Diritto e violenza 9788832908688


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Diritto e violenza
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Ombre del diritto

«La pura luce e la pura oscurità son due vuoti, che son lo stesso. Solo nella luce determinata – e la luce è determinata dall’oscurità –, quindi solo nella luce intorbidata, si può distinguer qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità determinata – e l’oscurità è determinata dalla luce –, quindi solo nell’oscurità rischiarata» g.w.f. hegel

Direttore di collana Francesco Mancuso Comitato scientifico Luigi Alfieri; Francisco Javier Ansuátegui Roig; Laura Bazzicalupo; Carlo Cappa; Gennaro Carillo; Pietro Costa; Fabio Donato; Ida Dominijanni; Francesco Fasolino; Pasquale Femia; Marco Innamorati; Jean-François Kervégan; Marina Lalatta Costerbosa; Fernando H. Llano Alonso; Peter Langford; Marilena Maniaci; Giuseppe Martinico; Sergio Moccia; Josep Joan Moreso; Baldassare Pastore; Pierre-Yves Quiviger; Paolo Ridola; Flaminia Saccà; Aldo Schiavello; Giovanni Sciancalepore; Rita Šerpytytė; Laura Solidoro; Giusto Traina; Nadia Urbinati; Eugenio Raúl Zaffaroni. Comitato direttivo Valeria Giordano; Francesco Schiaffo; Antonino Sessa; Francesco Adorno; Giuseppe D’Angelo, Valentina Ripa; Giovanna Maria Antonietta Foddai; Gianmarco Gometz. Comitato di redazione Ernesto Sferrazza Papa; Sandro Luce; Dante Valitutti; Paola Pasquino; Michelangelo Lucia­no; Carmelo Nigro; Giovanni Chiarini; Valentina Antoniol; Carlo Crosato; Annachiara Carcano; Chiara Magneschi; Emanuele Cornetta; Vincenzo Peluso; Donato Aliberti; Gian Marco Galasso. Volume stampato con il contributo del Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale PRIN 2017 “The Dark Side of the Law. When discrimination, exclusion and oppression are by law”, unità di ricerca del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno. Titolo originale: Recht und Gewalt Traduzione dal tedesco di Giovanni Andreozzi © MSB Matthes & Seitz Berlin Verlagsgesellschaft mbH © 2022 Lit Edizioni s.a.s. Tutti i diritti riservati Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni s.a.s. Via Isonzo 34, 00198 Roma Tel. 06.8412007 [email protected] www.castelvecchieditore.com

Christoph Menke

DIRITTO E VIOLENZA

A cura di Francesco Mancuso e Giovanni Andreozzi Traduzione di Giovanni Andreozzi

Oltre il destino della violenza di Francesco Mancuso

Con la traduzione italiana di Recht und Gewalt di Christoph Menke esordisce la collana Ombre del diritto, diretta emanazione delle ricerche effettuate dall’unità salernitana componente il PRIN 2017 The dark side of the law. When discrimination, exclusion and oppression are by law. La specificità del Progetto di ricerca è data insieme dal suo oggetto e dal metodo. Quanto al primo, si tratta di rimarcare l’ombra costantemente presente in ogni riflessione radicale e critica sul diritto: violenza e dominio, che non sono né il “tutto” né l’“altro” del diritto, ma codici immanenti e interagenti con esso, che può essere alternativamente strumento di emancipazione o di dominio. Si deve al più laico e disincantato notomizzatore del dover essere giuridico (che non è quello della morale o dell’etica), Hans Kelsen, il merito di aver individuato con nettezza alcune delle tendenze, anche opposte, del diritto: la prima è la tendenza alla pace, ovvero alla «sicurezza collettiva» intesa come «assenza di uso della forza fisica»: «Ma la pace del diritto è solo una pace relativa, non una pace assoluta. Il diritto non esclude infatti l’uso della forza, cioè la costrizione fisica di un uomo da parte di un altro uomo»1. E questo pone di conseguenza, come fa notare Menke, la questione dell’eguaglianza relativa degli uomini e di quel «tormento dell’eteronomia» di cui il giurista praghese parla in Vom Wesen und Wert der Demokratie2, facendone la base di 1 Hans Kelsen, Reine Rechtslehre, Franz Deuticke, 1960; trad. it. La dottrina pura del diritto, a cura di M.G. Losano, Einaudi, 1966, p. 50. 2 Hans Kelsen, Vom Wesen und Wert der Demokratie, J.C.B. Mohr, 1929; trad. it. Es-

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partenza per una straordinaria analisi non ideologica del nucleo antigerarchico, anarchico e dinamico della democrazia. D’altronde, esiste anche un’altra tendenza, di carattere regressivo. Più un dato antropologico (negativo) che una caratteristica specifica dell’ordinamento giuridico: quella per cui il mero dominio, come «primaria aspirazione di potenza e di affermazione»3, può essere spesso non soltanto mezzo quanto piuttosto «scopo» dell’azione sociale (come sostiene ancora Kelsen); emergenza acuminata di quella che Canetti chiama «la spina del comando». Questa compresenza di linee contrarie, che vede agire anche forme apparentemente non coattive come quelle della violenza simbolica (si pensi ai lavori pioneristici di Bourdieu), non può che orientare l’analisi verso molteplici ponti interdisciplinari (tra diritto e storia, letteratura, sociologia, politica, arte) che consentano di sollecitare il nesso strutturalmente genealogico di violenza e giuridicità: il diritto certamente sorge come reazione alla diffusività della violenza, come limite posto all’“illimitato” della violenza incrementale (vedi le riflessioni importanti di Sergio Cotta in Perché la violenza?)4, ma è impotente qualora non sia efficace. Vale a dire: se privo di quei meccanismi sanzionatori che sono, di fatto, forza applicata, potere, dunque violenza. Eppure il diritto – che Kelsen sostiene, con amaro realismo, ma non nichilismo, possa essere veicolo di ogni tipo possibile di contenuto – non è solo l’attivazione del «circolo diabolico della violenza» (Heinrich Popitz): tunnel senza uscita, senza redenzione, senza speranza. Il diritto deve la sua legittimità a presupposti fragili e potenti come l’eguaglianza, la libertà, la giustizia: «Dignità e diritti umani sono infondati, ma solo nel senso che non hanno basi in una natura immodificabile, bensì, empiricamente, negli sviluppi delle diverse civiltà, con le loro improvvise accelerazioni e catastrofiche cadute e retrocessioni. Mantenere e accrescere il livello di civiltà è la principale senza e valore della democrazia, in Hans Kelsen, La democrazia, a cura di G. Gavazzi, il Mulino, 1984, p. 39. 3 Hans Kelsen, Allgemeine Rechtslehre im Lichte materialistischer Geschichtsauffassung, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», n. LXVI, 1931, pp. 449521; trad. it. La teoria generale del diritto e il materialismo storico, a cura di F. Riccobono, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, p. 67. 4 Sergio Cotta, Perché la violenza? Un’interpretazione filosofica, a cura di P.P. Portinaro, Scholé, 2018.

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diga contro il disumano»5. Ed è proprio questa oscillazione tra umano e disumano, emancipazione e dominio, inclusione ed esclusione, che fa del diritto (e dei diritti) un oggetto intrinsecamente complesso. Passiamo così al metodo: nel porre la tesi della relazione di diritto e violenza – che non è certo nuova e che lega autori così diversi ma anche così vicini come Hobbes e Canetti, Burckhardt e Sofsky, Tucidide e Weber –, due sono i rischi che potrebbero offuscare un’analisi realistica (ma non cinica) del fenomeno: il primo è immaginare il diritto come progressivamente trionfante nella meritoria opera di mascheramento del volto di Gorgone del potere e di incivilimento rispetto a una violenza barbarica, retaggio di un passato oscuro. Un idealismo normativo che, isolando il plusvalore della sua essenza doveristica, si accentra quasi esclusivamente sulla primazia dei diritti: la conseguenza è il trascolorare della distanza tra la validità e l’efficacia delle norme di tutela, garanzia e promozione della persona, delle contraddizioni dell’universalismo, della debolezza dell’immunizzazione dalla violenza. Le trasformazioni del nome e della “cosa” guerra, la sua riemergenza in forme ibride, l’impotenza delle istituzioni sovranazionali, la riemersione di volti della sovranità in «presentat’arm»6, la non scomparsa del nazionalismo aggressivo, le forme di “dominio e sottomissione” e le nuove schiavitù, le politiche reattive dei muri e della stigmatizzazione dell’estraneo sono tutte smentite della rassicurante ma non propriamente effettiva teodicea di una progressiva irreggimentazione della violenza (del dominio, dell’arbitrio, dell’assoggettamento) ad opera dei diritti e del diritto. Insomma, di un diritto che si vuole, non si sa come, profondamente orientato dalla morale – obliando così la questione del pluralismo valoriale e della sua natura intrinsecamente polemogena. Dinanzi alla riemersione della potenza disordinante, guerreggiante, annichilente, di reverenza e terrore, della forza che pretende di farsi norma, il diritto svela il suo essere delicata e fragile tessitura esposta 5 Remo Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, il Mulino, 2019, p. 220. 6 Autore della felice espressione è un altro esponente della teoria critica tedesca, Hauke Brunkhorst, in riferimento a quel nucleo antigiuridico e iperpoliticista della dottrina tradizionale della sovranità che veniva considerato come “problema” e categoricamente rifiutato proprio da Kelsen.

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a repentini strappi, ed evidenzia il suo venire sempre “dopo” il fatto, il nudo fatto della forza. Ma vi è anche un altro rischio, forse ancora più esiziale del precedente: concepire il diritto come indistinguibile dalla violenza, come brutalità in forme diverse, tutt’altro quindi che un “addomesticamento” della mera forza o una sua “dietetica”. La questione nodale è ben chiara alla teoria giuridica: nella Reine Rechtslehre kelseniana, «la sanzione, che è coazione, ossia forza, è nella norma, anzi è la norma stessa»7. Per la tradizione del pensiero giusfilosofico realista, da Olivecrona a Ross, le norme giuridiche concernono esplicitamente la forza. Insomma, «la forza non è un quid al quale si ricorre ogni qualvolta si vuole ottenere che il diritto sia rispettato; la forza è nel diritto (pur non esaurendolo), perché il diritto nasce proprio come organizzazione della forza»8. Certo, “forza”, non violenza – come se, appunto, la “forza” fosse certamente “violenza”, ma violenza giuridicamente qualificata, e dunque, eo ipso, limitata. Ma è straordinariamente indicativo che in una lingua solitamente così precisa come il tedesco lo stesso termine Gewalt indichi allo stesso tempo sia la mera violenza che la cosiddetta forza pubblica (forza di legge, autorità dello Stato, pubblico potere ecc.): come sottolinea Derrida, «Gewalt è dunque a un tempo la violenza e il potere legittimo, l’autorità giustificata»9. Giustificata, dunque legittima: ma anche l’autorità legittima origina da un nulla normativo. È esattamente il momento della presa del potere da parte del primo usurpatore, costantemente evocato da Kelsen, della forza normativa del fattuale di Jellinek e, prima di costoro, della «missione e funzione storica originaria» della forza, di cui parla Jhering: «Potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della forza […] come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto»10. 7 Alfonso Catania, Filosofia del diritto. Manuale, a cura di F. Mancuso, Giappichelli, 2020, p. 71. 8 Ibidem. Per una discussione delle questioni rimando al mio Il doppio volto del diritto, Giappichelli, 2019. 9 Jacques Derrida, Force de loi. Le Fondement mystique de l’autorité, Galilée, 1994; trad. it. Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», a cura di A. Di Natale, Boringhieri, 2003, p. 53. 10 Rudolf von Jhering, Der Zweck im Recht, 2 voll., Breitkopf & Härtel, 1877; trad. it. Lo scopo nel diritto, a cura di M.G. Losano, Einaudi, 1972, p. 186.

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In questa prospettiva, sospeso tra Sein e Sollen, il diritto sarebbe una raffinata, ma non per questo meno feroce, emanazione dalla violenza e del dominio, di quella asimmetria che connota il potere di azione (che è violenza)11. La definizione benjaminiana del diritto inteso come intrinsecamente «marcio» ha certo trovato molti convinti seguaci, ma sicuramente non ha giovato alla comprensione critica di un intreccio, quello tra diritto e violenza, che non è indistinzione. E, nonostante le numerose smentite storiche, non è neppure cancellazione dell’orientamento tendenziale del diritto a una messa in discussione, alla limitazione, all’ordinamento e messa in forma del potere e della sua violenza, alla istituzionalizzazione e al contenimento della forza, alla tutela della persona, al suo essere un meccanismo sfiduciario-sanzionatorio che però necessita al tempo stesso di una trama relazionale e fiduciaria, che tenga insieme “individuale” e “collettivo”. Dal punto di vista del metodo, dunque, per comprendere più adeguatamente le molteplici questioni derivanti dal viluppo di problemi che il nesso violenza-diritto produce, si tratta di attivare una relazione “iperdialettica” tra diritto, diritti e violenza, tra integrazione ed esclusione, tra ordine e conflitto, tra fiducia e sospetto, tra norma ed eccezione: una relazione che – come ha scritto Pietro Costa – «non sfocia hegelianamente in una sintesi superiore e pacificata, ma si sviluppa come un’insuperabile compresenza dei contrari»12. Il testo di Christoph Menke, autore poco conosciuto in Italia ma centrale nel dibattito culturale tedesco13, ha il merito di mettere in evidenza, in funzione certamente anti-utopica ma non regressiva, i paradossi del diritto. E lo fa procedendo a una scansione di tipo genealogico che prende molto sul serio la tensione in esso presente, 11 «La forma più diretta di potere è il puro potere di azione: il potere di recare danno agli altri con un’azione diretta contro di essi, il potere di “fare qualcosa” agli altri» (Heinrich Popitz, Phänomene der Macht, Mohr Siebeck, 1986; trad. it. Fenomenologia del potere, a cura di S. Cremaschi, il Mulino, 1990, p. 65). 12 Pietro Costa, Lo Stato tra violenza e diritto: una parabola moderna, in Federico Tomasello (a cura di), Violenza e politica. Dopo il Novecento, il Mulino, 2020, p. 36. 13 Importante è, tra gli altri, il dialogo instaurato, a partire da Derrida, con Jürgen Habermas sulla «decostruzione della giustizia». La risposta di Habermas a Menke è leggibile, anche nella traduzione italiana, in Jürgen Habermas, Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, 2015; trad. it. Tra scienza e fede, a cura di M. Carpitella, Laterza, 2008.

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e che è il basso continuo dell’omonima opera di Habermas, tra fatticità e validità. Con una scansione rigorosa e una lucida interpretazione dell’«arduo» testo di Benjamin sulla violenza14, Menke approfondisce il paradosso del diritto cui abbiamo fatto cenno prima15. Esso rappresenta la base di partenza della sua ricerca, che tende a spiegare il movimento circolare, oscillatorio, sostanzialmente destinale della relazione tra giuridicità e violenza. La legittimazione del diritto non è, secondo questa impostazione d’analisi, l’altro della violenza, ma è esattamente ciò che attiva la violenza giuridica allorquando si blocchi il «circuito di giustificazione». Proprio questo orientamento “destinale” è ciò che segna insieme la differenziazione del diritto dalla coazione a ripetere della vendetta, la sua legittimazione in quanto diritto degli eguali16 e la nascita di un diritto autonomo, nel duplice senso del diritto che rende autonomi e del diritto che è autonomo dalla giustizia tradizionale. Ora, tutto lo sforzo analitico di Menke è concentrato sull’individuazione, nella tragedia greca, e in particolare nell’Edipo Re, del momento aurorale di differenziazione (che, come si vedrà dalla conclusione, è più apparente che reale) del diritto delle parti eguali di una società politica dalla “giustizia” della vendetta, la quale è sì fondata su un ordine dato e immutabile, ma è altresì condannata al vicolo cieco della ripetizione dell’identico e alla pendolarità tra esercizio di giustizia e dismisura e alterazione della stessa che si produce nella compensazione/retribuzione del misfatto. Non intendo in questa sede anticipare il climax espositivo che Menke, con stile piano e chiaro, ha l’abilità di creare nel testo, mettendo in luce paradossi con un’abilità di penetrazione che è pari a quella delle straordinarie analisi di Claude Lefort sulla permanenza del residuo teologico-politico17. Desidero 14 Non omettendo, peraltro, di analizzare testi più interni alla teoria giuridica, come quelli di Kelsen, Dworkin e Luhmann. 15 La compresenza di un senso del diritto come legittimazione del superamento della violenza e di un altro senso come «impiego della violenza». 16 Qui Menke utilizza le analisi di Christian Meier sulla formazione dell’identità politica e giuridica della Grecia antica. 17 Si pensi a questo passo di Lefort dal sapore tocquevilliano (Tocqueville, peraltro, appare anche nelle pagine di Menke): «Niente come l’istituzione del suffragio universale […] rende più tangibile il paradosso della democrazia. È proprio quando si ritiene si manifesti la sovranità popolare e il popolo si attualizzi esprimendo la sua

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solo appuntare l’attenzione del lettore almeno su tre questioni rivelative del grande interesse teorico che Recht und Gewalt suscita. La prima è costituita dal fatto che alla base della politica vi è il diritto con la sua legge dell’eguaglianza. Non quindi una primazia della politica su un diritto strumentale ad essa, ma la fissazione nel diritto di quella isonomia che coincide con la modernità politica e giuridica. Ciò in qualche modo rovescia la vulgata di provenienza schmittiana della dipendenza quasi assoluta del diritto dalla politica – al punto che diritto nel senso più pieno, sovrano, è ciò che sta fuori dal diritto stesso (e non a caso Menke rigetta tutte le narrazioni facenti perno sull’abuso del concetto di eccezione). Il secondo punto è costituito dalla relazione tra diritto e non-diritto. Il giurista è abituato a pensare il non-diritto come qualcosa che comunque è concepibile solo nello spazio del diritto. Un-recht, ‘negazione del diritto’ che si produce anche in forma legale (ricordiamoci delle riflessioni di Gustav Radbruch)18. La questione che pone Menke è invece quella della «estraneità» al diritto, che non è necessariamente il suo “contrario”: se proprio in nome dell’eguaglianza viene ad essere l’unità politica dei cittadini (e non l’ordine prefissato del mondo), contemporaneamente ad essa si produce «una possibilità del tutto sconosciuta e impensabile per l’ordine della giustizia: la possibilità della non giustizia – un volere e agire al di qua di un qualsiasi orientamento normativo alla giustizia», l’«esterno ed estraneo alla giustizia del diritto». Ma ciò comporta che faccia parte dell’essenza del diritto instaurare un rapporto di imposizione e violenza con ciò che è esterno, estraneo a esso. Come a dire che quel rapporto di ostilità che caratterizza, per Schmitt, la relazione con lo straniero (der Fremde) e che costituisce il “politico”, è per il “giuridico” non una possibilità reale, volontà che le solidarietà sociali si dissolvono, il cittadino si trova isolato da tutte le reti entro cui si svolge la vita sociale per essere convertito in unità di conto. Il numero si sostituisce alla sostanza» (Claude Lefort, Essais sur le politique. XIXe-XXe siècles, Seuil, 1986; trad. it. La questione della democrazia, in Saggi sul politico. XIX e XX secolo, a cura di Beatrice Magni, il Ponte, 2007). 18 Grande giurista tedesco, centrale nel dibattito sulla revisione del positivismo giuridico: cfr. le recenti traduzioni italiane di Filosofia del diritto, a cura di G. Carlizzi, V. Omaggio, Giuffrè, 2021, e di Diritto e no. Tre scritti, a cura di M. Lalatta Costerbosa, Mimesis, 2021.

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non una virtualità che ha all’orizzonte una conflittualità concreta, ma la sua stessa essenza19. Il terzo punto è costituito dalla lettura dell’idea benjaminiana di «destituzione» del diritto. Ebbene, nella prospettiva di Menke si tratta di una destituzione, non di una de-istituzione. Nelle pagine di Menke, nonostante la lettura radicale del diritto e dei diritti, non c’è insomma alcuna malìa per l’antigiuridismo20, né tanto meno un’interpretazione neo-anarchica delle istituzioni tale da porre l’alternativa secca tra istituzioni totali e disumanizzanti e vuoto istituzionale21. La prospettiva è quella, critica e «consapevole», di un suggestivo «diritto dei riluttanti», depotenziato, non più destinale, una sorta di nuovo “diritto di resistenza” scevro dal gravame giusnaturalistico e valoriale: «la promessa di un al di là oltre il diritto porta soltanto (come indica l’esperienza di Shylock) al capovolgimento del diritto nel torto».

19 Il suo spettro, al pari del “politico”, è quello della guerra civile, la στάσις che Nicole Loraux ha genialmente individuato all’interno della costituzione stessa della polis come aggregato politico. Ma vedi anche l’importante volume di L. Alfieri, L’ombra della sovranità. Da Hobbes a Canetti e ritorno, Treccani, 2021. 20 Si leggano le riflessioni conclusive di Jean-François Kervégan, Che fare di Carl Schmitt?, a cura di F. Mancuso, Laterza, 2016. 21 Roberto Esposito, Istituzione, il Mulino, 2021, p. 73.

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Considerazioni preliminari

Qualsiasi tentativo che intenda comprendere il rapporto tra diritto e violenza deve partire da due considerazioni in tensione, se non in contraddizione, tra loro. La prima considerazione è che il diritto è il contrario della violenza: le forme di decisione giuridiche vengono introdotte per spezzare la sequenza infinita di violenza, contro-violenza e contro-contro-violenza e sciogliere la necessità del ‘dover rispondere’ (Antwortenmüssen) alla violenza con una nuova violenza. La seconda considerazione è che il diritto è esso stesso violenza; anche le decisioni giuridiche esercitano violenza – la violenza esterna che investe il corpo, così come la violenza interna che lede l’essere e l’anima del condannato. In entrambe le considerazioni si confrontano l’‘ostilità alla violenza’ [Gewaltfeindlichkeit] e la ‘violenza’ [Gewaltsamkeit] del diritto: la pretesa del diritto di porre fine alla «violenza selvaggia» dello stato naturale di libertà «privo di leggi esterne»1 – l’«aspettativa che il diritto possa trasformare la debole forza di convinzioni intersoggettivamente condivise in un reale potere d’integrazione sociale, capace da ultimo di piegare a sé ogni nuda violenza, sotto qualunque maschera si presenti»2 – e la violenza che inevitabilmente ritorna nel modo in cui il 1 Immanuel Kant, Metaphysik der Sitten, in Werke in sechs Banden, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1965, vol. IV; trad. it. Metafisica dei costumi, a cura di G. Landolfi Petrone, Bompiani, 2006, par. 42, p. 225. 2 Jürgen Habermas, Faktizität und Geltung. Beitrage zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp, 1992; trad. it. Fatti e norme, a cura di L. Ceppa, Laterza, 2013, p. 437.

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diritto realizza questa pretesa. Il problema del diritto e della violenza è quello del rapporto tra la legittimazione del diritto come ‘oltrepassamento della violenza’ [Gewaltüberwindung] e la critica del diritto come ‘impiego della violenza’ [Gewaltanwendung]. Le due considerazioni sono tra loro contrapposte e nessuna delle due può essere ‘smentita’ [bestritten]; entrambe sono vere. Capire la verità delle due considerazioni è il primo passo per rendere giustizia al rapporto tra diritto e violenza. Sembra un compito facile. La tesi di partenza di ogni teoria riguardante la legittimazione del diritto è che l’impiego della violenza appartenga alle modalità di azione del diritto: la «possibilità dell’unificazione della costrizione universale e reciproca con la libertà di ognuno» caratterizza il concetto di diritto3. L’esercizio della coercizione (che si rivolge alla volontà, in quanto «arbitrio») avviene mediante l’impiego o la minaccia di violenza nei confronti del corpo e dell’anima. Violenza, secondo l’espressione latina, è un modo di agire che lede l’integrità del corpo o dell’anima; impiegare violenza significa ‘ledere’ (violare). Secondo la sua legittimazione, il diritto opera in base alla giustificazione e al valore normativo dei suoi giudizi. Se i suoi giudizi sono giustificati, allora essi lo sono per tutti, anche per il giudicato, e dunque non sono lesivi rispetto alla sua volontà, né violenti nei suoi confronti. Il diritto deve poter usare la violenza quando questo ‘circuito di giustificazione’ [Rechtfertigungszusammenhang] viene spezzato. Il diritto impiega la violenza solo in ‘sostituzione’ [ersatzweise]: al posto della giustificazione sulla quale esso si fonda. Se nel diritto tradizionale la violenza serviva ancora come «mezzo per rappresentare e ‘accertare’ [Vergewisserung]»4, e cioè come un mezzo per rafforzare la propria giustificazione, nel diritto moderno, la cui legittimità razionale non ha bisogno né è in grado di rafforzarsi violentemente, essa è presente solo per far fronte al sempre minaccioso ‘rischio del dissenso’ [Dissensrisiko]. La violenza serve qui alla ‘protezione effettiva’ [faktische Sicherung] del consenso normativamente presupposto nel diritto5. L’impiego della violenza nel diritto – è questa la sua legit3 Immanuel Kant, Metafisica dei costumi, cit., p. 65. 4 Niklas Luhmann, Rechtssoziologie, Westdeutscher Verlag, 1972; trad. it. Sociologia del diritto, a cura di A. Febbrajo, Laterza, 1977, p. 130. 5 Jürgen Habermas, Fatti e norme, cit., pp. 37-52. Come sottolinea Habermas, questo

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timazione – costituisce un «caso limite insuperabile»6; il diritto, organizzato internamente in modo “simbolico” e normativo, dispone della violenza come un “meccanismo simbiotico” che agisce sull’«esistenza fisico-organica». «La violenza accompagna il diritto come un’ombra incancellabile», poiché solo attraverso l’impiego o la minaccia della violenza si può assicurare che la normatività della legge, che mira al consenso e indipendentemente dalle strutture motivazionali degli individui, funzioni in ogni caso e goda come tale di fiducia»7. Non è dunque una novità che la critica al diritto insista sul fatto che non esiste alcun diritto – nemmeno quello post-sovrano che ha rinunciato ai festeggiamenti crudeli delle pene e delle torture – che riuscirebbe a sopravvivere senza la violenza8; in tal modo, la critica ripete solamente ciò che anche la legittimazione del diritto sapeva già. La critica del diritto, però, non consiste soltanto nella considerazione secondo cui il diritto minaccia o impiega la violenza per far rispettare le proprie ‘statuizioni’ [Urteile]. Essa consiste piuttosto nel comproblema viene sistematicamente escluso dalla teoria giuridica del cosiddetto “liberalismo politico”: «Rawls discute i problemi di legittimità senza mai tematizzare la “forma giuridica” in quanto tale, cioè senza tematizzare la sua dimensione istituzionale. L’elemento specifico della validità giuridica, quella tensione fatticità/validità che è interna al diritto stesso, non viene mai presa in considerazione» (ivi, p. 78). L’esclusione del problema della violenza è esplicita in Ronald Dworkin, che distingue tra «basi del diritto» e «forza del diritto», per poi parlare solamente delle basi e della giustificazione – libera da violenza – del diritto. Non sorprende dunque la conclusione: «Infine, esso rappresenta un atteggiamento fraterno, un’espressione del modo in cui, pur divisi nei nostri progetti, interessi e convinzioni, le nostre esistenze sono unite in una comunità» (Ronald Dworkin, Law’s Empire, The Belknap Press, 1986; trad. it. L’impero del diritto, a cura di S. Maffettone, Il Saggiatore, 1989, p. 383). 6 Niklas Luhmann, Macht, Enke, 1975, p. 64. Luhmann non parla specificamente di diritto, ma solo in generale del rapporto tra ‘potere’ [Macht] e violenza, che egli, al pari di Hannah Arendt (On violence, HBJ Book, 1970; trad. it. Sulla violenza, a cura di A. Chiaruttini, Mondadori, 1971, pp. 45 sgg., p. 68), distingue rigorosamente nelle modalità operative: il potere è «trasferimento dei processi di selezione» (Niklas Luhmann, Macht, cit., p. 11; cfr. anche p. 60), e presuppone dunque le alternative; la violenza al contrario è un’«alternativa esclusiva/escludente» (ivi, p. 64). Sul seguito, cfr. pp. 61 sgg. 7 Niklas Luhmann, Sociologia del diritto, cit., pp. 132 e 137. 8 Una buona sintesi di questa descrizione critica del diritto (in cui non emerge però la posizione sostenuta) la offre Robert Cover, Violence and the Word, in Narrative, Violence, and the Law, The University of Michigan Press, 1992, pp. 203-238.

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prendere che il «caso limite» (Luhmann) della violenza che esercita è una condizione strutturale del diritto. La critica è rivolta alla reale logica di fondo che collega intrinsecamente la dimensione simbolica o normativa della ‘giustificazione di statuizioni legali’ [Berechtigung rechtlicher Urteile] con il meccanismo simbolico della loro imposizione violenta. La violenza consiste nel fatto che l’«agire viene eliminato attraverso l’agire»9. L’eliminazione dell’agire, della capacità o della libertà di agire, non è una ‘modalità d’azione’ [Wirkungsweise] collegata al diritto in modo estrinseco o addirittura strumentale. La critica del diritto mostra che la violenza, in quanto eliminazione dell’agire, è piuttosto una conseguenza necessaria della legittimità del diritto: una conseguenza del suo modo legittimo di giudicare. Alla legittimazione giuridica della violenza la critica contrappone la comprensione della violenza della legittimazione giuridica. Dal problema del rapporto tra le due considerazioni sul diritto, che sembrava di facile soluzione, si giunge quindi al paradosso. Questo paradosso del superamento e impiego simultaneo della violenza attraverso il diritto viene esplorato nella prima parte delle riflessioni che seguono (Il destino del diritto) attraverso una ricostruzione del pensiero giuridico della tragedia. Lo scopo di questa ricostruzione è comprendere l’unità paradossale di legittimazione e violenza del diritto – e dunque comprendere perché la normatività del diritto è il motivo della sua ‘violenza destinale’ [schicksalhafte Gewalt]. La “critica della violenza” di Walter Benjamin può esser letta come una sintesi di questa intuizione della tragedia. La seconda parte (La destituzione del diritto) cerca di trovare la lacuna nell’unità di diritto e violenza, di normatività e destino, interpretando il paradosso di questa unità come una chance di liberazione. A tal fine, l’oscura idea di Benjamin riguardo a una «destituzione del diritto» può essere riformulata come programma di autoriflessione del diritto: destituire il diritto non significa né continuare a impiegarlo, né abolirlo definitivamente, quanto piuttosto attuarlo in modo riflessivo, dunque ‘controvoglia’ [mit Widerwillen zu vollziehen].

9 Niklas Luhmann, Macht, cit., p. 64.

Parte I – Il destino del diritto

Il genere della tragedia e l’istituzione del diritto sono reciprocamente legati nel loro sorgere e nella loro struttura: la tragedia è il genere del diritto e il diritto è la giustizia della tragedia. Non solo i contenuti e i materiali, ma la costituzione della tragedia come genere ha un carattere legale. Certo, anche l’epica pre-tragica tratta della giustizia. Qui però la giustizia prevale come destino, mentre la tragedia, attraverso la sua forma, proietta il destino in una nuova figura della giustizia, connessa all’istanza di un giudice che giudica in modo imparziale. Il ‘lamento’ [Klage] dell’individuo, il contrasto e la disputa tra le parti, la responsabilità dell’agente, l’importanza e le conseguenze della decisione, le domande e gli enigmi dell’interpretazione: sono gli elementi strutturali tanto della tragedia quanto del diritto. Gli elementi fondamentali della tragedia corrispondono a quelli della nuova teoria e prassi della giustizia che si costituisce allo stesso tempo come diritto. Il legame tra tragedia e diritto vale però anche nell’altra direzione: non solo la tragedia è la ‘forma espositiva del diritto’ [Darstellungsform des Rechts], ma il diritto è la ‘forma di giustizia’ [Gerechtigkeitsform] della tragedia. Il diritto è la forma di giustizia che viene prodotta dalla tragedia: quella forma di giustizia che la tragedia fa emergere tramite il suo lavoro di riflessione sulla modalità espositiva dell’epos a partire dall’esperienza della crisi della giustizia pregiuridica (la giustizia del sacrificio o della vendetta). Il diritto di cui stiamo parlando è il diritto della tragedia. Non un ordine qualsiasi e arbitrario garantito dalla forza e che crea un minimo di ‘sicurezza dell’aspettativa’ [Erwartungssicherheit]; piuttosto quella forma specifica del diritto prodotta dal lavoro di ri-

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flessione compiuto dalla tragedia. La tragedia definisce un concetto di diritto ambizioso raccontandone la storia; definisce il diritto attraverso la sua storia. Questa storia del diritto tragica e nel ‘modo della tragedia’ [tragödienartig] è una storia duplice: la sua storia passata e la sua storia futura; la storia del suo sorgere e la storia del suo fallire; la storia della sua legittimazione e la storia della sua crisi o della sua critica. Di ciò mi occupo nel seguito gettando un rapido sguardo su due tragedie: si tratta di estrarre da queste due tragedie un concetto di diritto ambizioso in termini normativi che al contempo e fin dall’inizio comprenda la consapevolezza della propria paradossalità. Ciò avviene in due passi: il primo (seguendo l’Orestea) conduce dalla giustizia della vendetta a quella del diritto e mostra in che termini il dominio del diritto, pur separandosi dalla violenza della vendetta, la riproduca nello stesso tempo ma in un modo diverso. Il secondo passo (seguendo l’Edipo Re) conduce dal diritto “autoritario”, che domina attraverso la paura, al dominio “autonomo”, che si basa sulla libera ‘auto-condanna’ [Selbstverurteilung] dei suoi soggetti. Lo scopo di questa ricostruzione della storia/tragedia del diritto è comprendere come la violenza permanga nel diritto “autonomo”, nel diritto dell’Illuminismo (da Edipo1 fino ad oggi): in che senso – in quale senso di “critica” e di “violenza” – il diritto autonomo dev’essere oggetto di una “critica della violenza”. 1. L’indecidibilità del diritto (Agamennone) I discorsi filosofici sulla legittimazione contrappongono il diritto alla violenza dello stato di natura in cui chiunque può fare ogni cosa senza essere punito. Questa situazione, concepita filosoficamente, è fittizia2, come pure la legittimità che questa dottrina filosofica fornisce al diritto come rimedio allo stato di natura. La tragedia, al contrario, 1 Nel progetto iniziale della Dialettica dell’Illuminismo, l’eroe non era Odisseo, ma Edipo (Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, Querido, 1947; trad. it. Dialettica dell’Illuminismo, a cura di R. Solmi, Einaudi, 1966). 2 Lo stato di natura è “fittizio” nel senso che esso è fatto, inventato e prodotto. Esso stesso è prodotto da uno stato di diritto che si presenta come risposta nei confronti dello stato di natura. Questo stato non precede lo stato di diritto (come credono le filosofie della legittimazione), ma è prodotto da questo. Si veda il paragrafo 1.5.

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descrive la violenza da cui si separa il diritto come una violenza che non deriva da impulsi naturali o dal semplice arbitrio, ma piuttosto da un porre [Satzung] ferreo e necessario: secondo il realismo della tragedia, il diritto sorge dall’opposizione alla violenza della vendetta. Tuttavia, la vendetta è una ‘forma di esecuzione’ [Vollzugsform] della giustizia. La violenza che il diritto oltrepassa non è dunque la violenza che secondo la finzione filosofica costituisce lo stato di natura, quanto piuttosto quella di un primo e iniziale ‘ordine della giustizia’ [Ordnung der Gerechtigkeit]: la violenza propria di un ordine normativo, la violenza normativa. La katastrophé – gli ‘sconvolgimenti’ –, che secondo l’esperienza delle Erinni, dee della vendetta, significa l’istituzione di «nuove leggi»3, non è il primo sorgere della normatività contro la natura, ma una trasformazione successiva nell’ordine della giustizia. Secondo la tragedia, il diritto sorge dalla – e contro la – esperienza della violenza che, in quanto vendetta, è iscritta nella giustizia. Il diritto intende essere un ordine normativo della giustizia a seguito – e al di là – della violenza di colui che si vendica. La vendetta è giustizia in quanto colpisce chi la merita. La vendetta segue la forma dell’‘uguaglianza’ [Gleichheit], poiché, vendicandosi, l’uguale viene ricompensato con l’uguale: la moglie uccide il proprio marito a causa del sacrificio della loro figlia da lui commesso; il figlio uccide quindi sua madre e – dato che non c’è un altro parente che può farlo – viene perseguitato dalle dee della vendetta. La vendetta è ‘giusta’ [gerecht] in quanto ‘giustificata’ [gerechtfertigt]. Non si tratta di un’azione prima e immotivata, ma di un’azione seconda. Essa è la risposta a un’offesa – una risposta che deve avvenire (per questo è ritenuta inviata dal divino) per il fatto che, o nel momento in cui, l’offesa è stata una ‘trasgressione’ [Vergehen] smisurata dell’ordine giusto. Chi spezza molte vite/ non sfugge allo sguardo degli dèi,/ e le Erin3 Eschilo, Eumenidi, in Tutte le tragedie, a cura di A. Tonelli, Bompiani, 1987, pp. 397-455, p. 427, v. 490. Come in tutti i passaggi cruciali, anche qui la parola della tragedia sul diritto è al contempo la parola su se stessa: la “strophé” introduce la “katastrophé”, ‘il capovolgimento in basso’, il volgersi del coro nella sua danza a lato del palcoscenico (la parte del coro, suonato in questa direzione); la “svolta” segue alla antistrophé, al volgersi contro nell’altra direzione.

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ni nere, con il tempo,/ attraverso il mutevole volgere degli eventi, che consuma/ oscurano chi è felice senza diritto4.

Contro l’eccesso dell’offesa – della felicità ‘in assenza di diritto’ [Gluck ohne Recht] –, la vendetta, che sovverte la fortuna senza diritto, stabilisce nuovamente lo stato giusto. La vendetta compensa nella misura in cui restituisce lo stesso ‘misfatto’ [Untat] a colui che ha compiuto un delitto. La giustizia della vendetta consiste nel fare la stessa cosa. Ma proprio nell’uguaglianza della vendetta attraverso cui essa viene giustificata risiede anche la sua violenza. L’azione vendicativa risponde all’azione vendicata ripetendola; l’azione vendicativa è come quella vendicata. Nella misura in cui ripete l’azione vendicata, l’azione vendicativa è allo stesso tempo e sotto lo stesso rispetto giustificata, ossia necessaria e inevitabile5 – violenta. L’azione vendicativa, ripetendo la stessa trasgressione della vendetta, è una nuova trasgressione vendicativa. La vendetta, inviata da un dio – l’«alto Apollo, o Pan, o Zeus» – contro «chi ha trasgredito», può essere eseguita soltanto oltrepassando la misura e producendo «a viva forza» l’«odio» di un’altra dea – Artemide6. L’azione vendicativa dev’essere a sua volta seguita da una risposta che faccia a colui che si vendica lo stesso che egli ha commesso. Nella misura in cui segue la ‘legge dell’uguaglianza’ [Gesetz der Gleichheit], la vendetta si perpetua all’infinito. In ogni ‘giustificazione’ [Berechtigung] delle sue risposte a una violazione compiuta in precedenza, ogni ‘azione vendicativa’ [Rachetat] è esattamente come la violazione a cui risponde. Giustificazione e violenza della vendetta sono inscindibilmente connesse. L’azione vendicativa è una misura della misura e dell’eccesso che richiede un’ulteriore azione vendicativa per esser riequilibrata. La violenza della vendetta consiste nel fatto che deve procedere all’infinito – la «follia di uccisioni reciproche»7. 4 Eschilo, Agamennone, in Tutte le tragedie, cit., pp. 235-329, p. 263, vv. 461-466. Si noti che nell’economia del discorso di Menke la dike diventa Recht [NdT]. 5 Non è determinante né da parte di chi né come o attraverso cosa avvenga la vendetta: «Tutto è come è, adesso. Ma tutto si compirà nel senso decretato. Nessuno potrà placare l’ira inesorabile, né bruciando vittime, né versando libagioni su sacrifici senza fuoco (Eschilo, Agamennone, cit., pp. 235-329, p. 241, vv. 68-71). 6 Eschilo, Agamennone, cit., p. 241 e p. 245, vv. 53-57, 130, 135f. 7 Ivi, p. 323, v. 1575.

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Ogni azione vendicativa è ‘ambivalente’ [zweideutig]: è ‘ritorsione’ [Vergeltung] e ripetizione di un misfatto smisurato. Questo perché, nel corso degli eventi, ogni azione vendicativa è contemporaneamente in due punti. Prima di ogni azione vendicativa ci sono due narrazioni poiché, ogni volta che ha luogo, l’azione vendicativa viene contata due volte. Nella prima conta, l’azione vendicativa sta al secondo posto. Con essa viene espiato il primo misfatto; le dee della vendetta sono le «rette giustiziere»8. Nella seconda conta, l’azione vendicativa sta al primo posto: è un’azione smisurata che deve ancora far pagare la sua «giusta pena»9. L’azione violenta viene contata e dunque valutata in due modi diversi, poiché essa ha due significati ontologici. La vendetta non è semplicemente l’esecuzione di un destino o di una maledizione a cui si è già condannato da sé il primo misfatto: non è un mero accadere. La vendetta è un’azione, un misfatto primo, a cui deve seguirne un altro per vendetta. Gli etnologi della vendetta non concordano su cosa essa sia: «una forma altamente elaborata e controllata di regolazione della violenza» attraverso cui, a seguito di una trasgressione, viene ristabilito l’equilibrio nella ‘comunità pre-statale’ [vorstaatliches Verhältnis] tra gruppi diversi ma connessi tra loro10; oppure un circolo infinito di violenza nel quale «non c’è differenza netta fra l’atto punito dalla vendetta e la vendetta stessa»11. La vendetta non è né l’una né l’altra, proprio perché, allo stesso tempo, è entrambe le cose. La giustizia della vendetta – che ristabilisce l’equilibrio contro l’azione smisurata – e la sua vio8 Eschilo, Eumenidi, cit., p. 417, v. 312. 9 Ivi, p. 415, v. 272. 10 Marcel Hénaff, Der Preis der Wahrheit. Gabe, Geld und Philosophie, Suhrkamp, 2009, p. 331. 11 René Girard, La violence et le sacré, Grasset & Fasquelle, 1972; trad. it. La violenza e il sacro, a cura di E. Czerkl, O. Fatica, Adelphi, 1980, p. 31. Girard scrive che tale circolo appare «nella tragedia greca» (ivi, p. 32). La connessione è molto stretta: soltanto nella tragedia la vendetta si manifesta in questo modo. Hénaff lo ha giustamente sottolineato (cfr. Marcel Hénaff, Der Preis der Wahrheit, cit., p. 346). Egli, tuttavia, spiega questa connessione leggendo la tragedia come parte della polis schierata contro la vendetta. La valutazione negativa della vendetta nella tragedia risulta invece già nella logica della sua esposizione: la vendetta può mostrarsi solamente attraverso una esposizione che non racconta semplicemente ciò che essa rappresenta, ma che lo racconta in modo duplice.

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lenza che produce altra violenza – nella quale essa riproduce l’eccesso corrisposto – sono due facce della stessa medaglia. La vendetta contiene un’ambivalenza che scompone la sua giustizia in una controversia indecidibile tra fazioni contrapposte: era un sacrilegio immane e compiuto nel passato (come Apollo difende Oreste)12, o era «il sangue appena versato» (come dicono le Erinni)13 a seguito della ritorsione? A tali domande la giustizia della vendetta non può rispondere, offrendo sempre due risposte incompatibili tra loro. Così come non può rispondere in modo definitivo alla domanda se la trasgressione sia una prima o una seconda azione, la vendetta non può nemmeno dire se la sua ritorsione sia sufficiente. La domanda a cui la vendetta non può rispondere è la seguente: può esserci in risposta a una trasgressione un’azione giusta che non ha bisogno di un’altra risposta, che non dia inizio a una nuova serie di vendette, ma che piuttosto ne sancisca la fine? La violenza della vendetta è una violenza che viene fuori dalla giustizia. La violenza consiste nel suo agire interminabile. La domanda che la vendetta pone e che lascia senza risposta è: c’è un’azione della giustizia che non si perpetui all’infinito e che, dunque, non sia violenza? 2. La procedura del diritto (Eumenidi) La risposta da parte del diritto alla domanda a cui la vendetta non ha potuto rispondere è affermativa: c’è una fine quando la sentenza segue il giusto procedimento. Il diritto non incorpora una conoscenza superiore all’ordine della vendetta rispetto allo ‘stato giusto’ [gerechter Zustand]. Anche il diritto sa soltanto che secondo la regola della giustizia il misfatto esige una risposta che faccia la stessa cosa a colui che l’ha commesso. Ma la legge sa altrettanto della ‘controversia’ [Strittigkeit] del sapere; sa che ogni azione può essere contata due volte e raccontata in due modi. Il diritto sa che ogni narrazione è solo una narrazione. Il diritto sa dunque che ogni narrazione è contrapposta a 12 «Ho vaticinato vendetta per il padre. E allora?» (Eschilo, Eumenidi, cit., p. 411, v. 203). 13 Eschilo, Eumenidi, cit., p. 411, v. 204.

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un’altra. Quando una narrazione è svolta – ad esempio la narrazione di un “sangue appena versato” –, allora il diritto sa e afferma ciò: Siete presenti in due, ma ho udito soltanto una (delle due parti)14.

È qui che comincia il diritto: il primo e fondamentale momento del suo ‘procedimento’ [Verfahren]. Il diritto oltrepassa la violenza della vendetta poiché è capace prima di percepire e poi di garantire il fatto che sono “presenti in due” e che i due si esprimano15. In tal modo il diritto definisce la parte presente come una delle due. La definisce come parte: come qualcuno il cui racconto è di parte. E la definisce, quindi, come qualcuno a cui l’altro controbatte con il suo racconto di parte. Il procedimento del diritto consiste nel raffrontare ciascun racconto come racconto di parte. Ciò non significa che il diritto presuppone che il racconto non sia vero. Per quale motivo, del resto, un racconto di parte non potrebbe essere vero? Piuttosto significa che il diritto non presume che esso sia vero o falso. Raffrontare ogni racconto come racconto di parte vuol dire procedere in modo tale che dopo l’uno venga ascoltato anche l’altro. Il procedimento del diritto pone a distanza ogni racconto, relativizzandolo come uno tra due racconti. Il diritto ascolta entrambi. Che si possa raccontare lo stesso (mis)fatto in questo o in quell’altro modo pone fine alla giustizia della vendetta. Nel procedimento del diritto, invece, è la regola. Che si possa raccontare lo stesso (mis)fatto in questo e in quell’altro modo è semplicemente ciò che costituisce un caso giuridico. Per questa ragione ogni caso giuridico è un ‘caso grave’ [schwerer Fall]. Nell’ordine della vendetta non è in questione il modo del racconto. Se il matricidio è un “nuovo sangue versato” che grida vendetta o se esso stesso è stata una vendetta per un precedente ‘uxoricidio’ [Gattenmord] (e, dunque, se si trattava di un “nuovo sangue versato” che gridava vendetta o esso stesso era la vendetta per un precedente ‘infanticidio’ [Kindsmord]), per colui che intende la giustizia come 14 Ivi, p. 423, v. 428. 15 Anche nella tragedia sono presenti sempre in due; ecco perché essa è il genere del diritto: la storia della tragedia comincia con Eschilo, che «portò da uno a due il numero degli attori» (Aristotele, Poetica, a cura di M. Valgimigli, Editori Laterza, 1964, libro IV, p. 72, 1449a).

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vendetta tutto ciò non è in questione. I racconti che rendono effettiva la giustizia della vendetta sono privi di soggetto; si raccontano come i racconti del mito. I racconti, la cui contrapposizione attiva il caso giuridico, sono invece i racconti di una parte. Il problema, e quindi il risultato, di un procedimento [legale, NdT] è la verità: essa dev’essere innanzitutto trovata e sorge alla fine di un ‘processo di accertamento e di giudizio’ [Prozess des Untersuchens und Urteilens]16. Caratterizza questo procedimento il vedere le due parti presenti nello stesso momento. Il procedimento del diritto ascolta entrambe le parti. Proprio per questo esso ‘esige’ [verlangt] un soggetto che non sia di parte, ma imparziale: un giudice. Con la sua nomina, Atena ‘attua’ [vollstreckt] la “katastrophé” della vendetta: È questione troppo grave per lasciarla giudicare [agli umani]. Ma neppure a me è lecito dirimere contese di sangue […]. E poiché la contesa è precipitata fino a questo punto, sceglierò giudici giurati per i delitti di sangue, e costituirò un fondamento di giustizia destinato a durare in eterno17.

“Giustizia” non significa più fare ciò che dev’essere fatto, compensando l’eccesso del misfatto ripetendolo contro colui che l’ha fatto. “Giustizia” significa ora quel modo di intendere le cose (l’unico “fondamento”) non più di parte, ma che osserva entrambe le parti. La rottura con la giustizia della vendetta, e quindi l’ingresso in quella del diritto, esige dai contraenti di vedere se stessi come parti. Ciò significa due cose: esige da loro di riconoscere l’altro e di vedersi come parte che vede l’altra come una seconda parte, entrambe ugualmente ascoltate. Ed esige da loro di vedere sé e l’altro come parti incapaci, 16 Si veda la nota di Heidegger al concetto di “procedimento” in Platone: Martin Heidegger, Parmenides, in Gesamtausgabe, II. Abteilung, Bd. 54, Klostermann, 1982; trad. it. Parmenide, a cura di F. Volpi, Adelphi, 2005, pp. 231 sgg. Si veda anche Michel Foucault, La vérité et les formes juridiques, in «Cadernos da PUC», n. 16, 1974, pp. 5-133; trad. it. La verità e le forme giuridiche, a cura di L. d’Alessandro, La Città del Sole, 2007. Sull’incertezza del risultato come condizione fondamentale di ogni procedimento, anche quello giuridico, si veda Niklas Luhmann, Legitimation durch Verfahren, Luchterhand, 1969; trad. it. Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, a cura di A. Febbrajo, Giuffrè, 1995, capp. I.3, II.7. 17 Eschilo, Eumenidi, cit., p. 427, v. 470-484.

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nella loro controversia, di un giudizio giusto che può essere concesso soltanto da un altro: un altro che non è semplicemente un’altra parte, ma che è categorialmente diverso da loro: non una parte, ma ‘l’altro’ [der Andere]. Uscire dalla giustizia della violenza ed entrare in quella del diritto esige dai contraenti di rinunciare al diritto di giudicare sul proprio caso e di riconoscere l’altro come colui che può giudicare su di esso. L’entrata nel diritto esige la ‘sottomissione’ [Unterwerfung] di entrambe le parti al ‘potere di giudizio’ [Urteilsmacht] dell’altro. Coro: «Allora indaga, e pronuncia una sentenza giusta». Atena: «Rimetterete a me la decisione della causa?». Coro: «Perché no? Ti rispettiamo, figlia degna di degno padre»18. Oreste: «E tu giustamente decidi se fu secondo giustizia quello che feci, o non fu. A te mi consegno»19.

La rottura con la giustizia della vendetta e l’entrata in quella del diritto richiedono a ciascuna parte (la quale, innanzitutto, diventa una parte) un doppio decentramento. Coloro che si oppongono nella reciproca ostilità devono vedersi come una di due “parti” le quali esprimono il loro riconoscimento reciproco, consegnando – contemporaneamente e allo stesso modo – il loro potere di giudizio a un terzo che sta sopra di loro: il giudice imparziale. Con questo doppio decentramento comincia la soggettivazione richiesta dal diritto (la quale non resta in questo doppio decentramento – ma anzi libera la maledizione dell’interiorizzazione autonoma del diritto – e non viene mai raggiunta: poiché alla soggettivazione attraverso il diritto risponde la ‘riluttanza’ [Widerwille] del sottomesso). 3. Uguaglianza e dominio Il procedimento in cui consiste il diritto è caratterizzato da tre posizioni – una prima parte, una seconda parte e una terza parte che ha 18 Ivi, p. 425, vv. 433-435. 19 Ibidem, v. 468.

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il potere di giudicare – e da due relazioni: quella orizzontale tra le due parti e quella verticale tra le parti e il giudice al di sopra delle parti. Il senso di queste relazioni nel procedimento giuridico diventa chiaro solo quando le si riconosce nel loro contenuto politico. Ciò significa, negativamente, che il procedimento del diritto non è un arbitrato e il giudice non è un arbitro che soppesa la ‘relativa legittimità’ [relative Berechtigung] delle due pretese. Poiché quando si tratta di un arbitrato volto a soppesare, le posizioni e le relazioni sono “private”. Esse si basano sull’accordo volontario di due ‘controparti’ [Verfeindeter] di chiamare a una persona non coinvolta per un aiuto in quel caso e per quello scopo. Al contrario, il procedimento del diritto stabilisce le relazioni politiche tra i ‘partecipanti’ [Beteiligte]: relazioni di uguaglianza e di dominio. Queste due relazioni costituiscono la politicità della procedura: esse determinano il procedimento del diritto come politica20. L’uguaglianza qui è innanzitutto quella delle parti soggette al procedimento giuridico: le due parti vengono ugualmente ascoltate nel procedimento giuridico e sono sottoposte allo stesso giudice. In tale uguaglianza procedurale delle parti si realizza allo stesso modo l’uguaglianza politica dei cittadini: essere un uguale cittadino significa poter essere un’uguale parte nel procedimento giuridico. L’uguaglianza che il procedimento giuridico stabilisce e garantisce tra le parti interessate si basa sull’uguaglianza di tutti i cittadini. Può essere “parte” in un procedimento giuridico solo chi è ‘membro’ – partie – di una ‘comunità’ [Gemeinwesen]21. 20 È questa la tesi di Christian Meier, Aischylos Eumeniden und das Aufkommen des Politischen, in Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, Suhrkamp, 1980, pp. 144-246; trad. it. Le “Eumenidi” di Eschilo e il diffondersi del politico, in La nascita della categoria del politico in Grecia, a cura di C. De Pascale, il Mulino, 1988, pp. 149253. Si veda anche la spiegazione della uguaglianza come isonomia in Christian Meier, Entstehung des Begriffs «Demokratie», Suhrkamp, 1970. 21 «Chi affronta l’impresa di ‘dare istituzioni a un popolo’ [d’instituer un peuple] deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la natura umana; di trasformare ogni ‘individuo’ [individu], che per se stesso è un tutto perfetto e solitario, in una ‘parte’ [partie] di un tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche modo, la vita e l’essere; di alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza ‘parziale’ [partielle] e morale all’esistenza fisica e indipendente che tutti abbiamo ricevuto dalla natura. Bisogna, in una parola, che tolga all’uomo le forze che gli sono

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In quanto procedimento, il diritto è politico, vincolato alla cittadinanza. Differentemente dalla giustizia della vendetta che domina tra comunità diverse, la giustizia del diritto può darsi soltanto in una comunità di cittadini uguali. Ciò significa anche che non si dà diritto al di fuori della comunità politica. Atena, dea della ‘giustizia’ [Recht], placa le dee della vendetta mostrando i luoghi in cui possono continuare a governare anche dopo l’introduzione del procedimento giuridico, dato che in quei luoghi il diritto non vale: in casa, dove ci sono soltanto rapporti di ‘disuguaglianza’ [Ungleichheit] – quello tra l’uomo e la donna, tra il padre e i figli, tra il signore e lo schiavo; nel rapporto tra le comunità; qui regna «Ares tracotante di guerra»22. Ma dopo l’instaurazione del tribunale, afferma Atena, le Erinni non possono continuare a dominare tra «i miei cittadini», nel «mio popolo» (polítais)23. Qui, infatti, domina l’uguaglianza – l’uguaglianza davanti al diritto e attraverso il diritto. L’uguaglianza politica dei cittadini, però, non è soltanto la base dell’uguaglianza procedurale delle due parti. Essa definisce anche il rapporto tra le parti e colui che, senza esser parte, giudica su di loro. Secondo Atena, anche il giudice è un cittadino, e solo un cittadino può essere giudice. A differenza della giustizia della vendetta, la giustizia del diritto non si fa valere più tramite un ‘giudizio’ [Urteil] senza soggetto o, in ogni caso, senza un soggetto umano. Il giudizio della vendetta era senza soggetto, poiché era già contenuto nella smisuratezza dell’azione da giudicare; il giudice constatava solamente questa ‘caratteristica’ [Eigenschaft]. Il giudizio del diritto, al contrario, ha un soggetto – il giudice – che lo produce attraverso un procedimento di indagine e di giudizio. Nei confronti delle parti su cui giudica, il giudice ha un rapporto duplice: egli non è solo un uguale cittadino, come le due parti in causa: a differenza delle parti, il cittadino-giudice parla anche in nome dell’uguaglianza. Il giudice è la figura dell’uguaglianza, proprie per dargliene di estranee a lui, di cui non possa fare uso se non col sussidio di altri» (J.-J. Rousseau, Du contrat social, Marc-Michel Rey, 1762; trad. it. Il contratto sociale, a cura di M. Garin, Laterza, 2010, p. 57). 22 «Sia pure guerra, ma fuori dalle porte, e sia pure frequente, per chi coltivi tremenda brama di gloria. Rifiuto il combattimento di uccelli nella loro stessa gabbia» (Eschilo, Eumenidi, cit., p. 447, vv. 864-866). 23 Eschilo, Eumenidi, cit., p. 445, v. 854, e p. 457, v. 926.

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il rappresentante dell’uguaglianza di tutti i cittadini. Il giudizio del giudice è quello dei cittadini sul cittadino. O, meglio, è il giudizio di un cittadino (o di alcuni, o di molti, o di tutti i cittadini) in nome del cittadino. Tramite il giudice o i giudici, l’intera cittadinanza giudica sui singoli cittadini. Per secoli fu discusso ad Atene se il giudizio giuridico, per poter valere come giudizio dell’intera cittadinanza, dev’essere inteso e organizzato in modo democratico o aristocratico24. In questo dibattito, Eschilo prende posizione quando fa dire ad Atena che non può essere giudice un cittadino qualunque: devono esserlo «i migliori tra i cittadini», che Atena sceglie come giudici25. Secondo Atena – così Eschilo – il diritto, se deve funzionare, può essere costituito solo in modo aristocratico: dominio del diritto significa dominio dei migliori26. 24 Per una breve panoramica sull’oscillare tra le due concezioni in Atene si veda Christoph-Maximilian Zeitler, Zwischen Formalismus und Freiheit. Das Rechts- und Richterbild im attischen Recht am Beispiel des Prozesses gegen Sokrates, Nomos, 2010. Un esempio per l’idea di diritto e di giudice nel sistema attico è il processo a Socrate, ivi. pp. 17-51. Cfr. Christian Meier, Le “Eumenidi” di Eschilo e il diffondersi del politico, cit., pp. 220 sgg. 25 Eschilo, Eumenidi, cit., p. 427, v. 487. 26 Sul carattere antidemocratico del governo del diritto (e della sua legittimazione filosofico-giuridica nel liberalismo) si veda Michael Walzer, Democracy and Philosophy, in «Political Theory», n. 9, 1981, pp. 379-399. Ne è un esempio la frase di Dworkin secondo cui «le corti sono le capitali dell’impero del diritto e i giudici sono i suoi principi» (Ronald Dworkin, L’impero del diritto, cit., p. 378). Dello stesso parere è Tocqueville. Nel capitolo intitolato Lo spirito legistico negli Stati Uniti, e come esso serva da contrappeso alla democrazia, scrive: «Si ritrova, così, celata nel fondo dell’animo dei legisti una parte dei gusti e delle abitudini dell’aristocrazia: hanno, come lei, una inclinazione istintiva per l’ordine, un amore naturale per le forme; al pari di lei, provano un gran disgusto per le azioni della moltitudine e disprezzano segretamente il governo del popolo. […] Dico solo che, in una società in cui i legisti occuperanno senza contestazione quella posizione elevata che loro appartiene naturalmente, il loro spirito sarà eminentemente conservatore e si mostrerà antidemocratico» (Alexis de Tocqueville, De la Démocratie en Amérique, Librairie de Charles Gosselin, 1835; trad. it. La democrazia in America, a cura di N. Matteucci, UTET, 1997, pp. 312-313). Nel diritto moderno, che non recluta più i suoi giudici per elezione divina come fece Atena con i suoi, lo spirito aristocratico di chi è ‘esperto di diritto’ [Rechtskundigen] è soggetto alla condizione secondo cui «può diventare giureconsulto chiunque vi abbia attitudine» (Friedrich Karl von Savigny, System des heutigen romischen Rechts, Veit, 1840; trad. it. Sistema del diritto romano attuale, a cura di P. Zajotti, Unione Tipografica Editrice, 1880, p. 45).

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“Dominio dei migliori” significa che, sulla base dell’uguaglianza, nel diritto prevale un’opposizione, o meglio una gerarchia. Nel discorso aristocratico di Atena viene descritta come gerarchia tra i migliori e i cittadini comuni. Essa rimanda alla relazione di dominio che appartiene all’intero diritto, indipendentemente dal tribunale. La designazione aristocratica della gerarchia tra i cittadini “migliori” e quelli comuni porta soltanto alla luce l’essenza signorile e “cratica” del diritto. Qualunque sia la soluzione organizzativa, il problema è sempre lo stesso. La giustizia che la procedura giuridica mette in pratica non consiste in altro che in questo: tramite il giudice o i giudici, la cittadinanza giudica come un tutto sul singolo cittadino. È questo il significato di ‘imparzialità’ [Unparteilichkeit]. L’unità politica dei cittadini parla attraverso il diritto. Come abbiamo visto, nello stato di vendetta che precede il diritto ogni singolo cittadino si vede come destinatario di richieste normative e di ‘obblighi incondizionati’ [unbedingte Pflichten]. Ognuno è soggetto alle pretese della propria giustizia (il generale deve sacrificare la figlia; la madre deve sacrificare la figlia, il figlio il padre e così via), il cui compimento è richiesto da un dio o una dea. L’ordine della vendetta è caratterizzato non da una mancanza, ma da un’abbondanza di giustizie. Il diritto mette fine a tutto ciò imponendo un’unica legge. Questa legge è quella dell’uguaglianza che costituisce l’unità politica dei cittadini. Tutte le giustizie differenti e contrastanti tra loro, in nome delle quali venivano compiuti gli atti di vendetta, vengono ridotte a semplici ‘prese di parte’ [Parteilichkeiten]. La giurisdizione dei tribunali, scrive Robert Cover riferendosi alle Eumenidi27, non crea il diritto né lo realizza, poiché è innanzitutto ostile e distruttiva rispetto alla legge: “giuripatica” [jurispathic]; essa interviene in un campo di “polinomia” e impone un diritto sottomettendo le varie leggi della giustizia vendicativa che sono diverse e contrastanti tra loro. Che sia democratica o aristocratica, che sia data dall’assemblea di tutti i cittadini o da quella dei migliori: nel giudicare 27 Robert Cover, Nomos and Narrative, in Narrative, Violence, and the Law, The University of Michigan Press, 1992, pp. 95-172, pp. 139 sgg. Si tenga presente questa sintesi a p. 155: «i giudici sono persone violente. Dato che impongono violenza, i giudici in realtà non creano la legge, ma la uccidono. Il loro ufficio è giuripatico. Confrontandosi con la crescita di cento tradizioni legali, affermano la loro unica legge e cercano di distruggere le altre».

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giuridico il dominio dell’unità politica si esercita sulle ‘singole parti’ [parteiliche Einzelnen]. Nella sua procedura, il diritto realizza l’uguaglianza politica dei cittadini sempre in due modi: entrambe le parti intervengono da sé e allo stesso modo; un giudice giudica in nome dell’uguaglianza di tutti i cittadini. Attraverso l’‘udienza’ [Anhörung], il diritto realizza la pluralità dell’uguaglianza politica; attraverso la sentenza realizza l’uguaglianza come unità politica. Uguaglianza, nel diritto, significa: nella sua dimensione orizzontale, pluralità delle parti che, come semplici parti, sono tra loro uguali; nella sua dimensione verticale, gerarchia tra giudice e parti. La ‘sentenza’ [Richterspruch] impone l’uguaglianza tra i cittadini come dominio della loro totalità sul singolo. 4. La violenza che appare Atena testimonia il carattere di dominio del diritto presentandosi nell’instaurazione del tribunale come discepola obbediente delle Erinni. Atena ripete a loro la lezione secondo cui si dà giustizia solamente quando si basa sulla “paura”. La ‘dottrina cratica’ [kratische Lehre] con la quale le dee della vendetta deducono dalla giustizia la necessità del suo effetto pauroso e deterrente – dottrina secondo cui non è buono né che i cittadini abbiano «una vita troppo libera», né che ne abbiano una «troppo dominata», poiché essi hanno solamente paura di un signore (e perché la giustizia non può dominare senza paura)28 – non viene semplicemente accantonata nell’ordine politico del diritto. Questa dottrina viene piuttosto ascoltata fin dall’inizio dall’ordine del diritto, che ne dispiega un futuro di enorme inasprimento. L’ordine del diritto ha interiorizzato la dottrina cratica di un dominio mediante paura. Atena ripete come a memoria che il rapporto dei cittadini con il diritto, in quanto rapporto di ‘venerazione’ [Ehrfurcht], deve restare un rapporto «di paura»29: riconoscere la validità delle sentenze giuridiche – in quanto in esse si esprime soltanto l’uguaglianza dei cittadini 28 «E chi, città o essere mortale, se non teme nulla nella luce del suo cuore, potrà ancora venerare Dike?» (Eschilo, Eumenidi, cit., p. 429, v. 521-523). 29 Eschilo, Eumenidi, cit., p. 429, v. 691.

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– significa sottomettersi a un potere minaccioso di dominio esercitato dal tutto sul singolo. Atena raccomanda alla sua città il nuovo ordine del diritto proprio perché in esso si fondono intimamente uguaglianza e dominio: Ai cittadini consiglio di coltivare e riverire una vita non troppo libera, non troppo dominata [né senza signore, né sottomesso alla violenza di un signore]30 e di non cacciare dalla città tutto ciò che suscita paura: chi, tra i mortali, può essere giusto, se non teme nulla?31.

Nel diritto, questa ripetizione del dominio tremendo, attraverso cui si legittima l’ordine della vendetta, è stata interpretata fin dall’inizio come segno della sua ‘indistinguibilità’ [Ununterscheidbarkeit]. Già nella riscrittura della terza parte della storia di Oreste compiuta da Euripide, la ferma convinzione di poter distinguere tra gli atti o minacce di vendetta e quelli del diritto ha ceduto il posto al dissolversi di entrambi i fenomeni: essi sono oggetto della stessa paura. Che sia la paura delle «vergini-serpenti, dagli occhi iniettati di sangue», e delle sacerdotesse dei morti dal muso di cagna che vogliono ucciderlo per vendetta32, o quella del voto imminente dei cittadini di Argo nel processo per omicidio contro lui ed Elettra, che ne decreteranno la «morte a colpi di pietra, per mano dei cittadini»33: ciò non fa differenza per Oreste, per i suoi sentimenti e per i suoi lamenti (tanto la giustizia della vendetta quanto quella del diritto devono essere ugualmente superate dal tribunale del monte Ares, che Euripide non descrive più – come Eschilo – come tribunale dei cittadini istituito da Atena, ma come tribunale degli dèi promesso da Apollo34. L’Oreste di Euripide è diventata la pretesa incomprensibile del diritto di essere categorialmente altro dalla vendetta; la pretesa di differenza da parte del diritto tace di fronte all’evidenza lampante che il diritto e la vendetta, la vio30 Riprendo la traduzione degli stessi versi da parte di Emil Staiger in Aischylos, Die Orestie, a cura di E. Staiger, Reclam, 2008. 31 Eschilo, Eumenidi, cit., p. 437, vv. 694-699. 32 Euripide, Oreste, in Tutte le tragedie, cit., pp. 2615-2727, p. 2633, vv. 257-261. 33 Ivi, p. 2645, v. 443. 34 Ivi, pp. 2649-2654.

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lenza della punizione giuridica e quella dell’atto vendicativo, sembrano la stessa cosa. La differenza tra vendetta e diritto è una «qualità non percepibile mediante i sensi», poiché essa è soltanto una differenza di forma: la forma del giudizio. In quanto formale, la differenza tra vendetta e diritto risulta «solamente da un processo di pensiero»35. Questa differenza non sensibile e formale sbiadisce quanto i fatti della realtà giuridica emergono nella loro irrefrenabile potenza: quando lo sguardo “realistico”, da Euripide e i suoi contemporanei sofisti fino ai Critical Legal Studies dei giorni nostri, rivela il diritto come violenza mascherata volta a favorire gli interessi della classe dominante. Ancor prima del semplice dato statistico secondo cui negli Stati Uniti più dell’11% dei detenuti tra i venti e i trentaquattro anni sono neri, dieci volte in più rispetto alla media della popolazione totale e quattro volte in più rispetto ai bianchi della stessa età, il riferimento – corretto – alla differenza formale di ogni atto di giudizio in senso giuridico di cui questa statistica è composta è impotente di fronte a quello di vendetta. Diritto e vendetta non sono solo apparenti, ma ‘appaiono’ [erscheinen] come la stessa cosa. 5. Diritto e non-diritto Proprio per questo, però, lo sguardo realistico, che incontra solo l’apparenza, non è sufficiente per comprendere la ‘violenza del diritto’ [Gewalt des Rechts]: la violenza del diritto risulterebbe «solamente da un processo di pensiero» (Kelsen). Contrariamente all’assunto fondamentale che la visione realistica del diritto condivide con il suo avversario idealista, la violenza del diritto non è l’altro della forma giuridica (e la forma del diritto non è, idealisticamente, altra dalla violenza), ma nasce dalla sua forma – proprio da quella forma giuridica che rompe con l’indecidibilità della vendetta che produce una nuova violenza). Ogni 35 «Che un fatto – dal punto di vista giuridico – sia esecuzione di una sentenza capitale e non un omicidio è una qualità non percepibile mediante i sensi e risultante solamente da un processo di pensiero: dal riferimento, cioè, al codice penale e al codice di procedura penale» (Hans Kelsen, Reine Rechtslehre, Franz Deuticke, 1960; trad. it. La dottrina pura del diritto, a cura di M.G. Losano, Einaudi, 1966, p. 12).

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violenza sembra la stessa: per chi la subisce non fa differenza il perché e il modo in cui essa viene esercitata. Tuttavia, seppur uguale nella forma, ogni violenza è diversa nella sua essenza: i diversi modi di azione violenta si distinguono nella loro finalità e, pertanto, anche nella loro causalità. La violenza della vendetta e quella del diritto possono essere comprese solo quando non le si considera nella loro uguale apparenza, ma piuttosto si riconduce la loro violenza alla forma propria – a quella forma che la giustizia assume tanto nella vendetta quanto nel diritto. La vendetta era giusta nel suo ristabilire il corretto stato del mondo contro un atto di eccesso. La vendetta pensava a partire dal ‘giusto stato del mondo’ [gerechter Zustand der Welt]; essa pensava la giustizia a cui dava valore come oggettiva. Nell’ordine della vendetta possono e anzi devono darsi due racconti tra loro contrapposti riguardo a se un atto abbia ripristinato il giusto stato del mondo o, al contrario, se lo abbia interrotto. L’opposizione feroce della vendetta riguarda la giustizia contro l’ingiustizia. Ma ingiustizia qui significa: concezione opposta della giustizia. L’ingiustizia contro cui la vendetta si scaglia è un’altra giustizia, una ‘contro-giustizia’ [Gegen-Gerechtigkeit] (dunque non “assenza di giustizia”). Nell’ordine della vendetta, la giustizia vale per entrambi i lati, entrambi ‘agenti’ [Agenten], della giustizia. La giustizia del diritto, al contrario, non riguarda il corretto stato del mondo, ma il corretto rapporto “politico”: l’uguaglianza tra i cittadini. Nel suo giudizio, il giudice dà valore all’uguaglianza dei cittadini. Il rapporto di uguaglianza tra cittadini definisce la loro unità politica come parti di una comunità. In nome loro, ossia in nome dell’uguaglianza e dell’unità dei cittadini, non dell’ordine del mondo, si sancisce la ‘sentenza del giudice’ [rechtliches Urteil des Richters]; il giudice sostiene e rappresenta l’unità politica dei cittadini. Nella misura in cui conferisce un soggetto e una procedura al giudizio della giustizia, vincolandoli all’unità politica, esso produce al contempo una possibilità del tutto sconosciuta e impensabile per l’ordine della vendetta: la ‘possibilità di qualcosa di esterno alla giustizia’ [Möglichkeit eines Außerhalb der Gerechtigkeit]; «la possibilità della non giustizia – un volere e agire al di qua di un qualsiasi orientamento normativo alla giustizia». Del resto, se giuridificazione della giustizia significa sua soggettivazione, proceduralizzazione e dunque politicizzazione, allora la giustizia del diritto è vincolata a un ordine che – a differenza del

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giusto ordine del mondo ricostruito dalla vendetta e che abbraccia tutto e tutti – conosce un altro, un qualcosa che sta di fronte o è esterno ad esso. Nessuno può stare al di fuori della giustizia della vendetta, poiché ognuno è o giusto o ingiusto – o interrompe o restituisce il giusto ordine del mondo. Costui può stare però al di fuori della giustizia del diritto: il diritto definisce la comunità politica in nome della quale il diritto giudica che gli è opposto qualcosa – lo stato di “natura” – in cui l’uguaglianza dei cittadini non conta. Fuori dal diritto non è già chi, in quanto “particolare”, non si sente opportunamente considerato dalla generalità delle affermazioni e dei giudizi del diritto. Fuori dal diritto, in senso radicale, è chi non si orienta più alla norma del diritto – l’uguaglianza dei cittadini –, ossia chi non si orienta più a nessuna norma della giustizia (dato che, con l’istituirsi del diritto, non c’è altra giustizia che quella politico-procedurale dell’uguaglianza dei cittadini). Nella misura in cui nel diritto la giustizia assume una procedura, un soggetto e dunque un contenuto politico, essa deve affrontare un problema totalmente nuovo: quello della propria affermazione non solo contro l’ingiusto, ma anche contro il non giusto, ossia contro ciò che è esterno ed estraneo alla giustizia del diritto. Tutto ciò conferisce al dominio esercitato dai giudici e alla paura da essi suscitata un duplice significato. Solo a un primo (ed edulcorato) sguardo la differenza gerarchica tra il migliore e il comune, tra il cittadino giudicante e quello di parte significa ‘superiorità’ [Überlegenheit] rispetto alla ‘comprensione’ [Einsicht] di ciò che viene richiesto dall’uguaglianza dei cittadini; come se l’ingiusto dell’‘essere di parte’ [Parteilichkeit] fosse solamente un errore, una visione difettosa perché incompetente rispetto a ciò che il diritto richiede36. Se le cose stessero così, il diritto non avrebbe bisogno di dominare né di diffondere paura. Il diritto dovrebbe solamente spiegare e incoraggiare a realizzare ‘tramite venerazione’ [erfürchtiger Nachvollzug] la conoscenza più alta e corretta. Tuttavia, è necessario che il dominio del diritto susciti paura – senza la quale non può essere in realtà nessun diritto –, perché in ogni atto di ingiustizia si cela la possibilità 36 Così Hegel descrive l’«illecito senza dolo». Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, in Gesammelte Werke XIV, a cura di K. Grotsch, E. Weisser-Lohmann, Meiner, 2009; trad. it. Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, 2010, p. 310.

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di un qualcosa di esterno e addirittura contrario al diritto. In ogni trasgressione dell’uguaglianza dei cittadini il diritto deve sempre temere una ‘fuoriuscita’ [Ausstieg] dal diritto, e anzi una rivolta contro il diritto in generale. Dato che il diritto realizza soltanto l’unità politica dei cittadini, esso non può mai essere sicuro che le parti su cui giudica si vedano come parti di questa unità invece di contrapporsi estrinsecamente ad essa. In ogni atto di ingiustizia il diritto deve quindi tenere conto di incontrare qualcosa che diritto non è, qualcosa che è libero dal diritto o addirittura contrario al diritto. Nei confronti di chi è esterno al diritto, tuttavia, i giudici non possono far valere ciò che viene legittimato attraverso il loro giudicare sui cittadini “comuni”: in qualità di migliori cittadini, i giudici hanno una comprensione più alta di quel che condividono con i cittadini comuni, e cioè la loro uguaglianza in quanto cittadini. Questo perché tra giudice e colui che sta fuori dal diritto non c’è né l’uguaglianza del cittadino, né un ‘discernimento più elevato’ [Stufung der Einsicht]: colui che è esterno al diritto è diseguale e libero da qualsiasi comprensione. Nei confronti di colui che sta fuori dal diritto i giudici possono far valere il proprio giudicare solamente imponendolo contro di lui; nei confronti di colui che è esterno ed estraneo al diritto, il giudicare dei giudici può comandare solo attraverso la paura. Ecco perché la violenza non appartiene solo all’apparenza, ma alla stessa essenza del diritto: la violenza del diritto deriva dalla sua forma politico-procedurale di giudizio. Una volta compreso ciò, diventa chiaro in cosa sono uguali vendetta e diritto – come pure il perché essi devono apparire ugualmente come violenza – e in cosa consiste la loro violenza. La violenza della vendetta, come abbiamo visto, non risiedeva solamente nel fatto che in essa si dava sfogo a una passione cieca – una sete di vendetta irrazionale e isterica (come sembra nell’opera a causa della psicologizzazione della tragedia). La violenza della vendetta risiedeva nel fatto che la ricostruzione della giustizia si realizzava attraverso un atto presentato da una seconda narrazione come una perturbazione smisurata e altamente oltraggiosa dell’equilibrio della giustizia, e che quindi richiedeva una nuova ricostruzione della giustizia. La violenza della vendetta consisteva dunque nel fatto che la sua ricostruzione della giustizia doveva ripetersi all’infinito. La violenza della vendetta si realizza sempre attraverso un atto dello stesso tipo di

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quello contro il quale essa si rivolge. Detto altrimenti, lo stesso ‘carattere di atto’ [Aktcharakter] contro cui si rivolge la vendetta riguarda il giusto stato del mondo. In quanto sacrilegio, la vendetta cerca di porre fine a ciò che essa mette sempre di nuovo in moto: l’atto, l’azione. Ciò che la vendetta vuole ricostruire – il giusto stato del mondo – e ciò che essa stessa è – un atto necessariamente smisurato – sono inconciliabili37. La violenza della vendetta è la ‘coazione alla ripetizione di essa’ [Zwang ihrer Wiederholung]. Lo stesso, ma in modo diverso, accade nel diritto: anch’esso deve ripetere costantemente il suo imporsi tramite violenza. Ma non perché il diritto, al pari della vendetta, produrrebbe in sé ciò contro cui è diretto. Piuttosto perché il diritto lo produce come qualcosa di esterno e contrario a se stesso. Connettendo la giustizia all’unità politica dei cittadini, il diritto produce il proprio altro. Da questo momento in poi c’è un esterno alla giustizia: con l’instaurazione del diritto viene contemporaneamente e inevitabilmente prodotta la possibilità dell’esterno al diritto, del non-diritto. Il diritto, quindi, non deve soltanto assicurare le proprie decisioni contro le interpretazioni diverse e contrastanti riguardo all’uguaglianza come ‘diritto civile’ [bürgerliches Gesetz]. Deve assicurare anche il suo dominio contro la possibilità di un “al di fuori” del diritto e del non-diritto che esso ha prodotto e riproduce in ogni suo atto. Tutto ciò non significa solamente che il diritto richiede la violenza come mezzo – come quella che dev’essere impiegata contro i cittadini “comuni” che non possono o non vogliono dar seguito alla comprensione superiore dei migliori che giudicano. La sicurezza del dominio del diritto contro la possibilità dell’esterno al diritto è nella sua essenza, in tutto e per tutto, violenza. Questo perché il rapporto tra diritto e non-diritto non è di tipo normativo e quindi nemmeno cognitivo: è una contrapposizione che nessuna comprensione può colmare e che non può essere mediata da nessuna ragione. È un rapporto di pura imposizione – pura violenza38. 37 Per la giustizia della vendetta è valido che «nessun fatto è ancora compiuto» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Gesammelte Werke, IX, a cura di W. Bonsiepen, R. Heede, Meiner 1980; trad. it. Fenomenologia dello spirito, 2 voll., a cura di E. De Negri, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, vol. I, p. 22. 38 Questa struttura del rapporto tra diritto e non-diritto o ciò che è esterno al diritto – che deve produrre il diritto e costantemente sottometterlo; che dunque appartiene

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6. La maledizione dell’autonomia (Edipo Re) Forse non c’è nessun testo che abbia indagato a fondo l’esteriorità del diritto al pari dell’Edipo di Sofocle. Quando Sofocle mostra la logica inesorabile con cui il giudice Edipo dirige contro se stesso la violenza della legge, egli mostra come il problema della sua esteriorità, inscritto nel diritto, apra allo sviluppo storico del diritto una sola direzione: l’esteriorità del diritto impone la sua interminabile e progressiva interiorizzazione. Il diritto deve produrre il soggetto autonomo. Per dominare, il diritto autoritario deve trasformarsi in diritto autonomo, e quindi in un diritto che, secondo il suo concetto, ciascuno riesce a esercitare da sé. Dunque, così l’Edipo Re, ognuno diventa da sé l’istanza che può e vuole dirigere l’azione violenta del diritto contro colui che è senza diritto come un’azione autonoma contro se stesso. Edipo Re comincia con i cittadini di Tebe, afflitti dalla peste, a cui viene ricordata da un oracolo l’antica pratica dei rituali di purificazione, in cui un “contagio” era espiato col sacrificio. «Apollo sovrano», dice Creonte, inviato a Delfi come messaggero, «ci ordina chiaramente di cacciare dal paese il contagio che è stato nutrito in questa terra»39. In questi rituali regna la giustizia della vendetta: essi creano giustizia compensando un oltraggio con una ‘seconda lesione’ [Wiederverletzung]40. Come mette subito in evidenza la domanda di Edipo a Creonte sul senso di questo oracolo, il diritto regna già a Tebe. Qui al diritto ed è al contempo l’altro rispetto al diritto – è stata descritta da Giorgio Agamben nel confronto critico con il concetto schmittiano di “eccezione”. Cfr. Giorgio Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 33 sgg. Il diritto non può essere prodotto in modo conforme a validità rispetto a ciò che è esterno al diritto stesso: cfr. ivi, p. 54 e pp. 77 sgg. 39 Sofocle, Edipo Re, in Tutte le tragedie, cit., pp. 941-1035, p. 949, v. 96-97. Sul seguito si veda Christoph Menke, Die Gegenwart der Tragödie. Versuch uber Urteil und Spiel, Suhrkamp, 2005, parte I, Der Exzeß des Urteils. Eine Lektüre von König Ödipus. 40 Vendetta e sacrificio si distinguono (soltanto) per il fatto che quest’ultimo è un’azione violenta tesa a ristabilire la giustizia a cui non segue un’altra risposta perché non è smisurata né viene esperita come azione. Il sacrificio è «una violenza senza rischio di vendetta» (René Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 28): essa è bastevole. La tragedia comincia con l’esperienza che nessuna vittima crede più che la violenza possa aver fine: il sacrificio di Ifigenia da parte di Agamennone dev’essere vendicato, e così via.

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oltraggi ed eccessi non sono più espiati con vendetta e sacrifici; piuttosto i casi vengono indagati e ‘giudicati’ [abgeurteilt]. Anche Edipo adempie all’imperativo purificatorio dell’oracolo avviando un processo per omicidio: «Ricomincerò dal principio. Scoprirò la verità»41. Edipo ritiene di poter essere giudice non soltanto perché eccelle nel risolvere enigmi complessi (e così è diventato Re, o meglio “tiranno”, che domina grazie alle sue capacità e non alla sua origine), ma perché – in quanto straniero con nessun parente nella città – sarà imparziale e condurrà l’indagine semplicemente per l’assassinato, la città e il dio. Come verrà mostrato in seguito, ciò richiede il rispetto rigoroso delle norme procedurali del diritto. Anche il giudice Edipo, con tutta la sua conoscenza superiore, deve tener presente che l’accertamento dei fatti, nel diritto, può avvenire soltanto col riconoscimento delle parti (le quali, nel processo, hanno il diritto di controbattere e di porre domande, cosa che Creonte fa valere contro l’autocrate Edipo)42. Che a Tebe prevalga il diritto è mostrato altrettanto e ancor meglio dal fatto che fino a quel momento, dunque da decenni, nessuno si era occupato di omicidi sui quali, secondo l’opinione dei tebani, può far luce soltanto l’oracolo – che, come spesso fanno gli oracoli, parla solo vagamente di un «contagio che è stato nutrito in questa terra». Semplicemente perché, secondo la scusa con cui Creonte risponde al rimprovero di Edipo, c’erano altre cose da fare. Al posto dell’invito a vendicarsi è subentrato a Tebe un ordine del diritto la cui esteriorità è evidente: quando la vendetta viene sostituita dal diritto, non ci si occupa più di un omicidio, ma della ‘sventura’ [Not]. La retorica delle Erinni secondo cui il sangue versato reclama espiazione appare qui come eccessivamente imbarazzante, solo appunto come retorica. Le Erinni avevano già predetto che le cose devono stare proprio così rispetto alla giustizia, nel momento in cui il nodo tra giustizia e paura viene reciso per mezzo dell’istituzione di un tribunale basato esclusivamente sull’uguaglianza dei cittadini e affidato al loro comprendere e decidere: le Erinni avevano previsto che non ci sarebbe stata più nessuna giustizia. Proprio questo è accaduto a Tebe, dove un omicidio resta impunito per disinteresse. Affinché la giustizia venga 41 Sofocle, Edipo Re, cit., p. 251, v. 133. 42 Ivi: pp. 975 sgg., vv. 544 sgg.; pp. 977 sgg., vv. 575 sgg.; pp. 981 sgg., vv. 627 sgg.

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rispettata, essa dev’essere imposta con mezzi esterni al diritto: un oracolo deve esigerla e un Re deve farsi carico del problema. Tuttavia, la primissima esperienza che Edipo fa nel ‘processo’ [Rechtsverfahren] da lui condotto è già che pure questo, da solo, è inutile. Edipo concede al giudice tutto il suo potere sovrano, solamente per fare esperienza del ripetersi della passività di giudizio dei tebani nella loro riluttanza a partecipare al processo. Al posto dell’omicidio, Edipo deve seguire un altro delitto: la reticenza del sapere, il ‘non prender parte’ [Nichtbeiteilugung] al procedimento giuridico diventa l’oggetto principale dell’azione di Edipo. In un primo momento Edipo ‘impartisce’ [verbindet] a colpevoli, complici e testimoni il suo “comando” di rivelare ciò che sanno, promettendo loro una cassazione o mitigazione della pena e una ricompensa. Sapendo fin dall’inizio che questi tentativi sarebbero stati senza speranza, Edipo reagisce dicendo quel che farà se nulla di tutto ciò porterà a un risultato: egli li “comanderà” e li “maledirà” al bando dalla comunità religiosa e politica della città. Per imporre il diritto, o meglio la partecipazione al procedimento giuridico, Edipo torna a prima del diritto, al linguaggio oracolare del rito, e nelle vesti di giudice parla «in tono sacerdotale»43 maledicendo coloro che si sottraggono al processo – coloro che provano a restare fuori dal diritto – a punirsi con l’esclusione dalla cittadinanza44. Maledire non significa minacciare: una minaccia si rivolge a qual43 Friedrich Hölderlin, Anmerkungen zum Oedipus, in Werke und Briefe, Insel, 1979, pp. 729-736; trad. it. Note all’«Edipo», in Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, SE, 1987, pp. 139-144, p. 141. 44 «Ma se non parlerete, e se chiunque, temendo per qualcuno che gli è caro o per se stesso, non terrà conto di questo mio editto, state bene a sentire quello che farò al riguardo. Ordino che nessun cittadino di questa terra, che è in mio potere e di cui occupo il trono, dia accoglienza o rivolga la parola a costui, chiunque egli sia, e che non celebri con lui le suppliche e i sacrifici agli dèi, né gli porga l’acqua lustrale, ma tutti lo respingano dalle loro case, perché egli per noi è contaminazione, come mi ha appena rivelato l’oracolo del dio delfico. Così io mi dichiaro alleato del dio e del morto, e maledico il colpevole, sia egli sfuggito alla giustizia da solo o con la complicità di molti: misero, miserabilmente, consumi una vita di sventura. E prego che se si trovasse nella mia casa, presso il mio focolare, e io ne fossi a conoscenza, si abbattano su di me le stesse maledizioni che ho appena invocato per altri» (Sofocle, Edipo Re, cit., p. 959, vv. 232-251).

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cuno che ha desideri e soprattutto paure, e che riflette su come può ottenere ciò che desidera e scongiurare ciò che teme. Una maledizione funziona in modo completamente diverso: senza la mediazione di riflessioni ulteriori, dunque in modo immediato; una maledizione è qualcosa che si subisce, che si «abbatte»45 su qualcuno. La maledizione defrauda colui che colpisce della propria soggettività, la quale è il presupposto della minaccia. La maledizione è violenza nel senso descritto in precedenza: essa «elimina l’agire con l’agire» (Luhmann). Il diritto può comandare solamente – così sembra affermare il ricorso alla maledizione da parte di Edipo – nella misura in cui i suoi soggetti lo subiscono come una maledizione. Il dominio del diritto sottomette attraverso la desoggettivazione. Al tempo stesso, però, è esattamente l’autocondanna ‘secondo il criterio del diritto’ [nach dem Maß des Rechts] che il dominio del diritto esige attraverso l’irrefrenabile violenza del ‘maledire’ [Fluchgewalt]: ‘il diritto maledice ad autocondannarsi’ [das Recht verflucht zur Selbstverurteilung]. Maledice ad essere soggetto di giudizio e a giudicare se stesso secondo il criterio del diritto. Il diritto, desoggettivizzando, condanna alla ‘soggettivazione giuridica’ [rechtsförmige Subjektivierung]. L’esperienza di Edipo, che si palesa così clamorosamente in lui, è che soltanto così può prevalere la giustizia del diritto: per esser valido, il diritto non può contare solamente sulla paura per le sue minacce. Questa era la risposta del diritto autoritario su cui si basava Atena e che già nella Tebe di Edipo non vale più. Fin dalla sua istituzione, il diritto minaccia di rimuovere l’indifferenza di coloro che sono ‘fuori e liberi dal diritto’ [Außerrechtlichen, Rechtsfreien], la cui possibilità è stata prodotta dal diritto stesso. La nuova concezione di Edipo è che il ‘dominio del diritto’ [Herrschaft des Rechts] può esser garantito solo se viene dall’interno: se impone il modo di giudicare del diritto come quello proprio dei soggetti che sottostanno al diritto; se, in un sol colpo, tanto il diritto quanto i soggetti diventano autonomi. Non basta che i contraenti si ridefiniscano come parti – come le Erinni e Oreste nelle Eumenidi – né che si sottomettano al ‘potere di giudizio’ [Urteilsmacht] di un altro che giudica. La soggettivazione imposta dal dominio del diritto deve spingersi oltre e più in profondità: il dirit45 Sofocle, Edipo Re, cit., p. 959, v. 250.

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to domina costringendo i suoi soggetti ad essere autonomi; il diritto domina maledicendo i suoi soggetti a giudicarsi da sé, liberamente, secondo la legge del diritto. È questa la «maledizione della legge» di cui parla Platone: per gli individui, tale maledizione consiste nel diventare se stessi, nel diventare il sé della legge. La «maledizione della legge» che per Platone colpisce coloro che non «perseguono» il suo adempimento46, e che il diritto rivolge contro colui che è ‘fuori dal diritto’ [Außerrechtlicher], non si adempie per mezzo di un dominio autoritario, ma attraverso l’‘autonomo giudicare se stessi’ [autonome Selbstbeurteilung]. Non la logica della sovranità (come afferma Giorgio Agamben), ma la logica dell’autonomia definisce la forma di ‘dominio del diritto’ [Herrschaftsform des Rechts]47. Edipo maledice l’autonomia per rendere valido il diritto. Ma la maledizione della legge che costringe ad essere autonomi non è un mezzo esteriore per la sua imposizione: la maledizione della legge descrive semplicemente la modalità in cui il diritto domina e il perché esso si legittima nella modalità da cui discende. Nel passo che Edipo 46 «E chi, pur dovendo farlo, essendo parente del morto tra coloro entro il grado di cugino da parte maschile e da parte femminile, non lo persegue legalmente, o non gli intima di tenersi lontano dalla vita pubblica, innanzitutto riceverà su se stesso la macchia e l’avversione degli dèi, poiché è l’‘imprecazione della legge’ [nómon arā] che indirizza su di lui la maledizione divina; in secondo luogo sia citato in causa da chi vuole punirlo a nome del morto» (Platone, Le Leggi, a cura di F. Ferrari, BUR, 2005, p. 805, 871b). 47 Ciò distingue la maledizione della legge dal «bando» che – secondo Agamben, che qui segue Jean-Luc Nancy – il sovrano impone su ciò che è esterno al diritto (la «vita») in nome del diritto, e al tempo stesso sospendendolo. Cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 2005, p. 34. La maledizione della legge consiste nel fatto che il diritto condanna ognuno a imporsi da sé questo bando (e a diventare «soggetto» autonomo del diritto). È questa la tesi fondamentale di Michel Foucault in Sorvegliare e punire che manca nella fissazione agambeniana del concetto di sovranità (Michel Foucault, Surveiller et punir. La naissance de la prison, Editions Gallimard, 1975; trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, a cura di A. Tarchetti, Einaudi, 1976). Si veda anche la nota di Gilles Deleuze secondo cui con il cristianesimo, ma ciò era già «prefigurato» da Edipo, «lottizzarsi da sé e punirsi da sé diventano le caratteristiche del nuovo giudizio o del tragico moderno» (Gilles Deleuze, Pour en finir avec le jugement, in Critique et clinique, Les édition des Minuit, pp. 158-169; trad. it, Per farla finita con il giudizio, in Critica e clinica, a cura di A. Panaro, Cortina, 1996, pp. 165-176, p. 169.

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compie con l’introduzione del diritto autonomo, al di là del diritto autoritario di Atene, dominio violento e giustificazione normativa si fondono l’uno nell’altro. Il diritto è giustificato perché il suo giudizio è imparziale e avviene nel nome dell’uguaglianza di tutti i cittadini. Solo questo distingue la violenza connessa al ‘giudizio punitivo del diritto’ [strafendes Urteil des Rechts] da quella esercitata dalla ‘lesione seconda’ [Wiederverletzung] della vendetta. Proprio per questo – è la conclusione del diritto autonomo – il giudizio del diritto, a differenza di quello della vendetta, è anche il giudizio che ciascuna parte deve pronunciare nel momento in cui si vede come una delle due parti e quindi come uguale cittadino. Il giudizio del diritto è il giudizio di tutti48. Pertanto, il diritto esige da colui su cui esso giudica e che addirittura condanna che sia lui stesso a giudicarsi in questo modo. Solo in ciò risiede la legittimità del diritto che lo distingue dalla vendetta. Ma la tragedia dell’Edipo mostra altrettanto che in questo, e solo in questo, consiste anche il ‘dominio del diritto che ricorre alla violenza’ [gewaltanwendende Herrschaft des Rechts]. Per dominare, il diritto non deve ricorrere ad altri mezzi di coercizione oltre alla sua ‘pretesa di giustificazione’ [Rechtfertigungsanspruch]. Piuttosto deve realizzare la sua pretesa di giustificazione come esercizio della violenza: la ‘violenza del maledire’ [Fluchgewalt] che assicurava il prevalere della giustizia della vendetta – anteriore al diritto –, dev’essere trasformata dal diritto: esso la accresce attraverso la propria pretesa e, realizzandola, il diritto giustifica il suo giudizio. La ‘dottrina cratica’ [kratische Lehre] delle Erinni, secondo cui non c’è giustizia né per colui che è «senza signore», né per colui che è «sottomesso alla violenza di un signore», si realizza pienamente nel momento in cui ciascuno diventa il proprio signore e, dunque, il proprio stesso servo. Ecco perché il 48 È già la coscienza giuridica di Creonte quando dice a Edipo: «Se scoprirai che ho ordito una qualche congiura insieme con l’indovino, mettimi a morte. E non con un voto solo, ma con due: il tuo e il mio» (Sofocle, Edipo Re, cit., p. 979, vv. 605-606). Ed è anche quella che l’Elettore di Brandeburgo esige dal principe di Homburg quando questi gli conferisce il potere di giudicare sulla sua disobbedienza: «Come posso contraddire un uomo di guerra come lui? Ho il massimo rispetto, tu lo sai bene, per i suoi sentimenti. Se può considerare ingiusta quella sentenza io ne annullo gli articoli e lo rimetto in libertà» (Heinrich von Kleist, Prinz Friedrich von Homburg, in Werke, a cura di E. Schmidt, 3 voll., Bibliographisches Institut, 1905, vol. I, pp. 21-126; trad. it. Il principe di Homburg, a cura di I.A. Chiusano, Garzanti, 1984, pp. 181-269, p. 240).

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diritto, fin dal momento in cui diventa autonomo, indica l’autonomia del soggetto come primo ‘obbligo giuridico’ [Rechtspflicht]. All’inizio del diritto c’è l’imperativo – sii autonomo! Sii una persona!49. Ma dato che questo imperativo del diritto autonomo si rivolge a chi non può comprenderlo, poiché fuori dal diritto, tale imperativo non deriva dall’autonomia: è una costrizione – un imperativo del dominio, una maledizione. La pretesa di giustificazione del diritto è la maledizione nei confronti di coloro che sono soggetti ad esso. Edipo pronuncia la maledizione ad essere autonomi propria del diritto solo come un sostituto, come giudice: egli non maledice in nome suo, ma nel nome del diritto. Pertanto, l’obbligo a rivolgere a se stessi la maledizione appartiene fin dall’inizio al senso del diritto: «Si abbattano su di me le stesse maledizioni che ho appena invocato per altri»50. E così dovrà essere: nessuno condanna Edipo per omicidio e incesto51, 49 «L’imperativo giuridico è perciò: sii una persona e rispetta gli altri come persone» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 48). Le Institutiones parlano di tre fondamentali imperativi giuridici: «honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere» (Corpus Iuris Civilis, 1.1.3). Per la teoria del diritto autonomo, il primo imperativo è quello di essere autonomi, ed è il fondamento di ogni diritto: «Sii un uomo retto (honeste vive). L’onesta giuridica (honestas iuridica) consiste nell’affermare, nel rapporto con gli altri, il proprio valore quale uomo. Questo dovere viene espresso con la proposizione: “non fare di te stesso un semplice mezzo per gli altri, ma sii per loro al tempo stesso un fine”. Questo dovere verrà in seguito definito come obbligazione derivante dal diritto dell’umanità nella nostra propria persona (lex iusti)» (Immanuel Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, Nicolovius, 1797; trad. it. Metafisica dei costumi, a cura di G. Landolfi Petrone, Bompiani, 2006, p. 75). 50 Sofocle, Edipo Re, cit., p. 959, v. 251. 51 Vero è che, secondo il criterio giuridico, Edipo non avrebbe dovuto condannarsi. Poiché certamente sa (meglio degli altri, cfr. Sofocle, Edipo Re, cit., p. 951, v. 124; p. 957, v. 224) di non essere giuridicamente colpevole di omicidio e incesto, dato che non li ha commessi consapevolmente (colpevole quindi di un omicidio, non del parricidio). All’autocondanna di Edipo si può invece argomentare, quindi, che Edipo non rientra nelle condizioni connesse alla maledizione nei suoi confronti. Poiché la maledizione si rivolge – solamente – a chi agito con coscienza, ma ciò può avvenire solamente sapendo cosa si fa. Ma nel momento in cui egli si riconosce come autore del delitto, è chiaro a Edipo di esser condannato e maledetto a causa di se stesso. La ragione di ciò (almeno a quanto vedo) risiede non solo nella gravità dei suoi atti, ma nella forma del giudizio: il giudizio giuridico è rivolto ai soggetti: cosa hanno fatto, a chi e come. Ma questo giudizio giuridico, come è evidente in questo caso, si basa –

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nessuno lo condanna alla cecità e all’esilio, se non Edipo stesso. Sotto il dominio del diritto ci si condanna da sé, e tale autocondanna è una maledizione. Proprio perché è una condanna che ci si infligge da sé, essa è una condanna in cui non si è liberi e, soprattutto, da cui non si esce liberi. Proprio perché autoinflitta, si resta perennemente imprigionati nell’autocondanna a cui maledice il diritto; niente può scioglierla. Nella sua autocondanna imposta giuridicamente, Edipo è prigioniero della sua colpa e intrappolato nella prigione della sua coscienza. Il soggetto fa suo il giudizio giuridico, rendendosi dunque proprietà del diritto. Attraverso il proprio giudizio giuridico, il soggetto identifica se stesso. 7. Il destino del diritto (Benjamin 1) Il diritto è violenza anche secondo il suo concetto: ‘violenza autorizzata’ [berechtigte Gewalt]. Nel suo giudicare, e ancor più nel suo punire, il diritto ‘lede’ [verletzt] il ‘trasgressore’ [Verletzer]. La (seconda) lesione del trasgressore è il comune denominatore della giustizia nella vendetta e nel diritto. Secondo il suo concetto, il diritto è legittimato, persino ‘obbligato’ [verpflichtet] alla violenza, poiché esso giudica e punisce in nome di un universale che appartiene anche a colui che viene condannato e punito. Non si tratta della giustizia come stato del mondo (contro il cui turbamento si rivolgono vendetta e sacrificio ancora una volta – su un giudicare pregiuridico rivolto all’accaduto e che si costruisce con una storia. Un giudicare riguardo al fatto che l’accaduto sia un bene o un male. La domanda è dunque: perché il giudizio giuridico deve continuamente risalire a questo giudizio pregiuridico? Perché esso rappresenta la forma basilare di normatività di cui si nutre il sapere giuridico circa il giusto e l’ingiusto. Nell’autocondanna di Edipo il diritto assume la forma pregiuridica, dato che non si tratta di impiegare questa o quella regola normativa, né di imporre l’interpretazione di una norma contro l’altra, poiché ne va piuttosto della legge della legge – ossia, la normatività del diritto in generale. Edipo giudica secondo i criteri precedenti al diritto, proprio perché si tratta del diritto in quanto tale: perché nella sua autocondanna in quanto ‘privo di diritto’ [Rechtloser] egli si sottomette al diritto. Rispetto a chi non ne ha il diritto assume una forma pregiuridica: i suoi giudizi sugli atti appaiono come constatazioni di fatti. Nel suo autopunirsi Edipo si punisce per il fatto di essere esterno al diritto proprio nel senso della sua maledizione.

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attraverso ‘azioni smisurate’ [Handlungen des Übermaßes]), ma della giustizia come uguaglianza dei cittadini in nome dei quali il diritto giudica e punisce. Il diritto – vale anche per quello autoritario – lede il trasgressore in suo nome52: in nome di esso in quanto uguale cittadino. Una delle principali difficoltà del diritto, fin dall’inizio, è quella di esprimere e rendere tangibile questa ‘legittimazione della forma’ [legitimatorische Formbehauptung]. Riferendoci alla violenza della lesione esercitata dal diritto, come possiamo rispondere al fatto che essa è legittima, dato che avviene proprio in nome del trasgressore? Almeno per il fatto – questa la risposta del diritto autonomo53 – che esso rinuncia a quei modi di condotta processuale (come la tortura) e non infligge più punizioni «crudeli e insolite». Ma ad essere controverso non è solo il loro limite (se, ad esempio, la pena di morte appartenga o meno ad esse). Anche una riforma del diritto penale liberale e umanitaria non può cambiare nulla riguardo al fondamentale dubbio se le ‘lesioni seconde’ [Wiederverletzungen] del diritto in nome dell’uguaglianza politica sono legittime o se in verità non fanno altro che mettere in pratica il dominio delle disuguaglianze economiche e sociali esistenti. La differenza di forma del diritto, su cui esso basa la propria legittimità, può essere sempre percepita come una differenza solamente formale e il diritto appare sempre come giustizia di classe o giustizia dei vincitori. Come ha acutamente descritto Walter Benjamin54, la critica alla violenza del diritto, che si applica al suo apparire e quindi ai suoi mezzi, soffre ancora di una delle due debolezze: o essa deve «proclamare un anarchismo addirittura infantile […] rifiutando ogni coazione nei

52 La nota affermazione di Hegel secondo cui «la lesione che ricade sul delinquente […] è anche un diritto posto nel delinquente stesso», e dunque «il suo diritto» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 89), non è una esagerazione pittoresca, ma deriva dalla pretesa di legittimità del diritto. 53 Cfr. Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di R. Fabietti, Mursia, 1973. Si veda anche La dolcezza delle pene, in Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, cit., pp. 113-144. 54 Walter Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, in Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser, 7 voll., Suhrkamp, 1977, vol. II.1, pp. 179-203; trad. it. Per la critica della violenza, in Opere complete, 9 voll., a cura di R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser, E. Ganni, Einaudi, vol. I, pp. 467-488.

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confronti della persona e dichiarando “essere lecito quel che piace”»55 – una tale critica ai mezzi violenti del diritto avviene «in nome di una “libertà” informe»56 alla quale ogni limitazione, ogni determinazione appare come una privazione violenta e come lesione (ciò, tuttavia, secondo Benjamin, non è valido nemmeno per la pena di morte) –, oppure la critica ai mezzi violenti del diritto deve avvenire in nome degli scopi giusti del diritto. In tal senso lo scopo della giustizia proprio del diritto dev’essere distinto dai mezzi violenti del diritto affinché questi mezzi possano essere giustificati e al contempo limitati da quello scopo. La seconda forma della critica alla violenza – la critica che è al contempo giustificazione e limitazione della violenza come mezzo in nome della giustizia dei suoi scopi – è il modo di pensare per il quale, secondo Benjamin, diritto naturale e positivismo coincidono. Essi coincidono nel «dogma fondamentale comune: fini giusti possono essere raggiunti con mezzi legittimi; mezzi legittimi possono essere impiegati a fini giusti»57. Quando Benjamin obietta che «mezzi legittimi da una parte e fini giusti dall’altra sono fra loro in contrasto irriducibile»58, questa obiezione non riguarda più l’apparire violento del diritto – quindi non riguarda più i mezzi del diritto, la cui violenza soppianta la giustizia dei loro scopi. Piuttosto, Benjamin respinge la logica di mezzi e scopi in cui coincidono legittimazione della forma e critica del ‘fenomeno del diritto’ [Erscheinung des Rechts]: in questa logica la violenza del diritto non può essere affatto compresa. La violenza del diritto non è un mezzo, per quanto giusto sia il suo scopo. Oppure: la violenza del diritto, la quale in verità ha bisogno della critica, non risiede nei suoi mezzi, né nel fatto che anche il diritto limita, minaccia e lede. La violenza del diritto è piuttosto «la violenza coronata dal destino»59. Tutto ciò significa che la violenza del diritto risiede nel suo ‘agire’ [wirken] come un destino. Un’altra formulazione di Benjamin è che il diritto è violenza «mitica»60. Altamente esplicativa è la seguente formulazione: 55 Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 474. 56 Ibidem. 57 Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 482. 58 Ivi, p. 468. 59 Ivi, p. 475. 60 Ivi, p. 482.

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La funzione della violenza nella creazione giuridica è, infatti, duplice nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che viene instaurato come diritto, come scopo con la violenza come mezzo, pure – nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioè immediatamente, violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto, con il nome di potere, non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e necessariamente legato a essa. Creazione di diritto è creazione di potere, e intanto un atto di immediata manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità divina; potere il principio di ogni diritto mitico61.

Il problema del diritto e della legittimazione della sua violenza non è che il diritto viene instaurato e imposto con violenza, né che il diritto in generale impiega la violenza come mezzo. Il problema del diritto è piuttosto che la violenza non può restare nel diritto come qualcosa in una tecnica, come semplice mezzo: essa «non depone» il diritto, ma ne diventa lo ‘scopo nascosto’ [geheimer Zweck]62. La violenza del diritto, che è dunque «destino», secondo Benjamin è che i suoi mezzi violenti fanno scomparire i suoi fini giusti, poiché l’unico scopo del diritto diventa la sua ‘autoconservazione’ [Selbsterhaltung]. Il diritto è pura potenza: non la potenza della classe dominante o del vincitore, ma la violenza propria, la violenza del diritto stesso. La violenza “destinale” del diritto è quella della sua semplice autoconservazione. Bisogna dunque considerare due elementi per la spiegazione del rapporto tra diritto e violenza. In prima istanza bisogna distinguere due usi del termine violenza. “Violenza” è di solito impiegato per denotare un ‘modo d’azione privo di inibizioni e lesivo’ [behindernde oder verletzende Wirkungsweise]63. È ovvio che il diritto fa uso di questi modi di azione. Ciò deriva dal suo carattere di dominio politico, 61 Ivi, p. 483. 62 La violenza, «dopo avere distrutto ogni potere, non abdica», ma diventa terrore (Hannah Arendt, On violence, HBJ Book, 1970; trad. it. Sulla violenza, a cura di A. Chiaruttini, Mondadori, 1971, p. 68). 63 Si veda la Considerazione preliminare alle pp. sgg.

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poiché il dominio è dipendente dalla violenza in quanto «meccanismo simbiotico» (Luhmann). La violenza lesiva del diritto è ‘deplorevole’ [beklagenswert] poiché provoca dolore. E tuttavia, secondo Benjamin, essa può essere giustificata persino quando è violenza contro la vita. Il diritto, invece, in quanto violenza mitica e destinale è sempre ‘riprovevole’ [verwerflich]. Usato in questo modo, il termine violenza non indica il modo di agire lesivo proprio degli atti giuridici, particolarmente evidente nel giudicare e nel punire, ma il loro modo operativo: la violenza mitica o destinale del diritto consiste nel fatto che gli atti del giudicare e del punire giuridici non sono trasparenti in nessun altro scopo che in quello della semplice conservazione del potere di giudicare e punire da parte del diritto. Nel secondo senso – che costituisce l’oggetto stesso della critica –, “violenza” indica un operare che riguarda esso stesso; un operare, quindi, in cui fine e mezzi coincidono. Secondo Benjamin, ciò che è riprovevole della violenza del diritto non è il fatto che il diritto minaccia, lede e costringe, ma che (o quando) il diritto è attuato in modo che agisce solo per se stesso e per la conservazione del suo ordine, per l’introduzione e l’imposizione delle sue categorie, delle sue prospettive e dei suoi linguaggi: per la sua ‘pura potenza’ [bloße Macht]. Un tale operare, in cui ne va del suo potere di operare, deve continuare all’infinito, proprio come il potere del destino. In seconda istanza, Benjamin spiega il modo operativo del diritto, caratterizzato da violenza e destino, come la ripetizione della formulazione del diritto nella conservazione di se stesso. Negli atti di conservazione del diritto, la prospettiva giuridica della giustizia – l’uguaglianza dei cittadini – viene stabilita nelle leggi e applicata nelle sentenze. Con l’espressione «conservazione del diritto» Benjamin indica l’‘attuazione’ [Durchführung] normativa del diritto. Secondo Benjamin, però, non c’è conservazione del diritto in cui le “origini” del diritto non si inscrivano nel diritto: nella conservazione del diritto si realizza sempre una “ripetizione” della formulazione del diritto e la conservazione del diritto non riguarda mai semplicemente la formulazione o l’applicazione di questa o quell’altra legge, ma il ‘rafforzamento’ [Bekräftigung] del “diritto stesso”. In questo rafforzamento sempre più necessario si rivela, secondo Benjamin, un «qualcosa di guasto [Morsche]»

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del giudizio64: il diritto è «qualcosa di guasto» perché è “violenza” nel secondo significato – perché la sua istituzione deve ripetere all’infinito la sua imposizione. Il motivo di ciò è già nella logica che regge l’istituzione del diritto: quest’ultima è la contrapposizione a ciò che è esterno al diritto, al non-diritto (che Benjamin definisce come «nuda vita», la vita al di fuori del diritto)65. Stabilendo questa opposizione tra diritto e non-diritto, tra vita legale e «nuda» vita, il diritto resta imprigionato in questa opposizione. L’imporsi del diritto contro il non-diritto non può mai avere successo, dato che nel suo imporsi il diritto produce altrettanto ciò contro cui si rivolge. Esso non può dunque mai essere semplicemente conservativo, procedendo secondo la sua logica normativa, ma deve opporre continuamente la sua potenza contro ciò che è esterno, sempre al di qua di ogni normatività. Il diritto non può lasciarsi alle spalle l’atto della sua istituzione. Dover ripetere all’infinito questo atto è il destino e la violenza del diritto. **** (1) La violenza del diritto consiste nel dover ripetere all’infinito la sua imposizione violenta contro ciò che è esterno al diritto. La violenza del diritto non è semplice, ma potenziata: è violenza della violenza; la violenza del ripetere violenza. (2) La violenza del diritto risiede nel fatto che il diritto deve imporsi contro il non-diritto. Ma può farlo solo attraverso la sopraffazione e la lesione, non tramite convincimento e giustificazione. Inoltre, il diritto deve imporsi continuamente contro il non-diritto, poiché presuppone il non-diritto contro cui deve imporsi. Sono queste le due tesi centrali della critica del diritto di Benjamin. L’esperienza tragica del diritto, nella sequenza di vendetta, diritto autoritario e diritto autonomo, aggiunge due spunti a queste tesi. Il primo è che la produzione del non-diritto e di ciò che è esterno al diritto, tramite il diritto, risulta dal carattere politico-procedurale di quest’ultimo. Poiché con la sua procedura di uguaglianza il diritto rompe con la violenza della ripetizione della vendetta; e poiché la procedura giu64 Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 475. 65 Ivi, pp. 485 sgg.

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ridica dell’uguaglianza è l’espressione di una politica dell’uguaglianza; poiché dunque l’uguaglianza procedurale garantita alle due parti dal procedimento giuridico si basa sull’uguaglianza politica dei cittadini nel cui nome il giudice esprime una sentenza; poiché dunque la giustizia del diritto si regge sull’unità politica che, in quanto ‘prodotta’ [gemacht], si contrappone a ciò che non le appartiene – a tutto ciò segue che il diritto deve continuamente imporre se stesso, con violenza, contro ciò che è esterno, contro il non-diritto. A differenza della violenza della vendetta, il diritto deve la legittimità al suo carattere politico-procedurale. Violenza e legittimità del diritto sono dunque immediatamente intrecciate e hanno alla base la medesima struttura. Il secondo spunto che l’esperienza tragica aggiunge alle tesi benjaminiane sulla violenza del diritto – la tesi secondo cui la violenza del diritto è la violenza “destinale” della violenza – è che l’unità di legittimità e violenza costituente il diritto assume la sua forma compiuta nella figura della soggettività, la cui formazione è la maledizione che il diritto autonomo infligge ai suoi interessati.

Parte II – La destituzione del diritto

1. La destituzione del diritto (Benjamin 2) Il concetto di ‘violenza destinale’ [schicksalhafte Gewalt] impiegato da Benjamin aiuta a definire più precisamente l’‘esperienza tragica’ del diritto [Tragödienerfahrung des Rechts]. Esso mostra in cosa consista la violenza del diritto al di là del suo apparire come limitazione e ‘lesione’ [Verletzung]. Ma è vero anche l’inverso: l’esperienza tragica del diritto aiuta a definire più precisamente il concetto benjaminiano di violenza destinale. Nella «violenza coronata dal destino» Benjamin vede ciò che il diritto ha in comune con la giustizia della vendetta (e con la sua maledizione) che precede il diritto e che il diritto promette di sostituire. La trattazione del diritto in chiave di “filosofia della storia” («La critica della violenza e la filosofia della sua storia»)1 intende mostrare che la pretesa, da parte del diritto, di essere altro dalla vendetta e dalla maledizione è mera apparenza. Il diritto non è l’altro del destino ma solo una fase successiva ‘nell’epoca del suo dominio’ [im Zeitalter seiner Herrschaft]. Il concetto critico centrale nella trattazione di Benjamin – il concetto di mitico o di destinale – non può e non deve riguardare una differenza formale tra vendetta e diritto, ritenuti da Benjamin ugualmente destinali. D’altro canto, la tragedia comincia con la loro distinzione: con la produzione del diritto contro la violenza della vendetta. Quando poi la tragedia mostra che il diritto, nella sua essenza, è violenza, allora 1 Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 487.

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questa esibizione non si riferisce alla sua semplice identità con il vecchio ordine della vendetta, ma al paradosso che costituisce il diritto. Detto in termini processuali: si riferisce al rovesciamento nel contrario che avviene nel diritto2. Il diritto rompe con l’effetto maledicente della giustizia della vendetta, nella quale ogni lesione deve avere come risposta una seconda lesione, stabilendo così una nuova forma di giudizio: la procedura imparziale del giudizio in nome dell’uguaglianza dei cittadini. Questo nuovo modo di giudicare, tuttavia, domina a sua volta attraverso la violenza della maledizione. Il diritto – è questa l’esperienza della tragedia –, a differenza della vendetta, non è violenza destinale; il diritto è contemporaneamente rottura con la violenza destinale e ritorno di essa (in un’altra forma e in altro luogo, ossia nel soggetto)3. L’esperienza della tragedia, quindi, acuisce il problema riguardo a come possa darsi in generale una critica della violenza del diritto. Secondo Benjamin, “critica” è il nome della «prospettiva decisiva e dirimente»4. La “distinzione” critica che bisogna stabilire è quella tra la violenza destinale, che si pone e si ripete all’infinito, e il modo di agire (o “violenza”), che con quel destino rompe, poiché si supera nel suo scopo. La tragedia mostra come, nel diritto, tanto la rottura con il destino quanto il capovolgimento nel destino siano paradossalmente intrecciati: la rottura con la violenza destinale della vendetta avviene 2 Due forme diverse di destino appartengono alla violenza e al diritto: il destino mitico e quello tragico; la ‘fatalità’ [Verhängnis] e il ‘rovesciamento’ [Umschlag]; la maledizione e l’ironia. 3 Sulla dialettica tra rottura rispetto al mito e ricaduta in esso si rimanda alla Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. In una nota che può esser letta come critica a Benjamin, questa dialettica viene riferita anche al diritto: «Già nella pazienza di Odisseo, e chiaramente dopo l’uccisione dei proci, la vendetta trapassa nella procedura giuridica: proprio la finale soddisfazione dell’impulso mitico diventa lo strumento oggettivo del dominio. Il diritto è la vendetta che rinuncia. Ma in quanto questa pazienza giuridica si educa a qualcosa che è al di fuori di essa – la nostalgia della patria –, assume tratti di umanità, e quasi di fiducia, che trascendono la dilazione della vendetta. Nella società borghese sviluppata, l’una e l’altra cosa vengono soppresse: col pensiero della vendetta diventa tabù anche la nostalgia, e proprio questa è l’intronizzazione della vendetta, mediata come vendetta che il Sé esercita su se stesso» (Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, cit., p. 62, nota 1). 4 Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 487.

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nel diritto stabilendo una nuova forma di giudizio: quella politico-procedurale, la quale, a sua volta, domina nuovamente come un destino attraverso la ‘maledizione dell’autocondanna’ [Fluch der Selbstverurteilung]. Rispetto al diritto, quindi, nessuna «prospettiva decisiva e dirimente» può esser assunta: rottura col diritto e capovolgimento in esso non possono essere disgiunti all’interno del diritto. La rottura con la violenza destinale compiuta dal diritto e il suo capovolgimento in violenza destinale si fondano nella stessa forma di giudizio del diritto. Questa connessione, enucleata dalla tragedia, rende impossibile distinguere tra approvazione del diritto e rifiuto di esso; tra la costruzione di un ordine giuridico e la sua distruzione. Entrambe le posizioni rimuovono uno dei lati, paradossalmente intrecciato con l’altro. L’approvazione del diritto rimuove la maledizione all’autocondanna prodotta dall’introduzione della forma di giudizio politico-procedurale; il rifiuto del diritto rimuove il fatto che abbandonare la nuova forma di giudizio, quella politico-procedurale, non significa altro che ricadere nell’ordine della vendetta. L’alternativa di Benjamin all’approvazione e al rifiuto del diritto – alla costruzione e alla distruzione di esso – è la «destituzione del diritto»: «Sull’interruzione di questo ciclo che si svolge nell’ambito delle forme mitiche del diritto, sulla destituzione del diritto [Entsetzung des Rechts] insieme alle forze a cui esso si appoggia (come esse a esso), e cioè in definitiva dello Stato, si basa una nuova epoca storica»5. Nella parte conclusiva del suo saggio Benjamin formula il programma della «destituzione del diritto». Qui Benjamin sembra delineare – attraverso la distinzione di violenza «divina», «pura» e «rivoluzionaria» – una modalità di agire capace di rompere, contrariamente al diritto, con la violenza del destino in modo che questa violenza non ritorni in una forma diversa. Benjamin riformula quindi a un livello superiore l’idea della critica. Sarebbe una critica del diritto che non separa i due lati nel diritto, ma che separa noi dal diritto. Il costo di questa critica superiore, tuttavia, è proprio il concetto falso e identitario di diritto che lo equipara alla violenza della vendetta; un concetto, dunque, che intende il diritto come semplice ripetizione e continuazione della ‘violenza destinale’ [schicksalhafte Gewalt]. Altrettanto, però, il diritto 5 Ivi, p. 487.

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serba già in sé la rottura con la violenza destinale (in cui al contempo ricade). Anche la critica superiore che Benjamin preannuncia con i termini di violenza «divina», «pura» e «rivoluzionaria», nella misura in cui promette la separazione dal diritto, deve dunque risolvere il paradosso, nel cui dispiegamento si invera l’esperienza tragica del diritto. Secondo tale esperienza, infatti, il diritto non realizza soltanto la rottura con la violenza destinale, ma questa stessa rottura può avvenire esclusivamente attraverso il diritto6. Il programma benjaminiano di una «destituzione» del diritto, tuttavia, può esser letto in modo diverso rispetto a una separazione critica – sia essa nel o dal diritto. Ciò diventa evidente se si segue la riflessione di Giorgio Agamben, secondo il quale il vero avversario della «destituzione» del diritto di Benjamin è il programma schmittiano della «sospensione» del diritto con cui molti commentatori confondono l’idea di Benjamin (ciò avviene nella maggior parte delle traduzioni): «destituzione» è il contro-programma rispetto alla richiesta di una «sospensione» del diritto7. Con «sospensione» del diritto Schmitt intende che «in caso di eccezione viene annullata la norma». L’applicazione del diritto (o, con Benjamin, la sua «conservazione») viene interrotta e al suo posto, attraverso una decisione «assoluta», subentra la ‘legiferazione svincolata dalle norme’ [normfreie Rechtsetzung]8. Ciò che Schmitt descrive (legittima e promuove) come “so6 Riformulo qui la critica di Derrida al programma benjaminiano di una “critica” del diritto. Cfr. Jacques Derrida, Force de loi. Le Fondement mystique de l’autorité, Galilée, 1994; trad. it. Forza di legge. Il «Fondamento mistico dell’autorità», a cura di A. Di Natale, Boringhieri, 2003, pp. 86 sgg. Su questa controversia si veda Anselm Haverkamp (a cura di), Gewalt und Gerechtigkeit. Derrida-Benjamin, Suhrkamp, 1994. Rispetto alla possibilità di leggere con Derrida le figure benjaminiane di violenza «divina», «pura» e «rivoluzionaria» si rimanda a Bettine Menke, Benjamin vor dem Gesetz. Die Kritik der Gewalt in der Lekture Derridas, in Anselm Haverkamp (a cura di), Gewalt und Gerechtigkeit, cit., pp. 217-275. 7 Cfr. Giorgio Agamben, Stato di eccezione, cit., cap. IV. Questo dovrebbe mettere fine alle voci su un presunto “accordo fra gli estremi” tra Benjamin e Schmitt. 8 «Non ogni competenza inconsueta, non ogni misura od ordinanza poliziesca di emergenza è già una situazione d’eccezione: a questa pertiene piuttosto una competenza illimitata in via di principio, cioè la sospensione dell’intero ordinamento vigente. Se si verifica tale situazione, allora è chiaro che lo Stato continua a sussistere, mentre il diritto viene meno. Poiché lo stato d’eccezione è ancora qualcosa di diverso dall’anarchia o dal caos, dal punto di vista giuridico esiste ancora in esso un ordina-

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spensione” del diritto è quindi proprio quel ritorno dalla conservazione del diritto alla sua posizione, la cui incessante ripetizione – secondo Benjamin – è il ‘guasto’ [Morsche] del diritto9. La «destituzione» del diritto di cui parla Benjamin, al contrario, è l’«interruzione di questo ciclo» tra la conservazione del diritto e la sua posizione, l’interruzione della «legge di queste oscillazioni» che le unisce. Mentre Schmitt, con la sospensione del diritto, intende liberare la violenza creatrice di legge da ogni norma, Benjamin vede proprio in questa ripetizione della violenza creatrice di legge la ‘necessità del destino’ [schicksalhafte Notwendigkeit] che costituisce il diritto. La destituzione del diritto deve spezzare questo circolo mitico in cui è iscritta la sospensione del diritto. **** Il termine ‘destituzione’ [Entsetzung] è stato impiegato storicamente tanto nel linguaggio tecnico-specifico del diritto quanto in quello non specifico. In entrambi gli ambiti questa espressione combina due complessi semantici differenti. Il primo significato è: «sospensione (da una carica), deposizione», «perdita, disconoscimento (dell’onore)» e, più in generale, «destituzione del titolo nobiliare». Come secondo significato, il dizionario tedesco dei fratelli Grimm indica la revoca di un’occupazione militare o la ‘liberazione di una città’ (liberatio urbis)10. “Destituzione” del diritto significa dunque tanto deposizione mento, anche se non si tratta più di un ordinamento giuridico. L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica. La decisione si rende libera da ogni vincolo normativo e diventa assoluta in senso proprio. Nel caso d’eccezione, lo stato sospende il diritto, in virtù, come si dice, di un diritto di autoconservazione. I due elementi del concetto “ordinamento giuridico” vengono qui in contrapposizione e trovano la loro rispettiva autonomia concettuale. Come in caso di normalità il momento autonomo della decisione può essere ridotto a un minimo, allo stesso modo in caso di eccezione viene annullata la norma» (Carl Schmitt, Le categorie del “politico”, cit., pp. 38-39). 9 Cfr. supra, pp. 49-50. 10 Ecco le voci per «destituzione» nel dizionario giuridico tedesco e nel dizionario dei fratelli Grimm: «1) dejectio de gradu, ademtio muneris: destituzione di un nobile. Maaler, 106a.b; excommunicatio, […] 2) liberatio urbis, exercitus: in modo che il

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quanto ‘liberazione’ [Freisetzung] del diritto. Mentre in Schmitt la sospensione del diritto intende liberare, almeno temporaneamente, la potenza dello Stato dalla regolamentazione e dai limiti del diritto, in Benjamin la destituzione mira al depotenziamento del diritto: depotenziamento che non è altro dalla ‘liberazione del diritto’ [Befreiung des Rechts]. Ecco perché, a differenza di Schmitt, Benjamin non parla del fatto che la norma del diritto dev’essere annientata, ma della sua «funzione storica»11. Questa funzione storica «della violenza nella creazione giuridica» – secondo la tesi di Benjamin – è la «creazione di potere», e il potere è il «principio di ogni diritto mitico». Mentre Schmitt intende sospendere il diritto in virtù della potenza dello Stato, “destituire” il diritto permette di attuare la deposizione di un diritto da parte del suo funzionario, l’annullamento della sua funzione storica in quanto creazione di potere e, dunque, la liberazione del diritto. Ma esiste un siffatto modo di compiersi del diritto? 2. Autoriflessione del diritto Si pone dunque la domanda: quanto bisogna retrocedere nella costruzione concettuale del diritto per dischiudere la possibilità di un suo diverso modo di compiersi? L’unica risposta possibile è: bisogna retrocedere fino all’inizio del diritto (ma non prima di esso)12. Secondo la tragedia, l’inizio del diritto consiste nell’introdurre una forma procedurale di giudizio che connette il giudizio giuridico a un soggetto politico – il giudice che parla in nome dell’uguaglianza dei cittadini. signore della guerra, una volta che l’occupazione venga intesa in modo positivo e accettata dal popolo, possa esser dispensato dal suo incarico. Fronsperg, 1, 96 (Jacob Grimm, Wilhelm Grimm, Deutsches Worterbuch, Hirzel, 1854-1960, pp. 623-625). 11 Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 485. 12 È questa la reazione di Heidegger alla violenza del diritto che si mostra chiaramente quando parla del carattere «imperativo» del diritto (Martin Heidegger, Parmenide, cit., pp. 93-95) e dell’idea di una giustizia anteriore al diritto, pre-soggettiva, né procedurale né politica (Martin Heidegger, Der Spruch des Anaximander, in Holzwege, Klostermann, 1950, pp. 296-343; trad. it. La locuzione di Anassimandro, in Sentieri interrotti, a cura di V. Cicero, Bompiani, 2002, pp. 379-441). Si veda anche, con richiami a Heidegger, Erik Wolf, Griechisches Rechtsdenken, 2 voll., Klostermann, 1950, vol. I, pp. 218-234.

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Fin dall’inizio il diritto si pone dunque in contrasto con ciò che è esterno al diritto o non-diritto. Per essere valido, il diritto non deve solo imporre un’interpretazione autorevole contro le interpretazioni diverse e tra loro divergenti. Il diritto deve piuttosto imporre se stesso contro gli atteggiamenti e i comportamenti ‘privi di diritto o liberi dal diritto’ [rechtlos oder rechtsfrei]: atteggiamenti e comportamenti che non si orientano affatto all’idea del diritto. Nei loro confronti il diritto non può presentarsi con il potere normativo del convincimento e della giustificazione, ma solo con la violenza del proprio imporsi tramite ‘minacce, restrizioni e lesioni’ [Drohung, Einschränkung und Verletzung]. Con la sua forma politico-procedurale di giudizio – che, in nome dell’uguaglianza, rompe con la violenza della vendetta – il diritto è fin dall’inizio di fronte a un compito insolubile: il diritto non deve semplicemente assicurare questa o quella legge, questa o quella norma, ma piuttosto deve assicurare la stessa legge della legge, la stessa normatività della norma contro ciò che è senza legge e libero da norma. Per risolvere questo compito insolubile il diritto deve continuamente «sospendere» se stesso (Schmitt). Poiché «si deve creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche»13. La sospensione del diritto è il modo del suo dominio come dominio violento su ciò che è fuori dal diritto e non è diritto. La destituzione del diritto, al contrario, è la destituzione della sua sospensione: la destituzione del diritto consiste in una ‘modalità esecutiva’ [Vollzugsweise] del giudizio politico-procedurale liberata dal dominio violento su ciò che è fuori dal diritto e non è diritto. Rispetto alla domanda sul come sia possibile tutto ciò ci sono una risposta regressiva e una risposta riflessiva. La risposta regressiva è quella del ‘superamento della differenza’ [Aufhebung der Differenz] tra diritto e non-diritto, conciliazione del diritto con ciò che diritto non è. Il modello di tale risposta è un concetto teleologico (o estetico) 13 Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker & Humblot, 1979; trad. it. Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio, P. Schiera, il Mulino, pp. 29-86, p. 39. Schmitt descrive il «presupposto» dell’applicazione del diritto come «normalità», intendendo con questa l’assenza di caos, l’ordine antecedente l’ordinamento giuridico (Ibidem). Intesa in modo giuridico, la normalità dev’essere intesa come normatività, ossia come disponibilità e capacità a orientarsi in base a norme.

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di educazione: secondo la risposta regressiva, la violenza del diritto viene superata con l’educazione. Poiché, scrive ancora Benjamin, in essa ne va dell’«anima del vivente», l’educazione è altrettanto l’«assenza di ogni creazione di diritto»14. L’educazione mette fine alla violenza del diritto, poiché trasforma la «nuda» vita, che si contrappone esteriormente al diritto e a ogni normatività, in una ‘vita animata e dunque formata’ [beseeltes, damit geformtes Leben]. Infatti, «con la nuda vita cessa il dominio del diritto sul vivente»15. Con il superamento paideico del dominio violento del diritto scompare il diritto stesso. Perché a scomparire è il carattere politico del giudizio: nel concetto teleologico (o estetico) di educazione, la polis diventa seconda natura a cui non si contrappone nulla di esterno. Nel momento in cui l’educazione prende il posto del diritto, insieme alla violenza del diritto scompare anche la differenza politica, la differenza tra il politico e il suo altro (“natura”): scompare dunque il politico stesso, al cui sorgere era connessa la rottura del diritto con la giustizia mitica e senza soggetto della vendetta. La risposta regressiva intende liberare il diritto dalla sua differenza rispetto a ciò che è esterno al diritto e al non-diritto. Proprio perché questa differenza è la fessura attraverso cui la violenza del destino penetra nel diritto, la violenza del diritto può essere ‘superata’ [überwunden] – ecco l’argomento della risposta regressiva – solamente quando la sua differenza dal non-diritto viene ‘tolta’ [aufgehoben]. La risposta riflessiva, al contrario, non intende liberare il diritto dalla sua differenza, ma la differenza stessa. Non intende dunque togliere la differenza del diritto da ciò che non è diritto tramite l’educazione, quanto piuttosto dispiegare questa differenza. Ecco il significato che la risposta riflessiva dà alla “destituzione del diritto”: destituzione significa liberare la differenza del diritto rispetto al non-diritto dal dominio del diritto sul non-diritto. La possibilità di una diversa modalità esecutiva del giudicare giuridico non risiede nel superare, tramite 14 Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 485. 15 Ibidem. Su questa utopia estetica dell’educazione concordano Cover e Benjamin. Si veda la contrapposizione tra legge «paideica» e legge «imperiale» (Robert Cover, Nomos and Narrative, cit., p. 105). Per un concetto diverso di educazione in Benjamin, corrispondente al modello riflessivo di destituzione del diritto a cui si acceda nel seguito, si veda Giorgio Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, 2002, p. 81.

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l’educazione, la differenza del diritto da ciò che diritto non è, quanto realizzarla in modo non cratico e dunque non violento. Questa seconda risposta alla domanda relativa a una modalità esecutiva diversa del giudizio giuridico è “riflessiva” poiché viene realizzata esclusivamente attraverso un’autotrasformazione del diritto: attraverso un diritto che si riflette nella differenza dal non-diritto; attraverso un diritto divenuto tale in virtù della sua autoriflessione. Se la “destituzione” del diritto non deve compromettere in modo regressivo la possibilità del diritto (mettendo dunque a rischio la sua rottura con la violenza della vendetta), allora essa può assumere solamente la forma di un’autoriflessione del diritto nella differenza dal non-diritto. “Autoriflessivo”, dunque, non vuol dire che il diritto si giustifica a partire da se stesso, ma che si distingue in sé ed è limitato dal non-diritto da esso distinto. Pertanto, il diritto autoriflessivo non si distingue dal non-diritto, non è in un rapporto di mera differenza da esso, quanto piuttosto realizza la sua differenza dal non-diritto come ‘propria operazione di differenziazione’ [eigene Operation der Unterscheidung]. L’autoriflessione del diritto consiste nel riprodurre, all’interno del diritto, la contrapposizione con il non-diritto da cui si produce il diritto; il diritto autoriflessivo “sa” – ciò che, al contrario, viene costantemente dimenticato del diritto non-riflessivo e “usuale” – di aver prima prodotto, con la sua differenziazione, il non-diritto contro cui deve poi imporsi. Sicché il diritto autoriflessivo contiene in sé il non-diritto da cui si distingue. Esso è costituito in modo paradossale: contiene in sé il proprio altro. Il diritto autoriflessivo, tuttavia, non si dissolve a causa di questo paradosso; piuttosto si dà unicamente nel compimento e nell’attuazione di questo paradosso. Ma come può il diritto contenere in sé il proprio altro, ciò che non è diritto, come lo «spazio infinito dell’alterità»16? L’esterno al diritto non diventa in tal modo una determinazione interna ad esso e quindi ancora una volta qualcosa che appartiene al diritto? In che modo 16 Niklas Luhmann, Das Recht der Gesellschaft, Suhrkamp, 1993; trad. it. Il diritto della società, a cura di L. Avitabile, Giappichelli Editore, 2012, p. 156. Sull’autoriflessione del diritto si rimanda a Christoph Menke, Subjektive Rechte: Zur Paradoxie der Form, in Gunther Teubner (a cura di), Nach Jacques Derrida und Niklas Luhmann. Zur (Un)Moglichkeit einer Gesellschaftstheorie der Gerechtigkeit, Lucius & Lucius, 2008, pp. 81-108.

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avviene, nell’autoriflessione del diritto, la sua “destituzione”? Come avviene la liberazione del diritto dal suo dominio su ciò che non è diritto? 3. Liberazione del senza diritto (La brocca rotta) Con un atto di “destituzione”, o meglio con un atto di duplice destituzione, lo ‘scherzo’ [Lustspiel] di Kleist, La brocca rotta, suggella la rottura con la tragedia del testo originale, ossia l’Edipo Re di Sofocle, dirigendosi appunto verso il lieto fine di una ‘commedia’ [Komödie]17. Dopo che la colpa del giudice Adam è diventata evidente – ma non, come in Edipo, grazie a lui stesso e al procedimento giuridico, bensì solo dopo la fine di esso –, egli al contempo mette in atto quel che Edipo aveva annunciato: Adam scappa dalla città (in questo caso, un paesino vicino Utrecht). Al piacere malizioso con cui coloro che restano commentano la maledizione di Adam si oppone Walter con un gesto che è tanto ambiguo in termini giuridici – è una sentenza, un criterio o una grazia? – quanto più è capace di rovesciare completamente la storia: Svelto, cancelliere, correte: riportatelo qui! Non vorrei che il rimedio fosse peggiore del male. Certo, lo sospendo dalle sue funzioni e fino a nuovo ordine eleggo voi a fare le sue veci. Ma se, come spero, le casse sono in ordine, non vorrei costringerlo a prendere la fuga. Su, fatemi il piacere: riportatelo qui!18.

Da un lato, questo atto di Walter è una “destituzione” in senso specificamente tecnico in cui il diritto generale dello Stato prussiano impiega ancora questa espressione: il sollevamento di un funzionario dello

17 Cfr. Heinrich von Kleist, Der Zerbrochne Krug, Reclam, 1986; trad. it. La brocca rotta, a cura di I.A. Chiusano, Garzanti, 2020, pp. 1-95. Per i dettagli dell’interpretazione che segue si veda Christoph Menke, Nach dem Gesetz. Zum Schluß des Zerbrochnen Krugs, in Martina Gros, Patrik Primavesi (a cura di), Lucken sehen... Beitrage zu Theorie, Literatur und Performance, Universitätsverlag Winter, 2010, pp. 97-112. 18 Heinrich von Kleist, La brocca rotta, cit., p. 94.

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Stato – in questo caso il giudice19 – dall’ufficio. “Destituzione”, però, ha anche un significato più ampio, che, come visto, apparteneva al vecchio uso del termine: una “liberazione” di Adam dalla maledizione del diritto, da Edipo applicata con la sua autocondanna all’esilio autoimposto. L’atteggiamento antitragico di Walter consiste in una soluzione a metà – una sanzione giuridica che colpisce Adam solo a metà: lo sospende dalla carica di giudice, senza costringerlo ad abbandonare la comunità. In questa divisione della sanzione contro Adam sta la rottura con il significato generale che la condanna autoimposta aveva per Edipo – la rottura con la tragedia. La sanzione giuridica colpisce Adam nel suo essere persona giuridica, ma non nella sua esistenza. Egli può rimanere: «Riportatelo qui!». Si potrebbe esser tentati di interpretare il duplice atteggiamento di Walter rispetto alla sanzione giuridica e alla restrizione di questa sanzione come un atto di giustizia. Del resto, è un requisito fondamentale della giustizia del diritto che il ‘reato’ [Verbrechen] e la pena corrispondano tra loro. E poiché il reato di Adam è minore rispetto a quello di Edipo (non del tutto minimo però: abuso d’ufficio, violenza e ricatto sessuale, per non dimenticare la rottura della brocca; nessun parricidio, né incesto), la punizione non può essere onnicomprensiva, proprio per la richiesta da parte della giustizia dell’equivalenza giuridica. Questo modo di interpretare la duplice “destituzione” da parte di Walter trascura principalmente una cosa: Walter non è un giudice che emette sentenze e impone pene, applicando le leggi o le regole del diritto. Walter è un consigliere di giustizia «in viaggio d’ispezione per i vari tribunali»20; è un ispettore che valuta come gli altri giudicano. 19 Cfr. Allgemeines Landrecht fur die Preusischen Staaten von 1794, con introduzione di Hans Hattenhauer, Alfred Metzner, 1970, seconda parte, sezione 10: Dei diritti e dei doveri dei dipendenti dello Stato, parr. 94-103: «rinuncia, destituzione, congedo» (ivi, p. 541). Nella sezione 17, che tratta tra l’altro di giurisdizione, si legge sotto il titolo Abuso della giurisdizione: «chiunque abusi della propria giurisdizione per esercitare pressioni sui presenti in tribunale dev’esser dichiarato decaduto per sempre dalla carica» (ivi, par. 85m p. 623). Nel paragrafo 20, comma 8 (Dei delitti dei servitori dello Stato), si tratta della revoca dell’incarico quale «pena per gli ufficiali giudiziari che contravvengono al loro dovere» (ivi, parr. 366-408). Si veda anche Theodore Ziolkowski, Kleists Werk im Lichte der zeitgenössischen Rechtskontroverse, in «Kleist-Jahrbuch», 1987, pp. 28-51, pp. 46 sg. 20 Heinrich von Kleist, La brocca rotta, cit., p. 8.

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Dalla valutazione di Walter del diritto, all’interno del diritto e non dall’applicazione di una regola del diritto, deriva la sua duplice azione di “destituzione”. La comparsa di Eva dà un’indicazione di come debba essere inteso, in questa prospettiva, il duplice atto di destituzione nei confronti di Adam compiuto da Walter. Adam ed Eva non sono qui semplicemente il colpevole e la vittima: essi condividono anche un’‘estraneità al diritto’ [Nichtbeteiligung am Recht]. Potrebbero fornire informazioni sul fatto, ma non lo fanno (per motivi opposti), e non riescono a farla franca fino alla fine del processo. In questo modo Eva giustifica a Walter il suo rifiuto di rispondere alle domande insistenti di sua madre e di rivelare in tribunale cos’è realmente accaduto la sera prima: Mio caro, degno e buon signore, dispensatemi dal raccontarvi il fatto. E non giudicatemi male per questo rifiuto: è il misterioso volere del cielo che mi chiude le labbra. Che non sia stato Roberto a rompere la brocca ve lo giuro, se volete, sull’altare. Ma ciò che è accaduto ieri, con tutte le circostanze, riguarda me sola, e mia madre non può pretendere tutta quanta la tela solo perché, nella trama, c’è un filo che appartiene a lei. Io non posso rivelare, qui, chi ha rotto la brocca: dovrei scoprire dei segreti che non sono soltanto miei e che non hanno niente a che fare con la brocca. Un giorno o l’altro le confiderò tutto, ma questo tribunale non è il luogo dove mia madre abbia il diritto di chiedermelo21.

Con questa spiegazione tutto cambia. La giustificazione del rifiuto da parte di Eva di dare informazioni davanti al tribunale non fa altro che introdurre una nuova idea di diritto: Eva spiega che il diritto non può rivolgerle una tale domanda e che lei può rifiutarsi di rispondere22. Il 21 Ivi, pp. 62-63. 22 Ricorda Shylock davanti al tribunale: «Voi mi chiederete il perché io insista ad avere un pezzo di carne di carogna piuttosto che tremila ducati. Io non vi rispondo, e vi dirò che così mi garba. Vi soddisfa la risposta?» (William Shakespeare, The Merchant of Venice, The Arden Shakespeare, 2006; trad. it. Il mercante di Venezia, a cura di D. Calimani, Marsilio, 2016, p. 189. Corsivo mio). Così Shylock spiega ciò che si basa «sui vostri statuti e sulla libertà della vostra città» (Ibidem), ossia di Venezia.

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suo discorso annuncia una limitazione del diritto: il diritto non può chiedere tutto. E il discorso di Eva afferma un nuovo diritto: un diritto contro il diritto. Eva si appella al suo diritto di rimanere in silenzio23. Il significato di questa procedura giuridica è di proteggere l’imputato dall’incriminarsi di propria sponte. Nel discorso di Eva, però, tale diritto assume un significato che va ben al di là di questo: è un diritto a ciò che è “proprio” di Eva, senza essere di sua “proprietà”; un diritto a “tutta quanta la tela” nei confronti della quale ciascuno può avere soltanto una parte limitata; un diritto ad avere “segreti” rispetto alla sfera pubblica del diritto. Quel che Eva sottrae alla comunicazione davanti al tribunale, o meglio, ciò che lei sostiene di dover sottrarre alla comunicazione davanti al tribunale, tuttavia, è disposta a comunicarlo in un altro luogo in cui può “confidare” al diritto i segreti nascosti. Quest’altra comunicazione, non interna al diritto, comincia immediatamente dopo il ‘procedimento giudiziario’ [Gerichtsverfahren]. Dopo il tribunale si può dire, senza esitazione, ciò su cui si doveva far silenzio in tribunale: «È stato il giudice Adam a rompere la brocca»24. Il significato del diritto contro il diritto – il diritto di restare in silenzio – proclamato da Eva è quello di rendere possibile una comunicazione non interna alla sfera giuridica e che segue altre leggi: la fiducia (tra Eva e Roberto), l’aiuto (che Walter promette a Roberto), il perdono (che lo stesso Adam richiede in una formula convenzionale). Il diritto al silenzio è il diritto a un’altra comunicazione. Ma se esiste un’altra forma di comunicazione giustificata nei confronti del diritto nella quale può essere detto ciò che in quello dev’essere mantenuto nel silenzio, allora ciò definisce nello stesso tempo il diritto semplicemente come un’altra forma di comunicazione: una forma di comunicazione accanto alle altre. Con il diritto a restare in silenzio nei confronti del diritto, il diritto stesso viene relativizzato: esso viene considerato come qualcosa di diverso e nella differenza da altro. Riconoscendo il diritto di restare in silenzio nei suoi confronti, il diritto relativizza se stesso; 23 Il diritto di rimanere in silenzio risale alle innovazioni procedurali del XVI e XVII secolo. Sull’origine e sul significato di questo istituto giuridico si veda Marianne Constable, Just Silences. The Limits and Possibilities of Modern Law, Princeton University Press, 2005. 24 Heinrich von Kleist, La brocca rotta, cit., p. 90.

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esso si riflette nella differenza rispetto al diritto delle altre forme di comunicazione, limitando il suo diritto nei confronti di esse. Alla luce di questa scena centrale, anche la sanzione a metà nei confronti di Adam appare in altro modo: essa non è l’applicazione della regola giuridica dell’equivalenza tra reato e pena, ma una “destituzione” del diritto liberatrice che intende risparmiare ad Adam il destino di Edipo. Walter vuole spezzare la costrizione a disertare da cui sorge la maledizione di Adam. Ma questa costrizione, come sappiamo da Edipo (e dal collega di Adam che viene da Holla e che ha tentato il suicidio dopo essere stato rimosso dall’ufficio)25, è una costrizione interiore, imposta dal diritto: la costrizione a giudicare se stessi. La “destituzione” del diritto espressa dalla divisione in due della sanzione di Adam applicata da Walter, proprio come prima aveva liberato Eva dalla costrizione a parlare in tribunale, ora dispensa Adam dalla costrizione a dover essere giudice di se stesso. Al pari di Eva, Adam non deve più prendere parte al diritto. La divisione della sanzione giuridica nei confronti di Adam imposta da Walter è quindi tutt’altro che ‘modesta’ [halbherzig]: non è un atto di clemenza o di grazia davanti al diritto, né un guardare altrove o un chiudere gli occhi. La divisione della sanzione giuridica di Adam significa in realtà la sua completa rimozione dalla carica di giudice. Adam non deve perdere soltanto la sua carica che lo autorizzava ad essere giudice su altri: egli, altrettanto, non deve più giudicare se stesso. La revisione del diritto compiuta da Walter pone fine all’incubo di Adam di dover essere giudice di se stesso: Adam: «Ho sognato che un accusatore mi agguantava e mi trascinava dinanzi al mio stesso seggio: e io, contemporaneamente, stavo sul mio scanno di giudice, e mi sgridavo, mi tartassavo, mi coprivo d’ingiurie, e in ultimo mi condannavo alla gogna». Licht: «Come? Da voi stesso?». Adam: «Parola d’onore! Dopo di che ridiventammo un uomo solo, pigliammo la fuga, e dovemmo pernottare in mezzo agli abeti»26. 25 Ivi, pp. 10 sg. 26 Ivi, p. 20. L’Adam di Kleist riprende qui il «doppio sé» di Kant, il quale «da un lato sta tremante alla sbarra del tribunale, che peraltro è affidato a lui stesso, mentre dall’altro lato ricopre l’ufficio di giudice per innata autorità. […] Io, contemporaneamente accusatore e accusato, sono lo stesso uomo (numerus idem)» (Immanuel

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La rimozione del giudice Adam da parte di Walter non è né un’applicazione del diritto, né la sua sospensione per amor dell’ordine, quanto piuttosto un atto di liberazione – tanto di Adam dal diritto quanto del diritto dalla sua potenza: con la sua rimozione, Walter salva Adam dal dover vivere il suo incubo, proprio come Edipo aveva applicato a se stesso la propria maledizione. **** Adam ed Eva vengono liberati dalla costrizione a partecipare al diritto. Essi, però, diventano liberi non solo in modo e in termini diversi – Eva dall’obbligo di dire tutta la verità davanti al tribunale; Adam dalla maledizione edipica di condannare se stesso –, ma altrettanto per ragioni diverse. Nel caso di Eva, il diritto si limita di propria sponte, nella misura in cui le riconosce il (contro)diritto di restare in silenzio davanti al tribunale e di parlare altrove e in modo diverso. Questo (contro)diritto alla comunicazione non giuridica può essere richiesto e diventare esso stesso parte di un diritto trasformato riflessivamente27. Adam, invece, non chiede nulla e corre via. La sua penultima parola è: «Chiedo scusa»; la sua ultima parola è invece una domanda: «Cosa?!»28. La risposta a questa domanda, che non è una richiesta di diritto, è costituita dalla divisione della sanzione giuridica messa in atto da Walter. Ma cosa chiede veramente Adam? Egli non Kant, Metafisica dei costumi, cit., p. 495. Ringrazio Marina Martínez Mateo per il suggerimento). L’obbligo per l’uomo di essere giudice di se stesso è un obbligo della virtù, non del diritto. Ciò significa che non può essere concepito come contenuto di una legge giuridica. Non perché la legge non ne ha bisogno, ma al contrario perché senza questo obbligo non c’è alcuna legge. Esso non è una legge (del diritto), proprio perché è la legge della legge. 27 Si veda oltre, II.4. 28 Adam: «Signori, chiedo scusa». (Corre via). Eva: «Dàgli, dàgli! Eccolo là!». Roberto: «Fermatelo!». Eva: «Presto!». Adam: «Cosa?!». (Heinrich von Kleist, La brocca rotta, cit., p. 91).

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chiede nulla di specifico. Egli infatti non sa cosa domanda, né del suo domandare. L’ultima domanda di Adam è ancora una volta, come già da sempre nel procedimento29, quella del distratto che lo fa saltare dal suo torpore, in cui era sprofondato nel mezzo del tumulto. Il motivo, o almeno lo spunto per l’ispettore Walter di liberare Adam dall’obbligo di autocondannarsi, risiede nella ‘distrazione’ [Zerstreutheit.] di Adam. Bisogna prendere il termine alla lettera: la ‘disgregazione’ [Auflösung] dell’unità che rende l’individuo un sé, i suoni parole, le frasi e i gesti azioni. Walter libera Adam dall’obbligo di autocondannarsi poiché Adam è incapace. O meglio, liberando Adam dalla costrizione a giudicare, Walter lo ‘libera alla incapacità’ [zur Unfähigkeit befreit]. L’atto di “destituzione” verso cui tende tutto il dramma di Kleist consiste nell’autolimitazione riflessiva del diritto e nel (paradossale) riconoscimento di colui che è ‘incapace di diritto’ [Rechtsunfähigen]. **** Ma dove e come si trova l’incapace di diritto nel momento in cui il diritto lo libera dalla costrizione a giudicare se stesso, liberando al contempo se stesso – il diritto – dalla costrizione a dover imporsi contro l’altro? Lo scherzo di Kleist, se intende restare tale30, deve astenersi da qualsiasi indicazione su ciò. Una formulazione di Walter che si trova nel manoscritto dell’opera ma non nell’edizione a stampa dà un’idea di ciò che accadrà ad Adam:

29 Adam è «stranamente confuso» (Heinrich von Kleist, La brocca rotta, cit., p. 34). Ma ciò non vale solo per lui. Gli interrogatori finiscono nel nulla, perché l’interrogato parla di tutto ciò che «non ha attinenza con la causa» (ivi, p. 39) e di «cose estranee alla causa» (ivi, p. 40); poiché l’interrogante dimentica cosa voleva sapere e non aveva sentito bene fin dall’inizio (ivi, pp. 25-30). Spesso le parti in causa si perdono in dispute minori e sempre crescenti, nei loro pensieri, sogni e racconti, da cui sussultano confusi con: «Cosa?»; «Come?». 30 Che non possa restare così è tratteggiato dall’ultima scena, la tredicesima, in cui Marta intima che «bisognerà pur rendere giustizia a questa brocca» e per questo intende rivolgersi al «governo» di Utrecht (Heinrich von Kleist, La brocca rotta, cit., p. 95). Con ciò potrebbe iniziare una nuova storia (che non si addice a una commedia): quella di Marta Kohlhass.

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Walter: «Se, come spero, le casse sono in ordine, bisogna pur mantenerlo in qualche posto»31.

È chiaro che l’incapace di diritto non può essere parte o partecipe del diritto – nel senso di Rousseau spiegato sopra32. Che l’ordine del diritto renda ogni individuo parte di un tutto sociale, un uguale cittadino, segue esattamente dalla maledizione o incubo del giudicare se stessi da cui la revisione effettuata dalla destituzione del diritto intende liberare Adam. Tutto ciò non porta a contrapporre all’incapace di diritto e libero da esso semplicemente un diritto come una potenza esterna e destinale, alla quale egli si assoggetta «come ci si assoggetta a una malattia o a una disgrazia o alla morte»33? Che tipo di esistenza è quella condotta dall’incapace di diritto e che viene lasciato libero, quando, d’ora in avanti, viene mantenuto «in qualche posto»? Anche Adam viene riportato alla ‘nuda vita’ [nacktes Leben]34 come il giudice di Holla, a cui all’ultimo viene tagliata la corda con cui voleva impiccarsi? Sembra quasi che l’esistenza di Edipo nel segno della maledizione all’autocondanna infinita al di fuori della comunità sia preferibile a quella di Adam liberato dal diritto, e che spetta all’incapace di diritto all’interno della comunità. Come bisogna intendere la vita di coloro ai quali viene riconosciuta l’incapacità del diritto – una vita senza autonomia giuridica ma nella libertà? 4. Excursus: il dilemma dei diritti Il principe di Homburg, a cui l’Elettore aveva chiesto di giudicare su se stesso, si domanda che tipo di vita avrebbe condotto se avesse rifiutato questa richiesta. La sua risposta è che la vita nella libertà dal dominio del diritto sarebbe una vita di lavoro fine a se stesso: 31 Heinrich von Kleist, Der Zerbrochne Krug, in Samtliche Werke, Stroemfeld/Roter Stern, 1995, vol. I.3, p. 414. Non presente nella edizione per la stampa. 32 Cfr. supra, p. 27. 33 Friedrich Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, C.G. Naumann, 1891; trad. it. Genealogia della morale, in Opere, VI.2, a cura di G. Colli, M. Montanari, 8 voll., Adelphi, 1968, vol. VI, pp. 211-367, p. 282. 34 Heinrich von Kleist, La brocca rotta, cit., p. 10.

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Mi ritirerò nelle mie terre sul Reno, e là voglio costruire e demolire con fatica e sudore; e seminare e mietere come se lo facessi per la moglie e i figli, ma ne godrò io solo; e dopo il raccolto seminerò ancora, percorrendo e ripercorrendo il cerchio della vita finché tramonterà e si spegnerà nella notte35.

La vita di chi si vede come non più partecipe al diritto è una vita nel circuito accelerato senza senso di lavoro fine a se stesso. Chi non è più parte del diritto, e dunque non più uguale cittadino, è un essere umano nell’‘innaturale stato di natura’ [unnaturlicher Naturzustand] dell’economia sfrenata. Con la risposta che si dà il principe di Homburg, Kleist ricostruisce il modo in cui la società di cittadini istituzionalizza la limitazione autoriflessiva del diritto e la liberazione del non-diritto: nella forma del “diritto soggettivo”. Con questa figura Adam interpreta già Eva commentando le sue parole con cui afferma il proprio diritto al silenzio: «Sa il fatto suo, questa ragazza»36. Con ‘fatto’ o ‘vincolo’, vinculum iuris, il diritto romano indica l’obbligazione: «L’obbligazione è un vincolo giuridico, in forza del quale si può costringere taluno all’adempimento di una prestazione, secondo le leggi del nostro Stato»37. Questo vincolo corrisponde, da una parte, alla pretesa del diritto che l’altra parte può rivendicare su questa operazione. Diventa “diritto soggettivo” in senso moderno quand’esso, proprio come Adam interpreta Eva, diventa un diritto nei confronti dello Stato: non già un diritto a operare attraverso lo Stato – questo è il caso dei «diritti pubblici soggettivi» (Georg Jellinek) –, ma un diritto a una sfera di relazioni “private”, dunque sociali, libera dalla regolamentazione dello Stato. Queste relazioni sono definite da spazi di libera messa a disposizione che un cittadino privato ha nei confronti di ogni altro cittadino privato e, contemporaneamente, della comunità politica di cui è parte. La figura moderna del diritto soggettivo introduce quindi una rottura fondamentale nella definizione classica secondo cui il diritto è 35 Heinrich von Kleist, Il principe di Homburg, cit., p. 235. 36 Heinrich von Kleist, La brocca rotta, cit., p. 63. 37 Corpus Iuris Civilis, 3.13, riportato da Massimo Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, Giappichelli, 2011, p. 426.

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l’ordine normativo che istituisce l’uguaglianza dei cittadini. Secondo la definizione classica, l’instaurazione di un ordine giuridico trasforma ciascun individuo in «una parte [partie] di un tutto più grande» (Rousseau). La figura del diritto soggettivo, al contrario, è la figura di un diritto rispetto – all’esser parte o al prender parte – al diritto: un diritto a poter agire, entro certi limiti, secondo il proprio “arbitrio”, senza doverne rendere conto e senza dover assumersi la responsabilità delle conseguenze; un diritto a essere non una «parte» uguale in tutto e per tutto e sotto ogni rispetto, ma un “individuo” libero da ciò. La figura del diritto soggettivo – così Marx riassume la rottura del diritto privato moderno con il concetto classico di diritto – esprime il «dualismo tra vita individuale e vita di genere, tra vita della società civile e vita politica»38. Non c’è spazio qui per soffermarsi nel dettaglio sulla descrizione e sulla legittimazione di questa figura. Ciò a cui bisogna fare attenzione è che tanto il liberalismo quanto la società borghese – entrambi sono la stessa cosa: teoria e pratica del diritto soggettivo e privato – sono definiti da un duplice tratto: da un lato, la liberazione dalla partecipazione giuridica; dall’altro, il dualismo di Stato e società, sfera pubblica e sfera privata, cittadino e borghese, soggetto e individuo ecc. (1) Nella problematizzazione e nella limitazione della partecipazione giuridica risiede l’impulso liberatorio del liberalismo: essere parte, essere un uguale cittadino che appartiene al diritto e che rafforza questa appartenenza – nella forma autonoma massima del diritto – attraverso la libera sottomissione alla costrizione ad autogiudicarsi non è, per il liberalismo, la definizione della libertà, ma comporta anzi in ultima istanza il terrore. Nel terrore della Rivoluzione che, secondo Robespierre, «non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile»39, per il liberalismo si realizza solamente nella forma più pura e 38 Karl Marx, Zur Judenfrage, in «Deutsch Französische Jahrbücher», 1944, n. 1; trad. it. Sulla questione ebraica, in Marx-Engels, Opere Complete, a cura di M. Montinari, voll. 50, Editori Riuniti, 1968, vol. III, pp. 175-206, p. 189. 39 Maximilen Robespierre, Sur les principes de morale politique qui doivent guider la Convention nationale dans l’administration intérieure de la République, in Oeuvres de Maximilien Robespierre, a cura di M. Bouloiseau, G. Lefebvre, A. Soboul, 11 voll., Éditeur Société des Études Robespierristes, 1961-1967, vol. X, pp. 350-366; trad. it. Sui princìpi di morale politica che devono guidare la Convenzione nazionale nell’ammi-

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smodata la pretesa illimitata che il diritto, secondo la definizione di Rousseau, rivolge a coloro che ne costituiscono le “parti”. Secondo il liberalismo, l’uguaglianza dei cittadini in quanto partecipanti giuridici all’attuazione illimitata e totale – che era praticata nelle città antiche e che la Rivoluzione francese ha provato a ripetere in condizioni moderne – comporta che «l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati»40. Questa «servitù» (Benjamin Constant) della partecipazione al diritto dev’essere spezzata limitando la potenza del diritto nei confronti dell’individuo e liberando l’individuo dalla potenza del diritto. (2) Liberalismo e società borghese portano avanti questo programma di liberazione come una ‘parzializzazione della parzialità’ [Partialisierung der Partialität], come una divisione di ciò che è diviso: essi liberano soltanto in modo parziale. Ciò avviene assicurando uno spazio di disponibilità privata protetto dall’intervento della regolamentazione giuridica. Nell’ordine del diritto liberale proprio della società borghese, ordine che limita se stesso, ossia quello dei diritti soggettivi, «vi sono princìpi giuridici permissivi che rimettono all’arbitrio degli individui la regolamentazione, autonoma in certi limiti, dei loro rapporti mediante negozi giuridici»41. Nel liberalismo, la liberazione dal diritto diventa la protezione giuridica della «libertà contrattuale» nei confronti del diritto. «Naturalmente questa autonomia amorfa», questa la diagnosi pessimistica di Max Weber, «è tale soltanto in senso figurato»42. Come ordine giuridico dei «partecipanti al mercato» – dunque come licenza giuridica alla libera negoziazione contrattuale, all’‘uso’ [Ausnutzung] e allo ‘sfruttamento’ [Ausbeutung] di coloro che sono privi di «potere di mercato» –, la liberazione giuridica dalla regolamentazione del diritto porta alla ‘connessione coercitiva sociale’ nistrazione interna della Repubblica, in La rivoluzione giacobina, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, 1984, pp. 158-181, p. 165. 40 Benjamin Constant, De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes; trad. it. Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, 1992, p. 7. La «libertà politica degli antichi» non è altro che l’uguaglianza dei cittadini a partecipare al diritto descritta da Rousseau. 41 Max Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr Siebeck, 1922; trad. it. Sociologia del diritto, in Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, 1961, pp. 186-201, p. 19. 42 Ivi, p. 53.

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[sozialer Zwangszusammenhang], la quale interviene in modo tanto più efficace nella vita di ogni individuo proprio perché «si astiene da qualsiasi forma autoritaria». Il programma liberale e borghese della liberazione – «diminuzione di vincoli e aumento di libertà individualistica»43 – si capovolge in una maggiore dipendenza: «Perciò un ordinamento giuridico – per quanto grande sia il numero dei “diritti di libertà” e delle “autorizzazioni” che esso garantisce, e per quanto piccolo sia invece quello delle norme di comando e di proibizione in esso contenute – può, nei suoi effetti pratici, favorire una notevole accentuazione non soltanto della coercizione in generale, ma anche del carattere autoritario di poteri coercitivi»44. Il dilemma del liberalismo è questo: nella forma dei diritti soggettivi, la liberazione del singolo dalla costrizione a diventare in tutto e per tutto parte dell’ordine del diritto non significa altro che liberare il perseguimento dei propri interessi privati. Questa liberazione, però, ripropone una connessione coercitiva uguale al destino, in cui non solo ogni singolo diventa dipendente dall’arbitrio dell’altro, ma tutti insieme diventano dipendenti dal mondo delle leggi ingovernabili del mercato. La liberazione liberale dalla «servitù» (Constant) giuridica si conclude in una «notevole accentuazione» (Weber) della coercizione economico-sociale. Il liberalismo intende spezzare la potenza del destino esercitata dal diritto autonomo all’interno del soggetto limitando l’autonomia giuridica del cittadino attraverso il ‘libero arbitrio’ [freies Belieben] del borghese – attraverso la libertà di perseguire i propri interessi passando anche per l’uso e lo sfruttamento dell’altro. La liberazione dalla costrizione a partecipare al diritto, nella forma dei diritti soggettivi, procede in modo dualistico: essa contrappone al diritto l’interesse, all’uguaglianza l’egoismo, all’obbligo l’arbitrio. Ogni individuo deve poter restare in entrambi i lati e operare nei due registri. Ma i due lati sono estrinseci tra loro. L’assunto dualistico del liberalismo, che si manifesta nella forma dei diritti soggettivi, afferma che da un lato c’è l’orientamento autonomo alla regolamentazione del diritto, l’uguale partecipazione del cittadino al diritto, mentre dall’altro c’è il persegui43 Ivi, p. 85. 44 Ivi, p. 87.

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mento di interessi privati, il quale è libero dalla stessa considerazione degli altri. Il liberalismo realizza il programma di limitazione del diritto distinguendo e contrapponendo tra loro questi due lati. L’«arte della divisione» liberale (Michael Walzer) lascia però immutato ciò che viene diviso. L’intento dell’«arte della divisione» liberale consiste proprio nell’evitare o scongiurare la trasformazione fondamentale. L’arte liberale del dividere il diritto dal non-diritto presume di poter rompere la violenza del diritto semplicemente limitandone la portata, senza dunque dover trasformare il modo in cui il diritto giudica. 5. Dopo il liberalismo: il paradosso del diritto Il dualismo del liberalismo borghese consiste nel contrapporre partecipazione autonoma al diritto e diritto alla ‘libera astensione’ [freie Nichtteilnahme]. Di conseguenza, nel liberalismo la libertà dal diritto viene equiparata senza indugi al diritto di perseguire gli interessi ‘secondo l’arbitrio’ [nach Belieben]. Questo perché il dualismo liberale ignora l’asimmetria costitutiva dei due ambiti. In realtà, nella forma dei diritti soggettivi, diritto e non-diritto non sono affatto contrapposti in modo estrinseco. In quanto diritto a non avere diritto, alla libertà dal partecipare al diritto, lo stesso diritto soggettivo è un elemento del diritto. Può sembrare un’affermazione banale ma non lo è. Il fatto che il diritto soggettivo sia un diritto a non partecipare al diritto ci ricorda infatti che la forma del diritto soggettivo è stata prodotta attraverso il processo di autoriflessione del diritto. La forma del diritto soggettivo è l’effetto di un atto; un atto giuridico che ha una forma nuova e paradossale: un atto attraverso cui il diritto si riferisce a sé e in se stesso nella differenza dal non-diritto45. Il dualismo borghese 45 Cfr. Christoph Menke, Subjektive Rechte: Zur Paradoxie der Form, cit., pp. 95 sgg. Sulla critica al dualismo liberale si veda Jürgen Habermas, Naturrecht und Revolution, in Theorie und Praxis. Sozialphilosophische Studien, Suhrkamp, 1978, pp. 89127; trad. it. Diritto naturale e rivoluzione, in Prassi politica e teoria critica della società, a cura di A. Gajano, il Mulino, 1973, pp. 127-175. Non è certo una soluzione voler superare il «dualismo» insito, secondo la visione liberale-borghese, nella figura dei diritti soggettivi intendendo «concessione di un diritto soggettivo» come «ammissione alla partecipazione nella creazione del diritto (Hans Kelsen, Rechtslehre. Einleitung

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e liberale non si accorge di presupporre, senza pensare adeguatamente, un modo operativo nuovo del diritto: la contrapposizione estrinseca di diritto e non-diritto presuppone che il diritto non cerca più soltanto di imporsi contro il non-diritto, ma che si riferisce di per sé a quel non-diritto da cui si distingue – contenendo in se stesso, dunque, il non-diritto come qualcosa di differente. La critica al dualismo borghese-liberale consiste nello smascherare l’operazione autoriflessiva del diritto che sta alla base di questo dualismo quanto più esso la nasconde e la rimuove. Tale smascheramento dell’autoriflessione del diritto mostrerà come può essere compresa e attuata la “destituzione” del diritto al di là del liberalismo. **** “Autoriflessione del diritto” vuol dire riflessione del diritto, sia in senso soggettivo che oggettivo: riflessione del diritto sul diritto nella sua differenza dal non-diritto. Per il diritto, come si è visto46, questa in die rechtswissenschaftliche Problematik, Mohr Siebeck, 2008, p. 61; trad. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Einaudi, 1967, p. 85). Questa interpretazione è doppiamente errata: essa misconosce il funzionamento dei diritti soggettivi, e tradisce l’impulso originariamente liberale di liberarsi dal diritto. Sul punto si veda Christoph Menke, Das Nichtanerkennbare. Oder warum das moderne Recht keine “Sphare der Anerkennung” ist, in Rainer Forst, Martin Hartmann, Rahel Jaeggi, Martin Saar (a cura di), Sozialphilosophie und Kritik, Suhrkamp, 2009, pp. 87-108. Una precisa disamina di questo problema richiederebbe un confronto critico con la riformulazione compiuta da Habermas riguardo alla distinzione kantiana tra moralità e legalità (Immanuel Kant, Metafisica dei costumi, cit., p. 39). Differentemente dal liberalismo classico, Habermas mette in evidenza come il riconoscimento dell’autonomia privata normativamente stabilita, in quanto contenuto del diritto, richiede altrettanto una ridefinizione dell’«autonomia politica», in quanto fondamento del diritto. Quest’ultima dev’essere distinta in se stessa: autonomia giuridico-politica e autonomia morale (cfr. Jürgen Habermas, Fatti e norme, cit., 122-137). È ciò che Habermas descrive come «divisione morale del lavoro» (ivi, p. 135) tra diritto e morale, la quale assicura che i partecipi al diritto siano esentati dagli ‘imperativi’ [Zúmutungen] (Habermas) ad autocondannarsi, di cui Edipo vive la maledizione. Tale assicurazione mi pare mettere in discussione, come sua ultima conseguenza, la stessa normatività del diritto. A riguardo si veda la nota 62. 46 Si vedano i paragrafi I.3. e I.5.

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differenza è costitutiva. Il diritto è da sempre nella differenza con il non-diritto, e dunque in relazione con esso. Non soltanto quello autoriflessivo: già il diritto “usuale” e praticato ogni giorno fa riferimento al non-diritto. Il contributo dell’autoriflessione del diritto è quello di mettere in risalto cosa fa e come opera il diritto usuale. Solo per questa messa in risalto l’autoriflessione del diritto trasforma e “destituisce”: ossia depotenzia e libera. Il diritto si contrappone all’‘illecito’ [Unrecht]: a colui o colei che lede l’uguaglianza del diritto di sua volontà. Ma il diritto si contrappone anche al non-diritto, e cioè a colui o colei che si sottrae al ‘giudicare secondo il diritto e l’illecito’ [Beurteilung nach Recht und Unrecht]: a colui o colei che dimentica il diritto, lo rifiuta oppure non intende parteciparvi. Ogni atto del giudicare giuridico, dunque, non è soltanto subordinato alla pretesa di essere valido all’interno del diritto e quindi di combattere l’illecito. Esso, piuttosto, deve imporsi contro il non-diritto, contro la dimenticanza, il rifiuto e l’incapacità nei confronti del diritto. La pretesa del diritto di imporsi contro il non-diritto porta al circolo della violenza in cui il diritto ‘ricade fatalmente’ [schicksalhaft verfällt]; dato che il diritto stesso, posto politicamente, produce e presuppone il non-diritto, esso non può mai imporsi contro il non-diritto. Tuttavia, il diritto non può rinunciare alla sua pretesa di imporsi contro il non-diritto: non può rinunciare dunque al suo dominio sul non-diritto. Questo perché tale pretesa deriva esattamente dalla ‘pretesa di validità del diritto’ [Geltungsanspruch des Rechts]. È il ‘diritto del diritto’ [Recht des Rechts] a imporsi contro il non-diritto. In ciò si fonda la violenza destinale del diritto. Ma ciò che vale nel diritto deve valere altrettanto per il diritto del diritto rispetto al non-diritto: non esiste alcun diritto contro qualcosa o qualcuno che non sia un diritto per questo qualcosa o questo qualcuno. La giustizia del diritto è definita dal fatto che il suo giudicare è valido soltanto perché, in fin dei conti, è sempre il giudizio proprio di colui sul quale viene applicato. Ecco perché la ‘forma autonoma del diritto’ [autonome Gestalt des Rechts], la quale connette la sua ‘validità vincolante’ [verpflichtende Geltung] alla libertà dell’autovalutazione, incorpora la forma più pura di normatività giuridica. Se il diritto si impone contro il non-diritto e, contro questo, proclama il proprio diritto – il diritto a imporre il diritto contro il non-diritto; ancor me-

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glio: se il diritto, in quanto pretesa di un diritto del diritto, si impone contro il non-diritto, allora esso deve affermare di esserne legittimato secondo la misura propria del non-diritto – dato che questa è il «diritto proprio» (Hegel) del non-diritto. Il diritto del diritto di imporsi contro il non-diritto – secondo il concetto di diritto – è al contempo il diritto del non-diritto: il non-diritto ha diritto a prendere parte a quel diritto che si impone contro di lui; ha diritto a essere considerato nel diritto e ad acquisire valore. Nel suo funzionamento usuale, il diritto presume l’identità di queste due pretese: il diritto del diritto consiste nel fatto che esso non solo deve imporsi contro il non-diritto, ma che ‘può’ [darf] farlo. L’imporsi del diritto contro il non-diritto è allo stesso tempo la realizzazione del diritto proprio del non-diritto. L’ideologia del diritto nel suo funzionamento usuale consiste nell’assumere l’identità tra il diritto del diritto e il diritto del non-diritto: la realizzazione dell’uno realizza contemporaneamente anche l’altro. L’autoriflessione del diritto, al contrario, mostra come le due pretese, rovesciandosi nell’altra, si contraddicano. Ancor di più: entrambe le pretese sono contraddittorie in se stesse. Nell’imporre il proprio diritto contro il non-diritto, il diritto ‘proclama’ [proklamiert] contemporaneamente il diritto del non-diritto. Ma il diritto ‘può’ [kann] realizzare il diritto del non-diritto solamente ledendo questo diritto. Il motivo di ciò risiede nell’unico modo in cui il diritto può realizzare il diritto del non-diritto: «quelle operazioni (sempre e solo: quelle!)»47 del diritto attraverso cui il diritto prova a conferire valore al diritto del non-diritto. Il diritto può rapportarsi al non-diritto solamente nella forma del diritto. Il diritto rende la pretesa del non-diritto – al pari di ogni pretesa – una pretesa di diritto, e quindi rende il non-diritto una parte del procedimento giuridico. Quest’ultimo consiste nel far valere, all’interno di una considerazione imparziale delle parti coinvolte, la loro uguaglianza in quanto cittadini. Per poter imporre il suo procedimento di udienza, indagine e valutazione, 47 Niklas Luhmann, Il diritto della società, cit., p. 80. Ogni «sistema», non solo quello del diritto, raggiunge la libertà di «cambiare la direzione» della referenza, di spostare «il centro dall’autoreferenza all’eteroreferenza e viceversa» internalizzando la distinzione tra sistema e ambiente come «differenza tra autoreferenza e riferimento esterno» (Ibidem).

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il diritto deve quindi aver imposto già da sempre un ‘procedimento preliminare’ [Vor-Verfahren]: una procedura prima della procedura in cui il non-diritto è stato reso diritto, il non cittadino cittadino, il diseguale uguale – in cui il diritto ha prodotto gli elementi che può impiegare nel suo procedimento. In ogni procedimento del diritto si realizza un procedimento preliminare di giuridificazione. Pertanto, quando il diritto cerca di realizzare il diritto del non-diritto, affermato dal diritto stesso, deve trasporre il non-diritto nella forma del diritto, ossia deve mettere in atto la sua giuridificazione. Esso deve quindi privare il non-diritto proprio della sua differenza dal diritto: di ciò che lo caratterizza e che gli fa affermare di avere un diritto. Realizzare il diritto del non-diritto, all’interno del diritto, equivale a lederlo. L’autoriflessione del diritto mostra la contraddizione delle due pretese – il diritto del diritto a imporsi contro il non-diritto e il diritto del non-diritto a essere considerato dal diritto stesso che si impone contro di lui –, la cui identità viene affermata dal diritto nel suo funzionamento usuale. Questa contraddizione, come si mostra continuamente nell’autoriflessione del diritto, non può essere risolta: nessuno dei due diritti può essere pensato senza l’altro a cui si oppone. La contraddizione del diritto che emerge dalla sua autoriflessione non è dunque una crisi che può essere decisa e che ha bisogno della decisione critica di una «prospettiva decisiva e dirimente» (Benjamin). La contraddizione del diritto è un paradosso che dev’essere ‘sviluppato’ [entfaltet]. Ciò avviene attraverso un’‘attuazione’ [Vollzug] del diritto che si mette al riparo dalle due pretese tra loro escludentisi48. Un’attuazione che realizza e interrompe il diritto; che rende ‘esecutiva’ [vollstreckt] l’uguaglianza dei cittadini e realizza la differenza tra cittadini e non cittadini, tra partecipanti al diritto e coloro che dimenticano, rifiutano o sono incapaci di diritto; un’attuazione che svolge un processo imparziale e che torna al ‘procedimento preliminare di giuridificazione’ [Vor-Verfahren der Verrechtlichung] da cui emerge il procedimento giuridico. L’attuazione autoriflessiva del diritto realizza tanto il dirit48 A tal proposito si confronti l’analisi delle «aporie» della decisione giuridica in Jacques Derrida, Forza di legge, cit., pp. 73-85. La differenza tra la descrizione che segue e quella di Derrida è che le aporie del giudicare giuridico sono qui intese come dispiegamento autoriflessivo della distinzione tra diritto e non-diritto all’interno del diritto.

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to del diritto quanto il diritto del non-diritto nella misura in cui non trasforma il non-diritto in un elemento interno al procedimento giuridico, ma lo fa valere nei confronti della giuridificazione promossa dal diritto. Attuare il diritto in modo autoriflessivo significa svolgere con la maggior precisione il procedimento di indagine imparziale ed equa, considerazione e valutazione e liberare le forze non giuridiche della “dispersione”, ossia dimenticanza, rifiuto e incapacità. In questa ‘re-azione’ [Gegenwirkung] delle forze della dispersione si spezza l’identità di sé e diritto a cui maledice il diritto autonomo: quell’identità che ciascuno, in quanto non cittadino, deve imporsi per sottomettersi e diventare cittadino, uguale partecipante del diritto. L’attuazione autoriflessiva del diritto fa saltare in aria l’identità di sé e diritto e sviluppa la contraddizione: l’unità di unità e contrasto tra cittadino e non cittadino, tra chi partecipa al diritto e chi è incapace di diritto, lo dimentica e lo rifiuta. Ma la liberazione dalla maledizione del diritto a valutarsi autonomamente può avvenire dispiegando il paradosso tra diritto e non-diritto? 6. L’utopia dell’uguale possibilità (Wolokolamsker Chaussee I) Nel breve scritto Wolokolamsker Chaussee I: Russische Eröffnung, Heiner Müller racconta la seguente storia49: un battaglione sovietico si trova a poca distanza da Mosca. In attesa delle forze tedesche che avanzano rapidamente, sempre più soldati disertano, spinti dalla paura. Il comandante, che ritiene che «solo il terrore scaccia la paura», finge un attacco da parte dei tedeschi («Ho urlato l’allarme e chiamato alle armi»), che però ha come unico effetto quello di incrementare la paura fino al panico. Ne deriva quindi la fuga in massa dei soldati nella foresta. Tra loro c’è un caporale che si spara alla mano per rendersi invalido. L’uomo viene arrestato e il tenente lo porta dal comandante: 49 Heiner Müller, Wolokolamsker Chaussee I: Russische Eroffnung e Wolokolamsker Chaussee II: Wald bei Moskau, in Werke, 12 voll., Suhrkamp, 2002, vol. V, pp. 85-96 e pp. 195-205. Ringrazio Hans-Thies Lehmann per il riferimento a questo testo e alla sua importanza. Ringrazio anche Robin Celikates, Thomas Khurana, Daniel Loick e Katrin Trüstedt per i commenti critici alla prima versione della mia interpretazione.

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Comandante: «Perché non gli hai sparato?». Tenente: «Non lo so». Comandante: «E dovrei saperlo io? Portalo dentro».

Il caporale si scusa dicendo che è stato un incidente e che era solo un’esercitazione. Il comandante lo definisce un codardo e un «traditore della patria» e lo condanna alla fucilazione da parte del suo stesso gruppo davanti al battaglione nell’arco di un’ora. Il tenente ha domandato se abbiamo il diritto. E io ho detto che il mio comando sarà eseguito. E se ciò sarà ingiusto, dovrebbero spararmi. Scriva lei il rapporto, compagno tenente.

Il caporale, divenuto traditore del suo battaglione e della sua patria, non può condurre il proprio gruppo in quanto «non poteva dare ordini a se stesso» e deve essere condannato. «In che modo avrei dovuto dare ordini?». La condanna del traditore è un «ordine» del comandante rispetto a cui non è chiaro se questi ne abbia il diritto; il tenente lo chiede, e il comandante non risponde in modo affermativo. Egli non afferma di ‘essere in diritto’ [im Recht zu sein]: lascia aperta la domanda sul proprio diritto e la rimette al futuro lettore del rapporto. Proprio come il tenente non sapeva perché non avesse sparato immediatamente al caporale, il comandante non sa perché ora ordina di sparargli. Il comando non si fonda sulla conoscenza del diritto e dell’illecito. Tra la conoscenza del diritto e l’azione che lo esegue c’è una distanza, un divario, un rapporto non chiaro – come dirà poi il comandante guardandosi indietro: «Gli ho fatto sparare secondo la legge marziale». L’ordine del comandante viene eseguito secondo la legge marziale. Ciò non significa che esso scaturisce dalla legge marziale. Il comandante ordina l’esecuzione – «In che modo avrei dovuto dare ordini?» – senza dire di sapere che il diritto glielo impone. È un ordine senza conoscenza del diritto. È un ordine senza diritto (ma non illecito): un ordine che si stacca dalla conoscenza del diritto, e questo perché non presuppone come motivo il diritto e la conoscenza del diritto, non segue dal diritto

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e dalla conoscenza del diritto, poiché è un ordine contro il diritto: non contro questo o quel diritto, ma contro il diritto in quanto tale – contro il diritto del diritto di determinare in modo vincolante quel che vale tra gli uomini. La distanza tra l’ordine del comandante e la conoscenza giuridica, la “e” che li divide collegandoli, può essere intesa in due modi opposti. L’ordine del comandante appare innanzitutto come un atto di “sospensione” del diritto, nel senso schimittiano del termine50. Il comandante fa fucilare il caporale senza che sia stato condotto il procedimento giuridico di indagine da cui scaturisce la sentenza. Lo scopo è chiaro: «Rendere un mucchio di uomini un battaglione prima dello scontro». Il comandante lo priva del suo diritto – del suo diritto al diritto: Il diritto ad essere parte in un processo e dunque il diritto a essere uguale cittadino, creando la condizione affinché la domanda su diritto e illecito, anche rispetto all’agire del comandante stesso, possa in generale essere posta e riproposta; la condizione secondo cui possano esserci in generale uguali cittadini sovietici. Questa condizione del diritto è la resistenza efficace contro i tedeschi, la vittoria51. L’ordine del comandante, senza conoscerne il diritto, riguarda la salvaguardia della condizione del diritto. Sparando a uno, il comandante intende istituire l’unità degli altri che sono gli esecutori e gli osservatori della fucilazione: «Occorre un morto o che questo morto venga visto, affinché un battaglione diventi realmente tale?». Ma anche questa domanda del comandante sull’effetto dell’esecuzione, al pari di quella del tenente sul diritto di essa, resta aperta e senza risposta. Occorre un morto o che questo morto venga visto, affinché possa esser istituita l’unità, e dunque l’ordine che è la condizione del diritto? «Le schiene dei soldati e l’ondeggiare dei loro fucili mi chiedono il perché». 50 Cfr. supra, pp. 54-55. 51 Nel Wolokolamsker Chaussee II: Wald bei Moskau di Müller, questo rapporto di condizionamento è definito così: «Dove sarà l’ordine sovietico – pensai – quando l’Unione Sovietica sarà scomparsa?» (ivi, p. 204). Questo rapporto di condizionamento, secondo il comandante, giustifica e anzi rende necessario il fatto che «qualcuno prenda la legge nelle proprie mani e la spezzi in due» (ivi, p. 202), se si intende assicurare l’esistenza dell’Unione Sovietica, nella quale soltanto può darsi la legge dell’ordine sovietico.

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Dato che nemmeno lui lo sa e che non c’è risposta a questa domanda, il comandante ritira immediatamente il suo ordine e lascia in vita il caporale che prima si era scusato con lui: … a labbra chiuse gli dissi di mettere il cappotto. «Col mantello non mi spareranno. Posso prendere il tuo posto? Tu combatterai». «Si, combatterò», disse lui. E cambiò il suo cappotto senza mettere nella manica la mano bendata. Rideva con noi, sollevato dal tormento che lo stava affannando da un’ora con tutto il peso del mondo su di lui. Dieci mani ora tiravano qua e là il suo cappotto per fargli trovare la manica. E le risate non finivano mai.

Fino a che questa ‘visione’ [Film], con una seconda svolta improvvisa, viene lacerata dall’ordine di fucilazione da parte del comandante, spazzando via l’‘immagine della liberazione’ [Bild der Befreiung]; «la salva tuonò da dodici fucili come in un sol colpo». L’ordine si impone contro la «speranza della grazia» (così si esprime Müller in un commento al testo)52. Una volta conclusa la visione della grazia e delle risate di liberazione, l’ordine non è più lo stesso: si tratta ancora dell’ordine di fucilare il caporale «secondo la legge marziale» – un ordine che corrisponde al diritto senza scaturire da esso –, ma non è più un ordine che, in senso schmittiano, «sospende» l’ordine del diritto. Il comando che sospende il diritto è, contemporaneamente, legittimato dal diritto: esso assicura l’ordine presupposto dal diritto. Al contrario, l’atto della grazia, la seconda forma tradizionale di sovranità53, non riguarda l’ordine della normatività come presupposto del diritto, ma la giustizia al di là del dominio del diritto. Questa possibilità, la «speranza della grazia», appare nella “visione” che – non solo nella testa del comandante, ma sulla stessa scena dove si svolge – viene spez52 Heiner Müller, Zur Inszenierung, in Werke, cit., vol. V, p. 97. 53 La grazia è un’altra forma di sovranità, assente nella teoria di Schmitt. Cfr. Christoph Menke, Gnade und Recht. Carl Schmitts Begriff der Souveränität, in Spiegelungen der Gleichheit. Politische Philosophie nach Adorno und Derrida, Suhrkamp, 2004.

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zata dall’ordine di fucilazione. In un appunto intitolato La messa in scena, Müller ha insistito sul fatto che la grazia e l’esecuzione devono essere inscenate in modo da avere lo stesso «grado di realtà»54. Proprio in questo momento, secondo Müller, risiede l’utopico. L’utopia non è la grazia al posto dell’esecuzione, ma che la grazia sia una «soluzione realistica». Realistico significa possibile, altamente probabile, ma non assolutamente necessario. Secondo Müller, l’utopico è che la grazia abbia lo stesso «grado di realtà dell’esecuzione»: che essa sia realistica e possibile quanto l’esecuzione. Altrettanto possibile è anche l’ordine di esecuzione. «Secondo la legge marziale», questo comando non è una necessità, ma una delle due possibilità. È questa la nuova qualità raggiunta dal comando; o meglio, è la nuova interpretazione raggiunta dal dubbio e dall’ignoranza che ammantano quel comando nel confronto con la possibilità della grazia. Si scopre che il comando è solo una possibilità che porta in sé l’altra proprio come, da quel momento in poi, sulla strada da Mosca a Berlino, il comandante porta in sé il caporale giustiziato come il suo «altro io». Quest’altra possibilità, negante la sua stessa possibilità, è inscritta in se stessa: nel comando è inscritta la possibilità della grazia; nel comandante la possibilità che egli stesso sia il giustiziato («e il morto cammina sempre al mio fianco»). Tra queste due possibilità domina una «guerra» nella testa del comandante, il quale ha agito «secondo» il diritto. «Nella mia testa la guerra non cessa più». Che l’ordine di esecuzione avvenga secondo la legge marziale, sen54 «L’ideale della grazia per il disertore ha bisogno di un grado di realismo dell’esecuzione in modo da pensare una guerra in cui la grazia sia una soluzione realistica. Nello sfondo della guerra atomica e dell’alternativa al comunismo essa appare utopica» (Heiner Müller, Zur Inszenierung, cit., vol. V, p. 97). Con ciò Müller rompe con il proprio romanzo. Per il comandante tutto deve restare un semplice «sogno», un «desiderio» nato dalla «pietà» – comprensibile, ma falso, smentito dalla conoscenza di ciò che, in guerra, è necessario e dunque giusto secondo il ‘diritto bellico’ [Recht des Krieges]: «Volevo che ogni soldato sapesse: se diventi un codardo, se tradisci, non sarai mai perdonato, per quanto forte sia il desiderio di farlo. Scrivete tutto ciò in modo che chi indossa l’uniforme o si prepara a indossarla possa leggerlo. Che essi sappiano: puoi esser stato valevole, amato e lodato in passato; ma qualsiasi cosa tu sia stato, sarai punito con la morte per un’offesa da soldato, si tratti di codardia o di tradimento» (Alexander Bek, Wolokolamsker Chaussee, Deutscher Militarverlag, 1963, p. 33).

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za scaturire dalla conoscenza giuridica; che la domanda del tenente – «Ne abbiamo diritto?» – rimanga senza risposta; che l’ordine non abbia alcuna ragione sufficiente nel diritto: tutto ciò non annuncia la ferrea necessità di conservare l’ordine del diritto sospendendo il chiarimento conclusivo della questione giuridica, quanto piuttosto la possibilità dell’utopia. L’utopia, però, non è il regno della grazia al di là del diritto. La promessa di un al di là oltre il diritto porta soltanto (come indica l’esperienza di Shylock)55 al capovolgimento del diritto nel ‘torto’ [Unrecht]. Il dominio del diritto è infatti quello dell’uguaglianza dei cittadini, e al di là del diritto domina la disuguaglianza. L’utopia che si annuncia nel dubbio riguardo a se l’esecuzione sia legittima, se sia necessaria per mezzo del diritto – utopia che si contrappone alla sospensione del diritto –, non consiste nel trascendimento del diritto, ma nel suo depotenziamento: il diritto e la sua esecuzione diventano una possibilità. L’utopia è l’uguale possibilità tra l’uguaglianza giuridica dei cittadini e la disuguaglianza non giuridica dei non cittadini. Questa uguaglianza utopica delle due possibilità non è un criterio, né un motivo. Non fornisce alcun criterio di decisione, ma anzi esige che ogni decisione – tanto quella che segue il diritto, quanto quella ad esso contraria – scaturisca dalla propria autoriflessione: dall’autoriflessione sul rapporto che la costituisce. Con ciò l’ordine di esecuzione dato dal comandante – l’ordine “secondo legge marziale” – acquisisce, con tutta la sua evidente violenza, un momento utopico. Esso avviene secondo la legge marziale e nel rapporto con il non-diritto. Nell’ordine di esecuzione dato dal comandante, diritto e non-diritto sono divenuti entrambi uguali possibilità e hanno acquisito lo stesso “grado di realtà”. Sebbene alla fine il diritto si imponga contro il non-diritto e il comandante non ordini la grazia ma l’esecuzione, egli non afferma più, tantomeno fa valere, il diritto del diritto contro il non-diritto. L’utopico dell’ordine del comandante risiede nel come: riferendolo al non-diritto, il comandante destituisce il diritto stesso a qualcosa che non è diritto. Il comandante non si esime dalla responsabilità della sua decisione ascrivendola al 55 Cfr. Jacques Derrida, What is a “Relevant” Translation?, in «Critical Inquiry», n. 27, 2001, pp. 174-200; trad. it. Che cos’è una traduzione “rilevante”?, in «Athanor», n. 2, 2000, vol. X, pp. 25-45, pp. 31 sgg.

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diritto. Ecco perché egli non chiede per il suo ordine, differentemente dal giudizio giuridico, il consenso del condannato. Il suo comando fa apparire l’esecuzione per quel che è, ossia esplicita violenza, a differenza del diritto che eternizza ogni esplicita violenza come violenza del destino. Per questo la guerra tra diritto e non-diritto, tra diritto del diritto e non-diritto del diritto non si ferma più nella testa del comandante. **** La destituzione del diritto non è né la fine del diritto né l’inizio della scomparsa della sua violenza. Essa è lo sfondamento della violenza destinale che il diritto esercita ritenendosi in diritto nella sua opposizione al non-diritto. La destituzione del diritto mette fine alla guerra del diritto contro il non-diritto dando inizio a questa guerra all’interno del diritto. Il diritto “destituito”, e dunque al tempo stesso depotenziato e liberato: è in guerra con se stesso. 7. Il diritto contro la volontà Il diritto destituito attraverso la sua autoriflessione è in lotta con se stesso. La destituzione del diritto non la «fa finita col giudizio»56 – dato che la possibilità del giudizio (“dopo” il diritto) resta all’interno dell’attuazione autoriflessiva del diritto. L’attuazione autoriflessiva del diritto la fa finita con il proprio farla finita, sia del diritto sia del diritto oltre il diritto. La destituzione non può nemmeno trasformare il diritto «in giocattoli», aprendo così «la porta di una nuova felicità»57 – dato che l’autoriflessione del diritto conduce al paradosso che non promette nulla al di là del conflitto, della violenza e della sofferenza a cui il diritto si oppone e che tuttavia il diritto ripete al proprio interno. L’attuazione autoriflessiva promette solamente un diritto consapevole di sé. 56 Gilles Deleuze, Per farla finita con il giudizio, cit., p. 166. 57 Giorgio Agamben, Profanazioni, Nottetempo, 2005, p. 87.

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Attuazione autoriflessiva del diritto significa quindi che il diritto – come Adorno scrive a proposito del gusto estetico58 – «reagisce a se stesso» e si riconosce come ‘privo di diritto’ [rechtlos]. Il diritto autoriflessivo e destituito è un diritto che ha ‘riluttanza’ [Widerwillen] verso se stesso e che si ribella a se stesso: un diritto contro la volontà – ‘il diritto dei riluttanti’ [das Recht der Widerwilligen].

58 «Il gusto è il sismografo più fedele dell’esperienza storica. Non c’è quasi nessun’altra facoltà che sia in grado di registrare, come esso fa, anche il proprio comportamento. Esso reagisce a se stesso e si riconosce privo di gusto. Gli artisti che urtano, sconcertano, che si fanno portavoce della crudeltà più spietata, si lasciano guidare, nella loro idiosincrasia, dal gusto; mentre il genere tacito e umbratile, il regno delle personalità nervose e sensibili di tipo neoromantico, si rivela, anche nei suoi maggiori esponenti, rozzo e inconsapevole come la nota definizione di Rilke: «Poiché la povertà non è che un grande splendore che proviene dall’interno…». Il brivido delicato, la retorica della diversità, non sono più che maschere nel culto dell’oppressione. Proprio ai nervi esteticamente più affinati la sensibilità soddisfatta di sé è divenuta insopportabile. L’individuo è talmente storico in tutte le sue fibre da essere in grado di ribellarsi, con la trama sottile della sua costituzione tardoborghese, alla trama sottile della costituzione tardoborghese. Nella ‘ripugnanza’ [Widerwillen] per ogni soggettivismo artistico, l’espressione e il sentimento sono, per così dire, i capelli stessi che si rizzano, o la pelle che si raggrinza, di fronte alla mancanza di tatto storico, allo stesso modo in cui, a suo tempo, il soggettivismo stesso si ritraeva istintivamente di fronte alle convenzioni borghesi» (Theodor W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, in Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann, 20 voll., Suhrkamp, 1951, vol. 4; trad. it. Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, a cura di R. Solmi, Einaudi, 1954, pp. 170-171).

Postfazione Com’è possibile in generale una critica del diritto?1 di Christoph Menke

Diritto e violenza è il tentativo breve e in forma di tesi di esplorare la possibilità di una critica del diritto. Al centro della critica del diritto c’è il problema della violenza. Questo perché l’esperienza della violenza è presente non solo all’inizio del diritto, ma anche alla sua fine. Il diritto comincia con l’esperienza della violenza. Esiste il diritto poiché esiste la violenza, e perché dire che c’è violenza significa già sempre dire che essa non deve esserci. Il diritto esiste per combattere la violenza che l’uno infligge all’altro. Fin dall’inizio, però, il diritto può far ciò solamente trasferendo la violenza in una forma che è capace di gestire. Il diritto traduce la violenza che l’uno infligge all’altro in una ‘lesione della legge’ [Rechtsverletzung]. La violenza dell’uno contro l’altro è sempre particolare e sempre diversa. Al contrario, la lesione di un diritto riguarda l’universale. ‘L’universale del diritto’ [das Allgemeine des Rechts] è l’uguale status normativo che, nel diritto, viene attribuito a ognuno in quanto persona: il diritto traduce la violenza dell’uno contro l’altro nella lesione dell’universale, dello status giuridico che entrambi condividono. In primo luogo, ciò significa che, nel diritto, la lotta alla violenza può essere solamente selettiva: il diritto distingue la violenza che esso combatte dalla violenza che esso accetta come ‘fuori dalla sua portata’ [von ihm unerreichbar], ossia naturalizzandola e dunque ‘minimizzandola’ 1 Questa postfazione è una versione integrata e rielaborata di Die Kritik des Rechts und das Recht der Kritik, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», n. 66, 2018, vol. II, pp. 143-161.

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[verharmlost]. Il diritto dev’essere indifferente a tutte le forme di violenza che non rientrano nella lesione dell’uguale status giuridico della persona – così come il diritto la intende in un determinato momento e in una determinata condizione. Questa indifferenza del diritto non è un ‘difetto’ [Mangel] di cui esso può liberarsi. Piuttosto, l’indifferenza del diritto si basa sulla selettività del suo ‘orientamento’ [Adressierung]: solamente quella violenza che può essere rappresentata come lesione del diritto può essere ‘rielaborata’ [bearbeitet] nel diritto; solamente le lesioni dell’uguale status della persona possono essere punite dal diritto in quanto violenza. È questa l’astrattezza che definisce il diritto. Dalla sua astrattezza, però, non deriva solamente che il diritto deve ‘rinunciare’ [absehen] a molte forme di violenza. Dall’astrattezza del diritto segue piuttosto che esso stesso deve esercitare violenza. Questo perché l’astrattezza del punto di vista del diritto è che esso è estrinseco rispetto alle altre prospettive: il diritto è un ordinamento necessariamente estrinseco. Esso sta di fronte agli altri ordinamenti contro cui deve tuttavia ‘affermarsi’ [sich durchsetzen]. Il diritto è estrinseco e al contempo è l’affermazione contro ciò che gli è esterno. L’essenziale e ‘irrefutabile’ [unabstreifbar] violenza del diritto risiede in questo: nel modo necessariamente astratto, estrinseco e al contempo effettivo in cui il diritto procede contro la lesione della persona, la violenza si riproduce attraverso il diritto. Diritto e violenza prova a riformulare questa tesi. Il fatto che Diritto e violenza formuli “ancora una volta” significa che c’è una lunga tradizione di pensiero giuridico che ha esplorato questo duplice carattere del diritto. Probabilmente il modello più importante nella filosofia moderna è il pensiero del giovane Hegel, mentre nella filosofia contemporanea è quello di Jacques Derrida. Ad ogni modo, in Diritto e violenza questi modelli agiscono solo sullo sfondo. Il mio riferimento qui è il pensiero giuridico critico della tragedia (e alcune delle sue moderne trascrizioni) che leggo tramite la critica della violenza di Walter Benjamin. In questa duplice connessione ne va di quella domanda sul concetto di diritto che permetta di pensare insieme entrambi i suoi lati – il ricorso del diritto contro la violenza e l’esercizio della violenza tramite il diritto. L’unità del concetto di diritto risiede nella sua contraddizione: nella contraddizione tra il suo essere lotta alla violenza ed esercizio di essa.

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Contro questa tesi e contro i caratteri del suo svolgimento è stata sollevata una serie di obiezioni critiche2. Riguardo a ciò sussistono due ‘problemi’ [Komplexe] centrali che corrispondono alle due sezioni del testo. Il primo problema riguarda il concetto di violenza. Si tratta della domanda riguardo a una comprensione non strumentale della violenza del diritto. La tesi di Diritto e violenza afferma che la violenza del diritto non definisce i suoi mezzi, ma la sua forma. La violenza del diritto è una determinazione ontologica; essa definisce l’essenza del diritto: la modalità in cui esso consiste e opera. Il secondo problema riguarda il concetto di autoriflessione, che in Diritto e violenza circoscrive la figura fondamentale di un altro diritto. La tesi di Diritto e violenza sostiene che l’altro diritto non può essere un diritto al di là della violenza del diritto, in quanto il diritto, oltre alla sua violenza, perderebbe anche la sua ‘forza di liberazione’ [Macht der Befreiung]. L’altro diritto deve spezzare la ‘fatalità’ [Schicksalhaftigkeit] della violenza giuridica, senza privarla della sua forza di intervenire nei rapporti di dominio3. Nella discussione dei due problemi emerge al contempo una fondamentale difficoltà che mette in questione la possibilità di una conoscenza critica del diritto in quanto tale – così come essa viene indagata in Diritto e violenza seguendo gli autori citati. La critica e il diritto, infatti, non sono separati tra loro nel rapporto semplice, nella conoscenza e nell’oggetto o nel giudizio e nello stato di cose, e al contempo riferiti l’una all’altra. Critica e diritto sono indissolubilmente intrecciati tra loro. Questo perché, da un lato, il diritto è uno dei primi e più impellenti oggetti della critica: la critica deve essere o deve racchiudere sempre una critica del diritto. Dall’altro lato, il diritto è la prima istanza o l’agente più importante e più potente della critica: il diritto 2 Si vedano i contributi di María del Rosario Acosta López, Alexander García Düttmann, Alessandro Ferrara, Andreas Fischer-Lescano, Daniel Loick e Ben Morgan contenuti in Christoph. Menke, Law and Violence, Manchester University Press, Manchester, 2018. La mia replica alle pp. 207-233. 3 A proposito si veda il concetto di ‘contro-diritti’ [Gegenrechte] in Christoph Menke, Kritik der Rechte, Suhrkamp, 2015, parte IV. Cfr. Idem, Genealogie, Paradoxie, Transformation: Grundelemente einer Kritik der Rechte, in Hannah Franzki, Johan Horst, Andreas Fischer-Lescano (a cura di), Gegenrechte. Recht jenseits des Subjekts, Mohr Siebeck, 2018, pp. 13-31.

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è esso stesso definito attraverso un’operazione della critica. La critica viene ‘svolta’ [ausgeführt] dal diritto. La critica del diritto si invischia quindi in un’aporia: essa resta all’interno di quel diritto che pretende di mettere in discussione. La conseguenza di questa aporia è che, nella critica del diritto, la critica si ‘volge’ [wendet] contro se stessa. La critica rivolta contro il diritto si rivolge al contempo contro se stessa; la critica del diritto diventa critica della critica (o autocritica). Ma se ciò è vero, allora qualsiasi critica, nel momento in cui viene svolta in modo conseguente (e dunque diventa critica della critica), deve essere una critica del suo stesso diritto e dunque del ‘carattere giuridico, legale, della critica’ [rechtlicher, rechtsförmiger Charakter der Kritik]. La critica conseguente diventa critica della propria giuridicità, della ‘legalità’ [Rechtsförmigkeit] della critica. La critica del diritto non può quindi presupporre la possibilità della critica; piuttosto, la critica del diritto dev’essere spinta fino al punto in cui viene messo in discussione il diritto della critica stessa4. Questa tesi sarà sviluppata nel seguito in tre passi: innanzitutto, riformulo l’aporia della critica accennata che ‘necessita’ [nötigt] una critica della critica. Si tratta della possibilità del giudizio normativo che sta al cuore dell’operazione critica: ogni critica che giudica in nome di una norma procede attraverso la ‘forma legale’ [rechtsförmig], e dunque non è una critica del diritto, ma la sua difesa (par. 1). Ciò solleva la domanda riguardo a se sia possibile un giudicare diverso da quello legale che, quindi, può essere applicato al diritto: se esiste, dunque, una via d’uscita dall’aporia della critica del diritto. I paragrafi successivi rispondono a questa domanda innanzitutto (par. 2) abbozzando una comprensione (formale) genealogica della critica e, in seconda istanza (parr. 3-5), mostrando come, tramite questa comprensione della critica, venga determinata nuovamente la ‘normatività del 4 Ciò vale altrettanto per il diritto. Il diritto e la critica condividono lo stesso destino. Se diritto equivale a critica, se dunque la critica deve essere critica della propria ‘giuridicità’ [Rechtlichkeit], allora anche il diritto – che è o pratica la critica stessa – deve diventare critica del diritto. Il diritto diventa critica al proprio diritto (e alla propria legge) di critica. Le considerazioni nella seconda parte di Diritto e violenza intendono mostrare come bisogna comprendere il concetto benjaminiano di «destituzione» del diritto.

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giudicare’ [Normativität des Urteilens]. In tal modo diviene evidente che la via che attraversa l’aporia della critica del diritto, correttamente intesa, è anche la via d’uscita da essa. 1. L’aporia della critica Cosa fa sorgere la paradossale interconnessione tra diritto e critica che produce l’aporia della critica del giudizio? Un lato di questa interconnessione consiste nel volgersi della critica contro il diritto. Questo è valido se seguiamo la definizione di Michel Foucault della critica: critica è «l’arte di non essere governati o, se si preferisce, l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo»5. La critica è critica del governo, dell’essere governati da un altro, ossia essa si rivolge contro tutti i rapporti di dominio (poiché il dominio è il governo di uno sull’altro o al posto dell’altro). Il diritto è una delle forme più potenti di dominio. Ciò vale non solo – com’è ovvio – per il fatto che il diritto è un ‘apparato di potere’ [Herrschaftsapparat] attraverso il quale lo Stato impone la validità delle sue norme. Il diritto ha anche necessità della critica, soprattutto perché esso è elemento strutturale della normatività in quanto tale. Il diritto non è solamente un particolare sistema sociale avente un ruolo storicamente specifico nell’instaurazione e nella stabilizzazione del potere politico e sociale: il diritto è una ‘determinazione formale’ [Formbestimmung] della normatività in quanto tale. Non si dà alcuna normatività che non sia ‘legale’ [rechtsförmig], ossia che non abbia un lato o una forma legale. Essa emerge proprio là dove una norma si separa dalla prassi per poter intervenire in essa nella forma del ‘giudizio’ [urteilend], per poter governare la prassi dall’esterno – in nome del suo interno entrato dall’esterno o della sua essenza6. 5 Michel Foucault, Qu’est-ce que la critique?, in «Bulletin de la Société Française de Philosophie», n. 2, 1990, pp. 35-63; trad. it. Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, 1997, pp. 37-38. 6 «L’analogia strutturale fra linguaggio e diritto è qui illuminante. […] Si può dire in generale che non solo la lingua e il diritto, ma tutte le istituzioni sociali si sono formate attraverso un processo di desemantizzazione e di sospensione della prassi concreta

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È questo il momento in cui ogni ordine normativo viene determinato da una «economia della violenza»7, quindi da forze agenti dall’esterno – dunque in modo fattuale, non normativo. La ‘legalità della normatività’ [Rechtsförmigkeit der Normativität] consiste nella sua pretesa di governare: una norma che non governa non è una norma. A questo mira la critica: mossa dalla pretesa di non essere governata così o così tanto, «in questo modo e a questo prezzo» (Foucault), essa diventa critica del diritto perché (o quando) si rivolge contro l’ordine normativo esistente e le sue legali ‘esplicazioni del potere’ [rechtsförmige Herrschaftsweise]. Poiché il potere viene esercitato normativamente e nel potere del normativo risiede la sua ‘legalità’ [Rechtsförmigkeit], la critica è in quanto tale critica del diritto. L’altro lato della interconnessione paradossale è che il diritto stesso è una pratica di critica. Da ciò trae origine il termine “critica”: «i greci impiegavano le parole derivanti da κριν – κρισις, κςιτη´σ, κριτικο´σ – con tutta probabilità prima in ambito giuridico, in modo che tanto l’accusa (l’avvio della disputa) quanto la ‘sentenza emessa’ [ergangenes Urteil] (la fine dalla disputa) potevano essere denotate da esso»8. Quando Platone reclama il diritto di ciascuno di giudicare a sua volta il giudizio di un altro – quindi di criticare la sua pretesa di verità –, egli lo descrive come il diritto di «assumere le vesti di giudici del giu-

nel suo immediato riferimento al reale. Come la grammatica, producendo un parlare senza denotazione, ha isolato dal discorso qualcosa come una lingua, e come il diritto, sospendendo l’uso e le abitudini concrete degli individui, ha potuto isolare qualcosa come una norma, così in ogni ambito il paziente lavoro della civilizzazione procede separando la prassi umana dal suo esercizio concreto e creando in questo modo quell’eccesso della significazione sulla denotazione che Lévi-Strauss è stato il primo a riconoscere» (Giorgio Agamben, Stato di eccezione, cit., pp. 49-50). 7 Jacques Derrida, Violence et Métaphysique, in L’écriture et la différence, Seuil, 1967, pp. 117-228; trad. it. Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Lévinas, in La scrittura e la differenza, a cura di P. Magli, Einaudi, 1990, pp. 99-198, p. 116. Su questo concetto di violenza formale od ontologico si veda Christoph Menke, Recht und Gewalt, August Verlag, 2011, pp. 34-40. 8 Kurt Röttgers, Kritik, in Otto Brunner, Werner Conze, Reinhart Koselleck (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe, 8 voll., Klett-Cotta, 1982, vol. III, pp. 652-675, p. 652. Più attenta è la valutazione di Claus v. Bormann in Joachim Ritter, Karlfried Gründer (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, 13 voll., Schwabe Verlag, 1976, vol. IV, pp. 1249-1282, p. 1249.

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dizio» dell’altro9. Il critico, che, giudicando, distingue il vero dal falso, è (come) un giudice, perché ‘il giudice è già un critico, se non il critico per eccellenza’ [weil der Richter bereits ein, wenn nicht der Kritiker ist]. Il diritto è critico in quanto sviluppo sistematico della modalità operativa della distinzione e della decisione normativa. Il diritto non è altro che la razionalizzazione dell’‘arte della distinzione normativa’ [Kunst der normativen Unterscheidung] nella misura in cui (I) definisce un procedimento, inclusa la posizione di autorità per il giudizio (chi è il giudice?)10 e (II) stabilisce l’ordine di ragioni (in forma di leggi) che giustifica il giudizio. Il diritto è l’organizzazione formale, sistematica e sistemica della critica, cioè la sua istituzione o istituzionalizzazione. Viceversa, ciò significa che la critica è ‘svolta’ [ausgeführt] in modo sistematico, legale e giuridico. Ciò però non basta. Il diritto può essere critico-giudicante solo se sviluppa una ‘modalità conoscitiva’ [Erkenntnisweise] altrettanto critica. La conoscenza giuridica è critica in quanto guarda oltre la superficie. Il diritto non si fida del modo in cui appaiono le cose. Non può farlo perché l’apparenza è opinione e le opinioni sono controverse nel ‘caso giuridico’ [Rechtsfall]; ogni parte presume di avere ragione. C’è bisogno, di conseguenza, di un giudice che sia sopra le parti. La giurisprudenza illuminista11 ha interpretato tutto ciò in modo tale che il giudice sia anche colui che guarda oltre la superficie delle opinioni. Egli «tira la persiana, abbassa l’inferriata della critica, che vaglia ogni suono e ogni motto»; il giudice è al contempo un «poliziotto»12. Il diritto indaga le pulsioni nascoste, i significati e i ‘colpevoli’ [Täter]; esso esercita la critica come ermeneutica – ‘ermeneutica critica’ [kritische Hermeneutik]. Il diritto è doppiamente critico: nella misura in cui giudica od orienta e nella misura in cui indaga e fornisce la prova. 9 Platone, Teeteto, a cura di F. Ferrari, BUR, 2011, p. 337, 107d. 10 Sulla procedura del diritto si veda Christoph Menke, Recht und Gewalt, cit., pp. 20-25. 11 Su ciò si veda Michel Foucault, La verità e le forme giuridiche, cit. 12 Così Søren Kierkegaard descrive l’atteggiamento dell’osservatore critico. Cfr. Søren Kierkegaard, Die Wiederholung, Gütersloher Verlagshaus, 1991; trad. it. La ripetizione, a cura di D. Borso, Guerini e Associati, 1991, p. 16. Edipo è il paradigma del giudice che ricerca in modo critico. Cfr. Christoph Menke, Recht und Gewalt, cit., p. 42 sg., e in particolare Idem, Die Gegenwart der Tragödie. Versuch über Urteil und Spiel, Suhrkamp, 2005, parte I.

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Si pone così la domanda su come si relazionano tra loro questi due lati. La critica del diritto ha un significato duplice, oggettivo e soggettivo: la critica al diritto e la critica tramite il diritto; la critica rivolta al diritto e quella che il diritto stesso esercita o è. Ma può darsi, in generale, una critica del diritto se il diritto stesso è già (e nient’altro che) la prassi della critica, se dunque la critica costituisce il diritto? La pretesa di una critica del diritto sembra impigliarsi in un’aporia. Poiché o si tratta di una critica al diritto, ossia un atto di distinzione normativa che è rivolta al diritto – ma in tal modo è solo un’applicazione del diritto a se stesso. In quanto atto della critica, la critica del diritto resta immanente al diritto. La critica al diritto attua solamente la forma o la legge che costituisce il diritto stesso, e quindi non è una critica del diritto, ossia non si rivolge contro il diritto e il suo governo. Il tentativo di criticare il diritto non può che ripeterne la ‘logica giuridica’ [juristische Logik]. Oppure – ecco l’alternativa – si tratta in effetti di un’‘indagine critica’ [kritische Befragung] della modalità e del grado in cui il diritto governa. Ma così non si tratta in senso stretto di un atto della critica. Poiché per esibire e respingere la sua modalità di governo e la sua logica di dominio la critica al diritto dovrebbe rompere con la logica del diritto e della legalità, e quindi dovrebbe ‘fornire’ [leisten] una messa in questione non solo del diritto, ma della critica stessa. Per essere una critica del diritto, non può più essere una critica (del diritto), ma dovrebbe diventare qualcosa di diverso da un atto della critica (ad esempio, un atto creativo che elabora un’altra forma di governo)13. Secondo la prima alternativa, la critica del diritto non è altro che la ripetizione del diritto e dunque la sua conferma. Per la seconda alternativa, la critica del diritto altro non è che l’abolizione in un colpo solo della critica e del diritto. Entrambi i lati concordano su un punto: la critica è costituita in modo giuridico, ossia è legale. L’aporia della critica del diritto risiede nel fatto che la critica o è rivolta al diritto in modo immanente, e quindi non contro esso, o è rivolta contro il diritto, e quindi non è un atto della critica. La prassi della distinzio13 È questa la conclusione che Gilles Deleuze, seguendo Nietzsche, trae dalla comprensione della logica giuridica della critica. Cfr. Gilles Deleuze, Per farla finita con il giudizio, cit., pp. 165-176.

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ne normativa tra giusto e sbagliato non è altro – anche ciò fa parte dell’implicito accordo delle due parti – che il processo di ‘introduzione’ [Einführung], giustificazione e ‘applicazione’ [Anwendung] di una legge. Entrambi i lati concordano dunque sul fatto che la critica è legale, sul fatto che nella sua forma la critica è giuridica. Essa ha una forma giuridica. La legge della critica è il diritto; il diritto è la legge della critica. Se questo presupposto è valido, allora la ‘situazione’ [Lage] della critica è senza via d’uscita. Non è possibile nessuna critica del diritto. Ma chiediamoci: questo presupposto è valido? La critica, la prassi della distinzione normativa è legale nella sua essenza, e cioè nella sua forma? Oppure, è possibile concepire una forma non legale della critica? A questo mirano le riflessioni che seguono. Esse intendono mostrare che proprio l’affermazione formulata dall’aporia della critica del diritto – secondo cui la legge della critica è il diritto –, se intesa correttamente, indica anche la via d’uscita dall’aporia. La formula dell’aporia – la legge della critica è il diritto – formula al contempo la sua soluzione. 2. Genealogia della forma Al centro dell’aporia in cui si invischia la critica del diritto c’è il problema del giudizio normativo, e cioè della distinzione tra ‘giusto e sbagliato’ [Richtiges und Falsches]. Il diritto è la razionalizzazione, la proceduralizzazione e la giustificazione della prassi della distinzione normativa. Il diritto, però, presuppone tanto la necessità quanto la possibilità della distinzione normativa come qualcosa di dato. In ciò risiede il dogmatismo della critica (o dogmatismo critico). La critica giuridica, ossia la critica nella forma del diritto, si basa sul dogma della distinzione normativa. Il dogma stabilisce che ‘giusto e ingiusto’ [Recht und Unrecht], giusto e sbagliato, possono essere distinti attraverso criteri determinati, e quindi grazie a una regola generale che rende possibile identificarli in modo univoco. Giusto e ingiusto possono quindi essere separati come casi o corsi contrapposti tra loro: il modo corretto di pensare, volere e agire è separato da quello errato, ed è quindi contrapposto estrinsecamente ad esso.

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Nella sua critica al diritto pubblico hegeliano, Marx descrive così il dogmatismo della «critica volgare»: La critica volgare cade in un […] dogmatico errore. Così essa critica, ad esempio, la Costituzione: attira l’attenzione sull’antitesi dei poteri ecc., trova ovunque contraddizioni. Questo è ancora della critica dogmatica, che lotta col suo oggetto, all’incirca come una volta si eliminava il dogma della Santa Trinità per la contraddizione di uno e tre14.

La critica è dogmatica o «volgare» per il fatto che (e per il modo in cui) essa «lotta» con il suo oggetto. Ad essa Marx contrappone il concetto di critica «vera»: La vera critica, invece, mostra l’intima genesi della Santa Trinità nel cervello umano. Descrive il suo atto di nascita. Così la critica veramente filosofica dell’odierna Costituzione dello Stato non indica soltanto le sussistenti contraddizioni, ma le spiega, ne comprende la genesi, la necessità. Le prende nel loro peculiare significato15.

Il dogmatismo della critica volgare risiede nel fatto che essa lotta con il suo oggetto in nome di una norma presupposta come data: rifiutando il dogma della Trinità perché autocontraddittorio – la Trinità dev’essere allo stesso tempo una e trina, e la critica condanna quest’affermazione come autocontraddittoria –, la critica volgare lo combatte dall’esterno in nome di una norma: la legge dell’esclusione della contraddizione, essa stessa considerata un dogma (detto altrimenti: respingendo il dogma della Trinità come autocontraddittorio, la critica volgare trasforma semplicemente la stessa ‘idea di coerenza’ [Idee der Widerspruchsfreiheit] in un altro dogma)16. La critica volgare con14 Karl Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Kritik des Hegelschen Staatsrechts (§§ 261-313), in Karl Marx, Friedrich Engels, Werke [MEW], 44 voll., Dietz, 1977, vol. I, pp. 203-233, p. 296; trad. it. Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, a cura di M. Prospero, Editori Riuniti, 2016, pp. 275-276. Si veda anche Christoph Menke, Genealogie, Paradoxie, Transformation, cit. 15 Karl Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., pp. 275-276. 16 Con queste parole Łukasiewicz si oppose ad Aristotele: «Sembra che anche Ari-

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trappone al dogma un altro dogma. In tal modo, essa garantisce la ‘distinguibilità normativa’ [normative Unterscheidbarkeit] tra ‘giusto e sbagliato’ [Richtigen und Falschem]. Il dogma fornisce un criterio secondo cui il ‘caso’ [Fall] è giusto o sbagliato. La «vera critica filosofica», invece, non giudica il suo oggetto secondo una norma stabilita; piuttosto ne mostra l’«atto di nascita», l’«intima genesi». Per Marx, la vera critica è una genealogia. Nel primo volume del Capitale, Marx spiega come procede una tale genealogia e in che senso viene detta “critica”. Marx pone la domanda decisiva che rende la sua ricerca una critica dell’economia politica: Ora, l’economia politica ha certo analizzato, sia pure incompletamente, il valore e la grandezza di valore, e ha scoperto il contenuto nascosto in queste forme. Ma non ha mai posto neppure il problema del perché quel contenuto assuma quella forma, e dunque del perché il lavoro rappresenti se stesso nel valore17.

La critica è la domanda sulla forma, o meglio sulla forma dell’esposizione. La critica non assume l’esistente come un fatto o una datità, quanto piuttosto come l’esposizione di un contenuto “nascosto” in una determinata forma (l’esposizione del lavoro sociale nella forma di valori di scambio). La vera critica, quindi, ha interesse per il ‘nascosto’ stotele abbia almeno avvertito, seppur non riconosciuto chiaramente, il valore pratico-etico del principio di contraddizione. Nel tempo del declino politico della Grecia, Aristotele divenne il fondatore e il promotore di un lavoro culturale scientifico e sistematico. In ciò, forse, egli vedeva la consolazione per il tempo a venire e per la futura grandezza della sua nazione. Egli auspicava di tenere in alto il valore della ricerca scientifica. La negazione del principio di contraddizione avrebbe aperto ogni porta alla falsità e soffocato nei primi semi di vita la giovane scienza che sbocciava in quel momento. Con parole potenti in cui si avverte un intrinseco ardore, lo stagirita si rivolge contro gli oppositori di quel principio, contro gli eristi di Megara, i cinici della scuola ateniese, i seguaci di Eraclito, i discepoli di Protagora, e lotta con tutti loro tanto per un principio teoretico quanto per un bene personale. Egli stesso potrebbe certo aver avvertito i punti deboli della propria argomentazione. Ecco perché proclama il suo principio come un assioma definitivo, come dogma inviolabile» (Jan Łukasiewicz, Über den Satz des Widerspruchs bei Aristoteles, in «Anzeiger der Akademie der Wissenschaften in Krakau», 1910, p. 37). 17 Karl Marx, Das Kapital, in Karl Marx e Friedrich Engels, MEW, cit., vol. XXIII; trad. it. Il Capitale, a cura di D. Cantimori, 3 voll., Editori Riuniti, 1980, vol. I, p. 112.

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[Verborgenes]; Marx non considera il critico (come fa Kierkegaard) un «agente segreto in missione speciale», la cui «arte» consiste nello «svelare quanto sta nascosto»18. Al critico interessa piuttosto la genesi, la nascita della forma in cui giace ed è presente il contenuto nascosto. Il critico è un’analista delle esposizioni, un lettore di forme. Nella spiegazione del concetto di critica genealogica nel giovane Marx attraverso il suo programma maturo di una critica dell’economia politica, tutto ruota attorno al concetto di ‘esposizione’ [Darstellung]. In senso ‘superficiale’ [Vordergründig], il concetto di esposizione si riferisce qui al modo in cui la realtà capitalistica è rappresentata nell’ideologia del pensiero borghese dominante: quindi nell’economia politica (nel liberalismo). Il passo decisivo, tuttavia, è comprendere la stessa realtà economica come un’esposizione: essa non è un mero fatto, ma una ‘figura’ [Gestalt] in cui il contenuto è nascosto e quindi viene esposto. “Critica” significa lettura delle esposizioni, o meglio trasformazione di ciò che appare come un semplice dato in un’esposizione attraverso la lettura di esso. Il concetto di esposizione viene definito attraverso una duplice distinzione: in primo luogo, la distinzione tra il contenuto nascosto e il suo apparire in una ‘figura’ [Gestalt] determinata; in secondo luogo, la distinzione tra il contenuto apparente e il modo in cui esso appare, e cioè tra il contenuto e la ‘forma’ [Form] della sua esposizione. Nel leggere ciò che è dato come un’esposizione, la critica apre al modo – alla forma specifica – in cui il contenuto viene esposto. Solo con la seconda distinzione, ossia con la prospettiva della (o sulla) forma, comincia l’attività della critica. Fare critica non significa svelare i contenuti nascosti che starebbero alle spalle di una determinata parte della realtà sociale; ciò veniva già fatto dall’economia politica borghese e liberale (la quale sapeva già che il lavoro è il contenuto del valore di scambio). La critica comincia solamente con il problema della forma in cui questo contenuto viene esposto attraverso questa parte di realtà sociale, ossia leggendo la realtà effettuale come esposizione: la critica non si domanda del contenuto – del lavoro; piuttosto si domanda del motivo per cui questo contenuto – il lavoro sociale – si espone nella forma del valore della merce (e non in un’altra). Leggere la realtà 18 Søren Kierkegaard, La ripetizione, cit., p. 16. L’arte è «triste» e «rende melancolici esattamente come fare il poliziotto» (Ibidem).

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come esposizione significa necessariamente intendere l’esposizione stessa come un atto di ‘esposizione’ [Darstellungsakt] – come l’atto di ‘configurazione’ [Gestaltung] e di ‘formazione’ [Formierung] di un contenuto. La «genesi», ricercata secondo la definizione di Marx dalla «vera» critica, è la genesi della forma: produzione e funzionamento di una determinata forma espositiva. La critica dell’economia politica non è quindi una critica dell’ideologia; non critica la falsificazione della realtà capitalistica all’interno del pensiero economico del liberalismo. La sua critica consiste piuttosto nel dimostrare che lo stesso atto di esposizione compiuto dall’ideologia liberale borghese costituisce già la realtà capitalistica. In tal modo, l’esposizione (del lavoro sociale come valore della merce) è tanto reale quanto ideologica. La realtà sociale deriva da un atto di esposizione che essa stessa nasconde. La critica dell’economia politica non afferma che il modo di ‘pensare’ [Denkweise] borghese rispecchia in modo inadeguato la realtà sociale, quanto piuttosto il contrario: esso la rispecchia semplicemente. Nella misura in cui (così come) espone la realtà capitalistica, il pensiero borghese ripete l’esposizione che costituisce la realtà, rendendo dunque invisibile il suo atto di formazione, e cioè l’esposizione del contenuto nascosto in questa forma specifica. L’economia politica liberale e borghese, proprio a causa del suo “positivismo” e del rispecchiamento del fatto, è «acritic[a]» (come Marx si esprimeva rispetto alle «opere hegeliane posteriori»)19. La definizione della critica genealogica (o critica della forma) è: «Leggere l’ente quale testo del suo divenire»20. In quanto genealogica, la critica è l’atto di un leggere trasformativo (leggere che è un atto di scrivere, di riscrivere): essa fa della realtà una esposizione. O meglio: l’esposizione di un atto e quindi la forma della sua esposizione – l’esposizione dell’esposizione, ossia l’auto-esposizione. L’attività della critica produce dunque gli oggetti come forme di esposizione che sono in se stesse critiche (ossia auto-critiche). Friedrich Schlegel 19 Karl Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte, in Karl Marx e Friedrich Engels, MEW, cit., vol. I, pp. 465-588; trad. it. Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di F. Andolfi, G. Sgro’, Orthotes, 2018, p. 252. 20 Theodor W. Adorno, Negative Dialektik, in Gesammelte Schriften, a cura di Rolf Tiedemann, 20 voll., Suhrkamp, 1973, vol. VI; trad. it. Dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani, Einaudi, 2004, p. 49.

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definisce «critica» quella filosofica che contiene «nel sistema dei pensieri trascendentali anche una caratteristica del pensiero trascendentale»21. Un pensiero è quindi critico quando, nel suo contenuto, espone al contempo un atto (e quindi le capacità e le forze) del pensare che lo ha ‘prodotto’ [hervorvorgebracht] – esponendo dunque «insieme al prodotto il produttore»22. La critica non è altro che l’autoriflessione dell’esposizione che si compie in essa. Schlegel estende questa definizione di critica, guadagnata dalla filosofia trascendentale, alla poesia (come «poesia della poesia»), e da qui alla politica (quella critica nel senso di Schlegel; la politica rivoluzionaria: politica che in ogni atto di rappresentanza rappresenta anche colui che produce in senso politico, il soggetto o la forza della politica: il pouvoir constituant, il popolo). Marx fa un ulteriore passo avanti e riferisce questa idea di critica alla realtà sociale e soprattutto economica. Criticare la realtà sociale significa trasformarla tramite la lettura in una esposizione in se stessa critica in quanto ‘co-esposizione’ [Mitdarstellung] della propria forma e attività espositiva. “Critica” significa leggere le forme sociali come loro autoesposizioni. La critica trascendentalizza (o “romanticizza”) il suo oggetto: nella lettura critica, l’oggetto non ha semplicemente una forma, ma la espone (espone l’‘atto del dare forma’ [Akt der Formgebung]). 3. Il più come contingenza La lettura critica della realtà in quanto esposizione apre il campo a indagini che rispondono alla domanda sul nascere della sua forma attualmente dominante. Dove, quando e come è nata questa forma? Attraverso quale atto di nascita è stata raggiunta? Quale passo ha condotto dal contenuto a questa forma (nel caso dell’economia politica: dal lavoro sociale al valore della merce)23? Dare una risposta a tali 21 Friedrich Schlegel, Athenäums-Fragmente, in Kritische Schriften und Fragmente, 6 voll., Schöningh, 1988, vol. I; trad. it. Frammenti dell’«Athenaeum», in Frammenti critici e poetici, a cura di M. Cometa, Einaudi, 1998, pp. 29-90, p. 57. 22 Ibidem. 23 Una risposta alle domande sul sorgere della forma dei diritti (soggettivi) è stata formulata in Christoph Menke, Kritik der Rechte, cit.

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domande genealogiche significa per Marx «spiegare» l’esistenza e il funzionamento di una forma sociale, coglierne il «significato peculiare» e cioè la sua «necessità»24. Ma come può la spiegazione genealogica essere allo stesso tempo un atto della critica e addirittura l’unica «vera» critica? E in che modo questo programma di genealogia della forma ridefinisce l’idea di critica? Cos’è critico nella genealogia della forma (nell’atto del leggere)? Una prima risposta a questa domanda sostiene che la genealogia è critica in senso ontologico. È critica poiché è antipositivista, dissolve il “mito del dato” e trasforma ciò che appare come un semplice ‘ente’ [Seiende] nell’esposizione del divenire della sua forma. Se però l’ente è in realtà l’effetto di un atto determinato di esposizione – l’esposizione di un contenuto in una forma specifica –, esso potrebbe anche essere altrimenti. La genealogia rivela la contingenza dell’‘esistente’ [Bestehendes]. Ecco come la genealogia intende la critica: dissolvere l’apparenza nella necessità ed ‘esibire’ [aufweisen] l’ente come possibilità – che potrebbe anche essere altrimenti. Nel prosieguo propongo un’altra risposta, non perché la prima sia falsa, ma perché essa è insufficiente25. La critica svolta dalla genealogia della forma non consiste nell’esibire la contingenza delle forme sociali esistenti; essa non è semplicemente una denaturalizzazione del sociale. Questo è solo il primo passo. Se ci si ferma ad esso, allora si perde il punto decisivo della ridefinizione genealogica della critica effettuata da Marx (e quindi il senso della critica in Benjamin, Adorno, Foucault e così via: si perde il punto decisivo della teoria critica). Poiché si perde il senso e il modo in cui il programma genealogico mira a una ridefinizione della critica nel suo significato originario e letterale, secondo la quale essa è il nome con cui si designa la «prospettiva decisiva e dirimente», quindi normativa26. La critica vera, genealogica, rifiuta il dogmatismo della distinzione normativa, senza dissolvere la prospettiva della distinzione normativa. La critica genealogica non finisce con l’essere antipositivismo e consapevolezza della contingenza, perché la 24 Cfr. supra, p. 96. 25 Cfr. Raymond Geuss, Outside Ethics, Princeton University Press, 2005, cap. 9; Martin Saar, Genealogie als Kritik. Geschichte und Theorie des Subjekts nach Nietzsche und Foucault, Campus, 2007, cap. 7. 26 Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 487.

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distinzione genealogica può essere definita critica solamente quando essa realizza in un modo nuovo ciò che la critica volgare poteva fare solamente in modo dogmatico: la lotta contro l’esistente basandosi sulla decisione che esso sia sbagliato. Il dogmatismo della critica volgare consiste nell’intendere giusto e sbagliato come estrinsecamente contrapposti tra loro. La norma presupposta fornisce alla critica un criterio che permette di decidere tra i casi (o le opinioni sui casi) in modo inequivocabile. La critica genealogica – ciò desidero mostrare nel prosieguo – riconcettualizza l’atto della distinzione normativa sviluppando un altro concetto del ‘falso’ [Falsches]: essa comprende il falso, e quindi la distinzione (normativa e critica) tra giusto e sbagliato in un modo non-dogmatico. 4. Il paradosso di diritto e violenza Per capire il motivo e il modo in cui la critica genealogica conduce alla riformulazione della decisione (alla riformulazione del concetto di falso e quindi della normatività in quanto tale) occorre anzitutto comprendere più precisamente l’«atto di nascita» e la «genesi» della forma presentata, secondo Marx, dalla «vera critica filosofica». In che modo e da cosa nasce una forma? Qual è il motivo – nella terminologia di Schlegel, il «produttore» – della forma? Il motivo della forma non è il contenuto che viene esposto. Allo stesso modo, il “Produzierende” non è il produttore o un produttore: non è l’atto di un soggetto. Il motivo della forma è piuttosto una contraddizione o un paradosso. La lettura critico-genealogica dell’essente in quanto esposizione, ossia dell’esposizione del suo ‘auto-esporsi’ [Sichdarstellen], mostra che la ‘costruzione della forma’ [Formbildung] è lo ‘sviluppo’ [Entfaltung] di un paradosso. Il concetto critico-genealogico della forma è il seguente: la forma è l’espressione in quanto sviluppo della contraddizione intrinseca a una cosa od oggetto. Le contraddizioni vengono ricondotte a forme. Rispetto al diritto, questa affermazione generale della genealogia della forma può essere spiegata così27: il diritto è caratterizzato da 27 Per un’esposizione della contraddizione nel concetto di diritto rimando ai miei Diritto e violenza, cit., prima parte, e Kritik der Rechte, cit., seconda parte.

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un’intrinseca contraddizione. Non si tratta della contraddizione tra l’idea vera del diritto e la sua realizzazione sempre inadeguata nel sistema del diritto esistente (a cui si interessano i programmi di critica immanente). Piuttosto, la contraddizione che caratterizza il diritto (e che la critica della forma esibisce) è immanente all’idea stessa di diritto. Questo perché non si dà diritto che non sia, da un lato, procedimento od ordine della distinzione normativa e, dall’altro, istanza o agente della ‘efficacia non normativa’ [nichtnormative Wirksamkeit]. Il diritto è una ‘forza’ [Macht] allo stesso tempo normativa e non normativa. Il diritto è normativo in quanto distingue tra ‘giusto e ingiusto’ [Recht und Unrecht] e svolge una critica: come abbiamo visto, il diritto è l’istanza paradigmatica della critica. Esso distingue in nome dell’uguaglianza; la legge del diritto è l’isonomia. Il diritto è non normativo in quanto, tramite la distinzione normativa tra giusto e ingiusto, distingue allo stesso tempo tra diritto e non-diritto. Il giusto non è semplicemente contrapposto all’ingiusto, alla lesione dell’uguale status di tutti, ma anche a quella prassi, quell’atteggiamento e quella forma di soggettività che sono esterne, estranee o addirittura ostili al diritto. Diritto significa esteriorità; ovunque vi sia diritto, ci sono anche pratiche, atteggiamenti e soggettività contrapposte estrinsecamente ad esso verso le quali il diritto stesso può avere soltanto una relazione di mera esteriorità. La stessa relazione tra normativo e non normativo non può che essere non normativa: contrariamente alla relazione normativa (o critica) tra giusto e sbagliato interna al diritto e che in esso si realizza, il rapporto non normativo tra diritto e non-diritto è un rapporto di efficacia o ‘forza’ [Macht] non normativa. A questo fa riferimento il concetto di violenza (così come esso è concepito in Diritto e violenza): la violenza del diritto è il potenziale della sua efficacia non-normativa rispetto a ciò che ‘non è diritto’ [Nichtrecht]; il diritto limita, combatte e ‘opprime’ [unterdrückt] ciò che non è diritto. Questo rapporto tra diritto e non-diritto non può essere un rapporto normativo, ma solo un rapporto di violenza. Il diritto è la relazione tra queste due relazioni: la relazione normativa tra giusto e ingiusto e la relazione non normativa tra diritto e non-diritto; è la relazione tra la critica normativa e il ‘modo di azione’ [Wirkungsweise] non normativo della violenza. Il diritto è quindi l’unità di due relazioni diverse che non possono essere ‘unificate’ [verein-

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heitlicht]. Il diritto è definito ‘nel suo fondamento’ [in seinem Grund] da un rapporto che si esprime in disposizioni e pretese, e che dunque può essere esposto come paradosso. Non si dà nessuna forma di diritto che non sia effetto e quindi espressione della sua essenza paradossale; nessuna forma di diritto che, nel momento in cui venisse dissolta l’unità paradossale tra relazione normativa e non normativa, tra critica e violenza, non sarebbe ancora una volta una forma di diritto (poiché essa si dissolverebbe o in pura normatività o in pura violenza e diventerebbe o giustizia impeccabile e assoluta o brutale dominio e oppressione)28. Si parla qui di paradosso per il fatto che il nesso tra le due relazioni costituenti il diritto può essere descritto soltanto in un modo duplice e paradossale. Da un lato, il diritto non può che essere contemporaneamente entrambe le cose: il diritto è tanto normativo quanto non normativo, tanto critica quanto violenza. In ciò difettano sia le concezioni idealistiche che quelle realistiche del diritto. Le prime vedono nel diritto nient’altro che un ordine normativo del riconoscimento che assicura a ogni uomo lo status di uguaglianza; le altre riducono il diritto a un ordine fattuale della violenza che assicura al dominio i rapporti sociali. Tuttavia, il diritto non è né l’uno né l’altro, perché è allo stesso tempo normativo e fattuale. Dall’altro lato, il diritto non può essere contemporaneamente normativo e non normativo. La relazione normativa e quella non normativa costituenti il diritto non stanno l’una accanto all’altra. Infatti, la contrapposizione normativa tra giusto e ingiusto procede in nome del riconoscimento normativo dell’‘uguale’ [Gleiche], e quindi si rivolge contro il rapporto di violenza non normativo proprio del diritto; il diritto combatte la violenza che esso stesso ‘commette’ [begeht]. Il diritto, quindi, non è definito semplicemente da due distinzioni categorialmente diverse: quella normativa tra ‘legittimo’ [rechtmäßig] e ‘illegittimo’ [rechtswidrig] e quella non normativa tra diritto e non-diritto. Piuttosto, esso viene definito da due relazioni incompatibili tra queste due distinzioni categorialmente differenti: il diritto è normativo e non 28 Su questo ruota il dibattito con Andreas Fischer-Lescano e Daniel Loick in Law and Violence. Per una descrizione più dettagliata delle loro posizioni si veda Andreas Fischer-Lescano, Rechtskraft, August Verlag, 2013; Daniel Loick, Der Missbrauch des Eigentums, August Verlag, 2016; Idem, Juridismus. Konturen einer kritischen Theorie des Rechts, Suhrkamp, 2017.

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normativo, ma le due relazioni del diritto si rivoltano l’una contro l’altra. Il rapporto tra relazione normativa e relazione non normativa è duplice e contraddittorio: un rapporto tanto di coesistenza quanto di reciproca ostilità. Proprio a questo mira il concetto di paradosso: il diritto ‘deve’ [muss] essere allo stesso tempo normativo e non normativo, ma non può esserlo contemporaneamente. Esprimere la dualità che costituisce il diritto significa quindi volerla superare (l’unica vera espressione di un paradosso è il tentativo non semplicemente di esprimerlo, ma di risolverlo). Il diritto si rivolta contro se stesso. Esso non è un’entità che apparterrebbe a due ordini diversi. Dato che entrambi questi ordini si contraddicono, il diritto è una contraddizione contro la sua stessa esistenza. Il diritto lotta contro se stesso, contro l’esistenza del diritto; esso stesso vuole abolire il diritto. 5. Oltre il dogmatismo Siamo giunti a questa definizione della critica («veramente filosofica»): fare critica significa mostrare la genesi di una determinata forma a partire dal paradosso o dalla contraddizione che ne sta al fondamento. E viceversa: fare critica significa leggere una data forma come esposizione – come il dispiegamento o l’espressione – del paradosso che ne sta al fondamento. La critica “vera” si contrappone dunque al dogmatismo di quella “volgare”. Questo dogmatismo risiede nel presupposto normativo, ossia nel presupporre qualcosa di normativo: la pretesa di una decidibilità normativa, ossia assumere che giusto e sbagliato possano essere distinti in nome di un ‘criterio stabilito’ [vorgegeben Kriterium] e che dunque essi siano casi indipendenti tra loro e che esistono separati ognuno per se stesso. Nel leggere le forme del diritto come espressione e ‘attuazione’ [Vollzug] del paradosso costituente il suo fondamento, la critica genealogica mostra che il presupposto di una decidibilità normativa è insostenibile: nel suo operare, il diritto si basa su questo presupposto e si sottrae ad esso. Senza il presupposto di una decidibilità normativa non si dà alcun diritto. Contemporaneamente, però, nel diritto si mostra che la prassi del decidere normativo produce, rovesciandosi, ciò che normativamente è indecidibile.

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Il cardine di questo rovesciamento è il raddoppiamento di una distinzione normativa tra giusto e ingiusto attraverso quella non normativa tra diritto e non-diritto. Entrambe vanno di pari passo. Ecco perché le due distinzioni si intrecciano e si sovrappongono in modo fattuale – nella realtà del diritto – in modo tale da non poter prendere una decisione definitiva tra ciò che viene condannato e punito come ingiusto e ciò che viene delimitato e considerato come non-diritto29. Soprattutto, però, il rapporto paradossale tra distinzione normativa e non normativa pone al centro del diritto la possibilità della critica, problematizzando al contempo il modo in cui questo rapporto rende necessaria la critica. Da un lato, questo rapporto esige una decisione critica: la distinzione non normativa tra diritto e non-diritto è un rapporto di influenza esterna. Se avviene nello stesso spazio normativo, un tale rapporto si chiama violenza. Come violenza, però, questo rapporto di influenza esterna non è normativamente neutrale; nello spazio normativo, il rapporto non normativo è falso in senso normativo. Il diritto come prassi della critica deve rivolgersi dunque contro la violenza che esercita nei confronti del non-diritto: esso deve distinguere criticamente tra critica e violenza in quanto giusto e sbagliato – a favore della critica e contro la violenza. Dall’altro lato, però, non è possibile decidere normativamente tra la distinzione normativa e quella non normativa del diritto. Esse non possono essere separate l’una dall’altra e contrapposte come ‘giusto e sbagliato’ [Richtiges und Falsches] – in modo che si mantenga il giusto e si rinunci allo sbagliato. Se il rapporto di violenza non normativo è solo l’altro lato, il presupposto nascosto, della normatività del diritto, allora non esiste nessuna critica del diritto capace di raggiungere una decisione e di risolvere la coesistenza dei due lati; il contrasto tra la critica nel diritto e la violenza del diritto non è oggetto di critica. Riassumendo queste considerazioni, ne segue che la critica genealogica – che legge le forme del diritto come attuazione del suo paradosso – è in un rapporto irrimediabilmente duplice con la critica normativa. 29 In entrambe le direzioni ci si priva della differenza: nella prima, l’ingiustizia viene considerata un non-diritto: il criminale diventa il nemico e il diritto uno stato di emergenza; nella seconda, il non-diritto viene inteso come ingiustizia: colui che è ‘libero dal diritto’ [Rechtsfrei] diventa il criminale; il diritto un sistema educativo.

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Essa è tanto la dissoluzione del dogmatismo della critica normativa, quanto la spiegazione della sua necessità e della sua genesi. Come critica genealogica, essa dissolve – poiché si rivolge contro il dogmatismo della critica normativa. Ma come critica genealogica essa spiega al contempo il sorgere e la necessità di ciò che critica30. La critica genealogica non è dunque l’altro della critica normativa. La critica genealogica della critica normativa è al contempo la comprensione del suo sorgere. Essa ricostruisce più volte la critica normativa come effetto proprio del paradosso del diritto che la critica normativa misconosce e altrettanto rimuove. Di conseguenza, la critica normativa non viene dissolta dalla critica genealogica, ma riprodotta e ricompresa. La critica genealogica mette in pratica una critica normativa di secondo ordine. Concludendo, possiamo descrivere in tal modo la ricomprensione della critica normativa attraverso la critica genealogica: la critica (genealogica) al dogmatismo della critica normativa afferma che la possibilità della distinzione normativa non può essere presupposta come data. Questa è la posizione del legalismo, dell’autocomprensione del diritto distorta in senso normativistico. Il critico normativo è (come) un critico che presuppone in modo dogmatico la possibilità del suo giudizio normativo. La critica genealogica mostra ciò che in questo presupposto è falso: essa dissolve la paradossale ‘contemporaneità’ [Zugleich] di normativo e non normativo che definisce il diritto; essa non riconosce che queste due distinzioni si sovrappongano in ogni circostanza e che l’‘illegittimo’ [Unrechtmäßige] e il ‘non giuridico’ [Nichtrechtliche] siano indistinguibili. Il dogmatismo della critica normativa sta nel suo rimuovere il paradosso del diritto. Ciò che la critica normativa rimuove è appunto il proprio fondamento; perché la critica normativa è uno dei due lati del diritto, e quindi lo produce a partire dal paradosso del diritto stesso. La critica genealogica della critica normativa mostra quindi che essa è dogmatica proprio perché non permette di riconoscere il proprio fondamento – e cioè il paradosso del diritto. La critica normativa nega ciò che essa è: un momento nel paradosso del diritto31. 30 La critica genealogica ha per questo un significato necessariamente «affermativo». Cfr. Hans Joas, Die Sakralität der Person. Eine neue Genealogie der Menschenrechte, Suhrkamp, 2011, pp. 147 sgg. Una critica genealogica intesa semplicemente come distruttrice non sarebbe affatto una genealogia. 31 In tal modo il discorso di Marx sul carattere «dogmatico» della critica volgare

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Tutto ciò chiarisce che la critica genealogica al dogmatismo della stessa critica normativa è un atto della critica normativa: il dogmatismo della critica normativa – questo il giudizio della critica genealogica – è falso. Contrariamente a quanto sembra, però, ciò non significa che la critica genealogica, con il suo giudizio negativo sul dogmatismo della critica normativa, ricada alla fine nuovamente nello stesso dogmatismo che essa rifiuta. Questo perché il giudizio sul dogmatismo della critica – “il dogmatismo della critica normativa è falso” – opera con una concezione diversa e non dogmatica del falso. Il falso della critica normativa, così come è intesa e praticata dal legalismo, consiste nella sua incapacità di riconoscere ed esporre il paradosso del diritto che sta alla base di tale critica. È questa la norma nel cui nome giudica la critica genealogica: la sua norma non è una legge che essa presuppone come data e che garantisce la possibilità della distinzione normativa (tra giusto e ingiusto); al contrario, la norma è l’unità paradossale della distinzione normativa (tra giusto e ingiusto) e della distinzione non normativa (tra diritto e non-diritto) nel diritto stesso. Anche la critica genealogica, dunque, giudica sul giusto e sullo sbagliato; essa realizza un atto di decisione normativa, una ‘presa di posizione critica’ [kritische Stellungnahme]. Ma lo fa nel nome del paradosso alla base della normatività. La norma della critica genealogica è il paradosso della norma. * Il procedimento della critica genealogica può esser riassunto in tre momenti: corrisponde alla definizione hegeliana di dogmatismo: esso non riconosce l’«antinomia» nella quale il principio da esso affermato è solo una parte (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie, in Gesammelte Werke IV, a cura di H. Buchner, O. Pöggeler, Meiner, 1958, pp. 5-92; trad. it. Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, 2014, pp. 1-120, p. 38). Dato che ciò vale anche per il “criticismo”, anch’esso è una figura dogmatica. Cfr. Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kriticismus, in Schriften von 1794-1798, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1975, pp. 161-222; trad. it. Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, a cura di G. Semerari, Laterza, 1995.

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1) leggere l’essente come (auto)esposizione della sua propria forma; 2) spiegare la forma attraverso il paradosso del suo fondamento; 3) decidere tra forma giusta in quanto riconoscimento del paradosso e forma sbagliata in quanto misconoscimento del paradosso. La critica genealogica comincia in tal modo a dissolvere il dogmatismo della critica normativa nel senso del legalismo. Inoltre, essa conduce a una riconcettualizzazione della decisione normativa e della distinzione normativa tra giusto e sbagliato. Tutto questo allude forse a una via d’uscita dall’aporia della critica del diritto? L’aporia della critica del diritto afferma che non è possibile nessuna critica del diritto, poiché la critica stessa è come un diritto, ossia è legale: la legge (e quindi anche il diritto) della critica è il diritto. Anche se si trattasse di un diritto superiore – il diritto della coscienza o, come afferma Schiller, del ‘teatro’ [Schaubühne], esso resterebbe sempre e soltanto un diritto. Ogni obiezione radicale contro il diritto non potrebbe essere più un atto della critica, un atto della decisione critica tra giusto e ingiusto; essa dovrebbe essere qualcos’altro dalla critica (un atto creativo e ‘affermativo’ [Ja-Sagen]). La critica, a quanto pare, è troppo vicina al diritto per poter essere una critica del diritto. È questa l’aporia della critica del diritto: la legge della critica è il diritto e il diritto è la legge della critica. Questa formula aporetica in cui si impiglia il tentativo di una critica del diritto è però al contempo la formula per la sua soluzione, per la via d’uscita dall’aporia. Poiché il diritto, che è diritto della critica, è scisso in sé; esso contiene il proprio altro – l’altro del diritto. In ciò risiede il paradosso del diritto. Il diritto è l’incontro e dunque lo scontro tra la legge della decisione normativa (tra giusto e ingiusto) e la legge della distinzione non normativa (tra diritto come prassi di distinzione normativa e non-diritto come zona di indistinzione normativa). Se dunque il diritto è in prima istanza la legge della critica e se, in seconda istanza, esso è definito dalla paradossale unità di normativo e non normativo, allora in terza istanza la legge della critica è l’unità paradossale di normativo e non normativo. La critica – correttamente intesa e messa in atto – decide in nome della ‘indecidibilità’ [Unentscheidbarkeit]. Non si tratta di un semplice gioco di parole. È la definizione di una critica normativa di ordine superiore. Poiché

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essa definisce un nuovo criterio per ciò che è sbagliato e per ciò che è giusto: definisce uno standard per il giusto e quindi per il vero diritto. Nella seconda parte, Diritto e violenza propone una lettura dell’idea benjaminiana di ‘destituzione’ [Entsetzung] del diritto secondo cui tale idea mira alla realizzazione pratica della critica del diritto in nome della sua unità paradossale – della sua unità in quanto paradosso. Attingendo a uno dei significati originari del termine, il concetto di destituzione viene qui inteso come liberazione32: liberazione del diritto non dal conflitto che lo costituisce, ma per la sua affermazione e dunque per il suo ‘compito libero e non-destinale’ [nichtschicksalhafter, freier Austrag]. Finché la normatività del diritto viene criticata per il suo essere semplice apparenza volta a mascherare la violenza e, viceversa, la violenza del diritto viene criticata per il suo essere mezzo inadeguato per realizzare la sua normatività – finché, dunque, conformemente al dogmatismo della critica volgare, vengono contrapposte come estranee –, i due lati si rovesciano necessariamente l’uno nell’altro. La violenza si rivela ben giustificata e le buone ragioni si rivelano violente. Al contrario, solo quando la critica del diritto viene svolta in nome del suo paradosso, e quindi attraverso il suo compiersi, l’insensato rovesciamento dei due lati può essere sostituito da un rapporto strategico o tecnico. In un frammento di Strada a senso unico, Benjamin parla della tecnica non come «dominio della natura», ma come «padronanza [Beherrschung] del rapporto tra natura e umanità»33. Il dominio tecnico non è la ‘potenza’ [Macht] e il controllo dell’una sull’altra, ma la potenza e il controllo sul loro rapporto. Una critica del diritto svolta in nome del suo paradosso non mira né alla risoluzione del paradosso, né all’accettazione rassegnata della sua irrisolvibilità, quanto piuttosto alla padronanza di esso.

32 Christoph Menke, Recht und Gewalt, cit., pp. 64 sgg. 33 Walter Benjamin, Einbahnstraße, in Gesammelte Schriften, cit., vol. IV, pp. 83148, p. 146; trad. it. Strada a senso unico, in Opere complete, cit., vol. I, pp. 409-463, p. 462.

Entsetzung del diritto: sulla prospettiva critica di Christoph Menke di Giovanni Andreozzi

In questa postfazione ci sembra opportuno offrire uno sguardo d’insieme della prospettiva giusfilosofica avanzata da Christoph Menke, elaborata e riformulata nell’arco di un ventennio attraverso numerosi studi1. Ci concentreremo innanzitutto sul programma della “critica dei 1 Cfr.: Recht und Gemeinschaft – Zum Ort ihres modernen Konflikts, in Christel Zahlmann (a cura di), Kommunitarismus in der Diskussion: Eine streitbare Einführung, Rotbuch, 1992, pp. 24-34; Gnade und Recht. Zu Carl Schmitts Begriff der Souveränität; in «Internationale Zeitschrift für Philosophie», n. 1, 1997, pp. 20-39; Von der Würde des Menschen zur Menschenwürde: das Subjekt des Rechts, in «WestEnd. Neue Zeitschrift für Sozialforschung», n. 2, 2006, pp. 3-21; The “Aporias of Human Rights” and the “One Human Right”: Regarding the Coherence of Hannah Arendt’s Argument, in «Social Research», n. 3, 2007, vol. LXXIV, pp. 739-762; Philosophie der Menschenrechte. Zur Einführung (con Arnd Pollmann), Junius, 2007; Subjektive Rechte: Zur Form der Differenz, in «MenschenRechtsMagazin», n. 2, 2008, vol. XIII, pp. 197-204; Subjektive Rechte: Zur Paradoxie der Form, in «Zeitschrift für Rechtssoziologie», n. 1, 2008, vol. XXIX, pp. 81-108; Das Nichtanerkennbare. Oder warum das moderne Recht keine “Sphäre der Anerkennung” ist, in Rainer Forst, Martin Hartmann, Rahel Jaeggi, Martin Saar (a cura di), Sozialphilosophie und Kritik, Suhrkamp, 2009, pp. 87108; Recht und Gewalt, August Verlag, 2011; Die “andre Form” der Herrschaft. Marx’ Kritik des Rechts, in Rahel Jaeggi, Daniel Loick (a cura di), Nach Marx. Philosophie, Kritik, Praxis, Suhrkamp, 2013, pp. 273-295; Privatrecht, Klagerecht, Grundrecht. Zur Einheit der modernen Rechtsidee, in Martin Breuer, Astrid Epiney, Andreas Haratsch, Stefanie Schmahl, Noman Weiß (a cura di), Der Staat im Recht. Festschrift für Eckart Klein zum 70. Geburtstag, Duncker & Humblot, 2013, pp. 439-452; Sklavenaufstand oder Warum Rechte? Eine Skizze, in Frank Bornmüller, Thomas Hoffmann, Arnd Pollmann (a cura di), Menschenrechte und Demokratie. Georg Lohmann zum 65. Geburtstag, Alber, 2013, pp. 137-157; Die Möglichkeit eines anderen Rechts. Zur Auseinandersetzung mit Andreas Fischer-Lescano, in «Deutsche Zeitschrift für Phi-

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diritti” per poi volgere l’attenzione al rapporto tra diritto e violenza e alla possibilità di quella che Menke chiama Entsetzung del diritto. 1. Il programma di una critica del diritto: tra Kritik der Rechte e Recht und Gewalt Il problema che sta al fondo della riflessione giuridico-filosofica di Menke è così sintetizzato nelle prime pagine di Kritik der Rechte: «Le rivoluzioni borghesi che hanno rovesciato gli ordini tradizionali di dominio a partire dal XVIII secolo sono innanzitutto dichiarazioni di uguali diritti: esse dichiarano i diritti dell’uomo e del cittadino. […] Dimodoché l’atto specifico delle rivoluzioni borghesi non è la decisione dell’uguaglianza, quanto piuttosto la decisione di dare all’uguaglianza la forma dei diritti»2. losophie», n. 1, 2014, vol. LXII, pp. 136-143; Kritik der Rechte, Suhrkamp, 2015; Materialism of Form: On the Self-Reflection of Law, in Kerstin Blome et al. (a cura di), Contested Regime Collisions. Norm Fragmentation in World Society, Cambridge University Press, 2016, pp. 281-297; Der Traum der Rechte. Eine Antwort auf Erhard Denninger, in «Kritische Justiz», n. 4, 2018, vol. LI, pp. 475-478; Die Kritik des Rechts und das Recht der Kritik, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», n. 2, 2018, vol. LXVI, pp. 143-161; Genealogie, Paradoxie, Transformation: Grundelemente einer Kritik der Rechte, in Hannah Franzki, Johan Horst, Andreas Fischer-Lescano (a cura di), Gegenrechte. Recht jenseits des Subjekts, Mohr Siebeck, 2018, pp. 13-31; Law and violence. Christoph Menke in dialogue, Manchester University Press, 2018; Verfassung und subjektive Rechte, in Eric Hilgendorf, Benno Zabel (a cura di), Die Idee subjektiver Rechte, De Gruyter, 2020, pp. 125-134. Si vedano anche le curatele: Eckart Klein, Christoph Menke (a cura di), Menschheit und Menschenrechte. Probleme der Universalisierung und Institutionalisierung. Tagung Potsdam, 7./8. Dezember 2001, Berliner Wissenschaftsverlag, 2002; Idd. (a cura di), Menschenrechte und Bioethik, Berliner Wissenschaftsverlag, 2004; Sibylle van der Walt, Christoph Menke (a cura di), Die Unversehrtheit des Körpers. Geschichte und Theorie eines elementaren Menschenrechts, Campus, 2007; Christoph Menke, Francesca Raimondi (a cura di), Die Revolution der Menschenrechte. Grundlegende Texte zu einem neuen Begriff des Politischen, Suhrkamp, 2011. 2 Christoph Menke, Kritik der Rechte, cit., p. 7. Nei primi due capitoli del libro (Legalisierung des Natürlichen e Ontologie: Der Materialismus der Form), Menke ricostruisce il passaggio dal diritto della giustizia consolidatosi nell’antichità e quello della legalità, tipicamente moderno. La rottura del diritto moderno si consolida nella distinzione tra ‘il diritto’ [das Recht], inteso come ordine della giustizia, e ‘un diritto’

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La Rivoluzione francese e la Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen aprono a una nuova epoca: crolla definitivamente la società feudale e, attraverso il diritto borghese, viene affermata l’uguaglianza dei cittadini. E tuttavia, le disuguaglianze non sono cessate, né le pratiche discriminatorie e i privilegi, garantiti dal diritto stesso. A quale prezzo, dunque, si è raggiunta l’uguaglianza dei cittadini? In Kritik der Rechte, Menke attinge a diverse piattaforme teoriche – Marx, Weber, Nietzsche, Foucault –3 per ricostruire e decostruire la genesi del diritto borghese, cercando altresì di configurare la possibilità del suo superamento. Tale procedimento, pur alludendo al “non ancora” e alla possibilità del totalmente altro, parte da quelle risorse immanenti al diritto borghese stesso, alla sua valenza emancipativa, la quale risulta bloccata a causa del suo stesso funzionamento. Lontano dalla prospettiva pragmatico-sistemica, secondo la quale il diritto – al pari di altre dimensioni – si configura come Lernprozess capace di riflettere sui propri deficit e, quindi, correggerli, Menke mostra come questa correzione sia sempre soggetta al fallimento. [ein Recht], inteso come rivendicazione soggettiva. A differenza del diritto ateniese e romano, i quali si reggevano rispettivamente sull’educazione alla virtù e sull’ordine della ragione, il diritto moderno legalizza la spinta naturale all’autoconservazione. La funzione primaria ed essenziale del diritto diventa la tutela delle rivendicazioni soggettive. Nei capitoli successivi (Kritik: Die Ermächtigung des Eigenen e Revolution: Die Dialektik des Urteilens), Menke analizza le differenti forme di diritto: il diritto borghese, quello sociale e quello comunista. Le prime due forme di diritto condividono l’assunzione del primato della volontà privata del singolo. Questo assunto fondamentale viene poi distinto nella forma borghese di diritto – il diritto come garanzia della libertà negativa – e nella forma sociale di diritto – che concepisce il diritto come antidoto agli effetti disgreganti dell’individualismo affermato dal diritto borghese. Il comunismo sembra andare oltre questa “solidarietà antitetico-polare” con il suo progetto di wahre Demokratie, nella quale la scissione tra bourgeois e citoyen è definitivamente superata e l’uguaglianza raggiunta non solo nella sfera politica, ma nell’interezza della realtà sociale. E tuttavia, anche questa terza alternativa non è sufficiente. 3 Max Horkheimer, Traditionelle und kritische Theorie, in Gesammelte Schriften, 19 voll., a cura di A. Schmidt, G.Schmid Noerr, Fischer, 1985, vol. IV, pp. 162-216; trad. it. Teoria tradizionale e teoria critica, in Teoria critica. Scritti 1932-1941, 2 voll., a cura di G. Backhaus, Einaudi, 1974, vol. II, pp. 135-186. Caratteristica nelle analisi svolte da Menke non è soltanto l’ampiezza tematica e interdisciplinare, riattivando in tal modo quell’esigenza che caratterizza fin dal celebre saggio di Horkheimer – Teoria tradizionale e teoria critica – la Scuola di Francoforte, ma anche la capacità di intessere nessi originali tra tradizioni filosofiche distinte – se non addirittura opposte tra loro.

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Il riferimento è qui al Marx de La questione ebraica, in cui il filosofo di Treviri mostra come la scomposizione dell’assetto feudale in società civile e Stato e la conseguente scissione tra bourgeois e citoyen comportino una riconfigurazione della politica in termini puramente strumentali. L’uguaglianza dei cittadini è dunque parvente, dacché essa si radica su una Legalisierung des Natürlichen, e cioè in una ‘legalizzazione della volontà soggettiva’ intesa in senso solipsistico ed egoistico che intende il diritto come proprietà del singolo. In questa dinamica, la politica deve esclusivamente “garantire” l’esistenza di tale assetto proprietario. È qui che Menke scorge la Entmächtigung der Politik: la politica – in senso borghese – non governa, ossia non propone forme di convivenza e trasformazione di quelle esistenti, ma garantisce e cristallizza l’esistente e i rapporti di dominio vigenti. La rivoluzione politica, lungi dall’emancipare l’uomo dall’egoismo e dall’ineguaglianza, ha avuto come risultato paradossale quello di fissare la disparità/discrasia nel cuore dell’ordinamento giuridico. Da qui nasce la necessità di una critica dei diritti, che non avvenga all’interno delle coordinate del liberalismo, il quale non può far altro che registrare e deprecare moralisticamente l’insufficienza degli ordinamenti esistenti e la loro applicazione non priva di contraddizioni. La critica dei diritti deve andare oltre ciò, attaccandone la forma stessa. La critica che Menke si propone di svolgere è una critica immanente del diritto, o meglio della forma del diritto. «Prima del contenuto, dello scopo e dell’effetto dei diritti viene la loro forma. Questa, infatti, non è una forma neutra»4. Il diritto borghese parte dall’assunto fondamentale che il prius è la volontà del singolo cittadino, la quale – in tal modo – viene neutralizzata e naturalizzata come un dato di fatto. Ecco perché, nella forma borghese del diritto, la società è il «System der Atomistik»5 e la libertà altro non è che la libertà dell’arbitrio6. La 4 Christoph Menke, Kritik der Rechte, cit., p. 9. 5 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 1830, in Gesammelte Werke XX, a cura di W. Bonsiepen, H.C. Lucas, Meiner, 1992, par. 523. 6 Contro l’atomismo sociale si veda Panajotis Kondylis, Das Politische und der Mensch. Grundzüge der Sozialontologie, 3 voll., De Gruyter, 1999. Sull’alternativa alla libertà come arbitrio si veda Theo Kobusch, Die Kultur des Humanen. Zur Idee der

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forma dei diritti soggettivi è dunque legata ontologicamente al sistema dell’atomistica e normativamente alla libertà dell’arbitrio. Il diritto borghese – il diritto nella forma dei diritti soggettivi – è in contraddizione con se stesso. Questo perché l’operazione fondante il diritto moderno – che Menke chiama «autoriflessione» – assume con la rivoluzione borghese il modo di una “negazione”, o meglio di un ‘diniego’ [Verleugnung] di se stessa7. «La rivendicazione della rivoluzione è l’uguaglianza. Tale proposito viene realizzato dalla rivoluzione costituzionale borghese attraverso la dichiarazione dei diritti uguali: la dichiarazione dell’uguaglianza, nella costituzione borghese, coincide con la dichiarazione dei diritti, con la definizione della forma dei diritti soggettivi»8. Il problema, quindi, non è che i princìpi di fratellanza, uguaglianza e libertà siano stati codificati nella forma giuridica. Il problema risiede nella particolarità di questa forma, in quanto i diritti sono innanzitutto diritti soggettivi. Il diritto borghese reclama la passività, ossia la tutela della propria volontà privata, ossia isolata. Il processo di produzione e di riproduzione non fa altro che estendere questa forma di “privatezza” a tutte le dinamiche sociali-oggettive. Ecco perché il borghese, proprio come lo schiavo, non può trasformare lo status quo e, nel momento in cui pone l’uguaglianza “nel cielo del suo mondo politico”, legittima le disuguaglianze sociali vigenti. La critica dei diritti, dunque, è la critica della forma che il diritto assume nella società borghese: la forma dei diritti soggettivi. Freiheit, in Adrian Holderegger (a cura di), Humanismus. Sein kritisches Potential für Gegenwart und Zukunft, Schwabe Verlag, 2011, pp. 357-386. 7 Il modo alternativo che si è realizzato storicamente con la rivoluzione comunista rovescia questa negazione, e nel tentativo di spezzare la violenza del diritto – il tema che affronteremo anche in seguito – non fa che riprodurre lo schema duale tra un signore e un servo, assumendosi l’incarico di rendere signori tutti i cittadini. È interessante notare come la considerazione “ontologica” e l’attenzione rispetto a questi continui rovesciamenti metta in luce uno dei maggiori punti di riferimento di Menke, ossia Hegel. Oltre ad aver dedicato diverse monografie al filosofo di Stoccarda, Menke sembra aver fatto propria la lezione della Scienza della logica e della “totalizzazione” che si raggiunge nella sfera della riflessione. Nella Dottrina dell’essenza, infatti, Hegel espone i rovesciamenti reciproci delle determinazioni, le quali, giacché totalmente ancorate all’immanenza del movimento riflessivo, non riescono a produrre un’effettiva trasformazione. 8 Christoph Menke, Kritik der Rechte, cit., p. 337.

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La critica dei diritti proposta da Menke intende dunque considerare la forma giuridica e attenersi strenuamente ad essa. Non si tratta di ritrovare una normatività extragiuridica, la quale sarebbe costantemente minacciata dal diritto inteso come apparato di codificazione e controllo. Né si tratta di sminuire l’astrattezza degli ideali della Rivoluzione francese – uguaglianza, libertà, fratellanza – in nome di un primato delle differenze culturali; un primato a sua volta astratto in quanto si rifiuta di pensare – ed elaborare – il nesso tra particolarità e universalità. La critica si muove all’interno della «ontologia del diritto», mostrandone le fratture e le possibilità trasformative9. D’altro canto, la critica investe anche la forma alternativa del diritto realizzata dalla Rivoluzione comunista. Rovesciando semplicemente il modo “negativo” della forma borghese – il diritto in quanto limitazione e salvaguardia della sfera individuale –, la Rivoluzione comunista ha tentato di attuarne un modo “positivo” attraverso il quale la violenza del diritto fosse definitivamente spezzata. La forma “comunista” ha quindi supinamente assunto il dualismo – condiviso anche dal borghese – tra un signore e un servo, assumendosi l’incarico di rendere signori tutti i cittadini10. A quest’altezza teorica si situa la ripresa del concetto nietzschiano di Sklavenaufstand [‘rivolta degli schiavi’], che Menke connette tanto alla rivoluzione borghese, quanto a quella comunista. Il soggetto borghese è schiavo in quanto reclama un diritto negativo, incentrato sulla sua ‘protezione’ [Berücksichtigung], esclusivamente per limitare la forza del signore. In tal modo, il soggetto borghese accetta e certifica la propria passività come ineliminabile. Contrariamente a ciò, il soggetto comunista pone un diritto affermativo che coincide con la capacità di creare nuovi valori: capacità propria dei signori. Il rendersi signore è quindi la premessa fondamentale dell’uguaglianza, la quale dunque finisce col dipendere interamente dall’attività politica. 9 È questo il gesto fondamentale che inscrive la proposta di Menke nella prospettiva della Scuola di Francoforte. Il suo tentativo, inoltre, sembra essere ben consapevole della paradossalità della critica immanente, e cioè una critica che, pur attenendosi al piano dell’immanenza da cui ricava la sua stessa forza, non intende esaurirsi in essa. 10 Bisogna notare che l’alternativa comunista – e da ciò anche il suo limite – viene presentata da Menke in modo un po’ troppo rigido, imputandole una costrizione alla partecipazione politica che non lascia spazio alla possibilità di realizzare l’uguaglianza, pur senza partecipare all’attività politica.

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Per corrodere questa falsa alternativa, Menke propone la figura euristica e altamente provocatoria dei Gegenrechte. In essi riluce la possibilità di un’emancipazione veramente realizzata. La passività affermata dialetticamente dai Gegenrechte è a sua volta una capacità trasformativa, sciolta dall’antitesi tra un potere costituente e un potere costituito, ed è dunque diversa dalla passività certificata dal diritto borghese. La passività, in tal senso, affrancherebbe l’individuo dal suo appiattimento sulla sfera politica, continuando altresì a garantirgli la possibilità della partecipazione ad essa. Si comprende, dunque, che la proposta di Menke non intende unilateralmente criticare la forma borghese dei diritti soggettivi per sostenere la superiorità o quantomeno la preferibilità della forma “comunista”. Detto altrimenti, lo sforzo compiuto e al contempo richiesto da Menke non è quello di abbracciare l’alternativa “comunista” a fronte delle contraddizioni intrinseche al diritto borghese. Piuttosto invita a soggiornare nelle fratture e nelle discrasie della forma giuridica cercando di individuarne un’altra – possibile – realizzazione. Nel diritto v’è dunque un contro-diritto che ne limita la violenza ma che non può estinguere la violenza – poiché è sempre “diritto”. Il contro-diritto rivolge a se stesso la violenza della propria forma trasformandola: «La violenza del nuovo diritto è la violenza della liberazione»11. La conclusione di Kritik der Rechte lascia dunque aperta la domanda su cosa sia questo “nuovo diritto” e in cosa differisca il suo rapporto con la violenza rispetto al diritto borghese. Sono questi i nuclei problematici attorno a cui si muove Diritto e violenza. Con Recht und Gewalt, Menke propone un’interpretazione critica e genealogica del rapporto tra diritto e violenza. Attraverso una lettura di tre tragedie – Agamennone, Eumenidi, Edipo Re –, nel primo capitolo Menke analizza il paradosso che da sempre accompagna il diritto: nato per porre fine alla violenza, il diritto la reitera subendone lo stesso destino. La seconda parte del testo, sviluppando le suggestioni di Walter Benjamin, è rivolta alla «destituzione» del diritto, la quale per Menke, contrariamente ad altri prosecutori dell’indagine benjaminiana, non si configura né come “sospensione”, né come “superamento” del diritto, ma nemmeno come occultamento dei paradossi 11 Christoph Menke, Kritik der Rechte, cit., p. 407.

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che lo costituiscono. Menke mostra come la ‘destituzione’ [Entsetzung] del diritto necessiti di una rinnovata riflessione sul rapporto tra fattualità e normatività. Il punto di partenza è il seguente: la violenza, lungi dall’essere soltanto contenuta ed evitata dal diritto, è impiegata da esso nella misura in cui la violenza dell’uno sull’altro – violenza del e sul particolare – viene tradotta, attraverso la procedura giuridica, in una violazione della legge – violazione dell’universale. Differentemente dalla violenza reciproca, che si consuma in una dinamica concreta e sempre determinata, la violazione della legge premette questo processo di astrazione. Qualcosa può essere definito “illecito” soltanto se non rispetta una norma generale e, dunque, la vìola. Il diritto, quindi, non ha a che fare con le violenze, ma con la violenza, ossia con quell’azione che contravviene alla regola generale dell’uguaglianza delle persone. Ogni azione che vìola l’uguaglianza dei cittadini è dunque un illecito. Queste conclusioni, che Menke condivide con la teoria giuridica di stampo liberale, sono in realtà il punto di partenza per estendere l’analisi e considerare l’altro polo: quello del diritto. Il diritto, infatti, non solo combatte la violenza, ma la esercita a sua volta: «Il diritto è contemporaneamente esterno al e affermazione di ciò che gli è esterno. In ciò risiede l’intrascendibile violenza del diritto»12. Riguardo ai precursori di questa indagine volta al “paradosso” del diritto – in quanto limitazione ed esercizio di violenza –, Menke si richiama rapidamente al giovane Hegel e a Derrida. Tuttavia, oggetti principali del discorso sono la tragedia antica e il testo fondamentale di Benjamin Per la critica della violenza13. 12 Christoph Menke, Reply, in Law and violence. Christoph Menke in dialogue, cit., p. 208. 13 È forse questo l’aspetto più interessante dell’analisi di Menke. Un aspetto interessante che ha suscitato altrettante perplessità. Secondo Fersini si tratta infatti di un vero e proprio errore metodologico che depotenzia la proposta teorica di Menke: «La distinzione tra diritto premoderno e diritto moderno serve a verificare, se così si può dire, la resistenza del paradosso e, soprattutto, a valutare se sia possibile parlare, come fa Menke, di un paradosso generico del diritto, nella sua interazione con la violenza, o se, piuttosto, si possa e si debba parlare di una contraddizione insolubile, che si situa alla base del binomio diritto/violenza, solo a partire da una determinata epoca storica» (Maria Pina Fersini, Diritto e violenza. Un’analisi gius-letteraria, Firenze University Press, p. 24). L’obiezione della Fersini di estendere senza riguardi il

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Il programma di una Kritik der Rechte, come abbiamo visto, parte da questo ineludibile paradosso che costituisce il diritto. Di conseguenza, risultano insoddisfacenti quelle analisi che semplicemente rimuovono il paradosso, affermando unilateralmente solo una componente del diritto: «Sia il concetto idealistico di diritto che quello realistico devono essere respinti: il primo intende per diritto nient’altro che l’ordine normativo di riconoscimento che assicura a ogni persona l’uguale status; l’altro riduce il diritto a una disposizione fattuale della forza che assicura le condizioni dell’obbedienza»14. Il paradosso, però, impone di procedere oltre: il diritto è tanto l’ordine normativo di riconoscimento quanto la disposizione della violenza che assicura il rispetto del diritto, ma altrettanto non può essere entrambe le cose. L’impulso sorgivo del diritto di opporsi alla violenza – a quella violenza particolare esercitata dall’uno sull’altro – gli impedisce di essere indifferente non solo nei confronti di questa violenza, ma anche di quella che lui stesso esercita. La difficoltà di fronte alla quale ci pone il paradosso del diritto non è solamente il fatto che il diritto contiene due determinazioni tra loro incompatibili (il diritto è tanto lotta alla violenza, quanto esercizio di violenza). Piuttosto – come sottolinea Menke – è necessario considerare anche l’incompatibilità delle due relazioni: il diritto combatte la violenza particolare, giustificando il proprio esercizio della violenza. Altrettanto però il diritto si rivolge contro se stesso, limitando il suo stesso esercizio della violenza. «Il diritto solleva costantemente obiezioni contro se stesso, contro l’esistenza del diritto. Esso stesso vuole abolire il diritto»15. Con una duplice mossa, Menke mostra l’immanenza della critica al diritto e, a sua volta, giustifica il proprio programma di una Kritik der Rechte. Criticare indica l’atto del giudizio, la distinzione normativa concetto analizzato – la violenza – al di là del suo specifico contesto storico-genetico non coglie nel segno, in quanto la tesi dialettica sostenuta da Menke è ben consapevole della distinzione tra diritto antico e diritto moderno, che egli specifica attraverso il confronto tra la tragedia antica e la commedia di Kleist. L’attenzione alla dialettica immanente al diritto, la sua emersione dall’ordine della vendetta assieme all’interiorizzazione della violenza nel processo di soggettivazione, viene così coniugata in una genealogia della teoria giuridica con riferimento ai due generi letterari che assumono un ruolo paradigmatico. 14 Christoph Menke, Reply, cit., p. 209. 15 Ibidem.

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tra giusto e sbagliato. Da un lato, il diritto ha bisogno della critica, in quanto la sua violenza non è mai neutrale dal punto di vista normativo: la decisione critica è ciò che permette di distinguere, all’interno del diritto, la distinzione tra opposizione alla violenza ed esercizio della violenza. Dall’altro lato – e qui il paradosso –, tale distinzione non può essere stabilita normativamente. Non c’è un criterio normativo a partire dal quale dedurre questa distinzione. «Poiché le due facce sono intrecciate, la distinzione che caratterizza il diritto è indistinguibile e dunque indecidibile»16. Il diritto richiede la critica e tuttavia ne pregiudica lo svolgimento. La critica al diritto ricade, a sua volta, sul piano della procedura quanto su quello della giustificazione, nell’oggetto criticato: il diritto della critica. Così come il diritto, a causa del proprio impulso a contrastare la violenza, si rivolge contro se stesso, anche la critica non può sottrarsi a questo movimento riflessivo, mettendo in discussione la sua stessa possibilità di esistenza – mettendo in dubbio la giustificazione stessa. Nella misura in cui intende rendere giustizia all’oggetto criticato – il diritto –, la critica «porta se stessa a processo»17. La scommessa teorica di Menke consiste nell’operare una distinzione metodologica e, al contempo, tenere insieme i due complessi problematici. Da un lato, c’è bisogno di una ricostruzione dialettica e genealogica del diritto, mostrandone il paradosso immanente: opposizione alla violenza ed esercizio della violenza. Il secondo passo consiste nel mostrare una possibile alternativa, che non elude il paradosso, ma anzi lo sviluppa fino in fondo. In ciò consiste l’«autoriflessione del diritto»: una riflessione genealogica compiuta dal diritto che è allo stesso tempo la critica della propria violenza. La proposta di Menke ha sollevato un grande dibattito, non solo in ambito tedesco. Le critiche che ha ricevuto possono essere riassunte in due punti fondamentali: 1) è corretto affermare che l’esercizio della violenza definisce il diritto? 2) In che modo l’autoriflessione del diritto sarebbe capace di superare la violenza, attuando quindi una forma diversa di diritto?

16 Ivi, p. 210. 17 Ivi, p. 211.

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2. Diritto e/è violenza Daniel Loick contesta all’impostazione di Menke di aver trasposto nell’essenza del diritto ciò che, in realtà, appartiene solo al lato strumentale: «La violenza non è una parte costitutiva del diritto, ma un suo attributo specificamente storico»18. Certo, diritto e violenza sono connessi, ma solo nel senso che la seconda “può” essere lo strumento di attuazione del primo. Ad avvalorare la tesi della strumentalità della violenza, e dunque della sua non immanenza al diritto, sarebbe la sua «inefficacia empirica»19. Il difetto di questa impostazione, secondo Menke, è la scarsa considerazione del problema della “forma” giuridica. È da essa che deriva la necessità della violenza nel diritto. A questo punto, si comprende ancor di più il riferimento costante – tanto in Kritik der Rechte quanto in Recht und Gewalt – alla tragedia. L’esperienza tragica del diritto mostra in cosa consista la sua violenza. Lungi dall’essere semplice strumento, la violenza inerisce completamente alla normatività giuridica: «Nella forma giuridica, la normatività non può che manifestare se stessa in atti di violenza. Questo perché la normatività giuridica è definita dalla relazione al non normativo: la normatività del diritto è costitutivamente estrinseca; essa è l’“altro” del non normativo»20. A differenza della normatività etica, fondata sulla virtù e sulla “naturale” inclinazione a realizzarla, la normatività giuridica presuppone l’illecito. Essa, cioè, considera come stato iniziale la possibilità della trasgressione alle regole che intende stabilire e che esse non vengano rispettate «in modo naturale»21. La violenza del diritto risiede nella forma giuridica. Sul piano strumentale, infatti, la violenza è definita dai suoi effetti: 18 Daniel Loick, Law without Violence, in Law and violence. Christoph Menke in dialogue, cit., pp. 96-111, p. 102. 19 Ivi, p. 99. 20 Christoph Menke, Reply, cit., pp. 213-214. 21 Genealogia e trasformazione vengono dunque reciprocate attraverso il recupero della questione ontologica – un’impostazione che distingue la prospettiva critico-dialettica di Menke da quella critico-ricostruttiva di Rainer Forst. Cfr. Rainer Forst, Normativität und Macht: Zur Analyse sozialer Rechtfertigungsordnungen, Suhrkamp, 2015; trad. it. Normatività e potere, a cura di A. Volpe, Mimesis, 2021.

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violenza è ciò che, dall’esterno, vìola, rompe e scompagina l’equilibrio e il funzionamento di un certo ordine. Sul piano ontologico, invece, la violenza coincide col manifestarsi del normativo nel suo imporsi nei confronti del non normativo. La violenza del diritto «in senso ontologico è la manifestazione non normativa delle sue richieste normative»22. Sarebbe un errore sostenere, come è stato fatto da Alessandro Ferrara, che questa tesi ontologica della violenza del diritto sarebbe una versione aggiornata della tesi di Schmitt di una violenza «originaria» o «iniziale» del diritto. Questo perché si riporterebbe il discorso sul piano strumentale; un discorso incapace di accorgersi e comprendere il paradosso del diritto, riducendo la violenza del diritto a semplice strumento della sua imposizione. Questo fraintendimento è palese nell’equiparazione, sostenuta da Ferrara, di crimine e rumore, ritenuti entrambi fenomeni perturbanti: «Per quanto ineliminabile, il crimine sta al fondamento normativo del diritto di proprietà come il rumore alla comunicazione: un fastidio da tenere in considerazione e da neutralizzare, ma che però non è di grande importanza»23. È qui evidente – lo stesso Ferrara lo esplicita – l’approccio della teoria giuridica di stampo liberale, completamente refrattario al problema della forma. Il liberalismo ritiene che la normatività sia «connaturata alla vita sociale (in accordo con il principio ubi societas, ibi ius)»24. Ecco perché, secondo Menke, il normativismo di stampo liberale non è altro che una forma di naturalismo: il liberalismo considera la normatività del diritto la seconda natura della vita sociale, rimuovendo quindi il problema e la domanda stessa sulla forma giuridica. Se compisse questo passo, il liberalismo riconoscerebbe come alla base della normatività c’è la differenza irriducibile tra la normatività del diritto e tutte le altre dimensioni in cui consiste la “natura” del sociale. A questo punto, il discorso di Menke potrebbe essere avvicinato al paradigma habermasiano della «colonizzazione». Il diritto colonizzerebbe le altre sfere sociali, negandone il funzionamento autonomo. In tal senso, Ferrara, come poi anche Ben Morgan, attribuisce a Diritto e 22 Christoph Menke, Reply, cit., p. 214. 23 Alessandro Ferrara, Deconstructing the deconstruction of the law: reflections on Menke’s “Law and violence”, in Law and violence. Christoph Menke in dialogue, cit., pp. 112-136, p. 118. 24 Ivi, p. 126.

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violenza la tesi secondo cui il diritto stia «sopprimendo o assoggettando ciò che è altro – sia esso un individuo, una nazione o una forma di vita – che non è riducibile al diritto, né alla sua forma»25. Certo, si può convenire che il diritto è una specifica modalità di comunicazione sociale caratterizzata da un sistema proprio di regole normative. E tuttavia, la normatività del diritto si estende alle altre “sfere” stabilendo che l’adeguatezza alla normatività sia il criterio principale per l’accettabilità di tutte le altre forme di comunicazione sociale: «Il diritto pretende di definire e, se necessario, di imporre, in ogni sfera sociale e in ogni forma di comunicazione, le condizioni minime per la legittimità di ogni atto»26. Nel nome dell’uguaglianza dei cittadini, il diritto sottomette la soggettività alla normatività giuridica, imponendole la forma nuova dell’autonomia. Per essere autonomo, infatti, il soggetto deve interiorizzare il “diritto del diritto”. Questa figura, che coincide con la natura “politica” del diritto e su cui Menke ritorna in diversi punti della sua produzione scientifica, viene ricondotta e intersecata con la tragedia antica, e in particolare all’Edipo Re di Sofocle. La storia di Edipo è la messa in scena di questa relazione paradossale del soggetto autonomo come soggetto non autonomo che si conclude con l’autocondanna, proprio come il diritto condanna i suoi soggetti a riconoscersi colpevoli. La natura “politica” del diritto, il suo essere processo trasformativo non definito in modo assoluto, risiede nel fatto che la pretesa giuridica di rappresentanza coincide con il tradimento di questa rappresentanza (in ciò Menke si avvicina al discorso di Acosta27). La rappresentanza giuridica non è niente di neutro, ma anzi trasforma ciò che è “esterno al diritto” in qualcosa di legale, l’individuo in persona (giuridica). La politicizzazione del diritto, in tal modo, è tutt’altro che il «consenso negoziato» di cui parla Ferrara28. Essa è invece la messa 25 Ivi, p. 121. Da notare come Morgan si spinga anche oltre la tesi di Ferrara. Se quest’ultimo sostiene che il rapporto del diritto alle altre sfere è di «indifferenza», Morgan ritiene che si tratti di un rapporto di «riconoscimento». Ma ciò significa proprio che c’è un rapporto. 26 Christoph Menke, Reply, cit., p. 218. 27 María del Rosario Acosta López, Between law and violence: towards a rethinking of legal justice in transitional justice contexts, in Law and violence. Christoph Menke in dialogue, cit., pp. 79-95. p. 90. 28 Alessandro Ferrara, Deconstructing the deconstruction of the law, cit., p. 114.

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in luce dell’ingiustizia che sta al fondo del programma giuridico di una rappresentanza equa. Anche questa tesi ha incontrato alcune critiche. Fischer-Lescano e Loick contestano la coincidenza tra diritto e produzione di unità politica. Il diritto internazionale, infatti, mostra l’indipendenza della procedura giuridica dalla singola comunità politica. Quelle del diritto internazionale sono «forme di legiferazione al di là della comunità politica concepita come singola unità»29. Il difetto di questa interpretazione, per certi versi analoga a quella di Ferrara, è che l’unità politica viene considerata come qualcosa di dato e di esterno al diritto. Esisterebbe una comunità che precede il processo di giuridificazione. Menke intende ribaltare questa impostazione, a suo modo “naturalistica”, mostrando come l’uguaglianza astratta sia generata dal diritto: «Il diritto crea la comunità di uguali – non dipende da essa come qualcosa di pre-dato»30. Ma l’inclusione degli individui nella comunità di uguali è a sua volta un’esclusione delle altre forme di vita, tradendo la sua promessa di rappresentanza “universale” nel momento stesso in cui la istituisce nella forma giuridica. Tanto Fischer-Lescano quanto Loick riconoscono questa difficoltà, ma la risolvono nel tentativo di concepire una forma del diritto che mantenga la promessa di uguaglianza, rinunciando alla natura “politica” – tendente all’unità e coagulantesi in una comunità. Per Menke, questa soluzione è insoddisfacente, proprio perché in assenza della comunità di uguali non può esserci alcuna giustizia giuridica. Ma ciò ci riporta al problema della violenza del diritto. «Questo è il paradosso del diritto, la sua ironia e la sua tragedia»31. 3. L’autoriflessione del diritto Per tentare di comprendere cosa significhi «autoriflessione del diritto» è innanzitutto utile richiamarsi alla precisazione di Menke riguardo alla figura benjaminiana della Entsetzung. Seguendo Agam29 Andreas Fischer-Lescano, Postmodern legal theory as critical theory, in Law and violence. Christoph Menke in dialogue, cit., 167-192, p. 176. 30 Christoph Menke, Reply, cit., p. 221. 31 Ibidem.

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ben, Menke considera opposte e incompatibili la Entsetzung di Benjamin e la «sospensione» di Schmitt. Questa precisazione è tuttavia meno interessante dello scavo terminologico compiuto da Menke che risale a Schelling come possibile fonte di Benjamin. Con Entsetzung, Schelling intende il «rimuovere qualcosa dal suo posto» e traduce il greco ἔκστασις. Con questo scavo etimologico, tuttavia, Menke non intende assumere il significato schellinghiano, in quanto la Entsetzung «non può significare la rimozione del diritto dal suo posto sbagliato, poiché il diritto è e rimarrà sempre nel posto sbagliato»32. L’etimologia ha piuttosto un’importanza euristica, in quanto permette di riconoscere la natura essenzialmente ambivalente della Entsetzung33. Destituire il diritto non significa rimuoverne la violenza; piuttosto porre in atto il reciprocarsi di diritto e violenza in un modo diverso. Sarebbe impossibile ripercorrere interamente l’ampio dibattito giuridico-filosofico sviluppatosi attorno a questa tesi dell’autoriflessione del diritto. Possiamo tuttavia riassumere la grande obiezione rivolta alla proposta di Menke. I suoi argomenti sarebbero troppo filosofici e, in fondo, ciechi nei confronti della concreta pratica legale. Questa astrattezza impedirebbe a Menke di cogliere il potenziale trasformativo del diritto. Questo misconoscimento deriverebbe, in ultima analisi, dall’eccessiva insistenza sul paradosso del diritto, la quale non lascia spazio e anzi blocca qualsiasi prospettiva di trasformazione. La stessa autoriflessione del diritto, schiacciata nell’immanenza del paradosso, non farebbe altro che riprodurre la logica astraente e identitaria del diritto, e dunque la sua violenza. L’unico modo per attivare l’utopia insita nella critica del diritto è quello di ridimensionare il paradosso – l’inscindibile intreccio di opposizione alla violenza ed esercizio della violenza – stabilendo una nuova forma del diritto che la faccia finita con la violenza. Questo ridimensionamento è evidente nella proposta di Fischer-Lescano, secondo il quale «la giustizia utopica che verrà può essere concepita soltanto trascendendo il diritto»34. 32 Ivi, p. 223. 33 È interessante notare che nell’edizione inglese Menke traduce con «relief», un «sollievo» che è anche un «rimedio». 34 Andreas Fischer-Lescano, Postmodern legal theory as critical theory, cit., p. 170.

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Ma l’utopia che non si fa carico del paradosso del diritto non può evitare la tragedia della sua violenza. Fischer-Lescano ritiene che il diritto possa contribuire alla creazione di una società giusta solamente se spezza il cerchio magico che lo unisce alla violenza. Ciò vuol dire che il diritto non dovrebbe più apporsi alle pratiche sociali esterne, quanto piuttosto attivarne la forza all’interno del diritto stesso. Ma – ed è qui la tragedia – il diritto che trascendesse la propria violenza perderebbe la sua forza trasformativa. «Quando ci si pone, come fa Fischer-Lescano, la domanda su come il diritto possa contribuire a creare una società giusta, si deve rinunciare al desiderio di trascendere la violenza del diritto»35. Sta qui l’importanza della Entsetzung: la violenza non può esser trascesa, ma depotenziata. È questo un punto molto importante, su cui intendiamo soffermarci. Se, riprendendo Benjamin, la violenza del diritto è destinale in quanto costringe il diritto a perpetuarla, al fine di conservare la forma giuridica della normatività, è ovvio che la «destituzione» del diritto non significa privarlo della sua forza, giacché in tal caso il diritto non avrebbe alcuna capacità trasformativa. Destituire il diritto significa spezzare la costrizione della sua applicazione. La violenza nell’applicazione del diritto consiste proprio nella univocità della sua attuazione. Detto in altri termini: depotenziare il diritto significa spezzare quell’univocità rendendola un’applicazione possibile (tra le altre), la quale può o meno essere accolta. L’Entsetzung del diritto «intende politicizzare la sua applicazione violenta e trasformare una necessità obbligata in una questione strategica»36. Proprio in questa frase è possibile cogliere la specificità della proposta di Menke. La violenza non deve né può essere rimossa. È questo il risultato dell’autoriflessione del diritto: la tragedia nel diritto è la sua immanente e intrascendibile relazione alla violenza. Ma l’autoriflessione del diritto lo apre alla dimensione propriamente politica, e dunque al problema dell’applicazione. Applicare il diritto significa impiegare la violenza: politicizzare il diritto significa governare la violenza. A questo punto, Menke introduce un altro concetto teoreticamente molto denso e che non lascia dubbi sulle coordinate teoriche entro 35 Christoph Menke, Reply, cit., p. 228. 36 Ibidem.

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cui si muove la riflessione del filosofo tedesco: il risultato dell’autoriflessione del diritto è «un’unità, o totalità»37. Il diritto interiorizza l’altro da sé, ma questo movimento trasforma il diritto stesso. Riprendendo le argomentazioni di Düttmann, Menke sostiene che solamente con una doppia trasformazione dell’autoriflessione – una riflessione che trasforma il proprio riflettersi non riproponendo il giudizio come risultato – può realizzarsi la trasformazione del diritto. Pur condividendo questo presupposto di una trasformazione dell’autoriflessione, Menke si allontana dalla conclusione di Düttman, e questo allontanamento mostra ancora una volta la consapevolezza da parte di Menke della difficile problematica della sua tesi e tuttavia del costante sforzo di soffermarsi su queste tensioni, senza cercare di affievolirle. L’«ordine normativo» e le «strategie di rottura» – riprendendo i termini di Düttmann –38 non possono essere scissi in quanto «la rottura del diritto sorge dal diritto stesso. È il concetto stesso di diritto, la sua essenza intrinsecamente scissa, che rende possibile la rottura»39. La contraddizione tra diritto e violenza viene reiteratamente misconosciuta dal liberalismo. Contro la narrazione e l’ideologia liberale che proclama la fine della violenza attraverso e grazie all’imporsi del diritto, Menke ne mette in luce l’inscindibile rapporto dialettico. L’acquisizione fondamentale del programma di una “critica dei diritti” è proprio il recupero apertis verbis della dialettica e delle sue coordinate: negatività, movimento, contraddizione. La critica – e con ciò Menke si situa pienamente nella tradizione della Scuola di Francoforte – può essere giustificata assiologicamente ed effettuata praticamente soltanto se è critica immanente, ossia capace di mostrare le intrinseche contraddizioni del contenuto verso cui la critica si rivolge. E così, se il punto di partenza dell’itinerario mostrato da Menke coincide con la narrazione liberale secondo cui il diritto moderno segna il passaggio dalla giustizia della vendetta a quella, appunto, del diritto, che fa rispettare la legge in nome dell’uguaglianza dei cittadini, le strade poi divergono, in quanto Menke mostra come la violenza sia connaturata al diritto, anche quello moderno. Il vero cambiamento 37 Ivi, p. 229. 38 Alexander García Düttmann, Self-reflection, in Law and violence. Christoph Menke in dialogue, cit., pp. 193-204, p. 203. 39 Christoph Menke, Reply, cit., p. 228.

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effettuato dal diritto, quindi, non è la scomparsa della violenza, ma la sua interiorizzazione da parte dei soggetti. Ordine della vendetta e ordine dell’uguaglianza si ribaltano l’uno nell’altro, e ciò smentisce l’auto-narrazione del liberalismo che pretende il diritto come emersione dallo stato di natura e distacco da esso. Come abbiamo cercato di mostrare, il carattere di novità della proposta di Menke risiede proprio nel modo in cui svolge la sua indagine, mostrando in tutta la loro tragicità i vicoli ciechi e le contraddizioni della teoria giuridica liberale. Il riferimento alla tragedia non intende essere iperbolico. Essa, infatti, non è altro che «il genere del diritto», anche quello moderno, poiché mostra in cosa consiste in realtà l’idea, sostenuta anche dal liberalismo, dell’obbedienza – autoimposta – alla legge: reiterazione della violenza della vendetta. Proprio da questo motivo, che si situa al fondamento del diritto stesso, deriva la possibilità di una sua critica. Se la tragedia segna l’‘imporsi’ [Durchsetzung] del diritto, la commedia ne costituisce la ‘destituzione’ [Entsetzung]. La risposta alla violenza mitica è, per l’appunto, il gesto comico di un giudice che viene a sua volta limitato e che allude a spazi di azione alternativi: «Io non posso rivelare, qui, chi ha rotto la brocca: dovrei scoprire dei segreti che non sono soltanto miei e che non hanno niente a che fare con la brocca. Un giorno o l’altro le confiderò tutto, ma questo tribunale non è il luogo dove mia madre abbia il diritto di chiedermelo»40. Proprio qui Menke intercetta l’immagine più distinta di ciò che chiama selbstreflexives Recht: esso relativizza se stesso nella misura in cui non assume più, tramite la propria (im)posizione, il carattere privilegiato ed esclusivo, ma anzi riconosce dei criteri alternativi – fiducia, aiuto, perdono – che non possono essere tradotti, tramite classificazione, nel procedimento giuridico. L’autoriflessione è anche l’autocritica che il diritto, questa volta, impone a se stesso aprendo alla possibilità di un modo diverso della sua attuazione. Lo sforzo teorico a cui Menke invita è quello di pensare questa alternativa, senza voler rinunciare al diritto e alle sue istanze normative. Solo attraverso il diritto, e non la sua abolizione, può realizzarsi il processo emancipativo e di liberazione del genere umano. 40 Heinrich von Kleist, La brocca rotta, cit., pp. 62-63.

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Indice

Oltre il destino della violenza di Francesco Mancuso 5 diritto e violenza 13

Considerazioni preliminari

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Parte I – Il destino del diritto 19 1. L’indecidibilità del diritto (Agamennone) 20 2. La procedura del diritto (Eumenidi) 24 3. Uguaglianza e dominio 27 4. La violenza che appare 32 5. Diritto e non-diritto 34 6. La maledizione dell’autonomia (Edipo Re) 39 7. Il destino del diritto (Benjamin 1) 46 Parte II – La destituzione del diritto 53 1. La destituzione del diritto (Benjamin 2) 53 2. Autoriflessione del diritto 58 3. Liberazione del senza diritto (La brocca rotta) 62 4. Excursus: il dilemma dei diritti 69 5. Dopo il liberalismo: il paradosso del diritto 74 6. L’utopia dell’uguale possibilità (Wolokolamsker Chaussee I) 79 7. Il diritto contro la volontà 85

Postfazione – Com’è possibile in generale una critica del diritto? di Christoph Menke 87 1. L’aporia della critica 91 2. Genealogia della forma 95 3. Il più come contingenza 100 4. Il paradosso di diritto e violenza 102 5. Oltre il dogmatismo 105 Entsetzung del diritto: sulla prospettiva critica di Christoph Menke di Giovanni Andreozzi 111 1. Il programma di una critica del diritto: tra Kritik der Rechte e Recht und Gewalt 112 2. Diritto e/è violenza 121 3. L’autoriflessione del diritto 124 Bibliografia 129

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