Epica dell’ottobre. John Reed, la rivoluzione e il mito dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo


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Epica dell’ottobre. John Reed, la rivoluzione e il mito dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo

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LETTERARIA/5 Collana diretta da Lucia Rodler e Gino Ruozzi

Comitato Scientifico: Raffaella Bertazzoli (Università di Verona) Stefano Jossa (Royal Holloway, University of London) Enrico Mattioda (Università di Torino) Eva Vigh (Università di Szeged, Ungheria) La collana è soggetta a peer review: i revisori sono anonimi e indicati dall’editore.

Federico Fastelli

EPICA DELL’OTTOBRE

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John Reed, la rivoluzione e il mito dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo

Pàtron Editore Bologna 2018

Copyright © 2018 by Pàtron editore - Quarto Inferiore - Bologna ISBN 9788855534161 ISSN 2421 2296 I diritti di traduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. È vietata la riproduzione parziale, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

Prima edizione, marzo 2018

Ristampa 5 4 3 2 1 0     2023 2022 2021 2020 2019 2018

PÀTRON EDITORE - Via Badini, 12 Quarto Inferiore, 40057 Granarolo dell’Emilia (BO) Tel. 051.767003 Fax 051.768252 e-mail: [email protected] http://www.patroneditore.com Il catalogo generale è visibile nel sito web. Sono possibili ricerche per autore, titolo, materia e collana. Per ogni volume è presente il sommario, per le novità la copertina dell’opera e una sua breve descrizione del contenuto. Stampa: Global Print srl, Gorgonzola (MI), per conto della Pàtron editore.

Indice

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Introduzione di Mario Domenichelli

1. Ribellione e rivoluzione  19 Conflitto delle facoltà (sulla dialettica)  23 All’ordine del giorno  28 Idea e ideologia  33 Propaganda e verità (sul genere)  40 Natura del trauma

2. Mitologemi dei Dieci giorni  49 Idea di Lenin  57 Ideologia del rivoluzionario di professione  64 La fortuna degli audaci  69 “Jack” il Rosso (sulla biografia)  72 Così è la guerra

3. Narrazioni, drammatizzazioni, adattamenti  81 Raccontare e mostrare (sulla retorica)  85 Uno spettacolo sublime  96 Epica dell’Ottobre  98  Con le forme sintetiche dell’arte (qualche cenno sugli adattamenti)

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Riferimenti bibliografici

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Indice dei nomi

La storia non è un testo, una narrazione, primaria o derivata che sia, ma, in quanto causa assente, è inaccessibile a noi tranne che in forma testuale, e il nostro approccio a essa e al Reale stesso passa necessariamente attraverso la sua precedente testualizzazione, la sua narrativizzazione nell’inconscio politico. F. Jameson

La Storia non porta in sé la soluzione dei problemi che mette all’ordine del giorno. A. Badiou

Introduzione Mario Domenichelli

Questo libro è un pezzo di storia intensificata, la storia come io l’ho veduta […]. Dopo un intero anno di governo dei Soviet, si continua a parlare dell’insurrezione bolscevica come di un’avventura, e avventura è stata, e tra le più meravigliose di quelle intraprese dal genere umano. […] Comunque si giudichi il bolscevismo, certo non si può negare che la rivoluzione russa sia uno dei grandi eventi nella storia dell’uomo, e l’insorgenza dello stesso partito bolscevico un fenomeno di rilevanza mondiale.

“This book is a slice of intensified history”, così inizia la prefazione a The Ten Days That Shook the World, con l’urgenza di scrittura di un reportage che vuole catturare, come in un’istantanea, un momento di assoluta rilevanza nella storia. John Reed scrisse il suo libro in una decina di giorni con quella stessa intensità, e con quel titolo che pare sì riferirsi alla rapidità della presa di potere da parte dei bolscevichi, ma forse, anche di più, al tempo della stesura del suo stesso libro: i dieci giorni di quella scrittura, anch’essa strumento, come il suo oggetto, della grande avventura, del mutamento del mondo, poiché, attraverso quella scrittura in contemporanea con quegli eventi memorabili, la rivoluzione, quella slice of intensified history – questa l’ambizione – poteva generare una rivoluzione mondiale, o almeno una nuova rivoluzione americana. Reed e sua moglie, Louise Bryant, entrambi giornalisti, nel novembre del ’17, partono per la Russia, sollecitati dalle notizie sulla “Rivoluzione d’ottobre”. Nell’aprile del ’18, al ritorno da quel primo entusiastico ed entusiasmante soggiorno russo, alla dogana statuni-

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Introduzione

tense, a Reed, sospettato per lo meno di connivenza con la rivoluzione bolscevica, contraria agli interessi americani, furono sequestrati il baule, i suoi appunti, pagine di giornali, testi di interventi, discorsi, tutti i materiali, insomma, su cui intendeva costruire il suo libro. Riuscì a riaverli, soltanto nel novembre del 1918. Non occorsero a Reed, così ci dice la leggenda, più di dieci giorni di lavoro ininterrotto, intensified quanto la slice of history di cui rendeva conto, per scrivere i suoi Ten Days. Il libro fu pubblicato nel marzo del 1919, ed ebbe immediato successo. Reed, del resto, non era certo uno sconosciuto, anzi notissimo come giornalista politicamente impegnato, uno dei meglio pagati – scriveva per «Masses», ma anche per «Metropolitan Magazine». Nel 1918 fu tra i fondatori del Communist Labor Party americano, scaturito da una scissione del partito socialista. Fu un momento importante in una già lunga vicenda politica. Arrestato nel 1913 per la partecipazione attiva ai tumulti degli operai della seta a Paterson nel New Jersey, nel 1914, a Ludlow in Colorado, Reed aveva ‘coperto’ lo sciopero dei minatori e la conseguente repressione violenta degli scioperanti, il così detto “Ludlow massacre”, da parte degli agenti della Colorado National Guard e della Colorado Fuel & Iron Company che, in difesa degli interessi dei padroni, non risparmiarono né donne né bambini. Sempre nel 1914 Reed andava a coprire, partecipe, la rivoluzione dei campesinos messicani di Pancho Villa, Ne uscì il magnifico reportage di Insurgent Mexico pubblicato quello stesso anno. Nel settembre del 1914, in un articolo, The Traders’ War, uscito su «The Masses», la rivista mensile di orientamento socialista pubblicata tra l’11 e il ’17, Reed dichiarava la sua posizione contraria all’intervento americano nella prima guerra mondiale. L’orientamento della rivista, come quello di Reed, era fieramente anti-interventista, visto che le vere ragioni di quella guerra stavano nelle logiche del capitalismo internazionale. Le posizioni socialiste oscillavano tra intervento e non intervento. Per Reed tutto quello che ci si poteva aspettare, il meglio che ci si potesse aspettare, da quella guerra, era l’affermarsi del liberalismo borghese che certo non era la “nostra guerra”– come scrive Reed, riferendosi alle proprie convinzioni e alle relative posizioni politiche. Nel ’15, comunque, Reed è al fronte come corrispondente di guerra. Dai suoi articoli esce, l’an-

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no seguente, La guerra nell’Europa Orientale. Tra l’aprile e l’ottobre del 1915, Reed, sbarcato a Salonicco, attraversa Serbia, Romania e Polonia per raggiungere infine Pietrogrado. Di ritorno in patria tiene conferenze, e scrive articoli di opposizione al coinvolgimento bellico degli Stati Uniti. Certo Reed non condivideva affatto l’idea di molti socialisti convinti che la “Grande guerra” stesse preparando le condizioni per un mutamento radicale, rivoluzionario, come poi in realtà successe, con risultati diversi e persino opposti per entità e orientamento, in Europa orientale, con la Rivoluzione d’Ottobre nel ’17 che ebbe immediate ripercussioni in Boemia e Polonia, ma anche con le rivoluzioni, a guerra finita, in Austria-Ungheria, in tutto l’ex impero austro-ungarico, così come in Germania. Il 1917, comunque, per Reed fu l’ annus mirabilis: in autunno, Reed e Louise Bryant, la moglie, partono per Pietrogrado e la Russia dei Soviet, i comitati operai essenziali nell’organizzazione politica della Russia rivoluzionaria. È il momento della presa di potere di Lenin e del partito bolscevico. Troviamo una definizione di bolscevico nelle pagine di definizioni e spiegazioni con le quali inizia The Ten Days that shook the World, in modo che il lettore si potesse raccapezzare nell’intrico politico della rivoluzione d’ottobre: “bolscevico”, spiega Reed, discende da bolsinstvo, “maggioranza”, opposto a mensinstvo, “minoranza”, da cui “menscevico” che definisce l’altro partito rivoluzionario, ma certamente più moderato. Le due fazioni erano in lotta tra loro a partire dal secondo congresso del Partito operaio socialdemocratico nel 1903. Il gruppo menscevico, su posizioni più moderate, guidato da Julij Martov si trovò in minoranza, con la maggioranza attestata sulle posizioni indicate da Lenin in Che Fare (Что делать?, traslitterato Čto delat’ ?), pubblicato l’anno precedente. I menscevichi contestavano in particolare l’idea di Lenin che il Partito e i dirigenti dello stesso fossero i veri e legittimi titolari del processo rivoluzionario, in grado di assumere la funzione di guida del proletariato la cui coscienza politica doveva essere plasmata secondo le direttive del Partito, composto dall’élite intellettuale di quelli che Lenin definisce “i rivoluzionari di professione”. La maggioranza – i “bolscevichi”, i “maggioritari” – votò per le tesi di Lenin, in opposizione ai “menscevichi” – i “minoritari” – della fazione di Martov. Le divergenze riguardavano la progettazione politica del futuro rivoluzionario. Si

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Introduzione

trattava della modernizzazione della Russia, e di creare dunque le condizioni per uno sviluppo industriale di tipo capitalistico, organizzandone una fase intermedia, una fase “borghese”, come stadio da superarsi verso la creazione della dittatura del proletariato. Nella logica dei menscevichi, invece, lo sviluppo capitalistico non poteva che essere comunque gestito dalla borghesia. La differenza di prospettiva portò, attraverso i moti del 1905, a una scissione di fatto già nel 1912. Allo scoppio della guerra mondiale i menscevichi si trovarono divisi tra interventisti e antiinterventisti, mentre i bolscevichi si schierarono unitariamente su posizioni antiinterventiste, contro quella guerra capitalista. Nell’ottobre del 1917 i bolscevichi, guidati da Lenin, presero il potere e nel gennaio del ’18 sciolsero l’Assemblea costituente. Ai menscevichi non rimase che la denuncia del colpo di stato, e la via dell’esilio. Nel 1918 nasceva il Partito comunista. I Dieci giorni racconta per l’appunto questi avvenimenti in modo del tutto partecipe, e da un punto di vista evidentemente bolscevico. Non poteva essere diversamente, vista la provenienza di Reed da una società, quella del capitalismo statunitense in fase potentemente espansiva, viste anche le sue esperienze in Messico nel ’14, con la rivoluzione dei campesinos messicani di Pancho Villa, e l’anno precedente, la sua presa di partito anticapitalista, e di opposizione alla democrazia ‘borghese’ in occasione dello sciopero, dei tumulti e della repressione dei lavoratori delle seterie di Paterson, e del massacro dei minatori a Ludlow. John Reed, già prima dell’ottobre del ’17 aveva preso partito una volta per tutte. In fondo il suo resoconto, la sua storia della rivoluzione, come tutto quello che scrisse è la narrazione di una stessa vicenda vista in diversi luoghi, in diverse fasi, ma parte della stessa narrazione, dello stesso récit di emancipazione del proletariato. Dare figura e tragitto alla memoria, questo è ciò che fa Reed, ciò che rende memorabile il suo racconto, memorabile quanto lo è il récit della rivoluzione francese nel Carlyle di The French Revolution, 1837, quanto lo è prima ancora Burke, in Reflections on the Revolution in France, 1790 – per parlare di un punto di vista del tutto opposto a quello di Reed; quello che fa Michelet nella Histoire de la Révolution Francaise, 1847-1853, ma anche quello che fa, per esempio, anche un romanziere come Dickens, in A Tale of Two Cities (1859). Si tratta di opere che definiscono una serie, letteralmente

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parlando, di κοινοί τόποι, di loci communes, luoghi comuni, certo, della memoria collettiva, attraverso i quali deve farsi, non può non farsi, ogni storia, ogni memoria della grande rivoluzione. Non a caso Carlyle, e il suo gran libro sulla Rivoluzione francese viene citato da Reed al primo capitolo: Per comprare latte, pane, zucchero, tabacco si doveva fare la coda per lunghe ore sotto la pioggia ghiacciata. Spesso, tornando da incontri politici durati tutta la notte ho visto la kyost (coda) cominciare a formarsi prima dell’alba, donne per lo più, spesso con i bambini in braccio. Carlyle in The French Revolution, scrive che i francesi si distinguono soprattutto per la loro attitudine a stare in coda […]. Pensate a tutta quella gente miseramente vestita, in coda per giornate intere sulle gelide strade di Petrograd nell’inverno russo!.

Sì, ecco uno dei koinoi topoi, un luogo comune, un luogo della comunità, figura della memoria collettiva, della memoria storica, i luoghi comuni che non solo, non tanto rendono conto degli eventi, della memoria degli stessi nella mente collettiva, ma anche provocano gli eventi, provocano storia. C’è nella scrittura di Reed questa consapevolezza: quel libro sulla rivoluzione si scrive per creare dei luoghi comuni della memoria, i segni della memoria collettiva; si scrive anche come exemplum per evocare il concretizzarsi della storia narrata. E questo Reed sa fare, egli sa identificare le figure che diverranno figure della memoria collettiva, della memoria storica, certo come quelle donne, vestite miseramente, i bambini in braccio, in attesa per ore, nelle strade di Petrograd, nel gelo dell’inverno russo. Ma Reed questo fa anche per impartire una lezione al presente, nella speranza di futuro, perché le parole che fanno dell’evento figura, possano a loro volta farsi evento, evento rivoluzionario. Federico Fastelli, pare a noi, ha ben capito questa qualità della scrittura di Reed, questa capacità di articolarsi per koinoi topoi, su quelle che diverranno – questa è la consapevolezza di quella scrittura – le figure della memoria collettiva che si fa scrittura della storia. Così, dunque, il libro di Fastelli si articola attraverso quelle stesse figure, vedendone la valenza transmediale, che dalla scrittura passa al cinema. Ciò che siamo venuti dicendo sarà certamente assai chiaro quando si

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consideri la fortuna cinematografica del gran libro di Reed. Non solo Ottobre di Ėjzenštejn (1928) che nel decennale della Rivoluzione si ispira al libro di Reed, chiamando sulla scena operai, soldati, uomini e donne, per raccontare la vicenda rivoluzionario dal febbraio a ottobre del ’17, e la presa di potere di Lenin e del partito bolscevico, non solo i due film di Bondarčuk ispirati al tragitto rivoluzionario di Reed, Ho visto la nascita di un nuovo mondo (1982) ispirato ai Ten Days di Reed, e Messico in fiamme (1982) ispirato a Insurgent Mexico, entrambi film biografici, con Reed come personaggio principale. È significativo il successo del libro di Reed nella cinematografia sovietica – non serve dire che Ėjzenštejn e Bondarčuk, di due generazioni diverse, sono comunque le due stelle, i due grandi registi del cinema sovietico. The Ten Days That Shook the World, del resto veniva considerato da Lenin, che amava il libro di Reed, il miglior resoconto, e il più fedele, in ogni senso, della rivoluzione d’ottobre. Federico Fastelli, oltre che dal libro di Reed, pare ispirato dallo splendido e davvero memorabile Reds, il film di Warren Beatty, che ripercorre la biografia di Reed, ripercorre la traiettoria esistenziale ed ideologica sua e della moglie Louise Bryant tra il 1916 e il 1920, l’ anno della morte di Reed, nel frattempo divenuto da ‘internazionalista’ funzionario del partito, legato a Zinov’ev, Presidente del Comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista, nonché vittima delle purghe staliniste nel 1938. Reds, a nostro modo di vedere, ma anche, ci pare di capire, a modo di vedere di Federico Fastelli, è un formidabile film, difficile da girare, per l’arco di tempo rappresentato, e per l’arduo tragitto che traccia, dall’entusiasmo alla disillusione, ma un film assai ben riuscito e davvero memorabile. Usiamo appositamente questo termine, proprio perché, ci pare di poter di dire, il film di Beatty è la messa a punto definitiva del repertorio delle eikones, delle immagini memorabili, interconnesse che fanno la memoria collettiva di quella rivoluzione. Federico Fastelli definisce con estremo nitore questo tragitto, e il reticolo che per esso si compone: la memoria collettiva, le sue immagini, la rappresentazione di un mondo, che, certo, non può mai essere ‘quel’ mondo, ma la sempre cangiante interpretazione dello stesso nel connettersi e riconnettersi delle sue figure, nel viluppo, nell’intrico della memoria, che fa la storia.

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Federico Fastelli inizia la sua lettura di The Ten Days, da una domanda di fondo, molto ragionevole che si pone a proposito dell’oggettività del resoconto di Reed. Se, in altri termini, Reed sia affidabile come storico, oppure, meglio, se sia affidabile come reporter, come giornalista, il grande, grandissimo giornalista che fu. Perché mai ci si deve domandare – scrive Fastelli - se Reed è obiettivo, per poi scoprire ciò che è semplicemente ovvio, che obiettivo Reed non lo è certamente, visto che si tratta, con somma evidenza di dichiarata scrittura partigiana, di un dichiarato resoconto di parte, che, del resto, non può che svelarci con tutta la forza dell’evidenza che la stessa idea di obiettività e di equilibrio al proposito, è semplicemente borghese, criterio di fondo dell’ideologia borghese che Reed certamente non poteva condividere. Il punto di vista di Reed vuole essere bolscevico. La sua scrittura vuole essere propaganda, vuole essere di parte, e si dichiara di parte. E basta questo per dire che quel suo resoconto è inaffidabile, non veritiero? Come se ci potesse essere davvero una scrittura che non ha punto di vista, come se ci potesse essere rappresentazione del passato, come se ci potesse essere storia narrata, analizzata, senza un punto di vista, che ne definisce la prospettiva, ciò che chiede il confronto, e indica una dialettica, un confronto, tra la rappresentazione che viene offerta, e quella che viene fruita che non possono mai essere la stessa cosa. Nella dialettica della storia, così, come argomenta Fastelli, la lettura dei fatti che troviamo in Reed, in tutta la sua dichiarata parzialità, proclama la sua verità, alla quale possiamo credere o non credere, ma della quale non possiamo non tenere conto. Su questa prima considerazione se ne innesta una seconda che ci porta a quell’interrogazione che anche Fastelli pone a partire da una citazione che trova in Rossanda (Introduzione a John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, BUR 1997, p. 12) che a sua volta la prende da Robert A. Rosenstone, Romantic Revolutionary, Harvard U.P. 1975 (1990), in italiano Rivoluzionario Romantico, Pgreco 2017, p. 498. Ecco dunque il passo di Rossanda: “la versione dei fatti fornita da Reed contiene (…) una precisa indicazione di poetica. Per documentare “gli ideali che lo muovevano” Reed decide di servirsi di un’opera sotterraneamente letteraria che “rappresenta “la verità che è dietro i fatti, che crea i fatti”. Commenta Fastelli: “Il libro di John Reed non è stato solo

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Introduzione

l’incubatore di immagini stereotipiche della presa di potere da parte dei bolscevichi, che circolano, per così dire, in maniera disinibita nel nostro immaginario ben al di là di qualsiasi verità storica, ma è stato anche in grado di creare un reticolo di personaggi ambienti, situazioni quotidiane nella cui cogenza constano le fondamenta di quello stesso immagjnario.” Il problema della verità dei fatti, nella scrittura della storia, e cioè nell’interpretazione degli stessi, lo si sa da tempo, è del tutto irrisolvibile. Scrive Clifford Geertz in Interpretations of Culture, rammentando Max Weber, che l’essere umano è un animale sospeso in una ragnatela di significanti da lui stesso filata. La cultura è fatta di queste ragnatele; la storia, la memoria storica non può non esserne parte. L’analisi culturale, scrive Geertz non può essere una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza dell’interpretazione in cerca di significati. (Clifford Geertz, The Interpretations of Cultures, New York, Basic Books, 1973; trad. it. di Eleonora Bona, Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino, 1987, p. 41). La storia non è dunque memoria, è piuttosto, per forza di cose, pratica di interpretazione testuale. La storia, questo è forse il punto, si narra comunque a partire da una prospettiva ideologica che ne definisce la verità. Questo è certamente anche più vero per la scrittura di Reed, che vuole essere un reportage di prima mano, a contatto diretto con gli eventi, partecipe della realtà osservata che la scrittura viene trasformando in memoria storica, fissandone le immagini, le figure, con l’idea anche, di una poetica della scrittura giornalistica, storica, di Reed, come dice Rossanda: che quelle immagini, cioè, quelle rappresentazioni del mondo, possano diventare mondo, possano diventare fatti. E Reed certo, contrariamente a quanto capita con la voce dello storico, non svanisce, non scompare dentro la propria scrittura, ne è anzi il primo protagonista. E la voce del testimone, la voce di chi dice, io c’ero, io ho visto, mettendo così in gioco, prima di tutto, la propria posizione ideologica, entrando come una figura tra le altre, quella del testimone della memoria, ma anche del partigiano che ne dà interpretazione autentica. Non si può certo dire che The Ten Days sia inclusa ‘di rigore’ tra le opere storiche, i trattati sulla rivoluzione d’ottobre. Per fare un esempio, il nome di John Reed nemmeno compare nell’indice analitico di

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un trattato come Russia in Revolution di Stephen A. Smith (Oxford U.P., 2017/& Carrocci, Roma, 2017); viene appena citato in 1917, Ottobre rosso, a c. di Antonmio Carioti (Media Group, 2017); viene del tutto ignorato ne L’anno del ferro e del fuoco, di Ezio Mauro, (Milano, Feltrinelli, 2017), per parlare solo delle ultime cose che abbiamo visto. Eppure The Ten Days, non solo veniva considerato da Lenin in persona come la testimonianza più affidabile, e più politicamente corretta, diciamo, della rivoluzione d’ottobre e della presa di potere dei bolscevichi, The Ten Days, come si diceva, proprio per l’urgenza che ne segna l’autenticità, e la forza comunicativa, è il riferimento delle versioni cinematografiche di cui abbiamo detto. Tutte riprendono l’urgenza di quella testimonianza, tutte fissano quello stesso punto di vista personale, la vicenda personale nella rivoluzione di John Reed, tutte riprendono la sua ‘viva voce’, e con essa l’urgenza, e, certo, anche la verità di chi la rivoluzione l’aveva vista con i propri occhi, e vissuta con la propria passione, come una breve fiammata, prima della disillusione, e della morte, in quel tragitto che Fastelli giustamente vede così vividamente illustrato da Reds di Warren Beatty.

1. Ribellione e rivoluzione

Conflitto delle facoltà (sulla dialettica) Rileggere un libro come Ten Days That Shook the World 1 a cento anni di distanza dagli avvenimenti che vi si raccontano è, soprattutto, un faticoso esercizio di dialettica con la storia. Ad essere da sùbito del tutto franchi, è ragionevole supporre che tale esercizio non possa condursi proficuamente senza un’operazione di epochè. Ad una lettura compiutamente nuova, quale un intervento critico dovrebbe almeno aspirare, occorrerebbe probabilmente una serena messa tra parentesi del dibattito ideologico che attorno a tale narrazione o attraverso di essa si è promanato nel corso del XX secolo e oltre: centrare il problema incorniciando «la natura delle strutture “oggettive” di un certo testo culturale»2 – questo, forse, ci si attenderebbe. A maggior ragione, voglio dire, dalla nostra prospettiva, che, per competenza e interesse, non è certamente quella dello storico, bensì quella, apparentemente meno cruciale rispetto al volume in esame, dell’indagine teorico-letteraria. Eppure, la tentazione di misurare la tenuta simbolica e le oscillazioni ideologiche di una narrazione che per molti versi ha fondato   J. Reed, Ten Days That Shook the World, New York, Boni & Liveright, 1919. Citiamo dall’edizione Penguin (Londra) del 20162. La versione italiana che diamo in nota è tratta da J. Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Roma, Editori Riuniti, 19976. 2   F. Jameson, L’inconscio politico. La narrazione come atto simbolico: l’interpretazione politica del testo letterario [1981], tr. it. di L. Sosio, Milano, Garzanti, 1990, p. 9. 1

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Epica dell’Ottobre

l’immaginario stesso della Rivoluzione d’ottobre, o almeno la sua dimensione epica in area gauchiste occidentale, ci conduce qui ad arrischiare un’ideale supplenza al compito dello storico in senso benjaminiano, ovverosia leggere in contropelo le testimonianze. Come ha scritto Robert A. Rosenstone, infatti: non erano i bolscevichi, ma John Reed che inventava la rivoluzione come il dramma dei dieci giorni. Aveva inventato il concetto di quella rivoluzione del XX secolo che nel libro avrebbe poi definito “un piccolo brano di storia più intensa, di storia come si è svolta sotto i miei occhi […]. Durante la lotta le mie simpatie non erano neutrali”3.

Ma, inevitabilmente, ci troviamo già sul terreno pericolosissimo del procedimento euristico, che origina, per la precisione, da uno stato di cose: la sparizione oggettiva, ma sarebbe meglio dire la “de-funzione”, dell’attualità della rivoluzione, o precisamente, di una certa idea di rivoluzione – comunista, naturalmente – dall’immaginario collettivo medesimo. Insomma, per essere chiari su questo punto: è al «porre in primo piano le categorie o codici interpretativi attraverso cui leggiamo o riceviamo il testo in questione»4 che la nostra attenzione sarà nettamente rivolta. Come (e perché) possiamo leggere i Ten Days nel 2017? Come (e perché), per dirla con le parole di Mario Domenichelli, possiamo rendere visibile quella storia, «non come cosa imbalsamata, ma come ciò che ancora vive nel cuore dell’attualità»5? Da questa prospettiva, in realtà, a risultare assai paradossale metodologicamente sarebbe proprio il ricorrere ad una messa tra parentesi delle implicazioni ideologiche relative alla parzialità del giudizio   R. A. Rosenstone, “Ottobre” fra cinema e storia, «Intersezioni», a. XX, dicembre 2000, vol. 3, p. 325. 4   F. Jameson, L’inconscio politico. La narrazione come atto simbolico: l’interpretazione politica del testo letterario, cit., p. 9. 5   Anche a nostro avviso, infatti, «proprio questo è sempre il problema, non la verità detta per il passato, ma la verità scoperta, ritrovata, o (ri)costruita nel passato e che parla nel presente delle condizioni del presente verso il futuro». Cfr. M. Domenichelli, Lo scriba e l’oblio. Letteratura e storia: teoria e critica delle rappresentazioni nell’epoca borghese, Pisa, ETS, 2011, p. 24. 3

Ribellione e rivoluzione 21

storico del libro di Reed. Specialmente oggi, s’intende, che il cosiddetto socialismo reale è, almeno per le generazioni più giovani, poco altro che uno sbiadito capitolo del manuale di storia, dalle sfumature plumbee, nel migliore dei casi. Oggi, voglio dire, che la fiducia in una risoluzione retroattivamente positiva delle atrocità commesse in nome di quell’idea ha ben lasciato il posto alla consapevolezza, anch’essa retroattiva, che proprio quell’idea non seppe produrre molto altro che tali atrocità6. Oggi che – dopo il nuovo spartiacque del 2001 – persino quegli Spettri di Marx7 evocati da Jacques Derrida nei primi anni Novanta sembra che abbiano potuto trovare, pacificati o (più probabilmente) non pacificati che fossero, un qualche misterioso varco per tornare definitivamente al mondo dei morti e, almeno per qualcuno, della pura sfera commemorativa. Ad una lettura integrale dei Dieci giorni gioverà, allora, interrogarsi sul fatto che, nonostante il collasso del sistema sovietico e la squalifica generalizzata ed epocale dell’idea di comunismo che il mondo democratico liberale ha da ciò dedotto, il dibattito sul significato della Rivoluzione russa nel centenario di quell’ottobre rosso provochi ancora una inaspettata serie di polemiche, e, a livello massmediatico, venga grottescamente risolto in facili derisioni di quanti ne celebrano la ricorrenza. Segno evidente, se si sa vedere in traluce, della natura statutariamente traumatica dell’evento rivoluzionario, tale per cui, in verità, nessuna facile ironia, specie se diretta agli attuali esponenti dei residuali partiti comunisti europei, riesce veramente ad esorcizzarne la portata. I Ten Days, da questa prospettiva, appaiono la registrazione fondamentale del trauma stesso, come d’altra parte il fortunato titolo dell’opera cercava già di indicare. Tutto il materiale che vi si raccoglie e la narrazione in cui questo si organizza orientano in effetti il lettore verso l’“inatteso”: non si tratta per Reed di raccontare gli eventi della rivoluzione come qualcosa di “inconcepibile”, poiché, come si sa, vi sono numerose ragioni materiali e storiche che ne possono spiegare le cause e, in minor misura, prevedere gli effetti. Descrivendo invece   Non può non venire in mente, a questo proposito, l’appendice Per Lenin [1919] alle Considerazioni sulla violenza (1923) di Georges Sorel (Bari, Laterza, 1970, p. 367 e sgg.). 7   Cfr. J. Derrida, Spectres de Marx, Paris, Galilée, 1993. 6

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Epica dell’Ottobre

la presa del potere di operai, soldati e contadini guidati dal partito bolscevico come qualcosa di inedito e, in chiave palingenetica, di liminare, egli indica, per l’appunto, la nascita di un soggetto sociale capace di sbarazzarsi di una precedente trama simbolica, ovverosia di una narrazione specifica della storia che ne stabiliva la coerenza e i limiti. I Dieci giorni dispongono, allo stesso tempo, il contenuto grezzo di una nuova trama simbolica, su cui, negli anni, si misurerà la stessa autonarrazione bolscevica, e lo sguardo esterno del resto del mondo: «l’emergere momentaneo di qualcosa di nuovo che solo la lotta poteva formulare […], nel senso di un’alternativa al di là delle opzioni esistenti»8, ha sempre bisogno di organizzarsi in immagine mito-simbolica, e la penna di Reed fu capace di disegnarne i principali contorni. Come ha scritto Silvio Pons: malgrado la realtà brutale e poliziesca dello Stato sovietico, l’autorappresentazione del regime bolscevico quale protagonista di una rivoluzione proletaria e socialista si diffuse fuori dei confini della Russia, anche grazie ad apologeti come il giornalista americano John Reed. Il suo celebre reportage sui «dieci giorni che fecero tremare il mondo», ingenuamente dedito a dipingere la rivoluzione con i colori del romanticismo, doveva aprire la strada a un’enorme mole di pubblicistica analoga. Difficilmente si poteva però negare che quella formula cogliesse nel segno. La rivoluzione mondiale sognata da Lenin non si materializzava. Ma la rivoluzione bolscevica era da tutti percepita come un evento mondiale9.

Incontrare dialogicamente l’immagine mito-simbolica della rivoluzione, che, in verità, solo in parte – lo vedremo – è quella autocelebrativa della Rivoluzione bolscevica10, ma che, considerato il carattere evenemenziale e determinante della rivoluzione russa nella   S. Žižek, In difesa delle cause perse [2008], tr. it. di C. Arruzza, Milano, Adriano Salani, 2009, p. 144. 9   S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale. 19171991, Torino, Einaudi, 2012, p. 21. 10   A nostro avviso, lo vedremo, i Dieci giorni non furono soltanto «la narrazione positiva e simpatetica della rivoluzione», come invece sostiene Mar8

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teorizzazione e nella pratica politica marxista, si pone anche, a livello di immaginario, come paradigma della rivoluzione in generale, è ciò che qui c’interessa: è, kantianamente, alla risposta entusiastica (o sdegnata) degli spettatori che non presero parte all’evento che ci si deve rivolgere per afferrare il significato profondo di quell’ottobre e di questo libro, che contribuì in maniera determinante a stabilirne i mitologemi. All’ordine del giorno Argomento assolutamente verificabile – fa nulla se ormai dimenticato – è quello che vede nell’“imminenza della rivoluzione” grossa parte dell’investimento teleologico di cui la filosofia della storia marxista si è sostanziata per circa un secolo. La questione è ben rappresentata con la consueta lucidità da György Lukács. L’attualità della rivoluzione, scriveva il critico ungherese già nel 1924, è stata «l’idea fondamentale di Lenin» e «il punto che lo collega decisamente a Marx»11: «il materialismo storico, come espressione concettuale della lotta di liberazione del proletariato, poteva essere afferrato e formulato teoricamente solo in quel determinato momento storico in cui la sua attualità pratica fosse venuta all’ordine del giorno della storia»12. In altre parole «il materialismo storico presuppone dunque, già a livello teorico, l’attualità storica universale della rivoluzione proletaria. In questo senso l’attualità rivoluzionaria è la base oggettiva dell’intera epoca e insieme il necessario punto di vista per la sua comprensione; essa rappresenta perciò il nucleo della dottrina di Marx»13. Dialetticamente, quindi, è assai interessante notare che l’importanza oggettiva della Rivoluzione d’ottobre non dipende soltanto dalla sua centralità storica – naturalmente nel senso dell’incarnazione cello Flores. Cfr. M. Flores, La forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 123. 11   G. Lukács, Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero [1924], tr. it. di G. D. Neri, Torino, Einaudi, 19702, p. 13. 12   Ibidem. 13   Ivi, p. 14.

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reale, certamente ambigua o imperfetta o affrettata ed infine fallimentare, e tuttavia vittoriosa, di un ideale – ma anche dal fatto che essa interviene retroattivamente, modificando in termini teorici il pensiero marxista e riscrivendo la storia dell’antagonismo di classe a partire dal 1789. In altre parole, se tra i materiali mitologici del pensiero radicale novecentesco l’idea di rivoluzione è senz’altro quella su cui più volte il funzionamento della macchina mitologica marxista è tornata, ciò dipende essenzialmente dalla presenza spettrale, si potrebbe dire, della sua “imminenza” entro il nocciolo duro della stessa filosofia della prassi, della teoria marxista attualizzata da Lenin in poi. L’odierna “de-funzione simbolica”, allo stesso modo, deve aver contribuito in maniera sostanziale alla dismissione delle categorie stesse con cui il materialismo storico marxista si proponeva nel dibattito pubblico. Se è vero che «ogni epoca crea retrospettivamente la propria archeologia»14 e se dopo il 1917 «l’attualità della rivoluzione proletaria non è più soltanto l’orizzonte storico universale della classe lavoratrice in lotta per la propria liberazione, bensì […] la rivoluzione è già venuta all’ordine del giorno per il movimento operaio»15, cosa succede dopo i primi anni Novanta? E tale processo non inizia forse già con l’infrangersi delle proteste studentesche e operaie dei tardi anni settanta, ovvero con il tramonto fallimentare delle tensioni sociali nei cosiddetti anni di piombo? Sebbene non sia questo il luogo per condurre enterotomi critici nel corpo anestetizzato (ma, checché se ne dica, trasudante rinate e ambigue conflittualità) dell’impegno politico odierno – secondo una nota associazione tra biologia e società che avrebbe fatto inorridire G. K. Chesterton –, l’invito sarà comunque quello di rileggere, per così dire, la teoria della storia della storicizzazione, se mi si passa la brutta espressione, delle ragioni del collasso dell’URSS, hegelianamente inscritte, con ogni evidenza, nell’evento stesso della rivoluzione. Anche perché, come ha scritto David Bidussa commentando alcuni scritti di Furio Jesi, «per essere attiva nella posteriorità, creatrice d’ideale e di   D. Giglioli, Le macchine desideranti di Reveroni Saint-Cyr, in Studi di letterature comparate in onore di Remo Ceserani, volume II: Letteratura e tecnologia, a cura di P. Pellini, Roma, Vecchiarelli, 2003, p. 15. 15   G. Lukács, Lenin, cit., p. 15. 14

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mete, una scena di storia vissuta deve arricchirsi di valori che, spesso, i protagonisti non sentivano e non onoravano» e in questo senso «la visione, ma parallelamente la struttura discorsiva, e il discorso storico soprattutto, se non esauriscono l’oggetto dell’indagine, sono strumenti illuminanti per indagare il soggetto che opera la conoscenza, o, diversamente, stringendo questa prima osservazione intorno al concetto di storia, non è più la storia-narrazione a costituire il fulcro del problema, bensì la storia della storia, cioè quel campo di indagine capace di riconnettere storia della conoscenza e storia dei diversi usi che se ne fanno»16. Il fatto che il fallimento sovietico e il fallimento generale della prassi comunista si implichino ancora tra loro entro una semplice equazione di primo grado dimostra effettivamente che quello stesso processo di storicizzazione non fu sorvegliato da una puntuale lettura dialettica sotto il profilo teorico, almeno da parte della sinistra comunista. «La pratica politica senza la teoria» ha detto una volta Henri Lefebvre «cammina come un cieco, ammesso che cammini»17. In effetti, non solo, come fa notare Domenico Losurdo18 con argomentazioni certo scarsamente popolari ma tutt’altro che irragionevoli, il gigante cinese, al netto di palesi ambiguità, di oggettive difficoltà e, pure, di una fredda consapevolezza, in senso staliniano, delle attuali “condizioni reali”, persegue tuttora l’idea di un’ “economia socialista di mercato” che ricorda la NEP, e che, proprio per questo, si palesa come reversibile con l’eventuale mutare di quelle stesse condizioni. Ma anche, e dal nostro punto di vista soprattutto, perché è sin troppo semplice ricondurre l’attuale nevrosi sociale non a qualche implacabile e metafisico spirito del tempo, ma precisamente all’oscena e falsa dialettica tra neofascismi populistici e posizioni blandamente liberal-mondialiste, prive di una visione complessiva e totalizzante del mondo. Qui, per quanto ci riguarda, il terzo escluso, il polo assen  Cfr. D. Bidussa, La macchina mitologica, in Furio Jesi, a cura di M. Belpoliti e E. Manera, «Riga» 31, pp. 234-243. La citazione è a p. 235. 17   Cfr. H. Lefevbre, C. Regulier, La rivoluzione non è più quella [1978], tr. it. di F. Giaffreda, Bari, Dedalo Libri, 1980, p. 41. 18   Cfr. D. Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi, Napoli, La Scuola di Pitagora, 2012, in particolare p. 81 e sgg. 16

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te, è infatti proprio quel novum di un’utopia concreta, come direbbe Ernst Bloch, incarnato nel Novecento dal socialismo e sostanziato simbolicamente dall’idea stessa di rivoluzione. Come Benjamin ben sapeva, si deve sempre considerare ogni ascesa di più o meno mascherati fascismi come un grave fallimento della sinistra, ovverosia come una potenzialità rivoluzionaria irrisolta. Così il disconoscimento sociale di queste potenzialità emancipative inesprimibili deve concepirsi in relazione, oggi più che mai, alla frustrazione nichilista che anima l’attuale partecipazione alla vita associata, nonché le folli alternative – solo apparentemente premoderne – ad essa. La comprensione reale di questa «esistenza senza praxis»19 è subordinata perciò, almeno in parte, allo studio della profonda distanza che separa l’idea novecentesca di rivoluzione come utopia di un cambiamento radicale, e come indirizzo teleologico di certo impegno politico, da ogni opzione politica oggi concretamente praticabile, almeno in Occidente20. E la diagnosi del Bloch di Das Prinzip Hoffnung, pur con sulle spalle più di sessant’anni di età, potrebbe essere sottoscritta tranquillamente oggi:   Daniele Giglioli, nel volume Stato di minorità (Roma-Bari, Laterza, 2015, in particolare p. 62 e sgg.), sceglie il romanzo Saggio sulla lucidità di José Saramago come aperta allegoria di quell’impossibilità di agire che caratterizza la società contemporanea. «L’esistenza senza praxis» scrive Giglioli «è il fondamento passivo di ogni possibile stato di eccezione. Da cittadini retrocessi ad abitanti, da componenti della polis a fruitori dell’òikos (famiglia, non città, ambiente, non cultura, economia, non politica), i personaggi senza nome e senza soggetto del romanzo di Saramago vivono di fatto in un gigantesco campo di concentramento». 20   Lucidissima è, in tal senso, l’analisi che si legge in I destini generali (Roma-Bari, Laterza, 2015) di Guido Mazzoni: «non esiste in Occidente un’alternativa reale al capitalismo e al discorso del capitalista, non esiste alcuna controforza organizzata e autenticamente politica: lo dico andando contro una parte di me stesso, ma è così. Negli ultimi decenni, l’unica forma di opposizione tangibile è stato il fondamentalismo islamico; l’opposizione legata ai movimenti antisistemici si è rivelata velleitaria e puramente testimoniale. Se la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi, e se il conflitto si conclude “o con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società o con la comune rovina delle classi in lotta”, oggi l’ipotesi di gran lunga più probabile è il collasso sistemico, non la rivoluzione». La citazione è a p. 52. 19

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in primo luogo ogni uomo che ha delle aspirazioni, vive nel futuro; il passato giunge solo più tardi e il vero presente non è generalmente quasi ancora giunto. Il futuro contiene ciò che è temuto e sperato: nell’intenzione umana, libera cioè dalle frustrazioni, contiene solo ciò che è sperato. La funzione e il contenuto della speranza vengono vissuti incessantemente e nei periodi in cui la società è in sviluppo sono stati continuamente ampliati ed estesi. Solo nei periodi in cui la vecchia società è in declino, come accade oggi in Occidente, una certa intenzione, parziale e fugace, corre verso il basso. Allora, per quegli uomini che non riescono a trovare una via d’uscita a questa decadenza, la paura si mette davanti e contro la speranza. La paura è dunque la maschera soggettiva del fenomeno di crisi, il nichilismo quella oggettiva: crisi che viene tollerata ma non compresa a fondo, commiserata ma non rovesciata21.

È assai sintomatico, da questo punto di vista, che qualche anno fa, Daniele Giglioli abbia intitolato la propria “mappa sentimentale” sui rapporti tra terrorismo e letteratura All’ordine del giorno è il terrore 22, riferendosi, se colgo nel segno, alla celebre frase attribuita al giacobino Bertrand Barère: non credo di esagerare, infatti, nel ravvisare che concettualmente il termine “terrore”, nel senso del terrorismo contemporaneo di matrice fondamentalista religiosa o pseudoreligiosa, appare qui in sostituzione simbolica del termine “rivoluzione”, o anche del termine “terrore” in senso rivoluzionario, giacobino appunto (o neo-giacobino), a indicare, implicitamente, un cambiamento storico di prospettive, una frattura paradigmatica che condanna all’inattualità ogni filosofia della prassi emancipativa e radicale, e, ovviamente, il marxismo medesimo in modo particolare. In questa sostituzione, ammesso che così si possa intendere, sta davvero il senso dell’avvenuta mutazione di confini e orizzonti di qualsiasi antagonismo reale. Come rilevava Luciano Canfora già nel 1994: «dalla crisi della “rivoluzione in marcia”, crisi accentuata dalla facile constatazione delle scadenti condizioni di vita (a fronte delle luccicanti “oasi”   E. Bloch, Il principio speranza [1954], tr. it. di E. De Angelis, Milano, Garzanti, 20052, p. 7. 22   Milano, Bompiani, 2007. 21

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iper-occidentali d’Asia o della penisola araba), è man mano scaturito un nuovo e orrido soggetto rivoluzionario: il fondamentalismo. Nemico del leninismo così come dell’Occidente, e che anzi considera “Occidente” anche il leninismo con le sue forzature volontaristiche ed il sostanziale intento di rottura illuministica con la tradizione e il passato»23. L’odierna evaporazione concettuale dell’idea di rivoluzione socialista (e occorre qui specificare socialista, perché invece la necessità di una “rivoluzione liberale”, come ripetono da anni alcuni esponenti della destra neoliberista, irridendo spesso inconsapevolmente la memoria di Piero Gobetti, è all’ordine del giorno) diventa il principale strumento di analisi – ovviamente estromesso dal dibattito politico – delle attuali emergenze internazionali. Idea e ideologia Non si tratterà – credo sia chiaro – di stabilire in maniera documentata alcuna verità storiografica. Molto più modestamente, si dovrà cercare di risalire dall’“ideologia” con cui i Dieci giorni sono stati progressivamente letti in questi ultimi cento anni, all’“idea” da cui mosse l’uomo John “Jack” Reed per la propria descrizione della rivoluzione, e con essa, nel caso, far interagire il nostro presente. Metodologicamente, qui, il nostro riferimento va al Furio Jesi del postumo Spartakus. Nell’introduzione al volume – in maniera teoreticamente insuperata e tuttora verificabile – Jesi descrive il funzionamento generale con cui, entro la società borghese occidentale, e al di fuori delle dinamiche della lotta di classe, si disciplina, per l’appunto, la dialettica tra l’“idea” e l’“ideologia”. L’idea, nella terminologia di Jesi, inerisce teoricamente al momento epifanico della novità: una forza immediatamente sovversiva, capace di «porsi al centro di un’esperienza dell’essere e di un comportamento»24, risultando perciò non solo un fatto concretamente nuovo, ma, soprattutto, un fatto capa  L. Canfora, La «sinistra» e l’«Occidente» [1994], in Pensare la Rivoluzione russa, Bari, Stilo, 20172, p. 105. 24   F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di A. Cavalletti, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 4 e sgg., passim. 23

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ce di apportare novità nel «perenne divenire» o nell’«eterno ritorno» dell’umanità. L’ideologia «comincia a esistere» quando tale forza si fa «paradigma», ovverosia «da mobile realtà che si vive ogni giorno» essa diventa «specchio» attraverso il cui riflesso si può misurare e giudicare la realtà. L’idea insomma si configura, ad un dato momento della propria socializzazione, «in cristallo», come scrive Jesi, e il proprio valore sovversivo è, a partire da quel momento, riconducibile ad una serie di schematizzazioni formulistiche. Ciò, in primo luogo, attutisce l’impatto di un fatto nuovo e novatore, e naturalmente lo livella: la reductio dell’idea a formula ideologica serve alla società borghese per trasformare il potenziale eversivo dell’idea stessa in criterio di giudizio etico attraverso cui misurare «il significato e il valore del comportamento di chi assunse quell’idea come centro». In virtù del medesimo movimento di cristallizzazione, effettivamente, ogni idea cristallizzata è infine posta su di uno stesso piano. Il marxismo e il fascismo, negli esempi forniti da Jesi, risultano in tal modo (ma, è ovvio, erroneamente) equivalenti alla lente del giudizio borghese. Entrambe le ideologie appaiono infatti irreparabilmente eversive e irreparabilmente formulistiche, per cui: il borghese non intellettuale, l’intellettuale borghese “non illuminato” potranno poi magari concedere il loro appoggio all’ideologia che favorisce i loro interessi. L’intellettuale borghese “illuminato” potrà concedere i suoi favori all’una o all’altra ideologia, a seconda che egli propenda – entro il suo “intimo spazio oscuro” – verso spada-onore-sepolcro oppure verso liberté-égalité-fraternité (o anche soltanto: “bandiere rosse al vento”). Poiché si tratta di una scelta affondata nell’“intimo spazio oscuro”, non mancheranno soluzioni ambigue intermedie25.

Al di là dell’evidente contingenza storica di tali esemplificazioni, qui importa comprendere il carattere generale del ragionamento: l’ideologia così disciplinata – qualunque essa sia, naturalmente con l’eccezione dell’ideologia borgese liberal-democratica – diventa, per definizione, qualcosa di “non nuovo”. È il ricorso a quelle formule   Ivi, p. 5.

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cristallizzate cui Jesi si riferisce a sovrintendere l’invisibile operazione difensiva che relativizza ogni carica eversiva e favorisce ad un tempo sia il pessimismo “cospirazionista” che alimenta ciò che attualmente il gergo giornalistico derubrica proprio con il termine “populismo”, sia lo scetticismo dell’intellettuale borghese “illuminato”, che, piaccia o non piaccia, resta, da un punto di vista colto, l’atteggiamento senz’altro maggiormente diffuso: d’altra parte, la vicinanza o la convergenza di queste due posizioni, apparentemente così divaricate, non equivale forse a ciò che Peter Sloterdijk definisce come “falsa coscienza illuminata”? E ciò non conduce all’attuale aporia di ogni critica dell’ideologia nella sequenza formale della “falsa coscienza” – errore, menzogna, ideologia – per come l’abbiamo conosciuta nel corso del Novecento26? Insomma, sottoporre l’idea a ciò che Jesi chiama «legge dell’eterno ritorno» significa certamente, direi “novecentescamente”, se mi fosse concesso usare un termine piuttosto repellente, ma che, in fondo, rende bene il senso della questione, far funzionare, anche a sinistra, la macchina mitologica dell’ideologia; ma, in chiave dialettica, in rapporto con l’oggi, e come pratica generale di ordine metodologico, non significa, per noi, finalmente, anche ripensare più in generale il funzionamento e la funzione della critica dell’ideologia27? Provo a spiegarmi meglio: il tentativo di ritrovare tra le pagine di Reed la purezza di un’idea ancora non superfetata, per così dire, da alcuna cristallizzazione ideologica, e trovarsi perciò idealmente a contatto con un immaginario tipicamente romantico, del tutto antipodico rispetto all’attuale accettazione ben generalizzata dell’esistente, suonerà all’orecchio del cinico moderno – di quell’«asociale integrato»28, abile dispensatore di «amarezza chic»29 – come una boutade colma di ingenue pretese. Tuttavia, è proprio a questo punto che il nostro sforzo dialettico non può risparmiarsi: occorre tornare a quel nucleo romantico proprio, per definizione, di ogni movimento rivoluzionario, come Gramsci   Cfr. P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica. Il rapporto tra sapere e apparati di potere dall’antichità ai giorni nostri [1983], tr. it. di A. Ermano, Milano, Garzanti, 1992. 27   Cfr. ivi, p. 33. 28   Ivi, p. 35. 29   Ivi, p. 36. 26

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ben sapeva, e riconoscere l’epifania della ribellione entro le coordinate ideologiche della rivoluzione. Per spiegarlo in altri termini si potrebbe qui usare, in maniera decisamente eterodossa, la nozione di “mondo possibile”: è necessario risalire dialetticamente al mondo possibile non attualizzato di quella narrazione, al futuro di quel passato che non ha avuto luogo, perché sono essenzialmente in quella potenzialità presente testualmente, e mai divenuta in quell’unico mondo reale che contiene tutti i mondi possibili – come direbbe Nelson Goodman30 –, il segreto fascino e l’importanza storica dei Ten Days. Non sono affatto certo, a questo proposito, che per la maggioranza dei (pochi) lettori di oggi valga ancora ciò che ha scritto poco più di dieci anni fa Fernando Gioviale, ovverosia che l’opera di Reed «resterà ben oltre i disastri della storia bolscevica, e ci aiuterà sempre a capire qualcosa della collettiva e tragica Utopia»31. Tale indicazione resta, tutt’al più, un auspicio: «la convinzione universale» di ciò che Fredric Jameson descrive come “impossibilità e “non praticabilità” «delle alternative storiche al capitalismo», e cioè «la certezza che non sia concepibile né tantomeno realizzabile nella pratica alcun altro sistema socioeconomico»32, sembra aver cessato di rilanciare anche   Cfr. N. Goodman, Fatti, ipotesi, previsioni [1954], tr. it. C. Marletti, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 66 e sgg. 31   F. Gioviale, Oltre le barriere, in La parola “quotidiana”. Itinerari di confine tra letteratura e giornalismo, Firenze, Olschki, 2004, p. 15. A questo proposito, Rossana Rossanda rilevava già nel 1980 che: «pochi, nei giorni in cui scrivo, sono disposti a pensare alla Rivoluzione d’Ottobre non solo come madre del gulag. Pochi cercheranno, nei volti e nelle ore descritte da Reed, la trama d’uno scenario auspicabile e comune. Dieci anni fa sarebbe stato diverso, ma oggi è il momento del secolo in cui si tenta, e forse già è riuscita, l’esecuzione pubblica, pedagogica e definitiva dell’idea di rivoluzione comunista. Così i Dieci giorni che sconvolsero il mondo saranno per chi li legge ora – se è vero che un libro non è soltanto il testo scritto ma il testo più l’animo di chi lo scorre – come un prodotto nuovo, sconcertante, forse residuale, forse archeologico, forse fastidioso, forse nostalgico. Certo un segno di contraddizione». Cfr. Introduzione a J. Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, Milano, Bur, 1997, p. 7. 32   Cfr. F. Jameson, Archaeologies of the Future. The Desire Called Utopia and Other Science Fictions, London-New York, Verso, 2005, p. XII: «What is crippling is not the presence of an enemy but rather the universal belief, 30

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grossa parte delle pulsioni, delle scritture e delle interpretazioni utopiche33. Così, anche riguardo ai Dieci giorni, molte letture recenti tendono senza indugi a includere l’opera, talvolta con sorprendente nonchalance, entro l’enorme deposito, squalificato in partenza, della propaganda comunista o filo-comunista. Si tralasciano, quindi, la straordinaria complessità del volume, le sue qualità estetiche e, quel che è peggio, una non comune ambivalenza dell’intentio operis, se piace la definizione. Ma soprattutto se ne tralascia la pulsione utopica e quindi, appunto, il fondo romantico da cui questo tipo di propaganda, se proprio si vuole così declinare, promana. C’è da dire peraltro che, come ha scritto ancora Jesi, «la propaganda genuina, e cioè la divulgazione – mirante al proselitismo – di convinzioni politiche in cui si crede al punto da coinvolgere nella esperienza di esse anche la parte cosiddetta irrazionale della psiche, è moralmente not only that this tendency is irreversible, but that the historic alternatives to capitalism have been proven unviable and impossible, and that no other socioeconomic system is conceivable, let alone practically available». 33   Su questo punto si vedano le importanti riflessioni di Axel Honneth: «trovare una spiegazione per questo improvviso prosciugamento delle risorse utopiche è ancora più difficile di quanto non possa sembrare a un primo sguardo. Il crollo dei regimi comunisti avvenuto nell’Ottantanove, a cui spesso e volentieri ci si richiama per decretare il tramonto delle speranze riposte nelle alternative al capitalismo, non può in verità essere tirato così facilmente in gioco quale causa dell’attuale situazione; difatti, non fu certo a causa della caduta del Muro di Berlino che le masse indignate – che oggi deplorano legittimamente l’allargamento della forbice tra povertà pubblica e ricchezza privata pur senza disporre di un’idea concreta di una società migliore – si resero conto, per la prima volta, che il socialismo di Stato di conio sovietico offriva un certo benessere sociale soltanto al prezzo della illibertà. Inoltre, il fatto che fino alla Rivoluzione russa non vi fosse stata una reale alternativa al capitalismo non aveva certo impedito agli uomini del XIX secolo di immaginarsi una convivenza non violenta, improntata ai valori della solidarietà e della giustizia. Ma se è così, perché allora la bancarotta del blocco di potere comunista avrebbe dovuto condurre, tutto a un tratto, all’attuale atrofizzazione della facoltà apparentemente congenita all’uomo di oltrepassare utopisticamente l’esistente?». Cfr. A. Honneth, L’idea di socialismo [2015], tr. it. M. Solinas, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 17.

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possibile solo se si è davvero disposti a impegnare sé stessi in modo totale – “razionale” e “irrazionale” – nella lotta»34. La nostra abitudine al cinismo, in senso sloterdijkiano, spiega il fatto che «molto di rado oggi si è disposti a “giocarsi l’anima” oltre che il volto ufficiale, per un impegno politico»35. Perciò, ancora una volta, «saremmo in errore se pensassimo che simile diffidenza verso la propaganda […] nascesse da una rigorosa coscienza della relatività delle verità propagandate»36. Propaganda e verità (sul genere) È assai istruttivo, per contro, notare come ogni questione interpretativa riguardante i Dieci giorni, a partire dagli anni Ottanta, tenda a incagliarsi contro le secche della natura “non obiettiva” della narrazione. Alcune analisi storiografiche, d’altra parte, hanno contribuito in maniera rilevante a determinare tale stato di cose. Nel 1985 lo storico James D. White, nel saggio Early Soviet Historical Interpretations of the Russian Revolution 1918-1924 37, ha descritto in maniera approfondita il fatto che prima del suo rientro negli Stati Uniti, avvenuto solo nel 1918, Reed – che aveva potuto assistere in prima persona all’intero processo rivoluzionario – prese volontariamente parte ai lavori del Dipartimento della propaganda rivoluzionaria internazionale, dirigendo la sezione di lingua inglese. In tale contesto, secondo White, Reed sarebbe venuto a contatto con una serie di materiali di propaganda e di documentazioni direttamente fornitegli da Lenin e da Trotskij, e avrebbe adottato, per la propria ricostruzione degli eventi rivoluzionari del 1917, la stessa prospettiva storica caldeggiata in quella fase dal nuovo regime. Come riferisce anche Sergio Romano, nei Dieci giorni, proprio per tale ragione, prevarrebbe una versione dei fatti secondo la quale i bolscevichi non avrebbero «conquistato il potere con un brutale atto di forza e imposto alla maggioranza la   F. Jesi, Spartakus, cit., pp. 13-14.   Ivi, p. 14. 36   Ivi, p. 13. 37   Si veda «Soviet Studies» v. 37, N. 3, luglio 1985, pp. 330-352. 34 35

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volontà di una dispotica minoranza»38, ma si sarebbero risolti «a quel passo per prevenire le manovre autoritarie di Kerenskij e dopo avere inutilmente tentato la strada della conciliazione con i menscevichi e i socialisti rivoluzionari»39. Una versione, peraltro, che lo stesso Lenin avrebbe poi abbandonato, poco tempo dopo. Che sia o no verosimile tale lettura e pure tralasciando per un momento il fatto che la versione della Rivoluzione che si legge nell’opera di Reed non risulta a mio avviso del tutto schiacciata su tali indicazioni – ci torneremo –, interessa qui il fatto che l’eventuale scelta di Reed di sposare le indicazioni di Lenin e di Trotskij dovrebbe indurre il lettore contemporaneo a ripensare addirittura lo statuto della narrazione: secondo White, infatti, non possiamo considerare i Dieci giorni che sconvolsero il mondo un semplice reportage, ma un primo tentativo di storiografia sovietica sulla Rivoluzione. Anche secondo Sergio Romano si tratterebbe di un «pamphlet storico-politico» travestito da reportage40. E persino letture più letterario-centriche, come ad esempio quella di Clotilde Bertoni, insistono sopra l’ambiguo statuto di verità di un testo che combina «istanze diverse, insieme applicando e alterando i compiti giornalistici»41, siccome il lampante appoggio alla rivoluzione […] allontana decisamente [la narrazione] dai parametri del reportage. A volte nel senso più prevedibile e negativo: premendo fino alla forzatura sul dovere di cronaca (le battaglie tortuose tra gli insorti e l’esercito sono trasformate in una affermazione del popolo fulminea e travolgente); o cadendo nell’uso maldestro della retorica tipico degli scrittori propagandistici […]. A volte in un senso più imprevedibile e interessante: la partigianeria ispira asserzioni solenni […] e alimenta una trascinante gamma di registri, che va dalla comicità icastica di alcune scene (ad esempio l’assemblea del Comitato Rivoluzionario, in cui tutti esortano a non   S. Romano, Giornalismo e relazioni internazionali in Italia e altrove, in Giornalismo italiano e vita internazionale, a cura dello stesso, Milano, Jaka Book, 1989, p. 20. 39   Ibidem. 40   Ivi, pp. 20-21. 41   C. Bertoni, Letteratura e giornalismo, Roma, Carocci, 2009, p. 40. 38

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fumare, seguitando a fumare accanitamente) al pathos veemente dei momenti corali (il comizio di Lenin, i funerali moscoviti degli insorti caduti)42.

A beneficio di ogni lettura odierna impegnata a evidenziare l’inarcatura ideologica del racconto, ovverosia a squalificarne la rilevanza e in sede documentaria e, per riflesso, in sede letteraria hanno di certo giocato due fattori. Primo: è senz’altro vero che Reed, nella prefazione alla prima edizione della sua opera, indirizza esplicitamente il proprio lavoro a quegli storici che vorranno, in futuro, studiare gli avvenimenti straordinari di Pietroburgo e, in generale, della Rivoluzione sovietica: no matter what one thinks of Bolshevism, it is undeniable that the Russian Revolution is one of the great events of human history, and the rise of the Bolsheviks a phenomenon of world-wide importance. Just as historians search the records for the minutest details of the story of the Paris Commune, so they will want to know what happened in Petrograd in November, 1917, the spirit which animated the people, and how the leaders looked, talked and acted. It is with this in view that I have written this book43.

Secondo: la Prefazione d’autore sopra citata era seguita, nella traduzione russa, da una nota di Nadežda Krupskaja, mentre nella seconda edizione in lingua inglese il volume era aperto da poche righe redatte proprio da Lenin, il quale concepiva l’opera come «a truthful and most vivid exposition of the events so significant to the comprehension of what really is the Proletarian Revolution and the Dictatorship of the Proletariat»44. Quando pubblica i Dieci giorni, in realtà, John Reed ha più che altro profonda consapevolezza di aver assistito e partecipato ad uno degli eventi più importanti della storia dell’umanità, come dimostra anche la lettura dei molti suoi materiali sulla rivoluzione registra  Ibidem.   J. Reed, Preface, in Ten Days…, cit., p. XIV. 44  Lenin, Introduction a J. Reed, Ten Days…, cit., p. IX. 42 43

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ti a caldo nel corso degli eventi – articoli, lettere, appunti – e non compresi nei Dieci giorni 45. Per tale motivo, nella sua opera più celebre, ricostruendo a freddo i fatti dell’ottobre giuliano 1917 dalla prospettiva del testimone, egli consegna in presunta presa diretta il maggior numero di dettagli che ritiene utili, dal proprio punto vista naturalmente, al processo di storicizzazione, organizzandoli entro una struttura narrativa coinvolgente e assai godibile. Va da sé che il placet entusiastico di Lenin non poteva che calamitare l’opera entro il novero delle narrazioni di propaganda. Ma davvero l’influenza del background sovietico è stata in grado di annullare il punto di vista di un intellettuale indipendente e colto come Reed? Davvero il fatto che le idee di Reed non fossero imparziali – come egli stesso peraltro ammette nella breve prefazione alla prima edizione del volume46 – esclude la narrazione dei Ten Days dal genere reportage? E, più in generale, cosa dobbiamo intendere per reportage? È sufficiente, anzitutto, un pizzico di buon senso per andare molto al di là di ogni riduzionismo ermeneutico: quell’interprete che volesse prendere per buone le indicazioni delle prefazioni e volesse poi, allo stesso tempo, tacciare la narrazione di cattiva fede risulterebbe – credo – assai contraddittorio. Anche perché è da sempre ben noto ciò che ricordano Eric Homberger e John Biggart in apertura di John Reed and the Russian Revolution: esistono resoconti della Rivoluzione bolscevica, contemporanei a quello di Reed, sia in lingua inglese che in altre lingue, molto più particolareggiati ed informati, redatti da giornalisti con maggiori competenze sia di cultura che di lingua russa47, e realizzati  Cfr. John Reed and the Russian Revolution. Uncollected Articles, Letters and Speeches on Russia, 1917-1920, a cura di E. Homberger e J. Biggart, Basingstoke e Londra, Macmillian, 1992. Gli interventi di Reed sono parzialmente disponibili anche in italiano, per la traduzione di Giancarlo Carlotti, nel volume J. Reed, Ottobre 1917 cronache dal palazzo d’inverno. Resoconti inediti sulla Rivoluzione russa, a cura di M. Maffi, Milano, ShaKe, 2017. 46   Cfr. J. Reed, Preface, cit., p. XIV: «in the struggle my sympathies were not neutral. But in telling the story of those great days I have tried to see events with the eye of a conscientious reporter, interested in setting down the truth». 47   Boris Reinstein, nel necrologio di Reed (1920), afferma addirittura che, leggendo i Dieci giorni «non si può fare a meno di chiedersi come – senza conoscere la lingua russa – egli abbia potuto cogliere e valutare con tanta lucidità (anzi, 45

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da una specola politicamente più moderata. Senz’altro, volumi come Through the Russian Revolution48 di Albert Rhys Williams e (soprattutto) My Reminiscences of the Russian Revolution49 di M. Philips Price sono ben più utili allo storico di quanto non lo sia quello di Reed. Rimproverare un gatto perché non è un leone è cosa assai antipatica, oltre che inutile. Come è già stato notato dalla critica, in verità, da un punto di vista della storia dei generi, Reed non fa null’altro che portare alle estreme conseguenze un procedimento letterario nato col muckraking, nel quale però finiva per soffocare come in un abito stretto: la fusione di inchiesta, osservazione, documentazione, in un testo squisitamente letterario; a ogni pagina, la qualità poetica s’accompagna a quella storico-documentaria, non solo attraverso la riproduzione di brani e di discorsi o il racconto veritiero di fatti, ma anche con l’inserzione nello stesso corpo grafico del testo di manifesti, proclami, documenti, schede,

con più lucidità di molti “rivoluzionari” russi) il senso e l’importanza di quegli eventi storici» (cfr. «Die Kommunistische Internationale», 14, II, 1920. La versione italiana a cura di M. Maffi e P. Leonardi si legge in J. Reed, Ottobre 1917, cit., p. 151. La risposta all’interrogazione di Reinstein è in parte data già da Robert A. Rosenstone in John Reed rivoluzionario romantico [1975], Milano, PGreco, 2017, p. 425: «Reed fortunatamente non dovette affidarsi unicamente alle poche parole di russo che conosceva per raccogliere informazioni. Sulla scia dell’amnistia approvata dopo la rivoluzione di febbraio molti rivoluzionari emigrati erano tornati in patria. Alcuni Reed li conosceva già, come ad esempio Bill Shatov, un membro degli IWW [Industrial Workers of the World o Wobblies, organizzazione operaia radicale, fondata nel 1905 a Chicago]. Altri li conobbe a Pietrogrado: Michail Yanishev di Detroit, V. Volodarsky del Partito socialista americano, Samuel Voskov, dirigente del Sindacato carpentieri di New York, Boris Reinstein, membro del Partito socialista laburista di Buffalo, Jake Peters, proveniente dall’Inghilterra […] Alex Gumberg, di New York». Inoltre Reed, che giunge a Pietrogrado assieme alla moglie Louise Bryant, può contare sul supporto di altri giornalisti americani, già sul posto, come Albert Rhys Williams e “Bessie” Beatty. 48   New York, Boni & Liveright, 1921. 49   London, G. Allen & Unwin, 1921.

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lettere, lasciapassare, in versione originale. La strada verso i newsreels del John Dos Passos della trilogia U.S.A. (1930-1936) è aperta50.

In questo senso, e certo non secondo storiografia, il libro di Reed è intanto più sincero proprio in quanto ideologicamente inquadrato: ciò che infatti deve interessarci rispetto alla tradizione del genere letterario del reportage di derivazione muckraking è precisamente il «detailed account» di «a slice of intensified history»51 per come apparve agli occhi del cronista; ovverosia, più propriamente, l’importanza storica oggettiva di un evento – la Rivoluzione – per come, per l’appunto, si manifestò ad una coscienza soggettiva. In tal senso il lavoro di Reed non è differente da quello di Upton Sinclair o di Lincoln Steffens: il valore di un’opera scritta, finzionale o giornalistica che sia, trova la propria misura sulla base della rilevanza delle questioni economiche, storiche e politiche che essa solleva, mentre i fatti che il giornalista o lo scrittore fa emergere devono essere presentati in modo tale da supportare eventuali reazioni sociali. In nessun caso si potrà, quindi, contrapporre l’apparenza deformata della Rivoluzione per come apparve agli occhi dello scrittore, o per come questi volle poi rappresentarla, alla Rivoluzione per ciò che essa fu veramente, o peggio per come essa appare all’occhio contemporaneo, per di più consapevole del fallimento dell’esperienza sovietica. Usando categorie anceschiane, potremmo dire che le “situazioni” e le “intenzioni” che fecero vivere quell’opera trovarono compiutezza storica in un preciso genere che Reed scelse, trasformò e in parte ricodificò: anche in questo caso, come sempre avviene, «non si intendono profondamente le particolari soluzioni poetiche e artistiche volta a volta proposte se non si tiene conto dei generi»52. Solo tenendo a mente l’influenza di letterati come Jack London o Theodore Dreiser, nonché delle esperienze giornalistiche legate alla cosiddetta Yellow press americana di   M. Maffi, L’apprendistato di John Reed, in La giungla e il grattacielo. Scrittori, lotte di classe, “sogno americano”, 1865-1920 [1981], Bologna, Odoya, 20132, p. 246. 51   J. Reed, Preface, in Ten Days…, cit., p. IX. 52   L. Anceschi, Dei generi letterari [1956], in Id., Progetto di una sistemica dell’arte, Milano, Mursia, 1962, p. 71. 50

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fine Ottocento, si può avere un’idea significativa degli orizzonti entro cui presero corpo i Ten Days. In effetti, non sarebbe difficile dimostrare che una risposta pregiudizialmente squalificante rispetto all’imparzialità della narrazione dei Dieci giorni non potrebbe che affidarsi, in maniera piuttosto affrettata, ad un antistorico concetto di “obiettività giornalistica”53, che non solo non esisteva in ambito di newsbook americani al tempo di Reed – come chiaramente conferma la lettura del capolavoro di Walter Lippmann Public Opinion54 – ma che è una costruzione anch’essa ideologica, su cui molto si potrebbe (e si dovrebbe) scrivere. La commistione tra realtà e spettacolarizzazione giornalistica, che oggi appare inedita e perciò decostruibile agli occhi del critico postmoderno, ha, per così dire, un’origine strutturale. La mancata percezione storica di tale origine dice molto sul nostro tempo, ma ci permette di capire davvero approssimativamente l’opera di Reed. La nota dicotomia tra news story e feature article, d’altro canto, presenta sempre tra i due estremi puramente ideali della registrazione fedele dei fatti e dell’invenzione finzionale delle notizie infinite sfumature. Né si può continuare a credere che la logica di un’opera narrativa, pur di natura giornalistica, possa ridursi alla sua argomentazione apodittica, mettendo volontariamente tra parentesi quel livello retorico che, in verità, è ciò che generalmente ne contrassegna i pregi e, talvolta almeno, il successo editoriale. Sarebbe ovviamente molto rassicurante poter listare con sicurezza i precisi compiti del giornalista-cronista-reporter; purtroppo però credo si debba accettare che, come ha giustamente notato Bernardo Valli, tali figure, per definizione, «sono un miscuglio di partecipazione e cinismo, di ambiguità e candore. Il cocktail del giornalista viaggiante è composto di elementi contraddittori, ma […] indissociabili»55. Chi mai, del resto, potrebbe rimproverare Hemingway di non essere stato obiettivo rispetto alla corrida, nel classico Death in the   Cfr. M. Schudson, La scoperta della notizia. Storia sociale della stampa americana [1978], Napoli, Liguori, 1987. 54   New York, Harcourt, Brace and Co., 1922. 55   B. Valli, La decolonizzazione e i problemi del Mediterraneo: esperienze di un giornalista, in Giornalismo italiano e vita internazionale, cit., p. 165. 53

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afternoon56? O, per restare vicini alla vicenda di Reed, considerata la natura dell’evento storico in esame, come si potrebbe riprendere George Orwell per non aver celato le proprie simpatie nella guerra di Spagna in Homage to Catalonia57? Nessuno, a mia conoscenza, ha mai fatto leva sul concetto di obiettività per ridimensionare l’approccio critico e (proprio perciò) parziale con cui Dos Passos, Steinbeck, Capote o Norman Mailer si sono avvicinati al genere del reportage narrativo. Perché farlo con Reed? Natura del trauma Se colgo nel segno, la ragione profonda e inconfessata di ciò, sta nel fatto che la cronaca di Reed nega nella maniera più assoluta il mito più coriaceo, per dirla con Žižek, della versione liberale della Rivoluzione d’ottobre, ovverosia proprio il fatto che essa fu opera «di un piccolo gruppo di sradicati rivoluzionari di professione che danno vita a un coup d’état»58. Nei Dieci giorni, infatti, il ruolo precipuo dei bolscevichi, ed in particolare di Lenin, si limita – si fa per dire – ad interpretare rettamente e senza indugi un sentimento comune condiviso dalle imponenti masse dei contadini, degli operai e dei soldati russi, che può essere riassunto in “tutto il potere ai soviet”, “pace immediata” e “collettivizzazione delle terre”, o anche, semplificando ancora, in “pane”, “pace” e “terra”. Si tratta di un ruolo essenzialmente intellettuale e logistico, che consiste nell’integrazione degli impulsi confusi del popolo con una quadratura teorica, organizzativa e politica, di cui è specchio lo straordinario ritratto dello stesso Lenin che si legge nel capitolo V, Plunging Ahead:

  New York, Scribner’s sons, 1932.   London, Secker and Warburg, 1938. 58   La citazione è tratta da Tredici volte Lenin. Per sovvertire il fallimento del presente [2002], tr. it. F. Rahola, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 11. Ma, per una ricognizione più completa, si veda S. Žižek, Afterworld: Lenin’s Choise, in Lenin, Revolution at the gate. A selection of Writing from February to October 1917, a cura dello stesso, London-New York, Verso, 2002, pp. 165-346. 56 57

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A short, stocky figure, with a big head set down in his shoulders, bald and bunging. Little eyes, a snobbish nose, wide, generous mouth, and heavy chin; clean-shaved now, but already beginning to bristle with the well-known beard of his past and future. Dressed in shabby clothes, his trousers much too long for him. Unimpressive, to be the idol of a mob, loved and revered as perhaps few leaders in history have been. A strange popular leader – a leader purely by virtue of intellect; colourless, humourless, uncompromising and detached, without picturesque idiosyncrasies – but with the power of explaining profound ideas in simple terms, of analysing a concrete situation. And combined with shrewdness, the greatest intellectual audacity59.

La grandezza di Lenin e quella di Trotskij, che, come probabilmente si sa, ricopre nel racconto di Reed un ruolo fondamentale, consistettero nell’aver colto la verità della protesta e del malcontento e di aver dato a quella protesta e a quel malcontento una rappresentazione pubblica, tra “tutte le classi” e “tutti gli strati della popolazione”, senza compromessi, contro il parere non solo degli altri partiti politici, ma anche di una parte dei bolscevichi stessi. Come ha scritto ancora Žižek, «Lenin riuscì precisamente perché il suo appello, scavalcando la nomenclatura di partito, trovò un’eco profonda in ciò che si sarebbe tentati di definire come una micropolitica rivoluzionaria: l’incredibile esplosione di democrazia dal basso, di comitati locali sorti dappertutto nelle grandi città russe ignorando l’autorità del gover  J. Reed, Ten Days…, cit., p. 125 [tr. it. p. 114: «piccolo di statura, raccolto, la testa rotonda e calva infossata nelle spalle, gli occhi piccoli, il naso camuso, la bocca larga e generosa, il mento pesante. Era completamente sbarbato, ma la barba, così conosciuta prima e che d’ora innanzi sarebbe sempre rimasta, cominciava già a rispuntargli sul viso. Il vestito era consunto, i pantaloni troppo lunghi. Poco fatto, fisicamente, per essere l’idolo della folla, egli fu amato e venerato come pochi capi nella storia. Uno strano capo popolare, capo per la sola forza della intelligenza. Egli non era brillante, non aveva spirito, era intransigente e appartato, senza alcuna particolarità pittoresca, ma aveva il potere di spiegare le idee profonde in termini semplici, di analizzare concretamente le situazioni e possedeva la più grande audacia intellettuale»]. 59

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no “legittimo” e prendendo direttamente in mano la situazione»60. In effetti, anche secondo Reed, Not by compromise with the propertied classes, or with the other political leaders; not by conciliating the old Government mechanism, did the Bolsheviki conquer the power. Nor by the organized violence of a small clique. If the masses all over Russia had not been ready for insurrection it must have failed. The only reason for Bolshevik success lay in their accomplishing the vast and simple desires of the most profound strata of the people, calling them to the work of tearing down and destroying the old, and afterward, in the smoke of falling ruins, cooperating with them to erect the frame−work of the new...61.

Questa affermazione, che potrebbe per molti versi sembrare ovvia, in realtà rappresenta un punto delicatissimo dell’operazione ideologica del giornalista americano e coinvolge un luogo nevralgico della riflessione marxista post-rivoluzionaria. Afferrare dialetticamente l’indicazione di Reed significa intanto rileggere la meditazione leniniana consegnata alle celebri pagine di Che fare? (1902) al netto dei volgarizzamenti che essa ha subito nel tempo, e riconoscerne il successo: il ruolo specifico del “rivoluzionario di professione” descritto da Lenin in quel memorabile intervento, non è quello, per così dire, di condurre con la violenza l’insurrezione politica, ma più propriamente quello di infondere, dall’esterno, la coscienza «dell’irriducibile antagonismo» fra gli interessi del proletariato e quelli dell’intero «ordinamento poli  S. Žižek, Tredici volte Lenin, cit., pp. 10-11.   J. Reed, Ten Days…, cit., p. 152 [tr. it., p. 260: «i bolscevichi non avevano conquistato il potere con un compromesso con le classi possidenti e coi diversi capi politici, né conciliandosi l’antico apparato governativo. E neppure con la violenza organizzata da una piccola consorteria. Se in tutta la Russia le masse non fossero state pronte per l’insurrezione, essa sarebbe fallita. La sola ragione del successo dei bolscevichi va cercata nel fatto che essi attuarono le vaste ed elementari aspirazioni degli strati popolari, cui avevano fatto appello per distruggere il vecchio regime e per edificare sulle sue rovine ancora fumanti un mondo nuovo»]. 60

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tico e sociale» borghese. Si rileggano, per esempio, questi due celebri passaggi: La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi62. Gli economisti e i terroristi della nostra epoca hanno una radice comune: la sottomissione alla spontaneità […]. Economisti e terroristi si prosternano davanti ai due poli opposti della tendenza della spontaneità: gli economisti dinanzi alla spontaneità del “movimento operaio puro”, i terroristi dinanzi alla spontaneità e allo sdegno appassionato degli intellettuali che non sanno collegare il lavoro rivoluzionario e il movimento operaio, o non ne hanno la possibilità63.

L’idea espressa quindici anni prima del fatidico 1917 è quella di superare contemporaneamente le posizioni di coloro che credono in una lotta organizzata internamente rispetto ai rapporti tra lavoratori e padroni, e cioè all’«agitazione politica sul terreno economico»64 e, pure, di quanti si propongono di stimolare la ribellione delle masse tramite azioni terroristiche o militari. I primi, infatti, restano alla “coda del movimento”, fermi nella loro fede rispetto allo sviluppo spontaneo oggettivo del movimento operaio; i secondi ignorano o sottovalutano la potenzialità rivoluzionaria delle masse, poiché non ne colgono i bisogni e i desideri immediati. Il problema, in entrambi i casi, riguarda lo scarto tra «ideologia borghese e ideologia socialista»65: gli “economisti”, secondo Lenin, riconducono il conflitto sociale a  Lenin, Che fare? [1902], in Opere complete, vol. V, tr. it. di L. Amadesi, Roma, Editori Riuniti, 1958, pp. 389-390. 63   Ivi, p. 386. 64   Ivi, p. 380. 65   Ivi, p. 354. 62

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posizioni sindacaliste (tradunioniste), e dunque lo subordinano all’ideologia borghese, la quale, per Lenin, concepisce il conflitto di classe solo in termini sindacalistici; i terroristi, invece, sovrappongono lo sdegno intellettuale, ovviamente borghese, alle necessità immediate e reali delle masse. Al contrario: la socialdemocrazia dirige la lotta della classe operaia non soltanto per ottenere condizioni vantaggiose nella vendita della forza-lavoro, ma anche per abbattere il regime sociale che costringe i nullatenenti a vendersi ai ricchi. La socialdemocrazia rappresenta la classe operaia non nei suoi rapporti con un determinato gruppo di imprenditori, ma nei suoi rapporti con tutte le classi della società contemporanea, con lo Stato, come forza politica organizzata66.

Inoltre, la socialdemocrazia rivoluzionaria deve riconoscere che «l’attività politica ha una propria logica, indipendente dalla coscienza di coloro che, con le migliori intenzioni del mondo, fanno appello al terrorismo»67. In questo senso la proposta di un’organizzazione rivoluzionaria centralizzata e professionale è la soluzione coerente ad uno stato di cose, al fine di trasformare sia la lotta sindacalista che quella intellettuale in una lotta dialetticamente capace di mobilitare tutte le componenti disaffiliate e scontente della società. Converrebbe prestar fede alle parole di Lukács, il quale ancora nel 1924 sosteneva che «il gruppo di rivoluzionari di professione, per Lenin, non aveva assolutamente il compito di “fare” la rivoluzione, né di infiammare la massa inerte con la propria azione isolata e coraggiosa, di metterla insomma davanti al fatto compiuto. L’idea organizzativa di Lenin presuppone il dato di fatto della rivoluzione, l’attualità della rivoluzione […]. Il partito inteso come organizzazione rigidamente centralizzata dei soli elementi più coscienti del proletariato era concepito come strumento della lotta di classe in un periodo rivoluzionario»68. In tempi recenti, sulla scorta di uno studio di Lars T. Lih, Slavoj Žižek ha approfondito l’analisi di   Ivi, p. 387.   Ibidem. 68   G. Lukács, Lenin, cit., p. 86. 66 67

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questo punto: Lenin, secondo tale lettura, si sarebbe aspettato dai bolscevichi «non un freddo sapere “oggettivo” (non di parte), ma una posizione soggettiva del tutto impegnata che possa mobilitare i seguaci», poiché in questo modo «anche un singolo individuo può provocare una valanga»69. E a proposito di ciò il filosofo sloveno cita un passaggio dell’intervento di Lih che parafrasa il pensiero di Lenin, e che citiamo qui a nostra volta: Compagni, guardatevi intorno! Non vedete che i lavoratori russi mordono il freno per ricevere il messaggio della rivoluzione e agire di conseguenza? Non vedete le possibilità di guida che già esistono tra gli attivisti, i praktiki? Non vedete che dagli operai verrà fuori un numero ancora maggiore di leader, se ci mettiamo in testa di incoraggiarne la nascita? Davanti a tutto questo potenziale, che cosa ci ostacola? Perché abbiamo ancora lo zar? Noi, compagni, siamo noi il collo di bottiglia70!

Che sia o no verosimile quest’ultima interpretazione del testo leniniano71, è certo che essa illumina il modo in cui il leader bolscevico viene rappresentato da Reed. Di fronte all’unicità della situazione russa nell’autunno 1917, il Lenin descritto nei Dieci giorni risponde con irripetibile intelligenza dialettica, superando, d’un colpo, le posizioni dottrinali di quanti marxianamente restavano in attesa delle giuste condizioni strutturali per la rivoluzione72, e, pure, dello spontanei  S. Žižek, Lenin oggi. Ricordare, ripetere, rielaborare, tr. it. di M. Manganelli, Milano, Ponte alle Grazie, p. 70. 70   L. T. Lih, «We must dream!». Echoes of «What is to be Done?», cit. in ivi, p. 71. 71   Sono, naturalmente, molti a non pensarla così. In area italiana, si veda, in tal senso, almeno I rivoluzionari di professione di Luciano Pellicani (Milano, FrancoAngeli, 2008). 72   Si ricorderanno, a questo proposito, le parole “cruciali”, come le definisce Raul Mordenti, che si leggono nell’articolo di Antonio Gramsci, La rivoluzione contro il Capitale, comparso sull’«Avanti!» il 24 dicembre 1917. Cfr. R. Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria [2007], Roma, Editori Riuniti, 20112, pp. 47-48. 69

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smo “tradunionista” della protesta sentita e vissuta sul piano pratico da militari, operai e (in parte) contadini. Nelle sue decisioni si riconosce, in altre parole, una tensione tra l’interesse particolare e immediato della ribellione e la consapevolezza della natura assoluta e non momentanea del conflitto di classe. Secondo Reed, effettivamente, i bolscevichi seppero indirizzare questa tensione in un «emozionante spettacolo di organizzata azione di massa proletaria, di coraggio e generosità»73. Non sottomissione alla spontaneità della rivolta, né colpo di stato di un gruppo minoritario di rivoluzionari di professione, ma, propriamente, un’attività integrale di teoria, propaganda, agitazione e organizzazione, indirizzata, per di più, a tutte le classi della popolazione74. D’altra parte, Reed sembra perfettamente consapevole del fatto che l’urgenza principale della propria testimonianza sia insistere sulla natura dialogica del rapporto tra bolscevichi e masse in rivolta. Come scrive in un inedito del 1918, oggi conservato dalla Harvard University, I seem to hear the indignant outcry of the reader: ‘He speaks as if the whole Russian people were in favour of the Bolshevik insurrection! While the whole world knows that only a small minority seized the power, and maintained it by the force of bayonets! Look at the composition of the Constituent Assembly, in which the Bolsheviks and their allies together occupied less than a third of the seats!’ […]. The active political force is always a fanatical minority, and its success depends upon its ability to galvanize into temporary action the galvanizable proportion of the public, and to convert the immense indifference of most of the population into a sort of benevolent inertia. In times of revolution more people are stirred to action than at any other period. This fact was particularly noticeable in Russia. Dear reader, you only prove my point when you say that the Bolsheviks maintained their power by force of   J. Reed, Ottobre 1917 cronache dal palazzo d’inverno. Resoconti inediti sulla Rivoluzione russa, cit., p. 43. 74   Per approfondimenti sull’effettivo ruolo del partito bolscevico nella Rivoluzione d’ottobre si rimanda in primo luogo al classico C. Bettelheim, Le lotte di classe in URSS 1917/1923 [1974], Milano, Etas, 1975. 73

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bayonets. Who were the bayonets? Russian peasants and workmen in uniform, acting voluntarily, through elected officers and elected committees75.

  J. Reed, Two Manuscripts on the Revolution, in John Reed and the Russian Revolution, cit., p. 116; tr. it. in J. Reed, Ottobre 1917…, cit., p. 88: «mi sembra di sentire le grida indignate del lettore: “tu parli come se l’intero popolo russo fosse favorevole all’insurrezione bolscevica! Mentre il mondo intero sa che solo un’esigua minoranza ha preso il potere e lo ha mantenuto con la forza delle baionette! Basta guardare la composizione dell’Assemblea Costituente in cui i bolscevichi e i loro alleati occupavano insieme meno di un terzo dei seggi!” […]. La forza politica attiva è sempre una minoranza fanatica, e il suo successo dipende dalla capacità di galvanizzare, spingendola ad un’azione temporanea, la parte già galvanizzabile di opinione pubblica e convertendo l’immensa indifferenza della maggior parte della popolazione in una specie di benevola inerzia. In tempi di rivoluzione, viene smossa più gente che in qualsiasi altro periodo. Questo è stato particolarmente evidente in Russia. Caro lettore, dimostri solo la mia tesi quando dici che i bolscevichi hanno mantenuto il potere con la forza delle baionette. Chi erano queste baionette? I contadini e gli operai russi in uniforme, che agivano di loro spontanea volontà, attraverso ufficiali eletti e comitati eletti». 75

2. Mitologemi dei Dieci giorni

Idea di Lenin Potremmo dire, allora, che se «le forme della propaganda sono autentiche cristallizzazioni, momenti compiuti, ed attestano – ciò che più interessa – una volontà politica di racchiudere entro un determinato ambito di immagini e valori morali una parte immediatamente usufruibile del tempo storico»1, certamente la cristallizzazione proposta da Reed si discosta profondamente dalla propaganda sovietica post-leniniana, e, ciò che è più importante, non include, a mio avviso, il mito leninista promosso, in realtà, più tardi da Stalin. Si rileggano ancora queste parole: For the whole Bolshevik program was simply a formulation of the desires of the masses of Russia. It called for a general, democratic immediate peace (that got the army, sick of war); the land to be immediately at the disposal of the Peasant Land Committees (that got the peasants); and control of industry by the workers (that got Labour). The demand that the government should be simply the Soviets of the Workingmen’s and Soldier’s Delegates, without participation by the propertied classes, until the convocation of the Constituent Assembly at the end of November, when the political form of the new Russia should be definitely decided - this completed their program. And it is worthy of remark that when the Bolsheviki first demanded that all power should be given to the Soviets, the   F. Jesi, Spartakus, cit., p. 15.

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majority of the Soviets were still bitterly anti-Bolshevik. It is a mark both of their utter consistency and of their complete confidence in the approaching triumph of their cause. Their cry ‘All power to the Soviets!’ was the voice of the Russian masses; and in the face of the increasing impotence and indecision of the ever-changing Provisional Government, it grew louder day by day2.

L’immagine di una rivoluzione come pura espressione della volontà del popolo, ovverosia dell’unione momentanea degli interessi specifici di contadini, soldati e operai, trova la propria perfetta immagine allegorica nel momento chiave della dialettica tra questa stessa volontà e la guida politica che, secondo Reed, solo alcuni capi bolscevichi seppero fornire, assecondando i bisogni immediati delle masse già in rivolta3. Mi riferisco, naturalmente, alla celebre riunione clandestina del Comitato Centrale del partito, avvenuta nella notte del 10 ottobre (23 ottobre del calendario gregoriano), nella quale, come è noto, i bolscevichi approvarono la proposta dell’insurrezione armata, con   J. Reed, Red Russia: The Triumph of the Bolsheviki, in John Reed and the Russian Revolution, cit., p. 76, tr. it. in J. Reed, Ottobre 1917…, cit., p. 50: «l’intero programma bolscevico era semplicemente l’espressione delle masse russe. Esso rivendicava la firma di una pace immediata (il che conquistò l’esercito stanco della guerra); l’immediata messa a disposizione della terra ai Comitati contadini per la terra (il che conquistò i contadini); e il controllo delle fabbriche nelle mani degli operai (il che conquistò i lavoratori). Completava il programma bolscevico la richiesta che il governo fosse semplicemente costituito dai Soviet dei delegati degli operai e dei soldati, senza la partecipazione delle classi possidenti, fino alla convocazione dell’Assemblea costituente alla fine di novembre, allorché si sarebbe decisa definitivamente la forma politica della nuova Russia […]. Il loro grido “Tutto il potere ai soviet!” era la voce delle masse russe che, poste di fronte alla crescente impotenza e irresolutezza del mutevole Governo provvisorio, risuonava sempre più forte, un giorno dopo l’altro». 3   Si può facilmente verificare come nei Dieci giorni vi sia una sorta di “impazienza delle masse”, che anche i bolscevichi, in un primo momento, faticano a controllare e, soprattutto, a incanalare in una possibilità concretamente rivoluzionaria. Per esempio, i tumulti scatenatesi a febbraio, poi violentemente repressi dal governo moderato di Kerenskji, sono descritti da Reed come un vero e proprio strappo delle masse. 2

Mitologemi dei Dieci giorni

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dieci voti a favore e il voto contrario dei soli Kamenev e Zinov’ev. La descrizione di quella riunione nei Ten Days insiste, effettivamente, sul fatto che soltanto Lenin e Trotskij si dichiararono decisamente a favore dell’insurrezione armata, sostenendo in verità una decisione già comunque presa dal proletariato: the Central Committee of the Bolshevik party was considering the question of insurrection. All night long the 23d they met. There were present all the party intellectuals, the leaders−and delegates of the Petrograd workers and garrison. Alone of the intellectuals Lenin and Trotskij stood for insurrection. Even the military men opposed it. A vote was taken. Insurrection was defeated! Then arose a rough workman, his face convulsed with rage. “I speak for the Petrograd proletariat,” he said, harshly. “We are in favour of insurrection. Have it your own way, but I tell you now that if you allow the Soviets to be destroyed, we’re through with you!” Some soldiers joined him... And after that they voted again−insurrection won...4.

Per comprendere l’importanza simbolica della narrazione di Reed, e le molte implicazioni teoriche che essa sovrintende, la si deve confrontare con quanto Stalin in persona dichiara già nel novembre 1924, nel suo noto discorso al Consiglio Centrale dei Sindacati dell’Unione Sovietica, dal titolo programmatico Trotzkismo o Leninismo?: si racconta, di solito, che il 10 ottobre, quando prese la decisione di organizzare l’insurrezione, il CC, nella sua maggioranza, si sarebbe in   J. Reed, Ten Days…, cit., pp. 26-27 [tr. it., pp. 33-34: «il Comitato centrale del partito bolscevico stava esaminando la eventualità della insurrezione. La notte del 23 sedette in permanenza. Tutti gli intellettuali del partito, tutti i capi, e così pure parecchi delegati degli operai e della guarnigione di Pietrogrado erano presenti. Tra gli intellettuali solo Lenin e Trotskij erano per l’insurrezione. Anche i militari erano contrari. Si votò. L’insurrezione fu battuta. Allora un operaio si levò, il viso contratto per il furore: - parlo a nome del proletariato di Pietrogrado – disse rudemente. – Noi siamo per l’insurrezione. Fate quello che volete, ma io vi dichiaro che se voi lasciate schiacciare i Soviet, voi siete finiti per noi. Alcuni soldati lo appoggiarono… Si rimise ai voti la insurrezione… Trionfò»]. 4

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un primo tempo dichiarato contrario, ma che allora alla seduta del CC avrebbe fatto irruzione un operaio il quale avrebbe detto: “voi vi dichiarate contro l’insurrezione, ma io vi dico che l’insurrezione ci sarà, nonostante tutto”. E dopo queste minacce, il CC, come se fosse stato intimorito, avrebbe nuovamente posto il problema dell’insurrezione e avrebbe deciso di organizzarla5.

E, ancora, poco più avanti: Non è una semplice diceria, compagni. Lo scrive nel suo libro I dieci giorni il noto John Reed, il quale, essendo lontano dal nostro partito, non poteva certamente sapere la storia della nostra riunione clandestina del 10 ottobre e aveva abboccato all’amo dei pettegolezzi messi in giro dai vari signori Sukhanov. Questo racconto viene poi riprodotto e ripetuto in una serie di opuscoli dovuti alla penna dei trotzkisti, tra l’altro in uno dei più recenti opuscoli sull’Ottobre scritto da Syrkin. Queste dicerie vengono persistentemente alimentate dagli ultimi scritti di Trotskij […]. Dubito sia necessario dimostrare che tutte queste e altre simili fiabe arabe non corrispondano alla realtà, che in realtà non vi è stato e non poteva esservi nulla di simile alla riunione del CC. Avremmo potuto, quindi, passar sopra a queste voci assurde: sono tante le dicerie fabbricate a tavolino dagli oppositori o da individui lontani dal partito! E veramente abbiamo agito così finora, non facendo caso, per esempio, agli errori di John Reed e non preoccupandoci di correggerli»6.

La discordia ideologica e l’evidente frattura tra una narrazione della rivoluzione e un’altra vanno qui ben al di là dello stabilire come sono andati realmente i fatti. Qui è in ballo il nocciolo duro della rappresentazione simbolica della rivoluzione. Infatti, mentre Reed traduce in racconto la versione di quella riunione clandestina, orecchiata in diversi ambienti bolscevichi, in maniera funzionale alla propria urgenza di smentire sul nascere l’immagine, assai diffusa in Europa e  Stalin, Trotzkismo o Leninismo?, in Opere scelte, vol. 1, a cura di A. Serafini, Napoli, Laboratorio politico, 1995, p. 239. 6   Ivi, p. 240. 5

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negli Stati Uniti, della rivoluzione come colpo di mano di una piccola minoranza ben organizzata, Stalin, già impegnato nel duro confronto apertosi con Trotskij per l’eredità politica di Lenin, compie un primo passo nella ridefinizione canonicizzante dell’assetto stesso del partito bolscevico e della sua funzione nell’Ottobre, oltre che nella costruzione del carattere leggendario della figura di Lenin. Dal nostro punto di vista, ciò che più interessa, è che Stalin debba misurare l’autonarrazione bolscevica della Rivoluzione con la narrazione più nota e conosciuta degli eventi dell’Ottobre, in quel momento: appunto, la versione di Reed. L’obiettivo primario, evidentemente, è quello di liquidare ciò che egli definisce come «chiacchiere sulla funzione particolare di Trotskij» durante la rivoluzione – declinate ora al rango di «una leggenda, propalata dalle servizievoli comari “del partito”»7. Nei Dieci giorni, come, per la verità, in molte altre cronache coeve, Trotskij ricopre un ruolo di primo piano, almeno sotto il profilo politico-militare: descritto come un uomo di straordinario e “mefistofelico”8 carisma, è lui, nei Dieci giorni, a interagire, con le sue arringhe e i suoi interventi declamatori non soltanto con le masse pronte all’insurrezione (si vedano, in particolare, i primi due capitoli – Background e The Coming Storm), ma pure con gli altri partiti politici e con le correnti di destra dello stesso partito bolscevico. Dal 23 settembre, come presidente del Soviet di Pietrogrado, tocca a lui, del resto, prendere pubblicamente la parola. Ma è assai interessante notare, da un punto di vista simbolico, che la figura carismatica di Trotskij sembra sopperire in funzione specifica di “propaganda” e “agitazione” ad alcuni limiti caratteriali di Lenin, che, dal canto suo, nel racconto di Reed appare molto più a suo agio, come già accennato, di fronte a problemi di ordine teorico e organizzativo. A tal proposito si deve sottolineare che rispetto alla cronaca dei Ten Days, l’attività politica leniniana appare quasi sempre fuori scena, per così dire: c’è, ma non si vede. È vero che Reed, ovviamente per ragione dalla contingenza dettata dallo stato di clandestinità, vede di persona Lenin in pochissime occasioni, e comunque mai prima del   Ivi, p. 243.   Cfr. J. Reed, Ten Days…, cit., p. 71: «His thin, pointed face was positively Mephistophelian in its expression of malicious irony». 7 8

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26 ottobre (8 novembre). Non si tratta, però, solamente di questo. Anche, più avanti, per esempio nelle pagine dedicate alla geniale gestione dell’instaurazione del governo rivoluzionario o quelle relative ai delicati momenti della “Counter-Revolution” di Kerenskij, Lenin appare comunque una sorta di regista occulto, quasi sempre escluso dall’azione. In questo senso, non sono del tutto certo che, come scrive invece Angelo d’Orsi, dai Dieci giorni emerga «in modo irrefutabile, la grandezza di Lenin, la sua distanza da tutti gli altri personaggi che troviamo sul proscenio, che, al suo confronto, appaiono dei comprimari, più o meno valorosi, più o meno in grado di fornire un contributo rilevante alla causa comune»9. È certamente vero che Lenin viene presentato da Reed come l’unico leader politico capace di gestire le diverse fasi del processo rivoluzionario, in una sorta di crescendo che si conclude con i suoi determinanti interventi al Congresso contadino, raccontati nell’ultimo capitolo: ciò, d’altra parte, può considerarsi anche storiograficamente inoppugnabile. È altrettanto evidente, tuttavia, – e lo si capisce bene già dall’episodio della riunione del Comitato Centrale del 10 ottobre – che Reed affianca spesso, se non sempre, Trotskij e Lenin, quasi indicando, rispetto agli eventi in atto, un totale allineamento ideologico tra i due, o comunque come se, tra i leader bolscevichi, il solo Trotskij fosse stato schierato nel corso dell’intero processo sulle posizioni leniniane. Cosa, questa, assai più dubbia, invece, da un punto di vista storiografico; e, a contrasto, non può non venire in mente, tra le altre cose, un passaggio dello straordinario ritratto di Lenin realizzato da Gorkij tra il 1924 e il 1931: Fui molto stupito del giudizio assai positivo che [Lenin] formulò sulle capacità organizzative di L.D. Trotskij. Vladimir Ilič si avvide della mia meraviglia: “Sì, lo so, si dicono un sacco di bugie sui rapporti tra me e Trotskij. Ma quello che è vero è vero! Pensi come è riuscito a organizzare gli specialisti dell’esercito!” Dopo una pausa, aggiunse in tono più sommesso e triste: “Tuttavia non è dei nostri!

  A. d’Orsi, 1917. L’anno della Rivoluzione, Roma-Bari, Laterza, 2016, p. 196.

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Sta con noi, ma non è dei nostri. È ambizioso. C’è in lui qualcosa di negativo, gli viene da Lassalle…”10.

All’opposto, si pensi a come Reed rappresenta, per esempio, i fatti del 26 ottobre, dopo l’avvenuta insurrezione e le conseguenti difficoltà organizzative incontrate dai bolscevichi per costruire il nuovo potere: The Bolshevik and Left Social Revolutionary factions were in session in their own rooms. All the livelong afternoon Lenin and Trotsky had fought against compromise. A considerable part of the Bolsheviki were in favour of giving way so far as to create a joint all-Socialist government. “We can’t hold on!” they cried. “Too much is against us. We haven’t got the men. We will be isolated, and the whole thing will fall.” So Kamenev, Riazanov and others.  But Lenin, with Trotsky beside him, stood firm as a rock. “Let the compromisers accept our program and they can come in! We won’t give way an inch. If there are comrades here who haven’t the courage and the will to dare what we dare, let them leave with the rest of the cowards and conciliators! Backed by the workers and soldiers we shall go on”. At five minutes past seven came word from the left Socialist Revolutionaries to say that they would remain in the Military Revolutionary Committee11.   Cfr. M. Gorkij, Lenin [1931], tr. it. di I. Ambrogio, Roma, Castelvecchi, 2017, p. 48. 11   J. Reed, Ten Days…, cit., p. 123 [tr. it., pp. 112-113: «i bolscevichi e la sinistra socialista-rivoluzionaria erano riunite nelle loro sale. Durante tutto il pomeriggio Lenin e Trotskij avevano dovuto combattere le tendenze al compromesso. Una notevole parte dei bolscevichi era dell’opinione di fare le concessioni necessarie per costituire un governo di coalizione socialista. – Noi non possiamo resistere, – gridavano – sono troppi i nostri nemici. Non abbiamo gli uomini necessari. Saremo isolati e crollerà tutto. Così parlavano Kamenev, Rjazanov e di altri. Ma Lenin, con Trotskij al suo fianco, restava fermo come una roccia. – Quelli che vogliono un compromesso accettino il nostro programma e noi li accoglieremo. Noi non cederemo di un centimetro. Se vi sono qui dei compagni che non hanno il coraggio e la volontà di osare quello che noi 10

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Lenin, quello «strano capo popolare», «incolore, privo di umorismo, intransigente e distaccato», «nient’affatto adatto per essere l’idolo della folla»12 occupa insomma un gradino comune con l’«infaticabile»13 Trotskij, dal carattere impetuoso e, al contrario del primo, guarda caso, «dall’espressione di maliziosa ironia»14. Il primo è un leader occulto, direbbe James Hillman: resta nascosto, eppure possiede questa capacità cruciale «di saper riconoscere l’occasione»15, di saper aspettare il momento giusto, di saper «anticipare quello che è nell’aria»16. Il secondo, invece, è propriamente un leader carismatico. Come è naturale, agli occhi del romantico Reed, la potente padronanza retorica, la fredda sicurezza dei gesti e l’indole ribelle di Trotskij dovevano aver giocato, in fondo, un fascino quasi empatico: Lenin sarà pure il cervello della rivoluzione – viene da pensare, rileggendo ancora quelle pagine – ma l’azione è infine quasi interamente condotta da Trotskij17. Un gradino sotto, poi, l’attività degli altri dirigenti bolscevichi è presentata come collettiva e corale, ma raramente schiacciata rispetto alla direzione leniniana. In maniera emblematica, il nome che comosiamo, che se ne vadano insieme a raggiungere i poltroni e i conciliatori. Con l’appoggio degli operai e dei soldati, noi andremo avanti! – Alle sette e cinque, i socialisti rivoluzionari di sinistra fecero dire che rimanevano nel Comitato militare rivoluzionario»]. 12   Cfr. ivi, p. 125. 13   Ivi, p. 203. 14   Ivi, p. 71. 15   J. Hillman, Gli stili del potere [1995], tr. it. P. Donfrancesco, Milano, Bur, 2009, p. 66. 16   Ibidem. 17   Sebbene la preoccupazione di mostrare la Rivoluzione bolscevica come una rivoluzione di massa impedisca a Reed di pensare ad una scissione tra la gestione politica degli eventi e l’azione militare che condusse all’effettiva conquista del potere – e infatti non si fa praticamente cenno al fatto che lo stesso Trotskij guidasse una truppa d’assalto al momento della presa del Palazzo d’Inverno –, non è difficile mettere in relazione quel che si legge nei Dieci giorni con quanto scrive Curzio Malaparte nel suo celebre Tecnica del colpo di stato [1931], Milano, Adelphi, 2011, p. 123 e sgg: «se lo stratega della rivoluzione bolscevica è Lenin, il tattico del colpo di Stato dell’ottobre 1917 è Trotskij».

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pare più spesso nei Ten Days, ovviamente dopo Lenin e Trotskij, è quello di Lev Kamenev. In effetti, la discordia all’interno del partito e il ruolo attivo rispetto alla causa rivoluzionaria di quanti pure si erano opposti all’immediata presa del potere non sono interpretati da Reed come contraddittori. In questo caso, infatti, la cronaca dà conto della fondamentale opposizione all’insurrezione sia di Kamenev che di Zinov’ev, e si sofferma sui violenti contrasti avuti dai due con Lenin, dopo la rottura dei negoziati con i rappresentanti degli altri partiti socialisti per la formazione di un nuovo governo di coalizione, decisa, come si sa, dal Comitato centrale del partito il 1° novembre (14 novembre). Nondimeno egli mostra il lavoro infaticabile e la buona fede dei due dirigenti politici, una volta avviato irreversibilmente il processo rivoluzionario. Ideologia del rivoluzionario di professione La narrazione stalinista, al contrario, presenta un modello di partito opportunamente e per certi versi elementarmente verticistica, con un manifesto rafforzamento simbolico del suo leader, a sottolineare, tra le altre cose, un’obbedienza di fatto del Comitato Centrale non solo alla risoluzione con cui viene proposta l’insurrezione armata, ma, più in generale, con ogni decisione presa, in sostanziale solitudine, da Lenin. Insomma, l’Ottobre, secondo Stalin, ha certamente avuto il suo animatore e capo, ma questo fu Lenin, e nessun altro, quello stesso Lenin le cui risoluzioni vennero approvate dal CC quando si discusse il problema dell’insurrezione, quello stesso Lenin al quale l’illegalità non impedì di essere il vero animatore dell’insurrezione, contrariamente a quanto afferma Trotskij18.

Questa posizione sarà notoriamente perfezionata più tardi, con la pubblicazione dei cinque volumi della Istorija graždanskoj vojny v SSSR (1936-1960), versione in un certo senso ufficiale degli eventi  Stalin, Trotzkismo o Leninismo?, cit., p. 244.

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dell’Ottobre sub specie stalinista, realizzata da Gorkij, Molotov, Vorošilov, Kirov, Ždanov, e dallo stesso Stalin, e nella quale non solo la figura di Trotskij verrà spogliata di qualsiasi funzione positiva, ma pure un Lenin infallibile e quasi grottescamente eroicizzato si affiderà spesso, per informazioni e consigli, al fidato e premuroso compagno Stalin19, mentre il voto contrario all’insurrezione in quel  Si pensi, per l’appunto, a quanto si legge proprio in Istorija graždanskoj vojny v SSSR: «non era stato possibile convocare per il 10 ottobre una conferenza allargata del partito; si tenne comunque una seduta del Comitato centrale a cui parteciparono dodici persone. Per la prima volta dopo le giornate del luglio, Lenin partecipò ad una seduta del Comitato centrale. Riconoscere Vladimir Ilič era difficile: senza barba né baffi portava una parrucca grigia su cui passava costantemente le mani. I presenti si felicitarono con Lenin per la buona riuscita del viaggio e venne ammirata l’astuzia con cui aveva saputo ingannare le spie di Kerenskij. Passati questi primi momenti, Lenin, che Stalin aveva messo al corrente degli avvenimenti, insistette perché venisse affrontata la questione principale. Lenin non aveva preso parte alle sedute del Comitato centrale da circa tre mesi. I membri del CC gli dettero le ultimissime notizie […]. Dopo Sverdlov, prese la parola Lenin per fare un rapporto sulla situazione generale. Sottolineò nuovamente la grande importanza che rivestiva la minuziosa preparazione degli aspetti tecnici della insurrezione e dimostrò l’insufficienza di ciò che era stato fatto fino ad allora. La situazione politica è matura, le masse aspettano azioni, sono stanche di risoluzioni e di parole. Anche il movimento contadino si orienta verso la rivoluzione; la situazione internazionale è tale che i bolscevichi devono prendere l’iniziativa. Politicamente – conclude Lenin – la situazione è completamente matura per il passaggio del potere… Ora bisogna parlare dell’aspetto tecnico. Qui è tutta la questione. Lenin sottolineò, per ben due volte, nel suo rapporto che la situazione politica era matura e che ormai non si trattava altro che di fissare la data dell’insurrezione. Propose quindi di sfruttare l’occasione data dal congresso dei soviet della regione del Nord e la volontà d’agire della guarnigione di Minsk, conquistata agli ideali bolscevichi, “per scatenare un’azione decisiva”. Lenin era profondamente convinto della necessità di agire senza altri indugi, perché “ogni ritardo sarebbe equivalso alla morte” […]. A quel punto, per Lenin, non si trattava altro che di fissare la data dell’insurrezione, dato che l’azione ormai era già stata decisa sia da lui sia dal Comitato centrale. Lenin espose le sue conclusioni in una breve risoluzione che illustrava, con una chiarezza e una precisione folgoranti, le direttive del partito. […] La risoluzione di Lenin venne approvata con dieci voti contro due. […] La riso19

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la leggendaria riunione clandestina del 10 ottobre tornerà ad essere, retroattivamente, motivo fondamentale di scomunica rispetto alla causa rivoluzionaria. In questo modo, nel volume dedicato agli eventi dell’Ottobre a Pietrogrado, la Istorija graždanskoj vojny v SSSR può descrivere apertamente come traditori sia Kamenev che Zinov’ev, i quali – preziosi alleati per lo Stalin del 1924 – in Trotzkismo o Leninismo risultavano ancora fermamente leninisti e pienamente bolscevichi, nonostante la loro opposizione alla risoluzione. È evidente quindi che, anche al di là della funzione e dell’importanza nel corso della rivoluzione di Trotskij – il quale, dal canto suo, si servirà del libro di Reed come fonte privilegiata per la stesura della propria versione della Storia della rivoluzione russa, scritta, come si sa, durante il proprio esilio sull’isola di Prinkipo, tra il 1929 e il 193220 –, la cronaca dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo contrasta apertamente con le ragioni politiche di Stalin. Alla base dell’opposizione stalinista al libro, presto convertita in censura, non stanno – come pure è stato sostenuto – abbrutite ragioni idiosincratiche: Stalin non è preoccupato (o almeno non solo) per il fatto che il suo nome non compaia neanche una volta nel testo di Reed, se non nella lista dei Commissari del popolo del primo governo bolscevico. Il punto chiave sta, se colgo nel segno, nel fatto che la cronaca di Reed mostra, in trasparenza, l’idea di rivoluzionario di professione prima della sua cristallizzazione in ideologia. Per dirla più chiaramente, nei Ten Days non vi è ancora, o meglio non si è ancora coerentemente o interamente cristallizzata, quella reinscrizione della «rivolta nel processo del calcolo strategico-politico»21 che è propria di qualsiasi processo rivoluzionario compiuto, e di cui la cosiddetta “rivoluzione culturale” stalinista rappresentò, piaccia o non piaccia, la necessaria formalizzazione simbolica. Il «processo attraverso il quale luzione di Lenin diventava una direttiva per l’intero Partito bolscevico». Cfr. M. Gorkij, V. Molotov, K. Vorošilov, S. Kirov, A. Ždanov, J. Stalin, Storia della rivoluzione russa, vol. III, tr. it. (dall’edizione francese) di E. Desideri, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 75-84. 20   Cfr. L. Trotskij, Storia della rivoluzione russa [1930-1932], tr. it. di L. Maitan, Milano, Sugar, 1964. 21   S. Žižek, In difesa delle cause perse, cit., p. 143.

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la rivolta è “colonizzata dalla realpolitik”»22, per dirla con Žižek, appare insomma inconcluso nelle pagine di Reed, tanto più che il racconto termina già all’altezza dello stesso novembre 1917. È piuttosto sintomatico che le interrogazioni poste dallo stesso Reed al momento dell’effettiva presa del potere da parte dei bolscevichi, ovverosia nel finale del quarto capitolo della cronaca (The fall of the Provisional Government), restino irrisolte per metà: So. Lenin and the Petrograd workers had decided on insurrection, the Petrograd Soviet had overthrown the Provisional Government, and thrust the coup d’état upon the Congress of Soviets. Now there was all great Russia to win – and then the world! Would Russia follow the rise? And the world – what of it? Would the peoples answer and rise, a red world-tide?23

Nei capitoli successivi verremo informati che da Pietrogrado la rivoluzione si estende in tutta la Russia. Ma della risposta dei “popoli del resto del mondo” non potremo sapere nulla. Entro il segmento narrato da Reed, più in generale, «la rivoluzione» dà sì «legittimità alla sollevazione»24, ma non indica ancora alcuna pianificazione politica (e tantomeno economica) che oltrepassi concretamente l’immediata attuazione di quella semplice volontà del popolo che l’aveva guidata – “pane”, “pace”, “terra”25:   Ibidem.   J. Reed, Ten Days…, cit., p. 110, [tr. it. p. 102: «così Lenin e gli operai di Pietrogrado avevano deciso l’insurrezione, il Soviet di Pietrogrado aveva rovesciato il governo provvisorio e messo il Congresso dei Soviet davanti al fatto compiuto del colpo di Stato. Si trattava adesso di conquistare tutta l’immensa Russia, e poi il mondo! La Russia avrebbe seguito e si sarebbe sollevata? E il mondo... che farà? I popoli accoglieranno l’appello e la marea rossa inonderà il mondo?»]. 24   S. Žižek, In difesa delle cause perse, cit., p. 143. 25   Cfr. D. Giglioli, Stato di minorità, cit., p. 50: «se Lenin e i bolscevichi non avevano molti piani su come comportarsi una volta preso il potere, era perché credevano lo avrebbero tenuto per non di più di pochi mesi prima di essere spazzati via. Loro obiettivo era lasciare un esempio memorabile di conquiste sociale e politiche sul genere di quelle dalla Comune di Parigi. Ma poi, 22 23

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With the decree on the Nationalization of Banks, the formation of the Supreme Council of People’s Economy, the putting into practical operation of the land Decree in the villages, the democratic reorganization of the Army, and the sweeping changes in all branches of the Government and of life – with all these, effective only by the will of the masses of workers, soldiers, and peasants, slowly began, with many mistakes and hitches, the moulding of proletarian Russia26.

Come si capisce, dalla cronaca di Reed è completamente assente la consapevolezza retrospettiva che Stalin deve proiettare sugli eventi a partire dal 1924, ovverosia manca quasi completamente quella «morale del giorno dopo»27, per dirla con Giglioli, che fa concretamente della rivolta storica una rivoluzione, e di cui Stalin fu alfiere drammaticamente coerente: è proprio vero che «passata la festa qualcuno deve pulire»28. Così, l’immagine stessa della figura e dell’azione politica di sopravvissuti contro ogni prognosi alla guerra civile e alla bancarotta della teoria, hanno certo commesso tutti gli errori possibili tranne quello di pensare che sarebbe stato meglio fare la fine della Comune». 26   J. Reed, Ten Days…, cit., pp. 283-284 [tr. it. pp. 259-260: «con il decreto sulla nazionalizzazione delle banche, la creazione del Consiglio supremo dell’economia nazionale, la applicazione effettiva del decreto sulla terra, la riorganizzazione democratica dell’esercito, i cambiamenti radicali operati in tutti i rami dello Stato e della vita sociale, con tutti questi provvedimenti, che solo la volontà della massa degli operai, dei soldati e dei contadini poteva realizzare, cominciò a forgiarsi lentamente attraverso molti errori e urti, la Russia proletaria»]. 27   D. Giglioli, Stato di minorità, cit., p. 51. 28   Ibidem. È probabile, in questo senso, che abbia ragione Jean-Claude Milner a sostenere che i bolscevichi pretesero di «unire in un punto, chiamato Rivoluzione, due entità assolutamente estranee l’una all’altra: l’atto politico più indipendente dalle cose – la sollevazione per la libertà – e il discorso che viene dalle cose stesse, messo in parole dal materialismo storico. La dialettica era ritenuta operare l’annodamento. Sappiamo cosa accadde. Il nodo non s’annodò. Nel momento in cui si uscì dai programmi per giungere alla messa in opera effettiva, le cose finirono per imporre il loro comando e la politica si dissolse in oppressione. Stalin, meglio di chiunque altro, incarnò quel destino, La politica delle cose». Cfr. J-C. Milner, La politica delle cose. Breve trattato politico I [2014], tr. it. di G. Tagliapietra, Pisa, Ets, 2016, p. 33.

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Lenin si cristallizza stalinianamente nel mito del leninismo solo dopo il 1924 – sebbene, come ricorda Gian Piero Piretto, il processo di mitizzazione della sua persona fosse già iniziato nei suoi ultimi anni di vita29 –, ed è solo a quel punto che la versione dei fatti consegnata alle pagine di Reed diventa improvvisamente inadeguata alla propaganda sovietica, nonostante le parole di apprezzamento spese dallo stesso Lenin nella Prefazione al volume, che abbiamo già citato. L’analisi del delicato nucleo narrativo della riunione clandestina del Comitato Centrale del 10 ottobre, in particolare, ovvero la comparazione dei Ten Days e della Istorija graždanskoj vojny v SSSR, in generale, rivelano una volta di più l’irreversibile efficacia dell’azione retroattiva dello stalinismo sulla figura di Lenin, sulla funzione di guida tattica e soprattutto militare del partito, e, complessivamente, sul significato storico della rivoluzione. L’applicazione concreta di ciò che Sylvain Lazarus ha definito come modo politico staliniano, secondo il quale, come ha scritto Badiou, «il partito è l’unico luogo della politica»30, passa infatti attraverso una nuova narrazione. Dialetticamente, per dirla in termini differenti, il lento processo di ritorno del tempo storico dopo la sospensione simbolica provocata dalla sollevazione, risemantizza il reale: non è certo il popolo ad aver guidato gli eventi. Una sollevazione giustificata dalla presa del potere, ovvero una rivoluzione proletaria vittoriosa – la prima della storia, peraltro – significa precisamente la politicizzazione del concetto (o dei concetti) alla base della rivolta31 e questa politicizzazione, a posteriori, deve essere stata espressa senza tentennamenti dal nuovo potere (cioè dal partito) già nel corso della   Cfr. G. P. Piretto, Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, Torino, Einaudi, 2001, p. 65 e sgg. 30   A. Badiou, L’ipotesi comunista [2009], tr. it. L. Boni, A. Cavazzini, A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2011, p. 125. 31   Cfr. A. Badiou, Il risveglio della storia [2011], tr. it. L. Toni e M. Zaffarano, Milano, Ponte alle Grazie, 2012, p. 51: «nel momento in cui il concetto alla base della rivolta diventa un concetto politico, in altri termini nel momento in cui la rivolta riesce a trovare al proprio interno il personale politico di cui ha bisogno e rende sostanzialmente inutile il ricorso ai vecchi professionisti dello Stato, in questo momento si può affermare che si è giunti al termine del periodo interstiziale: una politica nuova è riuscita a far suo il risveglio della Storia simboleggiato dalla rivolta storica». 29

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sollevazione (cioè nell’Ottobre). Meglio: deve essere stata formulata dal leader del partito e perseguita fedelmente da tutti i dirigenti veramente rivoluzionari, e ciò implica una mutazione sostanziale tra la leadership politica e gli intellettuali, oltre che tra gli intellettuali e le masse32: era necessaria una volontà di straordinaria fermezza per condurre le masse sul giusto cammino verso questo scopo. Tale gigante di pensiero e di volontà, forte dell’esperienza della lotta rivoluzionaria dei lavoratori di tutto il mondo, e pienamente capace della comprensione scientifica dei problemi del proletariato, fu Vladimir Ilic Lenin. Il capo della rivoluzione occupò il proprio posto33.

Si ha così dimostrazione evidente che, in ogni caso, si deve «rifiutare», da un punto di vista dialettico, «il gioco ridicolo di chi oppone il terrore stalinista all’“autentica eredità leninista” tradita dallo stalinismo», poiché, come si capisce già da queste poche righe, «il “leninismo” è un concetto assolutamente “stalinista”»34. La questione che vale la pena continuare a sollevare riguarda, invece, il significato “in divenire” della funzione simbolica dei bolscevichi come “rivoluzionari di professione”, poiché, come ha scritto una volta Ferenc Fehér, la comparsa del rivoluzionario di professione fu una delle maggiori innovazioni dei neo-giacobini. Se fossero sopravvissuti al terrore del proprio regime e a quello del Termidoro, molti militanti giacobini avrebbero potuto affermare retrospettivamente di aver fatto in realtà per tutta la loro vita il “mestiere della rivoluzione”. Ma, nel loro caso,   Su questi argomenti la storiografia conta numerosi e imprescindibili studi. Si veda almeno J. Barber, Soviet Historians in Crisis. 1928-1932, McMillan, Londra, 1981. In area italiana la questione è approfonditamente trattata da F. Bettanin, La fabbrica del mito. Storia e politica nell’URSS staliniana, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996. 33   M. Gorkij, V. Molotov, K. Vorošilov, S. Kirov, A. Ždanov, J. Stalin, Storia della rivoluzione russa, cit., p. 116. 34   S. Žižek, Lenin oggi, cit., p. 79. 32

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si trattò di una conseguenza involontaria, piuttosto che la scelta consapevole di una carriera. Tra la loro epoca e la comparsa della “grande narrazione” neo-giacobina, i rivoluzionari più o meno di professione crebbero di numero. Ma soltanto il neo-giacobinismo fece diventare l’attore rivoluzionario un professionista per definizione e di conseguenza la rivoluzione una professione. Ne scaturì un principio di pervicace elitismo, secondo il quale alla rivoluzione occorreva una “competenza professionale” che non avrebbe potuto essere trovata nell’operaio medio con la sua coscienza “tradunionista”, ma soltanto in una élite di professionisti capace di “portare a compimento” una rivoluzione. Quale tipo di “competenza professionale” si supponeva necessaria per eseguire questo compito? La domanda è del tutto giustificata, dal momento che, forse la sola eccezione del comunismo cinese, abbiamo prove evidenti che quasi tutti gli scenari progettati dagli “specialisti della rivoluzione” sono falliti o quanto meno sono stati smentiti dalla realtà dei fatti35.

La consapevolezza giacobina di Lenin per cui la révolution ne s’autorise que d’elle-même36 e l’assunzione di responsabilità bolscevica che leggiamo attraverso la narrazione staliniana sono solo apparentemente sullo stesso piano, benché, certamente, si pongano in continuità l’una dell’altra: leggere dialetticamente i Dieci giorni che sconvolsero il mondo in rapporto all’autonarrazione comunista dell’Ottobre significa porsi di fronte al processo di legittimazione della rivoluzione nel suo farsi. La fortuna degli audaci Come si spiega, per quanto detto in qui, la straordinaria fortuna dei Ten Days? Voglio dire, se non si potrà guardare all’obiettività, né   F. Fehér, Modello giacobino e versione bolscevica. Un contributo all’ermeneutica e alla geografia politica del giacobinismo, in Sulla rivoluzione, a cura di N. Bobbio, Milano, FrancoAngeli, 1990, pp. 214-215. 36   S. Žižek, Lenin oggi, cit., p. 24. Su questo punto si veda A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno [1992], Roma, manifestolibri, 2002, p. 330 e sgg. 35

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alla documentazione (pur ricca), e nemmeno – credo sia chiaro – alle ragioni di propaganda filosovietica (la versione staliniana della Rivoluzione, come si è visto, tanto si discosta da quella che si legge sulle pagine di Reed, che Dieci giorni fu presto messo al bando in Unione Sovietica), a cosa dovremmo imputare il costante successo del libro di John Reed? La questione è, come si capisce, tutt’altro che pacifica. Credo, innanzi tutto, che alcune ragioni fondamentali si possano rintracciare nei due aspetti che più distinguono Reed e la sua cronaca da cronache coeve, come gli ormai quasi dimenticati Six Red Months in Russia di Louise Bryant37, The Red Heart of Russia di “Bessie” Beatty38, o il già citato Through the Russian Revolution di Albert Rhys Williams, che, per molti versi, possiamo considerare opere sinottiche – i quattro giornalisti americani avendo affrontato insieme gran parte degli avvenimenti dell’Ottobre. Nello specifico, questi due aspetti riguardano il mito romantico della biografia di Reed, soprattutto per come è stata costruita dai suoi biografi39 e la qualità letteraria dell’opera che, come sostiene Maffi, la rende «qualcosa di più» di una «semplice testimonianza dell’epoca»40. Rispetto al primo punto, aveva senz’altro visto bene Beniamino Placido. Nel 1977, introducendo al pubblico italiano i racconti di   L. Bryant, Six Red Months in Russia, New York, George H. Doran, 1918.   B. Beatty, The Red Heart of Russia, New York, N.Y. Century co., 1918. 39  Si vedano, soprattutto, R. A. Rosenstone, Romantic Revolutionary. A biography of John Reed, New York, Knopf, 1975 e E. Homberger, John Reed, Manchester, Manchester University Press, 1990. Ma si consideri che la biografia di Reed è stata oggetto di un notevole numero di pubblicazioni. Cfr. L. Steffens, John Reed Under the Kremlin, Chicago, Walden Book Shop, 1922; G. Hicks, The Making of a Revolutionary, New York, Macmillian, 1936; R. O’Conner, D. L. Walker, The Lost Revolutionary. A Biography of John Reed, New York, Harcourt, 1967, B. Gelb, So Short a Time. A Biography of John Reed and Louise Bryant, New York, Norton, 1973, T. Hovey, John Reed. Witness to Revolution, Los Angeles, George Sand Books, 1975, J. Tuck, Pancho Villa e John Reed. Two Faces of Romantic Revolution, Tucson, University of Arizona Press, 1984; D. C. Duke, John Reed, Boston, G.K. Hall, 1987. 40   M. Maffi, L’apprendistato di John Reed, cit., p. 246. 37 38

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Avventura & Rivoluzione41, Placido scriveva, infatti, che la vera opera d’arte di Reed «è la sua biografia»42. In realtà, egli riprendeva, quasi letteralmente, ma probabilmente senza saperlo, un’affermazione che Edwin Justus Mayer – noto poi come sceneggiatore di alcuni capolavori di Ernst Lubitsch43 – aveva consegnato, ancora venticinquenne, alla propria autobiografia, una cinquantina di anni prima. Anche secondo Justus Mayer, che aveva avuto modo di conoscere bene Reed, questi sarebbe stato un «autore pieno di forza», il cui vero genio, tuttavia, «stava nella sua vita»44. Come è subito chiaro, la relazione vita-opera in Reed mostra esplicitamente – se ce ne fosse ancora bisogno – quanto pesi il primo termine del binomio in sede di giudizio ermeneutico e storico-letterario rispetto alla ricezione del secondo. Ed è sicuramente di un qualche interesse il fatto che, a livello teorico, e lontano dagli insopportabili approcci biografici e blandamente psicologizzanti di certa critica impressionistica, i due aspetti non possano che studiarsi comunque contestualmente. Ha di certo avuto peso, a tal proposito, il fatto che l’ideologia dominante della società occidentale post-rivoluzione francese abbia accolto per molto tempo e piuttosto favorevolmente la figura del ribelle, dell’eroe capace di sacrificare sé stesso e persino di morire per una nobile causa di libertà e di eguaglianza. L’immaginario occidentale, qui inteso nel senso di memoria collettiva, come «repertorio di immagini visive, auditive, sensoriali, gesti, voci, scritture che vengono a comporre un infinito reticolo testuale nello stesso circuito, in uno   I racconti di Avventura & Rivoluzione hanno una storia editoriale curiosa: furono raccolti per la prima volta dall’editore Seven Seas di Berlino nel 1963, e riproposti negli Stati Uniti dalla casa editrice City Light di San Francisco nel 1975, con prefazione di Lawrence Ferlinghetti. L’edizione italiana con introduzione di Beniamino Placido è del 1977. 42  B. Placido, Introduzione a J. Reed, Avventura & Rivoluzione, Roma, Arcana, 1977, p. VI. 43   In particolare To Be or Not to Be (in Italia Vogliamo vivere!), USA 1942 (B/N) e A Royal Scandal (Scandalo a corte) USA 1945 (B/N). 44   E. Justus Mayer, A Preface to Life, New York, Boni and Liveright, 1923, p. 95. La traduzione del passo si cita da R. A. Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, cit., p. 16. 41

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stesso insieme»45, è pieno di figure positive di questo genere, e Reed, certamente, non fa eccezione. La sua biografia tanto è affascinante, quanto è inconsueta, avventurosa e sostanzialmente votata al “bene”. D’altra parte, l’avventura, come ha spiegato Agamben, è «l’ultimo rifugio dell’esperienza»46, in un mondo contemporaneo in cui l’uomo ne è stato espropriato. Il sacrificio di Reed, la sua morte per la causa e persino la sua sepoltura al Cremlino (unico americano ad aver avuto questo privilegio, se così si può dire) si consumano idealmente (ma si badi non realmente) prima di qualsiasi cristallizzazione ideologica oppressiva. Prima insomma che lo stalinismo, come ha scritto Paco Ignacio Taibo II, divorasse con «gesti di antropofagia, spari alla nuca in sotterranei gelidi, campi di concentramento in Siberia e abusi nel regno del doppio linguaggio, apparentemente egualitario e in realtà autocratico»47, il mito della rivoluzione russa. E la traccia che le gesta di Reed indicano non può che essere all’insegna di nobili ideali, di fatto irrealizzati: è questa mitologia, credo, ad aver giocato un ruolo determinante per il successo dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo. Al contrario, l’ideologia dominante ha sopportato assai meno la figura del rivoluzionario vittorioso, cioè di quel ribelle che, una volta preso il potere, si trova a doverlo gestire, a difendere strenuamente l’idea per cui si è battuto traducendola in pratica politica, e difatti la “rete di ragno”48 del nostro immaginario conserva immagini positive assai più scarse a tal proposito. Se poi tale nuovo potere volesse configurarsi, come fa quello sovietico, come “dittatura del proletariato”, allora le immagini positive si ridurrebbero praticamente del tutto, sino a sparire. In effetti, finché il gesto del ribelle alla Robin Hood esalta le categorie nobili dell’individuo verso traguardi puramente ideali o velleitari o, almeno fino a qualche tempo fa, pure sterilmente utopici, ovvero verso conquiste capaci di risolversi interamente entro la sfera privata o familiare (compreso e presentissimo, paradigmati  M. Domenichelli, Lo scriba e l’oblio, cit., p. 59.   G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia [1978], Torino, Einaudi, 20012, p. 24. 47   P. I. Taibo II, Arcangeli [1988], tr. it. R. Bovaia, Milano, il Saggiatore, 1998, pp. 104-105. 48   Cfr., M. Domenichelli, Lo scriba e l’oblio, cit., p. 57 e sgg. 45 46

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camente, il sentimento della vendetta49), tale gesto si autogiustifica, trascendendo l’eventuale impiego della forza e talvolta addirittura, come nel caso di Robin Hood, il reato contro un potere considerato illegittimo o contro la proprietà. Al contrario, quando la contingenza cristallizzante di un nuovo potere esprime la necessità di rimettersi alla disciplina, ovverosia quando il ribelle sottomette la propria soggettività all’obbedienza e alla fedeltà alla propria causa, piegando la propria individualità all’indispensabile organizzazione di quello stesso nuovo potere, allora intervengono gli anticorpi culturali della società capitalistica, con misure reattive ad ampio spettro. In generale, quando nel mondo avviene un “cambiamento reale”, che significa propriamente che, come scrive Badiou, «un inesistente del mondo comincia a esistere in questo stesso mondo con un’intensità massima»50, allora bisogna prendere provvedimenti. Nel caso della Rivoluzione d’ottobre, dopo la sconfitta militare delle armate bianche, e i diversi tentativi di rovesciare con la forza il potere bolscevico, gli anticorpi occidentali hanno agito sull’immaginario in molte e polimorfe modalità. Per esempio, per quel che più ci interessa, lo hanno fatto sotto forma di romanzi, di film, di documentari e di lavori storiografici di studiosi alla Richards Pipes o alla Stéphane Courtois, per capirsi. «Qualunque cosa si presenti come un ostacolo», ha scritto una volta James Hillman, «può essere affrontata riparandola o combattendola»51. Paradossalmente, da questo punto di vista, la fortuna dei Dieci giorni è stata quella di essere stato letto, da sinistra, come il libro di un ribelle – ingenuo e pieno di nobilissimi ideali –, e da destra come un resoconto di un rivoluzionario, deprecabilmente fazioso, ma assai   Viene in mente, a tal proposito, il successo di pubblico dell’adattamento cinematografico del capolavoro di Alan Moore e David Lloyd V. Per vendetta, diretto da James McTeigue nel 2005 (USA, colore), ma si pensi anche a Blockbuster come la recente trilogia (in quattro film) Hunger games (USA, colore, 2012, 2013, 2014, 2015), tratta dalla serie di romanzi della scrittrice statunitense Suzanne Collins. 50   A. Badiou, Il risveglio della storia, cit., p. 59. 51   J. Hillman, Forme del potere. Capire il potere per usarlo in maniera intelligente [1995], tr. it. P. Donfrancesco, Milano, Garzanti,1996, p. 29. 49

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informato, e dunque utile, se non indispensabile, per conoscere le gesta dei nemici bolscevichi. “Jack” il Rosso (sulla biografia) Chiunque abbia avuto a che fare con Reed, certamente, non ha potuto fare a meno di porre l’accento sul suo eroismo quasi byroniano, per di più suggellato – adeguatamente, sarebbe proprio il caso di dire, se non fosse inopportuno – dalla prematura scomparsa, avvenuta per febbre tifoide nel 1920, a soli trentatré anni. L’indomabile spirito d’avventura è divenuto così, proprio dopo la sua morte, una sorta di cartina di tornasole per inquadrare, in verità, un personaggio dal temperamento difficile e dal carattere assai più complesso rispetto a quel prototipo di “intellettuale combattente” – di cui Adorno avrebbe certamente diffidato52 – che emerge dalle testimonianze dei suoi compagni di strada e, più tardi, di molti tra i suoi studiosi. L’amico Floyd Dell, per esempio, in un ricordo pubblicato su «Call» subito dopo la morte di Reed, sosteneva, non senza una buona dose di retorica, che questi fosse un «eroe da favola», nel senso di «uno di quei personaggi epici che appaiono nei periodi di transizione, quando le leggi e le tradizioni cominciano a sfaldarsi sotto la pressione dei mutamenti economici e quando gli individui si trovano nella necessità di farsi nuove leggi e di contare sulle proprie forze»53. E se l’arte del necrologio non è certo la più adatta ad aprire campi di complessità relativamente alle pieghe meno ovvie del defunto, questa stessa indicazione eroicizzante   Mi riferisco naturalmente ad uno dei frammenti di Minima moralia, segnatamente il n. 87, Associazione di lotta. Cfr. T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa [1951], tr. it. R. Solmi, Torino, Einaudi, 19943, p. 155. 53   F. Dell, John Reed: Revolutionist, «Call», 31 ottobre 1920, p. 5. La traduzione del brano è in R. A. Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, cit., p. 14. Ma si pensi anche alla descrizione, certo più neutrale, che ne dà Victor Serge in Memorie di un rivoluzionario: «era grande, vigoroso, positivo, entusiasta a freddo, con una viva intelligenza venata di umorismo». (Cfr. V. Serge, Memorie di un rivoluzionario (1901-1941) [1947], tr. it. A. Garosci, Roma, E/O, 2001, p. 147). 52

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del dato biografico si ritrova a distanza, ma ad un differente livello di approfondimento, anche nel film Reds54, che Warren Beatty dedica a John Reed nel 1981, e che ne ha rilanciato la notorietà ben oltre gli ambienti radicali americani (e europei), nonché oltre quelli accademici degli studiosi e degli storici della Rivoluzione d’ottobre. Il fatto che Beatty ponga in primo piano lo stile di vita anticonvenzionale del nostro, di cui diventa paradigma privilegiato la controversa storia d’amore con Louise Bryant, è assai significativo ideologicamente: ci torneremo fra un momento. Prima occorre precisare, a scanso di ogni equivoco, che, favola o non favola, eroicizzazione o meno, Reed è stato indubitabilmente e incontrovertibilmente per la più parte della sua breve vita un «cowboy out of the west»55, come ebbe a scrivere nel 1927 Michael Gold. Un bohémien, un radicale e, ciò che è più importante per il nostro discorso, un ribelle prima che un rivoluzionario, come spiega in Heroes I have known56 anche il compagno Max Eastman, direttore della rivista radicale «The Masses»57. Un ribelle sicuramente lucido, che non si è mai lasciato guidare soltanto dalla passione. Ma pur sempre un ribelle, con un’indole avventurosa e una particolare passione per le situazioni perigliose. Tutto ciò, però, ha teso a rimuovere una verità seconda, che invece – in maniera piuttosto singolare e non so quanto inscritta nell’intentio auctoris – Reds finisce per far riemergere, e cioè il fatto che alla fine della sua vita, John Reed – Jack “Il Rosso”, come veniva chiamato nel circolo radicale del Greenwich Village – non era più un ribelle, ma un rivoluzionario bolscevico fedele alla rivoluzione. Si può scorgere, allora, una sorta di singolare allegoria tra opera e biografia: è, ancora, al rapporto tra rivolta e rivoluzione che occorre guardare, se si vuole chiarire in pieno il significato cruciale dell’evento della Rivoluzione russa anche nella vicenda personale dello scrittore-croni  USA, 1981 (colore).   M. Gold, John Reed and the Real Thing, «The New Masses», v. 3, n. 7, Novembre 1927, p. 7. 56   New York, Simon and Schuster, 1942. 57   Sui rapporti tra John Reed e «The Masses» si veda A. Danieli, L’opposizione culturale in America. L’età progressista e «The Masses» 1911/1917, Milano, Feltrinelli, 1975. 54 55

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sta, oltre che, come abbiamo visto, per intendere correttamente (cioè dialetticamente) il significato dei Dieci giorni. In quello straordinario ottobre del 1917, infatti, Reed poteva vedere realizzata in prassi un’idea che bruciava in lui come una fiamma inestinguibile. Un’idea che aveva inseguito con sempre maggiore consapevolezza ideologica già dai tempi di Insurgent Mexico58, quando aveva seguito dal di dentro la ribellione di Pancho Villa in Messico, aggregandosi agli insorti59. E ancora, come scrittore, ne aveva provato a fissare i contorni in alcuni straordinari e purtroppo dimenticati racconti finzionali – raccolti in Italia, in parte nel già citato Avventura & Rivoluzione, e, in altra parte, nel più recente volume Red America. Lotta di classe negli Stati Uniti 60 – nel poema America 1918 61, oltre che nei più celebri reportage dagli scioperi di Paterson62, di Ludlow63, e nelle cronache della Prima guerra mondiale di The War in Eastern Europe64. Un percorso che, quindi, delinea un apprendistato. Un cammino di consapevolezza ideologica, «breve e intenso», come sostiene ancora Maffi, che si conclude proprio con la Rivoluzione bolscevica, ovvero con la trasformazione dell’intellettuale «da sensibile ago del sismografo» a «elemento attivo nella lotta di classe, cui contribuisce sia sul piano politico sia su quello culturale in senso lato»65. Per dirla con Rosenstone, insomma: tutte le pagine di Reed sulla Russia sono piene di passione perché gli avvenimenti russi avevano un significato, indicavano una strada di organizzazione della realtà che Jack aveva cercato per anni. Una volta Reed si sarebbe accontentato della realizzazione personale, della   New York, D. Appleton and Company, 1914.   Uno straordinario profilo del “Jack” Reed messicano si legge nel capitolo Jack e Pancho di Ribelli! (Milano, Feltrinelli, 2001) di Pino Cacucci. 60   Cfr. J. Reed, Red America. Lotta di classe negli Stati Uniti, a cura di M. Maffi, Roma, Nova Delphi, 2012. 61   Cfr. J. Reed, America 1918, in Collected Poems, Westport, Corliss Lamont, 1985, p. 111. 62   Cfr. J. Reed, War in Paterson, «The Masses», IV, 9, giugno 1913. 63   Cfr. J. Reed, The Colorado war, «Metropolitan», n. 40, luglio 1914. 64   New York, Charles Scribner’s Sons, 1916. 65   M. Maffi, L’apprendistato di John Reed, cit., p. 251. 58 59

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fama che le cose che scriveva gli davano. Una crescente coscienza sociale aveva cambiato la sua visione del mondo, gli aveva creato nuovi eroi. Aveva visto il coraggio degli wobblies e dei rivoluzionari messicani, ma il loro eroismo si era manifestato in sconfitte o vittorie rapidamente vanificate da forze più potenti. La Russia rappresentava una nuova occasione, su più vasta scala, e là il mutamento sociale era sorretto da teorie che erano in grado di spiegare una massa di fenomeni confusi: i gusti superficiali della borghesia, la pusillanimità della stampa americana, la commercializzazione della bohème, l’ingresso dell’America nella guerra mondiale, l’oppressione dei lavoratori negli Stati Uniti e nel mondo66.

Così è la guerra Uno degli aspetti più sorprendenti di Reds, veramente al di là delle ingenerose critiche piovutegli addosso da grossa parte della sinistra comunista di mezza Europa, è proprio l’aver compreso e correttamente rappresentato quanto per John Reed dovette significare questo passaggio: la rinuncia ad uno stile di vita radical-borghese, la rinuncia a porre libertà e passione davanti a impegno e ragione, la rinuncia ai propri sogni di scrittore e poeta non furono certamente indolore. Sta proprio in quella rinuncia il fascino del film e, per quanto mi riguarda, anche l’aspetto più autenticamente eroico della biografia dell’autore dei Dieci giorni: la trasformazione di un ribelle in rivoluzionario è un atto di fedeltà faticoso e difficile, un atto di fedeltà, in questo caso, ad una causa collettiva da parte di un uomo che in verità non fu mai fedele a nessuno, se non alle proprie ambizioni e ai propri romantici ideali, almeno fino a quell’ottobre. Di tale sofferto passaggio, d’altra parte, se ne era in qualche modo accorto già Renato Leduc: confrontando in Historia de lo inmediato67 i reportage di Insurgent Mexico e Ten Days, il grande poeta messicano concludeva che se nel primo prevalgono aspetti, per così dire, avven  R. A. Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, cit., p. 444.   Cfr. R. Leduc, Historia de lo inmediato, Ciudad de México, Fondo de Cultura Económica, 1976. 66

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turosi e sentimentali, il secondo appare più freddo e preciso, come se, in esso, già lo sguardo dell’uomo politico si fosse sovrapposto a quello romantico del poeta. Il fatto che dopo la Rivoluzione bolscevica, se ben se ne segue la parabola, Reed si dedicherà sempre meno alla propria carriera artistica e sempre più a quella politica (contribuendo, come noto, alla fondazione del Partito Comunista Operaio americano, e partecipando in prima persona alle attività della propaganda sovietica) va, insomma, al di là della mera biografica e della contingenza della sua morte prematura: è una scelta precisa e, piaccia o non piaccia, irrevocata. Reed, in altre parole, sembra pienamente consapevole che uno scrittore, come ha detto una volta Claudio Magris, «non è un responsabile padre di famiglia, ma è piuttosto un figlio ribelle che obbedisce al suo demone»68. Rimettersi integralmente al “cappio” dell’ideologia significò per lui sbarazzarsi tout court della libertà “ludica” della letteratura. Dalla poiesis che produce «un oggetto fuori di sé»69, come direbbe Giorgio Agamben, egli decise di passare a quella praxis «che ha in sé stessa il suo fine»70, ovverosia al «fare dell’artigiano e dell’artista»71 seppe sostituire con fermezza l’azione politica, risolvendo così da principio un’aporia cui in verità andarono incontro tutti gli artisti che sposarono la causa rivoluzionaria – e si pensi a ciò che già nel 1929 Walter Benjamin rilevava a proposito del movimento surrealista72.   C. Magris, I colori delle idee, in G. Xingjian e C. Magris, Letteratura e ideologia, Milano, Bompiani, 2012, p. 47. Come riferisce Max Eastman, John sapeva bene che la lotta di classe «fa a pugni con la poesia!». Cfr. M. Eastman, Heroes I Have Known, cit., p. 223. 69   G. Agamben, Il fuoco e il racconto, Roma, nottetempo, 2014, p. 123. 70   Ibidem. 71   Ibidem. Per una trattazione più distesa sull’argomento si vedrà soprattutto G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Macerata, Quodlibet, 1994. 72   Cfr. W. Benjamin, Il surrealismo [1929], in Opere complete III. Scritti 1928-1929, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhàuser, edizione italiana a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2010, p. 213: «se il duplice compito degli intellettuali rivoluzionari è quello di abbattere l’egemonia intellettuale della borghesia e venire a contatto con le masse proletarie, essi sono venuti quasi completamente meno alla seconda parte di questo compito, poiché essa non può più essere assolta in modo contemplativo. Eppure ciò ha impedito solo a 68

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Potremmo dire perciò che vi sono due Reed: c’è “Jack il Rosso”, poeta, ribelle, romantico, le cui gesta riscuotono ancora oggi ammirazione e, nel peggiore dei casi, curiosità; c’è poi l’altro John Reed, il dirigente di partito, il politico, l’uomo di potere, molto meno eroico, la cui presenza nella memoria collettiva è, per così dire, assai labile. Il punto fondamentale che si deve afferrare, e che Warren Beatty in qualche modo sottolinea, è che il secondo succede al primo e, in un certo senso, ne giustifica retroattivamente l’intero percorso. Reds, in questa prospettiva, indica la natura di quella scelta cristallizzante, formalizzante, di passare dall’idea all’ideologia, dalla ribellione alla rivoluzione. Allegoricamente questo percorso si compie entro due sequenze ben precise del film. La prima sequenza apre il racconto vero e proprio: si vede Jack Reed correre in mezzo ad un turbinio di colpi d’arma da fuoco nel tentativo di raggiungere un carro su cui stanno viaggiando gli insorti messicani di Pancho Villa. Subito dopo, come nota Pino Cacucci nel suo Ribelli!, «per qualche istante compare un fotomontaggio con Beatty nei panni di Reed e il vero Pancho Villa che posano insieme, a ricordo della loro amicizia»73. La seconda sequenza, quasi alla fine del film, prende avvio dall’immagine di John che guarda l’orizzonte. Ci sono dei cavalli che escono da un treno, parato con bandiere rosse. Sui cavalli alcuni soldati: è l’armata rossa. I soldati stanno rispondendo al fuoco esploso da altri uomini, anch’essi a cavallo. Questi ultimi hanno delle fasce bianche attorno al braccio destro. Sono le cosiddette armate bianche. Due cavallerie si affrontano. I bianchi hanno assaltato un treno bolscevico. Un treno della propaganda sovietica, per la precisione. E c’è Reed che guarda, incredulo, quanto sta avvenendo: è sceso anche lui in fretta e furia dal treno, inpochissimi di porre sempre di nuovo questo compito come se lo potesse essere, e di invocare poeti, pensatori e artisti proletari. Contro questo malinteso già Trotskij (in Letteratura e rivoluzione) dovette obiettare che essi usciranno soltanto da una rivoluzione vittoriosa. In verità si tratta molto meno di fare dell’artista di origine borghese il maestro dell’“arte proletaria”, quanto di metterlo in funzione in punti importanti di questo spazio immaginativo, sia pure a prezzo della sua attività artistica. Anzi, l’interruzione della sua “carriera artistica” non dovrebbe forse essere una parte essenziale di questa funzione?». 73   P. Cacucci, Ribelli!, cit., p. 135.

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sieme ad una delegazione di dirigenti bolscevichi, tra cui si può scorgere la folta capigliatura di Gregorij Evseevič Zinov’ev. D’improvviso, Reed, con un gesto di coraggio e di incoscienza, comincia a correre contro la cavalleria bianca affiancando a perdifiato i cavalli dell’armata rossa. Una corsa folle, temeraria, improvvisa: è uno dei pochi uomini a piedi a gettarsi nell’agone. Sicuramente l’unico della delegazione dei dirigenti della propaganda. Sta tentando, se ben si guarda, di raggiungere un carro contadino su cui è montata una mitragliatrice. La corsa riesce e l’uomo può dare il suo contributo alla battaglia che infuria. Poco importa che, nella realtà storica, quello scontro fu poco più che un assalto di qualche bandito. E che il nostro probabilmente non ne prese parte, o, se lo fece, discese dal treno già sul carro mitragliatore. Nella giustapposizione tra la sequenza che apre il film e il viaggio di ritorno dal Congresso per la liberazione dei popoli d’Oriente di Baku (1920), cui “Jack” aveva preso parte, si consuma interamente il fuoco della sua ribellione. Proprio quando il treno bolscevico viene attaccato e Reed/Beatty si lancia in quella folle corsa, si assiste, in altri termini, alla formalizzazione anche a livello della coscienza della sua fedeltà all’evento della rivoluzione, potremmo dire parafrasando Badiou: la seconda corsa chiude la prima e la risemantizza. Il passaggio da un soggetto ribelle ad un soggetto rivoluzionario è certificato dalla morte simbolica del primo, palesemente segnalata dallo stacco che interrompe la scena della battaglia tra armate bianche e armata rossa. Dopo di che vediamo il treno giungere alla stazione di Pietrogrado: non sappiamo se John sia vivo o morto finché non lo vediamo scendere, per ultimo, dal convoglio. Ciò che dobbiamo intendere, qui, è che l’uomo che scende non è più quel poeta-cronista-avventuriero della foto con Pancho Villa. L’uomo che scende è un dirigente della propaganda bolscevica: adesso lo sa anche lui. Si devono notare con attenzione alcuni particolari: prima dell’aggressione delle armate bianche al treno, si vede John Reed litigare furiosamente con Zinov’ev. John non ha preso bene il fatto che gli altri dirigenti della propaganda siano intervenuti sul testo del proprio discorso. In effetti, Zinov’ev ha manipolato la traduzione dell’intervento facendo sì che Reed chiamasse in causa, parlando ai “popoli d’Oriente”, una “guerra santa” contro l’imperialismo occidentale. La reazione di Reed rimanda, apparentemente, a una sequenza della prima parte

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del film, in cui vediamo il cronista dar di matto con il direttore di una delle testate per cui scrive – tale Pete Van Wherry, interpretato da Gene Hackman. Anche in questo caso Reed rimprovera Van Wherry per aver modificato, pur in minima parte, un proprio articolo. È utile evidenziare che sia il tono, sia le parole utilizzate somigliano tremendamente a quelle riservate a Zinov’ev. Tuttavia, l’errore più marchiano in cui uno spettatore smaliziato potrebbe incappare sarebbe qui proprio quello di attribuire questa somiglianza all’ego e all’indole ribelle del nostro protagonista e vedere quindi solo la continuità tra le due scene. In verità il soggetto simbolico che vi si rappresenta è palesemente differente: nella prima sequenza, “Jack il Rosso” è un classico soggetto narcisista, portatore di un’ideologia apertamente individualistica; nella seconda il John dirigente bolscevico si fa portavoce di una discussione dottrinaria di interesse collettivo. Là egli lotta per la propria “autorialità”, qui cerca di dare un contributo alla causa del partito. Nella prima scena, quindi, il soggetto è l’io (lo scrittore). Nella seconda il soggetto è un noi, cui l’io (il dirigente di partito), che non ne è che un frammento, cerca soltanto di dare una certa direzione. Che le cose stiano esattamente in questi termini (e che non siamo noi, appunto, preda di immaginazione fervida) lo sappiamo da un secondo particolare cui si deve prestare attenzione. Poco prima delle immagini del viaggio a Baku, una sequenza ci mostra un dialogo tra John Reed e l’attivista anarchica Emma Goldman (interpretata da Maureen Stapleton). La donna si lamenta per il progressivo irrigidirsi del nuovo potere bolscevico. Dalle speranze iniziali di un mondo giusto e, come i soviet promettono, realmente democratico – speranze per le quali si era trasferita nella Russia rivoluzionaria – si è passati, secondo lei, ad una realtà poliziesca. Il neonato Stato sovietico si starebbe rapidamente trasformando in una feroce dittatura capace di cancellare i più elementari diritti civili. Le fucilazioni di massa, senza processo, con cui vengono eliminati tutti i sospettati di opposizione politica – addirittura quattro milioni, in pochi anni, secondo le sue (incredibili) parole – sono quanto di più lontano potesse aspettarsi dal socialismo al potere. Goldman parla francamente a Reed convinta che questi ne condivida la prospettiva. John è peraltro reduce da una serie di scontri con i dirigenti del partito in merito al riconoscimento da parte del Comintern del sindacato americano IWW. Scontri

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che culminano addirittura con le proprie dimissioni dalla carica di delegato presso l’ufficio propaganda per la sezione di lingua inglese. Tutto fa pensare, insomma, al fatto che anche lui si sta dolorosamente rendendo conto di quanto l’idea romantica dello stato socialista contrasti in realtà con la distopia di uno Stato dittatoriale, controllato da una élite del partito burocratizzata e feroce. Tuttavia l’impressione di Goldman e, allo stesso tempo, quella dello spettatore vengono clamorosamente smentite dalla risposta di Reed – ed è straordinaria l’espressione di stupore sul volto della Stapleton (giustamente premiata con l’Oscar come miglior attrice non protagonista nell’anno 1982, assieme a Beatty, che si aggiudicò il premio per la migliore regia e a Vittorio Storaro, per la fotografia). John, infatti, replica sottolineando l’ingenuità – tipica naturalmente dell’eroe romantico – con la quale la donna confonde la teoria rivoluzionaria e la sua messa in pratica. Credere che la transizione verso una società realmente comunista possa realizzarsi senza l’uso della forza, senza una violenza organizzata e sistematica, senza il terrore, insomma, è come credere alle fate: una rivoluzione è una guerra. E così è la guerra. Ovviamente, questa scena è stata interpretata nella maggior parte dei casi in chiave esistenziale: il John di Beatty, secondo molti, non si rassegnerebbe a veder sparire la propria utopia, poiché non gli resta che quella. Credendo di aver perso per sempre l’amore della sua vita, Louise Bryant (Diane Keaton), egli deve restare fedele almeno alla rivoluzione – a quella rivoluzione per la quale ha sacrificato tutto – per giustificare la propria esistenza. Commentando il film, anche Slavoj Žižek, dal canto suo, ha sostenuto il carattere irrimediabilmente fantasmatico della Rivoluzione d’ottobre, ovvero la sua funzione puramente metaforica in un universo filmico di fatto schiacciato sulla prospettiva dell’òikos: le scene mitiche-chiave della rivoluzione (le manifestazioni in piazza, la presa  del Palazzo d’inverno) si alternano alla descrizione dei rapporti fisici della coppia, sullo sfondo della folla che canta l’Internazionale. Le scene di massa funzionano come metafore volgari dell’atto sessuale74.   S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo [2006], tr. it. M. Nijhuis, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, p. 70. 74

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In tal senso, secondo il filosofo sloveno, Reds proporrebbe un prodotto culturale che si pone esattamente all’opposto rispetto a «quel realismo socialista sovietico nel quale gli  amanti esperivano il loro amore come contributo alla lotta per il socialismo, facendo un voto attraverso il quale sacrificare tutti i loro piaceri privati alla causa della rivoluzione e sommergersi nelle masse: in Reds, al contrario, la rivoluzione stessa appare come metafora dell’incontro sessuale riuscito»75. Ora, se da un lato è innegabile la sovrapposizione della rivoluzione e della relazione sessuale tra John e Louise come analoghi intrecciati e interdipendenti, dall’altro la questione potrebbe benissimo venire rovesciata. Nel corso del film, infatti, rispetto allo sguardo soggettivo maschile, Louise Bryant/Diane Keaton si fa immagine allegorica contemporaneamente e in maniera paradossale sia della ribellione, nella prima parte, che della rivoluzione, nella seconda, ma in verità, proprio per questo, non si configura mai, per John, come motivo di ripiegamento entro una tranquilla condizione famigliare e privata. Ciò, peraltro, conferisce spessore simbolico alla figura di Eugene O’Neill (interpretato da Jack Nicholson), con cui Bryant ebbe effettivamente una relazione tra il 1916 e il 191876: il grande drammaturgo è dipinto, se ben si guarda, come un anti-Reed, per così dire, e si tratta di un doppio antagonistico che desidera da Louise proprio quell’amore coniugale, inteso come ripiegamento privato desocializzante, che John non solo non desidera, ma che, a propria volta, non avrebbe saputo né voluto darle. E non è un caso che Louise cerchi “Gene” soltanto durante le assenze di John, ovvero esattamente quando si percepisce in concorrenza con le sirene politiche del compagno. Seppure l’aspetto della ribellione sia accentuato dall’anticonformismo radical che contraddistingue da principio il rapporto tra John e Louise – si vedano i primi incontri all’inizio del film – Louise diventa comunque, proprio contestualmente all’atto sessuale “riuscito” cui Žižek si riferisce, immagine stessa dell’evento rivoluzionario, inteso come atto “riuscito” della presa del potere, cui essere (cioè diventare da quel momento in poi) fedeli. In altri termini, se il mondo ases  Ibidem.   Cfr. P. Roazen, Eugene O’Neill and Louise Bryant: New Documents, «The Eugene O’Neill Review», 27, 2005, pp. 29-40. 75 76

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suato della Rivoluzione si configura come mediatore fantasmatico dell’atto sessuale “riuscito”, pure quest’ultimo interrompe la concorrenza di cui Louise soffre, e congiunge il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato in un amore veramente compiuto: la rivoluzione, se ben interpreto, riunisce desiderio e bisogno e si pone come motivo irrevocabile di fedeltà ad una causa evenemenziale di cui Louise è ora divenuta aperta allegoria. In tal senso, “fedeltà” è la parola chiave di Reds: se nella prima parte del film, cioè prima dell’Ottobre, nessuno dei due protagonisti riesce ad essere fedele all’altro, è perché non ha ancora avuto luogo quell’evento, direbbe Giorgio Agamben, in grado di garantire l’“appropriabilità” dell’oggetto del reciproco desiderio77. Spostando l’accento dal soggetto individuale a quello collettivo, dall’io al noi, si vede ora, con più chiara consapevolezza, che anche la rivoluzione, nel film, non consiste tanto nell’atto di forza con cui un gruppo sociale prende il controllo del potere politico di uno Stato. La vera rivoluzione, piuttosto, è ciò che viene dopo la presa del potere, così come la vera natura amorosa di un rapporto sentimentale inizia dopo il coito “riuscito”, che agisce retroattivamente, riscrivendo tutti gli accidenti che hanno condotto i soggetti coinvolti a compierlo. Per il Reed di Beatty, inaspettatamente, la vera rivoluzione è la rivoluzione dopo la rivoluzione, nel senso che Robespierre ha spiegato meglio di chiunque altro. D’altra parte non allude forse a qualcosa di simile anche Walter Benjamin quando si chiede quali siano «i presupposti della rivoluzione» ovvero se essi siano «nel cambiamento del modo di pensare, o in quello dei rapporti esterni»? È proprio vero, se ci si pensa a fondo, che «è questa la domanda cruciale, che determina il rapporto di politica e morale e che esige una completa chiarezza»78. Potremmo dire, pertanto, che John Reed pronuncia di fronte ad Emma Goldman la clausola di verità della rivoluzione dopo la rivolta, e lo fa già da uomo nuovo, da soggetto propriamente rivoluzionario,   Non è forse superfluo precisare che la questione della fedeltà è qui da intendere in senso puramente simbolico. Nella vita reale, come riporta Rosenstone, i due continuarono a tradirsi spesso e in maniera tale da dare adito ad una serie di pettegolezzi e di leggende. Cfr. R. A. Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, cit., pp. 531-532. 78   W. Benjamin, Il surrealismo, cit., p. 212. 77

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pur senza averne quella piena consapevolezza cui giungerà solo col viaggio a Baku. In questo senso il suo scontro con i dirigenti comunisti va letto come una dialettica democratica interna al partito, ovvero come la semplice partecipazione alla vita politica secondo le regole del nuovo potere. «È solo l’inizio», dice John a Emma, alla fine della loro conversazione: la rivoluzione non starà forse accadendo nella maniera che, nella loro ingenuità di ribelli, entrambi prevedevano. Ma sta accadendo. E occorre essergli fedeli.

3. Narrazioni, drammatizzazioni, adattamenti

Raccontare e mostrare (sulla retorica) Come si è visto, Reds indica uno spazio vuoto nell’esperienza di John Reed. Un buco nero che sta tra la presa del potere da parte dei bolscevichi e il viaggio a Baku del 1920. Uno spazio di mediazione, in buona sostanza, tra l’interruzione del tempo storico causata dalla sollevazione pietroburghese e la sua riattivazione, ovvero tra la morte simbolica del soggetto e la sua rinascita. Non che tra i due estremi non si inscrivano degli avvenimenti, naturalmente: il film racconta con dovizia di particolari (e un ritmo non sempre entusiasmante) il ritorno di John in America (febbraio del 1918), le complesse vicende della fondazione del Partito Comunista degli Stati Uniti, la vita privata con Louise e, soprattutto, i momenti convulsi e ispirati della stesura di Ten Days That Shook the World. Tuttavia è interessante notare che tali eventi sono come messi tra parentesi: la narrazione filmica, infatti, si riaccende proprio quando John decide di ripartire per la Russia (alla fine del 1919), con l’intento di far riconoscere il neonato Partito americano dall’Internazionale Comunista: con quel viaggio, dal quale fatalmente non farà ritorno, si riattiva effettivamente la storia della rivoluzione. Al di là della grammatica del film di Beatty, qui interessa soprattutto il fatto che, sempre da un punto di vista simbolico, la stesura del celebre reportage sull’Ottobre avvenga proprio entro tale lasso di tempo. In effetti, la nostra tesi è che rivolgendoci, in seconda istanza, alla qualità letteraria dei Ten Days per spiegarne la fortuna, occorre tener ben presente esattamente questo, e cioè che l’opera va collocata, in

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senso ideale, a cavallo tra le due identità di Reed, per come abbiamo provato a descriverle più sopra. Da questa specola, Dieci giorni non rappresenta né la raccolta delle memorie avventurose di un reporter picaresco e ribelle (cosa che invece vale assolutamente per Insurgent Mexico), né l’opera storiografica (o para-storiografica) della propaganda rivoluzionaria comunista, come invece sostengono interpreti alla White o alla Romano. Si può dire invece, parafrasando Lukács1, che l’immagine del mondo tratteggiata dall’opera, al di là della volontà e delle opinioni reali dell’autore, riesce al nostro presente per l’originale convergenza di entrambi questi aspetti, attraverso cioè una sorta di oggetto narrativo ibrido, che, come suggerisce Harry Henderson in un originale saggio del 1973, guarda per un verso alle forme del documentario e per l’altro alla sofisticata commedia di costume2. Vediamo in che modo. Anzitutto, c’è da dire che Reed seppe abilmente unire i due aspetti più tipici e caratterizzanti della scrittura del reportage narrativo: uno “stile rapido” – ovverosia, come scrive Nicola Bottiglieri, «una scrittura segnata da una forte economia espressiva, la quale attraverso un periodare agile e trasparente riesce a dare l’idea della velocità»3 – e una “scrittura veloce”, ossia «l’atto fisico dello scrivere in fretta»4. In soli due mesi di lavoro, stando a quanto riferisce Rosenstone5, Reed architettò, con rara sapienza narrativa, una epopea collettiva, coniugandola con una densa documentazione fatta di proclami, comizi, interviste, pagine dei giornali. Riprendendo quel «metodo degli scrit  Cfr. G. Lukács, Saggi sul realismo [1945], tr. it. di M. e A. Brelich, Torino, Einaudi, 1950, p. 21. 2  Cfr. H. Henderson III, John Reed’s Urban Comedy of Revolution, «The Massachusetts Review», 14, 2, 1973, pp. 421-435. 3   N. Bottiglieri, Introduzione a Camminare scrivendo. Il reportage narrativo e dintorni, Cassino, Edizioni dell’Università degli Studi di Cassino, 2001, p. 29. 4   Ibidem. 5   R. A. Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, cit., p. 494: «Dieci giorni che sconvolsero il mondo fu scritto in due mesi. [Reed] affittò di nascosto l’ultimo piano del nuovo ristorante di Paula Holliday, il Greenwich Village Inn, e circondato da pile di giornali, opuscoli, manifesti, libri e appunti, con un vocabolario russo a portata di mano, una sigaretta sempre accesa in un portacenere stracolmo, picchiò sulla macchina da scrivere giorno e notte». 1

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tori che vogliono far conoscere le rivoluzioni politiche», di cui parla a lungo Carlo Ginzburg, citando Fielding, nell’appendice al fondamentale Il filo e le tracce, il cronista americano si pone già in evidente opposizione con ogni imitazione dello «storico faticoso e prolisso che per amore della regolarità della serie si crede obbligato a riempire coi particolari di mesi ed anni in cui non accadde nulla d’importante tanta carta quanta egli riserva alle età in cui si sono svolti gli eventi più grandiosi sulla scena dell’umanità»6. D’altro canto, Dieci giorni si configura soprattutto come un racconto di testimonianza, e prevede perciò un testimone che «racconta quel che ha visto e sentito»7. Lidia De Federicis, nel suo riepilogativo Letteratura e storia, ha spiegato molto chiaramente che in questo tipo di racconti: il patto che [il testimone] stringe con il lettore ha la stessa natura del “patto autobiografico”, che postula l’identità fra autore, narratore, personaggio. Con qualche impegnativa clausola in più, quando si tratti […] di eventi pubblici»8.

In questi ultimi casi, e dunque anche nei Ten Days, il testimone deve […] non solo raccontare e raccontarsi, e costruirsi come soggetto e come io narrante, ma costruirsi come testimone – un io in rapporto col mondo – e scegliere la propria parte. Il testimone infatti trae la sua forza dall’esperienza diretta e perciò anche dalla parzialità del giudizio9.

Tale caratteristica strutturale del genere rende evidente il fatto che la narrazione va sempre pensata, naturalmente, a posteriori. Ciò significa che il narratore, in un secondo momento, valida quel che   H. Fielding, Tom Jones, tr. di D. Pettoello, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, p. 40, citato in C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto [2006], Milano, Feltrinelli, 20152, p. 303. 7   L. De Federicis, Letteratura e storia, Bari-Roma, Laterza, 1998, p. 17. 8   Ibidem. 9   Ibidem. 6

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come personaggio-testimone ha osservato da un punto di vista determinato, ha cioè vissuto, in presa diretta, come spettatore o come protagonista. Vale qui in modo specifico, qualcosa che, più in generale, appare comunque connaturato all’atto stesso del narrare. Sono piuttosto convinto, detto per inciso, che come sostiene Elio Franzini la narrazione sia sempre, in primo luogo, “fedeltà alla parola data”, volontà di mantenere la presenza attraverso nessi simbolici, ricerca di modi extra-rappresentazionali per far vivere la memoria, per tenere cioè viva e operante in noi la presenza estetica e la forza assiologica del ritorno del passato o della prospezione del futuro nell’esperienza del presente10.

In ogni caso, questo meccanismo, in Ten Days, prevede un forte allargamento della forbice tra l’io-narratore e l’io-testimone, per cui la narrazione ideologizzata11 di primo livello – cioè la narrazione vera e propria, fatta a posteriori – si pone come fredda ricostruzione, o meglio come invisibile operazione di montaggio, delle sequenze di una sorta di spettacolo, cui l’io-testimone ha nondimeno assistito in maniera (apparentemente) ingenua (e avventurosa!). Possiamo pensare, allora, tale spettacolo come un vero e proprio secondo livello narrativo. Se da una parte Ten Days «appare fondato sul presupposto della (soggettiva) verità di quanto viene raccontato»12, alla stregua di qualsiasi altro reportage, dall’altra tale verità si aderge – diversamente da quanto succede di solito – da momento puramente soggettivo (narrazione di secondo livello) verso una sorta di apparente oggettività (narrazione di primo livello). La fortissima riduzione della centralità dell’io-testimone esercitata in seconda battuta dall’io-narratore favorisce allora lo showing e il quoting al telling e limita al minimo le forme introspettive e le idiosincrasie private. Un sommario confronto con  E. Franzini, Realismo e finzione nel romanzo, in Storia storie romanzo. Per una filosofia delle narrazioni, a cura di M. A. Bonfantini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2016, p. 36 11   Si intende, ovviamente, nella misura pre-stalinista che abbiamo riferito in precedenza. 12   L. De Federicis, Letteratura e storia, Bari-Roma, Laterza, 1998, p. 17. 10

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Insurgent Mexico ci mostra che nei Ten Days, come ha notato anche Rosenstone, c’è sempre un io che narra la vicenda, ma questa volta rimane in secondo piano, è una sorta di macchina da presa che riprende avvenimenti che trascendono la storia di qualsiasi individuo o gruppo di uomini13.

Uno spettacolo sublime Il tentativo di “naturalizzare” l’evento, implicito in questa modalità di costruzione della narrazione, ha contribuito in maniera decisiva alla sua mitizzazione. Non sarà inutile, a tal proposito, riportare alla memoria una volta di più le proverbiali parole di Roland Barthes a proposito del mito: il mito non nega le cose, anzi, la sua funzione è parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione14.

Non va forse intesa proprio in questo modo la Rivoluzione sovietica dei Ten Days? Il tratto inconfondibile e peculiare del lavoro di Reed non è forse quello di considerare il processo rivoluzionario come qualcosa che obbedisce «alla sua intrinseca spinta naturale fino a quando è durata»15? E ciò non spinge il lettore semplicemente a constatare che ciò che è avvenuto, benché inatteso ed eccezionale, in realtà non poteva non avvenire? E infine non è questo anche il motivo per cui – certo paradossalmente – secondo Reed, «non ci sono stati eroi»16 nella rivoluzione Russa?   R. A. Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, cit., p. 495.   R. Barthes, Miti d’oggi [1957], tr. it. L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1974, p. 223. 15   J. Reed, Ottobre 1917…, cit., p. 86. 16   Ibidem. 13

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È stato lo stesso Reed, d’altra parte, a chiarire che The French Revolution, in its causes and architecture, has always seemed to me an essentially human creation affair, the creature of intellect, theatrical; the Russian Revolution, on the other hand, is like a force of nature17.

Come si capisce, questa strategia narrativa differenzia potentemente i Ten Days non soltanto dalla produzione precedente del suo autore, ma pure dalla maggior parte delle cronache coeve sulla rivoluzione. Si tratta, beninteso, di un effetto di ordine retorico, dal momento che, al primo livello, l’autore simula soltanto una narrazione fedele, documentaristica dello spettacolo della rivoluzione. Ne sono prova tangibile alcuni interventi di commento che, sebbene sapientemente disposti in luoghi strategici del reportage (a fine capitolo o al termine di sequenze particolarmente patetiche), palesano una consapevolezza imputabile solo a chi abbia già riflettuto sugli eventi in questione, e non certo, quindi, all’io-testimone. In ogni caso, riducendo, al secondo livello, l’io-testimone quasi al rango di un semplice personaggio focale, l’io-narratore fa sì che emergano, in forgia per così dire d’oggettività, numerose istantanee, registrate, per così dire, nella maniera esatta in cui si sono svolte. A questo aggiunge poi la fitta documentazione ufficiale, che viene restituita fedelmente sulla pagina, dando per l’appunto l’impressione del documentario. In realtà, come spiega André Gaudreault nel suo Dal letterario al filmico – studio che, come vedremo, ci sarà utile anche più avanti, quando si prenderanno in considerazione alcuni celebri adattamenti cinematografici di Ten Days – in qualsiasi narrazione si deve ammettere che quando un’istanza racconta (livello uno) che un’istanza racconta (livello due) che un’altra istanza racconta (livello tre), […] la voce   J. Reed, Two Manuscripts on the Revolution, in John Reed and the Russian Revolution, cit., p. 110; tr. it. in J. Reed, Ottobre 1917…, cit., p. 80: «la Rivoluzione francese, nelle sue cause e nella sua struttura, m’è sempre sembrata una faccenda essenzialmente umana, teatrale, frutto della ragione; la Rivoluzione russa, invece, è una forza della natura». 17

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narrativa dell’ultima istanza è modulata (e controllata, e diretta ecc.) dalla seconda, e che questa è modulata dalla prima. Bisogna anche ammettere che quella (la seconda), che viene dopo, non potrebbe rendersi autonoma in rapporto a questa (la prima), che viene prima. Se dico: “Pierre dice: ‘ecco la mia stanza’”, non solo “Pierre” (ossia il Pierre-messo-in-discorso) è, nonostante la sua eventuale esistenza referenziale, una creazione del mio discorso (creazione su cui ho il pieno controllo), ma il suo discorso è anche, in definitiva, innanzi tutto e fondamentalmente il prodotto del mio discorso18.

Nei Ten Days, l’istanza narrativa implicita che Gaudreault chiama “narratore fondamentale”, e che produce l’intero discorso, è simbolicamente rappresentata dal “Reed rivoluzionario”, laddove il “Reed ribelle” risulta un “narratore delegato”, la cui attività è non esaurita, certo, ma prevalentemente ricondotta – come si è detto – a punto focale dello showing piuttosto che al telling. Potremmo pensare al Reed-testimone quasi come al “personaggio-sguardo” del romanzo naturalista descritto da Pierluigi Pellini. Esattamente come in quel caso, infatti, la funzione della descrizione è qui compiuta per delega, e tale delega motiva e giustifica l’atto stesso di descrivere19. Con in più questa fondamentale differenza: le descrizioni socio-ambientali e socio-politiche del reportage sono sempre descrizioni drammatizzate, sono mascherate cioè da scene di azione collettiva oppure da dialoghi. Il che è perfettamente funzionale al tentativo mitizzante di mostrare gli eventi rivoluzionari come qualcosa di semplice e inevitabile, uno spettacolo, come si diceva, che si svolge spontaneamente davanti agli occhi del Reed-testimone, e di cui si deve soltanto constatare il fatto che stanno avvenendo:

  A. Gaudreault, Dal letterario al filmico [1999], tr. it. D. Buzzolan, Torino, Lindau, 2000, p. 87. 19   Cfr. P. Pellini, La descrizione, Bari-Roma, Laterza, 1998, pp. 59-60: «in regime di impersonalità non può essere il narratore a gestire la descrizione: la funzione sguardo deve essere delegata a un personaggio […], e ci deve essere una motivazione narrativa che gli consenta di soffermarsi sull’oggetto da descrivere […]. La descrizione naturalista è sempre delegata e motivata». 18

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If I were asked what I consider most characteristic of the Russian Revolution, I should say, the vast simplicity of its processes. Like Russian life as described by Tolstoy and Chekhov, like the course of Russian history itself, the Revolution seemed to be endowed with the patient inevitability of mounting sap in spring, of the tides of the sea20.

Come molta parte della critica non ha mancato di rilevare, la tendenza allo showing non può perciò risolversi che entro una componente drammatico-teatrale, che si declina sia a livello della struttura, sia nella resa di molti dialoghi. Nell’introduzione all’edizione dei Ten Days da lui curata nel 196721, John Howard Lawson faceva già riferimento ad una vera e propria organizzazione formale dell’opera secondo le scansioni del dramma. Un’organizzazione formale ribadita poi sinteticamente anche da Rosenstone: tre capitoli di inquadramento storico formano il prologo; due capitoli sono il primo atto, nel quale il popolo insorge; tre descrivono l’offensiva controrivoluzionaria; altri due sono l’ultimo atto, nel quale il popolo trionfa, seguito da un epilogo di due capitoli che riassume gli avvenimenti successivi22.

L’aspetto drammatico del reportage, ovviamente nel senso todoroviano di ciò che non è raccontato ma che si svolge davanti a nostri occhi, va però, come si accennava, ben oltre la distribuzione dei capitoli. Nel suo saggio del 1973 che abbiamo già ricordato, Harry Henderson III proponeva a questo riguardo di leggere Ten Days That Shook the World come il modello di un nuovo genere letterario, che   J. Reed, Two Manuscripts on the Revolution, in John Reed and the Russian Revolution, cit., p. 110; tr. it. in J. Reed, Ottobre 1917…, cit., p. 80: «se mi chiedessero qual è stato l’aspetto peculiare della Rivoluzione russa, risponderei: l’enorme semplicità con cui si è svolta. Come la vita in Russia descritta da Tolstoj e Cechov, come il corso della stessa storia russa, la Rivoluzione sembrava possedere la paziente ineluttabilità della linfa che sgorga in primavera, delle maree». 21   New York, International Publisher. 22   R. A. Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, cit., p., 496. 20

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egli definisce «Urban Comedy of Revolution»23. L’intuizione critica di Henderson – nonostante una eccessiva disinvoltura nell’uso della definizione di “commedia” per un’opera in ogni caso non-finzionale, e alcune conclusioni un poco strampalate su cui si potrebbe ben discutere – è piuttosto preziosa. Il critico, infatti, muove dalla necessità di dare maggiore rilievo in sede di ricezione a una serie di momenti del reportage dal chiaro sapore folkloristico che, per l’appunto, richiamano i toni della commedia di costume. A suo modo di vedere, sono proprio questi momenti a restituire un’immagine vivida della città di Pietrogrado durante la rivoluzione. Attraverso la drammatizzazione di aspetti della vita quotidiana scarsamente considerati dalle cronache coeve, Ten Days descriverebbe così compiutamente lo stato d’animo delle diverse classi sociali nei tumultuosi giorni dell’Ottobre. Non per caso, secondo Henderson, il centro dell’opera è occupato da una sequenza assai paradigmatica in questo senso. Si tratta del battibecco – divenuto poi piuttosto noto grazie agli adattamenti cinematografici di Reds e de I dieci giorni che sconvolsero il mondo24 di Sergej Bondarčuk – tra un soldato bolscevico e uno studente socialista moderato. Pur assumendo tratti propriamente comici, in effetti, il battibecco mostra con estrema precisione il punto di vista del proletariato, il suo appoggio all’attività politica dei bolscevichi, e, d’altra parte, la perdita di consenso da parte dell’intellighenzia legata ai partiti della coalizione socialista che regge il fragile Governo provvisorio di Kerenskij: “You realise, I presume”, he [lo studente] said insolently, “that by taking up arms against your brothers you are making your-selves the tools of murderers and traitors?”. “Now brother,” answered the soldier earnestly, “you don’t understand. There are two classes, don’t you see, the proletariat and the bourgeoisie. We…” “Oh, I know that silly talk!” broke in the student rudely. “A bunch of ignorant peasants like you hear somebody bawling a few catch-words. You don’t understand what they mean. You just echo them like a lot of   Cfr. H. Henderson III, John Reed’s Urban Comedy of Revolution, «The Massachusetts Review», 14, 2, 1973, pp. 421-435. 24   Krasnye kolokola, film 2 - Ja videl roždenie novogo mira, 1982 (URSS, Ita, Mex, colore). 23

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parrots.” The crowd laughed. “I’m a Marxian student. And I tell you that this isn’t Socialism you are fighting for. It’s just plain proGerman anarchy!” “Oh, yes, I know,” answered the soldier, with sweat dripping from his brow. “You are an educated man, that is easy to see, and I am only a simple man. But it seems to me…”. “I suppose,” interrupted the other contemptuously, “that you believe Lenin is a real friend of the proletariat?”. “Yes, I do,” answered the soldier, suffering. “Well, my friend, do you know that Lenin was sent through Germany in a closed car? Do you know that Lenin took money from the Germans?” “Well, I don’t know much about that,” answered the soldier stubbornly, “but it seems to me that what he says is what I want to hear, and all the simple men like me. Now there are two classes, the bourgeoisie and the proletariat…” “You are a fool! Why, my friend, I spent two years in Schlüsselburg for revolutionary activity, when you were still shooting down revolutionists and singing ‘God Save the Tsar!’ My name is Vasili Georgevitch Panyin. Didn’t you ever hear of me?” “I’m sorry to say I never did,” answered the soldier with humility. “But then, I am not an educated man. You are probably a great hero”. “I am,” said the student with conviction. “And I am opposed to the Bolsheviki, who are destroying our Russia, our free Revolution. Now how do you account for that?” The soldier scratched his head. “I can’t account for it at all,” he said, grimacing with the pain of his intellectual processes. “To me it seems perfectly simple-but then, I’m not well educated. It seems like there are only two classes, the proletariat and the bourgeoisie…”. “There you go again with your silly formula!” cried the student. “…only two classes,” went on the soldier, doggedly. And whoever isn’t on one side is on the other...”25   J. Reed, Ten Days…, cit., pp. 185-186 [tr. it. pp. 167-168: «“vi rendete conto, suppongo”, disse con insolenza, “che prendendo le armi contro i vostri fratelli accettate di essere gli strumenti di un gruppo di assassini e di traditori?”. “Ecco, fratello”, rispose uno dei due soldati, con convinzione. “Tu non capisci. Ci sono due classi, vedi, il proletariato e la borghesia. Noi...”. “Oh, le conosco queste scemenze!” lo interruppe bruscamente lo studente. “Voialtri contadini ignoranti, basta che sentiate ragliare qualche slogan. Non capite neanche che cosa significano. Vi limitate a ripeterli come un mucchio di pappagalli”. La folla 25

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Dialoghi e situazioni simili a questa, in realtà, puntellano l’intero reportage. Lo sfondo che così si crea rappresenta per convesso il contesto sociale e politico che la documentazione costituita da proclami, volantini e pagine di giornali definisce in concavo. Tanto che si può avere l’impressione che persino «i lunghi testi dei decreti e dei discorsi» diventino «qualcosa di più di un materiale d’archivio da scorrere. Nella misura in cui lasciano trasparire gli stati d’animo che si agitavano negli avvenimenti descritti, le parole degli uomini che difendono le loro cause in un momento di passione e di crisi contribuiscono a dare tensione drammatica alla narrazione»26. Sebbene, apparentemente, questi momenti interrompano con tono leggero e garbatamente comico il pathos della narrazione, essi si dimostrano in realtà strumenti essenziali per il principale obiettivo di Reed, e cioè scoppiò a ridere. “Io sono uno studente marxista e ti dico che non è il socialismo quello per cui voi state lottando. È solo anarchia filotedesca!”. “Oh, sì, lo so”, rispose il soldato, con la fronte bagnata di sudore. “Tu sei una persona istruita, lo si vede subito, e io sono un ignorante. Ma a me sembra...” “Immagino”, lo interruppe l’altro in tono sprezzante, “che tu credi che Lenin sia un vero amico del proletariato”. “Certo che lo credo”, rispose il soldato, a disagio. “Bene, amico mio, lo sai che Lenin ha attraversato la Germania in un vagone piombato? Lo sai che Lenin ha preso i soldi dai tedeschi?”. “Be’, non sono molto al corrente”, rispose il soldato, cocciuto, “ma a me pare che quello che lui dice è quello che voglio sentire io e tutta la gente ignorante come me. Ora, ci sono due classi, la borghesia e il proletariato...” “Stupido! Ma lo sai, amico, che io ho passato due anni a Schlüsselburg per attività rivoluzionaria quando tu sparavi ancora addosso ai rivoluzionari e cantavi ‘Dio salvi lo zar’? Io mi chiamo Vasilij Georgievič Panin. Hai mai sentito parlare di me?”. “Mi dispiace, mai sentito”, rispose il soldato in tono umile. “Ma d’altra parte non sono una persona istruita. Probabilmente tu sei un grande eroe”. “Sì lo sono davvero”, disse lo studente, convinto. “E sono contro i bolscevichi che stanno distruggendo la nostra Russia, la nostra libera rivoluzione. Ora, come lo spieghi questo?”. Il soldato si grattò la testa. “Non me lo spiego per niente”, disse con una smorfia che lasciava intendere la fatica dei suoi processi intellettuali. “A me sembra semplicissimo, ma te l’ho detto, io non sono mica istruito. Pare che ci sono solo due classi, il proletariato e la borghesia...” “E dai con questa stupida formula!” esclamò lo studente. “...solo due classi”, proseguì il soldato testardo. “E chiunque non è con una, è con l’altra...”]». 26   R. A. Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, cit., p. 496.

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far intendere la presa del potere dei bolscevichi come qualcosa di inatteso per il lettore occidentale, ma di inevitabile rispetto alla situazione sociale e alla mentalità diffusa delle masse russe a Pietrogrado, ovvero come l’esito consequenziale corretto dell’intero processo rivoluzionario avviato nel 1905. Se la prima cosa che viene in mente leggendo i Ten Days è operare mentalmente una scomposizione del testo in momenti chiave della vicenda rivoluzionaria, pure non si può fare a meno di integrare questa scomposizione con la continuità ideale garantita dalla descrizione coerente di Pietrogrado. Una città i cui contorni sono vividamente rappresentati attraverso gli umori del suo popolo. Si pensi a quest’altra esilarante sequenza che vede protagonista Trotskij: One day as I came up to the outer gate I saw Trotskij and his wife just ahead of me. They were halted by a soldier. Trotskij searched through his pockets, but could find no pass. “Never mind”, he said finally. “You know me. My name is Trotskij”. “You haven’t got a pass”, answered the soldier stubbornly. “You cannot go in. Names don’t mean anything to me”. “But I am the president of the Petrograd Soviet”. “Well”, replied the soldier, “if you’re as important a fellow as that you must at least have one little paper”. Trotskij was very patient. “Let me see the Commandant”, he said. The soldier hesitated, grumbling something about not wanting to disturb the Commandant for every devil that came along. He beckoned finally to the soldier in command of the guard. Trotskij explained matters to him. “My name is Trotskij”, he repeated. “Trotskij?” The other soldier scratched his head. “I’ve heard the name somewhere”, he said at length. “I guess it’s all right. You can go on in, comrade...” 27   J. Reed, Ten Days…, cit., pp. 49-50 [tr. it. p. 45: «un giorno, arrivando alla porta esterna, vidi davanti a me Trotskij e sua moglie. Un soldato li fermò. Trotskij frugò in tasca e non trovò la sua tessera. “Io sono Trotskij”, disse al soldato. “voi non avete la tessera”, rispose questi ostinato. “Voi non entrerete. I nomi sono tutti uguali per me”. “Ma io sono il presidente del Soviet di Pietrogrado”. “Ebbene, se voi siete un personaggio così importante, dovete avere in tasca una carta qualsiasi”. Trotskij si dimostrò paziente. “Conducetemi dal comandante”, disse. Il soldato esitò, mormorando che non si poteva distur27

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O ancora, si consideri a pieno il contributo determinante delle descrizioni delle scene di massa rispetto alla coerenza generale del progetto dei Ten Days, ovverosia alla sua ambizione pseudo-documentaristica – e penso per esempio agli ambienti dello Smolny descritti nella decisiva giornata del 25 ottobre (7 novembre)28. Da questo punto di vista, il libro di John Reed non è stato solo l’incubatore di immagini stereotipiche della presa del potere da parte dei bolscevichi, che circolano, per così dire, in maniera disinibita nel nostro immaginario29 ben al di là di qualsiasi verità storica, ma è stato anche in grado di creare un reticolo di personaggi, ambienti, situazioni quotidiane nella cui cogenza consistono le fondamenta di quello stesso immaginario. Persino le tre interviste comprese nei Ten Days non si limitano a svolgere una funzione di referto documentario. La loro incorporazione nel racconto sopravanza la necessità di accertare le idee di tre uomini illustri e dei loro diversi interessi per gli eventi in atto. Di più: le tre interviste riassumono nella sostanza le posizioni politiche determinanti nella Russia immediatamente precedente alla bare tutti i momenti il comandante per chiunque si presentava; poi chiamò il sottoufficiale, capo posto. “Io sono Trotskij” gli ripeté. “Trotskij?” disse l’altro, grattandosi la testa. “Mi sembra bene di aver inteso questo nome. Già, infatti… Va bene, voi potete passare, compagno...”]». 28  J. Reed, Ten Days…, cit., p. 87: «There was no heat in the hall but the stifling heat of unwashed human bodies. A foul blue cloud of cigarette smoke rose from the mass and hung in the thick air. Occasionally some one in authority mounted the tribune and asked the comrades not to smoke; then everybody, smokers and all, took up the cry “Don’t smoke, comrades!” and went on smoking». Tr. it. p. 81: «la sala era riscaldata solo dal calore soffocante di corpi umani mal lavati. Una spessa nuvola di fumo di sigarette si levava da quella massa e restava sospesa nell’aria pesante. Ogni tanto qualcuno montava alla tribuna e pregava i compagni di non fumare. Allora tutti, compresi i fumatori, gridavano “Non fumate, compagni!” e poi tutti continuavano». 29   Come ha scritto Jean-Jacques Wunenburger: «il tenore immaginario di un mito, di un poema, di un romanzo storico, di una rêverie paesaggistica attiene innanzi tutto alla cogenza delle immagini utilizzate. La genesi di un immaginario è senza dubbio condizionata dal tipo di mezzo di cui si serve e dal ruolo assunto dal soggetto in azione». Cfr. J-J. Wunenburger, L’immaginario, a cura di V. Chiore, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2008, p. 52.

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presa del potere da parte dei bolscevichi. Non a caso, l’io-testimone intervistatore, anche in questo frangente, cela la propria voce, di modo che apparentemente la sostanza ideologica degli interventi degli intervistati – riportati vieppiù come discorso diretto – non sembri manipolata dal suo intervento. Il primo ad essere intervistato è Stepan Gheorghievic Lianozov, detto il “Rockefeller russo”, con cui Reed parla il 2 ottobre (15 ottobre). Le sue parole, in sostanza, compendiano le posizioni politiche del partito dei cadetti. Il ricco industriale si dimostra persino disposto a rinunciare alle proprie istanze nazionalistiche – che pure caratterizzano profondamente il suo partito – di fronte alla possibilità che le potenze occidentali pongano fine alla rivoluzione. La rivoluzione, dice Lianozov a Reed, è una malattia. Le nazioni straniere devono inventarsi degli anticorpi se non vogliono ritrovarsi di fronte al concreto pericolo di una rivoluzione proletaria in tutta Europa. Alla propaganda bolscevica, insomma, occorrerebbe reagire con la forza. Se solo se ne avesse abbastanza, s’intende. La seconda intervista, quella a Kerenskij, rispecchia la posizione dei partiti socialisti moderati che reggono il fragile Governo provvisorio, e anche dello studente che battibeccava col soldato del dialogo citato più sopra. Ne emerge un profilo tra luci e ombre, in verità. L’uomo è tratteggiato come un leader comunque colto e intelligente, perfettamente consapevole della spossatezza dei soldati al fronte e della disillusione del popolo rispetto agli alleati. A questa consapevolezza, tuttavia, non fa seguito che l’amara constatazione, quasi narcisistica, di essere ormai irrimediabilmente scavalcato da una errata e confusa volontà popolare. Infine, il 17 ottobre (30 ottobre) Reed è ricevuto da Trotskij in una minuscola stanza sotto i tetti dello Smolni: Few questions from me were necessary; he talked rapidly and steadily, for more than an hour. The substance of his talk, in his own words, I give here: “The Provisional Government is absolutely powerless. The bourgeoisie is in control, but this control is masked by a fictitious coalition with the oborontsi parties. Now, during the Revolution, one sees revolts of peasants who are tired of waiting for their promised land; and all over the country, in all

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the toiling classes, the same disgust is evident. This domination by the bourgeoisie is only possible by means of civil war. The Kornilov method is the only way by which the bourgeoisie can control. But it is force which the bourgeoisie lacks.... The Army is with us. The conciliators and pacifists, Socialist Revolutionaries and Mensheviki, have lost all authority-because the struggle between the peasants and the landlords, between the workers and the employers, between the soldiers and the officers, has become more bitter, more irreconcilable than ever. Only by the concerted action of the popular mass, only by the victory of proletarian dictatorship, can the Revolution be achieved and the people saved....”30

Le parole di Trotskij, come si capisce, rileggono quasi hegelianamente le posizioni degli altri due intervistati e indicano come sintesi il loro inevitabile superamento in chiave bolscevica: il Governo provvisorio non può sopravvivere, secondo lui, se non con la forza, e dunque alleandosi con la borghesia cadetta. Tuttavia non controllando più, né il primo né i secondi, la maggior parte dell’esercito – che rappresenta appunto quella forza – e dovendo inoltre fronteggiare il malcontento operaio e contadino, il destino della rivoluzione praticamente è già tracciato: solo la presa del potere da parte del proletariato può concludere il processo in atto.   J. Reed, Ten Days…, cit., pp. 185-186 [tr. it. p. 46: «senza che io dovessi porgli delle questioni egli mi parlò più di un’ora, rapidamente e fermamente. Ecco, con le sue stesse espressioni, la sostanza di quello che mi disse: “il governo provvisorio è assolutamente impotente. In realtà è al potere la borghesia, ma questo è mascherato da una coalizione fittizia con i partiti socialisti guerrafondai. I contadini, stanchi di attendere la terra, che è stata loro promessa, si ribellano e, in tutto il paese, in tutte le classi lavoratrici, si manifesta lo stesso disgusto. Il dominio della borghesia può mantenersi solo con la guerra civile. Il metodo Kornilov è il solo che potrebbe assicurarle il potere. Ma è proprio la forza che manca alla borghesia… L’esercito è con noi. I conciliatori e i pacifisti, cioè i socialisti-rivoluzionari ed i menscevichi, hanno perduto ogni autorità perché la lotta fra contadini e agrari, tra operai e padroni, tra soldati e ufficiali è divenuta più acuta, più irreconciliabile che mai. Solo l’azione concertata delle masse popolari e con la vittoria della rivoluzione proletaria, solo così la rivoluzione potrà terminare la sua opera e il popolo potrà essere salvo…”»]. 30

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Epica dell’Ottobre Il montaggio sapiente di scene di vita quotidiana, di proclami e arringhe, di interviste e documenti configura la narrazione «come un flusso degli eventi dotati di un’organicità intrinseca»31, per dirla con le parole di Massimo Fusillo. Accogliendo in definitiva l’idea di una Rivoluzione bolscevica come provvidenziale e necessario supplemento ad una volontà popolare sostanzialmente condivisa, e non come colpo di stato di una minoranza che ottiene con la forza ciò che vuole, Reed rende epiche quelle dieci giornate e ideologizza, attraverso la sua regia, l’intero lavoro: non ci sono stati individui eroici, sia pure. Ma c’è stato un eroe inedito e collettivo: il popolo in sommossa. Si è svolto tutto come evento sublime della natura, come l’eruzione di un vulcano o come un terremoto, d’accordo. Ma ciò non ne diminuisce certo la straordinarietà. Dall’avventura di Insurgent Mexico, si passa così nei Ten Days a una quête triangolata secondo i vertici dell’io testimone, del partito bolscevico e, per l’appunto, delle masse rivoluzionarie. Tutti e tre questi vertici, se ben si guarda, compiono un cammino di conoscenza e di coscienza: l’io, assistendo ad eventi ai propri occhi incredibili, completa, come abbiamo già scritto, un apprendistato ideologico; i bolscevichi, trovandosi a dover rappresentare le urgenze radicali del popolo, realizzano politicamente la nascita di un nuovo mondo; il popolo, infine, organizzato secondo gli indirizzi teorici del marxismo bolscevico diventa, finalmente, protagonista assoluto della storia. Lo scarto tra avventura e quête, allora, non è soltanto il portato di una diversa concezione narrativa dell’io-testimone – che corrisponderebbe in ogni caso alla profonda maturazione ideologica dello stesso Reed, e seguirebbe quell’apprendistato che abbiamo sopra descritto – ma, di più, è ciò che sovrintende l’immissione del “modo epico” nella narrazione. La rivoluzione, infatti, diventa spartiacque tra due mondi, e finisce per fornire, parafrasando le parole di Sergio Zatti, un’«immagine dell’universo umano […] fortemente dicotomica»32   M. Fusillo, Fra epica e romanzo, in Il romanzo, volume secondo: Le forme, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2002, p. 10. 32   S. Zatti, Il modo epico, Bari-Roma, Laterza, 2000, p. 83. 31

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in quanto «legata alla sua natura “inaugurale” e “fondante”»33. La gestazione di una nuova società – «The old world crumbles down, the new world begins»34, come dice Marija Spiridonova in uno passaggi più citati del volume – è il frutto della quête di un eroe collettivo che vi ha investito energia, forza e creatività e che riassume tutti e tre i vertici in campo. Un eroe collettivo che, quindi, spezza una Legge ingiusta nell’unico modo in cui è possibile farlo: attraverso un evento memorabile e straordinario. Come si capisce, quindi, la scelta di fare di «quella massa confusa e pressante in equilibrio tra frustrazione, movimento, esitazione, rischio, urto, sfondamento»35, per usare le belle parole di Rossana Rossanda, la vera protagonista della narrazione non ha una valenza solamente ideologica. La versione dei fatti fornita da Reed contiene, da questo punto di vista, una precisa indicazione di poetica. Per documentare gli «ideali che lo muovevano»36, Reed decide di servirsi di un’opera sotterraneamente letteraria che rappresenta «la verità che è dietro ai fatti, che crea i fatti»37. Del resto «le verità», come ha scritto una volta Badiou, «non sono anteriori ai processi politici, in quanto processo di produzione delle novità politiche, degli avvicendamenti politici, delle rivoluzioni politiche»38. Il processo rivoluzionario ha stabilito una «frontiera ideale che separa coloro che ne sono parte dal resto dell’umanità»39, e tale separazione riguarda tutti: Reed compreso. Per questo motivo – torno a dire – ha davvero poco senso misurare l’impresa dei Ten Days in base alla capacità «di documentare gli eventi con esattezza»40, per usare le parole di Clotilde Bertoni. In effetti, quel taglio epico che, come a ragione ha sottolineato la studiosa, «costituisce forse il pregio maggiore del libro»41, è anche, immediatamente, il   Ibidem.   J. Reed, Ten Days…, cit., p. 303. 35   R. Rossanda, Introduzione, cit., p. 12. 36   Ibidem. 37   R. A. Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, cit., p. 498. 38   A. Badiou, Il risveglio della storia, cit., p. 91. 39   S. Zatti, Il modo epico, cit., p. 83. 40   C. Bertoni, Letteratura e giornalismo, cit., pp. 40-41. 41   Ivi, p. 40. 33 34

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marker di una opzione ad un tempo letteraria, etica e politica. Daniel W. Lehman, nella sua monografia del 2002, ha spiegato bene che «Reed makes no pretense of objectivity», poiché i bolscevichi «are his comrades and his story of their revolution will be impassioned and partisan»42. Si è però dimenticato di aggiungere l’essenziale, e cioè che, secondo Reed, sia sé stesso che i suoi compagni bolscevichi non sono altro che un piccolo frammento di un agente collettivo rappresentato dalla massa di operai, contadine e soldati di Pietroburgo. L’impresa sovraumana che tale agente collettivo ha realizzato, cioè l’utopia concretizzata della presa del potere da parte del popolo, è ad un tempo straordinaria e naturale. Straordinaria perché fonda un nuovo mondo, ma naturale perché quel nuovo mondo ripristina in realtà l’ordine corretto delle cose, riconsegnando finalmente il potere a chi quel potere avrebbe dovuto averlo da sempre. Con le forme sintetiche dell’arte (qualche cenno sugli adattamenti) In un singolare film del 2002, il regista Spike Jonze e lo sceneggiatore Charlie Kaufman hanno perfettamente tematizzato il complesso lavoro che sovrintende l’operazione di adattamento cinematografico di un’opera letteraria. L’esempio è particolarmente utile al nostro discorso: Adaptation43 – questo il titolo del film – mostra in maniera scopertamente meta-cinematografica le vicende di uno sceneggiatore – nella finzione lo stesso Charlie Kaufman (interpretato da Nicolas Cage) – alle prese con il difficile compito di trasporre per il cinema proprio un’opera di non-fiction. Si tratta del reportage The Orchid Thief 44 realizzato dalla giornalista americana Susan Orlean (Meryl Streep), che ha come oggetto la vicenda di John Laroche (Chris Cooper), un orticoltore arrestato per aver raccolto, o meglio rubato, alcune orchidee selvatiche molto rare da un’area protetta di proprietà della Stato della Florida. Kaufman si pone, in primo luogo,   D. W. Lehman, John Reed and the Writing of Revolution, Athens, Ohio University Press, 2000, p. 200. 43   USA 2002, colore. In Italia Il ladro di orchidee. 44   New York, Random House, 1998. 42

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un problema, per così dire, di “dominante”: a cosa dare preminenza? L’ideale, per lui, sarebbe riuscire a basare il film sulle orchidee, parlarne (per immagini, si intende) in maniera poetica, mostrando quel legame profondo che si viene a creare tra Laroche, i fiori e la stessa Orlean. Tuttavia la personalità di Laroche è così forte da monopolizzare i primi tentativi di stesura della sceneggiatura, che ovviamente non soddisfano il proprio autore. Kaufman, a questo punto, si concentra sulla figura di Orlean: la nuova ipotesi è di fare un film sulla reporter e sulla avvincente indagine cui ha dato luogo. Concentrare l’attenzione su di lei, dunque, e mostrare solo sullo sfondo la vicenda di Laroche. Eppure anche questa impostazione si rivela insoddisfacente. Così, tra tentativi falliti, Adaptation diventa a poco a poco un film sulla crisi di uno sceneggiatore, con un finale a dir poco sorprendente. Trasporre per il cinema un libro come Ten Days That Shook the World significa effettivamente affrontare gli stessi problemi di Kaufman/Cage. Se «adattare qualcosa», come ha scritto Linda Hutcheon proprio parlando del film di Jonze, comporta sempre «un processo di appropriazione, di presa di possesso della storia di un altro, e in un certo senso come un filtraggio di questa storia attraverso la propria sensibilità, i propri interessi, il proprio talento»45, nel caso di un reportage o, in generale, di un non-fiction novel, la questione può notevolmente complicarsi, per due differenti ordini di problemi. Il primo problema è che, nel processo di appropriazione della storia da adattare, si deve tener ben conto della presenza dello stesso reporter per l’economia della vicenda, in misura differente, quindi, rispetto a quanto si destina tradizionalmente alla figura dell’autore di un romanzo finzionale. Un confronto tra due adattamenti di In Cold Blood di Truman Capote, per fare un esempio piuttosto popolare, ce ne può dare rapidamente conto: si può decidere, come fa Richard Brooks nel 196746, di impostare il lavoro a partire dalla vicenda narrata dal romanzo, che diventa quindi il soggetto del film. Ciò, naturalmente, lascia fuori scena l’aspetto dell’indagine realmente compiuta da Capote, a stretto contatto, come si sa, con i due assassini protagonisti   Cfr. L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, tr. it. G. V. Distefano, Roma, Armando, 2011, p. 42. 46   USA, 1967 (B/N). 45

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di A sangue freddo. Brooks, in questo modo, mette quasi del tutto da parte la funzione del reporter-scrittore, rischiando di bypassare il complesso rapporto tra realtà e rappresentazione narrativa sottesa dal prototesto, salvo poi aggiungere al plot un personaggio che impersona un giornalista (Jensen), con una funzione coreutica, come sostiene Bill Krohn47, e sostanzialmente compensativa. Oppure, si può decidere di fare come nel film Capote, diretto da Bennett Miller nel 200548. In questo caso, l’attenzione si focalizza sulla vita dello scrittore, ed in particolare sui sei anni in cui questi realizza In Cold Blood. Il soggetto diventa l’indagine stessa da cui prenderà forma il romanzo del 1966, e, in questo senso, si preserva la natura specifica della narrazione non-finzionale. D’altro canto, si spezza la fedeltà filologica al testo del romanzo. Rispetto a questo primo ordine di problemi, c’è da aggiungere che la questione si complica ulteriormente nel caso in cui il reporter è, come nei Ten Days, anche un personaggio in scena. Il secondo ordine di problemi, in qualche modo legato già al primo, riguarda la natura storica degli eventi non-finzionali in oggetto. Chi si propone di adattare un reportage deve inevitabilmente porsi anche un problema di ordine storico, specie se il prototesto riguarda eventi epocali, come nel nostro caso: si può, dunque, rappresentare la versione della storia data dal testimone-giornalista-reporter, oppure si può mostrare la parzialità del suo punto di vista, o, ancora, si può cercare una fusione tra questa versione e una ricostruzione storiograficamente più attendibile, o politicamente meno (o volendo anche più) partigiana. Difficilmente, però, si potrà evitare di prendere posizione. Per quanto riguarda Ten Days, quindi, il processo di adattamento si dovrà misurare con numerosi nodi problematici. L’attenzione di uno sceneggiatore potrà concentrarsi sulla storia della Rivoluzione bolscevica, in primo luogo. Ma dovrà anche rendere conto della funzione di John Reed come testimone. E ancora della pregnanza simbolica della narrazione, dell’epos eroico delle masse, dell’azione politica di Lenin, di Trotskij ecc. È importante ripetere che dalle de  B. Krohn, In Cold Blood, in Enciclopedia del Cinema Treccani (2004) in . 48   In Italia Truman Capote - A sangue freddo, USA, 2005 (colore). 47

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cisioni di chi adatta l’opera dipende non soltanto la costruzione formale del nuovo prodotto estetico, ma pure una proposta storiografica dei fatti dell’Ottobre che, in maniera inevitabile, orienterà il film da un punto di vista ideologico. In altri termini, l’importanza dell’evento è tale per cui mettere in scena la testimonianza di Reed significa contestualmente anche dare una lettura della Rivoluzione. Seppure, come ha scritto Pierre Sorlin, «la fiction storica rientra nel campo dello spettacolo più che nell’ambito della politica perché privilegia la prestazione dell’interprete, la sua presenza scenica»49, sottovalutare in sede di analisi che, a livello del fruitore, la ricostruzione dell’evento storico possiede un peso specifico capace in realtà di trascendere gli aspetti formali e linguistici dell’adattamento stesso, significa perdere di vista l’impostazione dialettica che ci è cara: se si vuole pensare ad un legame intertestuale tra il reportage e le sue rimediazioni cinematografiche, allora si deve anche ricercare nelle differenti intenzioni rappresentative di queste ultime il contrassegno di differenti urgenze ideologiche, sottese, più o meno consapevolmente, alle scelte estetiche. In questo senso, pur cercando di non concedere troppo all’imperitura (e, onestamente, sin troppo bistrattata) tradizione del cosiddetto Fidelity criticism50, sarà chiaro che il nostro interesse – per questa volta, almeno – si ferma allo studio degli scarti e delle equivalenze tra il reportage e le sue trasposizioni filmiche. Ciò, non certo per un’ossessione nei confronti dell’originale, rispetto alla quale, credo, possiamo ritenerci, se non immuni, certo correttamente vaccinati; né perché – chissà per quale ragione pregiudiziale – si voglia qui negare all’opera adattata (come anche, solamente, ad una traduzione) la dimensione autonoma che le spetta. Al contrario, la nostra analisi muove dalla considerazione che, sia sul piano del “sistema del racconto”, sia rispetto alle implicazioni politiche che esso veicola, la tenuta (o la manipolazione) delle immagini descritte o suggerite dal reportage dei Dieci giorni acquisisce sempre una valenza politica di fondamentale rilevanza, e ciò resta l’oggetto principale del lavoro. Non si tratta allora di indicare   P. Sorlin, Ombre passeggere. Cinema e storia, Venezia, Marsilio, 2013, p. 124. 50   Cfr. L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti, cit., p. 26 e sgg. 49

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riverenze o irriverenze, soggezioni o disinvolture, fedeltà o infedeltà rispetto al racconto di Reed, ma solo di rintracciare nelle differenze (considerando naturalmente anche la specificità mediale di ciascuna opera) il contrassegno di uno «spessore dell’immaginario»51, per dirla con Alessandro Serpieri. Dal nostro punto di vista, non solo come ha scritto W. J. T. Mitchell52, gli atti comunicativi, espressivi e linguistici come la narrazione, l’argomentazione e la descrizione non vanno considerati come “propri” di un dato medium in particolare, ma pure il loro confronto intra-mediale si rende necessario allo studio di quel carattere «ideologico e/o psico-antropologico»53 che ne costituisce propriamente la dimensione dell’immaginario cui siamo interessati. I tre film più noti che – parzialmente o completamente, in maniera più o meno dichiarata, e più o meno esaustiva – hanno messo su schermo il racconto dei Ten Days, lo hanno fatto, come è ovvio che sia, in maniera assai differente l’uno dall’altro. In Октябрь54 (Ottobre), che è senz’altro il più antico e importante dei tre, Sergej Ejzenštejn prende in considerazione, come è noto, gli eventi della Rivoluzione russa dal febbraio 1917 fino alla presa del potere da parte di Lenin nell’ottobre di quello stesso anno. Il film, realizzato per le celebrazioni del decimo anniversario dell’Ottobre, rappresenta il terzo capitolo della cosiddetta trilogia della rivoluzione, iniziata nel 1924 con Sciopero! 55, ed è universalmente conosciuto come una pietra miliare della storia del cinema, soprattutto per l’applicazione estremistica della tecnica del montaggio intellettuale (“analogico” e “attrazionale”) teorizzata dallo stesso regista. Il film si inserisce entro una poetica dal chiaro carattere «epico e monumentale»56, come rileva Claudio Siniscalchi, e mette in scena un «collettivismo eroico piuttosto che   A. Serpieri, Retorica e immaginario, Parma, Pratiche, 1986, p. 29.   Cfr. W. J. T. Mitchell, Picture theory, Chicago, Chicago University Press, 1994, p. 160. 53   A. Serpieri, Retorica e immaginario, cit., p. 29. 54   URSS, 1928 (B/N). 55   Stačka, URSS, 1924, 1925 (B/N). 56   C. Siniscalchi, Riflessi del ’900. Cinema, avanguardia, totalitarismo (18951945), Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995, p. 95. 51 52

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[un] dramma individualistico», attraverso una serie di «brillanti soluzioni tecniche» assai ammirate «se non dal grande pubblico, almeno dagli artisti e dai produttori»57, come scrive Rosenstone. I titoli di testa che si leggono nella versione italiana integrale ci informano che la sceneggiatura dello stesso Ejzenštejn e di Grigorji Aleksandrov è ispirata dal reportage del giornalista americano. Inoltre è un fatto che, fuori dall’URSS, il film sia stato distribuito anche con il titolo Ottobre o i dieci giorni che sconvolsero il mondo. Gli apparati paratestuali, insomma, imprimono un non banale marchio di parentela. Eccependo da essi, tuttavia, appare piuttosto complicato attribuire legami di discendenza diretta di Ottobre dai Dieci giorni, se non per il fatto, di per sé non determinante, di rappresentare in maniera epica gli eventi straordinari dell’ottobre rivoluzionario. Dal nostro punto di vista – evitando adesso di addentrarci in campi propri (e ben arati) della storia e della critica del cinema – interessano soprattutto due aspetti. Il primo è che il film esclude completamente dalla scena un personaggio focale, per assumere formalmente una struttura documentaristica. Rispetto al reportage, quindi, è come se venisse assolutizzato il primo livello della narrazione: l’io-testimone, che lì è garante della veridicità della narrazione, qui è sostituito direttamente dallo spettatore, mentre la rappresentazione della situazione sociale e, per così dire, umorale della città di Pietrogrado, che nel reportage è consegnata alle descrizioni drammatizzate cui l’io-testimone assiste, viene resa nel film attraverso immagini già cariche di idee, ovvero da forme visive che implicano di per sé dei concetti, o li suggeriscono attraverso il montaggio. Come indica lo stesso Ejzenštejn58, in questo modo è possibile realizzare direttamente una drammaturgia visiva attraverso il cinema. Da un punto di vista enunciativo, tuttavia, ciò ha a che fare con la differenza di medium, più che di intenzione comunicativa. La questione può essere chiarita attraverso gli operatori logici (assai funzionali al nostro discorso) che derivano dalla rilettura radicale delle categorie tradizionali dei “modi del racconto” operata da Gaudreault. Secondo il narratologo canadese, infatti, nel cinema avviene di norma   R. A. Rosenstone, “Ottobre” fra cinema e storia, cit., p. 322.   Cfr., S. Ejzenštejn, Il montaggio, a cura di P. Montani, tr. it. di G. Kraiski, F. Lamperini, A. Summa, Venezia, Marsilio, 19922. 57 58

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che il “mostratore filmico”59 delega alla macchina da presa la funzione dello spettatore nel «presente dell’azione da registrare»60, mentre il montaggio, effettuato in seconda istanza dal “narratore filmico”, consente poi l’inserimento delle singole scene entro una temporalità, creando propriamente la narrazione. Se ciò è vero per ogni narrazione cinematografica, nel caso in questione, tale specificità rende sostanzialmente superflua la presenza dell’io-testimone rispetto agli eventi dell’Ottobre: nel film di Ejzenštejn, la macchina da presa si comporterebbe, se interpretiamo correttamente, esattamente come l’io-testimone nella narrazione di Reed, mentre il montaggio che inscrive il film in un «passato narrativo» ricalcherebbe, a propria volta, l’attività dell’io-narratore dei Ten Days. La seconda questione interessante, dalla nostra ottica, è relativa al materiale informativo e più propriamente storico che il film sembra trarre dai Ten Days. Seppure, come è chiaro, si rintracciano notevoli differenze tra le due opere relativamente alla descrizione della presa del potere da parte dei bolscevichi, il film riprende alcuni luoghi testuali difficilmente attribuibili a testimonianze differenti da quella di Reed. Una delle scene paradigmatiche, in questo senso, è quella che, nel film come nel reportage, precede la presa del Palazzo d’inverno61. Quando l’incrociatore Aurora comincia a sparare i primi colpi di cannone (molti dei quali, come noto, a salve) sul Palazzo d’Inverno, infatti, John Reed si trova con Louise Bryant e Albert Rhys Williams presso l’Istituto Smolny. I tre presenziano all’apertura del Secondo congres Secondo Gaudreault il discorso ha alla base due istanze interattive, il “mostratore” e il “narratore”. Il primo sovrintende l’organizzazione del singolo racconto scenico di ogni ripresa, laddove il secondo sovrintende il montaggio e quindi temporalizza il racconto scenico in una vera e propria narrazione. 60   A. Gaudreault, Dal letterario al filmico, cit., p. 108. 61  Le sequenze della presa del Palazzo d’Inverno, invece, rappresentano, come ha scritto Rosenstone «il momento più grande di fiction di Ottobre […]. Così assolutamente fantastica è questa vasta e emozionante battaglia che fin dai tempi di Ejzenštejn ha suscitato battute e storielle. La più diffusa diceva che erano stati sparati più colpi di artiglieria durante la ripresa del film che durante il vero assalto al Palazzo d’Inverno. Un’altra sosteneva che c’erano stati più morti e feriti durante la ricostruzione di Ejzenštejn che nel corso degli avvenimenti reali». Cfr. R. A. Rosenstone, “Ottobre” fra cinema e storia, cit., p. 337. 59

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so dei Soviet della sera tra il 25 e il 26 ottobre (7 e 8 novembre). Dopo aver assistito all’uscita dal Congresso dei gruppi menscevichi, del Bund ebraico e della fazione maggioritaria dei socialisti rivoluzionari, contrari alla presa diretta del potere, i tre giornalisti americani si dirigono su un camion pieno di soldati verso il Palazzo d’Inverno. Con i lasciapassare del Comitato militare rivoluzionario in tasca, gli americani si trovano di fronte ad una scena che li colpisce molto: molti dei delegati usciti dallo Smolny, assieme alle proprie famiglie, ad alcuni amministratori cittadini e a qualche ministro del governo provvisorio stanno fronteggiando un posto di blocco presidiato da alcuni marinai. Mentre in Through the Russian Revolution Rhys Williams non ne fa cenno, Louise Bryant nel suo Six Red Months in Russia scrive: For a time, I confess, we were all pretty much impressed by these would-be martyrs; any body of unarmed people protesting against armed force is bound to be impressive. In a little while, however, we couldn’t help wondering why they didn’t go ahead and die as long as they had made up their minds to it; and especially since the Winter Palace and the Provisional Government might be captured at any moment. When we began to talk to the martyrs we were surprised to find that they were very particular about the manner in which they were to die–and not only that but they were trying to persuade the sailor guards that they had been given permission to pass by the Military Revolutionary Committee. If our respect for their bravery weakened, our interest in the uniqueness of their political tricks grew a good deal; it was clear that the last thing the delegates wanted to do was to die, although they kept shouting that they did at the top of their voices. “Let us pass! Let us sacrifice ourselves!” they cried like bad children. Only twenty husky sailors barred the way. And to all arguments they continued stubborn and unmoved. “Go home and take poison,” they advised the clamouring statesmen, “but don’t expect to die here. We have orders not to allow it.” “What will you do if we suddenly push forward?” asked one of the delegates. “We may give you a good spanking,” answered the sailors, “but we will not kill one of you – not by a damn sight!” This seemed to settle the business. Prokopovitch, Minister of Supplies, walked to the head of the company and announced in a trem-

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bling voice: “Comrades: Let us return, let us refuse to be killed by switchmen!” Just exactly what he meant by that was too much for my simple American brain, but the martyrs seemed to understand perfectly, for off they marched in the direction from which they had come and took up headquarters in the city Duma62.

Ecco, invece, la versione di John Reed: It was an astonishing scene. Just at the corner of the Ekaterina Canal, under an arc-light, a cordon of armed sailors was drawn across the Nevsky, blocking the way to a crowd of people in column of fours. There were about three or four hundred of them, men in frock coats, well-dressed women, officers-all sorts and conditions of people. […] “We demand to pass!” they cried. “See, these comrades come from the Congress of Soviets! Look at their tickets! We are going to the Winter Palace!”. The sailor was plainly puzzled. He scratched his head with an enormous hand, frowning. “I have orders from the Committee not to let anybody go to the Winter Palace,” he grumbled. “But I will send a comrade to telephone to Smolny...”. “We Insist upon passing! We are unarmed! We will march on whether you permit us or not!” cried old Schreider, very much excited. “I have orders” repeated the sailor sullenly. “Shoot us if you want to! We will pass! Forward!” came from all sides. “We are ready to die, if you have the heart to fire on Russians and comrades! We bare our breasts to your guns!”. “No,” said the sailor, looking stubborn, “I can’t allow you to pass”. “What will you do if we go forward? Will you shoot?”. “No, I’m not going to shoot people who haven’t any guns. We won’t shoot unarmed Russian people...”. “We will go forward! What can you do?”. “We will do something”, replied the sailor, evidently at a loss. “We can’t let you pass. We will do something”. “What will you do? What will you do?”. Another sailor came up, very much irritated. “We will spank you!” he cried, energetically. “And if necessary we will shoot you too. Go home now, and leave us in peace!”. At this there was a great clamour of anger and resentment, Prokopovitch had mounted some sort of box, and, waving his umbrella, he made a speech: “Comrades and   L. Bryant, Six Red Months in Russia, cit., pp. 85-86.

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citizens!” he said. “Force is being used against us! We cannot have our innocent blood upon the hands of these ignorant men! It is beneath our dignity to be shot down here in the street by switchmen” […]. “Let us return to the Duma and discuss the best means of saving the country and the Revolution!”. Whereupon, in dignified silence, the procession marched around and back up the Nevsky, always in column of fours63.   J. Reed, Ten Days…, cit., pp. 96-98, tr. it. pp. 90-91: «dinnanzi a noi si svolgeva una scena stupefacente. Proprio all’angolo del canale di Caterina, sotto una lampada ad arco, un cordone di marinai armati tagliava il Nevskij, sbarrando il passo a una folla che si avanzava in colonna per quattro. Erano circa tre o quattrocento, uomini in redingote, donne eleganti, ufficiali, persone di ogni condizione […]. “Vogliamo passare!” gridavano. “Tutti questi compagni vengono dal Congresso dei soviet. Guardate le loro tessere. Noi andiamo al Palazzo d’Inverno”. Il marinaio era molto imbarazzato. Si grattò la testa con la mano enorme, e aggrottò le sopracciglia. “Il Comitato mi ha ordinato di non lasciar andare nessuno al Palazzo d’Inverno”, borbottò. “Mando subito un compagno a telefonare a Smolny”. “Noi insistiamo per passare. Siamo disarmati. Passeremo con o senza il vostro permesso!” gridò il vecchio Šrejder, eccitatissimo. “Io ho degli ordini...” ripeté il marinaio, seccato. “Sparate su di noi, se volete! Noi passeremo! Avanti!” si gridava da ogni parte. “Noi siamo pronti a morire, se voi avete il coraggio di sparare su dei russi, su dei compagni! Noi offriamo i nostri petti ai vostri fucili!”. “No”, disse il marinaio ostinato, “non posso permettervi di passare”. “Che cosa farete se noi passiamo? Sparerete?”. “No, non voglio sparare su gente disarmata. Non spareremo su russi disarmati”. “Noi vogliamo andare avanti! Che cosa volete fare?”. “Faremo qualcosa!” rispose il marinaio, evidentemente molto imbarazzato. “Non possiamo lasciarvi passare, ma faremo qualcosa”. “Che cosa farete? Che cosa volete fare?” Un altro marinaio, irritatissimo, prese la parola: “Che cosa faremo? adesso vi mandiamo tutti a casa” disse in tono energico. “E se ci obbligate, spareremo. Andatevene a casa, adesso, e lasciateci in pace”. Gli rispose un grande clamore di malcontento e di collera. Prokopovič si arrampicò su una cassa e, agitando l’ombrello, cominciò a pronunciare un discorso: “Compagni, cittadini! Si adopera la forza contro di noi. Noi non possiamo permettere che questi ignoranti sporchino le loro mani col nostro sangue innocente. Non è degno di noi lasciarci fucilare qui da questi deviatori”. […] “Torniamo alla Duma per discutere il mezzo migliore per salvare il paese e la rivoluzione!”. Persuaso da queste parole, il corteo fece dietrofront in un silenzio pieno di dignità e risalì la Nevskij, sempre in colonna per quattro»]. 63

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In Ottobre, la scena raccontata da Reed è ripresa in maniera non filologicamente esatta, ma sostanzialmente identica per scopo e significato: il velleitario tentativo dei delegati usciti dal Congresso assume toni grotteschi che qualificano non solo l’isolamento politico di menscevichi e socialisti rivoluzionari rispetto alle masse pietroburghesi, ma pure, per via parodica, l’incapacità, l’egoismo e la codardia di quattrocento persone che si lasciano bloccare da uno o due marinai. È da notare che la posizione della macchina da presa, in Ottobre, assume tutti gli aspetti di un testimone che guarda la scena dal di dentro. Indugiando sui primi piani dei delegati, e reiterando più volte quello del marinaio, a cui, appunto, basta una mano per sbarrare la strada al gruppo, il montaggio indica infine l’aspetto involontariamente comico della scena, secondo una logica non diversa, dunque, da quella che si legge in Ten Days. Passando altri due film che qui si deve prendere in considerazione, c’è subito da dire che, a differenza di Ottobre, entrambi si concentrano sulla biografia di Reed, ripristinando quindi la funzione testimoniale del giornalista rispetto all’Ottobre. Di Reds di Warren Beatty qualcosa abbiamo già detto. La pellicola racconta gli ultimi quattro anni di vita di John Reed, e la fonte letteraria privilegiata della sceneggiatura, scritta dallo stesso Beatty con il drammaturgo inglese Trevor Griffiths, appare in questo caso piuttosto la biografia romanzata di Rosenstone, che non i lavori dello stesso giornalista americano. Tuttavia, nelle sequenze relative all’Ottobre, il film instaura un breve dialogo con Ten Days. Sebbene non si possa parlare di trasposizione dichiarata, estesa e esauriente64, secondo le parole con cui Hutcheon definisce l’adattamento, certamente resta di una qualche utilità verificare il rapporto intertestuale tra le due opere. Reds, infatti, dà ben poco spazio all’evento rivoluzionario in sé, ma, come abbiamo in parte già detto, ne segnala potentemente il significato simbolico. In tal senso il film estremizza la focalizzazione testimoniale dei Ten Days, limitandosi a mostrare, pur da una posizione terza, ciò che Reed – il Reed avventuriero e ribelle – vede, e che, nel reportage, veniva invece integrato e ideologizzato dalla fitta serie di documenti riportati. In tutt’altro modo si comporta invece Sergej Bondarčuk, in quella che,   Cfr. L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti, cit., p. 38 e sgg.

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apparentemente almeno, è la più “esauriente” e “dichiarata” trasposizione cinematografica di Ten Days That Shook the World – forse l’unica, in realtà, per la quale si può compiutamente spendere il termine adattamento. Il film Ja videl roždenie novogo mira 65 (1982) o in italiano, per l’appunto, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, costituisce, peraltro, la seconda parte di un dittico dedicato dal regista sovietico alla figura di John Reed, e si concentra quindi sulla vita del giornalista dal lungo viaggio in treno verso la Russia rivoluzionaria, sino alla presa del potere da parte dei bolscevichi. Quasi l’intera vicenda è narrata, in realtà, attraverso un’analessi: Louise Bryant (interpretata da Sydne Rome) sta difatti rievocando, sul letto di morte di John, le straordinarie vicende che i due hanno vissuto insieme a Pietrogrado e che Reed ha ormai impresso nel libro che lo ha reso celebre. All’inizio del ricordo, che mette intelligentemente in comunicazione la fine e il principio della fabula, sentiamo pertanto John (Franco Nero) affermare che ha intenzione di scrivere un libro. Un libro, continua il reporter in una aperta dichiarazione di poetica, molto diverso da quello sul Messico: niente romanticherie, niente avventure, solo il resoconto di un testimone oculare. E così il film ci mostra gli eventi dell’Ottobre non senza richiamarsi, attraverso omaggi molto espliciti, a Ottobre di Ejzenštejn. La focalizzazione su Reed è qua e là interrotta per mostrare da un’angolatura più oggettivizzante le eroiche gesta di Lenin e compagni, ma i momenti fondamentali della sua investigazione giornalistica sono tutti presenti. Chiunque abbia letto con un briciolo di attenzione Ten Days sa, tuttavia, che Ja videl roždenie novogo mira prescinde completamente delle indicazioni sia ideologiche che storiche contenute in quelle pagine. La fonte primaria utilizzata per la ricostruzione degli eventi dal «campione ufficiale del cinema dell’URSS»66 – come ha scritto una volta Giovanni Buttafava a proposito di Bondarčuk – è, in realtà, Istorija graždanskoj vojny v SSSR. In altri termini, gli aspetti avventurosi e più noti dell’attività giornalistica di Reed vengono sovrapposti ad una versione, in buona sostanza, ancora staliniana dell’evento rivoluzionario, realizzando di   URSS, ITA, MEX, 1982 (colore).   G. Buttafava, Il cinema russo e sovietico, a cura di F. Malcovati, Milano, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema-Ubulibri, 2000, p. 128. 65 66

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fatto una sorta di crasi ideologicamente molto opaca. Per rendersene conto sarà sufficiente confrontare due momenti fondamentali dei Dieci giorni di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti – cioè la riunione clandestina del Comitato Centrale del partito del 10 ottobre (23 ottobre) e l’intervista a Trotskij – con la loro resa filmica. Si vedrà allora che non solo la figura di Trotskij è resa quantomeno ambigua dall’adattamento, e che semmai sono Stalin (soprattutto), Sverdlov e Antonov-Ovseenko i leader più vicini ad un Lenin davvero eroico e presentissimo in scena; ma pure che, nella sostanza, il processo rivoluzionario non appare più come la conseguenza del movimento spontaneo delle masse, quanto piuttosto il frutto dello sforzo eroico, sia militare che politico, del partito bolscevico, fedele al proprio leader. Ciò distanzia notevolmente il film dalla narrazione di Ten Days, che invece condivide con Ottobre l’idea di «trasmettere l’importanza degli avvenimenti sociali e politici accaduti a Pietrogrado nell’autunno del 1917, sostenendo che ottobre è stato il momento in cui i bolscevichi hanno incarnato lo spirito delle masse russe»67. In questo senso Ja videl roždenie novogo mira, tra una strizzatina d’occhio al reportage e una al film di Ejzenštejn, rovescia sostanzialmente il significato di entrambi. Ma, al di là del giudizio strettamente politico che se ne può derivare, e, tutto sommato, anche di quello estetico, l’operazione di Bondarčuk resta decisamente interessante da un punto di vista storico-dialettico. Attraverso il suo sincretismo, infatti, possiamo distinguere in trasparenza l’idea della Rivoluzione che è in Ten Days e che si vede, almeno in parte, in Ottobre, dall’ispessimento ideologico che essa subisce con lo stalinismo, nonché il fatto che tale ispessimento perdura, nella sua buona sostanza, ben dopo i lavori del XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Questo paradossalmente dovrebbe aiutarci a riconoscere nella voce di Reed quel mormorio della parola mitica che, parafrasando Ricœur, continua a risuonare sotto il logos della storiografia ufficiale o non ufficiale sulla rivoluzione.

  R. A. Rosenstone, “Ottobre” fra cinema e storia, cit., p. 339.

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Indice dei nomi

Adorno, Theodor Wiesengrund, 69 en Agamben, Giorgio, 67 e n, 73 e n, 79 Aleksandrov, Grigorij Vasil´evič (G. V. Mormonenko), 103 Amadesi, Luigi, 43n Anceschi, Luciano, 38 e n Antonov-Ovseenko, Vladimir Alexandrovich, 110 Arruzza, Cinzia, 22n Badiou, Alain, 62 e n, 68 e n, 75, 97 en Barber, John, 63n Barère de Vieuzac, Bertrand de, 27 Barthes, Roland, 85 e n Beatty, Bessie (Elizabeth Mary Beatty), 37n, 65 e n Beatty, Warren (Henry Warren Beaty), 70, 74, 75, 77, 79, 81, 108 Belpoliti, Marco, 25n Benjamin, Walter, 20, 26, 73 e n, 79 Bertoni, Clotilde, 34 e n, 97 e n Bettanin, Fabio, 63n Bettelheim, Charles, 46n Bidussa, David, 24, 25n Biggart, John, 36 e n Bloch, Ernst, 26, 27n Bobbio, Norberto, 64n

Bondarčuk, Sergej Fëdorovič, 89, 108, 109, 110 Bonfantini, Massimo A., 84n Boni, Livio, 62n Bottiglieri, Nicola, 82 e n Bovaia, Roberta, 67n Brelich, Angelo, 82n Brelich, Mario, 82n Brooks, Richard, 99, 100 Bryant, Louise, 37n, 65 e n, 70, 77, 78 e n, 104, 105, 106n, 109 Buttafava, Giovanni, 109 e n Buzzolan, Dario, 87n Byron, George Gordon lord, 69 Cacucci, Pino, 71n, 74 e n Cage, Nicolas (Nicolas Kim Coppola), 98, 99 Canfora, Luciano, 27, 28n Capote, Truman, 40, 99, 100 Carlotti, Giancarlo, 36n Cavalletti, Andrea, 28n Cavazzini, Andrea, 62n Čechov, Anton Pavlovič, 88n Chesterton, Gilbert Keith, 24 Chiore, Valeria, 93n Collins, Suzanne, 68n Cooper, Chris (Christopher Walton Cooper), 98

122

Courtois, Stéphane, 68 Danieli, Annachiara, 70n De Angelis, Enrico, 27n De Federicis, Lidia, 83 e n, 84n Dell, Floyd, 69 e n Derrida, Jacques, 21 e n Desideri, Ettore, 59n Distefano, Giovanni Vito, 99n Domenichelli, Mario, 20 e n, 67n Donfrancesco, Paola, 56n, 68n D’Orsi, Angelo, 54 e n Dos Passos, John Roderigo, 38, 40 Dreiser, Theodore, 38 Duke, David C., 65n Eastman, Max Forrester, 70, 73n Ejzenštejn, Sergej Michajlovič, 102, 103 e n, 104 e n, 109, 110 Ermano, Andrea, 30n Fehér, Ferenc, 63, 64n Ferlinghetti, Lawrence, 66n Fielding, Henry, 83 e n Flores, Marcello, 22n, 23n Franzini, Elio, 84 e n Fusillo, Massimo, 96 e n Ganni, Enrico, 73n Garosci, Aldo, 69n Gaudreault, André, 86, 87 e n, 103, 104n Gelb, Barbara, 65n Giglioli, Daniele, 24n, 26n, 27, 60n, 61 e n Ginzburg, Carlo, 83 e n Gioviale, Fernando, 31 e n Gobetti, Piero, 28 Gold, Michael, 70 e n Goldman, Emma, 76, 77, 79 Goodman, Nelson, 31 e n

Indice dei nomi

Gorkij, Maksim (Aleksej Maksimovič Peškov), 54, 55n, 58, 59n, 63n Gramsci, Antonio, 30, 45n Griffiths, Trevor, 108 Gumberg, Alexander, 37n Hackman, Gene, 76 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 24, 95 Hemingway, Ernest, 39 Henderson III, Harry, 82 e n, 88, 89 en Hicks, Granville, 65n Hillman, James, 56 e n, 68 e n Homberger, Eric, 36 e n, 65n Honneth, Axel, 32n Hovey, Tamara, 65n Hutcheon, Linda, 99 e n, 101n, 108 en Jameson, Fredric, 19n, 20n, 31 e n Jesi, Furio, 24, 25n, 28 e n, 29, 30, 32, 33n, 49n Jonze, Spike (Adam Spiegel), 98, 99 Justus Mayer, Edwin, 66 e n Kamenev, Lev Borisovič (L. B. Rosenfeld), 51, 55 e n, 57, 59 Kant, Immanuel, 23 Kaufman, Charlie (Charles Stuart Kaufman), 98 Keaton, Diane (Diane Hall), 77, 78 Kerenskij, Aleksandr Fëdorovič, 34, 54, 58n, 89, 94 Kirov, Sergej Mironovič Kostrikov, 58, 59n, 63n Kornilov, Lavr Georgievič, 95 e n Kraiski, Gioegio, 103n Krohn, Bill, 100 e n Krupskaja, Nadežda Konstantinovna, 35

Indice dei nomi 123

Lacan, Jacques, 77n Lamperini, Federica, 103n Laroche, John Edward, 98, 99 Lassalle, Ferdinand, 55 Lawson, Harry John, 88 Lazarus, Sylvain, 62 Leduc, Renato, 72 e n Lefebvre, Henri, 25 Lehman, Daniel W., 98 e n Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov), 21n, 22, 23 e n, 24 e n, 28, 33, 34, 35 e n, 36, 40 e n, 41, 42 e n, 43 e n, 44 e n, 45 e n, 49, 51, 52n, 53, 54, 55 e n, 56 e n, 57 e n, 58 e n, 59 e n, 60 e n, 62, 63 e n, 64 e n, 90, 91n, 100, 102, 109, 110 Leonardi, Patrizia, 37n Lianozov, Stepan Gherghievic, 94 Lih, Lars T., 44, 45 e n Lippmann, Walter, 39 Lloyd, David, 68n London, Jack (John Griffith London), 38 Lonzi, Lidia, 85n Losurdo, Domenico, 25 e n Lubitsch, Ernst, 66 Lukács, György, 23 e n, 24n, 44 e n, 82 e n Maffi, Mario, 36n, 37n, 38n, 65 e n, 71 e n Magris, Claudio, 73 e n Mailer, Norman, 40 Maitain, Livio, 59n Malaparte, Curzio (Curzio Suckert), 56n Malcovati, Fausto, 109n Manera, Enrico, 25n Manganelli, Massimiliano, 45n Marletti, Carlo, 31n

Marx, Karl, 21 e n, 23, 24, 27, 29, 42, 45, 90, 91n, 96 Mazzoni, Guido, 26n McTeigue, James, 68n Miller, Bennett, 100 Milner, Jean-Claude, 61n Mitchell, William J. Thomas, 102 e n Molotov, Vjačeslav Michajlovič (V. M. Skrjabin), 58, 59n, 63n Moore, Alan, 68n Mordenti, Raul, 45n Moscati, Antonella, 62n Negri, Toni (Antonio Negri), 64n Nero, Franco (Franco Sparanero), 109 Nicholson, Jack, 78 Nijhuis, Marta, 77n O’Conner, Richard, 65n O’Neill, Eugene, 78 e n Orlean, Susan, 98, 99 Orwell, George (Eric Blair), 40 Pancho Villa, Francisco (Doroteo Arango), 65n, 71 e n, 74, 75 Panin, Vasilij Georgevich, 91n Pellicani, Luciano, 45n Pellini, Pierluigi, 24n, 87 e n Peters, Jake, 37n Pipes, Richard, 68 Piretto, Gian Piero, 62 e n Placido, Beniamino, 65, 66 e n Pons, Silvio, 22 e n Price, Morgan Philips, 37 Rahola, Federico, 40n Reinstein, Boris, 36n, 37n Ricœur, Paul, 110 Rjazanov, David Borisovič, 55n Roazen, Paul, 78n

124

Robespierre, Maximilien-François-Isidore de, 79 Romano, Sergio, 33, 34 e n, 82 Rome, Sydne, 109 Rosenstone, Robert A., 20 e n, 37n, 65n, 66n, 69n, 71, 72n, 79n, 82 e n, 85 e n, 88 e n, 91n, 97n, 103 e n, 104n, 108, 110n Rossanda, Rossana, 31n, 97 e n Saramago, José, 26n Schudson, Michael, 39n Schweppenhäuser, Hermann, 73n Sedova, Natalia Ivanovna, 92 e n Serafini, Aldo, 52n Serge, Victor Lvovič (V. L. Kibal´čič), 69n Serpieri, Alessandro, 102 e n Shatov, Bill, 37n Sinclair, Upton Beall, 38 Siniscalchi, Claudio, 102 e n Sloterdijk, Peter, 30 e n, 33 Solinas, Marco, 32n Solmi, Renato, 69n Sorel, Georges, 21n Sorlin, Pierre, 101 e n Sosio, Libero, 19n Spiridonova, Marija Aleksandrovna, 97 Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili), 25, 49, 51, 52n, 53, 57 e n, 58 e n, 59 e n, 61 e n, 62, 63 e n, 64, 65, 67, 84n, 109, 110 Stapleton, Lois Maureen, 76, 77 Steffens, Lincoln, 38, 65n Steinbeck, John Ernst, 40 Streep, Meryl (Mary Louise Streep), 98 Summa, Antonella, 103n Sverdlov, Jakov Michajlovič, 58n, 110 Syrkin, Nachman, 52

Indice dei nomi

Tagliapietra, Giovanni, 61n Taibo II, Paco Ignacio (Francisco Ignacio Taibo Mahojo), 67 e n Tiedemann, Rolf, 73n Tolstoj, Lev Nikolaevič, 88n Toni, Luigi, 62n Trotskij, Lev Davidovič (Lejba Bronštein), 33, 34, 41, 51 e n, 52, 53, 54, 55 e n, 56 e n, 57 e n, 58, 59 e n, 74n, 92 e n, 93n, 94, 95, 100, 110 Tuck, Gim, 65n Valli, Bernardo, 39 e n Volodarsky (Moisei Markovich Goldstein), 37n Vorošilov, Kliment Efremovič, 58, 59n, 63n Voskov, Samuel, 37n Walker, Dale L., 65n White, James D., 33, 34, 82 Williams, Albert Rhys, 37 e n, 65, 104, 105 Wunenburger, Jean-Jacques, 93n Xingjian, Gao, 73n Yanishev, Michail, 37n Zaffarano, Michele, 62n Zatti, Sergio, 96 e n, 97n Ždanov, Andrej Aleksandrovič, 58, 59n, 63n Zinov’ev, Grigorij Evseevič (Hirsch Apfelbaum), 51, 57, 59, 75, 76 Žižek, Slavoj, 22n, 40 e n, 41, 42n, 44, 45n, 59n, 60 e n, 63n, 64n, 77 e n, 78

LETTERARIA

diretta da Lucia Rodler e Gino Ruozzi

1. N. Moll, L’infinito sotto casa. Letteratura e transculturalità nell’Italia contemporanea 2. F. Vittorini, Narrativa USA 1984-2014 romanzi, film, graphic novel, serie tv, videogame e altro 3. F. Vittorini, Raccontare oggi. Metamodernismo tra narratologia, ermeneutica e intermedialità 4. S. Moretti, R. Boccali, S. Zangrandi, La sirena in figura. Forme del mito tra arte, filosofia e letteratura 5. F. Fastelli, Epica dell’Ottobre. John Reed, la rivoluzione e il mito dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo