Discriminazione e violenza contro le donne: conoscenza e prevenzione 8846485815, 9788846485816

La violenza contro le donne è frequentemente oggetto di attenzione da parte dei media e dell'opinione pubblica, ma

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Discriminazione e violenza contro le donne: conoscenza e prevenzione
 8846485815, 9788846485816

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Osservatorio sulle donne in difficoltà, vittime di violenza e i loro bambini

DISCRIMINAZIONE E VIOLENZA CONTRO LE DONNE: CONOSCENZA E PREVENZIONE a cura di Fiorenza Deriu e Giovanni B. Sgritta Presentazione di Maria Grazia Passuello

FrancoAngeli

In copertina: Colleen Corradi Brannigan, Lone/iness. Si ringrazia l 'artista per avere gratuitamente concesso l 'uso dell'immagine.

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2007

by FrancoAngeli, Milano, Italy Anno

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Indice

Presentazione, Introduzione,

di Maria Grazia Passuello

di Giovanni B. Sgritta

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Parte prima Le radici socioculturali della violenza di Carla Col/ice/li e Elisa Manna La teoria degli universi paralleli La rappresentazione della donna nelle televisioni nazionali generaliste L'informazione I programmi di approfondimento L 'intrattenimento La pubblicità La fiction Ciò che la rappresentazione non dice L'universo femminile nella comunicazione,

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Le discriminazioni di genere nel mondo del lavoro,

di !rene Giacobbe Premessa Alle origini delle discriminazioni Definizione e "variabili " di discriminazione La discriminazione di genere nel mondo del lavoro Le discriminazioni ne/l 'accesso a/ lavoro Discriminazioni nel! 'accesso allaformazione Discriminazioni nella progressione di 5

» » »

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carriera: il "tetto di cristallo " Discriminazioni salariali Le molestie sessuali Quali proposte, in quali ambiti

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di Fiorenza Deriu Premessa Un primo bilancio I tempi delle donne Il "tempo" delle politiche Riferimenti bibliografici

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di Giuseppina Gabriele La salute delle donne: fattori di rischio e malattie Violenza subita e malattie conseguenti Accesso delle donne alla salute Donne di diverse culture e salute

»

di Donata Francescato Premessa Fattori che contribuiscono a "creare" maschi aggressivi Il ruolo dei media nel creare invidie e risentimenti nella coppia Modi diversi di affrontare i conflitti di coppia hanno antiche radici Imparare la nonviolenza in gruppi extrafamiliari Dali' ottica guerresca a quella cooperativa Dal potere "monade" al potere "nomade": dall'amore "possessivo" ali' amore "sollecito" Riferimenti bibliografici

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di Carole Beebe Tarantelli Storie estreme, storie comuni Le reazioni alla violenza Luoghi per osservare e per agire Riferimenti bibliografici

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Il "genere" del tempo,

Donne e salute,

La violenza nei legami di coppia,

La violenza alle donne,

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Parte seconda Conoscenza e azione sociale Il Portale dell'Osservatorio, di Ilaria Arigoni, Maria Chiara De Angelis, Luca Di Censi, Marco Grisoli, Maura Simone, Roberta Sta/fieri e Simona Sta/fieri Premessa Le attività del! 'Osservatorio L 'area normativa Le aree !ematiche: cronologia della normativa La mappa dei servizi Perché una mappa dei servizi per le donne La rilevanza del! 'informazione A chi è rivolta la mappa dei servizi Istruzioni per l 'uso L 'importanza di un costante monitoraggio Il sistema indicatori Come fare per consultare il sistema indicatori del Portale? Il web forum per gli operatori Un laboratorio di co-progettazione La struttura delforum Guida pratica alla navigazione nelforum So/idea Riferimenti bibliografici

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Gli autori

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Presentazione di Maria Grazia Passuello ..

Questa pubblicazione presenta l'esperienza dell'Osservatorio provinciale per le donne in difficoltà e vittime di violenza e i loro bambini. L'Osservatorio è uno degli strumenti strategici di cui si è dotata Solidea, Istituzione di genere femminile nata per iniziativa della Provincia di Roma, la prima di questo tipo nell'ambito degli enti locali italiani. Abbiamo ritenuto - insieme ai nostri partners del Dipartimento di Scienze demografiche della "Sapienza" Università di Roma- che l'esperienza meri­ tasse di essere portata a conoscenza di un più vasto ambiente di amministrato­ ri, operatori e studiosi che agiscono in questa dimensione sensibile delle poli­ tiche sociali e di genere.

La violenza contro le donne La violenza contro le donne è tornata con forza all'attenzione dei media e dell'opinione pubblica a causa del moltiplicarsi di casi di aggressione e di vio­ lenza avvenuti in luoghi pubblici. Tuttavia questo non è l'aspetto più rilevante del problema. Il fenomeno delle donne in difficoltà e vittime di violenza è multiforme e in gran parte sommerso: emerge soltanto quando le donne deci­ dono di chiedere aiuto e di denunciare gli aggressori. Solo allora viene all'attenzione delle istituzioni ed entra nelle statistiche. Non diventa, però, in modo scontato coscienza sociale. La sua conoscenza reale resta scarsa e



Presidente di So!idea, Istituzione di genere femminile e solidarietà, Provincia di Roma.

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frammentata. E questo rende tuttora difficile progettare e mettere in campo interventi adeguati per contrastarla. Il primo obiettivo di una politica contro la violenza, dunque, è conoscere il fenomeno per farlo emergere nella sua reale entità e fisionomia. Solo così lo si può contrastare con interventi adeguati. E l'esperienza insegna che sono due le condizioni indispensabili per questa conoscenza: la presenza sul territorio di servizi specifici e la maturazione culturale dei cittadini e delle istituzioni. La catena di violenze venuta alla luce nell'ultimo anno, perpetrata nelle strade e perfino nelle scuole, non deve trarre in inganno. La violenza si svi­ luppa soprattutto nell'ambito dei rapporti familiari. Oltre il 90 per cento delle donne che passano nei Centri sono in fuga dalla violenza subìta in famiglia e inferta da partners: mariti, fratelli, conviventi, amici. Il fenomeno, dunque, non è circoscritto alla marginalità, all'impatto tra diverse culture o al diffon­ dersi del disagio giovanile. Le sue radici sono antiche ed affondano in una grave distorsione e in una sofferenza che coinvolgono le relazioni più costitu­ tive della nostra convivenza. Le storie che le donne raccontano ogni giorno nei Centri antiviolenza sono tutte diverse, ma hanno in comune una matrice: l 'aggressività, la mancanza di rispetto, la dignità non riconosciuta, la pretesa di una dipendenza assoluta. Il seme della violenza si annida nello squilìbrio relazionale tra i sessi, nel desi­ derio di controllo e di possesso manifestato dal genere maschile. Rinvia ad una questione culturale, spesso sottovalutata. Si alimenta così un clima di ri­ mozione e di tolleranza che - tanto più nella fase di forte crisi della coesione sociale in cui viviamo - favorisce i comportamenti aggressivi contro le donne e contro l'infanzia. E la violenza rischia di diventare un fenomeno sociale sempre più diffuso e radicato.

So/idea: istituzione di generefemminile e solidarietà L'istituzione Solidea è nata per contrastare questa deriva. Si pone come un ponte fra le donne della politica e le donne della società civile, fra la Provincia di Roma e le sue cittadine. Interviene a sostegno delle donne, per aiutarle a ricostruire le loro identità lese dalla violenza e dai disagi e per restituirle alla società come cittadine consapevoli e attive. Le donne e le loro storie, l'ascolto dei loro bisogni e delle loro difficoltà, sono al centro di ogni attività dell'Istituzione. La sua logica non è assistenzia­ le, ma promozionale e opera per diffondere una cultura di parità. La principale attività di Solidea si articola su tre Centri: uno antiviolenza affidato all'Associazione Differenza donna e due per donne in difficoltà gestiti, il pri10

mo sempre da Differenza Donna, il secondo dall'Associazione Sostegno don­ na in ATI con la Casa internazionale della donna. Alle donne che non vo­ gliono più subire violenza e vogliono uscire dalla situazione di disagio, i Cen­ tri offrono prima di ogni altra cosa accoglienza e ospitalità per poi inserirle in percorsi personalizzati che riconoscono e valorizzano le loro capacità e punta­ no a far acquisire loro autonomia. Grande rilievo, in questi percorsi, è riserva­ to all'asse formazione-lavoro-casa. I tre Centri sono veri laboratori sociali: le donne ricevono sostegno e attin­ gono forza e nello stesso tempo consegnano, attraverso le loro storie dramma­ tiche, preziosi elementi di conoscenza. I Centri diventano così luoghi di ricer­ ca su vecchi e nuovi disagi personali e sociali di donne e bambini.

L 'Osservatorio e i suoi compiti L'Osservatorio provinciale è lo strumento strategico di ricerca e di inter­ vento culturale che Solidea ha istituito in collaborazione con il Dipartimento di Scienze demografiche de "La Sapienza" Università di Roma. L'Osservatorio è concepito all'interno di un nuovo modo di pensare le politi­ che sociali: l'insorgere di nuove forme di violenza sulle donne e sui bambini e la consapevolezza che la violenza non è un affare privato ma una grave viola­ zione dei diritti umani e quindi una questione di salute pubblica, esigono che la cultura dei servizi rivolti alle famiglie, e alle donne soprattutto, si rinnovi continuamente per essere più rispondente ai nuovi scenari della società. L'Osservatorio opera anzitutto in una prospettiva di promozione della "ri­ sorsa donna" e agisce nella logica dell'osservare per progettare che consente interventi più corretti di politica di genere. In questa direzione svolge diversi compiti: raccoglie e organizza i dati rilevati dall'operatività dei centri per co­ noscere la realtà della violenza di genere; compie una mappatura delle risorse che le donne possono utilizzare per uscire dalla situazione di difficoltà; garan­ tisce alle donne vittime di violenza servizi di qualità, sempre più rispondenti ai loro bisogni; monitora le ricadute degli interventi e riscontra la loro capaci­ tà di trasformare concretamente la qualità della vita delle donne. In particolare, l'Osservatorio contribuisce a realizzare quel coinvolgimento delle comunità sul fenomeno della violenza che è uno degli assi portanti della filosofia di intervento di Solidea: le comunità si fanno carico del problema, ne diventano protagoniste nella logica del nuovo welfare locale e agiscono per riportare le donne da una posizione di marginalità ad una di centralità sociale. In modo più specifico, l'Osservatorio mira a promuovere quelle misure in

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grado di rendere le donne e i loro bambini più consapevoli della violenza che hanno subìto e più capaci di gestire la loro difficile situazione quotidiana. Sul terreno della qualificazione dell'offerta, l 'Osservatorio informa sui ser­ vizi e promuove il loro collegamento e la loro collaborazione, favorendo una razionalizzazione delle risorse e una cultura della verifica e della programma­ zione. Contribuisce così ad evitare che restino "scoperte" alcune aree proble­ matiche o territoriali e che in altre aree si realizzi una sovrapposizione di in­ terventi. All'interno di questa strategia di integrazione vengono messi in rete, anzi­ tutto, i tre centri di Solidea, i due del Comune di Roma e gli sportelli antivio­ lenza presenti nel territorio di Roma e Provincia. L ' Osservatorio, d'altra parte, agisce per rispondere ad una più ampia e verificata esigenza di collegamento, di rete, di rapporti tra le istituzioni, i servizi pubblici e privati, le organizza­ zioni sociali, le associazioni di volontariato che operano con le donne in diffi­ coltà e vittime di violenza. Si pone come punto di confronto che avvicina buone pratiche, linguaggi, problematiche, progetti; le conoscenze consolidate nelle diverse esperienze possono così diventare patrimonio comune ed ali­ mentare, nel rispetto dell'autonomia dei singoli soggetti, un arricchimento re­ ciproco che favorisce risposte più mirate e integrate. In una dimensione più vasta, l'Osservatorio sviluppa scambi culturali con enti di ricerca locali, nazionali, internazionali.

Strumento di una politica di genere Facendo perno sui Centri e sull'Osservatorio, Solidea sta realizzando un progetto a tutto campo di politica di genere. Per questo si è dotata di un piano di azione provinciale che interviene a prevenire, contrastare, e combattere il fenomeno della violenza. La politica di prevenzione punta innanzitutto sulla consapevolezza e sul cambiamento culturale. Si rivolge alle istituzioni e alla popolazione per dif­ fondere i valori e i comportamenti del rispetto tra uomini e donne, tra adulti e bambini, tra ragazzi e ragazze, tra residenti di lunga durata e nuovi immigrati. Per raggiungere questo obiettivo, Solidea cerca una stretta collaborazione con le istituzioni e con gli operatori sanitari, sociali, educativi: soprattutto da loro, dai valori e dai metodi che ispirano le loro competenze, dipende infatti la capacità di riconoscere in tempo le dinamiche negative. Soprattutto da loro, dipende, in particolare, la capacità di cogliere le richieste di aiuto che spesso le donne e i bambini vivono in silenzio e in solitudine. Il modo in cui operato-

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ri e servizi sanno fronteggiarle è molto importante anche per la diffusione di una cultura rinnovata. Nella medesima linea della prevenzione, Solidea organizza campagne di in­ formazione e attività culturali (seminari, convegni, incontri internazionali). Sta conducendo, in particolare, un'esperienza significativa rivolta agli adole­ scenti delle prime classi delle scuole superiori di Roma e provincia. Realizzata in collaborazione con le associazioni di genere e con il coinvolgimento di in­ segnanti e genitori, l'iniziativa si è posta l'obiettivo di diffondere la cultura della parità, della solidarietà e del rispetto delle differenze all 'interno della re­ lazione uomo/donna. Passaggio decisivo, questo, per abbassare la soglia di tolleranza nei confronti di ogni forma di violenza e di discriminazione. Il percorso ha permesso di rilevare una situazione di acuta tensione tra al­ lievi e insegnanti ed ha messo in luce fenomeni di bullismo e razzismo. Ci si è trovati di fronte a due priorità che sono vere e proprie emergenze: intervenire per superare la preoccupante incomunicabilità tra insegnanti ed allievi, tra scuola e famiglia, scuola e territorio; dotare gli insegnanti di strumenti cultu­ rali e di strategie adeguati a fronteggiare un problema inedito nelle sue forme e nella sua intensità.

Informazione e sensibilizzazione Dentro questa centralità dell'azione di prevenzione e di cambiamento cultu­ rale assume un rilievo qualificante l'iniziativa di informazione e sensibilizza­ zione che ha preso avvio dalla diffusione della brochure e della Carta dei ser­ vizi di Solidea. Sono stati coinvolti i comuni della Provincia, i municipi di Roma, i servizi socio-sanitari del territorio (con particolare attenzione ai con­ sultori familiari) e tutte le associazioni e i soggetti del Terzo Settore. Questa diffusione ha attivato molte richieste di intervento nel territorio pro­ vinciale. Ne abbiamo avuto un riscontro nell'ampliamento del bacino di pro­ venienza delle donne accolte e ospitate nei Centri. Stiamo progettando, per il 2007, un intervento di formazione che si rivolge agli operatori sociali e sanitari dei servizi pubblici e privati, ai medici di pron­ to soccorso degli ospedali, alle forze dell'ordine. L'intervento si propone mol­ teplici obiettivi: sensibilizzare gli operatori; metterli in grado di riconoscere i segnali della violenza subita dalle donne; sviluppare adeguate capacità di ap­ proccio; acquisire conoscenze per indirizzare le donne ai servizi competenti. Centrale, infine, è favorire la creazione di una rete fra le diverse figure profes­ sionali che a vario titolo entrano in contatto con le donne vittime di violenza.

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Non è dunque esagerato affermare che l'Osservatorio è un'iniziativa che contribuisce in modo determinante a qualificare sia l'azione di servizio e di sostegno, sia la politica di rinnovamento culturale di Solidea. Un contributo prezioso che rappresenta un modo innovativo di collaborare tra enti locali, u­ niversità, servizi, per inaugurare una nuova stagione di politiche sociali.

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Introduzione di Giovanni B. Sgritta

"Nell'ambito del discorso sui diritti umani la specificità delle violazioni su­ bite dalle donne ha ricevuto negli ultimi anni una crescente attenzione, per quanto riguarda sia la riflessione scientifica, sia il dibattito pubblico e la rice­ zione del problema da parte dei mezzi di comunicazione di massa". Inizia così un ampio saggio sui diritti delle donne di Silvia Salvatici 1• Da cui si ricava implicitamente che parlare di violenza, di violenza rivolta contro le donne -fil rouge di questo volume - non significa occuparsi di un tema specifico, di un problema di parte. Perché i diritti delle donne sono diritti umani. E la violen­ za, nelle sue molteplici espressioni - intesa come abuso, sopraffazione, di­ scriminazione, limitazione delle libertà personali, disparità di trattamento e sottrazione di opportunità, violazione di diritti - è, senza tema di esagerare, un "fenomeno sociale totale". Un fenomeno, così dicono gli antropologi, che coinvolge l'intera struttura della società, la vita sociale in tutte le sue articola­ zioni; un fenomeno, che da episodio particolare, da patologia singolare, per­ mette di risalire a presque tout, alla architettura generale della società, alle fratture che l'attraversano, alle diseguaglianze, all'ordinamento giuridico, alle regole, all'ambiente familiare, all'economia, ai saperi. A ancora, all'organizzazione degli spazi, ai tempi, alle relazioni interpersonali, ai senti­ menti. Il riferimento al "genere" è indubbiamente di primaria importanza; storica­ mente, culturalmente. E tuttavia, non è che un aspetto di una questione più generale, che investe e coinvolge una pluralità di figure e condizioni di vita distinte per etnia, lingua, età, generazione, religione, cittadinanza, territorio, 1 Silvia Salvatici, "Diritti delle donne, diritti umani", in: Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nel! 'epoca della globalizzazione, a cura di Marcello Flores, Utet, Torino, 2007, p. 3 1 5.

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opinione politica, condizioni sociali e personali, come ricorda la nostra Costi­ tuzione. Ciascuna delle quali, nella sua specificità, secondo i casi e le circo­ stanze, in grado di attraversare tutte le altre: il particolare di ricapitolare l'insieme, la patologia - in questo caso la violenza - la fisiologia dell'intera società. Sicché sarebbe oltremodo riduttivo limitare il discorso ad uno soltanto degli elementi che compongono il tutto. Lo sarebbe anche quando, per ragioni di opportunità, oggetto contingente dell'attenzione è solo uno di quegli ele­ menti, anche quando cioè al centro dell'attenzione si collocano le discrimina­ zione e le violenze di genere, la violenza contro le donne. Per il semplice mo­ tivo che anche questa forma della violenza è tutt'altro che specifica: colpisce certo direttamente e drammaticamente le donne, ma inquina l'intera organiz­ zazione della società, perchè è l 'esito determinato di un sistema iniquo, che funziona sulla discriminazione e sulla esclusione di alcune sue parti a vantag­ gio di altre. Questione antica, vecchia come il mondo. Che si è da sempre basato sul dominio di qualcuno a svantaggio di altri; sul predominio di caste, ceti, classi, sulla esclusione di parti più o meno cospicue del corpo sociale, che si sono ar­ rogate il potere di disporre delle restanti per meglio spartirsi i privilegi che de­ rivano dalla scarsità delle risorse, dalla limitatezza delle posizioni dominanti. Da cui la marginalizzazione di interi gruppi, di intere categorie; per lo più per ovvie ragioni - agevolmente identificabili da segni esteriori, naturali, bio­ logici, morfologici: l'età, il colore della pelle, il sesso (dunque, la triade gene, genere, generazione), e sempre costantemente dal denominatore comune della debolezza fisica che ne rendeva possibile l'assoggettamento da parte dei più forti. Vecchia questione, appunto. Eppure tuttora irrisolta, una ferita ancora aperta, nonostante secoli di storia, malgrado le rivendicazioni, le rivolte, i movimenti per l'affermazione dei diritti, gli innumerevoli tentativi di delimi­ tarne la portata attraverso le riforme, il ricorso alla legge, l'estensione del suf­ fragio a gruppi sempre più estesi della popolazione, a tutti. Per avvedersene, basta ancor oggi ampliare lo sguardo. Non limitarsi a guardare vicino, ma e­ stendendo l'orizzonte dell'indagine alla società globale, che avvicina i fatti, mischia gli eventi anche quando appartengono a paesi, collettivi e tradizioni diversi. ***

Se mai è l 'emergere della società globalizzata che ci mette di fronte ad al­ cune significative novità che rimettono completamente in discussione i punti di arrivo, le soluzioni date per acquisite dagli ordinamenti e dal senso comune una volta per tutte. La più banale, ma non per questo scontata, è la multicultu16

ralità; vale a dire, la contemporanea, contestuale, convivenza di culture diver­ se, che conservano un'inerzia, un valore profondo anche quando si spostano nello spazio, anche quando migrano e vengono a contatto con i costumi e le tradizioni delle società di arrivo. Con riferimento alla questione femminile, c'è chi ha parlato a questo proposito di "morte del femminismo" per mano del multiculturalismo, per eccesso di relativismo culturale. Testuale: "i femmini­ smi devono oggi rivalutare la necessità di estendere le loro rivendicazioni ad ogni donna. Le condizioni brutali in cui si trovano molte donne non possono essere spiegate con un generico 'è nelle tradizioni', quando queste tradizioni sono patriarcali e non fanno altro che perpetuare la sottomissione delle donne a 'valori' ed economie sessiste. Se il femminismo muore è a causa del multi­ culturalismo e della sua idolatria per le tradizioni. Se vive è per la sua capacità di prendere sul serio i diritti individuali"2 • E in effetti, la svolta multiculturali­ sta chiede tolleranza, rispetto per le diversità, politica! correctness per i mol­ teplici modi di "essere donna", secondo molti "relativismo", relatività di giu­ dizi e trattamenti, separatezza e distinzione in ultima analisi. Ma è proprio qui, come scrivono Nicla Vassallo e Pieranna Geravaso, che il femminismo rischia di revocare in dubbio le sue finalità: "nel pensare che le proprie istanze siano compatibili con quelle multiculturaliste e quindi nel coltivare una vera e pro­ pria indifferenza rispetto alle condizioni di oppressione. . . in cui si trovano ancora molte donne". Ciò che di regola prevale, nelle nostre società occidentali, nei paesi di ap­ prodo dell'immigrazione, è una combinazione di parametri di giudizio che rappresentano noi come sostanzialmente diversi da loro, non importa se in ri­ ferimento alla nazione, alla religione, alla lingua, ali'etnia, ai costumi sessuali o alle relazioni di genere. Ed è agevolmente constatabile che per moltissime donne le condizioni di vita sono drammatiche. Così Laura Balbo: "Sottoposte a sfruttamento, ricatti, violenze estreme nelle esperienze della tratta e della ri­ duzione in schiavitù alcune; altre vivono chiuse in un mondo segregato, per­ ché non conoscono la lingua, perché nella cultura tradizionale è l'uomo che fa da tramite e da padrone, perché ai figli spetta il ruolo di traduttori e mediatori: tutto questo genera solitudine, disorientamento, conflitti. Sul lavoro: poco pa­ gate, poco tutelate, 'invisibili"'3 • Per non dire delle vite "normali", quelle del­ le tante badanti, per lo più giovani, per lo più dell'Est, confinate con i confina-

2 Nicla Vassallo e Pieranna Geravaso, "Chi ha ucciso il femminismo?", Il Sole-24 Ore, Do­ menica, 1 1 febbraio 2007, p. 34. 3 Laura Balbo, In che razza di società vivremo?, Mondatori, Milano, 2006, p. 8 1 .

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ti, interamente dedite all'assistenza di anziani soli, malati, requisite in casa, del loro tempo, delle loro relazioni, della loro gioventù, della loro mente, pe­ raltro in una fase estremamente delicata della loro vita. E ciò per rendere pos­ sibile l'affermazione, il tempo, le relazioni, la gioventù di altre donne . . . e, be­ ninteso, di altrettanti uomini. Il fatto che queste donne, queste ragazze, siano tra noi, "segna il nostro mondo, ci cambia", osserva ancora la Balbo; ma allo stesso tempo è altrettanto evidente, sarebbe ipocrita passarlo sotto silenzio, che è proprio la loro presenza, la loro funzione, il loro lavoro, che ci consen­ tono di non cambiare, di mantenere le cose come sono, di restare quello che eravamo, di conservare sostanzialmente immutato - fatta salva la sostituzione delle persone, le une con le altre, le autoctone con le estranee - il nostro si­ stema di cura e di assistenza; il welfare family oriented nel caso del nostro Pa­ ese. Al fondo, le stesse dinamiche di sempre, le medesime fratture, disegua­ glianze in termini di risorse, tenore di vita, opportunità di realizzazione. In­ somma, mondi diversi anche se non più distanti, anzi compenetrati, in presa diretta. Ed è questo che fa problema. spesso questo che genera violenza: la contemporaneità dei modelli culturali, l'incontro più che lo scontro di civiltà, per riprendere à l'envers la tesi di un famoso libro di SamueLHuntington4 . ***

Poi ci sono questioni di casa, nel senso che riguardano la nostra cultura più che il confronto tra culture. Ed è il fatto, tutt'altro che paradossale o sorpren­ dente, che la violenza verso le donne è anche un risvolto del punto di arrivo di un percorso positivo, delle conquiste delle donne e del movimento femmini­ sta. Qui il discorso si fa più delicato, dando per scontato che le interpretazioni possano divergere. Il sociologo francese Alain Touraine ha sostenuto qualche anno fa che la formazione della società globale ha accelerato la crisi della modernità, la decomposizione generale del modello classico; tanto che in tutti i settori della vita sociale si assiste ad un crescente frattura tra il sistema e gli attori, ripiegati su se stessi e verso la ricerca della propria identità. "La globa­ lizzazione dell'economia, associata alla rivalorizzazione delle identità cultura­ li, non sociali, religiose, etniche o nazionali, ha portato con sé - scrive Tou-

4 Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.

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raine - il crollo delle istituzioni sociali e politiche"5 . Dove il collegamento con il nostro tema è da vedere in questo, che l'affermazione dei soggetti indi­ viduali esige anzitutto la distruzione delle categorie sessuali, la fine del loro impiego. Siamo già entrati, afferma Touraine in un lavoro più recente, in una società in cui le donne sono portatrici di un nuovo modello culturale. In una società, in cui le donne "occupent une piace plus centrale dans la nouvelle cul­ ture", in cui possono affermare la loro esistenza come soggetti solo a condi­ zione di rifiutare di definirsi unicamente per il loro rapporto eterosessuale all'uomo e per le funzioni sociali che questa relazione comporta6 • Una società delle donne - spiega Touraine - e non, come pur sostengono taluni, una fem­ minilizzazione della società; perché quest'ultimo concetto lascerebbe di nuo­ vo pensare che le donne siano dotate di un carattere permanente e generale, costituiscano un modello di riferimento ideale e immutabile. Il che non è: il genere non è più, come nella società tradizionale e moderna, la versione cultu­ rale di una dicotomia biologica o di una tipologia psicologica, che distingueva i maschi e le femmine, ma un processo che si realizza nelle diverse realtà so­ ciali nelle quali i soggetti si trovano ad agire; un processo, dunque "un fare il genere", socialmente mediato, che produce e riproduce le identità dei soggetti secondo le circostanze e le condizioni storiche del momento. Circostanze, che evidentemente sono oggi profondamente mutate rispetto al passato. Per un insieme di ragioni che non v'è necessità alcuna di riepilogare in questa sede, ma che includono agli estremi la crescita della scolarità fem­ minile (una scolarizzazione diversa dal passato perché ora "professionalizzan­ te") e, come conseguenza diretta, la crescita della partecipazione della donna al mercato del lavoro; cioè l'autonomia economica. Dove, in entrambi i casi, il genere non è più la definizione principale dell'attore. Circostanze, che sono state seguite, accompagnate o più raramente precedute dal mutamento e dall'adeguamento delle normative. Allora? Allora, tornando alla questione della violenza si può avanzare la tesi che il riproporsi del fenomeno - dando per scontata la maggior propensione delle vittime alla denuncia - sia da vedere anche come un riflesso della crescita della realizzazione e dell'immagine so­ ciale della donna negli scorsi decenni. Una reazione negativa che fa leva sulla forza fisica, dunque un tentativo di ribadire antiche soggezioni rispetto ad una situazione nuova che vede le donne protagoniste: capaci di dominare la com-

5

Alain Touraine, Sociologia, Jaca Book, Milano, 1998, p. 41. Alain Touraine, Un nouveau paradigme pour comprendre le monde d'aujourd'hui, Fayard, Paris, 2005, pp. 306, 3 1 8. 6

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plessità sociale, di colmare la dicotomizzazione delle sfere di vita: lavoro e famiglia, cultura ed economia, produzione e riproduzione, piacere e dovere, maschile e femminile come ambiti nettamente distinti, ciascuno con la sua sfera di pertinenza; nelle parole di Touraine, la cultura delle "polarità contrap­ poste" rispetto alla nuova cultura della "ricomposizione". Una reazione, anco­ ra, che denuncia che su questo terreno, a fronte di una perdita di potere nella parola e nell'azione, non si realizza automaticamente una semplice presa d'atto del mutamento da parte della componente maschile. Sono dunque due, per chiudere con questa riflessione, i punti critici della odierna questione di genere. E sono entrambi collegati con l'avvento della so­ cietà globale. Da un lato, il multiculturalismo nella sua versione relativistica, che minaccia come si è detto di mettere fine o comunque di ridimensionare alquanto la prospettiva della "differenza" coltivata in una certa fase del mo­ vimento femminista se oltre alla cultura dominante del mondo occidentale non si include anche quella del mondo dominato; se non si allarga lo spettro dell'analisi, facendo entrare in gioco, nel gioco del genere, altre condizioni, costumi e tradizioni che l'uno ha in larga misura superato e l 'altro no. Il se­ condo punto è quello dell'affermazione nelle società occidentali di una nuova condizione della donna, sulla scia della conquista di nuove opportunità, nuovi diritti, innovative posizioni nell'economia e nella politica, rispetto alla quale sono ancora da registrare violenze reattive, tensioni, conflitti e un certo ritardo culturale, certamente da parte maschile. ***

Non si corre il rischio di forzare la lettura dei testi sostenendo che su questa linea - per ovvi motivi soprattutto sul secondo di quei due punti - si muovono anche i contributi che compongono la prima parte di questo volume. Che nell'insieme denunciano ritardi, pongono l'accento sulla vischiosità e sull' hysteresis delle tradizioni, sul divario tra la lettera delle leggi e la loro ap­ plicazione, sulle discriminazioni che continuano a sussistere, sui luoghi di la­ voro come nella sfera domestica ed affettiva, malgrado i cambiamenti soprav­ venuti. Nell' immaginario collettivo che rappresenta la condizione femminile nei media, in primo luogo. Che - come scrivono Carla Collicelli e Elisa Man­ na - "dei tanti modi di interpretare la condizione femminile oggi, dei tanti u­ niversi paralleli che coesistono", tendono ad evidenziare in larga misura so­ prattutto gli stereotipi, gli atteggiamenti, gli stili di vita e le aspirazioni più re­ trive, !asciandone in ombra altri, non meno significativi e presenti nella realtà ordinaria, ma certo meno accattivanti, meno spettacolari, di minor presa sul senso comune. Un vero e proprio campionario di tòpoi della cultura di massa, 20

in cui compaiono volta a volta donne-sirene e donne-fantasma, le donne patì­ nate dell'intrattenimento leggero e le donne livide della cronaca nera, per ri­ prendere le parole delle autrici. La realtà, almeno per quote consistenti e crescenti di donne, è certamente diversa. Ma non è questo che importa; non solo. Il punto è che "la televisione continua a restare il principale medium d'influenza della cultura di massa, e dunque la principale agenzia di socializzazione e di trasmissione culturale per tutta la collettività, in particolare per le generazioni che stanno crescendo . . . "; veicolando "un messaggio manicheo dello stereotipo femminile", che, anche facendo la tara sulla penetrazione del messaggio televisivo, finisce inevitabil­ mente per distorcere la percezione della realtà e per rallentare la crescita della consapevolezza collettiva sull'evoluzione positiva del costume e dei rapporti di genere. Non a caso, questo contributo sull'universo femminile nella comu­ nicazione, seppure apparentemente laterale rispetto al tema generale, compare per primo nel volume, in ragione del fatto che è assai probabile che la rappre­ sentazione della figura femminile e della sua condizione possa avere delle ri­ cadute di qualche entità anche sulla diffusione di comportamenti violenti e di­ scriminanti. Più immediate, tangibili, concrete, sono tuttavia le discriminazione che prendono a pretesto il genere sui luoghi di lavoro, delle quali si occupa nel vo­ lume il contributo di Irene Giacobbe. Un'analisi che parte giustamente dalla considerazione che la distinzione, la differenziazione di "una o più persone dalle altre non ha di per sé una connotazione negativa; la assume nel momento in cui. . . alcuni gruppi . . . classificati in base a caratteristiche personali, vengo­ no . . . per questo stesso fatto a trovarsi in una condizione di svantaggio". Ov­ vero, sono collocati o classificati in "categorie. . . minoritarie in virtù non di una esiguità numerica rispetto ad una maggioranza, ma perché considerati come facenti parte di una categoria, di un gruppo differente dalla norma"; di una norma "sociale", socialmente costruita, va da sé. Di qui, ed è palesemente il caso delle donne, violazioni di diritti, limitazioni delle loro opportunità, mancata valorizzazione o svalorizzazione delle loro capacità, nonché limiti all'accesso e alla progressione delle carriere, nelle retribuzioni, quando non di vere e proprie forme di vessazione e violenza, molestie e molestie sessuali. Secondo un'indagine Isfol del 2006, riportata dall'autrice, età e genere, nell'ordine, sono risultati i fattori di discriminazione più frequenti sul posto di lavoro; entrambi, per l'appunto, elementi del corredo biologico assunti a pre­ testo di una rappresentazione culturale discriminante. L'accurata elencazione delle circostanze in cui scatta il comportamento discriminante documenta am­ piamente i ritardi che tuttora sussistono rispetto all'obiettivo, sancito per leg­ ge, della parità di trattamento tra uomini e donne. 21

La variabile tempo presenta la particolarità che, le discriminanti di genere, le riassume tutte. Dovunque presenti: nelle relazioni familiari, nelle scelte ri­ produttive, nella sfera lavorativa, nella divisione sociale del lavoro di cura, nel tempo libero. Fiorenza Deriu conferma nel suo contributo che l'uso del tempo è fortemente differenziato in termini di genere. In tutta l'area dei paesi euro­ pei, il tempo che le donne dedicano al lavoro retribuito e allo studio è di gran lunga minore di quello che a queste attività (entrambe remunerative ai fini della propria realizzazione personale e degli sviluppi di carriera) dedicano gli uomini; in Italia e Spagna, dove il ruolo della famiglia è tuttora prevalente nella soddisfazione dei bisogni dei singoli, il rapporto è addirittura di 2: l . E difatti, prendendo a riferimento il lavoro familiare, la proporzione si inverte. Stavolta sono le donne, ovunque, senza eccezioni, a dominare la scena, con asimmetrie fino a tre-quattro volte rispetto alla componente maschile; tant'è che, in Italia, "un quinto della giornata delle donne è assorbito dal lavoro fa­ miliare, mentre l'impegno degli uomini . . . risulta del tutto marginale .. , e senza dubbio non in grado di contribuire all'armonizzazione tra tempi di lavoro e tempi di cura delle partner". C'è poi il tempo libero e il tempo "per sé", resi­ dui rispetto alla formazione, al lavoro retribuito e al lavoro familiare. Anche in questo caso con profonde, significative, differenze di genere; ovviamente a svantaggio delle donne. Cosicché, ciò che prende forma è una sorta di "asin­ cronia di genere", caratterizzata da una minore autonomia nella progettazione e gestione del tempo e da un maggior rischio di isolamento da parte delle donne, per giunta legittimata dai tempi e dagli orari della città, rispetto ai qua­ li si sono affacciati sinora ancora timidi e frammentati segnali di attenzione da parte delle amministrazioni e della politica. Con il contributo di Giusy Gabriele entriamo più direttamente nel tema del­ la violenza. Stavolta con riferimento esplicito alla salute delle donne. Ed è un problema di seria rilevanza sociale, negli ultimi dieci o quindici anni progres­ sivamente riconosciuto anche a livello internazionale, e che "solo una corag­ giosa azione sinergica che metta in rete le istituzioni e le associazioni della società civile può affrontare correttamente .. , aiutando le donne maltrattate ad uscire dall'isolamento e dalla solitudine a cui si sentono condannate". In ogni caso, essenziale - scrive Gabriele - è il ruolo dei servizi: dall'emergenza del pronto soccorso all'ospedale, ai servizi che forniscono assistenza legale, assi­ stenza ai minori, assistenza psicologica e sociale, al contatto con i centri, in un percorso, senza soluzione di continuità, che aiuti e accompagni la donna vit­ tima di violenza a ricostruire la propria dignità, a riprendersi il rispetto di sé e la voglia di vivere. Anche qui, soprattutto qui, nel terreno della salute, si ri­ propone in effetti l'antico quesito sull'origine della violenza, sulle sue dimen­ sioni collettive, strutturali, piuttosto che individuali. "Il fatto è - osserva giu22

stamente l'autrice - che il corpo della donna non viene violentato solo indivi­ dualmente. Perché è anche considerato un oggetto di dominio collettivo". Per­ ché la violenza che si scarica sulla singola donna ribadisce la natura violenta e discriminante dell'intera società nei confronti delle donne: nella sessualità, nella riproduzione, nella moda, nella comunicazione, nei ritardi che ancora sussistono nella diagnosi e nella cura, nell'ignoranza che ha sinora accompa­ gnato il sapere medico sull'efficacia, sui dosaggi e sugli effetti collaterali dei farmaci sull'organismo femminile, nella non-unitarietà della risposta sanitaria. Con la consapevolezza, anch'essa certificata da anni di studi e ricerche e che viene qui giustamente ripresa, che "più di tutte pagano le donne delle piccole città di provincia, legate spesso ad un'immagine da difendere, che non posso­ no confessare a nessuno 'come è andata davvero' . Le donne povere, per cui spesso la vita è una serie di violenze da cui hanno difficoltà a difendersi . . E soprattutto le donne immigrate .. , che sono e saranno la vera sfida dei prossimi anni, per tutte e tutti". Della violenza all'interno dei legami di coppia, della diffusa violenza do­ mestica, si occupa invece nello specifico Donata Francescato in un saggio che fa da ponte, come il successivo di Carole Beebe Tarantelli, tra la prima e la seconda parte del volume che raccoglie i contributi dedicati alla presentazione dell'Osservatorio di Solidea sulle donne in difficoltà, vittime di violenza e i loro bambini. Considerato che è nell'ambiente familiare e domestico che si consumano in larga misura gli abusi fisici e psicologici subiti dalle donne, commessi da partner o ex-partner, il rilievo di quest'analisi non ha bisogno di alcuna sottolineatura. L'autrice va alle radici del problema, ai fattori psico­ sociali che determinano l'insorgere dei comportamenti violenti; fra i quali di nuovo e soprattutto la cultura, la cultura della dualità e della separazione, la divisione netta, irriducibile, asimmetrica, fra il maschile e il femminile; vale a dire, il fatto di "vivere in una società che glorifichi le caratteristiche competi­ tive maschili e rimuova o svaluti quelle femminili" e che spinge, da un lato, gli uomini, se psicologicamente fragili, minacciati nella loro mascolinità, a "provare a se stessi e al mondo di essere veri uomini, utilizzando la forza e spesso la violenza" - la violenza sotto la specie dell'amore - e, dall'altro, pre­ dispone molte donne alla dipendenza, nella credenza che sicurezza e dipen­ denza, amore e dominio, siano fra loro inesorabilmente legati. Così, "più si è cresciuti in famiglie chiuse, più è facile sperimentare sentimenti 'totalizzanti' che possono condurre alla violenza". Le conclusione di questa analisi non sono tuttavia necessariamente negative e per taluni versi riprendono nella sostanza alcuni temi che abbiamo visto svi­ luppati da Touraine. Valga per tutti il riferimento alla crescente affermazione nella società contemporanea di quella "logica al femminile" che "valorizza .

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un'idea dello sviluppo del sé più adatta ai nuovi contesti lavorativi e politici basati sulla interdipendenza". Sicché, l'avvio di una soluzione starebbe nella rimozione di quelle cause sociali che tuttora contraddistinguono, a partire dal­ le sfere della socializzazione primaria e secondaria, i mondi maschile e fem­ minile, come universi separati e non comunicanti, nei quali dominano valori e regnano principi opposti sempre più dissonanti con le esigenze di una società solidale. L'ultimo contributo della prima parte del volume è a firma di Carole Beebe Tarantelli. Qui la speranza di una soluzione dei drammatici risvolti della vio­ lenza che colpisce le donne è demandata alle stringate parole di chiusura del saggio, ali'auspicio del tutto condivisibile che si debba lavorare per costruire una società che apra spazi per azioni sociali contro la violenza sulle donne sull'esempio di quanto hanno fatto Provincia e Comune di Roma con l'istituzione dei centri anti-violenza. Al principio dell'analisi una serie di casi, dai contorni raccapriccianti, di donne e bambine violentate e maltrattate dai loro padri, mariti, connazionali; uomini, uomini vicini. Storie estreme e, ciò che le rende agghiaccianti, al tempo stesso comuni, di ordinaria violenza. A conferma di dati diffusi da tempo dall'Organizzazione mondiale della sanità e da altre agenzie internazionali sulle percentuali di donne percosse dal proprio partner (dal l O al 69%) , di donne vittime di omicidi per mano di coniugi o compagni (40-70%) , sul trafficking i cui itinerari ricalcano quelli delle migra­ zioni, dai paesi più svantaggiati verso quelli più opulenti7 ; a conferma, se ce ne fosse bisogno, dell'invarianza delle cause. Una violenza di cui tuttavia manca la contabilità, ammesso che vi sia sufficiente coscienza del problema, ma che ha certamente costi enormi per la vita civile; oltreché, va da sé, per le vittime. La definizione proposta dali'autrice è che l'atto violento provoca un trauma che non concede alcuna via di fuga, "rende la psiche della vittima inerme . . . , e getta la persona in uno stato di totale impotenza psicofisica". Così, il proble­ ma delle sopravvissute è quello di continuare a vivere in uno stato di distru­ zione radicale - in cui vengono meno la fiducia di base, il senso di sicurezza e si spezza la continuità fra il mondo esterno e quello interiore - che tende a doppiare l'intero corso dell'esistenza. Riporto per esteso questo passo: "una lotta senza fine per conservare la coerenza di sé. Lotta sempre più difficile perché lo stimolo che rievoca la memoria del trauma con il tempo tende a ge-

7 Rimando di nuovo al saggio di Silvia Salvatici, "Diritti delle donne, diritti umani", cit., 336 e sgg.

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p.

neralizzarsi . . . Per evitare il ricordo la vittima diviene ipervigilante. Ogni cosa la fa trasalire. Ha difficoltà a concentrarsi e a dormire . . . ogni sentimento può sembrarle pericoloso e pertanto può apparire più sicuro sentire il meno possi­ bile. La reazione di evitamento . . . può estendersi a quasi tutti gli aspetti del mondo esterno e di quello interno, fino a che la vittima perde ogni capacità di entrare in relazione". Diviene cioè uno stato dell'esistenza, biografia perma­ nente della donna che ha subìto violenza. Una vita sprecata che è assai diffici­ le ricostruire se non ridando significato alla propria esistenza, eventualmente "unendosi ad altre donne in un'azione sociale". ***

Azione sociale e conoscenza - consapevolezza, contabilità, ma anche, co­ me avvertono alcuni dei contributi di cui abbiamo riferito, cognizione, sapere, competenza tecnica, accoglienza - parrebbero dunque le strade attraverso le quali provare ad affrontare il problema della violenza rivolta alle donne. In parte, forse in misura modesta, è ciò che tenta di fare l' Osservatorio provin­ ciale per le donne in difficoltà e vittime di violenza ed i loro bambini, della cui struttura, dei materiali in esso raccolti, delle sue funzioni, ora e a regime, riferiscono per l'appunto i contributi raccolti nella seconda parte del volume. Gli autori delle singole parti sono gli stessi che hanno collaborato alla costru­ zione dell'Osservatorio rispettivamente per la sezione normativa, la mappa dei servizi, il sistema di indicatori sulla condizione femminile e il web forum per gli operatori dei servizi e dei centri anti-violenza. In realtà, un lavoro lungo e complesso che, tenuto aggiornato con i dati e le informazioni che sopravver­ ranno nel tempo, consentirà a studiosi e addetti ai lavori, ma anche ad ammi­ nistratori, politici e gente comune - società civile - di consultare statistiche, costruire reports, assumere informazioni sulle tematiche di genere e specifi­ camente sulla violenza nei confronti delle donne e dei loro figli. Sulle finalità politiche dell'Osservatorio si sofferma ampiamente nella pre­ sentazione al volume la presidente dell'Istituzione Solidea, Maria Grazia Pas­ suello. Sotto il profilo della conoscenza è da aggiungere che l'Osservatorio è un vero e proprio sistema informativo sociale, che come tale consente di ac­ cedere ad una cospicua mole di statistiche di genere ed inoltre informazioni normative, sulle tipologie e le caratteristiche dei servizi rivolti alle donne; con l'aggiunta della possibilità di accedere ad un forum virtuale (web forum) che permetterà agli operatori dei centri della provincia e del comune di Roma di attivare e condividere le esperienze pratiche, le migliori pratiche, e pertanto di cogliere dagli interventi informazioni e nozioni utili per lo svolgimento della propria attività lavorativa. Più in generale, il forum è un'occasione preziosa 25

per dare visibilità ai centri, fare aggiornamento e formazione, fare rete in­ somma, stimolare una discussione costruttiva, istituire una biblioteca virtuale, renderefriendly, come si dice, il rapporto fra gli operatori e i centri di ricerca, aggiornarli sui risultati delle indagini, faYorire l'alfabetizzazione informatica. Una volta a regime, l'Osservatorio renderà infine possibile disporre di una documentazione organizzata e in tempo reale, nel più rigoroso e doveroso ri­ spetto della privacy, delle attività dei centri che compongono la rete. Nella prospettiva che il sistema possa col tempo diventare un modello ed estendersi a tutte le strutture che operano nel settore della violenza e della discriminazio­ ne contro le donne all'interno della Provincia di Roma. I contributi che con­ fluiscono in questa seconda parte del volume hanno dunque lo scopo di funge­ re da introduzione, da guida, all'uso dell'Osservatorio, per i comuni cittadini interessati come per gli operatori che se ne serviranno come strumento di ge­ stione delle loro attività. Un sussidio che aiuterà a conoscere meglio le carat­ teristiche, la dimensione e l'impatto sociale della discriminazione e della vio­ lenza rivolta contro le donne, a colmare le lacune che rendono più difficile l ' azione politica di contrasto e la diffusione della coscienza sociale del pro­ blema.

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Parte Prima Le radici socioculturali della violenza

L 'universo femminile nella comunicazione di Carla Collicelli e Elisa Manna

La teoria degli universi paralleli

È possibile che alla fine abbiano ragione quelli che da sempre sostengono che i media si limitano a riflettere la realtà. Diciamo allora che il problema è una questione di "illuminazione". Una stanza può essere ben illuminata e far emergere tutte le cose che contiene. Oppure può avere un'illuminazione di­ scontinua, una lampada che mette in primo piano sempre la solita poltrona, un faretto che dà luce sul tavolo; e il resto della stanza. Si vede, ma un po' in pe­ nombra, bisogna aguzzare lo sguardo per notarlo, bisogna "farci caso". La televisione riflette e al tempo stesso distorce; perché della realtà rappre­ senta, è vero, sfaccettature diverse, ma alcuni aspetti sono più illuminati, più evidenti, non puoi fare a meno di notarli. Altri ogni tanto fanno capolino, conquistano un po' di luce e di spazio, ma restano marginali. Oppure succede un'altra cosa: che aspetti della realtà insignificanti, magari i bisticci di coppia di due personaggi dello spettacolo, escano dai periodici di gossip e conquistino i telegiornali televisivi, cioè conquistano una posizione impropria, che li illumina di troppa luce e li fa diventare argomenti legittimi di interesse e curiosità collettive. E dunque i capricci di una signora (veri o pre­ sunti), i suoi vezzi, i suoi narcisismi barocchi diventano un modello, un modo di essere donna. Nel frattempo migliaia di donne medico, avvocato, architetto e via dicendo fanno in silenzio e seriamente il loro lavoro. Ma in televisione non si vede. È un po' questo quello che succede parlando delle donne nei media. Nessu­ no si sogna più di dire, ad esempio, che la televisione è l'arma del diavolo e rappresenta tutte donne perdute. Però è certo che la sensazione diffusa di mol­ te donne reali è quella di essere invisibili, forse perché imperfette e non abba­ stanza telegeniche, forse perché affaccendate a prendersi una laurea, o a cer­ care un lavoro che abbia un minimo di coerenza con il proprio percorso for­ mativo, tutte cose che non fanno spettacolo, non divertono un pubblico, perciò 29

perché dar loro un cono di luce? Perché dei tanti modi di interpretare la condi­ zione femminile oggi, dei tanti universi paralleli che coesistono si tende a dare tanto più spazio a quello più "volatile", più impalpabile, a donne tutte concen­ trate sullo "slancio" dello stivaletto che indossano o sulla tenuta del rimmel che ombreggia i loro sguardi? Per rispondere a queste domande e per documentare l'attuale modo di rap­ presentare la donna nei media, si possono citare i dati di una ricerca recente­ mente realizzata dal Censis in collaborazione con la Fondazione Adkins Chiti per la Commissione Europea 1 • Una ricerca di analisi del contenuto di una set­ timana campione di programmi televisivi, realizzata 24 ore al giorno, nonché di un campione di un mese di quotidiani e periodici di maggior diffusione (fo­ calizzata sulla pubblicità). A queste analisi si aggiunge un'analisi qualitativa di un campione difiction. La ricerca ha messo a fuoco soprattutto la realtà televisiva, perché malgra­ do tutte le previsioni degli ultimi anni, la televisione continua a restare il prin­ cipale medium d'influenza della cultura di massa, e dunque la principale a­ genzia di socializzazione e di trasmissione culturale per tutta la collettività, in particolare per le generazioni che stanno crescendo e diventeranno i cittadini di domani. Tanti ragazzi che pensano che le donne sono o dovrebbero essere come "quelle della televisione", tante ragazze che pensano di dover somiglia­ re alle ragazze che si vedono in Tv.

La rappresentazione della donna nelle televisioni nazionali generaliste

Nel complesso si tratta, nell'ambito dei programmi televisivi studiati, per il 46% di programmi di informazione, per il 21% di programmi di approfondi­ mento, e per quasi il 30% di programmi di intrattenimento. La maggior parte dei programmi esaminati (in cui le donne avevano una presenza significativa) appartiene alla cosiddetta fascia del "preserale" che, secondo le classificazioni Auditel, va dalle 1 8 (si ricordi, ancora in piena fascia protetta per i minori) al­ le 20,29. Nella ricerca sono state analizzate le sette reti nazionali (Rai l , Rai 2, Rai 3, Canale 5, Retequattro, Italia l , La 7), che hanno presentato una distribuzione sufficientemente omogenea (Tab. l ), per i programmi di informazione, appro-

\

1

Fondazione Censis, Fondazione Adkins Chiti Women and media in Europe, editore Colombo, 2006

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fondimento, cultura ed intrattenimento. Tab. l - Presenza delle donne per rete televisiva (val. %) Reti televisive

val. %

Rai l Rai 2 Rai 3 Retequattro Canale cinque Italia Uno La 7 Totale Fonte: indagine Censis, 2006

1 9,2 20,2 1 6,8 9,0 1 5,6 8,1 1 1,l 1 00,0

I programmi più presenti in televisione appartengono al genere varietà, talk show o reality. Si è dunque cercato di approfondire le modalità di rappresen­ tazione della/e donna/e presentata/e. Effettivamente, per quanto riguarda la persistenza di stereotipi riguardanti la rappresentazione femminile qualcosa sembra essersi mosso. Ma, onde evitare conclusioni affrettate, va detto che un piccolo progresso non si traduce necessariamente in un progresso .reale, in una effettiva evoluzione. Anzi può rappresentare il prodotto di una strategia di comunicazione che intercetta la cresta dell'onda dell'emancipazione femmini­ le, la "spuma" appunto e con questa cerca di sintonizzarsi. Senza modificare niente di sostanziale. Insomma, secondo il vecchio detto consensuale, "si cambia qualcosa perché tutto resti come prima". O, peggio ancora, si cambia quello che risponde meglio alle esigenze dello spettacolo, per lasciare invaria­ to il messaggio manicheo dello stereotipo femminile.

Piacevoli, collaborative, vezzose Certo sembrano superati i tempi in cui le vallette erano muti soprammobili: per lo meno in molti programmi si tende a presentarle, a dare loro voce, a scherzare brevemente con loro, insomma a farle uscire dal ruolo di presenza muta. Non bisogna pensare che si tratti di interventi particolarmente significa­ tivi o spiritosi, ma certamente sono diversi i programmi in cui si cerca di esse­ re ''politically correct presentando il nome delle diverse componenti di im=-' provvisati corpi di ballo, dando loro brevemente la parola, e trasformandole in soggetto attivo. Prevalentemente, e si ricorda che siamo nella fascia del pre-serale, si tratta di attrici (56,3%) e di cantanti (25%) con quasi un 20% di indossatrici in pas",

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serella. Quest'ultimo dato pare particolarmente rilevante: la figura dell'indossatrice, della top mode! è diventata una vera e propria icona della nostra epoca e da semplice professionista che con garbo scivola sulle passerel­ le è diventata un'imperiosa presenza, un modello di riferimento costante, tant'è che spesso i telegiornali di prima serata si chiudono con sfilate spesso eccentriche e molto nude, a metà tra la promozione economica del "made in Italy'' e la nota di colore. Bisogna sottolineare che, dal punto di vista di chi produce programmi di in­ formazione più "seri", questi sono i cosiddetti "servizi di alleggerimento", cioè il tentativo di sollevare il morale di uno spettatore ormai "catacombale" dopo la sequenza di cronaca nera, terrorismo e minacce naturali che hanno farcito il notiziario. Dal punto di vista del telespettatore, soprattutto quello più giovane, le cose stanno un po' diversamente: le donne che sfilano e promuovono un loro spet­ tacolo o un calendario, proprio perché ospitate nel telegiornale come modello di successo, in psicologia si direbbe "modello fortunato", vengono più che le­ gittimate. Fare un calendario o sfilare con eccentrici e scarsi straccetti di strass addosso diventa il modello da imitare e sognare per migliaia di ragazze, dopo le tante desolazioni e miserie con cui i telegiornali hanno l'abitudine di de­ scrivere la realtà. E non si può non citare l'affascinante e annosa polemica massmedialogica sull "'agenda setting ", che ci ricorda come il telegiornale non rappresenti la realtà di quella giornata, ma un insieme di notizie consape­ volmente selezionate e i cui criteri di selezione rimandano a logiche tutte in­ terne al mondo editoriale. Si deve inoltre evidenziare come le donne siano per lo più protagoniste del­ la situazione o della vicenda rappresentata ma meno frequentemente le con­ duttrici ( 1 0,3%). Lo spazio offerto alla figura femminile è dunque ampio, ma generalmente "gestito" da una figura maschile. È un dato su cui riflettere: le donne hanno evidentemente conquistato ruoli sempre più centrali, ma comun­ que restano al massimo comprimarie, "bisognose" di una figura maschile, per così dire, "ordinante". In generale appaiano come figure positive (attrici di azioni positive), o an­ che oggetto di azioni positive. Anche in questo caso "qualcosa si sta muoven­ do" e la tradizionale vittimizzazione della figura femminile ne esce abbastan­ za ridimensionata. La donna dunque emerge nel complesso, per lo meno da questa prima se­ zione dell'analisi, come una figura piacevole, con i suoi spazi e la sua possibi­ lità di parola, ma sui grandi numeri, senza la possibilità di gestire in prima persona la situazione. Il che non vuoi dire che non ci siano abilissime condut­ trici di show e varietà, ma che, statisticamente, sul totale delle donne che

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compaiono in questi programmi e che hanno un qualche significato nell'azione scenica, la percentuale delle donne che "agiscono" la situazione televisiva è nel complesso ridotto; e il resto è un"'esercito di comparse ".

Belle, patinate, soprattutto giovani Un'altra variabile che risulta "eloquente" sul piano dell'interpretazione del­ la fenomenologie televisiva riguardante la donna è senz'altro l'età. Oltre il 60% dei casi riguarda una donna adulta o giovane-adulta. Le donne "anziane" compaiono solo nel 4,8% dei casi, anche se bisogna ricordare, per ben interpretare questo dato, che la ricerca non riguarda presenze femminili marginali, come può essere per esempio il primo piano di una donna in età che applaude tra il pubblico, e sono state considerate solo le donne che all'interno di un'unità d'analisi (sketch televisivo o servizio d'attualità) aves­ sero un ruolo se non prioritario almeno significativo (Tab. 2). Tab. 2 - La donna rappresentata è: (val. %) Tipologia di donna rappresentata

val. %

Una bambina Un'adolescente Una giovane adulta Un'adulta Una donna matura Una donna anziana Totale Fonte: indagine Censis, 2006

4,6 0,1 1 3,9 46,5 30, 1 4,8 1 00,0

Un altro elemento che suffraga l'ipotesi della distorsione rappresentativa è lo status socioeconomico percepibile della donna rappresentata: si tratta per lo più di donne che si presentano benestanti (43,3%) o di status medio (43,9%). Solo il 9,6% sembra appartenere ad un ceto basso. La donna in televisione en­ tra se è vestita con cura, ben truccata, e non c'è spazio per donne acqua e sa­ pone. Non si tratta di estetica, semmai di estetica televisiva, che vuole tutte patinate, incipriate, laccate. Un'estetica televisiva che si riflette nell'estetica quotidiana, ormai, per cui oggi nel nostro paese ci si imbatte sempre più spes­ so per strada in giovani donne abbigliate come per un set televisivo. La circo­ larità realtà-rappresentazione televisiva è ormai un dato interpretativo acquisi­ to (Tab. 3). Ed è difficile che una donna di basso ceto presenti quelle caratteri­ stiche di gradevolezza patinata richieste dagli standard estetici della tv.

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Tab. 3 Che status presentala donna rappresentatanel programma (val. %) -

Status della donna

val. %

Alto Medio Basso Non rilevabile Totale Fonte: indagine Censis, 2006

43,4 43,9 9,6 3,1 1 00,0

La prova del nove sta nell'associazione al tema della donna rappresentata: la voce moda e spettacolo, associata a quella bellezza, raggiunge il 38%, una "percentuale bulgara" se si considera che altri temi più "seri" raggiungono percentuali quali il 6,8% (disagio sociale, povertà), 1'8,2 (devianza), il 6,6% (cultura). Tab. 4 - La donna è rappresentatain rapportoa qualitemi? (val. %) Temi in base ai quali la donna è rappresentata

val. % 3 1 ,5 6,5 1 ,2 1 ,5 2,1 1 ,3 5,1 0,4 0,2 7,3 1 ,2 2,2 1,5 1 ,9 2,0 4,8 2,1 3,9 0,9 6,6 1 ,3 1 2,4 0,6 6,8 8,2 0, 1 1 4,2 0,3 6,0 2.3 1 6,7

Mondo dello spettacolo, moda Bellezza /estetica Erotismo Sesso/sessualità Amore Matrimonio Famiglia Dimensione domestica Relazioni interpersonali Salute/sanità Adozioni/affidamento Impegno sociale/atti di solidarietà Scuole, università e formazione Problemi legati al mondo del lavoro Realizzazione professionale Politica Economia e finanza Natura/ambiente Arte Eventi culturali Gioco/loisir Giustizia/diritti Sicurezza Disagio sociale/povertà Criminalità/devianza Prostituzione/tratta di esseri umani Violenza fisica Violenza psicologica Sciagure (anche naturali) Reli ione Altro

Il totale non è uguale a l 00 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2006

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Evidentemente, neanche lo sforzo di raccontare la donna associata a chiac­ chiericcio di moda e rossetti volumizzanti riesce però perfettamente, giacchè ogni costruzione ha le sue smagliature: irrompe così il tema della violenza fi­ sica, dei diritti, della sanità. Come dire che, alla fine, anche la donna patinata della televisione conosce i problemi della vita reale, tenuti a distanza, però, in un mondo che deve restare rassicurante (Tab. 4).

L 'informazione

Ma è proprio nell'informazione che il quadro si chiarisce ulteriormente. Come già rilevato a proposito di altre ricerche del Censis, la funzione ricreati­ va ed estetizzante che alcuni soggetti assolvono nella pubblicità e nell'intrattenimento si ribalta nella cupa e antitetica immagine che essi presen­ tano nell'informazione: la donna, più ancora che il bambino, lascia il suo in­ volucro colorato e sfavillante che la avvolge nei programmi d'intrattenimento e nel varietà per assumere le cupe fattezze della tragedia, del dramma nell'informazione. Uno scarto veramente disorientante, stridente, come se la realtà ribaltasse drammaticamente la costruzione artefatta, scintillante, e un po' pacchiana, imposta dalla comunicazione di massa.

La donna del dolore Infatti, la donna compare prevalentemente all'interno di un servizio di cro­ naca nera: come già rilevato a proposito dei minori, del soggetto si parla all'interno di una vicenda drammatica, in cui è coinvolta prevalentemente come vittima, o in alcuni casi come "carnefice" (si pensi alla triste catena del­ le madri assassine che la cronaca ha rovesciato nelle nostre case negli ultimi anni). Il codice espressivo perciò si inverte: il dolore, la tristezza, l'umiliazione, la rabbia di donne coinvolte in soprusi, violenza e prevaricazio­ ni di ogni tipo fino alla riduzione in schiavitù apre uno squarcio su una realtà dolente, miserabile spesso moralmente più ancora che materialmente. Dunque alla donna dell'intrattenimento, la cui unica preoccupazione sembra essere mostrare alla telecamera il profilo migliore, si sostituisce bruscamente la don­ na del dolore, la donna-vittima. E delle donne normali, di quelle che studiano, lavorano, cercano di affer­ marsi nel mondo delle professioni o delle cosa pubblica? Balza subito un da­ to agli occhi. Praticamente irrilevante la presenza di donne politiche (6,4% dei casi in cui la donna è significativa all'interno della notizia). Sul suo es35

sere persona e soggetto sociale in crescita, capitale e risorsa sociale per la collettività, portatrice di cultura, competenza esperienza politica e profes­ sionale si preferisce sorvolare. Evidentemente fa molto più notizia la povera donna ritrovata morta in casa che la battaglia legislativa di una parlamentare a favore magari proprio delle donne o di altri temi di ampio interesse (Tab. 5). Tab. 5

-

L 'unità di analisi è rubrica/a come: (val. %) val. %

Tipologia dei servizi

6,4 1 ,5 67,8 0,4 1 4,6 1 ,9 0,4 2,2 3,7 1,1 1 00,0

Servizio di politica interna Servizio di politica estera Servizio di cronaca nera Servizio di economia-finanza Servizio di cultura e società Rubrica di moda-spettacolo Servizio sportivo Servizio di alleggerimento Programmi di servizio Altro Totale Fonte: indagine Censis, 2006

L 'informazione "autoptica "

È chiaro che qui il discorso si fa più ampio e finisce con l'investire una del­ le caratteristiche strutturanti dell'informazione nel nostro paese: una informa­ zione urlata, sopra le righe. Davvero troppo intrisa di sangue, che il Censis in più di un rapporto non si è stancato di stigmatizzare accanto ad autorevoli vo­ ci del mondo della cultura e della ricerca. Un'informazione che negli ultimi tempi si è fatta "autoptica", dato l'indulgere in particolari raccapriccianti, pe­ raltro a più riprese denunciati presso gli organismi di rappresentanza e tutela dagli stessi telespettatori (Comitato Tv e Minori, Consiglio Nazionale degli Utenti). E questo binomio, la donna rutilante e patinata dell'intrattenimento, e la donna livida della cronaca nera, sembra riassumere uno dei topos della cultura di massa che ci avvolge, che è poi uno dei grandi stereotipi della condizione femminile da sempre: quello che la vuole avvolta di sete e seduzioni come or­ namento della vita maschile o essere fragile e per questo stesso inferiore, e­ sposta più del maschio alla violenza e al sopruso. Questo che è più di uno ste­ reotipo, un vero e proprio archetipo della cultura e dell'immaginario maschile, 36

si riversa come un'onda d'urto sull'inconsistente e apparente modernità della cultura televisiva.

"Quelle che hanno studiato " In mezzo, tra le donne-sirene e le donne-fantasma, il fragilissimo filtro del­ le anchorwomen, che sembrano volerei ricordare che nella realtà sociale, nella vita vera, le donne hanno studiato e qualche volta hanno fatto anche delle buone carriere. Ma le anchorwomen, come del resto le inviate e/o le donne politiche, sono davvero un segmento di rappresentazione troppo limitato: sono tante rispetto alla loro categoria, ma sono comunque poche rispetto ai grandi numeri delle donne rappresentate in televisione. Sono una testimonianza: di­ cono, anche al telespettatore, che una donna se ha la capacità e coraggio ce la può fare, ma insinuano, senza volere, il dubbio che questo interessi una mino­ ranza di donne, e che le donne vere siano le altre, quelle tutte vezzi e mossette e quelle tristi e lamentose della cronaca. Un ulteriore dato ce lo conferma: la donna presentata nei servizi nella mag­ gior parte dei casi "non ha voce", come si dice nel gergo degli analisti televi­ sivi, cioè, di lei si parla ma non le si dà la parola: in alcuni casi per oggettive difficoltà legate alla tipologia del servizio stesso, in altri perché non si ritiene necessario o opportuno: e quando prende la parola lo fa per tempi televisivi molto ristretti, e nel 45% dei casi parla per meno di 20 secondi (Tab. 6). Tab. 6 - Quanto tempo parla la donna del servizio? (val. %) val. %

Tempo

45,2 32,5 22,2 1 00,0

20 secondi 21 a 25 secondi Da 26 a 60 secondi

Fino a Da

Totale

Fonte: indagine Censis, 2006

Tab. 7 - Se presenti, le immagini della notizia/servizio sono: (val. %) val. %

Tipologia immagini/servizio

55,9 66,5

Di repertorio Specifiche alla notizia Simulazioni Altro

Non rilevabile

Il totale non è uguale a 1 00 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2006

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Un'ultima curiosità: le immagini che corredano il servizio in quasi il 56% dei casi sono di repertorio: segno che la "pigrizia informativa" non riguarda solo gli stereotipi in cui è invischiata la figura femminile ma anche più in ge­ nerale la professione giornalistica, così come si va configurando negli ultimi anni (Tab. 7).

I programmi di approfondimento

La sezione riguardante i programmi di approfondimento è quella che forse meglio di altre consente di evidenziare quanto profondo, diremmo carsico, è l'atteggiamento discriminatorio. E, proprio perché carsico, più resistente e dif­ ficile da sradicare. Infatti, il momento dell'approfondimento è quello in cui vengono chiamate in causa le doti di razionalità, riflessività, capacità di interpretare e connettere fenomeni diversi. In qualche modo si potrebbe dire che le rubriche di appro­ fondimento sono quelle in cui canonicamente si evidenzia l 'intelligenza del conduttore/conduttrice, degli autori, degli esperti e degli ospiti che, a diverso titolo, intervengono nella trasmissione. La distribuzione per sottogenere delle trasmissioni considerate appare suf­ ficientemente equilibrata da garantire l'assenza di effetti di distorsione del campione considerato, con una prevalenza delle rubriche di costume e società. Il timone della conduzione di questo tipo di programmi rimane saldamente in mano agli uomini: infatti si tratta di un uomo nel 63, l % dei casi contro un più modesto 36,9% di donne.

Il "tocco umano " delle anchorwomen

Lo stile della conduzione appare in generale improntato alla razionalità e all'intento informativo: segno ulteriore che ci troviamo in territori un po' par­ ticolari, sottratti alla foga e al surriscaldamento emozionale che sembrano in­ vadere ogni angolo della comunicazione televisiva. Anche in questo caso le anchorwomen sembrano farsi veicolo della modernità nel senso più apprezza­ bile del termine: pur sposando uno stile razionale pacato nel trattare i temi, sanno coniugarlo con una dose di femminile "empatia". Lo stile della an­ chorwomen si rivela più attento agli aspetti emozionali, ma anche umanizzan­ te rispetto a quello degli anchormen.

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Esperte di natura, astri, scienze umane, mistero ... I programmi di approfondimento sono anche quelli in cui trova spazio e voce la figura dell"'esperto", che, in virtù della propria esperienza e compe­ tenza, è chiamato a realizzare un intervento "ordinante" in termini conoscitivi. La figura dell'esperto è un'altra delle grandi "icone" della cultura televisiva dei nostri tempi. Chi non ricorda la "squadra" di esperti che ha accompagnato Vespa nella difficile interpretazione protrattasi per mesi del cupo caso Cogne? E chi non ricorda gli interventi, per lo più rasserenanti, degli esperti di volta in volta chiamati da Piero Angela? Una funzione così rassicurante che la pubbli­ cità ha abilmente rubato i toni dello speaker di Angela. L'introduzione e l'affermazione dell'esperto è in fondo il tentativo, per la verità non sempre riuscito, che la cultura televisiva fa per "crescere", per superare la soglia del chiacchiericcio da salotto o da bar. E che posto occupa la donna in questa fenomenologia televisiva? La donna sembra aver conquistato qui spazi considerevoli: nel 63, 1 % dei casi in cui compare la figura dell'esperto si tratta di uomini e donne, nel 23,8% di una o più donne contro il 1 3 , 1 % della voce "uno o più uomini". Un punto a favore delle donne, per lo meno così sembrerebbe. Ma il ricercatore accorto non può appagarsi di questo tipo di dato: bisogna sapere "di che tipo di esperto" stiamo parlando. Si scopre così che le donne interpellate come esperte di diritto o di medicina, di cultura manageriale o im­ prenditoriale, o di ingegneria sono un'assoluta minoranza: eppure non si può certo dire che esperti in qualità di medici, avvocati rappresentanti del mondo imprenditoriale e finanziario non intervengano continuamente nelle rubriche di approfondimento. Tab. 8 - Se l'esperto è una donna, in che settore è esperta? (val. %) val. %

Settore delle esperte Giuridico-legale Medico Sociale Ingegneristico Manageriale imprenditoriale Industriale Economico-finanziario Commerciale Sportivo Moda spettacolo Altro Il totale non è uguale a l 00 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2006

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5,5 1 1 ,0 26,0 1 ,4 2,7 1 ,4 4, 1 1 ,4 1 3 ,7 39,7

Né si può sostenere che manchino le donne in questi settori: il processo di femminilizzazione delle facoltà mediche e giuridiche in particolare negli ulti­ mi decenni è un fenomeno noto (Tab. 8). Dunque perché così poche donne esperte in queste discipline negli spazi Tv? E allora che cosa sono tutte le esperte che comunque risultano comparire negli spazi televisivi? A parte un 26% riconducibile in qualche modo alla di­ mensione del "sociale", sono esperte di natura, artigianato locale, letteratura e, soprattutto, astrologia. Il ricercatore, in questo caso, resta perplesso: non capi­ ta tutti i giorni di vedere un perfetto "stereotipo antropologico" perfettamente conservato, quasi un insetto preistorico nell'ambra. Le donne sono esperte di erbe, di piccoli manufatti, di canto poetico, di mondo lunare e lettura degli a­ stri (Tab. 9). Del resto, le modalità con cui la donna viene coinvolta in qualità di esperta ben evidenziano questo processo di sconfinamento e contenimento della sua autorevolezza conoscitiva: l'esperto-donna è in genere poco conosciuta e il suo intervento si limita a descrivere delle situazioni o delle cose e non avanza un approccio più penetrante, di natura problematico-interpretativa. Tab. 9 - Specifica della voce "altro " della tab. 23 (val. %) val. %

Specifiche Ambiente-natura Archeologico Artigianato locale Artistico Astrologia Beni culturali Cultura (scrittrice) Giornalistico Guerra Iraq Letterario Natura e ambiente Politico Scientifico Storico Totale Fonte: indagine Censis, 2006

1 3,8 3,4 1 3,8 3,4 20,7 3,4 3,4 6,9 3,4 1 0,3 3,4 3,4 3,4 6,9 1 00,0

L'intrattenimento

Non mancano le punte emblematiche di un certo tipo di rappresentazione femminile purtroppo imperante nella televisione italiana e non solo nei pro­ grammi di intrattenimento: una rappresentazione che usa il corpo della donna

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come oggetto di richiamo sessuale, come strumento di comunicazione al di là della parola che basta di per sé ad evocare un atmosfera di blanda eccitazione e curiosità. Uno stilema chiaramente usurato, che richiama il vecchio avan­ spettacolo, dove il comico sorreggeva la sua popolarità con l'aiuto di belle fi­ gliole abbondantemente esposte. Un vuoto di creatività che aggancia del resto uno dei principi antropologici più pervicaci: e cioè che "la donna è il suo cor­ po e di lei solo quello può essere mostrato" (o oscurato, come nell'Islam, che è poi, paradossalmente, la stessa cosa). Nella settimana analizzata dalla ricerca cui facciamo riferimento si nota la preponderanza di varietà (48,6%) e talk show (38,7%). Il conduttore è un uo­ mo nel 58, 1 % dei casi. Lo stile complessivo della conduzione risulta ironico (39,2%), malizioso, un po' morboso (2 1 ,6%), aggressivo (2 1 ,6%). Nel caso in cui a condurre sia una donna lo stile cambia e le conduttrici, soprattutto quando si rivolgono ad altre donne, tendono a mostrare maggiore comprensione e complicità Ma lo spettacolo ha "le sue esigenze": perciò non si risparmia sui doppi sensi, sulle battute facili, sugli scherzi ovvi, il tutto condito da donnine in ab­ bigliamento audace e più che audace nel 36,9% dei casi, un insieme di caratte­ ristiche che contribuisce ad attestare il tono complessivo delle trasmissioni di intrattenimento verso un livello "mediocre" (36,4%), o "scadente" (28,9%). E se serve, la telecamera inquadra "voyeuristicamente" la ballerina di turno, tan­ to per dare "un brivido" che può calamitare qualche spettatore in più (sempre in ossequio al totem Auditel). È da sottolineare, perché rimanda ad un tratto più complessivo della nostra cultura televisiva, che raramente si rimanda a stereotipi esplicitamente offen­ sivi della dignità femminile o comunque chiaramente riconoscibili: ciò avvie­ ne solo nell' 8,3% dei casi. Lo stesso approccio si rivela, d'altra parte, a proposito della rappresenta­ zione degli immigrati, come rilevato da diverse indagini del Censis condotte sull'argomento. Difficilmente la nostra comunicazione presenta stereotipi che rimandano ad atteggiamenti e mentalità esplicitamente razziste, così come dif­ ficilmente si ritrovano stereotipi inequivocabilmente offensivi per la donna. Ma il modo di presentarla è altrettanto raramente teso a valorizzarla, sia in termini di pari capacità, sia in termini di cultura della differenza. Dopotutto, le donne dei reality show sono valorizzate soprattutto per le loro doti di spregiudicatezza, esibizionismo, furbizia: doti che, a ben guardare, ri­ mandano allo stereotipo del doppio della "brava e semplice ragazza", e cioè quello della "cattiva ragazza", intraprendente e furba da cui guardarsi e da te­ mere, sia per gli uomini che per le donne. Dunque, una rappresentazione che solo apparentemente non ricorre a stereotipi, ma che finisce col riproporre 41

senza troppo pudore, la più frusta e manichea rappresentazione del femmini­ no: la donna bella e sempre disponibile, la ragazza semplice e buona vittima delle circostanze, la ragazzaccia spregiudicata e abile nell'ottenere vantaggi e successo (Tab. l 0). Tab. 10 Se la u.d.a. è costituita da un reality show, la donna è protagonista in virtù dì quale prevalente? (val. %) caratteristica -

Caratteristiche prevalenti

val. %

Intelligenza Preparazione culturale Capacità Professionalità Spregiudicatezza Esibizionismo Furbizia Individualismo Solidarietà Avvenenza Charme Appeal erotico Altro Il totale non è uguale a l 00 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2006

50,0 50,0 50,0 50,0

Manca completamente la figura della donna di oggi, una donna che vuole capire di più, che vuole crescere professionalmente, che vuole usare le sue qualità intellettive e non il facile e rischioso richiamo della seduzione; rischio­ so perché oltretutto dipendente in fondo dalla disponibilità dell'uomo a farsi sedurre. Una donna nuova che riempie le strade, le università, i luoghi di lavo­ ro e le case e di cui questa brutta televisione sembra non essersi accorta. Un vero peccato, anche per gli inserzionisti: se capissero meglio la donna di oggi forse potrebbero anche migliorare la loro offerta di prodotti e aumentare i loro profitti.

La pubblicità

Per quanto concerne la pubblicità, la ricerca cui facciamo riferimento ha privilegiato l'approccio qualitativo. Infatti, la pervasività del messaggio pub­ blicitario è tale, che si è giudicato superfluo, ai fini del presente lavoro, evi­ denziarne il dato quantitativo. È esperienza comune e quotidiana il bombardamento permanente cui si è

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sottoposti: la cartellonistica pubblicitaria stradale, in Italia particolarmente aggressiva, la pubblicità radiofonica e televisiva, invadente e spesso "sopra le righe", la pubblicità su quotidiani e periodici che occupa intere pagine . Qual­ che volta, è il caso di alcuni magazine femminili, sembrerebbe quasi che la testata sia un alibi per squademare sotto gli occhi dell'incauto lettore, decine e decine di pagine di pubblicità. Dunque, assodato per esperienza comune che la pubblicità è tanta, ovunque e martellante, la vera domanda è: che tipo di contenuti, di messaggi, veicola la pubblicità? Qual è in particolare la rappre­ sentazione delle donne (e degli uomini) che ne emerge? Quali le costruzioni sociali idealtipiche? Sopravvivono gli stereotipi che per tanti anni l'hanno ca­ ratterizzata o non è piuttosto vero che la pubblicità è diventata luogo di speri­ mentazione della cultura di massa? È stata analizzata la pubblicità comparsa durante il mese di settembre del 2005 su due periodici tra i più diffusi di informazione politica e attualità, Pa­ norama e L 'Espresso, e sui magazine dedicati alle donne di Corriere della Se­ ra e la Repubblica. Si sono scelti questo tipi di periodici proprio per rendere più difficile la rilevazione di stereotipi: gli inserzionisti, conoscendo il target medioalto, se non altro dal punto di vista dell'istruzione, avrebbero dovuto limitare pubblicità "irritanti" sul piano culturale per il loro target. Dunque se ci fossimo comunque imbattuti in pubblicità basate su stereotipi di genere, questo avrebbe significato che la strereotipia è un tratto profondamente radi­ cato nella comunicazione pubblicitaria, a dispetto dei percorsi innovativi che pure gli stessi pubblicitari hanno messo in atto e dell'attenzione, certamente accorta, alle caratteristiche del target. La fenomenologia dei contenuti della comunicazione riscontrata sembre­ rebbe far pensare a una recrudescenza e a un rafforzamento della stereotipiz­ zazione dei generi. In questo senso, l'unica vera innovazione sembra venire dalla sfera delle "nuove famiglie" e dell'ambiguità sessuale, che sempre più sembra "intrigare": pubblicitari evidentemente consapevoli del promettente profilo di consumo del consumatore omosessuale. Eccone alcuni esempi.

Amore di mamma La pubblicità reclamizza un prodotto per bambini; non appare alcuna figura di donna; la donna viene comunque "evocata": a lei sono associati i valori del­ la cura della casa. Una graziosa bambina (magliettina rosa, grembiule da cucina giallo con scritto su in rosa "Amore di mamma") si diverte a fare "la casalinga": indossa 43

un abbondante paio di guanti rosa (che evocano quelli di gomma rosa usati per lavare i piatti) e brandisce un cucchiaio di legno da cucina. L'espressione è allegra e vivace. La graziosa bambina "Amore di mamma" sta imparando, giocando, il suo futuro di casalinga. E la scritta "Amore di mamma" sembra siglare la trasmissione del ruolo più e meglio di un contratto notarile.

I will be a scientist La pubblicità reclamizza un prodotto per bambini; non compare alcuna fi­ gura di donna; la figura femminile presente nella comunicazione in esame è associata al valore del gioco. È particolarmente interessante dal punto di vista di una sensibilità di gene­ re, perché mostra in primo piano due bambini, maschi, uno bianco e uno di colore, che giocano divertendosi molto a fare i piccoli chimici. Il messaggio innovativo (il gioco tra bambini di etnia diversa) però contrasta con il mes­ saggio implicito: una bambina è presente, ma solo sullo sfondo e non gioca a fare la chimica, ma semplicemente corre. Lei non sarà "a scientist". In questo caso lo stereotipo maschio-femmina nasce da un messaggio dop­ pio (e dunque risulta rafforzato). Primo messaggio: i maschi studiano, le femmine giocano; secondo messaggio: la modernità accoglie le nuove etnie e anche un maschio indiano può diventare da grande uno scienziato perché co­ munque ha curiosità intellettive (perché è maschio). Le femmine restano a giocare.

La ragazza del/ 'anno è una di voi Compare una figura di donna (di spalle); la rappresentazione della ragazza è effettivamente funzionale a reclamizzare il prodotto: una giovane donna dal­ le curve perfette indossa lo slip da reclamizzare; i valori associati alla donna: bellezza, perfezione del corpo, spregiudicatezza. È una pubblicità celeberrima che viene riproposta negli anni. Una splendida ragazza, vista di dietro, completamente nuda indossa un minuscolo tanga. La testa è tagliata dal campo visivo e si vede solo la propaggine di una lunga treccia bionda con una coccarda con su scritto l a. Una scritta accompagna l'immagine: "La ditta..... presenta Natalia, la vincitrice del concorso "Girl of the year 2005". Grazie per aver partecipato numerose e ricordate: l'anno pros­ simo su questa pagina potreste esserci voi! Questa pubblicità introduce e apre la riflessione su uno degli stereotipi di

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genere più radicati nell'antropologia culturale della nostra epoca, anche se, per la verità, gli anni Settanta avevano fatto sperare ormai in via di estinzione. In realtà si è trattato di una brevissima parentesi legata alla riflessione che il pensiero femminile e femminista di quell'epoca aveva in qualche modo vita­ lizzato. E lo stereotipo della donna che mostra le sue grazie, che oggi devono oltretutto essere perfette per ottenere il successo, raggiunge in questo caso l'apoteosi: "Ragazze se il vostro fondoschiena è perfetto e ce lo mostrate pote­ te addirittura avere l'onore di vederlo riprodotto su migliaia di cartelloni e raggiungere fama e successo (pure questo è da vedere.....) ". La bambina della prima pubblicità ha un'alternativa: se dovesse scoprire che non le piace fare la casalinga può sempre sperare di aver un fondo schiena da premio e metterlo in concorso.

Chi porta i pantaloni non fa compromessi sui pantaloni Si pubblicizza un prodotto di abbigliamento per uomo; compare una figura di uomo, vestito solo con i pantaloni da reclamizzare. Valori associati alla fi­ gura femminile: autonomia, potere, comando. Un uomo a torso nudo, con un paio di pantaloni di squisita fattura porta l'indice davanti alla bocca per zittire tutti: un gesto d'imperio e di decisione che la muscolatura esibita dall'uomo contribuisce a evidenziare. Insomma, "chi porta i pantaloni", cioè l'uomo, non è disposto ad accettare un abbigliamento meno che perfetto. Da quale anfratto della coscienza maschile è emersa quest'immagine di ste­ reotipo dell "'uomo che porta i pantaloni"? E se non fosse un anfratto, e se gli uomini dopotutto continuassero a pensarla così?

Senza parole Si pubblicizza un prodotto di abbigliamento per uomini (jeans); non com­ pare alcuna figura di donna, ma sullo sfondo compare uno strano ibrido di bambola, metà rassicurante matrioska, metà inquietante bambola gonfiabile con la bocca aperta; valori: sesso, annientamento della figura femminile, alie­ nazione, patologia sessuale. È la pubblicità di una marca di jeans. Un uomo-cow boy mollemente diste­ so con indosso i jeans slacciati e un cappellone a coprire il volto. Sullo sfondo cinque matrioske apparentemente innocenti esibiscono una bocca che da matrioska russa non è, ma evoca piuttosto la bocca delle bambole gonfiabili. 45

La scena è desolante, tristissima. La donna non c'è, c'è un surrogato di plasti­ ca, che finisce col negarla, che vorrebbe essere erotico. Dispiace che il magazine dedicato alle donne da uno dei quotidiani di più ampia diffusione abbia accettato di pubblicare una pubblicità del genere. Questo il "filo rosso" normativa che si è voluto cogliere in una manciata di pubblicità, né le migliori nè le più innovative. Come abbiamo già precisato, la pubblicità sta percorrendo percorsi di sperimentazione di contenuti e codici espressivi qualche volta lodevoli. Ma questo non neutralizza il potente mes­ saggio negativo che pubblicità come quelle raccontate possono avere. Nei siti europei che collezionano le pubblicità, ci siamo imbattuti, ad esem­ pio, in quella che si potrebbe definire "pubblicità cadaverica". Una pubblicità che usa l'immagine di un cadavere di donna (magari con un buco in testa e con il sangue che esce) infilato nel bagagliaio di una limousine o infilato sotto un elettrodomestico per pubblicizzare calze o scarpini con il tacco a stiletto. Si percepiscono "odi" carsici, antiche paure, istinti di prevaricazione: certo, di fronte a questi casi limite le pubblicità che abbiamo raccolto in Italia sem­ brano inoffensive. Ma è proprio questa loro banalità, quotidianità, questo gio­ co di rimandi nella realtà sociale a renderle più temibili: perché è più facile che le donne, sopratutto le più giovani, vi restino impigliata.

La fiction

La fiction rappresenta forse il genere televisivo che meglio e più di altri ha cercato di intercettare il cambiamento sociale delle donne. Sebbene spesso il tentativo si risolva in una modemizzazione di superficie o parziale è indubbio che essa sia il genere che dal punto di vista degli stereotipi di genere ha con­ tribuito più e meglio a rimuovere l'immagine della donna casalinga modello o seduttrice a tutti i costi. La "professionalità" della donna, l'assunzione di responsabilità sociali e collettive, il senso del dovere, la capacità di dirigere una squadra, la correttez­ za nei confronti dei colleghi, la disponibilità a collaborare, la capacità di unire capacità "femminili" (intuito, relazionalità) con quelle considerate "maschili" (prontezza nelle decisioni, forza, resistenza, coraggio) vengono per la prima volta "celebrate" dalla fiction. E, in un'ottica di genere orientata a combattere gli stereotipi, non è merito marginale. Naturalmente, anche in questo caso, non mancano le contraddizioni interne, e certo non è difficile imbattersi infiction che sembrano quasi una sintesi per­ fetta di stereotipi. 46

Ma, appunto, non si può negare che è grazie alla fiction che sono stati in­ trodotti, negli ultimi anni, nella rappresentazione massmediale delle donne, valori che appartengono all'etica del lavoro, al sociale, alle professioni, alla preparazione. Può essere utile, per esemplificare più che per effettuare una ve­ ra e propria analisi, richiamare brevemente alcune serie ormai "di culto" tra gli appassionati del genere.

La dirigente "Distretto di polizia 4 "2 (Canale 5, Prime time, share 22,57-34,21%). Co­ me è noto, si narrano le vicende di un gruppo di poliziotti del Decimo Tusco­ lano. Attualmente è in corso Distretto di Polizia 5 . Il giovane commissario è una donna, Giulia Corsi. I personaggi sono ben calibrati e la vicenda narrata fortemente coinvolgente. All'interno di un protagonismo corale c'è una struttura multilineare (con differenti storylines che si intrecciano) e contribuiscono a creare un ritmo ser­ rato e vivace. L'enfasi è posta sulla vita privata dei personaggi, sull'affettività, sulla capacità di relazione che descrive il distretto come una work family in­ tensamente solidaristica. Il commissario Corsi è una figura particolarmente interessante sul piano del contrasto degli stereotipi di genere: pur essendo giovane, "dirige" un gruppo di professionisti e lo fa con competenza e autorevolezza. Sebbene sia molto femminile (e bella) non concede nulla ai vezzi di un atteggiamento seduttivo nei confronti di colleghi e sottoposti. Il suo stile sembra il "distillato" più riu­ scito delle teorie del management al femminile e concilia l'intuito e la capaci­ tà di comprensione con la serietà, la freddezza e l 'essenzialità che il suo ruolo richiede. È fortemente sottolineato il suo senso di responsabilità, nel privato, ma soprattutto nella vita professionale che la porta spesso a scelte difficili. È forse la fiction che meglio e più di altre riesce a cogliere il "nuovo mo­ dello di donna" che è andato crescendo negli ultimi anni nel mondo delle pro­ fessioni: una donna che ha interiorizzato una forte carica di etica professiona­ le, qualche volta in contrasto con il mondo maschile, ma fortemente determi­ nata a giocare le proprie carte: intelligenza, preparazione, senso della respon­ sabilità. 2 Per la ricostruzione si fa riferimento all'autorevole Rapporto "Lontano nel tempo: la

fiction italiana,

l' Italia nella fiction" a cura di Milly Buonanno, giunto alla sedicesima edizione (VQPT), Rai,

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2005.

In questo senso "Distretto" costituisce un caso esemplificativo eloquente della capacità "paradossale" della fiction di rappresentare molto meglio la re­ altà di quei genere (per esempio i reality) che invece pretendono di rappresen­ tare le realtà senza filtri.

La donna "abusata " su/ lavoro "Una donna scomoda " (Rai 2, Prime lime, share 6, 6%). Si può definire questa fiction un film-tv di impegno sociale. Un filone per la verità ancora po­ co frequentato in Italia, contrariamente a quanto avviene in altri paesi europei e americani. Il tema al centro della fiction è quello delle molestie sul posto di lavoro. Il film-tv narra delle prevaricazioni di un potente dirigente rispetto ad una ope­ raia resa fragile dal bisogno. Anche se forse assume toni eccessivamente drammatici, il film evidenzia le difficoltà cui va incontro la dipendente, che oltretutto viene non creduta, additata e isolata da tutti. Solo la testimonianza di un'altra donna, apparentemente distante ma soli­ dale in quanto donna, la riabiliterà. In questo caso, del mondo del lavoro in cui si viene a trovare la donna, vengono enfatizzati soprattutto i problemi; ad ogni modo la fiction pone in luce una tematica sociale sempre attuale e reale, rispetto alla quale le donne negli ultimi anni sembrano aver preso maggiore consapevolezza. Si è voluto soltanto portare alcuni esempi che enfatizzano donne protago­ niste non per il loro fascino, ma per le loro capacità, professionali, sociali u­ mane. Una dimensione che gli stereotipi antropologici tendono invece a porre in ombra, associando la donna al suo privato e alle doti che nel privato la fan­ no vivere e la definiscono.

Ciò che la rappresentazione non dice

A conclusione della carrellata sulle diverse forme di rappresentazione della donna nei media, occorre sottolineare che come emerge da altre fonti e ricer­ che, la condizione femminile si evolve parallelamente alla rappresentazione che ne danno i mass-media, e spesso in maniera da essi distante. Tutte le ri­ cerche evidenziano, infatti, il farsi avanti di una identità femminile centrata su valori solidi, ed in parte tradizionali, e sulla spinta forte alla autorealizzazione nel lavoro e nella famiglia. Appare pertanto utile concludere l'excursus di questo contributo sulla rap48

presentazione delle donne nei media con un cenno alle evidenze emergenti da altre ricerche sulla identità femminile, potremo dire "senza e oltre" la rappre­ sentazione mediatica, che rimandano al parallelismo ipotizzato nel paragrafo di apertura. In particolare la ricerca condotta ancora una volta dal Censis nel 2006 per la Fondazione Schering, e intitolata "sei modi di essere donna", mette in evi­ denza un quadro generale che appare caratterizzato nello stesso tempo da una significativa continuità nella condivisione dei valori, e da una altrettanto mar­ cata trasformazione degli stili di vita. Interrogate a proposito delle differenze che le donne di oggi osservano tra sé e le proprie madri quando avevano la lo­ ro stessa età, il 60% circa delle italiane dichiara una sostanziale continuità a proposito dei valori in senso ampio (responsabilità, fede, famiglia, sentimen­ ti), e sostiene che non vi siano differenze sulla condivisione di principi solidi. Ma al tempo stesso emerge come la vita delle donne sia profondamente cam­ biata: 1'80,0% ritiene di avere più libertà individuale della madre, il 76,7% ci­ ta la libertà sessuale, così come sono ampiamente in maggioranza le donne che sentono di avere più aspirazione a realizzarsi sul lavoro ( 66,7%) di quanta ne avesse la loro madre. È soprattutto sugli stili di vita che le donne italiane individuano le differen­ ze più significative con le loro madri. Dal tempo libero (72,8%), alla vitalità culturale (70,3%), fino alla spensieratezza (64,9%) e alla qualità della vita in generale (66,4%), le donne italiane sentono di avere conquistato notevoli pos­ sibilità in più rispetto alla generazione precedente. In effetti le aspirazioni verso l 'indipendenza economica, e la realizzazione personale attraverso l'acquisizione di un ruolo nella società che non si limiti esclusivamente alla famiglia, hanno fatto irruzione nella coscienza della mag­ gioranza delle donne, sedimentandosi nelle nuove generazioni in modo tra­ sversale, e raggiungendo dunque anche quei segmenti della società che erano rimasti ai margini delle rivendicazioni di qualche decennio fa. Anche se nei fatti non sembra trattarsi di un'aspirazione che ha soppiantato radicalmente il modello tradizionale, e sembra invece che il bisogno di affer­ marsi nella società costituisca un elemento aggiuntivo nell'orizzonte di realiz­ zazione delle donne tradizionalmente rivolto alla sfera privata. È evidentemente su questo crinale, nel bisogno interiorizzato ormai dalla maggior parte delle donne di trovare e nella famiglia e sul lavoro la propria realizzazione che la maggior parte delle donne si trova a costruire la propria esistenza. L'analisi multivariata realizzata nel corso dell'indagine ha messo in luce come esista una porzione della popolazione femminile che, pure con difficol­ tà, riesce a mettere in pratica questo bisogno diffuso, a tenere insieme gli af49

fetti privati e nello stesso tempo a costruire una vita professionale appagante. Sono, appunto, le rispondenti confluite nel gruppo tipologico denominato Donne realizzate nella famiglia e su/ lavoro, che costituiscono il 20,7% delle italiane, e che emergono in modo piuttosto chiaro come le donne più serene, come quelle che nell'assunzione del doppio ruolo sembrano aver trovato un equilibrio, seppure faticoso, riuscendo per altro a mantenere attiva la loro vita culturale, a coltivare i propri interessi e le proprie passioni. A questo gruppo se ne affiancano altri cinque. In totale sei gruppi tipologici fortemente diffe­ renziati tra loro sulla base della presenza o meno di un rapporto di coppia. Infatti, i primi quattro gruppi (Donne realizzate, Famiglia e sacrificio, Ca­ salinghe sognatrici e Fidanzate fiduciose) sono costituiti nella loro quasi tota­ lità da donne sposate o da donne che, se non sposate, dichiarano di avere una relazione di coppia. Il quinto ed il sesto gruppo (denominati "le Single " e "Anziane sole ") sono composti invece quasi esclusivamente da donne che non sono sposate e non hanno una relazione di coppia (rispettivamente per il 96,0% ed il 95,5%). E se i primi quattro gruppi sono accomunati dalla condizione del rapporto di coppia, risultano comunque diverse le opinioni e soprattutto i vissuti, così come è molto diverso il modo in cui le Single e le Anziane sole vivono e per­ cepiscono la propria condizione. La sensazione di felicità, che in questo caso consiste in una dichiarazione del proprio stato generale svincolato dalla quotidianità e dalle contingenze, risulta diffusa in modo abbastanza trasversale tra i 6 gruppi, con l'eccezione assolutamente vistosa delle Anziane sole. Infatti il grado più alto di felicità si rileva tra le Donne realizzate, che si sentono molto felici nel 40,4% dei casi, e abbastanza felici nel 55,2%, per un totale di indicazioni positive che supera il 95%, mentre sono leggermente più bassi i valori fatti registrare dalle Casalin­ ghe sognatrici e dalle Fidanzate fiduciose. Pur rimanendo ampiamente mag­ gioritaria, la sensazione di felicità risulta meno frequente per le donne del gruppo Famiglia e sacrificio (87, 1 % in tutto) e per le Single. ***

La ricerca della realizzazione personale attraverso i l lavoro sembra peraltro ampiamente diffusa, per cui è circa il 70% delle donne a indicare di adottare questa prospettiva, mentre per il 30% le donne che lavorano definiscono la propria occupazione come qualcosa che non le appassiona e permette loro di vivere. In generale, sono le Donne realizzate e le Single, quelle che dichiarano più spesso di vivere in modo soddisfacente il proprio lavoro, a vedere una cor­ rispondenza tra esso e le aspirazioni che avevano quando hanno iniziato, e a 50

trovare in esso un'applicazione delle proprie competenze, mentre sono le donne dei gruppi Anziane sole e Famiglia e sacrificio quelle che, quando la­ vorano, esprimono meno soddisfazione per l'occupazione. Soprattutto, in maggioranza le donne italiane mostrano di costruire la pro­ pria identità in modo fondamentalmente autonomo rispetto ai modelli proposti dai media, in particolare nella pubblicità. A tale proposito, infatti, la quota più alta del campione (il 3 1 ,2%) si esprime sostenendo che si tratta di modelli per lo più irraggiungibili, che hanno il solo scopo di far sentire inadeguate le don­ ne reali, e similmente il 22,8% ritiene che si tratti di immagini ad esclusivo uso e consumo degli uomini. Anche se va detto che a fronte di un 54,0% complessivo che manifesta au­ tonomia rispetto a questi modelli, il 27,6% risponde che, pur trattandosi di immagini artificiali, molte donne vorrebbero in realtà somigliare alle donne che si vedono nelle pubblicità (in particolare si esprime in questo senso il 37,9% delle Fidanzate fiduciose), ed è il 1 2,0% a considerarle addirittura, in alcuni casi, modelli realistici nei quali ci si può identificare, e anche questa risposta viene fornita soprattutto dalle intervistate più giovani. Per altro, nel momento in cui si tratta di associare una serie di comporta­ menti e di stili di vita all'immagine della donna libera, emerge in modo nitido come la pressione dei media influenzi soprattutto alcuni gruppi nella costru­ zione del loro immaginario: se nel complesso, infatti, è il 55,8% delle italiane a non vedere nel fare molto shopping un'immagine di donna libera, va rileva­ to come i gruppi si sgranino in modo deciso su questo punto, dal momento che 1'89,8% delle Casalinghe sognatrici la pensa esattamente all'opposto, e che questa opzione è maggioritaria anche tra le Fidanzate fiduciose (55,6%). Andamenti simili, per altro, si ritrovano anche a proposito del sottoporsi ad un intervento di chirurgia estetica, senza che le condizioni cliniche lo rendano necessario, per cui il 72,3% del campione non proietta in una scelta di questo tipo l'immagine di una donna libera, ma è il 66,7% delle Casalinghe sogna­ trici a pensare il contrario, e addirittura a proposito dell'avere frequentemente rapporti occasionali, comportamento che il 55,7% delle donne di questo grup­ po associa alla sua idea di donna libera, mentre la maggioranza delle italiane, per il 77, 7%, si esprime in senso opposto. Molto di più, e forse di meglio, esiste ed appare, quindi, sotto il cielo della realtà femminile, di quanto non emerga dalla rappresentazione che ne danno i mass-media, e non rimane che da augurarsi che questi stessi se ne rendano a­ deguatamente conto ed illuminino meglio il proprio campo di osservazione e rappresentazione.

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Le discriminazioni di genere nel mondo de/ lavoro di Irene Giacobbe

Preméssa

La discriminazione sui luoghi di lavoro colpisce in ogni parte del mondo milioni di lavoratrici e lavoratori ed è un fenomeno tutt'altro che superato. In Europa, le azioni per il contrasto e la lotta contro tutte le forme di di­ scriminazione sul lavoro sono state oggetto di ripetute direttive, risoluzioni e interventi da parte dei diversi organismi dell'Unione Europea1 • I Paesi mem­ bri sono stati continuamente sollecitati ad adottare misure concrete contro le disparità di trattamento (discriminazione diretta) e contro le disposizioni o prassi apparentemente neutre (discriminazione indiretta) che di fatto pongono in condizioni di svantaggio alcuni gruppi di individui sulla base di caratteristi­ che personali quali sesso, origine etnica, convinzioni personali, credenze reli­ giose, orientamento sessuale, età, handicap. I Paesi membri dell'VE sono stati chiamati ad allineare le normative nazio­ nali alla direttiva sull'uguaglianza razziale entro il 1 9 luglio 2003, ed alla di­ rettiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione entro il 2 dicembre 2003 . Le due direttive integrano la legislazione che combatte la discrimina­ zione sessuale2 •

1 La direttiva 2000/43/CE sull'uguaglianza razziale, che vieta qualsiasi forma di discrimina­ zione basata sulla razza o sull'origine etnica; la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, che vieta la discriminazione fondata su re­ ligione, convinzioni personali,handicap, età o tendenza sessuale; la direttiva 2006/54/CE ri­ guardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomi­ ni e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) 2 La normativa che combatte la discriminazione sessuale comprende la direttiva sulla parità di trattamento tra gli uomini e le donne (2002/73/CE), che modifica la precedente direttiva del 1 976 (76/207/CEE)e contiene disposizioni per imporre la parità di trattamento. Entrambe le direttive sono sostenute da un programma d'azione (istituito con la decisione del Consiglio

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L'Italia a luglio 2003 ha approvato due decreti legislativi - n. 2 1 5/2003 e n. 2 1 6/2003 - destinati ad allineare la normativa italiana alle disposizioni delle Direttive Europee 43/2000 e 78/2000. Nell'emanare le due direttive l ' UE ha esplicitamente sottolineato la necessità di implementare le politiche di inter­ vento a fronte di reali condizioni di discriminazione nell'occupazione e nelle condizioni di lavoro, accertate in sede scientifica, politica e giudiziaria.

Alle origini delle discriminazioni

Le modalità di alcune forme di discriminazione e le condizioni di disparità nell'occupazione e nelle condizioni di lavoro sono state ampiamente studiate nella letteratura scientifica, soprattutto a partire dagli anni '70. Negli Usa, in particolare, numerose ricerche hanno analizzato ed approfondito i temi della discriminazione di genere e della discriminazione dei cittadini basata sulla provenienza geografica e sull'origine etnica. In Italia, grazie alla spinta di movimenti ed organizzazioni - tra cui rilevan­ te l'impulso del movimento femminista e delle organizzazioni di donne all'interno del sindacato - si è dato notevole spazio alla ricerca empirica sulle discriminazioni di genere nel mondo del lavoro. Viceversa, solo di recente e con un certo ritardo si è dato impulso alla ricerca sulle discriminazioni legate all'età, ali 'handicap, alle credenze religiose o all'orientamento sessuale. Alcune delle forme più evidenti di discriminazione e violenza sul lavoro sono oggi scomparse in molti paesi, ma altre e più subdole forme di discrimi­ nazione ne hanno preso il posto. Basti pensare alle discriminazioni verso i ma­ lati di aids, e più in generale verso le persone con malattie a lungo decorso, alle discriminazioni legate all'origine sociale, all'appartenenza politica e sin­ dacale, all'appartenenza a minoranze o ad alcune fasce di età. Poiché in molti casi la discriminazione è multipla é importante che tutte le forme di discriminazione vengano individuate e combattute insieme. Le con­ dizioni, l'origine e le modalità di alcune specifiche forme di discriminazione a volte strettamente intrecciate le une alle altre sono state d' altra parte ampia­ mente studiate.

20001750/CE). Il programma promuove misure pratiche per combattere le discriminazioni e­ spressamente vietate dalle direttive, ad esempio attraverso azioni che si prefiggono di migliora­ re la conoscenza di diritti ed obblighi e di modificare costumi e comportamenti.

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Definizione e "variabili " di discriminazione Il discriminare ovvero l'azione del distinguere o differenziare una o più persone dalle altre non ha di per sé una connotazione negativa; la assume nel momento in cui all'interno di una data società, alcuni gruppi della popolazio­ ne, classificati in base a caratteristiche personali, vengono non soltanto distinti dagli altri ma per questo stesso fatto si trovano in una condizione di svantag­ gio. Vale a dire che rientrano in categorie considerate minoritarie in virtù non di un'esiguità numerica rispetto ad una maggioranza, ma perché considerati come facenti parte di una categoria, di un gruppo "differente" dalla norma. Non deve quindi stupire che anche le donne possano essere considerate, da questo punto di vista, una "minoranza"3 . La categoria di "minoranza" oggetto di discriminazione è stata in seguito allargata ad altre fasce della popolazione sulla base di caratteristiche diverse non soltanto fisiche o evidenti, quali sesso, età, colore della pelle, o handicap, ma anche di caratteristiche apprese o non visibili quali appartenenze politiche, orientamenti sessuali, credenze religiose. In ogni caso le variabili che determinano forme di discriminazione possono essere raggruppate secondo due grandi sottoinsiemi legati alla dimensione temporale: da una parte le caratteristiche mutevoli cioè quelle caratteristiche suscettibili di modifica nel corso della vita di un individuo (come l'età, l'aspetto fisico, lo stato civile, le convinzioni), e dall'altra caratteristiche rela­ tivamente stabili (quali ad esempio il sesso, il colore della pelle, la provenien­ za geografica). Ciò non significa che non possano verificarsi situazioni com­ plesse e trasversali in cui la visibilità di una caratteristica appresa o modificata nel tempo può essere parte integrante di un processo identitario di una mino­ ranza che richiede visibilità (si pensi ad esempio ai transessuali, agli apparte­ nenti a determinate chiese o religioni, agli appartenenti a comunità di immi­ grati).

3 Negli Stati Uniti, a partire dagli anni sessanta, a seguito dell'intreccio delle lotte del mo­ vimento femminista e dei movimenti di liberazione afro-americani, anche le donne furono fatte rientrare nel concetto di "minoranza discriminata" in base al presupposto che queste fasce della popolazione erano state entrambe oggetto di una sistematica discriminazione.

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La discriminazione di genere nel mondo del lavoro

Per quanto riguarda i processi discriminatori nel mondo del lavoro le teorie 4 e le ricerche in campo economico e sociologico parlano di discriminazione quando delle persone appartenenti a "minoranze " sono oggetto di violazioni di diritti, limitazioni delle loro opportunità, non valorizzazione delle loro po­ tenzialità, e vedono accentuare tensioni e disuguaglianze di trattamento nell'accesso al lavoro, nell'accesso alla formazione, nell'avanzamento di car­ riera, nelle forme di retribuzione, e, in alcuni casi sono oggetto di vere e pro­ 5 prie forme di vessazione e violenza sul lavoro attraverso molestie e molestie 6 sessuali • Un'ampia e documentata mole di ricerche in ogni settore dell'attività lavo­ rativa ha dato evidenza alle discriminazioni di genere nei confronti delle don­ ne, discriminazioni che accumulandosi lungo tutto l'arco della vita lavorativa producono effetti nella fase successiva al periodo di lavoro con pesanti ricadu­ te a livello pensionistico. Benché i comportamenti discriminatori siano tutti sanzionabili, è tuttavia necessario, affinché la sanzione venga applicata e i comportamenti discrimi­ natori cessino, che vengano identificati e segnalati come tali. Questo processo di riconoscimento del comportamento discriminatorio è fortemente legato da un lato alle condizioni culturali ed alla consapevolezza delle persone che ne sono oggetto, dall'altro risulta condizionato dall'ambiente sociale e dalle condizioni di lavoro e del mercato del lavoro. Tutte le ricerche e rilevazioni condotte in Italia e in Europa negli ultimi dieci 4 DIR-2006/54-CE - Art 2 - Definizioni: a) "discriminazione diretta" situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto una persona sia, sia stata o sarebbe trattata in situazione analoga". DIR-2006/54-CE - b) "discriminazione indiretta" situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell'altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari". 5 DIR-2006/54/CE Molestie - Art. 2 - Definizioni - c) "Molestia" situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradan­ te, umiliante o offensivo". 6 DIR-2006/54/CE - d) "Molestie sessuali": situazione nella quale si verifica un comporta­ mento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma verbale, non verbale o fisica, avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona, in particolare attraverso la crea­ zione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo".

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anni concordano nel sostenere che le discriminazioni più diffuse nei confronti delle donne riguardano prevalentemente alcune specifiche e peculiari aree. Graf l - Discriminazioni sul posto di lavoro.

Fattori di discriminazione, confronto 2002-2006

Orientamenti sessuali

Opinioni politiche

Religione

Nazionalttàlprovenienza

Handicap

Genere

Età

Fonte : 2° Indagine lsfol sulla "Qualità del Lavoro in Italia" 2006. In corso di pubblicazione. Confronto tra la prima e la seconda indagine Isfol sulla qualità del lavoro

Le discriminazioni nell 'accesso a/ lavoro "Ai fini dell'applicazione del principio della parità di trattamento tra uomi­ ni e donne in materia di occupazione e impiego, è essenziale garantire la pari­ tà di accesso al lavoro e alla relativa formazione professionale". 7 Quando un modulo per l'assunzione contiene domande sullo stato di fami­ glia, sullo stato di gravidanza, sulle intenzioni di vita future (ad esempio, fi­ danzarsi, sposarsi, avere figli) bisogna sapere che tutto ciò è vietato dalla leg­ ge.

7 Parità di trattamento -Direttiva 2006/54/CE - Direttiva del Parlamento europeo e del Con­ siglio riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) - Premessa: punto 1 9.

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Quando ali ' atto dell'assunzione si è invitate a sottoscrivere dimissioni in bianco o viene richiesto di sottoporsi a test di gravidanza, bisogna sapere che tutto ciò è vietato dalla legge. Quando all'atto dell'assunzione si richiedono particolari requisiti quali ad esempio altezza minima stabilita in misura uguale per uomini e donne, o par­ ticolari prove di capacità di forza fisica (che le donne in genere non acquisi­ scono) molto probabilmente si è di fronte ad una discriminazione indiretta e sarà necessario dimostrare che quei requisiti sono essenziali allo svolgimento della mansione.

Discriminazioni nell 'accesso allaformazione

"È vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto at­ tiene: alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro . (omissis); all'accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professio­ nali."8 Quando si lavora da tempo all'interno di un'azienda che promuove e orga­ nizza per i dipendenti corsi di formazione professionale, ma non si riesce ad accedervi, a differenza di quanto accade per i colleghi maschi; quando si lavo­ ra ad orario ridotto (part-time)9 e si viene escluse dai corsi di perfezionamento o aggiornamento professionale; quando i corsi di formazione vengono orga­ nizzati in orari di lavoro inconciliabili con le esigenze personali e familiari; quando i corsi vengono organizzati in luoghi lontani dalla residenza abituale e/o per lunghi periodi; quando i corsi di aggiornamento e formazione vengono programmati durante il periodo di congedo per maternità e pur non compor­ tando alcun rischio per la salute della madre e del bambino non vengono co. .

8 DIR.2006-54-CE - Capo 3°- Parità di trattamento per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro. Art. 14. Divieto di discriminazione. 9 "Un ulteriore punto critico è costituito dal permanere del divario di genere nel lavoro a tempo parziale scelto dal 32,6% delle donne occupate contro il 7,4% degli uomini. Sebbene il ricorso al tempo parziale possa riflettere preferenze personali e possa aiutare a (ri)entrare e ri­ manere nel mercato del lavoro, l'elevato divario tra donne e uomini è anche indice di diversi modelli di impiego del tempo e del tipo di carriera prevalentemente riservata alle donne, non­ ché delle maggiori difficoltà che affrontano nel tentativo di conciliare attività professionale e vita familiare". COM(2006)/7 l definitivo. Pag 6

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municati; 10 ebbene, in tutti questi casi siamo di fronte a forme di discrimina­ zione di genere.

Discriminazioni nella progressione di carriera: il "tetto di cristallo " Quando si lavora ad orario ridotto (part-time) e non viene riconosciuto un avanzamento di carriera; quando il percorso di carriera risulta molto più lento di quello del collega maschio, a parità di formazione e di assunzione; quando sembra che siano preclusi alcuni posti apicali alle donne (Glass cei/ing) mal­ grado titoli, formazione e competenze; quando a parità di mansioni ad una donna viene attribuita una qualifica inferiore a quella del collega maschio; in tutti questi casi siamo certamente di fronte a disposizioni o regolamenti interni contrari al principio della parità di trattamento, e a discriminazioni di genere.

Discriminazioni salariali "In Europa in media le donne guadagnano il 1 5% in meno degli uomini per ogni ora lavorata. Ciò è dovuto sia al mancato rispetto della legislazione sulla parità retributiva, sia a una serie di ineguaglianze strutturali, quali la segrega­ zione nel mercato del lavoro, modalità di lavoro diverse, differenze nell'accesso a istruzione e formazione, sistemi di valutazione e di retribuzione discriminanti e stereotipi" 1 1 • Quando a parità di inquadramento con un collega maschio, le donne perce­ piscono un salario inferiore; quando non viene riconosciuto alle donne un sa­ lario aggiuntivo, a differenza di quanto accade per un collega maschio, e la decisione si basa su poteri discrezionali; quando una percentuale del salario è legata alla presenza sul posto di lavoro, scollegata dall'effettiva qualità e quantità del lavoro svolto; quando sistemi di valutazione discriminanti conti­ nuano a pregiudicare la carriera e la retribuzione delle donne, perpetuando la 10

Dir. 2006-54-CE -Titolo l 0, Art. 2. Definizioni - comma 2 -"ai fini della presente diretti­ va la discriminazione comprende: . . . (omissis) . . . c) qualsiasi trattamento meno favorevole ri­ servato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE". 11 COM(2006)7 1 definitivo - Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Eu­ ropeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni - sulla Parità tra Donne e Uomini - 2006. Pag. 6

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segregazione occupazionale; in tutti questi casi siamo di fronte a disposizioni legislative regolamentari e amministrative o ad accordi contrari ai principi della parità di trattamento, e a discriminazioni di genere.

Le molestie sessuali

La forma più diffusa di discriminazione di genere è quella legata alle mole­ stie sessuali sul posto di lavoro 12 • Le molestie sessuali contro le donne sul posto di lavoro sono una realtà di sopraffazione antica e consolidata, una forma di violenza coperta da omertà e silenzio, che le donne hanno subito per secoli. Soltanto in tempi relativamente recenti le molestie sessuali sono state riconosciute e così nominate dalle don­ ne. Esse sono una forma di discriminazione e violenza a sfondo sessuale, strettamente connessa all 'abuso di potere sul posto di lavoro. Alla fine degli anni ' 80 le istituzioni europee hanno iniziato ad occuparsi specificamente delle molestie sul posto di lavoro, a seguito di un'indagine co­ noscitiva svolta tra i paesi della Comunità Europea che svelava le dimensioni preoccupanti e la gravità del fenomeno. Le prime linee guida europee, emana­ te nel 1 99 1 13 , ponevano l'accento sulla necessità di prevenire le molestie sul lavoro . Le molestie sessuali, come tutte le forme di violenza, hanno conseguenze gravi per chi le subisce e costi sociali elevati. Le vittime di molestie sessuali sul lavoro, si ammalano, perdono interesse al lavoro, si isolano o vengono iso­ late, non riescono a concentrarsi, si licenziano o "perdono" il lavoro. I congedi per malattia cui ricorrono le donne vittime di molestie, i licen­ ziamenti o le dimissioni, le (poche) azioni in giudizio intraprese a seguito di denunce, danneggiano sia le persone coinvolte, indipendentemente dal ruolo che ricoprono, sia l'ambiente dì lavoro, sia l'azienda. Le molestie sessuali sul lavoro, spesso sotto forma di veri e propri ricatti O ci stai o te ne vai attac­ cano profondamente il diritto al lavoro e la stessa capacità di vita delle perso­ ne contro cui vengono rivolte. Un ambiente di lavoro inquinato dalle molestie diventa un luogo invivibile, un ambiente ostile per tutti. Se il molestatore non viene rimosso per tempo, le -

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Per la consultazione di dati sulle molestie sessuali si rimanda al sito dell'osservatorio di So!idea. 13 Ineke de Vries e Michael Rubeste (a cura di) ( 1 99 1 ) in Guida pratica per l 'attuazione del Codice di condotta europeo contro le molestie sessuali sul posto di lavoro.

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ripercussioni negative delle molestie si estendono per lunghi periodi, coinvol­ gendo la vita privata oltre che professionale delle persone, con ricadute nega­ tive anche per l'azienda o l'ente. Per questi motivi è conveniente per tutti prevenire l'insorgere di casi di mo­ lestie, predisporre strumenti perché i "segnali di preavviso" possano essere precocemente riconosciuti e perché possano essere avviate iniziative e impo­ state strategie per combatterle. In Italia, in assenza di una legge specifica che riconosca la peculiarità e gravità delle molestie sessuali sul posto di lavoro, si è fatto ricorso agli stru­ menti previsti dalla legge 1 25/9 1 contro le discriminazioni di genere sul posto di lavoro. In tutti i Contratti nazionali di lavoro sono state introdotte specifi­ che norme antimolestie, in molti casi predisponendo anche specifici Codici di condotta aziendali. La sensibilità dell'opinione pubblica sul tema delle molestie come forma di discriminazione diffusa è cresciuta anche a seguito dei dati della prima inda­ gine nazionale sulla violenza realizzata dall'Istat14 • I dati dell'indagine Istat hanno confermato su vasta scala i dati delle inda­ gini condotte su scala ridotta dalle associazioni di donne e dai coordinamenti delle donne delle organizzazioni sindacali. E sono dati allarmanti per la gran­ dezza dei numeri - le donne che nel corso della propria vita dichiarano di aver subito molestie sono il 5 1 ,9% delle intervistate (24,4% negli ultimi 3 anni) - e significativi per la gravità del fenomeno che se ne deduce.

Quali proposte, in quali ambiti

È evidente che per affrontare un fenomeno di queste dimensioni e gravità non è possibile limitarsi all'elaborazione di una norma o di una singola politi­ ca. In quanto abuso di potere la molestia sessuale può esercitarsi in altre sfere e in altri campi così come può applicarsi su fondamenti diversi dal sesso. Ben venga dunque l'elaborazione di una legislazione antidiscriminatoria tenendo presente che questa deve integrarsi ali' interno di una legislazione orientata a proteggere i diritti della persona. In tal senso deve essere chiaramente sottolineato il fatto che la molestia e­ sercitata in un rapporto di lavoro subordinato è una circostanza aggravante del 1 4 L.L.Sabbadini, Indagine sulla violenza e le molestie in Italia in: "Indagine sulla sicurezza dei cittadini", Istat 1 998

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reato. Inoltre, deve essere evidenziato il fatto che la molestia sessuale che av­ viene nell'ambiente di lavoro poggia, esplicitamente o meno, sulle regole di funzionamento dell'impresa o dell'ente, e va quindi prevista nel quadro delle norme sulle condizioni di lavoro, da segnalare, rivedere, negoziare e aggiorna­ re alla luce dell'esperienza. Né può essere dimenticato o sottovalutato il fatto che le conseguenze gravi sulla salute delle vittime vanno riconosciute come "malattie da lavoro" e come tali risarcite. Infine, deve essere evidenziato il fatto che in mancanza di una legislazione paritaria e non sessista, le molestie, la violenza, e la "svalorizzazione delle donne" restano, e perdurano come forme di espressione dei "valori" che in­ formano una parte della nostra società.

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Il 'genere ' del tempo di Fio ren za Der iu

Premessa

Con la fine della società industriale, fondata sul modello fordista, che asse­ gnava agli uomini il compito della produzione e alle donne quello della ripro­ duzione, all'interno di un paradigma caratterizzato da una rigida divisione dei ruoli (quello del male breadwinner, per i primi; quello di madri e custodi del focolare domestico, per le seconde) e dalla centralità del tempo del lavoro re­ munerato (Sue, 1 994; Leccardi, 1 998), il dibattito e la riflessione scientifica sul "tempo delle donne" hanno coinvolto un numero sempre maggiore di stu­ diosi e studiose. Infatti, con l ' avvento della società post-industriale, all'interno della quale è maturata la consapevolezza civica e socio-politica dei movimenti femminili, la donna ha visto aumentare progressivamente la propria partecipa­ zione al mercato del lavoro, alla quale però non si è accompagnato un paralle­ lo e contemporaneo processo di trasformazione dei modelli di ruolo all'interno della famiglia e della coppia, più in generale. È vero, le donne han­ no conquistato spazi di realizzazione in precedenza riservati ai soli uomini e nel giro di poco più di trent'anni l'Italia ha visto aumentare i tassi di occupa­ zione femminile di oltre 25 punti percentuali (passando dal 20% ca. degli anni Settanta al 45,3% del 2005). A questo nuovo impegno delle donne ali' esterno dello spazio familiare non è seguito tuttavia un altrettanto importante cambiamento nella gestione e nella divisione dei compiti da svolgere all 'interno della famiglia, in particolare con riferimento al lavoro domestico e di cura. I confini del tempo sociale della donna, in precedenza circoscritto alle mura domestiche, erano segnati dallo svolgimento ciclico e lineare dei lavori di casa, educativi e di cura (di figli o familiari anziani) nel l 'interpretazione quotidiana del ruolo di moglie e di ma­ dre. Nella società post-industriale i tempi della donna si sono moltiplicati e differenziati, ponendola di fronte al difficile compito di gestire, con sapienti "giochi di equilibrio" (Leccardi, 1 998), l 'eterogeneità e la frammentazione dei 62

tempi di vita quotidiani (D'Alessandro, 2002). Tuttavia, di fronte a questa stì­ da del tempo, nel "suo tempo", la donna ha saputo rispondere in modo creati­ vo, dando vita ad arcipelaghi esistenziali dai centri molteplici, il cui filo con­ duttore è dato dalla capacità di tessere reti, di costruire tessuti relazionali soli­ di su cui poter contare al momento debito. L'orientamento femminile alla re­ lazione ha consentito alla donna di dotarsi di un capitale sociale di cui gli uo­ mini non dispongono, perché diverso è il loro modo di costruire il quotidiano. La "doppia presenza" della donna (Balbo, 1 978; Bimbi, 1 985; Saraceno, 1 987; Leccardi, 1 998; D 'Alessandro, 2002), dentro e fuori la famiglia, si gio­ ca al di fuori di logiche gerarchiche, su un piano paritario che si scompone e ricompone nel corso della vita a seconda delle situazioni da gestire e organiz­ zare e dei diversi centri, pubblici e privati, nei quali si esprime e si realizza la sua esistenza. Ha dunque senso affermare che esiste un "genere" del tempo, perché il tempo delle donne e degli uomini nella società contemporanea, inteso sia in termini quantitativi (come tempo disponibile e gestito), che esistenziali (come spazio di costruzione dell'identità soggettiva, come spazio "per sé") presenta significative e sostanziali differenze. Tuttavia, affermare che il tempo ha un genere non significa rinunciare all'idea che "il nuovo tempo" delle donne non possa che realizzarsi in uno spazio sociale dove uomini e donne convivono, e dove entrambi sono chiamati a ri-costruire, a ri-comporre un modello di reci­ procità temporale capace di rispondere alle sfide della società contemporanea.

Un primo bilancio

Affermare la capacità delle donne di gestire uno spazio temporale multidi­ mensionale complesso, non esime dal mettere in luce quei cambiamenti che, influendo sull'organizzazione del tempo, hanno indotto le donne a modificare alcuni comportamenti, con conseguenze di diverso ordine. Prima fra tutte: il declino del tasso di fecondità 1, tra i più bassi in Europa occidentale ( l ,3 nel 2005) (Istat, 2005). Le donne tendono, infatti, a posticipare l'esperienza della maternità, se non addirittura a rinunciarvi, a causa di un complesso sistema di cause di ordine economico, ma soprattutto organizzativo, cui si lega la diffi­ coltà di conciliazione tra i tempi di lavoro e quelli da dedicare alla famiglia. Eppure, in passato, intorno agli anni Settanta, altri paesi del Nord-Europa 1

Numero medio di

figli per donna.

63

hanno attraversato problematiche assai simili. Alle quali, però, hanno saputo rispondere con efficaci misure di policy, che hanno sostenuto il contenimento del trend. Si tratta di Paesi come la Svezia, la Danimarca e la Finlandia o la stessa Francia, che presentano oggi i tassi di fecondità tra i più alti in Europa (seppur al di sotto del livello di sostituzione della popolazione) (Fig. 1 ) . Fig. l - Numero medio difigli per donna nei paesi VE - Anno 2005 (a) 2,5 �-----, 2 �-------1

1 ,5

0,5

�------�---11��---��-..J

+-11���----�--��---�-III-II�-�-���-..J

Fonte: Eurostat, Population in Europe 2005: first results, 2006 (a) Per il Belgio il dato si riferisce a una stima provvisoria. Il dato per UE-25 è provvisorio.

Se è vero, infatti, che le donne sono maggiormente coinvolte nel mercato del lavoro, è altrettanto vero che si trovano a dover gestire un duplice carico di lavoro: fuori e dentro le mura domestiche. Il lavoro in casa, non riguarda necessariamente la cura dei figli, quanto quello, in una società caratterizzata da un crescente invecchiamento, di assistenza di familiari anziani, scarsamen­ te o non più autosufficienti. Non sarebbe corretto, tuttavia, non ricordare che anche gli uomini vanno sempre più posticipando la scelta della paternità, in modo ancor più accentuato di quanto non facciano le donne. Tuttavia, le loro motivazioni si legano maggiormente alle condizioni di scarsa stabilità econo­ mica offerta dalla nuova "società dei lavori flessibili", nella quale gli orizzonti di progettualità familiare sembrano accorciarsi. La "flessibilità" nasconde spesso la c.d. trappola della precarietà, caratterizzata dalla successione inter­ mittente di contratti a termine, suscettibili di possibili rinnovi, più o meno prevedibili. La difficoltà di conquistare uno spazio di autonomia, costruito 64

sulla base di una indipendenza economica, induce i giovani-adulti della socie­ tà contemporanea a "navigare" a vista, contando sul qui e ora, !imitandone la capacità di proiettarsi in avanti. Le donne, dal loro canto, quando riescono ad entrare nel mercato del lavo­ ro, si devono confrontare con scelte spesso alternative: la carriera o il figlio, il lavoro, l'indipendenza economica o la famiglia. Quando scelgono di seguire entrambe le vie, spesso si trovano a dover studiare strategie alternative di con­ ciliazione. Così il part-time e le forme di lavoro flessibile diventano la solu­ zione, non una soluzione. In Italia, la percentuale di occupate part-time è del 25,6% contro il 4,6% degli uomini; l'incidenza del lavoro a tempo determina­ to è del 1 4,7% contro il 1 0,5% (lstat, 2006). Queste forme di lavoro flessibile costituiscono da una parte, un oggettivo strumento di conciliazione lavoro­ famiglia per le lavoratrici con figli; dali' altra, una via di primo accesso al mercato del lavoro, per quelle più giovani. Tuttavia, la diffusione di queste forme di lavoro flessibile tra le donne mette in luce come il problema della conciliazione costituisca una questione di interesse squisitamente femminile, che sfiora soltanto il quotidiano della componente maschile della coppia. Lo stesso vale se si analizza il ricorso alle opportunità di conciliazione messe a disposizione di uomini e donne, paritariamente, dalla legge 53 del 20002 , diretta a "promuovere un maggiore equilibrio tra i tempi di lavoro, di cura, di formazione e relazione" (Gavio e Lelleri, 2006). Tra le novità di que­ sta legge è compresa l'estensione del diritto di usufruire in modo continuativo o meno dei congedi parentali ad entrambi i genitori lavoratori, per un periodo in totale non superiore ai l O mesi entro i primi otto anni di età del bambino. I risultati di una ricerca, condotta ne1 2005 a livello nazionale dall'Osservatorio nazionale sulla Famiglia su incarico del Ministero delle Politiche sociali e del lavoro, mostrano che i padri, che nel 2004 hanno usufruito di congedi parenta­ li, sono stati un quarto del totale degli utilizzatori, confermando la tendenza prevalente delle donne a ricorrere a tale beneficio previsto per legge (Gavio e Lelleri, 2006). I tassi di utilizzo dei congedi parentali sono più alti al Nord che al Sud, anche se nel Meridione la differenza tra i tassi di utilizzo delle donne rispetto agli uomini è più contenuta, probabilmente a causa della maggiore mascolinizzazione ed anzianità dei dipendenti impiegati nel settore pubblico in questa area del Paese. Ad ogni modo si tratta di valori ancora estremamente bassi, indice anche di una scarsa informazione sulla disponibilità e sulle effet-

2 "Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città".

65

tive modalità di utilizzo di questi benefici. Tutti questi elementi sembrerebbero convergere verso un elemento comu­ ne: la debolezza di una cultura della condivisione del lavoro domestico e di , .J ....u. cura tra uomini e donne. Questo vale nonostante recenti dati Istat....abbia no messo in luce come gli uomini abbiano cominciato a farsi maggiormente pre­ senti nella vita familiare a supporto delle loro compagne (Sabbadini, 2005)

'""' sembre­ Ad un'analisi più attenta, tuttavia, l'impegno dell'uomo in famiglia"�·�uv•

rebbe ancora estremamente selettivo, diretto cioè allo svolgimento di quella

..JO bambino. attività maggiormente gratificanti (portare a passeggio, giocare colVatllVJJ

cucinare ma non lavare i piatti, stirare etc.). La conciliazione dei tempi del lavoro e della famiglia rimane, dunque, una sfida ancora tutta al femminile.

I tempi delle donne "In tutti i Paesi dell'Unione Europea il tempo di lavoro totale delle donne è maggiore di quello degli uomini" (Istat, 2006). La ragione sta nel consistente impegno delle donne nei lavori di casa e nel lavoro di cura dei figli e/o di assi­ stenza di famigliari anziani e disabili. Rispetto al carico di lavoro generico, le donne italiane lavorano di più rispetto a quelle di altri Paesi europei, e regi­ strano il primato del carico di lavoro famigliare (5h 20m contro lh 35 m degli uomini) e, al contempo, i più alti differenziali nel tempo dedicato alla famiglia rispetto agli uomini (circa 4 ore) (Fig. 2). Il caso italiano si presenta, dunque, come un caso sui generis: per questo è opportuno analizzare in modo più pre­ ciso la distribuzione settimanale dei tempi delle donne rispetto al lavoro retri­ buito, all'istruzione e alla formazione, al lavoro familiare, all'impegno in as­ sociazioni di volontariato, alla partecipazione sociale e religiosa, al tempo li­ bero, così come alla vita sociale, alla visione di spettacoli e alla adesione ad attività culturali, alla lettura, all'ascolto della radio, alla visione della TV, alla navigazione su Internet, agli spostamenti e a tutte le altre attività del tempo libero. Il tempo delle donne, infatti, non si esaurisce nell'attività lavorativa remu­ nerata e nell'impegno famigliare. C'è uno spazio temporale in cui abitano il tempo libero ed il "tempo per sé".

66

4.55 4.30

1.37 2.22

2.26

2.31

2.06

3.41

3.41

2.29

2.59

2.49

3.12

2.33

4.39

4.03

4.26

5.09

4.55

3.46

4.15

4.07

4.01

4.25

4.18

Spagna

Francia

Italia

Lettonia

lituania

Unghena

Polania

Slovenia

Finlandia

Svezia

Regno Unito

2.18

2.29

2.16 4.15

3.42

3.56

4.45 4.58

2.22

4.58

4.29

3 56

2.40

2.40

2.09

1 .50

6.36

6 54

6.17

6.47

6.37

6.26

7 04

6 59

6.01

6.25

Nota: Rilevazioni realizzate tra il 1 998 ed il 2004

6.48

6.54

6.45

7.57

7.14

7.30

8.10

7.37

7.26

7.01

7.21

7.35

6.28 6. 1 6

6.16

6.39

5.56

6 08

Donne

Totale lavoro Uomini

Fonte: Eurostat, A statistica! view ofthe !ife ofwomen and men in the EU-25

2.32

5.02

2 .48

2.33

3.40

Estonia

5.20

4.11

2.21

2.05

135

Germania

1.35

4.32

2.38

Donne

Lavoro familiare Uomini

2.07

Donne

3.30

Uomini

Lavoro retribuito e studio

Belgio

PAESI

2.04

2.11

2.01

2. 13

2.23

2.31

2.25

2.10

2.59

3.01

2.35

2.15

2.33

2.40

Uomini

2.33

2.16

2.28

2 06

2.08

2.29

2.19

2.22

2.10

2 53

3.02

5.32

5.24

6.08

5 34

5.25

5.29

4.50

4.48

5.08

4.46

5.17

5.28

5 52

2 43 2.08

5.22

5.04

5.04

5.30

4.29

4.36

4.38

3.49

4.09

4.08

4.08

4.29

4.36

5.24

4.50

Donne

Tempo libero Uomini

2.43

Donne

Pasti e cura personale

Fig. 2 - Uso del tempo da parte di donne e uomini in età compresa tra 20 e 74 anni, ore e minuti al giorno - Anni vari

Molto spesso il "tempo per sé" è stato diluito nel tempo libero a tal punto da svanire del tutto, perdendo di consistenza. È stato relegato ad un ruolo se­ condario, marginale, quasi ininfluente. Mentre in questo tempo intimo, tutto interiore, è contenuto un peso specifico sociale molto alto. "Il recupero di un margine più ampio di 'tempo per sé' diventa importante non solo per il singo­ lo, ma anche per tutto il sistema sociale" (D'Alessandro, 2002). L 'Indagine Multiscopo sulle famiglie ha previsto nel biennio 2002-2003 l'aggiornamento dell'approfondimento sull'uso del tempo, già effettuato negli anni 1 988- 1 989, proprio con riferimento a tutte le attività sopra menzionate (Fig. 3). La durata media generica del lavoro retribuito in un giorno medio settima­ nale ammonta a 3h42' per gli uomini e ad 1 h35' per le donne (Naturalmente, questi valori risentono del fatto che la durata media generica, riferita a qual­ siasi attività svolta, indica il tempo mediamente dedicato ad una certa attività da tutta la popolazione, compresi, dunque, quanti non l'hanno svolta). Il ricorso a questo indicatore, "che si traduce in una misura astratta che non descrive la vita quotidiana reale a livello individuale" (Cappadozzi, 2006), è giustificato dal fatto che consente confronti tra gruppi di popolazione a livello aggregato. Pertanto, nel caso appena riportato, relativo al tempo medio gene­ rico dedicato al lavoro retribuito, occorre tener presente che risente delle dif­ ferenze di genere nei tassi di occupazione e delle fasce di età. Tempo, dunque, che tocca i valori più alti in corrispondenza della fascia di età 25-44 (con 5h40' per gli uomini e 2h42' per le donne) e quelli più bassi in corrisponden­ za della fascia di età più anziana, caratterizzata dal pensionamento. Le donne dedicano minor tempo all'attività di lavoro retribuito a conferma della loro minore presenza sul mercato del lavoro e di una partecipazione caratterizzata da contratti a tempo parziale o flessibile. Il tempo dedicato all'istruzione e alla formazione interessa principalmente le fasce di età più giovani (dai 1 4 ai 24 anni) e vede coinvolte in misura maggiore le donne (2h58') rispetto agli uo­ mini (2h36'). Il tempo dedicato allo studio si riduce drasticamente in corri­ spondenza della fascia di età 25-44, che è quella del lavoro e della famiglia, per azzerarsi nelle fasce di età più mature e in quella anziana (a riprova di uno scarso peso del /ife-long learning). Tanto nel caso del lavoro retribuito, che in quello della formazione e dell'istruzione, il giorno feriale risulta essere quello in cui si concentrano maggiormente tali attività.

68

5:49

1 :58 2:36 0:27 0:09 5:04 1 :52 1 :51 1 :20 1 :57 0:02

2:28 0:28 0:09 4:43 1 :1 5 1 :57 1 :3 1 1 :29 0:04

Istruzione e formazione

Volontariato, aiuti, partecipazione sociale e religiosa

Vita sociale, visione di spettacoli e altre attività culturali

Altre attività di tempo libero

Tempo non specificato

1 :1 6 2:58 1 :44 0:08 4:13 1 :29 1 :51

0: 1 1 3:56 1 :00

Istruzione e formazione

Volontariato, aiuti, partecipazione sociale e religiosa

Vita sociale, visione di spettacoli e altre attività culturali

1 :00

Fonte: Indagine Multiscopo sulle famiglie, Uso del tempo, 2002-2003

1 : 56

Letture, Tv, radio e I nternet

Altre attività di tempo libero

Tempo libero

Lavoro familiare

0:53

1 1 .59

1 : 34 2: 1 5 2:47

Lavoro retribuito

Dormire, mangiare e altra cura della persona

1 2:04

Spostamenti

Letture, Tv, radio e I nternet

Tempo libero

Lavoro familiare

Lavoro retribuito

2:48 0:47 1 : 34 0:27

0:08

0:05 6:22

2:31

1 1:15

3:39 0:55 1 :55 0:49 1 :28 0:03

0:07 1 :06 0:08

1 1 :39

1 1 .47

1 2:01 2:37

Dormire, m angiare e altra cura della persona

1 9881 989

20022003

1 :1 9 7:09

0:29

3:08 0:43 2:06 0:1 9

0:14

1 1 :33

2:48 0:52 1 :28

0:03

0:54 1 :3 1

0:56 2:35

0:01 1 :54 0: 1 6 4:24

1 1 .46 4:05

0:26

3:08 0:48 1 :54

1 :39 0:01 6:00 0:30

1 1 .34

Donne

0:04

0:57 1:14

0:51 2:38

0:12 4:25

1 :34

1 2:08 4:22

2:42 0: 1 3 5:08 0: 1 2

20022003

Uomini

1 9881 989

45-64

Classi di età

1 1 .26

0:44 1 :45 0:03

1 :52

0:07 3:40 1 :03

5:40 0:09 1:13

1 1 .22

2003

2002-

25-44

1 9881 989

ATTIVITÀ

1 4-24

5:43 0:17 4:04 0:58 2:43 0:22

0:06

1 3:24

1 :30 0:44 0:04

6:08 1 : 00 3:38

1 3:56 0:41 2: 1 3 0:14

1 9881 989

65 e

0:27

5:02 0:34 4:12 0:57 2:49

-

0:04

1 3.27

1 :25 1 :03 0:02

1 :06 3:35

6:05

2:23 0:21

0:25 -

1 3.41

2003

2002-

0:30

3:20 0:50 2:01

0:27 5:49 0:12

1 :32

1 1 :54

1 :05 1:17 0:04

0:58 2:23

0:31 1 :1 7 0:10 4:27

4:01

1 2: 1 2

1 9881 989

0:30 1 :1 0 0:03

3:25 0:56 1 :58

0:26 4:57 0:22

1 :35

1 2.02

0:03

1 :00 1 :34

1 :08 2:24

1 1 .59 3:42 0:25 1 :32 0:1 3 4:32 �iù

20022003

Totale

Fig. 3- Attività svolte dalla popolazione di 15 anni e più in un giorno medio settimanale per sesso, classe di età e tipo di attività Anni 1988-1989 e 2002-2003 (durata media generica in ore e minuti)

Ma veniamo al lavoro familiare, che impegna le donne per quasi 5h in un giorno medio settimanale e gli uomini appena 1 h32'. Se poi si scende ad ana­ lizzare il dato in corrispondenza delle diverse fasce di età, è possibile osserva­ re che per gli uomini si registra un lento e constante aumento del tempo medio generico dedicato a tale attività al crescere dell'età (dai 27' dei più giovani al­ le 2h23 ' dei più anziani). Le donne, invece, che già nella fascia di età 1 4-24 dedicano 1 h44' al lavoro familiare, con il sopraggiungere dell'età adulta si trovano a dover gestire un aumento vertiginoso del tempo assorbito da questa attività (5h08 ' tra i 25-44 anni e 6h tra i 45 ed i 64). In sintesi: un quinto della giornata delle donne è assorbito dal lavoro familiare. L'impegno degli uomini, a confronto, risulta del tutto marginale e trascurabile, e senza dubbio non in grado di contribuire ali' armonizzazione tra tempi di lavoro e tempi di cura delle partner. Non solo. In questo caso, è interessante soffermarsi sul dato di trend: mentre si assiste ad un aumento sistematico dal 1 988-1 989 al 2002-2003 della durata media generica del lavoro familiare per gli uomini, si osserva l 'andamento opposto per le donne. Infatti, in corrispondenza di tutte le fasce di età si assiste, per le donne, ad una diminuzione del tempo dedicato al lavoro familiare di circa un'ora. Riduzione che appare significativa del fatto che le donne abbiano messo in atto una strategia di "resistenza" che sembrerebbe produrre nel par­ tner una maggiore partecipazione. Sembrerebbe profilarsi l'avvio di un pro­ cesso che vede le donne riappropriarsi del proprio tempo. La contrazione del lavoro familiare consentirebbe alla donna di "conquistare" spazi temporali nei quali investire "per sé". Potrebbe essere un primo segnale, dell'affermarsi di quel nouveau paradigme che Touraine vede nel segno delle donne. C'è, poi, il tempo libero. Uno spazio che ospita attività prevalentemente di tipo ricreativo e sportivo, nelle quali donne e uomini trascorrono gran parte del tempo disponibile, una volta svolte le attività di lavoro retribuito e il lavo­ ro di cura. Gli uomini dedicano al tempo libero in media 4h32' in un giorno medio settimanale; le donne, decisamente meno (3h.25'). La durata media ge­ nerica del tempo libero è più elevata, sia per le donne che per gli uomini, in corrispondenza delle fasce di età più giovani. Tuttavia, si rileva un costante aumento del tempo libero al crescere dell'età. Anche in questo caso, non sen­ za delle significative differenze di genere. Non solo, infatti, le donne presen­ tano delle durate medie generiche di attività di tempo libero sistematicamente più basse di oltre un'ora rispetto agli uomini in tutte le fasce di età; ma, addi­ rittura, in corrispondenza della fascia di età più anziana il tempo libero delle donne è inferiore di oltre due ore a quello degli uomini. Pertanto, neanche in età anziana le donne sembrerebbero in grado di riappropriarsi del proprio tempo, schiacciate probabilmente tra le esigenze dei figli, bisognosi di aiuto e 70

supporto nel lavoro di cura dei figli (loro nipoti) e la "vocazione" ad un ruolo interpretato nel corso di tutta la loro vita. In Italia le giovani donne non pos­ sono contare facilmente sulla disponibilità di servizi pubblici a sostegno della conciliazione tra le esigenze lavorative e quelle famigliari. Per questo motivo, la cura dei bambini fino ai tre anni è spesso affidata ai nonni, o meglio alle nonne. Infatti, solo una piccola quota di bambini viene accolta in asili nido pubblici, non senza significative differenze territoriali (Istat, 2006). C'è una quota di domanda inevasa alla quale il sistema dei servizi pubblici non riesce ancora a dare una risposta efficace e che, nei casi più fortunati, si rivolge al servizio privato. Rimangono fuori tutte quelle donne che vorrebbero utilizzare l'asilo nido, ma che non hanno avuto la possibilità di usufruime per mancanza delle strutture, per carenza di posti, per costi elevati etc .. Nonostante le donne presentino un carico di lavoro totale maggiore rispetto agli uomini, si osserva una loro maggiore partecipazione ad attività di volon­ tariato, di impegno sociale e religioso (22' contro i 1 3 ' degli uomini). Si tratta di quote marginali del tempo disponibile, ma con differenze di genere molto evidenti, soprattutto se si considera la fascia di età tra i 25 ed i 44 anni in cui il tempo delle donne, per larga parte assorbito dalla cura dei figli, dedicato an­ che a questo genere dì attività è più che doppio rispetto a quello che vi dedi­ cano gli uomini. C'è, poi, uno spazio temporale abitato dal "tempo per sé", caratterizzato da attività culturali ed artistiche, dalla lettura, dall'ascolto della musica, dalla vi­ sione di spettacoli di vario genere, dalla vita sociale della donna come dell'uomo. Ebbene, le donne risultano particolarmente svantaggiate rispetto agli uomini anche in questa dimensione del tempo. È un tempo che non rie­ scono a concedersi: mentre gli uomini dedicano un tempo medio generico di l h08' alla vita sociale e di 2h24' alla lettura, Tv e radio, le donne riescono a ritagliarsi solo 56' per la prima e l h58' per le seconde. Non c'è dubbio che una diversa organizzazione dell'uso del tempo potrebbe favorire non solo "un migliore recupero fisico, ma anche un arricchimento personale" (D'Alessandro, 2002). Un tempo, per rompere la routine giornaliera e recupe­ rare il senso di sé al di fuori del vortice incessante degli impegni stringenti ed incalzanti della vita quotidiana; al di fuori del ritmo stressante ed incalzante della performance.

Il "tempo" delle politiche

Di fronte alla necessità di adeguare i tempi delle città a quelli delle donne, principali protagoniste della vita economica e sociale del Paese, e 71

ali'affermarsi della centralità del tempo come bene sociale, si apre nella se­ conda metà degli anni Ottanta e, in particolare agli inizi degli anni Novanta (con la legge sulle autonomie locali), la stagione delle politiche dei tempi

e

degli orari delle città. Nel riorganizzare i tempi della società post-industriale caratterizzata dalla pluralità dei tempi di lavoro, dalla diversificazione e dalla flessibilità degli



rari di lavoro, dal processo di desincronizzazione e frammentazione tempora­ le, hanno però preso forma nuove forme di marginalità sociale: tra queste la marginalità temporale (Bartoletti, 1998). Essa si manifesta in una maggiore desincronizzazione rispetto a ritmi sociali più accettati e diffusi e in vincoli temporali eterodiretti molto forti, da cui deriva una mi­ nore autonomia nella progettazione e gestione del proprio tempo quotidiano e un maggior rischio di isolamento e di esclusione sociale. La marginalità temporale si manifesta innanzitutto nell'essere controtempo, rispetto ai tempi sia biologici che so-. ciali (Bartoletti, 1998).

Le donne, che devono gestire, spesso da sole, la complessità della vita quo­ tidiana, possono trovarsi a sperimentare tali forme di marginalità. Ed è proprio all'interno dell'universo femminile che matura la riflessione sui tempi delle città, coinvolgendo donne impegnate in politica, nell'associazionismo e nelle amministrazioni locali. L'esperienza di Modena del 1987, del progetto "tempi e orari della città", voluta e sostenuta da un sindaco donna, si colloca esatta­ mente in questo solco. Di lì a poco, nel 1990, segue l'esperienza del progetto di legge dal titolo "Le donne cambiano i tempi" che, nonostante la mancata approvazione parlamentare, ha però influito sui processi di riorganizzazione dei tempi e degli orari di molte città italiane. Un "tempo" delle politiche, dunque, che ha messo in mano ai decisori la possibilità di considerare le differenze non come qualcosa da neutralizzare, ma come una dimensione da valorizzare, nella cui traiettoria scrivere le linee di una politica che tendesse a "sviluppare un nuovo senso civico" (Bimbi, 1997; Leccardi, 1998). Una politica dei tempi della città, per essere efficace nel conseguimento dei propri obiettivi, non può non tener conto del differente modo di vivere il tem­ po da parte di donne e uomini. Vissuti temporali differenti, portatori di istanze distinte, da tenere in considerazione, però, senza cercare di interpolarli con

una soluzione mediana. Nelle politiche dei tempi non c'è spazio per soluzioni intermedie, che facciano contenti tutti i cittadini, genericamente ed astratta­ mente intesi. Modificare i tempi della città in funzione dei numerosi impegni, in cui la donna prova a destreggiarsi, significa accettare un destino ineluttabi­ le, nel solco del quale non c'è posto per un'inversione di tendenza. Occorre, ------

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dunque, partire dalla valorizzazione della differente capacità femminile di ge­ stire sistemi complessi, per formulare un nuovo modello di divisione dei compiti all'interno della coppia, al di fuori delle logiche dominanti. Le politi­ che dei tempi delle città dovrebbero essere pensati per mettere uomini e donne - prima gli uomini delle donne - in condizione di cooperare alla gestione dei numerosi impegni quotidiani. La sfida da superare sta nel rendere paritaria­ mente partecipi uomini e donne nell'assunzione di una responsabilità real­ mente condivisa. Perché ciò si realizzi è necessario l 'intervento diretto di chi abbia fatto que­ sta esperienza. Non è un caso se, laddove sono state avviate delle politiche dei tempi delle città, sono state delle donne a farsene promotrici. Tuttavia, mi sen­ to di sottolineare la necessità di suscitare l'avvio di una dialettica dei tempi, per una loro più compiuta ridefinizione, all'interno di un più ampio processo di trasformazione, di azione culturale. Le politiche dei tempi e degli orari del­ le città non possono limitarsi alla razionalizzazione dei tempi fisici di lavoro, di cura, di spostamento, dei tempi burocratici ed amministrativi: debbono agi­ re per promuovere e generare il cambiamento delle logiche che sottendono il sistema dell'assunzione di responsabilità di uomini e donne.

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Leccardi, C. (1998), "Tempo delle donne, lavoro e politiche del tempo" in: Paolucci G. (a cura di)

(1998) La

città macchina del tempo.

Politiche

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Donne e salute di Giuseppina Gabriele

La salute delle donne: fattori di rischio e malattie

La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani: è un problema socio-sanitario grave che minaccia la sicurezza, l'equilibrio e la salute fisica e mentale di ogni donna. Donne e bambini subiscono violenze di vario tipo: fisiche, sessuali, psico­ logiche, che possono manifestarsi isolatamente o combinate assieme. Questa violenza ha le sue radici nella disuguaglianza tra i sessi, nella disparità di po­ tere tra uomini e donne esistente a livello sociale, culturale, economico e poli­ tico; trova origine in una struttura della società di tipo patriarcale in cui si le­ gittimano gli uomini ad avere il potere e il controllo sulla famiglia e sulla pro­ pria partner e a possedeme il "corpo". La violenza contro le donne è stata quasi invisibile fino a tempi molto re­ centi perché talmente connaturata con la tradizione i valori dominanti e le leg­ gi, da passare inosservata quasi fosse un evento naturale. Prima degli anni '70 in molti paesi occidentali anche le violenze più estreme, se commesse nell'ambito della famiglia, erano legittime, socialmente accettate e quindi in­ visibili in quanto "violenze", purtroppo ancora oggi queste "leggi" sono ac­ cettate in alcuni paesi. Non più di trent'anni fa il concetto stesso di "violenza contro le donne" non esisteva, così come non esistevano ricerche che ne stu­ diassero l'estensione e la gravità. Si è cominciato a parlame apertamente da poco più di vent'anni. La conoscenza di questo problema a livello sociale e istituzionale è ancora molto scarsa e frammentata e i giudizi sugli uomini che maltrattano e le donne che subiscono violenza sono molto contradditori. Oggi esiste una letteratura scientifica internazionale, da cui emerge che la violenza contro le donne è un fenomeno drammaticamente diffuso e trasver­ sale, che interessa ogni strato sociale, economico, culturale, senza differenze di razza, religione, età; gli autori delle violenze contro le donne sono in larga maggioranza uomini, spesso uomini "normali", senza problemi di alcool o di 75

droga, senza disturbi mentali e non di rado legati o ,comunque, vicini alla loro vittima. È la casa e non la strada il luogo in cui bambine e donne corrono mag­ giormente il rischio di essere picchiate, violentate, uccise; infatti la maggio­ ranza degli autori è costituita da persone che la donna conosce: partners ed ex partners, persone che hanno con la donna o la bambina un rapporto di fiducia, come familiari, amici, insegnanti, professionisti ; gli sconosciuti sono una mi­ noranza assoluta. Stiamo parlando di un dramma ancora, spesso, sommerso e per questo sottostimato: i casi che emergono rappresentano solo la punta visi­ bile di un fenomeno molto più esteso, che negli ultimi l 0-1 5 anni è stato pro­ gressivamente riconosciuto, anche a livello internazionale, come un problema di seria rilevanza sociale; istituzioni come le Nazioni unite, l'Organizzazione mondiale della sanità, il Consiglio d'Europa, la Banca mondiale, si sono e­ spresse su di esso sottolineandone la gravità e invitando i singoli governi ad assumere delle iniziative in proposito ' . Ovviamente siamo davanti ad un problema complesso che deve essere af­ frontato dall'intera collettività: nessun soggetto, istituzionale o non, è di per sé sufficiente da solo a rispondere ai bisogni di una donna maltrattata. È necessa­ rio aumentare il sostegno alle vittime attraverso risposte sensibili e adeguate dei servizi sociali e sanitari, delle Forze dell'ordine, del sistema della giustizia penale. La tolleranza o l'indifferenza nei confronti del maltrattamento alle donne incentiva il comportamento violento degli uomini. Solo una coraggiosa azione sinergica che metta in rete le istituzioni e le associazioni della società civile può affrontare correttamente e tentare di farsi carico dei bisogni delle donne maltrattate, aiutandole ad uscire dall'isolamento e dalla solitudine a cui si sen­ tono condannate. In Italia oggi, fortunatamente, anche per le battaglie condotte dal femmini­ smo, sempre meno donne sono disponibili a subire in silenzio soprattutto se hanno la possibilità di trovare all'esterno aiuto e sostegno per uscirne. Pur­ troppo però non è cosi per molte delle donne migranti, soprattutto quelle pro­ venienti da paesi dove c'è ancora una legittimazione normativa dell'inferiorità femminile, le quali anche dopo essere approdate da noi vivono in taluni casi segregate in casa e viene loro impedito di costruire relazioni umane ed affet-

1 Nell'Assemblea deli'Onu. sui Diritti alle donne svoltasi a New York il 05.06.2000 l'Unicef dichiara che la violenza sulle donne e bambini è "un'emergenza mondiale" e riguarda tutti i paesi, nessuno escluso: in alcuni paesi ne è vittima una donna su due.

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tive che promuovano un loro cambiamento. Si potrebbero citare molti casi in cui padri e fratelli sono arrivati ad uccidere per impedire il percorso di eman­ cipazione di una donna immigrata. In questo specifico si confermano le ricerche condotte sulla violenza alle donne, che rivelano che la maggior parte delle violenze avviene nella propria casa ed è compiuta da persone con cui si divide la vita quotidiana: è dunque la "violenza domestica". Quando si parla di violenza domestica contro le donne non si fa riferimento a situazioni generiche di conflittualità, a malesseri di coppia più o meno definiti o a episodi sporadici di conflittualità reciproca, ma si fa riferimento all'esercizio reiterato di comportamenti intenzionali che pro­ ducono un clima di paura e di intimidazione, lesivi dell'integrità psicofisica dell'altra persona e di mantenere una posizione di controllo e/o dominio all'interno della coppia2 • La violenza domestica è la meno visibile e la più difficile da identificare, perché la casa è considerata usualmente il luogo degli affetti, della sicurezza e della crescita e non il luogo della violenza, della paura e dell'umiliazione: come può una persona che vive con te e che dovrebbe amarti, farti violenza, abusare di te? Proprio perché si verificano nell'ambito di una relazione di fiducia, di af­ fetto e di convivenza, sono spesso violenze che non si risolvono in un unico episodio, ma si ripetono per anni. Le ricerche svolte in vari paesi rivelano che: - il 25% delle donne subisce violenze fisiche e sessuali dal marito o compagno o ex; - il l O - 1 5% delle donne subisce uno stupro nel corso della vita; - il 30% tra bambine e adolescenti subisce molestie o violenze sessuali; - solo il 5- 1 5% dei casi di violenza viene denunciato (Romito). Qualsiasi donna può subire violenza, senza distinzione di età, di razza, di estrazione sociale, culturale ed economica. Le vittime della violenza non sono necessariamente, come alcuni stereotipi tendono ad accreditare, donne "fra­ gili", "passive", cresciute in un clima familiare violento. Quelle che subiscono più frequentemente violenza sono le donne più giovani, le nubili, le separate o divorziate. Infatti La separazione e il divorzio non mettono,purtroppo , sempre

2 Da una rassegna di studi compiuti in trentacinque paesi del mondo, il 25-50% delle donne adulte intervistate ha dichiarato diaver subito violenza all'interno della famiglia nel corso della propria vita (Radford).

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termine alle violenze: in un terzo dei casi la violenza si intensifica quando le donne lasciano i partner violenti.

Violenza subita e malattie conseguenti

Riferiscono più violenze le donne che non hanno una autonomia economica, disoccupate o con un lavoro precario: la precarietà professionale è un antecedente o una conseguenza dei maltrattamenti? È evidente che la mancanza di autonomia economica, che può dipendere dalla mancanza di lavoro o dai controlli sul denaro subiti dal partner aumenta il rischio che la donna accetti la violenza maschile e la subisca senza denun­ ciarla. Il dato culturale che preoccupa e che spesso trapela nei processi penali è che ancora adesso si tende ad asserire che, soprattutto per quanto riguarda la violenza sessuale, la stessa è provocata dalle donne, in particolare troverebbe spiegazione in atteggiamenti provocanti o comportamenti poco prudenti delle donne. Questo è completamente contraddetto dai numeri che abbiamo già ri­ chiamato e che ci confermano come situazione prevalente la violenza dome­ stica che si esprime in varie forme: violenza fisica, sessuale, psicologica, eco­ nomica, ma spesso è tutto questo insieme. La violenza ha conseguenze per tutta la vita per il soggetto che la subisce: sul benessere, sulla salute fisica e mentale, ma anche sulla capacità di lavorare e di studiare, di costruire relazioni affettive e amicali e quindi d'essere parte attiva di una comunità. Le donne che hanno subito violenze sessuali da bambine soffrono più spesso di problemi di salute mentale, di disturbi dell'alimentazione, sessuali, ginecologici e gastrointestinali; le donne che hanno subito aggressioni sessuali o fisiche, oltre a soffrime le conseguenze immediate (ferite, lesioni, gravi­ danze non volute, AIDS e malattie sessualmente trasmissibili), vivono a me­ dio e lungo termine disturbi psicofisici legati al vissuto di un'esperienza trau­ matica, incorrono più spesso in dipendenza da alcool e da droghe; le donne maltrattate da un partner (sia che si tratti di maltrattamenti fisici, sessuali o psicologici) sono più spesso depresse, tentano più frequentemente il suicidio e soffrono più frequentemente di disturbi psicosomatici; se sono maltrattate in gravidanza, è la gravidanza stessa che può essere a rischio.

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Accesso delle donne alla salute

Ricerche recenti mostrano che le donne vittime di violenza utilizzano più frequentemente delle altre i servizi socio-sanitari: medico di famiglia, pronto soccorso generale o psichiatrico, servizi per problemi sessuali e di terapia fa­ miliare, servizi di psichiatria e per il trattamento delle dipendenze. Riconoscere la violenza è difficile perché non solo le donne hanno diffi­ coltà a parlame per vergogna, paura, sfiducia ma anche e forse sopratutto per­ ché i medici, le assistenti sociali, le forze dell'ordine, le istituzioni a cui si ri­ volgono spesso hanno scarsa attenzione, scarsa informazione, scarsa compe­ tenza e mancano di empatia. La risposta più frequente è dire che non esiste, che non è grave, cioè "negare" l'accaduto facendo crescere nella vittima il senso di colpa, di vergogna, d'isolamento e d'abbandono. Il primo punto di riferimento, il primo passaggio, nei casi di violenza fisica è quello del pronto soccorso. Per l'aggressione al corpo sia fisica che sessuale la donna si reca in ospedale. Il primo impatto in questo caso è con il Servizio sanitario nazionale che dovrebbe darsi gli strumenti per accoglierla. La donna è ferita, cerca aiuto, è bisognosa di tutto. Ha necessità di essere ascoltata, compresa oltre che curata. Spesso aiutata a parlame visto che verbalizzare quello che è successo è particolarmente difficile in presenza di un enorme senso di colpa ovviamente ingiustificato. Bisognerebbe trovare il clima giusto per: visitare, descrivere, repertare, tut­ ti gesti obbligatori, senza aumentare il disagio e le ferite psicologiche. Se è indispensabile fare prelievi per tamponi vaginali e rettali, per le infezioni, epa­ tite e Hiv è altrettanto fondamentale, in un'epoca in cui le prove scientifiche dei reati sono diventate patrimonio comune, raccogliere referti pèr la ricerca del Dna, grattando sotto le unghie con una spatola. Quanti medici lo fanno? Quanti sanno che i campioni biologici vanno conservati a lungo, perché la donna possa decidere se denunciare avendo a disposizione la possibilità di i­ dentificare il colpevole tramite il suo Dna? E chi è preparato al pronto soc­ corso per sostenere la vittima in quelle ore terribili? Dal pronto soccorso la rete deve poi allargarsi ai servizi che forniscono as­ sistenza legale, assistenza ai minori, assistenza psicologica e sociale. Deve cioè innescarsi un "domino" che accompagni la donna in un percorso lungo e doloroso ma che dovrebbe farla ricominciare a vivere. Si presta molta atten­ zione da parte dei mass media alle aggressioni puramente occasionali: lo sco­ nosciuto, di notte, per strada; ma come abbiamo ribadito non è quello il pro­ blema numericamente più rilevante. Come possiamo pensare allora che la soluzione, come ci indica l'immaginario "americanizzato", siano i corsi di acquisizione di capacita di ·

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autodifesa e di lotta , se i primi colpevoli sono: il capo ufficio, il marito, il fi­

vu•"'�'"".

danzato, lo zio; uomini di cui ci si fida? Quanto invece può essere più efficace

un lavoro, una casa con il contratto a nome proprio, il riconoscimento di es­ sere una persona che ha dei diritti? Ci siamo veramente liberati dai pregiudizi storici che vedono la donna col­ pevole, sempre, per qualche verso, quando accade la violenza? Abbiamo ve­ ramente capito che andare in minigonna non è un'attenuante per il violento, che fare tardi in un locale non autorizza nessuno a aggredirti, che una donna può trovarsi in macchina con un uomo, aver avuto anche magari intenzione di avere rapporti e poi magari ripensarci? E che nessuno ha diritto di violentarla. Nemmeno suo marito, anche in caso di lungo rifiuto da parte della donna ad avere rapporti sessuali con lui. Il fatto è che il corpo della donna non viene violentato solo individual­ mente. Perché è anche considerato un oggetto per il dominio collettivo; su di esso si scrivono leggi che ne diminuiscono la possibilità di autodetermina­ zione. La chiave in qualche modo della storia delle donne è proprio qui: nella trasformazione delle parole, del diritto alla proprietà in segni sul corpo. Tutta l'elaborazione femminista passa da qui. Il corpo: nudo, vestito, per la riprodu­ zione, per il sesso, per piacere a qualcuno. La stessa invadenza della moda che dice come si deve essere per "esistere" configura una necessità di imporre forme di omologazione ad un immaginario maschile imposto dall'esterno. Trasforma il corpo da fonte individuale di benessere a testimonianza dell'aderenza a un modello che ti garantisce l'approvazione sociale. Le conseguenze sulla salute fisica e/o psicologica sono facilmente dimo­ strabili. La frattura del femore è molto più frequente nella donna e uno fra i motivi che la produce è la pastura che, a causa dei tacchi, impedisce alle don­ ne di poggiare il tallone. I legamenti del ginocchio si danneggiano nel corso dell'attività sciistica nel 70% delle donne e nel 30% degli uomini. Perchè il quadricipite della donna non allenato nell'infanzia e nella giovinezza, non è abbastanza forte da sostenere i legamenti nella caduta. Ben più grave è l'anoressia, molto diffusa negli ultimi anni, tanto da portare ad una recente presa di posizione di una Ministra che si è appellata al mondo degli stilisti per chiedere un cambio di approccio culturale

Donne di diverse culture e salute Vi sono degli studi che dimostrano che le donne sono più tardivamente diagnosticate e peggio curate per tutte le malattie cardiovascolari della terza età come se la medicina stentasse a farle entrare a pieno titolo nella condi-

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zione di pazienti a rischio da proteggere da eventi avversi. E che dire dello studio inglese che dimostra che le nonne che tengono i nipotini vivono meno a lungo delle altre? La mancanza di ascolto da parte dei servizi sanitari nei con­ fronti delle donne ha una lunga storia. Soltanto di recente ci sono state le pri­ me aperture con studi che valutano la possibile differenza di efficacia e di ef­ fetti collatarali dei farmaci sul corpo femminile. Molti dei disturbi femminili vengono liquidati come naturali, cioè frutto della loro natura bilologica. Solo parzialmente il censo e la posizione sociale possono proteggerle. La violenza sulle donne, per essere riconosciuta e contrastata, richiede ser­ vizi sanitari in grado di accogliere e vedere in maniera olistica la donna nella sua interezza. (e questo, come abbiamo brevemente visto, può aiutare la medi­ cina stessa). I segni classici della violenza possono essere intercettati se vi si presta la giusta attenzione. Debbono essere distinti correttamente dalle malat­ tie, e decodificati per la donna che dovrà essere messa in grado di diventare più consapevole: raccontando e chiedendo aiuto, comunque la vittima avrà bi­ sogno di tempo e di solidarietà per poter elaborare quel dolore. È importante, a questo proposito, formare gli operatori sanitari, affinché con uno sguardo più attento possano cogliere ciò che non viene detto ma tra­ spare se si è in grado di osservare. È altresì importante costruire quel servizio di rete. Parola di cui si fa un largo uso ma difficilissima da riempire di conte­ nuto pratico. La violenza sulle donne può emergere in sanità con i sintomi più disparati. Dolori addominali, dolori durante i rapporti sessuali. Affezioni dermatologi­ che inspiegabili, mal di testa. Ma sospettare, leggere, non basta. La struttura sanitaria, in questo caso, deve veramente testimoniare la sua natura unica, so­ cio-sanitaria. Se dalla violenza nasce un figlio non voluto, imposto più o me­ no palesemente, ma oramai esistente, la donna dovrà essere aiutata nella sua accettazione e successiva gestione. Bisognerà cioè farle sentire che la co­ munità civile, rappresentata dallo Stato, che qui si esprime nella sua forma più alta, non la abbandona nel conflitto interno ma le fornisce aiuto. Aiuto anche pratico, se necessario. Se la violenza la espone ed è necessario l'allontanamento dai luoghi abi­ tuali (casa, ufficio ecc.) il contatto con i centri dove può essere accolta in tem­ pi brevi dovrà essere efficiente e immediato. Altre volte la risposta potrà esse­ re l'interruzione di gravidanza. Altre volte la psicoterapia. Altre volte ancora la consulenza legale, sia per eventuali processi ma sopratutto per la possibilità di raggiungere la coscienza dei propri diritti. La chiave, sempre, è la possibili­ tà per l'Istituzione, di rompere la solitudine delle donne. Nelle case, sul lavoro, le donne stringono i denti e resistono, subiscono, pensando che il destino individuale sia tutto ciò che hanno. E se il femmini81

smo si è ritirato da tempo in luoghi da cui difficilmente raggiunge larga parte delle donne dobbiamo ricordare che vi sono situazioni in cui, semplicemente, non è mai arrivato del tutto. La dimensione della collettività femminile può in questo momento essere efficacemente sostenuta da un'istituzione pubblica at­ tenta, disponibile, elastica; che si conformi al bisogno e che non chieda utenti a forma dei servizi già esistenti dando "risposte preformate". Più di tutte pagano le donne delle piccole città di provincia, legate spesso a un'immagine da difendere, che non possono confessare a nessuno "come è andata davvero". Le donne povere, per cui spesso la vita è una serie di vio­ lenze da cui hanno difficoltà a difendersi, ed è appena il caso di sfiorare il te­ ma del lavoro precario, vera violenza per le donne, e per gli uomini, a cui ruba diritti e futuro. E soprattutto le donne immigrate, con cui spesso abbiamo dif­ ficoltà di comprensione e linguaggio (non solo di lingua ), che sono e saranno la vera sfida dei prossimi anni, per tutte e tutti.

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La violenza nei legami di coppia di Donata Francescato

Premessa

Una recente indagine Istat ha rilevato che sei milioni di donne in Italia hanno subito varie forme di violenza nel corso della vita; circa un milione nell'ultimo anno (Sabbadini, 2007). Si va da atti di violenza fisica come strat­ tonare, picchiare, prendere a calci, tentare di soffocare o strangolare, a forme di violenza sessuale come molestie e stupri e a modalità di prevaricazione psi­ cologica come umiliare, limitare la libertà di movimento, lavoro, di fruizione del denaro. La maggior parte di queste violenze sono commesse da partner o ex partner, da persone cioè che un tempo hanno amato o desiderato la donna oggetto della loro violenza. Le stesse mani che hanno accarezzato, che hanno dato piacere, gli stessi corpi che si sono aperti all'intimità sessuale diventano strumenti di oppressione e veicoli di dolore, sofferenza, umiliazione. Molti tra noi si interrogano inquieti sulle cause della violenza tra partner, a volte temiamo che un nostro caro, o noi stessi potremmo essere le possibili vittime o carnefici. Spesso una coppia ritiene la violenza domestica un fatto esclusivamente privato, e perciò privilegia interpretazioni che riconducono a variabili individuali e\o di relazione con il partner (''era un tipo collerico", "mi faceva arrabbiare, ho perso la testa", "non era mai contenta, mi criticava sem­ pre", "si rifiutava di far l'amore", "litigavamo ferocemente sulla educazione dei figli"). Poche coppie sono pienamente coscienti che anche la maniera in cui cer­ cano di soddisfare i bisogni reciproci, in cui definiscono le aspettative l 'uno nei riguardi dell'altro, in cui litigano e si fanno violenza è spesso mediata da un complesso sistema di leggi, credenze religiose, fattori sociali, economici e culturali. Infatti un rapporto di coppia, al suo nascere, nel suo divenire e a vol­ te nel suo dissolversi, è certamente influenzato dal momento storico in cui si svolge. Utilizzando un'ottica intersoggettiva, tenendo conto dell'intreccio tra variabili sociali e individuali cercherò dunque di delineare come un amore 83

possa diventare violento, quali sono i "segnali deboli" che ci possono aiutare a identificare persone, relazioni e contesti sociali che possono promuovere comportamenti violenti tra partners o al contrario relazioni appaganti. Le storie d'amore hanno il grande merito e il pericoloso potere di permet­ terei di costruire intense relazioni con gli altri facendo affiorare parti di noi rimosse e trascurate, spesso potenzialmente distruttive, ma anche di sviluppa­ re potenzialità che altrimenti non sapremmo neppure di avere! È di solito quando si hanno problemi o ci si separa che affiorano parti negative delle per­ sonalità che a volte i partner ignoravano o sottovalutavano. Un partner biasi­ ma l'altro e può spendere immense energie nel vano tentativo di mutarlo, da un lato, o di ferirlo, dall'altro. Uomini e donne che hanno smesso di amarsi conoscono ancora il partner abbastanza bene per sapere dove colpire per fare più male. Così si alimentano guerre che sfociano in violenze fisiche, psicolo­ giche e sessuali. Il desiderio di far male può essere consapevole o inconscio, come illustra il bel libro di Annamaria Bemardini De Pace (2005), e non prende sempre di mira il partner, ma spesso proprio i figli per colpire indiret­ tamente il coniuge. Ognuno di noi ha qualche potenzialità di essere malvagio o benevolo e di aiutare gli altri a esserlo.

Fattori che contribuiscono a "creare" maschi aggressivi

L'ottica intersoggettiva riconosce che i maschi non nascono "aggressivi" e le donne "manipolatrici", ma si interroga su come certi tipi di relazioni produ­ cano maschi aggressivi e donne manipolatrici. Molte indagini antropologiche e psicologiche mostrano che la prepotenza, l'aggressività e la volontà di do­ minio non sono caratteristiche "naturali" di tutti i maschi. Se i nostri partner li evidenziano occorre capirne l'origine. Per provocare in un maschio un biso­ gno nevrotico di dominio, devono essere presenti vari fattori psicosociali: questi deve essere allevato quasi esclusivamente da una madre infelice come moglie, che si comporta in modo ambivalente verso i figli maschi, adorati come fonte di riscatto e potere futuro, e temuti e odiati in quanto le ricordano il loro padre, uomo che l'ha svalutata e umiliata. Non basta crescere con una madre ambivalente, occorre anche avere un padre punitivo o assente che non favorisce l'identificazione del figlio, e soprattutto vivere in una società che glorifichi le caratteristiche competitive maschili e rimuova o svaluti quelle femminili. Oppure crescere in una società in cui picchiare le mogli è la norma. Ricordo l'antico proverbio cinese che recitava: "Va a casa e picchia tua mo­ glie. Se tu non sai perché, lei lo sa!". Tanto più questi fattori sono compresenti quanto più si diventa maschi psicologicamente fragili, individui che sentono 84

minacciata la loro mascolinità e devono continuamente provare a se stessi e al mondo di essere veri uomini, utilizzando la forza e spesso la violenza. Lo psichiatra americano Frank Pittman ( 1 993) nota che negli ultimi decen­ ni molti maschi perseguono una mascolinità sempre più incerta, perché si è creato un circolo vizioso. La mascolinità si trasmette di padre in figlio, ma con l'aumentare delle separazioni e con padri che devono dedicare la maggior parte delle energie al lavoro, molti ragazzi crescono senza papà o altre figure maschili significative. Sviluppano così una esagerata tendenza a competere e a essere aggresstvt. I cambiamenti del mondo del lavoro inoltre, rendono oggi molti, partners e genitori poco efficaci: parecchi sono preoccupati di perdere il lavoro, o lavo­ rano troppo e quando rientrano, stremati, la sera, basta una piccola contrarietà per irritarli o provocare scoppi di collera che sfociano in atti di violenza fisica e psicologica contro moglie e figli. Parecchi bevono per rilassarsi, oggi è di moda prendere aperitivi alcoolici dopo il lavoro, purtroppo alcuni eccedono, e brilli o ubriachi diventano più facilmente preda della loro ira. Come ho de­ scritto nel libro Amore e Potere, occorrerebbe distribuire meglio sia il lavoro sia la cura dei figli, integrare il meglio del maschile e del femminile l . Purtroppo questo cambiamento non si presenta facile. Per secoli abbiamo operato in un'ottica di pensiero duale attribuendo ai maschi la politica e l'economia, la sfera pubblica in generale, e relegando le donne alla gestione del privato, la casa, le relazioni affettive, la crescita e la cura dei figli. Viven­ do in mondi distinti, donne e uomini hanno sviluppato competenze, qualità e difetti differenziati e quindi logiche dominanti antagonistiche. Negli ultimi

1

Nel mio libro

Amore e Potere

(2000) ho cercato di esplorare le radici storiche

della femminilità e della mascolinità, nell'addestramento culturale dei maschi al piacere del potere e delle donne al potere di piacere e di delineare i punti forza e le aree problema dei due generi. Ho anche esaminato le tendenze oggi in atto e il legame tra mutamenti nel mondo lavorativo e stress genitoriale. Ho documentato come se nel privato stiamo demolendo i vecchi stereotipi sessuali che limitavano lo sviluppo dei singoli, nel pubblico stia avvenendo una nuova segregazione, che vede l 'educazione come funzione svalutata, riservata prevalentemente alle donne, e la politica e l 'economia con vertici decisionali quasi solo maschili. Esaminando le trasformazioni in atto in vari paesi negli ultimi due capitoli propongono una serie di azioni concrete che si potrebbero intraprendere per integrare meglio lavoro e genitorialità e trasformare la politica spettacolo in carriere politiche finalmente meritocratiche e trasparenti, gettando basi nuove per una società più "benevola" e meno "guerresca e mafiosa".

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decenni molti di noi sono riusciti a curarsi le ferite inferte da una educaziona sessista riappropriandosi di qualità e competenze prima attribuite solo all'altro

genere. Trainer sportivi, psicoterapeuti, gruppi di autoaiuto hanno reso molte più donne coraggiose, forti e autonome e molti uomini capaci di ammettere le proprie debolezze, piangere, essere teneri, coccolare i propri figli. Tuttavia permangono dentro ognuno di noi particelle più o meno grandi delle antiche dicotomie, che creano problemi tra partner che vacillano tra il vecchio e il nuovo, senza modelli a cui rifarsi. Per secoli la femminilità è stata legata al potere di piacere, di sedurre, farsi amare e diventare madre. Il biso­ gno di essere amata da un uomo per confermare la propria identità di genere predispone molte donne alla dipendenza, alla ricerca di qualcuno che le faccia sentire desiderate. Al contrario, la mascolinità porta gli uomini a perseguire i piaceri del potere, dunque a privilegiare il lavoro o comunque il perseguimen­ to di obiettivi che valorizzino la loro indipendenza, la loro autonomia e liber­ tà, e dunque a rifuggire dai legami affettivi intimi tanto ambiti da molte don­ ne. Gli uomini e le donne crescono spesso sognando sesso e amore, lavoro e potere in modo diverso e talvolta, si deludono a vicenda (Connidis 2003, Francescato 2002).

Il ruolo dei media nel creare invidie e risentimenti nella coppia Queste delusioni sono rese più frequenti perché oggi esistono visioni molto divergenti "su cosa è giusto fare". Per esempio, un tempo era comune che il marito procurasse il reddito familiare e la moglie svolgesse i lavori domestici, ora ogni coppia deve trovare un difficile e spesso mutevole equilibrio tra im­ pegni in casa e fuori. La famiglia ha anche funzioni psicosociali quali provve­ dere alla soddisfazione dei bisogni di sessualità, intimità, solidarietà e mutuo sostegno dei due coniugi. Il modo in cui ogni coppia oggi definisce queste funzioni può variare enormemente. I mass media mostrano centinaia di corpi nudi, di esperienze erotiche "di ogni tipo" con conseguenze a volte stimolanti ma a volte deleterie sull'immaginario erotico dei coniugi. Mai prima d'ora nella storia c'era stata una tale "esposizione massiccia a esperienze sessuali altrui", che possono suscitare emulazione o invidia, spingerei a rivalutare o svalutare il partner "in carne e ossa" che ci troviamo accanto. Nascono così i litigi sull'aspetto fisico dell'altro, le critiche per il sovrap­ peso o le rughe, la mancanza di sex-appeal che suscitano rancore e rabbia, portando

alla

violenza

psicologica

ma

talvolta anche

a

quella

fisica.

L'esagerata importanza che la nostra società dà all'aspetto fisico e alla sessua­ lità esaltata in programmi televisivi come

86

uomini

e

donne,

crea milioni di

scontenti con il proprio corpo. L'invidia planetaria che promuovono i pro­ grammi televisivi che inneggiano alla visibilità, al denaro e alla bellezza, ali­ menta anche ulteriori problemi tra le coppie. Molte violenze tra coniugi nascono dalla rabbia che suscitano aspettative deluse. Alcuni litigi che sfociano in violenza avvengono perché molti coniugi si aspettano che il partner soddisfi ogni loro bisogno affettivo, perché privi di legami emotivi importanti con altre persone o gruppi. In Star meglio insieme ( 1 998) ho cercato di documentare come parte dei propri bisogni di apparte­ nenza, individuazione e riconoscimento e soprattutto il forte desiderio di dare un senso alla propria vita, possano e debbano essere soddisfatti anche in con­ testi extrafamiliari. Per due ragioni: per non appesantire i rapporti di coppia con eccessive richieste e per allargare il proprio capitale sociale, cioè la rete di persone e organizzazioni di cui si fa parte e su cui possiamo contare.

Modi diversi di affrontare i conflitti di coppia hanno antiche radici

Molti dei conflitti relazionali nascono dal fatto che j due partner sono cre­ sciuti in contesti familiari dove forme di potere venivano gestite da padri, ma­ dri e fratelli in maniera diversa. Chi è cresciuto con genitori autoritari, severi, oppure svalutanti e critici, tende a rapportarsi ad altre figure di potere in modo differente da chi è vissuto in ambienti più permissivi o in nuclei familiari dove madri e padri usavano modalità meno severe. Per affrontare le figure di auto­ rità molti di noi sviluppano dunque quelle particolari strategie che si sono di­ mostrate efficaci nei propri contesti familiari. Queste diventano modalità di reazione quasi automatiche, di cui a volte siamo poco consapevoli, ma che tendiamo a mettere in atto quando nuovi contesti ci ricordano antiche dinami­ che familiari. I nostri partner spesso infatti ci rimproverano di comportarci come nostro padre o nostra madre, o di trattare loro come facciamo con i no­ stri genitori, o comunque di essere ancora vittime dei nostri legami con le fa­ miglie d'origine, di essere immaturi, poco autonomi e responsabili. In Quando l 'amore finisce (2002) ho descritto una particolare "intimità i­ rosa" che caratterizza le coppie che si separano, ma spesso anche quelle che "rimangono insieme fino alla morte", litigando furiosamente, rinfacciandosi i reciproci difetti e svalutando le rispettive famiglie e a volte ricorrendo alla violenza fisica o psicologica per sottomettere l'altro partner. Le "coppie serene" al contrario, sono caratterizzate da valori, atteggiamen­ ti e comportamenti di interdipendenza e solidarietà, di rispetto per l'individualità e la diversità dell'altro e di cooperazione per fini comuni. Ma dove hanno fatto pratica di interdipendenza queste coppie serene? Nella loro 87

famiglia, si sarebbe tentati di rispondere. Non sempre. La famiglia è infatti il primo piccolo gruppo che incontriamo, ma è un piccolo gruppo molto particolare, dove si intrecciano rapporti tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle segnati da pesanti ineguaglianze causate da molteplici forme di potere - forza fisica, denaro, conoscenza, esperienza - e dove l'amore che ci è necessario per cre­ scere può essere donato, oppure offerto solo se ci sottomettiamo a certe regole o desideri di coloro che hanno potere su di noi. È proprio in famiglia che soli­ darietà e senso di possesso si sovrappongono: molti imparano che sicurezza e dipendenza, amore e dominio sono inesorabilmente legati. Da un lato, perciò, è per sfuggire ai legami oppressivi della famiglia che molti sono attratti dal mito dell'autonomia, del "farcela da sé" e dell'assoluta indipendenza. Dali ' altro è proprio la sicurezza sperimentata in famiglia da piccoli con genitori accudenti e amorevoli che rinforza il mito opposto della dipendenza da un altro (partner, Stato, governo) che ci deve mantenere, ama­ re. Due atteggiamenti che portano ad usare ache la violenza per imporre al proprio partner il grado di dipendenza o indipendenza agognata. Le coppie che si amano nel tempo sono formate da individui che sono an­ che cittadini liberi e responsabili, che hanno potuto accedere a palcoscenici in cui l'affettività e la razionalità potevano coesistere, in cui l'emotività assume­ va forme e toni meno esasperati e coinvolgenti che nei teatri familiari.

Imparare la nonviolenza in gruppi extrafamiliari

Dove troviamo questi palcoscenici? Ogni società moderna ne offre due tipi diversi: piccoli gruppi di lavoro, inseriti in contesti scolastici o organizzativi, oppure piccoli gruppi a cui si aderisce volontariamente per coltivare con per­ sone a noi affini problemi, interessi o passioni comuni. I piccoli gruppi ci of­ frono l'occasione per rivivere in forma molto più blanda e in condizioni di maggior potere (in fondo una classe o un ufficio un'associazione di volonta­ riato si possono lasciare, se non possiamo sopportare chi vi comanda, mentre da piccoli si è prigionieri dei genitori che ci capitano) i conflitti e le gioie dei rapporti sperimentati in famiglia, e al tempo stesso di osservare nuove modali­ tà di esprimere l'autorità e l'affettività. Di trovare nuovi modelli a cui ispirarci o, al contrario, da non prendere come esempio. Più si è cresciuti in famiglie che incoraggiavano l'appartenenza a gruppi extrafamiliari, culturali, sportivi, politici, sociali, più è probabile divenire in­ dividui psichicamente maturi, capaci di essere genitori responsabili e di stare almeno relativamente bene con se stessi e con gli altri. Più si è cresciuti in fa-

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• ·



miglie chiuse, più è facile sperimentare sentimenti "totalizzanti" che possono condurre alla violenza. Se le nostre storie individuali e familiari possono darci indicazioni sulla nostra propensione a comportamenti anche violenti nel rapporto di coppia, i livelli di instabilità sentimentale raggiunti oggi nel mondo occidentale sono anche un indicatore sociale di grave disagio e al tempo stesso di un tremendo potenziale positivo inesplorato. In Amore e potere (2000), ho cercato di deli­ neare meglio questa contraddizione.

Dall'ottica guerresca a quella cooperativa

Oggi, nella nostra società si sta abbastanza bene dal punto di vista materia­ le, ma ci sente spesso psicologicamente male perché si intuisce che ci sono nuove possibilità e opportunità che non vengono ancora né colte né attualizza­ te. Film, sceneggiati televisivi, libri ci offrono visioni diverse di come posso­ no essere vissuti partecipazione politica, lavoro ma anche matrimonio, coppia, amore, sesso e genitorialità. Non ci sono più modelli dominanti prestabiliti, tocca a ognuno di noi costruire i propri progetti di vita individuali, di coppia, di famiglia e sociali. Questa nuova libertà spaventa e nel privato è fonte di in­ numerevoli conflitti che portano due coniugi spesso a delle rotture dolorose, ma mai come oggi è possibile creare forme nuove di famiglia che vadano in­ contro alla varie esigenze dei singoli e dove non si viva più né "sotto" né "so­ pra" ma "insieme". Fino a poco tempo fa la penuria di beni materiali ci ha indotti a dare più spazio alla parte animale del nostro essere e a comportarci appunto come tali: oppressi dalla paura, ci siamo sottomessi al più forte per essere protetti. Ab­ biamo finito per ritenere inevitabile che nei rapporti umani si dovesse, gioco­ forza, dominare o essere dominati. Per questo ancora oggi nelle nostre culture è importante capire chi è "sopra" e chi è "sotto" e conquistare a tutti i costi, posti migliori nella scala gerarchica. Ora si intravede un mutamento epocale. Thomas Friedman (2005) sostiene che gli sviluppi tecnologici ed economi­ ci della globalizzazione favoriscono la diminuzione della cultura guerresca e competitiva. Paesi diversi tendono a divenire partner cooperanti nel costruire lo stesso prodotto o servizio. Inoltre, l'interdipendenza dei mercati azionari e dei flussi di importanti materie prime come il gas o il petrolio stanno ponendo dei freni alla logica del conflitto permanente e anzi richiedono che aumenti la fiducia e la collaborazione tra aziende che possiedono talenti e specializzazio­ ni diverse.

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La logica guerresca, che ancora domina in molti contesti (spesso dentro di noi), deriva anche dal fatto che fino a un recente passato sia nell'individuo sia nella società veniva incoraggiato il dominio di una parte su altre (men­ te/corpo, ragione/emozione, uomo/donna, re/sudditi, élite/masse, ecc.) consi­ derate meno valide, pericolose o immature, oppure meri strumenti per rag­ giungere un obiettivo. Nel mondo degli affari, della politica, dello spettacolo, dello sport ogni giorno vediamo "guerriglieri" d'ambo i generi lottare per ot­ tenere potere, visibilità, denaro. Per ottenere il "look" ormai indispensabile cercano di dominare i loro corpi sottoponendoli a massacranti sedute in pale­ stra, ingurgitando pillole, facendoli plasmare periodicamente dai chirurghi plastici. Per ottenere il potere demonizzano il rivale, sopravvalutando se stessi e svalutando l'avversario, senza lasciare spazio a una comprensione autentica delle differenze. Tuttavia proprio questa enfasi sul "farsi belli" ha richiamato l'attenzione di alcuni sull'importanza di restare sani, e ha mostrato la precarietà dei confini tra corpo e mente, corpo e ambiente. Mantenere in buona salute il proprio corpo non significa occuparsi solo della sua superficie, della pelle, ma anche del buon funzionamento degli organi e del sistema immunitario, che dipende anche da fattori psichici e dalla qualità dell'ambiente in cui viviamo. Ora, dunque, sta faticosamente emergendo, nonostante i rigurgiti fonda­ mentalisti, una nuova cultura in cui vengono valorizzati l'incontro e il ricono­ scimento dell'interdipendenza e della pluralità psichica e sociali. Sviluppi teo­ rici nella psicanalisi come nell'economia, nelle scienze ecologiche come in quelle politiche mostrano che questa pluralità è possibile e desiderabile. Sta tramontando l'ideale di un uomo tutto d'un pezzo, che razionalmente control­ la le proprie parti emotive e il mondi intorno a sé e sta emergendo la consape­ volezza che non siamo individui isolati ma dei sé in relazione. La psicanalista Jessica Bejamin (2006) afferma che nei "nuovi sviluppi teorici della discipli­ na" si tende a spezzare le contrapposizioni convenzionali legate alla logica delle opposizioni binarie che tendevano a relegare l'uomo nel ruolo attivo e la donna nella posizione passiva: "nella concezione intersoggettiva del ricono­ scimento due soggetti attivi possono scambiarsi, possono alternarsi nell'esprimere e nel ricevere, co-creando una reciprocità che permette e pre­ suppone la separatezza". In vari ambiti dunque sta tramontando il pensiero binario che si regge su dicotomie percepite come antagoniste o mutuamente esclusive a favore di una visione che "congiunge" anziché "disgiungere": da un lato esalta la soggettivi­ tà e il coinvolgimento creativo umano in ogni atto, dall'altro ridimensiona o­ gni pretesa di individualità scissa dal contesto sociale che la produce e la ren-

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de possibile. Diventa evidente che il mio benessere dipende da quello altrui e viceversa. Queste nuove teorie, come ci aiutano a capire e a gestire i nostri rapporti interpersonali, specie nei momenti di crisi, che possono sfociare in comporta­ menti violenti? Il pensiero dualistico tende a emergere durante i momenti di crisi perché offre interpretazioni consolatorie. Se il nostro amore è finito è per colpa dell'altro, che si è rivelato diverso da come lo conoscevamo, oppure che ha infranto le sue promesse. Oppure al contrario siamo noi le colpevoli, che abbiamo fatto la scelta sbagliata, ecc. Se nostro figlio ha dei problemi è colpa del nostro coniuge, che non è un buon padre o una madre adeguata. Nelle se­ parazioni giudiziali gli avvocati si scontrano spesso con separati prigionieri di questa ottica dualistica, come appare dalle interviste che noi abbiamo fatto a noti avvocati con lunghe esperienze di cause di separazione (Francescato, 2002). Tanto più noi viviamo in contesti culturali di tipo fondamentalista, dove alcuni sono convinti di possedere una verità superiore e di doverla imporre agli altri anche con la forza, tanto più siamo cresciuti in famiglie dove un membro esercitava il dominio sugli altri, tanto più in momenti di crisi tende­ remo a usare il pensiero duale, e se necessario la violenza psicologica, fisica e sessuale.

Dal potere "monade" al potere "nomade":

dall'amore "possessivo"

all'amore "sollecito"

Per uscire da queste spirali di violenza private e pubbliche, per diminuire le guerre, conflitti economici, etnici e religiosi ci occorrono politici che ab­ biano le capacità valorizzate dalla "cultura femminile". Oggi la pratica della politica esige l'arte paziente della mediazione e dell'acquisizione del consen­ so: occorrono persone capaci di ragionevolezza e cooperazione, che sappiano creare meno spirali di contrapposizione e di risentimento, che si riconoscano nei valori della tolleranza e del dialogo, che sappiano esercitare un potere "nomade" basato sull'autorevolezza, e non un potere arrogante che mira solo a perpetuare se stesso. Dovremmo imparare a votare quei partiti che candida­ no molte donne mettendole in cima alle liste e dando loro reali opportunità di essere elette, Nei paesi dove le donne sono più presenti in politica, sono state varate un maggior numero di leggi in favore dei bambini, delle famiglie, della salute, dell'ambiente, della parità di salario tra uomini e donne per uguale la­ voro e contro la violenza (Stokes, 2005).

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Ma quali sono i "segnali deboli" che un particolare rapporto possa sfociare nella violenza? Le indagini che hanno messo a confronto coppie altamente . conflittuali e serene ci forniscono alcune indicazioni Le "troppe diversità", che all'inizio possono essere una forte fonte di attra- .: zione, diventano nel tempo fonte di conflitti e disaccordi. Gli stili di attacca­ mento sperimentati con le figure parentali influenzano le relazioni adulte. A­ vere avuto un'infanzia infelice, in cui si è stati negletti o maltrattati, rende dif­ ficile avere buoni rapporti di coppia da adulti. Per fortuna, non tutti colori che non sono stati amati adeguatamente da piccoli sono destinati a fallire nei loro rapporti. Molto dipende da quanto diventano consapevoli delle proprie ferite e da come affrontano e risolvono i problemi interpersonali. Le coppie che durano di solito conoscono le loro reciproche storie emotive familiari: la capacità di autorivelarsi all'altro costituisce un importante indica­ tore del progredire di una relazione. I modi in cui i partner utilizzano queste confidenze intime sul loro passato emozionale rivelano inoltre un aspetto del loro carattere, cruciale nel favorire i buoni rapporti di coppia. Infatti, nelle coppie che stanno insieme a lungo serenamente, quando uno dei partner si a­ pre rivelando un aspetto difficile della sua vita, l'altro usa queste informazioni per capire e proteggere il coniuge. Nei rapporti meno maturi, uno dei partner o tutti e due durante un litigio utilizzano le confidenze ricevute per umiliare, biasimare o ridicolizzare l'altro. Le differenze più marcate che emergono tra le coppie che durano e quelle che si separano riguardano il modo di gestire i conflitti. Le prime tendono a usare preferibilmente strategie di negoziazione, compromesso e accondiscen­ denza verso i bisogni del partner. Soprattutto sono capaci di litigare senza sva­ lutare o aggredire l'altro. Le seconde utilizzano modalità basate sull'aggressività verbale, di coercizione, che a volte sfociano nella violenza fisica. Inoltre i coniugi che riescono a far durare l'amore non cercano di cam­ biare l'altro, ma accettano i propri e gli altrui mutamenti. Sono flessibili e si adattano alle diverse sfide evolutive che i due partner devono affrontare: per esempio, staccarsi dalle famiglie d'origine, diventare genitori, affrontare il di­ stacco dai figli adulti, invecchiare e assistersi a vicenda nelle malattie. Infine le coppie che ridono molto insieme hanno relazioni più durature e soddisfacenti. L'ho appurato anche dai risultati di una indagine che ho condot­ to con 333 uomini e donne dai 1 4 ai 90 anni. Il 97% degli intervistati, senza differenze di genere ed età, ritiene molto importante saper ridere insieme per cementare un rapporto di coppia, perché questo crea unione, intesa e compli­ cità. Ma attenzione: per ridere bene occorre apprezzare lo stesso tipo di umo­ rismo. È stato rilevato infatti che quando uno dei due non apprezza lo humour del partner, questo può essere una spia di possibili problemi nel rapporto di

l

----- - - - ��

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coppia (Cohan, 1 997; Francescato, 2004). Soprattutto, occorre ricordare che molte carenze che noi uomini e donne ci rimproveriamo reciprocamente come partners e genitori, in realtà non dipendono solo da noi come singole persone, ma ha cause sociali che vanno rimosse. Per attuare però i necessari mutamenti sociopolitici (Beck, 2000; Francescato, Tornai, Mebane, 2004) in favore delle famiglie occorre "femminilizzare" la politica e "mascolinizzare" l'educazione. Nella società globalizzata e interconnessa, lacerata dal terrorismo, dalla violenza, dalle disuguaglianze, dai conflitti etnici ma soprattutto da un indivi­ dualismo esacerbato dai mass media che incitano a perseguire solo la propria autorealizzazione, accumulando denaro, visibilità, e potere, abbiamo un acuto bisogno di valorizzare maggiormente "l'amore sollecito". Questo è un aspetto della cultura "femminile" (Stokes, 2005) che consiste nell'avere a cuore la crescita e il benessere dell'altro. La logica femminile valorizza una idea dello sviluppo del sé più adatta ai nuovi contesti lavorativi e politici basati sull' interdipendenza. Dare più spazio alle donne e alla logica femminile (che può risiedere comodamente anche in cervelli maschili) dell'appartenenza, dell'inclusione, del sostegno dei più deboli, dell'interesse a far crescere l'altro nei luoghi della politica e del lavoro, dove ancora dominano i valori "maschi­ li" come l'agire guerresco, il vedere gli altri come mezzi, l'acquisire e il con­ quistare, potrebbe non solo mutare in meglio il nostro modo di lavorare e fare politica, ma anche cambiare la mentalità dominante, che privilegia la libertà del singolo e la sua indipendenza a scapito del senso di connessione con gli altri e dei piaceri del "noi". Inserire maschi e la logica "maschile" nell'educazione dei bambini com­ porterebbe, d'altra parte, valorizzare il principio di prestazione e la razionalità a casa come a scuola, dove regnano la "naturalità" e il "sentimento". Si po­ trebbero così ottenere miglioramenti di produttività e di qualità nei sistemi formativi familiari e scolastici. Finalmente molti ragazzi potrebbero avere di nuovo anche dei maschi adulti con cui interagire quotidianamente e cresce­ rebbero meno sottoposti a una overdose di femminile a casa e a scuola. Infatti, l'aumento di casi di bullismo e l'abbandono scolastico precoce da parte dei maschi esprimono il disagio di ragazzi spesso privati a scuola del beneficio della presenza di insegnanti maschi. Ragazzi bulli hanno maggior probabilità di divenire partner violenti. Pertanto occorre puntare sull'educazione socioaf­ fettiva (Francescato e Putton, 1 998; Francescato, Tornai, Mebane, 2004) per aiutare i ragazzi a capire e gestire le emozioni, specie quelle negative, e au­ mentare i gruppi d'autoaiuto per coloro che sono violenti e vogliono cessare di esserlo.

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Nel mio libro Amore e Potere (2000), ho cercato di esplorare le radici sto.. riche della femminilità e della mascolinità, nell'addestramento culturale dei maschi al piacere del potere e delle donne al potere di piacere e di delineare i punti forza e le aree problema dei due generi. Ho anche esaminato le tendenze oggi in atto e il legame tra mutamenti nel mondo lavorativo e stress genitoria­ sterecmt�L

le. Ho documentato come se nel privato stiamo demolendo i vecchiaVIvenlelliUO'J stereotipi

sessuali che limitavano lo sviluppo dei singoli, nel pubblico stia avvenendo una nuova segregazione, che vede l'educazione come funzione svalutata, ri­ servata prevalentemente alle donne, e la politica e l'economia con vertici de­ cisionali quasi solo maschili. Esaminando le trasformazioni in atto in vari pa­ esi negli ultimi due capitoli propongono una serie di azioni concrete che si po­ trebbero intraprendere per integrare meglio lavoro e genitorialità e trasformare la politica spettacolo in carriere politiche finalmente meritocratiche e traspa­ renti, gettando basi nuove per una società più "benevola" e meno "guerresca e mafiosa".

Riferimenti bibliografici Beck U. (2000), La società del rischio, Carocci, Roma. Bejamin A. J. (2006), L'ombra dell'altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, pag. 52, Bollati Boringhieri, Torino. Bemardini De Pace A. (2005), Mamma non m'ama, Sperling & kupfer, Milano. Connidis I.A. (2003), Divnrce and union dissolution: reverberations aver three generations in "Canadian Joumal on Aging", 22, pp. 353-368. Cohan L. e Bradbury T. N. (1997), Negative /ife events,

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longitudinal course of newly-wed marriage in: "Joumal of Personality and Social Psychology", 73, 114-128.D. Francescato D., Tornai M. e Mebane M. (2004), Psicologia di comunità per la scuola,

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Italia, Istat, Roma. Stokes W. (2005), Wamen in contemporary politics, Polity Press, Cambridge.

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La violenza alle donne di Carole Beebe Tarantelli

Storie estreme, storie comuni

Dapprima alcuni flash di donne che recentemente hanno chiesto aiuto ai centri anti-violenza della Provincia e del Comune di Roma gestiti dalla Associazione Differenza Donna. Valeria, figlia di genitori separati, quando va a trovare il padre, ritenuto dagli amici un genitore ideale, viene legata ad un letto ed abusata. La giovane non sa con precisione quando tutto ciò è iniziato, forse quando aveva due anni. Quando arriva all'adolescenza denuncia il fatto alla madre e chiede aiuto a un centro antiviolenza gestito da Differenza Donna, che l 'inserisce nel gruppo per vittime di abuso. Quando vi giunge, presenta una sofferenza così intensa che non riesce a parlare. Anni dopo riesce a dire: "ero morta". Sara è una bambina di 1 2 anni che, oltre ad essere abusata dal padre fin dall'infanzia, è da questi offerta al 'gruppo di amici pedofili' : tutte persone in apparenza molto per bene. Sara presenta un ritardo mentale. La sua 'deficienza' - non viene riscontrato nessun danno organico è con molta probabilità una difesa contro la sua pena psichica. Lei, la madre e la sorella, per un certo periodo ospiti del centro anti-violenza, sono poi state meglio e in grado di uscire dal centro. Elisa vive nel terrore della violenza del marito ma, senza lavoro e particolari qualifiche, e non avendo un luogo ove rifugiarsi, è costretta a rimanere con lui. Quando viene a conoscenza del Centro decide di chiedere ospitalità, per lei e il figlio di 1 1 anni. Ma prima di abbandonare la casa deve trovare una persona a cui affidare il suo cane. Purtroppo ne comunica la decisione al marito, questi la picchia fino quasi ad ucciderla. Dopo il ricovero in ospedale, Elisa riesce a scappare e lei e il figlio sono accolti nel Centro Anti-violenza Vittoria, dalla Moldavia ove viene rapita, è portata in Italia. Qui è spostata da una città ad un'altra, non sa quali. La sua carta di identità è stata distrutta e -

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la giovane sistematicamente torturata: immersa neli'acqua fredda, con la test� affondata e pressata nell'acqua finché i polmoni sono sul punto di scoppiare

appesa alle travi, elettrodi applicati ai genitali. Occorreva 'spezzare' la sua persona e renderla docile alla prostituzione. Tutto ciò è avvenuto in Itahi:t

'""r"' "'"''"·... Vittoria ha tentato la fuga, ma è stata ripresa dalla mafia albanese che, con u11

coltello di cucina, le ha tagliato un dito. Se ci avesse riprovato, avrebberc

rapito il fratello di

7 anni. La notte in cui è giunta al centro ed ha esposto la

sua storia era scossa da un violento tremore, come se se fosse sotto l'effetto di scosse elettriche. Donne immesse nel mercato della prostituzione, vittime di stupro, di abusi sessuali nell'infanzia, di maltrattamenti. Queste storie sembrano estreme. So­ no estreme. Ma, purtroppo, comuni. Sono storie di traumi, i traumi delle no­ stre vicine.

rer1orneJ!lO La i In tutto il mondo, intorno a noi, in ogni istante vengono prodotti traumi.

violenza alle donne non conosce confini di classe e di nazione.

È un fenomeno

che si presenta nella sviluppata Svezia e nelle regioni in via di sviluppo

_'

dell Africa. Ovviamente in tempi di guerra civile l'uso dello stupro per anmentare le donne del campo avverso rende il problema della violenza contro le donne incomparabilmente più grave. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità

(1997) la causa princi­

pale di morte per le donne in età riproduttiva è l'omicidio per mano del pro­ prio partner o di una persona a lei vicina; almeno una donna su cinque nel corso della propria vita è stata picchiata, stuprata e sottoposta ad altri abusi. Più dell'Aids, del cancro o della malaria le donne sono uccise dagli uomini loro vicini. Amnesty International ha stimato che nel mondo il numero

di

donne traumatizzate è enorme: un miliardo di donne è stato vittima di vio­

lenza (guerre comprese). A ciò occorre aggiungere che le conseguenze delle esperienza traumatica avranno gravi ricadute sui figli.

7 milioni di donne dai 16 a 7� �nni sono �ittime di violenza fisiche o sessuali. "Negli ultimi 12 mesi, 1 miliOne 150 mila donne sono state vittime di violenza. Il 14,3% delle donne In Italia, secondo una ricerca dell'Istat, quasi

con un rapporto di coppia attuale o precedente ha subito almeno una violenza

fisico o sessuale dal partner" (Istat,

2006: 1-2). Queste statistiche bastano da

sole a mostrarci quanto le esperienze di violenza siano comuni. Le reazione al

trauma, le conseguenze che ad esso si legano, costituiscono a livello mon­



di le, il rincipale problema di salute. Dobbiamo augurarci he si possa riu­ � � scire a misurare l'enorme costo sociale della violenza contro le donne.

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Le reazioni alla violenza

Nell'esperienza della violenza è molto difficile riuscire ad afferrare sia la qualità del danno, della distruzione psicologica che esso produce nel momento in cui si verifica, sia la natura estrema delle difese a cui la persona fa ricorso per sopravvivere. Per avvicinarci agli effetti psicologici di tali esperienze, dobbiamo avere una più chiara conoscenza della loro natura. Propongo questa definizione: l'evento dirompente, la violenza in atto, ren­ de la psiche inerme, senza possibilità di difesa. "La prima condizione della situazione estrema è che non vi è via di fuga, non c'è luogo in cui scappare, se non la tomba" (DesPres, 1 976: 7). Abbiamo cioè a che fare con un'esperienza di morte. La vittima vive l'esperienza della propria morte. Come ci ha detto Valeria: "Ero morta". Quando con la parola trauma ci riferiamo ad un'esperienza contro la quale non è possibile alcuna difesa, dobbiamo riflettere sul fatto che la parola "pos­ sibile" può essere intesa in due accezioni. Una è oggettiva: non c'è alcuna di­ fesa contro un atto di violenza totale: lo stupratore con un'arma rende la vit­ tima totalmente impotente. L'altra è soggettiva: non vi è alcuna possibile di­ fesa per me. Lo psicoanalista Henry Krystal ha posto la domanda cruciale: "che cosa succede alle persone che si arrendono a ciò che vivono come un pericolo mor­ tale, ma non muoiono?" (2007: 1 90). La reazione emotiva alla violenza è definita come: stato di "paura intensa, impotenza o orrore" 1 • Nel momento in cui l'atto avviene, la paura e l'angoscia sono infinite. In altre parole, abbiamo a che fare con un trauma che distrugge le difese psicologiche e getta la persona in uno stato di totale impotenza psico­ fisica (helplessness). Potremmo raffigurarci questo evento come un'esplosione che disintegra tutto ciò che rientra nel suo epicentro. Disgrega la psiche, la disarticolala, ne spezza l'integrazione e non le permette di fun­ zionare come un tutto. Oppure, l'evento violento, nel momento in cui accade, annichilisce per un istante senza tempo la vittima. Una giovane donna stuprata dal padre all'età di otto anni ha detto: "Quel giorno è esplosa una bomba ato­ mica. È stata un'Hiroshima". Un altro modo per dire tutto ciò è: "si determina un'assenza assoluta, una rottura completa nell'essere, un istante in cui nulla esiste (Tarante Ili, 2003 : 9 1 6). Maurice Blanchot al riguardo scrive: "se tu fos­ si in angoscia, non saresti" ( 1 986: 1 1 ). Per Henry Krystal l'esito estremo della 1

Vedi America Psychiatric Association, 1 999.

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reazione adulta al trauma può essere la morte psicogena. Si può morire trauma. Ma la maggior parte delle vittime non muore; dopo l'esplosione inizia la · sopravvivenza. Possiamo immaginare la reazione del sopravvissuto in questo modo: "all'interno del sé, paralizzato dal dolore ed immobile nel terrore, la forza vitale, al di là del pensiero e al di là della volontà, istantaneamente mo­ bilita l'intero organismo in una furiosa attività per conservare la vita" (Taran­ telli, 2003 : 923). Inizia una nuova vita, alla vittima il compito di trattare con le conseguenze della distruzione infinita. In questo stato, l 'esperienza è data da una sensazione d'intollerabile dolore psico-fisico. Per dirla con Primo Le­ vi, la persona si sente sull'orlo del collasso nel "buio e nel gelo dello spazio siderale" ( 1 997: 50) in una solitudine cosmica. Il risultato di questa condi­ zione è la distruzione della fiducia di base, della sensazione di sicurezza, della continuità fra il mondo esterno e quello interiore. Con Blanchot possiamo cioè dire: "è scomparso senza morire (o morto senza scomparire)" ( 1 986: 1 1 9). Sappiamo che le intrusioni provenienti dall'ambiente esterno, che vanno ol­ tre la capacità di sopportazione dell'organismo, innescano difese estreme di autoconservazione. Uno degli effetti principali della violenza è quello di sta­ bilire nella mente una dialettica che si perpetua per anni, spesso per l'intera . vita. Sintomi di tale dialettica sono sia il torpore (numbing, ovvero dissocia­ zione tra evento ed affetto), sia l 'intrusione (si rivivono le emozioni provocate dali' evento). Per un verso la distruzione psichica causata dalla reazione alla violenza subita è così difficile da gestire che il torpore degli affetti (la disso­ ciazione) si offre in modo automatico come un'ancora di salvezza. La rea­ zione all'evento traumatico e lo stesso evento divengono per tanto non reali. Charlotte Delbo, partigiana francese sopravvissuta ad Auschwitz, offre una descrizione molto efficace di questo stato: ·

·

Auschwitz è là, inalterabile, esatta, ma avvolta nella pelle del ricordo, una pelli­ cola impermeabile che la isola dal mio sé di oggi . . . Sento che quella che era nel campo non sono io, non è la persona che è qui di fronte a voi. No, è tutto troppo in­ credibile. E tutto quel che è accaduto all'altra, a quella di Auschwitz, adesso non ha influenza su di me, non mi riguarda. ( 1 985:

3)2

2 Primo Levi ha affermato una cosa simile in Se questo è un uomo, "Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono real­ mente accadute." (p. ! 06).

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•·

Fino a che lo stato di torpore funziona, la reazione all'evento traumatico può essere negata; la vittima sembra velocemente ' superare' il trauma, andare oltre. Può giungere fino a negare la portata della violenza subita. Il torpore è in effetti un sollievo, ma, se questo si perpetua nel tempo, può anche rivelarsi terrificante. "È possibile che mi sia accaduto tutto ciò ed io non senta nulla?" Quando però la sopravissuta si imbatte in uno stimolo - un odore, un suono, qualsiasi cosa che le rimanda l'evento traumatico - la devastante emozione si impone e si verifica una nuova esplosione del sé. Di ciò scrive Delbo: La pelle che avvolge il ricordo di Auschwitz è resistente . . . E tuttavia a volte ce­

de . . . [Allora] la sofferenza che provo è così insopportabile, così identica al dolore

provato là . . che la sento in tutto il corpo, e il mio corpo diventa tutto una massa di sofferenza, e io sento che la morte mi afferra. Sento che sto morendo ( 1 985: 3). .

Una lotta senza fine per conservare la coerenza del sé. Lotta sempre più difficile perché lo stimolo che rievoca la memoria del trauma con il tempo tende a generalizzarsi, accade cioè che sempre più cose riportano la memoria del trauma. Per evitare il ricordo la vittima diviene ipervigilante. Ogni cosa la fa trasalire. Ha difficoltà a concentrarsi e a dormire. Cerca di evitare gli sti­ moli che possono provocare intrusioni di memorie, giungere al punto che ogni sollecitazione emotiva, ogni sentimento può sembrarle pericoloso e pertanto può apparirle più sicuro sentire il meno possibile. La reazione di evitamento, che possiamo descrivere come un morire progressivo della capacità di essere in relazione con le emozioni e fame esperienza, può estendersi a quasi tutti gli aspetti del mondo esterno e di quello interno, fino a che la vittima perde ogni capacità di entrare in relazione. Abbiamo pertanto a che fare con una vera e propria paralisi della mente. Nel lontano 1 9 1 1 , Janet aveva notato il fenomeno ed affermato che la reazione al trauma poteva estendersi come un cancro: "il dolore spesso è rivissuto in momenti successivi della vita in maniera abba­ stanza simile al precedente colpo traumatico . . . si può sviluppare sopprimendo ogni altra cosa" (cit. in van der Kolk, 2004: 38, cors. mio). Dopo anni di sof­ ferenza si giunge ad una totale chiusura delle emozioni, al punto che l'unico scopo della vita sembra la mera sopravvivenza. Possiamo definire la forma più estrema di questa reazione come un essere morto-al-mondo. La rabbia può essere una forza che si oppone alla resa al trauma. Le vittime di violenza sono spesso estremamente cariche di rabbia. Qualcuno, per lo più una persona a cui la vittima è legata da vincoli di parentela, calpestando

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completamente la sua soggettività, ha fatto irruzione nella sua vita intima e l 'ha spezzata, schiacciata, annichilita. In casi di abuso e di maltrattamenti ciò si è ripetuto più volte, per mesi, anne . Nel periodo immediatamente successivo al trauma, le vittime percepiscono un senso di rottura assoluta del senso di continuità dell'essere. La rottura cau­ sata dalla violenza produce una discontinuità col sé e la vita passata tale da distruggere il senso stesso di passato, cioè il fondamento dell'esistenza perso­ nale. In termini esperienziali, l'lo che esisteva prima della catastrofe non a­ vrebbe potuto vivere quell'esperienza ed essere se stesso, cosi come l'Io nato dall'esperienza non è quel "me". La vittima può sentire di essere un'altra per­ sona, e ciò produce un senso di radicale discontinuità con l'esistenza normale. La distruzione della fiducia di base - il sentirsi sicuri nel mondo, il sentire che la vita è dotata di ordine, continuità e significato - estende il contagio di mor­ te dell'atto violento al mondo dei sopravvissuti, come se gli esseri umani e lo stesso mondo naturale fossero dominati dalla violenza. L'orrore determinato dall'atto violento diventa un schermo su cui ogni esperienza viene proiettata. In tal modo, l'lo che è esistito prima della catastrofe può solo essere ricordato esteriormente e la vita prima della catastrofe, sebbene ricordata come evento, viene persa come esperienza. Spesso la capacità di regolare le emozioni è se­ riamente compromessa. Questa reazione estrema è spesso una difesa necessaria contro la catastrofe psicologica che può essere causata da una ritraumatizzazione ad opera dell'intrusione della memoria dello stupro o del maltrattamento. Pertanto, pre­ cariamente incapsulato all'interno del sé, il ricordo minaccia incessantemente di rompere le barriere che lo contengono e di divenire presente come angoscia infinita. La minaccia del ritorno delle emozioni connesse alla violenza è sem­ pre presente, non diviene mai passato. Nel suo lavoro sull'Olocausto, Ter­ rence Des Pres formula questo concetto: "La situazione estrema non è un e­ vento, né un periodo di crisi con un inizio, un periodo intermedio e una fine. È uno stato dell 'esistenza" ( 1 976: 8, cors. mio). Mentre gli adulti attraversano periodi in cui la memoria emotiva del trau­ ma è dissociata dalla memoria dichiarativa, ed altri in cui sono inondati da memorie emozionali, i bambini tendono a provare 'torpore e 'intrusione' sen­ za avere la capacità di associare questi stati alla memoria dell'evento trauma-

3 Secondo la mia esperienza, ho potuto appurare che colui che perpetra violenza sui minori della propria famiglia agisce in modo seriale, commettendo l'atto più volte e su più membri della famiglia.

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tico. Questo può significare che la vittima diventa incapace di dare un senso al torpore che la spinge a ritrarsi dalla vita, esattamente come diventa difficile attribuire senso alle emozioni di paura ed orrore che invadano costantemente la psiche, poiché queste sono scisse da ogni rappresentazione. Ne consegue che può essere spinta a pensare che in lei vi sia qualche difetto intrinseco, di essere "matta". Possiamo pensare a ciò come ad una lesione della dimensione spa­ ziale/temporale, un senso di non relazione tra il sé e gli eventi che produce un senso di distruzione della propria storia personale. Questo senso di essere al di fuori del tempo, in una situazione di assoluta ripetitività, in un eterno presente senza prospettive di trasformazioni, o di futuro, è una reazione comune alle vittime di violenza. Possiamo vedere in ciò la distruzione della fiducia di fon­ do e del ritmo della continuità (Tustin, 1 986) della vita. Forse un'immagine che può dare un'idea degli effetti della violenza ci è data dalla forza delle e­ mozioni che scavano un cratere nella mente. Come può la nostra cultura ignorare questo dolore e perché è così forte la difficoltà a riconoscere e tenere in mente la violenza perpetrata contro le don­ ne? In parte ciò è dovuto al fatto che, come ha affermato Hannah Arendt "la violenza in se stessa è incapace di linguaggio e non soltanto che il linguaggio è impotente di fronte alla violenza" ( 1 983: 1 2). La violenza azzera ogni tenta­ tivo di trovare parole adatte per parlame4 • Ciò è in parte dovuto alla tendenza ad identificarsi con l'aggressore. Attraverso la fantasia di fare proprio il potere dell'aggressore ed apparire invulnerabile ci si disfa della minaccia, sempre presente, di ricadere in uno stato di totale impotenza e vulnerabilità. Ma que­ sta incapacità è anche connessa alla inevitabile reazione umana alla violenza. La violenza con il suo carico di impotenza, pena ed orrore, produce automati­ che reazioni difensive: distanziamento, torpore, un senso di irrealtà, increduli­ tà, scetticismo anche tra i testimoni. Nel 1 945 Emest Jones osservava che "di norma la mente retrocede, ora in modo iroso ora violento dagli orrori, più spesso se ne allontana mettendo in campo una varietà di dinieghi fino a giun­ gere ad ignorare l'evento". Questa è una misura protettiva, probabile risposta che si attiva in ognuno di noi quando ci si avvicina a questo tipo di esperien­ ze, anche semplicemente leggendo su di esse. Sono questi complessi fattori

4 Krystal ( 1 988) afferma che "al colmo del dolore", nei racconti in prima persona dello stato psichico durante il trauma "si passa da una descrizione dalle esperienze e dei sentimenti del soggetto a un racconto degli eventi che sembra quasi effettuato da una terza persona." (p. l 52).

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che spingono tutti noi a sottostimare la frequenza del problema, e quando esso si impone, sottostimiamo la sua importanza. Questa reazione è in agguato anche in coloro che professionalmente tratta­ no con la violenza. Se il ricercatore o il terapeuta si dissocia dalla pena, dall'orrore e dall'intrinseca complessità della reazione traumatica, può giun­ gere a de-soggettivare la vittima, fino a farla sentire un esemplare, un modello e ciò può ritraumatizzarla. Corollario di tutto ciò può essere il desiderio di un intervento veloce, l'appello ad una cura magica. Se la persona può essere cu­ rata in poche sedute, la sua sofferenza non deve essere stata così profonda e sconvolgente come pensava.

Luoghi per osservare e per agire

Gli studi sul trauma hanno radice e origine nella riparazione politica e nel progetto etico di rendere la sofferenza delle sopravissute visibile alla loro co­ munità. A mio parere, stiamo elaborando un processo di pensiero che ci per­ mette di creare una nuova mentalità in grado di identificarci con la vittima. Questa identificazione sembra essere divenuta collettiva solo recentemente nella storia dell'Occidente. Nella sfera della politica, in senso ampio, forse si devono ricercare le motivazioni che, ad un certo punto, hanno reso possibile alzare il velo sulle enormi difficoltà a sopravvivere ad esperienze di morte. Mi riferisco alla democratizzazione dei processi di rappresentazione, nonché all'alfabetizzazione di massa dei soldati che hanno partecipato alle Guerre mondiali, all'orrore dell'Olocausto e della bomba di Hiroshima. Condizioni estreme che hanno autorizzato rappresentazioni di esperienze, tra le quali quelle traumatiche, che poi si sono imposte all'attenzione collettiva. Se la per­ sona, per usare le parole di Winnicott ( 1 988), è riconosciuta come "un luogo da cui vedere" si rende necessario lo studio dell'esperienza estrema che le ha reso difficile mantenere integra la propria soggettività. Dobbiamo a ciò ag­ giungere gli studi teorici, la pratica clinica e la psicoanalisi, prodotti del pro­ cesso di democratizzazione e nel contempo motori di esso. La cultura occi­ dentale ha in tale modo affinato gli strumenti per osservare e studiare le rea­ zioni psicologiche proprie delle vittime di violenza. È interessante notare che negli Stati Uniti gli studi sul trauma sono esplosi in conseguenza di due grandi movimenti politici: contro la Guerra del Vietnam e contro la violenza sulla donne. Alle università e alle ricerche e clinici è stato in tale modo affidato il mandato di studiare la reazione agli eventi che annientano tutte le barriere di­ fensive.

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La violenza contro le donne è un problema che riguarda la vittima, ma allo stesso tempo è un problema collettivo, e a tale livello deve essere affrontato. Non abbiamo spazio sufficiente per soffermarci sulle complessità dei fattori che influenzano la cura della vittima. Herman al riguardo scrive: "le donne che si riprendono con maggior successo sono quelle che scoprono un qualche significato nella loro esperienza in grado di trascendere i limiti della loro tra­ gedia personale. In genere, le donne trovano questo significato unendosi ad altre donne in una azione sociale" (2005: 1 0 1 ). Se ciò è vero, tutti noi dob­ biamo lavorare per la costruzione di una società che apra spazi per azioni so­ ciali contro la violenza sulle donne. La Provincia e il Comune di Roma l 'hanno fatto in modo egregio. A noi il compito di continuare a stimolarli.

Riferimenti bibliografici American Psychiatric Association, DSM-4 ( 1 999), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano. Arendt, H. ( l 983), Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Torino. Beebe Tarantelli, C. (2003 e 2004), La vita entro la morte: Verso una metapsicologia del trauma psichico catastrofico, "lntemational Joumal of Psychoanalysis", vol.84, pt. 4; e anche "Psicoterapia psicoanalitica", XI, 2, 2004. Blanchot M. ( 1 986), The writing of the disaster, University ofNebraska Press, Lincoln. Delbo C. ( 1 985), Days and memory, Marlboro, Verrnont, The Marlboro Press. DesPres T. ( 1 976), The Survivor: An Anatomy of Life in the Death Camps, Oxford University Press, New York. Herrnan, J. (2005), Guarire dal trauma, Edizioni Magi, Roma. Istat (2007), La violenza e i maltrattamenti contro le donne, dentro e fuori la famiglia (anno 2006), in: "Statistiche in breve", Roma. Jones, E. ( 1 945), Psychology and war conditions, "Psychoanal. Quart." 1 4, l 1 945. Krystal, H. (2007), Affetto, trauma, alessitimia, Edizioni Magi, Roma. Levi, P. ( 1 947), Se questo è un uomo, Einaudi Tascabili, Torino. Tustin, F. ( 1 986), Barriere autistiche nei pazienti nevrotici, Boria, Roma. van der Kolk, B.A., et.al. (2004), Stress traumatico, Edizioni Magi, Roma. Organizzazione Mondiale Sanità ( l 989), Violenza against women by intimate partners, in: http://www .who.int/gender/violence/who multicountry study/summary report/. Winnicott, D. W. ( 1989), Sulla natura umana, Cortina, Milano. _

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Parte Seconda Conoscenza e azione sociale

Il portale del! 'Osservatorio di Ilaria Arigoni , Mari a Ch i ar a De Ange lis , Luca Di Cen si, Marco Ori­ soli, Maura Simone, Roberta Staffieri, Simona Staffieri

Premessa

A partire dal 2005, il Dipartimento di Scienze Demografiche della "Sapien­ za" Università di Roma - su incarico dell'Istituzione di Genere Femminile e Solidarietà "Solidea" della Provincia di Roma - ha diretto un progetto di ri­ cerca per la realizzazione di un "Osservatorio sulle donne in difficoltà, vittime di violenza e i loro bambini". Occorre anzitutto sgombrare il campo da equivoci nominalistici. La violen­ za sulle e contro le donne si coniuga in diversi modi: la violenza sessuale è solo una delle forme di violenza che le donne possono trovarsi a subìre nel corso della loro vita. Ad essa spesso si accompagnano espressioni più o meno marcate di violenza fisica, psicologica ed economica; senza dubbio molto più diffuse di quanto non accada per la violenza sessuale, ma altrettanto umilianti e traumatizzanti. Forme di violenza invisibili, striscianti, difficilmente denun­ ciate, perché spesso le donne non ne sono neanche consapevoli o, ed è peggio, pensano di "meritarsele". Il termine di violenza, dunque, è stato recepito nella sua dimensione concettuale più ampia, per cercare di coglierlo in tutte le sue sfumature. Nonostante, infatti, negli ultimi anni si sia dato un decisivo impul­ so alla ricerca su questo fenomeno, è pur vero che si conosce ancora troppo poco sulle determinanti, le condizioni, i fattori di rischio che ne favoriscono la diffusione ed il perdurare, così come sulle strategie più efficaci per contrastar­ lo. Anche il termine difficoltà non è privo di ambiguità. Si è cercato, pertanto, di indicame i confini, per evitare di generalizzarne eccessivamente il contenu­ to. Le difficoltà sono intese in termini economici, sociali e relazionali, nonché in termini di opportunità e possibilità concrete di realizzazione. Si tratta di una serie complessa e variegata di situazioni in cui la donna può trovarsi in condi­ zioni di disagio o ad essere discriminata; vuoi perché non riesce a trovare 107

un'occupazione o perché ha perso il lavoro, vuoi perché si è interrotta una re­ _ VUOI perché

lazione da cui dipendeva totalmente, vuoi perché non ha una casa,

è sola con il proprio bambino, vuoi perché non è in grado di orientarsi sul ter­ ritorio e non sa come accedere ai servizi che potrebbero aiutarla, vuoi perché non ha studiato, vuoi perché non vede prospettive di miglioramento della sua condizione etc.. Per poter far fronte a questo insieme di difficoltà, occorre co­ noscerne le caratteristiche, la portata, l'impatto sociale. Occorre approfondir­ ne la conoscenza, guidarne la risposta politica. Le lacune informative, infatti, rendono più difficile l'azione politica, non consentendo ai decisori di avere un quadro chiaro su come, e verso quali forme di intervento, orientare le yroprie

scelte. Questa, l'azione politica, va però accompagnata da un cambiamento

culturale che il mondo della ricerca scientifica può favorire attraverso la diffu­ sione e la divulgazione dei risultati del proprio lavoro.

Le attività dell'Osservatorio La progettazione dell'Osservatorio va esattamente in questa direzione: a partire dalla raccolta sistematica, l'organizzazione e lo studio puntuale di al­ cuni aspetti del fenomeno, si è provveduto alla costruzione di una serie di strumenti di diffusione e divulgazione dell'informazione diretti sia ai cittadini sia agli operatori del settore, per supportarne la difficile gestione delle criticità quotidiane. Le attività dell'Osservatorio coprono diverse aree di studio e ricerca (Fig. 1): quella giuridico-normativa, consistente in un'articolata schedatura delle norme e delle leggi promulgate sul tema, organizzate per tipo di norma, per livello di attuazione della norma, nonché per aree temati­ che e territorio; quella statistica, attraverso la costruzione di un articolato sistema di indicatori relativi alla definizione del contesto di riferimento (demo­ grafico, economico, sociale, sanitario), a diversi soggetti (donne vit­ time di violenza, donne immigrate, donne disabili), ad approfondi­ menti tematici (separazioni e divorzi, affidamenti e adozioni, vita di coppia, maternità, conciliazione lavoro/famiglia, servizi alla prima in­ fanzia); quella relativa alla mappatura dei servizi, indispensabile per consenti­ re alla donna in difficoltà di orientarsi sul territorio ed individuare il

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centro o il servizio più vicino che possa fornirle l'aiuto di cui ha biso­ gno; quella di diffusione delle pubblicazioni dell'Osservatorio e dei link u­ tili.

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