Se non ora, quando? Contro la violenza e per la dignità delle donne 8856625636, 9788856625639

Dalle nostre parti è insidiosa, strisciante, nascosta. Perfino glamour. In alcune parti del mondo, invece, è plateale e

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Italian Pages 249 Year 2012

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Se non ora, quando? Contro la violenza e per la dignità delle donne
 8856625636, 9788856625639

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EVEENSLER

con Mollie Doyle

NON ORA QUANDO?

SE

Contro la violenza e per la dignità delle donne Traduzione di ANNALISA CARENA

PIEMME

Titolo originale: A Memory, a Mono!ogue, a Rant and a Prayer © 2007 by Eve Ensler and Mollie Doyle This translation is published by arrangement with Villard, an imprint of the Ran­ dom House Publishing Group, a division of Random House, Inc.

Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl- Cormano (MI)

I Edizione 2012

© 2012 -EDIZIONI PIEMME Spa 20145 Milano- Via Tiziano, 32

[email protected] www.edizpiemme.it

Dedichiamo questo libro alla Pace.

INTRODUZIONE di Eve Ensler

Parole. Parole. Questo libro è incentrato sulle parole. Parlare del non detto. Parlare del già detto in un modo nuovo e vitale, parlare del dolore, parlare della fame. Parlare. Parlare della violenza sulle donne non perché sia l'unico problema, ma perché è un problema centra­ le nel mondo e tuttavia si continua a non parlarne, a non vederlo, a non dargli peso o importanza. Affinché le parole rompano il torpore e la negazione, la dissocia­ zione e la distanza, l'inganno. Parlare affinché si crei una comunità, una coscienza, un interesse. Parlare della violenza sulle donne perché nel 2006 delle bambine Amish vengono ammazzate nella loro scuola solo perché sono bambine; perché nei quartieri poveri le donne sono vendute come carne da macello agli uomini dei quartieri ricchi; perché in Darfur le donne vengono stuprate quando vanno a raccogliere legna per il fuoco o erba per gli asini. Nel 2006 le don­ ne sono bruciate, mutilate, lapidate, scacciate, rovinate, rifiutate, zittite. Parlare della violenza perché ai primi di novembre del 2006 il presidente israeliano si è di messo dopo un'accusa di violenza e molestie, e un reli­ gioso in Australia ha incolpato le donne poco vestite degli stupri che subiscono. Parlare della violenza sulle 7

donne per vostra madre, vostra sorella, vostra zia, vo­ stra figlia, la vostra ragazza, la vostra migliore amica, vostra moglie. Parlare della violenza sulle donne per­ ché la storia delle donne è la storia della vita stessa. Parlandone non si può evitare di parlare di razzismo e supremazia, povertà e patriarcato, costruzione di impe­ ri, guerra, sessualità, desiderio, immaginazione. Il mec­ canismo della violenza è ciò che distrugge le donne, le controlla, le sminuisce e le tiene al loro cosiddetto po­ sto. Parlare della violenza, raccontare le storie, perché nel raccontare legittimiamo l'esperienza femminile. Ri­ veliamo ciò che accade nell'oscurità, nel sotto scala, lontano dagli sguardi. Nel raccontare, le donne si riap­ propriano del loro potere. Della loro voce. Dei loro ri­ cordi. Del loro futuro. Nell'ambito del festival Unti! the Violence Stops che si è svolto nell'estate del 2006 a New York per due set­ timane, abbiamo chiesto a un gruppo di illustri scritto­ ri di produrre memorie, monologhi, invettive e pre­ ghiere sul tema della violenza contro le donne. Immagi­ navamo un evento epocale in cui questi monologhi fossero recitati da grandi attori. Pensavamo che avreb­ bero risposto al massimo in dieci o venti. Siamo stati inondati di contributi. Ogni scrittore ha prodotto qualcosa di così specifico, così originale, che Edward Albee poteva essere solo Ed­ ward Albee, e Alice Walker solo Alice Walker, e così per Erin Cressida Wilson, e Michael Eric Dyson. Abbiamo bisogno di scrittori in quest'epoca terribile di inganno, manipolazione, frasi a effetto e mezze verità, in quest'epoca in cui la brama di potere ha sconfitto la fame di giustizia, in quest'epoca di santi e malfattori. Non abbiamo molti veri leader, non abbiamo molti po8

litici di cui ci possiamo fidare. Ma possiamo fidarci degli scrittori. Invece di venderei qualcosa, esplorano qualco­ sa; invece di dominarci, ci aprono la mente; invece di conquistare o detenere una posizione, ci invitano a fare domande. Abbiamo bisogno che ogni singolo scrittore, ogni singolo artista, dica la verità come la vede, come la sen­ te dentro. In questo libro ci sono alcuni contributi di­ vertenti, alcuni misteriosi, alcuni molto difficili, alcuni drammatici. E sono tutti nuovi. Sono stati recitati per la prima volta al festival davanti a duemila persone. È sta­ to emozionante. Per questo lavoro gli autori non hanno ricevuto com­ pensi ma solo la profonda soddisfazione che deriva dal servire il bene comune. I miei compensi e i diritti d'au­ tore sulle vendite di questo volume andranno a benefi­ cio del V-Day. (Per sapere di più sul V-Day, consultate la sezione finale del libro o il sito www.vday.org.) Ringrazio questi grandi drammaturghi, poeti, gior­ nalisti e visionari per il dono di questo libro, e ringrazio te, lettore, che affronti questo viaggio.

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MEMORIA

CERCARE LA MUSICA DEL CORPO di Michael Klein

Il mio amico Frank lo chiama cercare la musica del cor­ po - la musica che sentiva mia madre. Quando finisci di cercare la musica del corpo, ti im­ batti nel corpo di una donna cui è stato strappato il mondo intero - ma prima di quella scena, un presagio: mia madre in collegio. Ha dodici anni, figlia di due alcolizzati, artisti di va­ rietà, ombre su un palcoscenico. È sovrappeso e già allora riesce a vedere oltre se stessa, per questo le ragazze fanno le stronze nei loro abiti ben stirati e di solito la tengono appesa per i piedi fuori dalla finestra per un sacco di tempo aspettando la giusta sequenza di suppliche per restituirla alla sua vita. Era il 1 940-e-qualcosa - l'anno in cui mia madre co­ minciò il libro che la sua mente andava scrivendo inti­ tolato questo è ciò che mi è capitato il libro che ci leggeva - frasi terapeutiche per mitiga­ re il vuoto di due matrimoni un marito la picchiava, un marito le prendeva i soldi e la isolava 13

dal mondo finché non è stata classificata come il ten­ tato suicidio perché era rimasta appesa a un filo a un capello, per i piedi, orgogliosamente sospesa sopra qualcosa chiamato gioventù.

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SETTE VARIAZIONI su MARGARITA WEINBERG di Moisés Kau/man

In memoria di Rebeca Clisci Akerman

l

Mia nonna nacque in Ucraina ma emigrò in Vene­ zuela prima della Seconda guerra mondiale. Mi raccon­ tò questa storia: «Una giovane donna ebrea fu rapita da un gruppo di cosacchi durante un pogrom. La portarono in una stan­ za e la tennero ferma, mentre decidevano chi l'avrebbe avuta per primo. "Se mi toccate getterò una maledizione su di voi" disse la donna. "Sono una strega. " I cosacchi risero. "Posso dimostrarlo ! " gridò lei. "Posso dimostrarvi che sono una strega. " Il loro capo sorrise e disse: " Benissimo. Dimostralo, allora". "Io sono immortale, " fece lei " e voi non potete ucci­ dermi. " Quelli risero ancor di più. "Non potete ucci­ dermi. Nemmeno se mi sparate. Provateci. " Gli uomini smisero di ridere e la fissarono. "Su, provateci. " La donna si indicò il petto. " Spara­ temi qui. Vedrete che sono immortale. " I cosacchi si guardarono l'un l'altro ma non si mossero. 15

"Sparatemi al cuore. Vedrete che non morirò. E voi avrete la prova che sono una strega. " Il capo ci pensò su per un attimo, poi estrasse rapidamente la pistola e le sparò al cuore. La giovane donna cadde a terra san­ guinante, guardò l'uomo che le aveva sparato e disse: "Grazie, imbecille".» Mia nonna amava le storie di suicidi eroici.

2 Da giovane mia nonna voleva fare il medico. Ma in Ucraina nel 1 935 c'erano pochi posti all'università de­ stinati agli ebrei, e andavano tutti agli uomini. Così di­ ventò infermiera. Quando nel 193 7 disse alla sua famiglia che voleva andare in Venezuela, tutti si opposero. Non sapevano nemmeno trovare il Venezuela sull'atlante. Ma il suo fidanzato, Boris (mio nonno), si era trasfe­ rito laggiù due anni prima in cerca di fortuna, e voleva che lei lo raggiungesse; gli affari gli stavano andando bene ed era preoccupato per le voci di una guerra in Europa. Non so se per la guerra imminente o per l'invito di un innamorato ai Tropici, o per entrambi i motivi, ma lei partì. Aveva ventidue anni. Pare che quando arrivò a Caracas, fosse una donna di tale delicata bellezza che tutti gli emigranti voleva­ no sposarla. (Ho visto delle foto, ed era uno schianto.) E mio nonno disse: «Anche se sono stato io a farti venire qui, non sei obbligata a sposarmi. Siamo stati lontani per due anni, e forse i tuoi sentimenti sono 16

cambiati. Puoi scegliere l'uomo che vuoi nella nostra comunità». Mia madre pianse, commossa dalle sue parole, e gli disse che sì, spettava a lei decidere. E aveva deciso di sposare lui. (Un'altra versione della storia dice che il ma­ trimonio era stato combinato dai loro genitori in Ucrai­ na, e che il fatto che lui le avesse chiesto di scegliere di sposarlo era una prova delle sue idee liberali, per cui lei lo sposò.) 3 Quando nacque la loro prima figlia, mia nonna la chiamò Margarita, che è il nome del fiore nazionale del Venezuela. Margarita Weinberg. (Il suo nome ebreo, Miriam, veniva dalla madre di mia nonna, che era mor­ ta quando mia nonna aveva due anni.) Mia nonna era la narratrice della famiglia. Per accordi presi molto prima che io nascessi, aveva ereditato il compito di tener vivi i nostri racconti e la nostra storia per noi. «Mio fratello era un comunista che lasciò il nostro villaggio in Ucraina e andò a Parigi per unirsi ai parti­ giani della Resistenza contro i nazisti» diceva. «Diventò una delle loro migliori spie. Gli hanno intitolato una strada a Parigi.» Due anni dopo il suo ingresso nella Resistenza, fu sorpreso in missione dentro un arsenale tedesco in un sobborgo di Parigi. «Quando i nazisti cir­ condarono l'arsenale, lui usò tutte le armi che vi erano contenute per difendersi. Uccise molti nazisti quel giorno. Serbò l'ultimo proiettile per se stesso.» Suicidi eroici . . . Io sono cresciuto con questi racconti. 17

4 A diciannove anni mia madre, Margarita, incontrò un giovanotto di nome Simon che era arrivato in Vene­ zuela dopo la guerra, dalla Romania. Era sopravvissuto al conflitto cucendo e vendendo le stelle di Davide gial­ le che gli ebrei erano costretti a indossare. Trascorse gran parte della guerra nascosto in uno stanzino o ven­ dendo stelle di Davide. Aveva undici anni. L'infanzia di mia madre in Venezuela fu idilliaca. Il paese godeva di un clima mite e aveva abitanti gentili e ben disposti verso gli immigrati. La guerra era lontana, oltre l'oceano, e mia madre ne sentiva parlare solo quando i miei nonni discutevano sottovoce di parenti che non erano partiti e adesso erano nei campi di con­ centramento o erano morti. Simon fu portato in Venezuela da sua zia, che aveva un negozio di orologi ben avviato nel centro della città. Fu lei a portarlo a casa di mia nonna per fargli conosce­ re mia madre. I due uscirono insieme qualche volta, poi lui le chiese di sposarlo. A mia madre Simon piaceva, ma il suo intuito le di­ ceva di non sposarlo: veniva da una vita troppo diversa. Lei non aveva mai conosciuto la fame o la guerra se non nelle storie eroiche e suicide di sua madre. Ma mio nonno Boris disse: «Credi che ci sia una fila di uomini ad aspettarti? Siamo una piccola comunità ebraica. Lui è un brav'uomo. Dovresti sposarlo». Mia nonna sentì ma non disse niente. E mia madre lo sposò. Del giorno delle sue nozze ricorda soprattutto che sotto il baldacchino della sinagoga pensò: "Che ci fac­ cio qui? Questo è un suicidio" . 18

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Il loro matrimonio fu un disastro. L'intuizione di mia madre a proposito di Simon, mio padre, era assoluta­ mente giusta. Venivano da due mondi diversi. L'educazione est-europea di mio padre, già rigida e severa, era stata ulteriormente inasprita dalla guerra. Lui amava Spinoza, Schopenhauer e altri austeri filoso­ fi europei. Era dispotico e aveva poca pazienza per tut­ to ciò che andava al di là della mera sopravvivenza. I suoi principali interessi erano guadagnarsi da vivere, fare figli e andare in sinagoga. Mia madre amava i film americani, i cantanti vene­ zuelani e le bambole di porcellana. Lui era puntuale e tedesco nelle sue abitudini quotidiane. Lei aveva la puntualità delle genti dei Tropici e il loro atteggiamen­ to rilassato. Lui la trovava pigra e viziata. E presto la sua incapacità di capirla si trasformò in rabbia. Lei, da parte sua, spesso si considerava superiore al marito. La guerra aveva lasciato profonde cicatrici: lui era pressoché privo di buone maniere, rideva troppo forte, parlava uno spagnolo incerto e mangiava come un lupo. (Aveva sofferto la fame così a lungo, mi rac­ contò, che gli sembrava di non potersi mai saziare.)

6 Ogni venerdì sera c'era una cena di Shabbat a casa nostra. Il mio ricordo più vivido di quelle cene è mio padre, con il viso paonazzo e le vene gonfie sul collo, che strillava accuse. «Le candele di Shabbat non sono state accese al momento giusto ! Tu te ne freghi dello 19

Shabbat ! Che razza di madre sei? Questa cena fa schi­ fo ! Non sai cucinare ! I bambini fanno troppo chiasso, come li hai educati?» Gli attacchi si facevano via via più veementi: le grida, gli insulti. Eppure, ogni volta che mia madre tentava di ribatte­ re, mio nonno diceva: «Margarita, lascia stare. Shoin». («Basta» in yiddish.) E non le permetteva di rispon­ dere. Se mia madre ci riprovava, lui ripeteva: