamericano che considera la creatività intrinsecamente antisociale e pertanto demoniaca. Si tratta di una concezione che emerge con forza nelle ideologie razziste, ma un tema come questo meriterebbe un saggio a sé. 43. Cfr. Paolo Virno, Michael Hardt (eds.), Radical Thought in Italy: a Potential Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1996. 44. Mi sembra molto significativo il fatto che i principali protagonisti della repressione delle proteste negli Stati Uniti siano poi andati a Baghdad nei panni di «consulenti alla difesa» dopo la conquista americana dell’Iraq. Ovviamente si sono resi rapidamente conto che le loro abituali tattiche non erano particolarmente efficaci contro antagonisti davvero violenti, i cui contatti con i rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale si riducevano a farli saltare in aria. 45. Il miglior esempio di questa trasformazione lo fornisce senza dubbio Clint Eastwood, passato dagli spaghetti western alla serie dell’ispettore Callaghan.
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Finito di stampare nel mese di novembre 2013 presso Grafiche Speed 2000, Peschiera Borromeo (MI) per conto di elèuthera, via Rovetta 27, Milano