La forma dell'anima. Il cinema e la ricerca dell'assoluto 8817053546, 9788817053549

Andrej Tarkovskij è stato l'ultimo rappresentante della grande tradizione cinematografica russa, ancora oggi in gra

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La forma dell'anima. Il cinema e la ricerca dell'assoluto
 8817053546, 9788817053549

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LA FORMA DELLANIMA Il cinema e la ricerca dell’assoluto

Andrej Tarkovskij

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Andrej Tarkovskij LA FORMA DELLANIMA Il cinema e la ricerca dell’assoluto A cura di Andrea Ulivi e Andrej A. Tarkovskij

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LIBRI

DELLA SPERANZA

Collana a cura di Davide Rondoni

Proprietà letteraria riservata © 2012 RCS Libri S.p.A.» Milano

ISBN 978-88-17-05354-9 Traduzione di Isabella Serra

Prima edizione BUR I libri della speranza 2012 Terza edizione BUR I libri della speranza gennaio 2014

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu

Introduzione Quando scoprii il primo film di Tarkovskij, fu per me un miracolo. Mi trovavo spesso davanti alla porta di una camera di cui allora non possedevo la chiave. Una camera dove io avrei voluto pene­ trare e dove lui si trovava perfettamente a suo agio. Qualcuno era riuscito a esprìmere quello che io avevo sempre voluto dire senza sapere in che modo. Se Tarkovskij per me è il più grande, è perché porta nel cinema un nuovo linguaggio che gli permette di afferrare la vita come apparenza, la vita conte sogno.

Ingmar Bergman

«L’immagine non può essere interpretata», affermava Andrej Tarkovskij nella sua meditazione sull’Apocfllisse. E continuava: «Essa possiede una quantità illimi­ tata di legami con il mondo, con l’assoluto, con l’infini­ to». Attraverso questi legami, propri dell’immagine e non della simbologia o dell’allegoria, Tarkovskij è riu­ scito, come testimonia Bergman, a entrare in quella camera, in quella «zona», dove la realtà assume la compattezza e l’universalità che comprende visibile e invisibile, esperito e sogno, la pienezza indivisa dell’es­ sere che attraversa il tempo. Il regista moscovita ha potuto coscientemente riferirsi a un consapevole rea­ lismo in quanto certo che la propria visione, visione di bellezza perché visione della totalità, avesse la capaci­ tà di non censurare o dimenticare niente, di aprirsi equanime tanto al tangibile quanto all’intangibile. Quel sogno contiene la realtà reale della visione di cui il nostro limite percettivo ci ha parzialmente privato. Ma è proprio la visione della bellezza e la ricerca di questa che concede a Tarkovskij l’apertura del varco che conduce alla profondità dell’essere, proprio a quella profondità indivisa dell’essere in cui coabitano il vivere vissuto e il vivere sognato. Nel cinema di Tarkovskij possiamo riscontrare la continua ricerca della verità unitaria, fino alla rea­

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lizzazione in ambito estetico dell’unione fra Oriente e Occidente, attraverso questo continuo scavo negli abissi dell’esistere, portando ad affiorare l’autentica dignità dell’uomo. L’uomo finalmente non più scisso, una moralità artistica lontana da ogni moralismo e ideologia, ma prossima all’umano e al suo grido, al suo bisogno di significato, di verità e bellezza. Ha scritto Giovanni Chiaramonte nel suo saggio introduttivo ai Diari di Andrej Tarkovskij: «Soltanto la visione della bellezza può permettere alla verità di penetrare fino ai recessi più intimi dell’anima e di ripu­ lirla dalle rovine che la soffocano, donandole di nuovo la possibilità di riflettere la luce del bene». L’agire della verità e della bellezza nella profondità del cuore umano permette all’uomo stesso di riconoscere l’essenza della sua natura: «L’uomo è immagine. E soltanto l’immagine può salvare l’uomo, riflettendo l’infinito di Dio di cui è somiglianza, come soltanto l’immagine lo può perdere, riflettendo la maschera mortale del suo voler essere solo se stesso». L’uomo è immagine e questo suo essere immagi­ ne lo pone al centro dell’architettura tarkovskiana, un’immagine scultura del tempo. L’attenzione al tem­ po e l’inevitabile sua presenza nel cinematografo («il tempo è la realtà») forma l’immagine come scultura. «La specificità del cinema è una scultura del tempo. Il cinema non possiede una lingua propria, intesa come un determinato sistema di segni. Il cinema non usa una lingua, usa la realtà (poiché il tempo è la realtà), usa le immagini del tempo che scorre.» E ancora: «Una scultura del tempo, ecco cos’è il montaggio, ecco cos’è l’immagine cinematografica!». lùtta la lezione tarkovskiana è intrisa di tempo, il tempo ne è la materia, il tempo fornisce densità ai fotogrammi. Tarkovskij, in queste sue Lezioni di regia, racconta un particolare della ricostruzione della casa dell'autore per il film Lo specchio'. «Anche i collaboratori degli

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studi vennero “a fare escursioni” sul nostro set. Pensate ci fosse qualcosa di eccezionale, di rilevante, di bello, di insolito? Niente di tutto ciò. In questa scenografia che riproduceva un vecchio appartamento moscovita, sono stati riprodotti con estremo realismo i muri del vano delle scale, le ragnatele sulla carta da parati logora della stanza disabitata, le tubature arrugginite che sgoc­ ciolavano in bagno, il vecchio lavandino incrostato in cucina, diventato verde dalla muffa, il soffitto infiltrato d’acqua, che per poco non cadeva in testa agli inquilini dell’appartamento. Era un appartamento abitato dal tempo». Questo è uno dei segreti della realizzazione drammaturgica nelle opere di Tarkovskij, contaminarsi con il corso del tempo, condividere il suo andamento umano, reale, riproducendolo così, senza accelerazioni o artefatti, come motore delle sequenze filmiche, umano, proprio umano, e quindi offrire come centro di questa dinamica la ricerca di una visione della bellezza, anche se questa bellezza può apparentemente contraddire ogni canone estetico consolidato, ma non come rifiuto di una tradizione, bensì come tuffo al centro del fulcro magmatico dell’esistere, contenitore di bellezza perché contenitore e contenuto di verità. «Era un appartamento abitato dal tempo.» Sem­ plicemente questo. Quante volte ci siamo chiesti cosa potevano voler dire quelle incrostazioni scenografiche tipiche dei suoi film, quella decadenza, quella rugosità del reale. «Era un appartamento abitato dal tempo.» Non un simbolo, non ci sono simboli, ma un’immagine, immagini, realtà. Così come racconta ne\VApocalisse: «Per esempio, non vi è stata una conferenza con il pub­ blico - dopo aver girato Stalker - senza che prima o poi qualcuno mi chiedesse qual è il significato del cane nero. “Cosa ha cercato di dire?” E nessuno mi ha mai voluto credere quando rispondevo semplicemente che deside­ ravo rappresentare un cane nero. La mia spiegazione non ha mai soddisfatto nessuno. Si pensava che stessi riflettendo su problemi importanti, e che in realtà ero

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un impostore... Ma è semplicemente un cane nero! E si pensava che proprio lì ci fosse il segreto, qualcosa di impenetrabile per la coscienza comune, che ho celato per qualche oscuro motivo, sconosciuto a tutti e a me stesso in prima persona, perché, in realtà, dovevo espri­ mere qualcosa invece di nasconderla. Per questo motivo, coloro che si sentono come bambini intenti a smontare una sveglia per trovare cosa provoca il ticchettio, sono una categoria di spettatori con cui mi trovo in difficoltà e non riesco a entrare in contatto. Dopo discussioni del genere quelle persone mi guardano con espressioni del tipo: “E noi pensavamo... Noi non sappiamo, lui sa... Invece...”. In breve, riceverete da un’opera d’arte ciò che aspettate di ricevere e certamente se, andando al cinema, cercate ogni minuto di decifrare qualcosa, agguantare l’autore per la mano per cercare di capire esattamente quello che sta dicendo, allora non sentirete nulla e non vedrete niente^Quello non è quel contatto che è necessario nell'arte. È quasi impossibile spiegare che per la comprensione di qualsiasi arte non c’è alcun bisogno di fare degli sforzi, soprattutto intellettuali. È quasi impossibile spiegarlo, non viene percepito». Sempre ne\V Apocalisse: «Il cinema non ha linguaggio, così come non lo ha la musica. L’immagine musicale ha il contatto immediato, assoluto con l’ascoltatore. Non ci sono stadi espressivi intermedi di ricostruzione, come quello, per esempio, del linguaggio nella prosa. Il cinematografo utilizza il concetto di tempo, fissando i singoli fenomeni della vita e dello scorrere del tem­ po stesso. Nulla più. E persino facendo tutti gli sforzi possibili per imporre un significato ideologico a questa o a quella inquadratura, la vedreste comunque con i vostri occhi, l’ascoltereste con le vostre orecchie e non avreste semplicemente il tempo per assorbire questa immagine da qualsiasi organo di percezione. Ovvero, non c’è abbastanza spazio per l’analisi razionale di ciò che è stato visto o udito». Attraverso la contemplazione della realtà fatta

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di tempo e spazio, nell’artista «si manifesta l’istinto spirituale dell’umanità, e nella sua opera l’aspirazio­ ne dell’uomo verso l’eterno, il trascendente, il divino, sovente a dispetto della natura peccaminosa del poeta stesso», scrive Tarkovskij in Scolpire il tempo. E continua: «Che cos’è l’arte? [...] è una dichiarazione d’amore, un riconoscimento della propria dipendenza dagli altri uomini, una confessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l’autentico significato della vita: l’Amore e il Sacrificio». Nei Diari Tarkovskij afferma che l’immagine artistica «è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo. L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. Per questo non pos­ sono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti. Possono esserci solo il talento e la mediocrità». Questo ampio respiro che il regista avverte nel con­ cetto d’immagine lo ritroviamo maturo ancora in Scolpi­ re il tempo dove, attraverso una rete di intuizioni geniali, conia una definizione d’immagine che dovremmo avere sempre presente, la definizione che contiene tutta la forza poetica, e quindi creativa che possiede l’immagi­ ne stessa nella sua opera, regalandoci la più autentica e semplice interpretazione che spesso ci ostiniamo a cercare lungo la via dei suoi fotogrammi: «l’immagine non è questo o quel significato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d'acqua soltanto!».

Lezioni di regia, il testo inedito che proponiamo in que­ sto volume, raccoglie le lezioni che Andrej Tarkovskij ha tenuto nel periodo compreso tra il 1967 e il 1981 presso i corsi di specializzazione post universitaria organizzati dal Goskino (Comitato statale cinematografico). Il testo registrato è stato rivisto dall’autore e completato con

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alcuni articoli apparsi in rivista in Unione Sovietica, e successivamente ampliati con la stesura del suo libro teorico Scolpire il tempo. Lezioni di regia e Scolpire il tempo sono quindi strettamente legati l’uno all’altro e nel primo si possono scorgere i prodromi di quello che è stato il suo più importante scritto teorico sul cinema. In Lezioni di regia l’autore si rivolge quindi a una platea di addetti ai lavori; è interessante però vedere come questo non implichi una lettura specialistica, ma, analogamente a Scolpire il tempo, come le parole di Tarkovskij siano il frutto e l’esposizione di un’esperienza artistica e uma­ na, come al regista di Mosca interessasse soprattutto, prima che il risultato artistico, la posizione esistenziale di chi aveva di fronte, elemento indispensabile per la creazione di un’opera d’arte. Il lettore potrà quindi trovare in questo testo molto dell’esperienza umana che ha permesso al regista russo la realizzazione di quei sette capolavori dell’arte dell’uomo che sono i suoi film. Anche nei Diari. Martirologio possiamo ritrovare questa connessione stretta fra artista e persona, dove la genialità a tutto sesto di Andrej era genialità sì artistica, ma soprattutto umana. A seguire abbiamo inserito nel volume anche una scelta di brani tratti da Scolpire il tempo nella traduzio­ ne di Vittorio Nadai, una selezione della parte relativa all’immagine e delle due parti scritte successivamente alla stesura di Lezioni di regia, che riguardano gli ultimi due film di Tarkovskij, Nostalghia e Sacrificio.

I brani citati in questa introduzione sono tratti dai testi di A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988; Diari. Martirologio. Edizioni della Meridiana, Firenze 2002; L'Apo­ calisse, Edizioni della Meridiana, Firenze 2005.

LEZIONI DI REGIA

Il cinema come arte

La questione sulla specificità del cinema, dalle sue origini fino ai giorni nostri, non si è ancora risolta in un’unica definizione valida per tutti. Esistono svariati punti di vista che si scontrano fra loro e - cosa di gran lunga peggiore - si con­ fondono generando un eclettico caos. Ognuno di noi può intendere, impostare e ri­ solvere, a modo suo, la questione della specificità di un sistema teorico che renda possibile l’atto della creazione in maniera consapevole. Poiché creare senza essere coscienti delle leggi che sot­ tendono alla propria arte, non sarebbe semplicemente possibile. Quindi, che cos’è il cinema? In cosa consiste la sua specificità? Come la immagino e in che modo, basandomi su questa, mi raffiguro il cine­ ma, le sue possibilità, i suoi mezzi, le sue imma­ gini, non solamente da un punto di vista formale ma, se vogliamo, da un punto di vista morale? Ancora oggi non possiamo dimenticare quel film geniale, proiettato il secolo scorso da cui

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tutto è cominciato, L'arrivo di un treno nella sta­ zione di La Ciotat. Quel film, dei fratelli Lumière, noto a tutti, venne girato solo perché erano stati inventati la cinepresa, la pellicola e il proiettore. La scena, che dura in tutto 50 secon­ di, mostra un tratto di banchina ferroviaria illu­ minata dal sole, sulla quale passeggiano signori e signore, e un treno che, dal fondo dell’inquadra­ tura, avanza verso la cinepresa. Man mano che il treno avanzava, gli spettatori in sala di proiezio­ ne venivano presi dal panico: la gente saltava in piedi e correva via. Io credo che quello sia stato il momento in cui è nata l’arte cinematografi­ ca. Non parlo solo di tecnica o di nuovi metodi per riprodurre il mondo, no. Nacque un nuovo principio estetico. Esso consiste nel fatto che, per la prima vol­ ta nella storia dell’arte e della cultura, l’uomo ha trovato un modo per fissare il tempo senza alcuna mediazione, riuscendo contemporanea­ mente a riprodurre, tutte le volte che lo deside­ rasse, questo tempo sullo schermo, ripetendolo, ritornandoci sopra. L’uomo ha trovato la matrice del tempo reale. Da quel momento il tempo, una volta visto e fissato, ha potuto essere conservato a lungo (teoricamente per sempre), dentro scato­ le di metallo. In questo senso, nei primi film dei fratelli Lu­ mière era racchiuso il genio di un principio esteti­ co. Subito dopo venne imposto al cinematografo di avviarsi verso una strada falsa, sorretta da in­ teressi meschini e dal profitto. Nel corso di due

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decenni vennero «portati sullo schermo» quasi tutta la letteratura mondiale e un’enorme quanti­ tà di soggetti teatrali. Il cinematografo venne im­ piegato come il modo più semplice e intrigante di registrare lo spettacolo teatrale. Iniziò allora a incamminarsi in una falsa strada, e dobbiamo renderci conto di come, ancora oggi, paghiamo le tristi conseguenze di questo equivoco. E non par­ lo soltanto del metodo illustrativo. Il danno mag­ giore è stato quello di aver rinunciato all’impiego artistico della possibilità più preziosa offertaci dal cinematografo: registrare la realtà del tempo. Ora, in quale forma il cinematografo fissa il tempo? Io parlerei di forma effettiva. Un fatto può essere rappresentato o sotto forma di avve­ nimento o di movimento umano o ancora sem­ plicemente sotto forma di oggetto, anzi, l’oggetto può presentarsi anche nella sua immutabilità e nella sua immobilità (essendo l’immobilità parte del reale fluire del tempo). E proprio qui che, secondo me, va cercata la radice della specificità dell’arte cinematografi­ ca. Tra tutte le altre forme d’arte quella che, per una certa misura, risulta più vicina al cinema è la musica: ossia quella in cui il tempo è la questio­ ne principale. Ma nella musica viene risolta in maniera del tutto differente. Qui, la materialità della vita, si trova al limite di una sua completa dissoluzione, mentre la forza del cinematografo consiste nel fatto che il tempo si lega indissolu­ bilmente alla materia stessa della realtà che ci cir­ conda ogni giorno e ogni istante.

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Il tempo impresso nelle sue forme e nelle sue manifestazioni effettive; è questa per me Videa fondamentale del cinematografo e dell’arte cine­ matografica. Questa idea mi fa pensare alle po­ tenzialità inespresse del cinema, al suo immenso avvenire. Su questa premessa costruisco le mie ipotesi di lavoro sia pratiche che teoriche. Perché la gente va al cinema? Che cosa la con­ duce in una sala buia, dove per più di un’ora ri­ mane a osservare giochi di luci e ombre su un telo? Bisogno di svagarsi? Voglia di sensazioni forti? In effetti, in molti paesi, società e corporazioni dell’intrattenimento sfruttano il cine­ matografo, la televisione e molte altre forme di spettacolo per i propri scopi. Non è da qui che bisogna partire, ma dall’essenza fondamentale del cinema, legata all’esigenza umana di capire il mondo e di prenderne coscienza. Penso che il movente che normalmente spinge una perso­ na ad andare al cinema, sia la ricerca del tempo: o il tempo dissipato, o quello perduto, oppure quello non ancora raggiunto. Una persona va al cinema per cercare un’esperienza di vita, perché il cinematografo, come nessun’altra forma d’arte, allarga, arricchisce e concentra l’esperienza effet­ tiva dell’uomo, e, per questo, non solo l’aumenta ma la rende, per così dire, più lunga, decisamen­ te più lunga. Ecco dunque dove risiede l’effettiva forza del cinema. Non nelle «stelle», nei soggetti stereotipati o nell’intrattenimento. E qual è l’essenza del lavoro cinematografico d’autore, in cosa consiste? Possiamo definirla,

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con riserva, una scultura del tempo. Allo stesso modo in cui uno scultore prende un blocco di marmo e, presentando all’interno i tratti della sua opera futura, comincia a esportarne il su­ perfluo; così pure l’autore cinematografico, dal «blocco di tempo», che abbraccia l’enorme, in­ tegro insieme dei fatti della vita, inizia a tagliare, a gettare tutto ciò che non serve, lasciando solo quelli che risulteranno essere i fattori che com­ pongono l’immagine cinematografica. Dicono che il cinema sia un’arte sintetica, for­ matasi mediante il contributo di arti affini come il dramma, la prosa, la recitazione, la pittura, la musica, eccetera. Ma di fatto, queste arti affini sono capaci con i loro «contributi» di dare al ci­ nematografo un duro colpo, tanto da trasformar­ lo, all’istante, in una confusione eclettica o (nel migliore dei casi) in un’armonia apparente in cui non è possibile rintracciare l’anima effettiva del cinematografo, poiché essa, proprio in quel momento, muore. Vale la pena chiarire, una vol­ ta per tutte, che il cinema non deve essere una combinazione banale dei princìpi delle varie arti affini; solo dopo si può cercare di definire cosa sia la sinteticità dell’arte cinematografica. L’im­ magine cinematografica non nascerà dalla som­ ma di concetti letterari uniti a una plasticità pit­ torica. Questo semmai darà vita a un eclettismo inespressivo o ridondante. Così anche le leggi del movimento e della riorganizzazione del tempo in un film non devono essere sostituite dalle leggi del tempo scenico.

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Il tempo come fatto! Insisto su questo. Il cinematografo ideale dovrebbe assomigliare a un documentario: non come modalità di ripre­ sa, ma come modalità di riproduzione, di rico­ struzione della vita. Una volta ho inciso su un nastro un dialogo casuale. Le persone conversavano senza sapere che il loro dialogo veniva registrato. Poi ho ria­ scoltato la registrazione e ho pensato: com’è sta­ to «scritto» e «recitato» magnificamente! Come si percepiscono la logica delle dinamiche carat­ teriali, il sentimento, l’energia! Come risuonano bene le voci e che pause meravigliose!... Nean­ che uno Stanislavski] avrebbe potuto giustificar­ le, e lo stile di Hemingway, messo a confronto col modo in cui era «costruito» quel dialogo, appare ingenuo e pretenzioso. Immagino così il modo ideale di lavorare a un film: presa una pellicola lunga un milione di metri, dov’è stata seguita e fissata, secondo dopo secondo, giorno dopo giorno, e anno dopo anno, per esempio, la vita di un uomo dalla nascita al­ la morte, l’autore, grazie al montaggio, ne estrae duemilacinquecento metri, ovvero un’ora e mez­ zo di tempo sullo schermo. (Tra l’altro, sarebbe interessante immaginare questi milioni di metri di pellicola in mano ad alcuni registi, e vedere come ognuno realizzerebbe il suo film, come cia­ scun film differirebbe dall’altro!) Sebbene sia impossibile produrre in realtà questo milione di metri di pellicola, una condi­ zione «ideale» di lavoro non è poi così irreale;

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questa si può e si deve tendere. In che senso? Si tratta di scegliere e unire brani di fatti in succes­ sione, ed essere in grado di sapere, di vedere e di sentire esattamente cosa si trova in mezzo a essi, cosa li unisce indissolubilmente. E questo il cinematografo. Diversamente imboccheremmo facilmente la solita strada battuta dal teatro, la strada della creazione di un intreccio basato su personaggi prestabiliti. Il cinematografo invece deve essere libero di scegliere e unire fatti, estra­ polati da un «blocco di tempo» per quanto vasto ed esteso possa essere. Con questo non vorrei af­ fatto dire che bisogna seguire in maniera ossessi­ va qualcuno. La logica di comportamento di una persona può sparire dallo schermo, sostituita da qualcosa di totalmente differente, se questo serve a supportare l’idea che guida l’autore nel trattare i fatti. Ad esempio si può fare un film dove non ci sia affatto un protagonista che faccia da referen­ te, in cui tutto viene determinato invece dall’«angolazione» dello sguardo di un uomo sulla vita. Il cinematografo può avvalersi di qualsiasi fat­ to disseminato nel tempo, può scegliere dalla vita qualsiasi cosa. Ciò che in letteratura è una con­ dizione isolata o un caso particolare (per esem­ pio le introduzioni «documentarie» e il racconto conclusivo llenvoi contenuti nella raccolta Ne/ nostro tempo di Hemingway), per il cinema è una manifestazione delle sue principali leggi ar­ tistiche. Qualsiasi cosa! Questa «qualsiasi cosa» potrebbe non essere organico per l’intreccio di un romanzo, per una rappresentazione teatrale,

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mentre per il cinema risulta quanto di più orga­ nico si possa immaginare. Mettere a confronto l’uomo con l’ambiente sconfinato, con un numero indefinito di perso­ ne, vicine a lui o distanti, rapportarlo con tutto il mondo: ecco il senso del cinematografo! C’è un’espressione che ormai è diventata un’owietà: «cinema poetico». Con quest’espres­ sione s’intende un cinematografo che nelle sue immagini si allontana coraggiosamente dalla con­ cretezza dei fatti, rappresentata dalla vita reale, e nello stesso tempo afferma la propria interezza strutturale. Sono in pochi a riflettere sul fatto che in questo si cela un pericolo. Il pericolo che il cinematografo si allontani da se stesso. Il «cine­ ma poetico», di regola, genera simboli, allegorie e figure simili, ma queste non hanno niente a che vedere con quella figuratività che è la caratteristi­ ca naturale del cinematografo. Sento il dovere di fare un’ulteriore precisazio­ ne. Se il tempo nel cinema si presenta sotto forma di fatto, allora assumerà i connotati di un’osserva­ zione diretta e immediata di quel fatto stesso. Il principio fondante del cinematografo, di cui è in­ triso fin nei suoi minimi dettagli, è l’osservazione. Tutti conosciamo il genere tradizionale dell’antica poesia giapponese: V haiku. Alcuni esempi sono stati riportati da Ejzenstejn: Un monastero antico. La fredda luna. Un lupo ulula.

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Silenzio nel campo. Vola una farfalla. La farfalla si è addormentata.

Per Ejzenstejn queste terzine rappresentavano il modo in cui tre elementi distinti, collegandosi tra loro, potevano dar vita a una qualità nuova. In un haiku ciò che mi affascina è la purezza, la finezza e l’osservazione d’insieme sulla vita. La lenza nelle onde. Ha appena sfiorato in corsa La luna piena.

Oppure: E caduta la rugiada E su ogni spina del pruno È appesa una gocciolina.

Questa è pura osservazione! La sua esattezza, la sua precisione fa sì che persino la persona meno sensibile riesca a sentire la forza della poesia e a percepire - perdonate la banalità - l’immagine vitale afferrata dall’autore. E benché sia assai diffidente nei confronti delle analogie che intercorrono con le altre arti, questo esempio, tratto dalla poesia, mi sembra si avvicini alla verità sul cinema. La poeticità di un film nasce dall’osservazio­ ne non mediata della vita. Ecco, per me questa è la vera strada per una poesia cinematografica. Poiché l’immagine cinematografica, nella sua es­

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senza, è l’osservazione di un fatto che si estende nel tempo. Il film Ivan il Terribile di Ejzenstejn si disco­ sta al massimo grado dai princìpi di osservazione non mediata. Questo film non solo si presenta nel suo insieme come un geroglifico, bensì è tutto costituito da geroglifici, grandi, piccoli e minu­ scoli, non c’è dettaglio che non sia permeato da un’idea dell’autore. (Ho sentito dire che lo stesso Ejzenstejn, in una sua lezione, abbia addirittura fatto dell’ironia su questi geroglifici, su questi significati nascosti: sull’armatura di Ivan è raf­ figurato il sole, su quella di Kurbskij la luna, in quanto l’essenza di Kurbskij risiede nel fatto che lui «brilla di luce riflessa»...) Ciononostante, que­ sto film è estremamente forte nella sua struttura ritmata e musicale. L’alternanza del montaggio, il cambio dei piani, la combinazione tra suoni e immagini, tutto è stato elaborato nella maniera sottile e rigorosa in cui solo la musica elabora se stessa. Per questo Ivan il Terribile agisce in ma­ niera così convincente. Tuttavia, il film, proprio per il suo ritmo, mi ha completamente ammalia­ to, mentre nella costruzione dei personaggi, nel­ la struttura delle rappresentazioni plastiche, nella sua atmosfera, si avvicina così tanto al te­ atro - al teatro musicale - che cessa perfino di essere, dal mio punto di vista puramente teorico, un’opera cinematografica. I film degli anni Venti realizzati da Ejzenstejn, innanzitutto La corazzata Potèmkin, erano del tutto diversi. Dunque l’immagine cinematografica è fon-

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damentalmente l’osservazione dei fatti della vita inseriti nel tempo e organizzati in rapporto alle forme della vita stessa e alle sue leggi temporali. L’osservazione è soggetta a una scelta, poiché noi lasciamo sulla pellicola solo ciò che ha diritto a essere una componente deU’immagine. Inoltre l’immagine cinematografica non può essere di­ visa e scomposta; contrariamente alla sua natura temporale, non si può eliminare dall’immagine il tempo che scorre. Condizione indispensabile (insieme ad altre) affinché un’immagine diventi autentica immagi­ ne cinematografica è che non solo essa viva nel tempo, ma che anche il tempo viva in essa a co­ minciare dalla singola inquadratura. Un qualunque oggetto «inanimato»: un ta­ volo, una sedia, un bicchiere, inquadrato sepa­ ratamente da tutto il resto, non può essere rap­ presentato fuori dal fluire del tempo, come se il tempo fosse, in un certo senso, assente. Se si viene meno a questa condizione, imme­ diatamente si creerà la possibilità di trascinare dentro il film un’enorme quantità di mezzi e di attributi appartenenti a una qualunque arte affi­ ne. Attraverso l’ausilio di queste tecniche, sarà addirittura possibile realizzare film di grande ef­ fetto ma che, da un punto di vista cinematogra­ fico, risulterebbero reazionari, poiché andreb­ bero a scontrarsi con il naturale sviluppo della natura, dell’essenza e delle possibilità insite del cinema. Non vi è arte che possa paragonarsi al cinema­

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tografo con la stessa forza, precisione e spietatez­ za con cui il cinema riesce a far percepire fatti e strutture che vivono e si modificano nel tempo. Ed è per questo che mi infastidiscono le pretese dell’odierno «cinema poetico», che conducono a un distacco dal fatto e dalla realtà del tempo, ge­ nerando affettazione e manierismo. All’in terno dell’odierna arte cinematografica vi sono alcune tendenze fondamentali che carat­ terizzano lo sviluppo della forma, ma non è un caso che tra queste si faccia notare così bene, attirando le menti, quella incline alla documentarietà. E una tendenza molto importante e pro­ mettente, per questo spesso si cerca di imitarla, arrivando fino a vere e proprie contraffazioni e scimmiottature. Ma il senso dell’autentica fattivi­ tà e documentarietà del cinema, non consiste nel girare senza cavalletto con la cinepresa che balla, magari non mettendo neanche a fuoco l’obiettivo («sa, l’operatore non ha fatto in tempo a mettere a fuoco l’obiettivo») e via dicendo. Il punto non è come maneggiare una cinepresa, il punto è come ciò che viene ripreso possa assumere e trasmette­ re la forma concreta e irripetibile dello sviluppo di quel fatto. Non di rado le inquadrature fatte in apparenza senza prestare molta attenzione, sono per loro natura, non meno convenzionali e non meno enfatiche delle inquadrature del «cinema poetico», elaborate alla perfezione e caratterizza­ te da un gretto simbolismo. In entrambi i casi ciò che viene meno è il contenuto vitale ed emozio­ nale dell’oggetto che viene ripreso.

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Penso che un’altra questione da approfondire in maniera attenta e che interroghi sia noi regi­ sti che i teorici del cinema, riguardi la cosiddetta convenzione. Occorre fare una distinzione tra le convenzio­ ni che effettivamente riguardano l’arte e quelle fittizie che più che altro sono pregiudizi. Un conto è la convenzione che caratterizza la specificità di una data forma d’arte: ad esempio, il pittore ha indiscutibilmente a che fare con i co­ lori e i rapporti tra i colori sulla superficie bidi­ mensionale di una tela. Un altro conto è la convenzione apparente che si origina da qualcosa di transitorio, per esempio da una comprensione superficiale dell’essenza del cinematografo, oppure dai limiti temporali dei mezzi espressivi, oppure, più semplicemente, dalle abitudini, dai cliché, o da un accostamento astratto all’arte. Confrontate la «convenzione» esteriormente comprensibile dei confini di un’in­ quadratura e quella della tela di un pittore. È co­ sì che nascono i pregiudizi. Una convenzione molto seria e legittima del cinematografo consiste nel fatto che l’azione sul­ lo schermo deve svolgersi in successione, nono­ stante i concetti realmente esistenti di contem­ poraneità, retrospettiva, eccetera. Per rendere la contemporaneità e il parallelismo di due o più processi, bisogna inevitabilmente riportarli in successione, montarli in sequenza. Non c’è altro modo, e il cinematografo è sempre stato incline a questo. Nel film di Dovzenko La terra, il kulak

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spara al protagonista. Per rendere lo sparo, il re­ gista, contrappone all’inquadratura dell’improv­ visa caduta del protagonista, un’altra in quadra­ tura parallela - in un qualche punto del campo alcuni cavalli spaventati alzano le teste - prima che l’immagine torni sulla scena del delitto. Per lo spettatore i cavalli che sollevano le teste so­ no un mezzo per trasmettere indirettamente il rimbombo dello sparo. Quando il cinematografo divenne sonoro, il bisogno di ricorrere a questo tipo di montaggio venne meno. E non si posso­ no chiamare in causa le geniali inquadrature di Dovzenko per giustificare quella leggerezza, con la quale, nel cinema odierno, si ricorre, senza che ve ne sia bisogno, al montaggio «parallelo». Così, per esempio, qualcuno cade in acqua e nell’in­ quadratura successiva, diciamo per comodità, «Masa sta a guardare». Molto spesso non è ne­ cessario, e questo tipo di inquadrature dà l’im­ pressione di una ricaduta nella poetica del ci­ nema muto. Questa è una convenzione forzata, trasformatasi in pregiudizio, in cliché. Lo sviluppo delle tecniche del cinema, negli ultimi anni, ha generato (o risvegliato) una ten­ tazione: quella di suddividere un’inquadratura in due o più parti nelle quali è possibile rappresen­ tare contemporaneamente («in simultanea») due o più azioni parallele. Dal mio punto di vista, si tratta di una strada fallace, di convenzioni inven­ tate e non organiche per il cinema. Alcuni critici hanno una grande voglia di assi­ stere a uno spettacolo proiettato su alcuni - ponia­

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mo sei! - schermi. Provate a immaginarlo e capire­ te quanto sia assurdo. Il movimento dell’inquadra­ tura cinematografica ha una sua natura, differente dal suono in musica, e il cinema «a più schermi», in questo senso, va paragonato non a un accordo, a un’armonia, a una polifonia, bensì al suono di più orchestre che suonano in contemporanea, ese­ guendo ciascuna una musica diversa. Non assiste­ rete altro che a un caos; verrebbero meno le leggi della vostra percezione e all’autore del film a più schermi si porrebbe inevitabilmente il problema di ricondurre in qualche modo la contemporaneità alla successione, ovvero di creare specificatamen­ te, per ogni singolo caso, un ingegnoso sistema di convenzioni. E questo equivarrà a toccarsi con la mano destra la narice destra, facendo passare il braccio attorno all’orecchio sinistro. Non sarebbe meglio sostenere la semplice e legittima convenzio­ ne del cinema come rappresentazione in successio­ ne e partire direttamente da questa convenzione? Molto semplicemente: l’uomo non può osservare più azioni contemporaneamente; ciò è estraneo al­ la sua natura psicofisiologica. Bisogna distinguere tra convenzioni naturali, sulle quali si fonda la specificità di una data for­ ma d’arte, determinate dalla differenza che inter­ corre tra la vita reale e la forma specificatamente limitata dell’arte in questione, e convenzioni ap­ parenti, inventate, non essenziali, che si rivelano una schiavitù di fronte agli stereotipi o una fanta­ sticheria irresponsabile o un prestito di princìpi specifici dalle arti affini.

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Se volete, una tra le più importanti conven­ zioni del cinema consiste proprio nel fatto che l’immagine cinematografica può incarnarsi solo in forme fattuali, naturali, di vita percepita attra­ verso la vista e l’udito. L’immagine deve essere resa con naturalismo. Parlando di naturalismo non intendo quello secondo la diffusa accezione letteraria del termine (che ruota attorno alla fi­ gura di Zola e simili), ma sottolineo il carattere della forma dell’immagine cinematografica per­ cepibile per mezzo dei sensi. Mi si potrebbe dire: ma come fare per rendere la fantasia dell’autore, l’universo del suo mondo interiore? Come si ricrea ciò che una persona ve­ de «dentro di sé», la varietà dei suoi sogni, sia notturni che «diurni»? Io risponderò: tutto ciò è possibile, ma a una sola condizione: «i sogni» sullo schermo devono disporsi servendosi delle forme naturali della vita stessa, visibili in modo chiaro e preciso. Da noi invece funziona così: qualcosa viene ripreso a rallenty, oppure attraverso una coltre di nebbia, o ancora si utilizza il buon vecchio cache, o si in­ troducono degli effetti musicali e lo spettatore, ormai abituato a questo, reagirà immediatamen­ te pensando: «Ah, è lui che ricorda! È lei che sogna!». A ogni modo, non è attraverso queste vaghezze misteriose che si arriverà a un’autenti­ ca impressione cinematografica dei sogni e dei ricordi. Il cinematografo non ha a che fare, né deve avere a che fare con degli effetti presi a pre­ stito dal teatro. Cosa occorre fare invece? Prima

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di tutto bisogna conoscere l’aspetto nascosto, rea­ le ed effettivo di questo sogno: vedere tutti que­ gli elementi della realtà che sono stati rielaborati dallo strato della coscienza rimasto vigile duran­ te la notte (o ai quali fa riferimento una persona nell’immaginarsi una data scena). E bisogna ren­ dere tutto questo sullo schermo in modo preciso, senza offuscamenti e senza trucchi esteriori. Mi si potrebbe dire ancora: come si fa a rendere i contorni indistinti, imprecisi, poco verosimili di un sogno? Risponderei: «Per il cinematografo il carattere cosiddetto indistinto e inesprimibile del sogno non significa assenza di un’immagine precisa: è un’impressione particolare, prodotta dalla logica del sogno, l’inconsueto e l’inaspetta­ to, in combinazione e in contrasto con elemen­ ti del tutto reali che bisogna vedere e mostrare con estrema precisione. Il cinematografo, per sua stessa natura, è tenuto a non lasciare in ombra la realtà, ma a rivelarla (tra l’altro, i sogni più in­ teressanti e più terribili sono quelli di cui ci si ricorda tutto, fin nei minimi dettagli)». Ancora una volta voglio insistere sul fatto che la condizione necessaria di qualsiasi costruzione plastica in un film e il suo criterio ultimo, indi­ spensabile, vengono dati ogni volta dall’auten­ ticità della vita, dalla concretezza fattuale. E da qui che nasce l’irripetibilità, non dal fatto che l’autore trovi una particolare costruzione plastica e la colleghi con una qualche misteriosa trovata del suo pensiero, dandole chissà quale senso, «a se stesso».

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Nascono così i simboli che con tanta leggerez­ za diventano poi di uso comune e si trasformano in cliché. La purezza del cinematografo e la sua inso­ stituibile forza non si manifestano nell’incisività simbolica delle sue immagini (fossero anche le più audaci), ma nel fatto che le immagini espri­ mono la concretezza e l’irripetibilità di un fatto reale. Penso che la realtà, che l’artista trae a dimo­ strazione delle proprie idee, debba essere - scu­ sate la tautologia - reale, cioè comprensibile all’uomo, a lui nota fin dall’infanzia. Più il film è reale in questo senso, più il suo autore sarà con­ vincente. Il film è una cosa in sé, un modello di vita così come essa appare all’uomo. Ritengo sia importan­ te indurre lo spettatore a credere prima di tutto a una cosa molto semplice e proprio per questo non immediatamente evidente: il cinema come stru­ mento, in un certo senso, ha molte più possibilità persino della prosa. Intendo le possibilità specifi­ che che il cinema possiede per osservare la vita, os­ servare il suo corso pseudoquotidiano. E proprio in queste possibilità, nella capacità che il cinema possiede di osservare in modo profondo, senza preconcetto, la vita, che consiste, secondo la mia concezione, l’essenza poetica del cinematografo. Ogni attività creativa tende alla semplicità, alla forma di espressione più semplice possibi­ le. Tendere alla semplicità significa tendere alla profondità della rappresentazione della vita. Ma

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questo, nella creazione, diventa anche il tormen­ to più grande: trovare la forma di espressione più semplice, cioè adeguata alla verità ricercata. Si vorrebbe ottenere tanto con pochi mezzi, con poco sudore ma, ahimè, il rapporto è inversa­ mente proporzionale: raggiungere la semplicità, significa estenuarsi fino all’ultimo. Bisogna, inol­ tre, continuamente guardarsi dal seguire questo o quell’altro stile cinematografico. Sembrerebbe che per l’artista queste siano cose del tutto su­ perficiali, estranee, ma gli stili, formatisi su una diversa base individuale, impediscono la libera espressione professionale. Non per niente, la co­ siddetta libera, professionale, padronanza del­ le forme, a conti fatti, si rivela il più delle volte nient’altro che un tipo di mestiere, e in verità si discosta parecchio dalla creazione autentica. Capisco che anche una semplificazione esa­ gerata delle forme possa risultare incomprensi­ bilmente bizzarra, forzatamente altera. Ma una cosa mi è chiara: è necessario eliminare qualsiasi reticenza e nebulosità su tutto quello che comu­ nemente viene chiamato «l’atmosfera poetica» di un film. Si cerca di solito di creare appositamen­ te, e con ogni cura possibile, questa aura sullo schermo. Ma l’atmosfera non ha bisogno di es­ sere creata. Essa si accompagna all’essenziale e si origina dal problema che l’autore risolve. E più questo compito essenziale è formulato in modo esatto, quanto più precisamente è definito il sen­ so, tanto più significativa sarà l’atmosfera che gli si originerà attorno. In rapporto a questa nota

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fondamentale, cominceranno a risuonare le cose, il paesaggio, l’intonazione degli attori. Ogni cosa sarà correlata e necessaria all’altra. Ogni cosa fa­ rà eco, si richiamerà all’altra e si originerà un’at­ mosfera che sarà il risultato, la conseguenza delle possibilità di concentrarsi sull’essenziale. Ma di per sé l’atmosfera non può essere creata... Pro­ prio per questo, tra l’altro, non mi sono mai ac­ costato alla pittura degli impressionisti, con quel loro desiderio di fissare l’istante, lo stato mute­ vole e cangiante, di trasmettere ciò che è fugace. Non mi sembra sia questo il compito dell’arte. Il tendere alla perfezione spinge l’artista a fare delle scoperte in ambito spirituale, lo sprona in continuazione a compiere il massimo sforzo mo­ rale. Ha senso ripetere ancora una volta che l’ar­ tista esprime la verità attraverso l’immagine della realtà. Nell’aspirazione all’assoluto è racchiusa la tendenza che muove lo sviluppo dell’umanità e, conseguentemente, anche dell’arte. Il concetto di realismo è legato, per me, a questa tendenza fon­ damentale. L’arte è realistica quando si sforza di esprimere un ideale morale. Il realismo è l’aspira­ zione alla verità e la verità è sempre meravigliosa. In questo senso la categoria estetica è commisu­ rabile a quella etica. Nel film di Ingmar Bergman Sussurri e gri­ da c’è un episodio che mi viene spesso in men­ te. Due sorelle, dopo aver fatto ritorno alla casa paterna dove sta morendo la loro terza sorella, rimaste sole, sentono a un tratto il riaffluire di un’intimità familiare, il tendersi dell’una nei con-

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fronti dell’altra, un’intimità che non sospettavano neppure di avere fino a quel momento. Subito nasce la sensazione struggente di un’umanità ri­ destata, che tanto più emoziona poiché nei film di Bergman momenti come questi sono fugaci e passeggeri. Nei suoi film le persone cercano ma non riescono a trovare dei contatti. In Sussurri e grida le sorelle non riescono comunque a per­ donarsi a vicenda, non riescono a rappacificar­ si nemmeno di fronte alla morte di una di loro. Ma quanto più si torturano e si odiano a vicen­ da, tanto più acuta e strabiliante è l’impressione prodotta dallo slancio della loro anima. Inoltre, al posto delle battute, Bergman qui ci costringe ad ascoltare la Suite per violoncello di Bach, che co­ munica a tutto ciò che accade sullo schermo una profondità e uno spessore particolari; attribuisce un carattere persuasivo e convincente allo sforzo del regista nell’esprimere, qui inequivocabilmen­ te quel principio positivo che di solito si coglie appena nei suoi film austeri e dolorosi. Grazie a Bach e alla rinuncia alle battute dei personaggi, sulla scena si è generato come un vuoto, una sorta di spazio libero, nel quale lo spettatore ha perce­ pito la possibilità di riempire un vuoto interiore, di sentire il respiro dell’ideale. Lasciamo pure che in Bergman questo sia il segno di ciò che non può esistere. Ma se lo spettatore riceve comunque an­ che un minimo sostegno alla speranza, allora si apre per lui la possibilità di una catarsi, di una purificazione spirituale; di quella liberazione mo­ rale che l’arte è chiamata a risvegliare.

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L’arte porta in sé una nostalgia dell’ideale. Es­ sa deve instillare nell’uomo la fede e la speranza, anche se il mondo descritto dall’artista non la­ scia loro spazio. Anzi, dirò di più: quanto più è cupo il mondo che si crea sullo schermo, tanto più chiaramente si deve avvertire l’ideale posto alla base del sistema teorico dell’artista, e tanto più nitidamente lo spettatore deve intravedere la possibilità di un’apertura verso una nuova altez­ za spirituale. Per me il cinema è un’occupazione morale e non professionale. Ritengo indispensabile con­ servare un punto di vista sull’arte come su qual­ cosa di estremamente serio, responsabile, che non si limiti a concetti come tema, genere, for­ ma... L’arte non esiste solo per riprodurre la real­ tà. Deve anche armare l’uomo di fronte alla vita, dargli la forza di contrapporsi a essa... All’arte non occorre necessariamente avere le risposte pronte alla domanda posta in un’opera letteraria; persino nel romanzo programmatico 1 fratelli Ka­ ramazov, Dostoevskij ha lasciato senza risposta le domande che lui stesso si è posto. Ciononostante, pur non offrendo risposte pronte, l’arte ci lascia una sensazione di fede. «Urrà per Karamazov!» dice Dostoevskij alla fine del romanzo. E lo dice dopo averci accompagna­ to attraverso le sofferenze dell’eroe, le sue cadu­ te, i suoi errori, fino a farci giungere a un punto in cui ci sentiamo colmi di amore e di gratitudine nei confronti dell’eroe, di riconoscenza per la sua

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nobiltà, per la sua lealtà a se stesso, per i tor­ menti patiti. È diventato uno di noi. Attingiamo in lui la fede. L’arte ci dona questa fede e ci riempie del sen­ timento della nostra dignità. Inietta nel sangue dell’uomo, nel sangue della società, una sorta di reagente, di resistenza, la capacità di non cedere. L’uomo ha bisogno della luce. E l’arte gli dona luce, fede nel futuro, prospettiva. Il genio, secondo me, è legato alla prospettiva, alla luce. Se non vi è prospettiva, allora non vi è neppure drammaticità e neppure una via d’uscita al dramma... Dopo aver condotto un uomo at­ traverso situazioni drammatiche, tragiche, senza speranza, bisogna aprirgli uno spiraglio alla pa­ ce, alla felicità, alla speranza. Questo già da tempo l’avevano capito gli an­ tichi greci costruendo il teatro più democratico. È straordinario come fossero arrivati a creare il termine «catarsi», il cui significato per me rive­ ste un’importanza straordinaria: purificazione attraverso la sofferenza e la paura, così Aristotele definisce il concetto di «catarsi». Per secoli que­ sto concetto è stato oggetto di discussioni, e con interpretazioni che si basavano sui più svariati si­ stemi filosofici e sulla logica. Ma per me lo stato di «catarsi» è puramente emotivo, non è soggetto a spiegazioni logiche, edificanti. Per me equivale proprio a un’empatia che conduce alla pace, alla felicità, a una prospettiva. E un modo originale di confessione in nome di una riscoperta della forza vitale, della fiducia in se stessi e nelle pro-

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prie possibilità; è un ritrovare dentro di sé nuove fonti morali (che è anche il fine della confessio­ ne). L’arte concede all’uomo la possibilità di una «catarsi», di una purificazione attraverso l’amore nei confronti di un altro-eroe. Dopo aver vissu­ to con lui una situazione tragica, metabolizzata, l’uomo può sentirsi grande, sollevarsi al livello dell’artista. Pensate solo ai fratelli Karamazov: uno santo e pazzo, l’altro, Mit’ka, condanna­ to per omicidio, il terzo uscito di senno, il loro padre Fjodor Pavlovic, e alla fine «Urrà per Ka­ ramazov!». Questa è proprio una «catarsi». Se i fratelli Karamazov sono serviti a qualcosa, allora possiamo credere in noi! Per il cinematografo è straordinariamente im­ portante conservare l’idea di «catarsi». E arrivato il momento per il cinema di risolvere le questioni che la storia pone all’umanità. L’arte è l’unica tra le occupazioni dell’uomo a essere assolutamente idealista, ovvero si sforza di esprimere l’infinito. Dal punto di vista morale, l’arte possiede due aspetti. Primo: è probabilmente l’unico genere di occupazione superiore, per lo meno nella sfera spirituale, per amore della quale, forse, l’umani­ tà in generale esiste. Secondo: l’arte come attivi­ tà è altruistica, cioè non arreca vantaggio a chi la esercita. Per molti aspetti essa sta al di sopra dei processi storici, sebbene a volte li acceleri. «L’artista è sempre un disastro naturale per lo Stato», secondo me è un’affermazione molto az­ zeccata. L’arte sviluppa la società più in fretta di

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quanto questa lo voglia. Nell’arte vi è qualcosa di immanente, qualcosa di inscritto nella natura stessa. Diversi erano i punti di vista sull’origine dell’arte, fra i quali il legame con la religione. Ba­ sta spostarsi mentalmente nei secoli lontani per capire quanto questo non sia casuale. Prendia­ mo ad esempio la pittura di icone: non è arte, ecco dove sta il punto, è qualcosa d’altro. Nem­ meno la costruzione di cattedrali era arte, poiché il nome dei costruttori non è giunto fino a noi. L’uomo esprimeva in modo talmente organico la sua energia artistica, che questa diveniva servi­ zio e non arte, e non è forse questo il vero senso dell’arte? L’autore non esisteva, viveva l’anoni­ mato. Una volta il pittore di icone osservava il digiuno, andava alle funzioni, pregava e, solo do­ po essersi purificato spiritualmente, cominciava a dipingere. Inoltre, com’è noto, l’osservanza dei canoni era rigorosissima. Nonostante questo, Ru­ blev realizza La trinità come fosse la prima volta. La libertà dell’artista e cose di questo genere so­ no, per così dire, un’altra storia. «Se vuoi essere libero, sii libero», senza parlarne tanto. Penso che il cinema sia in grado di generare artisti capaci di accostarsi alla propria opera co­ me a un servizio. Eppure ci occupiamo di cinema ignorando molto spesso cosa esso sia. Troppo spesso siamo prigionieri della nostra lingua. Già Nietzsche os­ servava che la lingua sta cominciando a perdere la propria natura, anziché farsi più precisa, tende a sminuirsi; esprime sempre meno l’essenza (in

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arabo per esempio ci sono 700 parole per defini­ re un cammello!). Nel trasmettere un significa­ to, la parola stessa diventa troppo imprecisa. Il perdersi della lingua è un fenomeno strano, che deve mettere in guardia. Le nostre conoscenze si stanno allontanando sempre di più dalla verità. Viene a formarsi un abisso tra il nome e l’essenza del fenomeno. L’arte nel suo essere universale ha il compito di colmare questa distanza. Anche in arte tuttavia si verificano strani fenomeni, simili a quelli che si verificano nella lingua. Per fare un esempio, il fenomeno della «cultura di massa», ovvero la sostituzione della qualità con la quan­ tità. Tutti «consumano» l’arte, tutti si «interes­ sano» all’arte. E simile al vestiario, un accesso­ rio alla moda fa parte della gamma di scelte a disposizione dell’uomo moderno. Pragmatismo, consumismo, moda: ecco il flagello dell’arte con­ temporanea. Eppure la sua autentica sostanza, il suo ruolo e la sua funzione non cambiano e non possono cambiare. In arte ci è dato, creando un’immagine, di abbracciare l’immensità. L’assoluto. Religione, filosofia, arte: questi sono i tre pilastri dell’atti­ vità spirituale, sui quali l’uomo formula per se stesso il concetto di assoluto. Allo stesso modo in cui in una goccia si riflettono le nuvole e gli alberi, così in un’immagine si riflette l’universo. Una goccia è l’immagine dell’universo. Si tratta di un’allegoria. Ma anche la religione, per esem­ pio, è allegoria, poiché ci parla in lingua umana. Pavel Florenskij nel suo Iconostasi, riflettendo su

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cosa sia un’icona scrive: «Immaginate di trovarvi chiusi in una stanza, dove però si trova una fine­ stra poco illuminata, dalla quale penetra la luce di un altro mondo». Rispetto al concetto di immagine artistica que­ sta è una considerazione molto profonda. L’uomo è un granello di assoluto. Se l’uomo percepisce l’assoluto, gli viene concesso di rappresentarlo. Si è abituati a credere che la specificità del ci­ nema consista nel suo essere un’arte «sintetica», che in essa tutte le forme dell’arte siano fuse. Se davvero così fosse, il cinema non sarebbe un’arte. Il cinema non è un’arte sintetica allo stesso modo in cui il montaggio non è la natura specifi­ ca del cinematografo. D’altronde anche la lettera­ tura è montaggio, e così la poesia e l’architettura. Il cammino del cinematografo è un cammino di graduale liberazione dalle influenze delle arti affini e non il contrario. E quanto più il cinema­ tografo andrà avanti nell’elaborare in modo indi­ pendente i materiali dalla vita, tanti più risultati otterrà. Il pericolo maggiore per ogni tipo di arte è non comprendere la specificità del proprio materiale. Come, per esempio, facevano i peredvizniki? nei cui lavori l’unicità veniva sopraffatta dalla fun­ zione. Oppure le sculture di Rodin: in alcuni ca­ si c’è un’evidente incomprensione del materiale della propria arte. Altra cosa sono le sculture di 1 Pittori ambulanti della corrente realista in Russia nella seconda metà dell’ottocento.

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Henry Moore, il quale estese la natura, creò pie­ tra dalla pietra e non letteratura dalla pietra, co­ me a volte fece Rodin. L’arte è una «cosa» assolutamente pura, ed è impossibile che contenga in sé delle «impurità», siano queste congiunture o eclettismi. Conservare il tempo, ecco l’essenza del mate­ riale che viene usato dal cinematografo. Un’au­ tentica costruzione cinematografica unisce im­ magini del mondo nell’immagine del tempo. Se non è possibile eliminare la nozione di tempo dall’inquadratura, significa che le riprese sono state fatte correttamente. Di solito «invecchiano» quei film nei quali il flusso del tempo nell’inquadratura è stato trascu­ rato dai registi, nei quali non vi è un movimento spontaneo della vita. Michail Il’ic. Romm riteneva che lo sviluppo del cinema fosse un percorso verso l’acquisizione di un maggiore realismo, una maggiore verosimi­ glianza. È un’affermazione sia giusta che sbagliata. E la verità che interessa l’arte e non la verosimi­ glianza. E importante tralasciare tutto quello che può essere letto come una falsificazione della real­ tà. Così come il musicista ha «orecchio», il regista deve possedere un certo organo di controllo, che gli impedisca di superare i confini della propria conoscenza di vita, della verità della vita. La specificità del cinema è una scultura del tempo. Il cinema non possiede una lingua pro­ pria, intesa come un determinato sistema di se­ gni. Il cinema non usa una lingua, usa la realtà

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(poiché il tempo è la realtà), usa le immagini del tempo che scorre. La capacità di immedesimarsi nel tempo coincide con l’avere talento per il ci­ nematografo. L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat dei fratelli Lumière è un film ecce­ zionale, è la realtà fissata che esiste nella sua for­ ma. È come se noi entrassimo in quel tempo. In genere, questo fa pensare che il cinema au­ tentico, forse, comincia proprio nel momento in cui «non succede nulla», quando non vi è un «senso ultimo» che abbraccia un episodio, ma c’è del materiale di vita in quanto tale. Tutte que­ ste cosiddette «parole importanti», in sceneggia­ tura, non rientrano affatto in un ambito cinema­ tografico. La ricostruzione di un evento di per sé significa molto di più. Il cinema autentico è capace di riferire il proprio pensiero anche senza l’ausilio delle parole. Si può parlare di cinema futuro, di olografia e cose simili, ma non c’è nessuno che potrà ripren­ dere meglio dei fratelli Lumière, quando realiz­ zarono L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat o di Vigo nel suo Zero in condotta. A essere sincero, io non credo molto alla ri­ voluzione tecnica del cinematografo. Piuttosto ci si può aspettare una futura emancipazione in termini morali, etici. Credo che questo avverrà quando la tecnologia renderà possibile concen­ trare nelle mani di un solo uomo la capacità di fissare l’immagine sulla pellicola nel modo più economico possibile. In linea di principio l’arte può definirsi autentica nel momento in cui cessa

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di essere pagata, quando non ha bisogno di ripa­ gare le spese. Quando realizzerete il vostro film completamente gratuito, quando non occorrerà avere un’apparecchiatura ingombrante, un modo scomodo di sviluppare la pellicola, eccetera. Alla fine tutto si ridurrà alla stessa cosa che, diciamo, lega lo scrittore alla sua opera: una matita e un pezzo di carta. Così deve essere anche nel cinema e lo sarà, indubbiamente prima o poi, lo sarà. In­ vece adesso, poiché bisogna pagare la produzio­ ne e anche guadagnare, si crea una situazione in cui il cinematografo è costretto a tener conto del gusto dello spettatore che paga per vedere i film. Tuttavia anche oggi, nonostante il cinema sia per metà fabbrica e per metà arte, alcuni registi tro­ vano in qualche modo i mezzi per realizzare film che sono vere opere d’arte. Nel cinema contemporaneo si assiste a un fe­ nomeno che fa paura: la svalutazione della pro­ fessione del regista. Al giorno d’oggi tutti «sono capaci» di fare cinema e tutti «sanno tutto». In realtà questo suggerisce che nessuno sappia cosa sia il cinema. Bisogna ripartire dall’inizio. Non c’è legge alcuna. Non esiste né il cosiddetto ci­ nema «intellettuale», né il cinema «poetico». Impera il caos. E il regista deve riportare questo caos all’armonia. (Si faccia riferimento, a questo proposito, al pensiero di Aleksandr Blok.) Biso­ gna riuscire a trovare un proprio metodo di lavo­ ro con l’attore, l’operatore, il materiale... Certo, bisogna sapere cosa è stato fatto su questa linea prima di te, ma poi occorre scordarselo. L’igno­

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ranza è terribile, è aggressiva, cattiva. Per questo, ripeto, bisogna sapere, ma dimenticare. Bisogna dar vita a una propria teoria. Comunque, Fatto artistico è contraddittorio, è legato al sacrificio. L’ultimo atto della nostra creazione sarà la distru­ zione. Una volta che ci siamo creati una teoria dobbiamo sacrificarla, così come dobbiamo sa­ crificare la conoscenza delle leggi del montaggio, dell’organizzazione del materiale... Non bisogna aver paura di calpestare con i piedi i propri sche­ mi o princìpi. Forse Bresson è l’unico, nella storia del cine­ ma, ad aver raggiunto una fusione completa della pratica con una teoria da lui stesso predisposta prima di girare i suoi film. Qui vi è la coincidenza più assoluta, e non conosco artista più coeren­ te, che così tanto ostinatamente si sia sforzato di rendere la realizzazione del suo credo artistico quanto più precisa possibile. Inoltre, occorre tener presente che il suo prin­ cipio consiste nel distruggere completamente la cosiddetta espressività, abbattere cioè il muro tra l’immagine e la vita reale. In un certo senso in questa tendenza egli si accosta all’arte orientale, a una sorta di religione d’ispirazione zen, nella quale la forma è talmente raffinata, talmente or­ ganica che arriva a cessare di esistere. Lo sfon­ do diventa più manifesto del senso che si cela dietro. Naturalmente si tratta di una situazione ideale. Da un punto di vista teorico, forse, solo in Puskin si può trovare quel genere di rapporto tra forma e contenuto. E vero, Puskin non si ad­

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dentrava in tormentate riflessioni circa il proprio sistema teorico, il suo punto di vista sull’arte... Puskin era Mozart, in un certo senso, men che mai intento a filosofeggiare, si rivelava al contra­ rio nel suo essere «organico». Bresson è, in un certo senso, un asceta perfet­ to, straordinario. Gli è propria un’assoluta assen­ za di forma di fronte alla verità della vita, e già questo si fonde con la propria contraddizione sintetizzandosi in forma assoluta, in puro cine­ ma, pura arte, dove niente assomiglia alla vita, ma dove, d’altra parte tutto ciò si trasforma su­ bito in assoluta verosimiglianza. E proprio que­ sta oscillazione a creare una sensazione quasi di nausea, simile a quella provata quando ci si trova sul ponte di una nave che ondeggia sul mare ap­ pena increspato. Questo agisce in modo assolu­ tamente irreversibile. Qualcosa di simile succede quando si vuole ricordare una cosa senza riu­ scirvi. Si crea una melodia, un’intonazione, una sfumatura, che so, l’ombra di un pensiero, che in nessun modo si riesce a cogliere, ma che per tutto il tempo è presente nella coscienza. Alcune scene di Bresson provocano in me questa condi­ zione tormentosa. Forse non mi è mai capitato di vivere un’emozione più forte di quella provata guardando i film di Bresson. E se si parla di cinema, allora è evidente che Bresson è il più coerente. Nonostante questo, ca­ pisco che essere così coerenti è quasi impossibile. Un tempo, durante il Medioevo giapponese, per esempio, era consuetudine tra i pittori, una

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volta raggiunta la gloria e divenuto il loro nome noto a tutti, lasciare quel posto e intraprendere una nuova carriera d’artista sotto altre spoglie e in tutt’altra maniera. In pratica cominciavano una nuova vita. E succedeva che gli artisti riu­ scissero a vivere in questo modo diverse vite, fino a cinque, ricominciando ogni volta letteralmente da zero. In questo modo ogni artista è sicuramente in grado di modificare il proprio punto di vista sull’arte. Molto spesso succede che realizzando un capolavoro, l’artista, a volte distrugga i propri princìpi e, in luogo delle contraddizioni, sorgano sorprendenti possibilità. E dunque un principio sarà pure un principio, ma molto spesso viene violato. Questa caratteri­ stica così potente per un artista, quella di osser­ vare il proprio principio, non è accessibile a tutti. Ma mi piace e per questo vi parlo di Bresson. Si può notare che tutti i migliori film di Bres­ son, Bergman, Fellini sono in un certo senso le­ gati. Essenzialmente si tratta dello stesso film. Ognuno di questi registi, così diversi tra loro, nella propria creazione crea lo stesso film. E que­ sto non è un caso. Credo tuttavia che tra i registi che lavora­ no nell’ambito del cinema, nessuno avrebbe da obiettare, se dicessi che ognuno di loro si sen­ te in qualche modo limitato nella propria ope­ ra, proprio come una persona che lungo il cammino non riesce in nessun modo a raggiun­ gere quel punto preciso giunto al quale crede

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di poter raggiungere un risultato definitivo, una verità. Di persone siffatte non ne conosco. Ma, allo stesso tempo, ognuno di loro si imma­ gina chiaramente come una persona lontana dal raggiungere quello a cui tende. Posso dire, per esempio, che idealizzando in un certo senso i traguardi di Bresson, capisco che non potrei mai lavorare a quel modo. A dire il vero, di opere perfette non ne cono­ sco neanche una. In teoria, non credo neanche troppo a questa possibilità. Mi sembra, al con­ trario, che nelle imperfezioni risieda una sorta di umanità dell’opera, diversamente, anche una macchina, un computer, saprebbe fare arte. E queste imperfezioni, a conti fatti, diventano i pregi delle opere. Una volta mi venne in mente questo: perché noi registi non teniamo unita in nessun modo la nostra occupazione con la nostra vita, perché non siamo socialmente interessati? Ecco, da una parte c’è la mia vita, dove compio determinate azioni, dove posso essere onesto o vile, e dall’al­ tra c’è la mia occupazione, come due cose distin­ te. Quando comincio a comportarmi da persona onesta, comincio a scontrarmi con la società, con me stesso, e con gli altri. Ma perché questo non succede quando lavoro a un film? Perché è sem­ pre legato a un permesso, ed è tutto al sicuro, non è la mia vita, ma semplicemente una profes­ sione che svolgo per guadagnarmi il pane. Una persona che lavora a un macchinario, ha tutto il diritto di considerarsi padrone della

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propria vita, perché produce dei valori materia­ li, produce tecnologia, contribuisce al progresso. Invece una persona che racconta delle storielle a una grande fetta di pubblico, occupa il tempo di colui che lavora, ed è semplicemente un disone­ sto, perché toglie il tempo a una persona onesta, sfruttandolo come mezzo per guadagnarsi dei soldi. Approfitta dell’ignoranza e del desiderio di divertirsi. Tutto ciò puzza parecchio. E allo­ ra perché un artista deve separare la propria vi­ ta dalla sua professione? Non deve. Al contrario dovrebbe creare una relazione tra i suoi princìpi e quelli che proclama nei suoi film. Se sei uno scrittore, allora, prego, vivi come vuoi. Il pubbli­ co può leggere i tuoi libri e può anche trattarli con disprezzo, perché alla fine sono io che deci­ do di comprare o di non comprare quel libro. Il cinema invece è condannato al fatto che occorre pagare per poter vedere. Vendiamo in anticipo i nostri film. Sono condannati a essere visti. Pro­ prio per questo non abbiamo il diritto di trattare il cinematografo come se fosse puro divertimen­ to. Tuttavia, cosa succede in realtà? Da una par­ te i dirigenti ci trattano da persone che devono educare lo spettatore, dall’altra esigono sempli­ cemente che venga distrutta la sua personalità, non c’è altra parola per dirlo. Insomma, la mano sinistra non sa cosa fa la destra. E una questione molto complessa. Solo persone molto preparate e profondamente morali sono in grado di vederci chiaro in questa questione e trovare qualche so­ luzione in proposito.

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Osservate, il pubblico che vede i nostri film vuole a tutti i costi costringerci a creare opere che piacciano. Non c’è regista che non si sforzi di essere compreso, altrimenti non potrebbe la­ vorare. Questo perché l’arte è, dopotutto, anche un modo di entrare in contatto con gli altri. E se l’artista si esprime, non è affatto per gridare sull’orlo di un abisso e sentire di rimando l’eco della propria voce, no. L’arte è impossibile se non c’è qualcuno che la percepisce. Ma, d’altra parte, esigere che un artista venga compreso da tutti, equivale a esigere che lui cessi di essere uo­ mo, che si trasformi in una macchina in grado di calcolare tutti i possibili movimenti spirituali ne­ gli spettatori. Tuttavia si può accontentare tutti indistintamente, a condizione però che tu sia una macchina e non un artista. C’è di peggio, ed è quando l’artista tenta di parlare in una lingua ac­ cessibile a tutti, cioè, o imita il basso livello del­ lo spettatore, fingendosi uno stupidotto, oppure parla in modo infantile, come un adulto con i bambini. Sapete bene che ciò finisce sempre ma­ le. È una questione di enorme importanza. Non so cosa significhi «linguaggio accessibile». A me sembra che l’unico mezzo sia avere un linguaggio sincero. Un’altra strada, che non sia quella di es­ sere se stessi non la conosco. Su di noi grava un’enorme quantità di pregiu­ dizi, che tocca non solo i professionisti che crea­ no i film, ma anche gli spettatori. E uno di questi pregiudizi riguarda il fatto che l’opera d’arte sia comprensibile, adesso e subito, altrimenti non ha

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semplicemente il diritto di esistere, di essere crea­ ta. Sebbene Lenin abbia scritto che l’arte debba essere compresa dal popolo, non ha mai scritto che l’arte debba essere comprensibile al popolo. Si tratta di una traduzione imprecisa dal tedesco; chi conosce il tedesco può leggerla facilmente in qualsiasi edizione. Solo per via della nostra ar­ retratezza spaventosa possiamo attribuire a Le­ nin una frase così ignorante da un punto di vista filosofico. Poiché niente può essere compreso metafisicamente una volta per tutte. Esiste un processo di comprensione. Senza un tale proces­ so niente sussiste. Su questo molto hanno scritto sia Lenin che Marx che Hegel. Su questo si ba­ sa la teoria marxista, storica, estetica e filosofica. Voi lo sapete meglio di me. E nonostante tutto continuiamo a insistere testardi con la «com­ prensibilità». Ma, poiché la «comprensione» è un processo, allora questo significa un movimen­ to in direzione di un qualche progresso. Questo processo non può in alcun modo voler dire l’ab­ bassamento dell’artista a livello dello spettatore, perché questo significherebbe non progresso ma regresso. Il progresso significa solo innalzare lo spet­ tatore e la sua capacità percettiva fino al livello dell’opera letteraria, fino al livello dell’arte, mai il contrario. Creare un’opera letteraria comprensibile a tut­ ti è semplicemente impossibile. Poiché essa (in questo caso) uscirà dai confini dell’arte e diven­ terà un qualcosa di talmente mediocre, talmente

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poco convincente che cesserà di possedere il si­ gnificato che noi attribuiamo all’arte. Questo è chiaro a tutti, ma noi continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto, e cioè buttiamo via i soldi dello Stato, corrompendo il pubblico. Quest’ultimo si trova già ora in una condizione terribile. Ecco, proprio per il fatto che cerchia­ mo di creare dei film che potrebbero essere ca­ piti al volo dal pubblico, noi gli arrechiamo un danno spaventoso. Non dico che il fine debba es­ sere l’incomprensibilità. Capite bene che la que­ stione non si pone, che un fine del genere non può sussistere. Se date uno sguardo a un cartellone appeso a qualche angolo della strada e guardate che spet­ tacoli danno al cinema, non si capisce perché molti nostri film abbiano così tanta difficoltà a uscire sugli schermi in fase di consegna alla di­ rezione. Non capisco, che razza di danno morale possa arrecare allo spettatore vedere un film co­ me Pastorale di Otar Ioseliani, mentre nello stes­ so tempo esce un film che ha per titolo Uccidere... non ricordo chi. Insomma, si tratta di un’orribile insensatezza che può solo portare a corrompere lo spettatore e anche in modo spaventoso. Ultimamente ho dovuto viaggiare molto in Unione Sovietica. A Mosca e a Leningrado que­ sto processo, in un modo o nell’altro, è equilibra­ to, non salta all’occhio. Ma in provincia a ogni angolo sono appese locandine tutte simili e non sono proposti altri tipi di film, proprio nient’al­ tro. E se si considera che in Unione Sovietica

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vivono ormai quasi trecento milioni di persone, allora la situazione è decisamente catastrofica. Non capisco dove stia il problema, perché bi­ sogna arrabbiarsi con Andrej Smirnov e non la­ sciare uscire il suo film Autunno, che è assolutamente innocuo rispetto a quello che passa sugli schermi. Forse perché è stato prodotto dagli stu­ di della Mosfil’m, mentre quegli altri sono sta­ ti prodotti all’estero? Non riesco a capire dove stia la logica. Insomma, siamo testimoni di fatti incredibili che per me vogliono dire solo una co­ sa: offuscamento completo e incomprensione di cosa bisogna fare per migliorare le relazioni che intercorrono tra lo spettatore sovietico e l’artista sovietico che lavora nel cinematografo. Mi è capitato in quest’ultimo periodo di viaggia­ re per le nostre province e incontrare gli spettatori. E mi sono stupito di come lo spettatore sia matura­ to. Mi aspettavo completamente un’altra persona. E cresciuto, grida a gran voce, e non riesce a capire perché sia costretto a guardare dei film che non vuole vedere e non possa vedere quelli che vor­ rebbe vedere. Ricevo ogni giorno lettere dagli spettatori che mi espongono proprio questa questione. E mi stupisce quanto poco noi ci fidiamo di loro. Ed è già un bel pezzo che questi s’interessano di cose molte complesse per la loro comprensio­ ne. Inoltre gli spettatori non considerano questi film complessi, al contrario, trovano che questo sia sostanziale, fondamentale, che sia a loro ac­ cessibile più di qualunque altra cosa. Per questo

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c’è un’unica strada per raggiungere il cuore dello spettatore ed è quella di parlare la propria lin­ gua, senza temere un’interpretazione o un’assi­ milazione inesatta del film. Esiste un altro pregiudizio, non meno sostanzia­ le: la suddivisione dell’arte in arte cosiddetta otti­ mistica e pessimistica, in progressiva e reazionaria. Dal mio punto di vista, questo è nient’altro che un equivoco, perché non so raffigurarmi un’arte reazionaria. Se l’opera è arte nel vero senso della parola, allora non può essere reazionaria. L’arte in generale non può essere reazionaria poiché è il ri­ sultato della vita spirituale di un intero popolo che non può essere paragonato a una sorta di rifiuto. L’arte è necessariamente legata all’espressione dell’emanazione spirituale nella vita di un intero popolo, alla spinta morale della sua cultura. Per questo, quando il discorso verte sulla cosiddetta arte reazionaria, allora è chiaro che non si parla affatto di arte, ma di un tentativo di imitarla, di mimarla per mezzo della stilistica, dei modi, dei metodi, al fine di sollecitare certe idee reazionarie. Per questo mi sembra che sul piano dell’estetica classica, non si possa porre la questione in questo modo; è semplicemente ridicolo. La forma è inseparabile dalla sostanza, l’idea è inseparabile dalla forma. Così come nella scultu­ ra in gesso c’è una base, un’ossatura, così all’in­ terno di ogni opera c’è un’idea. Ma l’immagi­ ne di per sé non è una scultura di questo tipo. L’immagine artistica è di una qualità nuova in cui l’idea si dissolve nella forma e la forma si dissolve

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nel contenuto. Non si può chiamare mela la me­ tà di una mela, allo stesso modo non è possibile una forma se staccata dal contenuto. Per questo esistono così tante teorie, in cui gli estetici affer­ mano che in realtà la forma è anche la sostanza. Questa affermazione non ci piace e spesso l’ag­ grediamo con violenza; tuttavia a me sembra che non occorra tanta passione per esporre una simi­ le critica perché ha una sua ragione. Visto che è impossibile disgiungere questi due concetti, allo­ ra, seguendo una logica, si può chiamare prima­ ria sia la forma che il contenuto. E una questione di gusto; dipende dai punti di vista. A conti fatti non ha alcuna importanza. L’immagine artistica si può chiamare tale solo nel caso in cui sia racchiusa in sé, diventi erme­ tica, preziosa in sé, impossibile da interpretare, poiché è l’immagine della vita stessa, e anche la vita non permette un’interpretazione univoca. L’immagine non può esistere come simbolo di qualcosa, ovvero esistere in un sistema chiuso, che si possa decifrare. Ogni volta che ci si scon­ tra con un’opera d’arte profonda, quello che sempre colpisce è il fatto che è sempre diversa, assolutamente nuova. Intendo un’opera d’arte e non una pietosa rappresentazione le cui impres­ sioni sono sempre le stesse. Questo dice molto. Se noi delimitassimo un’immagine artistica entro confini ideologici, concettuali, allora in questo caso l’opera non vivrebbe, non verrebbe perce­ pita con noi e per se stessa, svolgendosi nel tem­ po. Si chiuderebbe e morirebbe.

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In generale, la questione sul perché i film in­ vecchiano è molto importante per la comprensio­ ne dell’essenza del cinema, ci torneremo ancora e ne discuteremo più approfonditamente. Quello che voglio dire adesso è invece che probabilmen­ te voi avete ragione quando dite che Come in uno specchio è molto più attuale di La dolce vita. Di Mouchette non voglio parlare. Rimarrà eterno e non cambierà mai. Ecco 8 V2, dal mio punto di vista, non è invecchiato, perché qui Fellini si concentra su questioni interne, personali, e non usurpa il diritto di un tribunale, né fa la morale alla società a lui contemporanea. Se Tolstoj non fosse stato così talentuoso, il suo Anna Kareni­ na sarebbe stato un pessimo lavoro, perché, cosa può esserci di più banale del soggetto di questo romanzo? Cosa può esserci di più banale di Ma­ dame Bovary di Flaubert? Ciononostante questo viene messo in una relazione tale con il mondo interiore e personale che acquisisce la forma e l’immagine dell’autore stesso. In La dolce vita il tempo stesso assume un aspetto transitorio, immediato, attuale. In un certo senso è un film che ha la pretesa di essere attuale. Probabilmente l’arte non può aspirare a un’attualità, e se l’opera, tuttavia, non è in grado di superare in sé ogni tipo di attualità, ogni ti­ po di immediatezza, se non riesce a trasformare questo problema in un problema eterno, allora questa attualità farà sì che il film invecchi. Il film morirà non appena avrà perso attualità. Anzi, an­ che le concezioni filosofiche di un film invecchia-

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no, perché si vede sempre che cosa viene illustra­ to, da dove è stato preso, eccetera. In opere che possono definirsi capolavori, rimmagine artistica non cede alle analisi, essa non significa nulla tranne se stessa, perché l’im­ magine è eterna. L’immagine è qualcosa di indi­ visibile e se invece trova un senso, un’interpreta­ zione, allora diventa simbolo e il simbolo invec­ chia non appena lo si decifra. Una vera opera d’arte non può essere compre­ sa fino in fondo, e non serve farlo, perché il vero artista non fa affidamento su questo. Egli crea un’immagine del mondo tale che noi possiamo guardarlo con gli occhi, ascoltarlo, percepirlo. Tutte le volte che ho guardato il film di Berg­ man Persona, mi è sempre parso che parlasse di cose assolutamente diverse e in contraddizione fra loro; ogni volta l’ho percepito in modo del tutto nuovo. All’inizio mi è sembrato che fosse un brutto film o che non lo avessi capito affatto. Tuttavia, in un secondo momento, ho realizzato che così doveva essere. E un mondo in cui tro­ viamo cose che ci toccano da vicino e attraverso questi aspetti veniamo a contatto con il mondo dell’artista. Non c’è altro modo. Fare affidamen­ to sul fatto che possiamo letteralmente coincide­ re, come coincidono i personaggi di questo film, non ci è possibile, per fortuna, poiché così non avremmo la possibilità di apprezzare l’opera a modo nostro, mentre questa verrebbe privata della possibilità di esistere come parte della na­ tura, come parte della verità, ovvero esistere in

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tutto e per tutto indipendentemente da ciò che le attribuiscono da una parte Fautore e dall’altra lo spettatore. Certo, parlando di questo, mi riferi­ sco a eccelsi esempi d’arte. I discorsi che vertono sulla comprensione sono per me discorsi molto ingenui, che porta­ no con sé una percezione volgare e utilitaristica dell’arte. L’arte non è in grado di agire come esempio, per quanto noi ci sforziamo di dar vita a dei per­ sonaggi con lo scopo di imitarli. Si capisce che è inutile, non se ne ricava nulla. Beh, i bambini giocheranno un po’ a fare Capaev o i Magnifici sette, e finirà lì. Questo gioco si basa esclusivamente su salutari istinti infantili. Perché il fine dell’arte non è insegnare ma, come dire, ammor­ bidire forse l’anima e acquisire lo sguardo in di­ rezione della verità, del bene, renderci malleabili e capaci di recepire il bene. Ecco, probabilmente consiste in questo la funzione dell’arte e anche la sua utilità. Nel cinema, si sta verificando adesso una cosa strana; i registi molto spesso girano i film lascian­ do fuori se stessi. Diventano come dirigenti di un processo e non creatori. Si capisce sempre, non sfugge. Molti di noi la pensano in questo modo: qui rubacchiamo un po’, lì camuffiamo, sosti­ tuiamo qualcosa con dei ragionamenti, prendia­ mo un po’ da quel regista, un po’ da quell’altro, leggiamo qualcosa nei libri, poi rappresentiamo il tutto in una forma più o meno convincente e tutto si accomoda. Ma non si accomoda niente.

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Si vedrà sempre che è qualcosa di eclettico, qual­ cosa che non vive, che è morto. Il cinema è arte, esattamente come le altre arti ed è per questo che non riusciremo a ingannare nessuno. La vita e l’arte possiedono un’unica fonte, una causa e un fine. L’uomo vive per tendere a un idea­ le, a un fine. Io non immagino il fine come rag­ giunto. In realtà non c’è un fine, c’è un processo verso un fine, c’è un movimento. E evidente che quando parliamo di un’immagine che crea un’il­ lusione di vita, qui, come in nient’altro, si riflette questa specificità della mente umana, della sua esistenza, del suo mondo interiore, che si espri­ me in qualcosa d’inafferrabile, dove l’assoluto è qualcosa di infinito, ma (nonostante questo) in­ dissolubile nella sua interezza, qualcosa che non si può disgiungere. Capite bene che qui il discor­ so è a un livello di pura filosofia, quasi a un livel­ lo religioso, non ci può essere niente di concreto. Lo scopo e le ragioni del movimento rimangono eterne, mentre tutto il resto deve essere infranto. Vorrei farvi capire che nella nostra professione non c’è niente di conforme alle regole, nessuna legge che non si debba rivalutare. Per questo, quando rivolgete la vostra atten­ zione a certi aspetti fondamentali del mestiere, dovete ricordarvi che essi vi sono dati non per­ ché voi li sfruttiate, ma perché voi siate in grado di distruggerli. Dovete accostarvi alle conoscenze canoniche della professione solo in questo sen­ so e solo in questo senso dovete studiarle. Non

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è possibile non studiarle, altrimenti per tutta la vita continuerete a «scoprire l’acqua calda». Questo non vuol dire che un artista deve uti­ lizzare ogni volta dei metodi particolari, assolu­ tamente no. Può riprendere gli stessi attori, gli stessi interni, utilizzare la stessa colonna sonora. E questo non significa che si tratterà dello stes­ so film. In questo senso mi sembra che occorra percorrere una strada di autolimitazione, pro­ gressivamente, limitandosi solo agli strumenti da voi prediletti, nei quali vi sentite più a vostro agio, dei quali vi servite con più facilità. Non è più semplice, è più nobile. Quando la semplice verità viene espressa con troppe parole, è sempre offensivo e spiacevole da sentire, altra cosa è un pensiero concentrato espresso in forma laconica. Laconicità non sempre significa semplicità. Io conosco per esempio casi di registi che con un’unica inquadratura riprendevano una grande scena. Ed era stupendo, come ad esempio nel film di Bergman La vergogna. Poi un’altra volta vedi una ripresa unica e ti viene la nausea, per­ ché per un altro regista si trasforma in un pezzo fine a se stesso. Beh, per esempio, nel film Soy Cuba, il defunto Urusevskij riprendeva quasi da sotto l’acqua della piscina di un grattacielo, dove qualcuno stava facendo il bagno, poi entrava in ascensore, saliva su un piano dove era in corso chissà quale festa, entrava in un bar... E allora? Sarebbe forse stato peggio se tutto questo fosse stato tagliato in dieci inquadrature? Appare così ingenuo e così pretenzioso, come se all’improwi-

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so nella buona società entrasse qualcuno appar­ tenente a tutt’altra società e si presentasse, come Dolittle nella pièce di Bernard Shaw. Questo non ha nulla a che fare con il cinema, nel senso più assoluto. Parlando dei problemi di regia, vorrei metter­ vi di nuovo in guardia sul fatto che molte sono le seduzioni per chi percorre questa strada. Esiste infatti quello che viene chiamato «lo stile cine­ matografico», che non ha niente a che vedere con la cinematografia, ma che, nonostante questo, rende il film simile al vero cinema. Una sorta di surrogato del cinema da cui bisogna stare molto, molto alla larga. «Cinematografico» è la formula più pericolosa, perché la si usa in un senso men­ zognero, superficiale. Dietro questa formula si può nascondere molto di quel che non ha niente a che vedere con il cinematografo. Anzi, bisogna per tutta la vita combattere dentro di sé queste manifestazioni superficiali della cinematografia. Forse avrete notato quanti nomi sono com­ parsi ultimamente in ambito cinematografico, tanti come non sera mai visto. Percorrendo i corridoi della Mosfil’m, leggo spesso le iscrizioni dei film mandati in produ­ zione; leggo i cognomi dei registi e ahimè, non ne conosco neanche uno. Forse uno, forse due cognomi sono a me noti. E tutta gente sconosciu­ ta, che non ha mai fatto niente di dignitosamen­ te noto, nel senso più serio di questa parola. Ma tutta questa gente realizza film, tutta roba accon­ ciata allegramente, con disinvoltura, che sa un

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po’ di cinema, ma che in realtà non ha nulla a che vedere con esso. E come se a un certo punto si fosse verificato un errore, una sorta di inganno diabolico, per cui tutti a un certo punto avessero imparato a fare cinema. Si è verificata una cosa spaventosa. Alcuni giovani registi hanno pensa­ to, buttandosi in massa nel cinematografo, che se un tale, poniamo «Bianchi» è in grado di ripren­ dere con la cinepresa a quel modo, allora anch’io, «Rossi», posso farlo. E un modo di vedere molto pericoloso e vizioso. Perché «Bianchi» e «Rossi» se ne andranno, spariranno, mentre il cinema­ tografo resterà. In generale, che vivaio strano il nostro cinema attuale che crea questi calchi, che genera queste specie di mutanti. A volte assomi­ gliano a dei bambini, ma di regola, in loro vi è l’impronta della degenerazione. Questo deriva dal fatto che noi percepiamo il cinema come una via di mezzo tra arte e fabbrica, officina da una parte, e arte, tribune, giornali, cioè arte in for­ ma di propaganda, dall’altra. Ma la propaganda possiede proprie forme e occorre, forse, andare a fondo di quello che sono propaganda e persua­ sione, al fine di non confonderle con il cinema. A me sembra che, con questo punto di vista sul cinema, non sia possibile generare nulla. E mi sembra che derivi dal fatto che noi tentiamo di sostituire le funzioni dell’arte con aspetti diversi, ideologici, legati alle influenze dell’uomo su un altro uomo. Invece, giacché il cinema è arte, non deve essere un ibrido tra cinema e qualcosa che non è cinema, qualcosa di mostruoso. E per que­

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sto che sugli schermi del nostro paese vediamo quello che vediamo. Non negate la tristezza della situazione. Questo non lo dico io, lo dice il presi­ dente del Goskino.2 E se vi preparate a essere registi, vi chiederei comunque di pensare alla posizione da assumere nella vostra attività, per non generare coi soldi dello Stato film-mostri. A conti fatti, abbiamo bi­ sogno di pensare allo scopo per il quale siamo entrati nel mondo del cinematografo e a quello che vogliamo dire con l’aiuto del cinematografo. E questa la cosa più importante.

2 Gosudarstvennyj Komitet po kinematografij (Comitato statale cine­ matografico), organo statale preposto all’organizzazione e al coordi­ namento cinematografico durante il periodo sovietico.

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Non cercherò di racchiudere l’idea d’immagine in una formula rigida, in una tesi definita. Infatti, basta gettare un rapido sguardo indietro, ricordare anche solo i momenti più vividi del passato, che colpirà la varietà della natura degli eventi ai quali avete preso parte, l’irripetibilità dei caratteri nei quali vi siete imbattuti. Ciò che vi colpirà sarà quell’intonazione di unicità che esprime il prin­ cipio fondamentale del nostro rapporto emotivo con la vita. All’incarnazione di questa unicità non cessa di tendere l’artista, sforzandosi inva­ no di afferrare l’immagine del vero... In arte, la bellezza della verità della vita risiede nella verità stessa, visibile persino a occhio nudo. Un uomo più o meno sensibile distinguerà sempre la verità dalla finzione, la sincerità dalla falsità, l’organi­ cità dall’affettazione insite nel comportamento delle più svariate persone nelle quali si imbatte dappertutto ogni giorno. In noi esiste un filtro particolare, creatosi man mano che percepisce il mondo circostante. Le ragioni della sua origine

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sono strettamente legate alla nostra esperienza di vita, la quale contribuisce anche al formarsi di una nostra sfiducia nei confronti di quei fenomeni in cui la struttura dei collegamenti è stata violata. Violata volontariamente o involontariamente, per mancanza di abilità. Vi sono persone incapaci di mentire. Altre lo fanno in maniera ispirata e convincente, altre non riescono a non mentire, altre ancora non riescono a non mentire ma lo fanno senza talento e male. Forse è per questo che in determinate circostanze, formatesi dalla vita stessa, quando diventa neces­ sario rispettare in modo preciso la sua logica, solo i bugiardi ispirati sono convincenti, avvertono il pulsare della verità e sono in grado di iscrivere le loro fantasie nelle capricciose volute della vita con pressoché geometrica precisione. Ossia, l’immagine così composta sarà vera, se in essa verranno colti i legami che, da una parte la rendono simile alla vita, e dall’altra, apparentemente al contrario, la rendono unica e irripetibile. Come è unica e irri­ petibile qualsiasi osservazione. Nella poesia medievale giapponese mi ha sem­ pre incantato il fatto che, per principio, essa rinunci perfino ad alludere a quel significato ultimo dell’immagine che, come la sciarada, solo in ultima analisi si lascia decifrare. Gli haiku e i tanka giapponesi plasmano le proprie immagini in un modo che alla fine perdono il loro significato ultimo. All’infuori di se stesse non esprimono nulla ed esprimono nello stesso tempo così tanto che, percorso il lungo cammino della compren­

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sione della loro essenza, ci si rende conto che è impossibile cogliere il loro significato ultimo. In altre parole, l’immagine corrisponde tanto più esattamente al suo scopo, quanto più difficile risulta cercare di farla entrare in una qualunque formula concettuale e astratta. Chi legge un haiku deve dissolversi in esso, come nella natura, deve immergersi, perdersi nella sua profondità, annegare, come nello spazio, dove non esiste né basso né alto. L’immagine artistica di un haiku è talmente profonda che la sua profondità è impossibile da misurare. Un’immagine simile sorge solo mediante un’osservazione diretta e immediata sulla vita. Ecco ad esempio un haiku di Basho: Un vecchio stagno, Una rana è saltata nell’acqua, Un tonfo nel silenzio.

Oppure: Dei giunchi tagliati per un tetto Sulle canne dimenticate Cadono morbidi fiocchi di neve.

Ed eccone un altro: Da dove all’improvviso tanta pigrizia? Oggi a stento sono riusciti a svegliarmi Rumoreggia la pioggia primaverile.

Che semplicità e precisione d’osservazione! Che

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disciplina dell’intelligenza e nobiltà d’immagina­ zione! Sono versi splendidi, come la vita stessa. I poeti giapponesi sapevano esprimere in tre versi il loro rapporto con il mondo. Non solo osser­ vavano la realtà ma, osservandola, ne esprimevano il significato. Quanto più l’osservazione è precisa e concreta, tanto più è unica. E quanto più è irri­ petibile, tanto più si avvicina all’immagine. Anche Dostoevskij diceva che la vita è più fantastica di qualsiasi invenzione della fantasia. L’osservazione è proprio il principio fondamentale dell’immagine cinematografica, la quale, com’è noto, è sempre legata alla registrazione fotografica, cioè alla forma più vivida di osservazione che possa esistere. In una parola, l’immagine cinematografica è l’immagine della vita stessa. Ma la fotografia istantanea, che fissa in modo preciso un determinato oggetto, è ancora lontana dall’essere un’immagine. Fissare eventi reali non è sufficiente affinché si possa vede­ re in essi una successione di immagini cinemato­ grafiche. L’immagine cinematografica non è solo una fredda riproduzione documentaria dell’oggetto sulla pellicola. No! Un’immagine cinematografica si fonda sulla capacità di far passare per osserva­ zione la propria percezione dell’oggetto. Tornando alle riflessioni sulla polivalenza dell’immagine, ci si può rivolgere anche alla prosa. Il finale di La morte di Ivan U’ic racconta la storia di un uomo cattivo, gretto, con una moglie cattiva e una figlia altrettanto cattiva, il quale, poiché sta morendo di cancro, prima di morire, vuole chiedere loro perdono. All’improvviso sente dentro di sé una

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tale bontà, che sua moglie e sua figlia, due persone stupide e insensibili, interessate solo ai balli e ai vestiti, a un tratto gli appaiono profondamente infelici, degne di compassione e di indulgenza. Ed ecco che morendo si vede scivolare lungo una specie di tubo nero, molle, simile all’intestino... In lontananza sembra si veda una luce, lui si pro­ tende verso la luce, cerca di raggiungerla, ma non riesce in alcun modo ad attraversare, a superare quell’ultimo confine che separa la vita dalla morte. Ai piedi del letto ci sono sua moglie e sua figlia. Vorrebbe dir loro: «Perdonatemi». Invece dice: «Lasciatemi passare»... E forse possibile interpretare in modo univoco questa immagine stupefacente? E legata a certe nostre percezioni così indicibilmente profonde che non può non sconvolgerci. Qui tutto assomiglia così tanto alla vita, alla verità che è in grado di competere con le circostanze e le situazioni da noi realmente sperimentate o immaginate nell’intimo. Si tratta del riconoscimento del già noto, che, secondo la concezione aristotelica, costituisce la prerogativa del genio. Prendiamo per esempio il Ritratto di giovane donna con ramo di ginepro, di Leonardo da Vinci (impiegato in Lo specchio nella scena in cui il padre arriva a casa per una breve sosta, durante la guerra). Le immagini create da Leonardo colpiscono sem­ pre per due aspetti. Il primo riguarda la capacità eccezionale dell’artista di osservare l’oggetto dal di fuori, dall’esterno, di lato, con uno sguardo dall’alto sul mondo, che è proprio degli artisti

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come Bach, Tolstoj. Il secondo aspetto riguarda la capacità di essere percepito contemporaneamente con due significati opposti. Sembra impossibile descrivere l’impressione che ha su di noi questo ritratto di Leonardo. E perfino impossibile dire con precisione se questa donna ci piaccia o no, se è simpatica o antipatica. Contemporaneamente attira e ripugna. Vi è in lei qualcosa di indicibilmente bello e di altrettanto «diabolico». Ma «diabolico» non nel significato romantico di «attraente». Sem­ plicemente vi è in lei qualcosa che sta al di là del bene e del male. Si tratta di un fascino di segno negativo. Se si guarda il ritratto, avvertiamo come una pulsione inquietante, un incessante e quasi impercettibile avvicendamento di emozioni, che va dall’ammirazione all’avversione. Un volto quasi fiacco, gli occhi troppo distanti... vi è addirittura un che di degenere e... di stupendo. Nel film Lo specchio questo ritratto è servito per confrontarlo con la protagonista, per sottolineare in lei, così come nell’attrice Margarita Terekhova, che ne recitava la parte, quella stessa capacità di essere al contempo incantevole e ripugnante. Eppure, provate a scomporre il ritratto di Leo­ nardo nei suoi elementi costitutivi: non ci riu­ scirete. In ogni caso scomporre in questo modo l’impressione in elementi non spiega nulla. Anzi, la forza dell’influsso emotivo che l’immagine di questa giovane donna col ramo di ginepro esercita su di noi, si fonda proprio su questa impossibilità di privilegiare questo o quel dettaglio estrapolato dal contesto, su questa impossibilità di privilegiare

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un’impressione momentanea rispetto a un’altra, di trovare un equilibrio in rapporto all’immagine che contempliamo. Di fronte a noi si dischiude la possibilità di interagire con l’infinito. Ed è a questo infinito che, con gioiosa ed esaltante sollecitudine, la nostra ragione e i nostri sentimenti tendono. Una simile percezione viene suscitata innanzitut­ to dall’integralità dell’immagine; essa ci influenza proprio per questa sua impossibilità di essere scom­ posta. Ciascuna componente di questa immagine di donna con ramo di ginepro presa di per sé, non ha vita. Oppure, al contrario, forse ogni sua componente, anche la più piccola, rivela le stesse proprietà dell’intera opera compiuta. E la natu­ ra di queste proprietà si origina dall’interazione di princìpi opposti che si trovano in uno stato di equilibrio instabile: il volto della giovane donna raffigurata da Leonardo è ispirato da alti pensieri e allo stesso tempo lei pare infida, incline a passioni abiette. Il ritratto ci dà la possibilità di scorgere in esso un’infinità di cose. Cercando di cogliere la sua essenza, ci troviamo a vagare per labirinti interminabili senza trovare l’uscita. E infine, dopo aver sperimentato di non essere in grado di cogliere l’immagine, di esaurire il suo significato fino in fondo, proviamo un autentico piacere. Un’im­ magine artistica autentica spinge sempre colui che la contempla a provare contemporaneamente delle sensazioni contraddittorie che si escludono a vicenda, sensazioni racchiuse nell’immagine e che definiscono la sua essenza e la sua magia pseudo­ metafisica. «Pseudo» proprio perché abbiamo a

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che fare con il vivo riflesso del bagliore della vita stessa e non con delle astrazioni filosofiche. È impossibile cogliere il momento in cui l’emo­ zione positiva diventa il suo contrario mentre il negativo tende al positivo. L’infinito è immanente alla struttura stessa dell’immagine, ovvero appar­ tiene all’estetica. Ma nella vita l’uomo dà la sua preferenza a una cosa sola rispetto a tutto il resto e con ciò afferma la propria libertà di scegliere. Di conseguenza, percependo l’immagine, seleziona, ricerca il suo, pone l’opera d’arte nel contesto della propria esperienza personale e sociale. Poiché ognuno nella propria attività è inevitabilmente tendenzioso, ossia difende la propria personale verità sia nelle cose grandi sia nelle piccole. Tra­ sferisce questa tendenziosità anche alla valutazione dell’opera d’arte, adattandola ai propri bisogni vitali; comincia a interpretarla conformemente al proprio «tornaconto». Pone l’opera nei contesti esistenziali a lui propri, la collega alle formule interpretative che più lo ispirano, sfruttando incon­ sapevolmente il fatto che i grandi esempi d’arte sono ambivalenti a priori e offrono fondamento alle interpretazioni più svariate. L’immagine è chiamata a esprimere la vita stessa e non le idee dell’autore o le sue riflessioni sulla vita. L’immagine non rappresenta la vita, non la simboleggia, ma la esprime. L’immagine riflette la vita, fissa la sua unicità. Ma che cos’è allora la tipicità? Come mettere in relazione l’unicità, l’irri­ petibilità con la tipicità in arte? Il sorgere dell’im­ magine si identifica col sorgere di ciò che è unico.

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La tipicità invece - scusate il paradosso - dipende direttamente da ciò che è al contempo qualcosa che non somiglia a niente, isolato, unico, individuale e che è racchiuso nell’immagine. Il tipico non nasce affatto laddove si concentra la comunanza e la somiglianza dei fenomeni, ma laddove si rivela la loro dissomiglianza, la loro particolarità, la loro specificità. Se si insiste su ciò che è individuale, ciò che è comune viene come omesso, rimane fuori dai confini della rappresentazione visibile. Ciò che è comune, in questo modo, emerge a motivare l’esistenza di un qualche fenomeno unico. In un primo momento ciò può apparire stra­ no, ma non bisogna dimenticare che l’immagine artistica non deve evocare alcuna associazione, ma deve solo rammentare allo spettatore la veri­ tà. Nell’affermare questo, mi riferisco non tanto allo spettatore che contempla l’opera d’arte, ma al­ l’artista che crea l’opera. L’artista, accingendosi al lavoro, deve credere di essere lui il primo a rappresentare con un’immagine questo o quel fenomeno. Per la prima volta e solo così come lui l’ha percepito e compreso. L’immagine artistica è un fenomeno sempre unico e assolutamente irripetibile, a differenza di un fatto di vita, che si può inserire in una serie qualunque di eventi che si somigliano fra loro. Come in quell’Zwzfe/ del poeta Ranran: «Pioggia d’autunno nella nebbia! No, non a me, verso il mio vicino è passato fru­ sciando l’ombrello». Di per sé un passante con un ombrello, che abbiamo visto nella vita reale, non significa assolutamente nulla. Ma nel contesto di

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un’immagine artistica, con una perfezione e una semplicità stupefacente, attraverso di lui ci viene trasmesso un istante di vita, unico e irripetibile. Da due versi è facile immaginare lo stato d’animo che domina il poeta, la sua malinconia e la sua solitu­ dine, il tempo grigio e umido fuori dalla finestra e la vana attesa che qualcuno, per miracolo, visiti la sua abitazione solitaria. Un’espressione artistica di straordinaria vastità e portata viene qui raggiunta solo attraverso la fissazione esatta di una situazione e di uno stato d’animo. Più l’immagine cinematografica è unica, più è assurda. Cosa voglio dire? La cosa più semplice di tutte è individuare qualsiasi evento della vita e riprenderlo; molti l’hanno fatto. E così sono stati girati molti documentari interessanti, nei quali l’essenza del cinema era formulata in modo preciso. Eppure a me sembra che nel cinema l’immagine non consista affatto nel ripetere una qualche osser­ vazione (sebbene non sia una cattiva idea), ma nel far passare qualcosa per un’osservazione sulla vita. Farla passare per una sua espressione naturalistica. Mi sembra che in questo ci sia qualcosa; è questo che bisogna cercare. Prendiamo per esempio il finale di Manchette di Bresson. Se vi ricordate, la protagonista, avendo ormai perso qualsiasi fiducia nella vita, si ritrova vicino alla riva di un fiume con un vestito bianco sotto il braccio, datole dalla vicina per seppellirci sua madre. Lei indossa questo vestito, in modo un po’ sgraziato, non si capisce se lo stia indossando o se se lo stia gettando sulle spalle e comincia a

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rotolare giù per il pendio. Il pendio si allinea, il movimento si arresta. Lei si rialza, torna su e di nuovo rotola, rotola, dopodiché cade in acqua. Si sente un tonfo e non la vediamo più. Qui l’azione si chiude su quella che di solito viene definita un’assurdità. Ma è talmente assurda che non vi è alcun dubbio sul fatto che questa sia la verità. Non c’è una logica, è inverosimile, ma è la pura verità. Qui si crea ciò che noi chiamiamo arte. Al principio di queste riflessioni abbiamo inten­ zionalmente omesso dal nostro campo di osser­ vazione ciò che viene chiamato il personaggioimmagine. A questo punto sembra sia arrivato il momento di inserire anche lui nel nostro discorso. Basmackin, oppure Onegin,1 come tipi artistici, da una parte riassumono in sé determinate regole sociali che hanno portato alla loro apparizione. Dall’altra recano in sé dei motivi extratemporali e tipicamente umani. Infatti, un personaggio della letteratura realistica è tipico innanzitutto perché esprime un intero gruppo di fenomeni a lui affini, che sono una conseguenza di regole comuni. Per questo, come tipologie umane, sia Basmackin che Onegin posseggono nella vita una gran quantità di omologhi. Come tipi sì! Ma come immagini artistiche sono assolutamente unici e irripetibili. Sono troppo definiti, sono stati delineati molto bene dagli scrittori, in loro si sente eccessivamente il punto di vista dell’autore perché si possa dire 1 Protagonisti, rispettivamente de Jl cappotto di Gogol’ e dell'Evgenij Onegin di Puskin.

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«Onegin è proprio come il mio vicino»... Il nichi­ lismo di Raskol’nikov, definibile in termini storici e sociologici, è certamente tipico ma, entro dei parametri personali, individuali, propri della sua immagine, è irripetibile. Anche Amleto è senza dubbio un tipo ma, semplicisticamente parlando, avete mai visto degli Amieti in giro?... Si crea una situazione paradossale: l’immagine è l’espressione più completa della tipicità, ma quanto più pienamente si sforza di esprimerla, tanto più deve diventare individuale e unica di per sé. Che cosa fantastica l’immagine! Per certi versi è addirittura molto più ricca della vita stessa, nel senso che esprime l’idea della verità assoluta. In senso funzionale, significano forse qualcosa le immagini di Leonardo da Vinci o di Bach? No, non significano nulla, tranne quello che significano di per sé: fino a questo punto sono indipendenti. Loro vedono il mondo come se fosse la prima volta, non gravati da nessuna esperienza e cercano di riprodurlo con la massima precisione. Il loro sguardo è paragonabile a quello degli alieni. L’immagine cinematografica, così come ogni altra immagine, è innanzitutto integra. Per questo sem­ bra del tutto inutile parlare della sua essenza sin­ tetica. Sebbene dell’essenza sintetica del cinema­ tografo si parli all’infinito. La dominante assoluta dell’immagine cinema­ tografica è il ritmo, che esprime il fluire del tempo all’interno di una inquadratura. E il fatto che il fluire del tempo si rivela, si manifesta sia nel comporta­

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mento dei personaggi sia nei trattamenti figurativi sia nel suono, costituisce solo una serie di elementi collaterali che, ragionando da un punto di vista teorico, possono esserci o non esserci. Ci si può immaginare un film senza attori, senza musica, senza scenografie e senza montaggio, unicamente attra­ verso la percezione del tempo che scorre all’interno dell’inquadratura. E sarà vero cinematografo, come fu un tempo, L'arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat dei fratelli Lumière. Oppure il film di un regista «underground» americano, dove a lungo si vede un uomo che dorme, fino a quando non si assiste al suo risveglio che racchiude in sé un inaspettato, stupefacente effetto cinematografico. Naturalmente tutto questo è nient’altro che un tentativo di individuare l’idea cinematografica nel suo, diciamo così, aspetto puro. E, senz’ombra di dubbio, impostare così il problema ha il suo vantaggio. Aiuta a capire qualcosa che possiede un significato artistico non più solo teorico ma anche pratico, e cioè che in un film nessuna delle componenti può avere un senso o un significa­ to autonomo. Solo il film costituisce un’opera d’arte. E delle sue componenti costitutive possia­ mo parlare solo in senso convenzionale, quando cominciamo a scomporlo artificialmente nei suoi elementi. Per questo penso che la natura sintetica di un film sia assai relativa. L’immagine non è una costruzione, né un simbolo, come abbiamo appena stabilito, ma è qualcosa di indivisibile, unicellu­ lare, amorfo. Proprio per questo abbiamo potuto parlare dell’insondabilità dell’immagine, della sua

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impossibilità connaturata di poter essere spiegata con una formula. Che cos’è l’immagine cinematografica a diffe­ renza dell’immagine in poesia o in pittura o in altre forme d’arte? Pensiamo al concetto della metafora. In poesia esiste il concetto di tropo, metafora, perché mai nel cinema non dovrebbe esserci? E possibilissimo, ma niente affatto obbligatorio. Per esempio nel suo Una terribile vendetta Gogol’ scrive: «E il cosacco cadde e dalla sua gola sgorgò il sangue alto e vermiglio come il viburno». Ecco un’immagine assolutamente sorprendente. E una palese metafora. Ma si tratta di letteratura. Se in ambito cinematografico si utilizzasse una metafora così forte, beh, la cosa sarebbe semplicemente ridi­ cola. Ad esempio nel film di Kalik, Luomo segue il sole, c’è un episodio che si chiama «Funerale di un girasole». Si sente una musica triste, portano il girasole, della gente lo sotterra. Anche questa è una metafora, ma è semplicemente impossibile vederla. E non perché Kalik non è Gogol’. Ma perché è una metafora tipicamente letteraria, un’immagine poetica intesa come genere, non come concezione del mondo. Perché ogni arte è in grado di essere poetica non nel momento in cui si appropria di metodi appartenenti a un altro tipo d’arte, ma sul piano della concezione del mondo. Ecco invece un altro esempio: il film muto di Bunuel, L’àge d’or come anche Un chien andalou. Qui si sovrappongono immagini su immagini, e per quanto riguarda Un chien andalou, direi che si tratta di un film puramente surrealista. C’è la

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sequenza, per esempio, dell’uomo, legato con una corda a un pianoforte, che viene trascinato per le stanze, mentre sul pianoforte aperto giace un asino morto. E la cosa non appare pretenziosa, perché si tratta di un’immagine e non di una metafora. La metafora comunque non è adatta al cinema­ tografo, nonostante parecchi critici sostengano il contrario. Perché spesso confondono l’immagine con la metafora o con il tropo, o con il simbolo... Ma l’immagine con questo non ha nulla a che fare. E dunque, cos’è l’immagine? L’immagine è un riflesso della vita e non un concetto cifrato. Mai. Un concetto cifrato può designare un simbolo, un’allegoria, ma con l’immagine non ha nulla a che vedere. L’immagine nel suo rapporto con la vita è infinitamente precisa, esprime la vita e non designa, non simboleggia qualcos’altro. Proviamo a ricordare un simbolo che compare in un film. Per esempio in un film di Bunuel; anche se lui ha molta paura dei simboli e se ne tiene alla larga. Nel film Nazarm c’è quell’ultima inquadra­ tura (conoscerete senz’altro questo film stupendo, forse il migliore; io lo amo molto). Corre un paral­ lelo tra il protagonista, un prete spretato, e Gesù. La gente sta sacrificando quest’uomo. Esigono da lui ciò che si poteva esigere solo da Gesù. E alla fine, comunque, lo spingono alla morte. L’ul­ tima scena è questa: il protagonista già arrestato, viene condotto su per una strada polverosa da due carabinieri; ha molta sete. Nel vedere questo, una donna prende un ananas e glielo porge. Lui lo prende e a un tratto si spaventa terribilmente,

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come se da ultimo capisse qualcosa. E, senza più voltarsi, procede con sicurezza su quella strada, verso una meta stabilita. Chi conosce i Vangeli sa che una donna diede da bere a Gesù quand’egli era sulla strada verso il Golgota. Bunuel utilizza questo parallelo per rammentare allo spettatore che può interpretare il protagonista in questo senso. Si tratta di un dettaglio molto preciso. Ha un effetto sorprendente anche per coloro che non conoscono i Vangeli. Ma è un simbolo. Nonostante tutto è un simbolo. Lo stesso Gogol’ a suo tempo scrive­ va: «Io non voglio insegnare per mezzo dell’arte, l’arte è già un insegnamento». Significa che, in un certo senso, è già simbolica, cioè è già di per sé un insegnamento. Molto spesso vorremmo che nelle nostre opere l’insegnamento fosse posto in primo piano, dimenticandoci del fatto che l’arte è già questo. Non deve essere edificante, non deve essere retorica, non deve istruire, perché non vi è niente di peggiore di un uomo che ammaestra un altro. Persino tra le opere di Tolstoj, le migliori non sono quelle di cui lui stesso parlava in punto di morte, quando diceva che le sue opere sarebbero iniziate solo dopo aver smesso di scrivere romanzi. Si sba­ gliava. E la forza dell’immagine come fenomeno del mondo è tanto più significativa, quanto più è vera, integra; non può essere scomposta, frazionata in tanti piccoli concetti, come in una verità scienti­ fica, concetti di cui l’assoluto, secondo qualcuno, sarebbe composto. Il discorso qui verte su tutto un altro aspetto, sull’interezza dell’immagine, sul fatto che essa non può essere scomposta.

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Dove sta dunque quella struttura, come dire, puramente cinematografica che non dovrebbe dipendere da nulla? Si tratta evidentemente di un metodo che serve per deformare il tempo o creare un’illusione di deformazione del tempo. Può darsi sia questo uno dei principali aspetti che riguardano il problema dell’immagine cinematografica.

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Di solito si pensa che la sceneggiatura faccia parte di un genere letterario. Non è così. Non ha nessuna relazione con la letteratura e non può averne. Se vogliamo che la sceneggiatura si avvicini al film, la scriveremo così come verrà ripresa, cioè annoteremo a parole ciò che vorremmo vedere sullo schermo. Si tratterà della tipica sceneggiatura illeggibile, perché una trascrizione del genere non è affatto letteraria. Ma, poiché una sceneggiatura deve essere approvata, allora solitamente viene scritta in modo tale che sia comprensibile a tutti. Questo significa che di solito una sceneggiatura si discosta parecchio dalla rappresentazione cinema­ tografica, perché l’immagine cinematografica non corrisponde all’immagine letteraria. Parafrasando un noto proverbio russo, si può formulare così questa situazione: un film è vedere una volta, la sceneggiatura è ascoltare dieci volte. E impossibile trascrivere un’immagine cinema­ tografica con le parole. Sarebbe come descrivere una melodia con la

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pittura, oppure descrivere con la musica un’opera pittorica. Insomma, la cosa non è assolutamente fattibile. Una vera sceneggiatura non deve avere la pre­ tesa di essere un’opera letteraria compiuta. Sin dall’inizio deve essere pensata come futuro film. A mio avviso, più una sceneggiatura è precisa, peggio sarà per il film. Di solito una sceneggiatura del genere viene chiamata «forte»; i protagonisti qui inevitabilmente «si trasformano», tutto «si muove»... Fondamentalmente si tratta di un’im­ presa tipicamente commerciale. Altra cosa è il cinema d’autore. In questo caso diventa impos­ sibile esporre un’idea per mezzo di un linguaggio letterario, poiché il film sarà comunque altro. Bisogna trovare un equivalente. L’ideale sarebbe che la sceneggiatura venisse scritta dal regista. Il vero cinema viene pensato dall’inizio alla fine. L’intera sceneggiatura del film di Godard Vivere la propria vita, trovava posto in un’unica pagina, dov’era registrata la successione degli episodi. E basta. Non c’era testo. Gli attori dicevano quello che suggeriva loro la situazione. Un altro esempio è il film Ombre di Cassavetes, un film unico. Si tratta di un’improvvisazione nel senso letterale del termine. La drammaturgia del film fu il risultato delle scene girate e non il con­ trario. Ogni passaggio nello sviluppo dell’azione era antischematico. Lo schema originario venne distrutto dalle proprietà dello stesso materiale. Pertanto, non esiste nessuna drammaturgia (nella sua accezione tradizionale) ma tutto «sta in piedi da

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solo». Tutto si monta, poiché tutte le inquadrature sono della stessa specie. Tuttavia, questo non vuol dire che si possa usci­ re in strada con la cinepresa e girare un film. Ne dubito fortemente. Ci vorrebbero anni per far questo. La sceneggiatura è necessaria per ricor­ darsi l’idea, il punto di partenza. In questo senso la sceneggiatura è una gran cosa, ma solo quando, ripeto, costituisce l’idea, non di più. Non riesco a immaginare come si possa girare un film sulla sceneggiatura di un altro. Se un regi­ sta realizza un film basandosi interamente sulla sceneggiatura di un altro, allora inevitabilmente diventa un illustratore. Se invece lo sceneggiatore propone qualcosa di nuovo, agisce già come regista. Tuttavia lo sceneg­ giatore sempre più spesso è costretto a lavorare in una posizione di medio livello. Per questo la situazione ideale per uno sceneggiatore è quella di progettare e scrivere insieme al regista. Cercherò di illustrare più dettagliatamente le mie idee riguardo alla sceneggiatura e al concetto stesso di sceneggiatore. Chiedo scusa agli sce­ neggiatori professionisti ma, a mio avviso, gli sceneggiatori non esistono affatto. Devono essere o scrittori che capiscono perfettamente cosa sia il cinema o registi in grado di organizzare da soli il materiale letterario. Poiché, come ho già detto, in letteratura il genere della sceneggiatura non esiste. Solitamente qui sorge un dilemma. Per esem­ pio, un regista, nel realizzare una sceneggiatura, registrerà come azioni, episodi, solo quelli che lui

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si raffigura sotto forma di frammento concreto di tempo che poi andrà a fissare sulla pellicola. Da un punto di vista letterario queste sceneggiature appariranno incomprensibili, insensate e inac­ cessibili al massimo grado; non parlo solo per la lettura, ma anche per la redazione. D’altra parte, se uno sceneggiatore cerca di esprimere la sua idea originale in modo letterario, come scrittore, allora non creerà una sceneggiatura, creerà un’opera letteraria; diciamo un racconto di settanta pagine battute a macchina. Se farà delle annotazioni in vista di un futuro film, per esempio un foglio di montaggio, allora dovrebbe sempli­ cemente accostarsi alla cinepresa e girare quel film, perché nessuno meglio di lui se lo potrebbe raffigurare e nessun regista potrà girarlo meglio. Perché si tratterà di un’idea portata fino alla fine. Rimane solo da girarlo, ovvero, realizzarlo. Quindi, se la sceneggiatura è fatta molto bene e si presta al cinematografo, allora il regista, nel metterla in pratica, non ha bisogno di modificarla. Se invece si presenta come un’opera letteraria, il regista che la dovrà realizzare sarà costretto a rifarla. Quando un regista prende in mano una sce­ neggiatura e comincia a lavorarci, accade sempre che quest’ultima, per quanto profonda sia come idea e per quanto delinei precisamente il suo sco­ po, subisca inevitabilmente delle modifiche. Non prende mai forma sullo schermo letteralmente, parola per parola, in modo speculare. Subisce sempre delle deformazioni specifiche. Per questo il lavoro dello sceneggiatore, insieme a quello del

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regista, si rivela di norma una lotta e un insieme di compromessi. Non è escluso che possa venirne fuori un film pienamente riuscito e allora, nel caso in cui durante il lavoro dello sceneggiatore e del regista, i loro intenti iniziali si spezzino, crollino, anche dalle loro «rovine», sorga un’idea nuova, un nuovo organismo. A ogni modo, la variante più normale del lavoro di un autore su un film, sarebbe quella in cui l’idea iniziale non si rompa, non venga deformata, ma svi­ luppata organicamente, e più propriamente, quan­ do il regista si trovi a scrivere lui stesso la sceneggia­ tura o viceversa, quando l’autore della sceneggiatura si trovi a dirigere lui stesso il film. Per questo penso sia assolutamente impossibile, in ultima analisi, separare queste due professioni, la regia e l’arte della sceneggiatura. Una vera sce­ neggiatura viene realizzata solo dal regista, oppure può nascere come risultato di una cooperazione ideale fra il regista e lo scrittore. Tuttavia uno scrittore non può trasformarsi in uno sceneggiatore. Può espandere il proprio campo professionale, sebbene, per uno scrittore, una lunga permanenza in qualità di sceneggiatore penso sia infruttuosa. Insomma, credo che per un regista un bravo sceneggiatore possa essere solo un bravo scrittore. Lo sceneggiatore ha infatti di fronte a sé compiti che esigono il talento di un vero scrittore. Parlo di compiti psicologici. E qui che, senza sopprimere, senza distorcerne la specificità, viene realizzato quell’influsso realmente utile e necessario della

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letteratura sul cinematografo. Oggi, in ambito cinematografico, non c’è niente di più desolante e di più superficiale della psicologia. Parlo della com­ prensione e dello svelamento della verità profonda di quegli stati d’animo vissuti dal personaggio. Il cinema esige, sia da parte del regista sia da parte dello sceneggiatore, enormi conoscenze sull’uomo e una precisione scrupolosa di queste conoscenze in ogni singolo ambito; per questo un regista deve avere familiarità non solo con uno psicologo ma anche con uno psichiatra. La plasticità cinemato­ grafica infatti, in larghissima misura, e spesso in maniera decisiva, dipende dall’effettivo stato del carattere di una persona che si trova in circostanze concrete. E, da profondo conoscitore della verità di questo stato interiore, lo sceneggiatore può e deve dare tanto al regista. Ecco perché lo sceneggiatore deve essere un vero scrittore. Per quanto riguarda invece la trasformazione dello sceneggiatore in regista, questo non deve meravigliarvi. Esiste un gran numero di esempi in molti film della «Novelle Vague» o, principalmen­ te, all’interno del neorealismo italiano nato quasi interamente dall’esperienza di ex critici e sceneg­ giatori. Ed è naturale. Per questo i famosi registi, di norma, o scrivono da soli la sceneggiatura o lo fanno in collaborazione con uno scrittore. Onestamente, la stesura di una sceneggiatura e la cosiddetta verifica da parte di tutti i collegi di redazione possibili, è una pratica fuori moda e in certa misura anche reazionaria. Prima o poi il cinema rinuncerà a questo, perché è impossibile

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controllare un film secondo la sua sceneggiatura, è evidente! Viene realizzata un’enorme quanti­ tà di film con la speranza che potranno essere dei buoni film e invece falliscono tutti, mentre quelli alle cui sceneggiature nessuno credeva si rivelano all’improvviso dei capolavori. Succede molto spesso. Insomma, non c’è nessuna logica. Se qualcuno crede di poter giudicare un film da una sceneggiatura, posso assicurarvi, e oso dirlo, si sbaglia di grosso. Comunque in Occidente, purtroppo, esiste la figura del produttore che deve sapere in cosa sta investendo i propri soldi, mentre da noi c’è il Goskino\ anche quest’ultimo deve sapere, dove stanno andando i soldi dello Stato. Sebbene qui si tratti di autoinganno. È già stato dimostrato più di una volta. Da entrambe le parti. Stiamo ingannando noi stessi, e anche coloro che tentano di dirigerci ingannano se stessi. E chiaro che, finché esisterà un produttore in veste di riccone o di organo statale, avremo sem­ pre bisogno di una professione come quella dello sceneggiatore. Per quanto riguarda la cooperazione tra il regi­ sta e lo scrittore, anche questa è una questione assai complicata. Il fatto è che più lo scrittore è bravo, più è complicato realizzare un film per il regista. È sufficiente ricordare l’opera di Friedrich Gorenstein, Andrej Bitov, oppure quella di Hrant Matevosyan per capire di cosa sto parlando (a suo tempo questi scrittori avevano frequentato corsi superiori di sceneggiatura). Per questo, affinché il

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regista e lo scrittore cooperino, è molto importante per lo scrittore capire che l’opera cinematografica non può essere l’illustrazione di un’opera letteraria, perché si tratterà inevitabilmente della creazione di una figuratività artistica estranea alla letteratura. In questo caso l’opera letteraria sarà solo un materiale nelle mani del regista, a suo modo un impulso per la realizzazione del suo originale universo figurativo. Nella mia esperienza mi sono scontrato con scritto­ ri come Stanislaw Lem e Vladimir Bogomolov che non comprendevano questa regola. Sostenevano che nelle loro opere fosse impossibile modificare anche una parola. Per questo l’incomprensione sulla specificità del cinema è un errore abbastanza diffuso. D’altra parte, la mia collaborazione con i fratelli Strugatskij è stata invece fruttuosa. Insomma, non tutti i bravi scrittori possono esse­ re dei bravi sceneggiatori, per via di quei motivi di cui ho già parlato. E qui non si tratta di difetto o di pregio dello scrittore. E semplicemente diversa la specificità dell’immagine letteraria rispetto a quella cinematografica. Allora che cos’è un soggetto in sceneggiatura? E chiaro che questa domanda non presuppone una risposta semplice. Ricorderemo, benché già menzionati, i film di Godard e Cassavetes. Mi soffermerò per questo su quella comprensione del soggetto che al momento ritengo sia la più accettabile, ovvero quella che più riflette le mie idee sulla sceneggiatura. Alla luce delle mie odierne concezioni sulle possibilità e sulle particolarità del cinematografo

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come arte, per me è molto importante che il sog­ getto della sceneggiatura risponda all’esigenza di tener fede alle unità di tempo, luogo e azione secondo il principio classico. Prima mi sembrava interessante come poter utilizzare al meglio le infinite possibilità per montare in successione sia la cronaca che gli altri strati temporali, i sogni, il trambusto degli eventi, che mettono i perso­ naggi di fronte alle esperienze inaspettate e alle domande. Adesso vorrei che tra un’incollatura e l’altra prevista per il montaggio non ci fossero stacchi temporali. Vorrei che il tempo e il suo scorrere si manifestassero e fossero presenti all’in­ terno dell’inquadratura e che il montaggio fosse una continuazione delle azioni e nulla più, non un’interruzione temporale; vorrei non assolvesse la funzione di scelta e di organizzazione dram­ maturgica del tempo. Credo che una concezione così formalistica, così semplice e ascetica, possa offrire molte possibilità. Soffermiamoci adesso sulla questione del dialogoNon si può concentrare il significato della sce­ na sulle battute dei personaggi. «Parole, parole, parole», nella vita reale questo, il più delle volte, non vuol dire niente, e solo raramente e per un breve lasso di tempo potrete osservare una perfetta coincidenza tra parole e gesti, parole e fatti, parole e senso. Solitamente invece la parola, la condizione interiore e l’azione fisica di una persona, si svilup­ pano su piani differenti. Interagiscono tra loro, a volte quasi si ripetono, spesso si contraddicono

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e, di tanto in tanto, si scontrano in modo brusco, smascherandosi a vicenda. Solo se si conosce esat­ tamente che cosa e perché avviene contemporanea­ mente su ciascuno di questi «piani», solo se si ha una piena conoscenza di questo si può raggiungere la verità, l’irripetibilità di un fatto. Solo dall’esatta correlazione tra l’azione e la parola pronunciata, dal loro differente orientamento nasce quell’im­ magine che io chiamo immagine-osservazione, un’immagine assolutamente concreta. In letteratura, nel teatro, il dialogo è l’espres­ sione di un’idea (non sempre, ma molto spesso è così). Anche nel cinema, per mezzo del dialogo, si possono esprimere pensieri; dopotutto nella vita reale succede così. Ma nel cinema vige un altro principio di impiego del dialogo. Il regista deve essere continuamente testimone di quello che succede di fronte alla cinepresa. Nel cinema il linguaggio in genere può essere impiegato sotto forma di rumore, di sfondo... Per non parlare del fatto che ci sono film molto belli, dove i dialoghi non esistono affatto. Nel cinema i personaggi non parlano di quello che fanno. E questo è una buona cosa. Per questo il dialogo per una sceneggiatura è ben diverso dalla prosa. Se nel teatro è possibile un’«ideapersonaggio», per il cinema un’idea del genere è chiaramente inaccettabile. Persino nella prosa il personaggio si differenzia a seconda che si tratti di una storia, di un romanzo o di un racconto. Insomma, in ambito cinematografico, la funzio­ ne di un personaggio, di un carattere e quindi del

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dialogo, è completamente diversa rispetto a quella che si ritrova in letteratura, nel teatro, nella prosa, nelle altre forme d’arte. Che cos e quindi un personaggio nel cinema? Di norma, purtroppo, è qualcosa di assolutamente convenzionale, di approssimativo, di non sufficien­ temente completo in rapporto alla vita. Anche se in ambito cinematografico questo problema è stato spesso sollevato, e a volte si è risolto addirittura in maniera piuttosto soddisfacente. Consideriamo per esempio il film Capaev. Que­ sto film a mio avviso è strano, perché il materiale è buono e si vede, ma è montato in modo inde­ cente. Si avverte che il materiale non è stato girato per quel tipo di montaggio. Si tratta di una linea discontinua, non di un film. Per certi versi Babockin è convincente e poetico, ma il materiale non è sufficiente a delineare queste qualità. Di conseguenza il suo personaggio ha un tono didattico. E tutto così primitivo, compreso lo stesso schema del film, che si ha la sensazione di trovarsi di fronte a dei brandelli di film. Proba­ bilmente gli attori non volevano affatto che venisse realizzato nella sua variante definitiva. Nel film II presidente, per la costruzione del personaggio, si può rintracciare un principio ana­ logo, ovvero un certo schema, che si fonda sul concetto che «il protagonista è ognuno di noi». Tuttavia, per creare un personaggio, esistono anche altri princìpi. Ricordiamo almeno Umberto D del regista De Sica. Tutte le volte che ci si imbatte in un film con la

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schematicità di un personaggio, involontariamente si immagina un autore seduto che pensa a come raccontare la storia nel modo più allettante, più interessante possibile; senti lo sforzo enorme teso al modo di incuriosire a qualunque costo lo spettatore. Sostanzialmente, questo è il principio fon­ damentale del cinema commerciale. La molla principale è la spettacolarità e non il fascino vivo dell’immagine, che viene sostituita da uno schema costituito da un elenco di verosimiglianze. Quindi, diciamo, affinché si possa dar vita davvero a un personaggio «vivo», bisogna all’inizio, necessa­ riamente, mostrarlo sotto un aspetto in qualche modo ripugnante, non attraente... Quando invece si ha a che fare con un’auten­ tica opera d’arte, con un capolavoro, si ha a che fare con una «cosa a sé», con un’immagine tanto inspiegabile quanto lo è la vita stessa. Non appena ci si mette a parlare di procedimenti, di modi, di metodi per rendere l’opera «attraente», inevitabil­ mente ci si ritrova dentro i confini dell’imitazione commerciale della vita. La vera arte non si preoccupa dell’impressione che produce sullo spettatore. Alle volte ci si può imbattere in un simile ammo­ nimento: «un film non deve avere niente a che fare con la vita». Ecco questo proprio non lo capisco. Si tratta, scusate, di una sorta di delirio. Perché l’uomo vive dentro gli avvenimenti del suo tempo; egli stesso e i suoi pensieri costituiscono il fatto di una realtà che vive oggi. «Non avere niente a che fare con la vita» è una cosa che potrebbe fare un marziano.

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È evidente che ogni arte ha a che fare con Tuo­ mo, anche quella di un pittore che dipinge solo nature morte. Spesso si sentono giudizi del tipo: «forse non solleviamo abbastanza problemi legati a questo o a quelTargomento: all’agricoltura, alla classe operaia, 2$ intelligencija del periodo sovietico o a qualsiasi altro tema». A mio avviso non si può porre così la questione. Programmare l’arte cinematografica, secondo i nessi che intercorrono con un argomento piut­ tosto che un altro, è vano se si vuole ottenere un risultato di qualità. A me sembra che il cinema, come qualsiasi altra arte, con il suo contenuto e il suo fine, debba avere sempre al centro la persona, prima di tutto la persona. Non serve occuparsi di questo o di quell’altro argomento. Vorrei ricordare un’espressione stupenda, cono­ sciuta e diffusa, ma di cui spesso ci si dimentica. Engels diceva che «quanto più è nascosto il punto di vista dell’autore meglio è per l’opera d’arte». Che cosa vuol dire? Per come la capisco io, significa che non si sta parlando di assenza di ten­ denziosità - ogni opera d’arte è tendenziosa - ma si sta parlando della necessità di nascondere quan­ to più profondamente possibile l’idea, l’intento dell’autore, perché l’opera d’arte possa acquisire una forma viva, umana, espressiva, un significato artistico, nel quale predomini un’immagine artistica in grado di camuffare una tesi semantica. Si sta parlando del fatto che il punto di vista

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dell’autore si palesa in una visione di insieme, è frutto di riflessioni assai serie, di emozioni vissute e di come vengono presentate. Bisogna ricordare che l’artista pensa per immagini e solo così è capace di manifestare il proprio rapporto con la vita. L’arte si occupa solo dell’uomo e non potrebbe occuparsi di altro, anzi questo significa che non può neanche oltrepassare i confini di uno sguardo umano, non può, come dire, gettare uno sguar­ do sull’uomo partendo da qualcos’altro, dal «non umano». Con questo principio mi sono scontrato ben due volte nel corso della mia carriera. In Solaris mi è sembrato fosse indispensabile riprendere una scena con uno sguardo non umano, rinunciando a una percezione tipicamente umana. Parlo della scena del tentato suicidio di Chari e del suo graduale recupero. Tuttavia non ne è venuto fuori nulla. Era semplicemente impossibile girarlo. Questo perché qualsiasi tipo di stilizzazione e d’imitazione favorisce non un’immagine, ma unicamente un sistema, per così dire, di dimostrazione logica. Comunque, come ho già detto, esistono diverse regole per la costruzione di un personaggio in letteratura, in poesia o in pittura. Quello che Shakespeare fa nei suoi drammi, sarebbe assolutamente impossibile farlo in lette­ ratura, perché nella drammaturgia classica, come personaggi emergono dei veri e propri sistemi filosofici, delle idee. Prendiamo per esempio l’Amleto o il Macbeth. Non sono dopotutto dei personaggi, dei tipi. Sono delle idee, un punto di

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vista, impossibile da rendere sia in letteratura sia in poesia, perché sarebbe tremendamente schema­ tico. Questo non riguarda solo la drammaturgia di Shakespeare, ma anche quella di Ostrovskij, di Ben Johnson, di Pirandello. Tuttavia nel teatro questa è la forma più naturale di esistenza del contenuto umano. Provate, secondo questo principio, cioè senza personaggi, a comporre un’opera letteraria e capi­ rete che è impossibile. Onestamente non conosco neanche un romanzo, sia medievale sia contemporaneo, che non si sia basato su un carattere umano. Ma se nel cinema cominciassimo a elaborare un carattere umano utilizzando una procedura lette­ raria, di regola non ne uscirebbe fuori nulla. Parlo di quel modo di pensare in base al quale bisogna trattare il cinema come un qualsiasi romanzo cine­ matografico. Secondo me è totalmente sbagliato, perché non è altro che un tentativo di trasferire in ambito cinematografico i princìpi letterari della creazione dell’immagine umana. Sarebbe lettera­ tura impressa sulla pellicola. Se invece noi ci sforzassimo di trasferire in ambi­ to cinematografico il metodo di elaborazione dei personaggi tipico del teatro tradizionale, di nuovo non si realizzerebbe nulla. Sarebbe tutto terribil­ mente falso e schematico. Ne consegue che il cinema deve avere un certo metodo per esporre le proprie idee. Questo non significa che tutti i registi devono lavorare allo stesso modo. Significa semplicemente che per il

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cinema esiste un materiale proprio, all’interno del quale il regista lavorerà a modo suo. Questo materiale, come ho già detto, è il tempo. Notate: non appena un regista sfiora altri generi d’arte, includendoli in un proprio sistema figurati­ vo, si crea come una pausa, una specie di zona mor­ ta; il film cessa di vivere poiché queste inclusioni estranee distruggono l’integrità dell’opera. Anzi, di regola, quei film, oppure i luoghi in un film la cui forma non è quella specifica della cinematografia ma piuttosto nasce come forma sottratta, usurpata e appartenente a un altro genere d’arte, passano di moda, non reggono le sfide del tempo. Quando ci si trova a discutere di drammaturgia cinematografica, molto spesso si sente parlare di «azione» alla quale ci si riferisce come a un tipo di principio fondamentale. Tutti parlano di azione. Ma che cos’è? L’azione è la forma di esistenza nel tempo degli oggetti e del mondo reale. Tutto qui, niente di più. E non è la trama da giallo di cui tutti gli episodi sono perme­ ati che garantisce il successo dell’impresa. E solo convenzione. In sostanza solo teatro. Rivolgiamo poca attenzione alla vita, ne siamo disattenti ma è la ragione dell’arte; realizziamo le nostre creazioni seduti nel nostro studio secondo un principio alla Jules Verne. E sorta un’enorme quantità di cliché, una specie di lingua convenzio­ nale, l’esperanto. Non facciamo altro che raccontare certe storie. Storielline in una lingua ormai vecchia che non ci appartiene; ce le ripetiamo a vicenda senza poter offrire nulla a nessuno. Beh, può attirare

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un certo pubblico, possono aumentare gli incas­ si, ma in via di principio, il cinematografo, nella sostanza, non viene ancora affrontato seriamente. Mi hanno raccontato di un fatto occorso a un uomo durante la guerra. Un uomo stava per essere fucilato o per viltà o per tradimento, non ricordo. Quest’uomo e altra gente assieme a lui erano in pie­ di vicino a una ex scuola elementare. Era primave­ ra, in alcuni punti la neve non si era ancora sciolta, tutt’attorno c’erano pozze. Erano in piedi accanto al muro. Prima che venissero fucilati, fu dato loro l’ordine di spogliarsi, togliersi il cappotto e gli stivali, perché generalmente era difficile trovare indumenti militari. Tutti si tolsero il cappotto; uno di loro se lo tolse e lo ripiegò con cura, pensando ad altro, probabilmente, e cominciò a camminare in giro in cerca di un luogo asciutto per riporre il cappotto. Ma tutt’attorno c’erano pozzanghere, insomma non c’era un posto dove metterlo. E lui non era abituato a poggiarlo sul bagnato. Dopo qualche minuto quest’uomo sarebbe stato già diste­ so davanti al plotone, presso al muro, senza che nessun cappotto gli servisse. Ma lui aveva agito automaticamente, per abitudine, visto che i suoi pensieri erano ben lontani dall’essere al cospetto della morte. E questa scena ha espresso il suo stato d’animo. La trovo straordinariamente eloquente. In ultima analisi ciò che sempre stupisce è la precisione. Beh, per esempio, recentemente è apparso sugli schermi un talento vero: Aleksej German di Leningrado che, secondo me, ha fatto un film molto interessante Venti giorni

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senza guerra. In questo film, benché manchi di coerenza, ci sono alcuni passaggi assolutamen­ te sorprendenti che ci consegnano senza dub­ bio un autentico cineasta. Potrei citare decine di celebri maestri che non sono degni neanche di allacciargli le scarpe, sebbene ancora non riesca in molte cose. E qui non parlo neanche di lui, ma del suo sceneggiatore. In questo film ci sono luoghi stupefacenti. Per esempio la scena del comizio in fabbrica, a Taskent. Beh, io non so se si tratta di un episodio di alta levatura né so a che livello sia stato fatto, è che semplicemente ti stupisci di come tutto questo sia potuto nascere da una persona che non ha visto nemmeno la guerra. Il punto non è se conosce o meno la guerra, ma cosa sente e come lo elabora. Avreste dovuto vedere i due film di Sergej Paradzanov, entrambi, soprattutto il secondo, e poi tutti e tre i film di Otar Ioseliani. E tutta gente che «scava» in profondità perché capisce cos’è il cinema. E non negherete il fatto che tutti costoro non si assomigliano affatto. Anzi, sono totalmente agli antipodi l’uno dall’altro nei modi, nella tematica, in tutto. Per creare una drammaturgia cinematografica veramente valida è indispensabile conoscere da vicino la forma delle opere musicali: quella della fuga, della sonata, della sinfonia... perché il film, come forma, è molto vicino alla struttura musicale. Qui non è importante la logica dello scorrere degli eventi, ma la forma del loro scorrere, la forma del

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loro esistere dentro il materiale cinematografico. Sono cose distinte. Il tempo è già forma. Nella forma complessiva di un’opera cinema­ tografica è molto importante il finale, allo stesso modo in cui in un’opera musicale è importante la coda. In base a questa interpretazione delle forme, la sequenza degli episodi, dei personaggi, degli eventi non significa nulla, ciò che è importante è la logica delle leggi musicali: il tema, Tanti-tema, l’elabo­ razione... Nel film Lo specchio questo principio di organizzazione del materiale è stato impiegato spesso. Sostanzialmente la drammaturgia cinematogra­ fica, nello sviluppo del materiale, è più di tutto vicino alla forma musicale, dove importante non è la logica ma la trasformazione dei sentimenti e delle emozioni. Si suscitano emozioni solo se si infrangono delle sequenze logiche. Sarà così anche la drammaturgia cinematografica, ovvero, un gioco di sequenze e non la sequenza stessa. Non bisogna cercare una logica, una storia, ma lo sviluppo dei sentimenti. Non a caso Cechov, dopo la stesura di un racconto, buttava via la prima pagina, ossia eliminava tutti i «poiché», eliminava tutte le motivazioni. Solo quando il materiale viene liberato dal suo «senso comu­ ne» nasce un sentimento vivo nel suo naturale sviluppo e nelle sue trasformazioni. Da tempo è stato provato che, quanto più è di qualità il materiale di un film, tanto più in fretta si rompe la drammaturgia originaria.

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L’autentica immagine artistica non possiede un’interpretazione razionale, ma delle carat­ teristiche emozionali non riconducibili a una decodificazione univoca. Ecco perché le leggi musicali della costruzione del materiale, fuori da ogni logica, sono tanto più precise e artistiche di quanto non lo sia un famigerato senso comune. Ecco perché l’arte è il tentativo di stabilire un equilibrio tra l’infinito e l’immagine. L’opera d’arte deve essere capace di suscitare una forte emozione, una catarsi. Deve essere in grado di toccare la viva sofferenza dell’uomo. Lo scopo dell’arte non è quello di insegnare a vivere (forse Leonardo ci insegna qualcosa con le sue Madonne o Rublév con la sua frinita?}. L’arte non ha mai risolto i problemi, semmai li ha posti. L’arte trasforma l’uomo, lo prepara a percepire il bene, sprigiona l’energia spirituale. E qui che risiede il suo alto fine. La regia di un film non comincia nel momento in cui viene discussa la sceneggiatura con il dramma­ turgo, né quando si lavora con gli attori, e nean­ che quando si parla con il compositore, ma nel momento in cui, nell’occhio interiore del regista, sorge l’immagine di quel film: che si tratti di una successione di episodi precisi fino al dettaglio o sol­ tanto di una sensazione della forma e dell’atmosfera emozionale da riprodurre sullo schermo. Il cineasta che possiede una visione chiara della sua idea e che è in grado, in un secondo momento, insieme alla sua troupe, di portarla a un’incarnazione precisa

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e definitiva, può essere chiamato regista. Tutta­ via ciò non oltrepassa ancora i confini della pura professionalità, i confini del mestiere. All’interno di questi confini è racchiusa un’enormità di cose, senza le quali l’arte non può attuarsi, ma questi limiti non bastano perché il regista possa essere chiamato artista. Artista lo diventa quando all’interno della sua idea, o già all’interno del suo film, prende vita una sua particolare struttura figurativa, un suo sistema di pensieri sul mondo reale che egli sottopone al giudizio degli spettatori, rendendoli partecipi dei suoi pensieri, come dei suoi sogni più reconditi. Solo se si possiede un proprio sguardo sulle cose il regista diventa artista e il cinematografo diventa arte. Nella nostra professione e in quella di chi gra­ vita attorno a noi, esiste una marea di pregiudizi. Mi riferisco non alle tradizioni, ma propriamen­ te ai pregiudizi, ai cliché di pensiero, ai luoghi comuni, che solitamente sorgono attorno alle tradizioni e dai quali qualsiasi tradizione viene a poco a poco sommersa. Ma si può raggiungere qualcosa nel campo dell’arte solo quando si è liberi da questi pregiudizi. Bisogna elaborare una propria posizione, un proprio punto di vista, al cospetto, beninteso, di un senso comune, e custodirlo durante il lavoro come la pupilla dei propri occhi. E evidente che la cosa più difficile sia costruire per sé un proprio sistema di idee, senza lasciarsi intimorire dai suoi confini, anche quelli più rigidi,

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e seguirlo. Sarebbe più semplice essere eclettici, seguire immagini e modelli preconfezionati che non mancano all’interno del nostro repertorio professionale. Per l’artista sarebbe più facile e per lo spettatore più semplice. Ma è qui che si cela il pericolo più grande: ci si confonde. Grazie al cinema è possibile porre i problemi più complessi della nostra contemporaneità al livello di quei problemi che nel corso dei secoli sono stati oggetto della letteratura, della musi­ ca e della pittura. Ciò che occorre è cercare, o ricercare ogni volta da capo, quel cammino, quel corso lungo il quale l’arte cinematografica deve andare. Ma allora che cose un’idea? In quali condizioni nasce, come si imprime nella coscienza dell’autore e come viene realizzata poi, in ultima analisi, nel film? Questo è già un discorso più concreto. Vi posso raccontare, come esempio, quello che è successo girando Lo specchio. A suo tempo io e Misarin avevamo scritto la sceneggiatura letteraria di Un bianco, bianco gior­ no. Non sapevo ancora quali argomenti avrebbe affrontato il film, non sapevo come sarebbe sta­ ta realizzata la sceneggiatura, che ruolo avrebbe assunto l’immagine, o meglio, più precisamente, una linea, la linea materna. Sapevo solo una cosa, che continuavo a fare sempre lo stesso sogno del luogo in cui ero nato. Sognavo la mia casa. Ed era come se ci entrassi, anzi, in verità non ci entravo, ma ci giravo tutto il tempo attorno. I sogni erano sempre tremendamente reali, sorprendentemen­

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te reali, persino quando sapevo che si trattava solo di un sogno. Che strano spostamento della mente. E questi sogni erano delimitati sempre da quest’unica tematica. Si trattava letteralmente dello stesso sogno perché ogni volta avveniva sempre nello stesso posto. Ebbi l’impressione che questa sensazione contenesse in sé un significato tangi­ bile, perché era assolutamente impossibile che un sogno perseguitasse così un uomo. C’era qualcosa, qualcosa di molto importante. Forse a causa delle mie letture, mi sembrava che, se avessi realizzato quella strana immagine, sarei riuscito a liberarmi dai miei sentimenti. Era una sensazione alquanto penosa, qualcosa di nostalgico. Qualcosa che ti trascina indietro, nel passato, senza lasciare nulla dopo e piuttosto pesante. Pensai che, una volta raccontato il sogno, io stesso me ne sarei potuto liberare. A proposito, in Proust ho letto che questo aiuta molto a liberarsi di certe cose, e anche Freud ha trattato questo argomento. Beh, ho pensato, ci scriverò un racconto. E, a poco a poco, tutto ha cominciato a prendere la forma di un film. Ed è accaduta una cosa molto strana. Effettivamente ero riuscito a liberarmi di quelle impressioni, ma questa psicoterapia si rivelò ben peggiore della ragione del suo necessario utilizzo. Nel momento in cui ho perso quelle sensazioni, ho avuto la percezione di essermi in un certo senso perso anch’io. Si era tutto complicato. Le sensazioni erano scomparse ma al loro posto nulla aveva preso forma. Benché, onestamente, avessi già intuito qualcosa di simile, lo avevo scritto persino nella sceneggiatura, che

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non serviva tornare nei posti antichi, qualunque essi fossero, la casa, i luoghi in cui sei nato o le persone che hai incontrato. E, sebbene questa considerazione fosse stata formulata in maniera astratta, alla fine si rivelò quella giusta. E la cosa più importante è che si era rivelata più che giusta. E che il senso del film e la sua idea non consisteva­ no affatto nel doversi liberare dai ricordi. Questo sta a dimostrare, ancora una volta, che spesso è lo stesso autore che non riesce a farsi un’idea del tutto precisa del film. A volte può sembrare che stai facendo qual­ cosa per esprimere te stesso, per liberarti di certi pensieri, ma in realtà, qualunque sia il film per­ sonale, non potrà mai aver luogo se è tutto solo improntato su te stesso. Se il film o il libro avrà successo, state sicuri che tutto quello che vi era di personale, era unicamente lo stimolo, la scossa perché si originasse l’idea. Se fosse rimasto solo dentro i confini nostalgici, importanti solo per l’autore, allora, credo, nessuno l’avrebbe capito. Per noi è stato molto difficile realizzare il film anche perché riguardava delle persone reali che in qualche modo avrebbero dovuto partecipare a questo film. Beh, sapete che mio padre ha scritto delle poesie per questa sceneggiatura, solo che non le ha scritte proprio per questa sceneggiatura; noi però le abbiamo usate, perché sono state scritte nei luoghi di cui si parlava nel film. Quelle poesie non sono delle illustrazioni, sono solo poesie, nate al tempo in cui si parlava dell’uno o dell’altro epi­ sodio. Ad esempio, la poesia d’amore fa ricordare

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alla protagonista più o meno lo stesso periodo in cui la poesia è stata scritta, il 1937. Insomma, mi è difficile dire che si tratta di illustrazioni. Sono poesie che non possono essere separate dalla pro­ tagonista, dai personaggi che vivono là. E poi sono legate a mia madre, che è stata ripresa persino nel film. All’inizio si pensava che lei dovesse fare molte più parti nel film. Si era pensato a una specie di questionario, a domande a cui lei avrebbe dovu­ to rispondere di fronte alla cinepresa (non con la cinepresa nascosta ma di fronte a una normale cinepresa). Ma per fortuna respingemmo l’idea e la cosa venne realizzata in un modo del tutto diverso. Inoltre, ero legato a obblighi specifici, beh, voi mi capirete. Insomma per il nostro discorso su come nasce un’idea, ho scelto apposta un film che fosse molto intimo, molto personale, particolarmente legato alla mia vita, e difficilmente separabile da me. Anche se in questo caso sto parlando in un certo senso del lato morale della questione e niente affatto di come il film venne realizzato. Per concludere il nostro discorso su questo argomento, vorrei citare ancora un esempio. Nella sceneggiatura del film Andrej Rublèv, c’era un episodio intitolato «La battaglia di Kulikovo». Avrebbe dovuto essere il prologo alla prima ver­ sione di Andrej Rublèv. La battaglia sul campo di Kulikovo, il salvataggio del principe Dmitrij, che per poco, non morì asfissiato, poveretto, sotto mucchi di cadaveri... La direzione mi cancellò

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questa scena dal film perché era troppo onerosa. In seguito, mi criticarono a lungo perché avevo fatto un film dove non c’era neanche un episodio con uno scontro patriottico di quel tipo. Io cercai di ricordar loro che mi avevano cancellato quella sce­ na dalla sceneggiatura. Ma va bene, non importa. A ogni modo, prima di venire soppresso, l’episodio venne rifatto e non fu più la battaglia sul campo di Kulikovo ma il mattino dopo la battaglia. Fui spinto da bisogni esclusivamente economici. Riscrissi la scena e devo dirvi che ancora oggi è quella che mi piace di più. Dopodiché questo episodio fu intera­ mente trasferito nel film Un bianco, bianco giorno. Volevo riprendere questa scena in modo maniacale. Per me era molto importante poter comunicare un po’ di quel legame tra il nostro presente e quello che è stato, ciò che noi oggi chiamiamo tradizione, legame con il tempo, con la cultura. Tuttavia, non riuscii a girarlo. Perché, ancora, era troppo onero­ so. I costumi per Rublèv erano già tutti distrutti, in effetti da noi questo succede molto in fretta, sebbene fossero fatti di cuoio rivoltato, di pelle di camoscio e di pelliccia. Con quei costumi, utiliz­ zandoli ancora o ritoccandoli, si sarebbero potuti girare ancora tanti film, a ogni modo sparirono. Così non ci fu la possibilità di realizzare quest’idea, senza la quale non riuscivamo a immaginarci Lo specchio. E il risultato fu che nacquero altri epi­ sodi: la scena in cui il figlio dell’autore legge le lettere di Puskin, la scena della cronaca di guerra. Ma venne modificato molto altro. Per esempio si pensò di utilizzare un testo tratto dai manoscritti

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di Leonardo che suggerisce come dipingere una battaglia. Questo testo fuori campo si sarebbe dovuto basare sull’episodio della distruzione di una chiesa nella città di Jur’evez, nel 1938. Ma poi anche l’episodio della «distruzione della chiesa» cadde. Al suo posto vennero fuori delle citazioni puramente descrittive. Per la scena dell’arrivo del padre in licenza, si avevano in mente il libro di Leonardo e il frammento di un suo quadro. E così, in modo così strano, l’episodio, prima così statico, venne realizzato in maniera del tutto differente. L’idea di stabilire delle coordinate tra presente e passato si sgretolò ed entrò come componente di scene separate del film. Non riuscì a essere l’idea portante, cioè nel modo in cui si era presentata nel momento in cui venne concepita. Era chiaro che non bastava, per questo si tramutò in una sorta di intonazione emotiva, direi quasi musicale, di tutto il film, nei momenti in cui si parla di cose più concrete, chiare, concettuali, forse ideali. Dobbiamo restituire tutto ciò in termini profes­ sionali, cioè come questo o quel pensiero, un’idea dell’autore, un suo modo di pensare vengono rea­ lizzati, il modo in cui qualcosa di impercettibil­ mente spirituale si trasforma in un dettaglio fisico, materiale, che si dispiega nella struttura generale del film. Vi è un’altra questione di enorme importanza che è in stretto rapporto con l’idea e la sua rea­ lizzazione. Non riesco a immaginare come si possa realizza­ re un’idea se il fine è quello di usare un linguaggio

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«accessibile». Non capisco cosa sia questo linguag­ gio accessibile. A me sembra che l’unico modo sia quello di usare un linguaggio sincero. Quando un autore vuole essere comprensibile, cerca di accattivarsi le simpatie degli spettatori, tenta di farseli complici, si sforza continuamen­ te di farli ridere, di divertirli, di suscitare il loro interesse! Di suscitare il loro interesse proprio nel modo più facile possibile. Questo non può avere niente a che fare con l’arte. Può avere a che fare con una forma puramente demagogica. A conti fatti per quanto ci sforziamo di risultare più comprensibili e più accessibili, lo si vede sem­ pre, appare sempre volgare e sciocco, e implica sempre la perdita del sentimento della propria dignità e del proprio rispetto nei confronti della persona verso cui ci stiamo indirizzando, cioè nei confronti dello spettatore. Anche questo ha a che fare con la realizzazione dell’idea. Perché nessuno di noi può calcolare la reazione di fronte a una nostra idea e al modo in cui viene realizza­ ta. Non siamo in grado di calcolarlo. E quando cominciamo a farlo, sarà evidente e si proverà un gran disagio nei confronti di chi dovevano essere sinceri. Ho notato questa cosa, a un certo momento un artista, che non è molto sicuro di se stesso, comin­ cia a difendersi. Cerca di conservarsi nello stato in cui gli sembrava di aver raggiunto qualcosa di simile a un risultato, a una vetta, senza capire che per l’artista c’è un’unica via: quella diretta. Solo la via diretta. Ed ecco cosa succede: cercherà di fare

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un film non peggiore del precedente. Comincerà a ripetersi, comincerà a lavorare su del materiale già speso, su della benzina ormai già bruciata da tempo. Questa è la tragedia di tanta nostra gente talentuosa. Teme per se stessa, non crede in se stessa. E dispiace vedere un uomo di talento stanco di essere se stesso. Per me è sempre molto strano ascoltare i rimpro­ veri che vengono mossi agli artisti, quando vien detto loro di non essere contemporanei, di essere indietro coi tempi, di non andare al passo coi tempi, di occu­ parsi di cose che altro non sono che strade senza sbocco, vicoli ciechi che corrono a fianco della strada maestra, a fianco dell’autostrada lungo la quale deve andare la nostra arte, e via dicendo. E tutto molto strano perché a conti fatti chi, se non ognuno di noi, può ritenersi contemporaneo di quello che accade oggi, nel nostro tempo? E semplicemente ridicolo. Nessuno è libero dal proprio tempo e nessuno può dire di essersi sganciato dal proprio tempo. Prendiamo per esempio il periodo del Deca­ dentismo in arte. In fin dei conti il Decadentismo esprime il proprio tempo. E se non ci fosse stato il Decadentismo, non avremmo potuto in nessun modo renderci conto di ciò che è stato il periodo che va dalla fine del Diciannovesimo secolo all’ini­ zio del Ventesimo dal punto di vista spirituale e culturale e nei suoi aspetti sociali. Certo, è un vicolo cieco, ma d’altra parte, sarebbe un errore dire che il vicolo cieco dell’arte decadente sia esistito fuori dal tempo, come un’appendice, che non abbia espresso il proprio stesso tempo.

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Mi permetto di lasciare in sospeso per un attimo la questione principale della nostra conversazione e soffermarmi su quegli aspetti morali che riguardano l’idea e che sorgono nel momento in cui rivolgiamo la nostra attenzione al materiale storico. Stamattina ho letto le Memorie di Maria Volkonskaja moglie del decabrista Sergej Volkonskij, memorie in cui lei parla del suo viaggio in Siberia per raggiungere suo marito. Sono Memorie straor­ dinarie. Beh, non mi metterò a parlare della nobil­ tà d’animo di queste donne. Una cosa sorpren­ dente. Hanno seguito i loro mariti fino a Nercensk o in altri luoghi per condividere con loro il destino, nonostante avessero il permesso di parlare solo attraverso una fessura della recinzione due volte alla settimana. E trascorsero così molti anni pri­ ma che venissero loro concesse altre modalità di comunicazione. Si stenta a credere. E singolare. Riguardo a quelle società segrete, e in generale riguardo all’importanza e al ruolo dei decabristi, questa donna arriva a delle conclusioni sorpren­ denti! E incredibile! E comunque, tutto quello che ho letto dopo queste memorie, inteso come lavoro storiografico, è semplicemente una ripetizione e niente più, in modo molto loquace, vacuo e senza senso, come succede alla maggior parte dei lavori di tesi privi di senso che vertono su temi interessanti. E come riesce a parlare del popolo russo! Lo fa imbattendosi nei detenuti, negli assassini, nei ladri con i quali entrava in contatto perché le chiedevano aiuto.

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Sorprendenti sono i momenti dei saluti prima del suo viaggio in Siberia. In una casa venne orga­ nizzata una serata d’addio. E che effetto nell’animo di coloro che l’accompagnavano! Mi ha dato un senso di purezza e di senso civico. E qui non si tratta neanche dei mariti, su di loro tutto è abba­ stanza chiaro. Il compito degli uomini è senz’altro un altro, ma queste sono donne di diciannovevent’anni, giovani mogli che non sanno ancora cos’è la vita. Non mi viene in mente nessun contrasto con la contemporaneità più sbalorditivo di que­ sto. Quando avevamo la loro età, eravamo così impreparati ad affrontare simili peripezie, così egoisti e crudeli! In generale vogliamo essere pagati per tutto e subito, in contanti, voglia­ mo comprare tutto, persino le nostre azioni e i nostri sentimenti: vogliamo che ci paghino per le nostre azioni. Questo libro mi ha colpito in modo straordina­ rio. E la cosa più bella è l’assenza di qualsivoglia pregiudizio legato di solito alle persone semiac­ culturate, semianalfabete. Questa è la purezza che può trovar posto unicamente in un ambiente assolutamente non corrotto. Insomma, per quale motivo dico questo? Mi viene in mente un film di Motyl e mi stupisce come possano averlo realizzato in quella maniera. Non capire a tal punto quale sia il motivo fondante, autentico, la verità della sostanza di tutti quegli eventi. E veramente un peccato. Ma non impor­ ta, che Dio sia con lui. Migliaia di film verranno

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realizzati con questo soggetto quando della gente più seria troverà il tempo di farlo. Ho riportato questo esempio per ricordarvi che esistono precisi obblighi morali, etici, legati nel concreto al materiale storico. Ma questo è un tema particolare, e per ora non ci soffermeremo. A ogni modo anche questo è in stretto rapporto con la questione dell’idea, in questo caso con l’idea di un film basato su fatti storici. In ultima analisi, la profondità dell’idea dipende dall’impulso che fa nascere l’idea stessa. L’idea deve originarsi in una sfera particolare del vostro «io» interiore. Se sentite che nasce in un campo speculativo che non sfiora la vostra coscienza, il vostro rapporto con la vita, state sicuri che sarà tutto vano. Non vai la pena lavorarci. L’idea deve essere uguale a un’azione in ambito etico e morale. Come un libro: prima di ogni altra cosa è un’azione, un fatto morale, non solo artistico. Spero voi capiate di cosa sto parlando. Esistono coloro che scrivono e gli scrittori, che non sono la stessa cosa. Credo che l’idea debba nascere nello stesso modo in cui nasce un’azione. Ecco, provate a pensare, voi state vivendo e a un tratto sorge un dilemma: come continuare a vivere, così o in un altro modo? Ossia, capite che se agirete in un certo modo, vi toccherà rischiare parecchio ma sarete sulla strada della realizzazione in senso mora­ le. Ed ecco un’altra strada invece, quella in cui, diciamo, non avete nulla da rischiare, ma capite perfettamente che dal punto di vista di una vostra

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realizzazione spirituale, è una strada indiretta, di autoconservazione. La realizzazione e l’autoespressione sono due concetti diversi. L’autoespressione è un’arma a doppio taglio: essa non è la cosa più importante. Ecco, sapete perfettamente che state rischiando tutto, ma non perdete il senso della vostra dignità. Ogni persona normale vive momenti di crisi come questa, legati a una depressione... Succede a tutti. Penso che se la vostra idea non vi tocca in questo senso... allora è meglio non lavorarci. Non vi por­ terà da nessuna parte. Non è un’idea autentica.

L’idea e la sua realizzazione

In ambito cinematografico il processo di realiz­ zazione dell’idea è un processo di protezione e di conservazione dello scopo. Il cammino del film, dal sorgere dell’idea fino al suo completamen­ to nello studio di missaggio, mi sembra sia più complesso di quello appartenente ad altre forme d’arte. E non è un discorso di tecnologia. Dicia­ mo che per un architetto costruire una casa è un’opera alquanto complessa, ma sappiamo che se l’ingegnere costruttore realizzasse esattamente l’intento architettonico, nel complesso, non ci sarebbe nessuna perdita morale e nessun danno. Qui è solo un discorso di grande sforzo fisico e di tempo. Sapete, venivano impiegati addirittura decenni per costruire monumenti architettonici. E nonostante questo, nonostante la complessità di una realizzazione architettonica, non c’è niente di più tremendo e difficile della realizzazione di un’idea cinematografica. Perché quest’ultima dipende da una gran quantità di persone coinvolte nel pro­ cesso. Se per esempio il regista, lavorando con un

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attore, non riuscisse a conservare la propria idea iniziale, il film potrebbe non prendere l’inclina­ zione giusta e verrebbe distorto a tal punto che lo scopo originario non verrebbe realizzato affatto. Se l’operatore non capisse le vostre intenzioni, il film verrebbe girato in un modo completamente diverso, per quanto brillantemente possa venir rea­ lizzato da un punto di vista fotografico. Possono essere allestite scenografie stupende ma, quanto più si differenzieranno dal vostro impulso creativo originario, tanto meno avranno a che fare con quest’ultimo. E infine, se voi giraste utilizzando quelle scenografie, non sarebbe più realizzazione, ma perdita dell’idea. Se perdeste il controllo del vostro compositore ed egli scrivesse qualcosa che non avesse niente a che fare con la vostra idea e voi la lasciaste nel film perché il pezzo è meraviglioso, rischiereste di mandare all’aria il film. Cioè, alla fine sareste colui che guarda lo sceneggiatore scrivere, l’attore recitare, l’opera­ tore riprendere, lo scenografo allestire le scene e il montatore montare il film. Non c’entrereste più nulla col film, sebbene in origine foste partiti da un’idea. In origine, prima che venisse scritta la sceneggiatura. Non è semplice custodire la propria idea originaria e fare in modo che non venga «disfatta» da persone quali l’operatore, lo scenografo, l’attore, il compositore, e altri. E un processo molto difficile. U compito del regista consiste nel custodire e nel versare l’idea in un recipiente, in mano a ognuno dei suoi collaboratori artistici. Il fatto che poi i colleghi, che realizzano

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con lui il film, rendano quest’idea con un proprio linguaggio è un altro discorso. Certo, l’ideale sarebbe che siate voi a girare il film, come operatore. Siete voi a dover invade­ re l’ambiente, solo così potrete essere vicini alla vostra idea più di ogni altra cosa. Ma nonostante tutto, il lavoro con i colleghi presuppone che voi dobbiate custodire l’idea e non dobbiate «con­ dividerla». Credo che a volte sia sensato persino tenerla nascosta, in modo tale che si possa spingere il collaboratore che sta più a stretto contatto con voi verso la soluzione più confacente. Perché, se lui ne fosse a conoscenza, potreste aver paura del fatto che non possa realizzarla. Questo è quello che accadde a Jusov. Lesse la sceneggiatura di Un bian­ co, bianco giorno, quello che poi venne chiamato Lo specchio, e disse che non avrebbe girato quel film. Lo infastidiva il fatto che fosse biografico, ma soprattutto il fatto che fosse «autobiografico». Del resto questo lo dissero in molti. In genere i cineasti accolsero il film con una levata di scudi, meno che mai piacque l’intonazione lirica, il fatto che un regista avesse osato parlare di se stesso. Jusov in questo caso si comportò in maniera onesta. Nondimeno, a film concluso mi disse: «Per quanto mi sia spiacevole ammetterlo, Andrej, questo è il tuo miglior film». Con lui girai anche Linfanzia di Ivan, Andrej Rublèv, il mio primo film per la tesi di laurea, e persino Solaris. E tuttavia, non riesco a immaginarmi come avremmo potuto lavorare a questo film con Jusov. E chiaro, conoscendolo, non avremmo dovuto dirgli di cosa parlava il film

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e forse non avremmo neanche dovuto dargli la sceneggiatura; dovevamo dargliene un’altra, per­ ché non si spaventasse della mia idea; dovevamo fargli credere una cosa per un’altra. Insomma, dovevamo sviarlo. Dopotutto anche con gli attori succede assai spesso. Di regola non bisogna palesare la propria idea. L’attore è una persona semplice, estremamente sincera, onesta, che cerca di non andare tanto per il sottile, ma di credere. Nel momento in cui comincia a «scavare», a filosofeggiare sulla propria professione, sul ruolo che dovrà affrontare nel corso del film in relazione all’idea, perde tante cose. Almeno a me di solito succede così. Per esempio, ecco cosa mi è successo quando ho lavorato su Solaris con Banjonis. Banjonis è una persona che non fa mai nulla senza una ragione. E una persona che non fa mai nulla partendo dal di dentro. E uno che deve prima costruire, ma, in questo caso, trattandosi di cinema, non costruirà poi tanto. Da un punto di vista convenzionale, Banjonis è questo tipo di attore. Conosce solo le sue parti, ma non sa come lavorerebbe accanto a lui un altro attore e quali parti emergerebbero dentro la trama del film. Cerca di sostituirsi al regista, analizzare i contorni che assumerà la sua parte all’intemo del futuro film. Ma questo non può farlo, perché non sa che aspetto avrà il film, sebbene lui pensi di saperlo perché ha in mano la sceneggiatura. E qui commette l’errore più pericoloso. Per questo ha senso non parlare dell’idea, altri­

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menti l’attore reciterà secondo il risultato finale. Reciterà il suo simbolo, reciterà la sua idea in rap­ porto col ruolo. Cercherà di illustrare l’idea di cui gli ha parlato il regista. In pratica, si metterà in testa quest’idea e avrà sempre in mente solo quella nel momento in cui si troverà a girare concretamente la scena. Per un attore potrà essere di impedimen­ to, mentre un altro potrà giovarsene, ma in ogni caso, secondo me, questo è il modo sbagliato di accostarsi al personaggio. Per questo, ad esempio, quando abbiamo lavorato con la Terekhova al film Lo specchio, non le mostravo la sceneggiatura. Non sapeva né quale fosse il suo ruolo, né cosa avrebbe dovuto fare il giorno dopo, non sapeva niente, perché non mi andava che dirigesse il suo personaggio. Non volevo che lo costruisse, che cercasse di cogliere la nostra idea generale, che lo facesse a pezzi e lo inserisse in ogni inquadratura o scena che recitasse. Avevo bisogno di tutt’altro. Avevo bisogno di un attore che si dissolvesse nell’idea, e c’è un unico metodo, un solo modo per farlo: occorre che l’attore creda in primo luogo al regista con il quale lavora e in secondo luogo che gli piaccia quello che sta facendo. Conosco tanti esempi di questo tipo: un attore va a recitare e dice: «Beh, ho letto la sceneggia­ tura. Interpreterò la mia parte, cercherò di far qualcosa». Questo vuol dire che non ci sarà alcun film. Quanto meno non ci sarà nessuna parte, que­ sto è sicuro. In poche parole, non ne verrà fuori nulla. Un attore che parla così di quel film, non dovrebbe recitarlo. Ma questo purtroppo accade

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perché l’attore ha bisogno di lavorare, ha bisogno di guadagnarsi da vivere e i film in cui può credere non sono poi così tanti. Qui entrano in vigore le leggi della vita e noi non possiamo operare come se vivessimo in un laboratorio o dentro un’am­ polla o in un ambiente sterile. Insomma, quello che voglio dire è che l’idea è quella cosa per cui, spesso si deve ricorrere all’inganno affinché possa venir custodita. Per esempio ha lavorato con noi Nikolaj Burljaev, che ha interpretato Boriska, figlio del fonditore di campane in Andrej Rublèv. Affinché si trovasse in una condizione favorevole, continuavo a ripetere ai miei collaboratori di inculcargli in testa il pensiero che stesse recitando pessimamente e che l’avrei sostituito con un altro. Cioè, occorreva che sentisse continuamente gravare su di sé la catastrofe, che non fosse proprio più sicuro di nulla. E nonostante tutto, non riuscii a raggiungere i risultati sperati. Avrei voluto almeno che fosse a livello di Solonitsyn o di Raush che interpretava il ruolo della scema del villaggio. Avrei voluto che nel film gli attori recitassero come Solonitsyn, invece, purtroppo, recitavano l’idea. Oggi avete visto due film di Bergman. Uno di questi, realizzato nel 1961 è intitolato Attraverso un vetro opaco [ndr: in Italia Come in uno specchiò]. E una traduzione molto imprecisa. E un passo tratto dalle Scritture, dalla Lettera ai Filippesi, dove è scritto che vediamo ancora come attraverso un vetro opaco, attraverso il dubbio, ma arriverà il momento in cui ci cadranno le bende dagli occhi

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e vedremo tutto con occhi diversi. Una citazione dalle Scritture si sarebbe dovuta tradurre in modo preciso, altrimenti si ha la sensazione che qui si stia parlando di un problema della protagonista visto in chiave psicopatologica, e che lei sia l’idea portante del film. Assolutamente no. Il vetro opaco non si riferisce affatto allo sguardo opaco, nascosto, distorto della protagonista. Non c’è un rapporto diretto tra il personaggio e l’idea del film. Cioè, non vi è un nesso con l’idea, come può esserci tra Shakespeare e l’Amleto. Questo per quanto riguarda il primo film. Il secondo film, invece, s’intitola La vergogna ed è alquanto diverso. In questo modo avete la possibilità di confrontare la recitazione di uno dei più bravi attori cinemato­ grafici e teatrali contemporanei, Max von Sydow che, sia nel primo sia nel secondo film interpreta ruoli principali. Venne sollevata questa domanda: «Come la mettiamo con l’immedesimazione, che voi rifiutate, se per esempio in uno dei due film Sydow recita in un modo e nell’altro in modo completamente diverso?». Beh, è naturale che reciti in modo diverso, si tratta di tutt’altre circostanze: persone diverse, caratteri diversi ed è ovvio che reciti le parti in modo differente, ma non si può parlare di immedesimazione. Ripeto, io non credo al concetto di immedesima­ zione. Immedesimazione significherebbe assenza di un pensiero, di una personalità, direi, che non si dissolve ma rimane integra con la personalità dell’attore in un’opera o in un’altra. Io credo che un attore debba conservare la propria personalità

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nei diversi film, nei vari spettacoli. Non credo nei licantropi. E poi è antiscientifico. Beh, di questo parleremo dopo. Prendiamo l’ultimo dei due film che abbiamo visto, La vergogna. Non vi è un solo punto in cui l’attore riveli l’idea del regista. Mi riferisco al progetto del film. Non tanto all’idea, ma al pro­ getto. Perché l’idea è qualcosa di assai più vasta del progetto. C’è tutto dentro: il destino degli uomini, i loro caratteri, la loro circostanza e il loro rapportarsi con la vita, e c’è la realizzazione dell’idea e non l’espressione di un progetto o il suo rapporto con questo. In questo film niente vien fatto dire da un attore. Non si riesce neanche a dire chi tra loro sia il buono e chi il cattivo. Voi forse direte che non è una buona cosa. Non lo so, io ho un altro modo di vedere la questione. Per esempio non posso dire che il pro­ tagonista, il marito di lei, sia una cattiva persona. Né posso dire che lei sia una cattiva persona, né posso dire che quella interpretata da Bjòrnstrand sia una persona cattiva. Oppure si può dire che sono tutti cattivi o tutti buoni, ma dalle loro vite all’interno dell’inquadratura non riuscirete a trarre nulla di definito, nulla di tendenzioso. Si sarebbe verificato unicamente in una cir­ costanza: se all’improvviso Bjòrnstrand non fos­ se morto, se non l’avessero fucilato. Allora sì, si sarebbe potuto definire un personaggio negativo. Ma così non si capisce. Ossia, viene a trovarsi in circostanze che non si possono interpretare in maniera tendenziosa, che sfruttano l’occasione per

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svelare i caratteri e non per rappresentare un’idea. E l’idea è assai più profonda. E dissolta dentro il tessuto del film. Osservate com’è elaborato in maniera sconvolgente da questo punto di vista il personaggio interpretato da Von Sydow. E una bravissima persona, un musicista. Sì, è un codar­ do; ma una brava persona non è necessariamente coraggiosa. Sono due categorie distinte. È vero, ha un carattere debole, sua moglie è molto più forte, sebbene anche lei abbia paura; tutto sommato lei affronta meglio la vita. Non è così fragile come sembra. E guardate cosa fa il regista con queste due persone, cosa succede. Quest’uomo soffre per il fatto di essere un debole, uno che ha paura. E suscettibile, sopporta a malapena la vita, non fa che schermirsi. Questo perché è una persona onesta, sincera, e si comporta in maniera molto sincera e spontanea, naturale di per sé, per questo ne soffre. Ma basta che lui entri in un processo di lotta per se stesso, per amore nei confronti della moglie, che intraprenda una serie di azioni, ed ecco che si trasforma in un mascalzone. Perde le sue qualità. E avete notato come a un tratto comincia a essere indispensabile a tutti? La moglie comincia ad aver bisogno di lui, non lo lascia. Una volta era lei che piangendo gli diceva: «Perché mi dici sempre perdonami, perdonami? Ti ho picchiato in faccia e tu dici perdonami!». Poi è lui che la percuote in faccia dicendole: «Vattene!». E invece lei gli va dietro. Notate come Bergman ponga l’eterna questione sul fatto che il bene è passivo e il male attivo. Il

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protagonista, non appena trova il modo di difen­ dersi dalla vita, si trasforma in un uomo crudele. Ormai non ha più paura, non ha più così tanta paura come gli altri. Nell’ultima parte del film, osserva tranquillamente un partigiano, uscito per­ dente da una lotta, annegare. E non muove un dito per salvarlo. Uccide il soldato che va da lui per nascondersi, con una calma straordinaria. Insomma non appena comincia ad agire si tra­ sforma in un vile piuttosto tetro, che ormai non ha più paura di niente. Il fatto è che bisogna essere molto onesti per sperimentare la paura. Per viverla. E una persona onesta cessa di esserlo nel momento in cui perde questo timore. E sembra che la guerra provochi le persone, sveli i loro caratteri. No, qui la guerra è solo una tra le circostanze che possono portare una persona da tutt’altra parte. Può essere anche una malattia, com’è successo nel film Come in uno specchio. Anche qui la malattia non è la causa, ma solo una circostanza, nella quale, come per via di una rottura, si dischiudono i caratteri. Bergman in nessun caso permette agli attori di porsi al di sopra delle circostanze nelle quali sono posti. E come se non avessero il diritto di recitare al di sopra delle circostanze e dei caratteri. Perché, se lo facessero, anche un po’, reciterebbero il proprio rapporto con questi caratteri, con l’idea; non si tratterebbe più di emozione, credo, ma di qualcosa di molto razionale, calcolato, e non sarebbe arte. Ovvero, sarebbe piuttosto tendenzioso e sgraziato. Il regista è tenuto a infondere la vita in un attore,

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e non a renderlo il portavoce delle proprie idee, benché si dica che l’attore sia un portavoce. Ma quale portavoce? Sono solo parole, è demagogia. Si dice che Bergman sia molto teatrale. Ma per­ ché teatrale? Forse perché lavora molto a teatro o perché i suoi attori recitano in modo teatrale? Non lo so. Al contrario, i suoi attori non recitano affatto in modo teatrale. Forse perché, a parte il volto degli attori, non esamina altro? E perché dovrebbe esaminare altro? Come se una persona, e quindi un attore, non facesse parte della stessa realtà. Perché? E qui che ci si sbaglia. Insomma si può osservare anche il comportamento degli attori. Il fatto di concentrarsi solo sugli attori non significa essere riduttivi, nel senso professionale del termine. Significa solo che per questo artista il mondo si riflette negli occhi dell’attore, nelle rivoluzioni che avvengono dentro di lui, durante gli scontri di un attore con l’altro. Si tratta dello stesso pezzettino di realtà che, per alcuni artisti, è in grado di occupare un posto principale in tutti i film. Molti attori pensano: se il regista non mi parla della sua idea, significa che non mi stima. Falso. In ambito cinematografico, un attore viene richiesto per quella parte, proprio perché è più vicino di tutti, come anima e aspetto esteriore, a colui che deve interpretare. Per esempio Bergman scrive appositamente le parti per i suoi attori. Nel cinema è possibile solo una comunanza di intenti. E semplice, un attore

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non può in alcun modo organizzare la sua parte dall’inizio alla fine, come succede nel teatro. Per quanto riguarda un film, a me, ad esempio, sembra che un attore derubi se stesso se deve cono­ scere le circostanze che hanno portato a concepire quella scena e che posto occuperà nel futuro film. In una situazione ideale, un attore non deve sapere in che punto del film verrà montata la sua scena. Deve essere libero per poter vivere quanto più liberamente possibile all’interno delle circo­ stanze in cui è stato posto, deve letteralmente vivere in quel frammento, vivere in senso fisiologico, nel senso di condizione psichica. Perché nella vita reale un uomo è sottomesso ai propri sentimenti, non conosce una drammaturgia della sua vita e neanche la costruisce, se è leale con se stesso. Se non conosce le circostanze, lo scopo delle proprie azioni in un film, un attore può esprimersi in modo molto più spontaneo, più familiare con i legami che lui ha con la vita e dimostrare di essere completamente libero e autonomo dall’idea del regista. In sostanza, nel cinema, un attore è molto più libero quando il regista non gli dice qual è la propria idea. Questa sarebbe la situazione ideale. Di solito invece il regista ama molto parlare della sua idea con l’attore. E questo, secondo me, influisce sem­ pre negativamente sul lavoro attoriale. E sempre evidente una certa tendenziosità, un certo sen­ timentalismo nei confronti del proprio ruolo. È sempre evidente che con questo l’attore vuole dire qualcosa. Insomma quello che voglio dire è questo: per

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poter custodire un’idea nella sua totalità è neces­ sario che l’attore sia quanto più libero possibile. Per far questo, credo sia necessario che si creino dei solidi confini, interiori e psicologici. Un attore comincia a «mentire» quando smette di vivere entro determinate circostanze. René Clair pronunciò una frase molto famosa, molto sottile se ci pensate. Quando gli chiesero: Come lavorate con gli attori? Rispose: «Scusate» disse, «io lavorerei con gli attori? Come lavoro con gli attori? Ma con loro non ci lavoro. Li pago e basta». In questa frase è racchiusa una profonda fiducia nei confronti dell’attore e si capisce inoltre che ciascuno dovrebbe fare il proprio mestiere. Solo per incompetenza da noi si dice che il regista deve lavorare con l’attore. Per fare un esempio, prendiamo Eavventura di Antonioni. Come lavora lui con gli attori? Non lo so. Mi riesce difficile rispondere, non ci lavora in alcun modo. Vivono, voi direte, ma di nuovo, non è da lì che si capisce. Vivono, è un termine che proprio non si adatta. Vivono, come? Io stesso non so spiegarlo. Come lavorano gli attori con Fellini? Come lavorano, come lavora chi? Come lavorano gli attori nel film Citizien Kane di Orson Welles? Come lavorano con Bergman? E tremendo se si parte da questo approccio perché non si tratta affatto di lavorare. Si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una persona reale che non mostra allo spettatore che sta facendo qualcosa, trasmettendo un pensiero, come diciamo noi; è incredibilmente convincente, è genuinamente unica.

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È sì unica, ma non espressiva. È al suo posto, e in questo sta la massima espressione di un attore cinematografico. Non interpreta nulla, poiché, nel momento in cui lo fa, finisce tutto. Persino gli americani con la loro genialità in campo cinema­ tografico dopotutto recitano. Non è un caso che amino Stanislavskij. Marion Brando ha studiato secondo il metodo Stanislavskij, James Dean anche. La realizzazione di un attore nel cinema deve assolutamente coincidere con la verità della vita. Sarà un azzardo dir questo, ma l’aspetto dell’attore, nello specifico, non è una modalità di espressione cinematografica. Assolutamente. Vi accorgerete che, di fronte ai film realizzati dai migliori registi, non si può dire: oh, come recitano gli attori. Per un regista, sentir parlare in questo modo, è la cosa peggiore che ci possa essere. Nel cinema non ci può essere nessuna immedesimazione. Non appena un attore comincia a recitare, arrogandosi il diritto di essere il portavoce di un’idea, finisce tutto. Il bello è che le proporzioni assumono forme innaturali. Non più H2O, ma qualcosa come H2O2, una sorta di acqua pesante, una struttura che si è in qualche modo modificata. Non può non avere un effetto sull’immagine che esige un’integrità assoluta. Que­ sto è quello che bisogna tenere a mente, prima di ogni altra cosa. Insomma, nel cinema deve esserci un equili­ brio tra l’atmosfera nella quale agisce la persona all’interno dell’inquadratura e la persona stessa che in quell’atmosfera si trova ad agire. Nulla deve prevalere, altrimenti l’illusione di trovarsi

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di fronte a certi eventi, a certi fatti e alla vita di certe persone, crolla. Non ho niente in contrario se un attore è molto vivace, come dire, piuttosto entusiasta in rapporto alla vita, ma per questo occorre organizzare l’ambiente stesso in modo tale che l’attore non sembri sospeso nel vuoto, ma che rimanga coi piedi per terra. Per questo il discorso verte unicamente su come equilibrare le componenti dell’inquadratura all’interno di un film. Altrimenti qualcosa sfuggirà di mano e in quel caso diremo: questo è il cinema degli attori. Ma in realtà non è affatto cinema. Ci sono stati degli attori che hanno recitato bene la propria parte, ma questo con il film non ha nulla a che vedere. L’attore non fa parte del materiale specifico del cinema. Se noi cominciamo a usarlo secondo un metodo teatrale tradizionale, crolla immediata­ mente la percezione cinematografica. Prendiamo come esempi alcuni film muti, come Il processo dei tre milioni e La festa del santo Jurgen di Protazanov, ovvero due commedie in cui gli atto­ ri recitano in modo molto convenzionale, teatrale, dove Protazanov ancora non rinuncia alle vecchie pratiche teatrali, accentuando la plasticità degli attori, la loro resa espressiva. Come risultato si ha la sensazione che strizzi l’occhio allo spettatore, lo spinga leggermente per i gomiti, per far sì che presti attenzione al comportamento dell’attore. Cioè, in poche parole è una forzatura che certamente già si avvertiva al tempo in cui veniva girato il film e che adesso è passata del tutto di moda, perché è

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stata trasferita pari pari nel cinema la teatralità degli attori, e non essendo specifica per il cinema questa forma si è resa obsoleta e ha distrutto la percezione della verità. A questo punto voi mi direte: bene, allora come si deve recitare nel cinema perché non invecchi, e in generale, è possibile per un attore una forma di recitazione tale che possa essere sempre percepita come verità? Ho pensato parecchio a questo, e io credo di sì, che esista. L’unica cosa da non fare è pensare che il lavoro di un attore cinematografico voglia unicamente esprimere i pensieri e l’idea del regista. Assolutamente no. Ecco, quei film erano decisa­ mente datati. Se voi vi mettete a guardare i film di Bresson, allora capirete che quel modo di recitare non può invecchiare perché non vi è niente qui che potremmo definire forma. Può invecchiare il livello dell’azione, il livello della convenzionalità. Nel cinematografo non può esistere l’iperbole di un attore. Di solito gli errori, sia da parte degli attori sia da parte dei registi, sono legati all’esagerazione. Esempio tipico in questo senso è un film dove tutto è stato enfatizzato, tanto da risultare decisa­ mente insopportabile. Si tratta dell’ultimo film di Larisa Sepit’ko, Voschozdenie (Ascensione). E un tentativo di rappresentare i sentimenti, che vengo­ no enfatizzati per essere espressivi. Vi è in questo una specie di immoralità estrema. Per suscitare la nostra compassione verso i protagonisti, l’attore fa finta di essere più malato di quanto apparireb-

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be in realtà. O più sofferente, per toccarci più profondamente. E una cosa che invecchia prima ancora di nascere. Il cinema deve essere assolutamente naturali­ stico. Cosa significa la recitazione dell’attore? È il comportamento convenzionale da parte di un uomo che finge di essere un altro, diverso dal per­ sonaggio vero e proprio. Quando un attore «recita» ha la possibilità di creare un proprio rapporto col personaggio e in questo senso, nell’eseguire un ruolo teatrale, emerge il suo temperamento. Non c’è dubbio, nel cinema questo è impossibile. Non si può far entrare a forza la propria individualità dentro confini prestabiliti. Nel cinema i confini sono illimitati. Bene, all’interno dell’inquadratura esiste il ritmo degli attori, il ritmo della vita interiore dell’inqua­ dratura che il regista deve controllare. Tuttavia a un attore non viene imposto un ritmo, gli viene imposto qualcos’altro, gli viene imposta l’atmosfe­ ra, la condizione entro la quale dovrà agire quanto più vicino possibile al risultato che il regista esige. Innanzitutto il regista deve cercare di privare l’attore della possibilità di interpretare un ruolo, la possibilità di descriverlo per mezzo dei gesti, insomma non deve dargli la possibilità di essere ideologico, concettuale. Secondo me, deve cercare di usare l’attore come parte della natura e non come simbolo delle emozioni o delle idee che costituiscono il film. Ed è in questo che consiste la specificità del lavoro dell’attore cinematografico

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e, a mio avviso, non si tratta di disprezzo, al con­ trario, addirittura di rispetto, altrimenti il regista non sarebbe in grado di vedere l’attore con occhio obiettivo ed essere imparziale nei confronti della propria idea. Nei film di Bresson l’attore emerge unicamente secondo quella dimensione che lo fa stare al limite dell’inespressività. Per esempio esistono tanti modi per piangere. Ma Bresson non vuole che l’attore pianga esprimendo la propria individualità in un modo troppo vivido, che in ultima analisi pren­ derebbe il sopravvento. Cerca cioè ogni volta di renderci partecipi delle emozioni dei personaggi senza esprimerle del tutto e in questo ha perfetta­ mente ragione. In poche parole, se lui ha bisogno che l’attrice pianga, lei piange, ma non lascerà entrare quelle emozioni che rischiano di essere troppo specifiche e che andrebbero a distoreere il tutto. Ci sono persone che, al contrario, affida­ no la scena all’attore. Per questo tipo di regista è indifferente il modo in cui si comporta l’attore; ciò che per lui è importante è che venga conser­ vato lo stato d’animo in cui, secondo il regista, quella persona deve trovarsi in quella scena. Per lui è importante registrare i cambi di ritmo legati allo stato d’animo, una volta individuato in modo preciso. Perché lo spettatore, o semplicemente uno che osserva, è capace di giudicare la scena unicamente dal grado di falsità, e in nessun altro modo. Riporto un esempio banale: una casalinga, gettando uno sguardo fuori dalla finestra della sua cucina, nell’osservare una qualunque scena sulla

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via, senza sentire il dialogo che intercorre tra gli interlocutori, sarà sempre in grado di capire di cosa stanno parlando, se bene o male conosce quelle persone. E anche se non le conosce. C’è un’espe­ rienza di vita che ci spinge a mettere in relazione le azioni, i fenomeni della vita con la vita stessa e a scorgere da qualche parte il falso se questo ha a che fare con l’uomo. E proprio per questo che, a volte, quando conosciamo qualcuno e ci met­ tiamo a parlare con lui, siamo in grado di dire se si tratta di una persona falsa o sincera, fino a che punto dice la verità o mente. Ci sono persone che ci riescono molto bene, soprattutto quelli con una certa esperienza come gli psichiatri, gli investigatori, i giornalisti, le persone che parlano spesso con gli altri. Qui entra in campo la nostra esperienza di vita che s’imbatte nella realtà e percepisce il falso. Affinché l’attore sia più vero possibile, occorre non perdere di vista la sua naturalezza interiore, perché sarà questa a essere sempre visibile sullo schermo. Solo quando l’attore si appropria di un sentimento di autentica libertà e di autonomia è capace di reggere qualsiasi pausa. Questa sensa­ zione di libertà può essere creata anche dal regi­ sta, può essere messa in scena dalle circostanze, dall’atmosfera, non è questo il punto. Importante è raggiungere un senso di assoluta libertà; si può trasmettere anche per via telepatica. Se un attore si «sforzerà» di essere libero, non ne verrà fuori nulla, sarebbe innaturale. L’apertura di un attore, la sua spontaneità, deve sempre avvenire dentro le circostanze. Non si

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possono utilizzare astrattamente i meriti di un attore, perché quegli attori che mirano a realizzare un’espressività astratta si assomiglieranno tutti tra loro. Nella vita le esternazioni dei sentimenti umani posseggono una loro forma, non vengono espresse direttamente. La manifestazione astratta delle emozioni è il temperamento «aperto» di un attore. Qui si tratta di pura convenzione, falsità, recitazione, perché tutto ciò non è concreto. Per cui la vera libertà dell’attore e il tempera­ mento «aperto», falsamente interpretato, sono due cose diverse, non bisogna mai confonderle. A questo proposito si può notare che i provi­ ni cinematografici, così come vengono realizza­ ti ovunque qui da noi, costituiscono un’attività completamente inutile. Senza parlare del fatto che in larga misura vengono girati per i membri del chudsoviet,l i quali, a mio avviso, non li sanno guardare. Qui il criterio principale diventa: «Oh, come recitano!». In altre parole ci si riferisce a quelle manifestazioni astratte del temperamento di un attore, di cui abbiamo già parlato. Se un regista girasse i provini per se stesso, lo farebbe in modo completamente diverso, ma nessuno lo capirebbe e, di conseguenza, non sarebbe possibile approvargli gli attori... In ultima analisi, ciò che si crea all’interno dell’inquadratura è una vita convenzionale, che si basa però sul legame con la realtà, ma meno legami ci sono, più convincente sarà l’autore, più 1 Commissione sovietica degli artisti.

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uniche saranno le sue creazioni. Fotografare la realtà non è possibile, si può solo creare un’im­ magine di essa. Nel cinema il regista è una persona, il cui scopo è quello di custodire la propria idea in un processo molto complesso di realizzazione cinematografi­ ca. Perché, benché il regista sia l’autore del film, egli è tenuto a condividere la propria idea con altre persone, le quali anch’esse sono a tutti gli effetti degli artisti. Sembrerebbe che nel cinema, per realizzare una propria idea, il regista debba assolutamente condividerla con l’operatore, con lo scenografo, con gli attori; debba portare questi ultimi a una consapevolezza, a dei sentimenti, fare in modo che stiano dalla sua parte e via dicendo... ma ahimè, non è così che si fa. Portarli a una propria consapevolezza, condividere l’idea, son tutte parole che non hanno niente a che fare con la verità della vita e con il processo di creazione cinematografica. Per questo la questione su come custodire un’idea consiste prima di tutto nel far sì che questa rimanga un segreto per tutti i vostri colleghi. Ma i colleghi non devono accorgersene, altrimenti non riusciranno a concludere niente di sensato. Non sempre il regista riesce a condividere con gli altri la propria idea, perché a volte è impossibile formularla. Da una parte ovviamente è un male, ma dall’altra abbiamo numerosi esempi di questo tipo. Insomma, non sempre l’idea si lascia decifrare, persino dagli stessi colleghi del regista, dai membri del suo stesso gruppo artistico. E penso sia normale

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che si crei questo tipo di conflitto, tra il desiderio di condividerla, anche se si manifesta, e il modo con cui farlo. E se non si riesce a condividere un’idea, significa che in qualche modo la si deve custodire in una forma non elaborata. In un certo senso il regista è sempre uno che inganna. A seconda del temperamento, delle qualità del carattere e del rapporto con la realtà, ciascun regi­ sta è costretto a suo modo a custodire e a realizzare la propria idea.

Soffermiamoci ora su alcune questioni pratiche che concernono la realizzazione dell’idea. Credo abbia un senso cominciare il nostro discorso dalla definizione del concetto di messa in scena. In ambito cinematografico la messa in sce­ na, com’è noto, indica la forma nella quale si dispongono e si muovono degli oggetti scelti in base al piano dell’inquadratura. A cosa serve la messa in scena? A questa domanda nove volte su dieci vi risponderanno: serve a esprimere il senso di quello che succede. E basta. Ma non è possibile limitare il concetto di messa in scena solo a questa definizione, perché questo vorrebbe dire rimanere sulla strada che conduce in una sola direzione, verso l’astrazione. De Santis nell’ultima scena del suo film Un marito per Anna Zaccheo ha posto, come tutti ricordano, il protagonista e la protagonista ai lati opposti di un’inferriata. Questa cancellata in ferro dice espressamente:

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ecco, il legame tra i due è spezzato, non saranno felici, tutto è finito. Il risultato è che l’irripetibilità concreta e singolare di un evento acquisisce un significato banalissimo proprio perché gli viene assegnata una forma banale e forzata. Lo spet­ tatore batte subito la testa contro il «soffitto» del pensiero del regista. Ma il male sta nel fatto che a molti spettatori questi colpi fanno piacere, li tranquillizzano: è un evento «straziante», il senso è chiaro senza aver bisogno di spremersi il cervello e sforzare gli occhi dovendo esaminare a fondo la concretezza dell’azione. Eppure simili cancellate, simili recinzioni sono state ripetute centinaia di volte in molti film e sempre con lo stesso significato. Ma allora cos’è la messa in scena? Rivolgiamo la nostra attenzione alle migliori opere letterarie. Il finale del romanzo di Dostoevskij Lidiota. Il principe Myskin entra nella stanza con Rogozin dove, dietro le tende, giace assassinata Nastas’ja Filippovna ed emana già odore, come dice Rogozin. Siedono in mezzo all’enorme stanza, uno di fronte all’altro, vicini a tal punto che le loro ginocchia si toccano. Provate a immaginare la scena, vi lascerà vagamente inquieti. Qui la messa in scena nasce dalla condizione psicologica dei due protagonisti in quel momento, esprime in modo irripetibile la complessità dei loro rapporti. Quindi il regista, nel creare la messa in scena, deve partire dallo stato psicologico dei protagonisti, deve trovare una continuazione e un riflesso di questo stato nella disposizione dinamica interna della situazione e

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riportare il tutto alla verità di un fatto unico, alla sua oggettiva irripetibilità, come se lo osservasse direttamente. Solo allora la messa in scena com­ binerà la concretezza e la molteplicità semantica della verità autentica. Non ho mai capito come si possa, per esempio, costruire una messa in scena partendo da un’ope­ ra pittorica. Questo vuol dire creare una pittura riportata alla vita e, di conseguenza, uccidere il cinematografo. La messa in scena non esprime dei pensieri, esprime la vita. Tutte le cosiddette «trovate dei registi» hanno un doppio senso. Queste trovate sono nemiche del regista: sia nella messa in scena, sia nel montaggio, sia nelle riprese, insomma, in tutto. Lo spettatore si relaziona a queste «trovate» come a un sistema di geroglifici, cercando di decifrarne i «suggeri­ menti» possibili. E lo spettatore non pretende più solo dei simboli, ma anche che si possa leggere il simbolo facilmente. In questa situazione il regista fa la parte di un capo che guida rigidamente lo spettatore lungo l’arco del film, segnalandogli che alcuni punti vanno guardati in un certo modo e altri in un modo diverso. In pratica un regista fa le veci di una guida. E una specie di «dito che indi­ ca». Oggi questo regista-guida è quello richiesto dal nostro cinema commerciale, ma, ahimè, è una voce che grida nel deserto in quanto è un ruolo assai difficile. A ogni modo qui il discorso è un altro. Il regista-guida non crea arte, ma un gioco, una specie di «vince chi perde». Ma, nonostante

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tutto, il cinema commerciale esiste e, tra gli stru­ menti principali della sua «espressione», ci sono «le trovate del regista». Bresson è quello che più di tutti si allontana da questo «stile». Nei suoi film si trasforma in demiurgo, in creatore di un mondo che si è già quasi interamente trasformato in realtà, perché non troverete in essi nessuna artificiosità, affettazione o disturbo dell’unità. In lui tutto si consuma fino a raggiungere il limite dell’inespresso. Si tratta di un’espressività portata a un livello di tale accura­ tezza e laconicità che cessa di essere espressiva.

Non bisogna mai dimenticare che i procedimenti dell’artista non devono essere visibili nella sua ope­ ra. In ogni caso, ritengo che una simile pretesa per se stessi sia necessaria. A volte mi rammarico molto di alcune scene e inquadrature che non rispondono a questo principio, ma che per un motivo o per un altro ho lasciato nei miei film. Per esempio, adesso eliminerei con piacere dalla scena del gallo, nel film Lo specchio, il primo piano della protago­ nista, una ripresa accelerata a 90 fotogrammi con un’illuminazione modificata, innaturale. Grazie a questa riproduzione, la vita dell’immagine sullo schermo risulta rallentata; agli occhi dello spetta­ tore deriva persino una sensazione di allargamento della cornice temporale. E come se immergessimo lo spettatore nella situazione della protagonista, frenando l’istante e accentuando di proposito la situazione. Adesso penso sia una pessima cosa. Pessima perché, grazie a questa soluzione, la scena

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si carica di un significato puramente letterario. Deformiamo il volto dell’attrice, come se agissimo al suo posto. Accentuiamo l’emozione che ci serve e così si ha l’impressione che l’attrice in quella scena reciti in modo studiato, «con troppa enfasi», nonostante lei qui non faccia nulla. L’impressione descritta è nata interamente per colpa del regista. La sua condizione, per lo spettatore, risultava troppo «rimuginata», facilmente leggibile, invece di immergerlo in un’atmosfera misteriosa. Parlando di cos’altro avrei modificato nel film Lo specchio, avrei eliminato l’uscita dalla casa della moglie del medico, la Solov’joya, ovvero la scena della vendita degli anelli e degli orecchini. Avrei eliminato l’inquadratura a colori, dopo la scena del ragazzo che si guarda allo specchio con la brocca di latte, avrei eliminato la scena a colori dove il ragazzo nuota nel fiume. Per fare un confronto posso riportare un esem­ pio di procedimento registico molto più riuscito, anch’esso tratto da Lo specchio. Si tratta della scena della tipografia dove la protagonista, spaventata del fatto di aver lasciato sulle bozze un gravissimo erro­ re, corre allo stabilimento. Anche le riprese mentre attraversa le stanze della tipografia sono state fatte con sequenze accelerate, ma appena visibili. Abbia­ mo ripreso questo passaggio cercando di essere per quanto possibile delicati, accurati, perché lo spet­ tatore, avvertita la tensione, non si accorgesse dei mezzi utilizzati per suscitarla. Perché in lui potesse sorgere una vaga sensazione di stranezza derivante dall’accaduto; la condizione della protagonista gli

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si sarebbe svelata solo in un secondo momento. Dirò della stessa cosa in modo un po’ diverso: uti­ lizzando per questa scena delle sequenze accelerate, non abbiamo cercato di sottolineare chissà quale pensiero. Volevamo esprimere il suo stato d’animo, senza ricorrere ai mezzi degli attori. Quando uno spettatore non pensa alla ragione per cui il regista impiega questo o un altro piano sequenza, allora è incline a credere alla realtà di ciò che accade sullo schermo, è incline a credere a quella vita che l’artista «osserva». Se invece lo spettatore coglie in fragrante il regista, compren­ dendo esattamente perché e in vista di che cosa questi, di volta in volta, adotta un procedimento espressivo, allora cessa di provare emozioni per quello che avviene sullo schermo e comincia a giudicare freddamente l’idea e la sua realizzazione. Spunta fuori cioè la famosa «molla dal materasso», contro la quale anche Marx aveva messo in guardia. In ultima analisi, l’utilizzo di questo o quel pro­ cedimento riguarda un problema di stile del regista e, in larga misura, del suo gusto. Una condizione importante, secondo me, è che il procedimento non sia visibile. Quando un procedimento esprime l’essenza, allora è organico. Prendiamo ad esempio il rallenty. Per me si tratta di un procedimento mol­ to naturale, perché consente di guardare dentro il movimento del tempo. Ma adesso, in un contesto di cinema commerciale, non troverete forse neanche un film in cui non compare il rallenty. Adesso non c’è niente di più banale nel cinema del rallenty. Sorge allora la domanda: cosa fare in questi casi?

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Penso che la soluzione sia una sola. Se l’immagine che voi state creando è nuova, originale, e se la sua rappresentazione richiede il rallenty, allora quest’ultimo si può utilizzare. A conti fatti ormai, i procedimenti si conoscono tutti. Il procedimento, in sostanza, è solo un indizio esterno. Ciò significa che tutto si fonda sul «cosa» e non sul «come». Se il contenuto regge un certo tipo di procedimento, allora è organico, non separato, è una parte del tutto che costituisce l’immagine cinematografica. In ultima analisi, qualsiasi film, qualsiasi opera d’arte tende a un certo ideale ma, di regola, non lo raggiunge mai, rimandando, in un certo senso, il problema all’illusorietà della verità assoluta alla quale tende. Per questo ho parlato anche dell’as­ senza della perfezione in un’opera d’arte. Si può ricordare il modo con cui Cechov rivedeva le bozze che gli mandavano per lavoro. Riscriveva quasi tutto il racconto. Ricordiamo Tolstoj, la sua grande serietà con cui si rapportava ai manoscritti. Se diamo uno sguardo alle varianti dei lavori di Tolstoj, Cechov, Dostoevskij ci renderemo conto della gran mole di lavoro che questi scrittori hanno svolto. In ultima analisi, vi rapportate sempre in maniera differente rispetto a quello che avete fatto. Anche questo è tipico dell’opera d’arte, bella o brutta che sia, ma l’opera che vivrà è già autonoma rispetto a voi e verso di essa proverete sentimenti contraddittori. E possibile che voi desideriate modificarla ma, nel cinema, purtroppo, questo non è possibile.

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Il principio estetico fondamentale che guida il lavoro del regista deve essere la forma capace di esprimere la concretezza e l’irripetibilità di un fatto reale. La condizione indispensabile di una qualsiasi costruzione figurativa plastica in un film è costituita dall’autenticità vitale e dalla concretezza fattuale. L’aspetto e l’anima degli interni, la loro atmosfera, lo stato d’animo, l’umore dipendono dall’artista. Lo stesso vale anche per gli esterni, la scenografia, il luogo e il tempo delle riprese. L’ar­ tista deve tenere presente l’irripetibilità fattuale della messa in scena in ogni momento dell’azione e lo sviluppo temporale, il cambiamento della fattura stessa. Non per niente l’operatore polacco Buitsik scrisse che le forme sono legate interamente al tempo, e ciò che è importante è il momento di osservazione della materia che cambia nel tempo. L’artista deve tener conto del tempo trascorso dai personaggi sia in interni sia in esterni, quali saranno le circostanze, come cambiano i dettagli fattuali più insignificanti durante questo intervallo di tempo. Pertanto, variare non è pretestuoso, «secondo la sceneggiatura», ma reale, legato alla circostanza (faccio un esempio elementare: l’in­ tera famiglia di un uomo parte per le vacanze in campagna. Lui è impegnato nei suoi affari e non è portato per le faccende domestiche. Dopo un po’ di giorni tutti gli oggetti si ricopriranno di polvere, e lo strato si ispessirà sempre di più ogni giorno che passa). Con analoga concretezza, tenendo conto della loro vita temporale all’interno dell’inquadratura,

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devono essere selezionate le restanti componenti che dipendono dalla scelta dell’artista: i dettagli, i costumi... A proposito, i costumi rappresentano una delle questioni fondamentali, devono essere continuamente sorvegliati dall’artista principale (salvo rare eccezioni) altrimenti un abito non riu­ scito che era servito per realizzare l’atmosfera e la condizione cromatica della scena, potrebbe rovi­ nare tutto il lavoro condotto con estrema minuzia. I costumi rappresentano un aspetto molto importante della risoluzione generale, artistica, del film. Qui importante è avere una percezio­ ne molto acuta della fattura. Io direi: la camicia dell’attore deve essere dello stesso materiale del viso dell’attore. Beh, sapete di cosa sto parlando se uso questa metafora. Sto parlando dei rimandi. Ricordate, in pittura, i quadri degli «olandesi»? per esempio là ogni centimetro del quadro è pieno di un identico, sorprendente rimando. Qui tutto deve essere il prodotto di un ragio­ namento portato al sommo grado, deve essere il prodotto di una selezione. Ciò che occorre è una severità estrema, spinta fino al più piccolo detta­ glio. Le maniche lacere nel Vermeer rappresentano un valore imperituro, un mondo spirituale. Un abito appena imbastito è sempre una cata­ strofe. Un abito, come qualsiasi altra cosa all’in­ terno dell’inquadratura, deve avere una sua storia, legata a una precisa persona: l’attore. E sempre evidente perché fa parte della stessa realtà che cambia col tempo, come tutto il resto. La stessa cosa si può dire delle acconciature. Si

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possono realizzare per esempio delle acconciature e dei costumi perfetti in stile retro, ma il risultato sarà quello di un rivista di moda del periodo; le acconciature saranno stilisticamente impeccabili, ma prive di vita, come delle illustrazioni colorate. Il punto è che bisogna applicare i tratti di uno stile specifico a persone vive, moltiplicarlo per i loro caratteri e le loro biografie. Solo allora si avrà la sensazione di una realtà viva. Adesso affrontiamo il problema del colore nell’ambito del lavoro dell’artista cinematografico. Un tempo rifiutavo l’utilizzo del colore nel cine­ ma. Ma da allora le mie vedute sono cambiate. Ho già girato due film a colori, ma tuttora con­ fermo alcuni tra i miei precedenti pareri. Il più importante è che il colore deve corrispondere alla condizione del tempo sullo schermo, esprimerlo e completarlo. Nei film a colori lo scenografo (così pure il regista e l’operatore) deve dimostrare il proprio gusto, perché è proprio nel colore che si nasconde il pericolo più grande di ridurre il cinema a delle belle immagini in movimento, a una pittu­ ra in movimento. E di nuovo qui, per l’artista, il momento più importante, più determinante, sarà il fatto, provvisorio e realistico. Per quanto riguarda gli esterni, l’artista cine­ matografico ha qui a disposizione dei precursori geniali: gli architetti russi. Tutte le cattedrali, dal punto di vista della scelta del luogo sono posiziona­ te in modo incredibilmente preciso, prolungano la natura in un modo tale da lasciarti senza fiato. L’ar­ tista non deve mai dimenticare che l’architettura

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deve essere un proseguimento della natura, mentre nel cinema deve essere sia espressione degli stati d’animo dei protagonisti, che delle idee dell’autore. Di fronte all’allestimento della scenografia, l’artista, a parte i problemi inerenti la creazione, deve sta­ bilire, sia da un punto di vista puramente pratico, sia perché si tratta di un aspetto fondamentale, quali sono le possibilità della ripresa. In nessun caso deve imporre con la propria scenografia la messa in scena o limitare in un modo o nell’altro le possibilità dell’operatore. Un artista è tenuto a sapere con quali obiettivi, su quale pellicola girerà l’operatore e anche quale tecnica utilizzerà. Per il film Lo specchio l’artista Nicolaj Dvigubskij costruì un complesso scenografico denominato «La casa dell’autore». Per la sua realizzazione fu impiegata quasi tutta la maestranza della Mosfd’m. Anche i collaboratori degli studi vennero «a fare escursioni» sul nostro set. Pensate ci fosse qualcosa di eccezionale, di rilevante, di bello, di insoli­ to? Niente di tutto ciò. In questa scenografia che riproduceva un vecchio appartamento moscovita, sono stati riprodotti con estremo realismo i muri del vano delle scale, le ragnatele sulla carta da parati logora della stanza disabitata, le tubature arrugginite che sgocciolavano in bagno, il vecchio lavandino incrostato in cucina, diventato verde dalla muffa, il soffitto infiltrato d’acqua, che per poco non cadeva in testa agli inquilini dell’appar­ tamento. Era un appartamento abitato dal tempo. Queste sono in breve alcune considerazioni. E sono lungi dall’essere esaurienti. Il lavoro dell’ar­

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tista cinematografico è complesso e variegato. Ma, indipendentemente dalle predilezioni dell’artista, del suo modo e dei suoi metodi di lavoro, per me le cose più importanti rimangono la sua levatura, la sua cultura generale, la sua versatilità professio­ nale, la sua completa e disinteressata devozione al lavoro comune. Ora cercherò di esporre in maniera più detta­ gliata, le mie considerazioni su temi come il colore, le riprese degli esterni e nella sala da posa.

Una delle questioni che più merita attenzione e nella quale vi imbatterete, è quella del colore. Non sono un sostenitore della drammaturgia del colore, sebbene qui da noi, piaccia parlarne spesso. E vero, il colore risuona in base a una chiave definita, basta ricordare gli esperimenti con i suoni e i colori di Skrjabin. E probabile che qui abbia senso parlarne, ma non credo che ne abbia per ciò che riguarda il cinema. C’è una tradizione nazionale legata al colo­ re nelle sue svariate forme d’arte, dove il colore svolge un ruolo molto importante, ma in un senso simbolico, una specie particolare di informazione. Ma come abbiamo già detto i simboli e le allegorie fanno parte di quel linguaggio dei geroglifici che contraddice l’essenza del cinema. Il cinematografo, inteso come nuova arte, si è sganciato dalla tra­ dizione pittorica e, a mio parere, non c’è nessun bisogno di ripristinare questo legame. E morto come sistema, soprattutto per il cinema. Mi sembra che persino Petrov Vodkin nella sua ricerca tesa a

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far rivivere la tradizione iconografica russa, ha fatto più che altro pittura decorativa. Questo conduce unicamente a un’arte da salotto, sebbene, a mio avviso, la tradizione iconografica russa si situi a un livello inarrivabile, forse al di sopra dell’arte del Rinascimento italiano. Nel colore di solito ci sentiamo attirati o verso il simbolismo o da qualche altra parte. Penso che la comunicazione con il mondo dei colori debba seguire un percorso che riconduce all’armonia, un percorso di selezione. Non bisogna confondere i compiti della pittura con quelli del cinema. Il senso della composizione pittorica si basa sull’imi­ tazione, è su questo, diciamo, che si focalizza. Altra cosa è il cinema, dove viene registrato uno spazio per creare l’illusione del tempo. Creare una composizione pittorica nel cinema, distrugge l’immagine cinematografica. Penso che in ambito cinematografico bisogna rapportarsi al colore da un punto di vista emotivo al fine di creare precise condizioni cromatiche che riguardano la natura e il mondo. Per questo nel cinema non è possibile un colore convenzionale, distruggerebbe la naturalezza della realtà. Il colore della natura è assai più poetico di qualsiasi espediente utilizzato sulla pellicola. Cre­ do che si possano persino abbellire delle cose in natura ma allo scopo di renderle più vere e non il contrario, come a volte succede nel cosiddetto cinema «poetico». In genere la nostra psicologia è fatta in modo tale che le immagini in bianco e nero vengano percepite

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come più vere, più reali di quelle a colori. Anche se sembra debba essere il contrario. Ho avuto modo di osservare che quei registi che si sono realizzati nella pellicola in bianco e nero, nei loro film successivi, a colori, sono risultati meno convincenti perché è come sparito tutto un mondo, si è persa una certa poesia. Nelle immagini a colori si rischia sempre di cadere nella teatralità. In genere i problemi pratici sono molti. Di norma, se si lavora con i colori, non si hanno i risultati che si vorrebbero. Non c’è niente di meno gratificante, per esem­ pio, che girare a colori la natura in inverno. I visi degli attori diventano rossi, le ombre azzurre, e non ci potete far nulla; la stessa cosa avviene quando si riprendono gli attori con indosso una camicia bianca e all’interno dell’inquadratura c’è il blu del cielo. Anche se li riprendete all’ombra in una gior­ nata nuvolosa, vi verrà comunque fuori un colore blu artificiale orrendo. Certo, esistono i tendoni, ma provate voi a fare le ombre coi tendoni! Non è semplice. Quasi mai riuscirete a stampare a colori delle singole inquadrature in bianco e nero. Per riuscirci bisogna riprendere alle stesse condizioni di esposizione, altrimenti, a seconda della densità del negativo, il colore del positivo cambierà. C’è da dire che il procedimento di utilizzo del bianco e nero nei film a colori è già diffuso. Penso comunque che non si debbano dimenticare i film in bianco e nero, sono stupendi, soprattutto se stampati a colori. Avrete allora la percezione del colore, qui le possibilità sono infinite.

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C’è da dire che se si fa un lavoro serio con il colore, occorre dare il via a tutta una serie di espe­ dienti. Per esempio, per Lo specchio avevamo tre abiti per la protagonista, tutte varianti di uno stesso vestito, ma con diverse sfumature di colore, per poter girare in tre fasi diverse del giorno. Dovete sapere che la temperatura cromatica è diversa a seconda delle ore del giorno. Questo bisogna che lo sappia non solo l’operatore ma anche il regista. Voi, in generale, non fate affidamento su nessuno, contate solo su voi stessi. Anche questo fa parte di una delle peculiarità della regia cinematografica.

Preparare gli esterni per le riprese è molto più difficile che allestire una sala da posa. Ci sono sempre correzioni di ogni genere da apportare: sulla luce, sul tempo, ecc. Ciò che qui è impor­ tante, come per tutto il resto, è il principio della selezione. È difficile riportare all’armonia il caos che ritroviamo in natura, al fine di poter creare, a proprio piacimento, una condizione specifica di luce e di colore. E per di più fare in modo che i vostri sforzi non siano visibili. E molto difficile. Quante volte mi hanno fatto i complimenti per una scena che non era particolarmente comples­ sa, ma che forse trasmetteva la condizione della natura. Sto parlando dell’episodio dell’incendio durante la pioggia nel film Lo specchio. Vi dirò, questa scena è nata da sola. L’abbiamo girata due volte. La prima volta pioveva e non siamo riusciti a creare l’incendio. E quando ci siamo messi a girare la scena per la seconda volta, avevamo già

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capito di voler conservare l’unicità di quell’evento, ovvero l’incendio durante la pioggia. In un film, qualsiasi paesaggio non deve essere casuale, ma deve essere creato e verificato in base al rapporto personale che noi abbiamo con ogni albero. Non deve essere semplicemente realtà, ma realtà ispirata. Nelle riprese degli esterni ci sono parecchi cli­ ché. Per esempio la cosiddetta pioggia artificiale. Non riprendetela mai. Meglio sarebbe non girare affatto piuttosto che «far vedere» che piove con la pompa antincendio. Sono tutti metodi del cinema commerciale. E bene notare che non tutte le condizioni esi­ stenti in natura si lasciano trasferire sullo schermo. Alcune cose esotiche, il più delle volte, assumono un aspetto innaturale, soprattutto se a colori. Ho osservato che se in una scena c’è un’inqua­ dratura, il più delle volte totale, che meglio di tutte trasmette l’essenza dell’oggetto, allora una seconda inquadratura non serve. Meglio fare poco che troppo. Di solito è difficile unire il materiale delle riprese in esterno e nella sala da posa se creato a pezzi grossi, a blocchi. E molto meglio alternare la sala da posa agli esterni, solo così le differenze non saranno troppo evidenti. In genere lavorare nella sala da posa è molto pia­ cevole. Si possono creare delle cose sorprendenti, ma solo quando si sa come farlo e, di conseguenza, si è certi di realizzare i propri intenti secondo le modalità dello studio in cui si sta girando.

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Il film Casanova di Fellini è realizzato tutto nella sala da posa: i fiumi, i mari, i campi innevati, la tempesta sulla laguna veneziana. Dubito che quest’ultima si sarebbe potuta girare in esterno. Questo è un buon esempio per dire che, per la creazione di un’immagine, l’importante è l’illusione della vita e non la vita stessa. Nella mia esperienza posso ricordare «La casa dell’autore» nel film Lo specchio, come una sala da posa conclusa con successo. Se vi ricordate, dalla finestra si vede un cortile, dove il figlio dell’autore, Ignat, accende un fuoco. Di solito, se ci si affida alla sala da posa, bisogna sempre essere sicuri, fino al più piccolo detta­ glio, di poter realizzare quel risultato che da voi si aspettano. In teoria in un film non deve essere impiegata nessu­ na musica se non è parte di una realtà che risuona, impressa nell’inquadratura. Nella maggior parte dei film, comunque, la musica viene utilizzata. In via di principio penso che la musica in un film si possa impiegare, ma non è vincolante. L’importante è come viene usata. Il metodo più banale ma, purtrop­ po, quello più diffuso, è la correzione; migliorare con la musica un brutto materiale, colorare una scena o un episodio non riuscito. Si verifica assai di frequente: quando un film sta cadendo a pezzi, si comincia a usare la musica. Ma questo non sal­ verà il film, è tutta illusione. Qui siamo a un livello di «regia» alla quale noi, nelle nostre lezioni, per fortuna non ci siamo abbassati.

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La musica è un modo per esprimere uno stato d’animo. Fa parte di uno degli aspetti della cul­ tura spirituale. In questo senso, evidentemente, la musica può essere impiegata come ingrediente del mondo interiore dell’autore, una citazione nel suo genere, simile a un’opera pittorica, se viene a trovarsi all’interno dell’inquadratura. Vi ricordate com’è stata impiegata la musica nel film di Bergman Sussurri e grida? Abbiamo già parlato di questo episodio. In quel caso le parole erano inutili, per questo la musica era molto più precisa, più adatta. Non sto parlando del significato filosofico di quella scena all’interno del film, ne abbiamo già discusso. A ogni modo questo è un procedimento. E se non fosse stato eseguito a quel livello, probabilmente, non sarebbe venuto poi tanto bene, perché è un procedimento ormai noto da tempo a cui si ricorre spesso. Sempre più sovente penso che se il suono venisse impiegato correttamente, potrebbe essere molto più ricco della musica. L’immagine del mondo, com’è noto, non nasce solo per merito della vista, ma anche grazie all’udito. Per questo motivo, forse, la realtà che risuona, deve essere utilizzata in ugual misura anche come immagini che si susseguono, nelle quali noi creiamo una massa di concetti. Nor­ malmente nessuno riesce a lavorare col suono se quest’ultimo deve diventare un ingrediente uguale per diritti all’immagine cinematografica. Il cinema si trova ancora a quel grado di svi­ luppo in cui non tutto gli corrisponde in modo

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armonico. Se avessimo trattato diversamente il suono probabilmente ciò avrebbe modificato la nostra idea del cinema. Un lavoro serio sul suono deve bilanciare le tecniche figurative con quelle del suono. In questo caso, viene da pen­ sare, l’immagine avrà tanto spazio, comincerà a trabordare, esigerà un riordino. Molto spesso usiamo le immagini come un linguaggio; il suono no, nonostante possa anch’esso venire impiegato in maniera non utilitaristica. Prendiamo il film di Bergman L!adultera. Il rumore della sega circolare che si sente fuori, ci arriva molto indistinto. Vi ricordate di quale scena sto parlando? E considerata un classico. Ecco, questo è il caso in cui il suono diventa immagine. Oppure il segnale indistinto della «sirena» nel film Come in uno specchio sempre di Bergman, quando la protagonista impazzisce. E un’immagine sonora sorprendente, inesplicabile, impossibile da decifrare. Non spiega nulla, non simboleggia, non illustra. Qui di nuovo ritorniamo a quella definizione d’immagine cinematografica con la quale abbiamo iniziato la lezione. Perché il suono, così come l’immagine, può essere usato in modo letterario, simbolico, avere la pretesa di designare qualcosa. Anche qui i «dettagli plurisemantici», gli «espedienti del regista», insomma tutte le possi­ bili «leve», i «suggerimenti» che il regista dà allo spettatore, e di cui abbiamo già parlato, possono essere di vario genere. Per quanto riguarda i dettagli pratici, lavorando col suono, innanzitutto occorre sapere che esiste

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tutta una serie di suoni che tecnicamente non possono essere registrati (non mi soffermo sul lato pratico del lavoro dell’operatore del suono perché argomento di un corso specifico). Per esempio, il vento. Il vento non si può regi­ strare, bisogna per forza ricrearlo in studio. E necessario che il suono entri nel film come mezzo artistico, come procedimento, con il qua­ le vogliamo dire qualcosa. Di solito, invece, nei nostri film tutto risuona per non lasciare vuota l’inquadratura, niente di più. Insomma abbiamo di fronte un campo non ancora arato. Di solito il testo della sceneggiatura è sempre un po’ troppo lungo. Ma, a mio avviso, eliminare il testo rende a modo suo il materiale affettato, troppo elaborato. Questo non significa che durante le riprese non vengano effettuate delle modifiche a livello di logica del testo. Al contrario, si verificano immancabilmente. In sede di ripresa, ho dovuto scrivere appositamente interi monologhi perché un attore specifico dicesse quelle parole. Solo parole. E capiterà anche a voi di scontrarvi con questo. Ma devo avvisarvi, non lasciate mai che un attore rediga lui stesso il testo. E una via che a poco a poco corroderà la vostra idea. La tappa successiva, in relazione al testo, riguar­ da la registrazione del suono. Credo fermamen­ te che in questa fase, il suono venga registrato meglio che non in fase di ripresa e che ci si possa avvicinare parecchio all’idea. La registrazione del suono è un processo creativo. Il regista deve portare avanti la registrazione del suono da solo,

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senza incaricare altri, come spesso accade da noi, è lui che deve scegliere gli attori per la registra­ zione sonora dei ruoli. Per un regista serio questa è la regola. Bisogna trattare la registrazione del suono come trattiamo le riprese. Non voglio dire che durante la registrazione del suono si possano inserire nuove frasi, eliminare certe ripetizioni non più necessarie, ecc. Insomma tutto, in larga misura, si avvicina all’idea. Il fatto che la registrazione sonora finale degli attori debba essere così importante, mantenere un’emozione viva, è un gravissimo sbaglio, uno dei tanti pregiudizi. Ditemi, quale potrebbe essere un sentimento immediato nel cinema? E sempli­ cemente ridicolo. Soprattutto se la scena viene ripresa con inquadrature brevi o si aggiungono allargamenti di piano... Di solito funziona così: guarda da quella parte e adesso guarda da questa parte. E basta. Se l’attore «esprimesse qualcosa» in quel punto e non guardasse là dove deve guardare, allora dovreste buttar via tutto il materiale. La registrazione sonora è la stessa creazione di un universo di immagini come nelle riprese. La stessa cosa si può dire per i rumori e per la musica. È tutto creazione.

Un film va girato in fretta. Quanto più in fretta viene realizzata un’idea, tanto più l’idea sarà com­ pleta, perfetta. Bunel effettua solo due riprese, anzi la seconda solo se richiesta dall’attore; alla fine sceglie comunque la prima. Per esempio io perdo interesse se sono troppo

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pronto per le riprese. Bisogna conoscere il senso di quello che si vuole raggiungere. Comunque, se si volesse riprendere qualcosa, pensata a tavolino, il risultato sarebbe astratto in partenza. Bisogna che l’effetto nato all’improvviso, venga reso su tutto, perché è questo che dà una sensazione viva, organica per quegli esterni, persino per quella condizione della natura. Sulla base di quanto detto, viene da chiedersi: «ma è necessario girare delle varianti?». Penso che se lo sentite come esigenza, allora bisogna assolu­ tamente farlo. Il più delle volte però, e lo dico per esperienza, non è questo che serve. O almeno in questo caso è indispensabile sapere esattamente che questa variante entrerà nel film e soprattutto in quale punto, cioè occorre pensarlo in relazione al materiale montato. L’artista non deve perdere la calma. Non ha il diritto di manifestare la propria agitazione, il proprio interessamento e sfogarlo liberamente. Qualsiasi emozione nei confronti dell’oggetto deve essere trasformata nella calma olimpica delle forme. Solo allora l'artista potrà parlare delle cose che lo turba­ no. Tutte queste «emozioni circa la cosa» e questo desiderio di girare «quello che fa più effetto», non porta niente di buono a nessuno. Per prima cosa bisogna descrivere l’evento e non l’atteggiamento che si ha verso di esso. L’atteggia­ mento nei confronti dell’evento deve venir fuori dal film e scaturire dalla sua integrità; come in un mosaico: ogni pezzo isolato è di un singolo unico colore. Può essere blu, bianco, rosso, sono tutti

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diversi. E poi guardate l’opera ultimata e potrete vedere cosa voleva dire l’autore. Oppure, un altro esempio: le opere di Bach, scritte per il clavicembalo (spero voi conosciate la differenza tra il suono del clavicembalo e quel­ lo del pianoforte moderno, che ha un pedale per prolungare la durata del suono). Ebbene, queste composizioni vanno suonate senza abbellire niente, senza provare emozioni, con freddezza. Molti piani­ sti contemporanei, e anche molto famosi, suonano male Bach, non capiscono quale ne sia l’essenza. Cercano di esprimere il loro rapporto nei confronti dell’opera, ma Bach non ha bisogno di questo. Lo si deve eseguire, come dire, in modo lineare, come in un computer, senza infondere emozione alla nota, senza romanticismo. Bresson gira ogni inquadratura in questo modo, nel modo in cui va suonato Bach con il calvicembalo. Utilizzando il minimo dei mezzi. Il tutto trasmette un carattere sorprendentemente semplice, privato di quello che si è soliti chiamare «espressività». Bresson non trattiene il tempo «con passione» ma lascia che si muova al di là degli accenti emozionali. In lui non vi è accento neppure negli allargamenti di piano. Non fa niente per interessarvi. Si tratta di arte olimpica, del più alto senso delle forme.

Il montaggio

È difficile concordare con l’ormai diffusissima errata convinzione, secondo la quale il montaggio sarebbe il principale elemento che dà al film la sua forma. Che il film verrebbe creato al tavolo di montaggio. Ogni arte necessita di un montaggio, di un assemblaggio, di un adattamento delle parti, di un adattamento dei pezzi. Noi, però, non stiamo parlando di ciò che avvicina il cinema ad altri generi d’arte, ma di ciò che da questi lo differenzia. Vogliamo capire la specificità del cinematografo. Ma allora in cosa consiste il ruolo del montaggio? Il montaggio congiunge delle inquadrature colme di tempo, ma non le idee, come si sentiva spesso affermare dai sostenitori del cosiddetto «cinemato­ grafo di montaggio». In fin dei conti, il gioco delle idee non è affatto una prerogativa del cinema. Quindi non è nel montaggio delle idee che si capisce l’es­ senza dell’immagine cinematografica. Il linguaggio del cinema risiede in un’assenza di linguaggio, di significato, di simbolo. Ogni film, nella sua tota­ lità, è racchiuso all’interno di un’inquadratura, a

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tal punto che, secondo me, dopo averne guardato anche solo una, è possibile dire con certezza quanto sia talentuosa la persona che l’ha girata. Il montaggio, in ultima analisi, è solo una variante ideale dell’incollaggio dei piani. Ma questa variante ideale è già posta all’interno del materiale cinematografico impresso sulla pellicola. Montare un film in modo giusto, correttamente, trovare la variante ideale di montaggio, significa non disturbare l’unità delle singole scene, poiché è come se queste si fossero già assemblate da sole in precedenza. Al loro interno vi è una legge che bisogna percepire e, conformemente a questa, eseguire l’incollaggio, il taglio di quei piani o di altri. A volte percepire la legge di correlazione, del legame delle inquadrature, non è affatto semplice (soprattutto quando la scena è stata girata in modo impreciso), cosicché, al tavolo di montaggio, non avviene un collegamento meccanico dei pezzi, ma un tormentoso processo di ricerca del principio di unità delle inquadrature, durante il quale, pian piano, passo dopo passo, emergerà in modo evi­ dente la sostanza dell’unità contenuta all’interno del materiale già al tempo delle riprese. Esiste qui un particolare legame di reciprocità: la costruzione posta all’interno di un’inquadratura si realizza nel montaggio grazie alle particolari quali­ tà del materiale girato contenute nell’inquadratura durante le riprese. Nel montaggio il materiale esprime la sua essenza, che emerge nel carattere stesso delle incollature, nella loro logica spontanea e immanente. Lo specchio è stato montato con enorme diffi­

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colta. C’erano circa venti e più varianti diverse di montaggio del film. Parlo non delle modifiche che riguardavano i singoli incollaggi, ma dei cambia­ menti essenziali nella struttura, nella successione stessa degli episodi. A momenti sembrava che il film ormai non si potesse più montare e ciò avreb­ be voluto dire che, durante le riprese erano stati commessi degli imperdonabili errori di calcolo. Il film non si reggeva, non voleva alzarsi in piedi, si sgretolava di fronte agli occhi; non vi era integrità alcuna, nessun legame interno, nessuna necessità, nessuna logica. E, all’improvviso, un bel giorno, avendo avuto la possibilità di ridargli un’ultima disperata riorganizzazione, il film venne fuori. Il materiale prese vita, le parti del film cominciarono a funzionare collegandosi reciprocamente; come unite da un unico sistema sanguigno, il film nasce­ va davanti ai nostri occhi, durante la proiezione di quest’ultima variante di montaggio. Per lungo tempo non riuscii a credere a questo miracolo, che il film alla fine si fosse assemblato. Fu questa una seria verifica della giustezza di quel che avevamo fatto sul set. Era chiaro che il collegamento delle parti dipendeva dalla condizione interiore del mate­ riale. E se questa condizione era apparsa all’interno del materiale durante le riprese, se non ci eravamo ingannati sul fatto che essa, dopotutto, si fosse generata nelle riprese, allora il film non poteva non assemblarsi, sarebbe stato semplicemente innatu­ rale. Ma perché ciò avvenisse, occorreva cogliere il senso, il principio della vita interiore dei pezzi girati. E quando questo, grazie a Dio, si verificò,

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quando il film si resse sulle sue gambe, che sollievo da parte di tutti!

Nel montaggio viene articolato il tempo stesso che scorre nell’inquadratura. Per esempio Lo specchio, in tutto consta di circa duecento inquadrature. Non sono molte, consi­ derando che un film con un metraggio di questo tipo normalmente ne contiene circa cinquecento. L’esiguo numero delle inquadrature ne Lo specchio è determinato dalla loro lunghezza. L’incollaggio delle inquadrature organizza la struttura del film, ma non crea, come si è soliti pensare, il ritmo del film. Il ritmo del film nasce in conformità al carattere del tempo che scorre dentro l’inquadratura e viene determinato non dalla lunghezza dei pezzi monta­ ti, ma dal grado di tensione del tempo che scorre dentro di loro. L’incollaggio, effettuato in sede di montaggio, non può determinare il ritmo; qui il montaggio nel migliore dei casi, è niente più che un’indicazione di stile. Dirò di più: nel film il tempo scorre non grazie agli incollaggi ma contrariamente a questi, se ovviamente il regista, all’interno dei singoli pezzi, ha afferrato esattamente il carattere dello scorrere del tempo impresso nelle inquadra­ ture, collocate davanti a lui sugli scaffali del tavolo di montaggio. È proprio il tempo, impresso nell’inquadratu­ ra, che detta al regista questo o quel principio di montaggio. Per questo, le inquadrature nelle quali è fissato un carattere essenzialmente diverso dello scorrere del tempo non si montano tra loro. Così ad

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esempio il tempo reale non può essere montato insie­ me a quello convenzionale, così come è impossibile congiungere tra loro dei tubi di diverso diametro. Questa consistenza del tempo, che scorre nell’in­ quadratura, la sua tensione o, al contrario, la sua «rarefazione» si può chiamare pressione del tempo nell’inquadratura. Ne consegue che il montaggio è un metodo di collegamento dei pezzi tenendo conto della pressione del tempo all’interno di essi. Una sensazione unitaria, in relazione alle diverse inquadrature, può essere richiamata dall’unità della pressione, dell’energia, del grado di tensione che determina il ritmo del film. E dunque, come avvertiamo il tempo nell’in­ quadratura? Questa sensazione particolare sorge laddove, al di là di quello che accade, viene avvertito qualcosa di particolarmente grande e importante, equivalente alla presenza della verità nel film. Cioè quando ti rendi conto, in modo perfettamente chia­ ro, che quello che vedi nell’inquadratura non si esaurisce nella successione visuale, ma allude appe­ na a qualcosa che si propaga oltre l’inquadratura, a qualcosa che ci permette di fuoriuscire dal film per entrare nella vita. Quindi, di nuovo, si mani­ festa ancora una volta, quell’immagine infinita di cui abbiamo già parlato. Il film è molto più ricco di quello che ci offre immediatamente, in modo empirico (se si tratta ovviamente di un vero film). E in esso i pensieri e le idee sono sempre di più rispetto a quelle coscientemente poste dall’autore. Come la vita, che scorre e muta di continuo, che dà a ognuno la possibilità di interpretare e di sentire

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a modo proprio ogni istante, così anche un film autentico, con un’esatta registrazione del tempo sulla pellicola, estendendosi oltre i confini dell’in­ quadratura, vive nel tempo, nello stesso modo in cui il tempo vive in esso. La specificità del cinema, penso, bisogna cercarla proprio nelle peculiarità di questo processo binario. Allora il film diventa qualcosa di più grande di quanto non esista nominalmente sulla pellicola girata e montata, qualcosa di più grande del racconto, del soggetto posto alle sue basi. Il film diventa in un certo senso indipendente rispetto alla volontà dell’autore, ovvero viene paragonato alla vita stes­ sa. Si stacca dall’autore e comincia a vivere di vita propria, mutando di forma e di senso nel momento in cui viene a contatto con gli spettatori. Rifiuto l’interpretazione di cinema come arte del montaggio anche perché non permette al film di estendersi oltre i confini dello schermo, cioè non tiene conto del diritto dello spettatore, quello di allacciare la propria personale esperienza a ciò che vede di fronte a sé sul telo bianco. Il mon­ taggio cinematografico propone allo spettatore rebus e indovinelli, costringendolo a decifrare dei simboli, a trarre piacere dalle allegorie, appellan­ dosi all’esperienza intellettuale di chi guarda. Ma ognuno di questi indovinelli possiede, ahimè, la sua soluzione che viene formulata in modo preci­ so. Quando Ejzenstejn in Ottobre giustappone il pavone a Kerenskij, il metodo diventa per lui equi­ valente allo scopo. Il regista priva gli spettatori della possibilità di impiegare, mediante la percezione, il

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loro rapporto con ciò che hanno visto. E questo significa che qui il metodo di costruzione dell’im­ magine diventa fine a se stesso; l’autore comincia a sferrare un’offensiva su tutta la linea contro lo spettatore, imponendogli il proprio atteggiamento su ciò che accade. È noto che il confronto fra il cinematografo e le arti che si basano sul tempo, come, ad esempio, il balletto o la musica, mostra che il particolare che fa la differenza consiste nel fatto che il tempo che viene impresso sulla pellicola acquisisce la forma visibile del reale. La scena, una volta girata, verrà sempre e in modo analogo percepita in tutta la sua immutabile realtà. Un’opera musicale può essere eseguita in diversi modi, può avere una durata diversa; in altre parole, il tempo in musica ha un carattere filosofico-astratto. Il cinematografo, invece, riesce a fissare il tempo nelle sue caratteristiche esteriori, raggiungibili attra­ verso i sensi. Per questo il tempo nel cinematografo diventa il fondamento dei fondamenti, nello stesso modo in cui, in musica, tale fondamento risulta essere il suono, in pittura il colore, nel dramma il carattere. Ne abbiamo appena visto un esempio nel film di Aubier, dove il movimento del tempo in uno spazio chiuso risulta essere l’unico elemento che dà forma al film. Questo è una chiara conferma di quello che voglio dire; cosa che per me è la più importante al fine di comprendere la specificità dell’arte cinematografica. Così il ritmo non è un alternanza metrica dei pezzi. Il ritmo è composto dalla tensione temporale

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all'interno delle inquadrature. E, secondo la mia convinzione, è proprio il ritmo a costituire il prin­ cipale elemento formale del cinema e niente affatto il montaggio, come si è soliti credere. Ripeto, il montaggio esiste in ogni arte, come forma di una scelta operata dall’artista, di una scelta e di un collegamento, senza i quali non esisterebbe nessuna arte. Invece, la particolarità del montaggio cinematografico consiste nel fatto che esso congiunge il tempo impresso nei pezzi girati. Il montaggio con­ siste nell’incollare pezzi e pezzetti che contengono il tempo di una differente o di un’unica consistenza. E la loro unione offre una nuova percezione del­ lo scorrere del tempo, una percezione nata come risultato delle omissioni delle inquadrature, che vengono tagliate o amputate all’atto dell’incollatura. Ma le particolarità delle saldature operate in sede di montaggio, e di questo ne abbiamo già parlato sopra, sono già contenute negli stessi brani che vengono montati, e il montaggio non restituisce assolutamen­ te una nuova qualità ma svela solo quello che già esisteva nelle inquadrature che vengono collegate insieme. Il montaggio è come se venisse previsto già durante le riprese, come se venisse programmato fin dall’inizio dal carattere di ciò che viene ripreso. Per questo, soggetti al montaggio sono unicamente le durate temporali, l’intensità della loro esistenza fissata con la cinepresa, e niente affatto simboli concettuali, oggetti pittorici tratti dalla realtà, o composizioni organizzate, messe in scena in manie­ ra più o meno raffinata. E neanche due concetti identici, dall’unione dei quali dovrebbe scaturire il

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famoso «terzo significato». Quindi, al montaggio è soggetta tutta la multiformità della vita percepita dall’obiettivo e racchiusa nell’inquadratura. L’esattezza del mio giudizio è confermata dall’esperienza dello stesso Ejzenstejn. Facendo dipendere direttamente il ritmo dal montaggio svela­ va l’inconsistenza delle sue premesse teoriche iniziali nei casi in cui l’intuizione lo tradiva e non riempiva i brani montati con la tensione temporale necessaria per quel dato collegamento. Prendiamo per esem­ pio la battaglia sul lago Chudskoe nell’Aleksandr Nevskij. Senza pensare alla necessità di riempire le diverse in quadrature con una tensione di tempo appropriata, si sforzava di trasmettere il dinamismo interno della battaglia mediante la successione mon­ tata di inquadrature brevi, a volte eccessivamente brevi. Tuttavia, a dispetto del balenare fulmineo delle inquadrature, lo spettatore non viene abban­ donato da una sensazione di fiacchezza e di inna­ turalezza di ciò che accade sullo schermo. Questo succede perché nelle singole inquadrature non c’è verità temporale. Le inquadrature sono statiche e anemiche. Così si crea naturalmente un contrasto tra contenuto interno dell’inquadratura che non ha registrato alcun processo temporale, diventando così qualcosa di artificiale, e il montaggio puramente meccanico, senza alcun rapporto con l’inquadratura stessa. Il risultato è che allo spettatore non viene trasmessa la sensazione voluta dall’artista, il quale non si è preoccupato di colmare l’inquadratura della vera percezione dello scorrere del tempo in quel particolare episodio della leggendaria battaglia.

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Il ritmo nel cinema viene trasmesso attraverso la vita dell’oggetto, visibile e registrata nell’inqua­ dratura. Così dall’oscillare di una canna si può determinare il carattere della corrente di un fiume, la sua spinta. Esattamente come il movimento del tempo che ci viene comunicato dallo stesso pro­ cesso vitale, dal carattere del suo fluire, riprodotto nell’inquadratura. Nel cinema il regista manifesta la propria indi­ vidualità innanzitutto attraverso la percezione del tempo, attraverso il ritmo. Il ritmo colora l’ope­ ra d’arte di determinati caratteri stilistici. Non si inventa, non si costruisce con procedimenti astratti. Il ritmo nel film deve scaturire in modo organico, conformemente alla percezione della vita immanen­ te, propria del regista, in relazione alla sua ricerca del tempo. Diciamo che a me sembra che il tempo nell’inquadratura deve scorrere in modo autonomo, come dire, secondo la propria volontà, e allora le idee in essa si disporranno senza affrettarsi, senza chiacchiere e senza sostegni retorici. Per me la sensazione della ritmicità nell’inquadratura è... come dire, affine alla sensazione che provoca una parola vera in letteratura. Una parola imprecisa in letteratura e un’imprecisione del ritmo nel cinema ugualmente distruggono la verità dell’opera. Ma qui nasce una complicazione naturale. Io, poniamo, vorrei che il tempo scorresse nell’inqua­ dratura in maniera dignitosa e indipendente, affin­ ché lo spettatore non avverta che si sta facendo violenza alla sua percezione, perché volontariamente «si consegni nelle mani» del regista e cominci a

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percepire il materiale del film come una sua propria esperienza, assimilandolo e appropriandosene come se fosse una sua esperienza, nuova e complementare. Ma ecco il paradosso! La percezione del tem­ po da parte del regista tuttavia, emerge sempre come forma di violenza esercitata sullo spettatore. Lo spettatore o «entra» nel tuo ritmo, e allora lui diventa un tuo sostenitore, o non ci entra e allora il contatto non si stabilisce. È da qui che nasce per il regista il «suo» spettatore, e questo mi sembra assolutamente naturale e inevitabile. Bene, io ritengo che il mio compito sia quello di creare il mio personale fluire del tempo, trasmettere nell'inquadratura la mia percezione del suo movi­ mento, della sua corsa. Il procedimento di articolazione, il montaggio, ostacola lo scorrere del tempo, lo interrompe e contemporaneamente crea la sua qualità nuova. La deformazione del tempo è il procedimento che permette la sua espressione ritmica. Una scultura del tempo, ecco cos’è il montaggio, ecco cos’è l’im­ magine cinematografica! Per questo l’articolazione delle in quadrature con una tensione temporale diversa deve essere chiamata in vita non dall’arbitrio dell’artista ma da una necessità interiore che deve essere organica al materiale nel suo complesso. Se l’organicità di tali passaggi per qualche ragione, volontariamente o involontariamente verrà violata, spunteranno subito fuori e diventeranno visibili all’occhio gli accenti casuali di montaggio che il regista non avreb­ be dovuto commettere. Qualsiasi accelerazione o

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rallentamento artificiali del tempo, non maturati all’interno dell’inquadratura, qualsiasi imprecisio­ ne nel cambio di ritmo interno, danno luogo a un montaggio falso e puramente teorico. L’unione di brani non equivalenti in senso tem­ porale porta inevitabilmente a un’interruzione del ritmo. Tuttavia questa interruzione, se è preparata dalla vita interiore delle inquadrature che vengono montate insieme, può diventare indispensabile per articolare il necessario disegno ritmico. Confrontia­ mo le diverse tensioni temporali di un ruscello, di un torrente, di un fiume, di una cascata. Una loro unione può dar vita a un disegno ritmico unico che, come una nuova formazione organica, diverrà anche la forma della manifestazione della percezione del tempo dell’autore. E poiché la percezione del tempo è, da un punto di vista organico, la percezione della vita propria del regista, mentre, come ho già sottolineato, que­ sta o quella soluzione di montaggio è dettata dalla tensione temporale nei brani che vengono montati insieme, il montaggio svela in modo chiarissimo la grafia di questo o di quel regista. Attraverso il montaggio viene espresso il rapporto del regista con la sua idea; nel montaggio la concezione del mondo dell’artista riceve la sua definitiva incarna­ zione. Penso che un regista che riesca con facilità e in varia maniera a montare i propri film sia un regista superficiale, poco profondo. Riconoscerete sempre un montaggio di Bergman, Bresson, Fellini. Non li confonderete mai con nessun altro. Perché il principio del loro montaggio rimane invariato.

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Un regista non ha il diritto di arrivare sul set con uno stato d’animo diverso. Perché il problema principale è quello di custodire l’idea, conservare in ogni episodio l’unicità del ritmo, la percezione del ritmo. In sostanza il ritmo è uno. E un ritmo che nasce quando il regista entra a contatto con la vita, con quello che riprende, con quello che lui cerca di ricreare di fronte all’obiettivo della sua cinepre­ sa. Questa condizione è indispensabile per il regi­ sta, tanto quanto per l’attore, se vuol essere vero nell’inquadratura. Se il regista arriva indolente, senza sapere cosa fare, non pronto per le riprese, così, come viene, non riprenderà un bel nulla. E se riprenderà qualcosa, non lo si potrà mai montare con il film o con i pezzi che ha ripreso mentre si trovava in una condizione creativa. Poiché il film è un lavoro che procede di giorno in giorno, la cosa più pericolosa di questo processo è l’entropia, la dispersione dell’energia creativa, la perdita della condizione originaria. In ultima analisi un regista, così come un musi­ cista oppure un direttore d’orchestra, non può non sentire la stonatura: in questo consiste la sua professione. Si tratta di avere «orecchio», ed è altret­ tanto importante come avere il senso del ritmo, la percezione del ritmo della vita che scorre accanto al regista, quella vita che lui cerca di fissare sulla pellicola. Si pensa, ad esempio, che per organizzare il rit­ mo di un film sia indispensabile avere un qualche episodio rapido, e poi uno lento, e che l’alternan­

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za di questi episodi faccia nascere proprio quella percezione di unità ritmica, che viene chiamata cinematografo di montaggio. Vien fuori che non è niente del genere. Questo non ha niente a che vedere con il cinematografo. Avete visto il film Manchette. Non ho visto un’in­ quadratura, una scena, alternarsi secondo que­ sto principio. Ogni inquadratura è girata in modo monotono dalla stessa persona. Si può pensare che queste inquadrature siano state girate con­ temporaneamente, dalla stessa persona come se in quel momento ci fossero state seicento cineprese, avessero recitato seicento sosia e altrettanti seicento sosia avessero ripreso. Queste inquadrature sono talmente unitarie da essere colme di uno stesso rit­ mo, di uno stesso sentimento. Non c’è un minuto, un attimo di falsità. A proposito, è il secondo regista che gira a più ciak. Chaplin girava quaranta ciak e anche Bresson ne girava quaranta. Non lo soddisfa la più piccola imprecisione nell’intonazione di un attore, la più piccola imprecisione nel movimento di macchina, la più piccola imprecisione nel luogo dove arriva l’attore secondo la messa in scena e, a maggior ragione, se si tratta di un primo piano. Qui è una questione di centimetri. Lui riprende, riprende fino a quando crea una qualche corrispondenza di assoluta precisione tra la sua idea e la realizzazione. Beh, in Chaplin lo vediamo per un altro motivo, perché qui il discorso verte sulla plasticità, su come fissarla, e sulla possibilità di essere il più espressivi possibile. Oggi avete visto il lavoro di un regista, direi, dia­

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metralmente opposto, Fellini, dove vi è un’enorme quantità di emozioni, una sorta di gioia di vivere, di bontà, amore, semplice allegria. Lui è così, un uomo del Rinascimento, una persona buonissima. E di nuovo, fate attenzione, tutte le scene, tutte le inqua­ drature sono state riprese nello stesso modo. E sono convinto sia stato ripreso tutto allo stesso modo. E non può essere altrimenti. Se fosse stato un regista mediocre allora avrebbe ripreso in modo diverso. E non sto parlando del montaggio; l’inquadratura può durare un secondo, può durare tre minuti, qui non si tratta della durata dell’inquadratura. Il punto è che il film è stato ripreso a un unico ritmo, con un unico stato d’animo, quello suggeritogli dal suo rapporto con la realtà. E il battito del suo polso, che si fonde insieme al battito del film. E vi è come un’unità fra il suo ritmo, il ritmo della vita e il ritmo del materiale girato. Ed è questo trinomio che nel cinema crea una personalità. Non sarete mai degli artisti se farete a pezzi le vostre panoramiche montandole alle diverse estre­ mità di una scena. Non assemblerete mai e poi mai un film se prendete delle inquadrature da una scena montandole e incollandole in un’altra, cosa che da noi accade spesso. Non arriverete a nulla se tagliate un primo piano in tre parti, l’interlocutore in altre tre parti e montate il dialogo in sei pezzi, se non era stato pensato a quel modo. Potrete montarlo solo nel caso in cui le riprese siano pessime. Il montag­ gio sarà altrettanto pessimo quanto l’esito finale. E avrete un’illusione di integrità, ma integrità non ve ne sarà alcuna. Vi ricordate, ne La dolce vitaì C’è

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un episodio, quando escono sulla strada, sotto i pini, si dirigono verso il mare e sostano per alcuni minuti. Si susseguono due o tre piani di montaggio assolutamente statici, ripresi da un unico punto, a differenza della scena precedente, molto dinamica e con alcune inquadrature girate in movimento. Vi dirò, non significa che in queste inquadrature il ritmo è diverso. Significa che la persona si tro­ va in uno stato d’animo diverso, che guarda una stessa azione e uno stesso luogo, e in lei si è come interrotto qualcosa e il suo cuore ha cominciato a battere forte, oppure, al contrario si è fermato. Cioè, sente che sta cambiando non il ritmo, ma lo stato d’animo. Ovvero, comincia a modificarsi il tempo. Comincia a comprimersi. E meno movimento c’è e più il tempo si fa compresso. Per esempio, il movimento di un uomo che corre e il panorama dell’uomo che corre è un’inquadratura ripresa nel modo più primitivo che ci sia, coincide in modo quasi evidente con il movimento dell’og­ getto e della cinepresa. Un’inquadratura statica in presenza di un uomo che corre è tutta un’altra cosa, mentre, poniamo, una cinepresa immobile di fronte a un uomo fermo, che nell’inquadratura precedente correva, è un altro discorso ancora. Ha senso rifletterci. Ricordate l’episodio dell’uscita dal castello? il penultimo episodio. Tutti i passaggi sono stati ripresi in movimento, tutti quanti sono stati ripresi dal carrello. Beh, a che serve una simile pedanteria, a che serve? Un pezzo, un secondo, un terzo, sono tutti in movimento a un unico ritmo. Voglio dire,

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in un certo senso sorge la necessità di organizzare l’inquadratura in una determinata maniera. E la si organizza innanzitutto con il movimento della cinepresa. Quindi, questa è già una seconda coper­ tura del ritmo nella scena, un po’ più esterna: il movimento della cinepresa. Poiché quest’ultimo è in rapporto diretto col tempo. Potete costrin­ gere il tempo a scorrere più lento o più veloce in base a come vi muovete con la cinepresa, rispetto all’azione. Ricordate come si muove la cinepresa in Mouchette. Si muove in modo incredibile. Tutto in Bresson è costruito sui millimetri, sui centimetri, sui milligrammi. Egli opera come un farmacista. Vi è una bilancia analitica dove persino un granello di polvere che si posa sul piatto ha importanza. Per altri questo non ha la stessa importanza, si può lavorare in modo più grossolano. Questo non li rende meno talentuosi, ma devo dirvi che il genio e il talento sono due concetti totalmente differenti e una persona di talento può non essere un genio, mentre un genio può essere una persona con pochissimo talento. Qui il punto è che Bresson utilizza il minimo delle risorse. È un asceta. Per ricreare la natura gli basta strappare una foglia da un albero, prendere una goccia d’acqua dal ruscello e da un attore prendere solo il viso e l’espressione degli occhi. Se si potesse riprendere l’espressione del viso, lui non riprenderebbe affatto l’attore. Questa cosa mi sconvolge sempre. E quanto più un film di Bresson è perfetto, tanto più è straziante il sentimento di una verità che sfugge e che Bresson schiude per noi. C’è un suo film che si intitola II processo di Giovanna à’Arco.

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Tutto si costruisce su una panoramica di Giovanna che esce da una porta, si siede a un tavolo di fronte al suo giudice istruttore e questi, nello stesso momento, esce da un’altra porta e si siede, dopodiché: primo piano di Giovanna, primo piano dell’inquisitore, e così via, fino alla fine dell’episodio. Poi la cinepresa accompagna con una panoramica Giovanna fino alla porta e l’episodio si conclude. Una tale semplicità non è così facile come sembra. Si tratta di una semplicità geniale. Certo, bisogna conoscere le leggi del mestiere così come bisogna conoscere anche le leggi del montaggio, ma la creazione inizia nel momento in cui queste leggi vengono infrante, deformate. Il fatto che lo stile di Lev Nikolaevic Tolstoj non sia stato impeccabile come quello di Bunin, e che i suoi romanzi non si distinguano affatto per quella regolarità e compiutezza che colpisce in qualsiasi racconto di Bunin, non ci dà ragione di asserire che Bunin sia migliore di Tolstoj. Non solo perdoniamo a Tolstoj le sentenze pesanti e spesso più lunghe del necessario, le frasi goffe che ricorrono così di frequente nella sua prosa, ma al contrario cominciamo ad amarle, come una peculiarità, una parte costituiva della personalità tolstojana. Quando si ha di fronte una personalità veramente grande, la si accetta con tutte le sue «debolezze» che, del resto, subito si trasformano in peculiarità della sua estetica. Se si strappa dal contesto delle opere di Dostoevskij la descrizione dei suoi personaggi, si prova involontariamente un senso di disagio: sono sempre belli, con labbra

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accese, i volti pallidi, e via di questo passo. Ma tutto ciò non ha nessuna importanza perché questa volta non stiamo parlando di un professionista o di un artigiano, ma di un artista e di un filosofo. Bunin, pur avendo infinito rispetto per Tolstoj, riteneva che Anna Karenina fosse stato scritto in modo indecente e, com’è noto, tentò di riscriverlo, ma invano. Opere come queste sono simili a orga­ nismi viventi, con un loro sistema sanguigno che non si può interrompere senza correre il rischio di privarle della vita. Il rispetto delle leggi del montaggio, cioè del collegamento dei pezzi, non significa che tutti i migliori film siano montati in questo modo. Pro­ prio il contrario. Sono tutti montati infrangendo i princìpi e le leggi fondamentali. Per esempio, in Fino all’ultimo respiro di Godard non c’è alcun montaggio tradizionale, come dire, classico. Pro­ prio il contrario. Il film è montato in modo molto dinamico, ma dinamico dal punto di visto formale. Il movimento dell’attore in piani corti è montato in decine di luoghi geografici, ma è come se fosse un unico movimento. Dal punto di vista del mon­ taggio classico, un simile collegamento dei pezzi è assolutamente impossibile. Il dialogo in macchina è montato in modo tale che i passeggeri discorrono in modo logico; dal dialogo non è stato tolto nean­ che un pezzo, mentre invece lo sfondo delle strade lungo le quali stanno andando salta con violenza, come se fossero stati strappati via interi minuti, ore, porzioni di tempo. Tutto è impostato infrangendo le leggi del montaggio classico. Questo dimostra

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evidentemente che il montaggio è una caratteristica, uno tra i tanti colori della visione cinematografica. In Bresson invece, non troverete mai una cucitura che potrebbe essere notata. Si sforza continuamente che Fattore entri ed esca dall’inquadratura, i passaggi da una scena all’altra sono per lui importantissimi, nel senso che fra un passaggio e l’altro non si deve perdere una sola porzione di tempo. In generale si può osservare che i registi seri montano i fotogrammi come a voler ricostruire un tutto indissolubile. Ne risulta un montaggio imper­ cettibile, le cuciture, i passaggi non si notano. A mio avviso nel montaggio si esprime l’atteggiamento del regista nei confronti del cinema. Il montaggio finalizzato a un’«espressività» è di cattivo gusto, è cinema puramente commerciale. Penso abbia senso ricordarvi ancora una volta che esistono dei procedimenti di montaggio, ma non esistono delle leggi di montaggio. Cosa voglio dire con questo? Che bisogna impa­ rare il montaggio classico per sapere quando la pellicola va incollata e quando no. Per un regista la conoscenza del montaggio è necessaria più o meno quanto la conoscenza del disegno per un pit­ tore. Non negherete che Picasso sia un disegnatore geniale, ma nei suoi lavori pittorici trascura com­ pletamente il disegno, almeno in alcuni. Abbiamo la sensazione che disegni male. Ma non è così. Per riuscire a non disegnare come Picasso, bisogna saper disegnare molto bene. Per questo, soffermiamoci su alcuni problemi esclusivamente pratici del montaggio.

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Di regola, a nessuno è chiaro come girare per facilitare il montaggio, in modo che tutto sia fuso insieme, che le singole inquadrature si fondano in una scena, che la scena, fin dall’inizio, sia coscien­ temente divisa in parti. Per conservare l’unità, l’identità di un materiale, dovete sapere dove la state perdendo. Quando parlo di unità, intendo il modo più semplice di unire le inquadrature, ovvero la fluidità. Prendiamo, per esempio, la questione dell’in­ crocio degli sguardi. Questo forse è il problema più complesso del montaggio. Qui ci sarà sempre il pericolo di «perdere». Oppure, diciamo, il problema dei particolari; anche questo è un punto dolente. Andron Michalkov-Koncalovskij, per esempio, ha scritto che un particolare viene determinato dal punto di vista, di chi guarda. Secondo me non è importante, non è questo che determina un par­ ticolare. Si capisce forse di chi è il punto di vista guardando i film di Bresson? Certo che no. Eppure ci son stati dei tentativi per riprendere tutto da un unico punto di vista, per esempio in Nodo alla gola di Hitchcock o in Yo soj Cuba e altri. Ebbene, a cosa hanno portato? A niente, perché non c’è niente in questo. Su questo argomento ci sono tante cose poco chiare. Per esempio, si possono forse riprendere come particolare soltanto gli occhi? Non si può, non si monta. E un particolare non organico. Si tratta di un accento, di un desiderio di suscitare una speciale attenzione per la condizione della persona. Un tentativo da parte dell’immagine letteraria di penetrare dentro il materiale cinematografico. È un

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simbolo, un’allegoria. È un’indicazione data perché lo spettatore capisca e lui «capirà», ma qui non ci sarà un’immagine emotiva, viva, unica. A conti fatti, se è stata ripresa un’inquadratura, significa che esiste anche un punto di vista, un’an­ golazione. Ma in che modo? Bresson, diciamo, ha un punto di vista impassibile, obiettivo 50 mm, ovvero quello che più si avvicina al normale occhio umano. Secondo me è il punto di vista più organico durante una ripresa e l’angolazione più naturale. In genere questi due concetti sono legati indis­ solubilmente poiché l’angolazione viene determi­ nata dal punto di vista. Possono esserci due tipi di angolazione, una obiettiva e una personalizzata, ma quest’ultima assai di rado è naturale. Ricordate ad esempio il racconto di Bunin Spe­ ranza. Il protagonista passa molto tempo in sella. Viene da pensare, perché non riprendere da lì? Tanto più che chiunque sia andato a cavallo sa che la sensazione di cavalcare è un’emozione particolare, prossima al volo. Ebbene, perché non trasmettere questa sensazione con il punto di vista personaliz­ zato della cinepresa? Almeno io non girerei a quel modo... con l’ausilio di questa angolazione «equina» difficilmente si può raggiungere qualcosa di serio, di intimo in rapporto al protagonista.

Nel periodo del cinema muto, l’angolazione era uno dei mezzi espressivi più importanti della regia. Ma oggi è invecchiata in modo catastrofico. E un procedimento che è rimasto tale in virtù della sua schietta intenzionalità; nel cinema muto dava la

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possibilità di capire che quella era, per così dire, una caratteristica negativa e quella una positiva. Con questo mezzo l’operatore e il regista indica­ vano allo spettatore come rapportarsi a questo o a quel personaggio. Era stato generato per via di un’interpretazione profondamente sbagliata del cinema, inteso come linguaggio costituito da geroglifici che bisognava decifrare. Abbiamo già parlato abbastanza di questo, non c’è motivo di tornarci. Nel cinema esiste una marea di convenzioni, ma non tutte sono da respingere, o almeno, alcune tra queste devono essere prima conosciute per poi essere respinte. Questo riguarda in primo luogo il cosiddetto campo-controcampo. Spero voi sappiate cosa sia: si tratta di un passaggio dalla parte opposta, dove chi si trovava a sinistra deve rimanere a sinistra e così chi era a destra rimane a destra. Sembrerebbe una convenzione assoluta. Ma è la cosa più organica in un montaggio quando si passa dalla parte opposta. In poche parole, è un cliché, ma bisogna conoscerlo. A proposito, tenete bene a mente che ripren­ dendo un campo-controcampo non si può lasciare in mezzo ai personaggi un oggetto che si ricorda facilmente, non si monterà mai. Ejzenstejn riteneva che con un restringimento di campo fosse possibile avvicinare delle figure che nel piano totale si trovavano più distanti l’una dall’altra. È falso. Non si monterà mai; si tratta di una operazione che sarà sempre evidente. Mi sembra che nei restringimenti di piano sia meglio spostarsi

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lungo l’asse, prendere un’angolazione più marcata; solo allora si può montare. Più si è vicini, più biso­ gna spostarsi lungo l’asse. Ho notato che se cambi bruscamente direzione durante un restringimento di piano, se cambi punto di vista, allora ti si «perdona» tutto, ma fare un restringimento di piano in un’unica direzione, per me è semplicemente impossibile. Altra discorso riguarda gli strumenti ottici. Se durante un restringimento di piano cambiate l’ot­ tica, allora vi ritroverete in un altro spazio e non si potrà montare. In genere, per il montaggio, l’ottica riveste un’enorme importanza; in sede di montaggio, un’ottica a distanza focale corta e una a distanza focale lunga non possono stare insieme. L’ottica è importante anche in una panoramica. Sarà molto difficile mantenere una panoramica con obiettivo 120 mm, perché il personaggio si ritroverà a ballare al centro dell’inquadratura. Una panoramica del genere va ripresa con un obiettivo 50 mm; diven­ ta molto più semplice seguire l’attore trovandosi vicino a lui. Capita che delle inquadrature non si montino perché una di queste è falsa e l’altra vera, e non ci si può far niente. A me è successa una cosa di que­ sto tipo. Quando ne Lo specchio dovevo montare la cronaca spagnola del 1938, girato da Roman Karmen, con i bambini accompagnati fino al bat­ tello sovietico che li avrebbe portati via, in Unione Sovietica, avevo un’inquadratura che non si montava in nessun modo. In nessun modo riusciva a trovare il suo posto. Era in sé un’ottima inquadratura, così a me sembrava. Un soldato della rivoluzione con il

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fucile, accovacciato di fronte al suo bambino che piange disperato; il soldato lo bacia e il bambino, in lacrime, esce dall’inquadratura mentre il padre lo segue con lo sguardo. Non notai niente che non andava in questa sequenza, semplicemente non riu­ sciva a trovare il suo posto. L’abbiamo inserita come seconda, terza, quarta, abbiamo cercato d’inserirla ovunque, ma ogni volta crollava. Credevo che non si montasse semplicemente per via di un movimento o chissà per quale altro motivo, per qualche legge puramente formale del montaggio, ma non era quel­ lo. Non si montava con niente all’interno di quella cronaca di cui vi ho parlato. Allora arrivai a un tale grado di scoramento che volevo semplicemente capire qual era il punto. O buttarla via o inserirla. Ma volevo vederci chiaro. Chiesi al montatore di riunire tutto il materiale che era stato tagliato per poi essere montato e di mostrarmelo nuovamente per intero, in successione. Ovvero tutto quello che era stato preso dal deposito di Krasnogorsk. E quando lo guardai, all’improvviso vidi con orrore che di quelle inquadrature, proprio di quelle, erano stati fatti tre ciak. Tre ciak di una stessa azione, di uno stesso atto. Cioè, nel momento in cui il bambino era in lacrime, Karmen gli chiese di ripetere un’altra volta quello che aveva appena fatto: dire di nuovo addio, abbracciare ancora, baciare. Ho visto molto materiale di cronaca di guerra e mi sono accertato che da noi molta cronaca viene girata a più ciak. Quindi, questa sequenza non entra­ va nel montaggio perché vi era entrato il diavolo e non c’era verso che si riconciliasse con l’ambiente

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nel quale si trovava, quello della sincerità. Ecco cosa avevo scoperto da parte del nostro rinomato cineasta, un’azione strana, per usare un termine gentile. Era l’inquadratura stessa che non voleva inserirsi nel montaggio. L’ho buttata via. La cronaca possiede tutt’altre leggi rispetto ai film a soggetto. Quando riprendete una scena per una cronaca, questa letteralmente registra una certa porzione di realtà. Voi non prendete parte alla ricostruzione della realtà, alla sua creazione: regi­ strate e basta. Quando erano stati girati quei ciak, qualcosa era stato ripetuto, qualcosa non era più stato provocato dalla realtà, mentre qualcos’altro era stato imposto dalla volontà di un uomo che aveva costretto a ripetere quell’azione. C’è stata una nota falsa, non ispirata dalla vita ma ripetuta in modo meccanico, mentre la vita aveva proseguito di qualche minuto. Qualcosa se n’era andato e al suo posto era rimasto un vuoto, una nota falsa. Se quella scena si fosse trovata in qualche altro mon­ taggio completamente diverso, forse non avrebbe provocato così tante obiezioni; non avrebbe forse suscitato così tante emozioni negative di quante ne ha suscitate trovandosi all’interno di un materiale assolutamente veritiero, all’interno di questa scena di cronaca. Se uno stesso materiale viene ripreso da due registi, vi accorgerete che non può essere montato. Devono essere però due registi bravi. Se invece non sono dei registi bravi, allora tutto si può montare. Per questo, se prendete una qualunque sceneggiatu­

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ra breve, per esempio un cortometraggio o un episo­ dio in una o due parti e lo date a sei diversi registi, secondo me ne viene fuori un film estremamente interessante. E saranno film molto diversi tra loro, nonostante vengano girati con un preciso dialogo, conformemente alla sceneggiatura letteraria. Ho sempre trovato molto interessante questo esperimento. Una volta ho proposto ad alcune per­ sone di prendere parte in un film e... nessuna ha accettato. Perché fa molta paura. Immaginate di prendere i migliori registi e proporre loro di fare un film con uno stesso soggetto e uno stesso dia­ logo. Non tutti accetterebbero. Accettarono solo Bunuel, Antonioni, Fellini e Bresson. Basta. Dei nostri, nessuno accettò. Feci questo sondaggio. In poche parole fa paura perché con questa unione si sarebbe visto quanto vale ciascuno. Da un semplice concorso artistico. Quindi già capite che, affinché il materiale possa venir montato, deve essere integro. Innanzitutto integro, dove i collegamenti nervosi o di altro tipo si uniscono col mondo, in numero adeguato a que­ sta o a quell’altra persona. E qui non si tratta di numeri; il numero dei collegamenti in questo caso non ha nessuna importanza. Possono essere ridotti al minimo. Meno collegamenti ci sono, più, a mio avviso, sono individuali e precisi. Per quanto riguarda l’utilizzo del suono nel montaggio, basandomi sulla mia esperienza, posso dire che il passaggio da un’inquadratura all’altra, senza che ci sia un’interruzione di discorso, per me è possibile solo in un caso: con l’accento,

U montaggio

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quando il montaggio corrisponde a una parola accentata o a un accento sulla parola, cioè a un accento sulla frase. Lo stesso vale per la musica che utilizzo. In questo senso nella mia esperienza è accaduto il «miracolo» solo una volta; in AndrejRublèv. Nel finale del film, tutto quello che era stato montato senza musica, con la musica ci entrò comunque. In poche parole, quando abbiamo aggiunto la musica nel finale, questa si è adattata perfettamente. Tutti gli accenti erano al posto giusto. La cosa mi colpì a tal punto che cominciai perfino a fare esperimenti, spostandola, provando altre varianti. La musica, in ogni caso, reggeva. Penso che qui tutto era dovu­ to alle qualità della musica stessa. Nel finale di Rublèv era stata utilizzata la musica di Vjaceslav Ovcinnikov. Per quanto ne so, per voi viene tenuto un corso specifico sul montaggio, quindi non vedo la necessità di soffermarmi in maniera dettagliata su così tanti problemi legati al montaggio pratico. Per concludere voglio ripetere che nel montag­ gio bisogna tener presenti tutti gli aspetti. Il senso del montaggio consiste nel ridurre il materiale a un’uniformità, e la cosa migliore è che questo si verifichi dal di dentro, che passi attraverso una sorta di «filtro» del regista, attraverso un’intuizio­ ne, poiché, ahimè, ci saranno sempre dei disguidi. Tenetevi pronti a questi. Il punto non è essere dei virtuosi del mon­ taggio, ma percepire la necessità organica di un proprio metodo per esprimere la vita attraverso il

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La Jorma dell’anima

montaggio. Ed è chiaro che per questo, bisogna per forza sapere che cosa si vuole dire, utilizzando una poetica cinematografica particolare. Il resto sono sciocchezze: tutto si può imparare, l’unica cosa che non si può imparare è pensare. Non ci si può costringere a caricarsi sulle spalle un peso impossibile da sollevare. Eppure questa è l’unica strada. Per quanto sia difficile, non bisogna contare sulle tecniche del mestiere. E impossibile imparare a essere un artista, così come non ha nessun senso semplicemente imparare le leggi del montaggio: ogni artista cinematografico le riscopre per se stesso. Ecco perché questo o un altro stile cinematogra­ fico reca in sé, per forza di cose, un certo significato spirituale. Chi ha rubato uno stile altrui per poi non rubarlo più, rimarrà sempre un disonesto. Lo stesso vale per chi, per una volta, ha tradito i propri prin­ cìpi; in futuro non sarà più in grado di mantenere puro il suo rapporto con la vita. Quando un regista dice che sta facendo un film di «passaggio», per poi fare il film dei suoi sogni, ci inganna, e la cosa peggiore è che inganna se stesso. Non girerà mai un suo film. I miracoli non esistono! O meglio, il tempo dei miracoli per lui è già passato.

Il cinema è un’arte eminente e alta e se mi avessero chiesto come la valuto, l’avrei messa da qualche parte tra la musica e la poesia, benché queste due arti tra loro affini, esistano già da millenni. Il cinema è innanzitutto arte, ma il dramma

Il montaggio

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consiste nel fatto che, oltre a questo, rimane il prodotto di un’elaborazione industriale. È l’uni­ ca fra le arti, probabilmente, a trovarsi in una situazione così complicata, direi quasi senza via d’uscita. Ovvero, è come se nel cinema ci fossero due ipostasi: da una parte siamo costretti a guar­ darlo come un’opera artistica, dall’altra come un prodotto industriale. E le difficoltà che derivano da questa duplicità, nella nostra vita e nella nostra quotidianità artistica sono molte. E questo a sua volta implica enormi difficoltà e complicanze, sia nell’esecuzione che nella sua organizzazione, nel lavoro della creazione. Il punto è che, valutando il cinema come arte, si è tenuti a mettersi al livello di quei requisiti da tempo elaborati per le vecchie «buone» arti. Pur­ troppo non consideriamo spesso la nostra attività partendo da questi alti requisiti. Io credo nel nostro cinema, nella nostra arte, e non credo a nessuna crisi che potrebbe sconvolgere l’arte. L’arte di per sé sconvolge sempre, ma non per mezzo delle crisi, ma attraverso lo sviluppo. E un processo molto complicato. Ed è un processo che riflette la nostra realtà, lo si voglia o no. Le nostre tradizioni cinematografiche traggono origine non solo dai pionieri del cinema sovietico, ma anche dalla grande letteratura russa, dalla poe­ sia e dalla cultura. Anche questo non dobbiamo dimenticarlo quando parliamo di cinematografia. E importante ricordare che le sue origini si celano negli strati profondi della cultura russa nazionale, la quale ha radici molto antiche, e tradizioni autorevoli.

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La forma dell’anima

Il cinema è un’arte capace di creare capolavori immortali, simili a quelli che sono già stati creati a suo tempo e con cui bisogna reggere il confronto. Penso che dar vita a dei capolavori abbia un senso.

da Scolpire il tempo*

* A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, a cura di V. Nadai, Ubulibri, Milano 1988.

L’immagine

L’immagine è qualcosa di indivisibile e di inaf­ ferrabile, che dipende dalla nostra coscienza e dal mondo reale che essa si sforza di incarnare. Se il mondo è enigmatico, anche l’immagine è enigmatica. L’immagine è una sorta di equazione che indica il rapporto esistente tra la verità e la nostra coscienza limitata dallo spazio euclideo. Nonostante noi non siamo in grado di percepire l’universo nella sua totalità, l’immagine è in grado di esprimere tale totalità. L’immagine è un’impressione della verità sulla quale ci è concesso gettare uno sguardo con i nostri occhi ciechi. L’immagine incarnata sarà veridica se in essa si coglieranno i legami che esprimono la verità e che rendono tale immagine unica e irripetibile come la vita stessa, anche nelle sue manifestazioni più semplici. Vjaceslàv Ivànov, nelle sue considerazioni sul simbolo, ha così espresso il suo atteggiamento rispetto a esso (quello che lui chiama «simbolo», io lo chiamo «immagine»): «Il simbolo è veramente

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La forma dell'anima

tale soltanto quando esso è inesauribile e sconfi­ nato nel suo significato, quando esso esprime nel linguaggio arcano (ieratico e magico) dell’allusione e della suggestione, qualcosa di inesprimibile, qual­ cosa rispetto a cui la parola esteriore è inadeguata... Esso possiede una molteplicità di volti e di pensieri ed è sempre oscuro nella sua remota profondità. Esso è una formazione organica, come un cristal­ lo... Esso è persino una sorta di monade e in ciò differisce dalla struttura complessa e scomponibile dell’allegoria, della parabola o della similitudine... I simboli sono indicibili e inspiegabili, e noi siamo impotenti davanti al loro significato integrale e misterioso...».

Insomma, l’immagine non è questo o quel signifi­ cato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d’acqua soltanto!

L’immagine, come riteneva Gogol’, è chiamata a esprimere la vita stessa, e non dei concetti o delle riflessioni sulla vita. Essa non designa, o simboleg­ gia la vita, ma la incarna esprimendone V unicità. Ma che cos e allora la tipicità? Come accordare l’unicità e l’irripetibilità con la tipicità dell’arte? Se il sorgere dell’immagine si identifica col sorgere di qualcosa di unico, v’è allora posto per il tipico? Il paradosso consiste nel fatto che ciò che v’è di più unico e irripetibile nell’immagine, strana­ mente diventa tipico. Per quanto strano ciò possa apparire, il tipico si trova in relazione diretta con

L'immagine

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ciò che è unico, individuale e che non assomiglia a nessun’altra cosa. Il tipico non sorge affatto là, come si è soliti credere, dove si coglie la somi­ glianza dei fenomeni, bensì dove si evidenzia la loro particolarità. Io formulerei addirittura così la cosa: insistendo su ciò che è individuale, ciò che è comune viene come omesso del tutto, rimane fuori dai confini della riproduzione visibile. Semplicemente ciò che è comune viene sottinteso come causa dell’esistenza di un fenomeno del tutto unico. Ciò può apparire strano, a prima vista, ma in realtà non bisogna dimenticare che l’immagine artistica non deve suscitare alcuna associazione di idee, bensì deve soltanto richiamare alla memoria la verità. In questo contesto il discorso non verte tanto su chi percepisce l’immagine, quanto sull’ar­ tista che la crea. Accingendosi al lavoro, l’artista deve credere di essere il primo a incarnare questo o quel fenomeno. Per la prima volta e soltanto così come egli lo sente e lo comprende. L’immagine artistica, come abbiamo già detto, è un fenomeno del tutto unico e irripetibile, lad­ dove il fenomeno della vita reale può essere del tutto banale.

Dopo Nostalghia

Non mi interessavano il movimento esteriore, l’intrigo, il complesso degli avvenimenti: di queste cose di film in film ho sempre meno bisogno. Mi ha sempre interessato il mondo interiore dell’uomo: per me è assai più naturale compiere un viaggio dentro la sua psicologia, dentro la filosofia che la nutre, dentro alle tradizioni letterarie e culturali sulle quali riposano le sue fondamenta spirituali. Io mi rendo perfettamente conto che spostarsi da un luogo all’altro, introdurre nel film angoli di ripresa sempre nuovi e spettacolari, una natura esotica e interni suggestivi, è assai più vantaggioso da un punto di vista commerciale. Ma per la sostanza di ciò di cui io mi occupo gli effetti esteriori non fanno altro che allontanare e rendere confuso lo scopo alla cui realizzazione sono tesi tutti i miei sforzi. Quello che mi interessa è l’uomo, nel qua­ le è racchiuso l’Universo, e per esprimere l’idea, il senso della vita umana, non è assolutamente necessario costruire a sostegno di quest’idea una trama di avvenimenti.

Dopo Nostalghia

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Tutti i miei film, in un modo o nell’altro, parlano del fatto che gli uomini non sono soli e abbando­ nati in un universo vuoto, che essi sono legati da un’infinità di fili al passato e al futuro, che ogni uomo col proprio destino realizza un legame col destino generale degli uomini, se volete... Ma que­ sta speranza che ogni singola vita e ogni singolo atto abbiano un senso e un valore accresce infinitamente la responsabilità dell’individuo nei confronti del generale movimento della vita... •«•

L’uomo mi interessa per la sua disponibilità a mettersi al servizio di ciò che è più elevato e anche per la sua incapacità di accettare la «morale» quo­ tidiana e filistea della vita. Mi interessa l’uomo cosciente che il significato dell’esistenza consiste in primo luogo nella lotta contro il male che è dentro di noi, nell’elevarsi nel corso della propria vita sia pure di un solo gradino in senso spirituale. Un’unica alternativa, infatti, si contrappone al cammino dell’elevazione spirituale, ed è quella della degradazione spirituale, alla quale tanto ci predispongono la resistenza di tutti i giorni e il processo di adattamento a essa!... Si potrebbe dire che le piogge sono una caratteristi­ ca della natura in mezzo alla quale sono cresciuto: in Russia vi sono piogge lunghe, malinconiche, incessanti. Si potrebbe dire che io amo la natura: non mi piacciono le grandi città e mi sento benissi­

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La forma dell’anima

mo lontano da tutte le novità della civiltà moderna, come mi sentivo meravigliosamente in Russia nella mia casa di campagna, lontana tremila chilometri da Mosca. La pioggia, il fuoco, l’acqua, la neve, la rugiada, la tormenta, sono parte dell’ambiente materiale nel quale viviamo, sono la verità della vita, se volete. Perciò mi sembra strano che la gente, quando vede la natura riprodotta con commozione sullo schermo, non si limiti a goderne, ma ricerchi in essa chissà quale significato nascosto. E possi­ bile considerare la pioggia soltanto come cattivo tempo, mentre io utilizzo la pioggia per creare un’atmosfera esteticamente elaborata nella quale viene immersa l’azione del film. Tuttavia ciò non significa assolutamente che la natura nei miei film sia chiamata a simboleggiare qualcosa, Dio me ne scampi! Nel cinema commerciale, per esempio, sovente è come se la meteorologia non esistesse affatto e se sussistessero sempre le condizioni di luce più favorevoli per condurre rapidamente le riprese in esterno: tutti badano al soggetto e nes­ suno si preoccupa della convenzionalità dell’am­ bientazione ricostruita approssimativamente, della noncuranza per i dettagli, per l’atmosfera. Quando invece lo schermo avvicina il mondo, il mondo rea­ le, allo spettatore dandogli la possibilità di vederlo pienamente in tutto il suo spessore, facendogliene sentire, come si suol dire, l’odore, facendogliene avvertire quasi con la sua pelle l’umidità o l’aridità, lo spettatore, a quanto pare, ha a tal punto perduto la sua capacità di abbandonarsi semplicemente alle sue impressioni estetiche immediate che subito si

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riprende e si controlla chiedendosi: «A che scopo? Per quale motivo? Perché?». Ma semplicemente perché io voglio ricreare sul­ lo schermo il mio mondo, nella sua forma ideale più perfetta, quale io lo percepisco e lo sento. Io non nascondo allo spettatore nessuna mia particolare intenzione, non civetto con lui: io ricreo questo mondo nei tratti che mi paiono più espressivi ed esatti e che secondo me esprimono lo sfuggente significato della nostra esistenza.

Sacrificio

Oggi il mondo civilizzato, che nella sua stragrande maggioranza non crede, ha una disposizione di spirito pienamente positivistica. Ma neppure i positivisti notano quanto sia assurda l’affermazione del marxismo secondo cui l’Universo è eterno mentre la Terra sarebbe il frutto della casualità. Ma come sarebbe possibile? Aiuto, mi rapinano! L’uomo moderno è incapace di sperare in una conclusione inattesa, in un avvenimento che è in contraddizione, che non corrisponde alla logica «normale»; ancor meno egli è capace di ammet­ tere, neppure per ipotesi, il miracolo, e di credere nella sua magica forza. La devastazione spirituale provocata dalla carenza di queste qualità già di per sé dovrebbe spingerci a riflettere, a fermarci. Ma per questo l’uomo dovrebbe comprendere che il cammino della sua vita non viene valutato con le misure dell’uomo, ma si trova nelle mani del Creatore e l’uomo deve affidarsi alla Sua volontà. Sfortunatamente molti produttori nella nostra epoca sono ben lontani dal sostenere i film d’au-

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tore. Essi, infatti, considerano il cinema non come una forma d’arte, bensì come una possibilità di far denaro trasformando il nastro di celluloide in una comune mercé. In questo senso Sacrificio, a parte tutto il resto, costituisce anche un completo rifiuto di tutto ciò di cui si occupa oggi il cinema commerciale. Il mio film non pretende di sostenere o di smentire questi fenomeni solitari del pensiero moderno o i comportamenti che ne derivano; la mia idea fondamentale è stata quella di porre e di mettere a nudo le questioni vitali della nostra esistenza e di richiamare lo spettatore alle sorgenti ostruite e inaridite della nostra vita. Le immagini, le rap­ presentazioni visive, sono in grado di fare ciò non meno della parola, soprattutto in un’epoca nella quale la parola ha perduto il proprio significa­ to misterioso e magico, trasformandosi in vuota chiacchiera e, secondo l’opinione di Alexander, cessando di significare qualcosa. Noi soffochiamo per l’eccesso di informazione e, nello stesso tempo, i messaggi più importanti, quelli in grado di trasformare la nostra vita, non raggiungono la nostra coscienza. Il nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il pragmatismo. Il nostro mondo umano è costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia applicando a sé le leggi della natura inanimata. Perciò egli non crede nello Spirito e rifiuta Dio. Egli, infatti, si nutre di solo pane. Come potrebbe

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vedere lo Spirito, il Miracolo, Dio, se essi, dal suo punto di vista, non hanno parte funzionale in nulla? Essi sono inutili e l’uomo semplicemente non li vede: ma lì, oltre la necessità, dove regna il puro empirismo, improvvisamente, di tanto in tanto, avvengono i miracoli: la fisica. Così la stragrande maggioranza dei più grandi fisici moderni, come è noto, chissà perché, crede in Dio. • • •

C’è una speranza che l’uomo sopravviva, nono­ stante tutti i segni del silenzio apocalittico pre­ annunciato dall’evidenza dei fatti? La risposta a questo interrogativo, forse, è contenuta nell’antica leggenda sulla resistenza dell’albero inaridito, pri­ vato dei succhi vitali, che ho preso come base del film più importante nella mia biografia artistica. Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di ciò che faceva, senza abbando­ nare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo: una mattina i rami dell’albe­ ro si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo? E soltanto la verità.

Conclusione

L’arte esprime tutto ciò che v’è di migliore nell’uo­ mo: la Speranza, la Fede, la Carità, la Bellezza, la Preghiera... Ossia ciò che egli sogna, ciò che egli spera... Quando un uomo che non sa nuotare viene gettato in acqua, non lui, ma il suo corpo comincia a compiere dei movimenti istintivi cercando di sal­ varsi. Anche l’arte è come un corpo umano gettato nell’acqua: essa è, per così dire, l’istinto dell’uma­ nità di non affogare in senso spirituale. Nell’artista si manifesta l’istinto spirituale dell’umanità, e nella sua opera l’aspirazione dell’uomo verso l’eterno, il trascendente, il divino, sovente a dispetto della natura peccaminosa del poeta stesso. Che cos’è l’arte? È il Bene o il Male? Proviene da Dio o dal Diavolo? Dalla forza dell’uomo o dalla sua debolezza? Forse in essa è racchiuso un ideale di armonia socia­ le? Consiste in questo la sua funzione? Essa è una dichiarazione d’amore, un riconoscimento della pro­ pria dipendenza dagli altri uomini, una confessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l’autentico significato della vita: l’Amore e il Sacrificio.

Filmografìa

1958

UBIJTSY [GLI ASSASSINI]

Film realizzato da studenti del vgki fra cui A.T., adatta­ mento di un racconto di Hemingway. 1959

SEGODNJA UVOLNENIJA NE BUDET (OGGI NON CI SARÀ

LIBERA USCITA]

Regia: A.T. Co-regia: Aleksandr Gordon. 1960 KATOK I SKRIPKA [IL RULLO COMPRESSORE E IL VIOLI­ NO], colore (Sovcolor), 55’. Regia: A.T. Soggetto e sceneggiatura: Andrej Mikhalkov-Koncalovskij, A.T. Fotografia: Vadim Ju­ sov Musica: Vjaceslav Ovcinnikov, diretta da E. Kacaturjàn Assistente alla regia: O. Gerts Suono: V. Krackovskij Montaggio: L. Butuzova Scenografia: S. Agojan Costumi: A. Martinson Trucco: A. Makaseva Effetti speciali: B. Pluznikov, V. Sevostjanov, A. Rudacenko Interpreti: Igor Fomcenko (saSa), Vladi­ mir Zamjanskij (SERGEJ), Nina Arkangelskaja (la RA­ GAZZA), Marina Adzubej (LA madre), Jura Brusser, Slava Borisov, Sasa Vitoslavskij, Sasa Il’in, Kolja Kozarev, Zenja Kljakovskij, Igor Korovikov, Zenja Fedicenko, Tanja Prokhorova, A. Maksimova, L. Semenova, G. Zdanova, M. Figner Direttore di produ­ zione: A. Karetin Produzione: Mosfil’m.

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La forma dell'anima

1962 IVANOVO DETSTVO [L’INFANZIA DI IVAN], B/N, 95 ’ Regia: A.T. Soggetto: da temi del racconto IVAN di Vla­ dimir Bogomolov Sceneggiatura: Mikhail Papava Fo­ tografia: Vadim Jusov Musica: Vjaceslav Ovcinnikov, diretta da E. Kacaturjàn Suono: E. Zelenkova Mon­ taggio: Ljudmila Fejginova Assistente al montaggio: G. Natanson Scenografia: Evgenij Cernjaev Costumi: A. Martinson Trucco: L. Baskakova Effetti speciali: V Sevostjanov, S. Mukhin Consulente militare: G. Goncarov Interpreti: Nikolaj «Kolja» Burljaev (IVAN), Valentin Zubkov (CAPITANO KHOLIN), Evgenij Zarikov (tenente galtsev), Stepan Krylov (caporale KATASONlC), Nikolaj Grin’ko (COLONNELLO GRJAZNOV), Dmitrij Miljutenko (VECCHIO CON IL GALLO), Valentina Maljavina (maSa), Irma Raush-Tarkovskaja (MADRE di ivan), Andrej Mikhalkov-Koncalovskij (soldato con gli occhiali), Ivan Savkin, Vera Mituric, V Marenkov Direttore di produzione: G. Kuznetsov Produzione: Mosfil’m. 1966 andrei rublév (Andrej rublèvj, B/N e colore (Sovcolor), cinemascope, 185’. Regia: A.T. Soggetto e sceneggiatura: Andrej MikhalkovKoncalovskij, A.T. Fotografia: Vadim Jusov Musica: Vjaceslav Ovcinnikov Suono: E. Zelenkova Montag­ gio: A.T, con la collaborazione di Ljudmila Fejginova, T. Egoryceva, O. Sevkunenko Scenografia: Evgenij Cernjaev, con la collaborazione di I. Novoderezkin, S. Voronkov Costumi: L. Novi, M. Abar-Baranovskaja Trucco: V. Rudina, M. Aljautdinov, S. Barsukov Effetti speciali: V. Sevostjanov Interpreti: Anatolij Solonitsyn (andrej rublèv), Ivan Lapikov (KIRILL), Nikolaj Grin’ko (daniil cérnij), Nikolaj Sergeev (feofan Grek), Irma Raush-Tarkovskaja (LA SORDOMUTA), Ni­ kolaj Burljaev (boriSka), Jurij Nazarov (il PRINCIPE E

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SUO fratello), Rolan Bykov (il bui ioni ). lini) Niku lin (PATRIKEJ), Mikhail Kononov UoMA), Stepmi Krylov (IL FONDITORE DI CAMPANE), Sos Saikisjim UI CRISTO), Tamara Ogorodnikova (LA madonna), Boloi Ejsynlaev (IL KHAN TARTARO), N. Grabbe, B. Maiysik. A. Obukhov, Viktor Titov, N. Glazkov, K. Alcksan drov, S. Bardin, I. Bykov, G. Borisovskij, V. Vasilev, Z. Vorkil’, A. Titov, V Volkov, I. Mirosnicenko Direttore di produzione-. Tamara Ogorodnikova Produzione: Mosfil’m, Gruppo Artistico degli Scrittori e Cineasti. 1972 SOLARIS [SOLARIS], colore (Sovcolor), cinemasco­ pe, 165’ (in Italia 115’). Regia: A.T. Assistenti alla regia: A. Ides, Larisa Tarkovskaja, Masa Cugunova Soggetto: A.T., dal romanzo omonimo di Stanislaw Lem Sceneggiatura: A.T., Frie­ drich Gorenstein Fotografia: Vadim Jusov Musica: Eduard Artem’ev; PRELUDIO CORALE IN fa minore di J. S. Bach Suono: Semen Litvinov Montaggio: A.T. Sce­ nografia: Mikhail Romadin Costumi: Nelly Fomina Trucco: V. Rudina Effetti speciali: V. Sevostjanov, A. Klimenko Interpreti: Donatas Banjonis (KRIS KELVIN), Natalja Bondarcuk (KHARl), Jurij Jarvet (snaut), Anatolij Solonitsyn (SARTORIUS), Vladislav Dvorzetskij (berton), Nikolaj Grin’ko (il PADRE), Sos Sarkisjan (GIBARJAN), Olga Barnet (LA MADRE), Direttore di pro­ duzione: Vjaceslav Tarassov Produzione: Mosfil’m 1974 ZERKALO [LO specchio], colore (Sovcolor) e B/N, cinemascope, 105’ Regia: A.T. Assistenti alla regia: V Karcenko, Larisa Tarkovskaja, Masa Cugunova Soggetto e sceneggiatura: A.T, Aleksandr Misarin; versi di Arsenij Tarkovskij, letti dall’autore; voce fuori campo: Innokentij Smoktunovskij (nella versione italiana: Romolo Valli) Fotografia: Georgij Rerberg Operatori di macchina: A.

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La forma dell’anima

Nikolaev, I. Stanko Datore di luci’. V. Gusev Musica: Eduard Artem ev; brani di J. S. Bach, G. B. Pergolesi, Henry Purcell Suono: Semen Litvinov Montaggio: A.T., Ljudmila Fejginova Scenografia: Nikolaj Dvigubskij Direttore di scena: A. Merkunov Costumi: Nelly Fomina Trucco: V. Rudina Effetti speciali: J. Po­ tapov Interpreti: Margarita Terekhova (LA MADRE E NAtalja), Filipp Jankovskij (aleksej a 5 anni), Oleg Jankovskij (ILpadre), Ignat Danilcev (ignate aleksej a 12 anni), Anatolij Solonitsyn (lo sconosciuto), Nikolaj Grin’ko (caporeparto della tipografia), Alla Demi­ dova (liza), Jurij Nazarov (l’istruttore militare) Marija Tarkovskaja (la madre da vecchia), Larisa Tarkovskaja (la donna degli orecchini), Tamara Ogorodnikova, Jurij Svetnikov, T. Revsetnikova, E. Del Bosque, L. Correkher, A. Gutierrez, D. Garcia, T. Pames, Teresa e Tatjana Del Bosque Direttore di produzione: E. Vajzberg Produzione: Mosfil’m, IV Unità Artistica. 1979 stalker [STALKER], colore (Sovcolor ed Eastman­ color) e B/N, cinemascope, 161’. Regia: A.T. Assistenti alla regia: Masa Cugunova, Evgenij Tsimbal Soggetto: dal racconto PICNIC SUL CIGLIO DELLA STRADA di Arkadij e Boris Strugatskij Sceneggia­ tura: A.T, A. e B. Strugatskij; versi di Fèdor Tjutcev e Arsenij Tarkovskij Fotografia: Aleksandr Knjazinskij Operatori di macchina: N. Fudim, S. Naugolnikh As­ sistenti operatori: G. Verkhovskij, S. Zaitsev Datore di luci: L. Kazmin Musica: Eduard Artem’ev; brani dal bolero di Ravel e dalla IX sinfonia di Beethoven Suo­ no: V. Sarun Montaggio: A.T., Ljudmila Fejginova As­ sistenti al montaggio: T. Alekseeva, V. Lobkova Sceno­ grafia: Andrej Tarkovskij Direttore di scena: A. Mer­ kunov Costumi: Nelly Fomina Trucco: L. Lvova Effetti

Filmografia

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speciali". Y. Potapov Interpreti". Aleksandr Kajdanovskij (lostalker), Anatolij Solonitsyn (loschiitori:), Nikolaj Grin’ko (loscienziato), Alisa Frejndlikh (la moglie dello stalker), Natasa Abramova (la i igllx dello stalker), F. Jurna, E. Kostin, R. Rendi Diretto re di produzione-, Larisa Tarkovskaja Produzione-. Mo sfilm, II Unità Artistica. 1980 tempo DI viaggio, colore (Technicolor) e B/N, ci­ nemascope, 63*. Regia: A.T. Sceneggiatura: Tonino Guerra Fotografia: Luciano Tovoli Fotografia II unità: Gian Carlo Pancaldi Montaggio: Franco Letti Fonico: Eugenio Rondani Mixage: R. Checcacci Scelta delle musiche: A.T. Organizzazione generale: Franco Terilli Traduzioni: Lora Jablockina Produzione: Genius srl/RAI 2. 1983 NOSTALGHIA, colore (Technicolor), 130*. Regia: A.T. Aiuto regia: Norman Mozzato, Larisa Tar­ kovskaja Assistente alla regia: Mauro Passi Sceneggia­ tura: A.T., Tonino Guerra Fotografia: Giuseppe Lanci Operatore di macchina: Giuseppe De Biasi Musica: brani di Beethoven, Debussy, Verdi, Wagner Consu­ lente musicale: Gino Peguri Suono: Remo Ugolinelli Mixage: Danilo Moroni Direttore del doppiaggio: Fi­ lippo Ottoni Effetti sonori: Massimo e Luciano Anzellotti Montaggio: Erminia Marani, Amedeo Salfa Sce­ nografia: Andrea Crisanti Effetti speciali: A.T, Paolo Ricci Costumi: Lina Nerli Taviani, Annamode 68 Trucco: Giulio Mastrantonio Interpreti: Oleg Jankovskij (andrei gorCakov), Erland Josephson (Domeni­ co), Domiziana Giordano (eugenia), Patrizia Terre­ no (moglie di gorCakov), Laura De Marchi (donna della piscina), Milena Vukotic (impiegata comuna­ le), Delia Boccardo (moglie di Domenico), Elena Magoja, Piero Vida, Alberto Canepa, Kate Furlan, Li-

La forma dell’anima

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vio Galassi, Raffaele Di Mario Produttori esecutivi'. Lorenzo Ostuni (RAI 2) Renzo Rossellini e Manolo Bolognini (Opera Film) Direttore di produzione e or­ ganizzatore generale'. Franco Casati Produzione'. Ope­ ra Film per RAI 2, Sovinfilm, distribuzione Gaumont. 1986

OFFRET - SACR1FICATIO - ZERTVOPRINOSENYE [SACRI­

FICIO], Eastmancolor, 149’. Regia, soggetto e sceneggiatura: A.T. Aiuto regia: Ker­ stin Eriksdotter, Michal Leszczylowski Fotografia: Sven Nykvist Operatori di macchina: Lasse Karlsson, Dan Myhrman Musica: «Erbarme Dich», dalla PASSIO­ NE SECONDO matteo di J. S. Bach; musica strumentale giapponese (flauto: Suzo Watazumido); canti di pa­ stori di Dalekarlie e Hàrjdalen Suono e missaggio: Owe Svenson, Bo Persson, Lars Ulander, Christin Loman, Willi Peterson-Berger Montaggio: A.T., Mi­ chal Leszczylowski Consigliere tecnico: Henri Colpi Scenografia: Anna Asp Costumi: Inger Pehersson Trucco: Kjell Gustafsson, Florence Fouquier Effetti speciali: Svenska Stuntgruppen, Lars Hòglund, Lars Palmqvist Interpreti: Erland Josephson (Alexander) Susan Fleetwood (Adelaide), Valérie Mairesse (julia), Allan Edwall (otto), Gudrun S. Gisladóttir (ma­ ria), Sven Wollter (VIKTOR), Filippa Franzen (MARTA), Tommy Kjellqvist (ometto), Per Kaliman, Tommy Nordahl (infermieri) Direttore di produzione: Katinka Farago Produzione: Argos Film, Parigi; Svenska Filminstitutet, Stoccolma, in collaborazione con Film Four International, Londra; Josephson & Nykvist HB; Sveriges Television/SVT2 e Sandrew Film & Teater AB con la partecipazione del Ministero della Cul­ tura francese.

Sommario

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Introduzione

Lezioni di regia Il cinema come arte L’immagine cinematografica Sceneggiatura L’idea e la sua realizzazione Il montaggio

7 56 73 106 150

da Scolpire il tempo

L’immagine Dopo Nostalghia Sacrificio

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Conclusione Filmografìa

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Il tendere alla perfezione spinge l'artista a fare delle scoperte sul piano spirituale, lo sprona in continuazione a compiere il massimo sforzo morale. — Andrej Tarkovskij

O o

ANDREJ TARKOVSKIJ, nato nel 1932, è uno dei più grandi registi russi. Ostracizzato in patria per il costante rifiuto di allinearsi ai dettami del regime sovietico, nel 1982 si trasferisce in Italia dove con­ tinua l’attività cinematografica e teatrale. Muore a Parigi nel 1986.