Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical 8883196929, 9788883196928


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Italian Pages 376 [375] Year 2002

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Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical
 8883196929, 9788883196928

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STUDI SUL CINEMA

Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Francesco Fiorentino

3-4

I LIBRI DELL’ASSOCIAZIONE SIGISMONDO MALATESTA

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J. L. BOURGET, R. CAMPARI, V. CAPRARA, E. COMUZIO, R. DURGNAT, J. W. FINLER, L. GANDINI, G. GOSETTI, E. GUZZO VACCARINO, F. LA POLLA, F. MALCOVATI, A. MASSON, I. MOSCATI, G. MUSCIO, P. ORTOLEVA, A. SAPORI, V. ZAGARRIO

Il cinema che ha fatto sognare il mondo La commedia brillante e il musical a cura di FRANCO LA POLLA e FRANCO MONTELEONE

BULZONI EDITORE

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 88-8319-692-9 © 2002 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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IL CINEMA CHE HA FATTO SOGNARE IL MONDO L A COMMEDIA BRILLANTE E IL MUSICAL

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INDICE

PRIMA PARTE SOPHISTICATED, SCREWBALL, CRAZY, ROMANTIC, SLAPSTICK OVVERO

LA

COMMEDIA BRILLANTE

Introduzione di Franco Monteleone .......................................................................

p. 13

Nota bibliografica ..................................................................................................................

»

23

JOEL W. FINLER The Rise and Fall of American Screwball Comedy, 1934-1944* .........

»

25

VITO ZAGARRIO King of Comedy. Tipologia e struttura delle commedie americane .. »

65

FRANCO L A POLLA Lo specchio (rotto) dei tempi .........................................................................................

»

81

ROBERTO CAMPARI Europa e altri mondi ...........................................................................................................

»

95

LEONARDO GANDINI L’orribile verità. Gesto e parola nel cinema comico americano dell’epoca classica .................................................................................................................

» 105

GIULIANA MUSCIO La creazione della «professional lady». Sesso, cosmetici e diamanti nelle commedie di Anita Loos ..............................................................

» 117

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INDICE

VALERIO CAPRARA Il paradiso non può attendere. La carne, la morte e il diavolo, ovvero la donna ......................................................................................................................

» 141

PEPPINO ORTOLEVA Una leggera depressione. La commedia brillante e la grande crisi .. » 153 ALVISE SAPORI Avanti e indietro sulla corda tesa. Come recitare la commedia sofisticata ....................................................................................................

» 167

SECONDA PARTE MUSICAL DREAM Introduzione di Franco La Polla ...................................................................................

» 175

Nota bibliografica ..................................................................................................................

» 181

ITALO MOSCATI Almost Musical. Prima che il cinema facesse sognare il mondo .....

» 183

ALAIN MASSON De Broadway à Hollywood* ..........................................................................................

» 197

JEAN-LOUP BOURGET Le musical hollywoodien. Rêve, cauchemar, satire* .................................

» 219

FRANCO L A POLLA Strictly Usa. Il musical americano e l’ideologia nazionale .................

» 241

RAYMOND DURGNAT 42nd Street. Choreography as Sociology* ..............................................................

» 257

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INDICE

ERMANNO COMUZIO Prima la musica, poi le parole .................................................................................... » 285 ELISA GUZZO VACCARINO Filmare la danza, danzare il film ............................................................................ » 315 VITO ZAGARRIO Sulle ali dell’arcobaleno. Il tardo musical ........................................................

» 331

GIORGIO GOSETTI Esiste il genere musical? ....................................................................................................

» 343

FAUSTO MALCOVATI Stalin Follies. Un esempio di musical sovietico ..............................................

» 351

* I saggi in lingua straniera sono seguiti dalla traduzione italiana

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PRIMA PARTE SOPHISTICATED, SCREWBALL, CRAZY, ROMANTIC, SLAPSTICK OVVERO LA

COMMEDIA BRILLANTE

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INTRODUZIONE di FRANCO MONTELEONE

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Molto opportunamente l’Associazione Sigismondo Malatesta ha deciso di raccogliere in un unico volume le relazioni dei due Colloqui di Cinema che hanno avuto luogo a Ischia nel mese di marzo 2000 e 2001, rispettivamente dedicati alla commedia brillante e al musical: generi cinematografici che, anche fuor di metafora, hanno fatto davvero «sognare» il mondo. Generi, più propriamente, che hanno mostrato di possedere, nel corso di tutta la loro evoluzione fino all’apice della maturità espressiva, molteplici punti di contatto, ampie zone comuni di invenzione e creatività, attitudini molto simili a permeare l’immaginario degli spettatori. Basta fare caso ad alcune coincidenze. Entrambi ebbero come primo scenario temporale sopratutto gli anni Trenta; entrambi sono nati nel clima sociale e culturale degli Stati Uniti, durante e dopo la grande Depressione; entrambi partono da modelli letterari o teatrali spesso omologhi all’interno della tradizione anglosassone a cavallo fra i due secoli; entrambi si sviluppano secondo le forme di produzione coerenti con lo star system hollywoodiano; ma, sopratutto, entrambi hanno attinto la loro prima ispirazione da un contesto sociale di forte spinta al cambiamento e alla modernizzazione, e da un contesto economico sempre più fondato sulla produzione, di ampiezza fino allora inimmaginabile, di beni di uso quotidiano, di beni di consumo durevoli, di servizi. La grande trasformazione del modo di vivere e di pensare, nel periodo fra le due guerre, e la formidabile vitalità manifestata dal nuovo volto del capitalismo contribuiranno a creare in quegli anni nuovi simboli, nuovi personaggi, nuove sensibilità, fra i quali, forse, la più emblematica – almeno sugli schermi cinematografici – era la figura dell’anonima dattilografa stereotipata intenta alla lettura dei primi magazines sui sedili delle metropolitane. Sono le nuove èlites

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FRANCO MONTELEONE

dinamiche piccolo-borghesi che attuano il trapasso di vecchi valori, per quanto stravolti, nelle nuove ideologie di massa. Tra le due guerre avviene infatti quel fenomeno di massificazione banalizzatrice di valori culturali critici del periodo precedente che, se da una parte sarà distruttiva del vecchio ordine, dall’altra costituirà il supporto, ideologico appunto, di un ordine nuovo, strumento egemonico sugli atteggiamenti psicologici e sui comportamenti delle masse urbane o – come negli USA – anche di quelle proletarie. È questo lo scenario (appena fuggevolmente accennato) entro il quale prende forma uno dei corpus più straordinari che il cinema abbia mai prodotto. Le relazioni sulla commedia brillante, pubblicate nella prima parte del volume – cui fanno seguito, nella seconda parte, quelle sul musical, introdotte da Franco La Polla – ne documentano in maniera esemplare e, in alcuni casi, ne ridefiniscono con una eccellente capacità di aggiornamento, anche filologico, le fonti, le influenze culturali (ebraica e newyorkese), le trasformazioni, le praticabilità e le terribili difficoltà di un genere «inossidabile», le regole stilistiche, i vincoli formali, i contenuti (sesso, conflitti, guerre, dinamiche sociali, nevrosi), e infine le situazioni e i personaggi che ancora oggi rivivono nella memoria di tanti spettatori. E va subito detto che la forza di questo cinema sta in massima parte nella modernità delle sue figure femminili, indimenticabili non solo per l’interpretazione che ne hanno dato le dive hollywoodiane, ma forse soprattutto per la delicatezza e l’ironia con la quale, quasi senza prendersi sul serio, in esse sboccia con forza l’immagine della donna moderna. Appagante di sangue e di carne, di sorrisi e di civetterie, di cattiverie e di seduzioni, in quella immagine si traduce il primato assoluto dell’America nella commedia cinematografica, il genere più sofisticato, pazzo, svitato e romantico mai esistito, che visse in realtà una breve, anche se intensissima, età dell’oro iniziata com’è noto nel 1934 con Accadde una notte per poi cominciare a sfiorire con l’entrata degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale. Poco più di una diecina d’anni, dunque, ma sufficienti a creare le matrici di tutto il cinema, cosiddetto brillante o leggero, prodotto durante la seconda metà del Novecento. In questo genere, che Stanley Cavell definisce del «rimatrimonio», si è incarnata una delle forme basilari della cinematografia ame-

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INTRODUZIONE

ricana, attraverso un uso raffinato e sapiente degli ingredienti apparentemente più scontati, ma non per questo meno universali, che hanno agito, agiscono e agiranno nella relazione di coppia tra uomo e donna. Esso è stato punto focale di molte cose, dallo sviluppo tecnologico (con l’avvento del sonoro) all’alta qualità espressiva delle sceneggiature e al loro ineguagliabile modello di conversazione, alle eccezionali individualità dei suoi autori. Ma soprattutto esso ha rappresentato la svolta fondamentale – in America, ma non solo – del ruolo della donna nel mondo contemporaneo. Molto acutamente, a tal proposito, lo stesso Cavell, nel suo Pursuit of Happiness. The Hollywood Comedy of Remarriage, osserva che la nuova coscienza delle donne espressa nel genere del «rimatrimonio» va intesa sia come sviluppo che le donne hanno di se stesse, sia come relazione con la coscienza che gli uomini hanno delle donne. «È compito della storia – egli scrive – mostrare se in un periodo, in una classe e in un luogo determinati questa coscienza sia fondamentalmente imposta alle donne o se nello sviluppo di questo rapporto le donne siano partner fondamentalmente alla pari». E magistralmente aggiunge: «I nostri film possono essere interpretati come parabole di una fase dello sviluppo della coscienza in cui si ha una lotta per la reciprocità o l’eguaglianza tra una donna e un uomo, uno studio delle condizioni sotto le quali questa lotta per il riconoscimento o questa esigenza di riconoscersi è una lotta per la libertà reciproca, libertà specialmente dalle immagini che ognuno ha dell’altro. Questo dà ai film del nostro genere una coloritura utopica. Essi propongono una visione del mondo che non può essere pienamente vissuta nella realtà che conosciamo. Ecco perché questi film sono romances. Mostrandoci le nostre fantasie esprimono le priorità interne di una nazione che immagina per se stessa aspirazioni e impegni utopici». Brillante o sofisticata che dir si voglia, la commedia – non diversamente dal musical – è frutto di questo impeto utopico che pervade l’America, dalla Depressione al New Deal. Ma, a differenza del secondo, l’aspetto più affascinante sta nel fatto che questo genere non solo deliberatamente vuole, ma splendidamente riesce – con l’aria di giocare e di ridere – a toccare argomenti ad alto rischio e dire verità altrimenti indicibili: sull’egoismo, la follia, la vanità, la crudeltà degli individui; sullo squilibrio del sistema sociale, che genera

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FRANCO MONTELEONE

le caste dei ricchi e le miserie dei poveri; sulle nefandezze della politica e della guerra; sulla pietà che suscitano i diseredati ma anche sul fascino che possono emanare i mascalzoni; sulla miseria dei riti e dei miti delle nuove classi sociali, dei piccoli parvenu o dei grandi tycoons. Ma – ciò che più conta – non va dimenticato che la commedia cinematografica americana, brillante o sofisticata che dir si voglia, è stata il primo e più attraente veicolo, dall’America diffuso in tutto l’Occidente, dell’emancipazione sessuale femminile. In questi film è la donna che infrange le regole detestabili del conformismo, che lucidamente si innamora, che conduce il gioco sociale e sentimentale; mentre al maschio non resta che sottoporsi a terribili prove del fuoco e dimostrare di essere degno di lei. È la donna che mette cioè a nudo il sistema di potere maschile, sia privato che pubblico, e diventa quindi, a suo modo, portatrice di disordine, costringendo il maschio a rinunciare alle sue velleità di comando e di indipendenza. Persino nell’eterna lotta tra ricchi e poveri è ancora la donna che si inserisce come elemento di crisi nel mondo dei ricchi, come suggello di nuovo equilibrio e di razionalità. Anche l’unione dei sessi, quindi, e il suo imprescindibile risvolto sociale, il matrimonio, non può essere qualcosa di morto, senza desiderio, senza consapevole volontà di scegliersi, senza il gusto di scoprire se stessi e l’altro. I diverbi, le schermaglie, le battute ironiche e giocose di tutte le commedie sono quindi la strada obbligata che porta a rifondare un nuovo ordine nel sistema sociale e amoroso. Una funzione quasi illuministica, come ebbe a osservare Vieri Razzini in un estemporaneo intervento al colloquio di Ischia. (Che non a caso era stato concepito proprio sulla base di una sua intelligente proposta). Su questi e altri aspetti della commedia il lettore troverà, nell’insieme degli interventi pubblicati nella prima parte, un ventaglio di analisi e di approfondimenti che rendono giusto onore alla complessità di un genere cinematografico che, pur nella sua breve esistenza, ha indelebilmente segnato una intera epoca. Un fenomeno andato ben oltre le semplicistiche classificazioni che, tra l’altro, difficilmente sono riuscite a contenerlo interamente, e che si è imposto al di fuori di molti schemi produttivi al tempo universalmente accettati, come emerge infatti dalla lettura della prima relazione, tutta centrata su un

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INTRODUZIONE

excursus storico che ne mette in luce protagonisti e comparse (dagli attori, ai registi, agli sceneggiatori, alle case di produzione). Esaminando gli anni più intensi della commedia brillante, Joel W. Finler ci svela l’anomalia di un genere riuscito a imporsi soprattutto sfuggendo all’imperialismo dello studio system hollywoodiano. Negando gli stereotipi dei film «a getto continuo», sfornati da un sistema industriale implacabilmente codificato, la commedia rivela tutta la sua eccezionalità. Anomalia, dunque, che forse è la caratteristica più sottintesa di questo genere, la sua essenza più intima. Il riscontro sociale di alcuni schemi ricorrenti nella struttura narrativa delle commedie americane rivela un meccanismo espiatorio che è antico e moderno insieme. Esso rimanda sì a vecchi modelli di sublimazione catartica della Commedia Attica Nuova, ma con lo scopo di esorcizzare malesseri del tutto contemporanei. In questa latente contraddizione Vito Zagarrio individua il valore autentico delle commedie e giustamente propone il superamento, o quantomeno l’aggiornamento, di quella corriva e superficiale visione che rischia di ridurre in molti casi la comicità a sintomo di un ottimismo spensierato. Anche la metafora suggerita da Franco La Polla risulta assai opportuna: la commedia brillante è certo figlia del suo tempo, ma di questo tempo è solo uno «specchio rotto» che ne riflette una immagine ben lontana dall’essere la proiezione, ideale o realistica, di un mondo assai distante da quello prodotto dalla Depressione; piuttosto ne restituisce, al contrario, una immagine sospesa tra tutte le sue parti, «caleidoscopica», verosimilmente ma non necessariamente vicina alla realtà. Una risposta, insomma, formale ed eufemistica allo smarrimento di un’epoca in cui anche il sogno hollywoodiano si carica – senza appesantirsi – di tutta la complessità paradossale contenuta ed evocata nelle sue stesse creazioni. Roberto Campari, dal canto suo, entra nei luoghi di questo sogno, scenari mitici che dell’Europa fanno una sorta di paradiso terrestre in cui la realtà raffigurata è palesemente gioiosa, ricca e spensierata, in un eccesso che cela, o forse svela, il suo contrario. Parigi, Berlino, capitali del bel mondo, della moda e dell’amore prima, e poi anche dell’arte, sono le ambientazioni ricorrenti di molte commedie, dove la felicità esteriore, ancora una volta, fa da contrappunto simbolico alla infelicità interiore: malessere collettivo prima ancora

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FRANCO MONTELEONE

che individuale, sociale prima ancora che sentimentale. Un contrappunto che attinge anche esiti formali, oltre che nella struttura stessa delle commedie, basata sul meccanismo demistificatorio del parossismo, persino nello specifico stilistico della recitazione, come dimostra la relazione di Leonardo Gandini. La convivenza di due modelli di comicità apparentemente incompatibili (quella fisica proveniente dal cinema muto e quella verbale tipica del sonoro, e delle commedie in particolare) si traduce, non di rado, in un meccanismo di opposizione, là dove la parola anticipa una situazione potenzialmente comica che solo la gestualità rende esplicita. La comicità delle commedie nasce, in molti casi, proprio da questo impiego – tutt’altro che improvvisato e casuale – dello scontro insieme fisico e verbale tra il corpo maschile e quello femminile, una sorta di traduzione visiva della battuta che si carica spesso di una inedita tensione sessuale. Lo analizza molto bene Giuliana Muscio nel ritratto dedicato ad Anita Loos, creatrice di una tipologia cinematografica di donna, la professional lady, la cui spregiudicatezza seduttiva nell’uso consapevole e aggressivo del proprio corpo spiazza anche quel tanto di ambiguità, fatta di allusioni e doppi sensi, contenuta in molte sceneggiature. Un’eccezione, insomma, che conferma la regola e che, nella relazione di Valerio Caprara, consacra definitivamente la donna a icona indiscussa del genere e segna l’inizio della piena emancipazione femminile, non solo sugli schermi cinematografici. Passando in rassegna celebri figure di attrici – da Marlene Dietrich a Ginger Rogers, da Greta Garbo a Carole Lombard a Jean Harlow, solo per citarne alcune – egli mette l’accento sul meccanismo con cui la donna, ex sesso debole, si svela forse per la prima volta in tutta la sua moderna, pericolosa complessità. Tema in qualche modo ripreso anche da Peppino Ortoleva che, nella sua lettura storica del genere all’epoca della grande Depressione, si concentra sul conflitto tra le classi e introduce una originale riflessione sulla figura del gangster come eroe tragico. Infine, con Alvise Sapori, un doveroso richiamo all’impeccabilità, eccentricità, professionismo e istrionismo della recitazione di attori e di attrici le cui indimenticabili interpretazioni, in alcune delle più famose e celebrate commedie brillanti, appaiono più il frutto di una magistrale vocazione che il risultato di un’arte sapientemente celata. Con la grazia e la competenza che gli sono pro-

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INTRODUZIONE

prie Sapori, se da un lato conclude efficacemente la rassegna sulla commedia brillante, dall’altro sembra anticipare l’aura solo apparentemente più futile del musical, l’argomento che occupa la seconda parte del volume e anche sul quale – come il lettore potrà vedere – le relazioni presentate gettano nuova luce, nuove suggestioni, nuovi giudizi.

Nella prima parte del volume sono raccolti gli interventi relativi al Colloquio sulla Commedia brillante, svoltosi nel marzo del 2000, curato da Franco Monteleone e Giuseppe Ferulano, con la consulenza di Vieri Razzini. Nella seconda parte trovano posto gli interventi del Colloquio sul Musical, svoltosi nell’anno successivo e curato da Franco Monteleone, Franco La Polla, Giuseppe Ferulano e Paolo Amalfitano. Le note bibliografiche, che precedono le relazioni, e rispettivamente pertinenti ai due generi cinematografici, sono ovviamente limitate a quei volumi fondamentali che trattano i diversi argomenti da un punto di vista generale. Nelle note a corredo dei singoli testi il lettore troverà altri riferimenti bibliografici, sia più specifici, sia relativi a discipline affini ma che non rientrano a rigore nella definizione del genere. Indispensabile e preziosa, inoltre, è stata la collaborazione della dott.ssa Cecilia Martino, Università di Roma Tre, nell’opera di preparazione, sistemazione ed editing di tutti i materiali del volume e che desidero qui ringraziare caldamente.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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FRANCO MONTELEONE

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THE RISE AND FALL OF AMERICAN SCREWBALL COMEDY, 1934-1944 di JOEL W. FINLER

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Introduction The sophisticated screwball comedy was a very special type of American film which flourished in Hollywood for a relatively short period from the mid-1930s to the early 1940s. A lively but very modern mixture of knockabout, farce and romantic drawing-room comedy, it was characterized especially by its witty wisecracks and repartee and by the eccentric or unconventional behaviour of the leading characters, both male and female, who were treated equally on the screen. As described by one author, «Screwball comedy combined sophisticated, fast-paced dialogue of the romantic comedy with the zany action, comic violence and kinetic energy of slapstick comedy»1. In this paper I shall attempt to explain the nature of the screwball phenomenon, especially with reference to the way in which the films were conceived and made. In fact, there was a quite select group of directors, also writers and stars, who were involved and took advantage of the opportunities that this genre provided to break away from the restrictions and constraints of the studio system operating in Hollywood at the time. To begin with, by its very nature the free-wheeling characters and unpredictable plot lines did not fit easily within the mainly producer-controlled film-making of the period with its virtually assembly line methods and pressures to conform. As Gerald Mast 1 T. O. LENT, Romantic Love and Friendship. The redefinition of Gender Relations in Screwball Comedy, in H. JENKINS and K. KARNICK (a cura di), Classical Hollywood Comedy (An AFI Reader), Routledge, New York & London 1995, p. 327.

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JOEL W. FINLER

noted, «Underlying the best of the dialogue comedies was usually a subtle and silent rebellion against the very studio system and values that produced them»2. During the peak years of the studio era when most of the stars, directors and technical personnel were under contract to one or another of the studios which were turning out large numbers of films year after year, the screwball comedy was very much the exception. Thus, the standard reference work on the Hollywood mode of production refers to the «serial manufacture of a standardized product» in the 1930s and, in discussing Warner Bros., points out that «the studio expected directors to follow the scripts which in many cases they had little hand in writing», comments that apply to the other film companies as well3. The screwball pictures, in contrast, typically began as projects conceived and developed by the mainly free-lance or semi-independent directors or writer-directors themselves, most often hired by one of the smaller studios such as Columbia or RKO where the directors were generally allowed a greater degree of creative freedom. Clearly, these men were trying to break away from the restrictive, studio-controlled film-making while still appreciating the value of a quality script and dialogue. The big difference from the conventional mode of filming was that there was a degree of flexibility and adjustment possible during the shooting in an attempt to capture the vitality and spontaneity of performance by the actors. And this was facilitated by the fact that directors such as Leo McCarey and Gregory LaCava were writers themselves or, like Howard Hawks and Frank Capra, were adept at polishing a script. (Not surprisingly, two of the most talented screwball writers, Billy Wilder and Preston Sturges, would become extremely successful writer-directors themselves in the early 1940s.) In the words of Pauline Kael, «(these)… movies regained same of the creative 2 G. MAST, The Comic Mind. Comedy and the Movies, University of Chicago Press, Chicago 1979, p. 249. 3 D. BORDWELL, J. STAIGER and K. THOMPSON, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, Routledge & Kegan Paul, London 1985, pp. 326,329.

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energy and exuberance and the joy in horseplay too, that had been lost in the early years of talkies»4. Part of the appeal of the screwball films is that they often featured leading stars who were not previously identified with comedy roles, but such was their quality and special flavour that these affectionately crafted pictures have survived much better than most of the more serious efforts of the period. In fact, in many cases the actresses concerned – and it was especially the comediennes who were the mainstay of screwball – were able to revitalize their careers through their comedy performances, as happened with Carole Lombard, Jean Arthur, Irene Dunne, Katharine Hepburn and Ginger Rogers, in particular, while Clark Gable, Gary Cooper and William Powel also got a major boost from their ventures into comedy in the mid –1930s. As Claudette Colbert later recalled: «Comedies were not “the thing” in that glamorous era, but I loved comedy […]. And as Paramount was putting me in rather dull “nice women” roles, I jumped at this gay prospect of looking at Gable every day […]»5 when loaned to Columbia for It Happened One Night. The pattern which emerged at this time was that those small companies, such as Columbia, where many of the best screwball movies were shot, were attempting to upgrade the quality of their productions, but were desperately short of stars. Thus, they were forced to depend on expensive loan-outs from the larger studios, especially Paramount and MGM, of sometimes reluctant stars faced with projects very different from their usual contract assignments. Loan-outs were actually a regular part of the contract system, and if the film was a success, the large studios would reap the benefit, as happened with It Happened One Night. (Claudette Colbert’s value to Paramount and Clark Gable’s at MGM were much enhanced by the Oscars they received for their performances in this surprise hit film, at the very beginning of the screwball cycle in 1934). 4 P. KAEL, Cary Grant. The Man From Dream City, in When the Lights go Down, Holt, Rinehart & Winston, New York 1980, p. 17. 5 Interview with Claudette Colbert quoted in J. GARCEAU, with I. COCKE, Dear Mr. G— ’. The Biography of Clark Gable, New English Library, London 1961, p. 51.

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Not surprisingly, the first screwball movies date from the period when the film industry was beginning to recover from the effects of the Depression. And the golden age only lasted for about four years, 1937-1940, when Cary Grant first emerged as a witty and sophisticated lead actors and perfect partner or foil for his various female co-stars, beginning notably with The Awful Truth in 1937. The cycle then came to an end around the time when the USA first entered the war in 1942-43. Having lost many of their foreign markets, and the screwball comedies, in particular, were very international in their appeal, and having lost many leading stars and directors to the war effort, too, the studios cut back on production. They turned increasingly to other, war-related genres and to new stars. Thus, if one looks at the career of a leading figure such as the comedy writer, Billy Wilder: he first establishes himself as a writer-directors whit The Major and the Minor in 1942, one of the last screwball films, but then turns to the war in North Africa with Five Graves to Cairo (1943) followed by Double Indemnity (1944) and The Lost Weekend. The last great exponent of the ’30s screwball style is writerdirector Preston Sturges who directs the last of his series of brilliant comedies for Paramount in 1943. And by the time they are released, in 1944, the screwball era is over. Precursors and beginnings The changeover to sound filming took place during 1928-29 and from this point on the Hollywood studios signed up large numbers of mainly youngish actors from the theatre and writers whom they hoped would provide scripts, and especially dialogue, for the talking pictures. A new type of fast-talking, wise-cracking style was developed, especially at Warner Bros. where the tough new breed of street-wise star was represented by Joan Blondell, Barbara Stanwyck, Ginger Rogers and especially James Cagney. The actresses, in particular, presented a 1930s version of the flapper type or liberated modern woman who had first emerged as part of the sexual revolution in the 1920s, reflecting the changes in social attitudes which had

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taken place during these years6. MGM had Jean Harlow whose flair for comedy was only revealed when the studio provided her with appropriately witty scripts. Andrew Sarris suggests, for example, that «Anita Loos virtually created the wise-cracking Harlow persona in Red-Headed Woman (1932) and Hold Your Man (1933)», while John Lee Mahin contributed the screenplays for Red Dust (1932) and Blonde Bombshell (1933)7. And around the same time Mae West arrived at Paramount with a fully developed style and character from the theatre, and continued to write her own scripts and dialogue, giving herself all the best lines, of course. Aside from those pictures which featured fast-talking heroines, another important, early influence was director Ernst Lubitsch. His sophisticated and witty treatment of romance on the screen in such pictures as The Smiling Lieutenant, One Hour with You and Trouble in Paradise grew out of fruitful collaboration with scriptwriters Ernst Vajda and Samson Raphaelson. But for the more «Americanized» version of Noel Coward’s Design for Living in 1933, he turned to Ben Hecht, the unrivalled master of Hollywood-style verbal wit who would soon emerge as one the leading figures of the screwball era. In fact, It Happened One Night was released by Columbia early in 1934, followed soon after by Twentieth Century from the same studio, while the comic interplay between Fred Astaire and Ginger Rogers in The Gay Divorcee (their first starring film together) and the teaming of William Powell and Myrna Loy in the first of the Thin Man pictures suggests that this years marks the true beginning of ’30s screwball comedy. The lively by play between the contrasting (and sparring) couples in these films established a pattern characteristic of most of the screwball pictures which followed where the «battle of the sexes» was given a suitably new, modern and entertaining meaning. The tremendous success of It Happened One Night made the name of its directors (Frank Capra), writer (Robert Riskin) and stars, See for example T.O. LENT, Romantic Love, cit., pp. 316-320. A. SARRIS, You Ain’t Heard Nothin’ Yet. The American Talking Film. History & Memory, 1927-1949, Oxford University Press, New York 1988, p. 426. 6

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all of whom won Oscars, and it was the first comedy to win the Best Picture award. However, Twentieth Century, the much underrated picture which followed, occupies an even more important position in the history of screwball – scripted by Ben Hecht and Charles MacArthur, directed by Howard Hawks and starring Carole Lombard whith John Barrymore – all of whom would play a major role in the development of the genre during the following years. Although Barrymore goes amusingly over the top in his portrayal of ham actor and theatre producer Oscar Jaffe, the real revelation is Miss Lombard’s delightfully unpredictable and highly original performance, very different from virtually all of her previous films. Apparently she was encouraged to approach her role in a more spontaneous and natural manner by director Hawks8. But, unfortunately, most of the critics at the time failed to appreciate her qualities as a comedienne and paid more attention to Barrymore instead. And since the picture did not fare well at the box office, either, she continued to be cast in conventional roles back at her own studio, Paramount. Yet, the fact that Twentieth Century was not a big success did not deter the tough boss of Columbia, Harry Cohn. With the years on Poverty Row an all too recent memory, he was eager to establish a new and more respectable image for the studio. Thus, for the next ten years or so Colombia excelled at producing the new style of sophisticated, contemporary comedy and demonstrated that in this area at least it was one of the Hollywood leaders […] and found itself an unexpected role, revealing and exploiting the comedy talents of numerous top stars 9.

Perhaps it is no coincidence that 1934 also saw the formation of the so called «Legion of Decency» and a tightening of the self-censorship rules along with stricter enforcement of the Production Code. Introduced partly as a reaction against the kind of sexually 8 H. HANKS, Man’s Favorite Director. Interview, in «Cinema 1», NovemberDecember 1963, p. 12. 9 J.W. FINLER, The Hollywood Story, Octopus, London 1988, p. 72.

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suggestive or provocative qualities represented on the screen by Jean Harlow and Mae West, it probably (and unintentionally) contributed to the increase in the number of screwball comedies. Thus, as James Harvey noted, Screen lovers couldn’t by sexy any more, so they had to be funny […]. As comedies got “crazier”, they also got cleaner […]. The romantic comics were less inconvenienced than the proponents of the tough comedy. It was teams like Gable and Harlow, and stars like Mae West who really had to clean up their acts. And the tough comedy itself survived mainly by being absorbed into the screwball mode […]10.

As we have already suggested, Carole Lombard was the first of many lead actresses not previously associated with comedy who made this breakthrough in the mid-1930s. She was soon followed by Jean Arthur whose delightful performance in John Ford’s The Town’s Talking, co-scripted by Jo Swerling and Capra’s regular collaborator, Robert Riskin, was also filmed at Colombia late in 1934. It proved a revelation to Capra, in particular, who then insisted on casting her opposite Gary Cooper in Mr. Deeds Goes to Town in spite of the initial objections of Harry Cohn. This well-known comedy which mixed screwball elements with more serious themes related to the Depression, deserves a special mention for its main star pairing, a classic comedic mismatch between the small energetic, street-smart Jean Arthur, with the husky voice, and the tall, easy-going and soft spoken country boy portrayed by Cooper. (The role gave a big boost to him, on loan-out from Paramount, and earned him his first Oscar nomination). Still at Columbia in 1936, it was Irene Dunne who risked suspension when she initially refused her first comedy assignment opposite Melvyn Douglas in Theodora Goes Wild. But she later changed her mind11. The picture turned out well and she discovered that she was now in demand as a comedienne. 10 J. HARVEY, Romantic Comedy in Hollywood from Lubitsch to Sturges, Knopf, New York 1987, pp. 288-289. 11 ID., Interview with Irene Dunne, in Romantic Comedy, cit., pp. 684-685.

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Earlier that same year Carole Lombard finally got the comedy starring role which she deserved, co-starred whit her ex-husband, William Powell in My Man Godfrey. This was yet another memorable example of a special, prestige production which had been set up at the small Universal studio by Gregory LaCava. A semi-independent producer-writer-director, his preferred method was to create his comedies as much as possible during the actual filming. On this particular production, as he recalled it, «Morrie Ryskind came in as my scenarist shortly before we began shooting. And together we put the picture into shape on the set»12. As described by one writer, «This fantasy of enlightened capitalism, reconciled class conflict, and romantic love unfolds at such a frantic pace and with such inspired lunacy that there’s no time to ponder motivation or narrative logic»13. Most of the credit must go to LaCava’s skilful and inventive direction, bringing out the best in his stars, both of whom were nominated for Oscars along with Irene Dunne’s Theodora and LaCava, too, though he lost out to Frank Capra. MGM’s Libeled Lady (1936), however, was the first screwball comedy to be nominated as Best Picture since It Happened One Night and the only one to feature two star couples – Myrna Loy and William Powell again, along with Jean Harlow and Spencer Tracy – reflecting the studio’s superabundance of acting talent. In marked contrast to the more personal LaCava style, MGM, the largest of the Hollywood studios, demonstrated here that it was possible to turn out a delightful screwball entertainment as a mainstream studio production. Jack Conway, an accomplished contract director, kept everything moving at a cracking pace, and all the cast are in top form, especially Jean Harlow as the dizzy blonde who can’t seem to land her man (Tracy), no matter how hard she tries. But the picture also proved that a studio team of writers could put together such an inventive script with a surprising plot full of unexpected twist and 12 B. CROWTHER, A Gregorian Chat, in “The New York Times”, 17 October 1937, Section 11, p. 4. 13 T. SCHATZ, The Genius of the System. Hollywood Film-making in the Studio Era, Simon & Schuster, New York 1988, p. 236.

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turns. (Gerald Weales carefully considers the film’s multiple authorship, for example, before concluding that «all these cooks managed to perfect rather than spoil the broth»14). At around this time Carole Lombard was able to negotiate a new and more favorable contract with Paramount allowing her to shoot one picture per year at another studio, and as it turned out, she never made another film at Paramount after 1937. Similarly, Cary Grant was dissatisfied with his treatment and left Paramount after negotiating a new, semi-independent deal with Columbia and RKO. Clearly the studio system was good at keeping stars busy, but not necessarily happily employed. The large Paramount studio had actually suffered a leadership crisis in the 1930s, whith various changes at the top, and this had meant that many of the top stars, such as Lombard and Grant, had been neglected and had found their most fulfilling roles away from the studio. However, once Miss Lombard’s remarkable talent for comedy was revealed, Paramount did provide her with a few appropriate comic vehicles such as Hands Across the Table (1935), The Princess Comes Across (1936) and, best of all, True Confession (1937), all with Fred MacMurray as her co-star. But none of these could match up to the very best of her screwball roles, all for other, smaller companies. The Beak Years of screwball comedy, 1937-1940 When Cary Grant burst into the comedy scene in The Awful Truth in a role just made for him, but which he was initially reluctant to do, this virtually marks the beginning of the golden age of screwball. And when he completes the last of his screwball roles in 1940, the peak years are just ending. During the intervening period there are memorable contributions from a wide range of leading writers, directors and stars including the established comediennes, led by Carole Lombard, Irene Dunne and Jean Arthur, and many important 14 G. WEALES, Canned Goods as Caviar. American Film Comedies of the 1930s, University of Chicago Press, Chicago 1985, p. 222.

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new comers such as Ginger Rogers, Rosalind Russell, Katharine Hepburn and even Greta Garbo. It is quite apparent during these years that the Hollywood style of modern comedy was becoming more respectable, and respected, than ever before. According to biographer Geoffrey Wansell, Cary Grant was not only unhappy with his experience at Paramount but was still very insecure and unsure of himself and was not sure who or what he was on the screen15. Then came The Awful Truth. As an archetypal example of screwball at its best, this picture fits the familiar pattern in various ways. Writer-director Leo McCarey, for example, was given greater freedom at Columbia than he had experienced during his years at Paramount. He was even able to serve as his own producer, discarding a script which he did not like and collaborating closely with Vina Delmar on a complete re-write which continued haphazardly during the course of shooting16. Although the three leads, and especially Cary Grant, were initially reluctant to do the picture, they were won over by the director’s unconventional methods. Here Cary Grant was let loose on the screen for the first time under the guidance of an experienced director, recalling the experience of Carole Lombard on Twentieth Century or Irene Dunne as Theodora. And just the performance he was afraid of giving – afraid it would make him look foolish – turns him into the Cary Grant we all know. It’s not hard, in retrospect, to understand his nervousness: only the screwball women were giving this kind of performance, being sexy and funny in the same roles, with the kind of abandon McCarey was asking him for now risky indeed for a romantic leading man to attempt. But Grant pulls it off: a virtuoso screwball performance, full of slapstick, loony antics, impeccable timing, and breathtaking wit. No leading man had done anything quite like this before17.

But although the picture was a big success, with Oscar nominations for Best Picture and script, for the delightful performance of 15 G. WANSELL, Haunted Idol. The Story of the Real Cary Grant, Ballantine, New York 1985, pp. 97-98. 16 B. THOMAS, King Cohn. The Life and Times of Harry Cohn, Bantam, New York 1968, p. 112. 17 J. HARVEY, Romantic Comedy, cit., p. 301

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Irene Dunne and supporting actor Ralph Bellamy, while McCarey won the directing award, Cary Grant was left out. In fact, he was never nominated for any one of his many brilliant comedy performances. As a further example of the prestige enjoyed by sophisticated Hollywood comedy by 1937, independent producer David O. Selznick decided that he too would join in the fun. In typical Selznick fashion he put together a quality package of Carole Lombard, Fredric March and director William Wellman, then hired Ben Hecht to write a script. As filming got under way he sent a wire to his partner, John Hay Whitney, «You wonted comedy, boy are you going to get it»18. The result was Nothing Sacred, the only ’30s screwball comedy filmed in Technicolor, yet presenting an unglamourized view of the world in keeping with its mainly cynical view of human behaviour and of the gutter press. Devised as a vehicle for Lombard and suitable follow-up to My Man Godfrey, with a stronger satirical edge, it confirmed her position as the most naturally gifted of Hollywood comediennes, while appearing almost incandescent in her only colour film. At the very same time, Gregory LaCava was at RKO directing his own follow-up to My Man Godfrey. Though not really a screwball piece at all, the superbly crafted and acted Stage Door occupies a special place in the development of late ’30s comedy with its impressive array of female acting talent. Set in a boarding house for aspiring young actresses, the brilliant repartee and overlapping dialogue may reflect the movie’s stage origins, but it has been much improved on by LaCava, again aided by writer Morrie Ryskind. A Key transitional picture for RKO stars Katharine Hepburn and Ginger Rogers, Miss Hepburn here demonstrated her ability to handle lightweight comedy, while Ginger without Fred took a major step toward establishing herself as a star on her own. In fact, RKO wasted no time, casting Hepburn in her first screwball comedy, paired with Cary Grant, while the experienced Howard Hawks was brought in as producer and director. It was his 18

p. 218.

R. HAVER, David O. Selznick’s Hollywood, Secker & Warburg, London 1980,

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first comedy since Twentieth Century and, in a later interview, he drew attention to the similarities: I felt she (Miss Hepburn) was like Carole Lombard: she might run around like a tomboy, but she had beauty and the ability to wear clothes and to look like a lady. The part in Bringing Up Baby was her; she was a Connecticut heiress, she was full of opinions, she was inventive and certain about everything. Lombard played herself for me – dizzy and quite touching […] and now Katie was doing the same19.

Bringing out the comic side of her personality, with Cary Grant as straight man, cast against type as a dedicated palaeontologist, the result was a sophisticated, comic delight. She and Grant obviously made such a good team that they were immediately signed by Columbia to appear in a less frantic, but entertaining light comedy, a re-make of Philip Barry’s play, Holiday, directed by George Cukor who demonstrated his qualities at handling sophisticated comedy. Among the many other outstanding comedies during these years, Easy Living (1937) is most memorable for its inventive screwball script, typical of the brilliant Preston Sturges: a crazy series of events is sparked off, and working girl Jean Arthur is suddenly propelled into a life of luxury, when a mink coat drops on her head. Miss Arthur then co-starred with James Stewart in Frank Capra’s Oscar winning You Can’t Take It With You (1938) adapted from the play by George S. Kaufman and Moss Hart. Ginger Rogers finally established herself as a top comedienne in a number of pictures at RKO. Vivacious Lady (1938) with James Stewart was direct by George Stevens, while both Bachelor Mother (directed by Garson Kanin) and Fifth Avenue Girl from producer-director Gregory LaCava were big surprise hits for the studio in 1939. The formidable Lubitsch, who had even given up directing for a year to run the Paramount studio, was back behind the camera where he belonged directing Claudette Colbert and Gary Cooper in Bluebeard’s Eight Wife (1938) followed by Ninotchka (1939), both from screenplays by a 19 C. HIGHAM, Kate. The Life of Katharine Hepburn, New American Library, (Signet), New York 1976, pp. 83-84.

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remarkable new writing partnership of Billy Wilder and Charles Bracket who also provided Miss Colbert with her best screwball role ever, paired with John Barrymore in Midnight (1939). The legendary Garbo had been attracted to do her first screwball-type comedy by the opportunity to work with Lubitsch and the need to revive her languishing career. It worked and the picture represented a new departure for a Lubitsch, too, very different from his previous American comedies and a welcome addition to the genre. «Garbo, Lubitsch and the screwball comedy itself come together in this film in a most astonishing result: the closest thing to a convincing socialist heroine the English-speaking cinema has yet produced. A nice payoff to the screwball tradition, that it had the freedom to offer this surprise»20. (Unfortunately, a follow-up comedy, Two-Faced Woman, flopped badly and Garbo never made another picture.) There were other unlikely figures attracted to screwball, such as Alfred Hitchcock, here given a chance to try his hand at his first «allAmerican» subject following Rebecca and Foreign Correspondent. Filmed late in 1940, «Mr. And Mrs. Smith proved to be suitable vehicle for Carole Lombard[…]and provided her with yet another opportunity to demonstrate her special gift for verbal, as well as physical, knockabout comedy»21. But most important of all, reflecting his position as the leading screwball star, Cary Grant appeared in one remarkable film after another. Gunga Din (1939) was a project first developed at RKO by Howard Hawks and Ben Hecht, then directed by George Stevens. A unique example of a fast-moving, male dominated, action-adventure type of screwball picture, the lively wise-cracking and interplay between the three male leads means that there is little room, or need, for a leading female role. Only Angels Have Wings which followed is an interesting example of how producer-director Hawks could make use of the off-beat casting of two screwball stars, Jean Arthur and Cary Grant, to give a very special flavour to his film about the dangerous life of the men who fly mail planes over the Andes. 20 21

p. 47.

J. HARVEY, Romantic Comedy, cit., p. 392. J. H. FINLER, Alfred Hitchcock. The Hollywood Years, Batsford, London 1992,

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Finally, His Girl Friday, filmed later that year (1939) at Columbia appears as the definitive Hawks-Grant collaboration. The germ of the idea for the picture may have come from the fact that Hildy, the name of the ace reporter in the Hecht-MacArthur play and movie of The Front Page, sounds more feminine than masculine. In any case, Hawks tried recasting the role as an informal experiment, then became convinced that it would work even better than the original – a clear demonstration, if one were needed, of the equality of the sexes in the screwball world. But apparently he had trouble convincing various leading stars to take the role, though one would never guess from seeing the film that Rosalind Russell was not his first choice. After six years at MGM, this was her first picture as a freelance, and it made her name as a comedienne and as Hollywood’s idea of a no-nonsense career woman. (During the following years she would be cast in many such roles, but none would match up to her performance in this hilarious and fast moving comedy). She especially proved that she could hold her own against Cary Grant in peak form, and, whereas he had most of the best lines in the original script by Charles Lederer, her role was much improved during filming. In fact, the picture was especially characterized by the rapidfire delivery of lines, leading one writer to refer to «the fasted dialogue in the history of talking pictures»22. As the perfect companion piece to Twentieth Century five and a half years earlier, the movie also reflects the maturing of Hawksian comedy during the intervening period. Hildy is a sensitive and sincere woman, one of the advantages of using Rosalind Russell, who combines sharp talk, a quick brain, solid sense and a casual, friendly intimacy. Walter (Grant) is much softer, more ironic and more sensitive than both Oscar Jaffe (Barrymore) and Walter Burns in the Hecht-MacArthur play – one of the advantages of using Cary Grant. As a result, the emotional relationship of Walter and Hildy in the film is much richer, more playful, less maniacal […]23.

B. THOMAS, King Cohn, cit., p. 160. G. MAST, Howard Hawks. Storyteller, Oxford University Press, New York1982, pp. 210-211. 22

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Thus, the picture appears as the natural culmination of the screwball cycle, completed toward the end of the year, 1939, which included Midnight, Ninotchka, Gunga Din and Remember the Night with Barbara Stanwyck from a Preston Sturges script, along with two Ginger Rogers comedies and It’s A Wonderful World starring Claudette Colbert and James Stewart. If there is a sense in which the peak years of screwball represent a kind of fulfilment of 1930s comedy film-making, ten years after the beginning of the sound era, it is appropriate that this particular year is also widely regarded as the most memorable in the history of Hollywood. Notable releases in 1939 include The Wizard of Oz, Gone with the Wind, Only Angels Have Wings, Mr. Smith Goes to Washington, The Hunchback of Notre Dame, The Women, Of Mice and Men, Wuthering Heights, Dark Victory and The Roaring Twenties from Warner Bros. and three pictures from John Ford: Stagecoach, Young Mr. Lincoln and Drums Along the Mohawk, his first in Technicolor. It was also the year when both Orson Welles and Alfred Hitchcock arrived in Hollywood. And there were many important changes taking place, such as Paramount’s new deal with Preston Sturges allowing him to direct and write, which Welles would also do, the advance guard of a whole new generation of ’40s directors. Epilogue Following His Girl Friday Cary Grant had immediately been cast with Irene Dunne in My Favourite Wife at RKO in an all too obvious attempt to recycle The Awful Truth, with McCarey now as producer and Garson Kanin to direct. Thus, the pattern which started to emerge around this time was that the studios would continue to turn out numerous comedies in the screwball mold, with such titles as He Married His Wife, Too Many Husbands, Lady in a Jam and He Stayed for Breakfast. But the scripts and performances were no longer fresh or appealing to audiences, especially since they had already seen the same stars go through the same comic capers too many times before. Following a familiar Hollywood pattern, the success of the best screwball movies had led to a plethora of inferior

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imitations, and by 1940 there was already a distinct feeling that the screwball cycle had run its course. However, screwball elements were often integrated into the mainstream type of sophisticated comedy, such as The Philadelphia Story, which reunited the same writing and directing team from Holiday, with James Stewart joining Katherine Hepburn and Cary Grant in the leading roles. Similarly, with the Hepburn-Tracy comedy, Woman of the Year, also filmed at MGM the following year, directed by George Stevens. The first of their many pictures together, it effectively exploited the contrast between the tall, thin, fast-talking and energetic Hepburn with the more restrained, solid but dependable acting style of Tracy. Not surprisingly, Preston Sturges also included screwball themes in all of his film as writer-director, beginning with The Great McGinty in 1940, continuing in the ’30s tradition and was even able to recycle scripts which he had previously written but had never been produced. Two of his pictures, in particular, stand out as among the last of the classic screwball comedies: The Lady Eve starred Barbara Stanwyck and Henry Fonda as a perfectly mismatched couple in the tradition of Bringing Up Baby, while the comical marital complications experienced by Claudette Colbert and Joel McCrea in Palm Beach Story demonstrated the brilliant way that Sturges was able to inject new life into familiar screwball themes. It is perhaps appropriate that the last of the classic screwball comedies were able to inject a new topicality into their plot lines during the war years. Thus, Lubitsch directed his last, great, satirical, black comedy, To Be or Not To Be, which included a farcical send-up of the Nazis who are outwitted by a troupe of Polish actors. Jack Benny and Carole Lombard co-starred, but unfortunately it proved to be the last of her many delightfully offbeat comedy performances, for she died in a plane crash before the picture was released. The More the Merrier, however, was set in Washington, and dealt with the acute housing shortage in the capital due to the proliferation of new government agencies and employees during the war. Thus, Jean Arthur ends up sharing her tiny apartment with the elderly Charles Coburn and Joel McCrea leading to various domestic and romantic complications. Director George Stevens had insisted on the same freedom from producer interference at Columbia as McCarey before

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THE RISE

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FALL

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him, and the result turned out to be the last memorable comedy for Miss Arthur and himself. (He left for war service soon after.) And the realities of a country at war, with lots of men in uniform out and about, provide the background for the last two hilarious and fast-moving satirical comedies from Preston Sturges, The Miracle of Morgan’s Creek and Hail the Conquering Hero. By setting both movies in small town America with a cast headed by oddball stars Eddie Bracken and William Demarest, supported by his favourite assortment of character actors, this provided Sturges with the opportunity to satirize contemporary American attitudes and institutions in a manner both witty and wildly funny. These pictures marked the natural culmination of his great period as a writerdirector at Paramount in the early 1940s. And when he left the studio in 1944, this marked the end of an era. (Frank Capra had already left Hollywood for Washington in 1942. Howard Hawks had turned from comedy to war films and thrillers after completing Ball of Fire, from a script by Wilder and Brackett in 1941. Similarly, Wilder directed one comedy, then turned to more serious subjects, while both LaCava and Lubitsch had virtually reached the end of their directing careers by the mid-1940s). In conclusion, although the screwball comedy flourished for a relatively short period during the middle and late 1930s, it is widely regarded today as one of the highlights of the Hollywood studio era. The pictures involved a very special group of stars, directors and writers who achieved a distinctive kind of creative fulfilment mainly outside the mainstream studio system, about ten years or so after the beginning of the sound era. The decline, however, occurred quite rapidly, in the early 1940s, when the screwball formula began to look stale. (Production in general was falling, while the outbreak of war meant a rapid increase in the number of warrelated pictures). By 1944 the screwball phenomenon was finished, though there were a few post-war examples involving stars and directors (and writers) from the 1930s. Adam’s Rib (1949) was the best of the TracyHepburn comedies, directed by George Cukor, while Cary Grant starred in I Was a Male War Bride (1949) and Monkey Business (1952) with Ginger Rogers, both for director Howard Hawks. But it

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was writer-director Billy Wilder who had the last word. Some Like It Hot stands out as arguably, the last great screwball comedy, filmed, course, in black-and-white, and appropriately set in the year 1929.

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LA BREVE STAGIONE DELLA COMMEDIA BRILLANTE AMERICANA, 1934-1944 di JOEL W. FINLER

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Natura di un fenomeno La commedia sofisticata di tipo brillante*, in voga a Hollywood durante un periodo di tempo relativamente breve, tra la metà degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, ha costituito un genere molto speciale nel panorama cinematografico americano. Connubio allegro e moderno tra la farsa più chiassosa e la commedia romantica da salotto, la commedia brillante era caratterizzata in particolare dalle battute spiritose e incalzanti e dal comportamento eccentrico e originale dei protagonisti, sia maschili che femminili, trattati sullo schermo in maniera del tutto paritaria. Come è stato notato, «combinava i dialoghi eleganti e accesi della commedia romantica con l’azione surreale, l’aggressività comica e l’energia inesauribile del cinema comico»1. In questo contributo si cercherà di spiegare la natura del fenomeno della commedia brillante con particolare attenzione al modo in cui i film furono concepiti e prodotti. Di fatto, vi fu un gruppo piuttosto ristretto di registi, sceneggiatori e attori che parteciparono a queste produzioni per non perdere l’opportunità, che il nuovo genere offriva loro, di sfuggire al* In Italia non sono mai stati introdotti termini che rendano in maniera precisa gli equivalenti inglesi (americani) «sophisticated comedy» e «screwball comedy». Con una certa approssimazione, si è generalmente fatto rientrare tutto nella definizione «commedia sofisticata». In questa sede, essendo indispensabile in alcuni passi una distinzione, si è introdotta la definizione «commedia brillante», che, se manca dell’immediatezza simpatica del termine «screwball», ha il merito di rendere almeno parzialmente il senso di spumeggiante, inafferrabile e divertente follia che pervade i film così definiti. I film sono citati con il titolo originale seguito tra parentesi da quello usato per la distribuzione in Italia, entrambi in corsivo. Nel caso di film non distribuiti in Italia, si è fornita la semplice traduzione letterale del titolo originale. (n.d.t.). 1 T. O. LENT, Romantic Love and Friendship. The Redefinition of Gender Relations in Screwball Comedy, in H. JENKINS e K. KARNICK (a cura di), Classical Hollywood Comedy (An AFI Reader), Routledge, New York e London 1995, p. 327.

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le limitazioni e alle restrizioni imposte dallo studio system in vigore a Hollywood in quel periodo. Per loro stessa natura, infatti, né i personaggi scatenati né le imprevedibili trame di queste commedie si adattavano alla maniera considerata normale di fare film, sottoposta al controllo e alle restrizioni dei produttori, che imponevano metodi quasi da catena di montaggio. Come ha scritto Gerald Mast, «le migliori commedie sottintendevano il più delle volte una sottile ribellione contro lo studio system e i valori che lo avevano prodotto»2. Durante gli anni d’oro dell’epoca degli studios, in un contesto generale in cui la maggior parte degli attori, dei registi e dello staff tecnico erano ingaggiati da una delle diverse case di produzione che sfornavano film a getto continuo, la commedia brillante costituì un’eccezione isolata. Nella più importante opera di consultazione sul sistema di produzione hollywoodiano si parla addirittura di «fabbricazione in serie di un prodotto standardizzato» durante gli anni Trenta e, in riferimento alla Warner Bros., si sottolinea come «lo studio imponeva ai registi di seguire alla lettera delle sceneggiature alla cui redazione non avevano spesso neanche preso parte»3, commento che si adatta perfettamente anche alle altre grandi case di produzione. Le commedie brillanti, invece, nascevano e si sviluppavano in genere su iniziativa personale dei registi, spesso autori anche delle sceneggiature e per lo più indipendenti, ingaggiati da studios più piccoli, come la Columbia o la RKO, che concedevano loro una maggiore autonomia creativa. Com’è ovvio, questi registi cercavano di girare i loro film senza dover sottostare alle imposizioni degli studios, e conoscevano perfettamente il valore di una buona sceneggiatura e di dialoghi ben scritti. La grande differenza, rispetto al metodo convenzionale di girare film, consisteva nella possibilità di fare dei cambiamenti durante le riprese, per sfruttare appieno la vitalità e la spontaneità della recitazione. Questo atteggiamento era facilitato dal fatto che alcuni registi, per esempio Leo McCarey e Gregory LaCava, erano anche sceneggiatori, o almeno, come nel caso di Howard Hawks e Frank Capra, erano molto abili nel rifinire le sceneggiature. (Non

2 G. MAST, The Comic Mind. Comedy and the Movies, University of Chicago Press, Chicago 1979, p. 249. 3 D. BORDWELL, J. STAIGER e K. THOMPSON, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, Routledge & Kegan Paul, London 1985, pp. 326, 329.

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è una sorpresa che due tra i migliori sceneggiatori di commedie brillanti, Billy Wilder e Preston Sturges, abbiano avuto un grande successo come registi e sceneggiatori all’inizio degli anni Quaranta). Come scrive Pauline Kael, «(questi)… film recuperarono gran parte dell’energia creativa e dell’esuberanza e persino del gusto per lo scherzo grossolano che si erano persi nei primi anni del cinema sonoro»4. Parte del fascino di queste commedie sta nel fatto che quasi mai gli attori protagonisti erano stati considerati, prima, adatti a ruoli brillanti; eppure ogni particolare era curato con tanta attenzione, e questi film avevano uno stile così speciale, che hanno resistito al tempo molto meglio della maggior parte dei tentativi seri dell’epoca. Di fatto, in diversi casi, le attrici impiegate (era soprattutto su di loro che si reggevano le commedie brillanti) riuscirono a rivitalizzare la propria carriera attraverso queste interpretazioni, come accadde in particolare a Carole Lombard, Jean Arthur, Irene Dunne, Katharine Hepburn e Ginger Rogers. Anche la fama di Clark Gable, Gary Cooper e William Powell fu notevolmente accresciuta dalle loro incursioni nella commedia verso la metà degli anni Trenta. Claudette Colbert, ricordando anni dopo come venne ceduta alla Columbia per It Happened One Night (Accadde una notte, 1934), ha raccontato: «le commedie non erano considerate il genere alla moda in quell’epoca meravigliosa, ma io adoravo le commedie […]. E poiché la Paramount mi dava sempre dei ruoli piuttosto noiosi da “donna per bene”, non mi lasciai scappare questa possibilità straordinaria di poter vedere Gable ogni giorno […]»5. In questo periodo, le case di produzione più piccole, come la Columbia, dove veniva girata la maggior parte delle commedie brillanti, stavano tentando di migliorare la qualità delle loro produzioni, ma erano tremendamente a corto di divi. Per questo motivo erano costrette a spendere grosse cifre per affittare dai grandi studios, soprattutto Paramount e MGM, attori il più delle volte riluttanti a comparire in ruoli molto diversi da quelli previsti dal contratto. Questi prestiti erano considerati parte integrante del sistema contrattuale e, se il film aveva successo, il grande studio ne traeva un enorme beneficio, come nel caso di It Happened One Night. (Il valore di Claudette Colbert per la Paramount e di Clark Gable 4 P. KAEL, Cary Grant. The Man from Dream City, in When the Lights go Down, Holt, Rinehart and Winston, New York 1980, p. 17. 5 Intervista con Claudette Colbert citata in J. GARCEAU, con I. COCKE, Dear Mr. G—’. The Biography of Clark Gable, New English Library, London 1961, p. 51.

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per la MGM aumentò enormemente dopo gli Oscar che ricevettero per le loro interpretazioni in questo film, il cui successo, all’inizio dell’epoca delle commedie brillanti, fu sorprendente). Non a caso, i primi esempi del genere risalgono al periodo in cui l’industria cinematografica cominciava a riprendersi dagli effetti della Depressione. Il periodo d’oro durò soltanto tre anni, dal 1937 al 1940, durante i quali Cary Grant emerse, a partire da The Awful Truth (L’orribile verità, 1937), come attore protagonista spiritoso e raffinato, oltre che compagno e spalla insuperabile per le sue diverse partner femminili. Il ciclo si esaurì all’incirca nel periodo in cui gli Stati Uniti entrarono in guerra, nel 1942-43. Costretti a fare a meno di diversi mercati internazionali (e le commedie brillanti, in particolare, avevano grande successo internazionalmente), e dovendo anche rinunciare a diversi divi e registi, che erano stati arruolati, gli studios tagliarono la produzione. L’attenzione venne rivolta principalmente ad altri generi, soprattutto quello militare, e a nuovi attori. Come esempio, si osservi la carriera di uno dei più importanti sceneggiatori di commedie brillanti, Billy Wilder: dapprima si fece conoscere come regista e sceneggiatore di The Major and the Minor (Frutto proibito, 1942), una delle ultime commedie brillanti, poi affrontò il tema della guerra nell’Africa Settentrionale con Five Graves to Cairo (I cinque segreti del deserto, 1943), seguito da Double Indemnity (La fiamma del peccato, 1944) e The Lost Weekend (Giorni perduti, 1945). L’ultimo grande esponente dello stile brillante degli anni Trenta fu Preston Sturges, che concluse la sua serie di commedie per la Paramount nel 1943. Quando finalmente, nel 1944, esse furono distribuite sugli schermi, l’era delle commedie brillanti era finita.

Precursori ed inizi Con il passaggio al cinema sonoro, nel 1928-29, gli studios di Hollywood cominciarono ad assumere un gran numero di giovani attori provenienti dal teatro e di sceneggiatori: da essi ci si aspettava di ricevere copioni originali e buoni dialoghi per i film «parlanti». Venne sviluppato un nuovo stile, caratterizzato da battute rapide e divertenti, in particolare alla Warner Bros., dove la nuova leva di divi duri e smaliziati era rappresentata da Joan Blondell, Barbara Stanwick, Ginger Rogers e soprattutto James Cagney. Le attrici incarnavano una versione anni Trenta del tipo della flapper, la donna moderna liberata, comparsa per la prima volta du-

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rante la rivoluzione sessuale degli anni Venti, riflesso dei cambiamenti sociali avvenuti in quegli anni6. La MGM aveva Jean Harlow, il cui talento per la commedia venne alla luce solo quando le vennero offerte sceneggiature sufficientemente spiritose. Andrew Sarris ritiene, per esempio, che «Anita Loos praticamente inventò la donna dalla battuta pronta, il tipico personaggio della Harlow, in Red-Headed Woman (La donna dai capelli rossi, 1932) e Hold Your Man (Tieniti il tuo uomo, 1933)»7, mentre John Lee Mahin fu autore delle sceneggiature di Red Dust (Lo schiaffo, 1932) e Bombshell (Argento vivo, 1933). All’incirca nello stesso periodo Mae West approdò alla Paramount, con uno stile e un personaggio pienamente sviluppati in teatro, e continuò a scrivere i propri dialoghi e le proprie sceneggiature, ovviamente tenendo per sé le battute migliori. Oltre alle eroine di questi film impostati su dialoghi divertenti e accesi, un altro precursore fondamentale fu Ernst Lubitsch. Lo stile elegante e spiritoso con cui raccontò le schermaglie amorose in film come The Smiling Lieutenant (L’allegro tenente, 1931), One Hour with You (Un’ora d’amore, 1932) e Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932) nacque dalla fertile collaborazione con Ernest Vajda e Samson Raphaelson. Ma al momento di girare una versione più «americanizzata» di Design for Living (Partita a quattro, 1933), di Noel Coward, si rivolse a Ben Hecht, insuperabile maestro dello humor hollywoodiano, che di lì a poco si sarebbe affermato come una delle figure più importanti dell’era delle commedie brillanti. Di fatto, It Happened One Night venne distribuito dalla Columbia all’inizio del 1934, seguito quasi immediatamente da Twentieth Century (Ventesimo Secolo, 1934) prodotto dallo stesso studio, mentre l’intesa immediata tra Fred Astaire e Ginger Rogers in The Gay Divorcee (Cerco il mio amore, 1934), il primo film in cui appaiono insieme, e l’incontro di William Powell e Mirna Loy nel primo film della serie dell’Uomo ombra, confermano che questo anno segna l’inizio di una intera epoca della commedia brillante. Gli allegri litigi e i battibecchi all’interno delle coppie protagoniste inaugura uno schema caratteristico, riproposto nella maggior parte delle commedie brillanti successive, in cui l’espressione “battaglia dei sessi” acquista un significato piacevolmente nuovo, divertente e moderno. Si veda per esempio T. O. LENT, Romantic Love, cit., pp. 316-320. A. SARRIS, You Ain’t Heard Nothin’ Yet. The American Talking Film. Hystory & Memory, 1927-1949, Oxford University Press, New York 1988, p. 426. 6

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L’enorme successo di It Happened One Night rese famosi il suo regista (Frank Capra), lo sceneggiatore (Robert Riskin) e gli attori, tutti premiati con l’Oscar, e fu la prima commedia scelta come Miglior Film. Twentieth Century, il sottovalutato film che lo seguì, occupa addirittura un posto ancor più importante nella storia delle commedie brillanti: sceneggiato da Ben Hecht e Charles MacArthur, diretto da Howard Hawks, interpretato da Carole Lombard e John Barrymore, il film mette in campo autori e interpreti che avrebbero avuto ruoli importantissimi nello sviluppo del genere negli anni successivi. Per quanto Barrymore sia straordinario nella sua caratterizzazione dell’attore e produttore teatrale Oscar Jaffe, ancora più sorprendente è la meravigliosa interpretazione di Carole Lombard, originale e imprevedibile, molto diversa da quasi tutte le sue precedenti. Sembra che fosse lo stesso regista Howard Hawks a spingerla ad affrontare il personaggio in maniera più spontanea e naturale8. Sfortunatamente, la maggior parte dei critici non si preoccupò di sottolinearne le qualità di attrice brillante, concentrandosi piuttosto su Barrymore. Poiché il film non andò neanche particolarmente bene sotto il profilo degli incassi, la Lombard continuò a essere impiegata dalla Paramount in ruoli convenzionali. Comunque, il fatto che Twentieth Century non fosse stato un grande successo non scoraggiò Harry Cohn, il deciso direttore della Columbia. Per cancellare il ricordo ancora bruciante degli anni di povertà, [Cohn] era deciso a consolidare un’immagine nuova e più rispettabile dello studio. Così, nei circa dieci anni che seguirono la Columbia fu insuperabile nella creazione di un nuovo stile di commedia sofisticata e moderna, e dimostrò di essere, almeno in quest’area, una della migliori compagnie di Hollywood [...] assumendosi il compito singolare di scoprire e sfruttare il talento per i ruoli brillanti di molti attori celebri9.

Forse non è una coincidenza che nello stesso 1934 si formasse la cosiddetta «Legione per la Decenza» e le regole di autocensura divenissero più rigide, di pari passo con una più ferrea imposizione del Codice di Produzione. Introdotte in parte come reazione contro i personaggi 8 H. HAWKS, Man’s Favorite Director. Interview, in “Cinema 1”, novembre-dicembre 1963, p. 12. 9 J. W. FINLER, The Hollywood Story, Octopus, Londra 1988, p. 72.

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provocatori e sessualmente irriverenti interpretati da Jean Harlow e Mae West, queste misure finirono probabilmente (e in maniera involontaria) per aumentare il numero di commedie brillanti. Come ha notato James Harvey, Gli amanti, sullo schermo, non potevano più essere sexy, erano quindi costretti a essere divertenti. […] Allo stesso tempo in cui diventavano più “pazze”, le commedie divenivano anche più pure […]. I protagonisti delle commedie romantiche […] erano meno sconvenienti dei difensori della commedia tough. Erano coppie come quella formata da Clark Gable e Jean Harlow, o dive come Mae West, che dovevano decisamente ripulire il loro modo di recitare. E la stessa commedia tough poté sopravvivere solo nella misura in cui venne assorbita da quella brillante […]10.

Come abbiamo già suggerito, Carole Lombard fu la prima attrice famosa, non abituata a ruoli leggeri, a tentare un cambio di rotta. Ben presto fu imitata da Jean Arthur con la sua deliziosa interpretazione in The Whole Town’s Talking (Tutta la città ne parla), di John Ford, co-sceneggiato da Jo Swerling e un collaboratore abituale di Frank Capra, Robert Riskin: l’ennesimo film girato presso la Columbia, alla fine del 1934. Fu una rivelazione, in particolare per Capra, che in seguito insistette per avere Gary Cooper come suo partner in Mr Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità, 1936), malgrado le obiezioni iniziali di Harry Cohn. Questa celebre commedia, dove gli elementi tipici del genere si fondono con il tema più serio della Depressione, presenta il classico duo mal assortito: da un lato la piccola, inarrestabile, smaliziata Jean Arthur, e dall’altro il ragazzone di campagna, alto, calmo e dalla voce roca ma gentile, interpretato da Gary Cooper. (Prestato dalla Paramount per questo ruolo, fu per la prima volta candidato all’Oscar, e diede una svolta decisiva alla sua carriera). Ancora alla Columbia, nel 1936, Irene Dunne cercò di rifiutarsi di partecipare alla commedia Theodora Goes Wild (L’adorabile nemica) al fianco di Melvyn Douglas, e rischiò di essere sospesa. In seguito cambiò idea11, il film ebbe successo e la Dunne si ritrovò a essere improvvisamente richiesta per altre commedie. 10 J. HARVEY, Romantic Comedy in Hollywood from Lubitsch to Sturges, Knopf, New York 1987, pp. 288-289. 11 ID., Interview with Irene Dunne, in Romantic Comedy, cit., pp. 684-685.

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Qualche mese prima, Carole Lombard aveva avuto finalmente l’opportunità di interpretare un ruolo all’altezza delle sue capacità, recitando al fianco del suo ex marito William Powell in My Man Godfrey (L’impareggiabile Godfrey, 1936). Fu l’ennesimo, memorabile esempio di produzione di grande prestigio organizzata, presso i piccoli studi della Universal, da Gregory LaCava. Produttore, sceneggiatore e regista semi indipendente, LaCava amava creare il film per quanto possibile direttamente durante le riprese. In questo caso particolare, come ricorda egli stesso, «lo sceneggiatore Morrie Riskind si unì a me poco prima che cominciassero le riprese, e insieme scrivemmo il film direttamente sul set»12. Com’è stato giustamente notato, «questa fantasiosa visione di capitalismo illuminato, conflitto di classe risolto e amore romantico si svolge a un ritmo talmente frenetico e secondo una follia talmente ispirata che manca il tempo per metterne in discussione le motivazioni o la logica narrativa»13. La maggior parte del merito va alla regia abile e inventiva di LaCava, impeccabile nella direzione dei protagonisti, i quali furono entrambi candidati all’Oscar, insieme alla Theodora di Irene Dunne e allo stesso LaCava, al quale però venne preferito Frank Capra. In ogni caso, fu la produzione della MGM Libeled Lady (La donna del giorno, 1936) la prima commedia brillante a essere candidata all’Oscar come Miglior Film dopo It Happened One Night, e anche l’unica a presentare due coppie di attori – Mirna Loy e William Powell, di nuovo, insieme a Jean Harlow e Spencer Tracy –, il che dimostra la ricchezza dello studio in quanto a grandi attori. In netta opposizione allo stile personale di LaCava, la MGM dimostrò con questo film che era possibile girare una deliziosa commedia brillante seguendo le regole di una produzione convenzionale. Jack Conway, diligente regista sotto contratto, riuscì a far muovere ogni cosa al giusto ritmo, e gli attori fornirono interpretazioni eccellenti, soprattutto Jean Harlow, insuperabile nel ruolo della bionda un po’ svagata che non riesce ad accalappiare il suo uomo (Spencer Tracy), malgrado tutti i tentativi. Il film dimostrò che una squadra di autori ben assortita era in grado di mettere insieme una sceneggiatura piena di immaginazione, con una girandola inesauribile di sorprese. (Gerald Weales, per esempio, ha analizzato attentamente la multipla paternità del film, ar12 B. CROWTHER, A Gregorian Chat, in “The New York Times”, 17 ottobre 1937, Sezione 11, p. 4. 13 T. SCHATZ, The Genius of the System. Hollywood Film-making in the Studio Era, Simon & Schuster, New York 1988, p. 236.

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rivando alla conclusione che «tutti questi cuochi riescono a raggiungere la perfezione, invece che rovinare il brodo»14). All’incirca nello stesso periodo, Carole Lombard riuscì a ottenere un nuovo contratto, più aperto, con cui la Paramount la autorizzava a girare un film all’anno presso un altro studio; e in effetti dopo il 1937 la Lombard non comparve in nessun film della Paramount. Analogamente, Cary Grant lasciò definitivamente la Paramount dopo aver discusso un nuovo tipo di contratto semi indipendente con la Columbia e la RKO. Evidentemente lo studio system riusciva a tenere i divi occupati, ma non necessariamente a soddisfarli. La Paramount aveva attraversato momenti di crisi durante gli anni Trenta, cambiando diverse volte direttore; molti attori, come la Lombard e Cary Grant, finirono per essere trascurati e andare a interpretare i loro ruoli migliori presso altri studios. D’altra parte, quando il talento di Carole Lombard per le commedie divenne evidente, anche la Paramount le procurò alcuni ruoli azzeccati, come Hands Across the table (I milioni della manicure, 1935), The Princess Comes Across (Resa d’amore, 1936) e soprattutto True Confession (La moglie bugiarda, 1937), tutti al fianco di Fred McMurray. Ma nessuno di questi film fu all’altezza delle sue migliori commedie, tutte prodotte da compagnie più piccole.

Gli anni d’oro, 1937-1940 Quando Cary Grant fece il suo ingresso nel mondo della commedia con The Awful Truth, in un ruolo fatto su misura per lui, ma che inizialmente avrebbe voluto rifiutare, iniziò l’epoca d’oro della commedia brillante. Quando interpretò l’ultimo dei suoi ruoli leggeri, nel 1940, gli anni migliori stavano già finendo. In questo periodo si andarono affermando molti sceneggiatori, registi e soprattutto attori straordinari, alcuni dei quali non erano nuovi ai ruoli leggeri, come Carole Lombard, Irene Dunne e Jean Arthur, mentre altri erano al primo debutto, come Ginger Rogers, Rosalind Russell, Katharine Hepburn e addirittura Greta Garbo. Furono gli anni in cui il genere hollywoodiano della commedia moderna divenne finalmente rispettabile, e rispettato.

14 G. WEALES, Canned Goods as Caviar. American Film Comedies of the 1930s, University of Chicago Press, Chicago 1985, p. 222.

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A quell’epoca, secondo il suo biografo Geoffrey Wansell, Cary Grant era non solo insoddisfatto della sua esperienza presso la Paramount, ma ancora insicuro di sé e incerto su chi o cosa dovesse rappresentare sullo schermo15. Poi venne The Awful Truth. Vero archetipo del genere, questo film segue gli schemi che già conosciamo per diversi aspetti. Allo sceneggiatore e regista Leo McCarey, per esempio, la Columbia concesse molta più libertà di quanta ne avesse mai avuta durante i suoi anni alla Paramount. Riuscì addirittura a fare il produttore di se stesso, contestando una sceneggiatura di cui non era soddisfatto e collaborando strettamente con Vina Delmar a una riscrittura profonda, che continuò in maniera occasionale anche durante le riprese16. Malgrado i tre attori principali, e in particolare Cary Grant, fossero inizialmente riluttanti a partecipare al film, alla fine furono conquistati dai metodi poco convenzionali del regista. Per la prima volta a Cary Grant venne concessa una grande autonomia, sotto la guida di un regista esperto, come era accaduto a Carole Lombard in Twentieth Century, o a Irene Dunne in Theodora Goes Wild. E proprio il tipo di recitazione di cui aveva paura – paura che lo facesse sembrare ridicolo – lo trasformò nel Cary Grant che tutti conosciamo. Non è difficile, in effetti, comprendere perché fosse nervoso: solo alle protagoniste femminili delle commedie brillanti era concesso questo tipo di recitazione, sexy e divertente allo stesso tempo, con la naturalezza che MacCarey voleva – un compito oggettivamente rischioso per un attore romantico. Ma Grant fu straordinario, e offrì un’interpretazione perfetta, piena di scherzi e buffonate folli, con un senso del ritmo e uno humor insuperabili. Nessuno aveva fatto niente del genere fino a quel momento17.

Il film ebbe un grande successo, con candidature all’Oscar, nelle categorie Miglior film e Migliore sceneggiatura, a Irene Dunne per la sua splendida interpretazione, a Ralph Bellamy come Miglior attore non protagonista, e a Leo McCarey, che fu premiato come Miglior regista. Solo Cary Grant rimase tagliato fuori, e anche in seguito non ricevette mai neanche una nomination per le sue splendide interpretazioni in commedie brillanti. 15 G. WANSELL, Haunted Idol. The Story of the Real Cary Grant, Ballantine, New York 1985, pp. 97-98. 16 B. THOMAS, King Cohn. The Life and Times of Harry Cohn, Bantam, New York 1968, p. 112. 17 J. HARVEY, Romantic Comedy, cit., p. 301.

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LA

BREVE STAGIONE DELLA COMMEDIA BRILLANTE AMERICANA,

1934-1944

Altra conferma del prestigio di cui godeva la commedia sofisticata hollywoodiana nel 1937 venne dalla decisione del produttore indipendente David O. Selznick di unirsi alla festa. Con il suo tipico stile mise insieme una serie di grandi nomi (Carole Lombard, Fredric March e il regista William Wellman) e ingaggiò Ben Hecht perché scrivesse una sceneggiatura. Quando cominciarono le riprese, mandò un telegramma al suo socio John Hay Whitney: «Volevi una commedia, ne avrai una coi fiocchi»18. Il risultato fu Nothing Sacred (Nulla sul serio, 1937), l’unica commedia brillante degli anni Trenta filmata in Technicolor, ma improntata a una visione del mondo lontana da ogni glamour, anzi cinica nella rappresentazione dei comportamenti umani e della stampa scandalistica. Ideato come possibile seguito di My Man Godfrey, con un taglio più decisamente satirico, e fatto su misura per la Lombard, il film ne confermò la straordinaria attitudine ai ruoli brillanti e la sfolgorante bellezza, quasi abbagliante nel suo unico film a colori. Esattamente nello stesso periodo, Gregory LaCava si trovava presso gli studi della RKO a dirigere il suo seguito di My Man Godfrey. Per quanto non si tratti in realtà di una vera commedia brillante, Stage Door (Palcoscenico, 1937), film meravigliosamente diretto e interpretato, occupa un posto molto speciale nello sviluppo della commedia della fine degli anni Trenta. Ambientato in una pensione per giovani aspiranti attrici, il film tradisce negli scambi di battute e nei dialoghi incalzanti la derivazione da un testo teatrale, comunque riscritto molto bene da LaCava di nuovo in collaborazione con Morrie Ryskind. Fu una tappa di fondamentale importanza nella carriera delle stelle della RKO Katharine Hepburn e Ginger Rogers: la Hepburn dimostrò di avere un gran talento per le commedie brillanti e Ginger Rogers, al primo film senza Fred Astaire, fece un passo importante nella definizione della propria carriera. La RKO non perse tempo e scritturò Katharine Hepburn per il suo primo vero ruolo in una commedia brillante, al fianco di Cary Grant, con il veterano Howard Hawks nel doppio ruolo di regista e produttore. Per la prima volta dai tempi di Twentieth Century Hawks tornò a dirigere una commedia, e in un’intervista rilasciata anni dopo mise in risalto le somiglianze tra i due film: 18

p. 218.

R. HAVER, David O. Selznick’s Hollywood, Secker & Warburg, Londra 1980,

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JOEL W. FINLER

Avevo la sensazione che [Katharine Hepburn] fosse come Carole Lombard: poteva andarsene in giro conciata come un maschiaccio, ma era bella e sapeva come essere elegante e raffinata. Il ruolo in Bringing Up Baby (Susanna, 1938) era suo: lei era un’ereditiera del Connecticut, era sempre pronta a dire la sua, era inventiva e sempre sicura di tutto. Carole Lombard aveva recitato se stessa per me, svagata e un po’ commovente […] e adesso Katie faceva lo stesso19.

La Hepburn mostrò il lato comico della propria personalità, in opposizione a un Cary Grant che interpretava il ruolo dell’uomo per bene nei panni del paleontologo consacrato al suo lavoro: il risultato fu divertente ed elegante. Era tanto evidente che i due formavano una buona coppia che immediatamente vennero scritturati dalla Columbia per comparire in una commedia meno frenetica ma divertente, remake della commedia teatrale di Philip Barry Holiday (Incantesimo, 1938), con la regia di George Cukor, il quale dimostrò di avere un’ottima mano nella direzione di commedie sofisticate. Tra le altre commedie straordinarie di questi anni Easy Living (Che bella vita!, 1937) è memorabile per la sua sceneggiatura piena di invenzioni, tipica del brillante Preston Sturges: una pelliccia cade sulla testa della giovane impiegata Jean Arthur, la quale si vede proiettata improvvisamente nel lusso, passando per una girandola di situazioni folli. In seguito, Jean Arthur interpretò, al fianco di James Stewart, You Can’t Take It With You (L’eterna illusione, 1938), adattamento di un altro testo teatrale, scritto da George S. Kaufman e Moss Hart, diretto da Frank Capra e premiato con un Oscar. Ginger Rogers si conquistò la fama di ottima attrice brillante con alcuni film per la RKO. Nel 1938 interpretò Vivacious Lady (Una donna vivace), al fianco di James Stewart, diretto da George Stevens, e l’anno seguente fu protagonista di due sorprendenti successi: Bachelor Mother (Situazione imbarazzante), diretto da Garson Kanin, e Fifth Avenue Girl (La ragazza della Quinta strada) con Gregory LaCava in qualità di regista e produttore. Il formidabile Lubitsch, che per un anno aveva addirittura messo da parte il lavoro di regista per dirigere la Paramount, tornò dietro la macchina da presa per Bluebeard’s Eighth Wife (L’ottava moglie di Barbablù, 1938), con Claudette Colbert e Gary Cooper, seguito da Ni19 C. HIGHAM, Kate. The Life of Katharine Hepburn, New American Library, (Signet), New York 1976, pp. 83-84.

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LA

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notchka (id., 1939), scritti entrambi da una nuova coppia di brillanti sceneggiatori: Billy Wilder e Charles Brackett, che fornirono anche a Claudette Colbert il suo miglior ruolo in una commedia brillante: Midnight (La signora di mezzanotte, 1939), al fianco di John Barrymore. La leggendaria Garbo era stata convinta a interpretare il suo primo ruolo brillante dall’opportunità di lavorare con Lubitsch e dalla necessità di dare una scossa alla propria carriera, che era in fase calante. Funzionò, e il film, molto diverso dalle sue commedie americane precedenti, segnò per Lubitsch l’inizio di una nuova fase e costituì una gradevole novità. «La Garbo, Lubitsch e il genere stesso della commedia brillante danno vita a qualcosa di veramente stupefacente: quanto di più vicino a un’eroina socialista credibile il cinema di lingua inglese abbia prodotto fino ad ora. È una fortuna che alla tradizione brillante sia stata concessa la libertà di offrire tali sorprese»20. Sfortunatamente, una commedia successiva, Two-Faced Woman (Non tradirmi con me, 1941), fu un fiasco terribile, e la Garbo non fece più neanche un film. Vi furono altri personaggi insospettabili attratti dal genere della commedia brillante, per esempio Alfred Hitchcock, che ebbe così la possibilità di lavorare a un soggetto «veramente americano», dopo Rebecca (Rebecca, la prima moglie, 1939) e Foreign Correspondent (Il prigioniero di Amsterdam, 1939). Girato nel 1940, Mr. and Mrs. Smith (Il Signor e la Signora Smith) «fu un grande successo personale per Carole Lombard […] e le fornì un’altra opportunità di mostrare il suo talento di vera commediante, insuperabile nei dialoghi come nella mimica»21. Ma la cosa più importante, considerato il suo ruolo di divo indiscusso nell’ambito della commedia brillante, è che a Cary Grant fu permesso di recitare, uno dopo l’altro, in film sensazionali. Gunga Din (id., 1939) fu un progetto sviluppato per la RKO da Howard Hawks e Ben Hecht, ma diretto da George Stevens. In questo esempio unico, all’interno del genere brillante, di film di azione, rapido e sostanzialmente maschile, l’acceso scambio di battute e l’ottima intesa tra i tre personaggi lasciano poco spazio, o necessità, per una protagonista femminile. Il successivo Only Angels Have Wings (Avventurieri dell’aria o Eroi senza gloria, 1939) esemplifica in maniera interessante come il regista e produttore Howard Hawks si servisse della presenza di due autentici geni della commedia, Jean Arthur e Cary 20 21

p. 47.

J. HARVEY, Romantic Comedy, cit., p. 392. J. W. FINLER, Alfred Hitchcock. The Hollywood Years, Batsford, Londra 1992,

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JOEL W. FINLER

Grant, per dare un carattere tutto speciale a questo film sulla vita pericolosa dei piloti addetti al trasporto della posta aerea sulle Ande. Infine, His Girl Friday (La signora del venerdì), girato nel corso dello stesso anno per la Columbia, è la migliore collaborazione tra Hawks e Grant. L’idea originale potrebbe essere nata dal fatto che Hildy, nome del reporter nella commedia teatrale e nella sceneggiatura di Hecht e MacArthur per The Front Page (La prima pagina, 1931), suona più come un nome femminile che maschile. Comunque sia, Hawks fece l’esperimento informale di ripensare il ruolo per una donna, e si convinse che avrebbe funzionato anche meglio dell’originale – una chiara dimostrazione, se ce n’era bisogno, della parità dei sessi all’interno del mondo della commedia brillante. Il regista ebbe diversi problemi a convincere gli interpreti ad accettare i loro ruoli, ma in realtà vedendo il film non si penserebbe mai che Rosalind Russell non fosse la sua prima scelta. Dopo sei anni alla MGM, questo era il primo film della Russell come indipendente, e la rese famosa come attrice brillante, incarnazione dell’ideale hollywoodiano di donna in carriera e decisa. (Negli anni successivi le vennero offerti diversi ruoli simili a questo, ma in nessuno riuscì a ritrovare la perfezione di questa commedia agile ed esilarante). Soprattutto, Rosalind Russell dimostrò di reggere a meraviglia il confronto con un Cary Grant in piena forma e, sebbene il personaggio di Grant avesse nella sceneggiatura originale di Charles Lederer la maggior parte delle buone battute, nel corso delle riprese il ruolo della protagonista venne notevolmente migliorato. In effetti, il film era caratterizzato proprio dal fuoco di fila delle battute, al punto che si è parlato dei «dialoghi più veloci nella storia del cinema sonoro»22. Visto come perfetto pendant di Twentieth Century, girato cinque anni e mezzo prima, il film riflette anche la maturazione della commedia hawksiana durante questo periodo. Hildy è una donna sensibile e sincera, e questo è uno dei vantaggi di usare Rosalind Russell, che sa essere sarcastica, acuta e pratica, ma al tempo stesso è familiare, semplice, amichevole. Walter (Grant) è molto più tenero, ironico e sensibile di Oscar Jaffe (Barrymore) o di Walter Burns nel testo di Hecht e MacArthur; e questo è uno dei vantaggi di usare Cary Grant. Il risultato è che la relazione tra Walter e Hildy, nel film, è molto più ricca, più giocosa, meno maniacale […]23.

B. THOMAS, King Cohn, cit., p. 160. G. MAST, Howard Hawks. Storyteller, Oxford University Press, New York 1982, pp. 210-211. 22

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BREVE STAGIONE DELLA COMMEDIA BRILLANTE AMERICANA,

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Così, il film finisce per rappresentare il culmine del ciclo di commedie brillanti conclusosi verso la fine dello stesso anno, il 1939, in cui furono girati anche Midnight, Ninotchka, Gunga Din e Remember the Night (Ricorda quella notte), con Barbara Stanwick, da una sceneggiatura di Preston Sturges, oltre a due commedie con Ginger Rogers e It’s A Wonderful World (La vita è meravigliosa), interpretato da Donna Reed e James Stewart. E se ha un senso utilizzare l’anno più importante nell’ambito della commedia brillante per riassumere i risultati ottenuti in questo campo nel corso dei dieci anni successivi all’avvento del sonoro, è significativo che questo sia anche universalmente considerato come l’anno migliore nella storia di Hollywood. Tra gli altri film indimenticabili distribuiti nel 1939 ci sono: The Wizard of Oz (Il mago di Oz), Gone with the Wind (Via col vento), Only Angels Have Wings, Mr. Smith Goes to Washington (Mr. Smith va a Washington), The Hunchback of Notre Dame (Notre Dame), The Women (Donne), Of Mice and Men (Uomini e topi), Wuthering Heights (Cime tempestose), Dark Victory (Una violenta dolce estate) e The Roaring Twenties (I ruggenti anni venti) della Warner Bros., più tre importanti film di John Ford: Stagecoach (Ombre rosse), Young Mr. Lincoln (Alba di gloria) e Drums along the Mohawk (La più grande avventura), il suo primo in Technicolor. Fu anche l’anno in cui Orson Welles e Alfred Hitchcock arrivarono a Hollywood. E ci furono altri avvenimenti importanti, in particolare il nuovo contratto tra la Paramount e Preston Sturges, che permetteva al regista di scrivere e dirigere i suoi film. Lo stesso diritto sarebbe stato concesso anche a Welles, con Sturges all’avanguardia della generazione di registi degli anni Quaranta.

Epilogo Dopo His Girl Friday, Cary Grant fu immediatamente scritturato insieme a Irene Dunne per girare My Favorite Wife (Le mie due mogli, 1940) presso la RKO, nel chiaro tentativo di ripetere il successo di The Awful Truth, con McCarey nel ruolo di produttore e Garson Kanin come regista. La situazione che si andava delineando in questo periodo vedeva gli studios impegnati in una produzione ininterrotta di commedie brillanti, con titoli come He Married His Wife (Ha sposato sua moglie, 1940), Too Many Husbands (Troppi mariti, 1940), Lady in a Jam (Le stranezze di Jane Palmer, 1940) e He Stayed for Breakfast (Ha da venì…, 1940). Ma sia le sceneggiature che le interpretazioni avevano perso la loro fre-

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JOEL W. FINLER

schezza e non interessavano più il pubblico, soprattutto dal momento che si erano visti troppe volte gli stessi attori in ruoli quasi identici. Secondo uno schema molto comune a Hollywood, il successo delle migliori commedie brillanti aveva provocato una proliferazione di imitazioni di livello inferiore, e nel 1940 era già netta la sensazione che il ciclo fosse giunto alla fine. Comunque sia, elementi della commedia brillante continuarono a essere inseriti nel filone più ampio della commedia sofisticata, per esempio in The Philadelphia Story (Scandalo a Filadelfia, 1940) che presentava lo stesso gruppo di autori e il regista di Holiday, con James Stewart che si univa a Katharine Hepburn e Cary Grant tra i protagonisti. Lo stesso accadde con Woman of the Year (La donna del giorno, 1941), commedia con la Hepburn e Spencer Tracy, anch’essa girata presso la MGM l’anno seguente, sotto la regia di George Stevens. Fu il primo di una serie di film realizzati insieme, e sfruttava abilmente il contrasto tra la Hepburn, alta, magra, energica e dalla lingua sciolta, e Tracy, con il suo contenuto, solido e affidabile stile recitativo. Com’era prevedibile, anche Preston Sturges incluse temi propri della commedia brillante nei suoi film realizzati, sia come sceneggiatore che come regista, a partire da The Great McGinty (Il grande McGinty, 1940), continuando la tradizione degli anni Trenta, e riuscendo addirittura a riciclare sceneggiature scritte anni prima che non erano mai state realizzate. Due suoi film, in particolare, sono tra le migliori prove in assoluto nell’ambito della commedia brillante: The Lady Eve (Lady Eva, 1941) vede Barbara Stanwick e Henry Fonda nei panni della coppia “perfettamente mal associata”, nella tradizione di Bringing Up Baby, mentre le complicazioni matrimoniali vissute da Claudette Colbert e Joel McCrea in Palm Beach Story (Ritrovarsi, 1942) dimostrano l’abilità di Sturges quando si tratta di dare nuova vita a temi familiari della commedia brillante. Durante la guerra, i canovacci tipici furono vivificati, nei casi migliori, con argomenti di attualità. Lubitsch, per esempio, diresse la sua ultima, grande commedia nera, To Be or Not to Be (Vogliamo vivere, 1942), in cui veniva rappresentato in chiave quasi farsesca il tiro giocato ai nazisti da un gruppo di attori polacchi. I protagonisti erano Jack Benny e Carole Lombard, e sfortunatamente fu l’ultima, splendida interpretazione dell’attrice, che morì in un incidente aereo ancora prima che il film fosse distribuito. The More the Merrier (Molta brigata vita beata, 1943), invece, era ambientato a Washington e affrontava il tema della grave mancanza di alloggi nella capitale in seguito alla proliferazione delle agenzie governative e dei loro impiegati durante la guerra. Jean Arthur era costretta a dividere

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il suo piccolo appartamento con il maturo Charles Coburn e con Joel McCrea, dando vita a varie complicazioni domestiche e romantiche. Il regista George Stevens aveva insistito molto per ottenere dalla Columbia la stessa libertà che era stata concessa prima di lui a McCarey, e il risultato fu l’ultima commedia importante per la Arthur e per lo stesso regista (che partì per la guerra poco dopo). La realtà del paese in guerra, pieno di uomini in uniforme, fornì lo spunto per le ultime due commedie di Preston Sturges, esilaranti e ironiche: The Miracle of Morgan’s Creek (Il miracolo del villaggio, 1944) e Hail the Conquering Hero (Evviva il nostro eroe, 1944). L’idea di ambientare questi film in piccole cittadine americane, con un cast formato da attori straordinari come Eddie Bracken e William Demarest, più il nutrito gruppo di caratteristi tipici di Sturges, gli diede la possibilità di fare una satira, al tempo stesso divertente e acuta, della mentalità e delle istituzioni dell’America contemporanea. Questi film sono tra i migliori risultati del suo grande periodo come sceneggiatore e regista alla Paramount nei primi anni Quaranta. Quando, nel 1944, lascia lo studio, è la fine di un’epoca. Frank Capra aveva già lasciato Hollywood per Washington nel 1942, e Howard Hawks era passato dalle commedie ai film di guerra dopo Ball of Fire (Colpo di fulmine, 1941), da una sceneggiatura di Wilder e Brackett. Allo stesso modo Wilder, dopo aver diretto una commedia, era passato a soggetti più seri, mentre sia LaCava che Lubitsch erano praticamente, a metà degli anni Quaranta, alla fine delle loro carriere. In conclusione, per quanto la commedia brillante abbia avuto un periodo di fulgore relativamente breve, tra la metà degli anni Trenta e la loro fine, è generalmente considerata come uno dei migliori risultati dell’epoca d’oro degli studios di Hollywood. Nella produzione di questi film fu coinvolto un gruppo di attori, registi e sceneggiatori che riuscirono a ottenere risultati creativi straordinari, per lo più al di fuori del sistema tradizionale, circa un decina d’anni dopo l’introduzione del sonoro. Il declino, comunque, fu piuttosto rapido, all’inizio degli anni Quaranta, quando la formula brillante cominciò ad apparire ripetitiva. (La produzione in generale era in ribasso, mentre l’inizio improvviso della guerra aveva portato a un aumento di film a sfondo militare). Nel 1944, il fenomeno della commedia brillante poteva considerarsi concluso, per quanto vi siano stati ancora alcuni tentativi nel dopoguerra con attori e registi (e sceneggiatori) degli anni Trenta. Adam’s Rib (La costola di Adamo, 1949) fu la migliore commedia della coppia Hepburn-Tracy, diretta da George Cukor, e Cary Grant fu protagonista di I Was a Male War Bride (Ero uno sposo di

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JOEL W. FINLER

guerra, 1949) e Monkey Business (Il magnifico scherzo, 1952) con Ginger Rogers, entrambi diretti da Howard Hawks. Ma fu il regista e sceneggiatore Billy Wilder ad avere l’ultima parola. Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo, 1959) è probabilmente l’ultima grande commedia brillante, con una straordinaria Marilyn Monroe, girata, com’è naturale, in bianco e nero, e ambientata giustamente nel 1929. (traduzione di Jacopo Crivelli Visconti)

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KING OF COMEDY. TIPOLOGIA E STRUTTURA DELLE COMMEDIE AMERICANE di VITO ZAGARRIO

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Nella sequenza finale di Sullivan’s Travels di Preston Sturges (1941, vale a dire lo stesso anno di Meet John Doe) troviamo una specie di dichiarazione teorica sull’essenza e il valore della commedia. Sullivan è un regista famoso, specializzato in commedie, che arde dal desiderio di cambiare genere. Vuole fare un film che rispecchi i drammi della società, attento alle sofferenze della gente, pieno di contenuti e persino di metafore ideologiche. «Avete visto? – dice commentando una scena di un film – Capite cosa significa? Capitale e lavoro che si annientano a vicenda! È un ammonimento, un appello, un messaggio morale e sociale!» L’episodio di cui si parla è in realtà la prima sequenza del film, una scena di lotta su un treno, più tipica di un film gangster con conclusione nera (due uomini che si uccidono a vicenda), piuttosto che di un film populista. Ma la sua lettura nel senso del «messaggio» politico («capitale e lavoro che si annientano a vicenda») è estremamente interessante. «Io volevo fare per voi un’opera duratura, un’opera da esserne fieri, un’opera che fosse la prova che il cinema è una forza sociale e artistica di prim’ordine... Con un po’ di sesso, ho capito» – dice rivolto all’amico produttore che gesticola. «Un’opera alla Capra?» – gli fa quello. «Che c’è – risponde Sullivan – non vi va Capra?». «Ma che ne sa lui di preoccupazioni?», incalzano gli amici. È per questo che i suoi film sono così leggeri, allegri e spiritosi: perché non ha sofferto. Sullivan è colpito da questa analisi della sua vita e del suo cinema e decide, dunque, di partire per un viaggio in cui sperimentare la sofferenza, il dramma umano. E alla fine di questo percorso iniziatico, che lo porta davvero vicino al dolore, sino a rasentare la morte (con un tipico scambio di persona), si riveste dei propri abiti e, quando potrebbe finalmente fare il colpo della sua vi-

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VITO ZAGARRIO

ta con un film davvero drammatico perché sperimentato in prima persona, una sorta di diario privato sulla povertà e la Depressione – dall’emblematico titolo capriano-francescano: Fratello dove sei? – ecco che rinuncia. «Per Dio, perché non vuoi fare Fratello, dove sei?, Sullivan» – incalzano gli amici produttori. «Ecco – risponde il regista –, primo perché sono troppo felice per fare un film drammatico, secondo perché non ho sofferto abbastanza per affrontare un soggetto simile». Non ha sofferto abbastanza?, si stupiscono gli amici. «No, e vi dirò un’altra cosa; è molto importante far ridere la gente. C’è chi non ha nient’altro, sapete? Non è molto, ma è meglio che niente, in questo pazzo mondo...» E, con una serie di flashback in dissolvenza incrociata, appaiono le immagini che lo spettatore ha visto in precedenza, facce di uomini che ridono, facce serene e felici. Erano galeotti condotti a vedere una scena di Topolino e Pluto, un film di Walt Disney. Proprio quel Walt Disney che Robert Sklar, in Moviemade America1 ritiene il massimo mythmaker americano, insieme a Frank Capra. Quel Mickey Mouse che viene citato non a caso – insieme a Donald Duck – anche da Cary Grant in Bringing Up Baby, nella scena della prigione (e che sarà magistralmente citato molti anni dopo, in drammatica e parodica opposizione, da Stanley Kubrick in Full Metal Jacket). Dunque – è la morale di Sullivan’s Travels –, la commedia serve a far dimenticare alla gente i propri drammi, vista da Sturges come un meccanismo escapista, un conforto immaginario collettivo. Ma per digerire e vomitare i drammi, bisogna anche farli intravedere, per poi superarli. Ed ecco che la commedia americana degli anni Trenta-Quaranta finisce per mettere in scena le crisi, quando non la Crisi con la C maiuscola, la Grande Crisi, la Depressione. Restando a Sullivan’s Travels, l’attraversamento della realtà da parte di Joel McCrea finisce col consegnarci spaccati di società drammatica, come l’assalto al treno da parte dei vagabondi, o il dormitorio dove il protagonista e la ragazza cercano riparo. Sono indizi di una conflittualità sociale che emerge malgrado la commedia, che 1 R. SKLAR, Moviemade America. A Cultural History of American Movies, Random House, New York 1975, trad. it. Cinemamerica. Una storia sociale del cinema americano, Feltrinelli, Milano 1982.

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KING

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sgomita per irrompere anche quando la si vuole esorcizzare. In Frank Capra questi indizi diventeranno dei veri e propri lapsus. Ho già avuto modo di dire più volte, infatti, che le commedie populiste, paternaliste e un po’ qualunquiste di Capra, quelle dove gli angeli mettono le ali, dove ricchi e poveri suonano l’armonica insieme in un abbraccio populista, dove i soldi non li puoi portare con te nella tomba, dove si può diventare Lady anche per un giorno, si devono rileggere in maniera meno superficiale2. Questa messa in discussione della commedia stessa avviene negli inevitabili «sottofinali» dei film, quelli cioè in cui la sceneggiatura prevede una crisi da risolvere poi nello happy ending. In questi segmenti del film, funzionali alla struttura della commedia, irrompono però dei conflitti insanabili se non con un volontaristico, posticcio, finale. Tipico esempio sarà proprio nella commedia ottimista per eccellenza (siamo nell’immediato dopoguerra ma vale lo stesso discorso) It’s a Wonderful Life, nel sogno a occhi aperti di James Stewart. In It Happened One Night (Accadde una notte,1934), prototipo della screwball comedy, il momento della crisi è quando Peter Warne (Clark Gable) torna al motel dove ha lasciato Ellie dormiente, e scopre che si è fatta venire a prendere dal padre. Qui il film leggero e allegro cambia per un momento tono, si fa più scuro, drammatico, il fato e il caso assumono un peso negativo; ed hanno spazio i fantasmi della Depressione: si veda ad esempio un treno che passa, visto da Peter al passaggio a livello, carico di disperati vagabondi (quelli stessi visti dal regista Sullivan nelle sue masochistiche peripezie di viaggio). Ma nel film ci sono altri indizi di un malessere sociale: l’autobus, ad esempio, dove Peter ed Ellie si incontrano, è popolato di figure drammatiche di madri affamate; o al motel, dove i due civettano, quando Ellie tenta di farsi la doccia e Capra la fotografa in esterni, con una luce realista, a fare la fila insieme ad altre donne poco «sofisticate» che la prendono in giro sguaiatamente. 2 Mi permetto di rimandare al mio Frank Capra, Il Castoro Cinema, Milano 1992, e a R. SKLAR, V. ZAGARRIO (a cura di), Frank Capra. Authorship and the Studio System, Temple University Press, Philadelphia 1998.

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La trama, come si sa, è quella di una giovane, ricchissima ereditiera (Claudette Colbert) che scappa dalle grinfie del padre per un capriccio, incontra un giornalista spiantato (Clark Gable) alla stazione del Greyhound, e inizia con lui un viaggio on the road. Egli intravede lo scoop giornalistico (è lo schema semplice che adotterà anche Vacanze romane), lei fa la bisbetica in attesa di essere domata. Ma quando finalmente «le mura di Gerico» potrebbero cadere (le screwball sono piene di pesanti allusioni), ecco la crisi: Gable è andato a New York a vendersi lo scoop dell’ereditiera, e viene punito dal destino che fa allontanare la donna amata. Ellie, risvegliatasi, non trova Peter, crede di essere stata tradita e chiama il padre per farsi venire a prendere. Ma tutto si risolverà con un lieto fine, e con la famosa fuga in punto di nozze, che costituirà un prototipo per tutto il resto del Novecento, da The Graduate che apre la New Hollywood al recente Runaway Bride. Tra parentesi, quest’ultimo film è interpretato da una Julia Roberts diventata protagonista ricorrente di una rediviva – e bisognerebbe chiedersi perché – screwball degli anni Novanta: vedasi il classico esempio di Notting Hill, dove il piccolo libraio si imbatte casualmente, con effetti catastrofici, nella famosa attrice hollywoodiana. Come si vede, si possono rintracciare degli schemi ricorrenti, delle griglie fisse della commedia, su cui converrà riflettere un momento, perché possono aiutarci a capirne anche le contraddizioni. Ricostruisce con chiarezza la struttura narrativa della commedia, sia quella sofisticata che quella screwball, Enrico Giacovelli nel suo La commedia del desiderio3, e a lui rimando. Anch’egli usa, come scheletro narrativo ricorrente, l’esempio tipico di Accadde una notte: lui povero (un giornalista in disgrazia, altro tema tipico degli anni Trenta, vedi la classica analisi di Andrew Bergman)4, lei miliardaria che fugge, mette in scena un primo travestimento (per non essere riconosciuta come figlia di Andrews, mette in gioco dunque uno scambio di maschere sociali); avviene l’incontro casuale (qui sull’autobus, 3 E. GIACOVELLI, La commedia del desiderio. Il linguaggio, i miti, i meccanismi comici, i luoghi comuni, i misteri, i personaggi, la filosofia della commedia sofisticata americana, 1930-1945, Gremese, Roma 1991. 4 A. BERGMAN, We’re in the Money, Harper Colophon Books, New York 1971.

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in Bringing Up Baby al campo di golf), prime schermaglie. Poi agnitio, anzi doppia «agnizione»: fine del travestimento di lei, ma estensione del travestimento a lui, visto che si fingono marito e moglie. Si sviluppa una situazione ambigua (dormono insieme nella camera del motel, divisi da una coperta che costituisce le «mura di Gerico»), nuove schermaglie ormai più intime (c’è la situazione ricorrente del bacio sfiorato: anche in Susanna e in La vita è meravigliosa); avviene la dichiarazione d’amore e subito dopo esplode la crisi. Arriva il «Deus ex machina» (il padre di lei, che non a caso l’ha cercata dal cielo, in aereo), poi la situazione precipita (lei sta per sposarsi con un altro): fuga, ricongiungimento e nuovo matrimonio: la situazione che Stanley Cavell prende a pretesto per chiamare questo tipo di commedia «la commedia del ri-matrimonio»5. Questa struttura non è affatto nuova, notano Giacovelli, Campari, e altri6. Viene dalla «Commedia Attica Nuova», che prevede un lui di classe sociale alta, una lei di classe inferiore, l’incontro, l’amore contrastato e socialmente impossibile, l’intrigo del coro (di solito i servi con un capocoro che interferisce con la storia), la nascita degli equivoci, gli scambi di persona, i travestimenti, il sovvertimento momentaneo dell’ordine sociale; poi il colpo di scena, la ricomposizione dell’ordine e il lieto fine col matrimonio. Lealand Poague7, studioso di Capra, insiste – anche troppo – nel collegare questo tipo di film a una ancestrale tradizione comica. Cita Francis Cornford, The Origins of Attic Comedy, e Northrop Frye, Anatomy of Criticism. Secondo Cornford, i codici della commedia sono connessi ai rituali della fertilità, come vuole la Poetica di Aristotele, al matrimonio simbolico tra cielo e terra, tra vecchio e nuovo anno, tra morte e resurrezione, tra giovane e vecchio re, tra estate e inverno. Sei gli elementi strutturali presi in prestito da Aristofane: 1) il prologo, 2) il parados (ingresso del coro), 3) l’agon (il conflitto tra eroe e anta5 Cfr. S. CAVELL, Pursuit of Happiness: The Hollywood Comedy of Remarriage, Boston, Harvard University Press, 1981, trad. it. Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino 1999. 6 Vedi R. CAMPARI, Il discorso amoroso. Melodramma e commedia nella Hollywood degli anni d’oro, Bulzoni, Roma 1990. 7 L. POAGUE, The Cinema of Frank Capra. An Approach to Film Comedy, Tantivy Press, London 1975.

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gonista), 4) la parabasis (il capocoro che si indirizza al pubblico, l’interludio), 5) gli episodi del sacrificio e della festa, 6) il komos, col matrimonio e il lieto fine. Dietro i film di Capra, come nota Raymond Carney in American Vision8, c’è l’eterno mito di Cenerentola. E infatti gli eroi di Capra si possono leggere come infinite variazioni della fiaba principe, Cinderella men e women (a partire da un vecchio e sconosciuto ai più That Certain Thing, sino a Platinum Blonde, da Mr Deeds a Mr Smith a John Doe – ma qui con l’evidenza di una grave crisi). A proposito del mito di Cenerentola in relazione alla screwball comedy, Jean Loup Bourget9 ne dà un ampio ventaglio di esempi nella sua storia del cinema americano: She married her Boss, 1935, di LaCava, Hands Across the Table, 1935, di Leisen, Easy Living, 1937, ancora di Leisen, Fifht Girl Avenue, 1939, di LaCava, Bachelor Mother, 1939, di Garson Kanin, sono tutti film con protagonisti un lui milionario e una lei povera. Viceversa, invece, troviamo il personaggio di lui spiantato giornalista nel già citato Accadde una notte, o operaio in Next Time I marry, 1938, di Kanin, ecc. A integrare una ricostruzione delle origini e delle strutture narrative della commedia americana, c’è poi la tradizione e la lezione dell’opera buffa: pensiamo a La folle journée, sottotitolo della commedia di Beaumarchais da cui Da Ponte trae un celebre libretto, Così fan tutte, Don Giovanni con i suoi travestimenti («voglio fare il gentiluomo», esordisce nella prima scena Leporello), il teatro musicale, la commedia a intreccio dell’ottocento, l’operetta, ecc. Variegate e lontane, insomma, sono le origini della commedia cinematografica. Anche qui c’è sempre un momento di crisi, «una corda tesa fino all’inverosimile» – concorda Giacovelli, che scrive: «in molti casi, dunque, il momento di crisi è signore incontrastato del film, ben più efficace e credibile della successiva risoluzione. Esso è infatti la conseguenza logica, razionale, geometrica, delle precedenti vicende della commedia»10. La risoluzione può sembrare invece una postilla fal8 R. CARNEY, American Vision. The Films of Frank Capra, Cambridge University Press, Cambridge, New York, London 1986. 9 J.L. BOURGET, Il cinema americano. Da David W. Griffith a Francis F. Coppola, Dedalo, Bari 1983. 10 E. GIACOVELLI, Op. cit., pp. 62-63.

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sa, quella che io chiamo, per Capra, l’unhappyending. «Sicché certi finali di commedia fanno un po’ la stessa figura del sestetto, scherzoso ma senza troppa convinzione, che chiude il Don Giovanni». Lo schema, del resto, non è tipico solo della commedia: Bob McKee, teorico della sceneggiatura, suggerisce un grafico esperienziale che rappresenta il coinvolgimento emotivo ideale del pubblico durante la visione del film e dunque impone i ritmi dello script; una divisione in tre atti, con un primo atto (corrispondente alle pagine 1-30 circa della sceneggiatura) costituito da un punto iniziale, un avvenimento determinante, una prima crisi; un secondo atto più ampio con lo sviluppo dell’intreccio (pagine 30-90), che arriva al capovolgimento della situazione, un terzo atto (pagine 90-110), con il climax e la risoluzione. In Accadde una notte lo schema è facilmente verificabile (il prologo sullo yacht, il viaggio, lo sviluppo sino al motel, la crisi, il finale); uno schema che vale per qualsiasi altro genere, ma a maggior ragione per le screwball e le sophisticated comedies. Quando non c’è una crisi vera e propria, ci sono delle «catastrofi» piccole e grandi (tutto il cinema di Capra si può leggere come catastrofico, da Miracle Woman a Rain or Shine, da The Matinee Idol a It’s a Wonderful Life) e, insieme, altri indizi di malessere mascherati da elementi comici. Si prenda Susanna (Bringing Up Baby) di Hawks, che procede più linearmente di Accadde una notte, non ha un vero momento di climax drammatico, ma vive di piccole gag (da slapstick comedy) sempre più catastrofiche, sino alla vera «catastrofe» finale col crollo del brontosauro, che fa cadere il simbolico castello di carte (un altro «muro di Gerico»), la rigida struttura mentale dell’accademico, il vetusto impianto dello stile di vita e dei sentimenti: lo scambio delle macchine (ripetuto) con i primi ammaccamenti – e ammiccamenti –, la prima scivolata, lo stropicciamento del cappello, lo strappo del vestito; l’incidente in macchina col leopardo «Baby» che mangia due cigni. E poi le pedate, le cadute reiterate, la fuga del leopardo feroce (sosia dell’altro più mansueto – anche qui uno scambio significativo), l’arresto per «voyerismo» l’uno, per pazzia l’altra, ecc. La pazzia, ecco un tema latente e poco rassicurante, dietro l’apparente superficie di serenità e risoluzioni. «Sono tutti matti» – dice lo psichiatra che arresta Susan; uno «strizzacervelli» che è stato «con-

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sultato», del resto, già a inizio film. Susan fa capire alla zia che David è fuori di testa (a causa di un assalto di una tigre in Malesia). «Perché sono matto», aveva detto del resto David alla zia un momento prima. Theodora goes wild, «diventa matta», recita d’altronde il titolo del film di Boleslawski). Se non sono pazzi, i personaggi sono bugiardi: «They are all liers», dice lo sceriffo. Katherine Hepburn è davvero screwball come la palla da baseball lanciata dai fratelli Dizzy e Duffy Dean dei St. Louis Cardinals che, secondo la leggenda, ha dato il nome a questa particolare commedia americana. Ma a proposito, nasce prima il termine del baseball o quello dello slang popolare? Secondo Wes Gehring11, nasce prima l’espressione popolare alla fine del secolo: screw loose, matto, e screwy, ubriaco; senz’altro, però, il termine cinematografico e quello sportivo sono contemporanei. Tornando a Bringing Up Baby, Susan sbatte dunque dappertutto, zoppica come una pazza, schizza da tutte le parti come la palla del baseball, inciampa, strappa e si strappa, finge di fare la dura. «È un linguaggio che ha imparato al cinema!» – commenta David metalinguisticamente. Fingono tutti, tutti si scambiano le parti. È una costante della commedia, da Plauto in poi, che nella screwball assume costanti sociali: Lady for a Day, My Man Godfrey, Sullivan’s Travel, Theodora Goes Wild, ecc. sono tutte storie in cui uno finge di essere qualcun altro, la barbona una lady, il maggiordomo e il regista due barboni, la scrittrice anonima una zelante puritana. C’è dunque un processo di déguisement: Susan nasconde i vestiti a David, che si veste da donna, poi con una mise da caccia alla volpe. David scambia il suo nome con l’oggetto che gli sta a cuore, un osso di dinosauro, e diventa «Mr. Bone». Si scambiano i due leopardi, e alla fine gli umani entrano in gabbia e il leopardo resta fuori, quasi a dire che le vere bestie sono gli umani. La trama, come si sa, è quella di un esperto di dinosauri che cerca di ottenere un milione di dollari per il suo museo, e sta per sposarsi domani. Incontra casualmente la nipote, guarda caso, della vecchia signora che deve fare la donazione. Si susseguono gag, equivoci, un colpo di fulmine da parte di lei che comincia a inseguirlo a tutti i costi. La trama si complica per l’ingresso nella storia di Baby, 11

W. GEHRING, Screwball Comedy. A Genre of Madcap Romance

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un leopardo addomesticato che causerà varie complicazioni, dopo le quali il protagonista si scoprirà diverso e ammetterà di aver trascorso le ore più belle della sua vita. Perché la screwball si svolge spesso nel lasso di pochi giorni, se non di poche ore. Anche in Susanna la struttura di McKee funziona a meraviglia: prologo al museo, primo atto di conflitti e di viaggio; secondo atto a casa della zia; terzo atto in prigione; postilla al museo con la risoluzione rapidissima: rottura in una frase della vecchia storia d’amore («ho capito che sei un farfallone...»), crollo del dinosauro e abbraccio (non bacio, attenzione!, perché la screwball è casta) finale. Questo tipo di struttura, del resto, non è tipica solo della commedia americana. Se si prende, ad esempio, la commedia italiana degli anni Trenta, troviamo situazioni analoghe e strutture narrative corrispondenti. Penso alle commedie di Mario Camerini (Il signor Max su tutte), o di Mario Soldati (lo splendido e metalinguistico Dora Nelson) che seguono lo schema del «Doppio», dell’«Altro», del travestimento, dello scambio di persona, dell’equivoco motore della storia, spesso fondato sulla differenza di ceto e di classe: il giornalaio De Sica costretto a fingersi aristocratico e precipitato in una catastrofica crociera per inseguire la donna corteggiata, la piccola impiegata trovatasi a sostituire la grande diva capricciosa, ecc. C’è anche un gioiellino sconosciuto di un regista che non ti aspetteresti essere capace di confezionare tale tipo di commedia, Alessandro Blasetti, il «regista con gli stivali», il fiancheggiatore del Regime, il fondatore del Realismo italiano. Contessa di Parma (Blasetti, 1937) è un piccolo capolavoro di screwball comedy che non sfigura affatto rispetto ai suoi omologhi americani. Un film dalle collaborazioni artistiche eccellenti (sceneggiatura di Aldo De Benedetti, fotografia di Ubaldo Arata, aiuto regia di Mario Soldati), che sin dai titoli di testa invita lo spettatore a entrare in un universo fittizio e formalista: i titoli appaiono in forma di insegne al neon in cima ad edifici disegnati come bozzetti d’architetto e concepiti con una modalità mista tra futurismo e razionalismo. L’intreccio è quello classico dello scambio d’abiti (da Plauto alla commedia dell’arte al Don Giovanni di Mozart) e di ruoli sociali: una piccola mannequin, Elisa Cegani – Marcella –, una «modista» (vista però come ragazza della porta accanto, giovane qualunque, lontana

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dai modi della rappresentazione «fatale» della modella contemporanea) si trova a indossare un abito alla moda («Contessa di Parma», appunto, da cui il titolo) e viene scambiata, all’ippodromo, per una vera aristocratica. Vittima dell’equivoco è Antonio Centa, nella parte di un campione di calcio – Gino Viani –, che comincia a inseguire la ragazza per restituirle duemila lire vinte alle corse. E questa emblematica somma di denaro diventa il filo rosso del plot, l’oggetto-feticcio (in un film tutto basato sul «feticismo delle merci») attorno a cui si dipana la matassa narrativa: le «duemila lire» cambiano di mano in mano, dal protagonista a un creditore, poi dalla zia falsamente antipatica di nuovo a Gino, da Gino a Marcella che si passano la palla fingendo disinteresse al denaro, e così via. Ci troviamo davanti, dunque, a un modello classico di commedia degli equivoci con una forte componente di riflessione sulle classi, e con la tendenza paternalista e demagogica al matrimonio tra i ceti. Matrimonio simbolico, come nei meccanismi della commedia hollywoodiana messa in luce da Stanley Cavell, che viene messo in scena materialmente nell’inevitabile happy ending. In questo caso, Blasetti e De Benedetti inventano una variante ironica ma anche piena di possibili letture simboliche: Gino, che ha raggiunto Marcella a una sfilata di moda al Sestriere, la trova vestita da sposa. È in realtà un modello firmato, ma l’equivoco è facile, e lui d’altronde ha finto di essere fidanzato con un’altra. Facile arrivare alla conclusione: i due protagonisti si abbracciano, mentre una pedana semovente li porta in mezzo al pubblico. I due eroi vengono sorpresi nel bel mezzo delle loro effusioni, ed allora il finto abito da sposa diventa vero, il pubblico della sfilata sembra quello di una chiesa e i due «sposi» escono tra due ali di folla plaudente. Al film ha dedicato acute osservazioni il compianto Maurizio Grande, che lo ritiene esemplare «per come sa tratteggiare l’intraprendenza di un ceto emergente fabbricatore di nuovi sogni, e soprattutto per come sa porre l’accento sulle possibilità di mercato di questi nuovi sogni (la sfilata finale delle modelle in abito da sposa che reclamizzano l’accordo fra “abiti nuziali e biglietti di banca” è la sigla di un nuovo mondo che può esistere solo se adeguatamente pubblicizzato, solo per forza di rappresentazione mitologica)»12. 12

M. GRANDE, Il cinema di Saturno, Bulzoni, Roma 1992, p. 22.

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Blasetti, secondo Grande, dirige una commedia «stilisticamente sordida», dove dietro la commedia degli equivoci e dei travestimenti, ci sono sorrisi ammalati e abbracci traditori; la commedia dei malintesi e degli intrighi innocenti è soltanto la superficie esteriore e nasconde, invece, un dramma interiorizzato. Ogni volta che i due protagonisti tentano di liberarsi delle loro maschere, intervengono «quelle fatali duemila lire» a ristabilire i confini di classe tra due mondi impenetrabili. «La paura di rivelarsi, di far conoscere all’altro l’identità e la posizione nel mondo reale prende a poco a poco l’aspetto di uno scontro frontale che è, al tempo stesso, psicologico e di classe. [...] Non è in gioco soltanto la maschera che cela la vera identità, bensì il rapporto fra mascheramento e denaro, fra identità “usurpata” e potenza economica»13. Il film fa dunque parte, secondo Grande, di una serie di commedie degli anni Trenta (come anche Darò un milione e Il signor Max), in cui i personaggi non si trasformano, ma si truccano, simulano un’altra identità, e in cui l’intento è la «retrocessione al mondo originario» dopo un illusorio moto verso il cambiamento e verso l’Altro. «La sostituzione di persona, il trucco, il travestimento, l’inganno e la truffa si rivelano meccanismi difettosi di disidentificazione, alternativa illusoria, simulazione di un’identità che, alla lettera, non è “indossabile”»14. Contessa di Parma è certo uno dei film di Blasetti da rileggere con occhi nuovi. Non solo perché è una forte risposta dell’industria italiana ai modelli di screwball e di sophisticated statunitensi, ma anche perché è un indizio importante di un desiderio di «modernità»15 che pervade l’Italia alla metà degli anni Trenta 16. Questa «modernità» italiana è il filo conduttore del recente volume di Ruth Ben Ghiat sulla cultura fascista17. La studiosa americana dedica un intero capitolo alle «Visioni della modernità», i cui capisaldi sarebbero Blasetti, appunto, Camerini e Matarazzo. Il cinema Ivi, p. 23. Ivi, p. 17. Sulla nozione di «modernità» rimando a G. DE VINCENTI, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma 1993. 16 Sulla commedia italiana degli anni Trenta, vedi M. ARGENTIERI, Risate di regime, Marsilio, Venezia 1991. 17 Cfr. R.B. GHIAT, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2000. 13 14 15

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in generale – è la tesi centrale del volume –, attrae negli anni Trenta molti esponenti del mondo giornalistico e letterario che cercano altri mezzi «per articolare le immagini e i comportamenti destinati a contrassegnare i modelli nazionali di modernità», e diventa dunque un punto di confluenza per le nuove energie creative della società italiana. Al centro del dibattito su questa presunta «modernità fascista», dunque, c’è «la volontà di realizzare una trasformazione dei costumi e del gusto sia nella sfera pubblica sia in quella privata». Da qui l’idea della Ben Ghiat, di una «bonifica» suggerita dal regime, sia in termini materiali che in termini metaforici, nel senso di «conquistare le anime» insieme con la terra, modificando radicalmente «i comportamenti, i pregiudizi e le preferenze degli italiani». Modificando, insomma, l’immaginario collettivo del nostro Paese18. Si tratta di una modernità in parte realizzata, in parte desiderata, in parte proiettata attraverso modelli e codici immaginari; rappresentata attraverso ambiti mitopoietici, come il mondo della moda, o il calcio (di cui sono protagonisti i due eroi), luoghi simbolici dell’Immaginario di una società in espansione. Accanto a calcio e moda, troviamo le corse dei cavalli prese in prestito da Hollywood (penso su tutti a Broadway Bill di Capra), i Grand Hotels, i telefoni, ecc., tutti emblemi di una società di massa in forte trasformazione, sospesa tra Crisi e Progresso, tra Depressione e Trasformazione. Non è un caso che Grande citi, a proposito di questo gruppo di film (e in particolare per I nostri sogni di Vittorio Cottafavi), la «commedia fantastica» e le «fiabe gnomiche», Frank Capra19. E con Capra torniamo, dunque, alla commedia americana più canonica. Le cui varianti, come si vede, sono tante, anche nelle mutue influenze con altre cinematografie e altre industrie nazionali. Ivi, pp. 121, 134. M. GRANDE, Op. cit., pp. 24, 26. Ho già avuto modo di notare, in un mio precedente saggio, come Blasetti attinga intelligentemente ai repertori di altre industrie cinematografiche, e come, al tempo stesso, ci siano dinamiche parallele in cinematografie diverse come quella italiana e americana (ma anche nella sovietica). Ho sostenuto, ad esempio, che Terra madre (che apre il decennio) permette un’analisi comparata dell’immaginario antiurbano, «ruralista», in Italia e negli Stati Uniti nella prima metà degli anni Trenta. Cfr. V. ZAGARRIO, L’ideologia «altrove». Esempio di indagine storica su due film del fascismo, in «La scena e lo schermo», n. 1-2, 1988-89. 18 19

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Non è questa l’occasione per fare una mappatura completa delle tipologie di commedie americane, che sono tante e variegate nelle loro infinite sfumature. Rimando in questo senso al già citato Giacovelli, che disegna una chiara mappa delle commistioni tra commedia e altri generi, e delle interferenze tra sfumature diverse del megagenere «commedia romantica»: western (La signorina e il cowboy di William Seiter), film di guerra (Vogliamo vivere di Lubitsch), film d’avventura (Il diavolo è femmina di Cukor), film comico puro (Partita a quattro di Lubitsch), musical (Ventesimo secolo), film fantastico e di fantascienza (Accadde domani di Clair), horror (Arsenico e vecchi merletti di Capra), dramma (La follia della metropoli), melodramma (A che prezzo Hollywood? di Cukor), film sociale (Mr. Smith va a Washington), poliziesco (L’uomo ombra di Van Dyke), gangster (Tutta la città ne parla di Ford). Film di modalità diverse, tutti esempi di mescolamenti di toni e di contiguità di generi, dal punto di vista della commedia, che a volte cambia decisamente registro, nonostante il lieto fine, e vira decisamente verso il dramma individuale e sociale: vedi American Madness, appunto (in italiano Follia della metropoli), ancora una «pazzia», stavolta collettiva. E poi c’è un progressivo sfumare tra sottogeneri diversi attratti da due poli, la regular comedy e la screwball: commedia sentimentale pura, commedia da camera, commedia sociale, commedia psicologica, commedia brillante, commedia fantastica, commedia di esterni e di disavventure, sino ad arrivare alla screwball. Come si vede, sono infiniti i toni, i distinguo e le nuances, e al tempo stesso gli overlapping e i mixages, di un genere che è estremamente complesso e pesca in radici antiche. Non a caso, negli anni Novanta sono fiorite anche infinite sfumature di analisi del genere commedia. Un’esplosione di studi e di pubblicazioni, che avviene dopo un lungo periodo di colpevole assenza, come denunciava ad esempio Brian Henderson a proposito della romantic comedy: «È culturalmente scandaloso – scriveva in Film Quarterly nel 1978 – che non ci sia mai stata una teoria della commedia»20. 20 C. SALIZZATO, V. ZAGARRIO (a cura di), Effetto Commedia, Di Giacomo, Roma 1985, p. 51.

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VITO ZAGARRIO

Dopo una fase in cui il libro di riferimento era forse solo un capitolo di Hollywood Genres di Thomas Schatz (da citare però anche un vecchio libro di Ted Sennett del 1973)21, si sono moltiplicati i contributi, dal punto di vista del modo di produzione, del genere, del gender, delle strutture narrative, della Storia22. C’è da registrare, dunque, una ricerca di significati profondi della commedia e del senso stesso si fare commedia. Pursuit of Comedy, viene da dire parafrasando il libro di Cavell. Alla ricerca, e anche nel desiderio della commedia. Un desiderio e una ricerca ossessivi, che sono nei nostri geni, che sono connaturati alla indole umana e che, a volte, come abbiamo visto, compensano – lasciandone intravedere però larghi squarci – una disperazione e un male di vivere difficilmente conciliabili con un facile sorriso. 21 Cfr. T. SCHATZ, Hollywood Genres. Formulas, Filmmaking, and the Studio System, Random House, New York 1981; T. SENNETT, Lunatic and Lovers. A Tribute to the Giddy and Glittering Era of the Screen’s «Screwball» and Romantic Comedy, Arlington House, New Rochelle, N.Y. 1973 22 W. GEHRING (a cura di), Handbook of American Film Genres, Greenwood Press, New York 1988; B.K. GRANT (a cura di), Film Genre Reader, University of Texas Press, Austin 1986, con un saggio di Brian Henderson su Romantic Comedy Today. Semi-Tough or Impossible?. Si vedano anche le osservazioni di R. ALTMAN in Film/Genre, British Film Institute, London 1999. Dal punto di vista di una teoria del gender, vedi Romantic Comedy and the Unruly Virgin in Classical Hollywood Cinema, in K. ROWE, The Unruly Woman Gender and the Genres of Laughter, University of Texas Press, Austin 1995 (con una interessante analisi del film She Done Him Wrong di Lowell Sherman, 1933, con Mae West e Cary Grant). Interessante anche Classical Hollywood Comedy, a cura di K.B. KARNICK e H. JENKINS, Routledge, NewYork, London 1995; qui saggi interessanti della stessa K. ROWE, Comedy, Melodrama and Gender. Theorizing the Genres of Laughter, p. 39, e di K.B. KARNICK, Commitment and Reaffirmation in Hollywood Romantica Comedy, p. 123. Nella prospettiva della storia vedi J. BELTON, American Cinema/American Culture, McGraw-Hill, New York 1994 (in particolare capitolo 7, American Comedy, p. 1359). Sulle strutture narrative utile soprattutto S. NEALE e F. KRUTNIK, Popular Film and Television Comedy, Routledge, London/NewYork 1990. Poi, in AA.VV. (sotto la direzione di R. BELLOUR), Le cinéma americain. Analyses des films, vedi M. TURIM, in Les hommes consomment les blondes, analisi di Gentlemen Prefer Blondes di Howard Hawks. In J. NACACHE, Il cinema classico hollywoodiano, Le Mani, Genova 1996 vedi soprattutto i capitoli L’effetto comico. Aspetti della gag, p. 34 e L’happy end. E vissero felici e contenti, p. 131. Sul cinema americano del periodo vedi anche AA.VV. (diretto da A. MASSON) Hollywood 1927-1941. La propagande par les rêves ou le triomphe du modèle américain, edizioni di Autrement, Paris 1991. Sulla screwball vedi anche E. BRUNO, Pranzo alle otto. Forme e figure della screwball comedy, Il Saggiatore, Milano, 1994; G. WEALES, Canned Films as Caviar. American Comedy of the ’30s, University of Chicago Press, Chicago 1988. R. DURGNAT, Crazy Mirror. Hollywood Comedy and the American Image, Faber & Faber, London 1969.

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LO SPECCHIO (ROTTO) DEI TEMPI di FRANCO L A POLLA

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Un titolo strano, si dirà, e tuttavia una variazione su un altro ben noto: quello di Raymond Durgnat, The Crazy Mirror, che vide la luce più di 30 anni fa1. 1 Lo studio di R. Durgnat si intitola The Crazy Mirror. Hollywood Comedy and the American Image, Faber & Faber, London 1969, ed ivi è espressa l’idea di un non casuale riscontro tra la forte mobilità delle trame comiche e la mobilità sociale tipica della Depressione, mentre l’elegante libro di E. Sikov, nel quale figura anche la più sotto citata introduzione di M. Haskell, risponde al titolo di Screwball. Hollywood’s Madcap Romantic Comedies, Crown, New York 1989; la distanziazione nei resoconti sul New Deal è stata notata da A. Faeti nel suo ricco saggio In trappola col topo. Una lettura di Mickey Mouse, Einaudi, Torino 1986, mentre l’interessantissima idea che il cinema abbia fornito un modello di riorganizzazione e di controllo dei processi mentali anche all’ambito sociale informando di sé persino la costruzione retorica della politica interventista di Woodrow Wilson (o che comunque si possa riscontrare un’analogia in questo senso) è in M. O’MALLEY, Keeping Watch. A History of American Time, Penguin Books, New York-London 1991; le notazioni sul numero decrescente dei matrimoni fra il 1929 e il 1932, nonché il ritratto della ragazza media americana riportato più avanti, sono in F.L. ALLEN, Since Yesterday. The Nineteen-Thirties in America: Sept. 3, 1929 Sept. 3, 1939, Bantam, New York 1965; i paradigmi tematici del cinema hollywoodiano e il discorso sulle «scelte evitate» sono in R.B. RAY, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, Princeton UP, Princeton,1985; il notissimo studio di S. Cavell si intitola Pursuits of Happiness. The Hollywood Comedy of Remarriage, Harvard UP, Cambridge-London 1981 (la sua traduzione in italiano è comparsa presso Einaudi, Torino 1999), mentre la notazione di E. Kendall sulla noia ispirata dai mariti americani è nel suo The Runaway Bride. Hollywood Romantic Comedy of the 1930s, Knopf, New York 1990; l’accenno alla flapper degli anni Venti e alla sua entrata nel decennio seguente, nonché l’appunto sulla nuova morale matrimoniale del «divertimento», sono nel saggio di T. OLSIN LENT, Romantic Love and Friendship. The Redefinition of Gender Relations in Screwball Comedy, in Classical Hollywood Comedy, a cura di K.B. Karnick e H. Jenkins, Routledge, New York-London 1995; sull’ideologia sostanzialmente conservatrice della coppia e del matrimonio espressa nella commedia americana classica e sul lieto fine estraneo alla risoluzione dei problemi di coppia posti dal film si è intrattenuto T. SCHATZ, Hollywood Genres. Formulas, Film Making and the Studio System, Temple UP, Philadelphia 1981; l’affermazione sul supposto antifemminismo che caratterizzerebbe il periodo della Depressione è in M. ROSEN, Popcorn Venus, Avon, New York 1974.

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FRANCO L A POLLA

Solo che lo specchio, in un’arte che non sia programmaticamente realista (e molto spesso persino quando essa lo è), non è mai un doppio, ma piuttosto una variazione sull’originale che, se riuscita, riconduce ad esso chiarendone linee e contorni che senza quel riflesso quasi certamente avremmo perduto. La commedia brillante americana – e suppongo con questo termine si debba intendere un tipo di commedia che esclude, che so?, i grandi e meno grandi comici del muto (cioè a dire la slapstick), ma anche parecchi altri loro eredi a venire nell’epoca del sonoro, da Danny Kaye a Jerry Lewis – ha una vita che non giunge al ventennio. Commedie se ne facevano prima (si pensi a Clara Bow) e se ne fecero dopo (si pensi a Doris Day), e non si può negare loro una qualche «brillantezza». Ma tale brillantezza solo nel periodo classico fu il risultato di una congerie di componenti le più disparate: l’ambiente, il linguaggio verbale, il tema sessuale e le sue maschere imposte dal codice di censura, il ritmo del montaggio e non ultima la selezione attoriale intesa come casting da un lato e abilità personali dall’altro. Per non dire, nella screwball, del più radicale abbandono della logica nell’impiego del principio di causa ed effetto (una pratica nella quale Howard Hawks sovrasta chiunque). Nonostante (o forse proprio perché) all’inizio la battaglia dei sessi nella commedia si presentasse spesso, in certa misura, anche come conflitto di classe, forse mai come negli anni della Depressione Hollywood mise in scena ambienti lussuosi e personaggi senza problemi di danaro. Oppure sarebbe meglio dire: personaggi senza problemi di danaro i quali a volte ne incontrano altri che invece ne hanno e che con essi scambiano favori, poiché ciascuno dà quello che ha, il denaro da un lato, il buon senso concreto dall’altro: da My Man Godfrey (L’impareggiabile Godfrey, 1936) di Gregory LaCava ai più tardi – cioè praticamente post-New Deal – Fifth Avenue Girl (La ragazza della Quinta Strada, 1939) ancora di LaCava e il sublime Midnight (La signora di mezzanotte, 1939) di Mitchell Leisen gli schermi della commedia americana identificano regolarmente il denaro con l’insipienza, la debolezza morale, il disordine, l’impotenza, il disgregamento, mentre celebrano la pragmaticità, l’intelligenza, l’audacia, la sicurezza, il carattere di chi denaro non ne ha e, probabilmente proprio per questo, ha imparato a vivere navigando con perizia tra

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LO SPECCHIO (ROTTO) DEI TEMPI

i flutti tempestosi originati dalla Grande Crisi. Solo che per poter ottenere questo trionfo è necessario avere la fortuna di un’opportunità (cioè l’incontro, di norma fortuito, col riccone di turno). E l’ideologia del Sogno Americano rientra in scena in forma di chance. Il caso è infatti uno dei grandi protagonisti degli imminenti anni Quaranta, come sostenevo una dozzina di anni fa in uno studio sul cinema hollywoodiano. Ed anzi, se per qualche ragione non si era in grado di esemplificarlo plausibilmente, si era pronti a crearlo artificialmente con invenzioni di sceneggiatura meccaniche e forzose, come nel pur divertente I Love You Again (Ti amo ancora, 1940) di W. S. Van Dyke. Felicemente esaurita la spinta finalistica del New Deal allo scadere degli anni Trenta, quel che si preparava per la nazione era l’incertezza dell’orizzonte internazionale e, una volta entrati in guerra, quella delle sue sorti. Persino la commedia dovette subire uno strano twist intrecciandosi, come in Once Upon a Honeymoon (Fuggiamo insieme, 1942) di Leo McCarey, con elementi tradizionalmente estranei al suo canone. E solo il superamento storico di quell’esperienza rese possibile un ritorno alla comicità. Una comicità, peraltro, che tuttavia non poté non risentire della cesura bellica, dei suoi orrori, delle sue tristezze. La commedia brillante era finita. Un film come I Was a Male War Bride (Io ero uno sposo di guerra, 1949) di Howard Hawks è certamente comico e divertente, eppure gioca su versanti troppo inquietanti, su paradossi troppo forti e insistiti e soprattutto su situazioni ed ambienti troppo seri per poter essere definito brillante. Allo stesso modo, un capolavoro di straordinaria invenzione comica come A Foreing Affair (Scandalo internazionale, 1948) di Billy Wilder, vive in un’area troppo dolente e dispiega un cinismo troppo sfacciato per potersi fregiare di quell’etichetta. Ma sarebbe errato limitarsi all’esperienza bellica. La fine della commedia brillante, certamente connessa al conflitto mondiale, trova le sue ragioni nell’atmosfera generale che ha preparato lo scontro. Per buona parte degli anni Trenta Preston Sturges aveva sceneggiato commedie di ben altro tenore rispetto a quelle canoniche e a partire dal 1940 sarebbe passato alla regia dirigendo pellicole ormai storiche, rappresentative di un diverso corso del genere. Chiedo scusa di questo insoddisfacente excursus storico, ma è importante limitare il campo non solo cronologicamente ma anche

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storicamente e culturalmente. Solo così sarà possibile sbarazzarsi di sospetti e dubbi che, quale che sia il discorso sul tappeto, potrebbero portare a obiezioni (e a conseguenti esemplificazioni) rilevanti. In che modo dunque la commedia brillante riflette l’immagine della nazione che l’ha prodotta nel momento in cui l’ha prodotta? Ed Sikov in un suo studio sulla screwball, che incomincia stupendamente ma che dopo le prime pagine finisce per essere unicamente un’antologia sistematica, identifica il canale di connessione culturale nell’ufficio di Joseph Breen da una parte e dall’altra nella sfida che conseguentemente la commedia (e il cinema hollywoodiano nel suo insieme) si trovò a dover raccogliere confezionando gioielli di allusività e di metaforicità. Questo è certamente vero. Così com’è vero che nella commedia degli anni Trenta quella che chiamerò la qualità ordinaria della ricchezza (cioè a dire il dato scontato che l’America della commedia cinematografica era fatta di ambienti e personaggi senza problemi di denaro in modo tale che coloro che invece ne avevano, all’interno di quell’universo, apparivano come una sorta di eccezione) può certamente essere letta come l’eufemistica risposta dell’immaginario a una realtà ben diversa. Questo vale naturalmente per tutte le forme di spettacolo dell’epoca, anche se è bene ricordare che negli stessi anni Trenta il musical di Broadway (per non dire poi del teatro drammatico) si compromise altrimenti, ancorché occasionalmente, col tema della Depressione e della politica: George S. Kaufman e Morrie Ryskind scrivevano, su musica di George Gershwin, Of Thee I Sing (1931) e Let ’Em Eat Cake (1933), e in On Your Toes (1936) di Richard Rodgers e Lorenz Hart un balletto come il celebre Slaughter on Tenth Avenue può persino essere letto come un vago antesignano delle preoccupazioni sociali del cinquantesco West Side Story. Tuttavia le puntate in direzione dell’America «depressa» che ritroviamo in It Happened One Night (Accadde una notte, 1934) di Frank Capra o nel citato My Man Godfrey non sono certo la regola nella produzione comica di quegli anni se si eccettua, ovviamente, l’orientamento dichiaratamente «sociale» della Warner che informò di sé persino un genere ontologicamente alquanto lontano da certe tematiche come il musical.

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LO SPECCHIO (ROTTO) DEI TEMPI

E incominciamo dal ritmo, probabilmente la caratteristica più giustamente celebrata della commedia del tempo. Notava molto bene Antonio Faeti che le testimonianze sul New Deal «mostrano come un bisogno di raccontare in modo colorito e saporoso quel periodo, quasi per distanziarlo, anche così, dagli anni bui e scuri e anonimamente disperati, che lo avevano preceduto». Ma che succedeva durante il New Deal? Ovviamente la stampa non lesinò, e comprensibilmente, visioni drammatiche della situazione. Ma nell’ambito dell’Immaginario le cose andarono diversamente. Il punto non è tanto quello agitato da una lettura volgare della commedia dell’epoca, secondo cui questa sarebbe semplicemente una proiezione ideale – appunto nello spazio dell’immaginario – esemplificativa di un mondo lontano da quello della Depressione; lettura che trova una sua mitologia in racconti come quello del diseredato che vende il proprio buono-pasto per potersi comprare un biglietto del cinema. No, la questione è molto più seria. Come ha ben dimostrato Michael O’Malley nel suo seminale studio Keeping Watch, nei primissimi decenni del secolo «movies offered a way to reorganize mental processes on a model of efficiency and control over time, a model of continuity and unity streamlined out of fragments». E O’Malley arriva persino a leggere la costruzione retorica della politica interventista di Woodrow Wilson come analoga al processo di costruzione della narrativa cinematografica. Ora, se questa sorta di equazione poteva avere un senso e un valore nell’universo ordinato (ancorché travagliato) degli Stati Uniti fino alla Grande Crisi, di certo le cose cambiarono con il crack di Wall Street: efficienza e controllo erano diventati un ricordo, così come il loro prerequisito, l’organizzazione del tempo della quale il cinema, e specificamente l’armonico e organico editing griffithiano, aveva fornito un modello tanto ammirevole. Non è un caso, intendo dire, che proprio con la Depressione nasca la screwball, ovvero un genere di commedia che si affida largamente a un montaggio di standard molto più rapido di quello che convogliava la sintassi griffithiana. Lungi tuttavia dall’essere epitome di un disordine, esso, al contrario, esibiva un ritmo del tutto estraneo alla realtà, confezionando perfettamente un mondo tanto sbalorditivo quanto inesistente. In quel tipo di commedia ogni pezzo si inca-

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strava combaciando perfettamente con l’altro non soltanto in funzione del proseguimento della storia (un vero must, questo, del cinema narrativo hollywoodiano), ma anche e soprattutto ai fini della gag di turno. E proprio qui è il punto centrale di differenziazione dalla costruzione della gag in tempi precedenti: in questi infatti, di norma, la gag era schiettamente visiva, oppure collegata al procedimento di montaggio, come nelle comiche slapstick di inseguimento, ma pur sempre fondato sull’iperbole dell’evento; nella screwball, invece, il montaggio è parte operativa della gag, evidenziando attraverso tagli diversi di inquadratura il paradosso della situazione. C’è molta iperbole nell’acrobata che aggrappato a una lunghissima scala piomba su un pagliaio, ne scivola giù sino ad atterrare in un porcilaio finendo a pancia all’aria su un carrettino che intraprende una discesa a rotta di collo incrociando strade trafficatissime ed evitando per miracolo le macchine che potrebbero investirlo; non c’è affatto iperbole, ma appunto paradosso, in Cary Grant che, in Bringing Up Baby (Susanna, 1938) di Howard Hawks, aggrappato al predellino della sua automobile, guidata testardamente e spericolatamente da Katharine Hepburn, viene ripreso, dopo un taglio di montaggio, soltanto dal collo in su, il resto del corpo (e della macchina) nascosto da una lunga siepe che percorre, come l’auto, orizzontalmente lo schermo, mentre saluta deferentemente l’avvocato che potrebbe finanziargli una ricerca scientifica e che egli ha ardentemente sperato sino a quel momento di incontrare, il signor Peabody. Se tutto questo è vero, che conseguenze dobbiamo trarne, oltre al suggerimento di Durgnat secondo cui «the intriguing possibilities of highly mobile plots» erano appropriate «for the chaotic mobility of the Depression years»? Probabilmente che questo è il modo formale in cui la screwball riflette lo smarrimento dell’epoca: comprensibilmente rifiutandosi di adeguare i suoi temi e i suoi ambienti alla Depressione dominante, essa abbandona l’organizzazione «classica» del montaggio griffithiano per frammentare molto di più la teoria delle immagini, rendendoci in tal modo un ritmo ovviamente «bigger than life» che è il corrispettivo del caos nel quale essa nasce, vive ed opera. Nel variegato universo della canzone americana v’è un titolo del 1928 che suona non poco anticipatore: I Can’t Give You Anything But Love, Baby, il quale, guarda caso, sarebbe stato utilizzato dieci anni

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LO SPECCHIO (ROTTO) DEI TEMPI

dopo in una delle screwball più gloriose d’ogni tempo, Bringing Up Baby. Quasi si intuissero i tempi duri a venire, quel titolo riassume, fra le altre cose, un problema di enorme momento causato dalla Depressione: la crisi matrimoniale, intesa, naturalmente, come l’impossibilità per innumerevoli giovani coppie di coronare la loro unione in modo istituzionale, dal momento che sposarsi implica non solo una volontà e un atto formale, ma anche un impegno economico alquanto sensibile. Dal 1929 al 1932 il numero dei matrimoni in America calò di 2.27 punti su mille (e di conseguenza calarono anche le nascite). Per la stessa ragione calarono, sia pure in misura minore, anche i divorzi. Ora, se una cosa caratterizza la commedia brillante di quel decennio questa è proprio il matrimonio, e più largamente ruoli e problemi di coppia. In ambito melodrammatico vi furono pellicole che esemplificarono perfettamente le oggettive difficoltà che l’istituzione matrimoniale soffrì in quel periodo: Little Man, What Now? (E adesso, pover’uomo?, 1934) di Frank Borzage, ancorché ambientato nella Germania pre-hitleriana, era un evidente documento in quel senso, come del resto, ancorché in modo più indiretto, Man’s Castle (Vicino alle stelle, 1933) ancora di Borzage e in qualche misura persino One More Spring (Ritornerà primavera, 1935) di Henry King, mentre Our Daily Bread (Nostro pane quotidiano, 1934) di King Vidor, dopo avere impostato il problema proponeva addirittura una soluzione in chiave rooseveltiana. Con la commedia le cose cambiano. Nel senso che in essa al problema veniva riservato un trattamento diverso e molto più obliquo. Intanto, come da più parti è stato rilevato, il matrimonio nel cinema hollywoodiano è di norma un affare da ricchi, qualcosa che avviene in un fortunato iperuranio che non conosce problemi di denaro. E tant’è per l’aspetto intrattenitivo e non problematico che i duri tempi richiedevano a un genere che, bene o male, era nato per divertire. Tuttavia, il modello generale della commedia relativo a questo endemico tema, proponeva il matrimonio (ed il rapporto di coppia in genere) come un continuo, inesausto conflitto, secondo un’ideologia sentimentale ben diversa da quella che aveva dominato gli schermi nazionali sino al 1930. Perché, dunque, per dirla con Molly Haskell, nella commedia anni Trenta «passion was translated into physical antagonism»? Non

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c’è dubbio che il potenziale di insoddisfazione repressa, chiaro frutto dei tempi, fosse alla base di questo modello. E probabilmente questo spiega anche perché, come nota sempre la Haskell, nei nuclei familiari ben raramente compaiono bambini, sostituiti – aggiungiamo noi – dal comportamento infantile degli adulti, che peraltro rientra nella casistica dei paradigmi tematici formulata, sulla scorta di Leslie Fiedler, da Robert B. Ray, il cui discorso sulla tradizione hollywoodiana come un cinema di «scelte evitate» si attaglia benissimo anche al genere che stiamo trattando. Ma che il matrimonio si fondi sul disaccordo quando non sull’odio è cosa che merita riflessione. In effetti, da un lato il modello tranquillizzava il giovane pubblico in relazione alla irrealizzabilità del loro desiderio; e dall’altro, attraverso il ricongiungimento della coppia (e talvolta addirittura un secondo matrimonio con la stessa persona: la famosa «comedy of remarriage» sulla quale si è magistralmente intrattenuto Stanley Cavell), esso riassicurava il versante mitologico di quello stesso desiderio mostrando che, dopotutto, l’accordo poteva essere tentativamente raggiunto. Insomma, la commedia brillante – e la screwball in particolare – fungeva, sì, da specchio dei tempi, ma, per così dire, si trattava di uno specchio rotto, nel senso che invano avremmo potuto ritrovarvi un’immagine fedele, nota e sostanzialmente verosimile della realtà, ma soltanto una sua frammentazione, una moltiplicazione dell’immagine nelle sue parti costitutive, organizzata in modo da averne una visione caleidoscopica, nella quale il desiderio non si combinava soltanto con le forme che tradizionalmente lo connettevano al reale, ma anche con altri referenti che nella realtà gli erano decisamente meno familiari. A tal fine non dimentichiamo che proprio quel ritmo di cui parlavamo in precedenza assolveva una funzione non secondaria. Per fare un esempio, in Twentieth Century (Ventesimo secolo, 1934) di Howard Hawks il contrasto fra Carole Lombard e John Barrymore vive non solo dello straordinario dialogo di Ben Hecht e Charles MacArthur, ma anche del montaggio «a valanga» che, nel ristretto spazio di un treno, porta al parossismo lo scontro in un crescendo di angolazioni accumulate e combinate con il movimento a dir poco nervoso dei protagonisti (soprattutto della Lombard).

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Questo è vieppiù provato da un’eventuale comparazione fra quella pellicola ed un’altra che, in misura anche maggiore, vede ancora una rivalità professionale fra gente di spettacolo, To Be or Not to Be (Vogliamo vivere!, 1942) di Ernst Lubitsch: un film, questo, dove i momenti che potrebbero ricordare una screwball si contano sulle dita di una mano e comunque rispondono a una logica ferrea, lontana dalle amabili follie dei classici di quel genere. In To Be or Not to Be le scene fra i due attori, pur vivacissime, si fondano sul caratteristico aplomb di Jack Benny e sul mondano imbarazzo della Lombard: siamo, è evidente, mille miglia lontani dalla screwball classica. D’altra parte, che la screwball anni Trenta sia strettamente connessa a una specifica situazione vissuta dall’istituzione matrimoniale nel periodo è in fondo dialetticamente provato anche dalle commedie sull’argomento che non appartengono cronologicamente a quella produzione. In The Palm Beach Story (Ritrovarsi, 1942) di Preston Sturges – che pure, sotto molti riguardi, è classificabile come screwball – la coppia sposata non è affatto altolocata ma medio-borghese (e con problemi di denaro) e l’uomo (Joel McCrea) non ha nulla dell’irrequietezza, della creatività e della fantasia di Cary Grant e degli altri classici protagonisti maschili che nella «commedia matrimoniale» dei pieni anni Trenta avevano affascinato le loro mogli al punto che queste non riuscivano a separarsene nonostante i sentimenti d’odio nutriti verso di loro. Come ha scritto Elizabeth Kendall: «Tom Jeffers wasn’t much fun to be around – that was just how American husbands were». Ma quel che è peggio: anche gli altri uomini comprimari non sono migliori, e della «runaway bride» post-New Deal, circondata dalle attenzioni di parecchi spasimanti, si può tranquillamente dire quel che dice di Gerry (un nome maschile!) un facchino, rispondendo a Tom che gli ha chiesto se quando la donna è scesa dal treno era sola: «She alone but she don’t know». Che difficilmente il genere possa essere letto come diretto specchio dei tempi lo si vede bene anche nella posizione che questi film assunsero nei confronti dell’ideologia della liberazione femminile. Come giustamente ricorda Tina Olsin Lent, la flapper degli anni Venti arriva nel decennio seguente ben poco mutata nella sostanza: decisa ad essere riconosciuta come individuo e come singola per-

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sonalità, sì, ma fortemente sensibilizzata nei confronti di un consumismo che da tempo è divenuto parte del suo essere, e comunque ancora prona all’ideale matrimoniale e, in fin dei conti, al rapporto subalterno con il maschio. La vera novità stava piuttosto nella sua esigenza di un nuovo obbligo da parte dell’uomo, quello del divertimento (fun) come fondamento dell’amore di coppia (e soprattutto di quello matrimoniale) e più specificamente la necessità di gratificazione sessuale. Nella commedia dell’epoca quel primo obbligo diventò una costante, mentre la seconda necessità, come si diceva, almeno a partire dall’inaugurazione del codice di censura, dovette trovare strade tortuose (cioè allusive) per poter comparire. In altre parole, se da un lato Hollywood propose una nozione di coppia e matrimonio decisamente opposta a quella sostanzialmente vittoriana che aveva dominato sino ai primi anni del Novecento nella tranquilla America borghese, dall’altro contribuì a prolungare nell’immaginario un’ideologia di carattere sostanzialmente conservatore, sostenendo, come afferma Thomas Schatz, lo status quo, uno status quo che però nella quotidiana vita sociale del paese appariva molto meno incidente, vigoroso e vitale. Se cioè Hollywood osava far rispondere a un personaggio di The Bride Walks Out (La forza dell’amore, 1936) di Leigh Jason, cui era stato chiesto perché si è sposato: «Well, it was raining, and we were in Pittsburgh», dall’altro i suoi schermi sono pieni di signore irritate e insoddisfatte sul versante di un riconoscimento della loro personalità di esseri umani, che però non rinunciano a parures, cappellini, diamanti, cosmetici (in una parola, agli agi e alla ricchezza della posizione derivata loro dal matrimonio). La cosa è tanto più strana se si ricorda, con Lewis Allen, che durante la Depressione il tipo corrente di giovane donna […] might be able to go out and get a job, help shoulder the family responsibilities when her father’s or husband’s income stopped; […] would remind them, in her hours of ease, of the good old days before there were all-determining boom and depressions, the sentimental days which Repeal itself reminded them of; […] would look, not hard, demanding, difficult to move deeply, but piquantly pretty, gentle, amenable, thus restoring their shaken masculine pride.

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LO SPECCHIO (ROTTO) DEI TEMPI

Forse che la Ellie di It Happened One Night, la Drue di Red Salute (Accadde una volta, 1935) di Sidney Lanfield, la Susan di Bringing Up Baby, la Irene di My Man Godfrey, la Connie di Libeled Lady (La donna del giorno, 1936) di Jack Conway, la Cherry di The Moon’s Our Home (Nel mondo della luna, 1936) di William A. Seiter, la Valentine di Breakfast for Two (Pronto per due, 1937) di Alfred Santell, la Tony di Love Is News (L’amore è novità, 1937) di Tay Garnett, la Melsa di The Mad Miss Manton (Il terzo delitto, 1938) di Leigh Jason, la Ann di Mr. And Mrs. Smith (Il signore e la signora Smith, 1941) di Alfred Hitchcock, la Jill di That Uncertain Feeling (Quell’incerto sentimento, 1942) di Ernst Lubitsch, forse che, dicevo, questi personaggi femminili rispondono all’indicazione di Allen? Eppure è quella «ragazza media» di cui Lewis Allen ci ha dato un verosimile ritratto che ne ha decretato il successo prima di chiunque altro. Una «ragazza media» che, per inciso, risponde ben poco a quel «fashionable antifeminist backlash brought on by the Depression» che un po’ forzosamente Marjorie Rosen ha indicato come un tratto del periodo. Ma il punto non è nemmeno questo, ché la sottomissione all’uomo è facilmente rintracciabile anche quando questi non può vantare mezzi economici tali da permettere alla compagna una vita brillante: da Hands Across the Table (I milioni della manicure, 1935) di Mitchell Leisen a It’s Love I’m After (Avventura e mezzanotte, 1937) di Archie Mayo, ai già citati Midnight e The Palm Beach Story è tutta una teoria di amori disinteressati che alla fin fine rifiutano le blandizie della ricchezza. Di più: come dice ancora Schatz, il lieto fine avviene come per magia se si pensa all’accumulo di problemi sociosentimentali esemplati dai vari film, problemi dei quali non viene mai data logica, conseguente e convincente soluzione. Come si vede, lo specchio è ancora una volta spezzato e illeggibile, nel senso che l’immagine riflessa non è riconoscibile come in qualche misura rispondente alla realtà dell’organizzazione sociale e delle sue frizioni e contraddizioni nell’America del periodo. I frammenti riflessi hanno tutti le fattezze, le linee e i colori della realtà, ma non riescono (o meglio, non intendono) fornire di quella realtà un’immagine coerente e compatta, che la rappresenti soddisfacentemente, nella misura in cui un mezzo che, come il cinema, elabora mitologie rivolgendosi all’Immaginario potrebbe riuscire a fare.

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EUROPA E ALTRI MONDI di ROBERTO CAMPARI

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Poiché secondo Hegel la commedia è «espressione di animo in se stesso assolutamente conciliato, sereno»1 e presenta la «beatitudine sorridente degli dei olimpici, la loro impassibile imperturbabilità»2 è abbastanza comprensibile che, come quasi tutti i mondi del cinema, quello in cui la commedia si svolge sia un mondo mitico. Tuttavia è altrettanto vero che, dice anche Cavell, la commedia cinematografica americana parla del desiderio verso un oggetto raggiungibile, verso la felicità terrena3. Non c’è dunque, come nel melodramma, il tema della frustrazione, dell’amore come utopia, che si realizza in senso spirituale, aldilà della vita4. E perché l’oggetto sia raggiungibile grazie soltanto ad un gioco psicologico, perché l’educazione sentimentale della donna sull’uomo o, più raramente, dell’uomo sulla donna, si attui senza gli impedimenti frapposti, nella vita reale, dai problemi dell’economia e del lavoro, l’azione si svolge spesso in un mondo di ricchi, dove tutto è già dato fuorché, appunto, la felicità individuale. I ricchi sono, per le masse americane dell’epoca della grande crisi in cui la commedia brillante si sviluppa, coloro che viaggiano; che attraversano sui transatlantici l’oceano e vanno nelle antiche capitali del vecchio mondo, Londra, Parigi, Roma e Vienna soprattutCfr. G.W. F. HEGEL, Estetica, Einaudi, Torino 1967, p. 1363. Ivi, p. 1365. 3 Cfr. S. CAVELL, Pursuits of Happiness. The Hollywood Comedy of Remarriage, Harvard University 1981, trad. it. Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino 1999. 4 Su questo aspetto del melodramma filmico e sulla sostanziale opposizione del suo significato in termini simbolici rispetto a quello della commedia, mi permetto di rimandare al mio libro Il discorso amoroso. Melodramma e commedia nella Hollywood degli anni d’oro, Bulzoni, Roma 1990. 1

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ROBERTO CAMPARI

to, dove tra grandi alberghi e locali alla moda, gli aristocratici e i miliardari vivono la loro bella vita preoccupati solo delle tempeste sentimentali. L’Europa non è certo ancora alla portata di tutti; queste capitali, e i più famosi posti di villeggiatura dove il bel mondo si sposta spesso per rendere ancora più piacevole la sua dolce vita, sono per lo spettatore medio luoghi di sogno, che certo mai potrà vedere di persona e che gli studios di Hollywood, negli anni Trenta, preferiscono ricostruire. La documentazione è comunque accurata, registi e collaboratori sanno su quali punti far leva per soddisfare l’immaginario del pubblico. In certi casi, poi, si tratta di artisti che in Europa sono nati e vissuti per decenni e che dunque ben conoscono i mondi da ricreare. Il più evidente è il caso di Ernst Lubitsch. Parigi, come capitale dell’amore e della trasgressione, come città dello champagne e della vita notturna, è presente, mitizzata, nei suoi film, già dalle commedie del periodo muto. Ma nel decennio di maggior successo della commedia brillante, quello appunto degli anni Trenta, la ritroviamo emblematicamente in uno dei capolavori dell’autore, Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932) dove il «paradiso» è, con tutta evidenza, la bella vita della ricca madame Colet (Kay Francis), proprietaria di una fabbrica di cosmetici, che compra solo le cose più care (la borsa coi brillanti), che vive tra ricevimenti e teatri, riverita da schiere di persone di servizio, in eleganti interni déco. Il «trouble» si riferisce invece sia alla «professione» vera, quella di ladro, di colui che diventa segretario della signora, Gaston Monescu (Herbert Marshall), sia al desiderio amoroso che lui ispira alla signora senza per altro che questo, anche per la presenza di un’altra donna, socialmente più consona al protagonista, possa risolversi nel solito «mito della primavera»5 del genere, cioè nel matrimonio. La città comunque – Parigi – nel film appare solo simbolicamente: lo champagne, le case eleganti, i retropalchi dell’Opéra. Come in The Merry Widow (La vedova allegra, 1934), dove il mito amoroso, invece, si realizza proprio nel locale parigino più famoso (almeno al cinema) «Maxime» (arredato però con mobili Impero), 5 È la ben nota espressione di N. Frye in Anatomia della critica, trad. it. Einaudi, Torino 1969, secondo il quale la commedia va sempre verso un «amplesso fuori scena».

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EUROPA

E ALTRI MONDI

ma dove della città si vedono solo manifesti che ne annunciano la vita di frivolezze divertenti. In Angel (Angelo, 1937) la capitale francese è ancora «galeotta» rispetto alla inglese solidità (apparente) del rapporto coniugale: a Parigi c’è l’incontro, in una casa d’appuntamenti, tra la protagonista lady Barker (Marlene Dietrich) e l’uomo col quale ha una breve storia che rischia di mandarle a monte il matrimonio. Qui si parla del Louvre, di Notre Dame e della Torre Eiffel, ma diventano interessanti, come pretesto di conversazione, soltanto quando l’appuntamento è stato ottenuto dall’uomo; o quando a tavola, in un pranzo da lord Baker di cui abbiamo sentore solo dalla cucina, diventa uno dei segni che i camerieri cercano di interpretare, in quella che è una delle sequenze giustamente più celebrate di tutto il film. In Ninotchka (id., 1939) Parigi diventa, infine, simbolo dell’Occidente capitalista rispetto a un mondo comunista che pure, in quel momento, è alleato degli Stati Uniti. «È un mondo – dice a un certo punto uno dei compagni sovietici – dove suoni un campanello e hai quello che vuoi». Ma se, in un primo tempo, per la protagonista (Greta Garbo) la bellezza della Parigi notturna è solo spreco di elettricità, il cibo solo «calorie» e l’amore solo attrazione chimica, poi, attraverso la casa déco di Léon (Melvyn Douglas), unico luogo che lei accetta di vedere dopo la Torre Eiffel per cui dimostrava dapprima un interesse solo tecnico, e dopo avere gustato lo champagne, Ninotchka impara a ridere, apprezza la moda e ripensa alla torre stessa in tutt’altro modo, con nostalgia profonda, quando la rivede dall’aereo che la riporta a Mosca. Tuttavia, sempre restando all’interno del cinema di Lubitsch, l’Europa è anche il mondo dove, in Montecarlo (id., 1930), tra i grandi alberghi e il Casinò della Costa Azzurra, una ricca signora può sentirsi in colpa perché ama un parrucchiere, salvo poi scoprire, grazie al teatro come in Amleto, che si tratta invece di un suo pari. E se nel dramma di Shakespeare il teatro è specchio della vita, qui la «realtà» è più felice della «finzione»: diversamente da quanto accade sulla scena i due convolano a nozze, e la «funzione» primaria della Commedia si rivela in pieno. Ancora sulla Costa, e poi a Parigi, in un ennesimo appartamento déco, vediamo la doppia educazione sentimentale di Bluebeard’s Eight Wife (L’ottava moglie di Barbablù, 1930), dove se la donna

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ROBERTO CAMPARI

(Claudette Colbert) riduce all’impotenza (con la camicia di forza) l’americano ricco e sessualmente capriccioso, lui (Gary Cooper) in compenso ridicolizza e vince la mentalità aristocratica e snob dei francesi. Per cui il modello della Bisbetica domata, citato esplicitamente e in apparenza fallito nel film, alla fine si realizza. Del resto anche nel molto lubiciano Desire (Desiderio, 1936), diretto da Frank Borzage, ma prodotto e supervisionato da Lubitsch, il rapporto Europa-America si risolve a vantaggio di quest’ultima, perché la bella ladra protagonista (Marlene Dietrich) che passa dai gioiellieri di Parigi ad un’improbabile Spagna, se mette in difficoltà il giovane americano (Gary Cooper) che non ha l’abito da sera per la cena, alla fine diventa «pronta per i fumi e le ciminiere di Detroit sposandolo». Del resto l’innamorato ha parlato della possibilità di un’altra guerra in Europa, con gli americani che verranno a rimettere a posto le cose (notare che il film è del 1936). Con gli anni di guerra, diversamente da quanto pensano alcuni storici, non vi fu certo una crisi per la commedia brillante: vi furono piuttosto trasformazioni, come l’affermarsi di un autore come Preston Sturges, con commedie più problematiche e persino autoriflessive (Sullivan’s Travels, 1942), o come l’affrontare, da parte di Lubitsch, un tema grave, quello del nazismo, pur restando nell’ambito del genere com’egli riuscì a fare splendidamente in To Be or Not To Be (Vogliamo vivere, 1942). L’Europa, devastata dalla guerra, non è più scenario di gente ricca e spensierata, come già viene annunciato dalla famosa didascalia iniziale, a proposito della trasformazione di Parigi dall’anteguerra alla guerra ormai iniziata, in Ninotchka. Ma, una volta ritornata la pace, con gli Stati Uniti trionfanti, gli sfondi delle commedie brillanti tornano ad essere quelli dell’anteguerra con una variante abbastanza significativa: di mano in mano che i viaggi nel vecchio continente diventano sempre più facili, anche perché gli aerei li accorciano di molto, gli studios hollywoodiani, ormai al loro periodo finale in quanto ad organizzazione centralizzata, decidono sempre più spesso le riprese in loco. E allora se una Berlino ancora semidistrutta e bombardata può entrare nelle inquadrature di A Foreign Affair (Scandalo internazionale, 1948) di Billy Wilder, qualche anno dopo in Sabrina (id., 1954),

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EUROPA

E ALTRI MONDI

dello stesso regista, Parigi non si vede ma diventa soprattutto la città della moda, della raffinatezza. Con Audrey Hepburn come star ideale, il film racconta di una Cenerentola figlia d’autista che solo raffinandosi a Parigi (e incontrando Givenchy, cioè l’alta moda) può aspirare alla mano di un miliardario di New York. Tre anni più tardi, nel 1957, Parigi si vede molto in Love in Afternoon (Arianna) dello stesso Wilder. Qui si riprende esplicitamente Lubitsch (Gary Cooper e Maurice Chevalier sono due suoi attori e il Ritz con i violinisti tzigani sembra un Grand Hotel da commedie anteguerra), ma Wilder ne adatta la spregiudicatezza alla virginale figura della Hepburn, che ormai si identifica completamente con l’alta moda (sempre di Givenchy) parigina, proponibile anche alle ricche signore americane. Un film come Funny Face (Cenerentola a Parigi, 1957) di Stanley Donen gioca proprio in tal senso. Richard Avedon, che del film è «direttore artistico» e al quale allude la figura del fotografo di moda protagonista (interpretato da Fred Astaire) fotografa Audrey Hepburn, con i modelli di Givenchy, in tutti i luoghi più tipici di Parigi, dove il film naturalmente è girato. L’Europa adesso è anche il mondo dell’Arte, non solo quello dell’eleganza e dell’amore, come in Lubitsch. E allora vediamo la star anche sulle scale del Louvre, accanto alla Nike di Samotracia; come del resto l’abbiamo vista davanti a tutti i monumenti più importanti di Roma nella commedia sentimentale che l’ha portata al successo, Roman Holiday (Vacanze romane, 1953) di William Wyler. Se i vestiti da sera, nella commedia sofisticata americana, sono sempre stati il costume degli «dei», adesso si identificano con certe marche, e possono dunque diventare accessibili anche alle donne, sia pure a quelle ricche. Ma, appunto, non è solo questione d’alta moda; ci sono le arti, pittura o scultura, letteratura o teatro, e in quanto a queste l’ambientazione delle commedie può andare altrettanto bene sia a Londra, che a Roma che, appunto, a Parigi. Se invece sarà a New York, si tratterà comunque della Manhattan più elegante e più simile all’Europa, quella del mondo della moda in cui si muove Marilyn Monroe in How to Marry a Millionnaire (Come sposare un milionario, 1953) di Jean Negulesco, o quello della Quinta Strada su cui si trasferisce la Hepburn (sempre vestita da Givenchy) in Breakfast at Tiffany’s (Colazione da Tiffany, 1961) di Blake Edwards.

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ROBERTO CAMPARI

La commedia sofisticata presenta quasi soltanto grandi città o posti di vacanze alla moda: e ciò vale, come s’è detto, per l’anteguerra ma anche per il dopoguerra, quando il genere sopravvive, sia pure con molte trasformazioni. (Lo possiamo ritrovare ancora oggi, ad esempio, nei film di Julia Roberts). Normalmente non vi sono percorsi fisici, ma solo sentimentali, psicologici. Se c’è anche il percorso fisico, come nel prototipo It Happened One Night (Accadde una notte, 1934) di Frank Capra, esso è funzionale ad un discorso diverso, perché lì il viaggio Miami-New York (cioè da un luogo di vacanze ad una grande città) significa soprattutto scoperta della realtà del mondo, alla quale il giornalista (Clark Gable) educa la miliardaria (Claudette Colbert). Al contrario, tutto il movimento attraverso il Connecticut di Bringing Up Baby (Susanna, 1938) di Howard Hawks, prototipo di screwball comedy, è solo funzionale a un’educazione alla realtà, in questo caso da parte della donna nei confronti dell’uomo; ma non tanto quella del mondo bensì quella della propria umanità, soffocata – come insegna Cavell6 – dall’alienazione del lavoro. Arte e scienza, in fondo, continueranno a non avere importanza per la commedia. Per quanto nel dopoguerra ci si muova nelle vere strade delle più belle città europee, per quanto si ambientino scene nei musei e tra gli artisti, la commedia sofisticata è una specie di mitico mondo di Oz, dove si va soltanto per cercare una felicità che, nella fiaba citata, si può trovare soltanto in se stessi7. Non è certo un caso se, subito dopo il film di Victor Fleming, Ernst Lubitsch abbia chiamato Frank Morgan, l’attore che aveva interpretato il ruolo del mago, a ricoprire il ruolo di Matuschek in The Shop Around the Corner (Scrivimi fermo posta, 1940). Il segreto del negozio «dietro l’angolo» è infatti lo stesso del mondo di Oz: là si scopriva che era inutile uscire dal proprio mondo per un mondo im6 Il capitolo in Alla ricerca della felicità cit., dedicato al film di Hawks, intitolato Due leopardi nel Connecticut, e già pubblicato nel n. 83 di «Cinema e Cinema», ottobre-dicembre 1982, è forse quello che con maggiore profondità coglie la complessità di una commedia apparentemente semplice e un po’ demenziale. 7 Mi riferisco naturalmente a The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939) di Victor Fleming i cui significati, come dimostrato da David Bordwell e Kristin Thompson, Film Art, Knopf, New York 1986, vanno ben aldilà di una favola per bambini.

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EUROPA

E ALTRI MONDI

maginario, perché già si era in possesso di quanto si cercava (ma sappiamo quanto Salman Rushdie, nella sua bella lettura del film, abbia contestato, come fasulla, questa idea)8; qui si verifica, uscendo, che la felicità si cela nell’universo del negozio; che, anzi, esterno ed interno coincidono e la mitica donna che Kralik (James Stewart) va ad incontrare altra non è se non la sua antipatica compagna di lavoro Klara (Margaret Sullavan). Agli occhi della quale dovrà dunque distruggere ogni immagine di quell’«altro» che è poi lui stesso, per essere accettato nella sua realtà. E il padrone, il signor Matuschek, è un demiurgo impotente quasi quanto il mago di Oz, che si rivela nulla più che un ciarlatano (un regista cinematografico)9. Ma mentre quello è, appunto, solo un imbroglione, che tuttavia riesce a salvare ognuno dei personaggi, dando loro il segreto della verità, qui il padrone di questo piccolo mondo è dapprima un despota e una vittima poi, sventato il suicidio, una specie di Babbo Natale che porta doni e che, per quanto solo, assiste al successo del suo piccolo mondo, che è il mondo della realtà.

Cfr. S. RUSHDIE, Il mago di Oz, Linea d’ombra, Milano 1993. L’interpretazione del regista cinematografico come ciarlatano, venditore di sogni fasulli, è allusa anche da Luchino Visconti in Bellissima (1951), non solo nel significato generale del film ma anche con l’esecuzione del tema, appunto, del ciarlatano dall’Elisir d’amore di Donizetti. 8

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L’ORRIBILE VERITÀ. GESTO E PAROLA NEL CINEMA COMICO AMERICANO DELL’EPOCA CLASSICA di LEONARDO GANDINI

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Più di ogni altro genere del cinema classico americano, la commedia è stata, nel corso degli anni, sottoposta ad un intenso processo di analisi e classificazione, che ha sortito l’effetto di produrre tutta una serie di sottocategorie comiche, ciascuna delle quali contraddistinta da una particolare terminologia. È così che lo storico del cinema si trova oggi a fare i conti, per citare solo le definizioni più note, con la slapstick comedy e con la sophisticated comedy, con la screwball comedy e con la comedian comedy. Questa proliferazione di termini è probabilmente un sintomo, come bene hanno scritto Kristine Brunovska Karnick e Henry Jenkins1, di una difficoltà a circoscrivere l’ambito della commedia, a individuarne caratteristiche compiute e costanti nel tempo. La questione, del resto, non riguarda certo soltanto il cinema, se pensiamo ad esempio alle distinzioni di Northrop Frye fra Old e New Comedy o, per andare ancora più indietro nel tempo, alla classificazione delle commedie latine operata in un testo del decimo secolo a.C., il Tractatus coislinianus. Mi sembra tuttavia che lo studio della commedia nel cinema americano, pur condividendo con epoche lontane e ambiti differenti di analisi un impaccio che si traduce puntualmente in una sorta di furore tassonomico, abbia prodotto, se possibile, un ulteriore problema, che consiste essenzialmente nella difficoltà a valutare all’interno del genere comico, gli elementi di continuità, e dunque nella propensione a privilegiare, in sede di analisi, ciò che distingue e separa un sottogenere dall’altro. Questa tendenza è stata inoltre rafforzata dall’opinione diffusa secondo la quale i cineasti hollywoodiani, in quanto semplici com1 K.B. KARNICK, H. JENKINS, Funny Stories, in K.B. KARNICK, H. JENKINS (a cura di), Classical Hollywood Comedies, Routledge, New York-London 1995, pp. 69-79.

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LEONARDO GANDINI

ponenti di una struttura organizzativa e produttiva più grande di loro, avrebbero operato in una sorta di vuoto culturale, dunque nella più totale noncuranza di tutto ciò che costituiva la tradizione del genere. In realtà, anche se siamo qui evidentemente molto distanti nel tempo e nello spazio, dall’affermazione di una generazione cinefila di registi, è evidente che cineasti dello spessore di Howard Hawks, Preston Sturges o Leo McCarey avevano una perfetta consapevolezza di quale fosse il retroterra della commedia hollywoodiana, di quali fossero le sue origini e i suoi sviluppi, e di come, dirigendo un film comico, essi stessi entrassero in qualche modo a far parte della sua tradizione, contribuendo a perpetuarla. Tale consapevolezza nasceva spesso dal fatto di avere compiuto il proprio apprendistato ai tempi del muto, ovvero in un’epoca in cui la comicità era ancora prettamente fisica, e l’umorismo verbale si esauriva nell’arguzia di qualche didascalia. Howard Hawks, ad esempio, arriva al cinema producendo (per Jack Wamer) e in qualche caso dirigendo, tra il 1918 e il 1919, il ciclo delle Welcome Comedies, commedie da due rulli interpretate da un comico piuttosto popolare, Monty Banks, che si era fatto le ossa come spalla di Roscoe «Fatty» Arbuckle. Leo McCarey nel 1924 comincia a lavorare per il produttore di film comici Hal Roach, prima come gag man e poi come regista, di cortometraggi interpretati dal comico Charley Chase. Negli anni successivi McCarey firmerà la regia di diversi film interpretati da Stan Laurel e Oliver Hardy, al cui successo pare tra l’altro avere contribuito in modo decisivo, essendo stato lui per primo ad avere l’idea di farli lavorare insieme2. Ma anche nei casi in cui il regista non ha alle spalle una solida esperienza nel campo della comicità muta, gioca un ruolo fondamentale la sua ammirazione per quella stagione del cinema hollywoodiano, e per i suoi protagonisti. È il caso di Preston Sturges, che pur arrivando a Hollywood solo nel 1932, dunque in seguito all’affermazione del sonoro, è un conoscitore ed estimatore della slapstick comedy, in particolar modo di uno dei suoi massimi espo2 Questo è almeno ciò che afferma lui, in contrapposizione ad Hal Roach, che a sua volta rivendica la paternità di un’idea rivelatasi poi così felice. La dichiarazione di McCarey è contenuta in P. BOGDANOVICH, Who the Devil Made It, Knopf, New York 1997, pp. 389-390.

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L’ORRIBILE

VERITÀ

nenti, Harold Lloyd. È Sturges che, alla fine degli anni Trenta, procura all’ormai dimenticato Lloyd un impiego, come ospite, in un programma radiofonico; ed è sempre Sturges che, nel 1944, lo convince, dopo sei anni di inattività, a tornare al cinema, nel film da lui diretto The Sin of Harold Diddlebock, che inizia con alcune immagini tratte dall’ultimo rullo di uno dei più grandi successi del comico, The Freshman (1926). Quest’ultima esperienza mi sembra racchiudere in modo emblematico uno dei problemi che i migliori registi di screwball comedies devono affrontare, che riguarda l’integrazione e il bilanciamento di due diversi, e apparentemente incompatibili, modelli di comicità, l’uno basato sull’azione fisica, e l’altro sulla parola. Anche qui, parafrasando Stanley Cavell, si potrebbe parlare di un matrimonio, di un’unione fra due entità che non sembrano piacersi l’un l’altra, ma che in realtà, alla fine, trovano una forma soddisfacente di convivenza. Questo naturalmente ci porta a formulare un’ipotesi abbastanza lontana da quella più accreditata, che vede l’avvento del sonoro come uno spartiacque tra una commedia farsesca, acrobatica e talvolta volgare, che il cinema parlato rende improvvisamente obsoleta, ed una appunto sofisticata e brillante, attraversata da una vena umoristica elegante e raffinata, che si impone a partire dagli anni Trenta. In realtà, l’eredità dello slapstick è presente nella tradizione della screwball comedy, e vi gioca un ruolo fondamentale, nella misura in cui colora di bizzarria ed estemporaneità il comportamento di personaggi che all’inizio ci vengono intenzionalmente presentati come inappuntabili e seriosi esponenti della comunità umana: zoologi, avvocati, archeologi. Ne è una riprova il fatto che questo tipo di comicità non entra nella commedia sofisticata in modo surrettizio ed improvvisato; al contrario, la sua presenza rappresenta l’esito compiuto di una serie di precise indicazioni di regia. Sono note, al riguardo, le dichiarazioni di Leo McCarey sulle preoccupazioni di Cary Grant, durante la lavorazione di The Awful Truth, circa la propria capacità di «fare lo slapstick» («he was worried about doing slapstick»)3. Howard Hawks a sua volta ha ricordato come, sul set di Bringing Up Baby, abbia suggerito allo stesso Cary Grant di utilizzare Harold 3

Ivi, p. 414.

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LEONARDO GANDINI

Lloyd come riferimento per impostare la propria interpretazione dello scienziato svagato; e di come abbia espressamente chiesto a Katherine Hepburn di non sovraccaricare la propria recitazione di smorfie e gesti inutili, di prendere invece ad esempio la «solennità» con cui i grandi comici del muto eseguivano le proprie gag: «I tried to explain to her that the great clowns, Keaton, Chaplin, Lloyd, simply weren’t out there making funny faces, they were serious, sad, solemn, and the humor sprang from what happened to them»4. E allo stesso principio credo debba essere ricondotta la scelta di Sturges, all’inizio delle riprese di Lady Eve, di non usare, per le varie scene in cui il protagonista cade clamorosamente per terra, uno stuntman, contro la volontà dello stesso Fonda, che lo avrebbe gradito5. Evidentemente Sturges aveva in questo caso deciso di attingere in pieno alla tradizione di un modello comico nel quale gli attori affrontavano in prima persona, con coraggio non minore al talento, le incertezze e i rischi legati all’esecuzione della gag, nella convinzione che questo ne avrebbe accresciuto l’effetto comico. Si tratta però di capire, una volta accertata la determinazione dei registi ad inserire le proprie commedie nel solco di una lunga e nobile tradizione del cinema hollywoodiano, secondo quali modalità, a livello di scrittura e di messa in scena, la comicità tipica dello slapstick potesse confluire nelle screwball e sophisticated comedies, senza slabbrarne, o peggio trasgredirne, le convenzioni. La mia idea è che molto spesso la compatibilità tra comicità fisica e comicità verbale poggi sull’impossibilità della parola di ottenere gli stessi esiti dell’azione, sia sul piano diegetico che su quello della creazione di una situazione divertente. Prendiamo ad esempio quattro sequenze, tratte da altrettante screwball comedies. 1. Bringing Up Baby. Susan e David si recano, di notte, presso l’abitazione del signor Peabody, il ricco mecenate che dovrebbe fi4 «Ho cercato di spiegarle che i grandi clown non stavano semplicemente a fare facce buffe, erano seri, tristi, solenni, e che l’umorismo scaturiva da ciò che gli succedeva». T. MC CARTHY, Howard Hawks. The Grey Fox of Hollywood, Grove Press, New York 1997, p. 250. 5 D. JACOBS, Christmas in July. The Life and Art of Preston Sturges, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1992, p. 237.

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L’ORRIBILE

VERITÀ

nanziare il museo nel quale David lavora. La ragazza si mette a chiamare a gran voce il signor Peabody, che non risponde. Prende allora dei sassolini, e li tira sulla finestra della sua camera da letto. Poiché l’uomo continua a non dar segni di vita, Susan afferra da terra una pietra, si gira e la scaglia contro la finestra. Peabody, che nel frattempo si è svegliato ed affacciato alla finestra, viene colpito in pieno dalla pietra sulla testa, e cade all’indietro. 2. The Awful Truth. Lucy chiede all’ex-marito Jerry se non è per caso geloso del suo nuovo fidanzato, Dan. Per rassicurarla, questi usa frasi solenni («Sono decisamente cambiato in meglio. Niente più potrà farmi male»), che vengono però prontamente smentite dal fatto che il coperchio del pianoforte si richiude sulla sua mano, dimostrando così che qualcosa può ancora «fargli male». Subito dopo, arriva Dan che confessa a Lucy di avere scritto una poesia per lei. Mentre la legge, la ragazza reagisce con dei gridolini che non vengono stimolati dalla bellezza della poesia, ma dal fatto che Jerry, che si è nel frattempo nascosto dietro la porta, le punzecchia il fondo schiena con una matita. 3. Lady Eve. Jean si è presentata a casa di Charles sotto mentite spoglie, come Lady Eva. Sconcertato dalla somiglianza con la donna incontrata sul piroscafo, Charles cerca di capire ciò che il suo tutore, Mugsy, sta cercando di dirgli al riguardo. Mugsy si trova in giardino, davanti a una finestra, e comunica con Charles a gesti; questi è perciò costretto a camminare guardando lui, e non davanti a sé. Finisce così addosso ad un divano e cade rovinosamente a terra. Poco dopo, Charles viene rassicurato da Curly, complice di Jean, che si apparta con lui e gli racconta una storia complicata e fasulla secondo la quale le due ragazze, Jean ed Eva, sarebbero sorelle. Curly gli raccomanda di mantenere, sulla vicenda, il più stretto riserbo («silenzio fino alla tomba, e anche oltre»), e Charles si allontana, poiché viene invitato da Lady Eva a fare quattro chiacchiere con lei. La coda dell’abito della ragazza si impiglia in una sedia: Charles si china per sganciarla, e quando si rialza, urta con la testa contro un vassoio pieno di caraffe che gli si rovesciano addosso. 4. Adam’s Rib. Per provare il successo delle donne in vari ambiti professionali, Amanda, durante il processo che la vede opposta

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LEONARDO GANDINI

al marito, invita a deporre un’artista circense, e le fa rispondere ad alcune domande sulla propria attività. Ad un certo punto, di fronte alla difficoltà di spiegare a parole che cosa sono i «flip-flap», la donna esce dal banco dei testimoni ed esegue una serie di salti mortali all’indietro. Poi spiega di essersi successivamente dedicata ai «numeri di forza», che consistono nell’alzare da terra un sollevatore di peso, bilanciere compreso. Amanda perfidamente le chiede se sarebbe capace di alzare il pubblico ministero. A questo punto Adam si rivolge al giudice, dichiarando di «opporsi a questa farsa». Mentre protesta, la donna abbandona nuovamente il banco dei testimoni, lo raggiunge, lo alza per i piedi e lo tiene sollevato per alcuni secondi. In tutti questi casi, le gag fisiche subentrano a quelle verbali nel momento in cui queste ultime sono nella condizione di non poter sortire un effetto comico appropriato. L’impressione è quella di un passaggio di consegne, quasi che dentro al film la brillantezza e la sofisticatezza si trovassero ad urtare contro limiti ben precisi, che lo slapstick può permettersi invece di ignorare ed oltrepassare. In The Awful Truth, il malcelato disprezzo di Lucy per la poesia di Dan non susciterebbe la medesima ilarità senza il dettaglio della matita nel fondo schiena, che rende appariscente il disinteresse della donna per il componimento del suo fidanzato. Lo stesso si può dire della scena precedente: le pompose dichiarazioni di Jerry circa il fatto di essere diventato un uomo migliore diventano esplicitamente comiche solo nel momento in cui scatta il contrappasso, e il pianoforte gli si chiude sulla mano. E questo vale anche per i capitomboli di Charles, per le esibizioni dell’acrobata-sollevatrice di pesi e per il singolare metodo escogitato da Susan per svegliare Peabody: le parole introducono una situazione potenzialmente comica, e al contempo esplicitano la propria impossibilità a renderla tale fino in fondo, a spingersi oltre i confini di ciò che, in principio, è solo vagamente divertente. In Adam’s Rib questo passaggio è reso esplicito: durante la deposizione dell’acrobata, Amanda fa una battuta circa il fatto che sono molte le donne capaci di «reggere cinque uomini», ma nessuno, tranne la testimone, sembra essere divertita dalle sue parole. Ben più efficace, dal punto di vista dell’ilarità generale che riesce a suscitare, è la scelta della donna di «reggere» un uomo, un uomo solo, per i piedi.

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L’ORRIBILE

VERITÀ

È una considerazione, questa, che ci offre l’opportunità di verificare un’altra caratteristica propria dell’inserimento di situazioni slapstick nelle commedie sofisticate: la supremazia del gesto sulla parola viene in principio sancita sul piano diegetico, prima dunque che l’effetto comico venga esplicitamente chiamato in causa. In Bringing Up Baby, Susan si mette a tirare prima sassolini e poi pietre sulla finestra di Peabody perché con la sua voce non è riuscita a svegliarlo; in Lady Eve, Charles promette a Curly di non aprire bocca sulla storia delle due sorelle, e questo contribuisce a far sì che il suo smarrimento si traduca ancora in una sorta di congenita goffaggine; in The Awful Truth, Jerry afferra la matita perché mosso dal desiderio di far reagire la moglie ai suoi gesti, e non alle parole che Dan ha scritto per lei; in Adam’s Rib, l’acrobata si mette ad eseguire i salti mortali nel momento in cui realizza che una spiegazione verbale sul significato dei «flip-flap» richiederebbe più tempo che una dimostrazione diretta. In qualche caso, poi, la dinamica di sostituzione fra gesto e parola si trasforma in un meccanismo di esplicita opposizione: penso, ad esempio, al momento in cui Adam reagisce alla richiesta di Amanda opponendosi, nel senso letterale e legale del termine, al fatto che il processo si trasformi in una «farsa». Ma anche ad un’altra scena comica di The Awful Truth, quella in cui Jerry, mosso dalla gelosia, si reca a casa di Armand, l’amico francese della moglie, e dopo un furibondo corpo a corpo con il cameriere precipita dentro il salotto, interrompendo l’esecuzione canora di Lucy. Mi sembra dunque che la compatibilità fra l’umorismo tipico della screwball e quello proprio della slaspstick comedy si regga paradossalmente su un principio di mutua e reciproca esclusione. La comicità fisica ha bisogno, per impadronirsi dello schermo, di una preliminare dichiarazione di inferiorità e impossibilità dell’umorismo verbale, che nel film assume, sul piano narrativo, la forma di un silenzio imposto (Lady Eve), di una difficoltà a raggiungere un obiettivo attraverso la parola (Bringing Up Baby, Adam’s Rib), dell’ambizione a rendere un gesto molto più significativo ed incisivo di un discorso (The Awful Truth). Rimane, a questo punto, da prendere in esame la possibilità che queste incursioni della comicità slapstick abbiano anche un preciso valore tematico. Credo che, da questo punto di vista, siano preziose

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LEONARDO GANDINI

le intuizioni di Cavell circa la «disponibilità» del protagonista, nelle commedie del rimatrimonio, «a subire una certa indegnità, come se ciò che si oppone al cambiamento fosse, dal punto di vista psicologico, una falsa dignità»6. E altrettanto significativa mi sembra la sua idea che la vistosa assenza, nel genere, dei bambini, si possa spiegare con l’espressione, da parte dei personaggi principali, di un «desiderio di essere di nuovo bambini, o forse di essere bambini insieme»7. Simili affermazioni mi colpiscono perché ritengo possano essere applicate in qualche misura anche al cinema hollywoodiano, e non soltanto ai suoi personaggi. L’irruzione dello slapstick nello spazio della screwball comedy ci riporta improvvisamente ad un’epoca in cui il cinema americano era ancora bambino ed aveva, a giudicare almeno dalle opinioni di chi lo guardava da fuori, poca o nessuna dignità. L’impressione è che la commedia, per manifesta volontà dei suoi registi, ceda di tanto in tanto alla tentazione, magari per il tempo di una sola sequenza, di tornare giovane e irresponsabile, di farsi un po’ più volgare e un po’ meno sofisticata. C’è una ragione anche per questo, e la possiamo individuare in quello che scrive sull’argomento Andrew Sarris, nel suo ultimo libro. Commentando alcune affermazioni di Richard Griffith e Arthur Mayer sulla screwball comedy, Sarris dichiara: «their correlation of slapstick and violence with frustration is a step in the right direction»8. Poco dopo, egli si chiede: What then is the source of frustration in the screwball comedies? I would suggest that this frustration arises inevitably from a situation in which the censors have removed the sex from sex comedies. Here we have all these beautiful people with nothing to do. Let us invent some substitutes for sex. The […] wisecracks multiply beyond measure, and when the audience tires of verbal sublimation, the performers do somersaults and pratfalls and funny faces9. 6 S. CAVELL, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino 1999, p. XXII. 7 Ivi, p. 22. 8 «La relazione che stabiliscono fra slapstick, violenza e frustrazione è un passo nella direzione giusta». A. SARRIS, You Ain’t Heard Nothin’ Yet. The American Talking Film. History and Memory, 1927-1949, Oxford University Press, New York-Oxford 1998, p. 94. 9 «Qual è dunque l’origine della frustrazione nelle commedie screwball? Suggerirei che questa frustrazione nasce inevitabilmente da una situazione in cui i censori

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L’ORRIBILE

VERITÀ

La censura, il Codice Hays, interdice alla commedia hollywoodiana di parlare di sesso. Questo, oltre a spuntare evidentemente le armi ad un genere che fa dell’attrazione tra uomini e donne il proprio baricentro narrativo e tematico, sancisce al contempo la presunta inadeguatezza del cinema a trattare certi argomenti in modo più o meno palese. Come ad un bambino, ai film hollywoodiani viene quindi proibito di parlare di «certe cose», ovvero di questioni che vengono ritenute fuori dalla loro portata, perché scabrose ed inopportune. La reazione, sia sul piano della caratterizzazione dei personaggi che su quello della strutturazione delle gag, va precisamente nella direzione indicata da Sarris: la sublimazione passa attraverso il ritorno ad un comportamento di tipo infantile (cadute, pizzicotti, prove di forza, sassi sulle finestre), probabilmente l’unico in grado di evidenziare – per contrasto e in modo paradossale – l’incongruenza derivata dall’impossibilità di descrivere ciò che sarebbe solo naturale e conseguente a tutte le schermaglie sentimentali di cui siamo testimoni. In questo modo, si palesava quella verità che ai censori dell’epoca doveva nondimeno sembrare, appunto, «orribile».

hanno tolto il sesso da commedie sul sesso. Abbiamo qui tutte queste meravigliose persone che non hanno nulla da fare. Inventiamo allora qualcosa che rimpiazzi il sesso. Le battute si moltiplicano oltremisura, e quando il pubblico si stanca della sublimazione verbale, gli attori si mettono a fare capriole, cadute e facce buffe». Ivi, p. 95.

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LA CREAZIONE DELLA «PROFESSIONAL LADY». SESSO, COSMETICI E DIAMANTI NELLE COMMEDIE DI ANITA LOOS di GIULIANA MUSCIO

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All’inizio di Red-Headed Woman di Jack Conway (1932) una Jean Harlow dalla chioma rossa, distesa su un lettino da istituto di bellezza, si toglie dalla faccia il panno umido e, guardandosi in uno specchio, fa l’occhiolino: «So, gentlemen prefer blondes? Do they? Yes, they do» si risponde con uno smagliante sorriso. Nell’inquadratura successiva, provandosi un abitino piuttosto trasparente, interroga la commessa fuori campo: «Can you see through?» «I’m afraid you can,...» le risponde questa con un pizzico di disapprovazione, ma lei conclude soddisfatta: «I’ll wear it!». Questo prologo metacomunicativo (aggiunto al film in fase di montaggio dalla sceneggiatrice Anita Loos, sollecitata dal produttore Irving Thalberg)1 avrebbe la funzione di marcare con certezza la chiave comica di lettura dei film, in sé un testo piuttosto ambiguo. Il successo di Red-Headed Woman incorona la Harlow star e riposiziona Loos tra i migliori sceneggiatori hollywoodiani, ma il film stimola anche alcune riflessioni sulla storicità della risata, sulla complessità culturale della commedia. «Riposiziona» dicevamo, in quanto erano molti anni ormai che Anita Loos non scriveva per il cinema, ma viveva a New York, lavorando per il teatro e godendosi la celebrità letteraria conquistata per l’appunto con Gli uomini preferiscono le bionde. Il ritorno a Hollywood in questo momento (1932) e con questo tipo di film si spiega col talento di Loos nella commedia e con l’aver inventato il per1 Secondo il catalogo dell’American Film Institute per gli anni Trenta, Anita Loos parla di questo nuovo prologo nell’autobiografia dedicata al cinema muto, Cast of ’Thousands, Grosset and Dunlap, 1977; altri suoi testi autobiografici A Girl Like I, Viking Press, New York 1966; Kiss Hollywood Good-Bye, Viking Press, New York 1974. Sulla scrittrice si veda G. CAREY, Anita Loos. A Biography, Alfred Knopf, New York 1988.

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sonaggio di Lorelei, protagonista del suo romanzo, la goldigger più «professionale» mai evocata. Come indica la prima battuta dei film, il colore dei capelli non è un dettaglio trascurabile: la bionda platinata Harlow (Platinum Blonde, di Frank Capra, 1931) diventa per l’occasione rossa, come pubblicizza il titolo del film. Anita Loos, una bella brunetta dal caschetto alla Louise Brooks, attraverso i titoli dei suoi famosi romanzi (Gli uomini preferiscono le bionde ma sposano le brune) evidenzia la forza dello stereotipo hollywoodiano di bellezza femminile di quegli anni, identificato nel colore dei capelli. Esisteva un biondo angelico a Hollywood, quello di Lilian Gish e di Mary Pickford (amiche di Anita quando scriveva per Griffith ai tempi della Biograph o quando lavorava per Douglas Fairbanks): erano i riccioli d’oro vittoriani, tanto cari all’iconografia della donna angelicata WASP. Ma negli anni Venti moltissime giovani donne (e la gran parte delle star del cinema) si fanno bionde, adottando cioè un look artificiale, prodotto dell’arte dei parrucchieri e della moderna cosmesi. I capelli biondi quindi non significano più purezza e origini nord-europee, ma «a particular brand of sexuality, a calculated one, marked by its visible participation in commodity culture»2. Dietro le curve del corpo di queste ragazze platinate si intravede un progetto ben preciso: la seduzione di un bel carnet di assegni. C’è una sintonia naturale tra Anita Loos (la quale, come ci tiene a raccontare nella sua autobiografia, riceve persino i complimenti di Lanvin a Parigi, per il modo particolare, disinvolto e addolcente, con cui pettina il suo caschetto) e la flapper, la fanciulla vivace, amante dei divertimenti, che si trasforma presto nella ragazza moderna che lavora ed è economicamente indipendente, ma non sogna di necessità il grande amore, bensì Hollywood o i diamanti: insomma la goldigger, lanciata alla conquista dello schermo, in tutti i generi che lo consentano (pensiamo all’esemplare Gold Diggers of 1933 di Busby Berkeley). Con Lorelei Anita Loos crea un’antieroina moderna, ai limiti della decenza e dell’accettabilità ideologica; trattandosi di una commedia, il romanzo non riceve a livello critico l’attenzione dovuta; per esempio 2 J.M. LUTES, Authoring Gentlemen Prefer Blondes. Mass-Market Beauty Culture and the Makeup of Writers, in «Prospects» vol. 23, 1988, p. 439.

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LA

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non suscita automaticamente il paragone con il personaggio, di segno identico, di McTeague, ideato da Frank Norris e demonizzato da Eric von Stroheim in Greed. In effetti Lorelei è una self-made woman, calcolatrice e dedita al divertimento di lusso, al punto da rifiutare, fin dalle prime pagine del romanzo, la proposta di matrimonio di uno scrittore che la vorrebbe vestita in modo semplice e si preoccupa di come mangia, e le manda da leggere i romanzi di Ocean travel di Conrad; lei però preferisce «to go to Paris and broaden out and improve my writing» osservando «why should I give it up to marry an author, where he is the whole thing and I would be the wife of Gerald Lamson?»3. È vero che, dietro alle sue astute ed ironiche razionalizzazioni, la ragazza vuole soprattutto divertirsi e contare i gioielli accumulati, ma il suo obiettivo di un matrimonio, tale da consentirle la bella vita, include anche una self-education continua, un’identità femminile autonoma. Oltre ad aver inventato un personaggio stimolante per il parco delle dive disorientate nel periodo tra muto e parlato, Loos è una candidata naturale alla confezione della commedia sonora per le sue doti specifiche di sceneggiatrice. Punto di forza della commedia cinematografica dopo l’introduzione del sonoro è infatti la parola, il dialogo, vuoi scoppiettante vuoi a raffica, vuoi ricco di doppi sensi – un cinema, come ha sottolineato Guido Fink, dal gioco quasi ostentatamente teatrale4. La commedia degli anni Trenta sembra far piazza pulita della comicità slapstick, in prevalenza visiva, che domina nel muto, movendo verso una comicità legata agli ambienti e ai personaggi, e praticata per lo più attraverso la parola. La gag visiva torna a tratti nella screwball comedy – una variante caratterizzata da personaggi «picchiatelli» (screwball) con forti dislivelli sociali, giocata con una energia esplosiva. Si tratta comunque di una commedia basata sia sullo scambio verbale che su quello fisico, utilizzando il corpo, in prevalenza quello femminile, non più per la gag, per la maschera o l’inseguimento, 3 A. LOOS, Gentlemen Prefer Blondes (Boni and Liveright, New York 1925), Penguin, New York 1989, pp. 33-34. 4 G. FINK, Ottimismo per il New Deal, in G.P. Brunetta (a cura di), Cinema e Film. La meravigliosa storia dell’arte cinematografica, Vol. 3, Curcio editore, Roma 1987.

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bensì nella sua tensione socio-sessuale, nelle forme rotonde di Mae West o in quelle cosmeticamente artificiali, avvolte in languido satin, di Jean Harlow.

Anita Loos: biografia e carriera A questo punto bisogna trattare quindi del contributo specifico di Anita Loos, dei personaggi da lei creati e della sua particolare vena comica: non satirica, ma neppure blandamente umoristica. Anita Loos aveva contribuito alla commedia cinematografica americana fin dal muto, sviluppando il risvolto comico dei personaggio di Douglas Fairbanks e mettendo a fuoco un uso particolare delle didascalie – il wisecracking, la didascalia-battuta di spirito5. Nei film con Fairbanks, Loos ironizza sulle mode del periodo, dalla dieta vegetariana alla pubblicità, adottando, nelle didascalie, una lingua non mimetica ma espressiva. Una prima svolta si ha nel 1919, quando accetta di scrivere per Constance Talmadge, il che implica un trasferimento a New York, dove l’attrice, sorella della più famosa Norma, moglie del produttore Joe Schenck, ha una casa di produzione. Scrive il biografo di Anita Loos: Dutch (soprannome di Constance Talmadge) had a genuine flair for comedy, and in roles tailored to her personality she was beguiling, all razzmatazz and impudence, naughty but never vulgar or suggestive. Irving Berlin, one of Tallmadge’s many suitors, dubbed her a «virtuous vamp», and that, Anita felt, was the perfect description for the heroine Dutch ought to play: not a pre-Raphaelite lily like Miss Gish or a waif like Mac Marsh, nor a society clotheshorse like Gloria Swanson. Anita was, after something more up-to-the-minute. The roles created for Dutch were early flappers; and playing them, Talmadge was a John Held illustration come to life. All Anita’s screenplays for Talmadge were cut from similar cloth. Each is set against sophisticated surroundings, with Dutch cast as a young wife who teaches

5 Si veda G. MUSCIO, The Art of the Title. Women Screenwriters and Intertitles in American Silent Cinema in «Intertitre et Film», convegno internazionale, Cinémathèque francaise, Parigi 26-27 marzo 1999.

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her husband a well-deserved lesson or, alternatively, as a flirt or a scatterbrain, corrected by an adoring but much put-upon spouse 6.

In effetti questo personaggio è alla base dei successivi modelli femminili tratteggiati dalla Loos. Nella metropoli Anita Loos comincia a frequentare gli ambienti letterario-teatrali di Broadway, prendendo residenza all’albergo Algonquin e diventando amica di Zoe Akins e Tallulah Bankhead, mentre snobba gli scrittori (maschi) narcisisti della Algonquin Table (che prende in giro in Brunettes), escluso il suo idolo ed amico H.L. Mencken. New York stimola anche la sua passione per abiti eleganti, cappellini, saloni di bellezza e gioiellieri. In questi anni si reca per la prima volta a Parigi che comincia a frequentare con ruoli non secondari; nel 1921 incontra Gertrudes Stein e Alice Toklas, e sfoggia la sua bobbed hair, contribuendo all’affermazione di questa pettinatura. Al ritorno a New York scrive quattro film per Constance Talmadge, nella linea della virtuous vamp e sposa John Emerson, il regista dongiovanni e finto-colto (e, si scoprirà poi, malato di nervi) che lavora con lei. Dal 1923 Anita comincia a scrivere per il teatro (notiamo che non riprende l’attività cinematografica in pratica fino agli anni Trenta); in The Whole Town Is Talking prende in giro il mito di Valentino, cioè il sistema dei media – la metacomunicazione è senza dubbio uno degli elementi caratterizzanti tutta la sua opera. Nel 1924, sotto lo stimolo della frequentazione di Mencken, nel corso del lungo viaggio in treno fino ad Hollywood (dove risiede la sua famiglia), comincia a scrivere Gentlemen Prefer Blondes. Il lavoro viene pubblicato, a puntate, su Harper’s Bazar, su consiglio dello stesso Mencken, che lo ritiene un luogo in cui la sovversività sessuale (e quindi di genere) contenuta nel testo avrebbe potuto mimetizzarsi meglio. Nel 1925 il testo viene pubblicato da Liveright, ed esce assieme a An American Tragedy di Theodore Dreiser (di cui è protagonista un’interessante versione maschile di goldigger), Soldier’s Pay di William Faulkner e In Our Time di Ernest Hemingway. Loos entra di fatto nell’olimpo letterario americano: bastino, a confermar-

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G. CAREY, cit. p. 61.

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lo, gli attestati di stima di Faulkner; ma, avendo scritto una commedia, come sempre, la rilevanza culturale della sua opera ne risulta sminuita; tuttavia se pensiamo a tematiche, personaggi e stile dei tre grandi romanzi citati, non possiamo non notare l’innovatività linguistica e narrativa del testo di Loos. Questi per Anita sono anni di bella vita nel mondo del teatro newyorkese e del jet set internazionale, compreso, nel 1927, un viaggio in Italia con incontro con Mussolini (per il quale la nostra ha parole di lode sperticata) e alcuni soggiorni in Florida dove incontra Wilson Mizner, un brillante e dissoluto scrittore, fonte di ispirazione per certi gradevoli malandrini che propone poi tra i suoi personaggi maschili, e interpretati spesso da Clark Gable. Nel frattempo, nel 1928, Gentlemen Prefer Blondes diventa un film con Alice White e Ruth Taylor, proponendosi come testo di transizione tra la jazz age e gli anni Trenta – una sorta di nucleo della commedia sofisticata, in cui il sesso viene preso alla leggera, passando dalla flapper alla goldigger. Dopo il crollo di Wall Street, che intacca anche le sue finanze familiari, mal gestite da Emerson, e per via della grave crisi che colpisce Broadway, Anita Loos, invitata dalla MGM, torna a Hollywood. Assieme a lei muove a Ovest un’ondata di personaggi arruolati dai produttori hollywoodiani, che attingono all’ambiente teatrale e letterario allo scopo di proporre nel cinema sonoro una lingua con sufficienti garanzie culturali. Loos, infatti, viene invitata a Hollywood per le credenziali derivanti dal suo lavoro teatrale e per il successo del suo romanzo, mentre ella aveva già avviato un lavoro personale sulla lingua a partire dalle didascalie del muto. Loos si sentiva ormai una scrittrice e non rimpiangeva affatto Hollywood ma, date le difficoltà del momento, accetta il contratto offertole da Thalberg pur mantenendo per un po’ una base a New York e lasciandovi anche il marito. Le viene affidato l’incarico di scrivere per Marion Davies e Jean Harlow, creando per questa attrice un tipo particolare di commedia, incentrata sulla professional lady, ispirata a Lorelei. Il primo lavoro è proprio Red-Headed Woman, adattamento del romanzo di Katharine Brush. La MGM è uno studio incline a un grande investimento (o spreco?) sul fronte della sceneggiatura, mettendo spesso diversi scrittori in concorrenza uno con l’altro e, a loro insaputa, al lavoro su uno stesso progetto, e conducendo riunioni fiume per svi-

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luppare le storie. In effetti Francis Scott Fitzgerald, anch’egli arruolato dall’ambizioso Thalberg, aveva già lavorato all’adattamento dello stesso libro, con scarso successo. Lo story editor della MGM dell’epoca, Sam Marx osserva: «I couldn’t get him to grasp the idea that Thalberg and I wanted the audience to laugh with Lil Andrews (the heroine) instead of at her». Passato il lavoro a Loos, Thaiberg, come d’abitudine, discute con lei in dettaglio la struttura del film, che la scrittrice a contratto, da seria professionista, cerca di realizzare al suo meglio. Secondo Carey infatti «(u)nlike Fitzgerald and other New York and European authors... Anita didn’t think screenwriting beneath her... She worked happily within set limitations, polishing and perfecting but not struggling to expand or break the boundaries of the conventional MGM screenplay ...»7. Tutte le (numerose) star della MGM avrebbero voluto interpretare il ruolo della «rossa», soprattutto Joan Crawford, ma lo studio lo reputa un veicolo utile a mettere a fuoco il personaggio di Jean Harlow. Sembra sia stato Paul Bern (in seguito marito, ma allora solo mentore dell’attrice) a fare il nome della Loos per la sceneggiatura, che necessitava di un tocco umoristico per costruire una goldigger accettabile al grosso pubblico. Non è solo la professionalità a garantire ad Anita Loos un rientro agevole nel sistema hollywoodiano; in quel momento infatti ella rappresenta un «very valuable asset for MGM» come nota Sam Marx. Because the studio bad so many femme fatales – Garbo, Crawford, Shearer, and Harlow – we were always on the look out for «shady lady» stories. But they were problematic because of the censorship code. Anita, however, could be counted on to supply the delicate double entendre, the telling innuendo. Whenever we had a Jean Harlow picture on the agenda, we always thought of Anita first 8.

Nello stesso periodo Loos lavora a Blondie of the Follies, una storia originale di Frances Marion, con Marion Davies e Robert Montogmery, per la quale ella confeziona il dialogo – ulteriore conferma della particolare competenza che le si riconosce su questo fronte. 7 8

«So Thalberg ordered Fitzgerald taken off the scipt», Ibidem, cit. p. 147. Ibidem, p. 150.

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Dietro Marion Davies c’è William Randolph Hearst; non stupisce quindi l’associazione di due delle più famose sceneggiatrici di ogni tempo (Marion e Loos) per confezionare il film, soprattutto perché per Marion Davies il passaggio al sonoro è particolarmente difficile, dato che ha una lieve balbuzie. Mentre i malumori contro la licenziosità e la violenza del cinema hollywoodiano aumentano e si pensa a un sistema più efficace di applicazione del Codice Hays, Anita Loos è al lavoro su un nuovo progetto per la Harlow, il soggetto originale Hold Your Man, una specie di «hard-boiled comedy», ma Paul Bern si suicida. Questo scandalo, che si accompagna alle richieste sempre più pressanti di una censura più severa, impone prudenza: Loos «riforma» il personaggio nella seconda parte, trasformando la commedia in un melodramma di pentimento. È un segno importante, che sbarra la strada alle Lorelei più o meno sensuali, che erano la specialità di Anita Loos, deportate in massa nel melodramma9. In questi anni inoltre, essendo il processo di sindacalizzazione della categoria appena avviato, la carriera di uno sceneggiatore è determinata dal rapporto col produttore: quando Thalberg si ammala, Anita Loos è costretta a scrivere The Barbarian da una storia altrui, per Ramon Novarro e Myrna Loy; scrive poi The Girl from Missouri con Jean Harlow, Lionel Barrymore e Franchot Tone, di Jack Conway, Biography of a Bachelor Girl da una commedia di Behrinan, con Ann Harding e Robert Montomery, Riffraff, una strana storia sindacale con Jean Harlow e Spencer Tracy; nel 1936 scrive San Francisco da una storia di Robert Hopkins, con Clark Gable e Jeanette MacDonald. Purtroppo muoiono sia Harlow che Thalberg, e completato in qualche modo Saratoga con Gable, Harlow e Lionel Barrymore, Loos affronta un periodo difficile (anche perché il marito viene ricoverato in una clinica psichiatrica). Nel 1939 Loos scrive l’adattamento di The Women dalla commedia di Clare Boothe, il geniale film di George Cukor con Norma Shearer, Joan Crawford e un cast tutto femminile. 9 Sul periodo che precede l’adozione del Codice Hays e sul sistema di autocensura americano si veda G. MUSCIO (a cura di), Prima dei codici 2. Alle porte di Hays, Fabbri, Milano 1991.

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In questa occasione è Cukor che la fa chiamare (Fitzgerald aveva rifiutato il lavoro e la sceneggiatura di Jane Murfin non convinceva il regista). Nel 1940 scrive Susan and God con Joan Crawford e Fredric March, si dice allo scopo di evitare Philadelphia Story, «a synthetic snobbish play, that allowed Katharine Hepburn too much opportunity “to strut her mannerism”». Anita Loos scrive ancora, lavora indefessamente a progetti teatrali, libri autobiografici e persino una guida sui generis di New York; muore nel 1981, lasciando come eredità il magnifico Gli uomini preferiscono le bionde di Howard Hawks con Marilyn Monroe e Jane Russel. Red-Headed Woman Il film è tratto da un romanzo di Katharine Brush, ma la storia potrebbe esser stata scritta da Loos, tanto richiama i personaggi e l’intreccio di Gentlemen Prefer Blondes. A partire da ciò e dal fatto che i sacri testi, dal catalogo dell’American Film Institute alle recensioni d’epoca, lo definiscano una commedia, l’aspettativa sarebbe stata quella di un film brillante; ma vuoi per l’insipienza del regista Jack Conway, scarsamente dotato dell’orecchio necessario ai ritmi del comico, vuoi per le tensioni narrative interne alla storia, RedHeaded Woman mette a disagio lo spettatore di oggi, alternando situazioni tragiche o socio-sessualmente provocanti a dialoghi cinicoumoristici. La trama del film non è lineare, se non in quanto segue il tradizionale percorso verticale, tipicamente americano, della storia di successo e ascesa sociale, partendo dalla zona «dall’altra parte della ferrovia» per arrivare al jet set parigino. Lil «Red» Andrews (Harlow) lavora come dattilografa per Bill Legendre (Chester Morris), il giovane maggiorente della cittadina di provincia in cui vive. Fin dalla seconda sequenza scopriamo il suo piano, quando confessa all’amica Sally l’intenzione di sedurre Bill, anche se questi è felicemente sposato con Irene, il suo amore di sempre, perché vuole a tutti i costi essere ammessa al Country Club. Attraverso seduzione e ricatti, la ragazza riesce nell’impresa, facendolo divorziare e installandosi a casa sua – per

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quanto ella diventi una seconda moglie non molto rispettata dalla comunità. Quando da New York giunge il ricco e attempato amico di famiglia Gaerste, lo seduce e si fa invitare nella tanto agognata metropoli incoraggiata in questo spostamento dal suocero, desideroso di vedere Bill e Irene riuniti, ma consapevole dell’astuzia di Lil, che non si accontenterebbe di un assegno. La ragazza si lancia nella vita mondana ed anche Gaerste cede alle sue grazie; mostrando di non volere un regalo costoso come l’anello con un grosso brillante che lui le ha offerto, se non a patto di trasformarlo nell’impegno a sposarla, Lil si accinge a spostarsi ancora più su sulla scala sociale (come indica il percorso verticale, dell’ascensore, a sottolineare il suo arrivo a New York). Nel frattempo il suocero scopre che la ragazza se la fa non solo con Gaerste ma anche con lo chauffeur Albert (un giovane Charles Boyer), come svela all’ignaro amico, mostrandogli le foto che documentano la tresca, tra le quali una in cui Albert bacia Lil nell’auto, accanto al padrone, ignaro, chinato ad allacciarsi una scarpa. A questo punto le sue carte sono state scoperte e Lil tenta un gesto disperato per recuperare almeno Bill, sparandogli, dopo che si è riunito a Irene. Una didascalia segnala che sono trascorsi due anni e siamo a Parigi: Bill e Irene osservano il pubblico elegante del concorso ippico ed ecco che Red è lì, al centro dell’attenzione con un vecchio (ed ovviamente ricchissimo) marito francese e Albert al volante della vettura. Lil dunque raggiunge l’obiettivo massimo che poteva proporsi, ben al di là del Country Club, e lo raggiunge attraverso il sesso, attraverso l’uso del suo corpo, fasciato in languidi lamé, con le spalline che stentano a restare al loro posto, in un’esibizione di gambe e di nudità, autentico delirio di violazioni del Codice Hays. Eppure, dal punto di vista censorio, non si propone per lei alcuna forma di punizione e quindi di redenzione; non ci sono affetti che contano, per Lil, perciò non ci sono castighi sentimentali; non c’è una solitudine misera a punirla, né prediche moralistiche di alcun tipo; al massimo i consigli alla prudenza della sua amica Sally. Ciò che colpisce nel film, fin dalle primissime immagini, è l’evidenza del corpo, l’assenza di illusioni e doppi sensi, tipici della commedia sofisticata in materia di relazioni sessuali; sullo schermo trabocca una sensualità priva però della sana e compiaciuta vitalità di una Mae West. C’è invece la messa in scena di uomini in serie che si

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alzano dal letto, dal divano o persino dal pavimento, con tracce esplicite dell’attività svolta con Lil. Una scena mi sembra significativa in proposito: quando Bill decide di troncare la relazione con Lil, va da lei, che, per tutta risposta, lo chiude a chiave nella propria camera; lui le dà uno schiaffo e lei lo bacia: «Do it again. I like it» gli grida, chiedendogli di continuare; la sua amica dietro la porta ascolta il loro respiro farsi pesante e i gemiti; quando torniamo nella stanza, Bill si alza dal pavimento, dove Lil sta piangendo; con un gesto di pentimento e pietà la mette sul letto, chiedendole la chiave; lei, singhiozzando ma sempre lucida nel suo progetto, se la infila nella scollatura e lo invita a prenderla: non c’è molto da ridere. «Daring and torrid» sono infatti gli aggettivi scelti per promuovere il film; proprio per questo è difficile armonizzare la temperatura di scene come questa o il senso di violazione e dolore dimostrato dalla giovane moglie quando si scopre tradita, con il tono da commedia che dovrebbe caratterizzare il film. Red-Headed Woman è fatto di messe a distanza per via della difficoltà intrinseca nel proporre un personaggio vincente, privo però di rispetto per i sentimenti altrui e per valori consolidati come il matrimonio e la famiglia. Tra le strategie distanzianti, la presentazione del corpo femminile come prodotto della cosmesi, e la sottolineatura degli elementi metacomunicativi, con riferimenti al cinema o ai media. Il film non nasconde quindi la cosmesi e le arti femminili necessarie alla seduzione, come aveva fatto Loos in Gentlemen, che non presenta mai Lorelei nei preparativi per la seduzione; Red-Headed Woman li racconta in dettaglio, mostrando spesso Lil associata ai cosmetici. Il prologo è già un manifesto di questa intenzione, con l’immagine di Lil in pieno trattamento cosmetico, e coi riferimento a Gentlemen nella battuta – un riferimento del tutto multimediale, che parte da un racconto pubblicato su un giornale di moda come Harper’s Bazar, passa per un romanzo bestseller e diventa film, e citazione di film nel film. Nel primo segmento, mentre Lil parla con l’amica Sally, sullo sfondo ci sono vetrine con abiti eleganti, negozi di parrucchiere e di cosmetici; quando ha raggiunto la prima tappa della sua scalata sociale, diventando la signora Legendre, la si vede mentre si fa la maschera di bellezza, o si specchia narcisisticamente, pettinandosi la chioma, che sappiamo essere rossa, in attesa di Bill.

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La seduzione è direttamente collegata all’artificio; non c’è partecipazione o spontaneità negli amplessi, neppure nei maschi che recalcitranti cadono tra le sue braccia. Fin dall’inizio del film, abbiamo una dimostrazione dei poteri di Lil (e della sua falsità) nella sequenza del bacio dietro il bancone dei cosmetici, che scambia col suo corteggiatore arrabbiato10 al fine di rabbonirlo (rimettendosi subito il rossetto): dopo un contatto col suo corpo, gli uomini, intossicati, non riescono a fare a meno di lei. Il sesso quale merce di scambio potrebbe essere giocato con la leggerezza della commedia sofisticata, dell’illusione e delle schermaglie di società, come in un film di Lubitsch. Ma in questo film, il sesso diventa talvolta aggressione: Lil fa violenza a Bill, per esempio quando lo intrappola nella cabina del telefono, o gli si stampa addosso per baciarlo e costringerlo a sentire il suo corpo. La dimensione del gioco sociale si perde in una fisicità quasi esibizionistica, come nella sequenza in cui Sally e Lil si spogliano e la macchina da presa, indiscreta, le osserva, prendendo in giro i censori con una misura di inquadratura che lascia poco all’immaginazione. Questa scena è particolarmente significativa anche per il dialogo, in quanto Lil fa esplicito riferimento alla censura cinematografica, perché racconta la scena della seduzione di Bill, accaduta come «in an uncensored movie». (Non si può non ricordare, rimpiangendoli, gli esilaranti riferimenti alte attività di censore cinematografico del futuro marito di Lorelei, in Gentlemen.) Lil spiega a Sally le sue (convenzionalissime) intenzioni: «I don’t want to spend all my life on the wrong side of the railways tracks» e l’amica le risponde, in un tipico scambio di battute alla Loos: «Well, I hope you don’t get hit by a train when you are crossing». In effetti l’amica Sally ha la funzione di spalla cinica, simile all’alter ego esplicito e spiritoso di Lorelei, l’amica Dorothy in Gentlemen, che permette una razionalizzazione dei comportamenti delle ragazze, trasformandosi in ironia pura. Lil spiega la sua filosofia esistenziale: «Only a fool doesn’t get ahead. It is as easy to hook a rich man as it is to be hooked by a poor one». Il dialogo rivela una ragazza con un lucido progetto di ascesa sociale, che conosce le de10 Bill è un è un bootlegger, non il ragazzo della porta accanto. Già in partenza Lil sceglie chi può disporre di denaro, e non i sentimenti o le cose semplici della vita.

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bolezza degli uomini, non vuole restare sentimentalmente agganciata a un uomo povero, ma essere lei a condurre il gioco, agganciandone uno ricco. In Gentlemen Lorelei gioca di cervello, da ochetta in realtà astuta, in una sorta di pre-coscienza dei propri comportamenti – un’ingenuità smentita dai risultati delle sue abilissime manovre, gradevole per il lettore per il modo ironico cui l’autrice Loos (e la professional lady Lorelei) giocano a rimpiattino. Lorelei propone una sua etica, facendo anche delle rinunce, ma non all’interno di un’ottica borghese, cioè sublimando il desiderio per trasformarlo in virtù, quanto piuttosto rimandandolo, allo scopo di ottenere una soddisfazione di lungo periodo (un marito ricco, una carriera cinematografica, un’interessante relazione extraconiugale, e persino un piano per far fuori la fastidiosissima suocera). Gli obiettivi delle due goldiggers sono identici, ma Lorelei non li confessa in modo diretto, nascondendo le sue mire in un gioco che trasforma il desiderio di mobilità sociale in bisogno di essere educata, parlando di una passione per i libri e la lettura, che corrisponde al suo sogno di diventare un’autrice; in realtà preferisce Cartier e Coty ai musei, e, più che di un librodiario, vuole essere autrice di un progetto di vita, regista di un sogno hollywoodiano di agi e celebrità. Anche Lorelei è alle prese con un censore cinematografico, che ama molto il suo lavoro, soprattutto per via di quei momenti in cui può vedere tutte le cose scandalose proposte dai film11. Lorelei prende in giro sia la cultura alto-borghese che si lascia fregare dalle finte ochette come lei, sia l’istituzione stessa del matrimonio – l’idea vittoriana delle fanciulle da proteggere: tutti gli uomini «proteggono» Lorelei e vogliono «educarla», ma il senso di queste parole viene completamente trasformato dall’uso che ne fa la bionda. La rossa Lil invece non ha questa dimensione ironica; non è articolata nell’eloquio ed è quasi priva di auto11 «So Henry spent the evening at the apartment and then he had to go back to Pennsylvania to be there Thursday morning, because every Thursday morning he belongs to a society who do nothing but senshure all of the photoplays. So they cut out all tbc pieces out of all the photoplays that show things that are riskay, that people ought not to look at. So then they put all the riskay pieces together and they run them over and over again. So it would really be quite a bard thing to drag Henry away from one of his Thursday mornings and he can hardly wait from one Thursday morning to another». A. LOOS, Gentlemen, pp. 180-181.

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consapevolezza; al massimo sfiora il tono farsesco, essendo piuttosto sovraccarica. Anzi Bill e Irene, i ricchi della vicenda, risultano al suo confronto delle brave persone, dotate di sentimenti autentici: i veri «buoni», mentre l’arrampicatrice è un personaggio distruttivo. Lorelei non lo è da meno (basti pensare al suo «delitto d’onore» e ai modi di disfarsi dei corteggiatori usurati dallo sfruttamento), ma i suoi monologhi interiori sono così seducenti e ironici, in uno sberleffo continuo della cultura alta o comunque della cultura borghese, dalla psicanalisi alla letteratura, che possiamo perdonarle tutto. È davvero una questione di rappresentazione, di linguaggio. Sesso cosmetici e diamanti La linea di continuità tra la Loos sceneggiatrice del muto e quella del sonoro, tra la scrittrice di romanzi, testi teatrali e film è infatti la sua capacità di lavorare sul linguaggio, prima nelle didascalie e poi nei dialoghi, e soprattutto nella costruzione linguistica di Gentlemen. Il suo lavoro sul linguaggio non è di tipo mimetico o naturalistico, ma caustico e tendente all’aforisma, come dimostrano alcune battute o gli stessi titoli (ad esempio, Gli uomini preferiscono le bionde). Loos dimostra questa sua dote nei monologhi interiori sgrammaticati e filosofici di Lorelei, come nei dialoghi sincopati delle coppie di amiche Lorelei-Dorothy, Lil-Sally. L’altro contributo di Loos a un cinema che ribalta la presentazione del ruolo femminile, ed entra a pieno titolo nella modernità, è la creazione della professional lady, la goldigger, che è in sé un fenomeno della comunicazione, in quanto deve proporsi come oggetto, deve vendersi come prodotto. Negli anni Venti, in una società che la blandisce attraverso i consumi ma ne suscita anche l’aggressività competitiva in una forma sessuata, la donna può decidere (come Lorelei, ma non come Anita Loos) di non scambiare più il suo corpo con una fede nuziale o un grande sentimento, ma con denaro, gioielli e bella vita. Contemporaneamente si ha una grossa spinta in avanti dell’immagine femminile, collegata a una nuova relazione tra corpo femminile, cultura, società ed economia, sintetizzabile nel concetto di cosmesi.

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In the ethos of beauty culture, the female body itself became an intensely personal advertisement for each and every woman; a living, breathing promotional tool that, when crafted with care endowed its creator/prossessor with considerable power 12.

La pubblicità e la figura dell’esperto legittimano la cosmesi, eliminando la problematica associazione donna dipinta=prostituta, con la creazione dei diplomi in cosmetologia e le regolamentazioni statali «approved by the medical profession». Un ruolo chiave in questa legittimazione è rivestito proprio dal cinema, per esempio, coi capelli decolorati di star come Jean Harlow, ingenerando l’abitudine al volto truccato quale segno di distinzione e cura di sé. I cosmetici, fino ad allora considerati pericolosi per la salute e socialmente sospetti, diventano perciò una nuova forma di livellatore sociale. Alla fine degli anni Venti in USA si spendono in questo settore 700 milioni di dollari all’anno; la pubblicità cosmetica dilaga sui giornali femminili, assieme alla letteratura rosa. Alle donne si vendono cosmetici con la promessa di libertà, gaiezza, indipendenza: truccarsi diventa una scelta che evidenzia «free sexual expressiveness, wagework, and greater individual consumption»13. Abbiamo già osservato che la relazione tra Loos e la cosmesi o la moda non è superficiale: ricordiamo che Gentlemen appare su un giornale femminile, tra le pubblicità dei cosmetici e i servizi di moda. Il target femminile della rivista non deve però trarre in inganno; in realtà il diario di Lorelei viene pubblicato come libro da una casa editrice di prestigio e risulta da subito opera innovativa. L’ambiguità che circonda questo libro, a mezzo tra la letteratura popolare e femminile e il testo letterario della modernità, senza dubbio da ascrivere al fatto che ne sia autrice una donna, è favorita sia dalle sua prima presentazione che dall’essere considerato un testo oscillante tra il sovversivo (Lorelei manipola gli uomini, quindi è attiva e non è stupida) e il diversivo (il diario è una farsa). Loos adotta un linguaggio con «purposeful misspellings, inane observations» cosicché i lettori si sentono superiori intellettualmen12 13

L.M. LUTES, Op. cit., p. 434. Ivi, p. 436.

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te, rispetto alla professional lady. In questo senso Lorelei è l’esempio perfetto della consumatrice come donna inferiore, presupposto della pubblicità, come dimostra la sua reverenza verso Coty e Cartier; ma, al contrario di ciò che presuppone la pubblicità, non è emotiva. È invece una calcolatrice: I always seem to think that when a girl really enjoys being with a gentleman, it puts her to quite a disadvantage and no real good can come of It [...] So I really think that American gentleman (compared to French) are the best after all, because kissing your hand may make you feel very good but a diamond and safire bracelet lasts forever14.

In Lorelei (come in Lil «Red» Andrews) non c’è emotività sentimentale, non ci sono pulsioni, ma premeditazione e controllo. Anita Loos assomiglia a questi personaggi, a mezzo tra cerebralità e frivolezza, con l’aggiunta di notevoli contraddizioni: le piacevano i bei vestiti che però si cuciva da sola; scrive un romanzo «dissoluto» come Gentlemen ma è una moglie fedele; frequenta i letterati, ma mescola sentimenti di inferiorità a quelli di superiorità; ama le relazioni cerebrali, tende all’intellettualismo ma, rispetto alla famiglia e al marito, mantiene, una devozione vittoriana. Un dato è certo comunque: Loos privilegia l’associazione corpo bello+testa piuttosto che qualsiasi riferimento al muscolo cardiaco. Al centro del suo lavoro c’è la comunicazione, ovvero il problema di come costruire un’immagine, di come apparire: bisogna saper costruire di sé la rappresentazione adeguata, sia per la goldigger che per l’autrice (che nel caso di Gentlemen in un certo senso si identificano, perché Lorelei è anche l’autrice del diario, con ambizioni colte). Sfogliando i fan magazines dell’epoca, scopriamo che Anita Loos è molto carina e fotogenica, particolarmente abile nel pubblicizzarsi a fianco del marito sulle riviste del settore, non separando mai bellezza e capacità professionali; al contrario. Le sue autobiografie sono ricche di illustrazioni anche perché, evidentemente provava piacere a farsi ritrarre e aveva l’abitudine di documentare la vita mondana quanto quella professionale, il ballo in maschera come 14

A. LOOS, Gentlemen, cit. p. 100.

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il lavoro di scrittura accanto al marito. È lei stessa una «beauty expert», come si nota dai continui riferimenti, nei libri autobiografici, a tessuti, pettinature e sartorie; nel contempo è molto abile nella gestione della sua immagine pubblica, una «donna in carriera» che apprezza molto le frequentazioni della gente ricca e famosa. C’è quindi un rimando circolare tra Loos e Lorelei, e indirettamente Lil «Red» Andrews oscillante tra trasgressione e buon senso fatto calcolo, e nello stile della scrittrice, tra frivolezza e cultura non accademica: Loos aspira a essere considerata una figura del mondo letterario, eppure, anche quando insiste sull’importanza del suo lavoro, non contrappone arte a professione, ma lavoro a frivolezza, non dissociandosi mai, con civetteria e finta umiltà, da questa apparente leggerezza; come a dire che la superficialità, le apparenze patinate, Hollywood stessa, costituiscono una scelta. I guai con la censura Come abbiamo notato, attraverso Loos si può seguire un percorso che va dalla professional lady Lorelei alla goldigger vera e propria di Red-Headed Woman – percorso che finisce per disturbare molto i censori (forse irritati anche dal ritratto del censore Henri tracciato da Loos in Gentlemen). Come il fratello cattivo della goldigger, il gangster, che continua a frequentare gli schermi, ma deve essere punito in modo severo e certo nel finale perché i metodi con cui raggiunge il successo non sono ortodossi, così, dopo la stesura del Codice Hays nel 1930, le goldiggers devono darsi una regolata, restando accettabili per i censori o come figure comiche o come vittime in film lacrimosi. Per la gran parte si trasformano nelle fanciulle che lavorano e «casualmente» si innamorano di un uomo ricco, oppure del loro boss, secondo lo schema Cenerentola; in questo caso il loro successo non viene direttamente ascritto alla sfera sociale, ma piuttosto a quella sentimentale. Altrimenti, in pieno regime censorio, la goldigger fa una brutta fine, proprio come il gangster. E d’altro canto, se il piano del discorso si sposta sull’affettivo, le doti della goldigger si trasformano in caratteri negativi, perché calcoli e doppio gioco non si addicono alla commedia sentimentale, so-

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prattutto se al vertice non c’è la conquista o la riconquista dell’uomo amato, ma un buon matrimonio. (Che in fondo era quello che le brave ragazze di buona famiglia avevano sempre sognato e fatto; ma che le ragazze di strati sociali inferiori non possono permettersi di sognare, senza mediazioni sentimentali che occultino gli elementi sociali della tensione). Non è inaspettato quindi che i censori della Production Code Administration, irritati da Red-Headed Woman paragonino la figura della goldigger Lil proprio a quella di un gangster: There is a striking similarity between the treatment of this character and the earlier treatment of the gangster character[...] Because he was the central figure, because he achieved power and money and a certain notoriety, our critics claimed that an inevitable attractiveness resulted [...] While the Red Headed Woman is a common little creature from over the tracks who steals other women’s husbands and uses her sex to do it, she is the central figure and it will be contended that a certain glamour surrounds her15.

Nel discutere la questione, i censori pongono una differenza sostanziale tra una rappresentazione comica e una melodrammaticorealistica del tema, ritenendo la commedia un espediente strategico capace di «giustificare materiale altrimenti inaccettabile». Se la goldigger fa ridere, ovviamente fa meno paura. La distinzione tra commedia e melodramma risulta però confusa, in particolare nei primi anni Trenta, quando il cinema mostra la massima tolleranza per i generi misti, gli eroi bislacchi o negativi, rivelando una amoralità inaspettatamente predicata come medium di massa, non a caso coperta in fretta dal velo pudico del Codice Hays. È ovvio che se Lil non avesse dei caratteri eccessivi, quasi farseschi, non la farebbe franca: il film si fermerebbe al suo inutile tentativo di sparare a Bill per impedirgli di riunirsi a Irene, e magari la vedremmo finire in prigione per omicidio. Trattandosi di una commedia, invece, nell’epilogo ella si ritrova con un vecchio marito ricco e un amante giovane. Eppure, come dicevamo, non è facile stabilire dove la commedia finisca per trasformarsi in melo15 L. JACOBS, The Wages of Sin. Censorship and the Fallen Woman Film,19281942, University of Wisconsin Press, Madison 1991, p. 18.

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dramma; o meglio dove finisca la farsa, perché è forse nell’eccesso antinaturalistico di farsa e melodramma che le due trovano un punto di contatto. (Sempre che si accetti l’idea di un’interpretazione farsesca di Lil da parte di Jean Harlow.) La difficoltà di stabilire a che genere appartenga il film è documentata da ciò che scrive su Red-Headed Woman il censore Joy: In the cold projection room it seemed to be entirely contrary to the Code and one which, even though it conformed to the Code, would get us into all sorts of trouble. However, when seeing it with an audience it took on an entirely, different flavour. So farcical did it seem that I was convinced that it was not contrary to the Code and would not (if properly advertised) cause us any undue concern16.

Dato che per i censori la commedia non aveva lo stesso status del film realista, le consentivano di proporre materiali altrimenti considerati inammissibili. Ma gli stessi censori canadesi non trovano il film poi così comico: I do not think this is, as you suggest, a picture that we can laugh through as we did with The Greeks Had a Word for Them [...] There is not anything comical, in the minds of our Methodists, in the modest, and fairysweet flower of sex grown suddenly to sunflower proportions...17.

Alcuni tra questi film dei primi anni Trenta sono interessanti proprio per i deboli confini che mantengono tra commedia e melodramma. I loro elementi comici spesso derivano da una inversione parodica delle convenzioni dei melodrammi dedicati alle mantenute, alle kept women (le versioni passive della goldigger). Essi prendono in giro la presentazione tradizionale (lacrimosa) della donna perduta e di conseguenza la nozione dell’innocenza tradita e della passività di questi personaggi femminili. Come abbiamo visto, non solo l’iniziativa, in Red-Headed Woman, è tutta di Red, che non è per nulla innocente nell’uso del suo corpo, ma si giunge ad un capovolgimento di ruoli: non si tratta più della fanciulla sedotta e ab16 17

Ivi, p. 82. Ivi, p. 83.

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GIULIANA MUSCIO

bandonata, magari per una differenza di classe, ma della fanciulla che seduce e abbandona. È un’inversione di genere (in questo caso, al femminile) che ha luogo in un momento in cui la Crisi mina il fondamento economico della famiglia tradizionale e la disoccupazione mette a rischio il ruolo sociale dell’uomo. A cavallo della stesura del Codice Hays e della sua applicazione (1930-1933) pare quindi più difficile concedere il visto di censura a un film come Red-Headed Woman che a qualsiasi film di gangster. L’inversione di genere (la scalatrice sociale è una donna, il che mette in luce le contraddizioni del sistema della famiglia patriarcale) in un cinema di massa, rende la goldigger un personaggio più difficile del gangster, scalatore sociale violento e violatore di leggi. Nei primi anni Trenta i generi cinematografici si vanno stabilizzando, sia per l’intervento della censura che per l’evoluzione interna allo studio system, con la standardizzazione delle pratiche produttive, col mutare dell’equilibrio tra produttore e regista e sceneggiatore, che incoraggia un’organizzazione più sistematica e specialistica della divisione del lavoro, sceneggiatura inclusa. La ricchezza tematica, l’ampio spettro sociale e generazionale rappresentato dal cinema muto, vengono sommersi dal modello vincente del «cinema classico hollywoodiano». Di nuovo dobbiamo richiamarci al contesto storico: gli anni Venti rappresentano un periodo di evoluzione della società americana dal vittorianesimo alla modernità (ma anche di involuzione dal punto di vista della conflittualità sociale: basti pensare a Sacco e Vanzetti). Con la Crisi l’idea di ordine sociale subisce uno scossone profondo e, come ha osservato Sklar, entriamo nel caos18, col nonsenso dei fratelli Marx e le curve scandalose di Mae West, in un mondo della risata che mescola la tradizioni del vaudeville allo sperimentalismo di derivazione letteraria. Ma col New Deal (e con la contemporanea applicazione del Codice, nel 1933) il ribollire sociale viene compresso nella grande macchina hollywoodiana, che rimanda un’immagine più controllata e ottimista del sociale, permettendo il riemergere normalizzato delle aspirazioni alla mobilità sociale. A metà degli anni Trenta, la screwball comedy, i film di Capra 18

R. SKLAR, Cinemamerica, Feltrinelli, Milano 1982.

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LA

CREAZIONE DELLA «PROFESSIONAL LADY»

e la commedia sofisticata vanno a costruire la grande famiglia della commedia brillante; si cacciano le goldiggers sullo sfondo, si chiude la porta della camera da letto e si passa in salotto. Come è ovvio, nel salotto si conversa e si rispettano le convenzioni sociali, oppure ci si scontra con esse ma all’interno di una schermaglia non offensiva, nei modi, per la moralità borghese: pur rifacendosi a tradizioni trasgressive che rimandano a Oscar Wilde, all’operetta mitteleuropea e al teatro di boulevard, la commedia sofisticata ricorre a convenzioni più accettabili dal punto di vista sociale, del disordine e del gusto grossolano del vaudeville. Gli ambienti sofisticati della commedia borghese permettono di porre i problemi sociali sullo sfondo o di proporre delle soluzioni magico-angeliche alla Capra, facendo funzionare i progetti di mobilità sociale all’interno del generale ottimismo e pragmatismo newdealista. Quando riappare la goldigger, in un testo che Anita Loos adatta per lo schermo, per la regia di George Cukor nel 1939, cioè The Women, non a caso la rubamariti, calcolatrice e volgare, è una manicure, qualcuno che ha a che vedere con la cosmesi, ma le cui arti non sono più sufficienti a garantire il successo o quantomeno la felicità.

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IL PARADISO NON PUÒ ATTENDERE. LA CARNE, LA MORTE E IL DIAVOLO, OVVERO LA DONNA di VALERIO CAPRARA

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Andando a visitare le trame delle commedie hollywoodiane degli anni Trenta, risulta talmente evidente la comunanza di caratteristiche nei personaggi, nelle situazioni-base e in determinati temi, che sembrerebbe non possa interessarci altro che il loro sviluppo, lo stile attraverso il quale si arriverà a dei risultati che, in ogni caso, erano poi molto meno dei procedimenti usati per ottenerli. Pertanto assumono rilevanza fondamentale gli elementi stilistici, dalle soluzioni tecniche ai movimenti della macchina da presa, e i processi narrativi, dall’inclusione dei meccanismi comici nell’intreccio agli sviluppi dei motivi più classici. Proprio per questi motivi è facilmente riscontrabile una contaminazione della commedia con altri generi: in realtà, la commedia, specialmente quella più tipicamente americana degli anni Trenta, vive di incroci ed attraversamenti di confine, di attrazioni ed orbite fluttuanti. Ciò non significa che, nella produzione di commedie sofisticate o brillanti di questo periodo, non si possano trovare film che rispettano più linearmente le classiche tematiche e uno stile meno contaminato. A questo proposito, può essere utile una scheda che riordini genericamente le commedie in due categorie: 1) la screwball comedy, più spigliata, chiassosa, vivace, paradossale e, appunto, «svitata», dallo stile generalmente più vicino a quello delle slapstick comedies; 2) la regular comedy, che ingloba la romantic comedy, più compassata, tranquilla, realistica generalmente dallo stile alquanto sofisticato, più naturale e comunque non lontana dalla tradizione europea, più formalmente tesa a estremizzare le regole della verosimiglianza, rispetto alla cultura americana decisamente pragmatista e più portata a rimarcare il gusto del paradossale. Già da questa, pur generica e forse facile, distinzione si comprende quanto siano elastici i limiti del genere, e quanto questi dipendano dagli spazi stilistici attra-

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VALERIO CAPRARA

versati. Appartengono, così, allo stesso genere due film diversissimi tra loro come The Women (Donne, 1939) di George Cukor e Bringing up Baby (Susanna, 1938) di Howard Hawks; il primo oscillante verso il melodramma, l’altro estremamente affine al genere comico, ma entrambi, come anche tutti quelli che si situano liberamente nello spazio dei sottogeneri determinati dalle scelte stilistiche, devono rispettare, oltre allo stile della commedia, in ogni caso, alcune altre prerogative essenziali: il ritmo e, innanzi tutto, il motivo principale, quello amoroso, scatenato o acceso lentamente dall’incontro/scontro tra i protagonisti, un uomo e una donna, contrassegnando nel suo svolgimento i momenti più importanti del racconto del film. Ci sembra necessario sgombrare il campo da una serie di vecchi pregiudizi ed equivoci interpretativi che ancora oggi non permettono una serena e accettabile valutazione del genere stesso, anche e soprattutto in relazione agli anni Trenta. Si dovrebbe, ormai, allontanare dalla commedia di questi anni la semplicistica interpretazione – della quale hanno spesso patito anche generi fratelli come il melodramma e, soprattutto, il musical – che la definiva genere di leggero intrattenimento evasivo mirato a far dimenticare agli spettatori i gravosi problemi della Depressione. Sebbene non ci sembri la prima identificazione un aspetto negativo né esecrabile, non possiamo accettare la conseguente deduzione che non rispetta gli autentici rapporti esistenti tra Depressione e Cinema, e che riduce la questione commedia in modo banale e rozzamente sociologico. Preferiamo, perciò, rivoltare il problema e leggerlo rapidamente in una prospettiva meno moralistica e aperta alle diverse sfumature. Innanzi tutto, non si può sostenere che la commedia cinematografica, in quanto genere d’evasione e d’intrattenimento esploso durante la Depressione, sia stata una semplice reazione superficiale al mondo esterno, lontano dalla felicità rappresentata sullo schermo, minacciato dalla crisi economica e dall’avvicinarsi di una guerra; anche in seguito ai sacrifici imposti dal New Deal, e fino ai giorni nostri, pubblico e critici poco avvezzi alle ristrettezze economiche degli anni Trenta, hanno continuato ad ammirare, a divertirsi e a praticare il consumo e lo studio di queste commedie, grazie proprio alle qualità stilistico/narrative dei vari maestri, siano esse evidenti nella capacità di entertainment di Capra, nella leggerezza di Lubitsch o nel ritmo

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IL

PARADISO NON PUÒ ATTENDERE

vertiginoso e nelle situazioni paradossali di certe pellicole di Hawks. Più che una fuga dalla realtà le commedie del periodo costituiscono un’ulteriore ideologia: quella di un mondo personale entro il quale è possibile sorridere e addirittura divertirsi. Tuttavia, se è vero che, come rivelano Arthur Mayer e Richard Griffith, queste commedie, in particolare le screwball, «rispecchiano un mondo di frustrazione», è altrettanto vero che le stesse non si fermano ad essere un semplice riflesso della Depressione, bensì affermano e si sviluppano «come prodotto che dialetticamente le tristi condizioni economiche del paese hanno, per così dire, elaborato, come punto d’arrivo dell’immaginario di una nazione». E tutto ciò non va a contrastare la leggerezza delle commedie, ma ne è una condizione necessaria: all’America, nell’impasse del privilegio e del denaro, non resta che «l’impudenza, la follia privata», la violenza mascherata, lo sberleffo, ora ironico ora sarcastico (verso il mondo dei ricchi); non restano che le più irresistibili tentazioni mai rimosse, i sogni di benessere, e una nuova idea di romance e di erotismo, non più retorica e pomposa, certamente più aderente alla realtà, malgrado l’assurdità delle situazioni e le molteplici forme di finzione dietro le quali si continua a travestire e, quindi, ad alimentare. Nel 1934 Hollywood produsse due commedie fondamentali per lo sviluppo del genere: Twentieth Century (Ventesimo secolo) di Howard Hawks, e It happened one night (Accadde una notte) di Frank Capra. Sebbene questi film presentassero più d’un punto di contatto con i migliori esempi della commedia romantica e di costume (ricordiamo Trouble in Paradise, Mancia competente, 1932, capodopera del genere sophisticated, diretto da Ernst Lubitsch), in particolare Accadde una notte affermò un nuovo stile, la cui tematica venne tipicizzata in centinaia di commedie romantiche degli anni Trenta, fino a diventare una formula ben distinta. Accadde una notte, oltre a colmare, per la prima volta, ogni distanza ideologica tra il vecchio mondo alto/borghese e il pubblico hollywoodiano di massa, introduce delle varianti narrative e concatenazioni tematiche nuove attorno alla coppia dei protagonisti che battaglierà per l’intero film prima di assecondare il desiderio amoroso. Il genere di commedia che ne derivò trae la propria identità anche da uno stile di comportamento – adeguatamente riflesso in certi movimenti della macchina

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VALERIO CAPRARA

da presa e in certe tecniche di montaggio – e da un intreccio narrativo che si occupa del confronto e del corteggiamento dei sessi sullo sfondo dell’America reale. In entrambe le commedie, per la prima volta in maniera così totale, la coppia di protagonisti sessualmente attraenti e inconsciamente attratti sostenevano un ruolo malizioso trovandosi, allo stesso tempo, in situazioni anche comiche, solitamente relegate a personaggi di rango inferiore, come ricorda lo stesso Hawks. Alcuni dei motivi primari di questi film, come l’incontro/scontro tra i due protagonisti, l’odissea-itinerario o la fuga-viaggio, il desiderio travestito in ogni forma, costituiranno le assi portanti della commedia americana dell’intero decennio. Non è esagerato affermare che il genere ha non solo dominato gli anni Trenta – dall’egemonia di Lubitsch e Capra all’esordio di Billy Wilder come sceneggiatore per lo stesso Hawks e lo stesso Lubitsch – ma ha innescato una reazione a catena d’influenze, che si prolungherà a fasi alterne con gli inevitabili aggiornamenti e le diverse sfumature, fino al vero e proprio ritorno attualizzato dei motivi principali degli anni Trenta, avvenuto negli anni Ottanta/Novanta. Sarebbe, dunque, ineseguibile e forse anche improprio, almeno in questa sede, elencare pur sommariamente le numerosissime commedie che corrispondono a tematiche e formule inventate e inaugurate da Accadde una notte. Comunque, benché il prototipo resti, indubbiamente, il film di Capra, abbiamo preferito affiancargli non il pur essenziale ma simile Ventesimo secolo, bensì un altro degli esiti più alti di Hawks, per la sua assoluta portata innovativa: il già citato capolavoro del 1938, Susanna. Entrambi possono considerarsi capisaldi fondamentali della nuova commedia, poiché da loro si dipartiranno le innumerevoli strade percorse da un genere sempre pronto ad attraversamenti e trasformazioni e allo stesso tempo sempre pronto a rinascere uguale a se stesso. È evidente, quindi, che – al contrario di quanto afferma il titolo del remake anni Settanta de L’inafferabile Mr Jordan – il paradiso non può attendere l’evoluzione del costume incarnata dalle suddette, basiche, tipologie femminili, destinate a diventare il modello del costume fisico-mentale occidentale della prima metà del Novecento. Lo si avverte addirittura nei titoli che, spesso più espliciti che mai, inglobano direttamente la parola «donna» nella doppia accezione anglosas-

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IL

PARADISO NON PUÒ ATTENDERE

sone di woman (in generale) e girl (ragazza): The Miracle Woman, Front Page Woman, Two-Faced Woman, Woman of the Year, His Girl Friday, Fifth Avenue Girl... o con impalpabile ironia di Lady: Lady for a Day, The Cowboy and the Lady. O direttamente di un nome e/o un cognome: Sylvia Scarlett (Il diavolo è femmina), Ninotchka. Risulta fondamentale, a questo punto, la ricognizione effettuata da Enrico Giacovelli nel suo libro La commedia del desiderio (Gremese, Roma 1991): l’uomo, qualora compaia nel titolo, è considerato poco più che un oggetto, una proprietà privata della donna, come lascia intendere senza giri di parole My man Godfrey, il film di Gregory LaCava, la storia di un uomo-oggetto ridotto quasi a burattino nelle mani del sesso ex debole. Dunque la donna è il filo conduttore, il soggetto e l’oggetto, spesso dominatrice e vincitrice. È vero che vi sono due tipi fondamentali di donna: la donna «regolare», meta dell’arrivismo sentimentale piccolo-borghese, e la donna «irregolare», creatura d’altro pianeta, partorita forse dai desideri inconsci e inconfessati degli uomini, o se vogliamo dalle loro stesse paure, dal loro terrore di essere dominati. Ma, alla resa dei conti, però, la donna d’affari e la donna-lavoro approdano entrambe alla donna-sesso. Accanto a quelle irregolari vivono le icone dirompenti, magari costrette a dominare persino fisicamente i propri uomini mettendo loro una camicia di forza. Può anche succedere che il loro anticonformismo, la loro perenne sfida ai commi della società arretrata, dia i suoi frutti spontaneamente, senza bisogno di alcuna forzatura; comunque queste pericolose anti-eroine riusciranno ad attirare gli uomini nella propria orbita, a far scoprire loro il vero sapore della vita. È importante, nello stesso tempo, non farsi ingannare sino in fondo: la macchina da presa rivela sempre il rovescio della natura sessuale dei suoi soggetti e soffia la vita in una creatura umana sin dall’inizio, sempre esibendo quella trasmutazione da «carne» a cinema che resta la fonte della «violenza» originaria del regista. Esattamente ciò che allegorizza la chirurgia plastica del medico alter-ego di Cukor in Volto di donna (1941) con la Crawford dilaniata dall’incertezza tra due uomini. Escludiamo per un momento le due attrici Claudette Colbert e Katharine Hepburn, che hanno segnato i due film-cerniera di questa

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VALERIO CAPRARA

fantasmagorica commistione tra la carne, la morte e il diavolo. Il cui senso – una forma non conclusiva, aforistica, del diritto alla felicità – alligna nelle vorticose piroette di altre grandi «compagne di strada». Marlene Dietrich, angelo beffardo del film medesimo di Lubitsch, tentata dal connubio carnale con un ricco americano – spinta forse da un passato di prostituta di lusso – ma infine consegnata alla morte matrimoniale con l’Herbert Marshall che l’annoia e che non ama. Oppure Barbara Stanwick, spogliarellista, e quasi Biancaneve rovesciata dei futuri hardcore, che libera il timidissimo glottologo Gary Cooper dalla ridicola corte dei suoi «sette nani» antiquati professori (Colpo di fulmine). Ovvero figlia di un baro di professione, che lo riscatta trasformandosi in aristocratica per vincere il perbenismo goffo e impacciato del miliardario Henry Fonda (Lady Eva): due solo apparentemente diverse operazioni «diaboliche». Ginger Rogers, travestita da dodicenne, per provare il brivido della trasgressione e far assaporare a un maldestro militare il desiderio inquietante per una minorenne (Frutto proibito); o da Cenerentola, per passare da disoccupata a moglie dell’erede di un impero industriale (La ragazza della quinta strada); infine da finta ragazza-madre, per accedere alla (pelosa?) carità del datore di lavoro David Niven e diventare così attraente senza essere ridotta a simbolo sessuale e romantica senza mai limitarsi a simboleggiare la purezza e la fragilità (Situazione imbarazzante). Jean Arthur, segretaria di Mister Smith va a Washington, che consiglia l’apprendista leader nel nome del New Deal rooseveltiano e della fiducia (anche sessuale) da riporre nell’uomo (donna) della strada; ovvero giornalista (È arrivata la felicità) che mette alla berlina il candido neomiliardario Gary Cooper insegnandogli ad amare «il prossimo» (ma soprattutto lei stessa); o, ancora, simbolo vivente di come possano coincidere danaro e felicità, il diavolo e la carne, al di là della differenza – antiquata – di condizione sociale (L’eterna illusione). Carole Lombard, presa nel vortice di agili, aeree metafore sessuali hitchcockiane ne Il signore e la signora Smith nonostante la maliziosa insistenza del regista sul suo aspetto carnoso. Veronica Lake, anima di una strega morta sul rogo, reincarnata nel corpo di una bella fanciulla per vendicarsi, attraverso un discendente, del responsabile della sua rovina (Ho sposato una strega).

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IL

PARADISO NON PUÒ ATTENDERE

Jean Harlow, epitome della volgarità in Pranzo alle 8 e segretaria molto «privata» dell’industriale Gable grazie alla sua vistosa efficienza (Gelosia). Miriam Hopkins, sfidante del Codice Hays nel fitto gioco di allusioni sensuali esplicite, attivato come unico antidoto di un mondo artificiale/illusorio di ricchi menzogneri in Mancia competente; o addirittura volàno irriverente di un triangolo basato sulla paradossale ambiguità del suo meccanismo di libertà e continenza fisica (Partita a quattro). Greta Garbo, che sceglie l’ideologia capitalista dell’accumulo «individuale» del plusvalore erotico (Ninotchka); o che si finge gemella di se stessa per riconquistare il marito che la trascura in Non tradirmi con me, una sorta di pirandelliana fantasia di scambio sessuale (sulla linea de La donna che visse due volte e di Hannah e le sue sorelle) cui si sottopone anche Irene Dunne nel traffico di isole deserte-tetti coniugali di Le mie due mogli o negli arabeschi sul desiderio frustrato de L’orribile verità. Jeanette Mac Donald, il cui innamoratissimo marito (Maurice Chevalier) «si trova» a passare una notte con la sua migliore amica (il tradimento come afrodisiaco coniugale, con ben altro garbo del «liberato» tinto-brassismo odierno) in Un’ora d’amore di Lubitsch; ovvero «vedova allegra» del film omonimo che si dispone in piena grazia ad una «moderna» prova di simulazione dei sentimenti piena di crudeltà e malizia. Rosalind Russell di Segretario a mezzanotte, energica titolare di un’agenzia pubblicitaria che assume un pittore spiantato per usarlo come «esca» al fine di convincere i potenziali clienti femminili; ma quando lo stesso prende troppo sul serio il suo compito si abbandona alla gelosia (o meglio compie il passo decisivo della diabolica inversione di ruoli e ribalta la storia di Cenerentola, come nelle migliori fiabe dell’arcadia femminista). Tornando a Claudette Colbert, se il desiderio, nel finalissimo di Accadde una notte, sembra cadere malamente, a suon di fanfara, assieme alle «mura di Gerico» e per quanto esso si macchi di moralismo perbenistico (la coppia aspetta di essere validamente sposata per consumare l’atto sessuale), non possiamo non ricordare quanto sia rimasto allo stato puro, inappagato, struggente, contrassegnando

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con le sue fasi alterne i vari momenti narrativi, determinando con le sue accensioni e le sue negazioni ogni svolta del racconto e le regole fondamentali della commedia. Lo spirito della commedia degli anni Trenta si incarna perfettamente in Accadde una notte, in quanto quello che ci racconta mirabilmente il film di Capra non è altro che commedia mossa dal desiderio, ovvero: l’arte di perdere e di riconquistare in un istante, di giocare fino alla fine la partita del rovesciamento delle sorti, della salita e della caduta, dello svelamento e del nascondimento, del vedere e del non vedere, del sapere tutto e del non sapere più niente. Se Accadde una notte si afferma come capodopera nella storia della commedia (americana e non), in quanto prototipo del genere e iniziatore della serie «boy meets girl», Susanna si impone, senza dubbio, come la commedia più vivace degli anni Trenta. Ancora più che in Accadde una notte, il tessuto e il ritmo narrativo del film di Hawks producono un senso nella messa in scena, nella combinazione transcodificante di elementi pertinenti alla scrittura cinematografica e alla sintassi filmica: le unità semantiche del racconto e i valori denotativi della storia risultano, non soltanto congiunti inscindibilmente al discorso nel corpo unico del testo, ma si definiscono nel loro svolgimento come produzione di scelte e fattori stilistici. La conferma di quanto siano determinanti lo stile e la narrazione della commedia, si trova nello schema base di Susanna, che non è poi molto diverso da quello di un melodramma, come, d’altronde, non sono così lontani dall’area melodrammatica i motivi della storia: l’impossibilità del protagonista, serio e inappuntabile, a far valere le sue ragioni, malgrado i continui sforzi; gli imprevisti a catena, che lo colpiscono da quando s’imbatte con una donna innamorata di lui, e che finiscono per distruggere radicalmente i suoi costumi di vita; il naufragio continuo dei suoi progetti, compresi il suo matrimonio e un tentativo di finanziamento necessario per la sua attività professionale; il ritrovarsi, senza volerlo, in situazioni imbarazzanti e umilianti, quasi ai confini dell’illegalità e rischiose per la vita; la perdita della sua irreprensibile reputazione, a causa del carcere subìto ingiustamente; e, per quanto concerne la protagonista femminile, un amore che sembra impossibile da realizzare. È lo stile a far sì che tutti questi motivi, pur concatenati in un intreccio, prendano forma per dar

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IL

PARADISO NON PUÒ ATTENDERE

vita a una commedia e non a un melodramma. Se Accadde una notte sfuggiva alle caratterizzazioni fisse inventandosi un nuovo genere, nuovi codici di linguaggio e di comportamento, dunque un nuovo stile generato da una commistione, Hawks ritiene, con maggiore e più estrema consapevolezza rispetto a Capra, che una commedia – e il discorso calza perfettamente per Susanna – «è esattamente la stessa cosa di un racconto di avventure: è semplicemente la reazione umoristica al fatto di essere messi in una situazione imbarazzante». E delineando il concetto, sempre lo stesso Hawks ribadisce: «il racconto d’avventura e la commedia sono realmente la stessa cosa: la sola differenza è che da una parte si tenta di liberare, nelle reazioni dell’eroe, il loro aspetto comico, e dall’altro lato il loro aspetto drammatico, e tuttavia si può anche mescolarli». Oltre al fattore mix-genere, Hawks ricombina, in Susanna, nella sua inconfondibile personalissima cifra stilistica, ogni motivo e ogni elemento della commedia, che egli stesso aveva già cooperato a creare e che erano parte integrante del suo mondo poetico. Susanna è, in realtà, non solo un perfetto esempio di commedia degli anni Trenta, ma un’autentica reinvenzione del genere/stile, una reinterpretazione decisiva per la sua evoluzione: coglieremo tutti i motivi già presenti in Accadde una notte, dal viaggio/ricerca alle schermaglie pure e non, dal travestimento alle sostituzioni, ma in una prospettiva talmente nuova e multiforme da diventare, seppure in linea programmatica con gli esiti più alti di quegli anni e, allo stesso tempo, attraversando e segnando mezzo secolo di commedie, una sorta di trait d’union con le commedie degli anni Ottanta, da Something Wild (Qualcosa di travolgente, 1986) di Jonathan Demme a After Hours (Fuori orario,1985) di Martin Scorsese, da Who’s that Girl? (id.,1987) di James Foley a Blind Date (Appuntamento al buio, 1987) di Blake Edwards. Basti pensare al motivo essenziale e principio motore di ogni commedia, il «boy meets girl»: in Susanna, l’antagonismo maschio-femmina è, sia nello svolgimento sia nella conclusione, per lo più una prevaricante vittoria totale della donna, ed è regolato, non soltanto dalla dinamica del desiderio, ma anche da una più continua e cosciente, seppur segreta, strategia della seduzione, ancora una volta condotta dalla donna, fuori, però, da ogni convenzionalità e sempre in anticipo sui tempi. Mentre anche in Accadde una notte si an-

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VALERIO CAPRARA

dava verso l’inevitabile saturazione delle strutture narrative, in Susanna le variazioni strutturali si muovono attraverso sostituzioni, inversioni e/o sospensioni, e persino la fine del film, con il crollo dello scheletro del brontosauro causato da Susan e dalle rivelazioni amorose di entrambi, resta completamente aperta ad ogni possibilità: la circolarità narrativa diventa ancora più complessa e il meccanismo di inversione è totale. Se il di fuori e il di dentro sono pure finzioni, anche la donna può assumere la funzione dell’uomo nel rapporto di seduzione, e l’uomo quello della donna. L’incontro/scontro tra i due sessi ha sondato, così, il regno infinito delle possibilità («Di’ una qualsiasi cosa e io l’ho fatta» risponderà David a chi gli chiederà cosa è successo nella sua folle giornata con Susan) fino alla transvalutazione di ogni valore classico, iniziando a vivere proprio nell’attimo in cui si viene sedotti, proprio come è successo a David, la cui vita, prima di conoscere Susan, non era altro che fossilizzata, quasi quanto il cumulo di ossa del suo brontosauro. In realtà, in Susanna agisce il ganglio della commedia hollywoodiana che nasconde, dietro le sue risate e le sue frenetiche esagerazioni, proprio quella strategia seduttiva che, allora come ancora oggi, permane, irretisce, conquista, quale forma irridente e destabilizzante di quella parte a volte maledetta, ma quasi sempre oscura, di tutti noi.

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UNA LEGGERA DEPRESSIONE. LA COMMEDIA BRILLANTE E LA GRANDE CRISI di PEPPINO ORTOLEVA

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Gold Diggers of 1933 (La danza delle luci) è un film di Mervin Le Roy con coreografia di Busby Berkeley, protagonisti Ruby Keeler e Dick Powell con la forte presenza di Joan Blondell, di Ginger Rogers e della più autentica interprete del personaggio della goldigger (la ballerina di fila-determinata arrampicatrice sociale che era uno stereotipo della commedia di quegli anni e che dà il titolo a questo e ai successivi film della serie): Aline McMahon. È un classico esempio di un sottogenere ampiamente praticato all’epoca e spesso rivisitato anche oggi, il backstage musical; e ne segue rigorosamente le regole: lo sviluppo di un’idea di spettacolo, i contrasti e le difficoltà incontrate nel metterlo in scena, gli intrecci amorosi dietro le quinte, i disvelamenti d’identità (in questo caso la scoperta che il «povero pianista» interpretato da Powell è in realtà un miliardario), il matrimonio multiplo alla fine. Ma con una differenza. Il film venne girato tra la fine del 1932 e i primi mesi del 1933: il periodo più buio, più drammatico della crisi del ’29, quando la disoccupazione salì a oltre il 35% della manodopera, e un’altra parte consistente dei lavoratori era sì occupata ma in regime di lavoro part time, e molti altri ancora avevano dovuto accettare sostanziosi tagli di paga. La Depressione, un tema apparentemente del tutto estraneo a un genere programmaticamente leggero, viene in realtà più volte evocata nel corso del film. Prima di tutto all’inizio, quando il balletto fatuo e fintamente ottimistico al suono della canzone We’re in the Money (così programmaticamente sarcastica che Andrew Bergman l’ha scelta come titolo del suo noto libro sull’America della depressione e i suoi film1) viene interrotto dagli uf1

A. BERGMAN, We’re in the Money, Harper Colophon Books, New York 1971.

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ficiali giudiziari, venuti a sequestrare tutto, incluse le monetone di cartone ostentate dalle chorus girls durante il balletto. Poi dal «povero pianista» che propone di dedicare alla depressione, appunto, il prossimo spettacolo, di riportare Broadway per una volta al fianco degli uomini comuni. E poi alla fine, con un colpo di scena che non cessa di stupire chi guardi il film anche oggi: quando lo stesso Powell, sistemato tutto, combinati tutti i matrimoni da combinare e saldati tutti i debiti da saldare, mentre tutti i guai sembrano dimenticati, ci invita a vedere un ultimo number, e sentiamo/vediamo Joan Blondell vestita e truccata da prostituta, con una forte effetto di deformazione rispetto alla bellezza da ragazza della porta accanto esibita in tutto il resto del film, intonare Remember My Forgotten Man. Comincia il balletto dei veterani, mandati a combattere nella prima guerra mondiale e poi dimenticati dal paese per cui avevano rischiato la vita, picchiati dalla polizia per avere osato chiedere un aiuto in tempo di crisi: un balletto fortemente geometrico alla maniera di Berkeley, ma denso di particolari crudi, volutamente urtanti per lo spettatore. La vicenda della Bonus Army, la grande dimostrazione dei veterani arrivati a Washington per chiedere un sussidio e duramente repressi dall’esercito al comando di McArthur e Eisenhower, era ancora nella memoria e negli occhi degli spettatori del tempo grazie alle foto dei giornali e alle riprese dei cinegiornali. La rappresentazione che ne danno Le Roy e Berkeley è stilizzata, quasi astratta, e proprio per questo più atroce di qualunque immagine documentaria. Goldiggers of 1933, attenzione, non è un film «sulla» Depressione. Anzi. L’annuncio dato da Dick Powell, poco dopo l’inizio, di voler dedicare il suo spettacolo proprio a quel tema, sembra smentito per quasi tutta la durata della storia, tutta presa da fidanzamenti e litigi, balletti maliziosi (Petting in the Park è tuttora un classico dell’erotismo soft, più volte «citato» anche nei film successivi), giochi di equivoci. La Depressione, si può dire, incornicia il film più di quanto non lo attraversi: saluta il nostro ingresso nella storia e la nostra uscita dalla sala, ma per il resto resta sullo sfondo, come si può supporre restasse nella mente del pubblico anche nei momenti più rilassanti. Proprio nel suo intreccio di realismo e stilizzazione, di evasione e di voluti e violenti «effetti realtà», questo bel film può essere consi-

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derato emblematico di una verità più generale del cinema hollywoodiano di quegli anni, e forse del cinema in generale. «Evasione» e realismo, tendenza a costruire racconti fantastici piacevoli e rassicuranti ed esigenza di fornire allo spettatore un’immagine del mondo comunque credibile, si intrecciano in modo inestricabile, e attraversano tutti i generi. Proprio quando il cinema sembra portarci più lontano dalla quotidianità, proprio allora ci offre, spesso di sorpresa, dei flash del mondo «reale». E viceversa; perché spesso le trame più apparentemente realistiche, perfino documentarie, finiscono con il nascondere l’eterno ritorno di grandi modelli narrativi classici. Così, in un testo-chiave su cui dovremo tornare, all’inizio degli anni Cinquanta Robert Warshow2 ci dimostrava come il più «realistico» dei generi nati col sonoro rispondesse a tutti i canoni aristotelici del tragico (dove però la hybris punita è il volersi staccare dalla massa); così, d’altra parte, il musical e la screwball comedy aprono improvvisi squarci sui drammi dell’esistenza familiari al loro pubblico proprio nel mezzo delle trame più convenzionali, dei lieti fini più ovvi: Busby Berkeley lo farà di nuovo, forse con ancora più violenza, nel successivo Goldiggers of 1935, che si chiude con la celebre Lullaby of Broadway, e un balletto che mette in scena il «volo» suicida di un’impiegata da un grattacielo. Un messaggio quanto mai diretto per le impiegate, appunto, e le «piccole commesse» che, stando a un noto saggio di Kracauer3, costituivano forse il nucleo più compatto del pubblico cinematografico di quei primi anni del sonoro. È una verità da tenere ben presente se ci si vuole porre un interrogativo apparentemente banale, in realtà impervio e spesso ingannevole: che cosa ci dicono, questi film, del loro tempo e della società che li ha prodotti? Non staremo certo a ripercorrere qui l’annoso dibattito sul film come fonte storica e testimonianza del passato4; ci basti dire che due 2

R. WARSHOW, Il gangster come eroe tragico, in «Calibano», 2, 1980 (ed. orig. In The Immediate Experience, Athenaeum, New York 1954). 3 S. KRACAUER, Le piccole commesse vanno al cinema, in La massa come ornamento, Prismi, Napoli 1978. Il saggio faceva riferimento alla realtà tedesca, e più specificamente francofortese, ma la composizione sociale del pubblico americano non era molto diversa. 4 Rinvio per una sintesi al mio Cinema e storia. Scene dal passato, Loescher, Torino 1991.

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rischi sono da evitare, quello del letteralismo (la tendenza cioè a cercare nei film sempre e solo le rappresentazioni dirette dei principali eventi e nodi problematici di un’epoca) e quello del parallelismo radicale (la tendenza cioè a negare aprioristicamente qualsiasi relazione, quasi che la storia dei testi e la storia delle persone potessero davvero restare in reciproco isolamento), e che tra l’uno e l’altro livello andranno cercati invece, semmai, giochi di rimandi e allusioni, indizi e isomorfismi. Possiamo trovare un chiaro esempio di letteralismo (per di più filologicamente fragile) nella tesi spesso ripetuta secondo la quale i film più «politici» di Capra (in particolare Mister Smith va a Washington e Arriva John Doe) sarebbero stati diretta espressione dell’ideologia del New Deal: tesi che finisce con lo schiacciare a pura propaganda la notevole complessità di quei film, e che oltre tutto contrasta nettamente, come ha notato Morando Morandini5, con l’ideologia personale del regista, fedele repubblicano e duro critico del rooseveltismo. Il che non significa certo che i film di Capra possano essere letti in isolamento dal loro tempo, ma che un’analisi davvero feconda deve puntare su relazioni diverse, meno lineari: pensiamo ad esempio ad Arriva John Doe. L’aspetto che più ci colpisce e ci turba del film non è tanto la rappresentazione di un possibile fascismo americano, quanto il fatto che questa minaccia assumesse il volto, e la retorica, dei film precedenti di Capra – forse ad esprimere quanto il regista e il suo sceneggiatore Rifkin fossero turbati dall’uso rooseveltiano di quei prodotti –. Non è certo una lineare, e banale, presa di posizione propagandistica, semmai al contrario l’indizio di un turbamento profondo – che, sappiamo, il regista condivideva con molti intellettuali del suo tempo – sugli stessi valori fondamentali dell’americanismo. L’indizio più interessante che lega il film al suo tempo è un sottile gioco auto-ironico, un aspetto apparentemente tutto interno al rapporto tra l’autore e la sua opera. Forse, trova applicazione anche nel nostro caso la bellissima metafora proposta ancora una volta da Siegfried Kracauer nel suo ultimo libro6, secondo cui lo storico vive il tempo oggetto delle sue ri5 6

M. MORANDINI, Cinema e New Deal in «Essai», 7, 1981. S. KRACAUER , Prima delle cose ultime, Marietti, Genova 1988.

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cerche come l’esule vive un paese straniero, cercando di capirlo e calarvisi il più possibile, ma restando sempre, con la mente e con il cuore, cittadino di un altro paese. Ogni film ha in questo senso una doppia cittadinanza, è parte di un universo immaginario e nettamente distinto dalla realtà quotidiana e contemporaneamente da quella realtà non può mai staccarsi del tutto, e il suo continuare a «pensarvi» si manifesta per riferimenti spesso obliqui, che possono essere colti davvero solo da chi provi a calarsi pienamente in entrambi i mondi. Lo studioso che vi si accosti deve accettare, e se possibile vivere, quella doppia cittadinanza, sapendo che se non mette il film in relazione con il suo tempo rischia di non capirlo, e di non coglierne tutta la ricchezza, e se lo schiaccia troppo sul suo tempo rischia di non essere un buono spettatore, di rifiutare quella willing suspension of disbelief senza la quale non si può neppure seguire una storia. Questo poi, se ci pensiamo bene, è proprio il punto di vista che il film di Le Roy ci invita ad assumere. Lo spettatore che capisce e ama il film è solo quello che accetta la doppia cittadinanza, si abbandona alla trama fantastica nella sua convenzionalità dimentico di quel che accadeva nell’anno in cui il film è stato prodotto, ma si lascia sorprendere dalle improvvise irruzioni del mondo reale quando sono meno attese, e proprio per questo producono l’incontro più emozionante e traumatico. Se ci poniamo da questo punto di vista, allora potremo constatare che la presenza della Depressione nel cinema americano degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, in particolare nei generi più tipicamente «d’evasione», è assai articolata e significativa. Se sapremo coglierla ci aiuterà non solamente a capire qualcosa dell’epoca, ma anche ad apprezzare meglio questi film per come il loro pubblico li guardava. Per farlo però occorre ancora una volta tenere d’occhio il pericolo del letteralismo. La presenza della Depressione non va cercata solo, né tanto nei riferimenti diretti alle code dei disoccupati, alle manifestazioni e alle baraccopoli (Hooverville, come le chiamavano allora in omaggio sarcastico al presidente del tempo), quali troviamo nei film ricordati, o in L’impareggiabile Godfrey di Gregory LaCava; quanto piuttosto in alcuni temi profondi e sotterranei. Dobbiamo cioè cercare non le condizioni materiali del tempo

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ma gli echi di un trauma più profondo e sottile, un cambiamento del modo di guardare la società e di pensarsene parte, che coinvolse in quegli anni tutti gli americani – inclusi quelli che non vissero un cambiamento significativo del proprio reddito e del proprio status – e che avrebbe lasciato tracce nella coscienza collettiva anche dopo il totale superamento degli aspetti economici della Depressione. L’idea di futuro implica per Middletown due elementi: una congerie di grandi simboli, di parole d’ordine, di valori, di credenze che oscillano alti e chiari al di sopra delle realtà quotidiane della vita; e, su e giù per le strade ombreggiate, nelle abitazioni, negli uffici e nelle fabbriche spoglie, una rete di piccoli progetti, di speranze e di supposizioni. Negli anni del boom verso la fine degli anni Venti, il cielo di simboli, di parole d’ordine e di sogni personali si era avvicinato sensibilmente alla vita quotidiana: ecco allora riaffermata splendidamente la vecchia verità, perché il futuro stava significando progresso, e progresso voleva dire che gli americani erano il popolo più eletto. […] Ciò che è accaduto durante la Depressione è che la distanza tra l’universo simbolico delle credenze e l’universo pragmatico della vita quotidiana è aumentata. I due mondi si sono improvvisamente distaccati, e in misura tale da esigere da Middletown, o di applicare la sua formula abituale e di negare ciecamente che l’abisso si sia davvero approfondito, o almeno di considerarlo soltanto un’interruzione temporanea; oppure di rivedere il mondo dei simboli che fluttuano in alto, riformulandoli in termini più umili e meno speranzosi, in modo da ricondurlo più vicino alla realtà quotidiana; o ancora di accettare come normale il fatto di vivere in uno stato di tensione reso più acuto dall’inattesa distanza permanente tra i due piani7.

Ecco: queste parole delle ultime pagine del grande libro di Robert ed Helen Lynd, Middletown in Transition, la ricerca antropologica su una città «media» americana in piena Depressione pubblicata nel 1935 dopo dieci anni dalla prima inchiesta sulla stessa città negli anni del boom, ci aiutano a capire in che cosa davvero la Depressione fosse una presenza costante nel cinema americano di quegli anni. Universo simbolico e vita quotidiana: la macchina-cinema ha, tra le sue caratteristiche essenziali8, quella di funzionare da relais, da 7

H. e R. LYND, Middletown dieci anni dopo, Comunità, Milano 1974, p. 515. Riprendo qui alcuni concetti esposti più ampiamente nel mio Cinema e storia, cit., in particolare nel quarto capitolo. La mia riflessione in materia è debitrice soprat8

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luogo di interscambio tra questi due livelli, attraverso l’associazione di realismo fotografico e racconto fantastico: caricando di significati e di «vissuti» immaginari gli oggetti della vita reale, e al tempo stesso calando l’universo dei simboli in un orizzonte di esperienza realistico e «visibile» secondo la concettualizzazione di Pierre Sorlin9. Un processo di crisi profonda nel modo in cui i due termini sono messi in relazione nella mentalità comune troverà sicuramente nel cinema un’eco profonda, anche se non necessariamente visibile in modo immediato. Prima di addentrarci in alcune verifiche sui film, può essere utile approfondire ulteriormente l’intuizione dei Lynd. In realtà, quella da loro tratteggiata è una crisi psico-sociale complessa, che può essere articolata in più fasi, e che attraversò la mentalità dominante americana per tutti gli anni compresi tra l’autunno 1929 e la fine del decennio successivo10. La Depressione innescò in primo luogo una profonda crisi di identità tra i lavoratori – in particolare maschi – condannati alla disoccupazione e quelli colpiti dai diffusi fenomeni di sotto-occupazione e di sotto-salario, mettendo in forse, e in questione, il ruolo di bread-givers che ne definiva la funzione nella società in quell’epoca di affermazione iniziale della famiglia nucleare e della sua ideologia. La frattura tra universo simbolico e vita quotidiana notata dai Lynd è strettamente connessa a questo delicatissimo passaggio: in una situazione in cui l’identità personale di una parte molto consistente della popolazione viveva una crisi profonda, era difficile accettare come indiscutibile il sistema di differenze e di aspettative che per decenni era stato abbinato con l’American way of life. Che il capitalismo non stesse mantenendo le promesse era evidente: il problema era se questa fosse colpa dei singoli, se fosse il frutto di una scelta politica sbagliata, se fosse frutto di un inganno o di un’illusione ottica. Tutta la cultura americana degli anni Trenta è attraversata da questo dilemma, che si ripercuote in particolare sultutto nei confronti della riflessione teorica di E. Morin, nei suoi libri sul cinema, sulla cultura di massa, sul divismo. 9 Il riferimento è in particolare a Sociologia del cinema, Garzanti, Milano 1979. 10 Seguo qui il percorso tracciato in un mio lavoro storico di circa vent’anni fa «Republic of the penniless»: radicalismo politico e «radicalismo sociale» tra i disoccupati americani, 1929-1933, in «Rivista di storia contemporanea», 3, 1981.

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l’universo simbolico del cinema, proprio in quanto per decenni la sua macchina aveva funzionato da garante e diffusore di quei valori. Come si ripercuote? Non in forma esplicitamente politica, salvo per il fenomeno assolutamente minoritario – per altro interessantissimo – del documentario militante tipo Film and Photo League o per un film del tutto anomalo, ma di straordinaria importanza, Our Daily Bread di King Vidor, la più alta espressione fantastica di quel fenomeno grandioso e ancora pochissimo compreso che fu il movimento del self help. In modo significativo, ma ingannevole, nel gangster movie: non tanto rappresentazione realistica della vita di Chicago o altre metropoli, come troppi continuano a pensare, ma – come intuì Warshow – sublimazione di un ciclo aspettativa-delusione, nei canoni della tragedia, e celebrazione di un rovesciamento. Perché, come ha intuito acutamente Andrew Bergman, il gangster è negli anni Trenta il solo che attua davvero, sia pure solo per una fase della sua carriera, l’American dream, il solo che riesce a passare dallo spillo al milione in pochi anni seguendo quasi alla lettera i consigli dei romanzetti edificanti di Horatio Alger, incluso quello, ripreso dall’autobiografia di Benjamin Franklin, che invita chi vuole il successo a vestirsi adeguatamente. Un topos del gangster movie, non a caso, è la prova dal sarto. A dimostrare che l’abito non fa il monaco, ma anche a insinuare sottili dubbi su una società dove il sistema simbolico continua a essere radicato negli abiti e in altri oggetti di uso quotidiano. In altri termini, l’America della crisi si presenta nel gangster movie (anche nei più ostentatamente documentaristici, come I ruggenti anni Venti di Raoul Walsh che chiude l’età d’oro del genere), non tanto nei suoi aspetti realistici quanto in un rito ostentato di rovesciamento valoriale, di interrogativi sulla coerenza tra universo dei simboli e universo della quotidianità. Un tema attraversa, quasi ossessivo, il cinema leggero degli anni Trenta, americano ma non solo (pensiamo naturalmente al Signor Max di Mario Camerini, ma anche a commedie tedesco-italiane come La segreteria privata): è l’equivoco sulle classi di appartenenza. Un equivoco, che può avere risvolti tragici (come in altre forme culturali del tempo, ad esempio in canzoni quali l’italiana Java rossa, dove l’incontro fra la signora e il piccolo delinquente sfocia prima in amore poi in delitto) o anche patetici, come accade in un altro ma

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del tutto anomalo film comico di quegli anni, forse la massima contaminazione tra il genere umoristico dominante del tempo del muto, la pantomima, e uno stile narrativo di origine romanzesca più caratteristico del tempo del sonoro. I due subplot simmetrici in cui è diviso il film di Chaplin elaborano il tema dell’equivoco delle classi diversamente ma in modo in fondo concorde. Sia per il milionario, sia per la fioraia cieca, il disprezzo verso la povertà di Charlot non nasce dalla loro effettiva relazione con la persona, ma da un dato esteriore, così esteriore che il primo lo percepisce solo in alcuni momenti, la seconda solo alla fine della vicenda. La povertà è un segno, e uno stigma, che occorre leggere, e che non ha relazioni con i valori personali. In relazione all’artificiosità della divisione in classi, Chaplin arriva in questo film a forme di dichiarata satira sociale, a cominciare dall’inizio, in cui un sonoro fatto di puri rumori sottolinea la vuotezza totale del discorso dell’oratore e della ricezione del suo pubblico: un pubblico che ha, a sua volta, tutti i segni, gli stigmi, della ricchezza, analogamente agli amici del milionario. D’altra parte, pur priva di fondamenti «autentici», la divisione della società in classi rimane essenziale, anzi in questo film è l’autentico motore della vicenda, e vi è rappresentata con una precisione inconsueta nel cinema americano. (Una precisione di cui probabilmente non si sarebbero dimenticati, una quindicina di anni dopo, i maccartisti di Hollywood nel decidere l’esclusione di Chaplin dal paese). La contraddizione profonda tra l’incrollabile rilevanza delle classi nell’ordine sociale e l’inautenticità delle differenze tra le persone è il centro sia degli aspetti drammatici del film (in quanto fa scattare il meccanismo patetico principale, il trauma del mancato riconoscimento della persona) sia di quelli comici. Luci della città è, in fondo, una grande commedia degli equivoci, messa in moto a volte dal fatto che i personaggi in scena non colgono i segni sociali di distinzione mentre il pubblico ne è consapevole, a volte dal fatto che i membri di un ceto adottano con effetti ridicoli i comportamenti tipici di un altro ceto. Ne è un esempio la celebre gag in cui Charlot guarda una statua di nudo con fare da intenditore d’arte per nascondere la sua attrazione lubrica, ma imitando il comportamento dell’aristocrazia intellettuale con precisione estrema.

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Nel cinema leggero del tempo, equivoci del genere (il miliardario che si spaccia per povero pianista, l’ereditiera scappata di casa che condivide la vita di strada dello scapestrato giornalista ubriacone, il barbone che si rivela un raffinato signore) sono assolutamente ricorrenti, senza il fondo patetico (tanto più toccante in quanto si rivolge a un paese tutto in crisi di identità sociale) e con un’accentuazione sugli aspetti decisamente comici. Se ci pensiamo bene, la confusione sulle identità sociali comporta una chiara denuncia dell’inautenticità di fondo della distinzione tra le classi, ma ha anche effetti consolatori: tutti possono avere un’identità non riconosciuta differente da quella più immediatamente visibile. Così, la distanza tra classi alte e basse (che per un meccanismo tipico della società americana equivale anche alla distanza tra la mèta da raggiungere e il punto da cui si parte) si dimostra, simultaneamente sottilissima, quasi nulla, e insormontabile: tanto più profonda quanto più arbitraria. «Accettare come normale il fatto di vivere in uno stato di tensione reso più acuto dall’inattesa distanza permanente tra i due piani» (tanto quello dell’universo dei simboli quanto quello della realtà quotidiana) era, ci ricordano i Lynd, una delle soluzioni possibili della crisi valoriale in corso in quegli anni, forse più triste e rassegnata delle altre soluzioni (ridurre le aspettative o negare che la distanza fosse cresciuta), ma anche più realistica. E l’umorismo, ci ricorda Bergson, altro non è se non «dire quello che è come se fosse quello che dovrebbe essere». Una soluzione, comunque, tanto più accettabile se l’universo della ricchezza – che era anche, ripetiamolo, l’orizzonte delle aspettative – si presenta, nel momento stesso in cui lo si dichiara inattingibile, come popolato di persone totalmente diverse non solo da chi siamo ma anche da chi vorremmo davvero essere: svitate, divertenti, magari simpatiche, ma irriducibilmente altre. Al gangster come eroe tragico la sophisticated comedy contrappone il ricco svitato come eroe comico: portatore distratto, inconsapevole, di un universo simbolico fatto di abiti, oggetti, accenti, che non aveva perso il suo fascino ma che aveva perso, insieme, la sua credibilità e la sua raggiungibilità. Così, i turbamenti psico-sociali di

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una società in miseria sono evocati e messi in scena, più che da uno sguardo diretto sulla fame e la disoccupazione, da uno sguardo obliquo, che mette al centro proprio coloro che dalla miseria meno sono toccati. Così lavora il cinema, così lavora la cultura di massa.

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AVANTI E INDIETRO SULLA CORDA TESA. COME RECITARE LA COMMEDIA SOFISTICATA di ALVISE SAPORI

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Più il tempo passa, e più ci distanziamo nel tempo dal periodo in cui nascevano le Screwball Comedies (letteralmente Commedie Svitate, ma noi le abbiamo sempre chiamate Commedie Sofisticate) e più ci sembrano incredibili e mitici gli attori che con tanta compiacenza e leggerezza le interpretavano. Chi sarebbe capace, oggi, di recitare come Cary Grant? O, sull’altro versante dei sessi, come Carol Lombard? E non certo perché sia, come si dice, datato, il modo di recitare di questi attori. Tutt’altro. L’economia dei mezzi è legge per il loro modo di porsi in una storia; le espressioni ridotte al minimo necessario; i gesti centellinati, ma senza paura di qualsivoglia stravaganza. Da dove veniva questo loro stile così peculiare e inimitabile? La prova che sia inimitabile è nei mille epigoni senza risultati apprezzabili proprio di Cary Grant. E, soprattutto, quale era il loro segreto per raggiungere la stilizzazione di cui parliamo? Purtroppo, nella gran quantità di interviste rilasciate da Claudette Colbert, da William Powell, da Barbara Stanwyck o da John Barrymore, non traspare mai un accenno al loro eventuale metodo (per carità: nessuna confusione con il cosiddetto Metodo applicato dagli Strasberg!) che questi geni della recitazione applicavano, di cui si servivano. Non ci resta, allora, che l’esercizio delle ipotesi. Fermo restando che fra tutti questi mirabili personaggi, uno svetta fra tutti ed è (ancora una volta!) Cary Grant, vediamone le caratteristiche, anche riassumendo al massimo. Primo, un senso dei tempi, proprio come il tempo in musica, mai visto e irripetibile. Ci sono certe pause che l’attore riesce a rendere (far apparire) eterne e sono, naturalmente, brevissime ché altrimenti spezzerebbero il ritmo dell’azione. Secondo, sempre in materia di tempi, un modo di gestire il dialogo, di recitare le battute (ovviamente in presenza di

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partner all’altezza) più simile al ritmo di una mitragliatrice che a qualsiasi altra cosa. Un esempio? Tutto My Girl Friday (impropriamente da noi, La signora del venerdì) dove la velocità di eloquio sia del succitato Cary Grant, sia della straordinaria (ci vorranno molti anni e Aunti Mame per ritrovarla allo stesso livello) Rosalind Russell, è tale da provocare un’intensa sensazione di partecipazione, tanto l’attenzione dello spettatore viene aguzzata dal duello verbale; quando poi entra nel gruppo il placido, meraviglioso, Ralph Bellamy, il godimento del pubblico raggiunge il culmine. Dunque, tempi, velocità e una sorta di «fermo immagine» nell’espressione facciale (più raramente anche del corpo). Ancora una volta citiamo quegli «a parte» (non saprei come altro definirli) di Cary Grant quando nonostante la buona volontà del suo personaggio non riesce a farsi capire dalla partner; memorabile la scena all’inizio di Bringing Up Baby in cui una superaggressiva Katharine Hepburn rifiuta di accettare l’ipotesi che l’automobile di Cary Grant sia uguale alla sua e quindi pretende di prendersela lei. Contrapposta alla sua eccentrica aggressività un’aggressiva eccentricità di Cary Grant, il quale non spiega (e sarebbe la cosa più semplice, ma anche la meno divertente) che si tratta di due automobili identiche. Lo scambio di identità raggiunge, nello stesso film, il sublime quando il leopardo feroce fuggito dallo zoo viene scambiato per il leopardo addomesticato della Hepburn e trattato come tale. Per fortuna anche la belva si adegua all’eccentricità della commedia e non sbrana i due malcapitati personaggi. Dunque l’eccentricità, talvolta la stravaganza, è caratteristica non solo dei copioni della Screwball Comedy, ma anche della recitazione degli attori. Certo chi leggesse oggi la sceneggiatura di My Man Godfrey (ancora, impropriamente, da noi L’impareggiabile Godfrey) si dovrebbe domandare chi (e come) potrebbe recitare quelle incantevoli battute. Evidentemente gli attori in questione erano degli specialisti, ma comunque l’interpretazione che William Powell fa del presunto maggiordomo del titolo, tutta giocata sull’ambiguità, quando non addirittura sulla doppiezza, è assolutamente esemplare, come, nello stesso film, quella mirabile di Carole Lombard, che si candida, nel ricordo, a una specie di postumo Oscar (da tenere presente anche quel Ventesimo secolo, dove la Lombard combatte all’arma bian-

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AVANTI

E INDIETRO SULLA CORDA TESA

ca contro uno stupendo John Barrymore al massimo delle sue capacità istrioniche). Istrionismo? Se si accetta il termine, va spogliato di ogni connotazione negativa per conservarne invece il significato confinante con Irrealtà, suprema Convenzione, tensione verso alcuni ideali Stereotipi del genere Screwball Comedy. E visto che abbiamo appena usato la parola «stereotipi», chiaramente quella schiera di attori nel loro meraviglioso professionismo li utilizzavano in modo rivoluzionario, pronti a smontarli o a rinnegarli se la storia lo esige. «Ogni Cenerentola ha la sua mezzanotte». È una delle esilaranti battute pronunciate in Midnight di cui è protagonista un’altra magica interprete della Commedia Sofisticata, Claudette Colbert, qui, esplicitamente nel ruolo di Cenerentola; mentre è ben più intrigante che il ruolo della Fata Madrina sia attribuito ad un ancora una volta spettacoloso John Barrymore e che il ruolo del Principe vada a un giovanotto oriundo siciliano di professione tassista incarnato con suprema levità da Don Ameche. E non è un caso citare Cenerentola, dato che la struttura Cenerentola è presente in gran parte delle Screwball Comedies, e pazienza se talvolta a interpretarlo è una figura maschile, che peraltro non rinunzia ad alcuna delle sue maschili prerogative, come nel caso di Clark Gable in Accadde una notte, dove è il Principe, sotto le mentite spoglie di Claudette Colbert ad essere, per un momento, travestito. Oppure l’imbambolato per eccellenza James Stewart (che attore sottile e straordinario) che è brevemente Cenerentola, senza l’esito delle nozze, in Scandalo a Filadelfia, ed è meritevole della massima attenzione un suo breve momento (magico) di attore, quando a qualcuno che gli ha chiesto se ha una corda di violino, risponde, dopo essersi con tutta serietà frugato le tasche, serissimo «Se vuole, ho dell’aspirina». Eccentricità ancora una volta e difficoltà nel rapporto tra Povero e Ricco che, insieme alla struttura Cenerentola, è l’altro cardine della Commedia Sofisticata. Beninteso l’anno di nascita (universalmente considerato il 1934 con Accadde una notte) ha qualcosa a che fare con il grave problema della ricchezza che è di pochi e della povertà che è di molti, nonché il sistema New Deal che tanto peso ha avuto nelle strutture dei film hollywoodiani (tutti, non solo le commedie di quegli anni) nel fornire consolazione attraverso i sogni che, come li descrive Scott Fitzgerald

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ALVISE SAPORI

ne Gli ultimi fuochi sono «[…] sospesi in frammenti verso il fondo della sala […] analisi sofferta, approvata, per essere sognata in massa […]». Sogni, naturalmente, che traducono in immaginario ogni impulso erotico, che trasformano la cosiddetta «guerra dei sessi» in una sorta di vicenda a lieto fine non solo obbligatorio ma in qualche modo annunciato: è chiaro, tanto per fare un esempio, che, quando nel perfetto Ball of Fire (1942) la ballerina (leggi, più o meno, prostituta) Barbara Stanwyck incontra il presunto sciocco professore Gary Cooper e lo seduce per utilizzarlo ai suoi fini, è chiaro dunque, da subito, che l’incompetenza erotica del professore vincerà a mani basse sul professionismo erotico della ballerina. Ed è ancora una volta un esempio di eccellente interpretazione tutta la passività che Gary Cooper convoglia nel personaggio. E passività nella gestione dell’Eros è la caratteristica di due grandi, ma quanto diverse, interpretazioni femminili nel genere: Greta Garbo in Ninotchka confrontata a un seduttore mellifluo solo in apparenza ma appassionato e testardo, un Melvyn Douglas in stato di grazia; e poi, un altro gioiello di interpretazione: Loretta Young nel ruolo del titolo di La moglie del vescovo quando subisce con un chiaro risvolto erotico la seduzione genericamente dispensata dall’angelo Cary Grant, qui completo di arpa. Va infine citata, con menzione d’onore, un’attrice spesso e volentieri dimenticata, la perfetta Jean Arthur e, almeno per un’occasione, un attore che dal mondo della Screwball Comedy sembra lontanissimo, Charles Boyer, il quale resta, in Tovaric, un esempio altissimo per il genere. E naturalmente due attori perfetti, quasi sempre in coppia, che hanno toccato vertici di sublime sofisticazione: Myrna Loy e William Powell (L’uomo ombra, con tutti i seguiti). Non è questa la sede per esaminare le origini storiche di un certo modo di recitare che comunque può fare riferimento ai più diversi metodi di preparazione ma che contiene sicuramente una massima attenzione del pubblico. Vedi, però, ancora una volta – per concludere – il caso di Cary Grant, all’origine acrobata e suonatore di piano, che diventa l’esempio principe di un genere, scendendo dai suoi mitici trampoli (un esempio perfetto di equilibrio e tempismo) e sostituisce, ma non del tutto, il lavoro fisico, del corpo, con quello delle battute, del dialogo dal ritmo, esagitato in apparenza, strettissimo in realtà.

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SECONDA PARTE MUSICAL DREAM

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INTRODUZIONE di FRANCO L A POLLA

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Per noi in Italia, fino al dopoguerra, il musical americano ha avuto due età: gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, ovvero Fred Astaire e Gene Kelly. In altre parole, ben più degli americani abbiamo ridotto ai termini del divismo un fenomeno infinitamente più ricco e sfumato (non foss’altro che per i suoi strettissimi addentellati col teatro di Broadway). Fra i molti handicap dovuti a questo errore, l’incapacità, l’impossibilità di leggere il fenomeno nel suo sviluppo storico, ulteriore tassello della complessa storia della cultura popolare americana (e della cultura nazionale tout court, se è per questo). Da qualche tempo però la critica ha recuperato spazio e tempo perduti, magari passando per quella decisa negazione dello storicismo che è (o dovrei dire: fu?) il metodo strutturalistico, il quale se non altro ha a suo merito un perfezionamento e per certi versi addirittura un riscatto della critica contenutistica. Ma è con l’avvento dei cultural studies (dunque non molto tempo fa) che le cose sono davvero cambiate, permettendoci di superare anche l’amabile cinefilia che ululava davanti a quell’audace piano-sequenza o a quel sofisticato rimando alla pittura impressionista francese. Il colloquio svoltosi a Ischia sul musical cinematografico americano aveva come «sottotesto» proprio questa impostazione: certo non conculcata, ma necessariamente viva e presente nella specifica competenza dei singoli relatori e nella conduzione generale di relazioni e dibattito. Esso inoltre aveva un altro implicito leitmotiv: il rapporto fra cultura ufficiale e cultura popolare, la dialettica (anche nelle contrapposizioni) che fra queste due aree si instaurava in modo particolarmente evidente, prorompente proprio nel musical. Sarà che il teatro musicale americano mostra qua e là connessioni – libere e va-

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FRANCO L A POLLA

ghe, certo – con quello operettistico, a sua volta derivato da quello operistico; sarà che un genere molto spesso sottovalutato ha a volte sentito il dovere e il bisogno di difendersi da scetticismi e ironie, magari occhieggiando con allusioni a un pubblico il quale non poteva che essere dalla sua parte proprio in quanto arte popolare e non dotta e ufficiale. Sta di fatto che proprio nel musical ritroviamo un’attenzione orgogliosa alle origini e alle finalità di un’arte nata nei baracconi se non nelle strade, fatta di atletismi e piccole meraviglie, di canzonette da garzoni e di un patriottismo forse a buon mercato, ma non per questo insincero. I nostri padri e nonni conoscevano e amavano la coppia Astaire/Rogers, ma che cosa sapevano di George M. Cohan? Magari accennavano al pianoforte quel bel motivo di Cole Porter, ma sapevano che esso era parte di un insieme di musiche scritte per un’opera organica e strutturata come una commedia musicale? E per procedere nel tempo, sapevano forse che lo stesso The Pirate di Vincente Minnelli (peraltro con un primo precedente teatrale tedesco) era la versione hollywoodiana di una commedia di Broadway? Non sono domande oziose, né specialistiche, perché nel parlare o anche solo nel fruire dei prodotti di un genere se ne perde necessariamente parecchio ove non si tenesse conto della tradizione cui essi appartengono, ove non li si collocasse nel posto che loro compete. Quante volte abbiamo sentito dire (quasi sempre dalla critica e dalla stampa americana, va da sé) che Oklahoma! – del quale vedemmo anche in Italia la versione cinematografica alla sua uscita negli anni Cinquanta – segna un momento chiave nella storia del teatro musicale americano. Tuttavia non ci siamo mai chiesti perché con la scusa che quel rinnovamento riguardava, appunto, il teatro musicale, vale a dire un genere che per ragioni oggettive noi non potevamo conoscere né tantomeno studiare e approfondire. Ma allora è bene domandarci: vedendo quel film che cosa abbiamo visto? Nemmeno l’obiezione che, sì va bene, ma non è poi umanamente possibile sapere tutto di tutto riesce a reggere a tale argomentazione. Qui non stiamo parlando di ignote tradizioni rituali di isolette sperdute nell’oceano indiano o di sofisticate rappresentazioni di corti giapponesi del Seicento. Qui stiamo parlando di una cul-

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INTRODUZIONE

tura che, volenti o nolenti, respiriamo ogni giorno in casa nostra da un buon mezzo secolo, una cultura sulla quale non di rado trinciamo giudizi veloci e sicuri (simpatetici o critici, poco importa) senza conoscerne minimamente le radici, che semplicisticamente siamo soliti individuare in un meglio identificato «Puritanesimo» (non ricordando, fra l’altro, quante e quali confessioni si allargarono immediatamente sul territorio ancora nel Seicento coloniale). La storia del musical dunque, non è soltanto identificabile nella storia del cinema statunitense, ma nello sviluppo della sua stessa cultura nazionale. Proprio in quanto genere popolare, il musical si è fatto carico di dipingere i più diversi affreschi della vicenda culturale del nuovo continente. In questo senso, anzi, non è azzardato affermare che esso ben più del western («il cinema americano per eccellenza», secondo il titolo di un classico studio del francese André Rieupeyrout) ha le carte in regola per essere definito il più americano di tutti. L’epopea dell’Ovest ricopre infatti un arco temporale ampio ma specifico ed un costume altrettanto ampio ma identificabile. Nel musical, invece, possiamo leggere tranches de vie provinciali tardo-ottocentesche (o ambienti dell’epoca rivoluzionaria), vivaci immagini della contemporaneità metropolitana, persino pennellate caraibiche (The Pirate) o arabe (The Desert Song, Kismet): il mondo è il suo teatro e ogni tempo il suo tempo. Per fantastico che possa essere l’Ovest hollywoodiano, il musical, per sua natura, lo sarà sempre di più, se non altro per la continua lacerazione della verosimiglianza del testo narrativo operata da romanze, duetti, dance routines, ensembles, e via dicendo in un intrecciarsi complesso di modelli che nel tempo hanno anch’essi subìto una loro evoluzione alla luce della ricerca portata avanti dai vari specialisti del settore. Si pensi al testo di Elisa Guzzo Vaccarino e a come ne emerge un quadro estremamente mosso e ricco del mondo della danza, elemento fondamentale del musical (del quale, peraltro, non si è mai parlato molto, o comunque mai così ampiamente come per altre sue componenti). Ma è prima di tutto la radice della tradizione che ha occupato la scena delle relazioni. Italo Moscati e Alain Masson hanno delineato una storia (o anche una preistoria) del genere che non possono non far pensare anche il più sprovveduto degli spettatori a un uni-

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FRANCO L A POLLA

verso originariamente ben distante da quello sfavillantemente elegante di tanti prodotti hollywoodiani. Intrattenimento, certo, ma, nel tempo, cartina di tornasole di un’epoca e delle sue conquiste come delle sue idiosincrasie, dei suoi modelli sociali che si confondono con miti pubblici mediatici: la dimostrazione di Raymond Durgnat, forse di carattere poco discorsivo, ma certo di sintetica efficacia, su un classico testo dei primi anni Trenta, Forty-Second Street, ne fa fede. Si tratta, è evidente, di quella componente popolare, antitetica ed insieme dialetticamente connessa ai valori della cultura ufficiale, di cui si diceva più sopra e che gli interventi di Jean-Loup Bourget ed anche di chi scrive hanno tentato di esemplificare. Ma se è vero che il musical è un fenomeno squisitamente americano, d’altra parte esso non è unicamente tale. Fausto Malcovati dimostra quanto il genere non solo abbia tradizione in altra parte del mondo come la Russia, ma anche e soprattutto come esso possa fungere da splendido testo di lettura socio-ideologica per qualunque società lo frequenti. I modelli, tuttavia, lo sappiamo, non sono archetipi: essi variano nel tempo col variare di chi li adotta. Ed il musical, come si diceva inizialmente, ha, non meno di qualunque genere, letterario o cinematografico, una sua storia, una sua evoluzione. Vito Zagarrio e Giorgio Gosetti ce ne danno articolata e competente testimonianza, lasciando aperto uno spiraglio di futuro a un genere che sembrava estinto e che invece chiede soltanto la tolleranza del purista e la curiosità del giovane pubblico per poter di nuovo, e nelle pur diversissime forme ed ispirazioni tratte da un’epoca ormai radicalmente diversa da quella «classica», farci sognare.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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FRANCO L A POLLA S. RUSHDIE, Il mago di Oz, Linea d’Ombra, Milano 1993.

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C. SALIZZATO, Ballare il film, Savelli, Milano 1982. L.E. STERN, T. SENNET, Il Musical, Milano Libri, Milano 1977. Y. TOBIN, La comedie musicale de Broadway a Hollywood, in «Positif» n. 437-438, juillet- août, Paris 1997.

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ALMOST MUSICAL. PRIMA CHE IL CINEMA FACESSE SOGNARE IL MONDO di ITALO MOSCATI

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Forse, per parlare di musical sotto il profilo delle sue origini, bisognerebbe mettere il mondo sotto sopra. Questo paradosso mi è stato suggerito da un film abbastanza recente che ha circolato anche in Italia senza troppa fortuna. Si tratta di Topsy Turvy, che nella traduzione significa appunto «sottosopra», diretto da Mike Leigh. Chi lo conosce, sa che si tratta della elegante e minuziosa ricostruzione dell’epoca londinese di William Gilbert e Arthur Sullivan, autori di operette famose che entrano legittimamente nel patrimonio genetico del musical come viene riconosciuto dalle più autorevoli storie del cinema. È proprio dai contenuti di queste storie scritte a partire da quando il cinema aveva compiuto mezzo secolo di vita nel Novecento, che scaturisce un mio personale, e spero comunque non solitario, bisogno di mettere sottosopra il mondo di cui dicevo, il mondo del musical beninteso, con un’avvertenza preliminare, che è questa: sono convinto che non si possa parlare di questo affascinante genere cinematografico senza tenere conto, indicandole semplicemente, delle vicende di un secolo che di volta in volta è stato chiamato «breve», «sterminato», «innominabile», «atroce» e addirittura percorso unicamente «da idee assassine». Ovvero, mi sono convinto, studiando il Novecento, che il giudizio generale sul secolo appena trascorso abbia doverosamente visitato fondamentali aspetti militari, politici, ideologici (dalle guerre alle rivoluzioni, dal comunismo al nazismo e al fascismo, dalle responsabilità dei potenti alle domande d’emancipazione dei diseredati) lasciando però ampie zone d’ombra. Una di queste zone credo che sia costituita dal cinema e dallo spettacolo d’intrattenimento, e quindi anche e soprattutto dal cinema leggero, musicale, figlio di un dio minore.

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ITALO MOSCATI

Le storie del cinema che ho consultato e che sono, ripeto, tra le più tradizionali e autorevoli, liquidano il musical con poche battute e non si pongono il problema di raccontarne e di approfondirne le origini. Questa rilettura ha confermato una mia vecchia idea e cioè che gli storici del cinema di un passato neanche troppo remoto hanno generalmente considerato l’intrattenimento come qualcosa di secondario, come un soffice materasso quasi invisibile schiacciato dal corpo massiccio costituito dai film capolavoro – non c’è bisogno, credo, di citare qualche titolo – e dai loro autori. Se può accadere che la tendenza venga corretta, l’eccezione riguarda il divismo e i suoi indimenticabili dei – anche in questo caso le citazioni sono inutili – per una ragione che a me pare evidente, e cioè che il divismo costituisce per la maggioranza degli storici la faccia sacrificale della gloria del grande schermo, e cioè la conferma del film capolavoro sotto un’altra luce. Un esempio adesso lo devo fare. Si sarebbe mai parlato così tanto della leggendaria Marilyn Monroe se la splendida bionda, come altri attori famosi, non fosse diventata il simbolo dell’altra faccia, quella maledetta, di Hollywood? Se nella ancora misteriosa fine di Marilyn, gli storici di cui parlo non vedessero il volto diabolico della cosiddetta macchina dei sogni, il volto dell’industria e dell’inganno? Insomma, lo sappiamo: quando un divo muore tragicamente gode di una particolare e tenace garanzia d’immortalità da parte di chi scrive la storia del cinema, mentre se, come Fred Astaire, continua a lungo a far suonare il tip tap sulla pista della nostra immaginazione, il mito rimane ma sembra perdere di solennità, sembra uscire dalla leggenda ed entrare negli archivi di un’ammirazione più ovvia e addomesticata. Ma si tratta davvero di archivi, di magazzini per scorie preziose, di polverosi depositi della nostalgia? E – comunque sia – cosa nascondono questi ripostigli dove si agitano ancora, pieni di energia, gli intelligenti piedi di Fred Astaire, Gene Kelly, Judy Garland, Mickey Rooney e di tanti altri sconosciuti di un’eterna «chorus line», le visioni coreografiche di Busby Berkeley, le parole e le note di Rodgers e Hammerstein II, la fantasiosa razionalità di Vincente Minnelli? Ricordando il film di Leigh, Topsy Turvy, e la Londra vittoriana della coppia Gilbert e Sullivan, ho detto che le loro operette fanno

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ALMOST

MUSICAL

parte delle radici del musical, un genere che le storie e le enciclopedie dello spettacolo corredano di una lunga serie di appendici qualificative per cui si tratta di muoversi in un complesso labirinto tra musical comedy, musical play, musical fantasy, musical romance, musical show, musical review, tutte definizioni che esplicitano caratteristiche e parentele, e rimandano ad un sincretismo di ascendenze confluite in un gran ballo scandito da forme impetuose e poi svanite come il burlesque, la ballad opera, l’opéra comique, la Savoy opera, l’operetta e la rivista. Forme che sono l’eco lontana di voci che arrivano ai giorni nostri, e portano a Show Boat, a West Side Story o a Grease, in un tripudio di trasfusioni invisibili che hanno fatto e continuano a fare piccoli e grandi miracoli creativi, sul filo del rasoio di un ritmo, anzi del ritmo inteso come entusiasmante modello agonistico per l’uomo che tenta di afferrare il tempo e i suoi movimenti. Pur avendo tutte le carte in regola rispetto allo sviluppo e agli intrecci dello spettacolo, la vicenda del musical, quello che conosciamo e ci insegue dall’inizio del cinema sonoro, può essere per diversi aspetti ricostruita secondo influenze a catena all’interno della cultura europea; ma ciò forse non basta a spiegare un’avventura che ancora continua grazie al sempre attento interesse, diventato ormai vero e proprio culto, verso quei film – da Quarantaduesima strada a Un americano a Parigi, per citarne due esemplari – che hanno trovato un grande presente e un grande avvenire nei nuovi modi della circolazione dei film, dalle videocassette al modernissimo DVD. Com’è noto, la cultura europea sbarcò nel nuovo continente con l’intero suo corredo massicciamente stratificato e per anni e anni l’emigrazione rimase a lungo costante in questo senso. Gran parte del cinema, e quindi anche del musical, devono molto a questo trasferimento imponente e inarrestabile, in un processo di fusione che è stato intenso soprattutto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. In modo particolare la musica, specchio dei desideri che spesso non trovano le parole adatte per svelarsi, viaggiava con le parole delle canzoni degli emigranti di vario ceto (fra di essi c’erano anche gli artisti) più velocemente dei mezzi di trasporto allora disponibili. E in un volgere di tempo abbastanza rapido, i biglietti di andata diventavano anche di ritorno, accelerando scambi, cambiamenti, ibridazioni.

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ITALO MOSCATI

Ecco un punto importante. A mano a mano che i bastimenti andavano e venivano, e nascevano quelle canzoni mentre sugli oceani affioravano le potenti onde di nuovi ritmi, era l’America a rovesciare le cose, a far proprie forme europee e a restituire qualcosa di assolutamente inedito in quanto assunto e trasformato. La situazione ad un certo punto cambiò radicalmente le prospettive. Se in Europa l’operetta e le altre forme di musica cosiddetta leggera, erano nate all’interno del grande tronco della musica colta, negli Stati Uniti, in assenza di un solido patrimonio di musica classica, furono il folklore, e quindi il jazz, a gettare le basi per una realtà indipendente, con una propria originale evoluzione. Si assisteva all’affermazione di una tendenza opposta, con la cosiddetta musica colta a sua volta ispirata, per più di un elemento, al patrimonio della musica popolare. Per testimoniare concretamente un rovesciamento che diventerà sempre più significativo, uno studioso come Carlo Donà1 fa il nome di George Gershwin, l’autore di tante canzoni e di tante opere tra cui il mio amatissimo Americano a Parigi, protagonista di un fenomeno impensabile in Europa, e cioè di rappresentare con il suo lavoro la rivoluzionaria scelta compiuta da un musicista che, partito da posizioni «leggere», prese ad affrontare con fortuna la composizione sinfonica e l’opera, ambiti decisamente «seri». Il rovesciamento e le conseguenze che determinò agirono in pochi decenni. Si passò dai minstrel shows, spettacoli che attingevano al folklore, spettacoli misti di canti, danze, parodie e sketch comici (qui gli attori, prevalentemente bianchi, si tingevano il volto di nero) alla rivista così come l’America l’ha successivamente esportata da noi, in Europa, realizzata secondo un equilibrato dosaggio di ballerine attraenti, canzoni di successo, scenografie sfarzose, spazi comici. Dalla rivista al musical il salto fu rapido, con l’aggiunta, rispetto allo schema della rivista, di una più complessa struttura drammaturgica e musicale. Ma l’analogia con l’operetta, che si ritrova ancora un po’ dovunque in saggi e storie del musical anche cinematografico, sempre secondo Donà, sembra esagerata. Il musical deve poco o 1 Cfr. C. DONÀ, Gershwin e la fortuna del musical, Edizioni Teatro La Fenice, Venezia 2000.

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ALMOST

MUSICAL

nulla alla musica colta europea, poiché, nonostante innegabili influenze assunte indirettamente, ha preso vita, ha vissuto e vive di un’esistenza autonoma come un po’ tutta la musica popolare nordamericana. C’è una data, il 1865, fissata come inizio del genere. Era l’anno in cui venne rappresentato sulle scene di New York The Black Crook con musiche firmate da Charles M. Barras, un musical di cinque ore e mezzo di durata che ebbe un successo clamoroso e repliche per oltre due anni. Trent’anni dopo, nel 1895, quando il cinema cominciò il suo irresistibile cammino, il musical teatrale aveva raggiunto in America una tale solidità da costituire uno dei capitoli più significativi della cultura in quella attivissima e inventiva parte del mondo. Era un serbatoio di energie che però non poteva ancora esplodere. Era un fuoco che ardeva sotto un altro fuoco, quello delle immagini del cinema muto, di un cinema che stava facendo di un handicap – la mancanza appunto delle sonorità – una straordinaria fonte di emozioni e di ricerche stilistiche. La tecnica limitata del muto spingeva i registi a forzare la semplice illustrazione delle cose e delle persone e a farne un’arte capace di diventare totale, come reclamavano i primi teorici dell’espressività in pellicola. Se l’illusione di diventare arte totale si sarebbe molto ridimensionata rispetto agli entusiasmi dei debutti tremolanti dei Lumière, dei loro seguaci e degli imitatori, è interessante soffermarsi un momento sui tentativi di dare alle immagini mute il contributo se non della parola (che restava comunque nelle scritte tra una scena e l’altra) quello della musica come modo di accompagnamento autonomo eseguito ai piedi dello schermo e come campo di esperienze per musicisti attratti dai ritrovati della tecnica. All’argomento, al rapporto tra cinema e musica, dedica un suo studio Gianni Rondolino2 che è rilevante per i documenti e le riflessioni che propone soprattutto per quanto riguarda il muto. Qui l’handicap poteva essere superato con la collaborazione di musicisti che non si lasciavano strumentalizzare da un curioso compito affidato alla musica, quello di coprire il fastidioso rumore dei rozzi proiet2

Cfr. G. RONDOLINO in «Cinema e musica», Utet, Torino 1991.

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ITALO MOSCATI

tori primitivi, e si lasciavano invece tentare da un nuovo campo di esperimenti da realizzare. Il rapporto riveste una notevole importanza anche per quanto andiamo dicendo sulle origini del musical cinematografico, sul quasi musical che si stava preparando nel buio dei laboratori degli alchimisti della celluloide. Tra i numerosi nomi illustri, Rondolino ricorda Ildebrando Pizzetti che nel 1911 accettò, su richiesta di Gabriele D’Annunzio, di scrivere una partitura per Cabiria di Giovanni Pastrone; o Pietro Mascagni che scrisse nel 1915 una partitura per il film Rapsodia satanica di Nino Oxilia, commediografo autore di Addio giovinezza, interpretato da Lyda Borelli; mentre, in America, per la «prima» proprio di Cabiria il commento musicale passò dalle mani di Pizzetti a quelle di Joseph Carl Breil, il quale poi venne ingaggiato per il commento di Nascita di una nazione del grande David Wark Griffith. L’elenco dei compositori che si misero al lavoro è lunghissimo e annovera appunto altri nomi illustri sia in Europa che negli Stati Uniti; ma l’elenco non può ovviamente comprendere gli illustri sconosciuti, i musicisti anonimi che capirono molto presto la possibilità di tramutare le opportunità che si offrivano loro per dare ragione a quanto osservava, in un articolo del 1922, lo scrittore Joseph Roth – quello della Cripta dei capuccini, della Leggenda del santo bevitore e di altri bellissimi romanzi – affermando che senza la musica il cinema era spaventosamente vuoto3. Tra gli anonimi c’erano tutti coloro che preparavano la maturazione delle nuove soluzioni tecniche, estetiche, tematiche che portarono ai primi musical dello schermo e alla colonna sonora, la vera innovazione musicale del Novecento. In prima fila erano gli orchestratori e gli arrangiatori che rivaleggiavano con gli esperti della fotografia e degli altri collaboratori del film per mettersi al servizio del regista e dello spettacolo allo scopo di portare il linguaggio cinematografico alla completezza a cui ci siamo ormai abituati e di cui oggi nessun film può fare a meno. Tra questi personaggi saliti alla ribalta da sotto il lenzuolo bianco, dove un pianoforte o un’orchestra teneva il passo con lo svolgimento delle immagini, un nome viene particolarmente 3

Cfr. J. ROTH in «Cinema e musica», Utet, Torino 2000.

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menzionato. È quello di Max Steiner, un musicista nato a Vienna ma educato a New York, che aprì la strada ad una definitiva integrazione della musica con l’azione scandita dal fluire dei fotogrammi. Da Vienna a New York, dunque, la musica volava attraverso Steiner e altri come lui che consentivano il successo di nuove sensazioni attraverso un viaggio nello spazio geografico che divenne anche un viaggio della fantasia e nella creatività. Era un viaggio-simbolo di tutta la immensa tradizione europea riversata nel ribollente crogiolo americano in cui le voci delle piantagioni di cotone s’infilavano, suggerendolo e anzi stimolandolo, nel folklore country e nel più maturo, modernissimo spazio del jazz e dei suoi derivati, fino al rock and roll. Era, per parafrasare il titolo del film di Griffith, la nascita di una sorprendente nazione del suono e delle emozioni, con caratteri sempre più avvolgenti e facilmente assimilabili. Era l’alba e poi il radioso mattino di un cinema che tendeva ad eliminare i contrasti, tanto sul piano dei contenuti quanto su quello delle forme. Un cinema, commenta Rondolino, che si presentava esplicitamente «edulcorato», cioè reso accattivante e suggestivo, che abbisognava di una musica altrettanto «edulcorata», quella che appunto era garantita da un diverso modo di pensare e di scrivere la musica, per arrivare al musical, con la conseguenza – a distanza di tempo diventata evidentissima – che il cinema da allora copia sempre più il musical anche quando a prima vista sembra negarlo, come prova il maggior peso, direi l’essenziale quantità e qualità delle colonne sonore che contribuiscono a dare impatto, forza, capacità di seduzione al cinema che vediamo ai nostri giorni. Qualche riferimento storico può aiutare a capire meglio quando stava accadendo durante la stagione fertilissima di «almost musical», ovvero del musical che stava per venire alle luce e godere di un avvenire splendente quanto quello – apparente e illusorio – illuminato da un altro sole, il sol dell’avvenire delle rivoluzioni e del socialismo. Faccio un solo nome, quello dello storico George Mosse. Mosse, nel suo ben noto e apprezzato libro intitolato La nazionalizzazione delle masse apparso nel 19744, ci racconta come dietro il sipario strappato delle vicende politico-militari si potevano ormai vede4

Cfr. G. MOSSE, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, Bologna 1974.

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re nettamente le molte, diversificate trame delle ideologie interpretate in senso totalitario, e come queste trame trovarono nel passaggio dei due secoli alle nostre spalle un terreno adatto nella ricerca di risposte ai propri bisogni, compresi quelli del tempo libero e dell’intrattenimento, da parte delle masse popolari. Pongo la mia sottolineatura in forma di domanda: l’irruzione delle masse alla ribalta delle storia, con le canalizzazioni autoritarie a cui abbiamo assistito con il comunismo, il fascismo e il nazismo, non ebbe anche un volto segreto, quello poi individuato, recepito e sfruttato dalle stesse ideologie totalitarie? Alla domanda, io rispondo così. Credo proprio che il tempo di «almost musical» sia quello in cui si decideva una spartizione decisiva. I poteri totalitari capirono, sempre più in fretta, che non ci sarebbe stato dominio senza una cultura seduttiva, coinvolgente, in grado di ammaliare le masse, persuadendole e consolandole. Ma se il disegno si verificò in modi diversi e puntuali, come dimostrano le vicende della musica e di altri mezzi d’emozione e di comunicazione a largo spettro di diffusione, è pure vero che sì questo processo annetteva a sé il consenso, organizzandone gli strumenti adatti, e tuttavia ad esso sfuggiva qualcosa di notevole che soltanto oggi possiamo distinguere. Il processo volto a ottenere un consenso assoluto tesseva a maglie larghe spazi in cui erano suggeriti orizzonti e desideri, e lasciava inavvertitamente aperte ampie zone franche di richieste più esigenti e complesse. Non si producevano vere e proprie reazioni di contrapposizione, ma si rendevano possibili fratture e buchi, spesso impercettibili o camuffati, in quelle aree dei comportamenti di massa insofferenti, riluttanti a farsi inquadrare nei ranghi dello sterminato esercito degli spettatori conformisti. Il musical, anche quando era «almost musical», aveva in sé la potenzialità di sprigionare energie liberatorie anche se portava mille e una maschera. Intendo il musical rilanciato e reinventato dal cinema, in quanto spettacolo assai diverso da quello del passato, forma d’intrattenimento, d’arte e quindi di cultura sottratta alla tradizione e rilanciata con regole e finalità nuove. Come scrive Michael Wood in suo saggio5, il cinema è una novità pressoché assoluta, apparsa sulla 5

Cfr. M. WOOD, L’America e il cinema, Garzanti, Milano 1974.

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scena del mondo dove irrompono le masse, e si presenta come «un universo indipendente, che si crea e si perpetua in piena autonomia, una zona autorizzata di irrealtà, affezionatamente frequentata da tutti noi, l’unico luogo al mondo “dove si può fingere di perdere la memoria”». Wood scrive anche che «il divertimento non è, come spesso pensiamo, una vera e propria fuga dai nostri problemi, e neanche un mezzo per dimenticarli completamente, ma piuttosto un loro riordinamento in forme che li ammorbidiscono e li relegano ai margini della nostra attenzione»; e osserva ancora a proposito dell’industria del divertimento: «Il mondo della morte, della guerra, della minaccia e della catastrofe esiste realmente, e viene anche menzionato, ma è reso subito irrilevante dalla trama o dal divo o dalla musica». Quindi, aggiungo io, se questo mondo terribile è reso irrilevante dallo schermo, può accadere che lo si possa guardare senza farsi schiacciare. Mi avvio alla conclusione, sapendo bene che la realtà che abbiamo voluto circoscrivere sotto il titolo «Almost Musical» è sfuggente e soprattutto si afferra a pochi nomi. Il fatto è che il musical, nelle sue fasi embrionali, è un bianco cimitero sonoro di grandi senza nome , è un luogo dove si sono celebrati i gioiosi funerali del jazz nero e dove si sono guadagnati un pizzico di esistenza i creatori di quei preziosi serbatoi di canzoni a cui hanno attinto i grandi compositori di questo genere specialissimo. Anzi, come osserva Gianfranco Vinay6, è il posto dove si compongono le febbri della canzone e della danza sincopata, dove si scatena a uso del pubblico la catarsi del movimento, dell’eccitazione accumulata. I piedi di Fred Astaire battono per tutti e per la carica nervosa di tutti. Quando li rivediamo, i capolavori del musical ripetono la lezione di sempre che non sappiamo o vogliamo ricordare. I meccanismi del musical (ripetitività, parodia, predominio della componente ritmica, memorabilità tematica) sono gli stessi su cui, conclude Vinay, si basano le tendenze che, con termine semplicisticamente generico, sono etichettate come «postmoderne». Sono i meccanismi che vengono prodotti dalla stessa civiltà che ha fatto nascere il musical. Ma la differenza 6 Cfr. G. VINAY, Lady be Good. Istruzioni per l’uso, Edizioni Teatro La Fenice, Venezia 2000.

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fondamentale è che nel musical, anche quello più «impegnato» e «serio», l’ironia è sempre sullo sfondo. E l’ironia non è qualcosa che si impara, è qualcosa che si vive. È una presa di distanza che presuppone un’assimilazione integrale dei linguaggi che circolano dentro una società, anche se non sappiamo sempre da sono venuti. Finisco con una citazione di The Sound of Music, film del 1965 diretto da Robert Wise, il regista che aveva fatto solo quattro anni prima West Side Story, un’opera ben più riuscita ed efficace, uno degli ultimi capolavori del musical. The Sound of Music, che con poca grazia in Italia è stato ribattezzato Tutti insieme appassionatamente, è tratto da un romanzo ed è a suo modo una pellicola impegnata, nel senso che infila una polemica antinazista in una famiglia austriaca composta da un padre vedovo e da sette figli che vengono affidati ad una governante interpretata da Julie Andrews. Perché riparlarne, trascurando il suo modesto valore rispetto a Cantando sotto la pioggia e agli altri grandi musical? La ragione è una sola. Il copione di Rodgers e Hammerstein II, la regia di Wise, gli attori giocano con la storia del musical. C’è sullo sfondo l’operetta viennese con la sua eleganza un po’ vecchiotta, c’è la commedia in cui la musica entra ed esce dall’azione, c’è la malizia della colonna sonora spinta verso il gusto attualizzato, ci sono canzoni che lasciano il segno per orecchiabilità e per simpatia, c’è la perfetta confezione americana (cinque Oscar) che raccoglie e inghiotte, ruminando il misterioso serbatoio di repertorio e di talenti di cui si è detto; e c’è infine il coraggio dell’ingenuità. Un sincretismo prepotente sotto un velo di grazia musicale. La fuga dai nazisti coperta dalla canzone So Long Farewell, ovvero «ciao, addio», riassume tutta la robusta e irresistibile retorica che si è formata con il musical. La morale è chiara. Vada come vada, anche nel musical come in Via col vento domani è comunque un altro giorno. Una bella canzone, un bel numero di tip tap, una volta che ci hanno preso e conquistato, continueranno a batterci nelle tempie. Il suono della musica non viene più usata per coprire il fastidioso rumore dei vecchi proiettori ma è parte essenziale del film, come lo è diventata la danza – dal tip tap di Fred ai voli tra il cielo e gli alberi di La tigre e il dragone (voli aiutati dal computer, forse nuova frontiera cinematografica del musical). Musica e danza ci rag-

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giungono da ieri o dall’altro ieri, e ci permettono per un po’ di coprire il frastuono di quelle nostre, i rumori che vengono dalla strada, dall’ufficio e dal magma dei programmi tv. Ecco perché cerchiamo ancora, sempre e comunque, i piccoli grandi musical. Pezzi di una storia nascosta che ci chiama in causa.

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DE BROADWAY À HOLLYWOOD di ALAIN MASSON

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1927 n’est pas seulement la date du premier film chantant: la même année, avec Show Boat, le théâtre musical déclare des ambitions neuves, qui guideront Broadway pendant toute la période féconde de la comédie musicale hollywoodienne. La «pièce musicale» entend en effet rompre avec la tradition européenne de l’opérette, et s’éloigner de la revue de music-hall en bannissant les intrigues-prétextes propres au backstage musical. Deux impératifs gouvernent ce projet. D’abord l’intégration: le musical exige une partition unifiée qui nuance les contrastes entre les numéros tout en assurant leur adéquation à la situation narrative, donc singulière, où ils s’insèrent. Moins connu, mais décisif, le second principe commande l’actualisation. C’est d’abord un aggiornamento: l’Amérique, contemporaine ou présentée dans ses conflits historiques, remplace les îles paradisiaques, le passé enchanteur, les principautés utopiques, de même que le jazz, compris surtout comme rythme moderne, se substitue à la musique viennoise; avec l’entrée en scène de Doris Humphrey et de Charles Weidman (New Americana, 1932), un nouveau style chorégraphique, aussi éloigné des claquettes que du ballet académique, se dessine en empruntant aux gestes quotidiens, au sport, au folklore et en s’appuyant sur les possibilités dynamiques et musculaires du corps, sans rien concéder à une discipline préétablie. Mais l’actualisation suppose aussi une dramatisation et des enjeux: les passages musicaux exprimeront des conflits, des états émotionnels critiques; saisi par l’actualité d’une satire politique, d’une expression de l’antagonisme des sexes, des races, des classes, le public ne songera pas à voir dans le numéro qui l’illustre, et d’autant plus vivement qu’il

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s’insère au milieu d’un épisode narratif, un de ces ornements par lesquels l’opérette changeait en archétypes les sentiments de ses personnages et les motifs de ses récits. C’est dans le temps contemporain, celui des mœurs et des styles, que l’actualisation peut confondre le temps dramatique et le temps musical. Si la vis comica offre aussi un accès au chant, la transformation des protagonistes féminins, symbolisée par Fanny Brice, Ethel Merman, Sophie Tucker ou Mary Martin, appartient à ce processus: aux princesses lointaines succèdent des femmes ambitieuses, énergiques, drôles, plus émouvantes que charmantes; aux jeunes premières captives, des personnes que leur seule liberté éloigne du héros, et dont le déroulement de la représentation épousera de plus en plus le point de vue. Les voici désormais les rivales des pitres de la musical comedy, Eddie Cantor, Joe Cook, Ed Brendel ou William Gaxton. Il est acquis que le musical hollywoodien doit l’essentiel de sa matière musicale, chorégraphique et iconographique à la tradition de Broadway. Mais il est opportun de se demander si le film musical obéit aux mêmes principes évolutifs que son modèle new-yorkais. On examinera dans ce dessein Needle in a Haystack, un numéro de The Gay Divorcee (Mark Sandrich, 1934). La chanson a été écrite pour le film par Con Conrad et Herb Magdison. Première entorse à l’exigence d’intégration. Quoiqu’il adapte une pièce créée à Broadway en 1932, The Gay Divorce, Hollywood ne retient qu’une chanson (Night and Day) de la partition de Cole Porter, qui ménageait une délicate alternance entre les morceaux plaisants et les thèmes amoureux, tout en établissant entre ces derniers de subtiles nuances. La règle hollywoodienne est de considérer les morceaux musicaux isolément, d’emprunter à plusieurs compositeurs, chose rare à Broadway, de remanier les textes des chansons de la pièce qu’il adapte, voire de répéter des thèmes de film en film en changeant seulement les paroles. Le spectateur aura parfois le sentiment de feuilleter une anthologie de succès anciens ou récents. Donizetti, George M. Cohan ou Gershwin, n’importe! Morceau rapporté, le numéro musical se dérobe à l’organisation stricte de la partition; il est significatif que les films musicaux négligent le moment de l’ouverture. Se bornant à opposer des modes stéréotypés, ils n’en ont nul besoin.

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À

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Solo masculin, Needle in a Haystack, évoque la recherche de la bien-aimée, fuyarde parce qu’elle est captive aussi bien des complications du divorce que du mariage. Ginger Rogers, elle, n’aura pas droit à un solo. L’aggiornamento demeure bien timide et la construction du film ne répond pas au changement de titre. En effet quoiqu’il aime alterner les focalisations narratives entre hommes et femmes, comme l’a montré Rick Altman1, le musical hollywoodien continue de privilégier le point de vue et les vedettes masculins; notre héroïne moderne demeure caractérisée comme un être hors d’atteinte. Pour nous faire admettre qu’Astaire chante et danse, le scénario et la mise en scène recourent à une excuse plutôt qu’à une justification et à une transition plutôt qu’à une actualisation. On l’a vu un peu plus tôt, Guy Holden a dû prouver dans un cabaret parisien son identité de «célèbre danseur américain», au fond: de Fred Astaire, et c’était une sorte de parabase où le danseur s’efforçait de montrer tout ce qu’il savait faire. Cela rattache le film au musical de coulisses. Au théâtre, Guy était écrivain, et la modification est d’autant plus curieuse qu’elle n’entraîne aucune conséquence dans l’histoire: le héros, que sa profession ne préoccupe nullement, dansera quand il voudra, parce que le genre le veut ainsi. Loin de combattre la convention, Hollywood développe sans vergogne le backstage musical, dont relèvent plus de la moitié des films musicaux. New York ne redécouvrira vraiment les mérites du procédé qu’en 1940 avec Pal Joey et en 1948 avec Kiss Me Kate. Quoique la plupart des films musicaux de coulisses rendent hommage à Broadway, ils en trahissent les projets. Guy n’est pas entraîné vers le chant et la danse par un transport passionnel, il n’accède pas non plus à l’expression sociale d’un problème. Idiotisme du personnage et du genre, le numéro n’a pas d’autre actualité que de s’ajuster au contexte dont il constitue l’ornement. Guy répète la résolution sereine qu’il vient d’indiquer à son confident: trouver Mimi; l’enjeu dramatique et le rendement narratif du numéro sont nuls, comme le souligne sa place terminale. Soutenue par les conventions du musical de cou1 R. ALTMAN, The American Film Musical, Indiana University Press, Bloomington et Indianapolis 1987, pp. 16-27.

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lisses, la justification du passage ressortit aux licences de l’opérette. Les unes se cachent sous les espèces des autres. La position du numéro n’est pas moins captieuse. Dans son site narratif, il achève et illustre un motif: la détermination de Guy. Mais en son rang dans l’ordre des segments musicaux, il joue un rôle plus important. Guy était d’abord spectateur des danseuses parisiennes, le hasard l’a contraint à monter sur scène, son chant et sa danse deviennent ici enfin une manifestation personnelle. Cette progression modifie de manière cruciale l’intérêt des numéros, qui seront de plus en plus décisifs. La faible pertinence narrative de celui-ci ouvre sur une pertinence formelle beaucoup plus élevée. Une intrigue musicale s’esquisse en effet: quand Astaire dansera-t-il avec Ginger Rogers? C’est Night and Day qui la dénouera. La transition doit tout à l’art du cinéma. Introduite plus tôt en guise de commentaire, la musique devient l’accompagnement du chant. Si la parole solitaire rappelle l’antique procédé théâtral du monologue, les cadrages qui saisissent Astaire de profil, derrière le dossier du divan, évoquent plutôt l’intimité du soliloque, avant qu’un plan plus rapproché de trois-quarts face ne livre le chanteur au spectaculaire. La technique de chant d’Astaire, si peu théâtrale, favorise cet acheminement graduel2. De même les gestes se libèrent progressivement du rapport avec les objets caractéristiques du lieu, bouchon de carafe et verre, pour se prêter au rythme. Une claque sur la cuisse, un claquement de doigts, un tapotement impatient, un trépignement, et la danse s’affirme! Entre-temps les pièces d’habillement se changent en accessoires chorégraphiques. Ce genre de progression, si minutieusement appuyée sur des détails et sur le découpage du son et du visible, dispense le film de l’impératif d’actualisation. L’accès à l’élément musical y devient en effet insensible. Or la scène n’userait pas sans peine de telles subtilités. Les procédés filmiques ne sont pourtant pas seuls en cause. Le cinéma n’aura guère tardé à développer une vision du corps où l’intime ne contredise pas le spectaculaire; il a choisi d’introduire les numéros musicaux sans brusquerie 2 Broadway n’ignorait pas le phrasé détendu, assez voisin du registre parlé, que pratiquait par exemple «Whispering» Jack Smith dans Blue Skies (1927). Mais la scène conservera longtemps son goût pour les grandes voix.

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tout en leur gardant un caractère de supplément merveilleux. Mais donner au merveilleux l’apparence du quotidien, n’est-ce pas encore diviser les espèces sous lesquelles le numéro apparaît? Libre de théâtralité, Hollywood s’accommoda de l’hétérogénéité du musical. De là sa prodigalité en enfants prodiges, patineuses, nageuses, coloratures inépuisables, danseurs acrobatiques, injustement blâmée par des critiques qu’obnubile l’idéal du Gesamtkunstwerk. Du moins le sujet, explicité par les paroles de la chanson, semble actuel en son contexte. Le cinéma n’en use pas toujours ainsi. Ce sujet, de plus, est un lieu commun, traité d’une façon un peu singulière, donc légèrement actualisée: en cela le film imite Broadway. Mais cette actualisation est transitoire. Lieu commun, en effet, doit aussi être pris dans l’acception la plus littérale. Broadway se plaît sans doute à introduire les numéros dans des situations-types favorables, structurées par le temps de la réitération: répétition, leçon, bal, politesses, promenade nocturne, et Hollywood reprend ce stratagème, d’autant plus volontiers qu’il n’entend pas masquer la part qu’il concède au temps cyclique de la musique, mais le cinéma fait un plus grand usage de lieux propices: patio, piscine, kiosque à musique, fête foraine, gymnase, parc au couchant, fenêtre où l’on rêve. C’est qu’il en dispose à son gré et les dispose selon ses vœux. Le public se plaît à y reconnaître des avatars de la scène. On retrouve ici ce subterfuge. Avec ses tapisseries zébrées, le décor est traité en noir et blanc purs, sans nuances intermédiaires. Dans les films musicaux de la RKO, comme dans ceux de la Warner, cette réduction chromatique est l’enseigne de la piste de danse; la surélévation du foyer de la cheminée où commenceront les claquettes rappelle l’estrade où Astaire avait exécuté son premier solo. Cela illustre un trait propre au musical de cinéma, son intérêt pour les lieux intermédiaires, bordures où subsistent quelques traces de la théâtralité sans qu’ils soient de véritables scènes. Bien entendu, cela ménage de subtiles transitions entre le spectacle qu’on donne, la comédie à laquelle on se prête, la sincérité masquée par l’apparence de la feinte, et l’expression franche. Ici, par exemple, l’assurance ne s’affirme que par jeu. Cet échelonnement est moins aisé à réaliser au théâtre, dont le décor est tout uniment théâtral et qui ne dispose pas de la diversité du réel. A la scène, la représentation des coulisses dans Kiss Me Kate paraît à peine moins stylisée

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que les décors de la pièce-dans-la-pièce-dans-la-pièce de The Taming of the Shrew. De plus le développement contredit hardiment le sujet. Alors qu’il faudrait illustrer une recherche, que voyons-nous en effet? Tout surgit à point nommé pour satisfaire Guy. Quelle étrange coïncidence entre le mot needle et l’épingle de cravate, entre le mot face et le buste posé sur la cheminée ou le visage d’Astaire qui se reflète dans la glace! Comme la présence des vêtements répond exactement à ses gestes! Le théâtre n’ignore certes pas les décalages entre chanson et situation. Hammerstein aime ainsi à voiler la déclaration d’amour: dans Show Boat, la romance se donne pour une fiction («We Could Make Believe»), dans Oklahoma pour une rumeur («People Will Say We’re in Love»), dans The King and I, l’épouse du Roi suggère l’innamoramento de l’institutrice. Mais ces procédés d’ironie, prétéritions ou discours obliques, s’entendent comme des tournures de dénégation, des désaveux internes au récit. La contradiction de Needle in a Haystack, à la fois plus nette et plus évasive, échappe au contraire à l’actualisation. Nouvelle dispersion des espèces de réalité qui nous sont présentées. Contre son sujet le numéro signifie en effet la disponibilité du monde. En fraternisant avec le buste du divin Auguste, Astaire traduit son empire sur l’univers, avant que sa danse ne conquière la libre étendue, la caméra suivant son mouvement qui change, sans effort apparent, les meubles en degrés et les obstacles en chemins, débordant merveilleusement l’espace jusqu’alors connu. Sandrich avait pris soin de nous cacher les trois-quarts de la chambre. Broadway pouvait sans doute offrir des prolongements chorégraphiques gratuits, où la danse ne fût plus que danse, mais comme l’espace scénique était défini par avance, cette ouverture vers l’infini y demeurait peu accessible. En l’occurrence, c’est le cinéma qui servit sans doute d’exemple à la scène: en jouant sur les entrées et les sorties inattendues, sur les écarts entre les lignes de danseurs, les uns se cachant parfois derrière les autres, des chorégraphes comme Robbins ou Fosse parviendront à déstabiliser l’espace scénique; mais ces métamorphoses ne s’accomplissent que lorsqu’ils deviennent metteurs en scène, vers la fin des années Cinquante. De plus ces évasions resteront souvent liées au comique, pour ne pas gâter l’actualisation, si sérieuse. Fred et Adele

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Astaire, pendant leur carrière sur les planches, demeurent maintenus au rang de couple secondaire, analogue aux valets de comédie au dixhuitième siècle: c’est le cinéma qui permet à Astaire de développer son lyrisme. Mais la conquête de l’espace, voilà une espèce de réalité qui déjoue la pertinence du sujet, qui s’est dédoublé entre-temps: marquer sa décision et s’habiller, cela fait deux. La composition de la danse appelle une remarque: le développement le plus libre se trouve enchâssé entre deux moments mieux insérés dans la situation, où Guy entreprend puis achève de s’habiller, comme il convient à un homme qui s’apprête à sortir pour rechercher celle qu’il aime. Cette symétrie s’apparente à celle des grands numéros de Busby Berkeley, d’ailleurs très différents, et on la retrouvera jusque dans les films de George Sidney, dans les années Cinquante. Cependant, l’organisation du temps renverse l’usage de Berkeley, qui insère généralement la partie la plus narrative du numéro entre les parenthèses les plus gratuites: tel est le cas dans The Lullaby of Broadway dans Gold Diggers of 1935, où la section centrale (qui inclut elle-même une danse purement ornementale) met en scène la mort accidentelle de l’héroïne; mais on verra cette dernière reprendre à la fin sa chanson du début. Hollywood affectionne ces incertitudes des espèces, comme pour exclure une actualisation complète, qui assimile aux temps historique et dramatique toute la durée du segment musical: les numéros les plus fantasques de Singing in the Rain sont légèrement destructeurs; on brise quelques objets, on renverse les meubles; la temporalité interne est donc irréversible quoique le passage n’entraîne aucune conséquence dans le récit. Chez Berkeley l’actualité, notamment politique, et l’actualisation dramatique, prennent la forme d’une évocation enclose entre deux refrains. Au contraire Needle in a Haystack glisse du temps cyclique, purement musical, au sein du temps narratif. Le cœur du numéro s’évade donc du contexte: cela accentue le caractère isolé du morceau et son aspect merveilleux. Faut-il s’intéresser plus à ce qui l’attache à la situation ou à ce qui l’en détache? Prémonition de l’heureux dénouement, il échappe pourtant à la narration. La construction confère aussi aux claquettes un rôle de transition entre les moments où Astaire s’habille et son vertigineux tour-

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billon dans toute l’étendue de la pièce. Elles manifestent la valeur de la régularité, une réticence devant l’apparence de la spontanéité que le film musical conservera plus constamment que le théâtre, tout comme les claquettes. Le passage le plus moderne de la danse est celui où Astaire s’habille. Ce danseur devance ici les chorégraphes de Broadway. Le vocabulaire gestuel est emprunté à un rituel familier, mais aussi théâtral, et qu’on retrouve plus souvent à Hollywood qu’à Broadway, parce qu’il réunit, lui aussi l’intime et le spectaculaire: se vêtir, ce qui prendrait à la scène un sens tout différent. De plus les gestes d’Astaire ne comportent ni ornement, ni prestige, ni virtuosité; leur style et leur grâce ne tiennent pas à des suppléments mais à des soustractions; après tout s’il lance sa robe de chambre par derrière son dos, c’est pour prolonger et arrondir le mouvement qu’il faisait en l’ôtant. Cette chorégraphie ne doit donc rien à une discipline: elle décèle dans la gestuelle quotidienne une forme belle et précise, que définit le seul dynamisme du corps, avec ses déséquilibres et ses symétries; c’est ainsi qu’un élan du buste, compensé par l’écartement des bras permettra un instant plus tard de franchir le dossier du divan. Certes Astaire avait illustré l’habillage sur la scène dans The Band Wagon (1931) avec New Sun in the Sky3, mais on peut douter que le théâtre ait pu donner le même relief à cette sobre réunion du spectaculaire et de l’intime. Reste à s’interroger sur la fonction de ce numéro. Pourquoi contredit-il son sujet affiché? Il manifeste un autre monde, une autre nature, une espèce de l’espace et du temps. La danse présente un caractère magique, et représente son propre caractère magique: elle fait don des objets du désir, elle libère des lois ordinaires. Cet aspect merveilleux met en lumière un mode de signification particulier: propre aux numéros musicaux, il devance ici l’état de la narration, échappe à la pertinence et à la vraisemblance du récit. Il serait tentant de parler de rêve, si la clarté diurne ou l’ordre faisaient défaut, si une censure se laissait deviner; mais le sens n’a rien de secret, il déclare la beauté d’un rapport avec le monde que ne contraignent pas les enjeux narratifs. C’est le contraire d’une actualisation. Il 3 A. CROCE, The Fred Astaire and Ginger Rogers Book, Galahad Books, New York 1972, p. 33.

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DE BROADWAY

À

HOLLYWOOD

serait d’ailleurs également tentant de parler d’allégorie, puisque la liberté s’incarne dans une figure qui ne concède rien aux exigences du réalisme, mais l’effet ne suppose aucune exégèse, et s’exerce sur le cœur du public, sans rien demander à son intelligence. Ce numéro suffit donc à suggérer que le cinéma, tout en empruntant sa matière à Broadway, a dû et su lui donner une forme originale. Refusant le rapport simple et direct entre les segments musicaux et leur contexte narratif, il maintient les premiers dans un certain degré d’isolement. Fidèle aux modèles de Cole Porter ou d’Irving Berlin, Hollywood n’acceptera donc guère les inventions musicales de Kurt Weill ou de Leonard Bernstein, il reculera devant la subtile décomposition de la chanson à laquelle se livre Stephen Sondheim. Il refuse déjà aux librettistes de se faire scénaristes. En récusant la pleine actualisation des numéros musicaux, Hollywood, cependant, ne fait pas seulement preuve de timidité, bien qu’il continue de s’apparenter à la revue et à l’opérette. La justification du numéro, sa position et sa fonction dans l’ensemble des numéros, son sujet et sa signification, la transition qui le lie à son site dramatique appellent, précisément faute d’actualité, autant de jugements particuliers où entrent un soupçon d’allégorie et une nuance de merveilleux et où la forme même devient un objet de l’intrigue. Certes cela tient en partie à ce que nous revoyons dans les films. Mais l’échelonnement des pertinences et l’étagement des espèces entrent bien dans notre intelligence de l’œuvre, fût-ce de façon énigmatique. Le numéro trouve en effet son sens comme ornement et comme convention, comme prédiction et comme échappée hors narration, comme témoignage d’assurance et comme jeu; il réunit les apparences du théâtral et de l’intime, du merveilleux et du quotidien, du projet et de la conquête, de la situation contextuelle et de la nature magique. Enfin, l’originalité du musical filmique, il faut souligner ce truisme, est due à deux possibilités formelles que le théâtre découvrit après lui: le maniement savant de l’espace et la découverte de ce que le corps intime possède de spectaculaire.

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DA BROADWAY A HOLLYWOOD Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 14/03/2019

di ALAIN MASSON

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Il 1927 non è solo la data del primo film musicale: lo stesso anno, con Show Boat, il teatro musicale dichiara ambizioni nuove, che si imporranno a Broadway durante tutto il periodo fecondo della commedia hollywoodiana. La «commedia musicale» intende in effetti rompere con la tradizione europea dell’operetta, ed allontanarsi dalla rivista di music-hall bandendo gli intrighi-pretesti propri al backstage musical. Due imperativi governano questo progetto. Innanzitutto l’integrazione: il musical esige una spartizione unificata che sfuma i contrasti tra i numeri pur assicurando il loro adeguamento alla situazione narrativa, dunque singolare, in cui si inseriscono. Meno conosciuto, ma decisivo, il secondo principio ordina l’attualizzazione. È innanzitutto un aggiornamento: l’America, contemporanea o presentata nei suoi conflitti storici, sostituisce le isole paradisiache, il passato incantatore, i principati utopici, allo stesso modo con cui anche il jazz, inteso soprattutto come ritmo moderno, si sostituisce alla musica viennese; con l’entrata in scena di Doris Humphrey e di Charles Weidman (New Americana, 1932), un nuovo stile coreografico, tanto distante dal tip tap quanto dal balletto accademico, si va affermando. Esso si ispira ai gesti quotidiani, allo sport, al folklore e si appoggia sulle possibilità dinamiche e muscolari del corpo, senza concedere nulla ad una disciplina prestabilita. Ma l’attualizzazione suppone anche una drammatizzazione e delle sfide: i passaggi musicali esprimeranno dei conflitti, degli stati emozionali critici; colpito attraverso l’attualità di una satira politica, di una espressione dell’antagonismo dei sessi, delle razze, delle classi, il pubblico non sognerà di vedere nel numero che l’illustra, e tanto più vivamente che si inserisce al centro di un episodio narrativo, uno di questi ornamenti attraverso cui l’operetta cambiava in archetipi i sentimenti dei suoi personaggi e i motivi dei suoi racconti. È nel tempo contemporaneo, quello delle abitudini e degli stili, che l’attualizzazione può confondere il tempo drammatico e il tempo musicale. Se la vis comica offre anche un accesso al canto, la trasformazione delle protagoniste femminili, simbolizzate da Fanny Brice, Ethel Merman, Sophie Tucker o Mary Martin, appartiene a questo proces-

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so: alle principesse lontane succedono donne ambiziose, energiche, divertenti, più commoventi che affascinanti; alle giovani attrici prigioniere, persone che solo la loro libertà allontana dall’eroe, e del quale lo svolgimento della rappresentazione sposerà sempre più il punto di vista. Eccole ormai le rivali dei pagliacci della musical comedy, Eddie Cantor, Joe Cook, Ed Brendel o William Gaxton. È assodato che il musical hollywoodiano deve l’essenziale della sua materia musicale, coreografica ed iconografica alla tradizione di Broadway. Ma è opportuno chiedersi se il film musicale obbedisce agli stessi principi evolutivi del suo modello newyorkese. Esamineremo con questo intento Needle in a Haystack, un numero musicale tratto da The Gay Divorcee di Mark Sandrich, del 1934. La canzone venne scritta per il film da Con Conrad e Herb Magdison. Prima deviazione rispetto all’esigenza d’integrazione. Sebbene adatti un lavoro teatrale creato a Broadway nel 1932, Hollywood ne conserva solo una canzone (Night and Day) con partitura di Cole Porter, che combinava una delicata alternanza tra le parti piacevoli ed i temi amorosi, pur stabilendo tra questi ultimi sottili sfumature. La regola hollywoodiana è di considerare i brani musicali isolatamente, di ispirarsi a vari compositori, cosa rara a Broadway, di rimaneggiare i testi delle canzoni dell’opera che adatta, magari di ripetere i temi di film in film cambiando solamente le parole. Lo spettatore avrà talvolta la sensazione di sfogliare un’antologia di vecchi e nuovi successi. Donizetti, George M. Cohan o Gershwin, non importa! Brano riportato, il numero musicale si spoglia dell’organizzazione stretta della partitura; ed è significativo che i film musicali trascurino il momento dell’apertura. Limitandosi ad opporre modi stereotipati, non ne hanno affatto bisogno. Assolo maschile, Needle in a Haystack, evoca la ricerca della beneamata, fuggiasca perché prigioniera tanto delle complicazioni del divorzio quanto del matrimonio. Ginger Rogers non avrà diritto ad un assolo. L’aggiornamento resta timido e la costruzione del film non risponde al cambiamento del titolo. In effetti sebbene ami alternare le focalizzazioni narrative tra uomini e donne, come ha mostrato Rick Altman1, il musical hollywoodiano continua a privilegiare il punto di vista e i divi maschili; la nostra eroina moderna rimane caratterizzata come un essere fuori tiro. 1 R. ALTMAN, The American Film Musical, Indiana University Press, Bloomington et Indianapolis 1987, pp. 16-27.

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DA BROADWAY

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Per farci ammettere che Fred Astaire canti e balli, la trama e la messa in scena ricorrono ad una scusa piuttosto che ad una giustificazione, ad una transizione piuttosto che ad un’attualizzazione. Lo si è visto prima, in fondo Guy Holden ha dovuto provare in un cabaret parigino la sua identità di «celebre ballerino americano»: quella di Fred Astaire, ed era una sorta di parabasi in cui il ballerino si sforzava di mostrare tutto ciò che sapeva fare. Questo ricollega il film al musical del «dietro le quinte». In teatro, Guy era scrittore, ed il cambiamento è tanto più curioso in quanto non comporta alcuna conseguenza nella storia: il protagonista, la cui professione non preoccupa affatto, ballerà quando vorrà, dato che il genere lo vuole così. Lontana dal combattere la convenzione, Hollywood sviluppa senza vergogna il backstage musical, come si può rilevare nella gran parte dei film americani. New York non riscoprirà veramente i meriti del procedimento che nel 1940 con Pal Joey, e nel 1948 con Kiss Me Kate. Sebbene la maggior parte dei film musicali del «dietro le quinte» rendano omaggio a Broadway, in realtà ne tradiscono i progetti. Guy non è portato verso il canto e la danza da un trasporto appassionato, né accede all’espressione sociale di un problema. Idiotismo del personaggio e del genere, il numero non ha altra attualità che di aggiustarsi al contesto di cui costituisce l’ornamento. Guy ripete la risoluzione serena che ha appena indicato al suo confidente: trovare Mimi; la posta in gioco e la resa drammatica sono nulle, come sottolinea la sua collocazione finale. Sostenuta dalle convenzioni del musical delle quinte, la giustificazione del passaggio appartiene alle licenze dell’operetta. Le une si nascondono sotto le specie delle altre. La posizione del numero non è meno avvincente. Nel suo posto narrativo, termina ed illustra un motivo: la determinazione di Guy. Ma nella sua collocazione nell’ordine dei segmenti musicali, gioca un ruolo più importante. Guy era all’inizio spettatore delle ballerine parigine, il caso lo ha costretto a salire in scena, il suo canto e la sua danza diventano alla fine una manifestazione personale. Questa progressione modifica in maniera cruciale l’interesse dei numeri, che saranno sempre più decisivi. La debole pertinenza narrativa di questo apre su una pertinenza formale molto più elevata. In effetti si delinea un intrigo musicale: quando Astaire ballerà con Ginger Rogers? È Night and Day che lo svelerà. La transizione deve tutto all’arte del cinema. Introdotta prima a mo’ di commento, la musica diventa l’accompagnamento del canto. Se la parola solitaria ricorda l’antico procedimento teatrale del monologo, le inquadrature che colgono Astaire di profilo, dietro lo schienale del divano,

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evocano piuttosto l’intimità del soliloquio, prima che un primo piano più ravvicinato, tre quarti di viso, non consegni il cantante allo spettacolare. La tecnica del canto di Astaire, così poco teatrale, favorisce questo istradamento graduale2. Allo stesso modo i gesti si liberano progressivamente dal rapporto con gli oggetti caratteristici del luogo – tappo di caraffa e bicchiere – per prestarsi al ritmo. Una pacca sulla coscia, uno schiocco di dita, un picchiettio impaziente, un calpestio, e la danza si afferma! Nel frattempo i capi d’abbigliamento si trasformano in accessori coreografici. Questo genere di progressione, così minuziosamente appoggiata sui dettagli e sulla suddivisione del suono e del visibile, dispensa il film dall’imperativo d’attualizzazione. L’accesso all’elemento musicale ne diventa un effetto impercettibile. Ora, la scena non userebbe senza difficoltà tali sottigliezze. I procedimenti filmici non sono pertanto soli in causa. Il cinema non avrà affatto tardato a sviluppare una visione del corpo in cui l’intimo non contraddice lo spettacolare; esso ha scelto di introdurre i numeri musicali senza rudezza lasciando loro un carattere di supplemento meraviglioso. Ma dare al meraviglioso l’apparenza del quotidiano non è ancora dividere le specie sotto le quali il numero appare? Libera dalla teatralità, Hollywood si accontentò dell’eterogeneità del musical. Da lì la sua prodigalità in bambini prodigio, pattinatrici, nuotatrici, cantanti dalle velocità inesauribili, ballerini acrobatici, ecc. ingiustamente biasimati da quei critici che obnubilano l’ideale del Gesamtkunstwerk. Almeno il soggetto, reso esplicito dalle parole della canzone, sembra attuale nel suo contesto. Il cinema non ne fa uso sempre così. Questo soggetto, oltretutto, è un luogo comune, trattato in un modo un po’ singolare, dunque per così dire attualizzato: sotto questo aspetto il film imita Broadway. Ma questa attualizzazione rimane transitoria. Luogo comune, in effetti, deve essere preso nella sua accezione più letterale. Broadway si compiace senza dubbio nell’introdurre i suoi numeri nelle situazioni-tipo più favorevoli, strutturati con il tempo della reiterazione: ripetizione, lezione, ballo, convenevoli, passeggiata notturna. E Hollywood riprende questo stratagemma, tanto più volentieri in quanto non intende mascherare per nulla la parte che concede al tempo ciclico della musica e, d’altro canto, il cinema fa un uso molto maggiore di spazi propizi: patio, piscina, chiosco musicale, luna-park, palestra, parco al tramonto, finestra dove si

2 Broadway non ignorava il fraseggio disteso, molto vicino al registro parlato, che era stato usato per esempio da «Whispering» Jack Smith in Blues Skies (1927). Ma la scena conserverà a lungo il suo gusto per le grandi voci.

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DA BROADWAY

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sogna. È che ne dispone a suo piacimento e li dispone secondo i suoi desideri. Il pubblico si diverte a riconoscervi le metamorfosi della scena. Si ritrova qui questo sotterfugio. Con le sue tappezzerie zebrate, lo scenario è in un bianco e nero puro senza sfumature intermedie. Nei film musicali della RKO, come in quelli della Warner, questa riduzione cromatica costituisce l’insegna della pista di danza; la sopraelevazione del centro della passerella dove cominceranno i passi di tip tap ricorda la pedana dove Astaire aveva eseguito il suo primo assolo. Ciò illustra un tratto tipico del musical cinematografico, il suo interesse per i luoghi intermedi, spazi dove sussistono solo alcune tracce della teatralità, senza che per questo essi diventino vere scenografie. Beninteso, ciò sa combinare sottili transizioni fra lo spettacolo che si va offrendo, la commedia cui si presta, la sincerità mascherata dall’apparenza della finzione, e l’espressione schietta. Qui, per esempio, l’assicurazione s’afferma solo per gioco. Questa divisione è meno agevole da realizzarsi a teatro, la cui scenografia è completamente teatrale e che non dispone della diversità del reale. Sulla scena teatrale, la rappresentazione del «dietro le quinte» in Baciami Kate sembra appena meno stilizzata delle scenografie della commedia-dentro-la-commedia di The Taming of a Shrew. Oltretutto lo svolgimento della trama contraddice audacemente il soggetto. Nel momento in cui ci si trova nella necessità di illustrare una ricerca, cosa abbiamo di fronte? Ogni cosa nasce precisamente per soddisfare Guy. Quale strana coincidenza tra il needle e la spilla da cravatta, tra la parola face ed il busto posato sul camino o il viso di Astaire che si riflette nello specchio! Quanto la disposizione dei vestiti risponde esattamente ai suoi gesti! Il teatro non ignora di certo le divaricazioni, gli sfalsamenti tra canzone e situazione. Hammerstein ama così velare una dichiarazione d’amore: in Show Boat, la canzone viene offerta attraverso una finzione («We could believe»), in Oklahoma attraverso un rumore («People will say we’re in love»), e in Il Re ed io è la sposa del Re a suggerire l’innamoramento dell’istitutrice. Ma questi procedimenti ironici, preterizioni o discorsi obliqui, devono intendersi come dissimulazioni, confessioni interne al racconto. La contraddizione di Needle in a Haystack, tanto netta quanto evasiva, sfugge invece all’attualizzazione. Nuova dispersione di quelle specie di realtà che ci vengono presentate. Contro il proprio soggetto il numero musicale significa in effetti la disponibilità del mondo. Fraternizzando con il busto del divino Augusto, Astaire porta il suo impero sull’universo, prima che la sua danza conquisti la libera estensione, con la macchina da presa che segue il suo movi-

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mento che cambia, senza sforzo apparente, la disposizione dei mobili più il gioco degli ostacoli, oltrepassando lo spazio fino ad allora conosciuto. Sandrich aveva preso cura di nasconderci i tre quarti della camera. Broadway poteva senza dubbio offrire dei prolungamenti coreografici gratuiti, in cui la danza non fosse più danza, ma dato che lo spazio scenico era definito a priori, questa apertura verso l’infinito era poco accessibile. All’occorrenza, è senza dubbio il cinema che serve d’esempio alla scena: giocando sulle entrate e sulle uscite inaspettate, sulle distanze tra le linee dei ballerini – gli uni nascondendosi talvolta dietro gli altri – coreografi come Robbins o Fosse arriveranno a destabilizzare lo spazio scenico; ma queste metamorfosi si compiono solo allorché essi diventano registi, verso la fine degli anni Cinquanta. Inoltre tali evasioni resteranno spesso legate al comico, per non rovinare l’attualizzazione, così seriosa. Fred ed Adele Astaire, nel loro periodo teatrale, restano confinati a livello di una coppia secondaria, analoga ai valletti della commedia del diciottesimo secolo: sarà poi il cinema a permettere ad Astaire di sviluppare il suo lirismo. La conquista dello spazio, ecco una specie di realtà che sventa la pertinenza del soggetto, il quale frattanto si è raddoppiato: affermare la sua decisione e vestirsi, sono due cose diverse. La composizione della danza richiede un’osservazione: lo sviluppo più libero si trova incastonato tra due momenti inseriti nella situazione in cui Guy inizia poi finisce di vestirsi, come conviene ad un uomo che si prepara ad uscire per ricercare colei che ama. Questa simmetria si avvicina a quella dei grandi numeri di Busby Berkeley, d’altronde molto diversi, e la si ritroverà anche nei film di George Sidney, negli anni Cinquanta. Ciononostante, l’organizzazione del tempo rovescia l’uso di Berkeley, che inserisce generalmente la parte più narrativa del numero tra le parentesi più gratuite: è il caso di The Lullaby of Broadway nel film Gold Diggers of 1935, in cui la sezione centrale (che include essa stessa una danza puramente ornamentale) mette in scena la morte accidentale dell’eroina; si vedrà poi quest’ultima riprendere alla fine la canzone dell’inizio. Hollywood presenta queste incertezze dei generi, come per escludere un’attualizzazione completa, che assimila al tempo storico e drammatico tutta la durata del segmento musicale: i numeri più bizzarri di Singing in the Rain sono leggermente distruttori; si rompono alcuni oggetti, si rovesciano i mobili; la temporalità interna è dunque irreversibile sebbene il passaggio non porti alcuna conseguenza nel racconto. In Berkeley l’attualità, particolarmente politica, e l’attualizzazione drammatica, prendono la forma di una evocazione chiusa tra due ritornelli. Al contrario Needle in a Haystack scivola dal tem-

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DA BROADWAY

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po ciclico, puramente musicale, all’interno del tempo narrativo. Il cuore del numero evade dunque dal contesto: questo accentua il carattere isolato del pezzo ed il suo aspetto meraviglioso. Bisogna interessarsi di più a ciò che lo collega alla situazione oppure a ciò che lo distoglie? Premonizione della felice conclusione, eppure esso fugge dalla narrazione. La costruzione conferisce anche al tip tap un ruolo di transizione tra i momenti in cui Astaire si veste ed il suo vertiginoso volteggio durante tutto lo svolgimento della pièce. Il tip tap manifesta il valore della regolarità, una reticenza di fronte all’apparenza della spontaneità che il film musicale conserverà più costantemente del teatro, così come le «claquettes». Il passaggio più moderno del ballo è quello in cui Astaire si veste. Questo ballerino precorre qui le coreografie di Broadway. Il vocabolario gestuale è preso in prestito da un rituale familiare, ma anche teatrale, e che si ritrova più spesso a Hollywood che a Broadway, perché anch’egli riunisce l’intimo e lo spettacolare: vestirsi, ciò che farebbe prendere alla scena un senso del tutto diverso. In più i gesti di Astaire non comportano né ornamento, né prestigio, né virtuosità; il loro stile e la loro grazia non dipendono da supplementi ma da sottrazioni; dopo tutto se egli lancia la sua giacca da camera dietro di sé è per prolungare ed arrotondare il movimento che faceva togliendola. Questa coreografia non deve dunque nulla ad una disciplina: scopre nella gestualità quotidiana una forma bella e precisa, che definisce l’unico dinamismo del corpo, con i suoi disequilibri e le sue simmetrie; è così che uno slancio del busto, compensato dallo scarto delle braccia, permetterà un istante più tardi di oltrepassare lo schienale del divano. Certamente Astaire aveva illustrato l’abbigliamento sulla scena in The Band Wagon (1931) con New Sun in the Sky3, ma si può dubitare che il teatro abbia potuto dare lo stesso rilievo a questa sobria riunione dello spettacolare e dell’intimo. Resta da interrogarsi sulla funzione di questo numero. Perché contraddice il suo soggetto ostentato? Esso manifesta un altro mondo, un’altra natura, una specie dello spazio e del tempo. La danza presenta un carattere magico, e rappresenta il suo proprio carattere magico: essa fa dono degli oggetti del desiderio, libera leggi ordinarie. Questo aspetto meraviglioso mette in luce una maniera di significare altrettanto particolare: esso è tipico dei numeri musicali, anticipa lo stato della narrazione, sfug-

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A. CROCE, The Fred Astaire and Ginger Rogers Book, Galahad Books, New York 1972,

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ge alla pertinenza ed alla verosimiglianza del racconto. Sarebbe allettante parlare qui di sogno, se la luminosità diurna o l’ordine facessero difetto, se una censura si lasciasse indovinare; ma il senso non ha niente di segreto, dichiara la bellezza di un rapporto con il mondo che non ammette sfide narrative. È il contrario di un’attualizzazione. Sarebbe d’altronde ugualmente allettante parlare di allegoria, poiché la libertà si incarna in una figura che non concede nulla alle esigenze del realismo, ma l’effetto non suppone alcuna esegesi, e si esercita sul cuore del pubblico, senza chiedere altro alla sua intelligenza. Questo numero è sufficiente per suggerire che il cinema, pur prendendo in prestito la sua materia da Broadway, ha dovuto e saputo darle una forma originale. Rifiutando il rapporto semplice e diretto tra i segmenti musicali e il loro contesto narrativo, mantiene i primi in un certo grado di isolamento. Fedele ai modelli di Cole Porter o di Irving Berlin, Hollywood non accetterà dunque le invenzioni musicali di Kurt Weill o di Leonard Bernstein, indietreggerà davanti alla sottile decomposizione della canzone alla quale si abbandona Stephen Sondheim. Egli già rifiuta ai librettisti di trasformarsi in scenografi. Respingendo la piena attualizzazione dei numeri musicali, Hollywood, nonostante ciò, non dà prova di timidezza, benché continui ad apparentarsi alla rivista e all’operetta. La giustificazione del numero, la sua posizione e la sua funzione nell’insieme degli altri numeri, il suo soggetto e il suo significato, la transizione che lo lega al suo posto drammatico, chiamano, precisamente in mancanza d’attualità, altrettanti giudizi particolari, in cui entrano un sospetto d’allegoria e una sfumatura di meraviglioso e in cui la forma stessa diventa un oggetto dell’intreccio. Certo questo fa parte di ciò che noi rivediamo nei film. Ma lo scaglionamento delle pertinenze e la disposizione delle specie entrano nella nostra intelligenza dell’opera, fosse pure in modo enigmatico. Il numero trova in effetti il suo senso come ornamento e come convenzione, come predizione e come fuga fuori narrazione, come testimonianza d’assicurazione e come gioco; riunisce le apparenze del teatrale e dell’intimo, del meraviglioso e del quotidiano, del progetto e della conquista, della situazione contestuale e della natura magica. Infine, l’originalità del musical filmico, bisogna sottolineare questo cliché, è dovuta a due possibilità formali che il teatro scopre dopo di esso: l’uso sapiente dello spazio e la scoperta di ciò che il corpo intimo possiede di spettacolare. (traduzione di Cristina Denti)

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LE MUSICAL HOLLYWOODIEN. RÊVE, CAUCHEMAR, SATIRE di JEAN-LOUP BOURGET

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Je partirai d’une remarque de Jean Starobinski dans le chapitre de son ouvrage Trois fureurs consacré au Cauchemar (The Nightmare) de Füssli / Fuseli. Starobinski y oppose deux types d’images: si les peintres «de la pure couleur» (il cite Monet, Matisse, Bonnard, Rothko) suscitent chez nous un «éveil sensible», une ouverture sur le monde de la perception phénoménale, à son tour susceptible de nous faire «entrer en rêverie», ils ne nous donnent pas comme les artistes oniriques (néo-classiques ou surréalistes) l’impression de «reconnaître»dans leurs œuvres le «récit pictural», l’«imitation fidèle» d’un rêve déjà advenu. Chez les peintres «de la pure couleur», le rêve est projectif, prospectif; chez les oniriques, il donne le sentiment de précéder immédiatement sa représentation ou plutôt sa relation picturale. Il est vrai, ajoute Starobinski, que certains peintres ont su combiner la couleur et la «fable» onirique (il évoque Watteau, Turner, Redon, Gustave Moreau); mais, toujours selon Starobinski, il semble bien que le caractère onirique soit essentiellement dû à la fable, au récit, qui sont liés au «tracé», au dessin, plus qu’à la couleur. Parmi les auteurs d’images oniriques, nombreux sont ceux qui sont, comme Fuseli lui-même, avec son «grand art d’illustrateur», «en difficulté avec la couleur»; certains néo-classiques (Flaxman, Carstens, Canova) éliminent complètement la couleur et ont même recours au «dessin au trait», dépourvu de toute ombre; beaucoup de surréalistes réduisent la couleur à un «coloriage attentif»1. Cette dichotomie fondamentale pourrait être transposée dans le cinéma hollywoodien, où l’on opposerait deux genres classiques: la comédie musicale, souvent caractérisée par l’«éveil sensible» de la 1

J. STAROBINSKI, Trois fureurs, Gallimard, Paris 1974, pp. 149-155.

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JEAN-LOUP BOURGET

couleur et l’invitation à la rêverie, et le film «noir», qui apparaît fréquemment comme le récit rétrospectif et soigneusement documenté d’un rêve ou d’un cauchemar, d’un fantasme ou d’une hallucination. On citera, dans le premier cas, tel ou tel des chefs-d’œuvre du genre musical réalisés dans les années Cinquante, comme Singing in the Rain de Stanley Donen et Gene Kelly ou Funny Face (également de Donen), ou encore An American in Paris de Vincente Minnelli, dont le célèbre ballet final, avec son hommage à toute une série de peintres de la fin du XIXe et du début du XXe siècles, constitue en outre un exemple cardinal de pictorialisme cinématographique, susceptible de confirmer la remarque de Starobinski sur la «pure couleur». (Je note d’ores et déjà une difficulté prévisible avec Brigadoon, aussi de Minnelli, autre exemple de pictorialisme où pourtant la référence picturale aux paysagistes anglais et aux peintres de genre hollandais semble nourrir une nostalgie onirique plus qu’un véritable «éveil sensible».) En ce qui concerne le genre «noir», bien nommé, il suffira d’évoquer ces paradigmes que sont The Woman in the Window et The Secret Beyond the Door, tous deux de Fritz Lang, et Spellbound de Alfred Hitchcock; on pourrait aisément leur adjoindre Rebecca de Hitchcock, Laura de Otto Preminger, The Lady from Shanghai de Orson Welles et quantité d’autres titres où le caractère rétrospectif de la narration (flashback, voix off subjective) corrobore l’observation de Starobinski sur «déjà vu», le «déjà rêvé onirique»; ces rêves sont souvent des cauchemars où, conformément à l’orthodoxie freudienne, le réveil désigne moins le retour à la normalité rassurante que le retour irrépressible et généralement violent du refoulé dans le rêve même. On pourrait d’ailleurs considérer que la photographie blanche, gris métallique, glacée de Stanley Cortez pour The Secret Beyond the Door constitue une sorte d’équivalent du «dessin au trait» des oniriques néo-classiques, distinct à la fois des gris nuancés du clairobscur et des éclairages très contrastés du néo-expressionnisme. A ce point apparaît cependant une différence fondamentale entre peinture et cinéma. Dans le tableau onirique, même si (comme c’est le cas dans les diverses versions du Cauchemar) celui-ci représente à la fois le dormeur (ici, une dormeuse) et sa vision, il les représente ensemble, de façon simultanée, tandis que le film, forme

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narrative, peut montrer successivement le dormeur et sa vision, l’état de veille (ou de «réveil») et le rêve, la «réalité» et le rêve. Indépendamment de la distinction esquissée jusqu’ici (musical = couleur = éveil sensible = rêve projectif vs film «noir» = dessin = reconnaissance du rêve rétrospectif), voici une tout autre distinction, au moins apparente et provisoire, entre deux types de récits cinématographiques «oniriques»: ceux qui se donnent plus ou moins globalement comme «trace» ou relation d’un rêve, et ceux qui comportent simplement une séquence «onirique» isolée. A cet égard, on rapprochera par exemple Brigadoon de The Woman in the Window (dans les deux cas, la majeure partie du film est désignée comme expressément ou imaginaire ment onirique) et on les opposera aux séquences de rêve isolées de Yolanda and the Thief ou de Spellbound (deux films exactement contemporains, distribués l’un et l’autre fin 1945). Dans tous les cas, la succession de séquences «réelles» et de séquences oniriques suggère la possibilité (exploitée ou non) de marquer leur différence visuellement, notamment dans l’emploi ou le traitement de la couleur. Ici, l’esthétique hollywoodienne, appuyée sur des considérations économiques (le caractère onéreux ou «luxueux» du Technicolor), paraît d’abord contredire l’observation de Starobinski: les séquences de rêve, ou plus généralement de «fantaisie» ou de fantasme, semblent appeler le recours à la palette colorée, tandis que le noir et blanc rendrait mieux l’impression de réalité. On pourrait rappeler ici les brefs inserts ou séquences en Technicolor de The Women de Cukor, de The Picture of Dorian Gray et de Bel Ami d’Albert Lewin, de Portrait of Jennie de William Dieterle; signaler, pour en revenir à la comédie musicale, que dans Carefree Mark Sandrich voulait tourner en Technicolor le rêve de Ginger Rogers (il est vrai qu’il s’agit en l’occurrence d’un rêve d’«éveil sensible», qui voit s’épanouir la santé physique, psychique, sentimentale et sexuelle de l’héroïne lorsqu’elle danse avec son psychanalyste-hypnotiste, Fred Astaire), et citer bien sûr l’exemple paradigmatique (sur lequel je reviendrai) de The Wizard of Oz de Victor Fleming, film-rêve qui dépeint the wonderful land of Oz dans un Technicolor rutilant, enchâssé dans le noir et blanc «réel» du Kansas en 1900. Mais une nouvelle remarque nous fait prendre conscience que la typologie des formes cinématographiques oni-

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riques est fort complexe. Nombre de films ont en effet tendance à combiner le type du «film-rêve» avec celui de la séquence onirique isolée. J’avais observé ce phénomène à propos de Three Women de Robert Altman, «film-rêve» fantasmatique (le cinéaste assure que l’inspiration lui en a été donnée dans un rêve, ce qui l’apparente au poème de Coleridge Kubla Khan et au récit de Robert Louis Stevenson Dr Jekyll and Mr Hyde) et comportant une séquence de rêve «explicite»: dans des cas de ce genre, la présence de la scène onirique «explicite» s’apparenterait à une «mise en abyme», à un effet auto-référentiel, et constituerait une sorte d’indice que le film, dans son ensemble, doit être considéré comme (implicitement) onirique. N’est-ce pas le cas dans de nombreuses comédies musicales, par exemple dans Yolanda and the Thief (où la séquence de rêve désignerait l’ensemble du film comme une production fantasmatique, un récit «régressif» assimilant l’amour hétérosexuel à un voyage remontant le temps jusqu’à une Amérique latine non seulement «de fantaisie», mais profondément «primitive» en même temps que baroque et bariolée) ainsi que dans Ziegfeld Follies (notamment la séquence rêvée de Limehouse Blues, rêve enchâssé dans une «fantaisie» ellemême insérée dans un film qui est une suite de «fantaisies», les unes oniriques, les autres satiriques) ou encore dans The Pirate (The Pirate Ballet) ou dans Mary Poppins de Robert Stevenson? Cette hypothèse se vérifie en quelque sorte si l’on songe à des films non musicaux, souvent invoqués comme exemples d’onirisme «implicite»: je pense à deux œuvres de Stanley Kubrick, The Shining et Eyes Wide Shut (titre suggestif, d’esprit assez «fuselien», d’une adaptation de la nouvelle de Arthur Schnitzler Rien qu’un rêve), que les exégètes ont volontiers interprétées comme des visions subjectives et fantasmatiques des personnages incarnés respectivement par Jack Nicholson et par Tom Cruise. Je note que The Shining comporte plusieurs brefs inserts oniriques qui sont de nature à corroborer une telle lecture, tandis que dans Eyes Wide Shut la longue séquence de l’orgie masquée revêt elle aussi le caractère d’une vision clairement fantasmatique. Mais j’en reviens maintenant et définitivement à la comédie musicale, pour passer en revue une brève sélection de séquences oniriques et examiner par quels moyens (chromatiques et graphiques)

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ces séquences sont désignées comme telles, et comment elles sont distinguées (ou non) du reste du film. Dans deux exemples (d’ailleurs fort différents) empruntés à Busby Berkeley, les séquences oniriques sont en noir et blanc dans des œuvres en noir et blanc. La séquence Going to Heaven on a Mule, dans Wonder Bar, combine essentiellement, pour dénoter l’«onirique», trois éléments: un décor dessiné d’inspiration art déco; une musique de chœurs «angéliques»; et une vision satirique, vernaculaire et caricaturale de l’au-delà, celle qui à tort ou à raison est attribuée au folklore noir et ici appropriée par Al Jolson et d’autres artistes en black face. Indépendamment du pastiche afro-américain aujourd’hui jugé politiquement très incorrect, le mélange «satirique» de surnaturel et de bouffonnerie évoque la partie «céleste» de Liliom que Fritz Lang réalise en France la même année exactement (1934). Lullaby of Broadway, dans Gold Diggers of 1935, est d’une invention plus rigoureuse, plus efficace, sans rien d’anarchique: cette authentique séquence de «cauchemar» s’appuie notamment sur les ressources habituelles de l’expressionnisme visuel, qui semblent d’abord contraster avec une musique jazzée et joyeuse, avant que le crescendo de la danse, implacable et frénétique, vienne en quelque sorte «confirmer» les menaces exprimées par les ombres démesurées, par les cadrages penchés et par les angles inquiétants (plongées et contre-plongées). En même temps que de l’expressionnisme, on est ici très près de certains des procédés signalés par Starobinski; c’est ainsi que les contre-plongées de Berkeley rappellent très précisément le recours de Fuseli à la Froschperspektive ou «perspective de la grenouille»2. Voyons maintenant ce qui se passe dans une comédie musicale «classique», en Technicolor, Singing in the Rain, qui ne saurait passer a priori pour un film onirique mais pourrait être définie comme une satire (et une autosatire affectueuse) d’Hollywood. The Broadway Ballet y constitue une longue séquence «ekphrastique»: elle est censée être décrite par Gene Kelly au producteur qui, par un effet ironique, s’exclamera qu’il «ne la visualise pas très bien» après que le spectateur a lui-même vu cette séquence. La séquence est saturée de couleurs, avec une dominante de rouges et de jaunes vifs 2

Ivi, p. 157.

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sur un fond sombre. Kelly y rencontre Cyd Charisse, fille à gangsters d’abord vêtue d’une robe vert émeraude vif. Puis la danseuse est vêtue d’une robe blanche, ce qui enclenche une assez brève séquence onirique, un pas de deux Kelly – Charisse (le décor et les autres personnages disparaissent) caractérisé par une inspiration graphique et picturale explicitement surréaliste (perspectives fuyantes sur le sol gris bleu et rose, pierres dressées qui projettent de très longues ombres, long voile blanc déployé par Cyd Charisse) et par une impression de quasi-monochromie par opposition à la débauche de couleurs qui précédait. Les marques de l’onirisme sont donc ici la référence à la peinture surréaliste, la quasi-monochromie, le pas de deux qui évoque davantage le ballet classique que les figures exubérantes de la comédie musicale. Ces traits sont, me semble-t-il, communs aux séquences oniriques de nombreuses comédies musicales. La séquence onirique de Yolanda fait se succéder deux choix chromatiques bien distincts: celui du Technicolor saturé, dominé par le rouge profond des lavandières (cette couleur rappelle l’œillet rouge qui sert de shifter, d’embrayeur désignant le passage de la «réalité» au «rêve») et par le jaune de la route qui «cite» la yellow brick road de The Wizard of Oz; et, contradictoirement, la quasi-monochromie des tons plus doux, roses, bleus, beiges, bruns, qui baignent l’image, notamment lors du pas de deux Fred Astaire – Lucille Bremer. Même alternance de la couleur vive et de la couleur désaturée dans le ballet final de An American in Paris, que ses caractéristiques esthétiques apparentent clairement à une séquence onirique. Exactement comme dans Yolanda, c’est une fleur rouge (ici, une rose) qui sert de shifter du réel à l’imaginaire. Ce monde imaginaire où est plongé le peintre amoureux (Gene Kelly) est rempli de références picturales, mais la «pure couleur» y est très diversement répartie. A l’hommage à Dufy (taches de rouge vif sur fond gris bleu désaturé) succèdent les évocations de Manet (le quai aux Fleurs), puis d’Utrillo, avec leur chromatisme atténué; on renoue avec la multiplicité de la couleur pimpante avec l’hommage au douanier Rousseau (dans lequel Kelly porte une veste rouge vif). Une scène de transition a recours à une série d’images monochromes; on revient de nouveau à la diversité chromatique avec la séquence de l’Opéra (qui

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est censée être un hommage à Van Gogh, mais où on reconnaît aussi les jaunes vifs des danseuses de Degas), qui passe sans transition à l’hommage à Toulouse-Lautrec (avec la tache rouge vif de l’écharpe portée par Aristide Bruant), avant qu’on termine sur un retour à Dufy, à ses rouges vifs et à la rose, elle-même rouge vif. On a donc là un système extrêmement complexe, d’où la couleur n’est jamais complètement absente, mais où, inversement, Minnelli et son chefopérateur John Alton se sont efforcés de tamiser les couleurs les plus éclatantes. Alton tournait pour la première fois en Technicolor et a assuré que le secret de la beauté photographique de ce ballet résidait dans les effets de sfumato, qui conféraient à l’ensemble des tonalités de pastel, de couleur anglaise3. On ajoutera le lien ici systématique entre les séquences «multicolores» et les chorégraphies d’ensemble (l’hommage à Dufy devient une fantaisie orientale; le douanier Rousseau sert de décor à une danse dans le style américain «primitif» de George M. Cohan; l’hommage à Toulouse-Lautrec fait revivre la «faune» d’un cabaret montmartrois), tandis que les images monochromes ou désaturées sont associées au pas de deux, à une forme de danse plus proche du ballet. On pourrait alors formuler l’hypothèse que la danse, particulièrement avec son modèle «classique», joue dans le musical onirique le même rôle fondamental que le tracé du dessin dans la peinture onirique (néo-classique ou surréaliste) selon Starobinski, alors que la couleur serait, dans les deux cas, reléguée au second plan. The Wizard of Oz contredit-il radicalement cette hypothèse? Je me bornerai à trois remarques. En premier lieu, il faut rappeler que ce film donne l’exemple de deux esthétiques oniriques parfaitement antithétiques: avant l’entrée dans le monde d’Oz, la séquence onirique de l’ouragan, avec ses extraordinaires personnages volants, Margaret Hamilton pédalant furieusement sur sa bicyclette avant de se métamorphoser en sorcière, deux hommes dans une barque, en train de ramer, une vache…, est «encore» en noir et blanc, et elle 3 Sur le ballet final de An American in Paris voir H. Fordin, The World of Entertainment. Hollywood’s Greatest Musicals, Doubleday, New York 1975, pp. 318-332. Le témoignage de John Alton est cité p. 327. On consultera aussi l’introduction de Todd McCarthy à J. ALTON, Painting with Light, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1995, pp. xxiv-xxvi.

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renvoie doublement à l’écran de cinéma, par le cadrage de la fenêtre par où Dorothy contemple ce spectacle, et aussi parce qu’elle rappelle diverses séquences oniriques et/ou burlesques de films muets (parmi lesquels il faudrait citer le très curieux et remarquable filmrêve comique de Victor Fleming et Douglas Fairbanks, When the Clouds Roll By). On objectera peut-être que cette séquence onirique «traditionnelle» n’est pas, à proprement parler, musicale, mais elle fait partie intégrante du film, et sert globalement de shifter, au même titre donc que les red slippers à la fin du récit4. Deuxième remarque, je note dans Tim Burton’s The Nightmare Before Christmas de Henry Selick une opposition jusqu’à un certain point comparable entre deux représentations de mondes oniriques, l’une essentiellement monochrome (malgré la présence des pumpkins), celle de Halloween, l’autre bigarrée de couleurs vives, celle de Noël et de Christmas Town. Ceci m’amène à ma troisième observation, qui est la différence de nature et d’inspiration entre deux types de cinéma onirique. Dans The Wizard of Oz, adaptation du «classique» américain de L. Frank Baum, la profusion de la couleur exprime un onirisme vernaculaire, populaire, démotique, qui certes recoupe parfois le folklore germanique ou irlandais (les Munchkins sont des little people) mais qui, pour l’essentiel, tourne le dos à la culture européenne, à l’art savant, au ballet et à la musique classiques, au bon goût. C’est cette forme d’onirisme que je propose d’appeler «satirique», dans le double sens où c’est une forme «impure», «hybride», «mélangée», et où elle ne craint pas de prendre pour cible les formes «nobles» de l’art savant. La musique populaire, la fanfare, les musiques ethniques y jouent un rôle essentiel, allant souvent de pair avec le caractère lui-même «criard» de la couleur. C’est évidemment à cette veine satirique, vernaculaire et démotique que sacrifie souvent Busby Berkeley (on se rappelle Going to Heaven on a Mule). C’est cette 4 Sur The Wizard of Oz, il faut citer l’essai désormais classique de Salman Rushdie, qui interprète le film comme le conflit entre deux rêves: le rêve de racines, et le rêve à ses yeux beaucoup plus puissant de l’Ailleurs, du départ. Pour Rushdie, ce rêve de l’Ailleurs correspond à une volonté de quitter la grisaille de la réalité quotidienne, de s’ouvrir à la couleur. Cette lecture se rapproche donc de ce que Starobinski dit de l’«éveil sensible» suscité par les peintres de la «pure couleur». On notera cependant que, pour Rushdie, c’est dès la séquence de la tornade, lorsqu’elle rêve «en noir et blanc», que Dorothy «s’éveille»: S. RUSHDIE, The Wizard of Oz, British Film Institute, London 1992, pp. 23-30.

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même veine qu’illustrent, avec une réussite diverse, non seulement Tim Burton (cinéaste «hybride» dans le sens où il combine le vernaculaire américain à de nombreuses réminiscences de la culture savante européenne), mais aussi d’autres admirateurs et adaptateurs du Dr Seuss, comme Roy Rowland (The 5000 Fingers of Dr. T) ou plus récemment Ron Howard (The Grinch). The Grinch est parsemé de références à The Wizard of Oz: le maquillage du héros, interprété par Jim Carrey, rappelle celui du Cowardly Lion, et son visage a la même couleur verte répugnante qu’avait celui de Margaret Hamilton, The Wicked Witch of the West, tandis que les habits bariolés et les chevelures en mèches des Whos de Whoville font nécessairement songer aux Munchkins. Beaucoup plus inventif, The 5000 Fingers of Dr. T constitue, en même temps qu’un musical onirique, un rare exemple d’expressionnisme comique, comparable à Die Bergkatze de Lubitsch: dans la grande scène du ballet-concert, les décors semblent surgis de Metropolis, la musique de Frederick Hollander parodie Gershwin, l’accumulation des musiciens-acrobates et de leurs gestes bizarres compose une séquence cinématographique digne des inventions de Jérôme Bosch. Ainsi, loin que le rapport de la comédie musicale au rêve et à la couleur soit univoque, le genre s’est servi – tant pour inviter «prospectivement» à la rêverie que pour donner le sentiment étrange, voire inquiétant, du «déjà rêvé» – des stratégies les plus diverses, excluant, opposant, combinant tour à tour la couleur et le noir et blanc, la couleur vive et les teintes pastel, le ballet classique et les chorégraphies burlesques, le surréalisme de Dali et Tanguy et la satire vernaculaire de la pantomime ou de la caricature.

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IL MUSICAL HOLLIWOODIANO. SOGNO, INCUBO, SATIRA di JEAN-LOUP BOURGET

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Partirò da un’osservazione di Jean Starobinski nel capitolo della sua opera Trois fureurs dedicata all’Incubo (The Nightmare) di Füssli. Starobinski vi oppone due tipi di immagini: se i pittori «del colore puro» (cita Monet, Matisse,Bonnard, Rothko) suscitano in noi un «risveglio sensibile», un’apertura sul mondo della percezione fenomenica, a sua volta suscettibile di farci «entrare nella fantasticheria», essi non ci danno come gli artisti onirici (neo-classici o surrealisti) l’impressione di «riconoscere» nelle loro opere il «racconto pittorico», l’«imitazione fedele» di un sogno già avvenuto. Nei pittori «del colore puro», il sogno è proiettivo, prospettico; negli onirici, dà la sensazione di precedere immediatamente la sua rappresentazione o piuttosto la sua relazione pittorica. È vero, aggiunge Starobinski, che alcuni pittori hanno saputo combinare il colore e la «favola» onirica (evoca Watteau, Turner, Redon, Gustave Moreau); ma, sempre secondo Starobinski, sembra che il carattere onirico sia essenzialmente dovuto alla favola, al racconto, che sono legati alla «linea», al disegno, più che al colore. Tra gli autori di immagini oniriche, molti sono, come Füssli stesso, con la sua «grande arte di illustratore», «in difficoltà con il colore»; alcuni neo-classici (Flaxman, Carstens, Canova) eliminano completamente il colore e fanno ricorso al «disegno a tratto», sprovvisto di ogni ombra; molti surrealisti riducono il colore ad una «attenta colorazione»1. Questa dicotomia fondamentale potrebbe essere trasferita nel cinema hollywoodiano, in cui si opporrebbero due generi classici: la commedia musicale, spesso caratterizzata dal «risveglio sensibile» del colore con invito al sogno, ed il film «nero» che appare di frequente come il racconto retrospettivo ed attentamente documentato di un sogno o di un incubo, di un fantasma o di un’allucinazione. Si citerà, nel primo caso, questo o quel capolavoro del genere musical, tra quelli realizzati negli anni Cinquanta, come Singing in the Rain di Stanley Donen e Gene Kelly oppure

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J. STAROBINSKI, Trois fureurs, Gallimard, Paris 1974, pp. 149-155.

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Funny Face (sempre di Donen) o ancora An american in Paris di Vincente Minnelli, di cui il celebre balletto finale, con il suo omaggio a tutta una serie di pittori della fine del XIX e inizio del XX secolo, costituisce un altro esempio cardinale del pittorialismo cinematografico, suscettibile di confermare l’osservazione di Starobinski sul «colore puro». (Noto fin d’ora una prevedibile difficoltà con Brigadoon, sempre di Minnelli, altro esempio di pittorialismo in cui pure il riferimento ai paesaggisti inglesi ed ai pittori di genere olandese sembra nutrire una nostalgia onirica più che un «risveglio sensibile»). Per ciò che riguarda il genere «nero» appena nominato, sarà sufficiente evocare quei paradigmi che sono The Woman in the Window e The Secret Beyond the Door, entrambi di Fritz Lang, e Spellbound di Alfred Hitchcock; si potrebbe facilmente aggiungervi Rebecca dello stesso Hitchcock, Laura di Otto Preminger, The Lady from Shanghai di Orson Welles e molti altri titoli in cui il carattere retrospettivo della narrazione (flash-back, voce esterna soggettiva) corrobora l’osservazione di Starobinski sul «già visto», il «già sognato onirico»; questi sogni sono spesso degli incubi in cui, conformemente all’ortodossia freudiana, il risveglio designa meno il ritorno alla normalità rassicurante che il ritorno incontenibile e generalmente violento del rimosso nel sogno stesso. Si potrebbe d’altronde considerare che la fotografia bianca, grigio metallica, ghiacciata di Stanley Cortez per The Secret Beyond the Door costituisca una sorta di equivalente del «disegno a tratto» degli onirici neo-classici, distinto sia dai grigi sfumati del chiaro-scuro che dalle luci molto contrastanti del neo-espressionismo. A questo punto tuttavia appare una differenza fondamentale tra pittura e cinema. Nel quadro onirico, anche se (come è il caso delle diverse versioni del Cauchemar) questo rappresenta al tempo stesso il dormiente (qui una dormiente) e la sua visione, esso li rappresenta insieme, in un modo simultaneo, mentre il film, forma narrativa, può mostrare successivamente il dormiente e la sua visione, lo stato di veglia (o di «risveglio») e il sogno, la «realtà» e il sogno. Indipendentemente dalla distinzione tratteggiate fino a qui (musical = risveglio sensibile = sogno proiettivo vs film «nero» = disegno = riconoscimento del sogno retrospettivo), ecco tutt’altra distinzione, almeno apparente e provvisoria, tra due tipi di racconti cinematografici «onirici»: quelli che si votano più o meno globalmente come «traccia» o relazione di un sogno, e quelli che comportano semplicemente una sequenza «onirica» isolata. A questo proposito, si accosterà per esempio Brigadoon a The Woman in the Window (nei due casi, la maggior parte del film è designata come espressamente o imma-

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ginariamente onirica) e li si opporrà alle sequenze isolate del sogno in Yolanda and the Thief o in Spellbound (due film esattamente contemporanei, distribuiti l’uno e l’altro alla fine del 1945). In tutti i casi, la successione delle sequenze «reali» e delle sequenze oniriche suggerisce la possibilità (sfruttata o no) di sottolineare la loro differenza visivamente, particolarmente nell’utilizzo o nel trattamento del colore. Qui, l’estetica hollywoodiana, fondata su considerazioni economiche (il carattere oneroso o «lussuoso» del Technicolor) sembra subito contraddire l’osservazione di Starobinski: le sequenze del sogno, o più generalmente di «fantasia» o di fantasma, sembrano invocare il ricorso alla tavolozza colorata, mentre il bianco e nero renderebbe meglio l’impressione della realtà. Si potrebbero qui ricordare i brevi inserti o sequenze in Technicolor di The Women di George Cukor, di The Picture of Dorian Gray e di Bel Ami di Albert Lewin, di Portrait of Jennie di William Dieterle; segnalare, per tornare alla commedia musicale, che in Carefree Mark Sandrich voleva girare in Technicolor il sogno di Ginger Rogers (è vero che si tratta all’occorrenza di un sogno di «risveglio sensibile», che vede sbocciare la salute fisica, psichica, sentimentale e sessuale dell’eroina quando ella balla con il suo psicanalista-ipnotizzatore, Fred Astaire); e citare senza dubbio l’esempio paradigmatico (sul quale ritornerò) di The Wizard of Oz di Victor Fleming, film-sogno che dipinge the wonderful land of Oz in un Technicolor scintillante, incastonato nel bianco e nero «reale» di un Kansas del 1900. Ma una nuova osservazione ci fa prendere coscienza che la tipologia delle forme cinematografiche oniriche è molto complessa. Numerosi film hanno in effetti tendenza a combinare il tipo del «film sogno» con quello della sequenza onirica isolata. Avevo osservato questo fenomeno a proposito di Three Women di Robet Altman, «film-sogno» fantasmatico (il cineasta assicura che l’ispirazione gli è stata data in un sogno, ciò che l’accomuna al poema di Coleridge Kubla Khan e al racconto di Robert Louis Stevenson Dr. Jekyll and Mr Hyde) e che comporta una sequenza di sogno «esplicito»: nei casi di questo genere, la presenza della scena onirica «esplicita» si avvicinerebbe ad una «mise en abyme», ad un effetto auto-referenziale e costituirebbe una sorta d’indizio che il film, nel suo insieme, deve essere considerato come (implicitamente) onirico. Non è forse questo il caso nelle numerose commedie musicali, per esempio Yolanda and the Thief (in cui la sequenza del sogno designerebbe l’insieme del film come una produzione fantasmatica, un racconto «regressivo» che assimila l’amore eterosessuale a un viaggio che risale il tempo fino ad un’America latina non solo «di fantasia», ma profondamente «primitiva» e insieme

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barocca e variopinta) oppure Ziegfeld Follies (in particolare la sequenza sognata di Limehouse Blues, sogno incastonato in una «fantasia» essa stessa inserita in un film che è un seguito delle «fantasie», le une oniriche, le altre satiriche) o ancora The Pirate (The Pirate ballet) e Mary Poppins di Robert Stevenson? Questa ipotesi si verifica in qualche modo quando il sogno appare in film non musicali, spesso invocati come esempi di onirismo «implicito»: penso a due opere di Stanley Kubrick, The Shining ed Eyes Wide Shut (titolo suggestivo, dallo spirito abbastanza «fussliano», dell’adattamento di una novella di Arthur Schnitzler Doppio sogno), che gli esegeti hanno volentieri interpretato come delle visioni soggettive e fantasmatiche dei personaggi incarnati rispettivamente da Jack Nicholson e da Tom Cruise. Noto che The Shining comporta diversi brevi inserti onirici che sono di natura tali da corroborare una tale lettura, mentre in Eyes wide shut la lunga sequenza dell’orgia mascherata riveste essa stessa il carattere di una visione chiaramente fantasmatica. Ma ritorno ora e definitivamente alla commedia musicale, per passare in rassegna una breve selezione di sequenze oniriche ed esaminare attraverso quali mezzi (cromatici e grafici) queste sequenze vengano designate come tali, e come si distinguano (o meno) dal resto del film. I due esempi (del resto molto diversi) presi in prestito da Busby Berkeley, le sequenze oniriche sono in bianco e nero. La sequenza Going to Heaven on a Mule, in Wonder Bar, combina essenzialmente, per connotare l’«onirico», tre elementi: uno scenario disegnato d’ispirazione art déco; una musica di cori «angelici»; ed una visione satirica, vernacolare e caricaturale dell’al di là, quella che a torto o a ragione è attribuita al folklore nero e qui assai appropriata per Al Jolson ed altri artisti in black face. Indipendentemente dal pastiche afro-americano oggi giudicato politicamente molto scorretto, la commistione «satirica» di sovrannaturale e di buffoneria evoca la parte «celeste» di Liliom che Fritz Lang realizza in Francia esattamente lo stesso anno (1934). Lullaby of Broadway, in Gold Diggers of 1935, è di un’invenzione più rigorosa, più efficace, senza nulla di anarchico: questa autentica sequenza di «incubo» si appoggia soprattutto sulle risorse abituali dell’espressionismo visivo, che sembrano all’inizio contrastare con una gioiosa musica jazz, prima che il crescendo della danza, implacabile e frenetica, venga in qualche modo a «confermare» le minacce espresse dalle ombre smisurate, dalle inquadrature inclinate e dagli angoli inquietanti (ripresa dall’alto e controcampo dal basso). Nello stesso tempo dell’espressionismo, si è qui molto vicini ad alcuni dei procedimenti

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IL

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segnalati da Starobinski; è così che i controcampi di Berkeley ricordano molto precisamente il ricorso di Füssli alla Froschperspektive o «prospettiva della rana»2. Vediamo ora ciò che succede in una commedia musicale «classica» in Technicolor, Singing in the Rain, che non potrebbe passare a priori per un film onirico ma potrebbe essere definito come una satira (e una autosatira affettuosa) di Hollywood. The Broadway Ballet vi costituisce una lunga sequenza «ecfrastica»: si presume essere descritta da Gene Kelly al produttore che, con un effetto ironico, esclamerà che «non la visualizza molto bene» dopo che lo spettatore ha lui stesso visto questa sequenza. La sequenza è satura di colori, con una dominanza di rossi e di gialli vivi su di un fondo scuro. Kelly vi incontra Cyd Charisse, figlia di gangsters vestita, in un primo tempo, con un abito verde smeraldo vivo. In seguito la ballerina è vestita con un abito bianco, che dà origine ad una sequenza onirica abbastanza breve, un passo doppio di Kelly-Charisse (lo scenario e gli altri personaggi spariscono) caratterizzato da un’ispirazione grafica e pittorica esplicitamente surrealista (prospettive fuggenti sul suolo grigio blu e rosa, pietre diritte che proiettano delle lunghe ombre, lungo velo bianco dispiegato da Cyd Charisse) e da un’impressione di quasi-monocromia in opposizione all’orgia di colori precedente. I segni dell’onirismo sono qui il riferimento alla pittura surrealista, la quasi-monocromia, il passo doppio che evoca più il balletto classico che le figure esuberanti della commedia musicale. Questi tratti sono, mi pare, comuni alle sequenze oniriche di numerose commedie musicali. La sequenza onirica di Yolanda mette in successione due scelte cromatiche ben distinte: quella del Technicolor saturo, dominato dal rosso profondo delle lavandaie (questo colore ricorda il garofano rosso che serve da shifter, da innesto che designa il passaggio dalla «realtà» al «sogno») e dal giallo che «cita» la yellow brick road de Il mago di Oz; e, contraddittoriamente, la quasi-monocromia dei toni più dolci, i rosa, i blu, i beige, i marroni che bagnano l’immagine, in particolare al momento del passo doppio Fred Astaire-Lucille Bremer. Stessa alternanza di colore vivo e di colore denaturato notiamo nel balletto finale di Un americano a Parigi, le cui caratteristiche estetiche si avvicinano ad una sequenza onirica. Esattamente come in Yolanda, è un fiore rosso (qui una rosa) che serve da collettore dal reale all’immagina-

2

Ivi, p. 157.

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rio. Questo mondo immaginario in cui è immerso il pittore innamorato (Gene Kelly) è pieno di riferimenti pittorici, ma il «colore puro» vi è ripartito molto diversamente. All’omaggio a Dufy (macchie di rosso vivo su fondo grigio-blu desaturato) succedono le evocazioni di Manet (il marciapiede con i fiori) poi di Utrillo, con il loro cromatismo alternato; si ritorna con la molteplicità del colore pimpante con l’omaggio al doganiere Rousseau (nel quale Kelly indossa una giacca rosso vivo). Una scena di transizione ha dovuto ricorrere ad una serie di immagini monocrome; si ritorna di nuovo alla diversità cromatica con la sequenza dell’opera (che si presume essere un omaggio a Van Gogh, ma in cui si riconoscono i gialli vivi delle ballerine di Degas), che passa senza transizione ad un omaggio a Toulouse-Lautrec (con la macchia rossa della sciarpa portata da Aristide Bruant), prima che si termini con un ritorno a Dufy, ai suoi rossi vivi e al rosa, esso stesso rosso vivo. Si ha dunque qui un sistema estremamente complesso, da cui il colore non è mai completamente assente, ma in cui, al contrario, Minnelli e il suo capo-operatore John Alton si sono sforzati di setacciare i colori più scintillanti. Alton girava per la prima volta in Technicolor ed ha assicurato che il segreto della bellezza fotografica di questo balletto stava negli effetti di sfumato che conferivano all’insieme delle tonalità pastello, di colore inglese3. Si aggiungerà il legame qui sistematico tra le sequenze «multicolori» e le coreografie d’insieme (l’omaggio a Dufy diventa una fantasia orientale; il doganiere Rousseau serve da scenografia ad una danza nello stile americano «primitivo» di Gorge M. Cohan; l’omaggio a Toulouse-Lautrec fa rivivere la «fauna» di un cabaret di Montmartre), mentre le immagini monocrome e desaturate sono associate al passo doppio, ad una forma di danza più vicina al balletto. Si potrebbe allora formulare l’ipotesi che la danza, in particolare con il suo modello «classico», gioca nel musical onirico lo stesso ruolo fondamentale del tracciato del disegno nella pittura onirica (neoclassica o surrealista) secondo Starobinski, allorché il colore sarebbe, nei due casi, relegato in secondo piano. Il mago di Oz contraddice radicalmente questa ipotesi? Mi limiterò a tre osservazioni. In primo luogo, bisogna ricordare che questo film of-

3 Sul balletto finale di An American in Paris vedi H. FORDIN, The World of Entertainment. Hollywood’s Greatest Musicals, Doubleday, New York 1975, pp. 318-332. La testimonianza di John Alton è citata a p. 327. Si veda anche l’introduzione di Todd McCarty a J. ALTON, Painting with Light, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1995, pp. xxiv-xxvi.

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fre un esempio di due estetiche oniriche perfettamente antitetiche: prima l’entrata nel mondo di Oz, la sequenza onirica dell’uragano, con i suoi straordinari personaggi volanti, Margaret Hamilton che pedala furiosamente sulla sua bicicletta prima di tramutarsi in strega, due uomini in una barca, mentre stanno remando, una mucca …, è «ancora» in bianco e nero e rinvia doppiamente allo schermo del cinema, sia attraverso l’inquadratura della finestra dalla quale Dorothy contempla questo spettacolo, ed anche perché ricorda diverse sequenze oniriche e/o burlesche di film muti (tra i quali bisognerebbe citare il curioso ma notevole film-sogno di Victor Fleming e Douglas Fairbanks, When the Clouds Roll By). Si obietterà forse che questa sequenza onirica «tradizionale» non è, propriamente parlando, musicale, ma fa parte integrante del film, e serve globalmente da collettore, allo stesso titolo dunque delle red slippers alla fine del racconto4. Seconda osservazione, segnalo in Tim Burton’s The Nightmare Before Christmas di Henry Selick un’opposizione fino ad un certo punto paragonabile tra due rappresentazioni di mondi onirici, l’una essenzialmente monocroma (malgrado la presenza di pumpkins, cioè zucche), e cioè quella di Halloween, l’altra screziata di colori vivi, ossia quella di Natale e di Christmas Town. Ciò conduce alla mia terza osservazione, ossia alla differenza di natura e d’ispirazione tra due tipi di cinema onirico. In The Wizard of Oz, adattamento del «classico» americano di L. Frank Baum, la profusione del colore esprime un onirismo vernacolare, popolare, demotico, che di certo ritaglia talvolta il folklore tedesco o irlandese (i Munchkins sono dei little people) ma che, per l’essenziale, gira le spalle alla cultura europea, all’arte sapiente, al balletto ed alla musica classica, al buon gusto. È questa forma di onirismo che propongo di chiamare «satirico», nel doppio senso in cui è una forma «impura», «ibrida», «eterogenea», e in cui essa non teme di prendere come bersaglio le forme «nobili» dell’arte dotta. La musica popolare, la fanfara, le musiche etniche vi giocano un ruolo essenziale, che va spesso di pari passo con il carattere, es-

4 Su The Wizard of Oz non si può non citare il saggio ormai classico di Salman Rushdie, che interpreta il film come conflitto tra due sogni: il sogno delle radici, ed il sogno ai suoi occhi molto più potente dell’Altrove, della partenza. Per Rushdie questo sogno dell’altrove corrisponde alla volontà di abbandonare il grigiore della realtà quotidiana, di aprirsi al colore. Una lettura che si avvicina, dunque, a ciò che Starobinski dice del «risveglio sensibile» suscitato dai pittori del «colore puro». Si noterà tuttavia che, per Rushdie, è a partire dalla sequenza della «tornade», quando ella sogna «in bianco e nero», che Dorothy «si sveglia». S. RUSHDIE, The Wizard of Oz, British Film Institute, London 1992, pp. 23-30.

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so stesso «chiassoso» del colore. È evidentemente a questa vena satirica, vernacolare e demotica che si sacrifica spesso Busby Berkeley (ci si ricordi Going to Heaven on a Mule). È questa stessa vena che viene illustrata, con una riuscita diversa, non solo da Tim Burton (cineasta «ibrido» dal momento che combina il vernacolare americano a numerose reminiscenze della cultura dotta europea), ma anche da altri ammiratori e adattatori del Dr. Seuss, come Roy Rowland (The 5000 fingers of Dr. T ) o, più recentemente, come Ron Howard (The Grinch). The Grinch è disseminato di riferimenti a Il mago di Oz: il trucco dell’eroe, interpretato da Jim Carrey, ricorda quello di Cowardly Lion, e il suo viso ha lo stesso colore verde ripugnante che aveva quello di Margaret Hamilton, The Wicked Witch of the West, mentre gli abiti variopinti e i capelli con le mèches dei Whos de Whoville fanno necessariamente pensare ai Munchkins. Molto più inventivo, The 500 Fingers of Dr. T costituisce, oltre che un musical onirico, un raro esempio di espressionismo comico, paragonabile a Die Bergkatze di Ernst Lubitsch: nella grande scena del balletto-concerto, le scenografie sembrano spuntare da Metropolis, la musica di Frederick Hollander sembra una parodia di George Gershwin, l’accumulo dei musicistiacrobati e dei loro gesti bizzarri compone una sequenza cinematografica degna delle invenzioni di Hieronymus Bosch. Così, lungi dalla possibilità che il riferimento della commedia musicale al sogno e al colore sia univoco, questo genere si è però servito – tanto per invitare «prospetticamente» al sogno quanto per dare la sensazione strana, magari inquietante, del «già sognato» – delle strategie le più diverse, che escludono, oppongono, combinano di volta in volta il colore ed il bianco e nero, il colore vivo e le tinte pastello, il balletto classico e le coreografie burlesche, il surrealismo di Dalì e Tanguy e la satira vernacolare della pantomima e della caricatura. (traduzione di Cristina Denti)

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STRICTLY USA. IL MUSICAL AMERICANO E L’IDEOLOGIA NAZIONALE di FRANCO L A POLLA

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Vorrei sgombrare immediatamente il campo da possibili malintesi: il termine «ideologia» che riluce nel titolo della mia relazione non va inteso nella sua usuale – e peraltro inesatta – accezione politica. Nel caso specifico esso allude a tutto ciò che individua e caratterizza l’americanità della cultura americana, ovviamente, trattandosi di un ambito che è diretto ad un pubblico di massa, di una cultura di carattere popolare. Dunque, non è mia intenzione esemplificare e studiare, che so?, musical del periodo bellico che, comprensibilmente mossi da intenzioni patriottiche, erano programmaticamente destinati a sollevare il morale delle truppe, ed ancor meno musical (ma di questo tipo non ce ne sono tanti) che, come Silk Stockings (La bella di Mosca, 1957) di Rouben Mamoulian, dispiegano – a modo loro, naturalmente – una comparazione fra sistemi politico-economici diametralmente opposti. Ciò che invece risponde all’accezione di «ideologia» per come la indicavo più sopra è la visione che gli Stati Uniti danno (o quantomeno l’idea che essi hanno) di se stessi in questi film senza che tale visione sia necessariamente l’obiettivo primario dell’opera, ma senza cui l’opera risulterebbe svuotata di ciò che maggiormente la qualifica al di là dal valore intrattenitivo delle sue componenti (musica, danza, canto, ecc.). Di più: di interesse ancor maggiore, ove possibile e senza appesantire e protrarre il discorso, sarebbe rintracciare nella forma di quelle stesse componenti intrattenitive un’indicazione, una traccia, un segno che le colleghino o addirittura le identifichino con quella che ho chiamato «ideologia». Quale che sia la classificazione che vogliamo adottare per una sistematizzazione del genere musicale – magari quella di Rick Altman

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FRANCO L A POLLA

nel suo fondamentale The American Film Musical: «fairy tale», «show», «folk»1 – emergeranno comunque, dal punto di vista ideologico, un certo numero di costanti parte delle quali caratterizzano volta a volta un periodo storico più o meno lungo e talvolta addirittura la politica produttiva di questo o quello studio. Non v’è dubbio, ad esempio, che negli anni Quaranta la maggior parte della produzione musicale americana abbia fortemente insistito sul tema (magari secondario rispetto a quelli trattati nel film, ma sempre presente) della casa, della famiglia, del belonging. Da quel fatidico «There’s no place like home!», che chiude The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939) di Victor Fleming, in avanti il musical americano ha celebrato spesso e volentieri il senso dell’intimità, della famiglia e, più largamente, dell’appartenenza a una specifica, ristretta comunità. Ovviamente non si può certo affermare che tale senso sia un valore strettamente americano, ma l’insistenza su di esso in quel decennio non ha riscontro in alcuna altra cinematografia coeva. E d’altra parte, altrettanto spesso e altrettanto volentieri, non si tratta soltanto di una generica e comune celebrazione del nucleo familiare quanto dell’elaborazione di un piccolo sistema di valori che vede la famiglia al centro e attorno ad essa lo spazio del vicinato (neighborhood), se l’ambiente è comunitario o della terra se esso è rurale: per intenderci, Babes in Arms (Ragazzi attori,1939) di Busby Berkeley e, appunto, Il mago di Oz. L’esempio della casa e della famiglia mi sembra particolarmente utile per comprendere quanto detto più sopra sull’accezione del termine «ideologia»: non tanto un tema tipicamente americano (componente che peraltro incontriamo sovente) quanto un modo squisitamente nazionale di trattarlo. Non è un caso che tale tema, rintracciabile in parecchie cinematografie, soprattutto in nazioni economicamente poco sviluppate dal punto di vista industriale, emerga invece così insistente – sia pure per un periodo delimitato – nel musical di una nazione all’avanguardia dell’economia mondiale. Esso torna, si noti, non solo nell’America della ripresa che seguì la Depressione e il New Deal, soprattutto in vista dello sforzo richiesto all’industria ame1 Cfr. R. ALTMAN, The American Film Musical, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis 1989, passim.

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ricana in relazione all’entrata in guerra, ma anche nel genere del musical, vale a dire in un formato che per sua natura escludeva una reale problematizzazione di quel tema. In altre parole, alla qualità realistica e problematica nei confronti del tema familiare in, che so?, La terra trema, l’America risponde elaborando una visione mitologica dello stesso tema. Ma, sia ben chiaro, visione mitologica non significa qui mistificazione, bensì elaborazione di un modello ideale attraverso i suoi problemi e le sue contraddizioni, del resto sempre correlato ad alcuni principi formativi della cultura nazionale nei non lunghi anni della sua storia. Dietro La terra trema c’è, sì, la storia di una regione, ma è una storia che si è fatta nell’assenza di un’idea nazionale, di un coefficiente di cementazione culturale che non fosse quello della tradizione popolare locale; laddove dietro all’esempio americano si sente la teorizzazione di Jefferson sul valore della terra e persino sull’economia agraria a conduzione familiare, che peraltro ritorna persino in film ambientati in comunità più larghe come principio ispiratore e direttivo di un modo di essere e di agire che implica e sottende un comune denominatore nazionale. In quest’ambito, del resto, il musical non fa altro che ribadire, nei termini che gli sono congeniali, un modello che ha percorso il cinema americano per molti anni. Da film come praticamente tutti quelli con Will Rogers (e ve ne sono diretti da John Ford) al Frank Capra di Mr. Smith Goes to Washington (Mr. Smith va a Washington, 1939), la celebrazione della farm, della campagna, della provincia stessa come centro dei valori familiari, e più largamente di un buon senso, di un’onestà e di una semplicità d’antan – che presto avrebbe lasciato un certo spazio anche ad altri luoghi rappresentativi (la nascente istituzione dei suburbs, ad esempio) – appare forse come la conseguenza della decisa politica di rilancio rurale della presidenza Roosevelt durante la Depressione, ma è anche una costante non difficilmente rintracciabile nella cultura americana nel suo insieme. La famosa frase della piccola Dorothy è citatissima, ma si pensi anche a pellicole come quella con musica e testi di Rodgers e Hammerstein II, State Fair (Festa d’amore, 1945) di Walter Lang e al suo brutto remake (ma vi era stato un primo film non musicale di quella storia, Montagne russe, 1933, di Henry King), State Fair (Alla fiera per un marito, 1962) di José Ferrer, nel quale Tom Ewell gorgheggia in duet-

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to con un maiale, ciò che ne fa, come vuole Leonard Maltin, un «third-rate Americana»2; e si pensi anche a Summer Stock (L’allegra fattoria, 1950) di Charles Walters e ai non pochi esempi, appunto, di «Americana» fornitici da Hollywood: il sublime Meet Me in St. Louis (Incontriamoci a St. Louis, 1944) di Vincente Minnelli, Summer Holiday (1948) di Rouben Mamoulian – da non confondersi con l’omonimo film diretto da Peter Yates una quindicina d’anni dopo – o anche il più tardo e graziosissimo, quanto poco noto, The Music Man (id., 1962) di Morton da Costa, ecc. Quanto tutto questo possa aspirare all’etichetta di «ideologico» ce lo dice anche il fatto che gli Stati Uniti si sono inventati se non un genere certo una classificazione che non ha riscontro in alcun altro paese: quella, appunto, che va sotto il nome di «Americana», vale a dire un racconto le cui linee portanti riposano su una tenera, nostalgica visione della vecchia America, osservando in primo piano abitudini, costumi, valori di un’epoca che fu, i quali, pur superati dal tempo che è passato, vengono, quantomeno indirettamente, percepiti come fondamenti del modo di essere americano indipendentemente da qualunque cambiamento il progresso abbia di necessità comportato. È proprio a questi film che Hollywood ha primamente affidato il suo semplice messaggio ideologico. In Take Me Out to the Ball Game (Facciamo il tifo insieme, 1949) di Busby Berkeley protagonisti, e ensemble, cantano e danzando un numero stupendo – Strictly USA, che non a caso ho scelto come titolo di questa relazione – nel quale viene gioiosamente celebrato tutto ciò che è americano in termini storico-popolari, dal tacchino il giorno del Ringraziamento alla torta di mele, dal gran ballo il giorno delle elezioni a un hot dog ricoperto di senape, dal 4 Luglio allo short-cake di fragole, da Casey Jones il fuochista alla limonata estiva, dalla parata che precede il circo in città ai Mr. Tambo e Mr. Bones di quei minstrel shows che furono all’origine del musical americano, non dimenticando Abraham Lincoln e Uncle Sam. Lungi dall’essere un esempio isolato, il bel numero conta precedenti illustri e visivamente anche più impegnativi ed eloquenti. 2

L. MALTIN, Movie and Video Guide 1996, Signet, New York 1996, p. 1241.

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È, infatti, almeno dai tempi degli spettacoli di George M. Cohan, considerato il padre del musical americano inteso come genere teatrale, che le scene statunitensi erano aduse a questo tipo di celebrazione: il suo Little Johnny Jones (1904) vantava un titolo come Yankee Doodle Dandy, nella commedia The Yankee Prince (1908) figurava una canzone come The ABC’s of USA, mentre George Washington Jr. (1906) ruotava attorno a una canzone come You’re a Grand Old Flag ed esibiva una scenografia che comprendeva en vivant sia Uncle Sam che la Statua della Libertà (componenti che ritroveremo in seguito regolarmente persino nella forma teatrale più cochonne del teatro leggero americano, il burlesque). La bandiera fu anzi il cavallo di battaglia di Cohan: in The Little Millionaire (1911) brillava un titolo come Any Place the Old Flag Flies. Si racconta addirittura che un produttore chiedesse un giorno a Cohan se sarebbe stato in grado di metter su uno spettacolo senza la bandiera americana e si racconta anche che un’associazione patriottica insorse contro il titolo originale del celebre brano – You’re a Grand Old Rag – imponendo quello col quale passò alla storia3. D’altra parte, se Cohan era stato il patriottico saltimbanco che fu a Broadway e che poi Hollywood avrebbe celebrato in un biopic di Michael Curtiz, Yankee Doodle Dandy (Ribalta di gloria), pellicola che non a caso, visto il tema che stiamo trattando, è datata al 1942, non bisogna dimenticare che da tempo il musical hollywoodiano aveva elaborato forme ed esempi di ideologia americana. Chi non ricorda l’eccezionale sequenza The Forgotten Man in Gold Diggers of 1933 (La danza delle luci, 1933) di Mervyn LeRoy, ma il cui credito va tutto al suo coreografo, Busby Berkeley? O anche, nello stesso film, quella di apertura, altrettanto celebrata, We’re in the Money, che sembra stata scritta da Roosevelt in persona in occasione dell’ufficializzazione delle misure economiche, prese dal Congresso nel medesimo anno, che vanno sotto il nome di New Deal. Berkeley, ormai è chiaro, fu probabilmente il maggior cantore dell’ideologia americana nel musical cinematografico. Non è dunque affatto un caso che il suo nome sia stato quello più citato sino ad 3 S. GREEN, The World of Musical Comedy, Barnes & Co., New York 1968, pp. 29-30.

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FRANCO L A POLLA

ora. Ma Berkeley, pur nella sua militaresca concezione della coreografia, era un sentimentale (tutt’altro che alieno, per di più, da clamorose scivolate nel Kitsch, come del resto non pochi grandi autori di musical). Ma come dicevo in apertura, vi sono altri modi di proporre l’ideologia nazionale nel cinema americano in generale e nel musical in particolare. In un filmetto di poco conto come Hit the Deck (Tutti in coperta,1955), di Roy Rowland – usuale variazione sul tema della licenza di sbarco – la scenografia (soprattutto nel numero titolare) indulge in un’esibizione di armamenti pesanti (i cannoni della nave da guerra) osservati da angolazioni basse i quali, oltre a convogliare un evidente simbolismo fallico, non possono non essere intesi come una celebrazione dell’apparato di difesa statunitense, soprattutto in un momento di notevole tensione politica internazionale quale quello che segnarono gli anni Cinquanta. E che dire della propaganda interventista di un film mai giunto in Italia come For Me and My Gal (1942) di Busby Berkeley (ancora lui!) dove l’irresponsabile Gene Kelly subisce, grazie alla strigliata della donna che ama (Judy Garland), una metamorfosi morale che lo porterà a diventare una sorta di eroe di guerra? Del resto sin dai primi anni Trenta il musical è servito ottimamente da veicolo di propaganda ideologica nazionale, come ha dimostrato Mark Roth in un articolo anche troppo citato nel quale il critico rintraccia una perfetta metafora di Roosevelt e dell’America contemporanea in crisi nelle vicende del regista e della troupe di 42nd Street (Quarantaduesima strada, 1933), ancora di Berkeley4. Non è necessario tuttavia rivolgersi ad esempi tanto massicci ed eloquenti per avvalorare l’esistenza di uno stretto rapporto fra il genere musicale e l’ideologia americana. In un film apparentemente «neutro» come An American in Paris (Un americano a Parigi, 1951) di Vincente Minnelli osserviamo uno strano triangolo: Lise, la diciannovenne figlia orfana del patriota Jacques Bouvier (il cui nome, al femminile, di lì a dieci anni sarà uno dei massimi simboli di americanità per il mondo intero, coinci4 Cfr. M. ROTH, Some Warner Musicals and the Spirit of the New Deal in «The Velvet Light Trap» n. 15, Spring 1977, passim.

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dendo con quello della legittima moglie di John Fitgerald Kennedy), ha passato l’adolescenza presso Henri Baurel (Georges Guetary), famoso cantante parigino, e i due si sono innamorati una volta che la ragazza è uscita di casa dopo aver raggiunto la maggiore età (di pochissimo, a quel che sembra). Casualmente Lise conosce Jerry Mulligan (Gene Kelly), un giovane pittore americano (più giovane del cantante di cui sopra, anche se in realtà Gene Kelly è nato nel 1912 e Georges Guetary nel 1915), e la faccenda si complica. Ce ne sarebbe già abbastanza per incominciare ad azzardare un’interpretazione nella chiave che ci interessa, ma a questo punto inserirei una parentesi richiamando l’attenzione nei confronti di un altro musical di poco posteriore – e certo meno bello, nonostante la sua notorietà – Daddy Long Legs (Papà Gambalunga, 1955) di Jean Negulesco, nel quale la stessa attrice (la graziosissima Leslie Caron) interpreta la parte di un’orfanella francese mantenuta e cresciuta a distanza da un ricchissimo ex militare americano (Fred Astaire), per il quale ella coltiva un amore edipico e che alla fine, dopo che i due si sono finalmente visti e conosciuti, sposerà. Ora, tralasciando il fatto che negli anni Cinquanta la povera Caron sembra regolarmente destinata ad uno status di orfana (lo è anche nel mieloso Lili, 1953, di Charles Walters), quel che più conta è che nei due film citati tale status è riscattato da un ricco americano nel film di Negulesco e da un artista americano emergente nel film di Minnelli. Quel che voglio dire è che non è poi difficile leggere nella figura della Caron una metafora della Francia (e più largamente dell’Europa post-bellica) e in quella dei due americani l’importante metafora di un’America che da un lato è all’origine della ricostruzione post-bellica (Astaire) e dall’altra è fonte salvifica e viva di un forte rilancio culturale (Kelly). Non a caso Henri, il cantante francese di successo molto più attempato di Jerry (le basette di Guetary sono state addirittura imbiancate per farlo sembrare più agé di quanto effettivamente non sia), esibisce uno stile canoro lontanissimo da quello dell’americano: quando accenna alcuni versi di Nice Work If You Can Get It lo fa da chansonnier più che da sincopato performer e, guarda caso, l’unica canzone che egli canta per intero è il simpatico, commovente omaggio gershwiniano alla grande stagione mittel-europea del valzer viennese, «By Strauss», dopo aver fatto capire

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FRANCO L A POLLA

a Gene Kelly e Oscar Levant che lui «doesn’t like jazz» e che invece è «a three-quarter man» (vale fra l’altro la pena notare che Gene Kelly danza la canzone insieme a un’anziana fioraia, evidente rappresentante di un tempo e di un mondo che non sono più). Henri è insomma l’epitome della vecchia Europa dalla quale Lise (la Francia) si affrancherà – e dolorosamente, se è per questo – grazie alla presenza, alla comprensione ed in fondo anche alla guida di Jerry, cioè l’artista americano che, venuto a Parigi per studiare la pittura e la tradizione dei grandi maestri francesi, saprà poi assimilarle e superarle nella creazione di un’arte nuova, giovane, moderna. E non è forse, questa, ideologia nazionale? Ma c’è un altro modello di quell’ideologia del quale il musical americano si è spesso e volentieri fatto veicolo. Si tratta di una costante squisitamente americana che vede contrapposta la Cultura e la cultura: ovvero, la cultura classica e seria di contro alla cultura popolare nella sua forma moderna, cioè di massa. Si tratta di un argomento particolarmente affascinante che per ovvie ragioni restringeremo all’ambito del musical, ma che percorre l’intera storia del cinema americano (e non solo del cinema). Lo ritroviamo dibattuto già mezzo secolo fa nei saggi di Richard Hofstadter e Dwight Macdonald, e a mano a mano che – ovviamente grazie al preponderante ruolo che via via assumono i media nel mondo moderno – si sviluppano l’interesse e il successo della cultura popolare, emergono sempre più studi sulle differenziazioni culturali nazionali che culminano nel cosiddetto trashing of taste contemporaneo, al quale James B. Twitchell ha dedicato una decina d’anni fa un importante volume, Carnival Culture 5. In pratica, il musical americano è sempre stato l’arengo di un confronto netto e talvolta addirittura impietoso fra le «due culture». In The Band Wagon (Spettacolo di varietà, 1953) di Vincente Minnelli, per esempio, lo straordinario personaggio di Jack Cordova (Jack Buchanan) afferma davanti allo sbalordito Tony Hunter (Fred Astaire) che ogni entertainment ha eguali diritti di esistenza e che anzi tutto è spettacolo, non essendovi differenza fra il «magico ritmo 5 J. TWITCHELL, Carnival Culture. The Trashing of Taste in America, Columbia University Press, New York 1992.

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dei piedi di Bill Robinson» (Gene Kelly, nella versione italiana) e il «magico ritmo dei versi di Shakespeare». Ne segue un numero eccezionale – That’s Entertainment, appunto – nel quale si dice cantando, fra le altre cose, che «it could be Oedipus Rex when a chap kills his father and causes a lot of bother». Il riassunto dell’Edipo re in questi semplici termini presenta in modo perfetto gli estremi del problema in questione. Certo che la famosa tragedia di Sofocle è la storia di un tizio che ammazza suo padre e causa così un sacco di noie; ma è altrettanto certo che la sua importanza nella storia della cultura riposa su ben altro che sulla messa in scena di un patricidio e le sue conseguenze. La sbrigativa formula riassuntiva di Cordova diventa persino simpatica e divertente per chi conosce bene le implicazioni e i risvolti dell’Edipo re. La cultura popolare insomma – specificamente nella forma che essa ha assunto dal momento in cui è diventata di massa – semplificherebbe la grande complessità di quella classica, seria, ufficiale, accademica, ecc. Non solo, ma, stando a Spettacolo di varietà, quest’ultima dovrebbe saper stare al suo posto – del resto esattamente come l’altra – in modo che ognuna possa operare nel linguaggio, nel genere e nei confronti del pubblico che le compete. Intendiamoci, il film di Minnelli, oltre ad essere molto bello e divertente, non esclude la possibilità di un rapporto fra le due culture: non a caso Tony Hunter, dopo lo scacco della versione intellettualistica della rivista voluta e diretta da Cordova, riesce a rifinanziare lo spettacolo, concepito in termini adeguati al genere leggero cui appartiene, attraverso la vendita di alcuni quadri di pittori impressionisti francesi di sua proprietà. Come a dire: il valore della cultura ufficiale può sovvenzionare la realizzazione di specifici prodotti della cultura popolare. Questa, almeno, sembra essere la valenza metaforica dell’atto di Tony, il quale, peraltro e dopotutto, rimane solo e soltanto un gesto di mecenatismo e di cameratismo nei confronti dei colleghi senza lavoro. Ma è pur vero che nel prendere la sua decisione Tony afferma senza possibilità di fraintendimento che gli autori dei quadri di sua proprietà «amavano l’arte», lasciando in sostanza intendere che essi, al suo posto, avrebbero fatto altrettanto. È un punto importante perché Tony viene qui a sostenere la stessa tesi di Cordova, ma con una differenza: che pur credendo anch’egli alla «totalità» dello spettacolo, cioè a dire all’eguale diritto e

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FRANCO L A POLLA

nobiltà di esistenza delle più diverse forme di entertainment, Tony ha ben chiaro il senso del decorum, o se si preferisce sa mettere a fuoco molto meglio di Cordova lo stile e il tono che compete al genere teatrale leggero. Forse nessun musical è mai stato così esplicito in merito al problema dei rapporti fra le «due culture». Tuttavia, più o meno implicitamente, tale problema aveva già fatto capolino in questo genere cinematografico: in uno dei famosi veicoli della coppia Astaire/Rogers, Carefree (Girandola, 1938) di Mark Sandrich, il tema della psicanalisi, ormai incombente a Hollywood a cavallo fra gli anni Trenta e Quaranta, getta una luce contrastiva fra la leggerezza tipica del genere e il dispositivo che fa scattare il nodo narrativo della pellicola, presentando fra l’altro un Fred Astaire analista che nella realtà verrebbe immediatamente radiato dall’albo professionale. In certa misura lo stesso si può dire di un film fascinoso e sottovalutato come Lady in the Dark (Schiave della città, 1944) di Mitchell Leisen, con musiche di Kurt Weill e testi di Ira Gershwin, dove stranamente la psicanalizzata è ancora Ginger Rogers. Ma – e guarda caso anche qui è in scena di nuovo la Rogers – è in The Barkleys of Broadway (I Barkley di Broadway, 1949) di Charles Walters che il problema torna ad assumere dimensioni più facilmente leggibili nella storia di una artista di varietà in perenne competizione col suo marito/partner, la quale sceglie la via dell’Arte con la A maiuscola, optando per la scena drammatica (nientemeno che una pièce sulla giovinezza di Sarah Bernhardt). Anche qui il detentore dei sacri misteri dell’Arte ufficiale – vale a dire l’autore della pièce e il mèntore della protagonista femminile – non è un americano bensì un francese (dunque, un europeo), destinato a perdere una partita che, si noti, è tanto professionale quanto personale (l’uomo sembrerebbe amare la sua attrice). Ma quel che ancor più conta è che, al momento delle prove, i suggerimenti per una sempre migliore interpretazione del personaggio di Sarah vengono alla Rogers da suo marito, il quale, fingendo al telefono di essere il drammaturgo, le fornisce precise e intelligenti indicazioni attoriali. Ora, non è chi non veda che la prova di finezza registica del marito ballerino e cantante leggero testimonia delle sue capacità anche in un’arte che egli non pratica, dunque, non per impreparazione, ma

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perché l’arte che gli appartiene e nella quale si identifica (e identifica anche la moglie) è quella del teatro leggero. E ancor di più, quell’intelligenza registica ci dice, di conseguenza, che, almeno dal punto di vista americano, il teatro musicale leggero rappresenta un’assimilazione e un ideale superamento del tradizionale teatro drammatico. Del resto, questa lettura è avvalorata da un confronto fra i numeri musicali e la scena dell’esame di Sarah per entrare al Conservatoire Français. Nella straordinaria sequenza della prova di ballo della coppia Astaire/Rogers – nella quale, per inciso, i due fingono di ballare in modo noncurante, con l’impegno allentato che i veri professionisti, adusi a questo tipo di routine, possono permettersi: un vero capolavoro di studio, intelligenza e abilità – noi vediamo una leggerezza, un divertimento, un professionismo che a mio avviso raggiunge vette siderali; laddove nella sequenza dell’ammissione di Sarah l’attrice dà certo tutta se stessa, ma attraverso una retorica che istituzionalizza, ufficializza e in ultima istanza appesantisce la scena, e paradossalmente proprio nel momento in cui Sarah intende gettare alle ortiche tutti gli insegnamenti accademici ufficiali optando per un’assoluta spontaneità attoriale. Le conclusioni che immancabilmente se ne traggono sono ovvie: non è forse, questa, ideologia nazionale? Che l’opposizione che siamo andati delineando strutturi, ben al di là del musical, praticamente l’intero cinema americano è cosa facilmente leggibile nel corso della sua storia: si pensi soltanto, negli anni Trenta, a quanto il film orrifico abbia addirittura abusato del modello. Se mi è consentito citarmi, in uno studio generale di una quindicina d’anni fa evidenziavo proprio questo aspetto di quel genere in quell’epoca, talché si può ben affermare che un attore come Bela Lugosi abbia avuto spazio a Hollywood anche per quel suo accento straniero che tranquillizzava il pubblico in merito alla possibilità che vampiri e altri mostri potessero avere origine autoctona6. Ma l’opposizione non è necessariamente fra nazionale e straniero. La storia della cultura americana abbonda di un altro modello dai termini strettamente nazionali, nel quale sono in gioco due con6 F. L A POLLA, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Laterza, Bari 1987, pp. 66-68.

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trastanti concezioni di vita, usi, costumi, abitudini, mentalità. Si tratta, in breve e semplificando, dell’opposizione città/campagna (su un versante storico-teorico diremmo: Hamilton/Jefferson) che non di rado ritorna anche nel musical. Un esempio, e famosissimo, per tutti: Seven Brides for Seven Brothers (Sette spose per sette fratelli, 1954) di Stanley Donen, nel quale i rudi tagliaboschi della montagna – concretamente ma anche simbolicamente isolati dalla comunità del villaggio a valle – si scontrano in una celebre tenzone coreografica con altrettanti azzimati (almeno in confronto a loro) rappresentanti di una vita sociale vissuta in comunità ed in termini più civilizzati. Che il film assegni la palma ai primi la dice lunga sul modello nel quale l’America ama e ha sempre amato identificarsi ispirandosi alle sue origini storiche e pionieristiche: affermazione e apologia di una rozzezza che, lungi dall’essere soltanto inciviltà e maleducazione, si presenta come (e si vanta di essere) fondamentale ed, in ultima analisi, inalienabile tratto fondante il carattere americano. Come scrive giustamente nel suo Classics and Trash una studiosa shakespeariana non poco interessata ai rapporti fra cultura ufficiale e cultura popolare, Harriett Hawkins, questa risoluzione: […] seems designed to reassure certain men in the audience that they don’t need book-learning or good manners or anything else but their God-given all-American gun-toting masculinity to attract the best women imaginable7.

Non a caso l’agiografia storica della nazione ha sempre propagandato gli aspetti più modesti, quotidiani, comuni dei suoi eroi: dalla moneta di Washington lanciata oltre il Potomac alle arguzie del giovane Lincoln, dall’avvocatesca intelligenza contadina di Daniel Webster che la fa al diavolo in persona a Davy Crockett che si pre7 «[…] sembra fatta per riassicurare certi uomini nel pubblico che per attrarre le più belle donne immaginabili essi non hanno bisogno di cultura libresca o di buone maniere o di qualsiasi altra cosa tranne che della loro mascolinità roboante, tutta americana e data loro da Dio». Cfr. H. HAWKINS, Classics and Trash. Traditions and Taboos in High Literature and Popular Modern Genres, University of Toronto Press, TorontoBuffalo 1990. Nella prospettiva del nostro discorso la Hawkins ha del resto pagine molto acute anche sulla figura del villain e sul contrasto città/campagna (il capitolo in questione si intitola The Un-American Villain and the All-American Man’s Man).

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senta deputato al Congresso vestito da cacciatore col berretto di tasso, dall’impetuosità del tutto informale di Stonewall Jackson a quella di Dolly Madison. Questa modestia e questa quotidianità sono il corrispettivo ed insieme la sostanza della cultura popolare che, lo abbiamo visto, così spesso il musical celebra come quintessenza dello spirito, dell’arte, della creatività americani, obbedendo a un modello sedimentato a partire dai primordi della storia coloniale come nerbo sul quale si inseriscono tutte le forme sviluppate da quella cultura nel prosieguo del tempo: ideologia nazionale a tutti gli effetti.

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42ND STREET. CHOREOGRAPHY AS SOCIOLOGY di RAYMOND DURGNAT

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42nd Street is «the backstage musical which invented the clichés». It’s also a bitter comedy, in the vein of Billy Wilder. My theme is the set of musical numbers at its climax, which I think make a whole, a kind of American Manifesto to defy the Depression. It’s a Manifesto in fantasy form – like a dream – of sex in society. The three parts of the dream seem disparate, even contradictory, but the whole dream means that contradictory social trends drives can make a happy Synthesis. This Vision – comes at us as Pure Cinema – cinematically, it’s advanced, even avant-garde. Well, here’s our first slice of America. All in all, the sequence puts together five «slices» of America. 1. Showbiz as business: On-stage glamour, off-stage fear of ruin and death. The Chorus girl emblemises a whole new class – «Bachelor Girls» – a female proletariat (or «populist class»). She’s an intersection of Country Innocence and Big City Alienation. 2. Shuffle Off to Buffalo celebrates a roughly «Middle American», «petty-bourgeois», bridal night. Its sexual innocence is not sexual repression. The bride personifies a certain «Momism», the husband seeming more childlike. The newly-weds must run the gauntlet of five kinds of social scrutiny, in particular, female sophisticates and proletarian gold-diggers. The sleeping-car is a microcosm of some city structures, including female dominance of social life. The stage effects exemplify Constructivist Theatre, Broadway-style. 3. I’m Young and Healthy asserts «Health and Fun Morality», then superseding Puritan shame about the body, pleasure, luxury and dis-

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RAYMOND DURGNAT

play. The choreography paraphrases the dating system, then superseding traditional chaperonage, and accompanying a certain loosening of authoritarian (social and parental) control. Dating is «watched over» by young peer groups. The cinematic patterns express a tension between «dating around» and a steadier relationship. The alternation of tight patterns and chaotic «flux» go on to evoke a 1920s theme, «The City Crowd», and «mass society» tensions between the crowd and individuals. Far from these patterns being «Fascist», as left-liberal critics have suggested, they relate to Art Deco streamline style, and Modernism, notably Cubism and Futurism. Designed around circles and radii, the choreography makes a «liveaction» cousin of Oscar Fischinger’s Circles. As an ideological view of social «masses in motion», it’s American capitalism’s answer to Dziga Vertov, and to Leni Riefenstahl’s Triumph of the Will. It envisions a hedonistic Utopianism, a synthesis of romantic Nature and invigorating technology. 4. The 42nd Street number celebrates a sort of Underworld, combining what might be called Chaos Street, Immigrant Street, Melting-Pot Street, Prohibition Street, and Gangster Street. The innocent bride (Ruby Keeler) and the healthy lover (Dick Powell) have metamorphosed, in a dream-like way, from emblems of Innocence to creatures of Experience. But their synthesis of Goodwill and Corruption is more positive, morally and socially, than it may seem. The turbulent bodies lead into paradoxical perspectives of Broadway and skyscrapers. The number’s final image asserts The Great American Synthesis of Moral Optimism and Tolerance of Corruption. 5. After this happy end, a «parallel end» restores undertones of solitude, melancholy, and bitterness. Two other themes are particularly prominent. Power passes from three, perhaps four, male father-figures (Producer, Stage Manager, Financier, Pullman Porter) to young «Populist» females (reflects advent of mass markets and female consumerism?). Lucy Fischer and Laura Mulvey seriously exaggerate the girls’ role as passive «sex objects» for male spectators, while overlooking their dynamism in

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work and pleasure, and their female wish-fulfilments, concerning positive social presence and self-presentation, healthy narcissism, and liberation from puritanical shame of the body. The emphasis on female experience, and the sex-and-money nexus, pervades the entire film, and subplots concerning the humiliation of the star’s husband, and tensions between daughter-figure (Keeler) and mother-figure (Bebe Daniels). The latter’s number, You’re Getting to be a Habit with Me, earlier in the film, celebrates mature monogamy, thus constituting the perfect antithesis to the last three numbers. In subsequent films, Berkeley is often less inspired, or deprived of means, or not interested, but his best numbers span a variety of styles. For example, the long, muscular «flowings» of Small Town Girl (1953) contrast with the sharply-angled, montage-conscious, style of 42nd Street. Dames offers remarkable examples of «females on parade» functioning as identification figures primarily for female spectators. 1. Behind the show, is Anxiety and Death. The Boss was ruined in the Wall Street crash and he has a weak heart. Now all depends on a mere chorus girl. The job could emblemise a new social class – the many girls now finding city – jobs secretaries, typists, whatever. Often they lived with other girls – no parental or community constraints – free like unmarried men hence the nickname, «Bachelor Girl» or «City Girl». Many were internal immigrants from rural towns. Her name is «Peggy Sawyer», like, Tom Sawyer. Question: How to balance Country Girl innocence with Big City pressures? 2. Ruby’s p.o.v. of Ruby’s P.O.V, of Girls All Same Size. Some feminists think showgirls like these were just sex-objects for males to gaze at. But also these women are primarily for women to identify with. Those clothes assert, not sex, but Gracious Social Presence. Expansive Self-Confident Hats. These girls are poised, lively, hard working girls. They join hands, encouraging their newly nervous Sister. They’re Social Egos for female spectators to enjoy being. After Confident Showy Ego.

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3a. Station Group with Jim Tall in Centre. Shift to another America. Marriage. A circle of friends. Traditional Bridesmaids. Middle America, more or less. The tall man, Jimmy, is a rejected admirer. But he’s here, offering congratulations. He’s a – good loser – important, in a competitive community. As she acknowledges. («Jimmy, it was grand of you to come») 3b. Same Group. From a woman’s angle, it’s a wonderful daydream. 4 dimensions of wish-fulfilment. One, she’s The Star on Stage, admired by the whole theatre audience – smart men, smart women. Two, the man she rejects stays a good friend. Three, she has just secured a husband for life. Four, out there in the wings is a father-figure, bullying her and yet supporting her. Four ego-satisfactions, the American girl can claim them all. 4a. Combo-Shot of Niagara Sign & Ruby & Dave O-Brien. By luxury train to Niagara Falls, near Buffalo, was a favourite honeymoon, for a certain middleclass. Notionally, they’re a Mr and Mrs «Young Average». The Boy and Girl Next Door. Her song is her Vision of Marriage her Suburban Manifesto. 4b. after his «Oo-oo-oo-oo». Now, we half expected him to be Dick Powell, BUT he’s not, he’s a comic juvenile. He’s like a – little boy - compared to her – Which fits the common American pattern in marriage – «Momism» – the husband defers to his wife like a son to maternal authority. So she’s WifeMother and Star. Sexually, they’re shy, but they’re not repressed and she’s radiant. His style is sweety-sweety, lovey-dovey, cuddly basically, it’s Victorian sentimentality, evolved to suit the age of crooning. He’s inexperienced, as older, Puritan, America, expected men to be. Men like women should be virgins at marriage. The Single Standard. A Suffragette slogan was, «Votes for women and purity for men». 5a. Now a little narrative develops. The 1st of 5 interruptions to «upset» the couple.

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5b. Broadway stages could do this, they were proud of it. To show that it’s Theatre, the camera has pulled back to show the audience. Two big movements, by Stage and Camera working together, like one smooth machine. The carriage in cross-section is irrational space, a great paradox. It’s theatrical Constructivism. 6. 2nd, Larger, Set Of Women Pointing. Another social type. Sophisticated. Self-assured. Why do women particularly point the finger? Linked with Momism was female influence on society. As husbands made money, risking heart-attacks (like this Boss), their wives and sisters set the social tone. Women’s clubs, networks, groups dominated many communities. In the past, they’d been quite puritanical – moral reformers, or do-gooders, or spiritual up lifters. But here’s a new, 1920s, female attitude, sleek, worldly, fashionable. But still daunting. 7. Conductor At Longest Ticket. Long ticket and the pleasure of confident entitlement. 8. Porter’s Head Hits Theirs. 4th interruption. Physical – «clash of heads». For blacks these jobs were prestigious. Like black butlers in wealthy homes. 9. Combo shot of Ruby under Ginger and Una. Another feminine class. Earthy proletarians, cynical. First Verse, modern romance – women exploit men’s sexuality, & divorce for the alimony. Verse 2: rural marriage – old joke about the farmer’s the travelling salesman, and the shotgun wedding. No Romance, just economics. 10. Ruby & Dave & Faces At All Those Curtains. Busby Berkeley visited London in 1970, and after a showing of this film, a critic asked him, «In the train why all those Lesbians?» And he said – «What???»

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They’re not sexual, they’re social – they’re «Bachelor Girls», sharing berths, like sharing apartments. 11. The Crooning Couple of Women. Films about Big Cities – The Crowd, Street Scene, Sous les Toits de Paris – often had big camera movements past the windows of different apartments. The paradox of The City. It’s both a cultural mosaic, and crowds all doing the same thing. Here the camera reveals different apartments each with Bachelor Girls going to bed but also, a variety of characters, moods, challenges. 11a. Arm About To Descend. Our innocent couple have encountered modern sophistication, and survived. This suggestiveness got forbidden in 1933, until the mid ’60s. 11b. Final Close-Up of Porter’s Face. Another Class. Another Gender. Another Stage of Life. American loneliness. A class respected, yet excluded. These trains were symbols of progress, of America, and when these porters went on strike – that was a shock to the nation. Also Loneliness of the American Male. Cut On. 12. Boss & Peggy. Another lonely, tired old man. He’s nervous, but she’s high on adrenalin. Is power shifting from father figures to young women? 13. End of Brunette & Assistant. Now she can snub him. Similar Power shift. 14a. Powell Stage Entry. A reminder of The Stage, plus a camera movement. (through Powell Singing to Toby Wing) 14b. The white bench hits the ground. Here’s a different American vision.

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Vitamin A – the new joy in health, fitness, the body, movement. The Sin is, not embracing. Puritanism, and it’s shame about the body, is dead. The new morality is «Fun Morality» as sociology noted. A feminist complained that he’s active, she’s passive. Now it’s true that he works hard – singing, moving, wooing. But all her smiles and nods are active signals. «You’re pleasing me, just keep going». Also, women spectators would know beauty means hours of work. Like her calm self-confidence. Being attractive confident is not born, it’s made. It’s democratic. I5. Powell & Toby against empty sky. But where are we? They sing about moon and stars, the white bench suggested a garden or park, there’s great openness. Yet, it’s electric futurist. It’s Nature plus modernity. Like her bra – which is animal, yet very modern. Here’s A Modernist Utopia. Not Bourgeois Marriage again, but something like Modernist Living in the Moment. How will it develop? 16. 2ND Shot of Men’s Heads Round Turntable Rim. Again Onlookers – this time, all men. Again, quite young. Not disapproving. Not Peeping Toms. But amused, knowing. Interestingly enigmatic. What are they about? They will move in and a pattern repeats, several times, of the couple splitting, quite happily – each goes off with other people – and then they reunite. 17. Middle/End of Toby Amidst Escorting Gentlemen. While they’re apart, she enjoys a female wish-fantasy, being the centre of attention for many handsome and attentive men. And she has her special man. 18a. Dick Powell and the Carousel of Girls. They’ve met, and split, and now he courts all the girls….Evoking the new system of courting – the Dating system – which spread fast in the ’20s. No longer is courtship directed by parents, or in stuffy

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situations. Now, every young man dates any girl he might get to like, and vice versa. Until he settles on The One. Often the One he started with. Like here. It’s just a system, for finding someone. Are the girls static dummies? No – different attitudes – smiling, serious, or aloof . This says to women: You can go On Parade, and keep your dignity. It says to men, «Don’t mind if some girls hardly look at you, others will come along». That’s modern living choice, speed, no unnecessary feeling. 18b. Powell-Toby Kiss. Now, Women on the March. Lead us into Pure Film. 18c. Girls Start Short Lines from Inner Core. Geometry in Motion. Those figures – in flat space – shine. It’s Art Deco American 1930s – streamline feeling. Floor like hotel marble. Like a liquid mirror for Glossy Narcissism. It alternates fluid phases, like this, with set patterns – chaos, pattern, chaos, pattern. 18d. Perhaps like city crowds – rush hours, all directions. Big ’20s themes – Murnau, Vidor. 18e. Just before they join hands. Groups like pistons. Sort themselves out. 18f. 4 Girls Rush to Camera. Female charge. 18g. Top Shot of Legs. It’s – Cubism. In a Futurist dynamic. With a Freudian hole in the middle? Pleasure and Progress. It’s formalism. Pure cinema - Like Oskar Fischinger’s Circles.

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42ND STREET. CHOREOGRAPHY

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Both avant-garde films – this one inside a Hollywood film. Some English liberals read Berkeley’s pattern as Fascist. But aren’t they Modernism. Like Leger’s Ballet Mécanique? 19. Early Wedding Cake with Men Waiting to Move In. A reminder of theatre. Men like horses, pawing to get in, find a place and a partner – Men on the outside. 20. Women Raise Wedding Bands. Women and white, a wedding theme. Female Architecture. Men now inside. 22. 2nd Top Shot of Legs & Wedding Bands. It’s a 1930s Camera-Eye. In Communist Russia, Dziga-Vertov had a Communist Kino-Eye. Now Capitalist America has its Theatre-Eye. Like a camera shutter. 23. First Arch of Legs. Legs at different angles. Like Ornamental Cubism. 24. Faces First Clear In Tighter Legs Arch. Sexual, but also a wedding arch. Sexual plenitude for the steady couple. Their smiles at us keep a friendly, a social, world. 25. Ginger with Show’s Backer. Proletarian woman rules Flabby capitalist. 26. Ruby in floozies clothes. Back to Peggy – once an innocent bride – Now she’s another America. Her song celebrates «naughty bawdy gaudy sporty Forty». And a woman will take us to the underworld. Her clothes and big gestures evoke lewd districts before the big moral clean-ups which climaxed in 1919 with Prohibition.

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Now – if she’s a floozy – she’s a good-hearted one. Like Mae West, another nostalgic figure. 27. Peggy in tap dance mode but smiling nicely. I won’t inflict this tap-dance on you. Later Ruby Keeler said, «I was a terrible tap-dancer, but audiences didn’t seem to mind» And maybe her very awkwardness is nice. Like a nice girl, working hard, to look like a floozy. She’s not narrow-minded about fallen women. The Depression inspired a series of film, about women who through necessity must prostitute themselves, and yet good, decent women. Blonde Venus, Anna Christie, Her Man, they were all films for women. So Peggy is nostalgic and topical. 28. Peggy with hand near slit skirt (or sexually knowing). She’s a good girl happy to seem sexually knowing. Which then became a new female style called «The good-bad girl». Like the bad girl, she’s provocative, sexually bold, possibly experienced. And she could be independent, but having chosen love and marriage, she prefers to manage her man matriarchally. The type fully blossoms in 1943 as Lauren Bacall managing Humphrey Bogart. 29a. The Dancing Street. Chaos Street. (thru immigrants, ethnics, crazy behaviour, dwarfs…) 29b. Immigrants, ethnics, massages, stunted physiques. Yet even the dwarfs have happy energy. On Immigration Street. MELTING POT STREET 29c. Gangster Tips Hat to 3rd Lady. It’s also PROHIBITION STREET. Gangster and Speakeasy – Before Prohibition, the saloons were rough places, so, respectable women stayed away. But the new

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42ND STREET. CHOREOGRAPHY

AS SOCIOLOGY

speakeasies had to be discreet and quiet. So middle-class women (if they were modern, and not puritan), would go there even, all girls together. So Prohibition spread the drinking habit among women. More windows and moving camera. (over girl flees through window) 29d. Woman Starts Dance with Apache. The Underworld is redeemed by its Life-Force. Libido – Dionysus. (short run) 29e. We realize She Really Dies. Magic, yet Tragic. References to Slaughter on 10th Avenue and Sternberg’s Underworld. 29f. Dick Powell stares at drink in window. As this image says, Prohibition was semi-openly defied. Its end was announced, just before the film’s production and ended during its release. So, just as our bourgeois bride likes to mimic the floozy, so our man goes from Vitamin A to bootleg liquor and stands in the window, like a Mr Big. So both our friends are morally paradoxical. They’re wicked, yet all right. 29g. Now, along with heavy tap-dancing architectural structure quietly returns. 30. Half-and-Half Turn of Chorus and Cut-Outs. The music has been pounding on, as the dancers, quietly, back to camera, anonymously carried these dark shapes up, rather mysteriously, until – when they turn round – lo and behold, they’re Skyscrapers. As if to say – the Crowd builds the city, People ARE architecture. Then shots mixing Broadway and skyscrapers. Confusing perspectives.

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31. Keeler and Powell On Top. Which climax with Our old friends Rule The City – Like the synthesis which is America innocent and corrupt, yet All Right. A happy End. And then, a bitter end as well. 32. Neon Sign, Crowd, and Baxter alone. Title, «Pretty Lady», glorifies American Woman. Her teacher, disregarded, hears scornful remarks. The merciless Crowd. 33. Baxter flips his fag away. The narrative tells us he’s relieved, the music is relentlessly upbeat, but, the image is a gloomy Depression image – it would fit an unemployed man considering suicide. So – two lonely old men – The Pullman Porter, and the Boss – another American theme – Rejection of The Father – the Godfather – Giving us – five American tendencies – first, Business as Anxiety and Death – then, the three songs – now, American noir solitude.

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QUARANTADUESIMA STRADA. COREOGRAFIA COME SOCIOLOGIA di RAYMOND DURGNAT

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42nd Street (Quarantaduesima strada) * è «il backstage musical che ha inventato i clichés». Ma è anche una commedia amara nello stile di Billy Wilder. Il mio tema s’incentra sul set di alcuni numeri del musical al loro culmine, che credo costituiscano un tutt’uno, una sorta di Manifesto Americano per sconfiggere la Depressione. Si tratta di un Manifesto del sesso nella società in forma di fantasia – simile a un sogno. Le tre parti che lo costituiscono appaiono discrepanti e persino contraddittorie, ma il sogno nel suo insieme indica che spinte e tendenze sociali contraddittorie possono originare una Sintesi felice. Questa Visione – che ci appare come Cinema Puro – è cinematograficamente avanzata, addirittura avanguardistica. Ecco la nostra prima fetta di America. Nel complesso la sequenza mette insieme cinque «fette» dell’America. 1. Industria dello spettacolo come business: in scena c’è la seduzione, dietro le quinte la paura della rovina e della morte. Le ballerine di fila sono l’emblema di tutta una nuova classe – «Ragazze Indipendenti» – un proletariato femminile (o «classe populista»). Si tratta di un incrocio tra l’Innocenza Contadina e l’Alienazione della Grande Città. 2. Shuffle Off to Buffalo (Fuga a Buffalo) celebra una prima notte di nozze vagamente «Medio Americana» e «piccolo borghese». L’innocenza sessuale della coppia non è repressione sessuale. La sposa incarna un certo

Questo intervento, più che una relazione, è una lettura ragionata di alcune scene del film. Sarebbe, pertanto, necessario che esso venisse sorretto dalle immagini di volta in volta indicate. Ciò ovviamente non è possibile nei limiti di un’opera cartacea. Abbiamo tuttavia deciso di inserire ugualmente nel volume il testo di questa relazione, sia perché il film Quarantaduesima Strada è sufficientemente noto, soprattutto agli studiosi di cinema, sia perché il contributo di Durgnat contiene spunti comunque di grande interesse. Si è ritenuto, inoltre, opportuno conservare nella traduzione la scelta stilistica dell’autore di evidenziare con le iniziali maiuscole moltissime parole contenute nel testo (n.d.c.). *

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tipo di «Mammismo», mentre il marito appare piuttosto infantile. Gli sposi novelli devono sottoporsi a cinque tipi di analisi sociale, fatte in particolare da donne sofisticate e proletarie opportuniste. Il vagone letto è un microcosmo che rappresenta determinate strutture cittadine, incluso il dominio femminile sulla vita sociale. Gli effetti scenici esemplificano il Teatro Costruttivista secondo lo stile di Broadway. 3. I’m Young and Health (Sono giovane e ricco) rivendica i due principi della «Ricchezza» e della «Morale del Divertimento» e soppianta la vergogna Puritana per il corpo, il piacere, il lusso, l’esibizione. La coreografica suggerisce il sistema dell’«uscire insieme» e scalza la tradizionale sorveglianza alla coppia da parte di qualcun altro; a ciò si aggiunge una certa perdita del controllo autoritario sia da parte della società che della famiglia. I gruppi di giovani coetanei sono interessati a frequentare persone del sesso opposto. I modelli cinematografici esprimono il contrasto tra il «frequentare qualcuno» e un tipo di relazione più stabile. L’alternanza di rigidi schemi e di «flussi» caotici evoca un tema degli anni Venti, «La Folla Cittadina» e le tensioni della «società di massa» tra moltitudini e individuo. Lungi dall’essere «Fascisti», come ha suggerito la critica liberale e di sinistra, questi modelli si legano allo stile aerodinamico dell’Art Deco e al Modernismo, in particolare al Cubismo e al Futurismo. La coreografia è progettata su cerchi e raggi e origina un’«azione vivente» imparentata con Circles (Cerchi) di Oskar Fischinger. Intesa come visione ideologica delle «masse in movimento», essa costituisce la risposta del capitalismo Americano a Dziga Vertov e al Triumph of Will (Il Trionfo della Volontà) di Leni Riefenstahl, anticipando così un’Utopia edonistica, una sintesi tra Natura romantica e corroborante tecnologia. 4. Il numero di Quarantaduesima strada celebra una sorta di mondo malfamato che racchiude in sé ciò che si può definire come Caos della Strada, Strada degli immigrati, Strada Crogiuolo, Strada del Proibizionismo, Strada del Gangster. La sposa innocente (Ruby Keeler) e il suo ricco amante (Dick Powell) hanno subìto una metamorfosi in maniera onirica, mutandosi da emblemi dell’Innocenza in creature dell’Esperienza. Ma la loro sintesi di Zelo e Corruzione è più positiva, sia moralmente che socialmente, di quanto possa sembrare. I corpi tumultuosi ci conducono nelle prospettive paradossali di Broadway e dei grattacieli. L’immagine del numero finale attesta La Grande Sintesi Americana dell’Ottimismo Morale e della Tolleranza della Corruzione.

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QUARANTADUESIMA

STRADA.

COREOGRAFIA

COME SOCIOLOGIA

5. Dopo questo lieto fine, un «finale parallelo» ristabilisce il tono sommesso di solitudine, malinconia e amarezza. Vi sono altri due temi particolarmente rilevanti. Il Potere passa da tre, forse quattro figure paterne (Produttore, Impresario, Finanziatore, Facchino del Pullman) a giovani donne «Populiste», riflettendo l’avvento dei mercati di massa e del consumismo femminile. Lucy Fisher e Laura Mulvey esasperano notevolmente il ruolo delle ragazze viste come «oggetti sessuali passivi» per spettatori uomini, trascurando invece il loro dinamismo nel lavoro e nel piacere e la realizzazione dei loro desideri di donne riguardanti una presenza sociale positiva e l’esibizione di se stesse, un sano narcisismo e la liberazione dalla vergogna puritana del corpo. Questa enfasi sull’esperienza femminile e sul binomio sesso-denaro pervade l’intero film, e in particolare intrecci secondari riguardanti l’umiliazione del marito della star e le tensioni tra la figlia (Keeler) e la figura materna (Bebe Daniels). Il suo ultimo numero You’re Getting to be a Habit with Me, precedente nel film, celebra la monogamia matura, costituendo così la perfetta antitesi degli ultimi tre numeri. Nei film successivi Berkeley è spesso meno ispirato, sprovvisto di mezzi o disinteressato, ma i suoi numeri migliori coniugano una molteplicità di stili. Ad esempio, le lunghe «morbidezze» muscolari di Small Town Girl (La Provinciale,1953) contrastano con lo stile spigoloso e attento al montaggio di Quarantaduesima Strada. Dames (Le Signore) invece, offre esempi notevoli di «donne in parata» che rappresentano principalmente figure con le quali il pubblico femminile si identifica.

Analisi di alcune sequenze 1. Dietro lo spettacolo ci sono l’Inquietudine e la Morte. Il Boss si è rovinato con il crollo di Wall Street e ha un attacco di cuore. Ora tutto dipende da una semplice ballerina di fila. Il lavoro potrebbe costituire l’emblema di una nuova classe sociale – le tante ragazze alla ricerca di un lavoro in città – segretarie, dattilografe e simili. Spesso vivono con altre ragazze – nessun legame di parentela o di tipo sociale – libere come gli uomini non sposati, di qui il soprannome «Ragazza indipendente» o «Ragazza di Città». Molte erano immigrate interne provenienti da città di campagna. Lei si chiama «Peggy Sawyer», come Tom Sawyer. Domanda: Come conciliare l’innocenza della Ragazza di Campagna con le tensioni della Grande Città?

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2. Il punto di vista di Ruby del Punto di Vista di Ruby, sulle ragazze che portano tutte la stessa taglia. Certe femministe pensano che showgirl come queste sono solo oggetti sessuali per lo sguardo maschile. Ma queste donne sono prima di tutto qualcuno con cui le altre possono identificarsi. Quei vestiti non affermano il sesso, ma una Presenza Sociale Gentile. Cappelli costosi e sicuri di sé. Queste ragazze sono posate, vivaci, grandi lavoratrici. Si prendono per mano incoraggiando la loro nuova Sorella nervosa. Sono gli Ego Sociali che le spettatrici amano essere. Imitando l’Ego Brillante e Sicuro di Sé. 3a. Gruppo alla stazione con Jim, alto, al centro. Passaggio ad un’altra America. Un matrimonio. Un gruppo di amici. Tradizionali Damigelle d’Onore. Classe media americana, più o meno. L’uomo alto, Jimmy, è un ammiratore respinto. Ma è qui, a porgere i suoi auguri. Egli è, come lei realizza, uno che sa perdere – importante in una società competitiva. («Jimmy, è meraviglioso che tu sia venuto») 3b. Stesso gruppo. Dal punto di vista di una donna è un meraviglioso sogno a occhi aperti. Quattro aspetti della realizzazione del desiderio. Uno, lei è la Star sul Palcoscenico, ammirata dall’intera platea del teatro – uomini eleganti, donne eleganti. Due, l’uomo che lei respinge resta un buon amico. Tre, si è appena assicurata un marito per tutta la vita. Quattro, lì fuori, dietro le quinte, c’è una figura paterna che la tormenta e tuttavia la sostiene. Quattro soddisfazioni dell’ego che la ragazza Americana può pretendere tutte. 4a. Inquadratura combinata del cartello del Niagara. Ruby e Dave O-Brien. La luna di miele preferita da una certa classe media era sul lussuoso treno diretto verso le Cascate del Niagara, vicino Buffalo. Concettualmente, loro sono la Signora e il Signor «Normale». Il Ragazzo e la Ragazza della porta accanto. La canzone di lei è la sua Visione del Matrimonio, il suo Manifesto Provinciale. 4b. Dopo il suo «Oo-oo-oo-oo». Ci aspettavamo quasi che lui fosse Dick Powell, MA non è lui, è un comico giovincello. In confronto a lei è un ragazzino. Questo aspetto rispec-

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QUARANTADUESIMA

STRADA.

COREOGRAFIA

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chia lo schema Americano del matrimonio – «Mammismo» – in cui il marito si rimette alla moglie come un figlio all’autorità materna. Così lei è Moglie-Madre e Star. Sessualmente sono timidi, ma non repressi – lei è raggiante. Lo stile di lui è tutto smancerie e sdolcinatezza – di base si tratta di un sentimentalismo Vittoriano evoluto per adeguarsi all’era del canterellare. Lui è inesperto, così come l’antica America Puritana si aspetta che siano gli uomini. Agli uomini piace che le donne arrivino vergini al matrimonio. Il modello della Donna Nubile. Uno slogan delle Suffraggette recitava: «Voto alle donne e castità per gli uomini». 5a. Ora si sviluppa una piccola vicenda. La prima di cinque interruzioni per «importunare» la coppia. 5b. I palcoscenici di Broadway potevano farlo, ne erano fieri. Par far vedere che siamo a Teatro, la macchina da presa ha indietreggiato mostrando il pubblico. Due grandi movimenti per mezzo del Palcoscenico e della Macchina da Presa che lavorano insieme, come fossero un’unica fluida macchina. Una carrozza in sezione trasversale è uno spazio irrazionale, un grande paradosso. È teatrale Costruttivismo. 6. Secondo gruppo più grande di donne che puntano il dito. Un altro tipo sociale. Sofisticato. Sicuro. Perché sono le donne in particolare a puntare il dito? L’influenza delle donne sulla società è legata al Mammismo. Mentre i mariti fanno i soldi (come questo Boss), le mogli e le sorelle stabiliscono il tono sociale. Club delle donne, consorzi, associazioni dominano molti ambienti. Nel passato le donne erano state piuttosto puritane – riformatrici morali, benefattrici o redentrici. Ma qui c’è un nuovo atteggiamento femminile anni Venti, elegante, mondano, alla moda e tuttavia sempre avvilente. 7. Controllore del biglietto a lunga percorrenza. Biglietto a lungua percorrenza e piacere della comodità. 8. La testa del facchino urta la loro. Quarta interruzione. Fisica, ovvero uno «scontro di teste». Per i neri questi mestieri erano prestigiosi. Come i maggiordomi neri nelle case dei ricchi.

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9. Inquadratura combinata di Ruby sotto Ginger e Una. Un’altra categoria di donne. Proletarie disinibite, ciniche. Prima Strofa: favola moderna – le donne sfruttano la sessualità maschile e divorziano per avere gli alimenti. Seconda Strofa: matrimonio rurale – la vecchia barzelletta del contadino, il commesso viaggiatore e il matrimonio riparatore. Nessuna favola, semplice economia. 10. Ruby e Dave e Volti che si affacciano da tutte quelle tende. Busby Berkeley visitò Londra nel 1970; dopo la proiezione di questo film, un critico gli chiese: «Nel treno perché tutte quelle Lesbiche?» E lui: «Cosa???» Non sono sessuali, ma sociali – sono «Ragazze Indipendenti» che dividono la cuccetta come fosse un appartamento. 11a. Coppia di donne che canticchia. Nei Film sulle grandi città – The Crowd (La Folla), Street Scene (Scene di strada), Sous les Toits de Paris (Sotto i tetti di Parigi) – spesso c’erano grandi movimenti di macchina lungo le finestre di diversi appartamenti. Il paradosso della Città. Essa è ad un tempo mosaico culturale e moltitudini che fanno tutte la stessa cosa. Qui la macchina da presa scopre vari appartamenti in ognuno dei quali vi è una Ragazza Indipendente che sta andando a letto, ma anche una varietà di personaggi, umori, sfide. 11b. Braccio che sta per abbassarsi. La nostra coppia innocente si è imbattuta nella complessità moderna ed è sopravvissuta. Questa suggestione fu dimenticata nel 1933, fino alla metà degli anni Sessanta. 11c. Ultimo primo piano sul volto del facchino. Un’altra classe, un altro sesso. Un’altra scena di vita. La solitudine Americana. Una classe rispettata, tuttavia esclusa. Questi treni erano simboli del progresso, dell’America e quando i facchini entrarono in sciopero fu uno shock per l’intera nazione. Ancora Solitudine del Maschio Americano. Stacco. 12. Boss e Peggy. Un altro uomo solo, stanco e vecchio. È nervoso, ma lei è eccitatissima. Il potere si sta forse spostando dalle figure paterne alle giovani donne?

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STRADA.

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13. Fine di Brunetta e Assistente. Adesso lei lo può snobbare. Analogo spostamento di potere. 14a. Entrata in scena di Powell. Una reminiscenza del Palcoscenico unita ad un movimento di macchina. (attraverso Powell che canta verso la quinta di Toby) 14b. Quando la panchina bianca tocca a terra. Qui abbiamo una diversa visione dell’America. Vitamina A – il nuovo compiacimento della salute, del benessere, del corpo, del movimento. Il Peccato è non abbracciare. Il puritanesimo, con la sua vergogna del corpo, è morto. La nuova moralità, come ha rilevato la sociologia, è «Moralità del Divertimento». Una femminista lamentava che l’uomo è attivo, mentre la donna è passiva. È vero che lui lavora sodo – cantando, movendosi, corteggiando. Ma tutti i sorrisi e i cenni di lei sono segnali attivi. «You’re pleasing me, just keep going». Inoltre le spettatrici sanno che bellezza vuol dire ore di lavoro, così come la calma fiducia in se stesse. Non si nasce attraenti e sicure, lo si diventa. È democratico. 15. Powell e Toby contro il cielo vuoto. Ma dove siamo? Cantano della luna e delle stelle, la panchina bianca evoca un giardino o un parco, c’è una grande apertura. Tuttavia è elettrica, futurista. Come il suo reggiseno – animale, tuttavia molto moderno. È la Natura che si somma alla modernità. Ecco un’Utopia Modernista. Nessun Matrimonio Borghese adesso, ma qualcosa come un Vivere il Presente Modernista. Come si evolverà? 16. Seconda inquadratura delle teste degli uomini intorno al bordo della piattaforma. Di nuovo spettatori – questa volta tutti uomini. Ancora una volta piuttosto giovani. Non critici. Neanche guardoni, ma divertiti, scaltri, curiosamente enigmatici. Che cosa hanno intenzione di fare? Se ne andranno, mentre ricorre più volte un motivo che parla della coppia che si divide, quasi felicemente – ognuno esce con altra gente – e poi si riunisce.

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17. Metà/finale di Toby tra i gentiluomini accompagnatori. Mentre sono separati, lei si compiace di una fantasticheria amorosa, essendo il centro dell’attenzione di molti uomini attraenti e premurosi. E lei ha il suo uomo speciale. 18a. Dick Powell con il carosello di ragazze. Si sono incontrati e si sono separati e ora lui corteggia tutte le ragazze, evocando la nuova maniera di corteggiare – il sistema dell’Uscire Insieme – che si diffuse velocemente negli anni Venti. Il corteggiamento non è più gestito dai genitori o legato a situazioni monotone. Ora ogni giovanotto esce con qualunque ragazza possa attrarlo e viceversa. Fino a che non si fermerà sull’Unica Donna. Spesso Quella con cui ha cominciato. Come in questo caso. Si tratta solo di un sistema per trovare qualcuno. Le ragazze sono manichini statici? No – atteggiamenti diversi – sorridenti, serie o riservate. Le donne dicono: puoi metterti in Mostra e conservare la tua dignità. Questo suggerisce agli uomini: «Don’t mind if some girls hardly look at you, others will come along». È questo il vivere moderno – scelta, velocità, nessun sentimento superfluo. 18b. Bacio Powell-Toby. Donne in Marcia. Ci conducono dentro il Puro Film. 18c. Le ragazze fanno partire brevi file dal nucleo interno. Geometria in movimento. Quelle figure – nello spazio piatto – brillano. È Art Deco – anni Trenta Americani – senso di aerodinamicità. Pavimento come marmo di un hotel. Come uno specchio liquido per il Narcisismo lucente. Fasi fluide come questa si alternano a modelli fissi – caos, modello, caos, modello. 18d. Fasi simili a moltitudini cittadine – ore febbrili, tutte le direzioni. Grandi temi degli anni Venti – Murnau, Vidor. 18.e Proprio prima che si prendano per mano. Gruppi come stantuffi. Si mettono in ordine. 18f. Quattro ragazze si precipitano verso la macchina da presa. Eccitazione femminile.

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18g. Dall’alto delle gambe. È Cubismo. In una dinamica Futurista. C’è un’apertura freudiana nel mezzo? Piacere e Progresso. È Formalismo. Cinema Puro – come Circles di Oskar Fischinger. Entrambi film d’avanguardia – questo all’interno di un film Hollywoodiano. Alcuni Inglesi Liberali interpretano il modello di Berkeley come Fascista. Ma non è Modernismo. Come il Ballet Mécanique di Léger? 19. Prima torta nuziale con gli uomini che aspettano di entrare. Una reminiscenza del teatro. Uomini come cavalli. Scalpitano per entrare, per trovare un posto, una compagna. Uomini all’esterno. 20. Donne che alzano le fedi nuziali. Donne e bianco, un tema nuziale. Architettura Femminile. Ora, uomini all’interno. 22. Seconda inquadratura dall’alto di gambe e fedi nuziali. È un Occhio-Macchina da Presa anni Trenta. Nella Russia Comunista Dziga Vertov aveva un Occhio-Kino. Ora l’America Capitalista ha il suo Occhio-Teatro. Come l’otturatore di una macchina da presa. 23. Un primo arco di gambe. Gambe da angolazioni differenti. Come Cubismo Ornamentale. 24. I volti si dissolvono per la prima volta nell’arco di gambe più stretto. Sessuale, ma anche un arco nuziale. Pienezza sessuale per la coppia stabile. I loro sorrisi verso di noi sono portatori di un mondo affidabile, amico. 25. Ginger con il finanziatore dello spettacolo. La donna proletaria domina il capitalista Fiacco.

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26. Ruby vestita da prostituta. Di nuovo Peggy – un tempo una ragazza innocente. Ora è un’altra America. La sua canzone celebra «Naughty bawdy gaudy sporty Forty»* . Una donna ci conduce nel mondo della malavita. I suoi abiti e gli ampi gesti evocano quartieri equivoci prima della grande pulizia morale che culminò nel 1919 con il Proibizionismo. Anche se è una prostituta, è generosa. Come Mae West, altra figura nostalgica. 27. Peggy in posa da tip tap ma con un sorriso compito. Non vi imporrò questo tip tap. Più tardi Ruby Keeler: «Ero una pessima ballerina di tip tap, ma sembrava che al pubblico non importasse». Forse la sua sfrontatezza è garbata. Così come è garbata una ragazza che fa molta fatica ad assomigliare a una donna di malaffare. Non ha pregiudizi sulle donne di facili costumi. La Depressione ispirò una serie di film su donne costrette a prostituirsi spinte dalla necessità, tuttavia buone, dignitose. Blond Venus (Venere Bionda) Anna Christie (id.), Her Man (Il suo uomo), erano tutti film per le donne. Così Peggy è nostalgica e attuale. 28. Peggy con la mano vicino allo spacco della gonna (sessualmente smaliziata). È una brava ragazza felice di apparire sessualmente smaliziata. Atteggiamento che successivamente divenne un nuovo stile femminile denominato «La Brava Ragazza Facile». È provocante, sessualmente ardita, forse esperta come una ragazza di vita. E potrebbe essere indipendente ma, avendo scelto l’amore e il matrimonio, preferisce controllare il suo uomo in modo matriarcale. Il tipo fiorì pienamente nel 1943 con Lauren Bacall che domina Humphrey Bogart. 29a. La strada che danza. Strada del Caos.

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«Quaranta begli impertinenti sfacciati e depravati».

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(attraverso immigrati, etnie, comportamento folle, nani…) 29b. Immigrati, etnie, massaggi, corpi rachitici. Eppure – persino i nani hanno energia positiva. Sulla Strada dell’Immigrazione. 29c. Il Gangster saluta la terza donna sollevando il cappello. È anche la STRADA DELLA PROIBIZIONE. Gangster e locali clandestini – Prima del Proibizionismo – i saloon erano luoghi sgradevoli, così lo donne rispettabili ne stavano lontane. Ma i nuovi locali per la vendita illegale di alcolici dovevano essere discreti e tranquilli. Per cui le donne della classe media (se erano moderne e non puritane), vi si recavano, anche insieme ad altre ragazze. In questo modo il Proibizionismo fece diffondere tra le donne l’abitudine di bere. Più finestre e macchina da presa in movimento. 29d. Mentre la donna inizia la danza con L’Apache. Il mondo della Malavita è riscattato dalla sua Forza Vitale. Libido – Dioniso. (breve sequenza) 29e. Mentre realizziamo che lei muore davvero. Magico, eppure Tragico. Citazioni da Slaughter on 10th Avenue (Assassinio nella Decima Strada) e da Underworld (Le notti di Chicago) di Sternberg. 29f. Dick Powell fissa il drink alla finestra. Come suggerisce questa immagine, il Proibizionismo veniva trasgredito quasi apertamente. La sua fine fu annunciata proprio prima della produzione del film e finì durante la sua distribuzione. Così, proprio mentre alla nostra sposa borghese piace imitare le prostitute, il nostro uomo passa dalla Vitamina A al liquore di contrabbando e se ne sta alla finestra come un boss. Entrambi i nostri amici, dunque, sono moralmente paradossali. Cattivi, tuttavia a posto.

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RAYMOND DURGNAT

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29g. Ora, insieme al forte tip tap, torna silenziosamente la struttura architettonica. 30. Mezzo giro dei ballerini e figure ritagliate. La musica picchiava mentre i ballerini, in silenzio, di spalle alla macchina da presa, portavano anonimamente in alto quelle figure scure, quasi misteriosamente, fino a che – quando si voltano – ecco, sono Grattacieli. Come a dire – la Folla costruisce la città, la Gente è architettura. Seguono inquadrature che mescolano Broadway ai grattacieli. Prospettive che disorientano. 31. Keeler e Powell in cima ad una altura. Climax: I nostri vecchi amici Dominano la Città – Sintesi che è l’America, innocente e corrotta, eppure Giusta. Un lieto fine. E poi, un finale amaro. 32. Insegne al neon, folla e Baxter da solo. Titolo «Pretty Lady», glorifica la donna americana. Il suo insegnante, ignorato, sente commenti sprezzanti. La Folla impietosa. 33. Baxter getta via la sigaretta. La storia racconta che si sente sollevato, la musica è irrefrenabilmente allegra, ma l’immagine è quella tetra della Depressione – simile a quella di un disoccupato che medita il suicidio. Così, due uomini vecchi e soli – il facchino del Pullman e il Boss – altro tema americano – Il Rifiuto del Padre – Dio Padre – comunicano cinque tendenze dell’America – prima il Business come Inquietudine e Morte – poi le tre canzoni – ora la solitudine noir Americana. (traduzione di Loredana Ferro)

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PRIMA LA MUSICA, POI LE PAROLE di ERMANNO COMUZIO

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Lo dice la parola stessa, nel musical c’è la musica. Non c’è nessuno che non le faccia posto, nel tormentone di una definizione il più possibile esauriente – e sempre sfuggente – del musical. C’è anzi una frase fatta, applicabile a questo genere di spettacolo come a tutti gli altri in cui i suoni sono mescolati ad altri elementi espressivi (la commedia musicale, la canzone, l’opera lirica, l’oratorio e quant’altro coniughi forme sonore a forme puramente verbali): «Prima la musica, poi le parole». O addirittura, con toni da Genesi, «All’inizio c’è la musica». Ma, appunto, si tratta di un cliché, le cose non sono così semplici. A parte la questione della priorità, c’è davvero la musica nel musical? Voglio dire una musica che svolga la sua funzione primaria: farsi ascoltare, rivolgersi al senso dell’udito. Nel tipo di cinema di cui ci occupiamo essa è sempre presente. Ma è ancora musica o un’altra cosa, abbinata com’è ad elementi visivi, scenografici, coreografici, drammaturgici ecc.? Non cambia di segno e di senso? Secondo il musicologo Ennio Simeon, prematuramente scomparso, «il termine stesso di musical appare come un paradosso semantico», e spiega il perché. Il fatto è che, sebbene questo tipo di film venga girato in play-back su colonna musica-rumori, il primato della musica (di solito dato per scontato con questo metodo di ripresa) è puramente apparente; al di là dello scandire meccanicamente il ritmo della narrazione, quello che non riesce ad instaurarsi è la funzione drammatica (nel senso anche di capacità di influenzare lo svolgimento dell’azione) dell’elemento musicale1.

1

E. SIMEON, Il musical, in «La cosa vista», n. 6, 1987, p. 39.

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ERMANNO COMUZIO

L’affermazione appare generica, e dunque discutibile, ma ci mette in guardia. Ci spinge cioè a chiederci se la musica – a parte i singoli risultati – può e deve essere valutata, all’interno del musical, di per sé, per i suoi valori specifici; e se possiamo riuscire ad ascoltarla proprio nei suoi valori specifici. I dubbi sussistono anche quando si piazza la cinepresa davanti o al centro di una manifestazione musicale – l’esecuzione di un cantante, di uno strumentista, di un’orchestra – figuriamoci quando l’evento musicale serve da spunto per una offerta visiva ricca di suggestioni formali, gestuali, coreografiche! Un conto è ascoltare una canzone alla radio o in un disco, un conto è «vederla» su uno schermo (il musicista e teorico Michel Chion userebbe il termine «audiovederla»). Giorgio Cremonini, definendo il musical, traccia una linea di confine tra la musica di accompagnamento, di sottofondo, e quella che entra nell’immagine2. Questione che non è il caso di approfondire in questa sede, poiché rientra nel più vasto e mai esaurito argomento della utopica sinestesia musica/immagine; sta di fatto, comunque, che lo sforzo principale del film musicale sia proprio quello di creare una certa unità fra i diversi elementi che lo compongono. A proposito di delimitazioni di campo, sarà il caso anche di avvertire che si assumono qui formule magari improprie ma di chiaro e immediato significato: sappiamo bene, ad esempio, che per qualcuno il musical non è un genere, o che un film musicale non è necessariamente un musical, ma non sono portato agli eccessivi «distinguo» e preferisco farmi intendere secondo definizioni accettate e subito riconoscibili, così non ci sono dubbi. Fin dagli inizi, d’altronde, la musica era «qualcos’altro»: fin dagli spettacoli musicali che dominavano le scene, in America, a partire dalla metà dell’Ottocento. The Jazz Singer (Il cantante di jazz, 1927) di Alan Crosland si basa su una commedia con canzoni, The Day of Atonement, interpretata a Broadway da George Jessel, stella del vaudeville, che avrebbe dovuto essere il protagonista del film ma che fu poi soppiantato da Al Jolson. È vero che la vicenda faceva da cornice ad una parata di canzoni, ma le realizzazioni teatrali, an2 Cfr. G. CREMONINI, Sette note. Per una teoria sul Musical, in «Cinema e Cinema» n. 22/23 anno 7, gennaio-giugno 1980.

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PRIMA

LA MUSICA, POI LE PAROLE

che prima e a lato delle fastose messinscene alla Ziegfeld, avevano il loro peso nella presentazione dei pivots musicali. Di vari autori di varia derivazione, le canzoni di The Jazz Singer appartenevano al repertorio di Jolson e andavano da quelle vivaci del varietà come Tootsie Goodbye di Dan Russo3, ai torch songs come Mammy di Walter Donaldson, ai canti appartenenti alla cultura ebraica come Kol Nidre eseguito in una sinagoga alla vigilia del Day of Atonement, ossia il Jôm Kippûr (Giorno dell’Espiazione). E poi Blue Skies di Irving Berlin, che forniva il pretesto a Jolson per definire jazz tutta la musica da spettacolo popolare (il che giustificava anche il titolo del film, sul quale generazioni di puristi del jazz hanno esercitato i loro sarcasmi). Richard Barrios, autore di un libro importante sulla nascita del musical, afferma che «l’uso della parola jazz riferita a questo tipo di musica «bianca» dimostra la libera applicazione di un termine che negli anni Venti equivaleva al pop di oggigiorno»4. Fra Broadway e Hollywood I musical che seguono a cascata nel 1928 e 1929 sono in massima parte debitori del teatro. Dove, appunto, la musica era motore e ad un tempo pretesto. Non è questa la sede per dissertare sulla differenza tra commedia musicale, varietà, music-hall, vaudeville, burlesque, gaiety, minstrel shows e quant’altro; compresa l’operetta all’europea. Sta di fatto che il musical di Broadway ibridava diversi generi di musica, soprattutto quella di tradizione europea con quella popolare americana. Vi convergono il ricordo dell’opera lirica, dell’operetta viennese (che, a differenza della prima, al di là dell’Atlantico viene rappresentata sempre in lingua inglese), il balletto francese, la pantomima; ma a poco a poco vi penetreranno anche i ritmi sincopati del folklore negro e del jazz5. 3 Ove non occorra specificamente riferirsi anche ai versi, indico come autore di una canzone il solo musicista. 4 R. BARRIOS, A Song in the Dark. The Birth of the Musical Film, Oxford University Press, New York/Oxford 1995, p. 183. 5 Cfr. D.B. BOWERS, American Musical Theater. Shows, Songs and Stars, Smithsonian Collection of Recorderings, Washington D. C. 1989.

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ERMANNO COMUZIO

Broadway si sposa ad un altro luogo mitico di New York, unità geografica ma anche luogo della mente: Tin Pan Alley, il centro delle attività musicali che raccoglie compositori, editori, teatranti, impresari: Stephen Foster, John Philip Sousa, Victor Herbert, George M. Cohan, Irving Berlin, Walter Donaldson, Rudolph Friml, William C. Handy, Jerome Kern, Sigmund Romberg, Sammy Fain, George Gershwin, Ray Henderson, Jimmy McHugh, Cole Porter, Richard Rodgers, Harry Warren, Vincent Youmans, Harold Arlen, Nacio Herb Brown, Hoagy Carmichael, Vernon Duke, Jerry Livingston, Arthur Schwartz, Jimmy Van Heusen, sono i colonnelli dell’esercito di musicisti (senza contare gli orchestratori e gli arrangiatori) che fanno da trait d’union fra Tin Pan Alley, Broadway e Hollywood. Ovvero tra la tradizione europea e la musica popolare americana. Nel 1928 Irving Thalberg aveva scritturato Nacio Herb Brown. Egli si era già stabilito a Beverly Hills per le sue attività, prima di sartoria d’alto livello e poi di agente immobiliare, abbandonate non tanto dopo il successo inaspettato che ebbe nel 1920 la sua prima canzone – Coral Sea – eseguita all’Alexandria Hotel di Los Angeles da Paul Whiteman – o anche da Doll Dance – inserita nella «Music Box Revue» messa in scena nel 1926 al Music Box Theater di Hollywood – quanto dopo l’inizio delle fortunate avventure cinematografiche. Thalberg gli aveva affidato il compito di scrivere le canzoni – testi di Arthur Freed – del primo musical della Metro, Broadway Melody (La canzone di Broadway), con la regia di Harry Beaumont. Famoso, in questo film, il numero musicale Wedding of the Painted Doll, per il quale le cronache affermano sia stato inventato il procedimento del playback. Thalberg, giudicando troppo statiche le riprese, ordinò di rifarle e il tecnico del suono Douglas Shearer propose di conservare la registrazione già fatta e di far muovere cantanti e ballerini seguendo la musica registrata. Broadway Melody è una delle pellicole che nel 1929 denunciano fin nel titolo la loro sudditanza alla scena rivistaiola: Broadway, Broadway Babies, Broadway Scandals, Gold Diggers of Broadway; Lord Byron of Broadway, per non dire dei centoni tipo Fox Movietone Follies, Hollywood Revue, On with the Show, Show of Shows. Parimenti abbondano i film riferiti alla musica e alle canzoni: Close Har-

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LA MUSICA, POI LE PAROLE

mony, The Desert Song, Honky Tonk, Melody Lane, Say It with Songs, The Singing Fool, Song of Love, Syncopation, Words and Music. Se mi soffermo su un anno in particolare è perché si tratta di un anno importante, quello che sancisce non tanto la natura del «genere», quanto le sue diversificazioni. Il discorso sulla musica, infatti, non può essere di carattere globale ma deve tenere conto delle diverse suddivisioni del suo uso, oltre che ovviamente della personalità dei compositori e della qualità delle loro fatiche. Trascurando per brevità il fenomeno dei soundies e dei documentari musicali, compresi i brevi film realizzati al fine precipuo di pubblicizzare determinate canzoni (con il pallino saltellante sui versi, stampati nel margine inferiore della pellicola in modo da permettere agli spettatori di unirsi al canto, precorrendo il karaoke), vediamo come nella produzione del 1929 siano emblematicamente presenti vari filoni. Ci sono, a parte i film-antologia e le versioni di spettacoli teatrali già citati, le trasposizioni su schermo di famosi shows, come lo ziegfeldiano Show Boat (ma ci sono anche Rio Rita e Sally); i backstage musicals relativi alla realizzazione di spettacoli teatrali, come Pointed Heels e tanti altri tra quelli sopra nominati; i film con la presenza di musicisti di richiamo («Fats» Waller in Applause, per esempio, il clarinettista Ted Lewis in Everybody Happy?, il cantante Rudy Vallee in The Vagabond Lover); quelli con gli hits di compositori di successo (per Hollywood Revue Herb Brown compone Singing in the Rain; ma scendono in campo anche Jimmy McHugh, Ray Henderson, Irving Berlin, Sammy Fain, Harold Arlen ed altri dello Stato Maggiore). Poi ci sono i film comico-musicali (come The Cocoanuts con i «quattro» fratelli Marx, compreso Zeppo); il film-jazz (come Street Girl), e l’operetta, sia quella di origine viennese (Married in Hollywood, musica di Oscar Strauss, ma anche con altre musiche aggiunte per l’occasione, di Dave Stamper e Arthur Kay) e quella «nuova» (The Desert Song, successo di Broadway del 1926), in cui «tutti gli ingredienti dell’operetta erano raggruppati in una fervida combinazione: la sontuosa musica di Romberg, i floridi versi di Harbach e Hammerstein II, ambientazione esotica e variopinti costumi, amori più grandi della vita»6. 6

R. BARRIOS, A song in the Dark, cit. p. 78.

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ERMANNO COMUZIO

Più importante The Love Parade (Il principe consorte) di Ernst Lubitsch, perché si tratta della prima operetta concepita direttamente per lo schermo (con il soggetto derivante da una commedia teatrale). La musica è di Victor Schertzinger, che aveva cominciato fin dal «muto» la sua carriera di musicista, prima di diventare regista, e i versi di Clifford Grey. Vale la pena di soffermarsi un momento su questo film perché esso indica una direzione, quella dell’uso drammaturgico della canzone, e accennare inoltre ad Hallelujah!, di King Vidor, che preannuncia il filone dei film musicali all-negro e in genere dell’uso della musica afro-americana. L’incipit di The Love Parade dà subito il tono dell’operazione, invitandoci a sospendere l’opzione di realismo: Jacques (Lupino Lane), il valletto del principe Alfred (Maurice Chevalier), addetto militare all’Ambasciata di Parigi del regno di Sylvania, prepara la tavola per l’ennesimo appuntamento galante del suo padrone chiosando ciò che fa con una buffa tecnica di recitar-cantando (la possiamo chiamare una specie di trivial Sprechgesang): «Qui metto il piatto del pesce, qui i tovaglioli. Qui sigarette e fiammiferi. Il padrone non si può lamentare: Cioccolatini, brandy, Rose. Noi sappiamo ricevere. È una bottiglia di champagne».

Su un accordo interlocutorio Jacques strappa di colpo la tovaglia di sotto alle suppellettili che ha posato sul tavolo e su un accordo conclusivo esce solennemente sbattendo a tempo la porta. Siamo subito introdotti, così, in un universo fantasticato, retto non dalle leggi del quotidiano ma da quelle di un immaginario musicale. Dall’operetta al jazz Si diceva della drammatizzazione della canzone. È quella che la regina di Sylvania (Jeanette MacDonald) intona al suo risveglio (Dream Lover) seguita dal coro di quattro damigelle. Il motivo ritorna nel sottofondo quando Alfred, richiamato in patria, si presenta alla sovrana, che i dignitari del regno vogliono si sposi (ecco che il discorso musicale è subordinato all’immagine). Egli asseconda il ritmo della camminata della regina quando va nel boudoir a inci-

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LA MUSICA, POI LE PAROLE

priarsi il naso per far colpo sul conte. Poi la canzone è intonata da lei dopo che è stata baciata dall’intraprendente gentiluomo e viene ripresa da un coro formato da coppie di damigelle e ufficiali; infine, prima della ricomposizione finale, la risentiamo in tempo lento, interrotto dai singhiozzi di lei, quando la regina viene abbandonata dal consorte, stanco di fare l’uomo di paglia, e sostituita dalla March of the Grenadiers (cantata dalla regina alle manovre militari del mattino) che la richiama ai suoi doveri regali. Altri maliziosi utilizzi della musica li troviamo nella cerimonia nuziale, con un organo prima maestoso poi petulante, e nei contrappunti comici affidati alla servitù con un duetto da varietà – Let’s Be Common – fra il valletto di Alfred e Lulù, la camerierina della sovrana, una vera e proprio soubrette (attrice Lillian Roth, stella di Ziegfeld dalle abitudini sregolate, la stessa su cui Hollywood produrrà nel 1955 il film biografico I’ll Cry Tomorrow, di Daniel Mann, protagonista Susan Hayward). Da notare che la musica serpeggia sottopelle anche quando non c’è, come quando i dignitari del regno parlano in coro o il comportamento della regina che ha invitato a cena Alfred viene spiato simultaneamente, e da luoghi diversi, dagli stessi dignitari, dalle damigelle e dalla servitù. I trecento colpi di cannone che echeggiano durante la prima notte di nozze, poi, disturbano il marito ma deliziano la moglie: «È la nostra musica nuziale». La musica di Schertzinger è tutt’altro che strepitosa ma, per come è «gestita» da Lubitsch, assolve piacevolmente il suo compito: un esempio concreto, mi pare, di come l’ascolto sia condizionato da elementi estranei alla rappresentazione musicale pura e semplice. Un uso ancora diverso di canzoni, a proposito di Lubitsch (a parte la felice «americanizzazione» della più famosa operetta di Lehar, The Merry Widow, La vedova allegra, 1934), lo troviamo in un suo film del 1932, One hour with You (Un’ora d’amore). Qui Chevalier, pur essendo sinceramente innamorato della moglie Colette (Jeanette MacDonald), è attratto da una pepata brunetta di nome Mitzi (Genevieve Tobin) che apertamente ne insidia la fedeltà coniugale. Ad un certo punto il poveretto canta la canzone Mitzi prendendo noi spettatori a testimoni delle sue ambasce, come per chiedere solidarietà o comprensione. Intesse cioè le virtù di Colette, ma poi, con altro tono e con la sua voce delle occasioni malandrine, ci

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guarda fisso ed esclama la frase che costituisce il ritornello-tormentone, «Oh, that Mitzi!» (la musica è di Oscar Strauss e Richard A. Whiting, le parole sono di Leo Robin). In questo caso, insomma, la canzone – oltre che essere fortemente connotata dalla mimica – è eseguita per nostro uso e consumo, per farci immedesimare direttamente nei problemi di un personaggio. Lubitsch del resto ha fatto scuola. Lo prova per esempio un film girato da Rouben Mamoulian nel 1932, Love Me Tonight (Amami stanotte), non a caso interpretato ancora da Maurice Chevalier. Qui l’inizio è un «risveglio di Parigi» raccontato attraverso rumori musicalmente concertati: il piccone di un operaio, il ron-ron di un ubriaco, le faccende di una casalinga, lo svegliarsi di un bambino, l’aprirsi di una bottega, lo sbattere di tappeti, il picchiare di un ciabattino, fino a quando entra una musica «vera» ma sempre combinata con i rumori. Un procedimento debitore di certe soluzioni musicalrumoristiche della cultura musicale delle avanguardie storiche europee, che influiranno anche sul Gershwin di un paio d’anni dopo, quello di Porgy and Bess, a sua volta arricchito da una pagina del genere. Poi, dopo la prima sequenza, il sarto Maurice Chevalier nel suo negozio consegna ad un cliente un vestito nuovo fiammante intonando la canzone Isn’t Romantic? e il cliente la ripete per strada, passandola ad un tassista che la canta ad un suo passeggero, il quale (è un musicista) in treno la trascrive, incrocia un reparto di militari che la cantano a tempo di marcia; altro cambio di ritmo quando la udiamo suonata nel violino di uno zingaro di un accampamento vicino, per poi passare ad una villa dei paraggi dove Jeanette MacDonald la riprende, affacciata al balcone. Un percorso sapidissimo, in cui la canzone si piega duttilmente alle diverse situazioni ma resta la regina indiscussa della situazione. Non si è ancora detto che l’autore è Richard Rodgers (parole di Lorenz Hart); ma in tutti questi casi è evidente che conta molto la realizzazione visiva, cioè l’apporto dei registi. Per tornare ancora per un momento al 1928 e sciogliere le riserve a proposito di Hallelujah!, qui non c’è un autore musicale, trattandosi di canti del folklore afro-americano, affidati con diverse valenze agli attori-cantanti di colore e ai Dixie Jubilee Singers. In aggiunta, sono state chieste a Irving Berlin due canzoni originali, Wai-

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LA MUSICA, POI LE PAROLE

ting at the End of the Road e Swanee Shuffle, un indiavolato numero di ballo quest’ultimo eseguito in un locale dai singing-waiters e dalla scatenata Mae McKinney, dalla voce agretta, da gatta d’inferno. Un motivo, occorre dire, che non sfigura affatto accanto ai traditionals. Il film sciorina una vera e propria antologia del patrimonio negro, proponendo audacemente per l’epoca ad un pubblico «bianco», oltre che a quello di colore, cose come Let’s My People Go, Nobody Knows the Trouble I’ve Seen, Swanee River, Swing Low, Sweet Chariot, All God’s Chillun Have Shoes, St.Louis Blues e altro ancora. Con una bellissima ninna-nanna intonata, senza accompagnamento, da Fannie Belle De Night, mamma amorosa che mette a letto uno per uno, alla fine di una giornata di lavoro, i suoi bambini. Anche qui l’ascolto assume nuove valenze in combinazione con le situazioni mostrate, come appare per esempio nella sequenza in cui Chick addormenta fra le sue braccia Zeke, il probo predicatore da lei strappato alla famiglia, mugolando a bocca chiusa St.Louis Blues e intanto si prepara a fuggire con il seduttore di un tempo, il giocatore «Hot Shot». La canzone: parole e musica Se queste sono le premesse, gli sviluppi si ramificano in mille rivoli. I filoni un po’ si diversificano, un po’ persistono, un po’ si perdono, un po’ si intrecciano, fare discorsi compiuti diventa complicato. La musica resta comunque sempre un elemento portante, e fa di tutto, al di là degli elementi di varia origine (molti compositori sono di formazione europea) per esprimere genuinamente lo spirito di un’America che, «glorificando» la bellezza, le donne, l’audacia e la prosperità, afferma la sua supremazia dopo la bufera della grande crisi. Un musical del 1928 (Puttin’ on the Ritz, che ospita una canzone dal titolo significativo, Say It With Music), viene presentato come una saga «della nascita e dell’evoluzione della canzone popolare come parte della moderna civiltà americana». La canzone, allora. Essa, si sa, ha tante connotazioni: la chiamiamo così per comodità, intendendo solitamente quella a struttura strofica intonata dal canto, ma può essere anche puramente strumentale, funzionare in maniera autonoma o – come accade volen-

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tieri nei musicals – servire da sostegno ad una scena, ad uno sketch, ad una azione coreografica e così via. Non ci sono mai state regole precise, e non ci sono tuttora: alcuni compositori partono da un testo già scritto, altri preferiscono comporre un motivo e poi farvi adattare sopra i versi. In alcuni casi fortunati (l’esempio maggiore è dato da Cole Porter) compositore e paroliere sono la stessa persona, ancor prima della fioritura dei cantautori. Questo rapporto comunque è decisamente problematico, e non solo nelle canzoni dei musicals. Osserva in proposito la musicologa Amalia Collisani: La dialettica musica-testo riflette quella tra suono e concetto, significante e significato, riprendendo senza risolverlo l’antico interrogativo sulle motivazioni che legano la sonorità e l’espressione. Nel rapporto parola-musica questo interrogativo si ripropone in quello che riguarda la priorità delle significazioni: se sono prima significanti i suoi verbali (fonemi, monemi) o quelli musicali (altezze, intervalli, ecc.), se la parola è espressiva perché la sua struttura è sonora o la musica è significante perché imita il parlare7.

La questione è troppo complessa perché si possa trattarla qui: basterà ricordare che Eduard Hanslick, padre fondatore della musicologia, mette in dubbio che la musica possa esprimere i contenuti di un testo e comunque sostiene che il loro matrimonio è sempre «morganatico». Si può affermare comunque che nella canzone il testo diventa suono, musica. Ed è questo che conta: la qualità della musica. Che non dipende necessariamente dalla formazione più o meno accademica del compositore: Irving Berlin è stato pressoché un analfabeta musicale, eppure ne conosciamo i risultati (God Bless America, A Pretty Girl is Like a Melody, Remeber, Always, Blue Skies, Cheek to Cheek, White Christmas sono sue); così come da noi Cesare Andrea Bixio, che suonava il pianoforte con un dito, e Giorgio Moroder, che combina le note con le tastiere elettroniche. Sappiamo bene che la canzone è quanto di più semplice e schematico possa esserci, dato che vuol essere un’espressione fruibile da tutti. 7

A. COLLISANI, Musica e simboli, Sellerio, Palermo 1988, p. 53.

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LA MUSICA, POI LE PAROLE

La canzone è un modello di fiction onora – scrive Paolo Cherchi Usai – c’è un percorso limitato e obbligato da seguire, c’è (anche) una storia, c’è un complesso di regole irrinunciabili che si riassumono nei concetti di brevità, originalità, riconoscibilità, sintesi e prevedibilità di svolgimento. La canzone deve essere una struttura semplice, un ascoltatore distratto deve poterla seguire senza difficoltà: deve essere inoltre una struttura facile da memorizzare, e il suo percorso essere intuito subito dopo la presentazione del tema8.

Ci sono musicisti, si sa, che si limitano al cosiddetto motivo, alla melodia, facendo intervenire poi i tecnici – solitamente agguerriti – dell’arrangiamento e dell’orchestrazione; e naturalmente ci sono i mestieranti che si ripetono, e i talenti ispirati capaci di soluzioni originali. Secondo il musicologo Simeon è la melodia, comunque, a rappresentare nell’era del musical «classico» l’aspetto più significativo della canzone (forse l’unico?, si chiede, pensando alle formule stereotipate di un’armonia di tipo elementarmente diatonico e tonale). Il dono melodico era notoriamente il lato preponderante, e a volte il solo della personalità di Irving Berlin, Jerome Kern (tanto per fare i nomi principali) e dello stesso George Gershwin, che anche nelle sue prove sinfoniche dà un esempio innanzitutto del proprio talento di inventore di temi e mostra la scarsa tecnica nello sviluppo degli stessi e nella orchestrazione. Il melodismo ha anche caratteristiche autoctone, a cominciare dalla struttura per lo più fissa di verse, solitamente eseguito nella versione teatrale e basta, e di refrain, formato da 32 battute secondo lo schema A A B A o simili; anche l’uso delle blue notes di ascendenza afroamericana è ovviamente una caratteristica autoctona, per cui si può dire che il particolare trattamento della melodia sia, per quanto riguarda la materia musicale, uno dei tanti paludati «elementi tipicamente americani»9.

Sarebbe sciocco non apprezzare al suo giusto valore questa benedetta «melodia». Giuseppe Verdi, in una lettera a Ricordi, parlando di Puccini scrisse: «Segue le tendenze moderne, ed è naturale, ma si mantiene attaccato alla melodia, che non è antica, né moderP. CERCHI USAI, La canzone come forma visiva, in «Music In Film Test», Cineforum di Vicenza 1987, p. 27. 9 E. SIMEON, Il musical, cit. p. 39. 8

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na». E c’è tutto il resto, senza bisogno di riandare a quanto dicevano Proust o Pasolini delle canzoni. Ancora e sempre, nei musicals non contano soltanto le valenze musicali ma anche, e più, come sono utilizzati i brani musicali. Occorre dare la giusta importanza alle parole, si capisce, ma anche al «porgere», che spesso è anche espresso dalla corporeità (il danzatore) oltre che dalla voce (il cantante). Difficile, spesso, distinguere il canto dalla danza – come prova Fred Astaire, che passa da uno all’altra senza soluzione di continuità – dato che, come disse un filosofo francese del secolo scorso, se la musica ci commuove, questo succede perché «essa ci incita a muoverci» (anche se Cartesio operava dei distinguo: «La stessa cosa che infonde voglia di ballare ad alcuni, può infondere voglia di piangere ad altri»)10. La riserva avanzata da Franco Fornari nella sua Psicoanalisi della musica si capovolge, dopotutto, in una prova a favore della danza come sviluppo fatale della musica: La libertà che i suoni hanno di muoversi verso l’alto e verso il basso è talmente sorprendente, da far pensare che la musica nasca dal moto di una entità immateriale, in quanto priva di gravità, tanto da poter dire che la musica si muove in un universo abarico, vale a dire «privo di gravità», tipico per il suono e per la luce11.

Alcuni autori compiono delle classificazioni secondo una determinata tipologia della canzone nel cinema (conserviamo questo termine, anche se improprio e comunque comprensivo di varie forme e soprattutto di vari usi). Preferendo la prassi alle teorizzazioni, si potrebbe semmai attraversare la storia del musical esaminando i diversi aspetti delle canzoni ivi comprese, secondo gli argomenti trattati, la loro natura, il loro valore musicale, i loro autori (Berlin è abbastanza schematico nelle riprese e nei ritornelli, Gershwin è morbido nell’invenzione melodica e tende a supporti «colti», Porter è il più libero nelle strutture, facendo spesso uso di «ponti» e di modulazioni, e così via), i loro esecutori e soprattutto il loro utilizzo all’interno dei «numeri» spettacolari. Da quelli – «numeri» da palcoscenico o da music-hall – in cui la canzone è inserita come pretesto 10 11

J.-J NATTIEZ, Musicologia generale e semiologia, Einaudi, Torino 1989, pp. 82, 84. F. FORNARI, Psicanalisi della musica, Longanesi, Milano 1984, p. 191.

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nella vicenda a quelli che fanno procedere l’azione. Ci vorrebbe un libro. E poi la casistica è così diversificata che una classificazione è impensabile: si può semmai tentare qualche accenno alla ricchezza delle motivazioni e degli esiti. Basandoci naturalmente soltanto su alcune situazioni e su alcuni film fra i più rappresentativi. Biopic, drammi e gorgheggi Quanto agli argomenti, si suole attribuire alla canzone la funzione primaria di veicolo di sentimenti amorosi, ma non è poi detto; o per lo meno le variazioni in questo ambito sono innumerevoli, dalla drammatizzazione alla ridicolizzazione. Si canta amoreggiando, certo, ma anche per esprimere i sentimenti più diversi, o più sovente ancora, nei musical, per mettere in rilievo l’aspetto, se non quello tecnico della canzone, per lo meno quello di «intrattenimento» e di veicolo per l’affermazione dei personaggi della fabula (dietro i quali ci sono naturalmente gli autori della canzone e gli esecutori, oltre che i realizzatori del film). Un ruolo importante, come sappiamo, è giocato dall’ambiente teatrale, con i provini degli aspiranti artisti, le selezioni, le prove dello spettacolo, i più o meno tribolati debutti (a cominciare dal mitico fervorino di Forty-Second Street, Quarantaduesima Strada, 1933, di L. Bacon: «Tu esci come una sconosciuta ma rientrerai come un grande stella»). E se il mondo dello spettacolo si autocelebra volentieri (There’s No Business Like Show Business, That’s Entertainment) non sempre sono portati in scena i successi e i trionfi, come insegnano tanti film d’epoca, fino ad arrivare alle dure selezioni, che lasciano sul campo morti e feriti, di Fame (Saranno famosi, 1980) di Alan Parker, e di A Chorus Line (Id., 1985) di Richard Attenborough. Nelle celebrazioni rientrano i biopic sugli autori di canzoni: Till the Clouds Roll By (Nuvole passeggere, 1946) di R. Whore, su Jerome Kern; Night and Day (Notte e dì, 1946) di M. Curtiz, su Cole Porter; Words and Music (Parole e musica, 1948) di N. Taurog, su Richard Rodgers; Three Little Words (Tre piccole parole, 1950) di R. Thorpe, su Ruby e Kalmar, e quei film che costituiscono autentici monumenti, come Alexander’s Ragtime Band (La lunga strada bianca, 1938)

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di H. King nei riguardi di Irving Berlin, impresa che incornicia ben ventisei sue canzoni note più due composte per l’occasione. Altri film biografici riguardano Al Jolson (The Jolson Story, Al Jolson, 1946, di A.E. Green), i fratelli Dorsey (The Fabolous Dorseys, 1947, di A.W. Green), Glenn Miller (The Glenn Miller Story, La storia di Glenn Miller, 1954, di A. Mann), Benny Goodman (The Benny Goodman Story, Il re del jazz, 1956, di V. Davies). Diversi altri (a parte le biografie «drammatiche», in prosa insomma) sono dedicati a musicisti, cantanti, impresari. Gli argomenti, si sa, possono anche essere drammatici. Giustamente celebre l’elaborato «numero» Remember My Forgotten Man, musica di Harry Warren, che sullo schema di un blues dal ritmo marcato eleva un omaggio commosso ai reduci della prima guerra mondiale che si ritrovano nella morsa della disoccupazione (in Gold Diggers of 1933, La danza delle luci, di M. LeRoy). Ci sono anche i motivi che esaltano l’ottimismo del New Deal: forse il più rappresentativo è Stand Up And Cheer di Harry Akst dal film omonimo (Il trionfo della vita, 1934, di H. MacFadden), e quelli che esaltano i valori americani, la bandiera a stelle e strisce, le forze armate eccetera. In diversi casi però il canoro patriottismo è trattato sottogamba e più o meno elegantemente sbeffeggiato. In Footlight Parade (Viva le donne, 1933) di L. Bacon, il marinaio James Cagney compie evoluzioni militaresche ma come coreografico coronamento di un suo privatissimo tormentone (Shanghai Lil, musica di Harry Warren); in Follow the Fleet (Seguendo la flotta, 1936) di M. Sandrich, Fred Astaire a bordo di una nave da guerra dirige un’orchestrina che la vince sul fragore di una banda che esegue un inno della Marina (I’D Rather Lead A Band, di Irving Berlin). Sinatra, Crosby, Judy Garland, Kathryn Grayson, Deanna Durbin fanno a gara nei gorgheggi, ma le loro esecuzioni sono di solito cinematograficamente povere. Più mosse le esibizioni dei musicisti in erba (quelli di Babes in Arms, Piccoli attori, 1939, di B. Berkeley; di Young Peoples, Non siamo più bambini, 1940, di A. Dwan; di Babes on Broadway, I ragazzi di Broadway, 1941, di B. Berkeley; di Jive Junction, 1943, di E.G. Ulmer). Non è che si debba arrivare per forza a cantare mentre si nuota, si pattina e si gioca al baseball, o magari in situazioni estreme come te-

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nendosi in equilibrio sull’ala di un aereo in volo (come accade in Flying Down to Rio, Carioca, 1933, e in Star Spangled Rhythm, Signorine non guardate i marinai, 1942); ma nel campo di cui ci stiamo occupando l’azione ha il suo peso. Ne constatiamo la trionfale presenza in «numeri» – a proposito di mezzi di trasporto – come in quello tramviario Trolley Song di Hugh Martin in Meet Me in St.Louis (Incontriamoci a St.Louis, 1944) di V. Minnelli, o in quello ferroviario On the Atchinson, Topeka and Santa Fé di Harry Warren in Harvey Girls (Le ragazze di Harvey, 1946) di G. Sidney: grandioso concertato all’aperto, quest’ultimo, ripreso da ampi movimenti di gru. Nella musica in sé – nella struttura canonica della canzone – entrano continuamente gli elementi più vari: naturalmente il jazz, sia pure nell’accezione più vasta e più vaga. Seguendo l’esempio di Al Jolson, anche altri crooners bianchi si truccano da minstrel, come Bing Crosby in Holiday Inn (La taverna dell’allegria, 1942) di M. Sandrich, numero Abraham di Irving Berlin. Da notare però che Crosby non è solo il «fine dicitore» di pastose canzoni come White Christmas, compresa fra l’altro nel film appena citato, ma anche assertore convinto di una forma sia pure edulcorata di jazz, come dimostra in High Society (Alta società, 1956) di C. Walters, eseguendo in duetto con Louis Armstrong la canzone-dimostrazione Now You Has Jazz. Ben altra portata hanno i film all-negro come il già citato Hallelujah, Cabin in the Sky (Due cuori in cielo, 1943) di V. Minnelli e Stormy Weather (id., 1943) di A. Stone, zeppi di black music eseguita da artisti come Eddie «Rochester» Anderson, Ethel Waters, Lena Horne, Duke Ellington, «Cab» Calloway, Bill Robinson, «Fats» Waller. Ma non è indispensabile, come sappiamo, una distinzione fra bianchi e neri: eccellenti «numeri» eseguiti da jazzmen di colore sono presenti in molti film «bianchi» che prestano attenzione al jazz, come in Birth of the Blues (1941) di V. Schertzinger, e in New Orleans (La città del jazz, 1947) di A. Lubin. Quest’ultimo ha precisi meriti per diversi «numeri»: l’imperituro Basin Street Blues eseguito da Armstrong; Where The Blues Were Born in New Orleans con Armstrong che presenta uno per uno i musicisti impegnati nell’esecuzione: Charlie Beal al piano, Barney Bigard al clarinetto, Kid Ory al trombone, Bud Scott alla chitarra, «Red» Callender al contrabbasso e

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«Zutty» Singleton alla batteria; e soprattutto lo straziante Farewell To Storyville, lo storico quartiere a luci rosse culla del dixie che i musicisti sono costretti ad abbandonare per un’ordinanza della polizia: un blues il cui titolo esatto è Do You Know What It Means To Miss New Orleans, eseguito all’interno di un locale da Billie Holiday e poi in strada da lei e da tutta la band di Armstrong. Ci sono anche spunti comici, come quando il musicista «classico» interpretato da Arturo De Cordova mostra ad Armstrong uno spartito di Chopin e «Satchmo» osserva: «Ma non le danno fastidio tutte quelle bandierine sulle righe quando suona?» (versione purgata della frase attribuita ad Armstrong nella realtà, quando mostrò il suo fastidio per quelle «cacche di mosca» che infestavano il pentagramma). Jazz vs musica classica Jazz vs musica classica – per ridere un po’ alle spalle dell’uno e dell’altra – è al centro di A Song is born (Venere e il professore, 1948, di H. Hawks), dove Virginia Mayo converte alla musica leggera i severi musicologi di una Fondazione incaricata di compilare una nuova storia della musica. Ecco allora che due neri pulitori di vetri – in realtà sono i fantasisti Buck & Bubbles – vengono a sapere dai «professori» dell’esistenza di un certo Bach e, sul tema corrispondente alle lettere B.A.C.H., improvvisano al piano un Bach Boogie, facendolo seguire da una versione parimenti jazzizzata della Danza di Anitra dal Peer Gynt di Grieg, accompagnata sul clarino da un dapprima sconcertato poi incuriosito Benny Goodman nei panni del teutonico «professor Magenbruch». È Virginia Mayo a far eseguire ai musicologi brani d’opera su parole prese dai giornali (Longhair Jam Session); ma con serioso impegno Danny Kaye registra una lezione sulla nascita della musica (A Song Is Born, di Gene De Paul), con l’aiuto di personaggi come Mel Powell al piano, Louis Armstrong alla tromba, Benny Goodman al clarinetto, Tommy Dorsey al trombone, Charlie Barnet al sax, Lionel Hampton al vibrafono, il Page Cavanagh Trio e il Golden Gate Quartet (quest’ultimo poi responsabile di una sensazionale esecuzione di Battle of Jericho). Da notare che Goodman in Sweet and Low Down (che non è il film recente di

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Woody Allen ma un musical del 1944, di A. Mayo) suonava accompagnato dagli archi il Quintetto con clarinetto di Mozart. Il motivo della «guerra» del jazz contro la musica classica è presente in diverse pellicole. In The Goldwyn Follies (Follie di Hollywood,1938) di G. Marshall, c’è un balletto con musica di Gershwin che inscena la rivalità fra un Romeo partigiano del jazz e una Giulietta appassionata di musica classica, conclusa da un accordo tra le due «fazioni». In Let’s Make Music (1941, di L. Goodwins) una classe di musica in cui insegna Bob Crosby decide che Bach, Beethoven e Brahms vanno bene, ma che il boogie va meglio. In Hit the Hay (1946, di Del Lord) una cantante d’opera per vendicarsi di chi specula sulle sue «coloriture» esegue una versione parodistica, e jazzizzata, del rossiniano Guglielmo Tell (numero Tillie Tell). Non si contano i «numeri», sparsi qua e là, con titoli eloquenti: Beethoven, Mendelssohn & Liszt; Swing, Mr. Mendelssohn, Swing; Then I Wrote the Menuet in G (complice involontario Beethoven), A Fifth of Beethoven, Roll over Beethoven, The Ghost of Mr. Chopin, I Like Opera, I Like Swing (numero del citato Babes in Arms in cui Betty Jaynes canta arie d’opera – affidate negli originali a voci maschili! – mentre Judy Garland l’accompagna con un contrappunto jazz e Mickey Rooney pizzica il violoncello come fosse un contrabbasso). Film come Carnegie Hall (Sinfonie eterne, 1947, di E.G. Ulmer) e Of Men and Music (Musica cuore del mondo, 1951, di I. Reis e A. Hammid) sono concert features, ossia contenitori di musica classica: il primo con la New York Philarmonic diretta da Bruno Walter e da Arthur Rodinski e la Philarmonic Symphony Orchestra diretta da Stokowski; il secondo con la Philarmonic diretta da Dimitri Mitropoulos ed exploits di Rubinstein e Heifetz. E Otto Preminger realizza nel 1954 una vivace versione jazzizzata e all-negro della Carmen (Carmen Jones) e nel 1959 una fedele trasposizione della gershwiniana Porgy and Bess. Curiose sono le opere finte (istituzione che Welles sublimerà in Citizen Kane, come noto): troviamo una immaginaria Czaritza su temi della Quinta sinfonia di Ciaikovskij in Maytime (Primavera, 1937, di R.Z. Leonard); una Princess ancora su motivi ciaikovskiani in That Midnight Kiss (Il bacio di mezzanotte, 1949, di N. Taurog); un’opera innominata su melodie di Mendelssohn e di

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Liszt in Two Sisters from Boston (Due sorelle di Boston, 1946, di H. Koster). Un atteggiamento estremamente disinvolto, tipico di una cultura senza soggezioni, domina gran parte di questo universo visto dagli Stati Uniti (nei musicals, ma non soltanto). Il numero A Pretty Girl is Like a Melody di The Great Ziegfeld (Il paradiso della fanciulle, 1936, di R.Z. Leonard) accoglie brani dall’Humoresque n.7 di Dvorak, Un bel dì vedremo, il Sogno d’amore di Liszt, Ridi pagliaccio e altro ancora; una singolare versione della ponchielliana Danza delle ore si ascolta in Born to Dance (Nata per danzare, 1936, di R. DelRuth); il quartetto del Rigoletto in Love me forever (Sulle ali della canzone, 1936, di V. Schertzinger) diventa un coro e in Everybody sing (Viva l’allegria, 1938, di E.L. Marin) Judy Garland lo canta da sola. Il sestetto della Lucia diventa un terzetto (cantato da Shirley Temple, Guy Kibbee e Slim Summerville!) in Captain January (Capitan Gennaio, 1936, di D. Butler). In That Night with You (Stanotte ti ho sognato, 1945, di W.A. Seiter) la baritonale cavatina Largo al factotum della città è eseguita in versione femminile in un salone di bellezza. In Holiday in Mexico (Vacanze al Messico, 1946, di G. Sidney) il Liebestod del Tristano e Isotta è presentato in una versione per due pianoforti. In Because You Are Mine (Da quando sei mia, 1952, di A. Hall) Mario Lanza canta la canzone The Song Angelo Sing basata sul 3° movimento della Terza Sinfonia di Brahms. Divertente è ascoltare Frank Sinatra che in Anchors Aweigh (Due marinai e una ragazza, 1945, di G. Sidney) canta un lied di Brahms e in It Happened in Brooklyn (Accadde a Brooklyn, 1947, di R. Thorpe), in duetto con Kathryn Grayson, Là ci darem la mano dal Don Giovanni. Sono cose da accogliere con senso dell’umorismo, non è il caso di scagliare maledizioni o di invocare, come fa Reginald Gardner con la voce di Mario Berini in A Damsel in Distress (La magnifica avventura, 1937, di G. Stevens), Ah, che a voi perdoni Iddio…(dalla Marta di Flotow). La presenza dei «classici» nelle colonne sonore dei musicals è foltissima, sia in citazioni sussiegose (come nei film con voci famose della scena lirica come Lawrence Tibbett, Ezio Pinza, Grace Moore, Lily Pons, Lauritz Melchior e personaggi anfibi come Nino Martini, Mario Lanza, Jeanette MacDonald, Kathryn Grayson, Deanna Dur-

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bin), sia – anzi soprattutto – come occasione burlesca. Si prestano al gioco Leopold Stokowski (specialmente in One Hundred Men and a Girl, Cento uomini e una ragazza, 1937, di H. Koster), José Iturbi (che in Anchors Aweigh, Due marinai e una ragazza, 1945, di G. Sidney, suona la Seconda Rapsodia Ungherese di Liszt insieme ad un esercito di pianisti-ragazzini all’Hollywood Bowl), Jascha Heifetz, Arthur Rubinstein, Valentino Liberace. Un posto a sé merita Oscar Levant, concertista e compositore (è stato allievo di Schönberg), che dimostra irresistibili doti di commediante passando da esecuzioni compunte (come quella del Concerto per piano n.1 di Ciaikovskij in The Barclays of Broadway, I Barclay di Broadway, 1949, di C. Walters) a buffonerie musicali di alto livello. Come, in An American in Paris (Un americano a Parigi, 1951, di V. Minnelli) l’esecuzione immaginaria in chiave di megalomania del Concerto in fa di Gershwin: egli è contemporaneamente al piano, alla direzione d’orchestra, in buca a suonare tutti gli strumenti e in un palco, ad applaudirsi. Cantare «en plein air» A proposito di umorismo in musica si potrebbero fare molti esempi. Cito soltanto una spassosa esecuzione di Il bacio di Arditi da parte di Charlotte Arren, fantasista dal corpo disarticolato, in Broadway Melody of 1940 (Balla con me, 1940, di N. Taurog); una esibizione disastrosa di Fred Astaire alla tromba nel complesso di Artie Shaw – in Second Chorus (Follie del jazz, 1940, di H.C. Potter, che l’anno dopo dirigerà l’elettrizzante Hellzapoppin’) – dovuta al fatto che il suo rivale in amore Burgess Meredith ha aggiunto note estranee al suo spartito; la canzone-scioglilingua Moses, di Singing in the Rain (Cantando sotto la pioggia, 1952, di G. Kelly e S. Donen), derivata dalla filastrocca senza senso di un maestro di dizione: Moses supposes his toeses are roses. But Moses supposes erroneosly. Moses he knowses his toeses aren’t roses. As Moses supposes his toeses to be.

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I versi (inutile tradurli, sono puro suono senza senso) sono proposti da Gene Kelly e Donald O’Connor dapprima con «voce impostata in una forma che è a metà fra la litania e l’opera lirica», poi acquistano nuova velocità e nuovi ritmi per sfociare in una indiavolata performance vocale e gestuale. Ne sono autori, a pari merito, il musicista Roger Edens e i parolieri Betty Comden-Adolph Green, ma tutti i «numeri» di questo film appaiono straordinari e qualificanti, come afferma Franco La Polla nel volume ad esso dedicato12. Forse il massimo delle burle musicali è da cercare nella demolizione dell’opera lirica attuata dai fratelli Marx in A Night at the Opera (Una notte all’opera, 1935, di S. Wood), vittima il Verdi del Trovatore, e appare particolarmente significativo l’invito generale a buffoneggiare che si trova nel celebre finale di The Pirate (Il pirata, 1948, di V. Minnelli), in cui Gene Kelly e Judy Garland, vestiti da pagliacci, scandiscono in ritmi accentuati e perentori (versi e musica di Cole Porter): All the world loves a clown Act che fool, play the calf Be a clown, be a clown And you’ll always have the last laugh13.

I due portano alle estreme conseguenze quel trionfo dell’inganno che è la «filosofia» dell’intero film e gridano al mondo intero che è questo l’unico modo per esistere autenticamente, perché la rappresentazione è una rifrazione di quella più vasta finzione che è la vita. Come dire: tutto è finzione, e solo chi finge è vero, solo chi recita è vivo. È una posizione che domina l’intero «genere», in particolare a partire dalla svolta che si determina alla soglia degli anni Cinquanta. La decade è dominata, per quanto riguarda i musicals, dalla Metro Goldwin Mayer, e un ruolo rilevante lo giocano proprio i musicisti: «dal jazz alle citazioni classiche attraverso la pulsazione ritmica con 12 F. L A POLLA, Stanley Donen/Gene Kelly: Cantando sotto la pioggia, Lindau, Torino 1997, pp. 74-75. 13 «Tutti amano i pagliacci/ Fai il pazzo, fingi di essere uno sciocco/ Fai il pagliaccio / E l’ultima risata sarà tua».

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l’orchestra che sembra improvvisare, il registro delle commedie musicali della MGM deve molto al saperci fare dei suoi direttori e dei suoi orchestratori»14. Deus ex machina di tante imprese è Arthur Freed che, come già accennato, prima di essere produttore era stato autore di testi di canzoni. Una caratteristica nuova (relativamente, certo, in senso assoluto nil sub solem novum) è l’uscita dal chiuso dei locali adibiti a spettacolo all’aria aperta. Invece del palcoscenico e delle architetture sceniche si sfruttano le strade, i passanti, i porti, la pioggia, i venditori ambulanti, l’ingresso dei cinematografi, i marciapiedi. Ma questa «realtà» sottolinea il fantastico. Da un lato i numeri musicali non si presentano più come episodi di uno show ma come momenti surrogatori della realtà; dall’altro i film, soprattutto quelli della Metro, propongono al meglio il grande tema dello spettacolo che si osserva nel suo farsi e si «riproduce»: «the world is a stage, the stage is a world of entertainment», come conclude That’s Entertainment di Arthur Schwartz, la canzone-bandiera di The Band Wagon (Spettacolo di varietà, 1952, di Minnelli). Il cinema si guarda allo specchio, riflettendo sulla sua natura e ironizzando sulla sua debolezza, assumendola al tempo stesso, fieramente, come la sua forza. Questa impostazione risulta chiara soprattutto nell’allure che assumono le musiche: qui, in particolare, esse servono a motivare situazioni, non solo ad accompagnarle. Non momenti magici separati dalla vita poiché in questi film si propone una continuità autentica tra la vita quotidiana e la musica, l’immagine di un mondo pieno di pretesti per cantare e di inviti alla danza […]. In termini brutali, c’è un tipo di musical che immette sfacciatamente musica dove non ce n’è, compensandoci totalmente della squallida mancanza di musica nelle nostre attività quotidiane. L’altro tipo suggerisce che la musica è dappertutto, disseminata intorno a noi, se appena ci pigliamo la briga di guardare e ascoltare15.

14 A. L ACOMBE, C. ROCLE, De Broadway à Hollywood. L’Amérique et sa comédie musicale, Cinéma-ETC, Paris 1981, p. 85. 15 M. WOOD, America in the Movies, Basic Books, New York, 1975; trad. it. L’America e il cinema, Garzanti, Milano 1979, p. 136.

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Gli esempi sarebbero tanti. L’annuncio del trionfo del plein air c’è già nel citato Anchors Aweigh; ma pensiamo soprattutto alla canzone del gruista del porto di New York, all’alba (I Feel Like I’m Not Out of Bed Yet, musica di Leonard Bernstein, parole di Betty Comden e Adolph Green) in On the Town (Un giorno a New York, 1949, di G. Kelly e S. Donen: film che, nonostante i luoghi veri della metropoli, è il trionfo scoperto della messinscena). Pensiamo al «numero» (You Were Meant For Me) in cui Gene Kelly, nel citato Singing in the Rain, dichiara il suo amore a Debbie Reynolds in uno «studio» cinematografico deserto, aiutandosi con i trucchi che contribuiscono a creare un film; alle contaminazioni fra la rivista e Shakespeare, fra jazz e canzone, fra omaggio e burla di Kiss me, Kate! (Baciami, Kate!, 1953, di G. Sidney), storia di una compagnia di attori che nei panni di guitti italiani dei secoli scorsi mettono in scena una commedia musicale ispirata a La bisbetica domata le cui circostanze trovano riscontro nella vita privata dei protagonisti, i canterini Howard Keel e Kathryn Grayson. Qui Cole Porter (che per aggiungere un altro elemento alla vertigine degli incastri, entra in scena a presentare la vicenda, sia pure rappresentato da un attore) supera se stesso con un grappolo di canzoni entusiasmanti che si dovrebbero prendere in esame ad una ad una. Le nuove pulsioni Ma occorre procedere per sintesi. Accanto al persistere di musiche vecchiotte come quelle per Brigadoon (id., 1954, di V. Minnelli) e per i fastosi musicals all’antica come Oklahoma, Carousel, Il re e io, Gigi, South Pacific, Camelot, ecco soluzioni con sapore di nuovo, che adottano soluzioni spregiudicate e moderne, tenendo conto delle lezioni di un Bernstein e di un Kurt Weill (che, come noto, fu attivo per le scene di Broadway e in alcune partiture originali per lo schermo fuse la sua formazione europea con la musica leggera americana); e delle nuove tendenze accolte da musicisti come Cy Coleman, Stephen Schwartz, Richard O’Brien ed altri attivi solo occasionalmente per il musical come André Previn, Elmer Bernstein, Marvin Hamlisch.

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Le conseguenze sono: meno potere assoluto alla melodia, più attenzione al giro armonico e dominio di un ritmo spesso modernamente sincopato, fratto e puntuto. Come si rileva nei «numeri» di Guys and Dolls (Bulli e pupe, 1954, di J. Mankiewicz, canzoni di Frank Loesser, alcune delle quali – le meno interessanti perché vieux jeu e dolciastre, cantate da Marlon Brando, che usa proprio la sua voce – la sua vocetta, per meglio dire); di Les girls (id., 1957, di G. Cukor, con le angolose canzoni di Cole Porter); di The Pijama Game (Il gioco del pigiama, 1958, di G. Abbott e S. Donen, con canzoni di Jerry Ross – parole di Richard Adler – fra cui una che mette in musica una questione sindacale, la lotta di confezionatrici di pigiami per ottenere un aumento della paga di Seven and a Half Cents – così si intitola la canzone); di Let’s Make Love (Facciamo l’amore, 1960, di G. Cukor), in cui Marilyn Monroe rinverdisce con verve maliziosa la famosa canzone di Porter, My Heart Belongs to Daddy, con Yves Montand che va a lezione di canto da Bing Crosby e sbertuccia involontariamente il sentimentalismo delle canzoni tradizionali (esecuzioni in diversi contesti di Incurable Romantic, ancora di Porter). Il musical, a questo punto, si è imbastardito, si è mescolato ad altri «generi», perdendo le caratteristiche tipiche del periodo «classico». E la musica è cambiata. La partitura di un film come West Side Story (id., 1961, di R. Wise e J. Robbins), di Leonard Bernstein – versi di Stephen Sondheim – ha uno spessore notevolissimo e si situa ai vertici del «nuovo musical». Ci sono anche le canzoni sentimentali (Maria, Together), ma dominano la ritmica durissima dei ragazzi di strada (il Prologo e la Jet Song); quella pulsante del «numero» dei portoricani (America) in cui la ripetuta accentazione sulla terra che ospita gli immigrati è omaggio e dileggio ad un tempo: I like to be in America Okay by me in America Everything free in America For a small fee in America…16

16 «Mi piace essere in America/ Son riuscito a venire in America/ Tutto è libero in America e il salario è piccolo in America».

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Notevoli anche la ritmica disarticolata, influenzata dalla musica giovanile, del sarcastico indirizzo dei ragazzi delle bande ai poliziotti (Gee Officer Krupke); e lo stupefacente coretto sussurrato (Cool) in cui i ragazzi più maturi spingono gli scalmanati a darsi una calmata. È il «numero» musicalmente più originale: Boy, boy, crazy boy, get cool, boy Got a rocket, in your pocket Keep cooly cool, boy! Don’t get hot, ‘cause man you go Some high times ahead. Take it slow, and Daddy-o You can live it up and die in bed...17

I temi drammatici, il dolore, i problemi del lavoro, sono entrati a far parte stabilmente dell’universo apparentemente spensierato del musical. E i motivi di nuove generazioni, che impongono i loro gusti, le loro abitudini, i loro modelli. Nasce l’era del rock. Come una volta gli esiti dei film condizionavano la vendita degli spartiti delle canzoni (riduzioni per canto e pianoforte, per chitarra, per violino, ecc.), così ora tali esiti condizionano il commercio dei dischi. L’industria del pop e del rock è d’altronde più potente di quella cinematografica. Un film drammatico del 1955 (The Blackboard Jungle, Il seme della violenza, di R. Brooks) comincia con uno squillo di guerra, Rock Around The Clock di Bill Haley: tutto il cinema a venire ne sarà condizionato, compresi i musicals. Una dimensione ormai slabbrata, che va dai film canterini con Elvis Presley alle opere-rock originali o importate dall’Inghilterra, dalle commemorazioni (The Boyfriend) alle sconsacrazioni (Rocky Horror Picture Show, The Blues Brothers), dalle esaltazioni neo-religiose (Godspell, Jesus Christ Superstar) ai disperati ritorni di fiamma (Dancing in the Dark). Ma ormai il musical non è più neanche americano, si è «sciolto» in produzioni di diverso tipo e di diversa origine, perdendo i suoi connotati tipici. 17 «Ragazzo, folle ragazzo, stai calmo/ Hai i fulmini in tasca/ Ma sta’ calmo/ Non scaldarti/ Solo così potrai diventare vecchio/ e morire nel tuo letto».

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PRIMA

LA MUSICA, POI LE PAROLE

Morte del musical? Qualcuno vede in questo tipo di spettacolo una metafora luttuosa. Il fallimento e la morte entrano di sicuro, nel musical moderno. In Love Me or Leave Me (Amami o lasciami, 1955, di C. Vidor) le canzoni (di diversi autori) sono come stazioni di un calvario; in It’s Always Fair Weather (È sempre bel tempo, 1955, di G. Kelly e S. Donen) le canzoni, di André Previn o da lui arrangiate e dirette, sono all’insegna di una disperata nostalgia (Once Upon the Time) o di una amara impossibilità a coronare i propri sogni («numero» Why Are We Here, in cui sull’aria del Danubio blu tre ex-commilitoni esprimono i loro pensieri più riposti, che sono di insofferenza reciproca). The Sound of Music (Tutti insieme appassionatamente, 1965, di R. Wise), nonostante il romanticismo dei «numeri» musicali di Richard Rodgers (ma quello che dà il titolo originale al film è una vera e propria lezione propedeutica sulla musica), accoglie motivi pertinenti a tragedie collettive. Come accade anche in Cabaret (id., 1972, di B. Fosse) le cui canzoni, di Joe Kander e Fred Ebb, ci riportano ad una livida realtà storica. Bye Bye Happiness? Drammatici sono anche, di Bob Fosse, Sweet Charity (id., 1969), che propone in apertura un «numero» sensazionale di canto, come dire? sghembo, volutamente sgraziato, con le entraîneuses di un locale che adescano un cliente (Hey! Big Spender, musica di Cy Coleman, superbamente orchestrata da Ralph Burns) e All That Jazz (id., 1979), che per protagonista ha la Morte in persona (interpretata da Jessica Lange) e in cui si assiste al decesso del protagonista: Bye bye life, bye bye happiness, I think I gotta die18.

canta il protagonista con l’immaginazione in una ultima, lugubre ma fastosa messinscena mentre, in un lettino d’ospedale, muore davvero (la canzone è di Felice e Boudleux Bryant). Ma c’è di peggio della 18

«Addio vita, addio felicità/ Credo proprio che devo morire».

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morte fisica, c’è la morte delle illusioni. La morte del musical è nell’essere costretti a constatarne l’inutilità, a verificare che le canzoni dicono bugie. Come osserva Franco La Polla, che identifica la fine del musical con la fine del cinema tout court, «i sentimenti non ci sono più, restano le virgolette»19. Il film che, in questa ottica, costituisce la vera pietra tombale del musical è Pennies From Heaven (1981, di H. Ross). Le canzoni di Marvin Hamlisch e Billy May anziché accarezzare per il suo verso la tradizione canzonettistica del «genere» ne mette spietatamente in luce gli inganni; o, se vogliamo, ne mostra l’ambiguità. Nessuno ha citato questo film a proposito di Dancing in the Dark di Von Trier, che lo richiama nettamente: il fatto è che Pennies From Heaven non è mai arrivato in Italia, lo hanno visto in pochi, di notte, in un fugace passaggio televisivo. Arthur, il protagonista, compositore di musica leggera costretto per sopravvivere a fare il venditore in un negozio di dischi, rimprovera sua moglie di non capire la realtà perché nell’ascoltare le canzoni non bada mai alle loro parole («Le canzoni dicono la verità»), ed immagina continue situazioni fantastiche come rivalsa alla sua misera esistenza. «Un piccolo capitale e un po’ d’affetto, questo serve all’America», canta, ma la moglie, che si accorge di essere tradita da lui, sogna di ucciderlo con un paio di forbici. Chi muore davvero è una ragazza cieca, che il protagonista aveva cercato senza successo di corteggiare, trovata violentata e uccisa. Non lo si dice mai apertamente, ma forse è proprio Arthur l’assassino. Questi si mette insieme a una maestrina e poi l’abbandona; e lei, che ha avuto un bambino da lui, si mette a battere il marciapiede. Quando Arthur lo viene a sapere è disperato: «Voglio vivere dove le canzoni si avverano, ci deve essere un posto dove le canzoni si avverano!»; ma è lui il primo a non crederci perché prima di sparire insieme alla maestrina, con cui si è rimesso, spacca tutti i dischi del suo negozio (ma Pennies From Heaven «no, quello no!» – dice Arthur). E con questa compagna va al cinema, vede Follow the Fleet, sale sul palcoscenico e, davanti allo schermo, «doppia» insieme con la donna Fred Astaire e Ginger Rogers nella scena dello sventato suicidio (Let’s Face the Music and Dance), poi si sostituiscono ai due attori entrando dentro lo schermo. È una creazione della fantasia, natural19

Cfr. F. L A POLLA, I sentimenti in virgolette, in «Cinema e Cinema», n. 22/23.

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PRIMA

LA MUSICA, POI LE PAROLE

mente: e quando Arthur esce dalla sala esclama: «Esco dal cinema e tutto cambia!». Fuori piove. La sua compagna osserva: «Non importa!» e accenna Singing in the Rain. Ma il mattino seguente lui è arrestato dalla polizia come responsabile dell’assassinio della ragazza cieca. Lo aspetta l’impiccagione, con una chiosa apparentemente consolatoria: «Una canzone non può finire così». Ma è proprio così, tragicamente, che tutto finisce. No, non è sempre bel tempo, né è sempre possibile cantare gioiosamente sotto la pioggia. È la musica che ci culla e ci illude, ma è ancora lei che ritma i nostri incubi, martellendoci le tempie e non più (e non solo) facendoci battere il cuore. È soprattutto, la musica del musical, quella cosa che distrugge ogni differenza tra elemento diegetico ed elemento extra-diegetico, fra citazione ed espressione, realtà e immaginazione. La musica s’infiltra nella pista diegetica, i rumori della diegesi si trasformano in musica. Questa interpretazione è il cuore dello stile caratteristico della commedia musicale americana. Abbattendo la barriera tra le due piste, la commedia musicale infrange il confine tra la realtà e l’ideale20.

E nei riguardi di ciò che vediamo sullo schermo è la musica a imporsi sull’immagine, anzi a capovolgere il rapporto sonoro-immagine: mentre di solito è l’immagine a dominare e il sonoro è funzionale solo in quanto apporta un sovrappiù di vero, nel musical sembra accadere l’esatto contrario: il sonoro diventa il vero e proprio elemento linguistico portante e l’immagine si sottomette ad esso da un punto di vista tanto di composizione quanto di montaggio tra le diverse immagini21.

Basilare è un fatto, comune a tutte le situazioni in cui la musica si trova ad accompagnare azioni e parole: che i suoni trasformano magicamente ciò che si dice e ciò che si fa. Diceva Baudelaire: «Quan-

R. ALTMAN, La Comédie musicale hollywoodienne, A. Colin, Paris 1992, p. 79. R. EUGENI, Il musical o l’arte delle maniglie. Percorsi d’analisi nei paraggi del musical, in «Il Musical ieri e oggi», Cinecircoli Giovanili Socioculturali, Roma 1992, p. 67. 20

21

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do una cosa è troppo stupida per essere detta, si può sempre cantarla». Non necessariamente tutto ciò che la realtà ci offre appartiene alla stupidità, ma di sicuro troppo spesso appartiene inesorabilmente alla banalità. Di cui la musica e il canto, elementi del Sublime, sono la fiera negazione.

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FILMARE LA DANZA, DANZARE IL FILM di ELISA GUZZO VACCARINO

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Per dare conto di come la danza, e quale tipo di danza, entri nel cinema musicale americano, non è inutile una breve premessa sul ruolo e sulla tipologia dei balli, negli Stati Uniti, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Non è corrente, all’epoca, in America la stessa concezione gerarchica nel tracciare una scala di valori culturali che, in Europa, distingue tra l’arte del balletto e lo spettacolo di varietà, tra nobile svago e intrattenimento popolare. Per divertire il pubblico, in una stessa serata, si possono esibire nei teatri polivalenti d’oltreoceano cani ammaestrati e ballerine sulle punte, ventriloqui e finti danzatori neri che ondulano nel cake walk. Nascerà, non a caso, in questo contesto la danza libero-moderna di Isadora Duncan, che necessita delle sue patenti di nobiltà – e si dota perciò di un retroterra spirituale nelle teorie di François Delsarte1 – per una forma di arte del corpo destinata a fruitori di ceti sociali acculturati o da acculturare, come avverrà nella Russia rivoluzionaria, e ordinata su musiche di alto profilo. Arte eletta, dunque, per gente eletta. Inoltre, se da una parte l’ideologia puritana dei pionieri bianchi protestanti guarda alla danza come pratica potenzialmente corruttrice, in cui si agitano le ragazze dei saloon con i loro simil-can can, quando non si tratti invece delle innocenti, controllate, square dance nelle feste comandate, d’altro canto ogni etnia che raggiunge la 1 Per il ruolo, in America e nelle elaborazioni performative di Isadora Duncan, delle teorie di François Delsarte rispetto a una nuova visione del corpo, come strumento fisico-etico e veicolo dello spirito per cantanti, attori, ballerini, vedi A. DALY, Done into Dance. Isadora Duncan in America, Indiana University Press, Bloomington, Indianapolis 1995, pp. 123-124.

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ELISA GUZZO VACCARINO

nuova frontiera americana porta con sé tradizioni e costumi, dalla canzone italiana alle danze ebraiche ed est-europee, senza contare la cultura ritmica e coreutica dei neri, arrivati come schiavi, che hanno offerto – e continuano a farlo – all’America la sua pulsazione più viscerale e distintiva. E se il perennemente auspicato melting pot americano, in cui avrebbero dovuto armonizzarsi tutte queste componenti, non è riuscito ad altro che a mettere in contatto/contrasto le differenti popolazioni lì confluite – in termini di musical, basta pensare a West Side Story del 1961, con le sue sanguinose faide tra portoricani e bianchi – sarà proprio il musical ad assorbire ed elaborare spettacolarmente per tutti i cittadini degli USA, in un genere misto unificante, il cinema degli esuli ebrei, i modi dell’operetta viennese – come non pensare al Lubitsch di Monte Carlo del 1930 e di The Merry Widow del 1934? –, il melodramma italiano2, il tip tap dei neri (dal mitico Bill Bojangles Robinson ai fratelli Nicholas fino all’odierno hip hop di Savion Glover), e infine anche il balletto classico, contaminato dalle forme della danza modern jazz e dal folk, country e western. E qui è d’obbligo citare di nuovo West Side Story con le coreografie di Jerome Robbins3, ovvero Rabinovich, figlio di immigrati russi, abile miscelatore di passi accademici e disassamenti sincopati. Ma si potrebbe citare anche una – singolare nell’ottica della tradizione del teatro musicale al di qua dell’oceano – opera lirica/musical come Street Scene (1946) di Bertolt Brecht e Kurt Weill (il quale Weill non disdegnò affatto di lavorare per Broadway e per Hollywod, una volta «esiliato» in America) che presenta appunto tutto il campionario dei nuovi venuti, dal tedesco ebreo marxista all’italoamericano passionale, e che comprende, ovviamente e necessariamente, anche una coppia di ballerini in un duetto jazzoso, funzionale all’azione. Non è necessario ricordare qui la storiella ebraica della scoperta del cinema come unico negozio in cui si paga per comprare la merce prima di vederla, ma certo le grandi case di produzione, che 2

66, 83.

Cfr. J.-L. BOURGET, Le mélodrame hollywoodien, Stock, Paris 1985, pp. 12, 14 e

3 Cfr. C. CONRAD, Jerome Robbins, That Broadway Man, Booth-Clibborn Editions, London 2000.

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FILMARE

LA DANZA, DANZARE IL FILM

daranno vita alla saga del musical americano, devono molto all’intraprendenza e al talento per l’arte del business che si auto-riconosce appunto, anche negli sketch dello stesso teatro leggero yiddish, ai commercianti ebrei. Gli anni Trenta del Novecento, del resto, sono quelli del cinema come forma di intrattenimento economico, alla portata di tutti, il ben noto «un sogno per dieci cents», sogno necessario a risollevare almeno il morale dai rovesci della grande crisi successiva al crollo del 1929. Venendo ai film musicali con danza, ingrediente ideale per movimentare l’immagine, con canzoni, componente ideale per smuovere il sentimento, e con racconto, come plot per sognare, proprio gli anni Trenta portano il segno del genio, più che coreografico, «scenografico mobile» di Busby Berkeley (Enos William), figlio di un regista e di un’attrice, senza alcuna formazione di danza, ma con qualche esperienza di coordinamento delle manovre sotto le armi4 (1929), chiamato a Hollywood da Broadway per allestire i «numeri musicali» – così si chiamarono a lungo, essendo inopportuna la parola danza, trattandosi di genere «inferiore» e/o suscettibile di puritane censure – di Whoopee di Eddie Cantor. È l’anno in cui nelle sale si vede la versione filmica dell’Opera da tre soldi di Brecht-Weill con Lotte Lenya. Ed è anche l’epoca di Maurice Chevalier, cioé dello chic francese a Hollywood (Love Me Tonight, 1932)5, per insistere sulla molteplicità di apporti diversi, che scorrono nel grande fiume-musical. La gloria Berkeley, nuovo re della pellicola, la conquista nel 1933, con Gold Diggers of 1933 (La danza delle luci) di Mervyn LeRoy, 42nd Street e Footlight Parade, entrambi di Lloyd Bacon: tre film sul mondo dello show, pieni di humor e di battute mordaci, in quel backstage/dietro le quinte che nutre più di ogni altro ambien4 Cfr. A. MORSIANI (a cura di), Il grande Busby. Il cinema di Busby Berkeley, ARCI, Modena 1983. 5 Negli anni Cinquanta lo chic francese a Hollywood sarà poi nelle mani di Roland Petit, che collabora in veste di coreografo dallo charme piccante e sensuale a film come Hans Christian Andersen di Charles Vidor con la sua Musa e moglie Zizi Jeanmaire, Daddy Long Legs di Jean Negulesco, con la coppia Fred Astaire-Leslie Caron, The Glass Slipper di Charles Walters ancora con la Caron, Anything goes (Quadriglia d’amore) di Robert Lewis, ancora con la Jeanmaire.

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te/mondo di storie – all’insegna del solito «ce la faremo, nonostante tutto» – le sceneggiature dei film musicali. Berkeley realizzò, a quel tempo, ciò che la videodanza d’autore dei coreografi contemporanei, specie negli anni Ottanta del secolo scorso, avrebbe teorizzato e agito: coreografare con la cinepresa, movendo la camera prima ancora che le persone, ordinate per altro in architetture precise, in sincroni perfetti, in passerelle geometricamente scandite. Ponti mobili, pianoforti, pile di dollari in oro, «torte» girevoli a più piani, scale, diritte o ellittiche, piscine (per Esther Williams) e fontane, gru per riprese ascensionali, allargando la visuale dal dettaglio, al primo piano, al totale, e soprattutto simil-danzatrici, trattate anch’esse come componenti del disegno generale di un magico habitat luccicante. Tutto, per Berkeley, è movimentato per ottenere l’effetto favola, con la glorificazione delle bellezze americane, le più splendide ragazze, a dozzine, allenate a sfilare ordinate come soldatini (una modalità di impiego ben presente anche sulla sponda europea, dalla Parigi delle Folies Bergère a Londra con le Tiller Girls6, che saranno un’attrazione molto popolare delle Ziegfeld Follies USA nei primi anni Venti, alla Russia, con le coreografie per Chorus line di Kas’jan Golejzovskij7, innovatore moscovita che negli anni Trenta lavora nella rivista, e con le ragazze di Gertrude Hoffmann (ex danzatrice dei Ballets Russes, che opera a Broadway8 incrociando sincroni perfetti e danza libera alla Isadora Duncan), che potranno volare verso il successo o scendere all’inferno; dipenderà da loro, come poi si vedrà in un epocale film del 1941, Le fanciulle delle follie, quelle cioè sempre di Ziegfeld9, il Sergej Diaghilev dell’intrattenimento, perennemente a caccia di carne fresca. A questo saper prendere in mano il proprio destino, a seconda di ciò che si vuole, si allude con battute rapide, dirette, auto-ironi6 W. JANSEN, Glanzrevuen der Zwanziger Jahre, Edition Hentrich, Berlin 1987, pp. 121-127; I. DRIVER, A Century of Dance, Hamlyn, London 2000, pp. 44, 47. 7 D. GAVRILOVICH, Kas’jan Golejzovskij, in S. CARANDINI, E. VACCARINO (a cura di), La generazione danzante, Di Giacomo, Roma 1997, pp. 213, 247. 8 Ivi, p. 95. 9 Cfr. R. CARTER, Ziegfeld, The Time of his Life, Bernard Press, London 1974; R e P. ZIEGFELD, The Ziegfeld Touch, Harry N. Abrams Inc. Publishers, New York 1993.

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FILMARE

LA DANZA, DANZARE IL FILM

che, tipiche di una nuova società democratica e auto-critica. E se qui si tratta di frecciate prosaiche, ai film di sapore latino saranno riservate le allusioni erotiche più esplicite, condite di rumba e ritmi caraibici. È il caso delle pellicole con Carmen Miranda10, senza dimenticare che la peccaminosa Rita Hayworth, l’«atomica» era in realtà la ispanica Margarita Carmen Cansino. Ma non si può non sottolineare che, mentre Berkeley tratteggia scene di vita americana nelle sale da ballo, dove si «ricama» il tip tap, nelle serate al club di lusso o nella frenesia di strade affollate di uomini sandwich e di gente che cammina come una schiera di automi (si veda il numero Lullaby of Broadway in Gold Diggers of 1935), in Europa i Ballets Suédois, massima punta dell’avanguardia insieme e in rivalità con i Ballets Russes, proponevano fin dal 1923 within the quota (cioé entro la quota di immigrazione spettante all’epoca a ogni etnia e categoria di aspiranti) di Jean Börlin, svedese, allievo di Mikhail Fokin – il riformatore del balletto russo – con musica di Cole Porter, dove erano schierati i personaggi tipici della vita metropolitana in America, e quindi anche del cinema USA (l’immigrante con il fagotto, la miliardaria in fiore, il puritano, il gentiluomo di colore, la pupa del jazz, il cow boy, la regina di tutti i cuori), per offrire la loro presenza moderna e appunto democratica, alternativa alla panoplia di Principi di sangue del balletto, a un bozzetto di vitalità e di intraprendenza, tipico del Nuovo Mondo. Come insegnava Jean Cocteau, autore nel 1917 con Satie, Picasso e Massine, di Parade, ideato nell’intento di portare la vita reale nel teatro di danza – con i suoi manager cubisti americano e francese e con la sua ragazzina altrettanto americana accanto al cinese, all’atleta e al cavallo – occorreva bere alle fonti innovatrici di quella che oggi chiameremmo «cultura bassa», popolare, comune, per trovare nuova linfa da infondere alle stanche membra del nobile, e decaduto in una condizione di ingessata sterilità, balletto accademico considerato oltreoceano una «extravaganza». Con la comparsa di Fred Astaire, e Ginger Rogers, la più ricorrente e più nota tra le sue partner (ma ci sono nella lista anche Cyd 10 Cfr. A. S. RIBEIRO, Carmen Miranda. L’immagine di un paese chiamato Brasile, in G. CELANT (a cura di), Brasil in Venezia, Biennale di Venezia 2001.

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ELISA GUZZO VACCARINO

Charisse in The Band Wagon del 1953 con la regia di Vincente Minnelli, Eleanor Powell, splendida «tapper», Rita Hayworth, in You’ll Never Get Rich del 1941, e Judy Garland, una sola volta, in Easter Parade del 1948), la coreografia e la drammaturgia del film musicale cambiano rotta. Fred Astaire11, nome d’arte di Frederick Austerlitz, allievo – per la danza accademica – del maestro milanese-cecchettiano12 Luigi Albertieri, comincia la sua ascesa facendo coppia con la sorella Adele (The Astairs si presentano anche a Broadway nel 1917 in Over the Top) in una lunga serie di musical teatrali di grande successo, che li portano a prender parte a Smiles di Ziegfeld nel 1930, una consacrazione nella massima officina del divertimento. La carriera cinematografica di Fred Astaire, il ballerino più galante e raffinato del teatro musicale sullo schermo, dalle lunghe linee swinganti e dal legato fluidissimo, inizia nel 1933 in Dancing Lady con Joan Crawford e Clark Gable (è da notare che le major impongono all’epoca a tutti i loro attori di punta di esercitarsi anche nel canto e nella danza): non proprio un successo, per la verità. Ma subito dopo in Flying Down to Rio del 1933, con la sua sequenza aerea, che vede le ballerine in piedi, legate sulle ali di un aeroplano, avviene il magico incontro appunto con Ginger (un nome dolce-acidulo-speziato che è tutto un programma) Rogers: tra loro l’happy end sarà sempre preceduto da baruffe, in cui lei mostra di non gradire le sue attenzioni, ma proprio attraverso la danza, linguaggio che va al di là delle schermaglie verbali e che supera ogni malinteso, Fred saprà ogni volta conquistarla, infondendole il suo stesso ritmo, avvolgendola nei suoi stessi passi. Qui la danza, in quanto tale, diventa ingrediente portante, essenziale – non più decorativo o in funzione di variante festosa – per lo sviluppo della storia, per il «romance», che deriva certo le sue modalità «rosa» dalle forme drammaturgiche dell’operetta europea. Cfr. B. GREEN, Fred Astaire, Hamlyn, London-New York- Sydney-Toronto 1979. Danzatore alla Scala e a San Pietroburgo, coreografo, maestro di pantomima e danza classica nei Teatri Imperiali e poi per la troupe di Diaghilev, a cui si deve un preciso metodo di insegnamento tuttora fruttuosamente applicato, specie dalla scuola inglese. 11

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FILMARE

LA DANZA, DANZARE IL FILM

Anche la cinepresa, con Astaire, lavora diversamente. Nel suo scrupolo assoluto, nel suo rispetto e amore per l’arte del «bel ballo», Astaire prova e riprova per settimane i suoi balletti, finché è pronto per girare un piano sequenza unico, senza interruzioni, per tentare di offrire – con la macchina da presa che segue fedelmente i ballerini – le stesse sensazioni della danza in teatro, e nella migliore prospettiva, quella delle poltrone di platea, al centro della sala. Se si ripensa al numero Cheek to Cheek in Top Hat del 1935, si ha l’immediata misura della preziosità del lavoro a monte per ottenere, come se fosse perfettamente spontanea, una morbida «naturalezza» impeccabile, lui perfettamente a suo agio in frac, sottintendendo uno chic di marca europea, lei, americanissima, con gonne ampie e svolazzanti in rotazione, spesso anche pesanti da indossare e di non poco ingombro per muovercisi agilmente; lui certo più abile di lei tecnicamente, ma capace di portarla in vetta accanto a sé, con tutto l’agio e la grazia divina del partner sicuro e affidabile: l’uomo, solido e allegro insieme, che ogni donna sogna. Raro che questo mito si incarni in un ballerino, ma Astaire ha compiuto il miracolo. Da sottolineare ancora due aspetti importanti: Astaire amava studiare su se stesso la forma da dare alla danza, perfezionando e limando ogni passo e legazione, per passare solo successivamente a insegnarla alla partner; quanto alle musiche, poi, vanno ricordate almeno le partiture create su misura da Berlin, Kern e Gershwin13. La cura di ogni componente dello spettacolo, per Astaire, doveva essere assoluta, per dare l’impressione allo spettatore di una «innata» eleganza, ottenuta senza alcuno sforzo apparente. Anche nei suoi film, comunque, si gioca spesso il gioco del backstage: Swing Time (Follie d’inverno, 1937) ad esempio, è costruito intorno a un ballerino dedito al gioco e a una maestra di ballo, dal nome chiaramente intenzionale di Penelope, che diventerà la sua partner, mentre in Shall We Dance del 1937, con i song di George e Ira Gershwin, Fred è un ballerino classico, ovviamente russo (i Ballets Russes di Diaghilev si erano sciolti nel 1929, ma il loro influsso restava e resterà fortissimo per tutto il Novecento) – Petrov – che corteggia una diva della commedia musicale. Qui entra in campo an13

Cfr. R. ALTMAN, La Comédie musicale hollywoodienne, Colin, Paris 1987, p. 182.

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ELISA GUZZO VACCARINO

che il classico meccanismo degli equivoci: sul piroscafo che li porta dalla Francia a New York, tutti li credono marito e moglie, cosa destinata a diventare inevitabilmente realtà, come può accadere solo in una trama pensata su misura per spettatori romantici. La camminata di Astaire è già danza; ben prima che i coreografi di oggi, come William Forsythe, decostruzionista del linguaggio accademico – un americano che conosce bene il musical – mettano in scena in ambito di balletto postclassico il passaggio diretto, a vista, dal gesto quotidiano utilitario all’artificio-danza, Astaire trasforma con una souplesse innata ogni accenno di passeggiata in un ballo di sala «nobilitato» dagli accenti prolungati, dalla finitura nitida e ben leggibile di ogni passo e dagli stop leggeri in squisite figurazioni, che tutti potrebbero – Fred induce ognuno a crederlo per «simpatia» muscolare e seduzione ritmica – danzare al suo stesso modo purché con la donna giusta: solo che i passi di base dei balli di sala sono arricchiti da quel tocco di alta classe – innescando il binomio danza = innamoramento e viceversa – e di nascosta complessità, che ne fanno quel danzatore dal talento unico che tuttora incarna lo spirito stesso del ballo più gioioso sullo schermo. Un esempio, il suo, che ha indotto non a caso numerosi danzatori maschi, in tempi ancora «oscurantisti», a trovare il coraggio di fare appunto del ballo una professione. Nel suo curriculum filmico i numeri sono sempre inventivi: quello del calzolaio con le scarpe ballerine in The Barkleys of Broadway del 1949; quello dell’attaccapanni in Royal Wedding del 1951, ripreso nella Cendrillon di Rudolf Nureyev del 1986 per l’Opéra di Parigi, re-ambientata a Hollywood14, dove la fata – il coreografo stesso – è il produttore con il sigaro e Cenerentola è Sylvie Guillem accanto al Principe-Divo del cinema Charles Jude; e ancora quello in arrampicata sulle pareti e sul soffitto, la cui realizzazione tecnica sorprende tuttora, sempre in Royal Wedding. Se Fred Astaire è il grande talento maschile, di ballerino e coreografo sofisticato, si affaccia ora sugli schermi anche un magnifico talento femminile, di cantante, attrice e ballerina, Judy Garland, giovanissima, deliziosa interprete di The Wizard of Oz (Il mago di Oz), nel 1939. La Garland diventerà moglie di Vincente Minnelli, nuovo 14

Homevideo NVC, 1989.

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LA DANZA, DANZARE IL FILM

mago del musical hollywoodiano, in arrivo anche lui da Broadway, che usa le inquadrature a tuffo con estrema fluidità, per «fermarsi» quando ha trovato ciò che cercava e mostrarlo al pubblico. Il suo debutto di regista nel cinema musicale è con Cabin in the Sky, nel 1943, un film «black», una favola per l’America di colore. Nel 1948 gira The Pirate, adattamento di un lavoro teatrale su musica di Cole Porter, che offre splendide occasioni di performance gigioneggianti a Judy Garland e di prodezze da cascatore a Gene Kelly15, l’atletico e vigoroso prototipo del maschio americano, una sorta di giocatore di baseball-acrobata che sa «anche» danzare. Kelly, diversamente da Astaire, non ha partner fisse. È un super-solista che costringe le camere a inseguirlo nelle sue gioiose manifestazioni di esuberanza, da eterno ragazzo della porta accanto, sportivo e ottimista. Seguiranno, per la regia di Minnelli, An American in Paris nel 1951, pure con Gene Kelly, e con la deliziosa Leslie Caron, parigina di formazione classica, allieva di Olga Preobrajenska16 e del Conservatoire de Paris, poi danzatrice nei Ballets des Champs Elysées (il numero romantico del passo a due languoroso e travolgente lungo la Senna sarà ripreso da Woody Allen in Tutti dicono I love you, del 1996, in effetti un musical) e The Band Wagon nel 1953 con Cyd Charisse, texana, allieva di Bronislava Nijinska17, nonché danzatrice dal 1937 nel Ballet Russe del Colonel de Basil, uno dei continuatori del modello artistico diaghileviano, e con Fred Astaire. Ma Gene Kelly, a sua volta, è co-regista insieme a Stanley Donen, oltre che coreografo, di un film se non perfetto, in qualche modo di svolta, come On the Town (Un giorno a New York, 1949, il lavoro teatrale è di cinque anni prima), con Ann Miller che balla il tip 15 Cfr. J. BASINGER, Gene Kelly, Pyramid Communications Inc. 1976, Milano Libri 1982; F. L A POLLA, Stanley Donen/Gene Kelly, Cantando sotto la pioggia, Lindau, Torino 1997. 16 Allieva di Marius Petipa a San Pietroburgo, interprete del grande repertorio petipiano e di balletti innovativi di Mikhail Fokin, come Les Sylphides, dal 1923 maestra di generazioni di grandi ballerini a Parigi. 17 Sorella di Vaslav Nijinsky, leggendario danzatore e modernissimo coreografo dei Ballets Russes, danzatrice e coreografa innovativa (Les biches, Le train bleu con scene di Picasso e costumi di Chanel, Noces di Stravinsky), fondatrice di proprie scuole sia in Russia, a Kiev, sia negli Stati Uniti, a Los Angeles, e direttrice di compagnie di balletto.

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tap al museo tra gli scheletri dei dinosauri, e con le musiche di Leonard Bernstein, compositore americano «nobile», che firmerà per l’appunto anche quelle di West Side Story. Donen, a suo turno, è regista di Seven Brides for Seven Brothers del 1954, con le coreografie di Michael Kidd, formato alla School of American Ballet e danzatore nell’American Ballet Theatre, dove sarà interprete del balletto western Billy the Kid di Eugene Loring, nel 1938, e di Fancy Free di Robbins. Sue le danze anche per Guys and Dolls del 1955 e poi di Hello, Dolly nel 1969, tra le quali spicca quella comico-acrobatica dei camerieri, ripresa in Moulin Rouge, il recente film di Baz Luhrmann, una pellicola che è un frullato-inno digitale alle citazioni, dove compare per un attimo, nella scena-clou del musical nel musical, quello indiano alla Hollywood, anche l’evocazione dell’esotico Dieu bleu di Vaslav Nijinsky. Per il musical classico, accade, dunque, esaurita la fase anni Trenta, qualcosa di nuovo, come si evidenzia in Oklahoma! del 1943 (secondo Honi Coles, re del black tap, il film che ha segnato la decadenza delle claquettes spontanées, jazz dei neri, i quali per lui, tra l’altro, furono i veri inventori del ribelle be bop, a favore della danza colta dei bianchi): gli elementi delle danze folkloriche degli immigrati bianchi entrano, infatti, ora in composizioni coreografiche colte e virtuosistiche, affidate a veri e propri ballerini professionisti, ormai disponibili in un paese dove il balletto americano aveva visto George Balanchine18, anche lui figlio della scuola zarista e dei Ballets Russes, fondare nel 1943 la scuola che darà vita allo stile d’oltreoceano, rapido e d’attacco sulla musica, e nel 1948 la compagnia, il New York City Ballet, con cui creerà poi anche balletti leggeri e americanissimi, da show superchic, come Western Symphony del 1954 e Stars and Stripes del 1958. E intanto avrà coreografato anche, spregiudicatamente e genialmente, The Goldwyn Follies (Follie di Hollywood, 1938) con una parodia di Romeo e Giulietta dove i Capuleti sono ballettomani e i Montecchi sono amanti della jazz dance, e On Your Toes nel 1939, con la ballerina classica Vera Zorina, una del18 Cfr. L. GARAFOLA, E. FONER, Fifty Years of the New York City Ballet. Dance for a City, Columbia University Press, New York 1999.

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LA DANZA, DANZARE IL FILM

le sue numerose mogli, qui star di una troupe di Balletti Russi che dovrebbe montare Slaughter on 10th Street. Anche la danza moderna si era dotata, frattanto, di scuole e di tecniche consolidate, come nel caso più noto tra tutti, quello di Martha Graham19, che insegna tutte le estati al Bennington College dal 1948 e che terrà scuola regolarmente a New York, scuola frequentata anche da future rock star come Madonna. Nell’alveo della modern dance, dopo la fase pionieristica al femminile, ora anche gli uomini, puntando proprio sulle doti atletiche e sull’energia vigorosa delle contrazioni angolate della nuova forma di danza, tipicamente americana nello stile e nei contenuti, sono pronti a entrare in scena e nel cinema, dando vita a un approccio scattante e spezzato, nell’uso del corpo, che l’Europa imiterà senza mai uguagliarlo. Anche in questo caso, corre un’altra storiella, che vorrebbe la speciale energia della danza americana frutto della mancanza di sovvenzioni pubbliche all’arte e figlia della necessità di sfondare con le sole proprie forze; il che dà un senso ancora più pregnante a tutte le trame sugli infiniti backstage del musical, da quelli già citati a Singing in the Rain del 1952, firmato ancora dal duo Kelly-Donen, con la musica come cassa di risonanza del pensiero che fa scattare la danza e con le inquadrature che la afferrano veloci20 (film epocale che curiosamente ha fallito l’obiettivo di passare nel 1985, in versione odierna, sulle scene di Broadway nella coreografia della brillante postmoderna Twyla Tharp, favorita di Mikhail Baryshnikov, l’ultimo Divo russo, pure lui spesso tentato dal musical), a A Star is Born del 1954 di George Cukor, con songs, tra l’altro, di Ira Gershwin e con la squisita Judy Garland. I nomi che punteggiano tutte le grandi hit di cui sopra sono uniti dalla MGM in Ziegfeld Follies del 1946, che allinea sotto un elenco di registi, tra cui Minnelli, una lista di superstar come Judy Garland, Fred Astaire, Gene Kelly, Lena Horne, Lucille Ball. Chi sono i coreografi di questa fase trionfante della commedia musicale e quale stile impongono? 19 Cfr. M. GRAHAM, Blood Memory, Doubleday, New York 1991, trad. it. Memoria di sangue, un’autobiografia, Garzanti, Milano 1992. 20 Cfr. R. ALTMAN, La Comédie musicale, cit., p. 84.

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Jack Cole (1911-1974), che proviene dalla pionieristica scuola Denishawn, fondata da Ruth Saint Denis e Ted Shawn, maestri della costa ovest, che da sempre forniva performer per il cinema (vedi l’episodio babilonese di Intolerance), dal gruppo maschile di Ted Shawn e poi dalla compagnia Humphrey-Weidman, vale a dire il Gotha del modern. Cole lavora per la Fox e la Columbia, ad esempio nel caso di The Merry Widow (1952) e di Gentlemen prefer Blondes (1953), seguito da Gentlemen Marry Brunettes (1955); Bob Fosse, invece (il futuro autore di Cabaret e di All That Jazz) collabora, in questo caso anche come danzatore superlativo, con Hermes Pan per lo shakespeariano Kiss me, Kate del 1953 (anche qui c’è un backstage, che raddoppia la vicenda della Bisbetica domata, da vivere e da allestire in scena) e con Robbins per The Pijama Game del 1957 con il famoso numero Steam Heat; lo stesso Gene Kelly è impegnato in Brigadoon nel 1955, mentre Eugene Loring, allievo di Balanchine e direttore di una propria compagnia, i Dance Players, coreografa Silk Stockings nel 1956 e Funny Face (Cenerentola a Parigi) del 1957; e in questa fase storica brilla Hermes Pan (1911-1990), legato artisticamente, a Fred Astaire, attivo per la Fox e più tardi anche alla televisione italiana in bianco e nero; Jerome Robbins firma The King and I nel 1956 oltre al più volte citato West Side Story e Agnes de Mille21, nipote del regista Cecil B. de Mille Oklahoma! del 1955 e Carousel di Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II22. L’America del secondo dopoguerra ha ritrovato la fiducia in se stessa, è fiera della sua cultura e della sua storia come comunità di etnie, portatrice di quel ritmo vitale della libertà che è già danza. Se Balanchine trova il modo di nobilitare con la sua allure e con la sua poliedricità la danza di intrattenimento, conciliando l’artificio del classico con l’artificio della macchina da presa, la de Mille sa ricondurre tutto il patrimonio di danza americano a una tipica integrated dance, infondendole la linfa ideale del «grande paese», pe21 Cfr. M. S. HORNER, M. SPEAKER-YUAN, Agnes de Mille, Chelsea House Publishers, New York-Philadelphia 1990. 22 Cfr. E. MORDDEN, Rodgers & Hammerstein, Harry N. Abrams Inc. Publishers, New York 1992.

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LA DANZA, DANZARE IL FILM

scando nelle complesse e molteplici radici nazionali per ridisegnare un folklore stilizzato, immettendo nella coreografia la verve quotidiana di una società dinamica, fibrillante, dove ognuno può essere artefice della sua fortuna, il tutto in una forma originale di stampo classico-moderno-popolare. Questi coreografi riusciranno a far sì che il cinema americano usi la danza per esprimersi come nazione del progresso, anche al di là della favola, del sogno, della mitologia del successo, del momento culminante dell’amore, e per celebrare non più soltanto la bellezza femminile e il virtuosismo maschile, ma la forza propulsiva e l’ottimismo degli Stati Uniti, dalla Nuova Frontiera alla grande metropoli del futuro.

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SULLE ALI DELL’ARCOBALENO. IL TARDO MUSICAL di VITO ZAGARRIO

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Vorrei partire da due musical dello stesso anno: il 1968. È una data simbolica, ovviamente. Da un lato il ’68 in Europa, dall’altro gli esordi di quello che sarà la New Hollywood (Easy Rider è alle porte), con la sua enorme trasformazione produttiva e linguistica. I due film sono Sulle ali dell’arcobaleno, appunto (da cui il mio titolo), in originale Finian’s Rainbow, di Francesco Coppola; e Sweet Charity di Bob Fosse. Finian’s Rainbow (dove il «rainbow» è un chiaro omaggio a uno dei re dei musicals, The Wizard of Oz) è il terzo film di Coppola (prima ha girato Dementia 13 e Buttati Bernardo), ed è una di quelle «oscillazioni mercuriali» che lui stesso confesserà di operare coscientemente: un film commerciale per finanziare un film d’autore, un film di genere per potersi permettere un film indipendente. Un lavoro di committenza, dunque, che usa un cast d’eccezione per un regista ancora sconosciuto: Fred Astaire, Petula Clark, Tommy Steele, ecc. «Ora che Coppola è diventato Coppola – nota Ethan Mordden1 – i filmbuffs risituano Finian’s Rainbow nella sua carriera, per essere sicuri che è opera di fine artigianato [...]. Ma il film non funziona, forse perché […] ha pochi numeri di danza, persino da Astaire e da Steele». Tra quei filmbuffs, c’era nel 1978 Franco La Polla che parlava di Sulle ali dell’arcobaleno come di un «film imbevuto di splendida cinefilia». Non sarò dunque io a cercare di «rivalutarlo». Lo era già. In quel saggio contenuto ne Il nuovo cinema americano e dedicato a «musical e fantascienza»2, La Polla teorizzava la morte del E. MORDDEN, The Hollywood Musical, Newton Abbot, David & Charles 1981. F. L A POLLA, Il nuovo cinema americano,1967-1975, Marsilio, Venezia 1978; in part. Un’appendice: musical e fantascienza, pp. 136 sgg.. 1

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VITO ZAGARRIO

musical: per varie ragioni, prima fra tutte per la sua incapacità, dagli anni Sessanta in poi, di riproporre la sua funzione purificatrice e consolatoria in un mondo occidentale sconvolto dal caos, quando il musical ha bisogno di riportare quel caos all’ordine. «Dunque, il musical cinematografico è morto. Ma proprio per questo lo si può evocare», aggiunge La Polla, ed evoca un film come Il boy friend di Ken Russell, tutto citatorio e ibrido, che ripercorre il musical in modo kitsch 3. Quello che dice La Polla oggi mi sembra ancora più radicale: il musical muore perché viene sostituito da nuovi generi o metageneri che ne introiettano le caratteristiche e ne sostituiscono le funzioni 4. Il balletto de La tigre e il dragone, sospeso nell’aria tra gli alberi di bambù o sui tetti del «palazzo proibito», gli dà ragione. Ma torniamo a Coppola: anche Coppola è kitsch nella sua poetica della nostalgia e nella sua idea di morte. Ecco, perché la morte del musical (e forse del cinema, ossessione di quegli anni) si esprime o attraverso il metalinguaggio (e sappiamo dalle cose che hanno scritto teorici americani come Robert Stam e Rick Altman, o come il nostro Maurizio Grande, che ogni riflessione metalinguistica, ogni elemento di autoriflessività sottende comunque un’idea di morte5), o attraverso l’esibizione stessa della morte: tipico, da questo punto di vista, All That Jazz di Bob Fosse – di cui parlerò fra un attimo – film assolutamente self reflexive, e allo stesso tempo messa in scena della morte, la propria. In Finian’s Rainbow l’elemento macabro è il corpo stesso di Astaire, de-composto, cartilaginoso rispetto all’angelo leggero che si librava in assenza di gravità. Un po’ come il capitano Kirk di Star Trek, quando è invecchiato nei sequels cinematografici, il buon Fred fa tenerezza. Ma dimostra ancora la sua innata leggerezza, quando si cimenta in un passo a due con Petula Clark, in un numero che passa dal ritmo anni Trenta a toni folkloristici da musica irlandese. È forse questo è l’ultimo numero di danza da musical classico del cinema di Fred Astaire. Il quale si esibisce, con qualche esitaIvi, p.149. Vedi, supra, la relazione al colloquio malatestiano di F. L A POLLA, Strictly Usa: il musical americano e l’ideologia nazionale. Qui mi riferisco soprattutto agli interventi dell’autore durante il dibattito. 5 Cfr. R. STAM, Reflexivity in Film and Literature from Don Quixote to Jean Luc Godard, Columbia University Press, NewYork 1985. 3 4

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SULLE

ALI DELL’ARCOBALENO. IL TARDO MUSICAL

zione atletica, in un altro numero più sincopato ma meno danzato. Poi si accomiaterà dal film con un doppio passo e un colpo di bastone, in un’inquadratura che sa di tramonto definitivo: mentre Petula Clark canta We’ll meet in Glocamorra, città utopica che deve essere da qualche parte, laggiù, il vecchio Fred, in campo lungo, se ne va per la sua ultima strada, osservato dalla nuova coppia e dalla nuova generazione. Si tratta, come si intuisce, anche di un’inquadratura simbolica, che dice molto sulla stessa generazione della New Hollywood che ambisce a sostituire quella dei vecchi maestri del cinema classico. Dopo di questo film, Astaire farà il narratore in That’s Enternaiment e si esibirà ancora in un piccolo passo di danza col vecchio Gene Kelly. Poi farà ancora qualche particina (senza balli né canti), in particolare – forse non a caso – in un film sulla morte e sulla catastrofe: Towering Inferno (L’inferno sulla torre di cristallo, film catastrofico divenuto tragicamente premonitore dopo l’11 settembre). Il film di Coppola, comunque, ha molti altri spunti interessanti: ad esempio il tema del razzismo che, se lo rende ingenuo, un po’ buonista e ritardatario (lo spunto era già in una piece degli anni Quaranta da cui il film è tratto), ne fa un film «politicamente corretto»: vedi ad esempio l’idea del cattivo senatore razzista (Keenan Winn) che viene trasformato in nero e che anticipa di poco la tematica di The Watermelon Man (L’uomo caffellatte). Ed è interessante il tema dell’emigrazione che nel film è reso col tono della favola: Finian è un irlandese che ha rubato a un folletto un vaso colmo d’oro che vuole sotterrare nella valle dell’arcobaleno per farla ricca, come è diventata ricca l’America grazie all’oro di Fort Knox. Ed ecco anche la simbologia sociale, la denuncia in forma di fiaba del capitalismo (l’oro come feticcio), la denuncia del potere dei bianchi, contrapposto alla fantasia dei neri (il senatore finisce a un certo punto a cantare in un quartetto nero di jazz). Tema, questo, che i relatori del convegno malatestiano hanno detto essere presente sin dalle origini del musical (Alain Masson, in particolare, ha parlato di Showboat, ed era su questa linea la relazione di Ermanno Comuzio6). 6 Vedi, supra, le relazioni al colloquio malatestiano di A. MASSON, De Broadway à Hollywood, e di E. COMUZIO, Prima la musica, poi le parole.

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VITO ZAGARRIO

Dal punto di vista formale, mi pare interessante, in Finian’s Rainbow, l’accostamento di esterni e interni: da un lato, cioè, sopravvive il tradizionale numero di danza in teatro di posa, con gli effetti speciali nel profilmico (ad esempio la pioggia) e le notti artificiali; dall’altro lo spettatore assiste all’irrompere degli esterni, di scene girate in pieno sole, che ricordano l’inizio di Hair di Milos Forman, con The Age of Aquarius cantata e danzata a Central Park. Significativi i titoli di testa, che fanno fare ad Astaire e alla Clark un viaggio attraverso gli stereotipi del Mito americano: la Monument Valley, il Grand Canyon, il Golden Gate Bridge, Mount Rushmore, ecc. E poi ci sono videoclips ante litteram (uno sul treno, con Don Franks proiettato improvvisamente in un film post-Depressione, uno in macchina, on the road), c’è una ragazza muta che danza per farsi capire («ballare il film», come suona un vecchio libro sul musical7) e che alla fine riacquisterà la parola grazie al vaso magico, c’è una fabbrica clandestina di tabacco buonissimo che però ha il difetto di non accendersi, e che alla fine brucia (in un modo che ricorda il recente L’erba di Grace). E poi c’è un rapporto ironico ma colto col melodramma (sappiamo quanto sarà importante nel Padrino e nei suoi sequels): Coppola scandisce il film con una Ouverture («overture» nella didascalia), una Intermission e un Entr’acte, dove lo spettatore sente – ma non vede – una canzone di Petula Clark. Insomma, sono molti gli spunti per fare di questo film sgradevole e incompiuto, un testo a suo modo «postmoderno», tante sono le sue eredità, le sue possibili letture, i suoi universi citatori, i suoi subplot, i suoi mescolamenti di favola e politica, di musical e travel film, di commedia e di riflessione simbolica. Il tema dell’emigrazione cui alludevo non è forse casuale: Coppola lo riprenderà di lì a poco con la sua saga del Padrino, con l’omaggio agli italoamericani. La grande metafora che viene fuori è l’Europa, intesa anche come grande desiderio di authorship. Così sarà anche con Cotton Club, non un musical ma un film che combina il genere musical col genere gangster, come emerge dalla famosa sequenza del tip tap del ballerino nero (il noto Gregory 7

Cfr. C. SALIZZATO, Ballare il film, Savelli, Milano 1982.

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ALI DELL’ARCOBALENO. IL TARDO MUSICAL

Hines, uno della coppia di fratelli dei musicals di Broadway) montato in modo alternato al massacro del gangster e dei suoi. Il tutto su uno sfondo metalinguistico (il cinema muto, ecc.) e su una riflessione filosofica sulla nozione stessa di realtà, dove il vero si confonde con il finto, la vita vera col palcoscenico (vedasi il finale del film). Il musical, insomma, vuole farsi europeo, e dunque autoriale. Il progetto risulta chiaro nei due film citati di Bob Fosse: Sweet Charity, tratto dal play di Neil Simon coreografato dallo stesso Fosse, è dichiaratamente preso da Le notti di Cabiria di Federico Fellini (la cui sceneggiatura, insieme a Tullio Pinelli e Ennio Flaiano, viene inserita nei titoli di testa); All That Jazz non dichiara la sua fonte, ma è ovviamente ispirato a Otto e mezzo. Vorrei sottolineare due brani di Sweet Charity: uno, in cui la brava Shirley McLaine si cimenta con un numero ricco di ammiccamenti sessuali (in fondo è la storia di una puttana), che dimostra come siano cambiati i tempi. Shirley, infatti, gioca con un cilindro alludendo a un fallo, civetta su una sessualità ormai liberata e su un gender in profonda trasformazione, evoca un certo voyeurismo un po’ morbosetto. L’altro, all’inizio del film, che dimostra invece come Fosse – che pure dichiarerà di non amare il film – tenti di misurarsi con le estetiche del «moderno»: l’esibizione dei movimenti della macchina da presa, la scoperta dell’«apparato», l’uso di un linguaggio sporco fatto di zoom, fuori fuoco, scarti bruschi, salti di continuità. Anche questa sequenza in esterni, topos del musical tardo, o, se vogliamo, del «nuovo musical» della Nuova Hollywood. Tutto costruito all’interno del teatro (nel doppio senso di palcoscenico e di teatro di posa) è invece All That Jazz, che vale a Fosse l’Oscar nel 1980, film tutto autoriflessivo, costruito, come Otto e mezzo, su una perfetta myse en abyme tra la storia del personaggio, la storia che il personaggio sta mettendo in scena, e la storia dello stesso autore. Joe Gideon (Roy Scheider) è il Guido (Marcello Mastroiani) di Fosse, nella parte di un regista che sta preparando un musical (ma lavora anche alla storia di un cabarettista, cioè Lenny), ha a che fare con una serie di donne di famiglia (la figlia e la moglie, quest’ultima interpretata dalla vera ex moglie), dialoga con una fantomatica figura femminile vestita di bianco di nome Angélique (Fel-

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lini più Visconti?) che viene incarnata, invece che da Claudia Cardinale, da Jessica Lange e che si rivela essere, alla fine, la morte che stringe in dolce abbraccio il regista. Il quale mette in scena e vive, alla fine, la propria morte, cantando e ballando la famosa canzone di congedo: Bye Bye Life. Non è un caso che la direzione della fotografia sia affidata a Giuseppe Rotunno, che in quel momento si identifica con l’Autore italiano, rimanda immediatamente a Visconti e a Fellini. Rotunno, che ho intervistato in proposito, ricorda bene il lavoro con Fosse, e in particolare l’elaborato set del finale del film, che il regista gli affida quasi totalmente anche nell’elaborazione della scenografia: da qui gli ampi teloni di plastica nera e l’ambientazione già «postmoderna» (ricostruita in uno Studio vicino New York) in cui si svolgono il numero musicale e la canzone conclusiva8. Fosse, dunque, gioca a fare Fellini, inteso come massimo simbolo dell’autore europeo (anche in Cabaret ci saranno reminiscenze felliniane, come l’anchorman del locale cuore della vicenda, che rimanda al telepate-mimo-istrione di Otto e mezzo). Il cinema, dunque, diventa remake9. Remake di Fellini, oppure gioco sugli stereotipi o sui codici filmici: ad esempio, una delle più significative sequenze di New York New York di Martin Scorsese, altro «non-musical», è non tanto quella della celebre canzone finale cantata da Liza Minnelli, ma quella in cui, con tipici codici linguistici della tradizione hollywoodiana, si racconta l’ascesa e il successo della protagonista. Come nel caso del film di Scorsese, il musical scomparso emergerà carsicamente in tanto cinema della New e della New New Hollywood, in forme ibride che non potremmo classificare rigorosamente come musical, ma in cui la tradizione e l’eredità del musical è potente, dall’opera rock al film concerto, da Il fantasma del pal8 Rimando a una serie di colloqui che ho avuto con Giuseppe Rotunno all’inizio di marzo 2001. Agli occhi degli americani, Rotunno è il direttore della fotografia, tanto per fare un esempio, de Il gattopardo e di Amarcord. Non è un caso che Bob Fosse, nel 1978-79, faccia la stessa scelta «europea» di Francis F. Coppola scegliendo Vittorio Storaro per Apocalypse Now. 9 Vedi, supra, la relazione al colloquio malatestiano di I. MOSCATI, Almost Musical. Prima che il cinema facesse sognare il mondo.

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SULLE

ALI DELL’ARCOBALENO. IL TARDO MUSICAL

coscenico a Nashville, da The Rose a Flashdance, da The Saturday Night Fever a The Blues Brothers. Il «tardo musical» sarà sempre più parodia, gioco sui miti e spesso dissacrazione di essi: revival come Grease, remakes da altri mezzi come Annie, parodie cult del nuovo immaginario come The Rocky Horror Picture Show, film generazionali e «politici» come Jesus Christ Superstar e Hair, autoriflessioni nostalgiche e metalinguistiche come Il boxeur e la ballerina, testamento ironico e insieme doloroso di Stanley Donen (che gioca anch’egli con i generi, il film di boxe e il gangster nel primo episodio, il film nel film e l’omaggio a Busby Berkeley nel secondo). Non a caso, fa i conti con il musical anche uno dei più grandi geni bizzarri del cinema, manipolatore dei generi, parodico trasgressore del valori borghesi e riciclatore di cinefilie: John Waters, col suo musical «tardo» Hairspray (Grasso è bello), ultimo film della bonanima di Divine, in cui utilizzerà – ancora – il tema dell’integrazione razziale, evidentemente un topos forte da prendere anche per i fondelli insieme alla brava borghesia cattolica di Baltimora. Siamo, come si vede, alla parodia pura, a un prodotto border line tra la goliardia e la dissacrazione rivoluzionaria, che dimostra come il musical non sia morto, ma semmai esploso in forme diverse e anche in «formati» diversi: l’eredità del musical sta nel videoclip, ad esempio. Penso a Thriller di John Landis, penso all’operazione non riuscita ma interessantissima di Absolute Beginners, firmato dal re del videoclip inglese Julian Temple, che innesta le tradizioni del musical nelle nuove forme visive di MTV: vedasi il cammeo di David Bowie, che mescola set del musical americano e modi del videoclip. Ma Temple usa anche il linguaggio filmico nel suo statuto autoriale più alto: ad esempio nel lunghissimo piano sequenza in steadicam iniziale, omaggio a L’infernale Quinlan. Il musical, d’altronde, anche quello più classico, è sempre e comunque metalinguistico. Lo dice chiaramente Jane Feuer nel libro del già citato Rick Altman10. 10 Cfr. J. FEUER, The Self Reflexive Musical and the Myth of the Entertainment, in R. ALTMAN (a cura di), Genre: the Musical, Routledge & Kegan, London 1981. Sul mu-

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VITO ZAGARRIO

Il musical riemerge ancor più in forma parodica oggi, nel cinema europeo (e non solo: vedasi The Hole), quando si vuole giocare coi generi e con le commistioni delle culture, delle etnie, dei prestiti: penso soprattutto ad Aprile di Nanni Moretti, con quel suo ironico finale (che Moretti ha voglia di girare da tanti anni), un pezzo di musical sul «pasticciere trotzkysta degli anni Cinquanta», coreografato dal Bob Fosse nostrano, l’autarchico Gino Landi. Ma penso anche a due giovani cineaste italiane, Anna Negri con In principio erano le mutande, e naturalmente Roberta Torre con Tano da morire e Sud Side Stori, quest’ultimo dichiarata parodia, sin dal titolo, del musical classico. Il «rap di Tano», scritto da Nino D’Angelo (è dunque una ulteriore commistione etnica, tra cultura siciliana e partenopea), resta una delle pagine più divertenti del «giovane» cinema italiano. Non è vero, dunque, che il musical non piace ai giovani. È imploso, riciclato, recuperato tra i rifiuti e reinserito in un nuovo puzzle trash come in un quadro di Rauschenberg, in una «riserva indiana» (come Rauschenberg suggeriva, appunto). Diventato videoclip, spot, oppure duello di arti marziali o inseguimento di automobili, remake e segnale autoreferenziale in un’epoca neobarocca. Il musical, dicevamo, si è trasferito nei «numeri» di inseguimenti, balletti digitali, coreografie di effetti speciali di tanto genere medio-alto (hollywoodiano e non solo). Si è sciolto e ricoaugulato, come un informe «blob», dentro cavi e spazi e canali di televisioni, advertisements, quiz e talk shows, popolati di veline e letterine, ballerine di seconda fila e dive soft porno da calendario cheap. Certo, in questo panorama, il vecchio Fred Astaire non può che raccogliere il suo fardello e avviarsi, mestamente, verso il tramonto, come nella già citata scena di Sulle ali dell’arcobaleno. «Dov’è Gualcamorra?» – chiede Don Franks a Petula Clark, guarsical vedi anche C. HIRSCHHORN, The Hollywood Musical, Octopus Books, London 1981; J.R. TAYLOR, A. JACKSON, The Hollywood Musical, Seckerand Warbeng, London 1971; L. E. STERN, T. SENNETT, Il musical, Milano Libri, Milano 1977; G. FIORITO, C’era una volta il musical, Cinecircoli giovanili socioculturali, Roma 1992; S. GREEN, Encyclopedia of the Musical Film, Oxford University Press, New York 1981; P. PRUZZO, Musical americano in cento film, Le Mani, Recco 1995; C. BERTIERI, E.G. OPPICELLI, Musical! Il cinema musicale di Hollywood, Gremese, Roma 1989.

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SULLE

ALI DELL’ARCOBALENO. IL TARDO MUSICAL

dando Astaire avviarsi mestamente verso l’orizzonte. «It must be somewhere, overthere» – risponde Petula. Ci deve essere, dunque, una qualche mitica Gualcamorra, città dell’utopia del Cinema e dell’Immaginario collettivo, dove rincontrarlo (rincontrarsi) somethere, overthere.

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ESISTE IL GENERE MUSICAL? di GIORGIO GOSETTI

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Questo testo potrebbe essere idealmente dedicato alla memoria di Stanley Donen e con lui a quanti misero il proprio talento al servizio di un cinema accettato come astrazione del sogno che doveva contrastare la realtà con i suoi stessi mezzi. Ma è proprio vero, come si conviene ad un ricordo ed un epitaffio, che il passaggio del secolo consegna alla memoria della nostalgia alcuni dei generi più amati e tradizionali del cinema, primo fra tutti il musical? È questa la provocazione che voglio sottoporre ad una riflessione critica, dal momento che il musical, almeno come siamo abituati a considerarlo con un occhio di riguardo ai suoi codici costitutivi di stampo hollywoodiano, appare finito per sempre. Fred Astaire e la sua eleganza classica, Gene Kelly con la sua forza esplosiva, persino Bob Fosse con la sua fantasia coreografica, non esistono più, non lasciano eredi e rimandano ad un mondo che ha esaurito per sempre le sue motivazioni estetiche e concettuali. Non è il solo caso e, in buona misura, il fenomeno coincide con i caratteri più riconoscibili dell’immaginario americano: il western, il noir, l’ormai desueta commedia sofisticata. È come se fossero venute meno le condizioni economiche, ideologiche, culturali che presiedevano a schemi narrativi posti a fortificare un’idea di nazione capace di estendersi al mondo intero. Sarebbero molte le considerazioni possibili su questa eclissi inesorabile, accolta dai fedeli custodi del genere con la pacata rassegnazione – e magari un po’ di snobistica compiacenza – che contrassegna le mode culturali legate ad un tempo storico. Ma ciò che qui interessa è un’altra vitalità segreta del musical – o film musicale – che lo ha portato a rinascere dalle sue ceneri come Fenice e a prefigurare una delle maggiori rivoluzioni estetiche del cinema occidentale di questi anni. Par-

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GIORGIO GOSETTI

liamo di cinema e pensiamo – in verità – anche ad altre cose, giacché la semplificazione critica dei generi trova proprio nel pensiero anglosassone la sua radice più convinta e massimalista e qui conosce la sconfitta più esplicita. Proseguendo sul filo della provocazione, azzardo che la sconfitta epocale dell’idea di genere coincide con il tramonto dell’horror ideologico che spazza l’America durante gli anni Settanta, il declino polemico e trasgressivo dei vari Romero, Carpenter, Craven trascina con sé la purezza di un codice espressivo e si allinea, poco a poco mentre la memoria rimossa della sconfitta vietnamita si attenua, alla sovrapposizione delle memorie in cui eccelle la scuola di Lucas e Spielberg. È come se questa nuova generazione hollywoodiana, giunta a maturazione concettuale ed estetica, mischiasse le piste ricorrendo in una volta sola a tutto il suo bagaglio storico. Un film di certo riferimento in questo senso resta 1941 Allarme a Hollywood (1979) di Steven Spielberg dove ogni possibile genere hollywoodiano è compresente agli altri e ne porta piena coscienza. Dello stesso anno è Hair di Milos Forman che viene dalla cultura alternativa, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison (opera rock dall’impianto classico, erede di Broadway) è addirittura di sette anni precedente. Cosa accade dunque in questa decade – con pieno sviluppo nella successiva – nel cinema americano in genere e più precisamente nel nostro territorio eletto? Si consuma – propongo – un atteso parricidio nel segno della confusione dei generi, nessuno dei quali ha più valenza metalinguistica rispetto alla società che è chiamato a rappresentare. Ed è il genere più volatile, solo apparentemente fragile ed invece capace come nessun altro di proiettare le aspettative di un popolo in cerca di icone ed eroi, quello che ne subisce la mutazione più profonda: il film musicale si può permettere di agganciare nuove sponde, ma deve attraversare l’ibridazione più completa per sopravvivere. Da tempo penso che la querelle sui generi sia a suo modo una falsa proposizione poiché obbliga all’astrazione dei codici un sistema narrativo ogni volta più complesso e articolato. Basti pensare che noi celebriamo il funerale del musical e tacciamo delle sue naturali evoluzioni in culture «altre» come quella egiziana e indiana che ne hanno invece ancora piena fioritura e nascondiamo anche le sue fi-

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ESISTE

IL GENERE MUSICAL?

liazioni dirette (o degenerazioni) dal Giappone di Takashi Miike all’Europa di Lars Von Trier. Ora la forza intrinseca del film musicale sta nel suo riporre altrove la propria specificità. E questo altrove è in verità un codice astratto come quello dell’esecuzione musicale intorno alla quale ruota tutto il resto. Se accettiamo questo assunto di partenza, poco importa se muta progressivamente il contesto in cui va ad inserirsi detta rappresentazione astratta. Varrebbe la pena di citare il primo Disney candidato all’Oscar, La sirenetta (1989), che solo una tenacia critica fuori del tempo metterebbe al riparo dalla gioia dei devoti al musical. Torniamo a 1941 di Spielberg: commedia, operetta, war movie, western, fantastico vi convivono a contatto di gomito e si elidono a vicenda fino al punto di non consentire una classificazione tassonomica. L’anno dopo, nel 1980, John Landis compie lo stesso itinerario a ridosso del musical vero e proprio con The Blues Brothers. L’operazione riesce a man salva perché il coinvolgimento dello spettatore comportava una sua piena adesione al codice e alla destrutturazione dello stesso. A vent’anni di distanza, alcuni dei protagonisti di allora avrebbero percorso lo stesso sentiero con intento celebrativo e un’altra volta – sia pure con risultati che è ottimistico definire volonterosi – il doppio tuffo carpiato della mitizzazione ironica riesce ancora. In mezzo si consuma una rivoluzione copernicana: il fattore musicale riprende il centro della scena e riassume altre forme del genere, moltiplicandone i possibili effetti. Non ha insomma più senso parlare di un genere musical ma soltanto perché non ha più senso parlare di genere. Buona parte dell’immaginario sognato dallo spettatore occidentale diventa allora musical, dal momento che la cultura musicale ha assunto il valore di unica cultura dominante e coesa rispetto ai pubblici possibili, dal momento che solo questo codice permette un attraversamento trasversale dei fattori generazionali e delle attese del pubblico. Proprio negli anni Ottanta un altro genere forte del cinema americano attraversa lo stesso fenomeno con diversi, ma non dissimili, approdi: il noir si articola, si frammenta, scompare e riappare come un fenomeno carsico che non è inesatto definire alla fine un puro e semplice «supergenere» ovvero un codice interpretativo an-

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GIORGIO GOSETTI

ziché un filone o una modalità espressiva. Forse considerazioni affini potrebbero valere persino nel campo del western che rivive sotto moltissime sagome se non fosse in questo caso essenziale il suo ruolo di epica storica che richiede una robusta contestualizzazione storica e ideologica e gli stessi valori potrebbero essere legittimi per il cinema di guerra. Ma, fateci caso: tutti e due i fenomeni resuscitano a braccetto quando ideologia e convinzione popolare si ritrovano vicine, proprio come oggi sta accadendo all’America. Il musical no, il musical non ha bisogno di questa legittimazione storica e non ha bisogno di essere fedele a se stesso in una ritualità sempre più vuota. Ha bisogno invece di spostare l’attenzione da ciò che accade (la coreografia di Busby Berkeley) a ciò che suona (l’opera rock, ad esempio). E allora piano piano invade di sé tutto il cinema contemporaneo mano a mano che i musicisti diventano le uniche, reali icone dei nostri tempi. È ancora degli anni Settanta – precisamente del 1978 – l’opera più estrema e progettata di questo percorso. Penso a Renaldo and Clara di Bob Dylan e Sam Shepard (sceneggiatore). Monumento agiografico all’ego contorto di un menestrello, il film è però un musical dei suoi tempi, non un film-concert come The Last Waltz (L’ultimo Walzer) di Martin Scorsese (vedi un po’, comunque, dello stesso anno). Quanto detto ci porta a ritagliare un momento preciso di questa svolta che ha lasciato segni profondi anche nella memoria del pubblico più giovane, quello del nuovo secolo insomma. Gli anni Settanta cambiano i codici e modificano il sistema del «cinema&musica» dell’era moderna. Ma da allora? Verrebbe da dire che poco è accaduto e che l’ultimo acuto del musical classico, All That Jazz di Bob Fosse, non fu realizzato per caso nel 1979. Ma le cose non sono andate proprio così. Se è vero che la persistenza ed il carisma della generazione del rock attualizzano e rilanciano anche la declinazione cinematografica che va di conserva con il mito delle star che gli hanno dato vita, è anche vero che quasi ogni anno, da allora ad oggi, ha rilanciato questa accezione del genere, posto che i critici seri accettino la mia provocazione. Ed ecco allora un lungo percorso dal Cotton Club di Francesco Coppola (1984) al Million Dollar Hotel di Wim Wenders (2000), passando per Tommy di Ken Russell o per Buena Vista Social Club, per il broadwayiano

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ESISTE

IL GENERE MUSICAL?

Evita di Alan Parker o perfino per l’italianissimo Tano da morire di Roberta Torre. Sono tutti ascrivibili al genere musical? Certamente no, obietterebbero i puristi e gli esperti. Eppure la radice, la forza, l’espressività che ha reso attuali e spesso popolari questi ed altri titoli è certamente la componente musicale che li attraversa e li giustifica fino al culto falsamente alternativo di Hedwig. A voler trovare l’eroe dei nostri tempi senza scomodare lo sconfinamento metalinguistico di Lars Von Trier, non c’è di meglio che affidarsi a uno specialista del supergenere come l’australiano Baz Luhrman. La sua è fedeltà assoluta al canone da Strictly Ballroom a Romeo+Juliet e ancora adesso con Moulin Rouge. Ciò che mi trattiene è l’idea post-moderna di maniera che abita nel cinema del nostro campione; una mania citatoria, un crogiolarsi nei gusci vuoti della tradizione passata che forse non guida verso una nuova frontiera ma rimanda nel passato come una macchina celibe. Eppure anche Luhrman concorre ad una ritrovata centralità di questo musical del nuovo tempo che mi appare come un dato da cui è impossibile prescindere. Sicché cominciamo questa riflessione per comprendere cosa e come fu che ad un certo momento le vie del musical e della cultura occidentale interruppero il loro fecondo scambio, portando il modello cinematografico alla sua triste fine, e lo concludiamo accorgendoci che viviamo nella terra del musical, guardiamo un cinema che non saprebbe dirsi tale senza considerare questo fenomeno e abbiamo perso le parole per dirlo. Forse dobbiamo aggiornare semplicemente la terminologia e rassegnarci a capire che la vera rivoluzione, dagli anni Settanta in poi, fu la reinvenzione del musical. E dico reinvenzione perché ciò che non viene meno è il valore catartico di questo genere di spettacolo. Che si permette di sprezzare il realismo, che rende quotidiano il mito, che fa da ponte al sogno e che oggi non legittima più con questo espediente la fuga nella rassicurazione, ma ci porta tutti a «danzare nel buio».

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STALIN FOLLIES. UN ESEMPIO DI MUSICAL SOVIETICO di FAUSTO MALCOVATI

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Qualche dato storico Durante il XVI Festival Internazionale di Mosca nel 1989 suscitò molto scalpore una retrospettiva intitolata «Il cinema dell’epoca totalitaria», dove vennero messi a confronto i più noti prodotti della cinematografia hitleriana, staliniana e mussoliniana tra il 1933 e il 1945. Contemporaneamente venne organizzata una tavola rotonda con un titolo analogo, «Il potere totalitario e il cinema», a cui parteciparono alcuni tra i più noti critici cinematografici che dell’argomento si erano occupati, fra cui Maja Turovskaja, Naum Klejman, Leonid Kozlov, il nostro Callisto Cosulich e Marcel Martini. In quella occasione si parlò molto del musical staliniano, si cercò di ripercorrere il cammino che portò alla incredibile popolarità del genere in Unione Sovietica1. Sull’argomento uscirono poi alcuni rigorosi saggi di studiosi americani e russi2; recentemente ne ha riparlato Gian Piero Piretto nella sua stimolante indagine sulle mitologie culturali sovietiche3. Il periodo che va dal 1930 al 1934 per il cinema sovietico è tra i più complicati: l’arrivo del sonoro lo prende alla sprovvista, non è facile adattare al nuovo mezzo espressivo le strutture produttive e distributive, le difficoltà tecniche e finanziarie sembrano insormontabili. Nel 1931 viene distribuito il primo lungometraggio sonoro a soggetto, Putevka v zi] zn’ (Il cammino verso la vita), diretto da Nikolaj 1 Molti interventi vennero pubblicati in tre numeri consecutivi di «Iskusstvo Kino», 1990, n. 1, pp. 111-120, n. 2, pp. 109-117, n. 3, pp. 100-112. 2 R. TAYLOR and D. SPRING (a cura di), Stalinism and Soviet Cinema, Routledge, London and New York 1993; T.K. EGOROVA, Soviet Film Music. A Historical Survey, Harwood Academic Publishers, Amsterdam 1997. 3 G.P. PIRETTO, Il radioso avvenire, Einaudi, Torino 2001.

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FAUSTO MALCOVATI

Ekk, ma la programmazione per qualche anno rimane caotica: film muti, film sonori, versioni mute di film sonori, versioni sonore di film muti. È un periodo che Giovanni Buttafava definisce «una specie di strana, enorme dissolvenza incrociata fra il muto che si va spegnendo lentamente e il sonoro che emerge, tra il cinema di “montaggio” poetico, e il nuovo cinema narrativo, “di prosa”»4. In particolare il 1934 è un anno cruciale: in agosto c’è il I° Congresso degli scrittori con le nuove formulazioni del «realismo socialista», la teoria dell’eroe positivo, la rappresentazione della realtà non nel suo presente ma nel suo divenire, nella sua prospettiva socialista ecc.. Il 7 novembre, 17° anniversario della rivoluzione d’ottobre, c’è il trionfo del film dei «fratelli» (sono solo omonimi, anche se si usa chiamarli così) Georgij e Sergej Vasil’ev, Ciapaiev, trionfo preparato da articoli di fondo della «Pravda», voluto dagli organi di partito. È l’inizio ufficiale di una sclerotizzazione, di una burocratizzazione nel settore cinematografico (e non solo, come è noto) che non vedrà sosta fino alla morte di Stalin: il cinema diventa monopolio di stato. Vari elementi concomitanti contribuiscono al rafforzamento del fenomeno: abolizione di case di produzione e di distribuzione private, drastica riduzione dell’importazione (nel 1927 venti sono i film stranieri importati, nel 1937 nessuno) e della produzione (nel 1930 centoventotto film, nel 1933 ventinove), controllo sempre più capillare da parte del GUKF (Glavnoe Upravlenie Kinofotopromys]lennosti, Direzione Generale dell’Industria Cinematografica, fondato nel 1933) di progetti e sceneggiature, a cui viene attribuita una priorità di gran lunga maggiore rispetto al lavoro del regista5, pianificazione della produzione secondo direttive precise e indiscutibili. Circolano slogan sempre più minacciosi: scopo della Cinematografia è la mobilitazione delle masse («Lottiamo per un’arte che riesca a commuovere milioni di spettatori, che arrivi a milioni di spettatori, che sia comprensibile da milioni di spettatori»6), i 4 G. BUTTAFAVA, Il cinema russo e sovietico, Biblioteca di Bianco e Nero, Marsilio, Venezia 2000, p. 72. 5 In un editoriale non firmato, intitolato non a caso O samom glavnom (La cosa più importante) «Sovetskoe kino» (1933, n. 5-6, pp. 1-3) dichiara che «la cosa più importante, l’elemento decisivo del nostro lavoro è la sceneggiatura. Dalla sceneggiatura dipende tutto: la qualità ideologica, la correttezza politica, la validità artistica». 6 O samom glavnom, cit., p.1.

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STALIN FOLLIES. UN

ESEMPIO DI MUSICAL SOVIETICO

film devono essere insieme ideologicamente corretti e commercialmente redditizi ecc. Comincia a prender piede la lotta al formalismo e a ogni genere di sperimentazione, che si scatenerà in tutta la sua violenza nel 1936: vittima illustre in campo cinematografico sarà Sergej Ejzens]tejn con il suo Prato di Bezi] n, prima osteggiato in fase di sceneggiatura, poi ostacolato in ogni modo durante le riprese, infine definitivamente vietato come prodotto ideologicamente scorretto, pervaso da pericoloso misticismo. Vengono fissate con categorica chiarezza le tematiche su cui lavorare: prima di tutto esaltazione degli eroi caduti nella lotta per l’affermazione del socialismo, poi rappresentazione della vita quotidiana in un’epoca di transizione, dunque sottolineandone i lati positivi, infine intrattenimento del popolo con fini educativi. Boris S}umjackij, direttore del GUKF ed eminenza grigia del cinema sovietico fino al suo arresto per congiura trockista nel 1937, in un articolo del 1933 tuonava contro la scarsa qualità della produzione, invocando un rafforzamento del «nucleo legato a komsomol e partito»7 e auspicando il massimo sviluppo delle tendenze positive e progressiste, un’attenzione particolare ai problemi dell’industrializzazione, della difesa bellica dalla minaccia capitalistica, alle nuove forme di esistenza collettiva, alla grandiosa vittoria ottenuta con il primo piano quinquennale8. L’atmosfera di forzato ottimismo trovò la sua inquietante ratifica nella frase (tra le più citate nella seconda metà degli anni Trenta) pronunciata da Stalin al congresso degli stakanovisti: «Vivere è diventato più bello, vivere è diventato più allegro»9: e mentre l’atmosfera politica diventava sempre cupa e violenta a seguito dell’assassinio di Kirov (1 dicembre 1934), ormai per certo commissionato da Stalin, a cui seguì una raffica di arresti, esecuzioni, condanne ad anni di lager, il regime invitava il pubblico delle sale cinematografiche a svagarsi, a prendere la vita con leggerezza. 7 B. S}UMJACKIJ, Tvorc]eskie voprosy templana (Questioni creative di pianificazione tematica), «Sovetskoe kino» 1933, n.12, p. 2. 8 Molto materiale sull’involuzione totalitaria del cinema sovietico negli anni Trenta si trova nel volume collettivo Kino: politika i ljudi (3°-e gody) (Cinema: la politica e la gente (anni Trenta)), Moskva 1995. 9 Sull’appropriazione del riso da parte del potere staliniano vedi i capp. V e VI del citato saggio di Gian Piero Piretto.

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FAUSTO MALCOVATI

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In questo clima nasce, non a caso, l’interesse del regime per il film musicale. Il debutto dell’allievo di Ejzenst] ejn Alle origini del primo film musicale sovietico c’è l’incontro tra Boris S}umjackij e un giovane assistente di Ejzens]tejn, Grigorij Aleksandrov, appena rientrato dall’America, dove aveva passato, con il maestro, molti mesi, incontrando attori e registi hollywoodiani, girando in Messico il monumentale e sfortunatissimo Que viva Mexico!. Aleksandrov è un grande intrattenitore, i suoi racconti sull’esperienza americana sono straordinari, S}umjackij lo invita una sera nella dacia di Gor’kij, in realtà perché vuole farlo conoscere a un ospite non infrequente dello scrittore, e cioè Stalin10: il giovane piace al «padre dei popoli» e S}umjackij si sente autorizzato a fargli fare il primo passo autonomo nella regia. Sono anni che Aleksandrov lavora con Ejzens]tejn: fin da quando, diciottenne appena congedato dall’Armata Rossa, si presenta in cappotto militare insieme al compaesano Ivan Pyr’ev (che diventerà anche lui popolarissimo regista di film musicali a sfondo rurale) all’esame di ammissione allo Studio teatrale del Proletkul’t, dove insegna appunto il ventitreenne Ejzens]tejn. Al maestro piace l’allievo: lo fa lavorare come attore e assistente nei suoi primi spettacoli teatrali, Il messicano (Meksikanec) da Jack London e in una folle versione «eccentrica» de Il saggio (riduzione di Na vsjakogo mudreca dovol’no prostoty, Anche il più furbo ci casca) di Ostrovskij. Poi, con lui comincia la grande avventura cinematografica, da Sciopero (Stac]ka) del 1924 e dalla Corazzata Potemkin (Bronenosec Potemkin) del 1925 in poi. L’idea di un distacco dall’ormai storico assistente, di un suo debutto nella regia non convince del tutto Ejzens]tejn: soprattutto per il genere, mai affrontato, che gli propone S}umjackij, una commedia musicale. Non va tuttavia dimenticato che nel 1934 Aleksandrov, come si è detto, è fresco di una lunga esperienza americana, di un attento esame della 10 Le notizie sull’incontro sono riportate da Mark Kus]nirov in Svetlyj put’ ili C}arli i Spenser (Il cammino luminoso o Charlie e Spenser), Moskva 1993, pp. 96-97.

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ESEMPIO DI MUSICAL SOVIETICO

produzione hollywoodiana, e certamente non gli sono sfuggiti i primi film di Busby Berkeley, Gold Diggers of 1933 e 42nd Street, trionfi di suntuosa passione coreografica: se ne vedranno chiari echi soprattutto nella sua seconda prova, Il Circo (Cirk). Qual è la proposta di S} umjackij? Tradurre in film un successo teatrale leningradese: Negozio di musica (Muzykal’nyj magazin), testi di V. Mass e N. Erdman, musiche di I. Dunaevskij, messa in scena e interpretazione del maggior jazzista di quegli anni, Leonid Utesov, accompagnato dalla sua band. Popolarissimo ancor prima della rivoluzione, Utesov11 aveva vissuto negli anni Venti a Parigi, la Parigi di Mistinguette, Maurice Chevalier, Josephine Baker, e aveva sentito suonare grandi maestri come Ted Lewis e Claude Hopkins: tornato a Leningrado nel 1929, aveva riunito una band pescando i suonatori, vista la scarsa tradizione sovietica in fatto di jazz, nei maggiori teatri lirici del momento, il Mariinskij, il Michajlovskij, la Filarmonia. Il suo primo concerto ottiene un successo di pubblico incredibile, ma registra violenti attacchi da parte dell’Associazione di Musicisti Proletari. Nemmeno la collaborazione con S}ostakovic] gli evita gli strali della critica di sinistra: l’unico ad aprirgli le porte è il compositore nonché direttore del Music-hall di Leningrado, Isaak Dunaevskij. Insieme inventano uno spettacolo con musiche jazz sulla vita quotidiana in un negozio di musica e lo intitolano appunto Negozio di musica. Un successo enorme: e a S}umjackij viene l’idea di farne un film. Aleksandrov accetta, ma invece di fare una semplice versione filmica della commedia come gli veniva proposto, si mette al lavoro con i due autori, Mass e Erdman: ne esce una sceneggiatura interamente nuova, che prima ha il titolo provvisorio di Commedia jazz (Jazz-Komedija) poi Il pastore di Abrau-Djurso (Pastuch iz Abrau-Djurso) e infine L’allegra brigata (Veselye rebjata). Protagonista un pastore con eccezionali doti musicali che dal natio kolchoz in Caucaso arriva a esibirsi, con una banda jazz chiamata appunto «Veselye rebjata», addirittura al Bol’s]oj. 11 Notizie su Utesov e in generale sul jazz in URSS si trovano in S.F. STARR, Red and Hot. The Fate of Jazz in the Soviet Union, Limelight Editions, New York 1994, pp. 144-156 oltre che nei ricordi dello stesso Utesov, Zapiski aktera (Appunti di un attore), Moskva-Leningrad 1939 e S pesnej po z]izni (Con la canzone nella vita), Moskva 1961.

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La sceneggiatura, sottoposta al controllo del Comitato per le questioni cinematografiche (Komitet po delam kinematografij) sotto l’egida del GUKF, viene subito attaccata sia per insufficiente rigore ideologico sia per gli aperti richiami agli esempi del cinema borghese americano di Buster Keaton e Charlie Chaplin. Aleksandrov reagisce subito con chiarezza: la commedia sovietica è stata caricata di troppi contenuti, di troppe direttive, ha smesso di divertire, dunque il primo compito da risolvere è di tornare a far ridere la gente di un riso genuino, semplice, autentico, senza sovrastrutture e insieme di dimostrare che in un’epoca di costruzione del socialismo si può vivere allegramente e coraggiosamente. Non va poi dimenticato che il protagonista è un pastore che diventa direttore d’orchestra e la protagonista una cameriera che diventa cantante. Non è questo un chiaro segno della positiva evoluzione della società socialista?12. Fra molte polemiche ma con il solido appoggio di S}umjackij, il film viene messo in lavorazione. Una lavorazione non facile: Aleksandrov, in pieno accordo con il compositore Dunaevskij, vuol farne un film «tutto» musicale, dunque ogni scena viene costruita su una partitura, precedentemente scritta e provata. Un lavoro molto pesante e del tutto nuovo, sia per il regista sia per gli interpreti. Terminate le riprese, si ripresentano le perplessità e le resistenze nate a proposito della sceneggiatura. Bubnov, capo del Commissariato per l’Istruzione, indignato per la vuota leggerezza del film, per l’assenza di rapporto con la realtà sovietica, per l’irrisione della musica classica (Liszt e Chopin mescolati a brani di musica jazz) vuol vietare il film. S}umjackij aggira l’ostacolo, organizza una proiezione per Gor’kij: nella dacia arrivano rappresentanti del vicino komsomol’, qualche scolaro della scuola del villaggio, alcuni scrittori. Gor’kij è entusiasta: non solo, vuol subito farlo vedere ai membri del Politburo e ottenere il beneplacito di Stalin in persona. La manovra ottiene l’effetto sperato. Nelle sue memorie, Aleksandrov cita la frase con cui Stalin avrebbe concluso la proiezione: «È come se fossi stato un mese in vacanza»13. S}umjackij coglie l’occasione e prima ancora di presentarlo al pubblico sovietico, decide di inserire il film tra quelli da presentare al II° Festival Internazio12 13

Dichiarazioni rilasciate a «Komsomol’skaja pravda», 17.8.1933, p. 3. G.B. ALEKSANDROV, Epocha i kino (L’epoca e il cinema), Moskva 1976, p. 13.

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nale di Venezia del 1934. È la prima volta che l’Unione Sovietica affronta l’arena internazionale: al I° Festival era assente. A Venezia il film ha un successo travolgente: chiude la rassegna tra plauso incondizionato della critica (i francesi lo definiscono la miglior commedia dell’anno), consensi entusiastici del pubblico e una coppa alla delegazione sovietica per la miglior selezione (insieme al film di Aleksandrov, sono presenti Groza, L’uragano, di V. Petrov, Peterburgskaja noc’] , Notte pietroburghese, di G. Ros]al’, Pysk ] a di M. Romm, Ivan di A. Dovzenko, Tri pesni o Lenine, Tre canzoni su Lenin, di D. Vertov, Ce} ljuskin di A. Safran). S}umjackij al rientro scrive un trionfalistico resoconto dell’avvenimento14, in cui, oltre a sottolineare l’unanime apprezzamento per il cinema sovietico non solo a Venezia, ma anche a Parigi e a Varsavia, dove il gruppo di film sovietici viene ripresentato, manifesta le sue perplessità su alcuni prodotti del cinema europeo, parlando male di Extase di Machaty (con il famoso nudo di Hedy Lamarr, pura pornografia) e malissimo de L’uomo di Aran di Flaherty (puro estetismo). Un linciaggio organizzato Fresco degli applausi veneziani, L’allegra brigata viene finalmente presentato il 25 dicembre 1934 al pubblico sovietico: naturalmente è un nuovo trionfo. Le sale dove il film è programmato vengono prese d’assalto, gli incassi quasi pareggiano quelli di Ciapaiev (che resta però insuperato), le canzoni raggiungono vette di popolarità inusitate, la «Marcia dell’allegra brigata», leitmotiv che apre e chiude il film, viene addirittura intonata (dopo l’Internazionale, ovviamente) dai delegati al Congresso degli stakanovisti nella seduta finale, alla presenza di Z}danov e Voros]ilov. Ben altra cosa la reazione della stampa: viene messo in atto un vero e proprio linciaggio del film, riaffiorano con inusitata virulenza le accuse mosse alla sceneggiatura. Aleksej Surkov, in una riunione dell’Unione degli Scrittori, accusa i responsabili del film di «inseguire il divertimento e la risata 14 B. S}UMJACKIJ, Sovetskij film na mez]dunarodnom festivale (Il film sovietico al Festival Internazionale), Moskva 1934.

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a tutti i costi […]. L’allegra brigata è frutto di un’indegna ideologia “da limonata”, è un’apoteosi della pura volgarità […], una presa in giro del pubblico e dell’arte»15. La «Literaturnaja Gazeta» rincara la dose: parla del film come di «un volgare errore», sostiene che è una «barricata di cartone dei difensori della commedia senza idee […]. Che ci sia una buona canzone va bene, ma quando la buona canzone non riflette l’autentico uomo sovietico che non solo canta ma crea, lotta, vince, va malissimo»16. E arriva addirittura ad accusare Aleksandrov e Dunaevskij di plagio (la «Marcia» sarebbe copiata da un motivo messicano già utilizzato dal film americano di Jack Conway Viva Villa! dello stesso anno). Alla fine sulla «Pravda»17 prende con autorevolezza la parola S}umjackij e, pur ammettendo alcuni limiti del film (sceneggiatura dispersiva, priva di solida trama, eccesso di sketches comici senza legame con il soggetto, lunghezza di alcune sequenze: tutti difetti che verranno, come si vedrà, prontamente corretti nel film successivo, Il Circo) chiude la polemica a favore di Aleksandrov, che così viene consacrato regista di regime e insignito, non a caso in quello stesso anno, dell’«Ordine della Stella Rossa» (unico civile tra gli insigniti), «per il coraggio e l’audacia con cui ha superato le difficoltà della commedia cinematografica»18. Tre anni dopo anche la star de L’allegra brigata Ljubov’ Orlova riceverà (ma per il film successivo, Il Circo) l’«Ordine della Bandiera rossa del lavoro». Tutti i torti non li aveva chi accusava il film di fragilità e inconsistenza. La trama, come si è già accennato, è esilissima: un pastore del Caucaso, col pallino della musica, diventa dopo una serie di rocambolesche avventure, direttore di un’orchestra jazz che trionfa al Bol’s]oj (!) e star del numero più importante dell’orchestra diventa una servetta con una magnifica voce sopranile. Più che sulla trama, il film si regge in realtà su cinque episodi densi di gag irresistibili, retti da un ritmo comico strepitoso. Ma andiamo con ordine. Intanto i titoli di testa: un cartone animato dove compaiono le facce di Charlie Chaplin, Harold Lloyd, Buster Keaton e subito dopo la scrit15 16 17 18

I.L. FROLOV, Grigorij Aleksandrov, Moskva 1976, p. 30. «Literaturnaja Gazeta», 1935, 15 marzo, p. 3. «Pravda», 1935, 8 aprile, p. 2. G.B. ALEKSANDROV, Op.cit., p. 186.

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ta «non compaiono in questo film». Poi i nomi dei protagonisti, Leonid Utesov e Ljubov’ Orlova, e una misteriosa Mar’ja Ivanovna a cui segue un grande punto interrogativo. Compare subito dopo l’immagine di una mucca: una mucca infatti è la protagonista del primo episodio, come vedremo. Il film si apre poi con la celeberrima «Marcia dell’allegra brigata» («Mars veselych rebjat»): il pastore Kostja Potechin al suono del suo piffero esce dal kolchoz «Limpida fonte», seguito da un gregge composto da capre, maiali, buoi, mucche, con a capo la veterana e un po’ rimbambita Mar’ja Ivanovna. All’appello musicale di Kostja, ogni animale risponde col suo verso: un muggito, un belato, un nitrito. L’allegra brigata procede tra l’entusiasmo di contadini e villeggianti (siamo in un luogo di villeggiatura sulle rive del Mar Nero) e arriva in vista del mare. Ecco il ritornello della «Marcia» (tanto piaciuto agli stakanovisti): «La canzone ci aiuta a costruire e a vivere/ Come un amico ci chiama e ci guida/ E chi marcia nella vita sulle note di una canzone/ Non si perderà mai da nessuna parte». Cinque episodi Primo episodio: una serata con ospiti indesiderati. Scambiato sulla spiaggia, dove è andato a fare il bagno, per il noto direttore d’orchestra Fraschini, Kostja viene invitato dalla bella Elena ad una serata al distinto e borghesissimo pensionato «Cigno nero». Kostja, sedotto da Elena, chiude il gregge nel suo recinto e si reca, ignaro dello scambio, alla serata, dove gli ospiti, tutti in abiti da sera, lo invitano a suonare qualcosa. L’unica cosa che l’ingenuo Kostja sa suonare è la sua marcia: così estrae il piffero e intona le prime note. Il gregge, il cui recinto non è lontano dal pensionato, ode il richiamo, abbatte lo steccato e si dirige in massa, salendo le scale, verso l’elegante pensionato. E mentre gli ospiti ascoltano estasiati Kostja che suona la sua marcia nel salotto, Mar’ja Ivanovna e l’intero gregge irrompono nella sala da pranzo e divorano le prelibate pietanze, distruggendo e calpestando porcellane e cristalli. Invano la servetta Anjuta cerca di arrestare l’invasione: ormai i fedeli compari di Kostja sono dappertutto, chi adagiato in un grande piatto di portata (un porcellino, scambiato

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poi da un ospite per un arrosto bello e pronto), chi sdraiato nel letto della madre di Elena (la mucca Mar’ja Ivanovna) e via. L’episodio si conclude con una forsennata serie di gag, di «incontri» tra la distinta clientela sbalordita del «Cigno nero» e l’allegra brigata di Kostja, tra urla, svenimenti, orrore, disperazione. Secondo episodio: la serata al Music-hall. Passa un mese e Kostja (senza una vera ragione, i nessi del film, come si è detto, sono molto aleatori) si trova a gironzolare per Mosca e capita di fronte all’illuminatissimo ingresso del Music-hall. Scambiato per un facchino, gli viene messo in mano un cesto di fiori destinato a decorare il palcoscenico durante l’esibizione, in programma quella sera, del celebre direttore Fraschini, già noto allo spettatore. Il concerto sta per cominciare, il direttore è in ritardo: per una serie di equivoci, accidenti, scambi di persona, inseguimenti, Kostja si trova, in frac, al posto del direttore, con tutti i riflettori puntati su di lui. Stordito, vede in un palco la bella Elena e cerca di attirare la sua attenzione: comincia a gesticolare in modo scomposto, ma l’orchestra, che lo prende per il vero direttore, obbedisce ai suoi comandi e attacca con grande sentimento un brano di Liszt. Alla fine il successo è strepitoso: ma intanto arriva il vero Fraschini e riprendono equivoci e inseguimenti. L’episodio si conclude con la fuga di Kostja insieme ai componenti di una banda di jazz, chiamata «Allegra brigata», che lo accolgono come loro direttore. Terzo episodio: la prova d’orchestra che finisce in rissa. È un brano d’antologia, uno degli episodi più famosi, più celebrati. L’«Allegra brigata» comincia una prova nella camera di uno degli orchestrali. Tra loro nasce una discussione sul ritmo da seguire in un certo brano, dalle urla si passa agli insulti, dagli insulti alle botte. Ognuno prende il proprio strumento e lo usa come corpo contundente: così si ottiene una doppia partitura, quella «esterna» che scandisce il match tra gli orchestrali e quella «interna» che intonano gli strumenti prima di essere distrutti, ognuno con il proprio ultimo lamento. Interrotta la rissa dal capocaseggiato (una sorta di generale in gonnella), l’orchestra viene espulsa. Quarto episodio: il funerale. Per poter continuare la prova, l’orchestra si mette al seguito di un funerale e improvvisa per strada l’accompagnamento musicale: quando il poliziotto li controlla, gli

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orchestrali suonano la marcia funebre di Chopin, appena quello volta lo sguardo, si scatenano in numeri allegrissimi, con Kostja alla direzione che scandisce l’esibizione con passi di danza. In realtà l’«Allegra brigata» è attesa al Bol’s]oj dove deve esibirsi in una serata per dilettanti. Li coglie un acquazzone, si pigiano tutti sulla carrozza del servizio funebre al termine della cerimonia e per poche copeche si fanno portare al Bol’s]oj. Durante il percorso incontrano la servetta Anjuta, cacciata dalla padrona di casa perché ha una voce più bella e sicura della figlia Elena (che vorrebbe diventare soprano e fa vocalizzi stonatissimi, mentre Anjuta azzecca sempre la nota giusta) e la caricano insieme a loro. Arrivati al Bol’s]oj, tutti scendono in fretta per non pagare, così il vetturino afferra Anjuta, l’ultima a scendere, e la trattiene in ostaggio. Quinto episodio: la serata al Bol’s]oj. Bagnati fradici, con gli strumenti pieni d’acqua, gli orchestrali, già in ritardo, vengono immediatamente mandati in scena. Ma al primo accordo, è un diluvio: qualsiasi nota cerchino di emettere, ottengono solo schizzi, getti, spruzzi. Pronta a tutto pur di non rinunciare all’esibizione, l’«Allegra brigata» improvvisa un concerto di strumenti «a fiato»: ognuno imita con la voce uno strumento, sempre sotto la guida dell’imperterrito Kostja. Intanto Anjuta viene rilasciata dal vetturino (anzi dai vetturini, perché uno si è infilato nella cassa del morto a smaltire una sbronza) e si presenta in palcoscenico, con addosso una coperta da cavallo e un lampione della carrozza in mano. Invitata a unirsi all’orchestra, si mette a cantare, improvvisa un numero di danza, diventa infine la vera attrazione della serata; l’orchestra, recuperati gli strumenti, riprende a suonare e con Anjuta in testa, seguita dall’intero coro e corpo di ballo del Bol’s]oj, intona a pieno volume la «Marcia» che aveva aperto il film, questa volta in versione sinfonica e in un finale travolgente e trionfale. Correzione di rotta Concludendo, L’allegra brigata, con la sua sgangherata comicità, è un film riuscito. Riuscito ma, per l’Unione Sovietica del 1934, pericoloso: troppa improvvisazione, troppa anarchia, troppo spazio

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al disordine, troppa scanzonata irrisione di norme e convenzioni. Il genere commedia musicale funziona, far ridere è ottima cosa, ma va rispettato il codice ideologico ormai imposto in tutte le arti. Possiamo dunque affermare che L’allegra brigata apre un genere e, in certo senso, subito lo chiude. La commedia musicale allegramente libera e senza senso non può aver posto in un sistema di rigido controllo ideologico di tipo totalitario. Rinascerà o meglio continuerà a esistere come commedia musicale, appunto, «ideologica», un nuovo genere, con musiche, testi, gag rigorosamente subordinati a contenuti propagandistici, di volta in volta approvati e sanzionati da commissioni e da burocrati. E così, con questa indispensabile correzione di rotta, Aleksandrov gira la sua seconda commedia musicale, Il Circo (Cirk) del 193619, che ovviamente non susciterà alcuna polemica, anzi avrà il pieno consenso della critica più o meno allineata (del tutto indipendente nel 1936 era impensabile). Le analogie con L’allegra brigata sono molte: anche qui pieno sostegno di S}umjackij, quindi buona copertura politica, anche qui un testo teatrale di successo, Sotto il tendone del circo (Pod kupolom cirka), firmato da una coppia di letterati molto famosa, Il’ja Il’f e Evgenij Petrov. Al lavoro di sceneggiatura si unisce il fratello di Petrov, Valentin Kataev: ma fin dalle prime battute gli autori della commedia mal tollerano il pesante intervento di Aleksandrov (leggi S}umjackij), che richiede continue modifiche di marchio ideologico (la protagonista da tedesca diventa americana, la parata del 1° maggio deve chiudere il film) e una insistente deviazione verso il melodramma, estraneo al testo originale. Dopo qualche mese Il’f e Petrov danno le dimissioni da sceneggiatori e partono per l’America (da questa loro esperienza nascerà l’ultima loro opera in collaborazione, L’America a un piano, Odnoetaz]naja America). Aleksandrov chiama allora un altro letterato, Isaak Babel’, a sistemare i dialoghi di un lavoro che porta ormai 19 A Il Circo sono state dedicate alcune interessante analisi: K. DOBROTVORSKAJA, Cirk Aleksandrova, «Iskusstvo Kino», 1992, n. 11, pp. 25-37; M. RATCHFORD, Circus of 1936: Ideology and Entertainement Under the Big Top in A. HORTON (a cura di), Inside Soviet Film Satire. Laughter with a Lash, Cambridge University Press, Cambridge, 1993, pp. 83-93; R. TAYLOR, The Illusion of Happiness and the Happiness of Illusion: Grigorii Aleksandrov’s «The Circus» in «The Slavonic and East European Review», vol. 74, n.4, oct.1996, pp. 601-620.

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solo la sua firma (Babel’, arrestato nel 1940, sparirà dai titoli di testa): ultimata la sceneggiatura, approvata a pieni voti dagli organi appositi, le riprese possono cominciare. È il 1935. Per rendersi conto della già accennata correzione di rotta che subisce il musical staliniano dopo la realizzazione de Il Circo – cui seguiranno di Aleksandrov Volga-Volga del 1938 e Il cammino radioso (Svetlyj put’) del 1940 e poi tutti i film «rurali» di Ivan Pyr’ev –, basta evidenziare i temi portanti del film: conflitto comunismo/capitalismo e superiorità del primo sul secondo (non va dimenticato che dal 1933 Hitler è al potere e nel 1935-36 Mussolini muove alla conquista dell’Impero con la sua guerra d’Africa), piena democrazia raggiunta dall’Unione Sovietica (la Costituzione staliniana viene emanata proprio al termine della lavorazione del film, nel 1936) di fronte all’intolleranza e al trionfante razzismo dei paesi capitalisti, esaltazione dell’Unione Sovietica come asilo dei perseguitati, superiorità dell’Unione Sovietica nelle invenzioni e nella tecnica, ottimismo e serenità nell’affrontare il futuro. Un’analisi del film ci porta a una prima conclusione: qui c’è una storia ben strutturata, dei personaggi a tutto tondo, dei numeri musicali solidamente collegati alla storia, nessuna improvvisazione, nessuna incongruenza narrativa. Un circo ideologico Nei titoli di testa, una trovata: su un muro campeggia il manifesto de L’allegra brigata, un attacchino gli incolla sopra quello de Il Circo. Dunque una prima strizzata d’occhio allo spettatore: tra i due film una continuità esiste. Primo episodio: fuga dall’America razzista. In una cittadina americana di provincia, Marion Dixon, nota star circense, fugge inseguita da una folla inferocita (gli inseguitori americani sono tutti brutti, grassi, urlanti): stringe tra le braccia un neonato, frutto di una relazione con un uomo di colore. Riesce a salire sull’ultimo vagone di un treno già in movimento: entra in uno scompartimento e si abbatte affranta sul sedile. Di fianco a lei siede un impresario tedesco, certo Kneischitz (torvo, bruno, capelli imbrillantinati, baffetti), che subito la scrittura per una tournée in Unione Sovietica. Il numero di

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Marion è «Volo sulla luna»: sparata da un cannone, raggiunge un trapezio a forma di mezza luna dove canta un motivo orecchiabile («Mary crede nei miracoli! Mary vola su nei cieli!»). Per sottolineare l’appartenenza di Marion al mondo borghese bigotto, il regista le fa fare il segno della croce prima di iniziare il numero; e nella scatola del trucco in cui si specchia prima di comparire nell’arena c’è un vistoso crocefisso. Il numero ha un successo enorme: e il direttore del circo dove Marion si esibisce propone a un trapezista appena congedato dal servizio militare (le divise sono sempre bene accette), il bel Martynov, biondo e aitante, di inventare un numero ancora più spettacolare, «Volo nella stratosfera». Il numero viene lanciato con la frase: «Record mondiale degli artisti sovietici, ultima meraviglia della tecnica circense!». Per un equivoco, la valigia di Martynov finisce nel camerino di Marion: aprendola per sbaglio la donna vede la foto del baldo trapezista e subito se ne innamora. L’amore viene rafforzato da una visita di lui all’albergo di lei (magnifico, con vista sulla piazza Rossa: in realtà si tratta dell’albergo Moskva, che nel 1936 non era ancora terminato, ma veniva considerato il più lussuoso e esclusivo della capitale). Al pianoforte egli intona la «Canzone della Patria», («Vasta è la mia terra natia»), nuovo indovinatissimo frutto della coppia, già ampiamente rodata ne L’allegra brigata, Lebedev-Kumac] (paroliere) e Dunaevskij (compositore), motivo immediatamente popolarissimo, che diventa poco dopo sigla di Radio Mosca e carillon delle torri del Cremlino. Il testo è un inno alla magnifica terra russa: «Vasta è la mia terra natia/ Ricca di boschi, campi, fiumi!/ Non conosco altro paese/ In cui l’uomo respiri con tanta libertà». Il testo della canzone continua riassumendo alcuni dei temi ispiratori del film: superiorità dell’Unione Sovietica dove regna pace, serenità, allegria, ma dove si è pronti a reagire a qualsiasi minaccia: «Sul paese soffia un vento primaverile/ Di giorno in giorno vivere diventa più gioioso/ E nessuno al mondo è capace/ Di ridere e amare meglio di noi!/ Ma severi aggrotteremo le ciglia/ Se un nemico intenderà distruggerci/ Amiamo la Patria come una sposa/ La difendiamo come una dolce madre!». La canzone viene, seduta stante, intonata con forte accento inglese da Marion, occhi negli occhi con Martynov, tra uno sventolare di seriche tende e un luccicare di stelle sulle torri del Cremlino. Sullo sfondo il pianto di un bimbo: ahi!, Marion nasconde

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al nuovo amore il suo peccato e aumenta il volume del canto. Ma ormai la trasformazione è avvenuta: Marion non è più una star borghese frivola e vanitosa, ha capito di trovarsi in un paese dove raggiungerà la felicità più completa. E a Kneischitz che, in una violenta scenata di gelosia, le rinfaccia gioielli e toilettes comprati per lei, Marion risponde: «La Marion per cui li hai comprati non esiste più». Kneischitz mette in atto tutta la sua bieca perfidia borghese (è un nazista da manuale, con qualche tratto somatico – pettinatura, baffetti – vagamente hitleriano) cerca di intralciare la storia di Marion e Martynov, sottrae lettere d’amore destinate a Martynov, fa aumentare di peso con caloriche torte Rajka, figlia del direttore del circo e partner di Martynov (che infatti, nella prova del nuovo numero, cade e si ferisce) ecc. Finalmente c’è la «prima» del «Volo nella stratosfera»: Rajka volutamente ritarda in modo da permettere a Marion di sostituirla e di coronare il sogno d’amore anche professionalmente. «Volo nella stratosfera» è un numero coreograficamente sontuoso, di una spettacolarità di cui Aleksandrov è certamente debitore a Berkeley: lanciata da un cannone verso la stratosfera, Marion viene raggiunta da Martynov, catapultato verso l’alto. Poi scende con un paracadute su una piattaforma girevole. La tela del paracadute copre la piattaforma: quando viene sollevata, scopre una piramide di cerchi concentrici di ballerine che si muovono in perfetta sincronia agitando fiaccole, mentre da una scala coi gradini illuminati scende Marion accompagnata da Martynov. Nel numero trionfalmente hollywoodiano irrompe però l’ideologia, la lotta al razzismo: il perfido Kneischitz interrompe la coreografia, trascina il bimbo negro ai piedi della piramide tra lo stupore delle ballerine, grida: «Questo è suo figlio! Una donna così non ha posto in una società civile!». Non l’avesse mai detto: il bimbo gli viene sottratto dal pubblico che intona una dolce ninna-nanna, passandoselo di mano in mano. Non basta il rifiuto del razzismo, ci si aggiunge la difesa delle minoranze: a passarselo e a intonare la ninna-nanna ciascuno nella propria lingua è prima una njanja russa doc, poi un ucraino, un tataro, un uzbeco, un georgiano, un ebreo (il grande attore Michoels in un cammeo di pochi secondi) e infine un negro. Ecco il testo della ninna-nanna: «Arriva il sonno sul tuo capo/ Forte forte arriva il sonno/ Cento strade, cento vie/ Sono aperte davanti a te/

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FAUSTO MALCOVATI

Dormi, mio tesoro/ Tu sei ricco, ricco/ Tutto è tuo, tutto, tutto!/ Le albe e i tramonti…». E il direttore del circo commenta: «Nel nostro paese amiamo tutti i bimbi, perciò fatene tanti, neri, bianchi, gialli, tutti quelli che volete, anche azzurri o rosa!». L’apoteosi propagandistica si raggiunge nel finale. Dunque tutto è risolto, dunque la felicità è possibile per chiunque in Unione Sovietica, Martynov abbraccia Marion (e subito diventa Mascia, diminutivo di Mar’ja) che bacia il figlioletto e tutti intonano la «Canzone della Patria». Poi dissolvenza: parata del 1° maggio sulla piazza Rossa, sventolare di bandiere, marcia militare, drappelli di ginnasti e scolari, si intravedono le effigi di Marx, Lenin, Stalin. Marion, Martynov, Rajka, continuando a cantare la «Canzone della Patria», si uniscono alla marcia, tutti vestiti di bianco, tra un tripudio di stendardi. Rajka chiede a Marion-Mascia: «Ora capisci?», lei risponde estasiata: «Sì, ora capisco!» (alla domanda rivoltale da Rajka a metà film: «Capisci che in Unione Sovietica tutto è possibile?», Marion aveva risposto: «Non capisco»). Tutti eroi, appassionatamente C’è poco da aggiungere. Questo è lo schema delle commedie musicali tra il 1936 (data del Circo: come ho spiegato, non userei il 1934, data dell’anomala Allegra brigata) e i primi anni Cinquanta, con un’accentuazione crescente del lato propagandistico e ideologico (andrebbe analizzato, per capire che eccessi si siano potuti raggiungere, il quarto film della coppia Aleksandrov-Orlova, Il cammino luminoso, cammino della protagonista da semplice operaia a eroe del lavoro, con finale stretta di mano di uno Stalin invisibile ma dipinto sulla radiosa espressione della premiata). La definizione di cinema totalitario (e in questo senso di commedia musicale totalitaria) credo non sia fuori luogo. Oggi, quelle commedie musicali, tranne L’allegra brigata, sono tutte intollerabili se se ne analizza il contenuto, se si guardano come prodotti del mito staliniano di un’Unione Sovietica come migliore dei mondi possibili, dove «vivere è diventato più bello, vivere è diventato più allegro». Intollerabili perché coincidono con lo scatenarsi del terrore in tutta la sua efferatezza (un mese prima della «prima» de L’allegra brigata c’è l’assassinio di

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STALIN FOLLIES. UN

ESEMPIO DI MUSICAL SOVIETICO

Kirov), con i grandi processi contro i «sabotatori trockisti», con gli arresti di massa, con i milioni di deportati nei lager siberiani. Va tuttavia sottolineato un elemento importante: la grande professionalità della confezione. Le musiche e i testi delle canzoni (nel caso di Aleksandrov sempre firmate dalla coppia Lebedev-Kumac-Dunaevskij) sono orecchiabili, piacevolissime, un misto tra operetta viennese, melodia popolare, marcia militare con qualche moderata inflessione sentimentale e qualche sdolcinata pretesa letteraria; gli interpreti sono di ottimo livello, a partire dalla Orlova (protagonista di tutti i film di Aleksandrov, nonché sua moglie nella vita), che resta una delle pochissime vere dive del periodo prebellico (presenza, voce, danza, look platinato), con una popolarità paragonabile solo a certi modelli occidentali (Marlene Dietrich o Judy Garland); alcune gag sono davvero riuscite (nel Circo quella dove il fidanzato di Rajka, per una serie di equivoci, resta imprigionato nella gabbia dei leoni, riesce a tenerli a bada e a farli fuggire sventolando davanti ai loro poco amichevoli musi un mazzo di fiori, poi, appena liberato, sviene di fronte a un cagnolino che gli abbaia contro, o i numeri del circo con le biciclette); alcuni numeri coreografici sono spettacolari (ma sono più inediti, rispetto ai modelli americani, quelli «rurali» e kolchosiani di Pyr’ev); soprattutto dietro la macchina da presa c’è Aleksandrov che, nonostante tutto, è cresciuto alla scuola di Ejzens]tejn.

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I libri dell’Associazione Sigismondo Malatesta

Studi di Letteratura comparata e Teatro Collana diretta da: Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Francesco Fiorentino 1. Il romanzo tra i due secoli (1880-1918) a cura di Paolo Amalfitano (1993) Saggi di: M. Bongiovanni Bertini, R. Ceserani, F. Erspamer, G. Farese, F. Marenco, M. Modenesi, S. Perosa, P. Pugliatti 2. Realismo ed effetti di realtà nel romanzo dell’Ottocento a cura di Francesco Fiorentino (1993) Saggi di: A.M. Carpi, A. Castoldi, M.Columni Camerino, F. Fiorentino, G. Iotti, F. Marucci, G. Merlino, F. Moretti, F. Orlando, S. Sabbadini 3. Il valore del falso. Errori inganni equivoci sulle scene europee in epoca barocca a cura di Silvia Carandini (1994) Saggi di: F. Angelini, A. D’Agostino, D. Dalla Valle, S. Ferrone, N. Fusini, A. Lombardo, F. Marenco, F. Orlando, M.G. Profeti, A. Serpieri, F. Vazzoler 4. La tradizione dell’umorismo nero di Stefano Brugnolo (1994)

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5. Scene, itinerari, dimore.Lo spazio nella narrativa del ‘700 a cura di Loretta Innocenti (1995) Saggi di: P. Amalfitano, A. Castoldi, A. Chiarloni, P. Colaiacomo, G. Fink, G. Mazzacurati, F. Moretti, A. Pizzorusso, A. Principato, S. Romagnoli 6. Proust e la letteratura anglosassone di Carlo Lauro (1995) 7. Sui primi poeti del Novecento. La generazione degli anni Ottanta a cura di Giuseppe Merlino (1995) Saggi di: M. Bacigalupo, A. Berardinelli, C.G. De Michelis, P. V. Mengaldo, I. Porena, M. Richter, S. Sabbadini, G. Sacerdoti 8. Meraviglie e orrori dell’aldilà. Intrecci mitologici e favole cristiane nel teatro barocco a cura di Silvia Carandini (1995) Saggi di: E. Cancelliere, S. Carandini, P. Fabbri, G. Fasano, D. Gambelli, V. Gentili, P. Petrobelli, G. Sacerdoti, F. Taviani 9. Raccontare e descrivere. Lo spazio nel romanzo dell’800 a cura di Francesco Fiorentino (1997) Saggi di: R. Ceserani, F. Marenco, F. Moretti, F. Orlando, C. Pagetti, A. Serpieri, P. Tortonese, L. Villa, E. Villari, L. Zagari 10. Chiarezza e verosimiglianza. La fine del dramma barocco a cura di Silvia Carandini (1997) Saggi di: R. Ciancarelli, D. De Seta, M. Fagiolo dell’Arco, F. Fiorentino, R. Giomini, L. Innocenti, A. Lombardo, V. Papetti, J. Rousset, G. Violato, N. Von Prellwitz

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11. Le configurazioni dello spazio nel romanzo del ‘900 a cura di Paolo Amalfitano (1998) Saggi di: P. Amalfitano, V. Amoruso, M. Bertini, V. Coletti, A. Gargano, A. Lavagetto, F. Malcovati, G. Mochi, S. Sabbadini, S. Teroni 12. Il personaggio romanzesco. Teoria e storia di una categoria letteraria a cura di Francesco Fiorentino e Luciano Carcereri (1998) Saggi di: R. Ascarelli, M. Botto, F. Brioschi, M. Domenichelli, F. Fiorentino, G. Grilli, Ph. Hamon, R. Luperini, G. Paduano, A. Varvaro 13.14.15. Teatri barocchi. Tragedie, pastorali, commedie nella drammaturgia europea fra ‘500 e ‘600 a cura di Silvia Carandini (2000) Saggi di: P. Amalfitano, F. Angelini, G. Aquilecchia, S. Arata, E. Bonfatti, R. Camerlingo, C. Corti, D. Dalla Valle, G. Forestier, M. Fusillo, A. Gareffi, H. Gatti, G. Grilli, M. Lombardi, S. Mamone, F. Marenco, Ch. Mazouer, B. Papasogli, M. Plaisance, P.C. Rivoltella, S. Rufini, G. Sacerdoti, A. Serpieri, E. Tamburini, R. Tessari, S. Zatti. 16. Il giudizio di valore e il canone letterario a cura di Loretta Innocenti (2000) Saggi di: L. Bolzoni, A. Castoldi, L. Dällenbach, P. Fabbri, E. Franco, F. Marenco, F. Moretti, F. Orlando

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17. La letterarietà dei discorsi scientifici. Aspetti figurali e narrativi della prosa di Hegel, Tocqueville, Darwin, Marx, Freud di Stefano Brugnolo (2001) 18. La poesia dell’età romantica. Lirismo e narratività a cura di Andreina Lavagetto (2002) Saggi di: M. R. Alfani, G. Cacciavillani, P. Colaiacomo, S. Corrado, P. Gibellini, A. Guyaux, G. Iotti, F. Rognoni, L. Rossi 19. Il ritratto dell’artista nel romanzo tra ‘700 e ‘900 a cura di Enrica Villari e Paolo Pepe (2002) Saggi di: G. Baioni, P. Boitani, A. Boschetti, S. Calabrese, M. D’Amico, M. Palumbo, S. Perosa, G. P. Piretto, G. Rubino, P. Tortonese 20. La trama nel romanzo del ‘900 a cura di Luca Pietromarchi (di prossima pubblicazione) Saggi di: A. Boscaro, A. Cagidemetrio, A. Compagnon, C. Corti, D. Del Giudice, C. Gorlier, F. Orlando, L. Pietromarchi, E. Pittarello, G. Roscioni 21. Novecento barocco. La scena moderna e il Secolo d’Oro a cura di Delia Gambelli (di prossima pubblicazione) Saggi di: F. Angelini, S. Arata, M. Fazio, L. Innocenti, A. Landolfi, F. Malcovati, F. Marotti, D. Millet-Gérard, D. Rizzi, F. Taviani

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22. Il tragico nel romanzo moderno a cura di Piero Toffano (di prossima pubblicazione) Saggi di: P. Amalfitano, A. Asor Rosa, A. Carpi, B. Clément, I. Duncan, F. Fiorentino, F. Marenco, G. Paduano, V. Strada, C. Segre, P. Toffano

Studi sul cinema 1. Il racconto tra letteratura e cinema a cura di Lucilla Albano (1997) Saggi e interventi di: L. Albano, G. Amelio, G. Bertolucci, I. Bignardi, G. Fink, C. Garboli, M. Grande, R. La Capria, M. Martone, G. Merlino, P. Ortoleva, M. Rafele, L. Ravera, F. Scarpelli, G. Tinazzi 2. Modelli non letterari nel cinema a cura di Lucilla Albano (1999) Saggi e interventi di: A. Abruzzese, A. Aprà, S. Bernardi, B. Bertolucci, E. Dagrada, G. De Vincenti, G. Frezza, M.M. Gazzano, P. Montani, M. Rafele, P. Terni 3-4. Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical a cura di Franco La Polla e Franco Monteleone (2002) Saggi di: J.-L. Bourget, R. Campari, V. Caprara, E. Comuzio, R. Durgnat, J. Finler, L. Gandini, G. Gosetti, E. Guzzo Vaccarino, F. La Polla, F. Malcovati, A. Masson, I Moscati, G. Muscio, P. Ortoleva, A. Sapori, V. Zagarrio

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