L'età dell'occhio. Il cinema e la cultura americana 8871802497, 9788871802497


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L'età dell'occhio. Il cinema e la cultura americana
 8871802497, 9788871802497

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© 1999 Lindau s.r.l.

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Via Bernardino Galliari 15 bis -10125 Torino

TeL 011/669.39.10 - fax 011/669.39.29

http://www.lindau.it

e-mail: lindauOlindau.it

Prima edizione

ISBN 88-7180-249-7

Franco La Polla

L'ETÀ DELL'OCCHIO IL CINEMA E LA CULTURA AMERICANA

La nostra epoca è oculare

R. W. Emerson, Diario

Questo libro è dedicato alla memoria di Stephen Schneck (New York 1933 - Palm Springs 1996), uno dei maggiori romanzieri ame­ ricani di questa metà del secolo, purtroppo quasi sconosciuto in Italia, e del resto non particolarmente ricordato e celebrato nemme­ no in patria. Stephen aveva pubblicato due romanzi formidabili: nel 1965 The Nìghtclerk (subito tradotto in Italia col titolo II portiere di notte da Einaudi), libro che gli valse il premio Formentor, e, nel 1971, Noe tu rimi Vaudeville, che non è esagerato definire il corrispettivo narrativo di La società dello spettacolo di Guy Debord. Censurato dal

mercato e da una politica editoriale ottusa e colpevole, abbandonò .il l 'inizio degli anni '80 la narrativa e, lasciata San Francisco, si trasleri con la moglie Hadwig a Hollywood, dove per molti anni scris­ se copioni per series e telefilm nella sua casa adiacente a quella che era stata di Preston Sturges. Nel frattempo, tuttavia, non aveva smesso di coltivare l'idea di un terzo romanzo cui faticosamente continuava a lavorare. Era un uomo straordinario, di vasta esperienza nautica, raffina­

tissimi gusti letterari e curiosità senza fine, costretto negli ultimi .inni a una vita sedentaria e insoddisfatta da un meccanismo im­ placabile che l’aveva escluso da un'area creativa sua di diritto e in

cui aveva già dato ampia prova di primeggiare. Affetto negli ultimi anni da un male doloroso e incurabile, si era trasferito a Palm Springs. Si è suicidato, nel giardino di casa sua,

nel novembre 1996.

Premessa

Questo libro raccoglie una serie di scritti in gran parte pubblica­ ti a suo tempo in vari luoghi: riviste («Cineforum», «Filmcritica», •Quaderni di cinema», «Cinema e cinema», «SegnoCinema» ecc.), alti di convegni, accademici e non, cataloghi di mostre e retrospet­ tive, e così via. Tutti, in varia misura, sono stati opportunamenti ri­ visti, rielaborati, adattati, aggiornati, ampliati. Il volume si divide in tre parti: autori, film e questioni. Nella prima viene discussa, in tutto o in parte, l'opera di alcuni registi americani alquanto noti, nella seconda un certo numero di film quasi tutti di derivazione letteraria oppure molto rappresentaIivi di taluni aspetti della cultura americana, nella terza una serie di argomenti che ritengo di un certo interesse, dai rapporti fra sto­ na e cinema a quelli fra quest'ultimo e la Beat Generation, dall'umorismo ebraico-americano all'erotismo negli anni '30 e '40, dal re­ make all'iperrealismo rivisitato in data odierna. E tutto, sempre, lungo il filo di collegamento che unisce il cinema americano alla cultura del paese che l'ha espresso. Questo è infatti il leitmotiv del presente volume, un costante rapporto Ira il cinema e la cultura nazionale della quale esso è non secondaria espressione. Va da sé che un'iniziativa del genere sorge programmaticamente in termini contrapposti a una pratica - e per certi versi a una moda ciurlila che. pur importantissima in anni passati ai fini di uno svec­ chi. iinenb» della m>s/w cultura, mi sembra abbia ormai esaurito la sua carica mitologica attiva per diventare mitologia passiva, cele­ brazione iniziatica di un cullo che potrà anche non essere in via d'eslinzione, ma che cerio ha fallo il suo tempo quanto al ruolo che esi»o poteva giocare nella dialettica culturale nazionale. La certosina attenzione all'inquadratura, all'angolazione, alla sequenza come

espressione di una visione del mondo non può più reggere il passo con un'idea di cinema che, come quella odierna, tende vieppiù ad identificarsi col mondo tout court. Tale atteggiamento può benissi­ mo continuare, beninteso, se qualcuno intende coltivarlo (e anzi, oso dire che sarebbe augurabile esso continuasse, che non esiste ve­ ra conoscenza cinematografica senza una precisai coscienza del lin­ guaggio in cui il cinema si esprime), ma credo sia il momento di considerare il cinema, alla stregua di altri fenomeni dell'immagina­ rio contemporaneo, come uno dei tanti modi in cui il nostro presen­ te, e per certi versi anche il nostro futuro, premono alla porta indi­ candoci, più chiaramente di quanto la nostra vita quotidiana non ci consenta di renderci conto, ciò che siamo e stiamo diventando. Il cinema americano, volenti o nolenti, si è da sempre conquista­ to un posto di riguardo in questo quadro e per scadenti che possa­ no essere non pochi suoi prodotti odierni, nondimeno persino que­ sti possono vantare uno spessore di significato e addirittura di ri­ velazione in tal senso. Questo libro non concede molto spazio alla contemporaneità e preferisce in buona parte revisionare grandi no­ mi e argomenti del passato. Ma, si sa, passato e presente non ap­ partengono certo a due diversi universi, alla stessa stregua del ci­ nema e della cultura americani. Qualche purista accademico potrà anche storcere il naso davanti a un collegamento fra Capra e Jeffer­ son o fra Emerson e Welles. Ma, piaccia o non piaccia, è finita l’e­ poca in cui la cultura aveva la C maiuscola, l'epoca in cui le arti po­ polari non avevano diritto di cittadinanza nel campo degli studi se­ ri e filologicamente fondati. Oggi è la storia delle idee, e più larga­ mente quelli che oltre oceano vengono chiamati cultural studies, a fare da forza trainante alla conoscenza. Per conto mio, non ho che da rallegrarmene. E spero che lo stesso faccia chi dovesse avventu­ rarsi fra queste pagine.

L'ETÀ DELL'OCCHIO IL CINEMA E LA CULTURA AMERICANA

Autori

Alcune versioni di pastorale: Frank Capra e l'invenzione della «screwball comedy»

Come è noto, gli anni '30 tengono a battesimo la screwball co­ medy da un lato e perfezionano la commedia sofisticata, che in cer­ ta misura è rintracciabile nel cinema muto, dall'altro. Frank Capra è da molti considerato l'inventore della prima. Può «ini he darsi: basta intendersi su che costi è una screwball. Personal­ mente ho alcuni dubbi sulla centralità, in essa, del tema relativo al­ la «riconciliazione delle differenze di classe», secondo l'affermazio­ ne di Thomas Schatz in Hollywood Genres. È vero che questo lo ri­ troviamo spesso nella screwball, ma è anche vero che in pellicole di pi un'ordine come Susanna o La signora del venerdì di Hawks - e, sempre di 1 lawks, negli anni '50, il meno riuscito 11 magnifico scher­ zo - il tema è pressoché assente (nel secondo, anzi, il motore della disputa fra i due protagonisti è che l'una vorrebbe stabilire una dif­ ferenza di classe con l'altro). Del resto, un tentativo di riconciliazio­ ne delle differenze di classe marca più d'una commedia sofisticata (ad esempio. Scandalo a Filadelfia, di Cukor, o il più tardo Sabrina, di Billy Wilder, che peraltro non si limita a essere una commedia sofi­ sticata, ma che certamente non è una screwball). \ mio avviso il termine screwball, come del resto afferma Stuart Kaminsky in American Film Genres, riguarda prima di tutto la for­ ma, e nolo in seconda istanza la natura di quel tipo di commedia un'energia liberatoria (soprattutto da parte femminile) che prende corpo tecnico audio-visibile nel montaggio e nel dialogo. Da questo punto di vista, anzi, la screwball è l'opposto della commedia sofisti­ cala questa infatti riposa su ritmi che, per quanto fluidi, sono cer­ tamente piu distesi, esibendo un dialogo decisamente witty, molto lontano dall'intercalare quotidiano che spesso - anche se non sem­ pre - ritroviamo nell'altra. D'altra parte, non credo sia sufficiente vtlchell.in* l«< commi-dia sofisticata come «a fantasy of upper-class in

L'ETÀ DELL’OCCHIO. IL CINEMA f LA CUI CURA AMERICANA

freedom», secondo la definizione di James Harvey nel suo Romantic Comedyt in effetti, la definizione si applica molto bene anche a non poche screwball comedies (per lo meno fra quelle degli anni '30), nel­ le quali la comicità è generata proprio dalla libertà che si prendono uno o più membri di quella classe, o anche, come nel caso di Pranzo alle otto di Cukor, personaggi che vi appartengono per censo anche se non per tradizione e maniere. Se quanto dicevo della screwball più sopra è vero, ho il sospetto che essa non sia un parto né di Ca­ pra né di Hawks, dal momento che in più d'una pellicola preceden­ te quel fatidico W34 è possibile rinvenire momenti che rispondono alle caratteristiche indicate: in Laughter di Harry D'Arrast, ad esem­ pio, nella quale tutta la parte della fuga e del rapporto fra Nancy Carroll e Fredric March anticipa - peraltro in modo giocoso e non problematico - le straordinarie follie della coppia Grant-Hepburn in Susanna, grazie anche alla sceneggiatura a tratti brillante di Do­ nald Ogden Stewart. Non mi si fraintenda: film come Laughter non possono competere con i grandi classici della screwball di qualche anno dopo; tuttavia, essi presentano formalmente alcuni tratti che in seguito professionisti d'eccezione come Capra e Hawks porte­ ranno a vette ineguagliabili. In realtà il contributo che Capra ha da­ to alla nascita della screwball è fondamentale, sì, ma circoscritto: se ne ritrovano accenni anche prima di Accadde una notte, in Signora per un giorno, nel quale il ritmo accelerato delle trasformazioni im­ prime al film un passo non lontano dalia screwball, e in seguito nel­ le sequenze relative alla famiglia Vanderhof-Sycamore in L'eterna il­ lusione. Cronologicamente Hawks è contestuale, in quest'ambito, ai regista di Accadde una notte: il suo Ventesimo secolo, uscito nel mede­ simo anno, è, a rigore, ancora più screwball, e comunque Hawks proseguirà nel tempo in modo molto più coerente e canonico di Ca­ pra nella confezione di commedie screwball, da Susanna a Colpo di fulmine, da Venere e il professore a Ero uno sposo di guerra, da II magni­ fico scherzo fino al tardo Qual è lo sport preferito dall'uomo?. Nel cinema di Capra, invece, presto le cose cambiano. Già con È arrivata la felicità - che pure della screwball mantiene perfettamente il ritmo spumeggiante e il tono balzano - la componente rooseveltiana, che si sarebbe enormemente sviluppata negli anni seguenti, entra a far parte integrante della storia. Come scrive ancora James Harvey, a partire da questa pellicola «Capra fece il tipo di film che sembrava una screwball comedy, e che qualche volta persino suona­ va come se lo fosse, ma le cui intenzioni erano di carattere edifican­ te'». Insomnia, a differenza di Accadde una notte, nel quale la presen­ za ilei New Deal si avverte unicamente nelle immagini e che per

FRANK CAPRA E L'INVENZIONE DELLA «SCREWBALL COMEDY»

questo vanta una potenza d'impatto straordinaria, È arrivata la feli­ cità ha una tesi politica da dimostrare. Ma non è nemmeno questo a strappare il film all'ambito della screwball, bensì il fatto che la com­ ponente tematica specifica del genere - quel tocco di impalpabile eppure incidentissima follia che nella screwball caratterizza di nor­ ma il comportamento dei ricchi o dei pensatori - viene program­ maticamente estesa al mondo nella sua totalità: tutti siamo «pixila­ ted», e dunque, o la vita (l'America della Depressione, se si preferi­ sce) è tutta una screwball, o la screwball non esiste. Sappiamo bene come il resto della produzione di Capra negli anni '30 abbia seguito la strada ideologica del populismo e come, pur tacendo tesoro della lezione formale fornita dalla screwball, ab­ bia insistito su una revisione (una rilettura) in chiave di small town ethics ilei concetto americano di democrazia e addirittura di precise istituzioni politiche. Anche da questo punto di vista Capra è il per­ fetto autore New Deal, laddove la screwball comedy è invece un ge­ nere < he, certo espressione dello stesso decennio, vive su un terre­ no il quale, pur dando i suoi migliori frutti solo un po' di tempo dopo (appunto durante lo stesso New Deal), era stato arato già ne­ gli anni '20. La screwball infatti è una commedia tipicamente citta­ dina, i suoi personaggi sono espressione di un milieu squisitamente urbano e comunque alieno dall'ideale di semplicità di vita di cui Capra si fece alfiere negli stessi anni. Nata da una visione scettica del mondi» che è appannaggio delle classi altolocate, la screwball è l'antitesi dell'ideale rurale (versione americana di quello pastorale europeo) che trovò teorizzazione e sostegno, sulla base della vec­ chia e tutto sommato ambigua ideologia jeffersoniana, nelle linee portanti del riformismo rooseveltiano, e che è regolarmente leggi­ bile m Capra, anche e forse soprattutto quando i suoi eroi si dirigo­ no per qualche ragione in città. ( he la commedia capriana dei secondi anni '30 si informi ai det­ tali iclìersoniani prima ancora che rooseveltiani è cosa lampante per chi abbia letto quanto scrisse l'autore di Notes oh Virginia; e sul­ la scoi la di I .eo Marx nel suo The Machine in the Carden non è affat­ to peregrino definire quei film come pastorali piuttosto che agrari, hi* »• ver»» che i fisiocratici - cioè i teorici dell 'agraria nismo del tardo 700 americano - avevano insistito sull'efficienza di una «large-sca­ le agriculture», laddove Jefferson difese sempre strenuamente la piccola fattoria a conduzione familiare come unico mezzo di pre­ servare I modi rurali, quelli che egli chiamava le «rural virtues*», le utcsM’, insomma, che leggiamo facilmente in personaggi come Mr. | teeds e Mr. Simili. Avverso all'economia di mercato, ricorda Marx, 17

L’ETÀ DELL'OCCHIO. IL CINEMA I. LA CUI I UK.A AMERICANA

«■Jefferson associates it with oppressive institutions», consideran­ dola addirittura una malattia («disease»). Essa, continua il critico, «genera folle di uomini abbrutiti che mangeranno, come un cancro, il cuore della repubblica». Il quadro è perfetto: ciò che mostra non è diverso dalle immagini di folla oceanica governata, nei più celebri film di Capra, da industriali e politicanti, vale a dire da coloro che, nelle parole di Jefferson, a differenza dal contadino («ploughman») si lasciano deviare da «artificial rules»». Ecco perché nelle comme­ die di Capra di cui stiamo parlando «le forze che rendono la politi­ ca necessaria non sono veramente americane»; ed ecco perché in Mr. Smith va a Washington il disegno del protagonista (uno spazio per i giovani) va letto come metafora del sogno jeffersoniano di un'America trasformata in giardino secondo la chiara e dettagliata indicazione fornita da Henry Nash Smith nel suo Virgin Land. Del resto, non era stato De Tocqueville a dire che la natura selvaggia era molto cara a tanti americani soprattutto per come poteva venire trasformata e utilizzata? Un sogno, certo, e non a caso gli avversari di Jefferson non di rado lo attaccarono proprio come «dreamer», un termine che qualifica altrettanto bene i Mr. Deeds e i Mr. Smith, eroi di una pastorale fondata - questa sì, e non la screwball di cui parla Schatz - su un'assenza di differenze di classe, su una perfetta relazione fra ricchi e poveri, che è in fondo per loro un postulato prima ancora che un sogno, e che è facilmente comprensibile in un'America squassata dalla Depressione. Ciò che mi interessa ora osservare è la descrizione del personag­ gio in questo tipo di cinema. Certo, si tratta sempre di un incontroscontro fra sessi, ma mentre nella donna di Hawks emerge subito una componente bizzosa e/o nonsensical che gli viene evidente­ mente dalle sue radici angloceltiche, in Capra si legge bene l'emi­ grato meridionale affascinato dalla donna emancipata, autonoma e concreta del nuovo continente, che della screwball è forse la compo­ nente più originale e caratterizzante. Come spesso accade, insom­ ma, è proprio lo «straniero» a cogliere dalla sua posizione distacca­ ta e lontana i valori più marcati della civiltà che lo ospita. Lo stesso avviene con i personaggi maschili: sia in Hawks che in Capra (ma­ gari con l'eccezione del Clark Gable di Accadde una notte) l'uomo è un ingenuo e un bonaccione, un credulone e un sognatore. Ma mentre nel primo queste caratteristiche fanno parte dell'universo autoriale del regista a livello di «carattere», in Capra esse si allarga­ no sino a coincidere con una visione politica del mondo. Il loro ar­ chetipo affonda le sue radici nello stage yankee di Royall lyler 11787), quel Jonathan che mescola insieme furberia e ingenuità proia

FRANK CAPRA E L'INVENZIONE DELLA «SCREWBALL COMEDY»

prie come Mr. Deeds e Mr. Smith, e il cui semplice ed efficace spiri­ to di “uomo comune» riesce sempre a prevalere sulle «artificial ru­ les» dei campioni cittadini. In questo modo gli eroi capriani anni '30 diventano i portavoce di tutta una nazione, laddove quelli di I lawks rappresentano soltanto se stessi o al massimo un tipo uma­ no. I due hanno forse in comune la credenza in quel rigido sistema Ji valori che insiste sul ruolo dell'uomo nella società e che la donna regolarmente frustra con la sua intelligenza, la sua fantasia, la sua ironia. Ma è anche vero che la commedia politico-sociale capriana degli anni '30 sembra fondarsi su questo modello meno della screwball canonica, e anzi - ancora una volta - la vera differenza è che Capra costruisce i suoi personaggi femminili all'insegna di un di­ scorso sostanzialmente morale, come individui che hanno abbrac­ cialo l'etica della rat race inaugurata da una società patriarcale e t hè, prima di ogni altro e spinti dall'amore che è nella loro natura, arrivano a rifiutarla quando vedono a che estremi essa possa giun­ gere una seconda crocifissione di Cristo, come in Arriva John Doe. La com media capriana anni '30, dunque, mantiene per certi versi il passo freewheeling della screwball: gli eventi vi si accumula­ no a un ritmo concitato, il dialogo vi si adegua immediatamente, e nel l'insieme vi si coglie molto presto la sensazione di un meccani­ smo che, messo in movimento, pare alla fine inarrestabile. Si pensi, m Mr. Simili va a Washington o in Arriva }olm Doe, ai tempi brevissi­ mi - verrebbe da dire: sincopati - che ritmano le parole e le prese di posizione dei protagonisti da un lato e le risposte subito orga­ nizzate ed esposte dalla controparte; si pensi al vertiginoso susse­ guirsi di informazioni scritte, titoli, dissolvenze che commentano scelte e avvenimenti. La screwball, tuttavia, è un'altra cosa: essa si sviluppa in un am­ bilo che non è pubblico (persino quando i protagonisti sono perso­ naggi pubblici, come in Ventesimo secolo), per la semplice ragione che I suoi personaggi non incarnano alcunché di realistico ma inten­ dono programmaticamente proporsi come bigger (o magari smaller) than life. Il suo universo si fonda su strette leggi di causa ed effetto, ma sempre partendo da una premessa (una frase, un gesto, una si­ tuazione) assurda, o quantomeno da un dettaglio occasionale desti­ nalo a lai ingigantire ed esplodere il funesto e comicissimo destino del protagonista. Macchina di precisione, la screwball non intende minimamente sollecitarci e commuoverci, svegliare in noi un senso di giustizia o una identificazione sociale: ciò che invece avviene per antonomasia nei classici capriani anni '30. Ma quei che importa è i. he persino nella pellicola di Capra additata a Ionie della screwball, 19

l’età dell'occhio, il cinema e m cultura americana

Accadde iuta notte, succede qualcosa del genere: il viaggio della bella ereditiera e del cronista lungo un'America di derelitti e diseredati mette perfettamente a confronto due modi di vita e di mentalità, due realtà nazionali inadeguabili, collegando mirabilmente il diver­ timento fornito dall'occasione di queirinusitato e implicito corteg­ giamento e lo sfondo di una nazione duramente provata dai tempi. La screwball, invece, si porta dietro qualcosa di metafisico, ambienti e personaggi che non chiedono alcuna credibilità e che anzi vivono proprio di questa loro lieve venatura surreale, esibizione di piccole follie da parte di qualunque personaggio, anche di quelli che, come gli anziani, tradizionalmente hanno sempre incarnato i valori della saggezza e del decoro. Insomma, l'universo della screwball è carne­ valesco; al contrario, quello messo in scena da Capra, anche nei suoi pochi film in qualche misura etichettabili come screwball, sottosta a ferree leggi relative ai rapporti di potere e talora mostra un capo­ volgimento - che peraltro non ha nulla di assurdo, ma indica l'im­ probabile vittoria di un altro ordine, più sano, generoso, democrati­ co - soltanto nell'ultima scena e comunque in modo aleatorio. Nemmeno un personaggio come il «colonnello», in Arriva John Doe, può essere ascritto alla componente screwball della tradizione cine­ matografica nella quale opera Capra. È vero che egli incarna i valo­ ri della fantasia e della libertà da qualunque legame sociale, ma è anche vero che tali valori non vigono di per sé, bensì solamente in quanto antitesi al discutibile circo messo in piedi da industria, poli­ tica e mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio). Nel mo­ mento in cui la storia del film si struttura come opposizione di valo­ ri antitetici lo spirito sbarazzino della screwball non può che venirne sacrificato. È, fra l'altro, ciò che ha capito negli stessi anni uno sce­ neggiatore come Preston Sturges, il quale in Nulla sul serio, diretto da William Wellman, sacrifica volentieri il mito capriano della small town allineando sullo stesso scaffale due disonestà - quella rurale, appunto, e quella metropolitana, delle quali la prima è certo la peg­ giore proprio perché infrange un mito che gli Stati Uniti coltivano da secoli - portando finalmente agli estremi limiti lo scetticismo che, come si diceva, è il sale della screwball. Sarà proprio Sturges, soprattutto nei film da lui diretti negli anni '40, a sviluppare in ter­ mini personalissimi il discorso pirotecnico della screwball comedi/, continuando la sua tradizione di ritmo e vivacità, ma immettendovi regolarmente finissime riflessioni su miti, pregiudizi, debolezze na­ zionali. A differenza di Capra, tuttavia, Sturges - che, in quanto au­ tore anni '40, partecipa, certamente a suo modo, della tendenza in­ trospettiva di quel decennio - non I rateerà demarcazioni alquanto 20

FRANK CAPRA E L’INVENZIONE DELLA «SCREWBALL COMEDY»

dure e nette sui confini del campo che vede la lotta fra i principi della democrazia e chi li sfrutta a proprio vantaggio, e sceglierà in­ vece di mostrare questo scontro nella normale vita quotidiana dei suoi risibili eroi, che, un po' come quelli di Capra, sono destinati al­ la sconfitta se, oltre a vederli con grande piacere e divertimento sul­

lo schermo, non saremo anche e soprattutto capaci di ascoltarli, fa­ cendo tesoro delle loro vicissitudini che ancor oggi sono le nostre.

Non HI HI II GRAFICHE

L’affermazione sulla

screwball

come commedia della «riconciliazione delle

Hollywood Genres. The University of screwball in quanto determi­ nata primamente dalla forma della commedia è di Stuart Kaminsky, American I tini Genres, Laurel-Dell, New York 1977; la definizione di screwball come

differenze di classe» è di Thomas Schatz,

Texas al Austin, McGraw-Hill 1981; quella sulla

-fantasy of upper-class freedom», cosi come quella sulle intenzioni edificanti

>11 Capra, si trova in James Harvey, Romantic Comedy, Knopf, New York 1987; Li differenza fra pastoralismo e agrarismo è chiaramente espressa, unitamen­

te ad ampi stralci del pensiero di Jefferson, in Leo Marx,

The Machine in thè

Garden. Oxford

UP, New York 1967; l’idea jeffersoniana di un'America tra­ sformata in giardino è ampiamente trattata dal noto studio di Henry Nash

Viryin Land. The American West as Symbol and Myth, Harvard UP, Cam­ bridge 1970. mentre la riflessione sulla trasformazione della wilderness è nel fondamentale volume di Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Riz­ Smith,

zoli. Milano 1997.

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La frequentazione delle tenebre: Orson Welles fra Ismaele e Barnum

È facile - e lo si è sentito fare spesso - leggere nell'opera filmica di Orson Welles l'influenza della cultura europea: espressionismo, esistenzialismo o altro sono di casa nell'autore di // processo, i cui tor­ mentati rapporti con il sistema produttivo hollywoodiano sono stati intesi come una prova a posteriori della sua vocazione non americana. In realtà vi sono altrettante e forse più solide prove di una vera e propria filiazione dell'opera di Welles dall'alveo della più rappre­ sentativa cultura americana; anche se, trattandosi di una figura tan­ to controversa, tale filiazione non può non emergere contrastata, contraddittoria sul suo stesso terreno di crescita. Per molti versi Welles risponde pienamente a una certa immagine dell'artista ame­ ricano: gigantesco, sovracuto, ambizioso, giocoliere, truffatore, un con niait del cinema in tutti i sensi. Welles è un bugiardo, una ma­ schera: tutti i personaggi che ha interpretato nei suoi film sono sempre stati o interrogativi o ambigui o comunque «mascherati», da Kane a Kindler, da Arkadin a Quinlan, da Hastier a Falstaff, da Clay a - naturalmente - se stesso in F for Fake. Così, Welles si pre­ senta come l'«lntrattenitore», l'uomo della scena, imprevedibile pen hé pieno di ruoli, di volti che portano sempre a lui stesso. 1 suoi antenati sono certi giullari da battello fluviale, certi imbonitori con Itale d'acqua sporca. La sua fine, forse, quella del truffatore impe­ cialo e impiumato: la line, cioè, del trickster, del coyote ingannatore della leggenda pellerossa, poi passata dritta dritta nella cultura americana bianca nella torma, appunto, del con man. Welles è Tho­ mas Wolfe, è il suo gigantismo, la sua voracità culturale e fisica; è William Faulkner, con la sua capacità di imbrogliare programmati­ camente i dall che presenta; è Mark Twain, col suo umorismo mez­ zo nero e mezzo scanzonato; è I lerman Melville, con la ricchezza simbolica della sua concezione dell'arte; è Nathaniel Hawthorne,

L'ETÀ DELL'OCCHIO. IL CINEMA I. LA CUI IDRA AMERICANA

con il goticismo di certi suoi ambienti familiari, col suo incombente senso del Male e dell'ineluttabile. Welles è artista americano perché dell'America ha colto queste e altre facce, perché ne ha vissuto le contraddizioni con un sorriso, descrivendole al tempo stesso in mo­ do drammatico. Sono queste le eterogenee componenti dell'arte americana, e sono le stesse dell'arte di Welles. Va da sé, comunque, che le sue prime opere (diciamo pure: quelle «americane») sono più interessanti in questo senso di quan­ to non lo siano quelle posteriori, concepite e girate (quando Welles ebbe la fortuna di poterlo fare) all'estero, in un ambiente sempre più lontano da quello nativo nel quale il suo genio si era sviluppa­ to. E dunque è a quelle prime opere che sarà bene fare soprattutto riferimento, evitando così la complessa operazione di scrematura, di setacciati!ra che quelle posteriori richiederebbero a chiunque si apprestasse a investigarne l'«americanità». Ovviamente questa matrice è visibile a occhio nudo in alcuni atteggiamenti di Welles e in alcune costanti del suo cinema: il fascino che hanno per lui l'im­ bonitore (o meglio, l'artista in quanto tale) e lo story-teller è certo qualcosa di connaturato all'ardma americana almeno dai tempi dei millantatori e dei vaccari del Sud-Ovest, come del resto è magnifi­ camente documentato dallo straordinario Orson Welles: The OneMnn Bond di Vassili Silovic e Oja Kodar. Tralasciando la sua versione radiofonica di Huckleberry Finn, ti­ tolo già di per sé non poco eloquente, è altrettanto vero che la sim­ patia di Welles per un classico come Moby Dick riguarda non solo il teatro, ma anche il cinema, come testimonia il progetto coltivato sin dagli anni '40, realizzato però solo dieci anni dopo da John Hu­ ston: la simpatia appare non casuale, così come del resto il ruolo di Welles in quella pellicola. È noto che era stata per lui ventilata la parte di Ahab e che Hu­ ston (un altro regista non poco americano dietro la sua superficie intellettualistica) gliela negò sostenendo che una balena nella pelli­ cola sarebbe stata sufficiente. Welles dovette ripiegare su Father Mapple, un ruolo che giustamente Joseph McBride reputa la cosa più bella da lui mai recitata in un film diretto da altri. È proprio da questo ruolo che può essere utile partire per comprendere gli a vol­ te sottili ma sempre fortissimi legami che stringono in un unico vo­ lume il cinema di Welles e la grande tradizione culturale americana. Si ricorderà che il personaggio di Father Mapple, come scrive I larry Levin nel suo bellissimo The Tmoer of Blockness, «ha una sua saporosa eloquenza, che è poi quella di Melville». A noi viene da aggiungere senza indugio: e di Welles, sottolineando che la scelta

ORSON WELLES FR A ISMAELE E b.ARNUM

di Huston nei suoi confronti non fu poi tanto peregrina e che, do­ potutto, fra Welles e il più sensibile ed energico scrittore della lette­ ratura americana corre una certa somiglianza. Tuttavia sarà anche bene ricordare che nel suo superbo sermone Father Mapple, fra le altre cose, impartisce una splendida lezione sull'attrezzatura delia nave come metafora. In effetti, il religioso di Melville non è qui idealmente molto distante dallo svolgere il ruolo di regista cinema­ tografico, indicando come ciò che pertiene alla scena invero dispie­ ghi una significazione altra. Mapple insomma sta parlando di cine­ ma; o per meglio dire, sembra proprio che Welles ne interpreti non casualmente il ruolo in quanto regista, esteta, uomo di spettacolo. Questa identificazione trova ulteriore conferma nella conclusio­ ne del sermone, che pare alludere alla vicenda personale del regista transfuga e sfortunato a causa della sua intelligenza e dell'integrità della sua visione: «Gloria a colui che, indifferente alle vane divinità e ai potenti di questo mondo, oppone loro la propria inesorabile, poderosa identità!» Persino i detrattori di Welles saranno d'accordo nel l'ammettere che non esiste regista americano più fedele di lui al­ la propria identità. Pure, questa è un'affermazione paradossale se si tiene conto di quanto la maschera giochi un ruolo nella sua arte; a un punto tale che non è affatto impossibile leggere il suo cinema, dall'inizio alla line, in una chiave di prestidigitazione, di magia (magic è secondo l’editore dell'ottimo studio critico di James Naremore il mondo di Welles). Al regista piaceva passare per una sorta di incantatore, più vicino però a un con man che a un mago, a Cagliostro più che a Mer­ lino. È Susan Kuhlmann a ricordarci che la vita della frontiera, i mo­ di e le forme in cui essa si era di necessità sviluppata, avevano favo­ lilo la nascita e lo sviluppo di quella tipica figura americana, il con mini, cui Melville aveva dedicato un volume (The Confidence Man, appunto), e che la retorica intesa come una sorta di bene commeri labile fu, nelle parole di un altro studioso che ha affrontato l'argo­ mento, Gary Lindbergh, «il comun denominatore del pionierismo western e dei giochi d'imbroglio». Tanto basta, credo, per rintraccia­ re ni questo atteggiamento wellesiano una matrice che viene dritta da un pagina speciale e unica della storia e della cultura americane. I in questo quadro, tradizionalmente ascrivibile all'area dell'umoriMtu» statunitense, che ritengo vada inserita l’inclinazione narrativa di Welles per il modello narrativo dello yarn tipico del New En­ gland che, come nota il francese Daniel Koyot, è di natura digressi­ va in quanto «'descrive, per esempio, i movimenti dei personaggi senza che I dettagli che esso fornisce abbiano un diretto legame con 25

L’ETÀ DELL’OCCHIO. IL CINEMA E LA Cittì LIRA AMERICANA

la trama della storia». E continua: «Nella sua maniera deviata, esso sembra in certi momenti fuorviare il lettore o il suo ascoltatore». So bene che attribuire a un qualunque regista cinematografico questa caratteristica, che il critico francese definisce così perfetta­ mente, significa accusarlo del peggiore peccato che è possibile commettere dietro a un macchina da presa, eppure mi sembra che, poniamo, un film come Rapporto confidenziale risponda bene a que­ sta definizione. Tuttavia, non solo esso vi risponde, ma il regista è così abile da far sì che la digressione diventi una dominante dell’e­ lemento visuale a un punto tale da essere di per se stessa ragione sufficiente della propria presenza sullo schermo. La presentazione dei vari personaggi ripescati per il mondo da Van Stratten fra le nebbie del passato vanta ogni volta una tale qualità barocca da at­ trarre e concentrare su di sé la nostra attenzione di spettatori senza che quei modi di presentazione debbano necessariamente giustifi­ carsi in relazione allo sviluppo della storia. È la grandezza del vero artista, la sua capacità di creare un quadro e un mondo autosuffi­ cienti nei quali naturalmente è da leggere una vicenda che riguarda tutti, ma che non deve avere necessariamente la logica e l'economia cui siamo abituati quando assistiamo alla rappresentazione di una storia che si suppone «universale». Non vorrei d'altra parte che questa componente sostanzialmente umoristica - la quale peraltro trova ulteriore aspetto nel gusto wellesiano per il trucco del volto e del corpo - mettesse in ombra altre influenze della cultura nazionale sulla sua opera. Ve ne sono infatti alcune di importanza forse anche maggiore. Intanto quel contrasto fra responsabilità personale e individualismo che Sacvan Bercovitch indica come la base dell'ideologia puritana: in fondo potrebbe esse­ re un'ottima e concisa definizione dello sfondo su cui si agitano i vari problemi dibattuti in Quarto potere, in L'orgoglio degli Amberson, in Rapporto confidenziale, per non parlare di Macbeth e di // processo. Questo scontro di carattere etico è in fondo lo stesso che in epoca ampiamente postrivoluzionaria si trovò a vivere l'America conser­ vatrice che si identificava nell'ideologia e nella cultura meridionale. Il mito agrario, medievalista e romantico, che essa incarnava e di cui per certi versi viveva, era, nelle parole dello stesso Bercovitch, «fon­ damentalmente opposto all'ermeneutica dell'identità puritana ame­ ricana». Più in particolare, la sconfitta del Sud comportò un ripiega­ mento regionale verso una vagheggiata identità europea che deli­ nea bene i due termini di confronto che agitano un personaggio co­ me Welles. Non. si baili, pen he Welles avesse in qualche modo ab­ bracciato l'utopismo agrario meridionale. Ciò che voglio dire è che

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le due componenti - l'utopismo radicalmente innovativo del purita­ nesimo, che giostrava fra un'etica individualistica e una morale ri­ gorosamente ancorata al problema della colpa, e l'utopismo aristo­ craticamente rivolto verso il vecchio mondo che il Sud aveva scelto dopo la vittoria yankee - sono i due poli della sua personalità di in­ tellettuale; talché la stessa sua componente europeistica si inscrive dopotutto in una dialettica culturale squisitamente americana. In questa chiave giova non poco ricordare la distinzione auerbachiana fra tipo e simbolo e la resistenza che la cultura americana vi ha opposto. 11 simbolo infatti è «una diretta interpretazione della vita», laddove il tipo, essendo una profezia figurale, «si riferisce a un'interpretazione della storia». Si tratta insomma di una distinzio­ ne fra il semplice prodotto dell'immaginazione individuale e quel­ lo che rimanda a un «disegno sacro» indipendente dall'individuo. Ciò che mi sembra appartenere in Welles al registro del tipo e non del simbolo è il forte senso del destino, l'iscrizione del raccon­ to in una cifra che lo trascende e lo moltiplica, la pensosa lezione , he la storia e la politica infliggono a chi sa già tutto di esse eppure è tanto umano da lasciarsene ancora e sempre ferire {FuIstaff rima­ ne in questo l’esempio più alto), la forma di parabola attribuita sia alla condizione del carnefice che a quella della vittima. Si sente in­ somma come in Welles il mondo simbolico personale prema con (orza per reinsediarsi nel luogo che l'ermeneutica puritana aveva । iservato alla storia e al suo senso, o quantomeno al suo modo di proporsi. A Welles non basta un pur ricco universo autoriale, una lussureggiante visualità densa di allusioni e significazioni. Come ogni letterato americano di primaria grandezza, anche Welles si è sempre rifiutato di attenersi a una definizione chiara e precisa di Bene e di Male. «Materialista convinto, preferisce insiste­ re sulla psicologia del crimine che sull'etica della colpa», ha scritto I evin di Poe, e sono parole che vanno abbastanza bene anche per Welles, con la differenza che questi per psicologia del crimine inten­ de non tanto il funzionamento di una mente criminale quanto i ri­ svolti criminosi di qualunque individuo e di qualunque società. Certo, vi sono anche gli innocenti, ma intelligentemente Welles non li ascrive a un astratto ambito di bene, non ne fa agnelli immacolati e Mtcrilicali. Il Michael O'I Lira di La signora di Shangai non è corrotto tenne gli aliti personaggi del film, ma il suo reale, oggettivo carico di colpa se lo porta addosso ugualmente. E del resto, dopotutto non e lui il protagonista della pellicola, ma poco più che il suo narratore. Welles non cerca tanto una definizione dell'eterno quanto un aggancio con esso, il segreto che la del racconto un modello para­

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digmatico delie leggi che regolano il mondo stesso. La trascenden­ za dell'accidentalità è certo qualcosa che accomuna molti artisti di ogni latitudine, ma l'americanità di Welles in questo senso si rin­ traccia in una tendenza, molto emersoniana, a far sì che «il fatto medii fra una storia che redime e il sé» (Bercovitch). È insomma una problematica squisitamente nazionale quella che tenta una conciliazione fra individualismo e teleologia della storia. Welles ondeggia fra questi due estremi, non rinuncia alla centralità della propria personalità d'artista, ma nemmeno si sbarazza di una spe­ ranza metafisica nei confronti della storia; e quello che potremmo definire il suo «materialismo intellettuale» equivale, sul terreno della cultura nazionale, a quello che Ursula Brumm ha chiamato «simbolismo tipologico», cioè quella sintesi di contrari che caratte­ rizza non pochi esiti della cultura e della letteratura d'oltre oceano. Emerson è anzi, da questo punto di vista, una figura molto vicina a quella di Welles. A questi infatti si attaglia perfettamente ciò che Bercovitch ha scritto dell'altro, e cioè che «nella misura in cui ha echeggiato i romantici europei, si può dire che abbia posto un dop­ pio standard di identità personale, americana e non americana». È molto evidente la contraddizione di Welles fra ricerca di una metafisica della storia e continua disillusione nel corso della stessa ricerca. Per lui, come per Emerson, «la storia è un'allegoria evane­ scente, e si ripete sino al tedio, milioni di volte». Sembra la morale di Storia immortale e forse ancor più di F for Fake, opere che nascono come teoremi della contraddizione. Sia chiaro, in Welles non si trat­ ta di superare la contraddizione con una superiore scrollata di spalle; non si tratta di rimandare alla sprezzante, provocatoria non­ curanza di Walt Whitman («Mi contraddico? Ebbene si, mi con­ traddico. Sono abbastanza grande da contenere moltitudini»). No, con Welles la contraddizione fa parte del gioco, per certi versi essa è il gioco. E lo è allo stesso modo in cui lo è stata nei maggiori rappre­ sentanti di quella cultura derivata dalla grande lezione puritana. Ancora una volta scrive Bercovitch:

Lo stesso mito puritano, adattato volta a volta in modo diverso, in­ coraggiò Edwards a porre sullo stesso piano conversione, commer­ cio nazionale e i tesori di una terra rinnovata; Franklin a registrare la sua ascesa verso la ricchezza come la rivendicazione morale della nuova nazione; Cooper a sommergere il dramma storico della fron­ tiera nella qualità eroica della natura americana; Thoreau a dichiara­ re la fiducia in se stessi un modello economico dell'-unica vera America- I loratio Alger a esaltare il conformismo come atto di su­

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premo individualismo; e Melville, in Moti/ Dick, a creare un eroe epico che rappresenta al limite sia le rivendicazioni dcH'isolamento romantico che la spinta del capitalismo industriale.

L'esempio melvilliano è di certo quello che trova più consonanza con l'opera di Welles. L'isolamento romantico e la spinta del capitali­ smo industriale non sono forse i due contrari che film come Quarto potere, L'orgoglio degli Amberson e, per certi versi, anche Rapporto con­ fidenziale esemplificano trionfalmente? A loro modo i protagonisti di Quarto potere e Rapporto confidenziale sono ulteriori versioni di Ahab, inteso, nelle parole di Francis Otto Matthiessen, come «un temibile simbolo di quel chiuso individualismo che, portato ai suoi estremi, attira la catastrofe tanto su se stesso che sul gruppo di cui fa parte». E dunque quel satanismo che pervade non solo Moby Dick ma gran parte della storia del «rinascimento americano» è eredità cui Welles attinge a piene mani. Ma non si deve fraintendere: la tradizione americana non è fatta di semplici scrittori gotici, di irrazionalisti de­ diti al culto dell'ombra. A) contrario, almeno a partire da Charles Brockden Brown si è sempre trattato di una vocazione razionalistica lesa a illuminare le tenebre. La frequentazione delle tenebre, dun­ que, non appartiene soltanto agli animali notturni: Hawthorne e Poe sono fra gli antenati di Welles che questi, esteta del peccato (Levin) come il primo e mistificatore adolescenziale attratto dai puzzles (T. S. Idiot) come il secondo, emula in chiave novecentesca. Questo mi sembra il tratto più vistoso dell'opera wellesiana, un 'goticismo teso verso un'inchiesta curiosa sui recessi delle tenebre. In fin dei conti ecco ancora un rimando emersoniano: vi sono realtà na­ scoste che noi siamo chiamati a leggere come geroglifici (ricordate ( Gordon Pym?) nel tentativo di discernere analogie e richiami di un universo perfetto e complesso. Questo universo non coincide, in Welles, con la Natura che dà il titolo al celebre saggio di Emerson cui alludo; anzi, è una realtà urbana, caotica, in continuo sviluppo, la realtà di una nazione che si sta allontanando sempre più dall'ideale «gricolo jeffersoniano per assumere - come soprattutto L'orgoglio de­ l’ll Amberson testimonia - un diverso statuto etico-sociale. Ma è pur sempre lo stesso atteggiamento di vigile attenzione in funzione di una rigorosa lettura che Welles richiede a volte ai suoi personaggi e sempre, implacabilmente, al suo pubblico, come nel caso paradig­ matico (perché fondato esso stesso su un'inchiesta) di Quarto potere. Si traila tuttavia di una lettura che è usualmente di facile decifra­ zione: come il significato di «Rosebud» (a proposito. Rosebud è anche il nome di una nave francese incontrata dal l’equod in Moby Dick} e il

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colpevole di L'infernale Quinlan, ciò che si ricerca è sempre sott'occhio, anzi è tanto sott'occhio da non essere visibile, esattamente come la celeberrima lettera rubata di poesca memoria. Solo che nel prosie­ guo di questa ricerca la realtà lascia affiorare quegli insospettati ri­ svolti della verità che ben più della rivelazione finale (ove vi sia una rivelazione finale) sono quel che i film e il loro autore hanno da dirci. È evidente: non ha la minima importanza venire finalmente a conoscenza dell'identità dell'assassino in L'infernale Quinlan; quel che importa sono le complessissime implicazioni che questa inchie­ sta ha mostrato in relazione al Bene, al Male, al passato, alla verità, alla menzogna, al caso e al destino. Un po' come in Poe, il fatto che il prigioniero di // pozzo e il pendolo si salvi o no è di relativa impor­ tanza (a parte il ruolo che tale salvezza assume ai fini della storia che diversamente nessuno racconterebbe: ma dopotutto non sotto­ valutiamo le capacità narrative degli inquisitori...), e quel che con­ ta sono le elucubrazioni del protagonista inchiodato a quel suo let­ to di tortura, ciò che esse gli fanno balenare nella memoria e da­ vanti agli occhi della sua mente laboriosa; alio stesso modo il per­ corso di Welles è molto più rilevante della sua mèta, il viaggio più del suo obiettivo finale. Questo viaggio non di rado dispiega le sfu­ mature (o ben più di esse) del processo arbitrario, della condanna ingiusta. V'è in Poe come in Welles una sorta di paranoia calcolata e organizzata. Essa è certo centrale in li processo e Otello, ma in mo­ di più sottili non è meno presente in Rapporto confidenziale, La signo­ ra di Shangai e L'infernale Quinlan. Anzi, la si può leggere anche in Quarto potere e Lo straniero, dove peraltro appare molto indebolita: nel primo caso dal fatto che Kane è un personaggio titanico e che comunque è già morto quando incomincia l'azione di scavo nei suoi confronti (essa incomincia proprio perché lui è morto); nel se­ condo caso perché il protagonista non appartiene al registro del­ l'ambiguità - come è di rigore con i grandi personaggi wellesiani ma è un villain identificato col peggior crimine del nostro secolo: l'efficace atmosfera di paranoia creata in lui e attorno a lui non può che trovarci entusiasti e soddisfatti. Sia Poe che Welles costruiscono questa atmosfera con il gioco dei chiaroscuri, con il suggerimento indistinto della sensazione del Male (l'avrebbe fatto in modo ben più sottile anche un altro grande scrittore americano, Henry James), con l’astratta riflessione della mente unita a immagini di carattere sepolcrale o comunque nottur­ no, con rivelazioni inattese intese a costruire una tensione non solo in relazione all'azione ma anche ai personaggi coinvolti. I natural­ mente con la maschera.

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Arrivati all'argomento della maschera in Poe è di prammatica ci­ tare La maschera della morte rossa (come tutti sanno, il titolo allude peraltro a un genere letterario, non a una maschera), ma mi sembra che, anche più di questo racconto famoso, Re Peste dispieghi una figuralità non dissimile dalle splendide scene carnevalesche nel ca­ stello di Mr. Arkadin (il carnevale essendo un momento topico an­ che in Poe), ben lontane dalla gioiosa spensieratezza che associamo solitamente all'idea di festa e invece minacciose, lugubri, grottesche come l'idea stessa di morte e dannazione che esse incarnano in Poe. E poesca è la cupa storia dei pescecani in La signora di Shangai o, in certa misura, quella dello scorpione e del ranocchio (per non di­ re di quella delle iscrizioni sulle lapidi del cimitero) in Rapporto confidenziale. Non sottolineerò l'interesse di Welles verso il mondo animale come ulteriore prova della sua americanità, anche se è ve­ ro che sin dalle origini (nelle prediche di Jonathan Edwards, ad esempio) la fauna è stata una magnifica riserva di caccia non solo per trappers, coloni e naturalisti come Audubon, ma anche per l'ar­ te e l'immaginario americano, da James Fenimore Cooper a Joel Chandler Harris, da Mark Twain a Ernest Hemingway, da William I aulkner al contemporaneo Thomas Pynchon. Più interessante è invece ricordare, sulla scorta di Lewis Mumford, che la componente gotica, il terrore, l'ombra, la crudeltà derivano dall'esperienza pionieristica, dalla vicenda di una nazione che ricomincia daccapo ad affrontare la natura e i suoi pericoli in un quadro che è selvaggio anche nei rapporti fra uomo e uomo. L'azze­ ramento della storia - dato costitutivo della cultura americana - e piu largamente il problema del tempo sono la componente metafisi­ ca di maggiore presenza e urgenza nel cinema di Welles. In esso in­ tatti l'immagine stessa dell'orologio si carica di significati simbolici che vanno oltre la singola situazione della scena, proponendosi co­ me dominante generale, struttura di riferimento del suo cinema. I a nozione di tempo e il suo meccanismo di misurazione, l'orolo­ gio. sono per Mumford di Technics and Civilization gli araldi dell'av­ vento della Macchina sulla scena industriale, e anzi a suo avviso «l'o। elogio, non il motore a vapore, è la macchina-chiave della moderna era industriale» (ma su questo argomento ha pagine interessantissi­ me anche Michael O'Malley nel suo Keeping Watch. A History of Ame­ rican Lime). Questo, va da sé, si attaglia perfettamente al problema agitato da una pellicola come L'orgoglio degli Amberson, dove non c'è dubbio, sempre per dirla con Mumford, che «il lato meccanico dell'uomodcl Nuovo Mondo ha avuto la precedenza su quello romanti< o- Ma d'altra parte, secondo l'aurea «imbivalenza (o ambiguità, se si 3/

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preferisce) wellesiana, è proprio un orologio - cioè l'immagine del Moderno - a far vendetta del turpe nazista in Lo straniero riscattando in una nemesi non poco simbolica il calco che il regista ha ripreso an­ cora una volta da Poe (nella fattispecie, il racconto La falce del tempo). Scrive un commentatore di Mumford, Thomas Reed West: «L'o­ rologio stabilisce il tempo astratto e il tempo astratto rende resi­ stenza intelligibile alla mente e ai fini della scienza moderna». La «morale» metafisica di L'orgoglio degli Amberson è tutta in queste parole. Ma è pur vero che la scienza moderna mostra un'imperso­ nalità e un volontario isolamento, nonché una repressione delia vi­ ta soggettiva che, secondo l'ultimo Mumford, potrebbero portarci alla catastrofe nucleare. In questo senso il finale di // processo non è solo in linea con il pensiero di Mumford, ma corrisponde perfetta­ mente, nel sistema della filmografia wellesiana, a un preciso grado nello sviluppo del pensiero del regista. Isolamento, impersonalità, antisoggettività: Il processo di Kafka ne è pieno, ma l'allusione al nucleare, se c'è, è ovviamente solo e soltanto di Welles, che, come Mumford, ha tratto alle estreme conseguenze ciò che il cambia­ mento del mondo dopo il boom della macchina - trattato in L'orgo­ glio degli Amberson - aveva portato. Welles dunque mostra a ogni passo della sua attività registica le radici che lo legano alla cultura nazionale da cui proviene. Uomo del '900, egli ha ovviamente rivisto alcune delle credenze di questa tradizione che la storia ha dimostrato false o inesatte. Ad esempio, egli non crede affatto all'America come Eden agrario al quale l'ur­ banizzazione avrebbe portato una perdita d'innocenza: se infatti L'orgoglio degli Amberson potrebbe figurare come prova, sia pur in­ diretta, di un pensiero del genere, di certo L'infernale Quinlan funge da ottima, anche se altrettanto indiretta, smentita. Ancora e sempre Welles non denuncia posizioni nette, credenze precise, ruoli adamantini. A metà fra Kane e il mondo, fra il culto di sé e la necessità della morale, Welles potrebbe far suoi i versi del secentesco americano William Goodwin: «Unto myself my Selle Mv Selfe Betrav/1 cannot live, with nor without my Selfe». È il de­ stino del vero uomo di spettacolo, dell'impersonatore di tante par­ ti; non solo di ruoli, ma anche di pensieri, credenze, idee, posizioni. La fantasia dell'artista ha mille volti, mille maschere: come richie­ derne coerenza, consequenzialità al di fuori dal tessuto dell'opera, soprattutto se, come nel nostro caso, l'artista è erede di una tradi­ zione che appare essa stessa fondata su delle contraddizioni? I la scritto molto bene Levin che «la cultura che ha reso Melville un Ismaele ha fattodi Barnum un milionario». Denaro a parte, Wel-

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les è stato tutti e due, un artista e un uomo di spettacolo: il suo destino e la sua grandezza sono stati molto più simili a quelli del primo (un giorno, anzi, salterà fuori anche per lui un postumo Billy Budd, ne siamo certi). Se imbonitore è stato, la sua cultura e il suo pensiero hanno fatto dell'intrattenimento il prodotto di una riflessione che partecipa della grande tradizione americana da cui deriva.

Note bibliografiche

L'affermazione di Joseph McBride sulla performance di Orson Welles in Moby I hck si trova nel suo OrSflrt Welles, Milano Libri, Milano 1979; i vari riferimen­ ti a Harry Levin e a quel che egli scrive su Hawthorne, Poe e Melville sono contenuti nel suo The Power of Blackness, Knopf, New York 1970; lo studio cri­ tico di James Naremore, The Magic World of Orson Welles, Southern Methodist UP, Dallas 1989 (trad. it. Orsoi: Writes ouzwo la magia del cinema, Marsilio, Ve­ nezia 1993) è a mio avviso il miglior libro pubblicato sino ad oggi sul regista; il volume di Susan Kuhlmann si intitola Knave, Fool and Genius, The Univer­ sity of North Carolina Press, Chapel Hill 1973, ed è uno studio della figura del con man nella narrativa americana del secolo scorso; sullo stesso argo­ mento è anche il volume di Gary Lindbergh, The Confidence Man in American I ilerature, Oxford UP, New York-Oxford 1982; il libro di Daniel Royot, L'hnmour américain, Presse Universitaires de Lyon, Lyon 1980, è uno studio dell'u­ morismo americano dalle origini al pieno '800; il giustamente celebre saggio di Sacvan Bercovitch è Puritan Origins of the American Self, Yale UP, New Ha­ ven-London 1975, e in esso si ritrovano anche le affermazioni di Erich Auerbach su ’«tipo*» e «simbolo», nonché il riferimento al lavoro di Ursula Brumm sulla tipologia religiosa e il pensiero americano, e anche la frase di Emerson sulla storia; il fondamentale libro di Francis Otto Matthiessen, Rinascimento americano, Mondadori, Milano 1961, è ormai noto a tutti; i riferimenti all'opera di Lewis Mumford vanno, nell'ordine, a Technics and Civilization, Harcourt Brace & Co., New York 1934, e al non meno ammirevole The Golden Day, Bea­ mi! Press, Boston 1957; lo studio di Michael O'Malley, Keeping Watch. A Hi>hn y of American Time, Penguin, New York 1990, si raccomanda per l'ampia < ultiua storica, politica e sociologica sull'argomento; infine, di particolare in­ teresse si è dimostrato il capitolo dedicato a Mumford da Thomas Reed West nel suo Flesh of Steel, Vanderbilt UP, Charlotte 1967, che è un informato stu­ dio sulla letteratura e la macchina nella cultura americana. Ani he se il suo nome non è stato citato, un riconoscimento particolare, quan­ do si parla di radici culturali americane, va sempre e comunque a Leslie I ivdler per l'intera sua opera, ma soprattutto per Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano 1983.

Dipendere da estranei: Elia Kazan e la letteratura americana

Vi sono registi americani la cui matrice letteraria è più evidente di quella di Kazan (si pensi alla diretta derivazione teatrale di pres­ soché l'intero cinema di George Cukor). Ma ovviamente tale matri­ ce non è semplicemente una questione di credits all'inizio della pel­ licola. La tradizione letteraria dell'Ovest, ad esempio, preme in John Pord molto più di quanto possa testimoniare il fatto che questo o quel suo film è stato tratto da un romanzetto western di terz'ordine. Il cinema di Kazan - o almeno una certa parte di esso - denuni ia in questo senso vicinanze letterarie, echi a volte persino imprev isti, ispirazioni e influenze di autori non sempre accreditati fra i nomi in testa alla pellicola. Così in Un albero cresce a Brooklyn, che pure è tratto da un noto romanzo di Betty Smith, non è tanto questa diretta ascendenza let­ teraria che conta quanto ciò che visualmente Kazan vi ha inserito delle suggestioni letterarie che, consciamente o no, in quel momen­ to possono avere condizionato il suo operare registico. Sono questi gli anni d'oro di un connazionale di Kazan, William Saroyan, atten­ to anche se non sempre del tutto attendibile osservatore della realtà immigratoria, e più in generale sono gli anni in cui i buoni sentimenti si inseguivano a gara nelle pagine di non pochi roman­ zi, ma soprattutto sui palcoscenici teatrali (ricordate / Remember Maina di John Van Druten?). Il tema dell'immigrazione, che da sempre la critica ha indicato mine centrale nell'opera di Kazan, può anzi fornirci, in quanto sua personale ossessione, o meglio, imprescindibile componente cultu­ rale, le ragioni del rapporto che Kazan intrattiene con la letteratura americana. In certo senso lutto il cinema di Kazan è «immigrativo». Cioè a dire, è il cinema di un regista il cui occhio è sempre stato lortemvnte condizionalo dalla sua origine di immigrato. Non allu­

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do tanto a // ribelle delt'Analolia o // compromesso - i suoi due film dove il tema dell'immigrazione è più evidente - ma all'intera sua opera, la quale ha in sé, nell'insieme, una qualità «letteraria». In es­ sa si respira infatti, volta a volta, l'aria problematica e nel contem­ po ottimistica di certa letteratura anni '30, dal John Steinbeck poli­ ticamente più impegnato al contrasto di mentalità e costume fra Nord e Sud, che forse mai come durante la Depressione emerse co­ sì prorompente nel '900, anche letterario; oppure vi si sente la forte influenza del teatro contemporaneo - Kazan essendo nato, dopo­ tutto, proprio come regista teatrale - non solo in opere di diretta derivazione scenica come Un tram chiamato desiderio, ma anche in Baby Doli, non a caso tratto da una sceneggiatura originale di Ten­ nessee Williams. Paradossalmente, anzi, mi sembra molto più «let­ terario» un film come Splendore nell'erba, il cui titolo, dopotutto, è una citazione da William Wordsworth, che non La valle dell'Eden: il primo con sceneggiatura originale di William Inge (noto uomo di teatro che vi ha profuso tutte le sue personali ossessioni e sul quale torneremo fra poco per la sua capitale importanza in relazione al nostro argomento), il secondo tratto da un famoso romanzo di Steinbeck, ma in modo da coprire solo una breve parte dell'intera saga scritta dal narratore californiano. Perché, comunque, un cinema «immigrativo»? Non c'è dubbio che, un po' come la Bianche di Un tram chiamato desiderio, l'immigrato, qualunque immigrato, deve «dipendere dalla gentilezza degli estranei». Ma è anche vero che vi sono tre tipi di rea­ zione alla nuova situazione da parte di un recente ospite in un paese straniero: quella conservatrice di chi si rinchiude nelle proprie tradi­ zioni rifiutando persino la lingua del nuovo luogo; quella di chi ab­ braccia le forme superficiali della nuova cultura, dalla foggia del ve­ stiario all'ideologia sociale (se, come negli Stati Uniti, il paese ne of­ fre una); e infine quella che dopotutto ci si aspetta da una persona realmente interessata alla propria cultura e alla propria crescita, l'at­ teggiamento di chi vede nella tradizione culturale del paese ospitan­ te la vera via all'integrazione. Naturalmente non sto affermando che qualunque immigrato per essere un buon americano deve diventare un letterato americano, ma solo che vi sono livelli diversi di rappor­ to con la cultura del paese che ospita uno straniero. Da questo punto di vista l'integrazione di Kazan mi sembra per­ fetta, poiché se tematicamente - altro punto spesso sottolineato dal­ la critica - egli insiste sul «diverso», da Pinky la tiegni bianca a Ban­ diera gialla, da Barriera invisibile a Viva Zapata! su su fino a La valle dell'Eden e persino a I ronie del porto e a Fango mille stelle - e più ov­

ELIA KAZAN E LA LETTERATURA AMERICANA

viamente a 11 ribelle dell'Anatolia - dall'altro mantiene una straordi­ naria capacità di omologazione dei suoi personaggi principali a un'etica squisitamente americana: da Emiliano Zapata a Terry Mal­ loy, da Cal Trask a Chuck Glover (per non dire di Eddie e di Stahr) essi incarnano infatti un individualismo irriducibile, del tutto in li­ nea con l'ideologia di una società che ancora non voleva rendersi conto del (o forse semplicemente confessare il) grado di massifica­ zione da essa raggiunto, a sua volta e a suo modo testimoniato da Un volto nella folla. Da questo punto di vista gli eroi di Kazan - poco importa l'origine che ne denunciano i credits - sono personaggi omologhi non tanto a quelli hemingwayani, quanto a certi testardi giovani personaggi di Thomas Wolfe e, beninteso, di Steinbeck, che ritroveremo opportunamente trasformati negli stessi anni proprio in quel teatro «familiare» di Broadway che se come atmosfera gene­ rale deve non poco alle cittadine di Thornton Wilder, d'altra parte trova i catalizzatori delle delusione fornite da quell'ordine provin­ ciale proprio nella narrativa che partendo da Sherwood Anderson arriva sino a Thomas Wolfe, magari - ma solo tangenzialmente passando per certe cose di Sinclair Lewis, T. S. Stribling e persino H. I.. Mencken. Solo che gli anni in cui Kazan sviluppava la propria vocazione registica sono quelli, dicevo, del teatro familiare che dal­ lo esemplificazioni problematiche di Clifford Odets (ricordate Gol­ den Boy, di cui proprio Kazan curò una messa in scena teatrale?) si ammorbidisce, per cosi dire, nei drammi altrettanto problematici ma questa volta unicamente sul versante socioesistenziale - di un William Inge, l'erede in minore, e comunque in chiave teatrale, del­ la narrativa ribelle degli Anderson e dei Wolfe, i cui quadretti pro­ vinciali, da Picnic a II buio in cinta alle scale (rispettivamente filmati da loshua Logan nel 1955 e da Delbert Mann nel 1960), pur nella lo­ ro compiutezza e talvolta persino commozione, grondano proprio di quell'intimismo che gli Anderson e i Wolfe, ognuno a suo modo, avevano voluto programmaticamente evitare. È forse paradossale che alcuni degli autori letterari più impor­ tanti fra quelli che lavorarono al cinema di Kazan abbiano dato il meglio di sé in film che non sono tratti dalle loro opere (Steinbeck in Viva Zapata!, inge in Splendore nell'erba), laddove un autore mi­ nore come Budd Schulberg merita ammirazione per il lavoro ope­ rato sulla sceneggiatura di Fronte del porto e Liti volto nella folla più che per i suoi romanzi piu noti, certo interessanti come documenti d'ambiente e di costume, ma francamente scadenti sul versante estetico, come Dove corri, Sanimi/? e I disincantati. Solo Tennessee Williams, tra ■ collaboratori di Kazan, è riuscito a mantenere un

L'ETÀ DELL'OCCHIO. IL CINEMA E LA CULTURA AMERICANA

suo livello sia come autore che come sceneggiatore, forse perché una prima volta i due ruoli hanno per lui coinciso (Un tram chiama­ to desiderio) e una seconda perché la mano finale al suo lavoro - pe­ raltro originale e, appunto, non tratto da un suo dramma - fu data da Kazan stesso (Baby Doli). In ogni caso mi sembra proprio William Inge l'autore che meglio di altri interpreta se non le ossessioni certo le predisposizioni kazaniane. La sceneggiatura da lui approntata per Splendore nell'erba ha tutto l'intimismo tipico del suo teatro, ma - caso o intenzione - van­ ta anche qualcosa di più, una sorta di distanziazione che, dopotutto, è la stessa che ci impediva di leggere un romanzo quale Angelo, guarda il passato di Thomas Wolfe come un semplice lamento adole­ scenziale e, su un versante molto diverso, un'opera quale Ai cavalli si spara di Horace McCoy, molto più tardi ridotto per lo schermo da Sydney Pollack, come una semplice storia alla voga muckrtiker. 1 giovani, le meschinità sociali e familiari, il sesso come forza naturale che si risolve in incubo, l'ossessione del denaro, il timore della propria diversità: molti dei temi cari al suo teatro tornano qui a confermarlo, ma il rapporto fra individuo e storia che emerge dal film non consente limitazioni così precise. La «lacerazione che è in­ sieme privata e pubblica» prodotta dai feticci del denaro e del ses­ so»», di cui parla Alfredo Rossi, proietta i temi usuali di Inge in una dimensione più ampia, sia di vita che di letteratura, giungendo ad­ dirittura a suggerire una sorta di narratività disturbata. Rossi ha ragione quando scrive: «la narratività, perseguita con il massimo sforzo, è l'ossessione stessa del film, il desiderio irraggiungibile». Non si tratta tanto delle nostre attese di spettatori che vorrebbero un corso fluido e una soluzione positiva per i protagonisti (in ulti­ ma analisi, un happy ending). È proprio il modo di concepire, o quantomeno di mostrare, l'esito della storia indipendentemente dalle speranze e dalle aspettative dello spettatore, che ha qui qual­ cosa di anomalo, di disturbante, che opera come un catalizzatore emozionale di tutte le sensazioni suggerite lungo il film. Ora, la narratività come «desiderio impossibile» è per molti versi proprio uno dei grandi e strazianti obiettivi-problemi dello scrittore americano, e non solo nel '900. La narratività pura che cercava Mark Twain (ammonendo, in sicura malafede, a non leggere Huckleberry Finn come un libro di simboli e metafore); quella che Herman Mel­ ville - come del resto Inge e Kazan in questa pellicola nella quale, secondo Emanuel Levy, «prevalgono le immagini acquatiche e le lo­ ro connotazioni sessuali» - aveva cercato nell'acqua, quasi l'elemen­ to liquido potesse favorire la concezione e l'andamento della stona;

ELIA KAZAN E LA LETTERATURA AMERICANA

quella che Washington Irving aveva prudentemente ammantato di curiosità antiquaria; quella che E. A. Poe aveva cercato compromet­ tendo irrimediabilmente quella stessa fantasia che l'alcool gli solle­ citava (e in ultima istanza la propria vita), trovandosi bloccato di fronte al biancore panicamente silenzioso dell'ultima pagina incom­ piuta del Gordon Pym; bene, questa narra tività è quella stessa che Splendore nell'erba vorrebbe raggiungere. Come certi personaggi di Henry James (autore con cui Kazan ha peraltro ben poco da sparti­ re) i due protagonisti arrivano a un punto in cui non hanno nulla da dirsi, in cui qualunque parola non aprirebbe di un millimetro lo spi­ raglio di comunicazione fra loro. 1 versi di Wordsworth, qui ripetuti una seconda volta dopo la lezione di tanti anni prima al liceo, assol­ vono quindi non tanto la funzione di informarci sul fatto che i due protagonisti ne hanno finalmente capito il significato, quanto sul fatto che ormai fra loro una qualche comunicazione può sussistere soltanto su un registro diverso da quello comune, al cui livello essi non si erano mai intesi. Non si tratta dunque di un silenzio becketliano, quel che conta è che ad esso si è arrivati senza la retorica che è tipica del letterario (e del cinematografico). Nessun incidente fra Io­ ni, nessun dramma, nessuna tirannica imposizione: quasi vien da pensare a quella che T. S. Eliot definirebbe un'assenza di «correlati­ vo oggettivo» dell'azione. Naturalmente le volontà si scontrano, na­ turalmente vi sono regole sociali, ma senza concrete violenze. Sulla scorta di Inge, Kazan vede nella piccola socialità americana solo la violenza del compromesso, e in questo quadro la morte può avveni­ re o per un clamoroso fallimento di obiettivo (e dunque nella forma del suicidio, come per un altro eroe teatrale dell'epoca, il Willy Lo­ man di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller) o per un mi idente (che nel caso di Ginny, sul versante simbolico, sarà anche, come vuole Levy, «una punizione per la sua elastica moralità e la sua trasgressione sessuale», ma che dopotutto resta un evento do­ vuto alla fatalità). Nulla è accaduto in quel Kansas pre-Depressione che possa suggerirci il respiro della tragedia. «Essi sono vittime non del fato o delle circostanze, ma della socializzazione che insiste su ideali sbagliati» (Levy). La mentalità, le mitologie, le consuetudini, i caratteri individuali, tutto ciò che concorre a fare di una famigliaci una cittadina, ili una nazione quello che sono, hanno operato secon­ do le loro normali (e certo discutibili) spinte distruggendo un amore e tutto quello che di umano un amore si porta dietro. Kazan è riuscito nel miracolo di far coincidere vita e letteratura; quest'ultimn perde le sue connotazioni retoriche, la sua funzione esemplificativa: ciò che si vede è ciò che ò. In questo senso il regista

L'ETÀ DELL'OCCHIO. IL CINEMA L LA CULI LIRA AMERICANA

è qui molto lontano da quel Faulkner che è probabilmente il suo au­ tore più ammirato (perché il più citato nelle interviste). Piuttosto mi sembra vicino a Fitzgerald, uno scrittore americano capace di celare perfettamente la sua strategia retorica per mostrare un mondo in balìa del caso, o meglio, colpevole e detestabile, ma non per questo soggetto ad alcuna giustizia, ad alcun ordine finale perché ha già in se stesso, e sin dall'inizio, la propria critica e il proprio destino. Nes­ suno opera deliberatamente il male, nessuno è radicalmente, gran­ diosamente malvagio: ognuno si porta dietro la sua piccola parte di malvagità, di errore e di responsabilità. Mettiamo tutte queste pic­ cole parti insieme e avremo la distruzione di coloro che, ancora per poco, erano rimasti innocenti. Il gioco crudele fra caso o intenzione regola non poca letteratura americana del '900: mezzo teatro statu­ nitense, naturalmente, ma anche il Thornton Wilder di II ponte di San Luis Rey, ad esempio, e non poche pagine di Faulkner, Wolfe, Hemingway, Truman Capote, Carson McCullers, Eudora Welty, El­ len Glasgow, Katherine Ann Porter, per molti dei quali si potrebbe dire che, analogamente alle intenzioni di William Inge e dello stesso Kazan, la loro opera riguarda in qualche misura il fatto che «dob­ biamo perdonare i nostri genitori». Ma non dimentichiamo che que­ sto perdono era in qualche modo richiesto anche a Huck Finn, e non tanto nei confronti del suo violento padre naturale quanto soprat­ tutto in quelli di coloro che nella sua giovinezza han funto da madri adottive, le custodi di una moralità, di una educazione e di una «ci­ vilization» che sono le stesse del Kansas rurale novecentesco. Deanie e Bud sono in questo senso la versione aggiornata e impotente di Huck: laddove questi aveva scelto di contrastare le proprie cre­ denze per amore dell'amico nero Jim, i due giovani di Kazan non hanno la forza di non sottomettersi - soccombendo dunque alle loro stesse credenze sociali - «alle norme coercitive per le quali essi stes­ si soffrono» (Levy). In altre parole, sono degli Huck senza la glorio­ sa componente faustiana del celebre personaggio di Twain. Perdonare i padri. Forse non importa molto se questo perdono può essere letto, in chiave autobiografica, proprio in relazione a quella condizione di immigrato che ha sempre percorso l'opera di Kazan. Importa di più, invece, che sia questa la vera matrice lettera­ ria americana del regista, molto più solida e radicata dei pur con­ vincenti confronti possibili fra alcuni momenti tematici del suo ci­ nema e i modelli di caratteri e di situazioni più cari a quella tradi­ zione (lo scontro Nord-Sud in Fango sulle stelle, quello fra natura e cultura in Un tram che si t hiama desiderio, le complesse regole < he de­ terminano i rapporti familiari e generazionali in molli suoi film, e

ELIA KAZAN E LA LETTERATURA AMERICANA

cosi via). E molto più solida e radicata dei più diretti (e peraltro po­

chi) riferimenti nei suoi film tratti da importanti opere letterarie/ Un tram che si chiama desiderio e Gli ultimi fuochi.

Kazan a suo modo interpreta in ambito cinematografico uno dei grandi problemi del romanziere americano: osservare e descrivere la realtà senza che questa imponga all'opera di segnare il passo, senza che la storia si frapponga tra l'artista e i suoi personaggi ad impedirne completo studio e descrizione/ senza che la vita e la sua gratuita complessità eludano le buone intenzioni dell'arte, il suo

ordine, i suol modelli, la matematica della sua struttura. E lui, immigrato di prima generazione, si laurea così grande ci­ neasta e finance grande scrittore americano.

Note bibliografiche l c frasi di Alfredo Rossi sono tratte dalla sua monografia Elia Kazan, La Nuo1,1 Italia, Firenze 1977; quelle di Emanuel Levy dal suo studio Small-Town ■\tuerica in Film. The Decline and Fall of Community, Continuum/ New York 1091 ; l'affermazione del regista sulla necessità di «perdonare i propri genitoii • si trova nel libro-intervista curato da Michel Ciment, Kazan on Kazan, Hivker & Warburg, London 1973.

Prepararsi in tempo: brevi note estetiche sul primo Roger Corman

La rivalutazione del cinema di Roger Corman, operata soprat­ tutto sulla base degli entusiasmi francesi sessanteschi nei confronti delle sue pellicole poesche girate in Gran Bretagna, ha dato interes­ santi frutti, la bibliografia dei quali è abbastanza nota. Qualche vol­ ta essa ha ecceduto esplodendo in una sorta di irrazionalismo ma­ scherato da lucida e aggiornata elaborazione critica, come nel caso del volume curato da David Will e Paul Willemen per il Festival di Edimburgo del 1970. Ma è un fatto che Corman, fra i cineasti anzia­ ni quello che più si avvicina all'immagine del regista e del produt­ tore tipica delle origini del cinema americano, fornisce alla critica materiale rimarchevole per riflessioni sull'estetica stessa del film, inteso, per così dire, come prodotto grezzo, allo stato puro. Ma la rivalutazione cormaniana può portare a qualcos'altro. In­ tanto, a una rilettura delle sue primissime cose (diciamo, i suoi film degli anni '50 e qualche altro dell'inizio del decennio seguente pri­ ma delle pellicole poesche), quei filmetti girati in cinque o sei gior­ ni che ne hanno fatto una sorta di mito. L'unico critico che, a mia conoscenza, abbia abbastanza pronta­ mente tentato una lettura di quella prima produzione seguendo le indicazioni dei francesi è Richard Koszarski, dal quale lo stesso t .i riseppe Turroni nella sua monografia cita a piene mani. Koszar­ ski mostra particolare sensibilità divulgativa, informandoci su aspetti tematici e anche tecnici (le unità operative, la fotografia, persino lo stato delle copie esistenti) di quei film, poi seguito, in modo ancor più dettagliato, dal bel lavoro critico di Gary Morris, torroni, a sua volta, secondo quel suo modo critico così personale, improvvisa larghe variazioni liriche su quelle opere relazionando­ le al seguito della produzione cormaniana e, dialetticamente, al­ l'intero ambito della produzione hollywoodiana classica. ATurro43

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ni si deve in particolare un'idea che difficilmente può essere rin­ tracciata negli scritti di qualunque altro critico cormaniano, secon­ do cui il cinema poesco del nostro «è action painting ma anche pop art e iperrealismo». Più esattamente, secondo Turroni, si tratta di un realismo che gli viene dal realismo stesso di Poe, troppo spesso in­ teso come un genio del fantastico e dell'allucinazione. Non inte­ ressa ora verificare analiticamente l'affermazione di Turroni, ma riutilizzarla trapiantandola, se possibile, nell'ambito della prima produzione cormaniana. In che modo quel superamento del fumetto e dell'arte di massa che vale un «Mandrake visto da Rauschenberg» è leggibile in titoli come She Gods of the Shark Reef, Teenage Doll, Teenage Caveman, Soro­ rity Girl? Qui non c'è Poe a fungere da struttura di riferimento, e dunque su che cosa si eserciterebbe la supposta «ironia» del regista di cui parla ancora Turroni? Ironia, invero, non ne manca. Solo, il referente questa volta non è letterario, bensì cinematografico. Si prenda ad esempio // mostro del pianeta perduto, il primo film di fan­ tascienza del regista e, a suo modo, un piccolo capolavoro. Non certo per compattezza, rigore visuale, profondità di pensiero: non si tratta di Kubrick, ma della pellicola di un ventinovenne indiffe­ rente proprio a quello che si richiede a un «grande» regista. Corman non si vergogna di compiere i più straordinari equilibrismi lungo una sceneggiatura che probabilmente qualunque collega di vent'anni più vecchio avrebbe rifiutato, ne accetta la raffica insoste­ nibile di coups de théàtre, gioca con i dettagli, i particolari senza quasi pensare alla continuity. Ma non per trasandatezza: questo è il suo modo di fare cinema. È senza denaro, è senza tempo, è senza attori, e francamente è anche senza sceneggiatura (decente, alme­ no); e allora ecco che invece di subire la situazione la sfrutta, tra­ mutando il film in un perfetto esempio di camp fantascientifico. Nel 1955 Susan Sontag non aveva ancora scritto né il suo saggio sul camp, né, se è per questo, quello altrettanto famoso e importante sulla fantascienza. Anzi, a quell'epoca aveva solo 22 anni e stava prendendo il suo M.A. a Cambridge, Massachusetts, mentre Corman metteva a punto la sua straordinaria macchina che sfornava seriose parodie dell'immaginario di quegli anni. Naturalmente qualcuno dirà che no, un momento, è la lettura che oggi - o anche ieri - noi facciamo di questa pellicola a renderla un ottimo esempio di camp. Ma. prego, riflettiamo un momento: una cosa è mettere a punto trucchi ed effetti speciali da grande ca­ sa produttiva, un'altra è giocare con essi, riattaccare ugni volta al mostro le mani che cadono, lasciar briglia sciolta a una fantasia che

RKWI NOTE ESTETICHE SUL PRIMO ROGER CORMAN

propone quest'ultimo come un incrocio fra Robby Robot, un orso peloso e Polifemo con corna lunghe e appuntite che paiono attac­ cate con colla di farina fatta in casa, inventarsi lupi e conigli mu­ tanti che qualunque bambino fantasioso avrebbe addobbato me­ glio, sino ad arrivare all'immortale battuta del capitano Madison davanti al disegno di un orribile mostro peloso: «Quello era uno scoiattolo». E comunque, non è un'idea fantasticamente camp, ol­ treché economica, quella di mostrare le immagini di animali mu­ tanti disegnate perché «era illegale prendere fotografie»? Il solito critico aggrottato e parrocchiale dirà che queste sono sciocchezze, che, poche storie, qui si tratta di robaccia. Ed è vero, non c'è il mi­ nimo dubbio. Quel che interessa, però, è comprendere - soprattut­ to dopo Ed Wood di Tim Burton - come si pone un uomo intelligen­ te costretto a girare «robaccia» davanti al materiale (e al budget) che si trova fra le mani. Nessuno - nemmeno i critici che conosco­ no Dreyer a memoria e solo quello - deve dimenticare che questa comprensione ci porta dritto dritto alle radici, alle origini del cine­ ma, del fare cinema. Non è grande arte, è vero; anzi, non è nemme­ no arte. Ma senza questa comprensione ci precludiamo a dir poco una più chiara idea di quella tecnica senza la quale - con buona pa­ ce di certi mammut dell'idealismo (lo stesso idealismo, si noti, che all'inizio predicava che il cinema non era arte né mai avrebbe potu­ te» esserlo) sopravvissuti grazie alla dialettica marxista - all'arte proprio non si arriva. Ma c'è molto di più: le formidabili anticipazioni che il primo ci­ nema cormaniano ci regala. Tanto formidabili che in passato, al mo­ mento opportuno per le verifiche, neanche ce ne siamo accorti. Inco­ minciamo, fra i molti possibili, da un esempio tematico. In età post­ moderna, postatomica, postapocalittica eccetera, in età di Mad Max r Co. e dopo l'invasione settantesca degli ammonimenti ecologici di vario tipo, da 1975: occhi bianchi sul pianeta Terra di Boris Sagal a 2022: i >oprawissuti di Richard Fleischer, se guardiamo indietro vedremo i he non solo il citato II mostro del pianeta perduto tratta questo argo­ mento, ma soprattutto Teenage Caveman, pellicola che sino al colpo di «.cena finale appare in tutto e per tutto come un più o meno tipico lilm d'argomento preistorico. Corman ha anticipato un intero cine­ ma - o quantomeno un'intera deriva della fantascienza cinematogra­ fica - giocando con un sottogenere già noto dai tempi di Man and His Male di I lai Roach ancora una volta è riuscito a creare utilizzando materiali ricevuti e sostanzialmente non plasmabili. (Per inciso, non e stato affatto Corman né l'ideatore ne l’artefice della moda teen nel » merna degli anni '5(1: questo film doveva chiamarsi, con diversa ma 45

L'ETÀ DELL'OCCHIO. IL CINEMA E LA CULTURA AMERICANA

più conscia ironia, Prehistoric World, e il precedente titolo Teenage Doli gli fu richiesto e in qualche misura imposto dai gestori di sale.) Ma anche su un terreno più largo e importante il primo cinema cormaniano offre novità e anticipazione. La sua intera impostazio­ ne, a ben vedere, è dopotutto rappresentativa, per l'ambito che le compete, di una situazione del gusto in quell'epoca. Viene in men­ te a supporto quel che ha scritto Renato Barilli a proposito dell'arte postmoderna quando afferma, molto acutamente, che questa ha so­ stituito alla «tradizione del nuovo» di rosenberghiana memoria il suo contrario: «la novità della tradizione». Proprio questo mi sem­ bra il titolo di maggior merito della prima produzione cormaniana, un uso apparentemente tradizionale dei generi, che però fornisce una serie di impercettibili segni di rinnovamento non attraverso una qualche differenziazione delle forme, bensì lungo l'asse di un potenziamento delle immagini e dei modelli noti. Vorrei anzi citare l'intero passo del critico, non tanto per la sua ammirevole percetti­ vità quanto per l'importante riscontro che esso può avere a soste­ gno di quanto sto affermando sul cinemi» di Corman:

Troviamo qui varco per passare alla seconda accezione con cui è pos­ sibile usare il termine di postmoderno: essa nasce appunto dal con­ giungersi di due consapevolezze (inesistenti, o in gradi molto ridotti, in ambito architettonico), che cioè, in altri settori operativi, il «rimbal­ zo», il riecheggiare di soluzioni citazioniste è tutt'altro che una no­ vità, bensì quasi un fatto di routine, di ordinaria amministrazione, e che pertanto esso pure è iscritto nei destini della «tradizione del nuo­ vo», fino magari a capovolgerla in «novità della tradizione»; e che ta­ li rimbalzi sono costretti a darsi secondo modalità accelerate, appiatti­ te, così da ostentare chiaramente il loro carattere di ripresa estenuata. Il primo cinema cormaniano è esattamente questo: un incrocio fra una produzione tradizionale riletta con l'occhio di chi reinventa il ci­ nema ogni volta e uno sfruttamento totale, esasperato delle possibi­ lità iconografiche e narrative fornite da un'immagine che non è affat­ to pensata in funzione di rinnovamento, ma di proposizione che, pur nella sua meraviglia e tensione, sfiora il conforto della familiarità. Ora, se teniamo a mente che il discorso di Barilli parte dall'occa­ sione fornita dalla pubblicazione dello studio del britannico Char­ les Jencks, Language of Postmodern Architecture, il quale data al 1977, si vedrà bene come, a dir poco, l'operazione cormaniana anticipa di almeno vent'anni, e in termini poietici, un dibattilo che potrem­ mo definire ancor oggi in progress.

EIRE V7 NOTE ESTETICHE. SUL ERIMO ROGER CORMAN

Non sto certo tentando di fare di Corman un genio teorico, un battistrada di seminale importanza nello sviluppo del pensiero estetico contemporaneo. Corman era - e in fondo è ancora - un re­ gista di serie B, sensibile all'idea di arte (stando almeno alle dichia­ razioni sue e di non pochi fra i suoi in séguito notissimi collabora­ tori), ma comunque legato indissolubilmente alle ragioni del boxoffice e ai principi della più spicciola economia. Tuttavia, non c'è ragione di negare ai risultati del suo pragmatismo uno statuto, una qualifica emblematica di una situazione più generale dell'arte nel nostro tempo. Turroni, su tutt'altro terreno, in altra direzione e con altre parole, l'aveva intuito l'anno stesso della pubblicazione del li­ bro di Jencks. A noi tocca oggi il compito di riesaminare un vecchio giudizio critico sul regista: non tanto per mutarlo in un senso di più positiva considerazione (chi vuole è libero di farlo), quanto per leggere nella vicenda e nelle opere di un artista - odi un artigiano, se si preferisce - intraprendente, concreto, fantasioso, efficiente e per molti versi creativo la situazione stessa dell'arte che vive e ope­ ra intorno a noi. Un'arte, si noti, che non rifugge ormai da alcuna trovata pragmatica, che si appella a una concretezza nient'affatto traslata ma recuperata dalla realtà stessa e trapiantata direttamente nell'opera, proprio come, secondo Jencks, «l'assunzione di stereoti­ pi e di sfida al kitsch, al cattivo gusto» segna un momento di con­ giunzione fra Pop Art e postmoderno. La modernità, anzi la postmodernità, cormaniana è a questo punto incontestabile. Il solito critico arcigno, scettico e imparruc­ cato chiederà allora che cosa distingue Roger Corman, regista squisitamente rappresentativo di una cinema a basso budget, da un qualunque altro B-movie director: che cosa, cioè, impedisce di leggere nell'opera di qualunque regista men che minore l'impor­ tanza della pratica che sto tentando di rintracciare e delineare nel primo Corman. La risposta, a partire da quanto detto più sopra, è abbastanza ovvia. Superficialmente non v'è gran differenza: nei suoi primi film si respira la stessa aria di impromptu rinvenibile in non pochi altri registi più o meno anonimi e comunque come lui condannati a un misero budget. Ma Corman può vantare a sua personale ca­ ratteristica una continua rielaborazione dell'arsenale povero del Bmovie di genere specifico. John Brosnan lo accusa di aver fatto, con Il mostro del pianeta perduto, «una variazione, di basso profilo mer­ cantile, di l'ìve», una pellicola antesignana di fantascienza postato­ mica girala nel 1951 da Arch Oboler. Ma questo non è vero: se la pellicola di Corman può esserlo tematicamente, è ben chiaro però 17

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che tutta la parte relativa ai mutanti (di cui dicevo più sopra) è francamente cormaniana. Il regista affida ad essa non tanto la pro­ pria inventiva quanto la propria capacità di ironizzazione pop sul tema. Esattamente come nel posteriore It Conquered the World è evi­ dente che l'idea dell'alieno invasore nascosto nella cava gli viene da un classico di Jack Arnold che lo precede di tre anni, Destinazio­ ne... Terra!, pellicola, peraltro, che quanto a originalità inventiva non la cede a nessuno (la sequenza dell'apparizione della falsa me­ teora all'inizio è un capolavoro di ironia in chiave di trionfale si­ neddoche); con la differenza, anche qui, che Corman non lo conce­ pisce nei termini terrifici (e a dire il vero alquanto ingenui) di Ar­ nold. Seguendo la sua prassi consueta, Corman spinge all'estremo l'assurdità del personaggio e lo concepisce, secondo la definizione azzeccatissima di un critico che certo non lo ama, come Brosnan, un «impacciato Humpty-Dumpty» (vale la pena ricordare che Bro­ snan parlò, a proposito del cinema di Corman, di «mindless pro­ ductions» e che anche grazie a lui, a parere dei critico, «il cinema di fantascienza si è fatto la cattiva reputazione che soltanto ora sta incominciando a perdere»). Insomma, Corman non si limita a riprodurre i modelli poveri del B-niovie, ma li esaspera in una direzione che, come si diceva, è comparabile a certi procedimenti dell'avanguardia artistica con­ temporanea. Sia ben chiaro: non si tratta minimamente di parodia. Corman non intende burlarsi di nulla; la sua è piuttosto un'opera­ zione seria che sfocia in un risultato ironico. V'è un punto al di sotto del quale la povertà produttiva non si limita a condizionare il buon risultato di un film: al di sotto di quel punto è il film che diventa un'altra cosa rispetto al modello di ge­ nere cui appartiene, se soltanto il regista si rende conto di poterlo spingere fino in fondo nella direzione che la produzione gli ha im­ posto. Ben pochi B directors lo hanno compreso o lo hanno voluto, e Corman è uno di questi. I suoi horror e la sua fantascienza dei pri­ mi anni tutto ispirano fuorché paura, gli spettatori sono chiamati a rivedere (nei due sensi del termine: sullo schermo e nella loro men­ te) l'inventario di quei modelli di situazione, di quelle vicende tan­ to barocche quanto scarne, di quei personaggi esemplari vestiti di una nuda psicologia, di quei mostri eccessivi come fossero usciti da un gigantesco lavoro di pongo sotto le mani frenetiche e adirate del piccolo Anthony di Ai confini della realtà (il film, dico, che la serie televisiva di Rod Serling, più «artistica» che non le pellicole ili Corman. non aveva inscenato alcun orrore visibile nell'episodio origi­ nario It's a Good Life). Anzi, in quegli stessi anni era proprio Cor-

BREVI NOTE ESTETICHE SUI PRIMO ROGER CORMAN

man a prendersi carico di questa visione, era lui ad avere lo sfron­ tato coraggio di mostrare il non mostrabile, ammiccando - se non intenzionalmente, di certo nei fatti - alle sue deliziate platee di adolescenti e fidanzatini, parlando loro non di orrore, non di pau­ ra, non di fantastico, ma di realtà, e proprio attraverso un cinema che di realistico aveva ben poco. Ecco la piccola gloria di Corman, essere reale senza realismo, lasciar correre libero l'immaginario quando nessuno si sognava di affidare al giovane regista abbastan­ za denaro da garantirgliene una buona confezione. L'immaginario libero dalle compromissioni dei grandi finanziamenti, se da un lato può sembrare costretto a un esito miserevole da un budget ridottis­ simo, dall'altro può diventare una sorta di boomerang trovando nella povertà la miglior forza di sviluppo e creatività. In fondo è il vecchio discorso della Svizzera e degli orologi a cucù ricordato a suo tempo da Orson Welles. Ma Corman ne fa un'arma efficace e rappresentativa non tanto in una direzione artistica (il «bel» film costruito con pochi mezzi, alla Ulmer o alla Fassbinder), bensì co­ me esemplarità del proprio operare in quanto artista contemporaneo. Non sono dunque i suoi singoli film a essere belli, ma è la sua pra­ tica a vantare per essi un posto nel ricco catalogo della poiesi e del­ l'arte che si identifica in ciò che chiamiamo postmoderno. La popolarità di Corman - il suo essere vicino al pubblico, cioè ha le sue radici nell'idea dell'artista moderno di cui parlava circa quarant'anni fa John McHale, aggiungendo che l'arte «non sembra più identificarsi con la creazione di capolavori duraturi». L'artista lavora a tempi brevi: «I mutamenti accelerati della condizione uma­ na esigono uno spiegamento di immagini simboliche dell'uomo che rispondano a ciò che viene richiesto dal costante cambiamento, dal­ l'impressione fugace e da un alto quoziente di obsolescenza.» Tutto questo in un giovanotto senza soldi il cui unico obiettivo era di portare a termine il risibile filmetto che aveva per le mani? Attenzione: a suo tempo anche i barattoli di Warhol qualcuno li aveva letti nel modo sbagliato. Warhol, ormai, è riconosciuto come importante teorico dell'arte contemporanea e insieme grande e rap­ presentativo artista. Per il momento l'opera del primo Roger Corman può suggerirne l'importanza per la poetica che se ne evince. Se un giorno si scoprirà e si dirà che era anche grande arte, non lo sap­ piamo: queste brevi pagine intendono soltanto ricordare che, do­ vesse quel giorno arrivare, sarà bene non farci trovare impreparati.

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Note sibuograhchb Il catàlogo det Festivaldi Edimburgo 1970,curato da DavidWill elul Wtilèmen è sfato tradotto in italiano cd titolo Roger Coman, Ecat Lìbri, Genova 1976; ilpionieristicoàrtìcolodiRichard Koszardd,The Fìlmsof Roger Corman fu pubblicato su «Him Comment», 3,1971; la monografia di Giuseppe TtarOr ni, Roger Cornea, figura fra i titoli detta noto collana fi piatolo Cinema, la Nuova Italia, Firenze l977; il bel volume di Gary Morris si intitola anch'tóso Roger Cbma/blWayne Publishers, $±1,1985; le varie citazioni da Renato Ba­ rili!provengono did suo volume, II rido (W postmoderno, Feltrinelli Milano

1987;gli apprezzamenti negatividi John Brosnan si trovano nel suo Future Tense, The Cìnema of Sdente Fiction, St Marfin's Press, New York 1078; studio s volte discutibile, ma certo molto ampio e utìle; la citazione da John McHale grfpc^toto da Alvin Ibfflei; Future Shod, Bantom, NewYork I971.

Corman e Poe: cronaca di una liberazione senza seguito

L'attività cinematografica di Roger Corman ha subito un desti­ no doppiamente ingiusto: in un primo tempo essa, come abbiamo detto, fu valutata alla stregua di poco più che spazzatura, in un se­ condo tempo - grazie anche all'occasione di lavoro offerta dalla sua Factory a giovani autori che sarebbero diventati i maggiori del cinema americano dagli anni '70 in avanti - fu osannata come la vera alternativa ai modi di reclutamento sostanzialmente televisivi che si stavano ormai imponendo nella Hollywood dell'epoca. La produzione poesca del cinema cormaniano offre anch'essa molto terreno per discutere e comprendere l'importanza di Corman, soprattutto come regista. Non sono pochi coloro che hanno colto nelle pagine di Poe un forte potenziale cinematografico: primo fra tutti D. W. Griffith, e fra i critici italiani lo Scognamiglio (Giovanni, s'intende) e Giuseppe burroni. Francamente non so se si possa parlare di un tratto caratte­ rizzante l'opera del narratore americano: probabilmente lo stesso vale per autori britannici come Sheridan LeFanu, Montague R. Ja­ mes, Oliver Onions, Arthur Machen, Algernon Blackwood e tanti altri maestri della letteratura fantastica e soprannaturale che pure hanno goduto di minore attenzione da parte dei cineasti. È però ve­ ro che la scrittura di Poe è altamente evocativa, per taluni (Turroni) addirittura «realistica». Realismo nel maestro del racconto sopran­ naturale? Come al solito, basta intendersi: se con tale termine ve­ gli.imo definire, che so?, l'attenzione certosina con cui il narratore di II ritratto ovuli’ osserva e descrive la camera nella quale si è trova­ to casualmente a dormire sino al momento in cui appunta il suo sguardo-obiettivo sull’oggetto titolare, allora Poe è indubbiamente un «realista», poco importa se poi quel che nella storia succede non vanta alcuna verosimiglianza e razionalità. Corman, come Griffith,

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Epstein e altri registi, ha subito il fascino di questa ossessiva preci­ sione che forse soltanto Blackwood e talvolta M. R. James avrebbe­ ro in seguito esibito, ne ha colto la visività, il potenziale di significa­ zione e d'atmosfera e li ha fatti propri. Vale a dire, non ha certo ten­ tato di «tradurre» fedelmente, letteralmente le pagine di Poe su pel­ licola (sono ben note le variazioni di storie e struttura che Richard Matheson e gli altri sceneggiatori di cui il regista si è avvalso hanno apportato agli originali testi poeschi), ma ha provato a mantenerne la forte minacciosità, l'incombente inquietudine del loro apparire, il senso di una fatalità che è nelle cose prima ancora che negli eventi. In altre parole (quelle di Gary Morris), Corman ha compreso perfet­ tamente Poe perché come lui «ha molto spesso sottolineato l'am­ biente a spese dell'azione». E l'ambiente poesco, è bene ricordarlo, denota sovente un'artificialità che Corman sa ricreare bene (persi­ no, come dice Morris, nei rarissimi esterni che, come quelli di Sepol­ to vivo, «sono inventati, artificiali, chiusi») più ancora attraverso l’interpretazione attoriale che non la scenografia, contro la quale, nei suoi film, si staglia fortemente l'eventuale personaggio «reale» (di norma un estraneo, altrettanto di norma inventato dalla sceneg­ giatura) capitato nei paraggi. È stato anzi lo stesso regista ad affer­ mare, ad esempio, che / vivi e i morti doveva permearsi di «un am­ biente irreale». La realtà dell'irreale: era questa la sfida poesca al ci­ nema che Corman ha raccolto ed elaborato con intelligenza. Quando Corman inquadra la porta di un'aristocratica e lugubre magione non è soltanto per creare in noi un'attesa in relazione a chi o che cosa entrerà da un momento all'altro attraverso di essa. No, in Corman il rapporto logico di causa ed effetto si diluisce (il che non significa affatto che si allunghi), nel senso che ciò che viene mostrato pare avere vita indipendente, significazione autonoma. Più larga­ mente: è la scenografìa a diventare uno dei protagonisti. Ma, ed è qui la vera intelligenza del regista, non attraverso una sua elaborazione di­ retta (essa, anzi, come diremo più avanti, non obbedisce rigorosa­ mente alle indicazioni di Poe): è la macchina da presa a renderla tale attraverso movimenti che la indicano come parte integrante e fonda­ mentale della storia. Si pensi alle panoramiche d'interni in l vivi e i morti: esse ci mostrano l'antica casa avita in una sorta di tenue cre­ scendo il cui punto finale è il «mobile» più rappresentativo di tutti, quel Roderick Usher che l'obiettivo scopre d'improvviso erto e palli­ do nel luogo dei suoi antenati, un «pezzo» destinato a quelle stanze non meno di un tavolo imponente, un armadio capace e naturalmen­ te dei satanici ritratti familiari appesi nella macabra galleria. E si pensi, ancora. .11 movimenti di macchina nell'epiMidlo «Morella» di /

CORMAN £ POE; CRONACA DI UNA LIBERAZIONE SENZA SEGUITO

racconti del terrore, quei carrelli lungo i corridoi di cui ovviamente non vi può essere traccia in Poe, ma che pure rendono perfettamente il senso dell'incombenza del luogo che così lucidamente lo scrittore americano sapeva creare con le sue parole. La cosa è tanto più strana e degna di nota se si pensa al bassissi­ mo budget che caratterizza di norma le produzioni-regie cormaniane. Il fatto è che proprio attraverso l'essenzialità imposta dalle ri­ strettezze produttive il regista riesce a caricare gli oggetti di una presenza che va ben oltre la loro stretta funzionalità decorativa quale viene imposta dalla più normale idea di scenografia. In que­ sto senso, come del resto abbiamo già detto nel capitolo preceden­ te, non è affatto peregrino affermare che il cinema poesco di Corman (il quale, è importante notarlo, si situa fra il 1960 e il 1964, mo­ mento di particolare fermento e rigoglio nell'arte figurativa statu­ nitense) si imparenta con la teoria e la prassi dell'avanguardia pit­ torica americana a esso con temporanea. L'oggetto, insomma, non è più soltanto un mezzo ma anche «fine per giungere al significato dell'oggetto stesso» (Torroni). Naturalmente non è certo il caso di fare di Corman un teorico dell'arte né un raffinato conoscitore della pittura americana a quel tempo più audacemente impegnata nel prendere le distanze dall'e­ sperienza dell'astrattismo (anche se non si può non ricordare con Gary Morris, in Sepolto vivo, il riferimento a Francis Bacon nei qua­ dri di Guy, e in un suo dipinto più tardo quello a un mondo alla Bosch che nel suo satanismo preannuncia indirettamente La città dei mostri). È però vero che nella sua pratica cinematografica non è difficile cogliere stilemi (ovviamente adeguati al mezzo col quale egli si esprime: il cinema) che, in linea teorica, si presentano come l'anticamera di una poetica iperrealista. Quanto sopra vale per l'intera sua opera cinematografica, ma nelle pellicole poesche l'operazione riesce più compiutamente, più convincentemente, perché lo scrittore americano fornisce al regista un alveo solido e preciso (poco importa se spesso trasgredito da sceneggiature non fedeli: che cosa di letterario può nel cinema es­ sere fedele?) entro il quale sono certamente più difficili le strava­ ganze effettisticamente strampalate di pellicole come It Conquered lite World e Attack of the Crab Monsters. Tale alveo non è certo quello più strettamente letterario entro il quale le tecniche poesche di rac­ conto avevano preso la forma complessa e sfumata («bagliori vaghi e scarsamente declinabili», sono le parole del critico) che, fra i mol­ li commentatori, ( andò Fink ha con tanta acutezza evidenziato nel capitolo dedicalo all'autore di Boston nel suo superbo / testimoni 53

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dell’immaginario. A paragonare racconti poeschi e film cormaniani, anzi, basterebbe il modo in cui il regista ha tagliato di netto il nodo gordiano che si identifica nella voce narrante per rendersi conto di quanto le vere sottigliezze di Poe siano estranee a Corman (al mas­ simo vi si rintracciano alcune soggettive, come nell'episodio «Mo­ rella» di / racconti del terrore, che esaltano l'effetto psicologico, ma che certo non complicano la tipica domanda poesca su chi afferma che cosa). E che dire, in La tomba di Ligeia, di una scenografia che ignora le indicazioni poesche, inquietanti e precise relative alla ca­ mera nuziale: «Queste figure partecipavano del vero carattere del­ l'arabesco soltanto quando osservate da un singolo punto di vista». Indicazioni che, ricorda giustamente Fink, rimandano «alle teorie in certo senso "relativistiche" sullo spazio (e sul tempo) espresse in Marginalia». C'è insomma in Poe un mondo tecnico e scenografico tutt'altro che occasionale o istintivo, costruito sulla cultura del suo autore, di cui Corman non tiene conto. Eppure non hanno torto i critici (Gary Morris, ad esempio) che vedono nelle traslazioni cormaniane una sostanziale «fedeltà» allo spirito poesco: non soltanto per la capacità di creare atmosfere allucinate comparabili a quelle del maestro ottocentesco, ma anche per avere colto un lato non sempre tenuto in conto dagli esegeti di Poe, quello umoristico, che non si identifica sempre necessariamente nel modo di trattazione grottesco di un episodio come «Il gatto nero», da I racconti del terro­ re, come vorrebbe Stéphane Bourgoin, ma anche nella chiave fran­ camente comica indicata da G. R. Thompson, che Corman rende particolarmente leggibile in / maghi del terrore. E ancora, ha ben ra­ gione il Bourgoin quando parla di «effetto ipnotico dei suoi movi­ menti di macchina» (il quale sarebbe «dovuto proprio alla sua di­ screzione»), rintracciando in Corman qualcosa che è innegabilmen­ te poesco, ma che pure nasce da una prassi cinematografica, vale a dire da qualcosa che, per ovvie ragioni, a Poe è del tutto estraneo. Del resto, nel suo insieme la critica (almeno quella che non ha con­ tinuato ad accantonare l'opera di Corman come «spazzatura») è concorde nell'individuare nei suoi film poeschi una cura visuale che rasenta a tratti la raffinatezza: i movimenti di macchina combi­ nati in La città dei mostri - che a dire il vero è tratto da H. P. Love­ craft e di Poe ha ben poco - quelli che si fanno traduzione di im­ pulsi interiori dei personaggi in La tomba di Ligeia, il complesso geometrismo di talune inquadrature in Sepolto vino, la fotografia, quasi sempre di Floyd Crosby (Oscar nel 1^31) che si pone inten­ zionalmente in antitesi alle lusinghe - facili, nel cinema gotico dell'espressionismo, e cosi via.

CORAM V £ POE.' CRONACA D! UNA LIBERAZIONE SENZA SEGUITO

Il rapporto che Corman instaurò con Poe fu dunque fondamen­ tale nell'evoluzione e nella maturazione di questo regista e autore, il quale proprio come molti autori si era creato un suo team fisso e fi­ dato composto, fra gli altri, oltreché dai citati Crosby e Matheson, dall'ormai mitico Vincent Price, un attore la cui carriera, nella parte finale, è stata tutta un continuo omaggio al cinema di genere orrifi­ co, un lungo, ammirevole e divertente mctafilm che, dal personaggio del Dr. Phibes (1971) di Robert Fuest sino allo scienziato del tenero e iperrealisticissimo Edward mani di forbice di Tim Burton, riassume­ va ogni volta la storia, le vicende, i tòpoi, i modelli del film orrifico. Tutto questo, peraltro, era già nel Corman poesco. Ovviamente, nelle interpretazioni dello stesso Price, attore sempre ben conscio dello spazio che lo separava da suoi personaggi - e soprattutto da quelli marca orrifica - accrescendo e complicando in questo modo il già intricato gioco di specchi dei racconti originali. Ma anche nel­ la mistura di commedia e dramma di alcuni titoli (soprattutto, / racconti del terrore) e nella dichiarata comicità di / maghi del terrore, nel quale la triste e funerea poesia di Poe (The Raven, appunto) di­ venta imprevedibile occasione metacritica nei confronti del genere cui si suppone appartenga la pellicola. E anche questa fondamentale componente ironica, per quanto, come dicevamo, in certa misura di derivazione poesca, testimonia comunque del còte avanguardistico che traspare dal Corman poe­ sco. Sì, quello stesso che trentanni fa deliziava affollate platee peri­ feriche di adolescenti che ne seguivano riottosi e urlanti le proie­ zioni. A differenza di quel che comunemente si crede, infatti, l'a­ vanguardia non sta contro il pubblico, ma vi gioca a favore. Anzi, insieme. Oggi noi possiamo trarre dal Corman poesco (o dalla sua opera in genere, se è per questo) una poetica, ma la vera operazione innovativa, il vero evento accadeva là, in quelle sale, dove per una volta il rapporto che si instaurava tra spettatori e film non obbedi­ va alle leggi imposte da Hollywood, Pinewood, Cinecittà ecc., ma acquistava tutti i crismi di quella liberazione che alcuni - ormai, ahimè, pochi, pochissimi - ancora si aspettano dal cinema.

Note Bini

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I e notazioni sulla scrittura di Poe e il cinema di Corman, così come la citazio­ ne sul rapporto tra avanguardia artistica statunitense e quest'ultimo, vengono da é.1f7

L'ETÀ DELL'OCCHIO, it. CINEMA E LA CULTURA AMERICAN.A

La parola è il più impreciso dei segni. Soltanto un'epoca ossessionata dalla scienza poteva non capire che questa è la sua virtù più grande, non un difetto. Quello che cercavo di dire a Jenny a Hollywood era che avrei assassinato il mio passato se avessi cercato di evocarlo con la macchina da presa; e proprio perché con le parole in realtà non pos­ so evocarlo, ma solo sperare di risvegliare qualche esperienza analoga nelle memorie e nelle sensibilità altrui, esso deve essere scritto.

Si comprende bene come cinema e letteratura son quasi agli an­ tipodi e che è quindi assurdo chiedere al film in quanto remake di un'opera letteraria una impossibile fedeltà. Esso può tutt'al più trarre da questa il soggetto della propria narrazione, nella certezza che, bello o brutto che sia il film, ne uscirà comunque un'opera au­ tonoma, il cui successo o il cui fallimento va misurato unicamente all'interno del proprio sistema di segni, che evidentemente è tutto un altro da quello preposto all'universo strettamente letterario. Nelle parole di un importante teorico come Rudolf Arnheim nel suo celebre Film come arte: «Non c'è senso nel comparare il relativo valore dei vari media. Le preferenze personali esistono, ma ogni medium raggiunge i suoi massimi a modo proprio»». Posizione mediana ed equilibrata cui però fanno eco altre di diverso e oppo­ sto tono e contenuto da parte di personalità di rilievo a proposito della dibattuta «intermedialità». Samuel Beckett scriveva al suo editore americano:

All That Fall è specificamente un dramma radiofonico, o piuttosto, un testo radiofonico, per voci, non per corpi. Ho già rifiutato un suo «al­ lestimento» e non posso pensarvi in tali termini |...| Mi oppongo as­ solutamente ad ogni forma di adattamento che intenda convertirlo in «teatro»». Esso non è più teatro di quanto End-Game sia una cosa per la radio e metterlo in scena significherebbe ucciderlo [...] Non posso essere d'accordo con l'idea che Ad Without Words possa essere un film. Non è un film, non è concepito in termini di cinema. Se noi non riusciamo a tenere più o meno distinti i nostri generi, o a toglierli dal­ la confusione che li ha portati al punto in cui sono, allora tanto vale che ce ne andiamo a casa a dormire. Le parole di Beckett alludono unicamente ad alcuni dei suoi la­ vori, è vero, ma suonano alquanto estreme a chiunque si è posto il problema della trasposizione, dell'adattamento da un medium a un altro. E d'altro canto, ecco la voce non poco autorevole di un André Bazin secondo cui

PARLARE A NtNOTCHKA, OVVERO! QUALE REMAKE?

Non esistono drammi che non possano essere portati sullo schermo, quale che sia il loro stile, a patto che si possa visualizzare una ricon­ versione dello spazio scenico in accordo con i dati dell'opera Può ben essere che l'unica possibile produzione teatrale moderna di certi classici sia proprio sullo schermo.

Con tutto il rispetto per un grandissimo letterato e uomo di tea­ tro come Beckett e per un critico cinematografico e uomo di cultura dell'importanza di Bazin, è in fondo al salomonico Arnheim che viene spontaneo associarsi. Per come inteso nella comune cultura mediale odierna, il re­ make è tuttavia, a rigore, un'operazione di ricostruzione dello stes­ so soggetto attraverso il medesimo mezzo espressivo. Domandiamoci: che cosa può spingere un autore ad affrontare una storia già raccontata (e spesso molto bene) da qualcun altro? E passi se si tratta della trasposizione, dell'adattamento da un ambito espressivo a un altro (dopotutto si può anche nutrire una certa dose di curiosità nel mettere, poniamo, su pellicola un testo scritto quan­ do il cinema non era ancora stato inventato). Ma quali motivazioni può avere, sempre come esempio, chi fa un film da un altro film? In un bellissimo musical di Vincente Minnelli, Spettacolo di varietà, l'impresario-regista-attore teatrale Cordova (un inarrivabile Jack Buchanan) tenta di convincere il ballerino Tony Hunter (Fred Astai­ re) e i due autori dello show (Nanette Fabray e Oscar Levant) che il copione va modificato così da diventare «una moderna versione della leggenda di Faust». E aggiunge che chiunque in passato abbia toccato quell'argomento l'ha trasformato in «una miniera d'oro»: Marlowe, Goethe, Gounod, Berlioz. Ora, io francamente non so se Marlowe, Goethe, Gounod, Berlioz - e aggiungiamoci pure, fra i molti, Murnau e Clair - si siano mai arricchiti per questo. In ogni caso, nel cinema, queste sono preoccupazioni da produttore e non da artista. È vero: vi sono storie e temi ormai così sedimentati nella coscienza comune da diventare una sorta di struttura di riferimento per qualunque intelligenza, età, gusto, fantasia. Da Edipo ad Amie­ to, in casi come questi è fin quasi errato parlare di remake, trattan­ dosi piuttosto di letture, interpretazioni, versioni. Cimentarsi con questi modelli equivale in fondo alla sfida che il poeta lancia alla propria ispirazione, al viaggio che qualunque artista degno di que­ sto nome intraprende in quel particolare inferno, così universale ep­ pure così personale, in cui ognuno di noi vive. Ma in fondo - come in certo senso cantava il divertente quartetto di Spettacolo dì varietà non si tratta sempre di Edipo, di Amleto, di Faust, di Ariti, di 229

L’ETÀ DELL’OCCHIO. IL CINEMA E LA CULTURA AMERICANA

Frankenstein? (Cito di proposito modelli tratti da culture ed epoche diversissime tra loro onde evitare il sospetto che in fondo hanno ra­ gione i campbelliani a parlare di archetipi desunti dalla mitologia arcaica.) Sono pronto a scommettere che chiunque di voi ci si metta d'impegno riuscirebbe a rintracciare in un qualunque film contem­ poraneo il modello, più o meno sotterraneo, di uno dei grandi miti sfornati nei secoli dalla nostra cultura (e non soltanto dalla nostra). Insomma, la conclusione non può essere che una soltanto: il concetto di remake deve essere maneggiato unicamente nella pro­ spettiva più ristretta, esso non può che alludere all'operazione di un rifacimento paradossalmente certosino nel momento stesso in cui intende differenziarsi dal precedente che è oggetto della sua elaborazione. E nemmeno questo serve poi come assoluta garanzia. Penso a Essere o non essere della coppia Alan Johnson e Mel Brooks e alla loro fonte d'ispirazione, Vogliamo vivere! di Ernst Lubitsch; penso a come il remake sia stato sulla carta molto fedele alla pelli­ cola originaria; e penso anche a quanto diverse sono le due opere nonostante tutto. Che cosa è successo? Ovvero, che cosa può succe­ dere in barba alla fedeltà esteriore di un remake? Ripeto: la sceneg­ giatura è quasi identica, e comunque non sono le pochissime va­ rianti a differenziare il secondo film. No, il punto è un altro. Essere o non essere, in linea con il cinema di Brooks, è fondato sull'eccesso, sul corporale, sulla risata senza mediazione del pensiero. Attraver­ so l'accumulazione di informazioni costantemente ripetute il pub­ blico viene sollecitato a ritrovare modelli di ilarità scontati, ricevu­ ti e comunque prevedibili in una sorta di regressione infantile ver­ so il dominio rassicurante del già noto. Una sorta di fase anale, se si vuole, che non a caso prende davvero le forme dell’escrementale. Brooks sceglie, come sempre, la chiave della farsa e della macchiet­ ta. In Lubitsch tutto si muoveva in difetto, gli attori lasciavano spa­ zi da riempire, psicologie da intuire, reazioni da prevedere; Brooks ci richiede invece di starcene là seduti a farci bersagliare da una sceneggiatura certo esilarante, ma del tutto estranea a una collaborazione da parte nostra. Sono sempre due ore d'ammirazione per un'idea narrativa geniale, ma dov'è finito Shakespeare, dov'è finito il dilemma apparenza-realtà, dov'è finita la sfida sorridente e mali­ ziosa che regolarmente lanciava il maestro berlinese? Dietro ad Es­ sere o non essere non c'è nulla, dietro a Vogliamo vivere! c'è un'intera visione del mondo, quella stessa che teneramente, e anche dolente­ mente in fondo, Leon tentava di insegnare a Ninotchka poco prima di cadere dalla sedia nella piu celebre scena del film omonimo. Ec­ co, si può anche cadere dalla sedia e far ridere cosi il pubblico, ma 23(1

lAKI AKI A NINOTCHKA, OVVERO: QUALE REMAKE?

prima è necessario parlare a Ninotchka, spiegarle che cosa pensia­ mo del mondo, «dell'intero, ridicolo spettacolo della vita. Della gente che è così seria, che si dà tanta importanza», e magari - come conclude Leon - di noi stessi. Fatto questo, cadere dalla sedia può anche far ridere. Diversamente, chi cade è soltanto un pupazzo di gomma: non è umano, e quando cade non rischia nulla. Rimane tuttavia la domanda: che cosa spinge un autore al re­ make? Non posso teorizzare su qualcosa di cui non ho conoscenza diretta, non essendo io un regista e, a maggior ragione, non avendo mai girato (e se è per questo, nemmeno scritto) un remake. Ricordo però quanto mi disse Sydney Pollack tempo fa a proposito del suo Sabrina. Come si sa, la contestazione sorse già alla notizia che quel­ la pellicola sarebbe stata «rifatta». Trovo alquanto strano - e per questo molto interessante - che ci si possa scandalizzare a priori per una scelta del genere: perché mai gridare alla blasfemia se qualcuno riprende in mano Billy Wilder, mentre nessuno alza un fiato quando Kenneth Branagh rimette in piedi l'Enrico V (un dramma, si noti, che per quanto straordinario non riveste valenze mitiche come Amleto o Re Lear). Che cos'ha Wilder per essere più intoccabile di Shakespeare? Qualcosa che il Bardo non ha mai avu­ to: Humphrey Bogart e Audrey Hepburn. Shakespeare ha avuto Garrick, Kean, Olivier, ma ognuno è arrivato nella propria epoca, come a interpretare e rappresentare quella specifica visione di Shakespeare, quello specifico modo di pensarlo, inscenarlo, recitar­ lo. Harrison Ford e Julia Ormond hanno invaso un territorio crono­ culturale che non poteva ancora essere unicamente il loro, anche perché il cinema in questo senso ha un difetto terribile: con buona pace delle pessime leggi cinetecarie di conservazione, esso rimane nel tempo. 11 mito, insomma, vive ancora. Esso è dappertutto, su una mezza dozzina di canali televisivi a cadenza regolare, aumen­ tato dalla grancassa giornalistica che celebra anniversari di nascite e morti ogni decennio, nelle retrospettive di festival che, importan­ ti o no, vengono comunque resi tali da una stampa talora asservita, talora disoccupata e talora semplicemente stolida. Ma ritorniamo a Pollack. Riluttante com'era a riprendere in ma­ no un film come quello - che, sia detto per inciso, egli è fra i pochi a non ritenere il classico che molti hanno detto - Pollack sostiene che la pellicola originale è alquanto datata, che non spiega affatto perche la I lepburn e Bogart si innamorano e che insomma c'era ab­ bastanza spazio da farne un film diverso. Specificamente, meno fiabesco e più realistico; o per meglio dire, una combinazione dell'aspvlUi fiabesco originale e degli aspelli cupi forniti dalla storia.

L’ETÀ DELL'OCCHIO. ÌL CINEMA E LA CULTURA AMERICANA

A suo avviso i ricchi si portano sempre dietro qualcosa di sordido e di cupo. È questa dunque la ragione per cui il vero protagonista del suo remake è Harrison Ford più che la ragazza. Lasciamo la questione specifica a questo punto. A noi interessa il fatto che il remake può lasciare più spazio a un personaggio che aveva un ruolo meno centrale nell'opera originale, tanto da diveni­ re il vero protagonista. Solo che se questo è vero e possibile (come è vero e possibile) l'idea di remake è passibile di accezioni molto va­ ste, che un dramma come Rosencranz and Guildenstem Are Dead di Tom Stoppard, a questo punto, non è più, come di norma si dice, la storia dell'Am/efo osservata dal punto di vista di due personaggi secondari, bensì la stessa storia con Rosencranz e Guildenstern co­ me protagonisti. Per questo dicevo più sopra che l'affermazione di Freud comprendeva solo apparentemente l'idea di remake: in realtà, nel vero remake non si tratta affatto di «qualcosa di identico», ma esattamente del contrario, di qualcosa di diverso. Ecco allora che l'operazione del remake - quale che sia la dire­ zione strutturale volta a volta dispiegata - diventa spia epocale, te­ stimone del momento storico di cui fa parte, e naturalmente anche della cultura nazionale che l'na prodotto. Non è difficile, ad esem­ pio, leggere nei due neoprotagonisti stoppardiani i rappresentanti di una prassi antitragica che riassume l'intera cultura moderna e postmoderna, non è difficile leggerli come parenti prossimi di certi antieroi beckettiani così come di tanti anonimi, piccoli disperati per­ sonaggi del romanzo americano fra i '60 e i '70, da Little Big Man e Neighbors di Thomas Berger a Boswell e A Bad Man di Stanley Elkin. In questo modo rispondiamo alla domanda precedentemente posta: perché qualcuno dovrebbe rifare un'opera - magari bellissi­ ma - fatta già da qualcun altro? Alla stesso modo in cui Shakespeare è stato letto e interpretato volta a volta secondo modi adeguati alla cultura e al gusto di critica e pubblico che si sono susseguiti nei secoli, così il remake è un mo­ do per evidenziare quel che vi è di cambiato o semplicemente di di­ verso nella cultura di un qualunque gruppo sociale che prenda a materiale di lavoro l'opera primitiva. Se Sabrina di Billy Wilder è una fiaba cinica che, reinscenando i modelli tipici del genere in un meccanismo di commedia, intende toglierci ogni illusione (sono ben noti i falsi happy ends wilderiani), quella di Pollack è invece una mo­ dernissima riflessione sul denaro e su chi lo manovra, con un'acuta sensibilità nei confronti di ciò che oppone il pubblico e il privato. Ogni remake, insomma, dà quello che ha. Cioè parla di ciò che sa.

VARIARE A NINOTCHKA, OVVERO: QUALE REMAKE?

NOTB BIBLIOGRAFICHE

tl celebre studio sulle strutture mitologiche di Joseph Campbell, L'eroe dai mil­ le volti, è stato pubblicato da Feltrinelli, Milano 1958, mentre il suo antesigna­ no, The Hero di Lord Raglan, originariamente pubblicato nel 1936, è rintrac­ ciabile nell'edizione della Vintage Books, New York 1956; i saggi di John E.

•The Red Badge of Courage» as Myth and Symbol, e di Claire Rosenfield, Am Archetypal Analysis of Conrad's •Nostromo», fanno parte dell'ottima raccol­ ta, già citata, curata da John B, Vickery, Myth and Fiction, Nebraska UP, Lin­ coln 1960; la citazione da Rudolf Amheim è tratta dal suo classico Film come arte, 11 Saggiatore, Milano 1960; le risolute parole di Samuel Beckett contro l'a­ dattamento sono citate da Egli Tomqvist nel suo Transposing Drama, Macmil­ lan, London 1991, mentre quelle di André Bazin sono nel suo famoso Qu'estce que le cinema? (voi. IL Le cinéma et les autres arts ), Ed. du Cerf, Paris 1959. Hart,

Dalla creazione ci! pregiudizio universale: la fantascienza televisiva negli anni '50

Erano i tempi di «Amos and Andy», della «Colgate Comedy Hour», erano i tempi del «Bum and Alien Show», di «The Gold­ bergs» e di Groucho che deliziava Vaudience americana con «You Bet Your Life». Ma erano purtroppo anche i tempi del senatore Mc­ Carthy, dei 10 di Hollywood, delle liste nere e delia Commissione per le Attività Antiamericane, un vento che in televisione trovò ter­ reno di isteria e intolleranza altrettanto fertile che nel cinema (anche se forse meno studiato dalla critica storica dei mass-media). Una pub­ blicazione nazionalista e farneticante, «Counterattack» (non molto diversa da quel numero unico di «Red Channels» che fu accolto co­ me una Bibbia dai networks che sulle sue pagine seguirono certosina­ mente le indicazioni sulle supposte infiltrazioni comuniste all'inter­ no del mondo televisivo), segnalò nel giugno del 1949 i nomi di 151 personaggi dello spettacolo che si supponeva avessero legami col Partito Comunista: c'erano fra i molti Lee J. Cobb, Gypsy Rose Lee, Burgess Meredith, Arthur Miller, Zero Mostel, Pete Seeger, Orson Welles. Pochi giorni dopo l’armata comunista entrava nella Corea del Sud, e l'isteria potè presentarsi ancor più ufficialmente come pa­ triottismo. Erano i tempi, come scriverà Frederik Pohl, in cui gli uni­ ci spazi di libertà si potevano trovare nella fantascienza. Pohl aveva ragione, ma solo perché egli alludeva alle riviste di fan­ tascienza. In televisione le cose stavano andando diversamente. Nel 1951, infatti, i networks, costantemente sotto tiro da parte degli ultrà di destra, decisero che era ora di darsi un'autoregolamentazione: in tal modo si sarebbe evitato che fossero le leggi federali ad imporne una, probabilmente molto più severa e restrittiva. In pratica la televisione seguì l'esempio che Hollywood aveva indicato negli anni '20 con il codice I lays e che la stessa I lollywood, quattro anni prima, aveva per così due - rinnovato davanti ai violenti attacchi dei maccartisti.

L'ETÀ DELL'OCCHIO. IL CINEMA E LA CULTURA AMERICANA

Il codice televisivo era peraltro molto semplice: I. Gli spettacoli non mostreranno simpatia per il male. 2. Gli spettacoli non degraderanno l'onestà, la bontà e l'innocenza. 3. Non si dovranno mettere in ridicolo le figure che esercitano un'au­ torità legale. 4. Chi infrange la legge non può andarsene impunito.

Ecco, era tutto qui. Eppure vi si poteva intravedere quanto basta­ va a rendere il quadro molto complesso e controverso. Che cosa si intende per «male» e chi sancisce che qualcuno o qualcosa lo sia? Fi­ no a che punto una persona può essere definita onesta, buona e in­ nocente, e sulla base di quali discriminanti? Si possono mettere in ri­ dicolo figure d'autorità che presentano difetti e zone d'ombra di ca­ rattere morale, dato e non concesso che figure del genere possano anche soltanto essere concepite in uno spettacolo televisivo? Oppure è aprioristicamente escluso e addirittura impensabile che una figura d'autorità possa mostrare difetti e zone d'ombra di carattere morale? Al solito, una struttura referenziale sicura non era possibile e in ultima istanza tutto veniva di necessità demandato al giudizio per­ sonale di qualcuno, interno o esterno ai networks che fosse. Come ebbe a dire a suo tempo Al 1 lodge (la citazione è riportata da Jeff Rovin), un maestro della scuola domenicale di Long Island, che, dopo l'abbandono da parte di Richard Coogan, interpretò l'eroe ti­ tolare della pionieristica serie «Captain Video»: Almeno tre volte alla settimana in «Captain Video» noi inviamo brevi messaggi ai nostri giovani ascoltatori. Sottolineiamo l'importanza del­ la regola d'oro, della tolleranza, dell'onestà e dell'integrità personale. Sono grato di avere l'opportunità di essere associato allo spettacolo che, in piccola misura, aiuta a illuminare, per i giovani d'America, l’importanza del coraggio, del carattere e del senso dei valori morali. È in questo quadro ideologico e morale che si sviluppano la fanta­ scienza televisiva e le sue series, per molti anni trascurate dalla critica sulla base della loro indubitabile insipienza e puerilità, del resto rico­ nosciute anche da chi, come Harry Castleman, Walter Podrazik, Gary Gerani, Paul Schulman (per citar qualche nome), tentò a suo tempo di riempire questo vuoto informativo, storico e critico. Il tatto è che, puerilità o meno, anche quelle series facevano parte di un tessuto palinsestuale organico il quale, per quanto articolato e differenziato, doveva imprimere un «marchici di fabbrica» a quasi tutto il decennio.

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Non è mia intenzione ora seguire ed esemplificare uno ad uno i va­ ri programmi seriali di fantascienza che il piccolo schermo americano ha proposto fra il 1949, anno d'inaugurazione della prima serie in as­ soluto, «Captain Video», e il 1959, anno che vede l'inizio della prima stagione di «The Twilight Zone», probabilmente la serie che per la pri­ ma volta, anche se soltanto occasionalmente, mostrò una qualche posi­ zione critica nei confronti del maccartismo, e che comunque può esse­ re ascritta all'ambito fantascientifico soltanto in taluni suoi episodi (gli altri spesso toccando il mystery; l'horror e genericamente il fantastico). Credo sia invece più interessante osservare come l'ideologia ab­ bia permeato il palinsesto fantascientifico televisivo anche quando quest'ultimo le sembrava totalmente estraneo, organizzando le sue proposte come innocui e prevedibili giochi infantili. La derivazione fumettistica di non poche series in quest'ambito è indiscutibile: non solo perché alcuni dei suoi eroi erano primamente stati protagonisti di celebri strips, come «Buck Rogers» (1950) e «Flash Gordon» (1951), ma anche perché nell'insieme anche le altre serie fantascientifiche dell'epoca mostravano chiaramente la loro ispirazio­ ne stilistica. In particolare, l'attenzione ai costumi e alla scenografia denunciava un'ispirazione largamente derivata dalla straordinaria fioritura che il fumetto di fantascienza ebbe in America negli anni fra i '30 e i '40: lungi dall'avvicinarsi alla futuribilità, forse un po' ingom­ brante e impacciata ma attendibile, che avrebbe dominato gran parte della fantascienza spaziale nel cinema dello stesso periodo, la fanta­ scienza televisiva dei '50 obbedisce a un desigli che riporta agli anni '30. Le tute spaziali (spaziali?) di «Tom Corbett: Space Cadet» (1950) e di «Space Patrol» (1951) rimandano a un immaginario astronautico da tavole domenicali e la loro funzione è unicamente quella di diver­ sificarsi dalla linea militare dell'epoca: ciò che di norma esse riescono benissimo a fare, ma, come quasi sempre avviene in fantascienza, al prezzo di proiettare l'immaginario dello spettatore in una direzione che è quella del passato. Come al solito, insomma, la supposta futuri­ bilità viene costruita attraverso modelli desunti da ciò che è già noto, sia pure - come in questo caso - da una conoscenza che è a sua volta prodotto di un immaginario (quello fumettistico, appunto). Non è però l'elementare costumistica e l'ancor più elementare scenografia che qui interessano, bensì, come si diceva, l'ideologia che in modo coperto ma inequivocabile percorreva pressoché tutte le serie fantascientifiche del periodo. l'intero palinsesto televisivo degli anni '50 era informato a un tetragono anticomunismo come ha fra gli altri dimostrato |. Fred Macl )onald nel suo Television tind thè Reti Menace: I hc Video Rotiti lo 71’

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Vietnam, ma mentre in taluni generi, come quello spionistico o quel­ lo di carattere bellico, la chiave propagandistica era scoperta, nelle series fantascientifiche (destinate unicamente a un pubblico infanti­ le, come del resto dichiarano le fasce orarie di programmazione: il pomeriggio dei giorni infrasettimanali e il sabato mattina) le cose non venivano impostate in modo altrettanto chiaro. Alcune di esse, è vero, non si peritavano di chiamare l'odiato nemico col suo nome. In «Captain Midnight» (1952) l'eroe titolare volando col suo jet sui cieli del pianeta per difendere la libertà dell'occidente si ritrova non di rado in situazioni di diplomazia internazionale che rispec­ chiano indubitabilmente problemi politici di carattere reale. Nell'e­ pisodio Operation Failure, ad esempio, il protagonista si infiltra nei cieli di Balkavia per portare in salvo il leader del movimento clan­ destino nazionale sorto per contrastare la tirannia politica che vi domina. Balkavia: dalla Zilania e dalla Romanza di operette autoc­ tone come Sweethearts (1913) di Victor Herbert e come Rosalie (1928) di George Gershwin e Sigmund Romberg al Prigioniero di Zenda di Anthony Hope (e naturalmente le sue innumerevoli versioni cine­ matografiche), poi rivisitato molto bene anche dai fumetti di Walt Disney, dalla Freedonia di La guerra lampo dei fratelli Marx, trionfo dei quattro fratelli, diretti da Leo McCarey, fino agli exploit, non po­ co ammiccanti in direzione orientale, del team della celebre serie te­ levisiva sessantesca «Mission: Impossible», esiste tutta una retorica americana sul concetto di «stato europeo» che lo identifica o in un paese superato dai tempi, un'ideale Vienna straussiana che la storia ha lasciato intatta, o in una dittatura abietta e infida che, intuibilmente, ha rimpiazzato l'altro termine dell'alternativa. Già quel nome, Balkavia, parla chiaro in merito all'area geopoliti­ ca e geoculturale testimone delle prodezze di Captain Midnight nel­ l'episodio citato. L'anno seguente, il 1953, vede un altro team gover­ nativo, quello della serie «The Atom Squad», combattere esplicita­ mente contro i «comunisti», i quali, aiutati da un traditore america­ no, tentano di costruire un potentissimo magnete segreto il cui obiet­ tivo è di neutralizzare la forza navale statunitense. In un altro episo­ dio i tre protagonisti riescono addirittura a penetrare nel Cremlino per contrastare un'altra arma segreta sovietica. Secondo la miglior propaganda dell'epoca, il nemico rosso è equiparato ai sopravvissu­ ti del regime nazista, contro i quali la «squadra atomica» combatte con altrettanta alacrità, cosi come del resto nelle famose strisce di Siegei e Shuster aveva fatto Superman durante il tempo di guerra. Ma dopotutto serie come quelle citale non differivano affatto dal

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genere spionistico, da un ambito cioè che di fantascientifico aveva ben poco: la lotta della «squadra atomica» contro il magnete sovieti­ co presenta in fondo lo stesso impianto dell'avventura bondiana contro il Dr. No nel celebre romanzo di lan Fleming e nell'ancor più celebre film che dette il via alla serie britannica dell'agente 007. Nella prima metà degli anni '50 altre serie televisive si presentaro­ no con i crismi - per lo meno esteriori - della fantascienza. Il già cita­ to «Tom Corbett, Space Cadet» offre un particolare esempio di propa­ ganda ideologica nei genere. Un po' come sarebbe accaduto di li a una quindicina d'anni con il mitico «Star Trek», l'eroe della serie ap­ partiene, sì, a un'organizzazione interplanetaria chiamata United Pla­ nets (qualcosa dunque come la Federazione ideata da Roddenberry), ma in realtà l'etica di cui l'uno e l'altra si fanno portatori risponde in modo inequivocabile a una serie di valori che in quegli anni si pre­ sentavano come tradizionalmente americani. Libertà, Verità, Giusti­ zia erano gli encomiabili e astratti riferimenti morali che informavano l'azione di Tom così come dei protagonisti di un'altra serie contempo­ ranea, «Space Patrol». Giuramenti di fedeltà e d'osservanza costitui­ vano le fondamenta delle loro avventure, così come di quelle vissute dall'eroe eponimo di «Rod Brown of the Rocket Rangers» (1953), Ie cui direttive ufficiali, solennemente dichiarate con un giuramento erano, come scrive MacDonald, «una secolarizzazione dei Dieci Comandamenti che rifletteva la politica americana nei primi anni '50»: Sul mio Onore come Rocket Ranger io giuro che: 1. Atterrò sempre la mia rotta in accordo alla Costituzione degli Stati Uniti d'America. 2. Non attraverserò mai le orbite dei Diritti e delle Credenze altrui. 3. Volerò a tutta velocità spaziale per proteggere i Deboli e gli In­ nocenti. 4. Mi terrò a distanza dall'orbita di collisione con le leggi del mio Sta­ to e della Comunità. 5. Manterrò un'orbita parallela con i miei Genitori e i miei Insegnanti. 6. Non farò stoltamente rombare i miei razzi, e sarò sempre Gentile. 7. Terrò i miei motori pronti e i reattori in moto attraverso l’Industriosità e la Parsimonia. 8. Terrò il mio scanner sulla lunghezza dell'Apprendimento e ri­ marrò agganciato ai miei studi. 9. Terrò il mio cervello fuori dalla caduta libera rimanendo mental­ mente vigile. 1(1, Disintegrerò le meteore dalle rotte degli altri attraverso la Genti­ lezza e la Considerazione. 2.19

L'ETÀ DELL'OCCHIO. Il CINEMA E L4 CULTURA AMERICANA

Certo, qui di Unione Sovietica non si fa parola, ma in un'epoca in cui nacque la sua identificazione con l'impero del Male, è evi­ dente che tutti i valori espressi nel decalogo di Rod Brown non pos­ sono che intendersi come oppositivi a quelli di coloro che in quegli anni erano il Nemico. Un nemico tirannico, dedito alla schiavizzazione delle menti e dei corpi, contro il quale non solo era un diritto ma soprattutto un dovere combattere e vincere, come Buck Rogers, che nell'anno della sua apparizione sul piccolo schermo (1950) af­ frontò quegli «Slaves of the Master Mind» sulla cui identità politica nessuno poteva avere dubbi. A questi eroi dell'American twn/ si sa­ rebbe affiancato nel 1953 un vero pioniere di tale ideologia, quel Flash Gordon che prima nei fumetti e poi nei seriali cinematografici degli anni '30 aveva miticamente combattuto contro quel tiranno galattico di nome Ming nei cui tratti si riassumeva tutta l'oleografia negativa dell'infido orientale, la perfidia del quale avrebbe trovato modo di affermarsi persino nel progetto di un'orrenda guerra bio­ logica, fortunatamente evitata nel 1955 dal coraggio di Commando Codv - Skv Marshal of the Universe nell'omonima serie. Come si vede, quella della fantascienza televisiva anni '50 come genere «infantile» è solo una mezza verità. Diretta certamente a un pubblico giovanissimo, essa fu tuttavia non meno di altri generi un potente veicolo di propaganda ideologica. Come dice bene Mac­ Donald, le serie fantascientifiche televisive dell'epoca erano «fan­ tasie stilizzate della Guerra Fredda», ovvero un veicolo di propa­ ganda organizzato in termini adeguati all'età dell'audience che ne era destinataria. Forse perché ci si stava avviando verso l'epoca della «nuova frontiera», forse perché si trattava di una cartoon series, uno show inaugurato nel 1959, «Rocky and His Friends», pur appuntando i suoi strali sulle spie comuniste bombarde e militariste con forte accento est-europeo, segnò un certo mutamento di tono in questa produzione per il piccolo pubblico, che peraltro non rientra nello stretto ambito della fantascienza (i protagonisti sono uno scoiatto­ lo e un'alce, che rimandano pari pari al modello fornito dallo Steinbeck di Uomini e topi, in seguito saccheggiato dal mondo dei cartoni animati): i suoi «cattivi» sono sinistri quanto quelli che li avevano preceduti, ma sono anche bersaglio di lazzi e disavventu­ re che ne fanno oggetto di risate e scherno. A Stalin e ai suoi eredi, insomma, stava succedendo Kruscev, così come ad Eisenhower stava succedendo Kennedy. Di li a pochi anni la fantascienza tele­ visiva sarebbe davvero diventata adulta, non solo perche diretta a un pubblico ben piu vasto di quello per il quale era stata concepita 240

I 4 FANTASCIENZA TELEVISIVA NEGLI ANNI ‘SO

negli anni '50, ma anche e soprattutto perché l'avvento di «Star Trek» nel 1966 avrebbe lanciato e diffuso un concetto di spazio esterno come «final frontier», come terreno di conoscenza e non di rifiuto, di studio e non di pregiudizio.

Note bibliografiche Le parole di Al Hodge sono citate da Jeff Rovin nel suo

The Great Television

Series, Barnes & Co., South Brunswick-New York 1977; le ammissioni sulla puerilità delle prime serie televisive di fantascienza sono rintracciabili, fra i

molti, in Harry Castleman e Walter J. Podrazik, Watching Tv. Four Decades of American Television, McGraw-Hill, New York 1982, e Gary Gerani (con Paul H. Schulman), Fantastic Television, Harmony Books, New York 1977; il fonda­ mentale testo di J. Fred MacDonald, Television and the Red Menace: The Video Road to Vietnam, Praeger, New York 1985, i a tutt'oggi il miglior studio sullo sviluppo ideologico della televisione americana nei vent'anni che vanno dal

dopoguerra alla presidenza Johnson.

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«X-Files»: l'orrore del pensiero tra fantascienza e parodia

Come ogni serie di successo, anche «X-Files» non manca di fare i conti con una specifica realtà nazionale (e in questo caso, come si dirà, addirittura transnazionale) che in ultima analisi l'ha prodotta. Se da un lato formalmente essa si presenta come un incrocio fra due generi imperanti in questo periodo, la SF e l'horror, secondo una pratica che il cinema di Hollywood ha inaugurato da circa un ven­ tennio, dall'altro più che serie dedicata al paranormale, essa batte il versante della paranoia, e mi sembra farlo in un modo alquanto di­ verso da quello esibito da quel cinema anche in un recente passato (ma in auge a dir poco da una ventina d'anni: il primo Halloween, di John Carpenter, è del 1978 e il primo Nightmare, di Wes Craven, è del 1984). In Nightmare, infatti, secondo una linea di carattere squisi­ tamente postmoderno, il rapporto fra realtà e irrealtà sfaldava irre­ vocabilmente il suo confine consegnando la prima a un mondo d'incubo che, dopo averla invasa, ne minava i presupposti concreti e lo­ gici, ne trasformava il tessuto aggiungendovi un'ulteriore dimensio­ ne, che era sostanzialmente quella della mente, dell'inconscio. Con «X-Files» le cose cambiano, o per meglio dire esse tornano in certo modo indietro. Come nei vecchi film di SF targati anni '50, rientra in scena l'autorità (politici, militari ecc.), e tuttavia in termi­ ni praticamente opposti a quelli della tradizione SF di 40 anni fa. In questa, di norma, il modello generale si configurava come ir­ ruzione dell'irrazionale nel nostro mondo ordinato e quotidiano (un modello peraltro comune per molti versi anche all'horror film d'un tempo). Tale irruzione innescava solitamente una reazione da parte dell'autorità che ben presto si dimostrava stolida, miope, ottusa, fon­ data sul semplice (e inefficace) uso della forza piuttosto che sull'in­ telligenza, usualmente caratteristica di cui era depositario un qual­ che scienziato (o giornalista), che in questo modo pagava lo scotio di

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aver commesso un errore sul proprio stesso campo (quello stesso che in genere aveva dato il via al problema illustrato dal film). E sorge qui la differenza. «X-Files» mostra, sì, anch'essa l'auto­ rità in azione, ma intanto senza darle un volto ufficiale: uomini che fumano, gole profonde e così via hanno sostituito i generali, i sin­ daca, i capi della polizia d'un tempo; ma soprattutto l'autorità pre­ sentata dalla serie, lungi dall'essere stupida e semplicisticamente brutale, è invece sin troppo furba, astuta, a un punto tale da non poter facilmente essere inquadrata secondo l'usuale modello etico­ politico del passato. L'autorità, insomma, è coinvolta; e l'incertezza sui termini del suo coinvolgimento sostituisce - per così dire - la qualità fantastica (in senso todoroviano) del racconto irrealistico d'un tempo. In altre parole, l'incertezza fra lo strano e il meravi­ glioso che, teorizzava Todorov più d'un quarto di secolo fa nel suo ormai celebre Introduction à la littératurefantastique, si identifica nel fantastico trova in «X-Files» il suo corrispettivo nel modo di pre­ sentazione relativo ai personaggi fissi di contorno, laddove eviden­ temente all'inizio la posizione della Scully interpreta le ragioni del­ lo strano e quella di Mulder le ragioni del meraviglioso. Il modello, la formula generale della serie si potrebbe ridurre così: «Tutto non è quel che sembra, ma non si sa comunque mai per certo che cosa sia». Di questa formula è la parte avversativa a essere todoroviana, ma con un piccolo, importante distinguo: qual­ cuno, infatti, è a conoscenza di questa incertezza, la distilla, la go­ verna, la controlla. Non si potrebbe dunque essere più distanti da­ gli anni '50: in questi vigeva, sì, un'identica cultura del sospetto, ma verso un invasore esterno (o anche le sue quinte colonne inter­ ne) facilmente identificabile ideologicamente sul terreno della po­ litica contemporanea, secondo i dettami del più classico maccarti­ smo; oggi invece quello stesso sospetto si ritorce verso l'autorità che un tempo l'alimentava e di conseguenza verso noi stessi («Tru­ st no one»). È evidente che tutto questo nasce da esperienze decen­ nali che gli Stati Uniti hanno vissuto e stanno vivendo almeno a partire dal primo omicidio Kennedy, passando poi per il secondo, per Watergate, per Irangate, e così via sino alla ripetizione della tragedia sotto forma di farsa nel più recente caso Lewinski. «X-Fi­ les», insomma, è un perfetto prodotto del clima di tensione, so­ spetto, sfiducia che avvelena vieppiù l'America contemporanea, ma che - a ben vedere - non è poi tanto estraneo neanche a certa parte dell'Europa (si pensi alle emulsioni e alla riottosità della vita politico-giuridica nell'Italia degli ultimi anni, per non dire della Francia, del Belgio ecc.). ?44

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Il modello, peraltro, si applica a tutto nella serie: per esempio al rapporto fra i due protagonisti che oscilla incessantemente fra i poli dell'incomprensione e dell'attrito da un lato e della solidarietà e del­ la fiducia dall'altro senza che mai si distinguano posizioni chiare nel­ la prima o nella seconda direzione. Persino il continuo rimando me­ tanarrativo e citazionale entra a far parte di questo quadro d'incer­ tezza, di indistinzione: «X-Files» riassume il magazzino dell'horror e della SF cinetelevisivi americani del passato senza una linea ricono­ scibile, un'influenza precisa e identificabile. Nel catalogo di Noir in Festival 1996 Fabrizio Liberti identifica ed esemplifica un lungo elen­ co di queste influenze (più di 30) in relazione a singoli episodi. A mia volta ne aggiungerei qualche altro, non certo per dimostrare alcun­ ché (quanto indicato da Liberti è più che sufficiente per comprendere l'eterogeneità dei rimandi e dunque anche della serie di Chris Carter) ma soltanto per arricchire ulteriormente il quadro: Le squalo di Steven Spielberg per l'episodio II diavolo del Jersey, Una cascata di diamanti di Guy Hamilton per Sabotaggio alieno, Hallucination di Joseph Losey per Esperimenti genetici, Vestito per uccidere di Brian De Palma per Passione omicida, mezza dozzina di romanzi di Stephen King e di susseguenti film che ne sono stati tratti per La pelle del diavolo, Il circo del Dr. Lao ma più il romanzo di Charles Finney che il film trattone da George Pai - per Strane ferite, Grano rosso sangue di Fritz Kiersch per DNA sco­ nosciuto, l'episodio della prima serie di «Star Trek», Gli anni della mor­ te, per Calma reale. E forse altri ancora se ne potrebbero aggiungere. In voluta, programmatica opposizione a questa «filosofia dell'in­ certezza» la serie, per così dire, mostra i mostri, in accordo con la voga della «meraviglia orrifica» tipica del cinema americano con­ temporaneo. Anzi, essa supera decisamente i limiti imposti dalla tradizione televisiva in quest'ambito entrando in competizione con le audacie che gli effetti speciali hanno da tempo dimostrato essere possibili sul grande schermo almeno da Alien di Ridley Scott in poi. Già nel 1960 la televisione statunitense aveva incominciato a gio­ care con l'orrore delle immagini, in particolare nella serie «Thriller» (1960-62), cui, è bene ricordarlo, avevano collaborato registi di no­ me come, fra i molti, Mitchell Leisen, John Brahm, Laszlo Benedek, Ida Lupino, Robert Florey. 11 biennio seguente aveva visto poi «Ou­ ter Limits», i cui trucchi ed effetti speciali di carattere orrifico erano sicuramente più ridicoli, ma che ugualmente tentavano di aumenta­ re il quoziente horror distribuito dal piccolo schermo. «Outer Li­ mits» è stata la serie forse più vicina a «X-Files», purtroppo non suf­ fragata da altrettanta perizia tecnica Si trattava tuttavia di una serie a carattere non continuativo, con personaggi sempre diversi e senza

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alcun legame gli uni con gli altri, laddove la creazione di Carter mo­ stra un'invidiabile compattezza, non solo per quel che riguarda la costante del cast, ma anche per la precisa, caratteristica atmosfera notturna, umida, semi-irreale e, non ultimo, per quella sorta di bas­ so di fondo fornito proprio dal rapporto fra protagonisti e autorità nei termini di incertezza di cui si diceva più sopra. «X-Files», insomma, propone le vecchie domande dell'ufologia, della superstizione, della parapsicologia ecc., ma variando il rap­ porto fra queste aree e coloro che quelle domande pongono (e a volte sono costretti a porsi) in una direzione che verrebbe da defi­ nire interattiva. Laddove in passato i testimoni di fenomeni simili a quelli descritti nella serie vi si ponevano davanti in termini sostan­ zialmente passivi, meri oggetti di operazioni che esulavano dalla sfera della realtà, gli eroi di «X-Files» ingaggiano con essi una lotta che li vede divenire soggetti. Non una lotta di sopraffazione, ma, appunto, di testimonianza. Il primo problema di Mulder non è tan­ to ritrovare la sorella scomparsa, quanto di fornire prove dell'esi­ stenza degli alieni, della loro invasione ed eventualmente di un lo­ ro complotto (e anche di un ulteriore complotto da parte delle au­ torità per impedirne la raccolta). L'interattività, dunque, si identifi­ ca in questo caso come un gioco d'indagine i cui partecipanti sono tre, ma uno solo è singolarmente in alterno contatto con gli altri due che non lo sono, dei quali, a loro volta, uno — per così dire fornisce il materiale e l'altro lo distrugge mettendo il terzo sempre in condizione di doverne ottenere dell'altro. Sono finiti i tempi dello sguardo attonito del terrestre davanti al Visitatore strano o orripilante o maestoso che arrivava dallo spazio. Persino quando la Hollywood dei nostri anni imposta il proprio racconto in questi termini, come nel caso di Independence Day di Ro­ land Emmerich, la pellicola non può non uscirne come un'ironica esercitazione di citazioni, di allusioni a quel cinema ormai obsoleto. La questione non è più da dove viene l'alieno e che cosa vuole, ma come dimostrare che c'è: dalla fantascienza si passa alla detection e in certa misura persino alla filosofia, ovvero dalla certezza tranquil­ lizzante del genere (anche di quello più impressionante) si passa, di­ ciamolo ancora una volta, a una contaminazione di generi e l'Altrc diventa un mostro che non soltanto - come taluni suoi antenati del passato - è orribile a vedersi, ma che è anche, e proprio per questo, Orribile a pensarsi. In fondo, è di questo che si occupa una serie come «X-Files», del bel risultato cui ci hanno portato la politica e la società di massa in questo scorcio di fine millennio: l’orrore del pensiero. Il fenomeno «X-Files» ha comunque introdotto sul piccole

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schermo una rappresentazione orrifica alquanto inedita, affidando a tecnologia ed effetti speciali sofisticati la realizzazione di ciò che visivamente caratterizza i generi cui si ispira in un modo sostan­ zialmente non inferiore ai livelli raggiunti in questo senso dallo spettacolo cinematografico. E sempre in modo non diverso dal ci­ nema la serie televisiva ha operato, come si diceva, la contamina­ zione fra due generi in maniera inequivocabile e con una connes­ sione così stretta da creare in certo senso una sorta di genere auto­ nomo come sua risultante. 14 r'-'"' "l‘. • ’ •* . C • D'altra parte, questo genere non è storicamente del tutto origi­ nale, dal momento che se ne possono trovare inequivocabili tracce nel cinema hollywoodiano degli ultimi vent'anni. Ciò che rende la serie irriducibile ad altri prodotti pur comparabili è, dicevamo, l'at­ mosfera paranoica che la pervade. Anche in questo senso, va detto, la componente in questione non è originale: i tardi anni '60 in parti­ colare contano più d'una serie televisiva fondata su tale atmosfera, da «The Invaders» (1967-68) a quella specie di Truman Show ante litteram che è «The Prisoner» (1968). La differenza è peraltro ovvia: in questi - soprattutto il primo, che in certa misura mutua la com­ ponente in questione dalla tipica paranoia della fantascienza cine­ matografica americana degli anni '50 - la struttura di riferimento del reale è messa in pericolo solo dal fatto che forze esterne la mi­ nacciano in modo segreto e pervasivo, laddove in «X-Files» la mi­ naccia proviene dall'interno, da qualcosa, cioè, che si suppone fon­ dato a garanzia di singolo e società. Ma anche le connessioni con il secondo esempio televisivo citato (che Gerani e Schulman defini­ scono «perplexing» e «Kafkaesque») sono più deboli di quanto ap­ paia: in «The Prisoner» l'eroe titolare si trova suo malgrado a vive­ re in un luogo fasullo e tecnologicamente controllato, segregato tuttavia dal mondo reale, quotidiano. La parentela è piuttosto con una bella pellicola dello stesso periodo, Operazione diabolica di John Frankenheimer, che, come un'altra serie anni '60, «The Fugitive», rappresenta il distillato della paranoia americana post-Dallas. Con «X-Files» dunque le cose cambiano, ma cambiano secondo una traccia che è da sempre parte della tradizione psicopolitica sta­ tunitense. Nel suo celebre saggio «The Paranoid Style in American Politics» Richard Hofstadter definisce l'argomento titolare in questi termini: «L'immagine centrale è quella di una vasta e sinistra cospi­ razione, una macchinazione, gigantesca eppure sottile, messa in moto per minaree distruggere un modo di vita». I lofstadter continua chiarendo che nello stile paranoide la cospi­ razione è -la forza motrice degli eventi storici» e che essa è concepi­ ta?

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ta «in termini apocalittici». In America tale costruzione si è esercita­ ta nei secoli contro i movimenti massonici, contro il cattolicesimo, contro gli abolizionisti, contro i mormoni, contro i comunisti ecc. Ora, «X-Files» non fa altro che proiettare su un piano immagina­ rio un modello che del resto all'immaginario già appartiene, appli­ candolo a un nemico che non trova immediato riscontro sulla scena storico-politica, ma che si configura attraverso allusioni program­ maticamente vaghe, nebulose, non chiarite. È importante sottoli­ neare che nello stile paranoide il nemico si identifica spesso in un ampio nucleo di individui interno alle forze stesse di governo e che i suoi esponenti tramano in stretto contatto con - quando non in di­ pendenza da - una rete organizzativa di carattere planetario nel­ l'intento di rovesciare la democrazia americana abbattendone i sa­ cri pilastri della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzio­ ne, i cui testi acquistano un valore di verità comparabile a quello della tradizione biblica. È in questa chiave, anzi, che vanno letti i fermenti separatisti che hanno sconvolto gli Stati Uniti negli ultimi anni, dall'incidente di Ruby Ridge alla tragedia di Waco, Texas, eventi che del resto X-Files - Il film di Rob Bowman cita apertamen­ te in connessione con la cospirazione che l'agente Mulder tenta di smascherare e che, se si prescinde dalla componente fantascientifi­ ca della pellicola e della serie, mostrano inquietanti risvolti della realtà non dissimili da quelle che sembrano essere le fantasie di Ch­ ris Carter. Un esempio fra i molti possibili: i due elicotteri che inse­ guono i protagonisti nella notte, e che compaiono dal e svaniscono nel nulla, fanno parte di una vera e propria tradizione connessa alle odierne milizie separatiste americane, tanto che questa è divenuta una specie di genere a sé (le «black helicopter stories» di cui parla Richard Abanes nel suo documentato A mericcm Militias). Nel folklo­ re separatista gli «elicotteri neri» presentano le stesse elusive carat­ teristiche degli Ufo e in sostanza incarnano la sensazione di minac­ cia che è ovviamente parte essenziale dello stile paranoide. Il film in questione è un concentrato di mitologie vecchie e nuove della cultura americana, le stesse che, dopo aver ricevuto il loro bat­ tesimo in ambito letterario, hanno trovato nuova forma (ma identica sostanza) nella produzione cinematografica nazionale. Mulder, ad esempio, è presentato, sì, come un cavaliere dell'ideale, ma anche come un Tom Sawyer incapace di stare alle regole più elementari: al­ l'udienza della commissione d'inchiesta arriva in ritardo e quando è il momento di entrare rischia di offenderne gli alti membri dimenti­ cando la giacca su una sedia. Il suo precedente cinematografico piu diretto, non c'è dubbio, è il Joe Turner di / Ire giorni del Condor di

«X-FILES*: L'ORRORE DEL PENSIERO

Sydney Pollack, ed è altrettanto indubitabile che l'agente Scully, piazzatagli alle costole per controllarne le mosse nella sua ricerca di prove dell'esistenza degli Ufo e di una cospirazione nelle alte sfere tesa a celarle, sia una versione della positiva, razionale, pragmatica figura della donna twainiana, Zia Polly, Miss Watson o Vedova Dou­ glas che sia, nei termini ammirevolmente indicati da Leslie Fiedler. Anche più interessante è lo scenario della storia. Se da un lato la pellicola rimanda ai grandi film d'avventura con la sua straordina­ ria e continua dislocazione nei più disparati luoghi d'America e del mondo (da Londra all'Antartide), talché il pensiero corre subito al­ la vorticosa geografia della sessantesca serie 007 (ma anche a opere posteriori come, per fare qualche titolo, a Incontri ravvicinati del ter­ zo tipo. Close Encounters of the Third Kind, 1977, e alia serie di Indiana Jones, tutti firmati da Steven Spielberg), d'altra parte una consisten­ te sezione della pellicola si snoda in una cornice che non si limita ad essere soltanto allusiva di una tradizione cinematografica. Se, insomma, è vero che la sequenza dell'inseguimento nel campo di granoturco si ispira direttamente all'Hitchcock di Intrigo internazio­ nale, è altrettanto vero che l'invenzione di un adynaton come quello che vede un luogo desertico trasformato in giardino rimanda al grande dibattito nato in America con l'arrivo e lo sviluppo della ci­ viltà bianca e che trovò i suoi primi teorizzatori, pro e contro la ma­ nipolazione e il possibile sfruttamento della wilderness, almeno a partire da Zebulon Pike passando per una larga serie di viaggiatori (Josiah Gregg, Horace Greeley, John Wesley Powell, Clarence Dut­ ton ecc.), i quali smussarono via via la durezza del loro giudizio sulle plaghe desertiche sino a che, come ricorda IHenry Nash Smith, Ferdinand V. Hayden distrusse il mito del deserto e aperse la via a quello del giardino sulla base della previsione di un mutamento meteorologico radicale e stanziale. La differenza fra questo mito del deserto come giardino e quello del film di Bowman sta nel fatto che il secondo è la parodia del primo. In X-Files - Il film, infatti, la colti­ vazione di granoturco nel Texas settentrionale rappresenta un falso Eden, che è proprio attraverso di essa che si sviluppa il DNA alieno destinato a essere trasmesso nei corpi umani attraverso le api che pungono anche l'agente Scully (e in che momento...). È a questo punto che il secolare dibattito americano sul mito del deserto di­ venta esemplare di un'altra controversia: quella sulla possibilità e sugli eventuali pericoli del paradiso terrestre (un tema che, in am­ bito fantascientifico, è stato scavato più che abbondantemente dallo «Star Trek» televisivo). Come che sia, per comprendere appieno la funzione parodistica di cui si diceva bisogna ricordare che Li tra­ ?J9

L'ETÀ DELL’OCCHIO. IL CINEMA E LA CULTURA AMERICANA

sformazione del mito del deserto in quello del giardino, soprattutto nella teorizzazione fattane alla fine dell'800 da William E. Smythe, viene vissuta, nelle parole di David W. Teague, come «la prossima sfida per la riforma della razza nell'esperienza Anglosassone» e che «il deserto fornì alTAmerica un'opportunità di ricominciare dacca­ po». Ora, che cosa di più parodistico per la nazione di un nuovo inizio attraverso una razza che svuota letteralmente i corpi umani divenuti semplici carcasse ospiti di un'invasione aliena? La cosa è tanto più paradossale se si pensa che fra i teorizzatori contemporanei della wilderness americana il romanziere Edward Ab­ bey ebbe a scrivere trent'anni fa nel suo Desert Solitaire che egli la ve­ deva come «un rifugio dal governo autoritario, dall'oppressione poli­ tica (...) come una base di resistenza alla dominazione centralizzata». Insomma, qualcosa di non molto diverso da quello contro cui lottano i due agenti di Chris Carter. In breve, il film di Bowman impiega alcuni mitologemi cari alla cultura americana di sempre rovesciandone però proprio il valore mitologico e fornendo così una versione della tradizione aggiorna­ ta a un'epoca che del mito ha mantenuto la forma, la struttura, l'in­ ventario, ma non il senso profondo. X-Files - Il film impiega il mo­ dello ma non il suo spirito originario e opera un po' come i suoi alieni, riducendo a vuoto e inservibile involucro ciò che un tempo era carne e sangue, vale a dire adottando del mito solo le sue sem­ bianze per sostituirlo con l'ibrida creazione di una biologia che può anche incuriosirci, ma nella quale non possiamo identificarci.

Note bibliografiche

Il riferimento al fantastico come incertezza fra lo strano e il meraviglioso vie­ ne daU'ormai celebre studio di Tzvetan Todorov, Introduction à In Uttérature fanlastique, Ed. du Seuil, Paris 1970, in seguito tradotto in italiano da Garzan­ ti, Milano; il nutrito elenco di pellicole che sembrano in qualche modo avere influenzato vari episodi della serie di Chris Carter, messo a punto da Fabri­ zio Liberti, si trova nel catalogo di Noir in Festival 1996, curato da Marina Fabbri, Ed. Farenheit 451, Roma 1996; il commento su -The Prisoner- è in Gary Gerani (con Paul H. Schulman), Fantastic Television, Harmony Books, New York 1977; il famoso ed esemplare saggio di Richard Hofstadter è in The Paranoid Style in American Politics and Other Essays, Vintage Books, New York 1967; il riferimento ai movimenti separatisti americani e alle «black helicop­ ter stories» è in Richard Abanes, American Militias. Rebellion, Racism & Reli gioii, InterVarsity Press, Downers Grove P'96; sulla funzione femminile di controllo e mantenimento dell'ordine nei due pivi celebri romanzi di Mark Twain ha scritto pagine memorabili I eslie Fiedler nel notissimo Annue c mot­

•X-FILES»: L'ORRORE DEL PENSIERO

te nei romanzo americano, Longanesi, Milano 1980; sul mito del deserto osser­ vato e commentato dai viaggiatori americani ottocenteschi e sulla sua tra­ sformazione in giardino rimane fondamentale lo studio di Henry Nash Smith, Virgin Land. The American West as Symbol and Myth, Harvard UP, Cam­ bridge-London 1970; il rapporto fra quel mito e la trasformazione della razza

anglosassone secondo William E. Smythe è commentato da David W. Teague nel suo interessante The Southwest in American Literature and Art, Arizona UP, Tucson 1997; le parole di Edward Abbey sul deserto sono riportate da Rode­ rick Nash in un altro classico studio, UP, New Haven-London 1982.

Wilderness and the American Mind, Yale

L'iperrealismo trentanni dopo

L'iperrealismo è un po' come il postmoderno (di cui è ovvia­ mente un prodotto): se ne è parlato così tanto che ormai è dapper­ tutto. Ed essendo dappertutto nessuno si accorge più che c'è. Que­ sta «scomparsa», tuttavia, ha un'evoluzione e dei modi tutti suoi. Vale a dire: l'iperrealismo non è più quello di una volta, è cambiato e si è adeguato ai tempi. Un quarto di secolo fa il cinema (e l'arte figurativa un po' prima) si era accorto che, rispetto alla tradizione, ci poteva essere un modo esattamente opposto di elaborare la realtà: non più la solita storia dell'immaginazione dell'artista, né quella, altrettanto frusta, dell'ar­ te come specchio del mondo. Al contrario, se di specchio si doveva parlare, allora che fosse davvero un prodotto della superficie, una visio­ ne delle cose che non lasciava spazio alla benché minima presenza soggettuale. Ma, si sa, l'oggettività è impossibile. Ecco allora che l'i­ perrealismo travestì l'oggettività a guisa di antipsicologia: il distac­ co, la freddezza della superficie divenne l'elaborazione estetica della realtà in quanto oggetto. Non si trattava di sperimentazione (se non in termini strettamente tecnici: la combinazione di fotografia e im­ piego di acrilici, ad esempio), ma di applicazione di una teoria, quel­ la della mercificazione dell'arte e dell'artisticizzazione del mondo. Gli hegelo-marxisti danzarono allora per le strade: uno dei vari vaticini del boss (quale dei due, rimane una scelta del lettore) si era avverato. Solo che ogni volta che si parla in termini di apocalisse, puntualmente arriva la Storia a ricordare che le cose non finiscono mai: cambiano semplicemente, alla faccia dei vari esorcismi che in questi ultimi anni abbiamo sentito disgustati, da parie dell'esperto di turno, sulla «fine della Storia» e altre cretinate indegne di chi, oltre a scrivere sui quotidiani, ir segna filosofia e magari alla tine del mese no tira su anche uno stipendio. E in effetti le cose cambiarono, la Sto*

L'ETÀ DELL'OCCHIO. IL CINEMA E LA CULTURA AMERICANA

ria non finì e il mondo continuò a mutare sempre più il suo volto. Non era soltanto questione di buco nell'ozono, di discariche indu­ striali, di mine antiuomo, di disboscamento amazzonico; il volto cambiò anche nella quotidianità delle abitudini, vale a dire dal rap­ porto vieppiù sussunto con la tecnologia software a quello con il pro­ prio corpo. Di questo mutamento però non si può comprendere una virgola se non si tiene conto di quello che è il suo assunto primario e fondante: l'assenza del soggetto, il disgregarsi di una nozione (o for­ se ideologia) che a partire dal Rinascimento, attraverso l'illuminismo e poi nell'età borghese, aveva situato l'umano al centro dell'univer­ so, liberandosi di un'idea sostanzialmente mitologica del mondo. La nostra età sembra dunque abiurare da questa lunga e impor­ tante tradizione a favore non certo di un ritorno indietro (che del resto già Nietzsche aveva paventato, ritenendo che l'uomo civiliz­ zato, posto in una situazione sostanzialmente primitiva, si sarebbe comportato infinitamente peggio di un primitivo), ma di un pro­ gressivo indebolimento delle strutture di valori portanti fissate da quel lungo passato. Ci si chiederà: che c'entra il_cinema? C'entra eccome, perché esso è l'epitome simbolica (e non solo simbolica) di questo disfacimento. Anzi, col suo stesso avvento esso fu il primo passo verso quella che ormai, a distanza di un secolo, sembra una mèta pressoché raggiun­ ta: il disfacimento del reale. La creazione di una tecnica che permet­ teva la «rappresentazione della realtà» non poteva non essere un formidabile sintomo del malessere che stava per colpire la nostra stessa nozione di realtà. Le arti tutte congiurarono sempre più a questo fine, o se si preferisce, mostrarono vieppiù quanto le cose sta­ vano cambiando. L'iperrealismo, lungi dall'essere un punto d'arri­ vo, fu invece la prima fase di un nuovo stadio dell'evoluzione, in parte mutuando figurativamente dalle esperienze della pittura e della scultura negli anni '60, in parte elaborando a sua volta una concezione e una prassi cinematografica che ne traduceva i princìpi in termini filmici. Persino vecchie tradizioni come quella del remake rientrarono in questo discorso, riproponendo non tanto medesimi soggetti realizzati in modo diverso, ma soggetti originali realizzati in modo simile al passato (il lampantissimo caso Bogdanovich). L'iperrealismo, insomma, era anche e soprattutto coscienza del cinema come storia e prassi. Il primo passo, si diceva. Il secondo arrivò di lì a non molto: la realtà come stravolgimento fotografico, e più esattamente come vi­ sione filtrata attraverso un colorismo che, esattamente all'opposto della grande era del colore (1*^40-1^60), sommergeva le immagini

L'IPERREAUSMO TRENT’ANNI DOPO

in una monocromia che, seppia o bluastra che fosse, allontanava comunque dallo spettatore la sensazione di una ricostruzione «rea­ listica» della realtà. Nel cinema americano degli anni '80 quasi tut­ to avviene come in un acquario, accrescendo il quoziente onirico che è comunque parte costitutiva del cinema in quanto tale. Il so­ gno, peraltro, divenne presto incubo attraverso il rilancio del cine­ ma orrifico e anche fantascientifico. Il terzo stadio, infatti, fu la per­ fetta conseguenza di quelli precedenti: una realtà osservata così minuziosamente come quella dell'iperrealismo poteva soltanto continuare a esistere e a essere messa in scena attraverso il detta­ glio. E il dettaglio di una realtà senza soggetto o diventa (supposta) neutralità dell'immagine (gli esempi dell'avanguardia in questo senso sono innumerevoli e diversissimi, e citeremo emblematica­ mente il caso di Warhol), oppure, nel cinema tradizionalmente commerciale, si appunti! sul corpo inteso non avaguardisticamente come oggetto di una nuova coscienza magari raggiunta attraverso il suo uso come terreno di lotta, ma proposto anch'esso come su­ perficie (in talune derive, addirittura scoria: il caso John Waters). E il modo migliore di evidenziare la superficie è quello di inciderla, o comunque di variarla. Questo spiega l'assalto degli horror film sanguinolenti e atroci, ma è anche un primo momento di riferimen­ to a quella presenza delia metamorfosi che da quasi vent'anni ha do­ minato il cinema americano. Ovviamente, e per sua natura, un te­ ma del genere era più facilmente utilizzabile all'interno di generi come l'horror e la SF. Ma in fondo è bastato avere pazienza, ed ecco che dopo qualche anno un film come Crash è riuscito a strapparlo al cinema di genere. Forse è proprio qui lo scandalo di quella pelli­ cola da tutti così tanto discussa e da taluni così poco capita: Crash può benissimo non piacere (del resto, non è un film fatto per piace­ re), ma se gli si nega importanza, allora bisogna anche negarla, per far due titoli, a Taxi Driver di Scorsese e ad Alien di Scott in quanto anelli della catena epistemologica che porta al film di Cronenberg (anzi, all'intera filmografia di Cronenberg). Insomma, il paradosso è questo: con la sua apparente attenzione al corpo l'iperrealismo ha invece varato la coincidenza fra immagi­ ne e superficie dando la stura a un cinema di corpi superficiali. La questione, ovviamente, non riguarda il cinema in se stesso; il pro­ blema è infatti un problema reale che il cinema si limita - né altro potrebbe fare-a tradurre nei propri termini. E il problema reale ri­ guarda l'indebolimento dell'idea occidentale di corpo (e di realtà): non piu il tempio della tradizione giudeo-cristiana, né il settecente­ sco involucro del pensiero individuale, ma un oggetto da trasforma­ 255

re a piacimento, da tatuare, ferire, sezionare, perforare, la realtà es­ sendo ormai diventata un'altra. Quale? È evidente: quella che non esiste e che chiamiamo virtuale. Quella è la realtà che trattiamo oggi

con maggior interesse e reverenza, quella è la realtà che ha sostitui­ to l'altra nel nostro immaginario. «Il genere umano non può sop­ portare troppa realtà», poetava il T. S. Eliot dei Quattro quartetti. Ed è vero. Ma è anche vero che non può sopportarne troppo poca e che l'iperrealismo, lungi dall'essere un concentrato di realtà, ne ha sca­

vato via il contenuto lasciando intatta la pura sembianza, la superfi­ cie. Non a caso la realtà virtuale, che non può creare sostanza, crea (o dà l'illusione di creare) spazio: lo spazio virtuale è il sostituto di ciò di cui siamo stati privati. Il giorno in cui saremo in grado di co­ struire anche un tempo virtuale, allora sì sarà la «fine del cinema» (non della Storia, per piacere!), allora sì si compirà la spettacolariz­

zazione del mondo di cui abbiamo parlato negli ultimi trent'annL

Indici

Indice dei film

Accadde una notte (It Happened One Night, 1934) di Frank Capra 16,18,20 Acid Man (1966) di John Cavanaugh 200 Acque del sud (To Have and Have Not, 1944) di Howard Hawks 179,180 Agente 007 - Una cascata di diamanti (Diamonds Are Forever, 1971) di Guy Hamilton 245 Ai confini della realtà (The Tunlight Zone - The Movie, 1983) di John Landis, Steven Spielberg, Joe Dante, George Miller 48 Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, 1939) di John Ford 160 Albero cresce a Brooklyn, Un (A Tree Grows in Brooklyn, 1945) di Elia Kazan 35 Alien (id., 1979) di Ridley Scott 105,106,108,245,255 Always • Per sempre (Always, 1989) di Steven Spielberg 153 America oggi (Short Cuts, 1993) di Robert Altman 59,60,65 Amistad (id., 1998) di Steven Spielberg 149-154 Ammutinamento del Caine, L' (The Caine Mutiny, 1954) di Edward Dmytryk 171 Amore e guerra (Love and Death, 1975) di Woody Allen 221,223 Amori di Carmen, Gli (The Loves of Carmen, 1948) di Charles Vidor 182 Anche gli uccelli uccidono (Brewster McCloud, 1970) di Robert Altman 58,61 Animal Crackers (id., 1930) di Victor Heerman 220,222 Arriva John Doe (Meet John Doe, 1941) di Frank Capra 19,20,91 Attack of the Crab Monsters (1956) di Roger Corman 53 Avventura viene dal mare, L‘ (Frenchman's Creek, 1944) di Mitchell Leisen 96 B

Baby Doll (La bambola viva) (Baby Doll, 1956) di Elia Kazan 36,38 Baciami, stupido (Kiss Me, Stupid, 1964) di Billy Wilder 178 Bandiera gialla (Panic in the Streets, 1950) di Elia Kazan 36 Barriera invisibile (Gentleman's Agreement, 1948) di Elia Kazan 36 Beat • Violenza alla deriva, The (The Beat, 1988) di Paul Mones 194 Beat Daddies (1996) di James Kanter 195 Beal Generation, The (1959) di Charles Haas 195 Beneath the Valley of the Ultravixens (1979) di Russ Meyer 68 Beyond the Valley of the Dolls (id.. 1970) di Russ Meyer 68,72, 73 Blade Runner (id.. 1982) di Rid.fy Scott 105, |06, 108-110 Blues di mezzanotte (Tno Late Blues. 1962) ill John Caasavetw» IKK, |96

INDICE DEI FILM

Bostoniani, I (The Bostonians, 1984) di James Ivory 227 Brood la covata malefica (The Brood, 1979) di David Cronenberg 111 Bucket of Blood, A ( 1959) di Roger Corman 195 Buffalo Bill egli indiani (Buffalo Bill and the Indians, 1976) di Robert Altman 61 Buio in cima alle scale, Il (The Dark at the Top of the Stairs, I960) di Delbert Mann 37

C California Poker (California Split, 1974) di Robert Altman 58-60, 63, 64 Cantando sotto la pioggia (Singin' in the Rain, 1952) di Stanley Donen, Gene Kelly 214 Cappello pieno di pioggia, Uh (A Hatful of Rain, 1957) di Fred Zinnemann 199 Carovana dei mormoni, Ut (Wagonmaster, 1950) di John Ford 173 Gitene della colpa, Le (Out of the Past, 1947) di Jacques Tourneur 184 Chappaqua (id., 1966) di Conrad Rooks 189 Che bella vita (Easy Living, 1937) di Mitchell Leisen 95, 96 Che nessuno sema il mio epitaffio (Let No Man Write My Epitaph, I960) di Philip Lea­ cock 200 Cherry, Harry and Raquel (id., 1969) di Russ Meyer 73 Chumlum (1964) di Ron Rice 191 Città amara (Fat City, 1972) di John Huston 101, 104 Città dei mostri, Ut (The Haunted Palace, 1963) di Roger Corman 53, 54, 118 Cocoanuts, The (1929) di Robert Florey, Joseph Stanley 220, 222 Colore mola, Il (The Color Paride, 1985) di Steven Spielberg 150 Colpa della signora Hunt, Ut (Song of Surrender, 1949) dì Mitchell Leisen 96 Colpo di fulmine (Ball of Fire, 1942) di Howard Hawks 16 Come vinsi la guerra (The General, 1926) di Buster Keaton 158 Compari, I (McCabe and Mrs. Miller, 1971) di Robert Altman 58, 60,61 Compromesso, Il (The Arrangement, 1969) di Elia Kazan 36 Conquista del West, La (How the West Was Won, 1962) di John Ford, Henry Hathaway, George Marshall 88 Conto alla rovescia (Countdown, 1968) di Robert Altman 57 Crash (iti., 1996) di David Cronenberg 111, 255 Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien, 1972) di Jean-Luc Godard 183

D Daisy Miller (id,, 1974) di Peter Bogdanovich 79,80, 84,227 Dalla terrazza (From the Terrace, 1960) di Mark Robson 73 Danza delle luci, La (Gold Diggers of 1933, 1933) di Mervyn LeRoy 183, 185 Delinquents, The (1955) di Robert Àltman 57 Destinazione... Terra! (li Came from Outer Space, 1953) di Jack Arnold 48 Dietro la maschera (Mask, 1985) di Peter Bogdanovich 127 Dollaro d onare. Un (Rio Bravo, 1959) di Howard Hawks 127 Dottor St ranamore ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba. Il (Dr. Strangelove, or: How I Learned to Stop Worrying and Low the Bomb, 1964) di Stan­ ley Kubrick 64 Due inglesi, Le (Les deux anglaises et Ie Continent, 1971 ) di Francois Truffaut 113,120 Duello al sole (Duel in the Sun, 1946) di King Vidor 177 2022; i sopravvissuti (Soylent Green, 1973) di Richard Fleischer 45 Due volti della vendetta. I (One-Eyed lacks, 1961 ) di Marlon Brando 182

*>£/!

INDICE DEI FILM

E

Early Abstract ions ( 1939-1956) di Harry Smith 192 È arrivata la felicità (Mr. Deeds Coes To Tonni, 1936) di Frank Capra 16,17,91 Easy Rider (id., 1969) di Dennis Hopper 202 Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990) di Tim Burton 55 Ed Wood (id., 1994) di Tim Burton 45 Eurico V (Henry V. 1989) di Kenneth Branagh 231 Erotica (1962) di Russ Meyer 69 Ero uno sposo di guerra (/ Was a Male War Bride, 1949) di Howard Hawks 16 Essere o non essere (To Be or not to Be, 1983) di Alan Johnson 230 Essi vìvono (They Live, 1988) di John Carpenter 117,119 Eterna illusione, L‘ (You Can't Take It With You, 1938) di Frank Capra 16 E.T, Textraterreslre (E.T. the Extra-Terrestrial, 1982) di Steven Spielberg 152 .. E tutti risero (They AU Laughed, 1981) di Peter Bogdanovich 83,123 Europe in the Raw! ( 1963) di Russ Meyer 69 Europei. Gli (The Europeans, 1979) di James Ivory 227 F

Falstaff (Chimes at Midnight/Campanadas de medianoche, 1966) di Orson Welles 27 Fango sulle stelle ( Wild River, 1960) di Elia Kazan 36,40 Fantasia (id., 1940) di Ben Sharpsteen |e Walt Disney) 205 Faster, Pussycat! Kill! Kill! (id., 1966) di Russ Meyer 70-73, 75,185 F for Fake (id., 1975) di Orson Welles 23, 28 Fiamma del peccato. La (Double Indemnity, 1944) di Billy Wilder 96 Figlio di Giuda, Il (Elmer Gantry, 1960) di Richard Brooks 102 Finalmente arrivò l'amore (At Long Last Love, 1975) di Peter Bogdanovich 123 Finders Keepers, Lovers Weepers (id., 1968) di Russ Meyer 68, 72 Fiume rosso, Il (Red River, 1949) di Howard Hawks 129 Five (1951) di Arch Oboler 47 Flaming Creatures (1963) di Jack Smith 188 Flower Thief, The (1960) di Ron Rice 192 Fobia (Phobia, 1980) di John Huston 102 Follia d'amore (Fool for Love, 1985) di Robert Altman 60 Folli notti del Dottor Jerryll. Le (The Nutty Professor, 1963) di Jerry Lewis 214 Fonte meravigliosa, La (The Fountainhead, 1949) di King Vidor 177 Forrest Gump (id., 1994) di Robert Zemeckis 131-135, 140 Fragole e sangue (The Strawberry Statement, 1970) di Stuart Hagmann 203 Frankenstein Iunior (Young Frankenstein, 1974) di Mel Brooks 216 Freud, passioni segrete (Freud, 1962) di John Huston 102,104 Fronte del porto (On the Waterfront, 1954) di Elia Kazan 36, 37 Frutto proibito (The Major and the Minor, 1942) di Billy Wilder 179, 185 Fucili degli alberi, I (Guns of the Trees, 1961-62) di Jonas Mekas 190,192, 200

Gang (Thieves Like Us, 1974) di Robert Altman 60,61 Gilda (id., 1946) di Charles Vidor 182 Giorni del vino e delle rose, I (Days of Wine and Roses, 1962) di Blake Edwards Gtornt feltci a Clichy (lours Iraniptdles a Clichy, 1990) di Claude Chabrol 68 Giorni perduti (The Lost Weekend, 1945) Billy Wilder 200

203

2bl

INDICE DEI FILM

Giorno alle corse, Un (X Day at thè Races, 1937) di Sam Wood 220 Giullare del re. Il (The Court jester, 1956) di Norman Panama 214,216 Giustiziere della notte. Il (Death Wish, 1974) di Michael Winner 114 Good Morning Vietnam (id., 1987) di Barry Levinson 146 Grand Canyon (id„ 1991) di Lawrence Kasdan 59 Grande sentiero, il (Cheyenne Autumn, 1964) di John Ford 88 Grano rosso scingile (Children of the Corn. 1984) di Fritz Kiersch 245 Guerra lampo dei fratelli Marx, La (Duck Soup, 1933) di Leo McCarey 83,220-222,238

H Halloween: la notte delle streghe (Halloween, 1978) di John Carpenter Hallucination (The Damned, 1961) di Joseph Losey 245 Harry a pezzi (Deconstructing Harry, 1997) di Woody Allen 223 Heavenly Bodies (1963) di Russ Meyer 69 Hook - Capitan Uncino (Hook, 1991) di Steven Spielberg 153

243

I

I'm Dancing as Fast as I Can (1982) di Jack Hofsiss 203 Idolo delle donne. L' (The Ladies' Man, 1961) di Jerry Lewis 183 Images (id., 1972) di Robert Altman 64 Immoral Mr. Teas, The (id., 1959) di Russ Meyer 67 Impero del sole, L' (Empire of the Sun, 1987) di Steven Spielberg 153 Inauguration of the Pleasure Dome (1954, rimontato nel 1966) di Kenneth Anger 200 Incontriamoci a St. Louis (Meet Me in St. Louis, 1944) di Vincente Minnelli 96 Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977) di Steven Spielberg 249 Independence Day (id., 1996) di Roland Emmerich 246 Infernale Quinlan, L' (Touch of Evil, 1958) di Orson Welles 30,32 Intrigo internazionale (North by North-West, 1959) di Alfred Hitchcock 249 Invasione degli ultracorpi, L' (The Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegel 122 It Conquered the World (1956) di Roger Corman 48,53 J

Jackie, la ragazza di Greenwich Village (Believe in Me, 1971) di Stuart Hagmann 203 Jimmy Dean, Jimmy Dean (Come Back to the «5 and Dime» Jimmy Dean, jimmy Dean, 1982) di Robert Altman 60, 61,65 Johnny Guitar (id., 1954) di Nicholas Ray 171 K Kansas City (id., 1996) di Robert Altman 63,64 King Kong (id., 1933) di Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack

Laughter ( 11>30> di I larry D‘Arrast

It»

181

INDICE DEI FILM

Legge del Signore, La (Friendly Persuasion, 1956) di William Wyler 164 Lenny (id., 1974) di Bob Fosse 203 Lorna (id., 1964) di Russ Meyer 69 Lave Streams - Scia d'amore (Love Streams, 1983) di John Cassavetes 192 Lovin' Molly, 1974, di Sidney Lumet 124 Lungo addio, Il (The Long Goodbye, 1973) di Robert Altman 61, 64 Lupo della steppa, Il (Steppenwolf, 1974) di Fred Haines 203, 207

M Ma papà ti manda sola? (What's Up, Doc?, 1972) di Peter Bogdanovich 125 Macbeth (id., 1948) di Orson Welles 26 Maghi del terrore, I (The Raven, 1962) di Roger Corman 54,55 Magnifica bambola, Li (The Magnificent Doll, 1946) di Frank Borzage 160 Magnifici idioti, I (Hallelujah the Hills!, 1963) di Adolphas Mekas 191,197 scherzo, ll (Monkey Business, 1952) di Howard Hawks 15,16,179 Mancia competente (Trouble in Paradise, 1932) di Ernst Lubitsch 178 Mascherata in Messico (Masquerade in Mexico, 1945, di Mitchell Leisen 96 MASH (id,, 1970) di Robert Altman 57-61 Matrimonio, Un (A Wedding, 1978) di Robert Altman 57 Mayerling (id., 1936) di Anatole Litvak 173 Mayerling (id., 1969) di Terence Young 173 Messaggero d'amore (The Go-between, 1971) di Joseph Losey 162 Mezzogiorno di fuoco (High Noon, 1952) di Fred Zinnemann 171 Mia donna è un angelo, La (Darling How Could You, 1951) di Mitchell Leisen 96 Mia droga si chiama Julie, La (La Sirène du Mississippi, 1969) di Francois Truffaut 120 Mia moglie capitano (Suddenly It's Spring, 1946-47) di Mitchell Leisen 96 Migliore, ll (The Natural, 1984) di Barry Levinson 146 1941 - Allarme a Hollywood (1941,1979) di Steven Spielberg 153 1975: occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, 1971) di Boris Sagal 45 Mio uomo è una canaglia, ll (Born to Win, 1971) di Ivan Passer 203 Missione in Manciuria (Seven Women, 1966) di John Ford 88 Mistero del falco. Il (The Maltese Falcon, 1941) di John Huston 101 Moglie indiana. La (Behold My Wife, 1934-35) di Mitchell Leisen 96 Mondo perduto • Jurassic Park, JI (The Lost World - Jurassic Park, 1997) di Steven Spielberg 149 Monkey Business (id., 1931) di Norman Z. McLeod 180 Monterey Pop (id., 1969) di Richard Leacock, Donn A. Pennebaker e Albert Maysles 204 Mostro del pianeta perduto, II (The Day the World Ended, 1955) di Roger Corman 44, 45,47 Motorpsycho! (id., 1965) di Russ Meyer 70-73, 75 Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes To Washington, 1939) di Frank Capra 18,19 Mudhoney (1965) di Russ Meyer 68, 69

N

Nashville (ni, 1975) di Robert Altman 57-61, 63, 157 Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street. 1984) di Wes Craven 243 Nightmare Nuovo in* ubo (Wo Craven's New Nightmare, 1994) di We* Craven 119 263

INDICE. DEI FILM

N011 voglio penierti (No Man of Her Own, 1950) di Mitchell Leisen 95,97 Notte all'opera, Una (A Night at the Opera, 1935) di Sam Wood 220-222 Nulla sul serio (Nothing Sacred, 1937), di William Wellman 20 Nuovi croi. I (Universal Soldiers, 1992) di Roland Emmerich 206 O

Ombra del dubbio, L' (The Shadow of a Doubt, 1943) di Alfred Hitchcock 95 Ombre (Shadows, 1959) di John Cassavetes 187,188, 192,196 Ombre rosse (Stagecoach, 1939) di John Ford 172 Operazione diabolica (Seconds, 1966) di John Frankenheimer 247 Ora con le. Un' (One Hour with You, 1932) di Ernst Lubitsch 184 Orgoglio degli Amberson, L' (The Magnificent Ambersons. 1942) di Orson Welles 26, 27,29, 31,32 Orson Welles: The One-Man Band (1995) di Vassili Silovic e Oja Kodar 24 Otello (Othello, 1952) di Orson Welles 30

P Panico rt Needle Park (Panic in Needle Park, 1971) di Jerry Schatzberg 203 Pasto nudo. Il (The Naked Lunch, 1991 ) di David Cronenberg 118 Peggy Sue si è sposata (Peggy Sue Cot Married, 1986) di Francis Ford Coppola 128 Per favore, non toccate le vecchiette (The Producers, 1968) di Mel Brooks 216 Peyotl Queen (1965) di Storm De Hirsch 200 Picnic (id., 1955) di Joshua Logan 37 Pink Floyd - The Wall (id., 1982) di Alan Parker 204 Pinky la negra bianca (Pinky, 1949) di Elia Kazan 36 Più grande avventura. La (Drums Along the Mohawks. 1939) di John Ford 161 Popeye (id., 1981 ) di Robert Altman 61. 62 Porta d'oro. La (Hold Back the Dawn, 1941) di Mitchell Leisen 96 Postino suona sempre due volte. II (The Postman Always Rings Twice, 1946) di Tay Garnett 96 Poveri ma belli ( 1956) d i Dino Risi 174 Pranzo alle otto (Dinner at Eight, 1933) di George Cukor 16 Predatori dell’arca perduta, I (Raiders of Lost Ark, 1981 ) di Steven Spielberg 153 Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run. 1969) di Woody Allen 219, 223 Prèt-à-porter (id., 1994) di Robert Altman 61,63 Processo. Il (The Trial, 1962) d i Orson Welles 26,27,29, 31,32 Protagonisti, I (The Player. 1992) di Robert Altman 61 Prova del fuoco. La (The Red Badge of Courage, 1951) di John Huston 165 Pull My Daisy (1959) di Robert Frank, Alfred Leslie 187, 189,192

Q Qual è lo sport preferito dall'uomo? (Man's Favorite Sport, 1964) di Howard Hawks 16 Quando la bestia urla (Monkey on My Back. 1957) di Andre de Toth 199 Quarto potere (Citizen Kane; 1941 ) di Orson Welles 26,29, 30 Quintet (id., 1978) di Robert Altman 58,60, 61 Quiz Show (id, 19M4) di Robert Redford 143, II I

INDICE DE/ FILM

R Racconti del terrore. I (Tales of Terror, 1962) di Roger Corman 53-55 Ragazza tuttofare (The Bellboy, I960) di Jerry Lewis 216 Rapporto confidenziale (Mr. Àrkadin, 1955) di Orson Welles 26,29-31 Ribelle dell'Anatolia, Il (America, America, 1963) di Elia Kazan 36, 37 Riflessi in un occhio d’ora (Reflections in a Golden Eye, 1967) di John Huston Ritorno ni futuro (Rack lo the Future, 1985) di Robert Zemeckis 133 Ritratto dì signora (The Portrait of a Lady, 1996) di Jane Campion 227 Ruby fiore selvaggio (Ruby Gentry, 1952) di King Vidor 177

102

S Sabrina (id., 1954) di Billy Wilder 15, 232 Sabrina (uL, 1995) di Sydney Pollack 231 Saggezza nel sangue, Li (Wise Blood, 1979) di John Huston 101-103 Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story, 1940) di George Cukor 15 Scanners (id,, 1981 ) di David Cronenberg 111 Schiavo d'amore (Of Human Bondage, 1934) di John Cromwell 181 Schiavo d'amore (Of Human Bondage, 1964) di Ken Hughes 182 Schindler s List - La lista di Schindler (Schindlers List, 1993) di Steven Spielberg 149, 152, 154 Selvaggi, / (The Wild Angr/s.1966) di Roger Corman 70, 75 Sente della follia, Il (In the Mouth of Madness, 1994) di John Carpenter 117-119 Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956) di John Ford 171.173 Sepolto vivo (The Premature Burial, 1962) di Roger Corman 52-54 Serpente di fuoco, 11 (The Trip, 1967) di Roger Corman 201, 204 Sette minuti che contano, I (Severi Minutes, The, 1971 ) di Russ Meyer 69, 72, 75 She Gods of the Shark Reef (1956) di Roger Corman 44 Signora del venerdì, La (His Girl Friday, 1940) di Howard Hawks 15 Signora di mezzanotte. La (Midnight, 1939) di Mitchell Leisen 95,96 Signora di Shangai. La (The Lady from Shanghai, 1946) di Orson Welles 27,30,31 Signora per un giorno (Lady for a Day, 1933) di Frank Capra 16 Society - The Horror (Society, 1989) di Brian Yuzna 118 Soldati a cavallo (Horse Soldiers, 1959) di John Ford 173 Soluzione al sette per cento. Li (The Seven-pcr-cent-Solution, 1976) di Herbert Ross 206 Song Remains the Same. The (1976) di Peter Clifton, Joe Massot 204 Sorority Girl ( 1957) di Roger Corman 44 Spettacolo di varietà (The Band Wagon, 1953) di Vincente Minnelli 184. 229 Splendore nell'erba (Splendor in the Grass, 1961 ) di Elia Kazan 36-39 Spossi in nero, Lt (La Mar/ó* était en noir, 1968) di Francois Truffaut 120 Squalo, La (laws, 1975) di Steven Spielberg 245 Starman (id., 1984) di John Carpenter 113 Stali di allucinazione (Altered States, 1980) di Ken Russell 205 Storia immortale (Une Histoire immortelle, 1968) di Orson Welles 28 Straniero. Lo (The Stranger, 1946) di Orson Welles 30, 32 Supervixens (id., 1975) di Russ Meyer 68. 69, 73 Susanna (Bringing Up Baby, 1936) di Howard Hawks 15, 16. 179 Suspense (The Innocents, 1961 ) di Jack Clayton 227 Sir trig Iligh, Swing Low (1937) di Mitchell Leisen 96

INDICE. DEI FILM

Taxi Driver (id., 1976) di Martin Scorsese 204, 255 Teenage Caveman (1957) di Roger Corman 44,45 Teenuge Doli (1957) di Roger Corman 44,46 Terapia di gruppo (Beyond Therapy, 1987) di Robert Altman 61, 65 Tesoro della Sierra Madre, II (The Treasure of the Sierra Madre, 1948) di John Huston 101 Texasville (id., 1990) di Peter Bogdanovich 123-127 Tomba di Ligeia, La (Tomb of Ligeia, 1965) di Roger Corman 54 Tram chiamato desiderio, Un (A Streetcar Named Desire, 1952) di Elia Kazan 36, 38 Trash, i rifiuti di Noie York (Trash, 1970) di Paul Morrissey 204 Tre della Croce del Sud, I (Donovan's Reef, 1963) di John Ford 88 Tre giorni del Condor, 1 (The Three Days of the Condor, 1975) di Sydney Pollack 248 Tre pazzi a zonzo (At the Circus, 1939) di Edward Buzzell 220 U

Uccello del paradiso, U (Bird of Paradise, 1932) di King Vidor 177 Ultima follia di Mel Brooks. L* (Silent Movie, 1976) di Mel Brooks 216 Ultimi fuochi, CH (The Last Tycoon, 1976) di Elia Kazan 41 Ultimo spettacolo, L' (The Last Picture Show, 1971) di Peter Bogdanovich 123,127,204 Uomo che uccise Liberty Valance, V (The Mau Who Shot Liberty Valance, 1962) di John Ford 88,89 Uomo dagli occhi a raggi X, U (The Man with the X-Ray Eyes, 1963) di Roger Corman 114 Uomo dal braccio d'oro, U (The Man with the Colden Arm, 1955) di Otto Preminger 199 Uomo oggi, Un (WUSA, 1970) di Stuart Rosenberg 114 Up! (id., 1976) di Russ Meyer 68,71

Valle dell'Eden, La (East of Eden, 1955) di Elia Kazan 36 Venere e il professore (A Song Is Born, 1948) di Howard Hawks 16 Ventesimo secolo (Twentieth Century, 1934) di Howard Hawks 16,19 Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) di Brian De Palma 245 Via col vento (Gone with the Wind, 1939) di Victor Fleming 87,158 Via del tabacco, Li (Tobacco Road, 1941) di John Ford 85, 89,91,92 Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950) di Billy Wilder 170 Videodrome (id., 1983) di David Cronenberg 111, 119 Vita privata di Sherlock Holmes (The Private Life of Sherlock Holmes, 1970) di Billy Wil­ der 206 Viva Zapata! (id., 1952) di Elia Kazan 36, 37 Virr e i morti, I (House of Usher, 1960) di Roger Corman 52 Vixen (id., 1969) di Russ Meyer 72 Vogliamo vivere! (To Be or not to Be, 1942) di Ernst Lubitsch 230 Volto nella folla, Un (A Face in the Crowd, 1957) di Elia Kazan 37

W

Wild tads of the Naked I Vest ( H62) di Russ Moyer

69

INDICE DE! ULM

X

X-Files - Ilfilm (X-Files - The Movie.

1998) di Rob Bowman

248-250

Z

Zelig (id; 1983) di Woody Allen 214 Zona morta, La (The Dead Zone, 1983) di David Cronenberg

111,112,115

Indice dei nomi

Benedek, Laszlo 245 Benét, Stephen Vincent 212 Benjamin, Walter 106,110 Benson, Sally 95 Bercovitch, Sacvan 26,28,33

Abbey, Edward 250,251 Adams, John 151 Alger, Horatio 28,135 Allen, Woody 211,214,219-224 Altman, Robert 57-65,157,214 Amram, David 192 Anderson, Sherwood 37 Anger, Kenneth 200 Amheim, Rudolf 228,229,233 Arnold, Edward 91 Arnold, Jack 48 Artaud, Antonin 183 Astaire, Fred 172,175,184,229 Attanasio, Joseph 146

B Bacall, Lauren

179,180 Bacon, Francis 53,55 Baez, Joan 134 Bakunin, Michail Aleksandrovic Balzac, Honoré de 226 Barilli, Renato 46,50 Barrie, James M. 96 Barth, John 64,73 Barthelme, Donald 62,65 Baudelaire, Charles 193 Baudrillard, Jean 170,174,175 Baxter, John 179,181,185 Bazin, André 228,229,233 Beach Boys 141 Beckett, Samuel 228,229,233 Benatar, Pat 128 Benayoun, Robert 101, 104

193

232 Berger, Thomas 93,170,183,184 Berkeley, Busby Berlioz, Hector 229 210,211,217 Bermant, Chaim Berry, Chuck 133 Blackwood, Algernon 51,52 Bloom, Harold 225 Boetticher, Budd 173 Bogart, Humphrey 179,231 Bogdanovich, Peter 79-84,123-125, 127-129,204,225,254 Borde, Raymond 97,99 Borzage, Frank 160 Bosch, Hieronymus 53 Bourgoin, Stéphane 54,56 Bowman, Rob 248-250 Brackett, Charles 95 Brahm, John 245 Brakhage, Stan 200,201,206 Branagh, Kenneth 231 Brando, Marlon 182 Brass, Tinto 68 Brautigan, Richard 74 Brice, Fanny 213 Brill, Lesley 181,185 Brockden Brown, Charles 29,209 Bronson, Charles 114 Brooks, Mel 216,230 Brooks, Richard 102 Brosnan, John 47,48,50 Brown, Barry 83 Bruce, Lenny 214

INDICE DEI NOMI

Brumm, Ursula 28, 33 Burroughs, William 189, 196 Burstyn, Ellen 128 Burton, Tim 45,55 Buzzell, Edward 220 Byrds, The 141 Byron, George Gordon lord 81

Craven, Wes 119, 243 Cromwell, John 181 Cronenberg, David 111, 114, 115, 118,119,255 Crosby, Floyd 54, 55 Crowther, Bruce 97,99 Cukor, George 15, 16, 35 Culture Club 128 Custen, George E 165-167

Cain, James 96 Caldwell, Erskine 68,71,85-90,92, 93, 102,104 Campanini, Carlo 215 Campbell, Joseph 226,233 Cantor, Eddie 214, 215 Capote, Truman 40 Capp, Al 68,87 Capra, Frank 10,15-21, 91,92,113, 132,165 Carlyle, Thomas 160 Camev, Ray 188, 189,191,194,196 Carpenter, John 113,117-121, 243 Carroll, Nancy 16 Carter, Chris 245, 246,248, 250 Carter, James 138 Cassavetes, John 187,188,196 Castleman, Harry 236, 241 Cavanaugh, John 200 Certeau, Michel de 163 Chabrol, Claude 68 Chagall, Marc 222, 224 Channell Hilfer, Anthony 131,142 Chaplin, Charlie 214 Charisse, Cyd 183 Chaumeton, Etienne 97,99 Chénetier, Marc 62,65 Chiari, Walter 215 Chierichetti, David 95,96, 99 Clausius, Rudolf 59 Clayburgh, Jill 203 Clifton, Peter 204 Cobb, Lee J. 235 Coleman, Ornette 189 Coleridge, Samuel Taylor 193,199 Conan Doyle, Arthur sir 206 Coogan, Richard 236 Cooper, James Fenimore 28, 31 Corman, Roger 43-56, 70, 75, 114, 118, 195, 201-204, 207 Corneille, Pierre 159 Corso, Gregory 192,196 Crane, Stephen 165,167

D

77H

D'Amico, Masolino 133,142 , D'Arrast, Harry 16 Daiches, David 157,166 Dal Co, Francesco 107, 110 Damiano, Gerard 68 Darin, Bobby 146,188 Davis, Bette 181,182 De Biasio, Giordano 87, 91,93 De Hirsch, Storm 200 De Palma, Brian 245 De Quincey, Thomas 193,199 De Rege, fratelli 215 Debord, Guy 7 Del Rio, Dolores 177 DeMille, Cecil B. 177 DiPrima, Diane 196 Disney, Walt 205, 238 Dmytryk, Edward 171 Domenach, Jaen-Marie 134,142 Donehue, Vincent J. 90 Donen, Stanley 214 Donovan 189 Dreiser, Theodore 226 Dreyer, Carl Theodor 45 Dumont, Margaret 212, 220,223 Dutton, Clarence 249 E

Eddy, Duane 141 Edwards, Blake 203 Edwards, Jonathan 28, 31 Eggar, Samantha 111 Ehrlich, Evelyn 158,166 Eisenhower, Dwight David 240 Eizykman, Claudine 163, 166 Eliot, Thomas Steams 29, 39,114, 192, 256 Elkin, Stanley 209,232 Ellis, Anita 192

INDICE DU NOMI

Ellis, Havelock 199, 206 Emerson, Ralph Waldo 10, 28, 29 33, 160 Emmerich, Roland 206,246 Engel, Lehman 211,217 Epstein, Rob 52 Eyles, Allen 224

F Fabray, Nanette 229 Fairbanks, Douglas 211 Fargier, Jean-Paul 190 Fassbinder, Rainer Werner 49 Faulkner, William 23, 31,40, 64, 102, 126,131,132 Faye, Jean-Pierre 163,164,166 Feibleman, James K. 223, 224 Ferlinghetti, Lawrence 196 Fiedler, Leslie 33,61,62, 65,209, 216,249,250 Fifth Dimension 141 Fink, Guido 53, 54,56,169,174,175, 192,197, 221,224 Finney, Charles 245 Fischer, Gerry 103 Fitzgerald, Francis Scott 40 Fleischer, Richard 45 Fleming, Ian 239 Fleming, Victor 87,158 Florey, Robert 220,245 Fonda, Peter 202 Ford, Glenn 182 Ford, Harrison 231,232 Ford, John 35,85-93,160-162,165, 167,171-173 Fosse, Bob 203 FosterJodie 135 Fowles, John 227 Frank, Melvin 214 Frank, Robert 187,189, 192 Frankenheimer, John 247 Franklin, Benjamin 28,62 Freud, Sigmund 206,225,232 Friedman, Bruce J, 209 Frye, Northrop 136, 142 Fuest, Robert 55 Fugs, The 189

G Gable, Clark

IK

Garnett, Tay 96 Garrick, David 231 Garson, Barbara 169,175 Gass, William H, 132 Gerani, Gary 236,241, 247,250 Gershwin, George 238 Giacci, Vittorio 82,84 Ginsberg, Allen 189,191,192,194,196 Giraldi, Giambattista (Cinzio) 227 Glasgow, Ellen 40 Gnoli, Antonio 136, 142 Godard, Jean-Luc 174, 183 Goethe, Johann Wolfgang 229 Goldoni, Carlo 127 Gomery, Douglas 87,88,90,93 Goodwin, William 32 Gounod, Charles-Francois 229 Grahame, Gloria 183 Grant, Cary 16 Grapewin, Charley 91 Grauman, Walter 73 Greeley, Horace 249 Greer, Jane 184 Gregg, Josiah 249 Griffith, Ben 102,104 Griffith, David Wark 51,175 Guidi, Antonio 135 Guttmann, Allen 212, 217 H

Haas, Charles 195 Hagmann, Stuart 203 Haines, Fred 203, 207 Hanks, Tom 142 Harris, George Washington 89 Harris, Joel Chandler 31 Hart, John E. 165,167, 226,233 Hartley, Leslie Poles 162 Harvey, James 16,21 Harvey, Laurence 182 Hawks, Howard 15, 16,18,19,179 Hawthorne, Nathaniel 23,29, 33 Hayden, Ferdinand V. 249 Hayworth, Rita 182,185 Heerman, Victor 220 Hemingway, Ernest 31,40 Henderson, Harry B. Ill 162, 167 Hepburn, Audrey 231 Hepburn, Katharine 16 1 lerbcrt, Victor 238 1 lesse, 1 lermann 203 Hirsch, Foster 222,224 J 71

INDICE DF.l NOMI

Hitchcock, Alfred 95,180, 181, 249 Hodge, Al 236, 241 Hoffmann, Ernest T. A. 109 Hofsiss, Jack 203 Hofstadter, Richard 247, 250 Hope, Anthony 238 Hopkins, Miriam 178 Hopper, Dennis 202 Hopper, Hal 70 Howard, Leslie 181 Hughes, Ken 182 Hugo, Victor-Marie 81 Huston, John 24,25,101-104, 165 Huxley, Aldous 199 I

Inge, William 36-40 Irish, William 95,98.99 Irving, Washington 39,112,210 Izzo, Carlo 139,142,211,217

Jackson, Michael 118 Jacobs, Robert D. 86,89, 93 James, David E. 187,190,192,193, 196 James, Henry 30,39,79,80,81,82, 83,220 James, Montague R. 51,52,117 James, William 199,206 Jefferson, Thomas J. 10,17,18,21 Jencks, Charles 46,47 Jennings, Wayion 128 Johnson, Alan 230 Johnson, Lyndon B. 133,169,241 Jonson, Ben 159 Jung, Carl Gustav 225 K Kafka, Franz 32,221,224 Kaminsky, Stuart 15,21 Kasdan, Lawrence 59 Kaye, Danny 211, 214,216 Kazan, Elia 35-41 Kean, Edmund 231 Keating, Charles 72 Keaton, Buster 158,222 Kelly, Gene 214

Kelman, Ken 200,207 Kennedy, John Fitzgerald 133,143, 144,169, 240,244 Kerényi, Karoly 108,110 Kerouac, Jack 187,189,191-194,197 Kesey, Ken 201 Ketterer, David 58,65 Kiersch, Fritz 245 King, Stephen 118,245 Kirkland, Jack 86 Koch, Stephen 204,207 Kodar, Oja 24 Kosinski, Jerzy 132 Koszarski, Richard 43,50 Kruscev, Nikita 240 Kubrick, Stanley 44 Kuhlmann, Susan 25,33

LaCapra, Dominick 163 Landis, John 118 Lasch, Christopher 203,207 Leachman, Cloris 128 Leacock, Philip 200 Leacock, Richard 204 Leary, Timothy 201 Leclair, Tom 58,65 Lee Masters, Edgar 131 Lee, Gypsy Rose 235 LeFanu, Sheridan 51 Leisen, Mitchell 95-99, 245 Lenne, Gerard 174,175 Lennig, Arthur 177,185 Lennon, John 134,140 LeRoy, Mervyn 183, 184 Leslie, Alfred 187,192 Leutrat, Jean-Louis 191,197 Leutrat, Paul 191,197 Levant, Oscar 229 Levin, Ha rry 24,27,29, 32,33 Levinson, Barry 146 Levy, Emanuel 38-41 Lewicki, Zbigniew 58,59,63,65 Lewis, Jerry' 141, 183, 211,214-216 Lewis, Sinclair 37, 102 Liberti, Fabrizio 245,250 Lincoln, Abraham 152, 160 Lindbergh, Gary 25,33 Litvak, Anatole 173 Logan, Joshua 37 Lum, Herbert

Long, Huey

115

92

INDICE DEI NOMI

Longstreet, Augustus Baldwin 89 Losey, Joseph 162, 245 Lovecraft, Howard Phillips 54, 118 Lovett, Lyle 146 Lubitsch,' Ernst 170,178, 230 Lumet, Sidney 124 Lund, John 97 Lupino, Ida 245

M

MacDonald, J, Fred 237,239-241 Machen. Arthur 51 Madonna 128 Maffi, Mario 205,207 Magris, Claudio 214,217 Malin, Irving 101,104 Malraux, Andre 139 Maltin, Leonard 203,207 Mamas & Papas 141 Mann, Anthony 173,175 Mann, Delbert 37 Mann, Thomas 109 March, Fredric 16 Marcuse, Herbert 135 Marker, Chris 174,190 Marlowe, Christopher 229 Marshall, Herbert 178 Marx, Chico 211,221 Marx, fratelli 211-215,219-224 Marx, Groucho 83,180,211,213, 217,219,220-224, 235 Marx, Harpo 211 Marx, Karl 193 Marx, Leo 17,21 Marx, Minnie 223 Massot, Joe 204 Mather, Cotton 62 Matheson, Richard 52, 55 Matthiessen, Francis Otto 29,33 Maupassant, Guy de 109 May, John R. 58-60,64, 65 Maysles, Albert 204 McBride, Joseph 24, 33 McCarey, Leo 220,238 McCarty, John 104 McClure, Michael 196 McCoy, Horace 38 McCuilers, Carson 40, 102,131 McHale. John 49, 50 McKenzie, Scott 141 Mclx'od, Norman Z. 180 McMurtry, Larrv 123. 124. 125, 127

Mead, Margaret 161 Mekas, Adolphas 191 Mekas, Jonas 187,190, 192,196.197, 200,205 Meltzer, David 196 Melvil Ie, Herman 23-25, 29, 32,33, 38,58 Mencken, Henry' Louis 37 Meredith, Burgess 235 Meyer, Nicholas 206 Mever, Russ 67-75,185 Miller, Arthur 39,235 Miller, Frank 184,185 Minganti, Franco 189,196 Minnelli, Vincente 96,184,229 Mitchell, Margaret 88 Mix, Tom 211 Molière (Jean-Baptiste de Poquelin) 127 Mones, Paul 195 Monroe, Marilyn 182,202 Morris, Gary 43, 50, 52-55 Morrissey, Paul 204, 207 Morsiani, Alberto 173,175 Mostel, Zero 235 Mottet, Jean 172,175 Mumford, Lewis 31-33.107,108,110 Myles, Lynda 201,207 N Na remore, James 25,33 Nash Smith, Henry 18,21,249,251 Nelson, Willie 128 N icholson. Jack 201 Niebuhr, Richard H. 60, 65 Nietzsche, Friedrich 254 Nixon, Richard 134,138 Novak. Kim 182

O

O' Connor, John E. 161, 167 O'Connor. Flannery 101-104 O'Malley, Michael 31.33 Oboler, Arch 47 Odets, Clifford 37 Olivier, Laurence 231 Onions, Oliver 51 Orlovsky, Peter 189 Ormond, Iulia 231 Ortolcva, Poppino 173, 175

27A

INDICE DEI NOMI

p Pagetti, Carlo 107,110 Pal, George 245 Palmieri, Franco 212,217 Panama, Norman 214 Parker, Alan 204 Passer, Ivan 203 Pastor, Tony 213 Patterson, Elizabeth 91 Pellicer, Pina 182 Pennebaker, Donn A. 204 Perkins, Anthony 114 Piccardi, Adriano 105,110 Pike, Zebulon 249 Pirandello, Luigi 109 Podrazik, Walter J. 236,241 Poe, Edgar Allan 27,29-33,39,44, 51-56,109, 112 Pohl, Frederik 235 Polanski, Roman 117 Pollack, Sydney 38,231. 232,249 Porter, Katherine Ann 40 Potts, Annie 128 Powell, John Wesley 249 Preminger, Otto 199 Presley, Elvis 133 Price, Vincent 55 Pynchon, Thomas 31,64

Q Quaid, Randy

129

R Racine, Jean 159 Raglan, Lord 226,233 Rauschenberg, Robert 205, 207 Ravi Shankar 189 Ray, Nicholas 171 Reagan, Ronald 138 Redford, Robert 143,145-147 Rexroth, Kenneth 193,197 Rice, Ron 191,192 Risi, Dino 174 Ritter, John 83 Roach, Hal 45 Robbins, Tom 74 Robinson. Edwin Arlington 131 Robson, Mark 73 Rockwell. Norman 77J

139

Roddenberry, Gene 239 Rodriguez, Johnny 128 Rogers, Ginger 172,175,179 Romberg, Sigmund 238 Rooks, Conrad 189 Roosevelt, Franklin Delano 64,91,92 Rosenbaum, Jonathan 80,81, 84 Rosenberg, Stuart 114 Rosenfield, Claire 226,233 Ross, Herbert 206 Rossi, Alfredo 38,41 Roszak, Theodore 199,205,206 Roth, Philip 209 Rouch.Jean 174 Rourke, Constance 211,217 Rovin, Jeff 236,241 Royot, Daniel 25,33,62,65 Rubin, Martin 184,185 Russell, Ken 205

S Sagal, Boris 45 Sargeant, Jack 188,194,196 Saroyan, William 35 Sarris, Andrew 174 Schatz, Thomas 15, 18, 21 Schatzberg, Jerry 203 Schneck, Stephen 7 Sturges, Preston 7, 20,95 Schrader, Paul 102 Schulberg, Budd 37 Schulman, Paul H. 236, 241,247, 250 Scognamiglio, Giovanni 51 Scorsese, Martin 146, 204,255 Scott, Ridley 105-109. 245,255 Seeger, Pete 141,235 Semon, Larry 213,215 Serling, Rod 48 Shakespeare, William 79,84, 159, 230-232 Shuster, Joseph 238 Siegel, Don 68,122 Siegel. Jerry 238 Sikov, Ed 70, 75 Silovic, Vassili 24 Skelton, Red 129 Smith, Betty 35 Smith, Harry 192 Smith. Jack’ 188,194 Smythe, William E.

Snyder, Gary Sontag, Susan

250.251

196 44, 3, 65,86, 93

INDICE DEI NOMI

Sorlin, Pierre 171,172,173, 175 Spengler, Oswald 107,108,110 Spielberg, Steven 149,151 • 153, 245. 249 Stanley, Joseph 220 Stanwyck, Barbara 95,96,97 Steinbeck, John 36,37, 240 Stendhal (Henry Beyle) 153,226 Sternberg, Nicholas Josef von 129 Stevens, Stella 188 Stewart, Donald Odgen 16 Stone, Irving 160 Stoppard, Tom 232 Stribling, T. S. 37 Stringer, Julian 70,71,75,185 Susann, Jacqueline 73 T

Tavernier, Bertrand 144 Taylor, Edward 62 Teague, David W. 250,251 Teichmann, Howard 90 Temple, Shirley 183 Thomas, Louis-Vincent 107,109,110 Thompson, G. R. 54,56 Thoreau, Henry David 28 Tocqueville, Alexis de 18,21 Todorov, Tzvetan 244, 250 Toschi, Paolo 223,224 Toth, Andre de 199 Tourneur, Jacques 184 Tracy, William 89 Truffaut, Francois 113 Tumey, Catherine 96 Turroni, Giuseppe 43,44,47,50,51, 53,55 Twain, Mark 23.31,38,40,57,58, 109,209, 212,250 Tyler, Parker 188,191,196 lyier, Royall 18 U Ulmer, Edgar G.

49

Verdi, Giuseppe 79,84,226 Vidal, Gore 159 Vidor, Charles 182 Vidor, King 177 Vonnegut, Kurt 64 W

Wallace, George 133,138,140 Warhol, Andy 49, 204,255 Washington, George 160 Waters, John 255 Watts, Alan 199 Weil, Simone 135 Weill, Kurt 146 Welch, Raquel 133 Welles, Orson 10, 23-33,49,225, 235 Wellman, William 20,174 Welty, Eudora 40.102,132 West, Mae 180 West, Nathanael 90 West, Thomas Reed 32,33 White, Hayden 161,163,164,166, 167 Whitman, Walt 28 Wiener, Norbert 59,63,65 Wilder, Billy 15,95,96,170,178,179, 182,200,206,231,232 Wilder, Thornton 37,40,131,139 Will, David 43,50, 207 Willemen, Paul 43,50,201,207 Williams, Esther 127,129 Williams, Hank 128 Williams, Tennessee 36,37,71 Wincer, Simon 124 Winner, Michael 114 Winsor, Kathleen 159 Winters, Shelley 200 Wolfe, Thomas 23,37,38,40,131 226 Wolfe, Tom 201 Wood, Michael 182,185 Wood, Sam 220 Wordsworth, William 36,39 Wray, Fay 181 Wyler, William 164

V

Y

Van de Velde, 1 lenry 106 Van Druten, John 35 Velde, Paul 201.207

Yacowar, Maurice 220-222,224 Young, Terence 173 Yuzna, Brian IlH

z Zemeckis, Robert 131-136,139,141 Ziegfeld, Florence 213 Zimmer, Jacques 178,185 Zinnemann, Fred 171,199

Indice

9

Premessa

Autori 15

Alcune versioni di pastorale: Frank Capra e l'invenzione della «screwball comedy»

23

La frequentazione delle tenebre: Orson Welles fra Ismaele e Bamum

35

Dipendere da estranei: Elia Kazan e la letteratura americana

43

Prepararsi in tempo: brevi note estetiche sul primo Roger Corman

51

Corman e Poe:

cronaca di una liberazione senza seguito 57

Entropia e Apocalisse:

Robert Altman e la cultura americana 67

Russ Meyer: la realtà al grado esclamativo

Film

79

Daisy Miller» di Peter Bogdanovich

85