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Italian Pages 464 [288] Year 2004
Franco La Polla
SOGNO E REALTÀ AMERICANA NEL CINEMA DI HOLLYWOOD
Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood di Franco La Polla Prima edizione: aprile 2004 Editrice Il Castoro S.r.l. Milano, viale Abruzzi 72 E-mail: [email protected] In copertina: La finestra sul cortile eISBN 978-88-8033-850-5 Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. ebook by ePubMATIC.com
A Mariuccia, Anna e Peppino, i tre fratelli Marx della mia vita «I thought about something last night: what is a family. And I think I know. A family is people who make you feel less alone and really loved. Thank you for being my family.»
«Gli ho detto che ci sarebbe stato un film a Frank City e che tutti sarebbero andati allo stesso spettacolo alla stessa ora. Lui ha chiesto: “Quando?” e io ho detto: “Presto”». Joe Cottonwood, Frank City (Goodbye)
«Tutti i passati diventano coevi, un mondo lontano e uniformemente assente, ridotto alla condizione di tante istantanee da album di famiglia. Il modo della rievocazione cancella la realtà del rievocato. Sotto la tirannide dell’occhio, quell’ingordo di frontiere, è questa la principale alienazione del cinema; che è sempre insita anche nel teatro, ma viene qui offuscata dalle differenti messinscene e interpretazioni di un medesimo testo. Il montaggio finale invece, e con esso la singola inquadratura, non lascia scelta: non una reazione creativa, non la possibilità di girargli attorno, non il tempo per i propri pensieri. Nell’atto di creare il proprio passato, il passato della sceneggiatura e quello della lavorazione, distrugge il passato mentale dello spettatore. Le immagini sono intrinsecamente fasciste perché sottolineano eccessivamente la verità, per quanto confusa e indistinta, dell’autentica esperienza passata; come se di fronte alle rovine, dovessimo comportarci da architetti, non da archeologi. La parola è il più impreciso dei segni. Soltanto un’epoca ossessionata dalla scienza poteva non capire che questa è la sua virtù più grande, non un difetto. Quello che cercavo di dire a Jenny a Hollywood era che avrei assassinato il mio passato se avessi cercato di evocarlo con la macchina da presa; e proprio perché con le parole in realtà non posso evocarlo, ma solo sperare di risvegliare qualche esperienza analoga nelle memorie e nelle sensibilità altrui, esso deve essere scritto». John Fowles, Daniel Martin
Sommario Premessa alla nuova edizione Premessa SOGNO E REALTÀ AMERICANA NEL CINEMA DI HOLLYWOOD Introduzione SILENZIO, SUSSURRI E GRIDA: DAL MUTO AL SONORO Capitolo primo - GLI ANNI TRENTA: BASSE PRESSIONI? 1. La Depressione c’è ma non si vede - 2. Operazioni doganali: gli espatriati europei - 3. AlI’ovest niente di nuovo - 4. John Ford è il New Deal in ritardo - 5. Angeli e diavoli: il melodramma - 6. Miseria e nobiltà: il musical e il gangster film - 7. La leggerezza del topo d’albergo e altri tocchi: la commedia - 8. I baffi di Groucho - 9. Il gorilla e Margherita: lo horror film. Capitolo secondo - GLI ANNI QUARANTA: COMINCIA IL XX SECOLO! 1. La riscoperta dell’individuo - 2. La filosofia del tempo: Orson Welles e il New Deal - 3. La potenza del, “nero” - 4. Ancora sul “nero”: la città come cifra - 5. Morto che parla: la voce fuori campo - 6. La forza del Destino: il nuovo melodramma - 7. A proposito di tutte quelle signore. La figura della donna - 8. La musica cambia - 9. Un leone nella strada: Val Lewton e il nuovo orrore - 10. Che cosa è un americano: il film di guerra - 11. La frontiera interiore: il western - 12. Angelo buon diavolo: il film metafisico - 13. Fantasia come metafora: le avventure esotiche e gli orrori in arrivo. Capitolo terzo - GLI ANNI CINQUANTA: IN CERCA DI RIFUGI 1. Maccartismo e altre cose da fantascienza - 2. Lo stile nevrotico - 3. I vantaggi della schizofrenia, ovvero: arriva la tv - 4. Coppia di fanti con regina: Dean, Brando e la Monroe - 5. La grande commedia e la sua crisi - 6. Entrano i clown: dalla commedia ai comici - 7. Fine del musical, fine del cinema - 8. La morale come esercizio di stile: il melodramma - 9. Terre indiane e altri personaggi al tramonto - 10. Duelli nel Pacifico - 11. Finzione della democrazia: il kolossal - 12. Dal Tempo storico al Tempo ciclico: le differenze del “nero”. Capitolo quarto - GLI ANNI SESSANTA: LA FINE DEL MITO 1. Un autore venuto dal muto: Hitchcock - 2. La nostalgia: prime avvisaglie - 3. Il realismo come angoscia - 4. Fantapolitica e altre inquietudini - 5. Western e musical: cala il sipario - 6. Realtà (transitoriamente) di cartone: la commedia - 7. Metamorfosi del film bellico - 8. Jerry Lewis: l’astrazione e la regola - 9. Roger Corman: il realismo dell’oggetto - 10. Ritorno alla ritualità: il concerto rock - 11. La dissoluzione dei generi: il melodramma - 12. La dissoluzione dei generi: continuazione. Capitolo quinto - GLI ANNI SETTANTA E OLTRE: NEW HOLLYWOOD ED ERA TELEVISIVA 1. Rinnovamento? - 2. Sì, rinnovamento - 3. Decalogo del nuovo cinema - 4. Un Gershwin della macchina da presa: Woody Allen - 5. Ancora sul “cinema umano”: la moda e Cassavetes - 6. Una, due, tre Hollywood - 7. Quando hai visto un’astronave di plastica, le hai viste tutte - 8. Superproduzione e cinema di consumo - 9. Ossessioni: la paranoia post-kennedyana - 10. Ossessioni: lo spazio - 11. Ossessioni: il passato - 12. Rinnovamenti a metà - 13. Dietro la maschera: il “new horror” - 14. Riscoperta del corpo: la “fantasy” - 15. Riscoperta del corpo: il pornofilm - 16. La vita è maestra di scuola - 17. Il corpo visto troppo da vicino: la nuova commedia - 18. Concretezza dell’astratto: gli anni Ottanta - 19. Ombre nell’acqua. FIN DE SIÈCLE: SOGNO E REALTÀ AMERICANA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE di Michele Fadda Paradossi del globale - Mondi (im)perfetti: o del sogno della famiglia - Orientalismi: o che fine hanno fatto gli eroi - Hollywood endings: la Storia, l’Apocalisse… Indice dei film
Premessa alla nuova edizione A distanza di diciassette anni questo volume, che godette a suo tempo di un certo apprezzamento e persino di due premi, viene riproposto al lettore e allo studioso, anche in conseguenza di una richiesta scientifica da parte di colleghi cui sono ovviamente molto grato. Nel frattempo il cinema americano (e non solo quello) ha fatto passi da gigante, tali da rendere ormai quasi obsoleta la produzione cinematografica di allora. Si è quindi pensato di aggiornarlo, sì, ma non seguendo la linea strutturale del testo originario, bensì con ampi saggi che coprissero segmenti del tempo trascorso e più che classificare film, generi e altro, indicassero strade, orientamenti e direzioni intrapresi dalla grande produzione hollywoodiana. Dal momento che questo volume intende essere una storia culturale del cinema hollywoodiano, non si trattava dunque tanto di coprire quel che mancava di una parabola storica, quanto di individuare ciò che in quella parabola emergeva (o si nascondeva) come componente epistemica dominante, come elemento senza un’indicazione del quale non si sarebbe compreso quel che era avvenuto nel cinema in questione. Gli studi culturali, di cui questo libro quasi vent’anni fa intendeva essere a qualche titolo esempio, sono ormai entrati anche in Italia. Chi scrive insegna proprio questa materia (in relazione al cinema) nel biennio di specializzazione del Dams di Bologna. A differenza dalla prassi (e dalla teoria) statunitense – ahimé, sempre più asfittica, partigiana, rancorosa, assurda e nel migliore dei casi fumosa nelle sue paludate ambizioni teoriche – da noi le cose stanno un po’ meglio e il rapporto fra il prodotto e la cultura che l’ha concepito, partorito e cullato viene sempre più evidenziato con competenza e passione da chi questa angolazione d’osservazione e studio ha adottato. E sono spesso giovani studiosi che sembrano avere compreso presto la necessità di non limitarsi a pensare il cinema come un sistema autonomo (ciò che linguisticamente può anche essere, beninteso), bensì come a uno dei molti appassionanti fenomeni di una cultura (e di tante culture) che non possiamo permetterci di lasciare isolata rispetto a quel che ci accade attorno. Intendiamoci: non si tratta di
“storicizzare” il cinema (cosa tutt’altro che nuova e di lunga tradizione, soprattutto da noi), ma di comprenderne lo sviluppo in relazione ai primari accadimenti e alle più centrali linee di produzione culturale. Michele Fadda ha redatto laboriosamente l’ultima e più ampia parte dell’aggiornamento. E per il resto sono stati accuratamente corretti errori e imperfezioni che purtroppo non erano stati espunti dall’edizione del 1987. Anche la sezione fotografica ha subito – per il meglio, si spera – alcune variazioni. f.l.p., marzo 2004.
Premessa Mi è sempre venuto spontaneo, presentando un libro, scrivere quello che esso non è. Bene, questa non è una storia del cinema americano. Nomi di primaria importanza come quelli di Chaplin o Kubrick vi figurano solo di passaggio, mentre vengono citati registi che a volte a parte del pubblico saranno ignoti. Inoltre, trattando in larghissima misura quest’opera il cinema hollywoodiano, o per meglio dire il cinema legato alla grande produzione di carattere commerciale, tutto un ambito d’operazioni innovative e d’avanguardia vi è totalmente ignorato. Il fatto è che non mi interessava fornire una cronistoria delle pellicole girate a Hollywood e dintorni dal sonoro a oggi, bensì tentare di studiare come certe forme, certe tecniche, certe poetiche del cinema americano trovavano ragione su terreni che a volte erano molto diversi da quelli che apparentemente sembravano. Il mio obiettivo, dunque, era di affrontare quell’enorme animale, il cinema di Hollywood, provando a scattare qualche istantanea ravvicinata, tanto da far emergere particolari che, come nel processo del sogno, sono invece i veri protagonisti del significato. Non ho l’ambizione di avere scoperto definitivi significati del tale o del tal altro momento produttivo, ma, questo sì, di avere suggerito trame di collegamento – a volte anche non immediatamente visibili – tra costume, tradizioni, mentalità, psicologia nazionale e fenomeni specifici (generi, tecniche, ecc.). Come scrive il poeta John Ashbery, «Noi vediamo del sogno solo gli atteggiamenti esteriori». Così, il lettore non mi rimproveri di avere trascurato, oltre ad alcuni grandi nomi, anche alcuni grandi temi: il negro nel cinema, la figura dell’intellettuale, ecc. Sono cose importanti, ma non aggiungono molto a quello che intendevo fare nel momento in cui ho dovuto forzatamente escluderle. Non è una visione esaustiva del cinema hollywoodiano che sarà mai possibile avere da un libro, per quanto dettagliato, sull’argomento; ma alcune idee che contribuiscano a far comprendere come quel cinema non è poi così prevedibile come tanti dicono e han detto. Il cinema statunitense è stato un fenomeno molto più complesso di quel che molti vorrebbero farci credere: un po’ per la questione dell’autorialità, un po’ perché le ragioni storico-psicologiche di
non poche sue componenti sono, come dicevo, meno in superficie di quanto certe tematiche care a Hollywood, e sin troppo note, possono far pensare. In fondo non credo che Hollywood sia stata la “fabbrica dei sogni” che tutti dicono. Si trattava piuttosto di incubi: la fame negli anni Trenta, la guerra nei Quaranta, il comunismo (e il maccartismo) nei Cinquanta, e così via. Solo che fra un incubo reale e uno fantasmatico era sempre preferibile il secondo. Joycianamente, la Storia continuava a rimanere un incubo da cui sarebbe stato meglio svegliarsi. In mancanza del trillo, un sogno che nascondeva (o evidenziava) tutte le paure dell’incubo reale era l’unica risposta possibile. D’altra parte, non credo nemmeno che i film di Hollywood riflettano così direttamente la realtà come altri pensano. Naturalmente vi si contano drammi sociali, politici, umani desunti dalla cronaca e dalla Storia, ma i modelli che sono alla base dei generi non possono rendere tanto immediatamente conto di come andavano le cose nella vita reale. Voglio dire che certamente il cinema americano rispecchia la realtà di cui si occupa, ma che è anche necessario discostarsi dal solito meccanismo metaforico (non parliamo poi d’ingenui realismi) per esercitarne uno più complesso, più sottile, più imprevedibile. Sono tentativi, naturalmente, e come tali non godranno mai di certezza filologica. Essi sono formulati per convincere più che per dimostrare, per ipotizzare più che per stabilire. Del resto, in caccia di metodi da sempre, la critica ha regolarmente dato i suoi frutti migliori al di fuori dell’ortodossia metodologica. E fortunatamente. Ci pensate se un giorno tutti si accordassero su un metodo? Avremmo lo stesso libro (o articolo) scritto ogni volta da autori diversi su argomenti diversi. Questo sì, è davvero un incubo, e con un piccolo sforzo di memoria dovremmo anche ricordare di averlo già vissuto: gli anni Settanta e i défilé strutturalisti in cui cambiavano le indossatrici ma il modello era sempre lo stesso non sono poi così lontani. Diciamo, poi, che questo libro vorrebbe insieme fornire al lettore interessato riferimenti, indicazioni, allusioni, anche solo titoli, che gli rendano l’intuizione – prima ancora che l’informazione – di una produzione variegatissima, amplissima, ricchissima, e piena di una fantasia che gli epigoni contemporanei fingono di avere ulteriormente sviluppato, ma
che invece stanno giorno per giorno contribuendo ad affossare. La fantasia si nutre di tutto tranne che di effetti speciali, la fantasia è libertà di pensiero e di forme, invenzione nella difficoltà, dolcezza nell’allestimento delle immagini; la fantasia è intrinseca al cinema americano, il quale, se è vero che sottolinea eccessivamente la realtà, come dice John Fowles, d’altra parte si fa sempre perdonare realizzando eccessivamente le fantasie attraverso una finzione. La volontà di eliminare il grande quoziente di finzione tipico del grande cinema americano è quel che caratterizza parte della produzione attuale. Pazienza. Come ho scritto più avanti, in fondo non ci restano altre visioni di quel cinema se non nella santificazione operata dal piccolo schermo in orari spesso impossibili, una celebrazione funeraria che riesce a darci una sentita immagine dell’estinto senza per questo restituirlo alla vita. Non vorrei però che il lettore pensasse a questo libro come a un epitaffio. Al contrario, il sottoscritto crede ancora nella visione; solo, è evidente che si dovrà trattare di un altro tipo di visione, ed è un peccato perché quello cui la mia generazione (e anche tante altre) si era abituata era piacevole. In ogni caso, fra i film che secondo Spielberg saranno prima o poi proiettati nella mente del singolo e un 35mm con Cary Grant che va gambe all’aria sotto lo sguardo divertito di Katharine Hepburn mentre un’intera platea cade dalle sedie disturbando con urla di gioia la visione, be’, è naturale che io preferisca il secondo. È strano (l’hanno già detto, lo so): arriva il momento in cui cose e persone che, come le platee rumorose, ti davano fastidio quando c’erano ti mancano poi tanto quando non ci sono più e non torneranno mai più. Davvero il rapporto col cinema è un rapporto d’amore. Ne consegue che, stando alla bella e famosa pagina di Carson McCullers, era probabilmente lui L’amante e noi gli amati. Adesso che non c’è più, ecco che non può riempirci ancora delle sue attenzioni come quando noi, annoiati o distratti, chiacchieravamo col vicino, aspettavamo la fine di quell’insopportabile numero cantato, scrutavamo con falsa noncuranza chi diavolo un secondario destino ci aveva piazzato di fianco a gioire di una cosa che non avremmo mai immaginato si sarebbe estinta (le sale odierne sono tutto tranne che cinematografiche e non mette conto parlarne).
E ora le mie sincere scuse a una critica agguerrita e forte come quella italiana: questo libro avrebbe dovuto citare molti più studiosi, molti più volumi e articoli, ma, si sa, non è buon gioco appesantire il testo con troppi riferimenti. Desidero comunque affermare qui che, in fatto di cinema americano, ritengo la critica italiana buona quanto quella francese o statunitense o britannica, anche se purtroppo meno letta e attesa dagli studiosi stranieri di quanto essa non faccia con loro. Quanto alle poche persone cui sono grato dell’aiuto e della pazienza dimostratimi durante la stesura del testo, la parte che esse hanno avuto è troppo importante perché basti citarne i nomi: loro sanno. E tuttavia è doveroso che qui io menzioni Guido Fink, il quale non solo mi ha fornito con prodigiosa prontezza dati bibliografici e memoriali, ma cui devo quello che presumo di sapere sul cinema (e se è per questo, anche molto di più). f .l.p
Parte di questo libro – particolarmente per quel che riguarda l’ultimo capitolo – riporta precedenti scritti, opportunamente riveduti, pubblicati soprattutto su «Cineforum», «Cinema & cinema», «Filmcritica», su Film 81, curato da Lino Micciché (Feltrinelli, 1981), sui volumi dedicati dalla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro alla produzione americana (1979), ecc.
SOGNO E REALTÀ AMERICANA NEL CINEMA DI HOLLYWOOD
Introduzione SILENZIO, SUSSURRI E GRIDA: DAL MUTO AL SONORO L’avvento del sonoro nel cinema non fu un semplice evento tecnologico, né un’occasione di maggior richiamo per un pubblico assetato di curiosità, né ragione di particolare soddisfazione per chi vedeva nel cinema il terreno di una sempre maggiore aderenza alla realtà. Esso comportò una svolta radicale nell’intero sistema di segni identificabile in quel vasto campo che designamo col nome di cinema; esso ne variò in certa misura la natura, il modo di organizzarsi e di proporsi, la concezione e l’esecuzione dei generi stessi (fiorenti già nel muto), i dettagli recitativi sia mimici che – ovviamente – vocali, la nozione di divismo che già nei precedenti decenni si era sviluppata non solo in America ma anche in Europa, e naturalmente il rapporto fra opera e spettatore1. Cominciamo con quella che forse non è la più vistosa ma certo è la più evidente caratteristica del muto: le didascalie. Le didascalie, è chiaro, non sono affatto assimilabili, ad esempio, al fumetto nelle strips: esse infatti interrompono il ritmo narrativo in modo ben più netto, dal momento che non rientrano nell’insieme della singola inquadratura (in una strip si direbbe del quadro o della tavola). Se mai, esse sono in certa misura rapportabili alle didascalie dei fotoromanzi e delle stesse strips: elementi esterni che commentano l’immagine, l’azione. Ma nel film esse sono ancor più isolate da quest’ultima e occupano l’intero quadro interrompendo completamente la fluidità narrativa delle immagini. La fruizione di un film muto, dunque, era regolarmente condizionata da questo fattore che era ovviamente tanto più necessario quanto più l’azione si presentava come dialogo. Una qualunque scena d’amore si ritrovava frammentata in modo innaturale, e ciò spiega bene quel vago senso di comicità che avverte lo spettatore moderno (e dunque abituato al diverso ritmo del sonoro) in presenza di pellicole del genere nel
momento – appunto – in cui la didascalia blocca la fluidità dell’azione. D’altra parte è anche vero che proprio tale interruzione, comportando una diversa fruizione dell’immagine, comportava anche – almeno implicitamente – una diversa valutazione estetica della stessa. Nel momento, infatti, in cui quella che abbiamo chiamato fluidità narrativa delle immagini trova a frangerla l’elemento di frammentazione costituito dalla didascalia, è naturale conseguenza che lo spettatore osservi le immagini con minore adesione di verosimiglianza che nel sonoro. L’innaturalità delle didascalie provoca come necessaria, inevitabile conseguenza un senso di innaturalità nelle immagini stesse. Bloccato via via nello sviluppo dell’azione, il ritmo della narrazione non pretende nemmeno di identificarsi con quello della “vita”, anche se in realtà l’azione non veniva girata brano a brano, ma in un piano sequenza o anche in campi e controcampi senza che vi fosse un ordine previsto nelle didascalie. Che queste venissero ideate e poste prima o dopo l’organizzazione della pellicola in storia non riveste importanza ai fini della sensazione che il pubblico ha nei confronti delle scene interrotte: queste sono sempre qualcosa di “altro” rispetto una sequenza senza alcuna soluzione di continuità. In seconda istanza, le didascalie comportavano – sia per la loro natura che per quella del cinema muto nel suo complesso – una forza retorica tendenzialmente assente dal sonoro. Piene di esclamativi, di interrogativi, di punti di sospensione, le didascalie enfatizzavano un cinema che per sua stessa costituzione era già enfatico. Assenti le parole, le immagini erano l’unico medium di comunicazione, l’unico segno che veicolasse informazioni e significati. L’aggiunta delle didascalie cerca appunto di riempire questo vuoto, ma bisogna chiarire che fondamentalmente esse assolvono due principali e diverse funzioni: la prima, quella di una vera e propria sostituzione delle parole; la seconda, quella di un commento all’azione. Si tratta di una distinzione importante, poiché soltanto la prima funzione è davvero alternativa alla assenza di parlato. L’altra invece è unicamente espediente retorico, non di rado ridondante rispetto alle immagini, al fine di drammatizzare un’azione che di per sé era già, sin eccessivamente, drammatica.
Abbiamo indugiato su questo aspetto delle didascalie perché solo così, attraverso un quadro preciso della situazione relativa al cinema muto, è possibile comprendere pienamente la rivoluzione causata su questo terreno dal sonoro. E più specificamente perché i due differenti tipi di didascalie comportano due diversi tipi di fruizione del film muto in quanto oggetto di interruzione. Vogliamo dire che mentre l’interruzione che intende fornire semplicemente il dialogo fra i personaggi mostrati sullo schermo è in certa misura più giustificata, quella che funge unicamente da commento a un’azione che usualmente di per sé era già abbastanza evidente può vantare giustificazione decisamente minore. Questa infatti agisce nettamente contro le più elementari leggi dell’economia estetica. E dunque contribuisce ad affondare le possibilità di riuscita artistica del film. Ciò naturalmente non toglie che qualche grande regista come Griffith sia riuscito ugualmente nell’impresa, ma grazie alla forza delle immagini unita a una sospensione del giudizio che inevitabilmente le didascalie comportano. Bene, questa impostazione di lettura è completamente estranea al cinema sonoro. Esso non solo non usa didascalie, ma fornisce una sensazione realistica dell’azione anche attraverso il dialogo. È ovvio che a sua volta il dialogo del sonoro può appesantirsi nella retorica, ma si tratta pur sempre di una retorica verbale, cioè a dire di un sistema molto più vicino a quello che conosciamo come linguaggio reale grazie al semplice fatto che esso gode di una voce. La fluidità, la continuità dell’azione tipiche del cinema sonoro implicano da questo punto di vista (e come vedremo anche da altri) una fruizione diversa del film rispetto a quella del muto. La verosimiglianza delle immagini nel cinema muto non era – lo si vide molto bene dopo l’avvento del sonoro – direttamente proporzionale alla visione della realtà che la pellicola riproduceva; il sonoro non aggiungeva semplicemente un tocco di ulteriore verosimiglianza al film in quanto riproduzione della realtà, ma al contrario esso lo qualificava come (apparentemente) reale solo nel momento in cui si poté constatare concretamente l’efficacia della nuova invenzione. Il cinema muto non era – troppo semplicisticamente – realtà senza suoni, ma una realtà molto meno convincente in se stessa se comparata a quella fornita dal sonoro.
Questa è fra l’altro la ragione per cui nei primissimi anni del sonoro non si annoverano molti film di genere fantastico. Le pellicole d’orrore nasceranno di lì a qualche anno, quelle di fantascienza anche più tardi: si trattava di temperie culturale, di sotterranei lavorii del gusto non facilmente definibili; intrecci imprevedibili fra componenti psicologiche, economiche e financo epistemologiche, certo, ma anche di un dato tutto sommato abbastanza concreto come quello appena indicato. Il sonoro si identificava in certo senso con una nuova, diversa scoperta della realtà, o se si preferisce, di riproduzione della realtà. Tutto un mondo emerse in quegli anni, tutta una nuova sperimentazione che non era unicamente in chiave tecnologica, ma anche di accostamenti fra modelli dell’immaginario i quali, paradossalmente e dunque in modo tanto più eccitante, si presentavano sempre più come perfetta riproduzione della realtà per come essa era conosciuta e vissuta. La voce segnò quindi una vorticosa caduta di tutti gli altri sistemi retorici caratteristici del cinema muto. Prendiamo il trucco. Chi non ricorda i cattivi di certe comiche chapliniane? Chi ha dimenticato non solo le lunghe e incolte barbe ma soprattutto quelle sopracciglia eccessivamente folte, quegli occhi bistrati e luciferini? Chi non ha nella memoria il viso imbiancato di Mary Pickford, le sue labbra rese sottili e timorose da un attento gioco della matita? Il discorso è semplice: in un sistema di segni, che non contempla la voce e il sonoro in genere, qualunque indicazione relativa al carattere di un personaggio non può che essere esaltata, enfatizzata. In un sistema retorico che non può usare le parole e che dunque vede nella mimica e più in generale nell’apparenza esteriore il primo modo, il primo veicolo di comunicazione, l’occhio annerito, il viso segnato dalla biacca non per denotare malattia o vecchiaia ma per indicare qualità morali, spirituali del personaggio sono mezzi di normale amministrazione. Il cinema muto in certo senso avallava la classica credenza calvinista (ma già ben nota alla cultura greca) dell’identità fra esterno e interno, fra corpo e anima. In realtà, si trattava piuttosto di una pratica squisitamente teatrale, per cui ogni personaggio era, appunto, persona, vale a dire maschera che incarnava un’idea morale: il cattivo, l’ingenua, il buono, un triangolo sin troppo celebre nella fantasia d’ogni tempo. Del resto si trattava di una pratica non
poco economica: in un cinema che non poteva avvalersi delle parole, della voce, era più comodo far riconoscere immediatamente in altri modi la valenza morale dei vari personaggi. È un ammicco vecchio quanto il palcoscenico: ogni tradizione teatrale ha i suoi “caratteri”, dall’atellana latina alla tragedia elisabettiana. Sono notoriamente convenzioni che i relativi spettatori conoscevano bene. Lo spettro del tempo di Shakespeare era normalmente vestito di cuoio, e i vecchi indossavano un cappellaccio e un mantello di colore nero (oltre all’ovvia barba): sono segnali che lo spettatore coglie subito e che comportano una notevole economia nella costruzione del testo. Il salto di alcuni passaggi è caratteristico anche del cinema muto: il malvagio dal bistro eccessivo risponde immediatamente a un’attesa del pubblico, lo tranquillizza sulle attese morali (e anche narrative) che questo anche solo inconsciamente coltiva. Il codice di trucco e costume tipico del cinema muto non è vastissimo: quel che importa è che esso esisteva ed era una struttura di riferimento fondamentale che l’avvento del sonoro scardinò. Come si diceva in altri termini più sopra, non si trattò di sovrapporre ai codici esistenti un ulteriore e importante codice di informazione (quello, appunto, della voce, dei rumori e della musica), ma di ribaltare l’organizzazione dei codici di comunicazione caratteristici del muto, inaugurando in modo radicale un sistema retorico diverso. Se nel muto un volto segnato dal trucco scuro indicava un carattere torvo e turpi intendimenti, nel sonoro era sufficiente una inflessione di voce a comunicare allo spettatore la medesima informazione etica. Naturalmente non si vuole qui affermare che il cinema sonoro non avesse anch’esso una sua codificazione figurale. In effetti, tanto per fare un esempio, c’è tutta una tradizione anni Cinquanta di sensualità femminile che è retoricamente qualificata dal glamour dei vestiti e dei paramenti, dalla pettinatura, dall’atteggiamento del viso e così via sino ad arrivare al fondamentale complemento fornito dal commento musicale (nel caso specifico alcune suadenti e lentamente sinuose note di sassofono). Ciò che scompare in epoca di sonoro è – appunto – l’impiego del sistema retorico precedente, o quantomeno la sua intensità di informazione. In altre parole, il sonoro è meno retorico, meno codificato, meno stilizzato, ed è invece più aderente alla realtà. Come all’avvento del teatro realistico borghese, convenzioni marcatamente non verosimili ma
– appunto – stilizzate cedono il passo a riproduzioni “fedeli” di ambienti e caratteri. In un certo senso viene a mancare il palcoscenico e la macchina da presa comincia a calarsi in mezzo alla realtà. L’affermazione è naturalmente discutibile; un film muto come La folla (1928) di King Vidor è senza alcun dubbio un magnifico esempio pre-sonoro di opera calata nella realtà, e con esso molti altri. Ciò di cui parlavamo non riguarda tanto la produzione di opere quanto l’atteggiamento del regista, dell’obiettivo, ormai irreversibilmente distanziato dalla concezione del film come messa in scena di carattere e natura teatrali. È proprio di questi tempi, dunque, il passaggio che porterà al malinteso “realistico” e che per decenni percorrerà la storia del cinema porgendo persino il destro alla costruzione di una supposta teoria del realismo cinematografico da inquadrare nell’ambito di una non meno supposta estetica marxista. La capacità di esatta riproduzione della realtà da parte del sonoro rispetto al cinema muto era dunque il trampolino perché il cinema potesse partire verso l’avventura che l’avrebbe portato – almeno per alcuni – a uno status che aprioristicamente gli era estraneo: quello di mezzo che forse persino più di altri nell’ambito estetico poteva attuare un rispecchiamento della realtà che eliminasse ogni supposto orpello tipico di una concezione borghese e superata dell’arte. Ma abbandoniamo le questioni estetiche di carattere generale e torniamo all’importanza oggettiva e incontrovertibile dei mutamenti apportati dall’avvento del sonoro. Sullo stesso versante del trucco operava nel muto anche la mimica attoriale. Esagitata e comunque eccessiva, essa pure si era organizzata in codice. Commedia o melodramma, ogni gesto rientrava in un sistema retorico che, proprio per l’assenza del sonoro, richiedeva un’enfasi di particolare intensità. Proprio come nel teatro greco o in quello elisabettiano, gli attori esibivano una gestualità esasperata affinché lo spettatore potesse senza ombra di dubbio cogliere i caratteri e gli avvenimenti del palcoscenico, così nel cinema muto ogni indicazione in questo senso doveva passare al vaglio della necessaria decodificazione. Il cinema muto, insomma, non teneva minimamente a una verosimiglianza formale e l’identificazione personaggio/spettatore avveniva su un terreno ben diverso da quello della quotidianità non solo per ragioni di carattere tematico (ciò che è rinvenibile
anche nel sonoro: gli ambienti del televisivo Dynasty non sono evidentemente accessibili a qualunque spettatore contemporaneo così come l’Olimpo non era facilmente accessibile a quello greco), ma anche per ragioni di carattere retorico (la quotidianità sostituita da un diverso sistema di significazione: di gesto, di trucco, ecc.). Le conseguenze estetiche del mutamento sono intuibili. L’illusione di realtà creata dal sonoro se da un lato facilita la fruizione del film, dall’altro però la complica proprio per il fatto di presentarsi così simile al quotidiano, così fluidamente identica a ciò che percepiamo e viviamo giorno per giorno, ai modi di comunicare che ci sono usuali nella vita. Essendo la vita ben poco “artistica”, la nostra abitudine a essa in tal senso non può non tarare anche la nostra fruizione dell’opera che si presenta in questa chiave. In certo senso è questo l’equivoco della critica neorealista italiana: l’immediatezza di denuncia sociale insita nella spoglia immagine della realtà liberata dagli orpelli fascinosi imposti dal cinema di grande produzione (e non solo americano) è solo un mito: Ladri di biciclette (1948), ad esempio, è una pellicola certosinamente costruita su un sapientissimo, calcolatissimo impiego dello spazio, tale comunque da farci tranquillamente escludere la possibilità – in sostanza volgarmente romantica – che quel cinema sia stato dettato da un impulso di immediatezza senza alcuna riflessione formale, da un felice istinto verso la verità del vissuto in opposizione all’abbagliante falsità di Hollywood. È la solita mitologia che vuole il poeta e l’artista come privilegiati ispirati da chissà quale spirito, la cui mente e la cui mano si muovono all’unisono con la Bellezza e la Verità (in versione marxista: dalla classe operaia). Ma il discorso non finisce qui. Tutto quanto detto sinora a proposito del cinema muto contribuì a suo tempo a costruire un’immagine alquanto particolare dell’attore cinematografico (o almeno di un certo tipo di cinema): quella del divo (e vi includiamo ovviamente anche se non soprattutto la versione femminile). Si tratta, com’è noto, di un primario fenomeno sociologico che tocca la psicologia di massa e che avrebbe avuto larghissime ripercussioni anche sul cinema sonoro. Al solito, la differenza fra i due tipi di cinema si misura anche in quest’ambito sulla grande cesura segnata dalla nuova tecnologia.
A differenza dall’idea comune, il divismo del muto non si identifica nel solo fenomeno dell’attore/attrice vamp. Questo è infatti un tipo molto vistoso di divo; ma non bisogna dimenticare che anche il cinema comico, o comunque leggero, poté vantare nomi decisamente ascrivibili all’ambito del divismo. Procediamo per ordine. Prima di tutto non sarà male rispolverare una vecchia nozione: che cosa è un divo? Non si tratta ovviamente di qualcosa che coincide col semplice successo di pubblico, con la simpatia (o perché no?, l’antipatia) ispirata alle platee da ruoli che a poco a poco vengono a identificarsi con questo o quell’attore (e viceversa). Il divo, anzi, è esattamente il contrario: un personaggio che è al di là da qualunque specifico ruolo, che – appunto – è ormai giunto così lontano nell’immaginazione popolare da potersi identificare soltanto con se stesso (il che, fra l’altro, ci dice che il divo non deve di necessità essere professionalmente capace). Naturalmente egli potrà anche incarnare un’idea, una sensazione, un miraggio o altro, ma non potrà mai coincidere con un semplice ruolo. Il divo non è un buon attore che si cala perfettamente nella parte; ma al contrario un attore (ripetiamo: non necessariamente buono) il quale condiziona il ruolo stesso che egli usualmente ha (quando lo ha) in modo da divenire maschera che imprime un marchio alla stessa nozione oggettiva di questo ruolo. Quando Oliver Hardy interpretava parti di cattivo egli era completamente estraneo al concetto di divo non perché recitasse malamente o fuori parte, ma perché rientrava in un ruolo codificato cui egli obbediva seguendone le normali regole retoriche. Quando, in coppia con Stan Laurel, Hardy diventò il grassone irascibile e perbenista, violento e codardo, egli si forgiò un ruolo assolutamente non copribile, ripetibile da nessun altro che lui. Allo stesso modo è del tutto errato definire il vagabondo di Chaplin un triste clown: Charlot è tutto tranne che un modello cui Chaplin si era adattato. La sua galanteria e la sua povertà, la sua provocatorietà e la sua debolezza fisica sono troppo personali, troppo identificabili in un nome e in un volto per essere considerate segni, tratti che qualificano una maschera generale. La cosa paradossale è che il divismo nacque invece proprio come tentativo, da parte di certi attori, di sfruttare un modello. Proprio il personaggio della vamp è per definizione una maschera
impersonale dietro la quale si celano personalità più o meno forti di attrici. Così, vi furono vamp ben poco efficaci e altre invece assolutamente inarrivabili: le prime furono semplici adeguamenti al modello, le seconde vere e proprie dive. Se il modello era – appunto – quello della mangiatrice d’uomini, della tentazione proibita che come un fuoco avvampa e distrugge tutto quel che di maschile trova sul suo cammino, Theda Bara era la diva e le altre semplici attrici che si calavano, con alterne fortune, in quel ruolo. L’idea di divo comporta, in certo senso, nell’immaginazione popolare una sorta di identità non fra attore e ruolo, ma fra attore e ciò che egli rappresenta per il pubblico. Da un altro punto di vista è divo l’attore che richiama il pubblico indipendentemente dal ruolo che ricopre. È vero che James Stewart, John Wayne, Clark Gable si ritrovarono a interpretare spesso lo stesso personaggio (non ruolo!), ma è anche vero che nessuno spettatore e nessun critico se n’è mai lamentato. Il divismo del muto – come abbiamo visto – ha radici attoriali e modi di presenza e di comunicazione molto diversi da quello del sonoro. All’interno di un sistema retorico puramente visivo è ovvio che anche la recitazione si articoli in modo adeguato alla enfatizzata espressività delle altre componenti figurali. L’uso del corpo in modo declamatorio, altisonante e per certi tratti addirittura eroico non nacque occasionalmente nel cinema muto, ma derivò dagli stilemi retorici della più antica arte teatrale in auge al tempo in cui il cinema viveva i suoi primi anni. L’avvento del sonoro ebbe fra le molte conseguenze quella di liberare il cinema dalla parentela col teatro. Ormai svincolato dalla ripresa fissa, dall’inquadratura immobile di carattere squisitamente teatrale, il cinema muto che va da Griffith in avanti mantenne però dell’arte più anziana la grandiosità espressiva del gesto e della mimica facciale; col sonoro invece il quoziente di realismo aggiunto (di cui si diceva più sopra) porterà il cinema a uno statuto molto diverso da quello del teatro, a una naturalezza nel movimento degli attori che verrà conquistata vieppiù anno dopo anno. Questo riassume la grossa tragedia vissuta dagli attori del muto, incapaci di adeguarsi alla nuova tecnica. È un fatto ben noto che professionisti dignitosi, e a volte bravi, con notevole esperienza cinematografica si ritrovarono impotenti di fronte alla pellicola sonorizzata. Del tutto estranei all’uso della voce nella recitazione, essi dovettero ricominciare da capo, e molti non ne
furono capaci. Le lezioni di dizione amabilmente canzonate in Cantando sotto la pioggia (1952) di Stanley Donen e Gene Kelly furono in effetti una necessaria (e per non pochi dolorosa) realtà. Non a caso Hollywood in quegli anni si rivolse massicciamente al vivaio teatrale (soprattutto newyorkese) per avere talenti adeguati alla novità della situazione. L’avvento del sonoro, insomma, segnò anche un ricambio attoriale, in relazione alla necessità di poter fruire di persone capaci non solo di usare la voce ma anche il corpo secondo un codice certo ancora convenzionale ma tuttavia di ridotta magniloquenza rispetto a quello che aveva dominato durante il muto. Il periodo, inoltre, come si vedrà più avanti, vide l’arrivo a Hollywood di una razza fino a quel momento del tutto estranea ai teatri di posa: i cantanti. Ma di questo parleremo a proposito del musical. Va, quindi, da sé che lo stesso divismo subì un cambiamento: la voce, cioè, entrò a far parte essenziale del fascino attoriale. Interpreti dalla personalità indiscutibile, come Cary Grant o Gary Cooper, non sarebbero le leggende che sono stati e sono senza la loro voce e il mito che essa alimentava. È pensabile il personaggio di Marlene Dietrich senza la sua voce roca o quello di Greta Garbo senza la studiata sofisticatezza del suo eloquio? Peraltro, il divo (non l’attore!) del sonoro non gioca sul semplice versante dell’enfasi esteriore: la sua è invece una delicata miscela fra celebrazione di se stesso e naturalezza del movimento. Da un lato egli non può non porsi come eccesso rispetto al ruolo specifico interpretato in questo o quel film; dall’altro egli deve figurare credibile, verosimile, umanissimo nel modo di proporsi. Apparentemente si tratta di una contraddizione, e questo spiega perché il divo dell’epoca sonora è molto spesso così ironico nei confronti della maschera stessa che ha adottato: si pensi, appunto, alla Dietrich o a Grant, al continuo, discreto, eppure sensibile ammicco che avverte lo spettatore di non dar troppo credito a quanto vede invitandolo piuttosto a giocare con l’attore in una comunione di finzione. Nel cinema muto ben pochi attori avevano adottato un tale modernissimo atteggiamento: Douglas Fairbanks, Charlie Chaplin e in certa misura Mary Pickford, i quali non a caso si ritrovarono insieme a fondare una casa di produzione (con D.W. Griffith come quarto partner). E che dire dell’ampliamento d’orizzonti portato dal sonoro nella commedia? Se è vero che esso confortò una visione più realistica della realtà filmata, è anche vero che il numero di
possibilità di gag aumentò a dismisura. Si pensi – anche se non si tratta di un esempio desunto dal cinema americano – all’impostazione dei film di Jacques Tati, in parte giocati proprio sull’assenza della voce e su un uso comico dei rumori. Vi furono attori comici che senza essere mai diventati divi fondarono il proprio successo sulla voce, sull’inflessione, l’accento, il ritmo, il tono (si pensi al famoso «woo woo” di Hugh Herbert). Pur potendo vantare un’incredibile presenza scenica e doti mimiche davvero non comuni, non sarebbe immaginabile il travolgente successo di Danny Kaye senza il suo uso personalissimo della voce (quelle stupende tirate mezzo parlate e mezzo cantate, o quel modo assurdo di pronunziare i più complicati scioglilingua). Il sonoro dunque dette maggior credibilità ai mitra che vomitavano fuoco dai finestrini di auto in corsa nella Chicago anni Venti, ma anche più follia alle già assurde e vorticose comiche del muto. Un cinema sonoro infatti non ha bisogno dei tempi cronometrici, calibratissimi degli shorts di Mack Sennett. Al contrario, quegli stessi tempi gli conferirebbero una patina d’antico (di muto, appunto) che stonerebbe con la modernità di un film che gode di voce e rumori a cui siamo ormai abituati. Ovviamente esso ha ugualmente bisogno di ritmi, ma di ritmi alquanto diversi da quelli dell’altro cinema. La gag verbale infatti riposa per sua natura su un terreno di limitata mobilità: gli stessi fratelli Marx quando mettevano sottosopra le scenografie nelle quali si trovavano non avevano alcun bisogno di pronunciare battute, a meno che non fosse attraverso di esse che Groucho o Chico combinavano le loro malefatte (i famosi dialoghi di Groucho con Margaret Dumont). Per la gag verbale il movimento può essere essenziale, ma solo come occasione di battuta: quando Woody Allen spara le sue irresistibili gag verbali in realtà egli non fa che commentare ciò che è appena avvenuto o che sta avvenendo in scena. Non è casuale che il primissimo film dei Marx, Humorisk (1926), girato in epoca di muto, non venisse mai distribuito, e anzi, secondo la leggenda, ne fosse stata imposta la distruzione da parte degli stessi interpreti, i quali capirono, ancorché tardi, che la loro comicità (o almeno quella di due di loro) era fondata sulla verbalità, e dunque che era rischiosissimo limitare il proprio potenziale comico al solo movimento, alla sola figuralità dal momento che il loro successo era legato alla battuta più che ai movimenti. In certo senso si può dire che il sonoro doveva prima o poi essere inventato poiché –
come ha ben dimostrato Constance Rourke2 – il comico americano è basato sullo speech, sulla parola, sul discorso. La mimica – che pure fu non poco coltivata anche dai comici hollywoodiani (si pensi per tutti a Chaplin) – è infatti sempre stata caratteristica precipua della tradizione comica mediterranea, dall’atellana sino a Totò. Nella cultura americana invece la verbalità affondava le sue radici sin dai tempi della grande produzione umoristica ottocentesca del sud-ovest, gli almanacchi di Crockett, le fanfaronate su Pecos Bill e altri eroi della frontiera, le storie popolari dello zio Remo, ecc. A questa ricca tradizione si sovrappose in seguito – adeguandovisi perfettamente – quella ebraica, giunta in America con le grandi migrazioni europee orientali. Umorismo giocato anche esso sul versante della verbalità, del motto di spirito e del gioco di parole, quello ebraico si innestò nel ceppo magniloquente della cultura frontieristica ponendo le basi per i meccanismi comici tipici del vaudeville statunitense, il quale sarebbe a sua volta stato a fondamento di non poca comicità cinematografica americana, proprio quando – giunto il sonoro – Hollywood, come si diceva, si rivolse al teatro per rinnovare il proprio vivaio attoriale con professionisti abituati all’impiego della parola, della voce. La componente ebraica dell’umorismo americano dell’ultimo secolo si inserisce nella tradizione autoctona americana, puntando non sull’eccesso, sul gigantismo, sull’ overstatement dei contenuti che caratterizza la comicità americana, bensì sul loro stravolgimento, uno stravolgimento quasi sempre affidato al gioco di parole. La logica di questa pratica è evidentemente quella dell’assurdo, in fondo come quella del “discorso” americano originario. Ecco quindi un’altra buona ragione perché tale tradizione attecchisse in ambito americano. È facile leggere questa caratteristica degli attori ebraici come disimpegno, rifiuto di utilizzare il genere comico in chiave critica o addirittura protestataria. Ma naturalmente sarebbe errato. Questo forte aspetto dell’umorismo ebraico vanta precise ragioni di essere. Prendiamo, oltre allo shlemiel, alcune delle altre maschere di quella tradizione: il nebech, il mishgoss, il badchen, il knocker, il chutzpa, il draykopf il kibitzer e tutti gli altri caratteri della tradizione ebraica. In ognuno di essi è un grano – e più di un grano – di follia, d’assurdo. Ognuno di essi è la risposta a una
situazione sociale, o per dirla con Allen Guttmann, «il prodotto della situazione sociale degli ebrei europei orientali come minoranza i quali mantennero un’esistenza precaria all’interno della più larga cultura cristiana»3. Naturalmente non nel senso che ognuna di esse incarnasse un atteggiamento di esplicito o implicito rifiuto dell’e-marginatore e dell’oppressore, ma perché attraverso la ridicolizzazione tipica dello specifico “carattere” il gruppo ebraico trovava oltre a un’occasione di riso anche la forza di guardare a se stesso senza pietismi e autocommiserazioni. Peraltro, esiste anche un preciso lato critico della questione – quello relativo alla carica eversiva di questo umorismo –, su cui però ci riserviamo di ritornare quando parleremo dei Marx. Un altro aspetto di questo discorso, tuttavia, non va dimenticato. Il teatro ebraico tradizionale, comico o drammatico che fosse aveva sempre dimostrato una forte tendenza al travestimento, alla maschera, al trucco, usualmente ben più pesanti di quello che un qualsiasi spettacolo “realistico” avrebbe richiesto. È questa una caratteristica che si riscontra facilmente in parecchi comici di origine ebraica al lavoro al di fuori dalla scena yiddish: la biacca – eccessiva persino in relazione agli standard del muto – di Larry Semon (Ridolini) o i baffi dipinti di Groucho Marx ne fanno ampiamente fede. Ma ne fa fede, in modo completamente diverso, anche la concezione dello spettacolo che ebbe un Florence Ziegfeld. Le sue Follies – cui il cinema americano attingerà spesso a piene mani – non erano semplicemente una parata di belle ragazze, ma un vero e proprio défilé ancorato a una ricchezza di costumi, di parures, di ornamenti che erano in fondo la versione sofisticata e strabiliante, newyorkese e scintillante, del gusto teatrale ebraico per l’addobbo. Dunque l’influenza ebraica sul teatro – e di lì sul cinema – si avverte in due direzioni: quella verbale e quella visiva. L’una esclude in genere l’altra, nel senso che le due direzioni danno vita a due diversi tipi di teatro: quello incentrato sull’attore e quello che porterà alla nostra “rivista”. Florence Ziegfeld, tuttavia, unirà le due direzioni talché dopo una sfilata mozzafiato di bellezze agghindate in modo estroso ecco sulla scena un numero, che so?, di Fanny Brice che si sbraccia insieme al marito nel tentativo di rubare un biglietto vincente della lotteria dalla tasca del padrone di casa al quale la pigione è stata avventatamente pagata con esso.
La Brice non solo si agita sulla scena come solo lei sapeva fare, ma mette in atto tutta una serie di giochi verbali di cui lo spettatore è perfettamente cosciente mentre non lo è l’antagonista (il numero verrà poi filmato da Vincente Minnelli nel suo Follie di Ziegfeld, 1945)4. Il sonoro comunque può essere considerato un’invenzione squisitamente americana non solo perché storicamente esso nacque oltre Atlantico, ma anche perché idealmente appartiene certo di più alla tradizione culturale di quel Paese che a quella mediterranea. Peraltro, ciò è ulteriormente testimoniato dalla straordinaria capacità di adattamento che gli americani mostrarono verso la nuova tecnica. Nel giro di pochi anni nuovi generi sorsero a ridosso del sonoro: non solo – e ovviamente – il musical, ma anche quel genere così tipicamente statunitense che fu la screwball comedy, un impasto di testo e immagini dal ritmo incredibile, una miscela equilibratissima di inquadrature e battute (soprattutto in chiave di dialogo serrato) dal passo inflessibile, irresistibile. Ancor oggi le commedie anni Trenta di Howard Hawks sono considerate dalla critica come l’esempio più alto di un genere che senza il sonoro non sarebbe mai stato possibile e che avrebbe lasciato diversi e differenziati eredi: non solo il calligrafico e ugualmente divertente Peter Bogdanovich di Ma papà ti manda sola? (1972), ma anche (ciò che usualmente non si dice, preferendo rintracciargli parentele nella direzione del sofisticato Lubitsch) il perfido artificiere Billy Wilder, il cui Uno, due, tre! (1961), tanto per fare un titolo, oltreché allo smaliziato maestro viennese, deve qualcosa a Hawks quanto a capacità di formulare un ritmo irresistibilmente nevrotico e travolgente. Laddove, infatti, il ritmo formidabile di Lubitsch era giocato da un lato sul tempismo di finissime battute e su una macchina da presa che sapeva muoversi in modo tale da far sembrare che fossero invece gli attori a farlo, quello di Hawks gode di una macchina da presa altrettanto sciolta e dinamica, ma combinata a una direzione dei movimenti degli attori più complessa di quanto il sublime, fluentissimo risultato permetta di cogliere. Ma da dove viene il ritmo? Da dove viene quel galoppo di inquadrature e voce sempre più veloce e così magistralmente disciplinato? Quell’inseguimento a rotta di collo in una continua gara d’equilibrismo tra immagini e parole?
Un altro elemento era implicito, per così dire, nella rivoluzione del sonoro, qualcosa che la nuova tecnica si portò dietro come una conseguenza inevitabile: il movimento di macchina, o per essere più esatti, un suo affinamento, un suo perfezionamento5. Tutti sappiamo che la macchina fissa era ormai, nella seconda metà degli anni Venti, un ricordo di tempi lontani, nel senso che l’inquadratura di natura strettamente teatrale, l’angolo frontale che riprendeva ad altezza d’uomo un’azione che si svolgeva sullo schermo come sul palcoscenico, era stata superata dai maestri del muto, Griffith in primo luogo. La linea di rinnovamento era stata doppia: diretta e indiretta. La prima aveva visto l’introduzione di carrelli che permettessero alla macchina da presa di avvicinarsi o allontanarsi a piacere dalla scena ripresa; la seconda era stata affidata non tanto a specifiche innovazioni di movimento quanto ad angoli di ripresa per quel tempo ancora audaci (bassi, trasversali, ecc.), i quali, opportunamente montati con altri più tradizionali, conferivano alla sequenza un ritmo – appunto – più eccitante e mosso. Senza dubbio il montaggio fu l’innovazione più importante nella intera storia del cinema; ma il movimento di macchina ne costituisce non tanto un’alternativa quanto una variazione in chiave di ulteriore complessità significante. Mostrare, ad esempio, un primo piano frontale del protagonista e poi un primo piano laterale non era la stessa cosa che ruotare di 90° con la macchina da presa attorno al suo volto in primo piano. La continuità fornita dal movimento di macchina attribuisce all’immagine una azione e una “verità”, un’apparenza di realismo che nell’espediente del montaggio non compare in modo così inequivocabile e diretto. Così un taglio da frontale a laterale conferirà all’immagine un’esemplarità che potrà anche essere interessantissima in un contesto in cui essa è richiesta, ma del tutto inadeguata in un contesto diverso che di gran lunga preferirebbe il movimento di macchina. Si tratta, lo si vede, di tecniche di significazione, di espedienti che, caratterizzando la forma, condizionano l’intero processo di significazione dell’immagine. Ora, l’avvento del sonoro, fornendo all’insieme delle immagini uno statuto non tanto di realismo quanto di fruizione più realistica, richiese di conseguenza un’attenzione più
complessa nei confronti dell’immagine. Una cosa è mostrare uno scontro fra esercito e indiani da diverse angolazioni, un’altra è girare un carrello laterale in corsa mentre la macchina riprende il gruppo di pellerossa che incalza i malcapitati: questo, si può obiettare, non riguarda la presenza o meno del sonoro, ed è vero. Ma è anche vero che, poniamo, le grida degli indiani all’attacco non sono componente importante della scena fino al momento in cui tale attacco non si vede nel suo farsi, e a quel punto è ovvio che il sonoro (cioè la possibilità di rendere più realistica la fruizione dello spettacolo) diventa occasione per una ricerca di visione meno rozza e limitata. Tutto si gioca, è evidente, sul rapporto teorico che si instaura fra immagine e suono. Nel momento in cui la realtà è più reale, grazie all’introduzione di un coefficiente di realismo come quello fornito dal sonoro, è a sua volta intuibile che il suono condizioni l’immagine, nel senso che la porti necessariamente a uno sviluppo di tecnica e dettaglio nella presentazione della sequenza alquanto più complessa di quanto non fosse nel muto. Si dice spesso che le commedie di Hawks sono marcate da un dialogo brillante. Verissimo: ma quel che le rende i gioielli che sono è il modo in cui il loro dialogo – decisamente scintillante – si coniuga ai diversi tipi di inquadratura che si susseguono in una serie di tagli che, giustapposti nella narratività che intendono fornire, neanche in un solo momento rendono poco credibile, stanco, fuori tempo quel che avviene (cioè, che vediamo) e quel che è detto (cioè che udiamo) lungo l’intero arco del film. Piuttosto, come si accennava più sopra, meraviglia l’eccezionale capacità di alcuni registi nell’accelerare quel ritmo già invidiabile in modo da rendere l’intera trama quasi incomprensibile tanto gli eventi e i riferimenti a essi (cioè le parole) si susseguono a velocità spropositata. Questo naturalmente non è tipico della sola commedia (o di certa commedia). Si pensi al famoso aneddoto – che anche questa volta riguarda la figura di Hawks – che vuole che il celebre William Faulkner, non riuscendo a seguire la complessità del plot di Il grande sonno (1946), si sia rivolto all’autore del romanzo, Raymond Chandler, e che questi gli abbia risposto di non sapere affatto come, nel film, la trama si dipanasse. Il film procede infatti con una velocità inusitata rispetto ai tempi usualmente dilatati del giallo. Se si confronta Il grande sonno con – poniamo
– una qualsiasi pellicola di Charlie Chan, si noterà che il dénouement di quest’ultima avviene negli ultimi cinque minuti, e in un modo che, contraddicendo tutti i segnali sparsi nel film (i quali, come al solito, indicavano come colpevole uno o più personaggi che invece erano estranei al delitto), rivela in tempi brevi più informazioni possibili relative a un personaggio fino ad allora assolutamente insospettabile. Nel film di Hawks, invece, l’interesse del regista non ruota attorno alla sorpresa dello scioglimento finale. Questo non manca, naturalmente, ma l’occhio di Hawks segue il suo Marlowe a distanza ravvicinata, si fa carico non solo delle sue indagini ma anche delle sue sensazioni, dei suoi pensieri, dei suoi motti di spirito, dei dialoghi tesissimi che egli sostiene con i più diversi personaggi. Il taglio di Hawks è quello di un autore che è attento all’aspetto poliziesco della storia non più che ai risvolti psicologici e persino sociali, e che obbedisce a questi suoi interessi avvalendosi di un formidabile mezzo di drammatizzazione, la macchina da presa. La combinazione di movimenti di macchina e montaggio da un lato, e quella fra la risultante e il sonoro dall’altro fanno di film come questo delle vere innovazioni, o quantomeno degli incontestabili esempi di differenza estetica fra essi e le operine in serie tanto care agli anni Quaranta, contente di suscitare una superficiale domanda dello spettatore e di soddisfare poi la sua curiosità con il semplice svelamento del colpevole. Una differenza così ampia fra due film appartenenti al medesimo ambito del sonoro può dare le dimensioni della radicale diversità fra opere del muto e opere della nuova tecnologia. Si potrà obiettare che quanto appena detto su Il grande sonno riguarda semplicemente la sua sceneggiatura e che nulla ha a che fare col passaggio dal muto al sonoro. In realtà, e invitiamo il lettore a fare la prova, mentre è pensabile una pellicola della serie “Charlie Chan” in forma muta, non è affatto immaginabile un’opera come quella di Hawks senza sonoro. Non tanto perché Il grande sonno esibisca nella colonna sonora degli elementi-chiave per lo sviluppo e la comprensione della sua linea narrativa, quanto perché in esso la parola e il dialogo vi giocano un ruolo insostituibile per tratteggiare il carattere di Marlowe e anche il complesso rapporto fra gli eventi. In un qualunque film della serie “Charlie Chan” tutto è concepito come in una pellicola muta (gran parte degli stessi attori, fra l’altro, obbedisce alla tipica codificazione esteriore dei caratteri del muto – la
ragazza giovane e innamorata, il bellimbusto in smoking, ecc. – non tanto in quanto caratteri ma perché tratteggiati visivamente secondo i dettami retorici di quel cinema: dalla pettinatura di lei ai baffetti di lui, si tratta di pure funzioni che, in quanto tali, possono tranquillamente rimanere invariate nonostante appartengano al passato). Persino la storia che emerge alla fine, pur nella sua complessità, potrebbe venir raccontata da una didascalia. Ma non c’è didascalia che possa render conto di un’opera come Il grande sonno, nella quale, pur rimanendo fresco tutto l’interesse dello spettatore per il plot giallo, si comprende bene che i primari interessi del regista sono più tridimensionali, più legati a uno studio dei rapporti fra personaggi in una chiave che in ultima istanza è morale, cioè identificabile in un’analisi di carattere etico di ambienti e caratteri attraverso l’occhio un po’ dolente, un po’ ironico, un po’ triste di quel catalizzatore esistenziale che è Marlowe. In ogni caso lo sviluppo del movimento di macchina aderisce, si adegua allo statuto di resa globale della realtà che caratterizza oggettivamente l’avvento del sonoro. I diversi punti di vista che il movimento di macchina elabora non sono – come si diceva – affatto comparabili con le semplici differenze d’angolazione nella ripresa. In certo senso è, appunto, la realtà nella sua tridimensionalità che finalmente appare sullo schermo. E anche se, poniamo, il carrello in tondo comparirà molto posteriormente all’inaugurazione del cinema parlato, esso era, per così dire, nell’ordine delle cose, e l’innovazione una semplice questione di tempo e non di impostazione tecnico-culturale (verrebbe la tentazione di dire gnoseologica). In modo certo meno elaborato e significante la stessa filatura è in fondo una tecnica comparabile, nel senso che, giocando sui due poli di riferimento che sono gli attori o gli oggetti, crea uno spazio più complesso di quello immediatamente coinvolto da un’inquadratura, per quanto di particolare angolazione. Si tratta in ultima istanza di creare spazio; o se si vuole, di giungere, attraverso la presa di campo, a una visione non statica, non univoca della realtà. Udire significa insomma anche vedere di più, e non è quindi errato affermare che un’azione si sente e un rumore si vede. Il perfezionamento tecnico del sonoro fonde i piani di comunicazione della realtà riuscendo a rendere l’immaginario
perfettamente simbolico. E dunque, paradossalmente, il sonoro segna il trionfo della visione. Ma il trionfo della visione richiede una fotografia sempre più curata. È davvero interessante osservare come col graduale scorrere del tempo il passaggio dal muto al sonoro abbia portato il cinema hollywoodiano da una fotografia fatta di grandi contrasti chiaroscurali (peraltro anche più evidenti nel cinema europeo dell’epoca: si pensi soprattutto all’espressionismo tedesco) a una fotografia di cosiddetto “tono alto” (high key), vale a dire fornita dell’intera gamma dei toni chiari, di alcuni toni medi e dalla quale i toni scuri sono completamente assenti. Non si tratta solo di maggiore raffinatezza e nemmeno di semplice perfezionamento della tecnica di ripresa dell’immagine. È ovvio che senza queste ultime tale tipo di fotografia non sarebbe stato possibile, ma ancora una volta la tecnica giunge quando si tratta di fornire un diverso statuto all’immagine del reale (o se si preferisce, dell’immaginario). Intanto, il forte contrasto chiaroscurale del muto non può non essere letto in linea con quello della luministica teatrale dell’epoca. E ancora una volta i rapporti fra teatro e cinema muto si rivelano sempre più stretti. Non si può negare che un qualunque film muto denoti un quoziente di realismo alquanto debole. Lo stesso Griffith, soprattutto quando si dà al melodramma, pur risultando regista di eccezionale intelligenza, è tuttavia non del tutto convincente sul piano di una direzione non retorica, non convenzionale degli attori. Probabilmente si tratta del fatto che Griffith, per sua stessa ammissione, proveniva da una cultura ancora ottocentesca e feuilletonistica, e non è un caso che su questo piano risulti molto più convincente di lui lo Stroheim di Rapacità (1924). Griffith del resto si ispira ai grandi melodrammi d’un tempo, mentre Stroheim riprende un romanzo naturalista americano di Frank Norris. E tuttavia anche quest’ultima pellicola non sfugge all’impressione di appartenere a un sistema altro rispetto quello della realtà (o meglio, del realismo). Naturalmente questo fa parte dell’idea stessa di cinema, ma qui non si sta alludendo allo spessore simbolico o metaforico di questa o quella inquadratura o scena, bensì al modo in cui l’azione si struttura, alla gestualità degli attori, alla loro mimica facciale e ad altre componenti ancora delle quali abbiamo già parlato, nonché ai toni stessi della
fotografia. Efficacissima nella forza abbagliante del suo biancore, la parte nel deserto di Rapacità è certo ben fatta e non poco audace nel suo scenario naturale che fa sembrare le riprese in studio alla stregua di giochetti messi in piedi per divertire i bambini. Ma confrontato, per citare un titolo qualsiasi, con Sahara (1943) di Zoltan Korda (una pellicola sicuramente trascurabile a paragone di quella di Stroheim) il primo film ha un che di eccessivo nell’impiego del diaframma. Ciò è probabilmente la sua fortuna, dal momento che in tal modo ne risultano immagini di estrema asprezza scenografica le quali si fondono benissimo con la situazione che la pellicola descrive; ma va altresì detto che Sahara vanta un deserto forse più oleografico (almeno con gli occhi di uno spettatore odierno) ma anche decisamente più ispirato e fantasioso nella direzione di un esotismo che, soprattutto per il pubblico americano, la Valle della Morte – al di là dall’ovvia incomparabilità estetica dei due film – non potrà mai avere. Il tono alto di fotografia è soprattutto tipico della commedia anni Trenta. Il decennio fu di certo il momento più orribile vissuto dagli Stati Uniti nella loro breve storia e la commedia assolse in quell’occasione una funzione di entertainment in cui la solarità della fotografia a tono alto giocava un ruolo essenziale nella confezione di quel genere. Non sono pensabili infatti opere come Nulla di serio (1937) di William Wellman o Susanna (1938) di Howard Hawks in una chiave luministica quale quella che aveva tenuto banco nel muto. La solarità di questa fotografia è l’espressione del delizioso divertimento che film come questi propongono, ma è anche – come diremo in altra parte – una sorta di componente ideologica di un periodo (gli anni Trenta) il quale, se è vero che necessitò di una forte dose di propaganda, è anche vero che riuscì a trovare altri e più sottili modi per infondere alla narrazione quella fiducia che quotidianamente Roosevelt predicava ai cittadini. Si vedrà, ad esempio, come il musical – genere intrattenitivo per eccellenza – fosse strettamente collegato con un’ideologia propagandistica che a prima vista sembra a esso del tutto estranea. Dunque, anche la fotografia a toni alti può essere letta in questo senso, e comunque è incontestabile che essa fornì una diversissima patina al cinema americano del periodo. Naturalmente non nacque subito: un film come Scarface (1932)
di Howard Hawks mantiene non pochi crismi del muto anche nel gioco di luci e ombre. Si tratta di un fenomeno che avverrà gradualmente, e del resto non c’è novità fra quelle accennate in queste pagine che non impiegò anni per svilupparsi e assestarsi. La fotografia a toni alti, tuttavia, trova un’ulteriore ragione di sviluppo: il nuovo tipo d’attrice che il cinema sonoro inaugura. Lillian Gish, Theda Bara o Mary Pickford, delicatezza, vampirismo o ingenuità, non rientrarono nel nuovo cinema, che ai loro tipi preferì inizialmente soprattutto la star bionda alla Jean Harlow, un carattere molto interessante di donna emancipata e femminilissima, quasi sfrontata ma insieme tenera, appassionata e aggressiva, d’aspetto decisamente gradevole e vistoso. La platinum blonde non poteva non avere una fotografia che ne sfumasse i cento dettagli di luce su toni molto chiari. Non a caso sono di questo periodo le suppellettili bianche o comunque dai toni chiarissimi, ed è allo stesso modo di questi anni l’introduzione un tempo aborritissima dei fondali bianchi che le pellicole ormai sofisticate permettevano di fotografare senza timore di riprodurre stridenti contrasti. Così, tutto un mondo luminoso emerge a sostituzione di quello non poco scuro del muto. Più interessante è la stretta coalescenza fra i vari aspetti della cinematografia, il rapporto diretto e costante fra temi, recitazione, fotografia, trucco e così via, a dimostrare che la loro trattazione separata è soltanto un’ipotesi di lavoro e che il cinema è una struttura molto complessa ma pur sempre unica, all’interno della quale ogni sua componente riflette e condiziona insieme ogni altra in un gioco di sviluppi e significazioni che molto spesso non appaiono chiari ma che pur sempre sussistono e fanno del cinema quel fenomeno straordinario che è. Il passaggio dal muto al sonoro, dunque, registra mutamenti radicali nella concezione di moltissime componenti del cinema stesso: si trattò di modi diversi di concepire non questa o quella componente, ma l’intero fenomeno cinematografico, con conseguenze fondamentali per il processo di significazione organizzato sullo schermo e dunque per gli eventuali valori estetici dell’opera in relazione – appunto – agli sviluppi tecnici del mezzo. Il sonoro – invenzione principe – aprì quindi la porta non solo al suono, ai rumori, alla voce, ma a un’enorme serie di conseguenze inevitabili sul piano della tecnica che portarono a
una visione potenziata sia strutturalmente che mimicamente. Da un lato la continuità, l’integrità della storia, dall’altro l’impressione di realtà. Il cinema, in certo senso, era nato una seconda volta. 1 Non siamo assolutamente d’accordo, quindi, con l’affermazione di Robert Sklar, secondo il quale «l’estetica visiva dei film di Hollywood, il modo in cui le inquadrature venivano girate e unite in un insieme organico, tutto ciò cambiò poco o nulla, nel passaggio dal muto al sonoro» (cfr. R. Sklar, Cinemamerica, Feltrinelli, Milano 1982, p. 182). Intanto, non basta limitare l’aspetto estetico del film all’inquadratura e al montaggio. In secondo luogo, non è nemmeno vero che in quell’ambito le cose rimasero le stesse: le inquadrature e il montaggio delle scene di fuoco, ad esempio, in Piccolo Cesare (1930) di Mervyn LeRoy non hanno tecnicamente precedenti in alcun film muto. 2 Cfr. Constance Rourke, American Humor (1931), Harcourt, Brace & Co., New York 1942, passim. 3 Cfr. Allen Guttmann, “Jewish Humor”, in The Comic Imagination in American Literature, a cura di Louis D. Rubin, Jr. Voice of America – Forum Series, Washington, 1974, p. 351. 4 Ziegfeld, peraltro, non fece che nobilitare una struttura che era già del vecchio burlesque: numeri comici inframmezzati da numeri di balletto, rinunciando ovviamente alle volgarità tipiche di quello spettacolo popolare a favore di una costruzione sofisticata ed elegantissima che già si intravedeva in quell’ideale forma di passaggio nota come vaudeville. Le tre brevi sequenze, esemplari dei tre tipi di show in questione, girate da Stanley Donen e Gene Kelly in Cantando sotto la pioggia valgono un intero trattato sull’argomento. 5 È verissimo quanto afferma Lewis Jacobs («L’effetto immediato dell’invenzione fu che il dialogo soppiantò la macchina da presa. Il film divenne una semplice, statica riproduzione di un lavoro teatrale»), ma è anche vero che già nel giro di due o tre anni il «notevole regresso» conseguenza della nuova tecnologia era stato recuperato non solo – come volevano i sovietici Ejzenstejn, Pudovkin e Aleksandrov – attraverso la combinazione di suono e montaggio, ma anche con i primi audaci movimenti di macchina arricchiti dall’apporto della nuova invenzione. Si veda, comunque L. Jacobs, L’avventurosa storia del cinema americano, vol. 2, Il Saggiatore, Milano, 1966, p. 217. Ma l’intero capitolo “Perfezionamenti tecnici” riveste particolare interesse (pp. 215-41).
Capitolo primo GLI ANNI TRENTA: BASSE PRESSIONI? «Infine, i poveri sono politicamente invisibili». Michael Harrington, La povertà negli Stati Uniti «Ma io vi domando: come possono avere una morale, se non hanno nient’altro?». Bertolt Brecht, Santa Giovanna dei Macelli
1. La Depressione c’è ma non si vede Esperimenti se n’erano fatti almeno dal 1910, ma ufficialmente è il 26 agosto 1926 che la Warner Brothers lanciò nei cinema commerciali il primo film sonoro, Don Juan, che si avvaleva di una musica su disco sincronizzata. Nell’ottobre dell’anno dopo Il cantante di jazz di Alan Crosland esibì una sonorizzazione parziale mentre Al Jolson stupiva il pubblico cantando dallo schermo. Il primo film sonoro completo d’America fu Lights of New York del 1929. E questa è ormai storia. Ma la storia aveva altre sorprese in serbo: la grande crisi e la Depressione, arrivate giusto in sincronizzazione col sonoro. Caso o intenzione, sembra proprio che la nuova tecnica fosse giunta per far dimenticare i guai. Anzi, è questa la tesi critica più corrente: gli anni Trenta furono un lungo periodo di “intrattenimento” inteso a far dimenticare i rigori economici della Depressione. La cosa ha una parte di verità, ma solo una parte. Il cinema degli anni Trenta fu in realtà anche molto di più; e in ogni caso, l’organizzazione dello spettacolo cinematografico a ridosso dell’avvento del sonoro merita di per sé una particolare attenzione. La grande crisi non ebbe immediate ripercussioni sul cinema americano. Come dice bene Jacobs, l’anno tragico di Hollywood non fu il 1929 bensì il 1933 (tranne che per la Mgm, la quale aumentò i profitti ogni anno imponendosi nei quindici anni seguenti come il maggior studio in assoluto). In quell’anno chiusero cinquemila sale delle sedicimila esistenti: incassi in diminuzione e crollo azionario ne furono i più immediati motivi. Gli stessi divi che erano riusciti a mantenere un’influenza sul pubblico non erano più di dieci1. Apprendiamo dunque che, da un lato, Hollywood non risente immediatamente della crisi, dall’altro che, quando ne risente, rischia la bancarotta. Se ne deduce facilmente che mentre dal 1929 al 1933 lo spettacolo aveva ancora tenuto banco, a partire da quella data al pubblico non basteranno più le usuali soddisfazioni in celluloide. Più particolarmente, si comprende che il côté intrattenitivo del cinema avrebbe di lì a qualche anno lasciato spazio ad altri aspetti e interessi. In effetti, i primi anni della Depressione sono dominati dal gangster film, dal musical e, in minor misura, dall’horror: tutti generi di notevole richiamo. Più in particolare, osserviamo come campione la produzione di un regista di buona abilità che, per molti versi, può essere preso a rappresentare il director del periodo: Frank Borzage. Prendiamo velocemente in considerazione la sua produzione a partire dal 1929, con specifico riguardo ai soggetti. - Lo zio Sam si diverte (1929). Un ex garagista trova il petrolio e realizza il sogno della moglie portando la famiglia a Parigi. - Il canto del mio cuore (1930). Un cantante irlandese durante una tournée aiuta una giovane coppia a trovare la felicità che egli ha perduto. - Liliom (1930). Versione della nota commedia di Molnar. - As Young As You Feel (1931). Un uomo d’affari si dà alla bella vita rendendo così più responsabili i suoi figli. - Fiamme di gelosia (1931). La moglie di un medico diviene gelosa del marito che per ragioni di lavoro non vede mai. Commedie o drammi, la coppia – grande tema di Borzage – è sempre al centro dell’attenzione, ma senza il minimo accenno alla terribile esperienza che da qualche tempo la nazione sta vivendo. Soltanto con Bad Girl (1931) il regista sembra dar segno di una qualche attenzione alla situazione sociale ed economica del Paese: dopo una scappatella, due giovani sono costretti al matrimonio e devono affrontare grandi difficoltà di denaro sinché l’uomo non accetta di diventare pugile per provvedere alla moglie cagionevole di salute che è in ospedale. Da quel momento Borzage tratterà il tema della difficoltà economica e sociale più volte in pellicole come After Tomorrow, Young America, Vicino alle stelle, E adesso, pover’uomo?, tutti girati fra il 1932 e il 1934; quindi passerà di nuovo a commedie e musical da
un lato e a romanzoni familiari, storici, bellici, senza alcun riferimento a traversie come quelle dell’America contemporanea, dall’altro sino ad arrivare alla produzione propagandistica bellica antinazista verso il 1940. La parabola di Borzage è indicativa dell’intera produzione hollywoodiana del tempo. In ritardo sui reali, concreti, drammatici problemi della nazione, essa vi arriva dopo due o tre anni per indugiarvi altrettanto tempo e infine passare di nuovo all’entertainment tematicamente sganciato da qualsiasi relazione alla crisi. Il che tuttavia non significa affatto che qualsiasi altro regista americano del periodo abbia vissuto la stessa esperienza di produzione. Certo non Sam Wood, né Mervyn LeRoy, né John Cromwell, né Lewis Milestone. Ma è pur sempre indicativo che un director la cui vicenda creativa non coincide con quella di Borzage, Henry King, con l’unica sua pellicola che allude direttamente ed espressamente alla Depressione, Ritornerà primavera (1935) abbia girato una commedia (nel 1935, infatti, come diremo tra poco, la cosa era possibile e del tutto logica). Allo stesso modo è indicativo che l’unico film diretto da William Wellman che faccia riferimento al crollo del mercato azionario, Wild Boys of the Road, sia del 1933, o ancora che l’unico film di King Vidor che prende a soggetto quel drammatico periodo, Nostro pane quotidiano, sia del 1934. Ma, perché fissare proprio al periodo attorno al 1934 lo spartiacque del “secondo momento”? Per la ragione che data all’inizio di quell’anno la Legge sulla Ricostruzione Nazionale di Roosevelt, all’interno della quale si inquadrava un tentativo di riassestamento del cinema da parte del governo. Abrogata nel 1936 la legge, la situazione era però ormai avviata in una direzione meno drammatica di qualche anno prima, tanto che nel 1937 Hollywood godette di un trionfale momento di gloria economica, ancorché non poco temperato dalla recessione dell’anno dopo, dovuta peraltro a motivi estranei a quella Depressione che ormai, per quanto ancora vicina, era divenuta uno spettro del passato. È vero: come dice Andrew Bergman, la storia del cinema americano non è legata al fatto che le pellicole siano rappresentative del punto di vista dei dirigenti della Mgm o della Fox. Ben più importante è il rapporto fra pubblico, società e regista2. Ma si tratta solo di sociologia? O meglio, si tratta solo di una così precisa, chiara, diretta sociologia che vuole l’eroe del tal genere e del tal film come espressione di un’idea che fa parte dello Zeitgeist? Certo, è vero che il gangster dei film in voga all’inizio degli anni Trenta (Bergman parla, per la precisione, di Piccolo Cesare) è un personaggio tragico perché era a quei tempi «impensabile una storia di successo entro i confini della legge» e che di conseguenza «l’unica credibile saga di successo era di quelle che finivano con la morte»3. Ma è solo questo ciò che di vero si può dire su quel tipo di cinema? La nascita di alcuni generi e il rinnovamento di alcuni altri a partire dal sonoro comportò complesse elaborazioni estetico-ideologiche che non possono essere, sia pure intelligentemente, liquidate con una rappresentatività così meccanica, con equazioni tanto giuste quanto parziali che instaurano equivalenze indubbie ma così immediate da perdere a volte ulteriori e meno intuibili risvolti.
2. Operazioni doganali: gli espatriati europei Ma prima va detto della cataratta di espatriati, tutti fedeli – nel decennio – alla regola del progenitore Stroheim secondo cui qualunque cosa succedesse doveva succedere nel vecchio continente. Valzer imperiali e infedeltà parigine, tutto avveniva in un altro teatro, quello che non molto tempo prima (1895) il presidente Grover Cleveland aveva tenuto a distanza invocando l’isolazionismo della famosa “dottrina Monroe”. Nell’atto finale dell’esodo europeo (che però continuerà sino allo scadere del decennio) non bisogna dimenticare un importante fattore: la maggioranza degli espatriati europei era formata da ebrei4. Chi allontanatosi prima dell’avvento del nazismo al potere, chi dopo di esso, è però un fatto che l’occhio col quale questi artisti guardavano alla madrepatria era fortemente – e comprensibilmente – condizionato dalle sue vicende politiche, soprattutto per quel che riguardava ciò che il nazismo stava attuando nei confronti dei loro fratelli. Questo può in parte spiegare perché nel periodo entre-deux-guerres l’immagine demoniaca che Hollywood forniva dell’Europa aveva trovato negli stessi espatriati europei sostanziale avallo. Vampiri transilvanici o satanici burattinai, scienziati pazzi o misteriosi assassini, si stava ripetendo vicariamente in un altro continente il fenomeno che Kracauer denuncia nel suo notissimo libro Il cinema espressionista tedesco. E questa volta senza nemmeno bisogno di tante profezie. Ecco allora che anche le visioni piacevoli, aggraziate, scintillanti della vecchia Europa quali, ad esempio, ritroviamo in parte (ma solo in parte) del cinema di Lubitsch (giunto negli Stati Uniti nel 1922) – da Mancia competente (1932) a La
vedova allegra (1934) – o hanno il sapore della nostalgia (ironica e smaliziata finché si vuole) oppure nascondono una realtà più criticabile di quel che sembra. Ma tutto questo avrà un riflesso anche su un altro asse della produzione hollywoodiana. Gli espatriati europei, infatti, dovunque misero mano variarono non poco i dati originari del sistema americano dei generi. Escludendo il western in pratica fino agli anni Cinquanta (ma un film come Rancho Notorius, 1952, di Fritz Lang segna una svolta radicale cui si ispireranno di lì a poco sia il Nicholas Ray di Johnny Guitar, 1954, sia il Sam Fuller di Quaranta pistole, 1957; e comunque, per esattezza filologica va ricordato che Lang diresse western anche negli anni Quaranta), gli espatriati agirono soprattutto sul melodramma e sulla commedia, cambiando le leggi dell’uno e praticamente inventando un ricco filone dell’altra. Il primo risentirà della loro presenza solo verso gli anni Quaranta, mentre la commedia sofisticata è una tipica creazione anni Trenta firmata dal viennese Lubitsch che si affianca alla screwball di Frank Capra e Howard Hawks. La commedia di Lubitsch è un tour de force stressante di entrate e uscite che quasi ricordano il vaudeville francese e la commedia viennese; quella di Hawks è invece fondata su continui colpi di scena incentrati sull’assurdità degli eventi che vengono accostati fra loro e su un dialogo a raffica del quale prima o poi si perde il tracciato. Con facile e imprecisa formula: la commedia di Lubitsch è naturale, quella di Hawks è paradossale. Lubitsch tende al massimo le corde della verosimiglianza (si pensi al punto limite di questa pratica, Vogliamo vivere!, 1942, che, si noti, è poi una pellicola fondata sul falso); Hawks quelle dell’improbabilità, non solo intesa come intrecciarsi di eventi ma anche – se non soprattutto – per quel che riguarda le reazioni, del tutto inverosimili, di questo o quel personaggio davanti a situazioni decisamente assurde. Del resto, il gusto del paradossale non poteva non marcare una cultura decisamente razionalistica e pragmatista come quella americana (e anche britannica: dopotutto i limericks trovano la loro origine nella componente celtica di quella cultura, come ci ha insegnato Carlo Izzo), mentre una società fondata su regole formali come quella europea non poteva non giocare con esse portandole, come si diceva, al loro estremo limite.
3. All’ovest niente di nuovo Del resto il terreno dei generi è di per sé molto complesso anche soltanto per quanto riguarda una sua definizione e una sua organizzazione. È però indicativo che quando si affronta la vexata quaestio dei generi nel cinema americano, regolarmente il discorso cade subito sul western. La ragione è semplice: il western – con buona pace degli ammiratori di Sergio Leone e con il conforto dell’opinione di Philip French – è un fenomeno unicamente americano e soltanto americano. Il problema ha due facce: quella strutturale e quella ideologica. Se si osservano le opere in relazione alla loro struttura narrativa – vale a dire in relazione alla concatenazione di funzioni che esse presentano – ben poco separa un western da un qualunque altro genere cinematografico, così come ben poco lo separa dal modello strutturale che in sostanza è sotteso a qualsiasi forma di narrazione nella cultura occidentale (e anche altrove). Se invece il problema viene affrontato in termini di ideologia il discorso cambia. O almeno, cambia abbastanza da permettere una differenziazione del cinema americano in generi e una loro storicizzazione nell’arco della vicenda hollywoodiana. È cosa nota che l’Ovest si fonda storicamente in senso ideologico su presupposti di carattere espansionistico e colonialistico. Si tratta, del resto, dei presupposti stessi che presiedono alla nascita dell’America come colonia europea prima ancora che come nazione. Gli Stati Uniti hanno cioè trovato nell’Ovest la figura ideologica del loro “destino storico”, una progressione orizzontale che è la cifra di una concreta marcia ideale della nazione. Non a caso, dopo la California, estremo limite geografico continentale di questa avanzata, sarà la volta dell’oriente, prima con la sostanziale acquisizione delle isole del Pacifico, poi con l’abile preparazione dell’azione militare nelle Filippine, in Giappone, ecc. Il western è l’unico genere cinematografico che rispecchi tale modello fornito dalla storia: non certo in termini storici, ma in termini ideologici, cioè come concreta figuralizzazione di una linea politica immediatamente tradotta in mito proprio per salvaguardarla dalla possibilità di una critica. Che il mito sia a fondamento del western è ulteriormente provato proprio dal genere negli anni Trenta: da Gene Autry a Hopalong Cassidy, i suoi eroi hanno di realmente western soltanto il cavallo. Costumi, armi, scenografia, storie: tutto è completamente alieno non soltanto dal vero spirito dell’Ovest americano, ma anche da una conduzione della storia che ruoti su un ampio respiro storico e ambientale. Rapimenti o ruberie, l’eroe arriva regolarmente a cavallo, combatte con pugni e pallottole e salva la situazione in un quadro ambientale molto statico e con ben poche concessioni a quella stessa ideologia che aveva a suo tempo mosso il vero pionierismo americano. Ideologia ve n’è, naturalmente, ma solo quella manicheistica che vuole l’eroe fulgido e generoso e i cattivi perfidi. O anche quella che veicola l’immagine dell’indiano (quando compare) come infida e crudele. Gli anni Trenta non sono davvero un momento felice per il western cinematografico, e per più ragioni.
Prima di tutto, il sonoro. Come sarebbe stato possibile applicare la nuova invenzione negli spazi aperti della prateria? In che modo il microfono avrebbe potuto registrare anche soltanto un dialogo di due uomini a cavallo? In un primo momento si concentrarono le scene di dialogo da un lato e quelle d’azione (sostanzialmente mute) dall’altro. Ma problemi come questi vennero presto risolti, e la decade darà western di successo come L’uomo della Virginia (1929) di Victor Fleming, Billy the Kid (1930) di King Vidor, Il grande sentiero (1930) di Raoul Walsh e il primo Cimarron (1931) di Wesley Ruggles, intitolato da noi I pionieri del West. Meno fortunato L’ebbrezza dell’oro (1936), pensato per la regia di Ejzenštejn e poi passato in mano a James Cruze, con pessimo successo di pubblico. Il western del periodo fu comunque caratterizzato da una produzione su piccola scala. Piuttosto, Hollywood preferì operette d’ambiente o pellicole di serie B nelle realizzazioni dei singoli generi cinematografici. Che si trattasse della coppia MacDonald-Eddie, di Gene Autry o di Roy Rogers, erano in ogni caso western musicali fatti in serie (e di questi anni è proprio lo sviluppo della serialità cinematografica, non solo nel western). Come ricordano giustamente Fenin e Everson, il decennio segnò anche uno dei pochi veri cambiamenti nel genere: un diverso, più aggressivo, più atletico, più sicuro e persino più sexy personaggio femminile5, del resto in linea con una tendenza “femminista” che esploderà nel “women’s film” degli anni Quaranta6. Ma queste sono solo notizie. Al solito, interessa di più una riflessione sulla situazione. Il punto è che gli anni Trenta non furono certo un periodo favorevole all’ulteriore sviluppo del mito frontieristico che aveva alimentato la cultura americana da sempre. La nazione, fiaccata dalla crisi, non riuscì a ritrovare quell’unità che il senso dell’epica le aveva fornito già ai tempi del muto con opere come Il cavallo d’acciaio (1924) di John Ford e I pionieri (1923) di James Cruze, prima del 1929. Certo i film più sopra citati partecipano di quello spirito, ma essi sono forse più ascrivibili all’impulso che aveva alimentato la produzione precedente la grande crisi: non a caso uscirono tutti attorno al 1930. Solo alla fine del decennio, nel 1939, il western riprenderà quel respiro epico che gli era mancato in anni precedenti: in un momento, cioè, in cui la Depressione era ormai finita e nuovi pericoli chiamavano a raccolta la nazione determinata a unirsi contro una minaccia esterna che proprio per questo era sentita come più affrontabile, il nazismo.
4. John Ford e il New Deal in ritardo È interessante notare come John Ford, l’autore western per eccellenza, non giri praticamente western durante il New Deal. I film fordiani di questo periodo si presentano in gran parte collegati all’ideologia rooseveltiana sul terreno della coscienza pratica del momento, della propaganda spirituale secondo un impegno che va direttamente allo scopo seguendo una linea più di carattere morale che riassuntivamente ideologica. Ford, insomma, sia pure lungo vie tutte sue, è in questo momento nella linea di una funzionalità direttamente utilizzabile del messaggio riposto fra le pieghe dei suoi film. Il western di Ford, estremamente legato al New Deal, lo è però in altro modo, più sottile e più largo al tempo stesso, come vedremo. Tralasciando opere come Pellegrinaggio (1933), Il traditore (1935), Maria di Scozia (1936), L’aratro e le stelle (1936), Il giuramento dei quattro (1938), alcuni legati all’origine irlandese del regista, altri – del resto in linea con un’etica distintiva del carattere irlandese – alla celebrazione dell’amore familiare, tema fordiano di sempre, tutti gli altri film dal 1933 al 1938 (il periodo del New Deal storico) si propongono in qualche modo connessi a istanze di carattere nazionale tipiche del periodo. Doctor Bull (1933) è la celebrazione del singolo che si sacrifica per la salvezza e il benessere della comunità (un tema già presente nel precedente Un popolo muore, 1931, e a cui Ford ritornerà, in modo anche più complesso, in Il prigioniero dell’isola degli squali, 1936); La pattuglia sperduta (1934) è la celebrazione della volontà e della capacità di sopravvivenza dell’individuo, condita fra l’altro di uno sfondo esotico di non casuale sapore coloniale; Il mondo va avanti (1934) è una celebrazione della medesima volontà di sopravvivenza ma non più in senso, per così dire, esterno, bensì nella forma sostanziale del Capitale (cosa di più esemplare della dinastia finanziaria della Louisiana che supera avversità di vario tipo per riaffermarsi persino dopo un collasso economico, quello della prima guerra mondiale?); Il giudice (1934) è una lancia spezzata in favore della concordia nazionale dopo quel grande trauma dello spirito americano che fu la guerra civile; Tutta la città ne parla (1935), il film di Ford più vicino alla dimensione morale di Frank Capra – sia pure in modi, come al solito, alquanto personali – è un vero peana ai valori “nascosti” dell’uomo comune e può persino essere letto in chiave di schizofrenia nazionale; Steamboat Round the Bend (1935) abilmente utilizza (come del resto Ford aveva fatto in precedenza e farà in seguito) in senso positivo valori in se stessi negativi – l’alcool – per il trionfo del bene e della giustizia (una vera e propria dichiarazione metaforica della dialettica pratica e pragmatista del New Deal); di Il prigioniero dell’isola degli squali (1936) si è già detto; Alle frontiere dell’india (1937), ripreso da un racconto di Kipling, parla
da sé per quel che riguarda la sensibilizzazione internazionalistica a carattere colonialistico dell’America di quegli anni (e forse nella bambina – un ruolo perfetto per Shirley Temple – che con invidiabile abilità mette a posto parecchie cose in un’India rozza e plasmabile da civili mani occidentali, è da vedere un personaggio con ampi risvolti simbolici); Uragano (1937) scava ancor più nella tematica esotica esaltando valori naturali ed essenziali minacciati, si badi bene, da un’aridità spirituale veicolata da europei; Submarine Patrol (1938) è anche più simbolico: nella nave rimessa a posto dalla volontà ferrea di un capitano è da leggersi senza dubbio una metafora dell’America contemporanea (che Ford rifarà più vuotamente, anche se in modo deliziosamente divertente, con La nave matta di Mr. Roberts, 1955). Poi, con la fine del New Deal storico, ecco presentarsi il grande Ford rooseveltiano in senso più profondo: quello di Alba di gloria (1939), di Furore (1940) e in parte di La via del tabacco (1940), quando cioè il New Deal è pressoché finito come momento di riforme e di reazione nazionale alla grande crisi. Anche solo dai pochi cenni di cui sopra si nota il forte propagandismo, più o meno simbolico, dell’opera fordiana in pieno New Deal. Fiducia, forza, concordia nazionale, sacrificio, ottimismo e una punta di nazionalismo sono in sostanza i temi fordiani dal 1933 al 1938. E, come si diceva, non è probabilmente un caso che vi compaia più di una volta la dimensione coloniale che ci permette di collegare questo cinema col discorso di economia espansionistica dell’amministrazione Roosevelt. Ford, insomma, durante il New Deal, non ne tratta direttamente i grandi temi. La crisi come oggetto d’arte non sembra interessarlo. Forse si tratta del tipico eufemismo di marca fordiana, così come è sempre stata tipica del cinema di Ford l’insistenza sui valori al di là dal preciso contesto storico-sociale riflesso nella sua immediatezza (salve le dovute eccezioni, in Ford c’è ben poco “rispecchiamento”). È in questo senso sintomatico che Furore – il quale contraddice questo assunto – sia stato girato dopo il New Deal (e lo stesso discorso vale in diversa misura per La via del tabacco e per Alba di gloria, leggibile in chiave celebrativa filorooseveltiana). Quel che in Ford rimane del New Deal, dopo la sua fine storica, è una concezione dell’America in termini di grandezza e di possibilità, la volontà mitologica di disegnarne i destini in chiave di missione storica, di grandezza epica cui l’americano è chiamato nel nuovo continente (là dove si vede bene che il New Deal non è un periodo storico isolato, ma porta avanti sostanzialmente una tradizione ottimistica in senso globalmente storico che coinvolge gli Stati Uniti nell’intero complesso delle vicende, dei “destini”che li riguardano). In senso tecnico, ad esempio, si pensi all’uso della panoramica nei grandi western dal 1939 in poi: l’occhio della macchina da presa, come quello del pioniere, scopre davanti a sé una terra vergine e bellissima una vera lode al dio puritano che presiede alla socializzazione della Comunità dei Santi di secentesca memoria. Si pensi all’amplissimo respiro, alla dimensione di sterminata grandezza e fascino, all’ideale promessa che essa regolarmente fa allo spettatore. Si pensi all’uso del carrello orizzontale (certi inseguimenti indiani) teso a rendere il senso di uno spazio senza inizio né fine, tutto da percorrere, da conquistare. E del resto il tema della conquista, della colonizzazione, dello sfruttamento è uno dei grandi protagonisti del cinema fordiano, spesso in termini di contrasto fra ordine e legge da un lato e valori “selvaggi” dall’altro (con buona pace della critica francese, forse il capolavoro di Ford in questo senso è L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962). L’epica western di Ford è la diretta erede del New Deal sia per quel che riguarda l’ottimismo di fondo che la pervade, sia per quel che riguarda l’ideale espansionistico che la qualifica. Ford comincia a mostrare la profonda influenza ideale del New Deal al di là delle singole istanze già rintracciabili nei suoi film dal 1933 al 1938, quando il New Deal è ormai storicamente scomparso, quando cioè non vi è più terreno per l’atteggiamento propagandistico, e quando egli coglie la possibilità, se non la necessità, di imbastire un lavoro autonomo: e non a caso il suo cinema diventa allora il vero cinema del New Deal. Ford si fa sostenitore dell’espansionismo coloniale non solo nella sua visione della natura, ma anche, lo sappiamo bene, in rapporto all’annoso problema indiano. I pellerossa di Ford non sono poi tanto diversi dagli indiani di Alle frontiere dell’India: una razza barbara, incolta che è destino e dovere del bianco civilizzare o comunque piegare. La vigorosa vena newdealiana di Ford, dunque, non è soltanto quella – immediatamente leggibile – di Furore, ma anche quella legata allo spazio sconfinato di Ombre rosse (1939), all’epica pre-western – ma non meno frontieristica – di La più grande avventura (1939). E non per nulla essa continuerà in buona parte del suo cinema futuro, anche se a volte temperata da un côté di carattere comico-senile (ad esempio, in Il grande sentiero, 1964). In Ford dunque l’ideologia investe sia il livello tematico che il livello tecnico del film. Nel primo tutto ciò che ruota intorno alla storia si rifà più o meno direttamente alle istanze rooseveltiane, nel secondo l’immagine stessa diventa espressione di ideologia.
5. Angeli e diavoli: il melodramma
La Depressione è dunque all’origine della crisi del western, o quantomeno del suo accantonamento in un autore specialista come Ford. La fioritura dei western musicali e seriali negli anni Trenta è la diretta conseguenza di una crisi dell’ideologia della frontiera alla quale corrisponde il guscio vuoto, la forma esteriore, insignificante e falsa, tanto da diventare ripetizione di se stessa o annacquamento con altri ed estranei generi (ad esempio il musical, genere principe, si noti, nei primi anni Trenta). Osserviamo un gangster film o un melodramma: balza evidente la loro estraneità all’ideologia del western. Il primo si fonda su un terreno morale più assoluto: la classica lotta fra bene e male. Naturalmente l’opposizione manichea si aggancia ad altre componenti, appunto di natura ideologica: si pensi al moralismo di Angeli con la faccia sporca (1938) di Michael Curtiz, non tanto per la scontata lezioncina etica che fornisce, quanto piuttosto per l’importanza che il film assume come esempio della casistica dualistica delle istanze individualistiche tanto care alla morale sociale americana: il bene e il male sono questioni d’indole, si può crescere nello stesso misero quartiere e diventare sacerdoti o banditi perché tanto è il carattere individuale che conta (sia pure assecondato da una capatina al riformatorio). Determinismo naturalistico, questo, che potrà anche trovare confutazione negli innumerevoli film di genere attenti ad attribuire al milieu un ruolo determinante nelle scelte etiche individuali, come nel famoso Nemico pubblico (1931) di William Wellman. Il punto comunque non è questo: come vedremo meglio più avanti, carattere o circostanze, la vera componente ideologica di questi film si fonda su una visione della società come determinata, segnata dalle scelte o – comunque dalle componenti – individuali: buoni o cattivi, questi eroi hanno sempre una grandezza che se non è quella dell’angelo del bene è sicuramente quella del Satana miltoniano. Ecco quindi che l’ideologia crea un falso modello per nascondere quello vero. Per così dire: l’individualismo e il suo doppio, perché la realtà borghese è sempre quella che appare ed è insieme il suo contrario. Il discorso potrebbe proseguire, ma qui ci interessa sapere in che misura il concetto di genere ne venga implicato. Quanto detto sinora può essere rintracciato anche nel western, dicevamo, ma sempre unitamente all’altra componente ideologica frontieristica che il gangster film ignora completamente. È vero che in questo si tratta pur sempre di un modello fondato sulla conquista, ma intesa non in senso storico, collettivo, nazionale, bensì – appunto – individuale. In altre parole, si tratta del riflesso specifico, operato in termini personali, di un discorso che generalizza il supposto senso della storia americana7. Anche nel melodramma l’aspetto manicheistico è spesso rintracciabile, ma in termini ancora diversi. Che si tratti di Via col vento (1939) di Victor Fleming, di Al di là delle tenebre (1935) di John Stahl, di Grand Hotel (1932) di Edmund Goulding, di Disonorata (1931) di Josef von Sternberg, non è strettamente necessario che il bene e il male si fronteggino in modo inequivocabile, anche se questo può spesso avvenire, da La calunnia (1936) di William Wyler a L’uomo che amo (1937) di Frank Borzage. Ciò che conta è il rapporto problematico che deve istitursi fra esperienza e scelta morale. In altre parole, quel che da un punto di vista etico in un gangster film è dato per scontato, riferimento assoluto cui conformare il giudizio in relazione alla trasgressione del protagonista, nel melodramma può invece porsi come iniziazione (fallita o riuscita) alla coscienza dei valori etici. È però interessante notare che questi ultimi nel melodramma non sono necessariamente valori esplicitamente proposti dal gruppo. Vale a dire, non sempre il protagonista negativo si trova a combattere la sua battaglia – perduta in partenza – contro un’intera società (la sensazione che avvenga qualcosa del genere è rintracciabile in pochi film statunitensi: in alcuni di Capra, ad esempio, dove peraltro il personaggio moralmente negativo non è mai protagonista, e che comunque sono difficilmente definibili come melodrammi, i quali mostrano spesso come i valori siano dialetticamente impliciti nell’errore del suo comportamento: in questo caso, tutt’al più, egli si troverà a un certo punto di fronte un altro personaggio che ne è il portatore rappresentativo). Al contrario, se l’eroe è a sua volta emblematico di valori eticamente positivi (anche al di là di eventuali apparenze), allora è il gruppo sociale e non il singolo a essere direttamente chiamato in causa come deuteragonista. Per fare un esempio, nel primo caso si pensi a una pellicola come La città dei ragazzi (1938) di Norman Taurog, nel secondo al già citato La calunnia di Wyler. Dall’articolatissimo discorso impostato dal melodramma americano (il quale, non dimentichiamolo, presenta anche altri modelli fondati su aspetti sociali più oggettivi e, in ultima analisi, in apparenza meno compromessi sul versante del didascalismo etico: ad esempio i già citati La folla di Vidor o E adesso, pover’uomo? di Borzage) sortisce ugualmente un messaggio ideologico altrettanto articolato: specificamente, l’immagine di una società che – a scapito delle sue emulsioni perbenistiche – impone la coerenza con se stessi nel momento preciso in cui propone un modello morale cui conformarsi. Più precisamente, la legge morale può essere sancita dall’esterno (riferimento che è nell’opera soltanto in relazione ai valori incarnati dal protagonista); oppure dall’interno, nel qual caso è il protagonista a combattere una serie di statuti morali incarnati da un altro personaggio che ne è portatore. Si noti come in pratica essa non compare mai in modo diretto e globale, ma trovi regolarmente un vicario che la
rappresenta. Si noti, insomma, come essa preferisca comparire nei suoi errori (che peraltro in sostanza essa rifiuta come suoi, trovando nell’eroe positivo il vero rappresentante) piuttosto che nelle sue reali istanze morali. Non è un caso che prima o poi dovesse affacciarsi nel cinema americano – e con sempre più ossessionante frequenza – il tema giuridico: una componente che usualmente siamo abituati a collegare a un tipo di film parapoliziesco, ma che in realtà è la figura di maggior presenza di una collettività intesa come “popolo” («Il popolo degli Stati Uniti contro…») e valori assoluti a esso annessi e connessi. Così non è nemmeno un caso che raramente il cinema americano abbia messo in forse (e comunque parenteticamente, occasionalmente, estemporaneamente) la serenità e la buona fede di una giuria. Ci vorrà il britannico Alfred Hitchcock con Il ladro (1957) per osare tanto, e comunque non è casuale che quando un regista americano – sia pure immigrato – come Preminger fa altrettanto nel suo Corte marziale (1955) la giuria sia in realtà inesistente poiché viene a coincidere con la stessa corte, come usa nei processi militari, i quali, si sa, sono una cosa a parte, come i problemi e i casi che affrontano (ma non manca un’audace eccezione: La parola ai giurati, 1957, di Sidney Lumet, dove il dodicesimo giurato si fa portavoce dei valori che dovrebbero essere dell’intero gruppo e che del resto riesce alla fine a convincere gli altri: si noti, inoltre, in questo film la perfetta allegoria cristologico-testamentaria, anch’essa non casuale riferimento, in fondo, ai valori “popolari” americani). Il genere melodrammatico, dunque, imposta di solito non solo un rapporto sentimentale difficile, ma soprattutto uno scontro morale. La qual cosa è comune a gangster film e western. Ma, a differenza del primo, il melodramma non si fonda necessariamente su una ricerca di potere, e comunque esso interpreta direttamente l’esperienza di un ambiente non emarginato e spesso rappresentativo del tessuto sociale nazionale. La sua dominante etica può anche essere manicheistica, ma il suo rapporto col denaro e col costume non vive del senso traslato che permea il gangster film, normalmente apologo della volontà di successo economico perseguito lungo la strada dell’illegalità (e nei migliori registi metafora dell’etica del Capitale), ma inscena direttamente il dramma dell’ambizione individualistica del cittadino medio, o anche il risvolto patetico che viene predicato come una componente ineliminabile del denaro e del successo. Naturalmente non si tratta sempre di una ricerca di successo economico: dal citato Al di là delle tenebre di Stahl a Gli occhi del mondo (1930) di Henry King, da La donna incatenata (1931) di John Cromwell a Amore sublime (1937) di King Vidor, la problematica è diversa, incentrata su questioni psicologiche e di costume relative al rispetto e alla trasgressione di leggi umane non codificate ma pur sempre fondamentali nell’affresco sovrastrutturale che delineano. È anzi quest’ultimo tipo di modello che chiarifica bene ciò che caratterizza il melodramma rispetto ad altri generi. È vero che, poniamo, il tema dello scontro generazionale, del mutamento di costume e mentalità, ecc. sono rintracciabili anche in altri generi cinematografici, ma soltanto come parte di un disegno più vasto e ideologicamente diretto verso altre mete. Inoltre non dimentichiamo che sia il western sia il gangster film si fondano sull’eccezionalità del personaggio (il grande bandito, il grande riparatore di torti, ecc.) dotato di un carisma che ne fa comunque un eroe mitologico di carattere classico (indipendentemente dal segno algebrico che lo precede), mentre il melodramma vive di solito proprio della qualità “comune” dei propri protagonisti, o quantomeno si affida a una più stretta verosimiglianza di caratteri e accadimenti. In una parola, i primi sono leggenda, il secondo è “realtà”, o al massimo marca il passaggio dalla realtà al mito (di qui i forti valori melodrammatici di un film che è tuttavia innegabilmente un western come L’uomo che uccise Liberty Valance di Ford). Il discorso vale anche per la commedia che dopotutto altro non è se non il ribaltamento del modello melodrammatico, o se si preferisce, il risultato dell’interferenza reciproca di due strutture apparentemente incompatibili. Non c’è dubbio che una delle migliori commedie dell’intero cinema americano, il già citato Susanna di Hawks, narri in fondo una storia estremamente drammatica e che il povero prof. Huxley sia a suo modo una versione comica del tragico Giobbe biblico. Versione comica: che significa? Che noi ridiamo di eventi potenzialmente tragici. Che la connessione che nel film si stabilisce tra fato ed esperienza umana non perde nulla della sua ineluttabilità ma acquista un carattere che elimina ogni possibilità di esprimere dolore e sofferenza in relazione ai fatti che stiamo osservando. Un vecchio pregiudizio psicologistico afferma che il pubblico ride della sventura di un protagonista comico per il semplice fatto che è felice di non identificarsi con lui. Un’idea alquanto sciocca. Per quale ragione infatti il pubblico dovrebbe allora appassionarsi fino alle lacrime delle sventure di un personaggio melodrammatico? Che cosa differenzia questi da quello della commedia in modo tale da fare scattare un meccanismo di identificazione? Il riso ha altri motivi e deriva, al contrario, dal tacito accordo sulla convenzionalità del comico. In parole povere si può anche vivere un melodramma ma è ben difficile vivere secondo i meccanismi umani e sociali che presiedono a una commedia. Senza contare che un’infinità di distinzioni andrebbero fatte sui vari tipi di commedia del cinema hollywoodiano: dopotutto c’è un abisso fra Luci della città (1931) di Charlie Chaplin, High Pressure (1932) di Mervyn LeRoy, Ventesimo secolo (1934) di Howard Hawks e Una notte all’opera (1935) di Sam Wood. In ogni caso lo sviluppo e il mutamento dei generi è strettamente legato alla vicenda storica, politica ed economica degli Stati Uniti da un lato e dell’industria
hollywoodiana dall’altro. Prodotto seriale sin dai tempi del muto, i generi dall’avvento del sonoro in poi – oltre alla vera e propria nascita di alcuni ex novo – hanno subito cambiamenti a volte profondi e sempre interessanti. Il melodramma, ad esempio, si era strutturato, nel periodo muto, secondo modelli tematici molto più rozzi e semplici che nel sonoro. Tutto è naturalmente connesso alle strutture comunicative non poco retoriche di cui si è parlato in apertura a proposito del cinema presonoro, ma, non dimentichiamolo, si tratta anche di un’evoluzione del gusto che è collegata con l’evoluzione del costume. Sia chiaro, i modelli del melodramma rimangono comunque di carattere ottocentesco, ma l’articolazione delle opposizioni strutturali diviene, dagli anni Trenta in avanti, molto più complessa e persino sofisticata (il che non significa necessariamente che il melodramma sonoro sia migliore di quello muto). Griffith a parte, si prenda ad esempio la versione muta di Amore sublime (Stella Dallas, 1925) di Henry King e quella sonora di dodici anni dopo a firma di King Vidor: soggetto e sceneggiatura sono così spudoratamente lacrimosi da far sì che la più forte carica retorica della recitazione nella pellicola muta, grazie anche all’abilissima regia di King nell’alternanza delle inquadrature8 abbiano un impatto molto più efficace della tesa e a suo modo violenta recitazione della Stanwyck (tanto tesa e violenta da farla apparire a qualche critico addirittura miscast9) sotto la pur magistrale direzione di Vidor. D’altra parte, è innegabile che i mediocri melodrammi muti, che so?, di Van Dyke Brooke non possano certo rivaleggiare con la sofisticatezza sia psicologica che strutturale di La figlia del vento (1938) di William Wyler o con la morbidezza sia visuale che fantastica di Sogno di prigioniero (1935) di Henry Hathaway. Il gusto ottocentesco del melodramma a partire dall’avvento del sonoro (e del colore) si amplia verso sponde figurative di ricchissimo spessore metaforico e verso nuove dimensioni d’attenzione alle varie gradazioni del sentimento e – quel che più conta – ai modi di comunicarlo con mimica e parole, nonché con scenari e colori opportunamente allusivi. Ancora una volta è la tecnica ad aprire sempre nuove strade alla significazione. Da un lato la macchina da presa e la sua capacità di composizione e angolazione, dall’altro sempre più originali perfezionamenti, dall’invenzione – verso la fine degli anni Venti – delle lenti anamorfiche10 ad opera del francese Henri Chrétien (che però avrebbero ricevuto attenzione solo con la crisi del cinema americano degli anni Cinquanta) al continuo miglioramento del colore, che già dal 1906 aveva conosciuto tentativi di ricerca e sperimentazione, sinché attorno al 1927 si era riusciti a ottenere un procedimento commerciale che migliorò sino a diventare il famoso Technicolor nel 1932, inaugurato poi con un lungometraggio, Becky Sharp di Rouben Mamoulian, nel 193511.
6. Miseria e nobiltà: il musical e il gangster film Naturalmente il fenomeno più vistoso è quello dei nuovi generi che caratterizzano gli anni Trenta e, come si è ripetutamente detto da più parti, il rapporto che essi intrecciano con cronaca e storia. Che il gangster film scorra in parallelo con l’America della Depressione è cosa facilmente intuibile, così come è spesso stato sottolineato che il musical trova negli stessi anni una sua importante funzione di entertainment. Molto presto riprenderemo anche questo discorso. Tuttavia, tale facilmente intuibile rapporto non deve mettere in ombra l’aspetto, per così dire, verticale, sincronico, del mutamento. Si tratta cioè di cambiamenti che hanno poco a che vedere con la storia e che vengono invece operati ricostruendo il testo in termini estranei a connotazioni motivazionali legate alla contemporaneità. Hawks è in questo senso forse il maggior regista americano, colui che ha lasciato un segno anticipatore in ogni genere da lui affrontato: si pensi, ad esempio, a quanto il suo Scarface contribuirà a fondare quella componente psicanalitica del genere gangster che avrà i suoi fasti in opere di molto posteriori come Faccia d’angelo (1957) di Don Siegel e La legge del mitra (1957) di Roger Corman, per arrivare ad anni ancor più recenti con Il massacro del giorno di San Valentino (1966) ancora di Roger Corman, Gangster Story (1967) di Arthur Penn, Il clan dei Barker (1969) dell’infaticabile Corman, Grissom Gang (1971) di Robert Aldrich, per far solo qualche titolo. I punti di riferimento storici degli anni Trenta per quel che riguarda il loro rapporto con i generi sono appunto la Depressione, la campagna di Roosevelt, il New Deal, così come nei Quaranta saranno soprattutto la seconda guerra mondiale e l’espansionismo americano del dopoguerra. In questa chiave sarà possibile leggere l’ideologia western come una consacrazione delle aspirazioni imperialistiche americane, sì, ma anche come celebrazione di una filosofia nazionale (se non addirittura nazionalistica) che trova i suoi motivi di fondo nell’isolazionismo entre-deux-guerres che Roosevelt si affrettò a promettere al grande elettore W.R. Hearst per poi non mantenere l’impegno, una volta che fu eletto presidente. Sarà possibile leggere il musical non solo come superficiale segno di una fuga fantastica, ma anche come traduzione in termini decisamente spettacolari dei vari protagonisti ideali susseguitisi alla ribalta della vita nazionale: l’incremento – paradossale, dato il periodo – della finanza e dell’industria hollywoodiane nei fastosi musical tipo Il paradiso delle fanciulle (1936) di Robert Z. Leonard o nel folle
barocchismo scenografico della Venezia kitsch di Cappello a cilindro di Mark Sandrich, ma anche la presenza dello spettro della crisi nell’allestimento stesso dei vari spettacoli, come ad esempio il famoso Quarantaduesima strada (1933) di Lloyd Bacon o nel non meno celebre numero “Remember My Forgotten Man” in La danza delle luci (1933) di Mervyn LeRoy, splendida denuncia, in chiave musical, naturalmente, del problema dei reduci che proprio poco tempo prima aveva trattato il giovane Faulkner di La paga del soldato, sia pure nei termini regionalistici che gli erano propri. Dunque il cinema non può essere comunque inteso come semplice (e complesso) spettacolo in un’era di grandi tragedie sociali. Quale che sia il parere, esso rimane un medium di formidabile incidenza, e non a caso proprio il periodo rooseveltiano ne vedrà l’impiego sempre più intenso da parte del governo per una forte azione di diretta propaganda. Dai documentari di Pare Lorenz all’utilizzazione dei cartoon di Disney ai reports del famoso newsreel “The March of Time”, il cinema americano della Depressione non nascose le sue enormi possibilità propagandistiche. Ma altra e in fondo non meno diretta propaganda poteva essere fatta attraverso il lungometraggio narrativo, come dimostrano bene non tanto le pellicole di Capra (un autore certo molto rooseveltiano ma non poco in ritardo: comunque, non prima del 1936), ma addirittura i musical Warner del periodo aureo, specificamente i già citati film di Bacon e di LeRoy insieme a Viva le donne! (1933) ancora di Lloyd Bacon: altro argomento su cui torneremo presto. Meraviglia, dunque, che un vero e proprio “corpus” di film narrativi sulla Depressione non figuri nella produzione hollywoodiana di quegli anni. Troppo disfatta dall’inizio della crisi e troppo ottimisticamente proiettata verso il futuro dopo la Legge di Ricostruzione Nazionale, la società americana conosce i problemi della Depressione nella vita quotidiana ma non sul grande schermo. Ma questo, notiamolo, non avviene semplicemente perché il cinema del periodo intendeva intrattenere il pubblico assolvendo a una funzione escapistica, bensì perché il ritmo della storia non consentì a Hollywood di elaborare un organico sistema narrativo incentrato su quella tragedia, costringendo sceneggiatori e registi a imbastire racconti fondati su modelli diversi da quello della drammatica realtà vissuta giorno per giorno dall’America di quegli anni, ma anche strutturati in modo da potervi leggere metafore abbastanza precise di una condizione dello spirito nazionale. Dopotutto, non è alquanto bizzarro che la biografia filmata di Roosevelt – del resto a ridosso di un lavoro teatrale omonimo – Sunrise at Campobello di Dore Schary – risalga al 1960? Non si tratta, a dire il vero, soltanto di una questione di tempi storico-psicologici. A ben vedere, l’intera storia del cinema hollywoodiano è fatta di questi rinvii. Non esiste evento storico disastroso o vergognoso la cui trattazione cinematografica non sia stata rimandata a tempi a volte di gran lunga posteriori: la guerra in Vietnam ne è un ottimo esempio. Evento di colossale portata per quel che riguarda i valori e lo spirito nazionali, essa trovò a suo tempo ben poca attenzione da parte di una industria che aveva invece fatto dello sfruttamento del quotidiano – non importa quanto penoso – una sorta di catena di montaggio, e comunque un campo da dissodare palmo a palmo. Pronta a buttarsi anche sulle vergogne individuali e di parte (si veda nel 1976 il film che Alan J. Pakula trasse dall’affare Watergate, Tutti gli uomini del Presidente), quando si tratta di cose che coinvolgono l’America come nazione, Hollywood sembra meno attenta e sensibile. Lo stesso dramma dell’assassinio Kennedy ebbe, sì, una qualche considerazione da parte del cinema, ma solo a distanza di una decina d’anni dall’accaduto. In ogni caso, un tentativo di descrizione del rooseveltismo nel cinema americano degli anni Trenta non può non divenire un’investigazione vera e propria invece di quel che si poteva presumere un semplice rilevamento. a) Gangster film Una classificazione generale del cinema statunitense del periodo è possibile sulla base di una distinzione tra film che intendevano porsi come immagine – sia pure mediata attraverso la fiction – di alcuni problemi sociali e film che, con o senza precisi riferimenti al periodo, si organizzavano su un versante di grande spettacolarità, di lusso, di festa, di immaginazione visiva. Per il primo tipo fungono da buon esempio i vari gangster film di quel tempo, per il secondo i vari musical che fiorirono in coincidenza con la grande crisi e gli inizi del sonoro: due generi nei quali, come è noto, eccelse la Warner, una casa – dunque – estremamente rappresentativa del cinema della Depressione12. Veniamo dunque al gangster film, premettendo però subito che il gangsterismo non è un fenomeno strettamente legato agli anni Trenta poiché fiorisce a partire dal 1920, anno di nascita del Proibizionismo. Il New Deal, anzi, segnò nel 1933 la fine di questa legge discutibile, tagliando in questo modo le gambe a un vasto ambito d’azione criminale. D’altra parte, sarebbe riduttivo identificare il gangsterismo con il Proibizionismo. Ma è un fatto che l’amministrazione Roosevelt dette al fenomeno un duro colpo.
Gli anni Trenta, piuttosto, come ricorda anche Andrew Bergman13 sono sin dall’inizio caratterizzati in questo senso dalla figura del gangster come “uomo d’affari”, come persona che opera all’interno della struttura sociale, e non come fuorilegge col mitra in pugno. Ce lo ricorda in un articolo peraltro un po’ semplicistico anche Stephen L. Karpf, quando scrive che in Piccolo Cesare «l’affidarsi di Rico alla violenza fisica non s’accordava ai tempi. L’impero del crimine stava orientandosi verso modi operativi uguali a quelli delle altre imprese d’affari»14. Ecco dunque una prima notazione interessante: le storie cinematografiche di gangster, marchio di fabbrica della Warner all’esordio degli anni Trenta, non esprimono affatto una situazione sociale reale, quotidiana. I suoi protagonisti e le loro gesta sono tratti, sì, dai giornali, ma da quelli del decennio precedente. Essi non riflettono una piaga sociale contemporanea, ma del recente passato. La cosa più paradossale è che prima dell’archetipo Piccolo Cesare non mancano crime movies nel cinema americano, ma pressoché tutti non presentano quell’iconografia e quelle tematiche che invece caratterizzeranno il vero e proprio gangster film di lì a qualche anno15; in altre parole, paradossalmente gli anni Venti troveranno solo nel decennio seguente una trasposizione cinematografica in chiave gangsteristica (quando cioè il fenomeno nei termini descritti dai film si stava esaurendo). La Warner insomma si farà carico di elaborare un genere il cui referente storico appartiene al passato, senza peraltro dimenticare di tenere un occhio aperto sul presente. All’inizio dei Trenta l’attualità del gangster film poteva essere misurata non in relazione al preciso fenomeno sociale cui esso si riferiva, ma in relazione a un’ideologia che esso sottendeva. Nei due film archetipi, Piccolo Cesare e Nemico pubblico, prodotti dalla Warner, si rileva uno schema preciso: giovinezza del protagonista e iniziazione al crimine, ascesa e culmine delle sue fortune, crollo materiale (e morale). Si tratta di contenuti, naturalmente, i quali però ci dicono prima di tutto dell’intenzione moralistica, didascalica di quel cinema. Non si tratta solo di generico moralismo: esso va letto anche in relazione, appunto, al periodo. Un periodo in cui la tragica situazione economica aveva preparato il terreno perché fortune e miserie si creassero e disfacessero continuamente da un giorno all’altro. Un periodo in cui era certamente più facile oltrepassare il limitare che divide la legge dal crimine. Dunque, due ordini morali: uno generico, l’altro particolare, o meglio, due diverse “funzioni” del film in chiave didattico-morale. Quel che è strano è che la Warner non organizzò un programma produttivo in questa direzione. Anzi, quando i giornalisti Kuber Glasmon e John Bright presentarono alla casa il loro script intitolato “Beer and Blood” – prima stesura di quello che doveva divenire Nemico pubblico – Darryl F. Zanuck lo rifiutò pensando che, dopo il pur lusinghiero successo di Piccolo Cesare l’anno prima, «il gangster film si era già esaurito»16. Solo la forte, caparbia intercessione di William Wellman fece recedere dalla sua idea il produttore. Ma se la Warner non aveva elaborato un programma nei confronti del gangster film, che rapporti ci sono fra questo genere, la casa produttrice e il pubblico? O meglio, se di teoria – sia pure in termini produttivi – nei confronti del gangster film non è possibile parlare, allora sarà il caso di leggervi una poetica, formulabile in relazione ai tre classici parametri di sempre: storia, cinema, pubblico. Già abbiamo detto che il gangster film inizio anni Trenta riflette una situazione sociale solo in parte contemporanea. Dunque, è lecito leggere in esso non solo un atteggiamento semidocumentaristico, non solo un’intenzione di testimonianza sociale, ma anche un clima, un’ideologia, forse persino una metafora. Non c’è critico il quale non abbia sottolineato che i primi gangster film della Warner non intendevano celebrare i loro criminali protagonisti, ma piuttosto dipingere un ambiente. Ora, che da questi film emerga la visione di un ambiente è indubbio, ma che sia questo il motivo di maggior fascino e interesse per il loro pubblico non è cosa credibile. La questione riguarda ben altro che la descrizione di un ambiente. Non a caso la Warner fece accompagnare l’uscita di Piccolo Cesare da un foglietto nel quale si esortava moralisticamente il pubblico a non leggere il film in chiave di glorificazione del crimine. Siamo insomma di fronte a un classico tòpos etico della creazione artistica, lo stesso – per fare un esempio – che rintracciamo nella prefazione che Daniel Defoe scrisse per Moll Flanders. Quelle pagine sono troppo lunghe per essere qui citate, ma possiamo affermare che almeno due terzi di esse si applicano perfettamente al caso morale cui la Warner si trovò di fronte presentando al pubblico pellicole come Piccolo Cesare e Nemico pubblico. Defoe scrive che il male è più affascinante del bene solo per coloro che hanno gusto e piacere in una direzione invece che in un’altra. Si tratta, è evidente, di un’impostazione alquanto calvinista che ovviamente poteva anche funzionare nel pieno Settecento, ma di certo non nella Hollywood degli anni Trenta. La “salvezza” di personaggi come Rico e Tom si misura su altri parametri. Non è casuale, infatti, che parecchia critica abbia parlato per loro in termini alto-letterari. Karpf afferma che Rico si evidenzia come personaggio “tragico” piuttosto che “malvagio”, e persino E.G.
Robinson, dopo una prima antipatia per lo script iniziale di Piccolo Cesare, sostenne che la rielaborazione assomigliava a una tragedia greca e che Rico gli ricordava personaggi come Macbeth, Othello e Riccardo II17. Rico in effetti è consumato dall’ambizione, dalla sete di successo, e finisce tragicamente la sua vita solo per non aver avuto la forza di eliminare un suo vecchio amico. «Per una lacrimetta», ma all’opposto del modello dantesco, il gangster perde se stesso. Ma, come ci ricorda il poeta Robinson Jeffers: «Dobbiamo mantener puro il peccato o ci avvelenerà». Non diversamente da Macbeth, da Riccardo e da tanti altri eroi tragici, Rico cede per un attimo al sentimento, alla coscienza, e questo segna la sua fine. Ma questo segna anche l’apertura di uno spiraglio di identificazione per il pubblico. L’errore di Rico, il suo cedimento “umano” è contestualmente la valenza che rende possibile una simpatizzazione con il personaggio. Il periodo aveva prodotto una figura sociale detestabile, cui però ben s’addiceva il rischio, il pericolo, la forza, l’avventura e tutte le classiche componenti di cui qualunque pubblico è naturalmente avido. Si trattava di utilizzare quelle componenti senza compromettersi (e compromettere il pubblico) sul piano morale. Diversamente, il soggetto ne sarebbe uscito in termini schizofrenici: da un lato simpatico e accattivante, dall’altro moralmente discutibile e condannabile. La schizofrenia viene evitata in Piccolo Cesare innalzando, appunto, alle altezze dell’eroismo tragico un personaggio come Rico, mentre viene, all’opposto, esaltata (e dunque esorcizzata) in Nemico pubblico, fornendo a un personaggio come Tom non pochi «near-burlesque touches» che consentono al pubblico un «constant relief from violence»18. Ma qualcos’altro accomuna, pur nell’evidente diversità, i due archetipi criminali della Warner: quel cedimento al sentimento di cui si diceva più sopra parlando di Rico. Anche Tom mostra evidenti tratti sentimentali (soprattutto nel rapporto con la madre): altra componente di identificazione, per il pubblico, che non va trascurata. Oggi tutto questo può sembrare ovvio e banale. Ma basta comparare i due film in questione al pressoché contemporaneo (ma, ricordiamolo, uscito un anno dopo) Scarface per renderci conto della grande differenza fra l’impostazione dei ganster film archetipi della Warner e quella – pur ammirevole – di altre case. La pellicola di Hawks è certamente splendida, ma proprio per le caratteristiche che Piccolo Cesare e Nemico pubblico evitano accuratamente: l’evidente nevrosi del protagonista, prima di tutto. Intendiamo dire che il trattamento del carattere nevrotico di Scarface è infinitamente più dettagliato e diretto di quello di Rico e Tom. Non a caso, il film di Hawks allude in maniera incontrovertibile a un rapporto incestuoso fra il gangster e sua sorella. E ancora: sia l’uso della luce che la recitazione di Paul Muni in Scarface sono una diretta eredità del cinema muto in generale e di quello espressionista in particolare (giustamente Andrew Sarris ha parlato per questo film di uno stile sulla scia di Murnau19). Si osservi con attenzione la mimica del protagonista, le inquadrature del suo viso tese a sottolineare i chiaroscuri e l’allucinazione del suo carattere; si osservi – di conseguenza – il rallentamento del ritmo nella descrizione degli eventi, o per meglio dire, l’alternanza fra un ritmo sostenuto nelle scene d’azione e un ritmo più lento nel quale la drammaticità è affidata all’uso della luce e al tipo di inquadratura invece che all’azione e al taglio di montaggio. Tutto questo è estraneo ai primi gangster film della Warner, i cui eroi mostrano certamente un côté nevrotico che però i registi non intendono evidenziare più di tanto, lasciando piuttosto alle loro azioni il compito di rappresentare adeguatamente un’eventuale alterazione psichica. Come dicevamo, Scarface trae le ragioni della sua grandezza da quelle che, a paragone con i gangster film di LeRoy e Wellman sembrano essere proprio le sue debolezze. In altre parole, Scarface è un film grande anche perché non indica una soluzione di continuità fra il cinema del passato e quello del presente, perché utilizza la lezione del muto per comporre un’opera modernissima. La modernità di Piccolo Cesare e Nemico pubblico è invece di altra natura: è puro ritmo che rivoluziona ogni eredità del passato, è distacco da qualsiasi lezione per creare una nuova funzionalità, strutturale, iconografica, persino tematica. Non è un caso, del resto, che Hawks abbia affermato a suo tempo di aver modellato il suo protagonista sui Borgia rinascimentali. Davanti ai “tragici” Rico e Tom, il suo Scarface è personaggio sicuramente meno umano. La sua tragicità è misurabile solo su un terreno strettamente psicologico, mentre quella dei suoi due colleghi ha anche altre frecce al suo arco. Non siamo d’accordo con quei critici (e sono in tanti) che leggono personaggi come Rico e Tom – e anche altri gangster fino a qualche anno dopo – come “born criminals”. Forse è vero, come dice Colin McArthur, che le ragioni, le cause sociali della scelta criminale non sono in questi film molto scavate e indicate20. Purtuttavia, personaggi come Rico e Tom (soprattutto il secondo) sono presentati in modo da suggerire l’occasionalità della loro scelta.
Il loro personaggio può essere, divenire tutto e purtroppo sceglie la via peggiore, la più facile. Ma, incanalata nel binario giusto, la sua forza naturale avrebbe dato esiti più positivi. Non si tratta di personaggi irriducibili, nel senso che i loro più orribili delitti sono pur sempre temperati da affetti che lasciano intravedere in loro, come abbiamo detto, una precisa presenza di umanità21. Il modello morale da essi fornito si identifica bene con quella che secondo alcuni studiosi è la formula della tragedia cristiana: peccato che sia andata in questo modo quando sarebbe potuta andare diversamente («Cut is the branch that might have grown full straight», canta il coro alla fine del Doctor Faustus di Christopher Marlowe). Siamo, infatti, ricordiamolo, in un ambito di solida cultura protestante (e forse non a caso gli eroi di questi film, italiani o irlandesi sono tutti cattolici…), la quale, spogliatasi dagli orpelli autoritaristici e scenografici del cattolicesimo, esemplifica in modo diretto e essenziale i conflitti dell’anima e della morale. Non è un caso che, come dicevamo, in questi film il protagonista ci venga mostrato compromesso con il crimine, ma anche non del tutto alieno da una sincera generosità, da una spia, insomma, delle sue “naturali” tendenze positive, laddove in uno Scarface questo non è riscontrabile. Meraviglia invece nell’intera produzione gangster di questo primo periodo l’assenza di un discorso, sia pure in termini di spettacolo, sul gangsterismo rurale, un non minore prodotto della Depressione strettamente legato a una protesta contro quel Capitale che negli anni Trenta si trovava in pessime acque. Le risposte possibili a spiegazione di questa assenza sono parecchie e tutte probabilmente valide. Ad esempio, l’antiurbanesimo che questa volta non si esprime nell’esaltazione dei valori agrari e frontieristici (genere western), ma nella visione della città come luogo di perdizione e di male22 o l’aderenza della città all’immagine di opportunità, di occasione che da sempre nutre quel “sogno americano” di cui il gangster è uno dei maggiori rappresentanti-vittime del periodo23. Ma anche il fatto che l’occasione moralistica fornita dal gangster rurale era meno vistosa di quella fornita dall’altro. Il gangster urbano infatti è spesso collegato a qualche esponente dell’autorità (polizia, sindaco, ecc.): egli cioè presenta e incarna un’America implicata in una questione morale che va oltre il semplice “carattere” sociale del gangster. L’amministrazione Roosevelt intraprese un’opera di bonifica non soltanto nei confronti dell’illegalità, ma soprattutto della corruzione attraverso un rilancio morale della nazione. Non si trattava solo di spazzare via il crimine (i problemi economici sarebbero comunque rimasti), ma di eliminare dai posti di comando coloro che a qualunque titolo vi fossero compromessi. Nel gangsterismo rurale è invece solo l’avventura criminale a tenere banco: ottima occasione di spettacolo, ma non adeguata ai veri bersagli dell’amministrazione Roosevelt. Nei gangster film del periodo rapine in banca se ne vedono poche: i veri protagonisti sono i traffici illeciti, le speculazioni, gli investimenti, le coperture, un impero che Bonnie & Clyde o la famiglia Barker nemmeno si sognavano. Non è la banca, luogo deputato del Capitale, a essere presa di mira: il New Deal non sarà una critica al Capitale, ma un tentativo di restaurarlo24. Quel che colpisce a questo punto è che un discorso così ricco di risvolti e considerazioni sia estetiche che sociali abbia subito, quasi ai suoi inizi, un forte arresto. Dopo lo straordinario successo di Piccolo Cesare, nel solo 1931 si ebbero in America ben cinquanta gangster film; ma un anno dopo – probabilmente anche in conseguenza della reazione di censori e gruppi civici25 – le pellicole di questo genere calarono vertiginosamente, lasciando spazio, come si diceva, al modello del gangster “recuperato” alla società e al bene, per poi tornare ancora (ma con anche più forti implicazioni sociologiche) di lì a poco in termini di problematica sociale: si pensi per tutti al già citato Angeli con la faccia sporca (1938). Da tutto questo emerge un dato: il gangster film al suo esordio, non si presentò come un genere “programmatico”, ma come un’esperienza tentativa, addirittura occasionale; e comunque esso si appellava meno di quel che in genere si crede a un supposto aggancio con la “realtà” americana dell’epoca, sia perché il tipo di immagine del fenomeno in questione era tratta dal modello sociale imperante nel decennio precedente, sia perché l’impostazione e il modo di trattazione della sua figura principale denunciava in certa misura una componente quasi biografica alquanto lontana dalla qualità documentaristica richiesta da una qualsiasi opera di denuncia. Una componente quasi biografica, bisogna aggiungere, che non poteva non proporre il protagonista in termini accattivanti, pur restando la sua figura discutibile e condannabile. Così, la Warner trovò il modo di salvare capra e cavoli attribuendo qualità “tragiche” (Rico) o “comiche” (Tom) ai suoi villains. Non è del resto un caso che, come ricorda McArthur, dal 1935 in poi il gangster diventi un G-man e che nulla, a parte ciò, distingua il gangster film di questi anni da quello di poco tempo prima26. Anzi, ricorda ancora McArthur, spesso il G-man si infiltrava tra le file dei banditi per sgominarli, fornendo in questo modo al pubblico un’ancor maggiore possibilità di identificazione fra gangster e poliziotto. Si tratta insomma di un fenomeno il cui aspetto formalistico supera di gran lunga qualsiasi considerazione di esso in termini morali. b) Musical
Cronologicamente adiacente al gangster film è l’altro grande successo della Warner all’inizio degli anni Trenta, il musical, genere che – secondo la distinzione precedentemente fatta – nello studio rappresentava il grande spettacolo e la fantasia della messa in scena. Nascita del sonoro e grande crisi giungono press’a poco insieme, quasi una piccola nemesi storica che consente al cinema l’inizio di un genere particolarmente rilassante e diversivo in un nero momento della nazione. Questo però solo se consideriamo il musical puro spettacolo. In realtà, esso è un genere meno monolitico di quel che comunemente si pensa. E d’altra parte sarebbe errato non pensare al musical in termini di una comune denominazione di massima. Anzi, è proprio attraverso quest’ultima che una definizione del genere specifico si rende in qualche modo possibile. Quando si citano i vecchi, fondamentali, classici cliché del musical – “boy meets girl” e “the show must go on” – si danno per scontati riferimenti preziosissimi per intenderne la natura, proprio perché nel tempo essi non subiscono sostanziali mutamenti. Che differenza c’è, da questo punto di vista, fra Cappello a cilindro (1935) e Cenerentola a Parigi (1957) di Stanley Donen, fra Quarantaduesima strada e Spettacolo di varietà (1953) di Vincente Minnelli? Ora, dal momento che tali microstrutture sostanziano il musical per quasi trentanni, sarà anche attraverso di esse che potrà evidenziarsi una possibile ricognizione ontologica. D’altra parte, è anche vero che i cliché suddetti sono ugualmente rintracciabili in generi come la commedia e, in minor misura, il melodramma. Ed è proprio la minor presenza del tema “allestimento di uno spettacolo” in altri generi di primo grado (vale a dire non contaminati con altri) che può aiutarci a spiegare la natura di un genere per quei tempi nuovo come il musical. È evidente che l’altro cliché copre una casistica troppo ampia per essere anch’esso assunto come discriminante. Eric Bentley disse una volta che perché vi sia tragedia occorre credere agli dèi, mentre perché vi sia commedia occorre credere nel sesso. Le cose vanno diversamente con l’allestimento di uno spettacolo. La natura metalinguistica del musical si evidenzia chiaramente proprio sul terreno fornito dall’uso di questo tema nel genere specifico. Alla domanda: perché tale tema è riscontrabile con tanta frequenza nel musical? la risposta è: perché è inevitabile che un genere di secondo grado come il musical si interroghi continuamente su se stesso. La spiegazione volgare, naturalmente, sarebbe ben diversa e verterebbe sull’occasione, fornita da tale cliché, di presentare numeri musicali, proprio come nei primissimi tempi del musical, quando i film non erano altro che un’accozzaglia di numeri filmati. Ma questo escluderebbe dalla lettura tutti i film che esulano dal cliché. Al contrario, la risposta metalinguistica ammette facilmente anche musical che non vi rientrano direttamente. Tuttavia, l’allestimento di uno spettacolo musicale come fondamento ontologico del musical è un termine di riferimento ancora troppo generico. In effetti bisognerà attendere gli anni Cinquanta perché con Cantando sotto la pioggia lo spettacolo da allestire sia di carattere cinematografico, perché – in altre parole – all’opposizione implicita fra teatro e cinema27 si sostituisca quella esplicita fra cinema muto e cinema sonoro. E comunque, il cinema musicale, come si vede, non esce mai dall’ombra, non gioca mai se stesso, ma si pone come occhio che testimonia le difficoltà di uno spettacolo che è “altro” (teatro, cinema muto). Si tratta, insomma, di una sorta di metalinguaggio camuffato, di una riflessione sui propri fondamenti che non vuole apparire come tale e che per questo finge la propria assenza attraverso la teatralizzazione. Tuttavia, già Busby Berkeley aveva genialmente lacerato la sostanza della maschera e pur fingendo anch’egli la descrizione di un ambiente teatrale aveva in realtà mostrato la natura strettamente cinematografica dell’«oggetto musical»28. Il velo di cui il sogno dichiarato si copre il volto nel tentativo di attribuire la propria natura onirica a un altro ordine di spettacolo cade seguendo l’orbita vorticosa di certi giochi di macchina berkeleyani: alla fine della sua corsa troveremo un mondo di spazi, di metonimia e di sineddoche figurative che nessuno spettacolo teatrale può dare29. Dunque, l’allestimento dello spettacolo come tema metaforizza l’allestimento del musical cinematografico, il mondo fantastico che dichiaratamente quello intende costruire è quello che il film musicale intende offrirci. Nessuno come Berkeley l’aveva così chiaramente capito e nessuno aveva capito Berkeley così chiaramente come il britannico Ken Russell, il quale, lungi dal presentarci in II boy friend (1971) un semplice “omaggio” al regista-coreografo, ha inteso formulare una vera e propria chiosa critica alla sua opera. La costruzione del sogno e la sua registrazione sotto altre (ed esili) vesti ha tuttavia anche un suo aspetto storico. L’entertainment degli anni Trenta, dicevamo, si giustificava sul terreno della Depressione. E non è un caso che una delle sue classiche “figure” – quella delle gold-diggers, le cacciatrici di denaro tipiche della Depressione – compaia per l’ultima volta sul suolo americano proprio nell’anno della fine storica del New Deal30. L’individualismo dei personaggi di questi film si fondeva, in ultima istanza, con una sostanziale onestà, o comunque chiamava alla simpatica comprensione che nella commedia di quegli anni era pur lecita per simili personaggi. Sull’altro versante Fred Astaire e Ginger Rogers non avevano in genere bisogno di giustificazioni di alcun tipo: esponenti di un mondo di week-end a Venezia e
maneggi, d’alta moda e di (magari ridicolizzati) club britannici, essi erano, se mai, i potenziali bersagli di eventuali gold-diggers “à la Berkeley”, non fosse stato per la loro ironia. In ogni caso, all’interno delle vecchie formule “boy meets girl” e “the show must go on” il musical di quegli anni era l’esemplificazione di un mondo “altro” dominato dal sogno: in modo scanzonatamente romantico quello della coppia Astaire/Rogers, peraltro quasi sempre debitore alla classica commedia degli equivoci, in modo più figurativamente audace quello di Berkeley, che il sogno lo metteva in scena scardinando visualmente il passaggio tra (falso) verosimile e onirismo, o se vogliamo, tra gestualità quotidiana (e parlato) e danza (e cantato). La storia era comunque filtrata attraverso le lenti d’ingrandimento di un mondo – poco importa quanto platealmente fittizio (gli ambienti dei primi musical Astaire/Rogers sono spesso un vero delirio di kitsch) – la cui verosimiglianza era più affidata agli eventi e ai sentimenti (e alla loro traduzione in termini di canto e/o danza) che alla sua presentazione figurativa, scenografica e ambientale. Se la coppia Astaire/Rogers aveva funzionato come distrazione spettacolare di alto livello nel periodo della crisi, se Eddie Cantor aveva abilmente mescolato le caratteristiche del musical alla Berkeley con quelle più tradizionali del cinema comico, Berkeley aveva invece funzionato in due sensi: da un lato adeguandosi al tradizionale entertainment, ma dall’altro tenendo sempre presente l’età della Depressione. A parte espliciti riferimenti in questo senso (Quarantaduesima strada, come si dirà, è eloquentissimo), tutto il suo cinema del periodo è giocato sul tema della “ripresa”, della reazione (alla crisi). A ben vedere, nel suo cinema, per lo più ricco di ottimi professionisti, si snoda una galleria di caratteri nessuno dei quali, da un punto di vista attoriale, è insostituibile. Si può pensare a un film della coppia Astaire/Rogers senza Astaire e/o la Rogers? Certamente no. Si può pensare a un film di Berkeley senza Ruby Keeler o Dick Powell? Certamente sì (ed effettivamente questi due personaggi centrali di Quarantaduesima strada non compariranno in tutti i suoi film seguenti). Intendiamo dire che il mito di Berkeley non si affida ai protagonisti, ma – oltreché, ovviamente, alle sue coreografie – all’iterazione del tipo di storia trattata. Per buona parte degli anni Trenta i film diretti e/o coreografati da Berkeley metteranno a confronto due mondi: lo spettacolo e i privilegiati del dollaro riuscendo regolarmente a conciliarli, ma soprattutto traducendo in rappresentazione la capacità, la volontà, la disinvolta simpatia dell’ambiente dello spettacolo che nei suoi film rappresenta più o meno ufficialmente l’America rovinata dalla crisi. Quando un teatro nei film di Berkeley chiude per mancanza di fondi causata dalla grande crisi, con esso chiudono idealmente centinaia di piccole fabbriche, uffici, modeste iniziative private. In Berkeley, insomma, lo spettacolo esplicita il non secondario ruolo ideologico e morale di fornire al nerbo della nazione l’immagine di se stessa in un tragico momento della sua storia. Non è casuale che col 1937 (L’amore in otto lezioni) cessino nel cinema di Berkeley i riferimenti a problemi economici esterni a quelli classici relativi all’allestimento di uno spettacolo: con il personaggio di Rosmer Peek (Dick Powell), agente assicurativo raggirato da due trafficoni, finisce in Berkeley ogni riferimento all’americano medio invischiato in problemi di denaro e morale: Hollywood Hotel, Il nemico dell’impossibile, ambedue diretti e coreografati da Berkeley, The Singing Marine di Ray Enright, Invito alla danza di William Keighley (questi ultimi solo coreografati da Berkeley) – tutte pellicole del 1937 – e a maggior ragione opere posteriori, battono più o meno l’usuale moneta del successo, dell’amore, della gloria, ma senza i risvolti sociologici di riferimento alla grande crisi più facilmente riscontrabili nei film immediatamente precedenti. In quell’anno entra in scena Judy Garland. Non che la giovane attrice avesse in sé un potenziale “rivoluzionario” tale da variare radicalmente le costanti anni Trenta del genere. Solo, ella può facilmente essere presa a emblema del mutamento oggettivamente avvenuto nel musical alla fine del New Deal. In effetti, i film da lei girati con Mickey Rooney (e proprio firmati da Berkeley) lo dimostrano ampiamente: allo scadere dei Trenta il musical rivolge la sua attenzione non più al “carattere” (dalle ereditiere ai frac, dalle gold-diggers ai magnati) né tantomeno al gruppo professionale deciso a non cedere (le varie troupe dei backstage musicals di Berkeley), ma all’individuo31 che interpreta il quotidiano, il casalingo, la norma. È la fine di un’ideologia dell’unità nazionale in funzione anticrisi, ed è il rilancio (anzi, la continuazione) della vecchia etica americana spogliata delle connotazioni drammatiche imposte dalla Depressione. Dei ragazzetti imberbi ma pieni di buona volontà e di entusiasmo riescono a sfondare a Broadway (I ragazzi di Broadway, 1941, di Berkeley, le cui sequenze musicali di Judy Garland furono dirette dall’esordiente Vincente Minnelli): non siamo molto distanti dal “marine canoro” di cui sopra; con la differenza che questi, in tardivo omaggio a Roosevelt e al Paese, rinuncia al successo per restare in marina, l’unico modo di dare il suo contributo alla causa dell’unità nazionale. Non è per caso che le scenografie del periodo cominciano a tendere verso un blando “realismo” ben lontano dalle amabili pacchianerie dei primi anni Trenta. Già con Voglio danzare con te (1937) di Mark Sandrich – per quel che riguarda la coppia Astaire/Rogers – è riscontrabile tale mutamento: un film, si noti, lanciato alla fine del New Deal e che per di più segna la fine del periodo aureo della coppia. Gli si confrontino pellicole come Girandola (1938) e La vita di Vernon e Irene Castle (1939): la differenza è sin troppo evidente. Ma È
torniamo agli inizi del decennio. È cosa nota che ogni studio aveva il suo tipo di musical: la Paramount – e in certa misura la Mgm – l’operetta, la Rko la commedia elegante e sofisticata, la Warner il backstage musical di sapore proletario (la Fox e la Universal si inseriranno nel genere solo nella seconda metà degli anni Trenta). Fu la Warner a distinguersi nell’impiego della seconda delle due formule cui si accennava più sopra (peraltro, questo cliché include usualmente anche il primo). E già questo riveste una notevole importanza, dal momento che, a parte l’influenza su tanti musical Mgm dei Quaranta e Cinquanta, quel modello è l’unico a rinunciare a una proposta del musical come mondo incantato e autosufficiente, terra onirica dei buoni sentimenti, palestra di delicatezze immaginarie. Il mondo dei musical della Warner è fatto di problemi economici, di attori e ballerini sul lastrico, di difficoltà organizzative d’ogni genere. Ecco dunque possibile rifiutare per i musical Warner ogni facile etichetta di escapismo, di fuga nel sogno. In realtà, crediamo questo valga – sia pure per ragioni diverse e in modi diversi – anche per gli altri musical. Certamente l’operetta alla Lubitsch denota un grado d’ironia così alto da divenire implicita critica dell’opera intesa come prodotto di divertimento e consumo. Ma, ancor più, riteniamo valga la pena mettere a confronto i tipi di musical prodotti dalla Rko e dalla Warner negli stessi anni, dal 1933 al 1937. La coppia Astaire/Rogers non sembra in genere proporre riferimenti alla Depressione. Il loro mondo è spesso dorato, lussuoso, artistico, elegante, senza problemi di denaro (a parte, come vedremo, in Follie d’inverno, 1936, di George Stevens), e comunque non indugia sugli aspetti economici della realtà. Da questo punto di vista si tratta di un filone diversivo e piacevole. Tuttavia, l’eleganza coreografica e figurativa della coppia non va letta come semplice intrattenimento. Psicologicamente, essa allude a un mondo tutt’altro che armonico e facile: il malinteso è alla base di questi film e in tal senso il meccanismo è quello tipico della commedia tout court. Ma la funzione della danza vi riveste caratteristiche primarie. È nella danza, infatti, che la coppia sublima l’errore, l’incomprensione, le difficoltà. La danza non è semplicemente momento di armonia, ma momento di armonia in un contesto disarmonico: essa è la figura della risoluzione non al momento della risoluzione, ma come evento in progress, come linguaggio di intesa davanti all’impossibilità di vivere armonicamente la realtà. Si tratta di una distinzione importante. Quando in Girandola (che pure non è una pellicola fra le più rappresentative della coppia), nella sequenza “Change Partners”, Astaire conquista la Rogers danzando questo non significa che ella cede a uno straordinario ballerino e a un gentiluomo affascinante, ma che ballando Astaire le comunica una possibilità d’intesa altrimenti impossibile. La danza, vogliamo dire, è il referente di una forma armonica del mondo, il fantasma ideale di una soluzione della crisi. Abbiamo usato apposta quest’ultima parola poiché sul registro strettamente psicologico la danza come risoluzione dei conflitti è metafora di altre e più vaste soluzioni (nonché dialettico rimando ad altri e più vasti conflitti). Qui non si tratta soltanto di uscire pacificati dalla sala cinematografica grazie a un happy end che si concreta in perfetti passi di ballo; ma di fornire allo spettatore l’idea – magari subliminale – di un’altra realtà, regolata da leggi estranee alla forma del mondo per come lo si è conosciuto e vissuto fino a quel momento. Noi siamo, in altre parole, davanti al semplice scioglimento tipico della commedia, ma a uno scioglimento che si attua attraverso processi per noi inscrutabili, che possiamo certo intuire ma i cui meccanismi non conosciamo. È il massimo che questa impostazione del musical può attuare in relazione al New Deal come tentativo di soluzione di un problema: un riconoscimento della possibilità di altre strutture adombrato nel suggerimento della funzionalità della danza a fini di riscatto. La cosa è ancor più chiara in Follie d’inverno (non a caso George Stevens è regista decisamente più profondo di Mark Sandrich) dove Astaire è un ballerino vittima della Depressione e dove, di conseguenza, egli viene necessariamente a incarnare quella volontà, quell’ottimismo, quel dinamismo predicati da Roosevelt, esercitandoli, ovviamente, nei confronti del suo love affair con la Rogers: il premio sarà la ragazza ma – guarda caso – anche il successo professionale (e aggiungiamo senz’altro che Arlene Croce ha ragione quando afferma che questo film e Cappello a cilindro sono «pieni di nostalgia per la bella vita degli anni Venti»32). Ci siamo soffermati sui musical Rko ponendo particolare attenzione al significato simbolico della danza che in essi è leggibile, per indicare i valori sottesi al tipo di musical più apparentemente estraneo a ogni riferimento storico-sociale e di conseguenza indicare l’ancor più prevedibile presenza di simili riferimenti nel musical “proletario” della Warner33. La differenza fra musical Rko (e se è per questo, in certa misura anche Paramount) e musical Warner trova espressione anche nell’opposizione fra danza come espressione fisica e danza come esperienza visuale34. Come in molti hanno affermato, infatti, il musical di Berkeley è tutto fondato sul sacrificio del concetto di individuo a vantaggio di quello di gruppo, di comunità (la troupe), laddove invece il musical
con Astaire è incentrato sull’energia individuale convogliata nella e dalla danza35. Molto di più: non solo, in Berkeley, si rintraccia la specifica importanza del gruppo, ma il valore politico di questa importanza è chiara metafora dei valori sostenuti da Roosevelt e dal New Deal, come ha brillantemente dimostrato Mark Roth36. Dunque, se nei musical di Astaire – commedie sofisticate di notevole eleganza e ironia – il New Deal era presente nella carica vitale dei modi della danza, nel musical Warner esso lo era, per così dire, allegoricamente, sottendendo il suo modello di allestimento teatrale un più largo modello politico. Roosevelt e il New Deal hanno lasciato un segno nel musical Warner al di là dalla possibilità di leggere tematicamente questa presenza. Tralasciando ogni discorso relativo a soggetti, sceneggiature e persino regia concentriamoci sui numeri musicali del nostro coreografo. Berkeley, si è spesso detto, è kitsch, cioè fonda il nucleo della sua fantasia figurativo-coreografica sulla giustapposizione di elementi incongrui: violini luminosi sorretti da decine di ragazze che ne vengono a formare uno gigantesco, volti della protagonista principale (Ruby Keeler) che sono cartelloni in mano alle ballerine e che formano un puzzle visivo, pianoforti che ruotano su basi invisibili, fiori che si schiudono per rivelare al loro interno giovani donne languide, e così via. A suo modo Berkeley forgia un mondo non comune con elementi comuni, denuncia la magia del reale, imprimendogli un nuovo ordine. È una magia piacevole anche nel cattivo gusto, fondata sulla sorpresa causata dalla trovata, dall’idea, dall’accostamento. Peraltro, non si tratta soltanto dell’accostamento di elementi incongrui, ma anche dell’accostamento di due diverse dimensioni concettuali dello spazio. Il cinema di Berkeley, come si sa, riposa su un paradosso: esso è in genere rappresentazione dell’allestimento di uno spettacolo musicale teatrale, e tuttavia fu proprio Berkeley a eliminare quell’arco di proscenio istituito in teatro qualche secolo prima in Gran Bretagna, in epoca di Restaurazione, da William D’Avenant. Berkeley cioè fonda tutta la sua operazione kitsch lungo l’annullamento delle regole spaziali del teatro: un annullamento che soltanto il cinema rende possibile. Un suo numero, insomma, pretende di essere teatrale ma in realtà è inconcepibile senza l’occhio, le angolazioni e il montaggio che solo il cinematografo permette. Bene, a un livello contenutistico questi numeri si presentano di due tipi: romantici o realistici. In ambedue i casi tuttavia il procedimento è identico: quadretto sentimentale o immagine di una pulsante metropoli, l’obiettivo passa su un particolare che diviene a sua volta visione generale la quale schiude immagini nuove e perfette. È possibile che sotto questa pratica vada letta una matrice culturale riferibile all’originario puritanesimo americano, a quell’«universo domestico», per dirla con Claudio Gorlier, che nella perfezione del particolare scopriva l’ineffabile armonia dell’universale (la letteratura americana è piena di esempi in questo senso: fra i grandi nomi basti quello di Emily Dickinson). Il che, tradotto in termini “storici”, potrebbe anche assumere – in periodo di Depressione – un carattere consolatorio. Ma crediamo che il procedimento di Berkeley superi anche questi pur importanti agganci culturali per diventare a sua volta metafora. Esso si articola in due momenti: a) annullamento delle normali “regole” spaziali nella logica della messa in scena teatrale; b) giustapposizione di elementi incongrui, inadeguabili. In termini metaforici il procedimento presenta un suo notevole spessore, una sua “leggibilità” di importante significazione. Se infatti, come afferma Roth, lo spettacolo berkeleyano è metafora del New Deal, è anche vero che la sua riuscita, il suo successo non dipendono soltanto dal sacrificio dell’individuo a vantaggio dei valori incarnati dal gruppo, ma anche dal ribaltamento dei tradizionali valori, delle tradizionali regole che fino a quel momento hanno presieduto alla messa in scena dello spettacolo. Il sacrificio dell’individuale a vantaggio del collettivo è dunque condizione necessaria, ma non sufficiente, alla realizzazione di una messa in scena che intende creare nuove leggi spaziali e temporali, per cui l’uscita dalla crisi (professionale non meno che nazionale) si incarna nello stupore di nuove figure. Il New Deal e la sua promessa non intendono quindi essere un recupero del passato – foss’anche esso i “ruggenti anni Venti” – ma la volontà di forgiare il Nuovo, il Moderno, di aprire inusitate dimensioni tanto allo spettacolo quanto all’America. Il numero musicale (come e più che nella coppia Astaire/Rogers) trascende il suo stato di costruzione elegante e fascinosa per diventare intraducibile promessa di un mondo nuovo; esso si pone come figura del futuro, delle forze cui tende una nazione che si è decisa a uscire dalle difficoltà che sta vivendo. Non è possibile pensare a un ristabilimento dello status quo ante: quel che attende all’uscita del cunicolo buio è una diversa concezione del mondo. Ecco allora che Ginger Rogers che canta “We’re in the Money” all’inizio di La danza delle luci o, nello stesso film, la famosa sequenza finale “Remember My Forgotten Man” non sono tanto importanti per capire il rapporto fra Berkeley e la Depressione quanto lo è invece il modo in cui il coreografo ha inteso dare forma ai propri caratteristici numeri musicali. La Depressione c’è e viene denunciata, ma il
rapporto che si intrattiene con essa si sviluppa su un versante metaforico che non intende rinunciare allo spettacolo. Non crediamo sia casuale che il modello classico del numero musicale alla Berkeley si presenti solo nel 1933 con Quarantaduesima strada Berkeley, è importante ricordarlo, lavora come coreografo a Hollywood sin dal 1930, aprendo la sua carriera con Whoopee e lavorando ad altri cinque film (per la Goldwyn, la Rko, la Universal, la Mgm) fino ad approdare alla Warner, dove – appunto – inaugurerà il suo “stile”. In realtà sin da Whoopee si riscontra il suo top shot (si ricordi il numero “Making Whoopee”), ma soltanto con Quarantaduesima strada la macchina da presa comincia a “ricostruire” lo spazio dello spettacolo nei termini più sopra accennati. L’incontro fra Berkeley e la Warner, insomma, fu particolarmente fruttuoso e inaugurò il vero e proprio cinema berkeleyano. Ma non è paradossale che proprio la casa dalla produzione più “povera” e dagli interessi più “proletari” dell’intera Hollywood sancisca l’inizio del più “ricco” musical dell’epoca? Del resto, è non meno paradossale che, all’interno dei generi Warner, il gangster film (che apparentemente intendeva sottoporre al pubblico una scottante realtà sociale) e il musical (genere che da sempre si suppone escapistico e intrattenitivo) si siano invertite le parti: il primo dimostrandosi spettacolo incentrato su collaudati modelli moralistici, il secondo alludendo in maniera diretta alla realtà della Depressione sia attraverso la metafora fornita dal suo modello narrativo, sia attraverso il senso simbolico dei suoi numeri musicali.
7. La leggerezza del topo d’albergo e altri tocchi: la commedia Come il musical anche la commedia anni Trenta ha sofferto di una semplicistica interpretazione che la identificava con un’idea di entertainment inteso ad allontanare dalla memoria del pubblico la Depressione e i suoi problemi. Non fu così, naturalmente; o almeno, le cose furono anche in questo settore più complesse e sfumate. La indubbia capacità di entertainment di alcuni maestri, la straordinaria leggerezza, il “tocco” celebrato di un Lubitsch o il ritmo assurdo e la gragnuola di battute brillantissime delle pellicole comiche di Hawks sono ancor oggi motivo d’ammirazione e divertimento per un pubblico ben lontano dalle ristrettezze economiche di quel periodo. Ma è anche vero quel che scrissero Arthur Mayer e Richard Griffith: […] se quel che capitava in questi mondi privati era per lo più assurdo, che senso si poteva trovare nel grande mondo esterno, dove le crisi economiche e la minaccia di una guerra che si avvicinava bloccavano tutte le strade convenzionali per conquistare la felicità? È difficile descrivere oggi che cosa significarono questi film per una generazione cresciuta nella Depressione, e non sorprende che le screwball comedies, come vennero chiamate, finissero normalmente in slapstick o in violenza. Esse rispecchiavano un mondo di frustrazione37.
Naturalmente questo riguarda in particolare la screwball, dal momento che sarebbe francamente più difficile applicare tale lettura alla commedia sofisticata di Lubitsch o a quella elegante e ironica dei film con William Powell: in prima linea la serie del “Thin Man” (“Uomo Ombra”), naturalmente, o anche i film musicali con Fred Astaire. Proprio Durgnat, al proposito, ha parole brevi e rivelatrici: La commedia di Lubitsch sopravvive alla Depressione senza difficoltà. I suoi eroi pattinano sul ghiaccio sottile delle loro affettazioni, ma essi hanno bisogno, lo si sente, soltanto di un attacco musicale per entrare in un tip-tap leggero e vivace come quello di Fred Astaire. La condizione di questa leggerezza son tutte le affettazioni del privilegio, del denaro, o del loro equivalente, l’impudenza38.
Mentre l’affermazione non è sempre vera per i personaggi interpretati in questi anni da Astaire (già abbiamo accennato in tal senso a Follie d’inverno), essa si adatta molto bene ai film di Lubitsch, e comunque mantiene una verità che va oltre la sua leggibilità in questo o quell’autore. In effetti è proprio questa verità a farci comprendere in che modo certa commedia di questi anni è, sì, riflesso della Depressione, ma non come semplice rispecchiamento di essa, bensì come prodotto che dialetticamente le tristi condizioni economiche del Paese hanno, per così dire, elaborato, come punto d’arrivo dell’immaginario di una nazione in preda ad angosce che sembrano senza scampo. Senza «privilegio» né «denaro», all’America non resta che l’«impudenza». I ladri di gioielli che operano nei grandi alberghi che ancora si portano dietro un’architettura e un arredamento art déco non sono certo i diseredati che negli stessi anni avrebbero sorriso amichevoli a Clark Gable e Claudette Colbert in Accadde una notte (1934) di Frank Capra, né quelli che otto anni dopo avrebbero preso a randellate l’ingenuo e viziato regista hollywoodiano di Preston Sturges in I dimenticati (1942). A parte, e come al solito, che è non poco indicativo ritrovare la violenza dei miserabili e degli emarginati sullo schermo solo dopo che le condizioni storiche all’origine di quella violenza sono scomparse (si veda quanto abbiamo detto più sopra sulla regolare abitudine alla rimozione dei problemi storico-sociali contemporanei particolarmente sgradevoli da parte di Hollywood), gli Arsenio Lupin di Lubitsch incarnano da un lato le più forti tentazioni del pubblico americano d’allora, dall’altro – e all’inverso – i suoi sogni di benessere. Ladri gentiluomini: probabilmente la razza più rara a trovarsi. Se n’è mai visti in giro? Al confronto, i miliardari sono legioni.
Quanto agli altri mortali, la commedia del periodo costituisce non tanto una fuga dalla realtà quanto un’ulteriore ideologia: quella di un mondo personale entro il quale è ancora possibile sorridere e addirittura divertirsi. Nulla di nuovo, si dirà. Sì, ma nella vita reale e per di più durante la Depressione. Per Hollywood, al contrario, si tratta di un’idea non poco originale: dopo anni di romance retorico, di pomposa gestualità alla Garbo, la freschezza della Colbert (per altro capace di passare a ruoli diversissimi come Poppea e Cleopatra) e della Loy, nonché di attrici meno divistiche come Jean Arthur, segnava davvero l’inizio di un “nuovo” cinema ben più aderente – idealmente quanto si vuole – alla realtà. Come bene dice Durgnat, la follia del caos sociale di quegli anni si traduce sullo schermo in follia privata, in idea della vita come assurda e conseguentemente divertente. Non è più il tempo dei grandi amatori, dei primi piani densi di tensione erotica, di narici frementi e dive che amano in casqué. Il mondo dei ricchi – grande, anche se non assoluto, protagonista della celluloide d’allora – è preso a bersaglio di continuo. Nel celebre L’impareggiabile Godfrey (1936) di Gregory La Cava la famiglia di un riccone sembra una gabbia di matti ed è surclassata dal cameriere-barbone (che però, tanto per garantire l’ordine sociale regolare, è in realtà un ex finanziere in rovina39). Di lì a qualche anno (due, per l’esattezza) saranno le famiglie di spiantati a far confusione – addirittura con petardi – davanti agli occhi sgranati del banchiere Edward Arnold in L’eterna illusione (1938) di Frank Capra. Ormai, dopo la recrudescenza dei suoi attacchi contro Roosevelt nel 1934 e 1935 la destra non fa più paura, il New Deal ha bene o male funzionato, e gli Stati Uniti si stanno avviando – sia pure al momento ancora obtorto collo – verso un’altra e diversa pagina di storia, ben consci che quello di Capra, come ha scritto Bob Thomas40, era «un socialismo alla “Saturday Evening Post”». Molto più serio fu invece in quegli anni il fascismo di alcuni film hollywoodiani. Non a caso sono proprio del 1933 opere come La nuova ora di Cecil B. De Mille e Gabriel Over the White House di La Cava, film, cioè, di chiara ispirazione reazionaria del tutto in linea con alcune indiscutibili tendenze autoritarie (per non dire dittatoriali) che spiravano in America all’inizio della presidenza Roosevelt. Sono gli anni di Huey Long, il quale paradossalmente sarà proprio il primo ad ammonire che se il fascismo fosse arrivato in America avrebbe indossato panni istituzionali. Il film di De Mille celebra una folla di liceali che fanno giustizia sommaria di un assassino sicuri che la legge e i suoi ammennicoli sarebbero solo serviti a lasciarlo di nuovo in libertà. Il film di La Cava, prodotto dal conservatore Hearst, parla invece di un politicante disonesto che, eletto presidente, diviene il più severo nemico del crimine avvalendosi di metodi dittatoriali (ad esempio fucilazioni sommarie per i gangster). La cosa non deve meravigliare, se è vero che solo l’anno prima c’era stato chi aveva pubblicamente invocato la legge marziale su tutto il Paese. In questo clima l’esperimento collettivo di King Vidor di Nostro pane quotidiano (1934) acquista sfumature quasi fiabesche ben poco consone alla materialità del tema. Come dice Bergman, davvero la fattoria diviene una sorta di reame di Oz e il protagonista John il F.D. Roosevelt dell’Arcadia41 Ma, come scrive ancora il critico, si trattava più di «uno stile di vita che di economia»42. Ecco, il cinema americano del periodo – tranne quello, tutto sommato alquanto scarso, di diretta e profonda ispirazione reazionaria – si occupa di vari “stili di vita” più di qualunque altra cosa. Non ovviamente nel senso che in vari modi esso proponeva modelli di comportamento cui ispirarsi senza mediazioni, bensì offrendo al pubblico i più diversi atteggiamenti nei confronti della società, del denaro, del lavoro, del successo e – ma più marginalmente di quanto si possa credere, data la persistenza mitologica (cioè la continua identità con se stessi) dei modelli sentimentali – dell’amore. Un esempio fin troppo evidente è quello di Mae West, colei alla quale – come ricordano tutti i libri sul periodo – la Paramount deve la propria salvezza economica43 grazie ai successi dei film che l’incomparabile attrice girò sotto la sua egida (bastò anzi da sola la sua seconda pellicola, Lady Lou, 1933, di Lowell Sherman). Mae West non incarnava semplicemente quella vita lussuosa che sfavillava dallo schermo nelle scenografie déco di Van Nest Polglase dei film con Fred Astaire o quelli Mgm di Cedric Gibbons. Mae parla continuamente di diamanti e di sesso, e affermando che «si può perdere il cuore ma non la testa» (Annie del Klondike, 1936, di Raoul Walsh) allude nel suo modo compromettente e compromesso a una visione del mondo che non è più quella di cui la Garbo e altre “divine” furono le migliori interpreti in anni non lontani. In effetti, questi stanno diventando gli anni della Dietrich, vale a dire di una femme fatale completamente diversa dalla Walewska e dalla Karenina, per non dire della tentatrice senza voce di La carne e il diavolo, 1927, di Clarence Brown, di una vamp estremamente autoironica, scettica e freddamente spiritosa che, da Marocco (1930) a Capriccio spagnolo (1935), i film di Josef von Sternberg esalteranno come nessun altro è mai riuscito a fare con lei nel decennio, nemmeno il genio di Lubitsch nello straordinario Angelo (1937). Mae West, comunque, rappresenta davvero uno “stile di vita”. E non solo per quell’“indecenza” contro la quale si scagliarono non pochi benpensanti, ma anche per la sua nostalgia dei “gay Nineties”
che in quel periodo non era difficile leggere come una sorta di ricostruzione dell’età dell’oro. Persino i comici sono rappresentativi in questo senso. A parte quelli che, come Chaplin e la coppia Laurel & Hardy, avevano incominciato già dal muto, i grandi comedians degli anni Trenta esemplano prima di tutto stili di vita. Il loro umorismo non ruota sulla gag quanto su una quasi immediata comunicazione della loro visione del mondo (W.C. Fields), oppure la gag è così travolgente da diventare addirittura distruzione del set, e dunque del mondo che esso raffigura (i fratelli Marx). Gli altri – i Joe E. Brown, tanto per intenderci – non sono altro che cascami del muto, i quali anche se al muto non appartengono storicamente (come lo stesso Brown che sullo schermo esordì nel 1928) vi si identificano idealmente attraverso l’unica eredità che si portano dietro: una mimica che sta fra il circo e il vaudeville.
8. I baffi di Groucho Il mondo comico dei Marx in particolare è forse l’epitome più eloquente del rifiuto di un’epoca che era dopotutto la somma storica di tutto ciò che l’aveva preceduta. La ribalderia dei tre fratelli è la risposta al falso ordine che gli Stati Uniti (e il mondo intero) tentano di garantire. I Marx si oppongono a qualsiasi forma di tale ordine e ne denunciano la mancanza di spessore, la convenzionalità, la vuotezza. Dei tre è però Groucho il più audace, poiché compie la sua operazione servendosi delle armi fornite dal nemico e perché ha compreso che chi detiene il potere detiene anche il linguaggio, e viceversa. Ed è su quel terreno che egli combatte gloriosamente la sua battaglia. Harpo in certo senso è al di là da qualsiasi problema, ha scelto il Silenzio pur non rinunciando affatto al Caos. Chico tratta spesso le parole come se non lo riguardassero, impiega quel poco che sembra sapere per usare di esse con la splendida alchimia di un bambino (ma con l’intelligenza attenta all’imbroglio di uno sperimentato adulto). Groucho, invece, è nella linea di una «lunga tradizione americana, quella del discorso»44. Groucho è padrone completo del linguaggio, e questo fa di lui quello che i suoi sfortunati interlocutori non saranno mai: un uomo che parla, un uomo libero. Come del resto afferma Allen Eyles45, sebbene travestito (e vedremo poi l’importanza e il senso del travestimento) Groucho è in fondo l’unico dei tre ad avere una sua dimensione sociale, laddove Harpo e Chico sono pressoché outsiders. Il suo personaggio non vive che grazie a quella dimensione, la sua parola non può esercitarsi se non in quel contesto che deve costantemente travalicare, offendere. È il riscatto, la riscossa della parola sulla parola, la rivincita dell’interdetto sugli aristocratici detentori del potere verbale: le parole “proprie”, i discorsi di circostanza, la fraseologia politica, il linguaggio accademico, lo snobismo verbale. I luoghi comuni, insomma, del linguaggio in quanto fatto sociale. Naturalmente il personaggio ha le sue ossessioni: il denaro per Simsolo46, il sesso per Eyles47. Si potrebbe anzi dire che in Groucho quasi sempre i due termini coincidono. Non c’è interesse sessuale se non per ricche vedove, aristocratiche signore, matronesche filantrope. E le poche volte che il sesso sembra svincolato da interessi economici (ad esempio in I fratelli Marx al college, 1932, di Norman McLeod) bastano poche frasi – la parola romantica e civettuola dell’affascinante ragazza che è uscita con lui per una gita in barca – perché Groucho perda la pazienza e scaraventi la partner in acqua, preferendo alla sua compagnia quella di un’anatra. La galanteria, del resto, è una convenzione come il linguaggio. Quel che però è profondamente nuovo – e magnificamente in linea con i tempi – è l’amoralità del personaggio. Groucho si qualifica per la sua mancanza di risposta alle sollecitazioni morali usuali nella forma in cui la società le ha istituite, e rientra così in modo personalissimo all’interno della regola che vuole amorale il protagonista comico. Dov’è la novità? Mentre l’amoralità di un certo Chaplin si pone come la più evidente caratteristica dell’outsider in fondo voluto tale dalla società stessa; quella di un Keaton si mostrava, per così dire, sfuggendogli di mano nel momento stesso in cui il personaggio più avrebbe voluto dimostrare la sua fedeltà al canone sociale; mentre in un Jerry Lewis essa sarà la conseguenza di uno scontro fra l’attenersi rigoroso del personaggio ai prìncipi di quella morale e una società che quei principi ha creato e in teoria afferma ma in sostanza non rispetta (un modello, questo, alquanto cinquantesco); in Groucho, invece, e nei Marx in generale, essa è rinnegata a priori, è il catalizzatore del Caos che invade la scena fin dalle prime battute. Lo statuto del mondo comico dei Marx è una sorta di «volontaria sospensione di incredulità» per la quale nel mondo comune, con i suoi rigorismi, le sue convenzioni, le sue regole ormai consacrate dall’uso e dal viver sociale può entrare e uscire a piacere un uomo-farfalla come Harpo, un improbabile simpleton come Chico, un iconoclasta verbale e sociale della terrificante potenza di Groucho. Il modo in cui Groucho si pone di fronte al rito sociale è certo il più diretto fra quelli dei tre fratelli. Groucho, anzi, come si diceva, è in fondo l’unico che in parte si compromette col mondo, che ne accetta o ne sembra accettare – anche più di Chico – certi valori (il denaro in particolare); ma per canzonarli nel momento stesso dell’accettazione, per giocarvi, per carnevalizzare anche e soprattutto questo suo cedimento, questo suo compromesso. Il mondo dei Marx è dopotutto un mondo aneddotico, sostanzialmente derivato dalla struttura del vecchio vaudeville (e prima ancora del burlesque)
americano. Per certi versi i loro film altro non sono che una serie di sketch più o meno abilmente collegati gli uni agli altri dalla sceneggiatura di Ryskind, Kaufman, Perelman e altri. Il senso comico dei tre fratelli, o meglio – dato l’esempio – di Groucho si compendia in un paio di frasi irresistibili. In The Cocoanuts (1929) di Joseph Stanley e Robert Florey, Groucho sta corteggiando una ricca vedova, Mrs. Potter (la solita, eccellente Margaret Dumont): «Ci incontreremo questa notte sotto la luna. Oh, già la vedo – lei e la luna. Si metta una cravatta, così la riconoscerò». È un quadretto usuale, un’immagine quasi banale di felicità sentimentale. Ma la partner diventa immediatamente una luna piena e per riconoscerla è necessaria una cravatta. Groucho violenta il luogo comune del discorso e del quadretto romantico attraverso la rottura d’uno schema apparentemente statico e normale; rottura che si attua attraverso una violenza non direttamente operata ai danni degli elementi stretti del sistema, ma operante in un senso più generale (il paragone di una persona con la luna e quel che ne segue), e quindi anche in quello di un ribaltamento del sistema iniziale (la persona in questione è la presunta innamorata cui Groucho chiede un appuntamento romantico)48. L’astuta logorrea di Groucho non è soltanto lo stravolgimento di regole convenzionali e ingiustificate, ma la negazione totale di ogni regola raggiunta non attraverso l’aereo volo surreale di Harpo, ma attraverso l’aderenza incondizionata alla parola stessa. In questo senso opera naturalmente anche il travestimento, la maschera che Groucho adotta a supporto della sua corrosione logorroica. Groucho si insinua (o meglio, prorompe) in ambienti sociali per lo più elevati: l’alta borghesia, l’università, il mondo politico, quello del big business, quello della medicina, ecc. con la stessa noncurante indifferenza con cui strazia le regole logico-sociali del discorso comune a quegli ambienti. Le sue entrées sono a volte plateali, a volte non immediatamente individuabili, ma quasi sempre si prestano come trasgressione dell’attesa o attraverso l’imprevedibilità del modo (ad esempio in La guerra lampo dei fratelli Marx, 1933, di Leo McCarey), o attraverso l’eccesso (ad esempio, Animal Crackers, 1930, di Victor Heerman). È in questo secondo caso che la maschera, il travestimento gioca un ruolo centrale. Alle costanti esteriori del personaggio (baffi, sigaro, ecc.) si aggiunge la finzione esteriore (che è poi riflesso di quella interiore). Come scrive Eyles, «Groucho, l’apparente “integrato”, si veste solo per la parte senza condurla mai a compimento»49. In altre parole, non si tratta tanto della maschera intesa come diretto riferimento a uno status sociale che è il primo bersaglio della satira; ma piuttosto del valore della maschera costante che, paradosso estremo, viene coinvolta nella dissacrazione come un qualsiasi altro elemento. I baffi di Groucho, infatti, non sono, almeno sin verso la fine della sua carriera cinematografica, semplice maschera, ma maschera di una maschera. Dipinti sul volto, essi non sono solo puro tratto esteriore distintivo e caratteristico del personaggio, ma parodia del segno stesso. Il grottesco che Bachtin afferma insito nella maschera diviene così visione grottesca del grottesco stesso, metacritica conclusiva dei mezzi stessi della parodia. In Groucho e nei Marx in generale si sperimenta una creatività che è la miglior risposta – in chiave comica – al periodo; ma una creatività il cui senso è quello della dissoluzione. L’arte di Groucho è seminale per intendere lo sviluppo del comico – di un certo comico – nel passaggio dal teatro al cinema. È un passaggio non facilmente percettibile dalla tradizione del vaudeville burlesco americano50 e del teatro yiddish a quel cinismo che del sentimentalismo yiddish è l’esatto opposto e che caratterizza il personaggio di Groucho più ancora che Chico e Harpo51. Un cinismo che trova posto non a caso sullo schermo della Depressione, che ne è in qualche modo un rifiuto, una contestazione, una critica: certamente una risposta. Sul versante opposto, Eddie Cantor: l’eterno innocente, quell’americano medio per il quale era stato istituito l’ufficio di Will Hays, presidente – negli anni Trenta – della Motion Picture Producers and Distributors of America, che era però stato alquanto attivo in veste di censore sin dai primi anni Venti. Cantor non aveva visioni del mondo né stile di vita: i suoi occhioni sgranati osservavano le cose come se le vedessero per la prima volta. In certo senso egli incarnava davvero l’innocenza americana, ancora viva nonostante le durissime prove di quegli anni. Mentre W.C. Fields scandalizzava il borghese esprimendo il suo odio per bambini e animali («Un uomo che detesta tanto i bambini e i cani non può essere del tutto cattivo»), mentre i Marx deridevano fino all’insulto e all’oltraggio l’ipocrisia di capitalisti, poliziotti, intellettuali e politici, Cantor sembrava un piccolo marziano stralunato giunto sulla terra per caso, pieno di buone intenzioni, sincero e amichevole, non del tutto sprovvisto di presenza di spirito, ma pur sempre ingenuo in un mondo di corrotti. Cantor è la rinascita del Paese, Fields e i Marx sono la coscienza che, in ogni caso, dopo qualsiasi rinascita non può che ritornare un’altra volta la decadenza in un circolo al quale lo scetticismo è soltanto la più eufemistica delle risposte. Così, i Marx godono di fama politica per il loro La guerra lampo dei fratelli Marx, supposta satira del totalitarismo di destra europeo, perché la loro comicità è quella ribalda del demoniaco inteso come rivolta contro il sistema stabilito dell’Istituzione; è in vista di ciò che tanta critica ha portato acqua al mulino dell’interpretazione politica della loro opera. Ma è in realtà Cantor a essere rappresentativo della propaganda rooseveltiana, cantando ai disperati della Depressione che avranno una casa con il cielo per
tetto in Il museo degli scandali (1933) di Frank Tuttle, sì, ma soprattutto vivendo e muovendosi come se il mondo dovesse di necessità rispondere alla sua tenera curiosità in modi adeguati alla gentilezza e alla buona volontà che egli apertamente esibisce. Meno neutro di un altro stralunato di marca del cinema muto, Harry Langdon, Cantor ha la magrezza di chi sta vivendo nella crisi economica e non il biancore bambino di un essere senza età come Langdon. Eppure la sua voce lamentosa e velata (un altro segno adeguato alle difficoltà degli anni Trenta) suscita non tristezza ma simpatia, come Susie, Mandy e tutta la galleria di brave ragazze celebrate nelle sue canzoni, probabilmente povere in canna come lui, e come lui in Il tesoro dei Faraoni (1934) di Roy Del Ruth, destinate a ereditare una fortuna. Fra le sue chorines e le sue girls c’erano infatti Paulette Goddard, Betty Grable e Lucille Ball.
9. Il gorilla e Margherita: l’horror film Ma un altro musical si era affacciato sulla soglia degli anni Trenta. Non aveva violini né piano, né coreografie sfarzose o brillanti comedians; aveva però sempre una bella ragazza e un primo amoroso. E al posto del gangster, della Depressione e di altre difficoltà aveva un qualche mostro. Era l’horror film. A differenza dal musical l’horror aveva una gloriosa tradizione muta (si pensi soltanto al cinema espressionista tedesco), ma l’introduzione del sonoro, come ricorda Sklar, «forniva un contesto del tutto nuovo per rendere più reale il terrore: porte che stridono, ululati misteriosi, urli selvaggi»52. Le urla però ci interessano meno di altre evidenze. L’horror è infatti un magnifico terreno di rinvenimento per una componente di quegli anni che funge da cartina di tornasole. È in questo genere infatti che si rintracciano prove inoppugnabili di ciò che l’America stava diventando, anche in relazione alla grande crisi. Questa aveva infatti portato con sé un risentimento che gli Stati Uniti non si sarebbero mai più scrollati di dosso e che in questo decennio trovò strane incarnazioni. I perturbatori della quiete infatti vivono altrove. Sulle Alpi svizzere, in Carpazia. Dovunque ma non in America, il cui Immigration Office funziona come un orologio. Ma il cinema, come tutta la cultura, è mercanzia che non si ferma alle dogane. E dall’economia si passa alla biologia: ci penseranno gli anticorpi del sistema hollywoodiano, le regole stesse delle soap, delle horse operas e via dicendo a spuntare le armi all’invasore, anche e soprattutto quando fra le sue fila si annidano le quinte colonne del B-movie, i Benedict Arnold contraffatti di una cultura che sa come difendersi. Il film orrifico è il miglior terreno di battaglia. Il più insidioso probabilmente, ma anche quello più facilmente rilevabile dai topografi, militari e non. Teatro di scontri dei quali si è spesso perduta memoria, vale la pena curiosare brevemente negli archivi dell’esercito non tanto per ricostruire una porzioncina di storia quanto per investigare le possibili forme di una strategia, sperando che si prestino a figura dell’intera guerra. Tre anni dopo il Dracula (1931) di Tod Browning arriva una delle prime bordate europee: Edgar Ulmer gira The Black Cat (1934) che i titoli di testa proclamano «ispirato all’immortale racconto di Poe». In realtà di Poe non c’è traccia. È vero, un gatto nero circola due o tre volte per il film, presagio di malasorte guardato con terrore dall’incauta coppia americana ospite di una strana, modernissima villa austro-ungarica. Ma è l’unico, insufficiente debito pagato al padre statunitense del terrore moderno. Il film è in realtà permeato di Mitteleuropa. Il periodo è quello entre-deux-guerres; le forze che vi si confrontano sono incarnate dai due maggiori e classici attori del genere, Bela Lugosi e Boris Karloff, da sempre destinati a essere europei nella loro sinistra parte che durerà per decenni; il luogo è il vecchio Impero ormai distrutto, come le speranze, i furori, come le vite stesse dei personaggi. Lugosi cerca la moglie rubatagli da Karloff (non sa che è morta, non sa che è stata sostituita dalla figlia: e questo è tutto sommato abbastanza poesco) ed è uno psicanalista che probabilmente ha conosciuto Freud di persona, mentre l’altro è un architetto, che a sua volta immaginiamo non estraneo a Gropius (e, con più probabilità, allo stesso Fritz Lang); la casa di questi dispiega linee vagamente futuriste di un funzionalismo che interpreta i tempi. Ma sotto di essa si celano ben altre forme, ben altre linee: è la classica volta del torturatore, l’immensa cantina segreta dedicata a riti innominabili, nella quale alla fine un’ombra proiettata sul muro svelerà le tecniche di un sadismo (un personaggio sta per essere spellato vivo) che la coppia americana, capitata per caso in quel pianeta non poteva nemmeno supporre. Riti demoniaci? Culti satanici? «Supernatural baloney, mediumistic stuff», aveva sorriso il marito, aitante e pragmatico scrittore di mystery stories, cioè di fantasia al cui resoconto – una volta tornato in America – nessuno crederà. Un viaggio di nozze dalla piega imprevista sul quale lo humour nazionale sa ancora scherzare («Next time I’ll go to Niagara Falls», o, davanti al telefono inservibile nel momento culminante del pericolo e dell’orrore, «Even the phone is dead»). Gli adepti del culto sono scelti seguendo le istruzioni iconografiche di Grosz, e l’intera lotta fra i due protagonisti è uno spettacolo che rischia di coinvolgere in prima persona l’ingenua All-American Bride. Naturalmente rimarranno in vita soltanto i due malcapitati sposini. Ma ormai è chiaro: un vampiro si aggira per l’Europa, e presto arriverà anche in America. Non la fantasia d’importazione di Browning (peraltro ammirevolissima), ma una vera e propria sfida doganale che proseguirà anche nel decennio seguente.
Il riferimento a Poe sembra quasi d’obbligo in questi film, ma il loro vero interprete è l’espatriato, l’alieno, l’europeo. In The Raven (1935) di Louis Friedlander (americanizzato Lew Landers) l’immigrato Lugosi – che ha una venerazione per il Maestro americano del brivido – sottopone il padre della donna concupita al meccanismo del famoso pendolo, non prima di avere trasformato la sua bella, rispettabile, elegante magione americana in uno strumento di violenza e di morte (stanze che si restringono, false librerie che portano a luoghi di tortura, ecc.). E non prima d’aver sottoposto – in un’orgia d’abominio – il criminale Karloff a una operazione di chirurgia plastica che lo rende così mostruoso da poterlo ricattare per il futuro con la promessa di un nuovo intervento. Proprio nello stesso anno, per la cronaca, un altro espatriato, Karl Freund, lascerà alla folle chirurgia di Peter Lorre le mani del marito della donna amata con disastrosi risultati in Amore folle (1935). Scienza, architettura, medicina, convenzioni sociali: l’immigrato non si ferma davanti a nulla, non ha etica, non ha religione. Il suo unico scopo è la conquista di un’America pallida, bionda, indifesa. Del resto, una specie di prova generale del modello era stato Il Dottor Miracolo (1932), ulteriore falsificazione poesca questa volta firmata da Robert Florey, altro autore con radici europee, dove, in una Parigi degna di Robert Wiene, una sorta di Caligari che in un baraccone da fiera53 osa spogliare la storia dell’uomo delle sue componenti spirituali in un darwinismo da biglietto a riduzione cui manca solo la sfera di cristallo, ossessiona la solita innocente per i soliti turpi scopi (in questo caso delle ricerche biologiche che implicano la trasfusione di sangue di scimmia in quello umano: ma rigorosamente femminile). Il luogo degli eventi è comunque altrove, dall’isola dimenticata di King Kong (1933) di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack all’Egitto di La mummia (1932) di Karl Freund, all’Austria di Frankenstein (1932) di James Whale. Come nella tragedia elisabettiana, gli orrori avevano il loro teatro – o quantomeno la loro origine – in un altro luogo. È vero che King Kong era in definitiva un’apologia del bestione contro il cinismo bramoso e stolido dell’imprenditore, ma è anche vero che il sistema del Capitale non era stato minimamente intaccato (neanche con la minaccia del crollo di uno dei suoi emblemi: l’Empire State Building) dall’arrivo dello scimmione. Il tema faustiano sotteso a tutti i film orrifici è peraltro una costante della letteratura americana, come ha ben dimostrato Lesile A. Fiedler54. In tal modo i folli scienziati europei, i mad doctors pieni di assurde e pericolose illusioni poterono trovare sugli schermi statunitensi, e prima ancora sui blacklots della Universal, un ottimo terreno di coltura, come diremo anche più avanti. Vi è poi l’innegabile componente pastorale di pellicole come Tarzan l’uomo scimmia (1932) di Woodbridge S. Van Dyke e lo stesso King Kong, e giustamente Jean-Loup Bourget in un suo peraltro deludente libro la evidenzia in quanto termine d’opposizione – concreto o ideale – a quello della Città55. Solo, non ci sembra si tratti tanto d’un “ideale”, come afferma il critico francese, quanto – al contrario – di un rifiuto. Quella stessa terra che per molti decenni era stata il punto di riferimento di un’ideologia agraria vede nel crollo del mercato alla fine degli anni Venti il suo momento di maggior crisi. Non a caso tutta la propaganda rooseveltiana tenderà a rilanciarla, dai documentari di Lorenz all’estremo rappresentante di questo vero e proprio movimento, il John Ford di Furore (1940). In questa chiave, anzi, può persino essere letta la presa di posizione dei Fugitives sudisti guidati da John Crowe Ransom col manifesto «I’ll Take My Stand», una proposta delle stesse istanze rooseveltiane ma con segno contrario, emblema di una posizione d’arroccamento al mito della terra e non a una sua reale cura (una posizione, del resto che tornerà anche nel cinema non “sociale” fino a tutti gli anni Trenta, come dimostra lo stesso Via col vento). Nati ancora negli anni Venti come reazione all’industrialismo e all’urbanizzazione (nonché a posizioni critico-letterarie conseguenti, come quelle sociologiche ed extratestuali in genere) i Fugitives si ritroveranno a essere, sia pure da destra, uno stendardo del rilancio agricolo (o meglio, nel loro caso, di un’ideologia agricola) negli anni Trenta. Macchine e ricerca scientifica divengono a loro volta rappresentative di un progresso pericoloso (e, per estensione, di quello stesso capitalismo che aveva portato alla grande crisi). Ecco dunque come si struttura l’opposizione di fondo sul terreno dell’ideologia e delle immagini che la incarnano. Tarzan non è semplicemente “l’uomo scimmia”, egli è un essere libero e felice, e la sua famiglia (Jane e Cheeta in un primo tempo, poi anche il figlioletto) non è tanto diversa nello spirito da quelle occasionali ed eloquenti unioni che certa screwball ci propone in questi anni, da Accadde una notte in avanti. Il cinema fantastico punisce l’orgoglio ma non permette nemmeno sovversioni di un ordine che tuttavia intuisce criticabile e addirittura ingiusto e crudele (come in King Kong). L’ordine va salvato a qualunque costo, poco importa se la Depressione l’ha a sua volta destituito. L’ordine nel disordine è la frase-chiave per comprendere l’intero cinema americano di questi anni e per rendersi conto di come mai le assurdità hollywoodiane, da quelle della screwball a quelle dell’horror, finiscono con un mondo sempre a posto, ineccepibile, addirittura tranquillizzante: la caduta di King Kong dal grattacielo equivale, in chiave tragica, al crollo delle ossa del dinosauro alla fine di Susanna. Lo strano, il diverso,
l’alieno non possono lasciare il posto ai tranquillizzanti modelli, sociali o sentimentali che siano, noti e collaudati. Questa è una certezza che il cinema degli anni Trenta instillò nel suo pubblico molto più di quanto lo stesso Roosevelt riuscì a fare con le sue riforme. E Hollywood nel momento stesso del suo innegabile rinnovamento post-muto si presentò – come sempre aveva e avrebbe fatto – più realista del re. 1 Cfr. L. Jacobs, op. cit., pp. 220-24. 2 Cfr. Andrew Bergman, We’re in the Money: Depression America and Its Films, Harper & Row, New York, 1972, p. XIII. 3 Ivi, p. 10. 4 Ecco qui una lista cronologica doganale appena indicativa degli espatriati europei in America (alcuni tuttavia non sono di origine ebraica): William Wyler (1920), Josef von Sternberg (dai primi anni Venti), Ernest Lubitsch (1922), Edgar Ulmer (una prima volta nel 1926, ma vi si stabilisce nel 1930), Jean Negulesco (1927), Michael Curtiz (1928), William Dieterle (1930), Karl Freund (1933), Fritz Lang (1934), Billy Wilder (1934), Otto Preminger (1935), Anatole Litvak (1937), Robert Siodmak (1940), Douglas Sirk (all’inizio dei Quaranta), Jean Renoir (dal 1940 al 1947), René Clair (dal 1942 al 1945), Max Ophuls (dai tardi anni Quaranta). 5 Cfr. George N. Fenin e William K. Everson, The Western, Penguin Books, Harmondsworth, 1977, pp. 209-10. 6 E persino nella commedia. Raymond Durgnat scrive che è da questi anni che «la predominanza femminile diventa un tema ricorrente, e spesso una premessa della commedia. E potrebbe essere argomentato che la disoccupazione durante la Depressione ha facilitato un – probabilmente inevitabile – cambiamento nelle relazioni sessuali. Essa allontanò gli uomini dai posti di lavoro, mentre le donne venivano sempre più assunte: le donne trovarono davvero più facilmente lavoro, dal momento che le loro paghe erano più basse. Di qui il tema della donna che tiene il laccetto del borsellino e dell’uomo come gigolo. Ma sembrerebbe anche che il tema del gigolo che, sotterraneamente, corre lungo un sorprendente numero di film americani, in parallelo al contrasto comico tra aplomb femminile e goffaggine maschile, abbia la sua origine nella situazione del “mammismo”, le cui cause sociali sono alquanto diverse; e che l’attenzione accordata alla Depressione sia solo un aspetto dell’emancipazione femminile». Cfr., di Durgnat, The Crazy Mirror: Hollywood Comedy and the American Image, Faber & Faber, London, 1969, p. 139, nota 1. 7 O come dice A. Bergman: «Hollywood aiutava le istituzioni di base della nazione ad uscirne incolumi tentando di mantenere vivo il mito e la splendida fantasia di una società mobile e senza classi, puntando sulle possibilità infinite di successo individuale, trasformando il male sociale in male personale e il New Deal in un vero e proprio protagonista». Op. cit., p. XVI. 8 Cfr. Clive Denton, Henry King, A.S. Barnes, New York, 1974, pp. 19-20, nella collana «The Hollywood Professionals». 9 Cfr. John Baxter, King Vidor, Monarch Press, Simon & Schuster, New York, 1976, p. 55. 10 Si tratta di lenti tali da concentrare un’ampia visione di campo in un piccolo spazio e che consentiranno già il recupero di tutta l’ampiezza di visione al momento della proiezione della pellicola. 11 La storia dell’ascesa e della caduta del Technicolor agli inizi della sua vicenda meriterebbe attenzione: basti qui ricordare che, incerta sul fato del sonoro, l’industria concesse particolare credito al colore attorno al 1929. In quell’anno il procedimento Technicolor, come si diceva, ancora imperfetto (il processo era ancora a due colori, rosso e verde: nel 1932 venne aggiunto il blu), fu impiegato per 17 lungometraggi sonori e nel 1930 per più del doppio. Quando però nel 1932 fu chiaro che il film sonoro avrebbe avuto vita lunga e felice la richiesta di Technicolor crollò. La tecnica, tuttavia, tornò subito in auge dopo che Disney, nel disperato tentativo di salvare il suo studio, la adottò con formidabili risultati in Flowers and Trees (1932). 12 Naturalmente la rozza classificazione di cui sopra esclude ogni riferimento al cinema documentario così come al cartoon. 13 Cfr. A. Bergman, op. cit., p. 17. 14 Cfr. S.L. Karpf, “The Gangster Film”, in The American Cinema, a cura di Donald E. Staples, Voice of America-Forum Series, Washington, 1973, p. 252. 15 Lo sostiene brevemente, ma in modo convincente, anche Colin McArthur, Underworld USA, Secker & Warburg, London, 1972, pp. 34-35. 16 Cfr. James R. Parish, The Tough Guys, Rainbow Books, Carlstadt (N.J.), 1977, p. 22. 17 Cfr. S.L. Karpf, op. cit., p. 252, e J.R. Parish, op. cit., pp. 442-43. 18 J.R. Parish, op. cit., pp. 24-25. 19 Cfr. A. Sarris, “The World of Howard Hawks”, in Focus on Hawks, a cura di J. McBride, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1972, p. 39. 20 Cfr. C. McArthur, op. cit., p. 39. 21 J.L. Parish (op. cit., p. 23) fa notare che gran parte dei delitti di Tom avvengono fuori dallo schermo. Anche in questo senso il rapporto fra il personaggio e Macbeth è non poco stretto e ci riporta a un bel saggio di Wayne Booth (“Shakespeare’s Tragic Villain”, Shakespeare’s Tragedies, a cura di L. Lerner, Pelican Books, 1963) nel quale il critico dimostra magistralmente l’attenuazione, nel pubblico, del giudizio morale verso il protagonista criminale attraverso alcuni espedienti psicologici di rappresentazione. Anche David Thomson, nel suo America in the Dark, Morrow & Co., New York, 1977, p. 160, ritiene peraltro che sin dall’inizio i gangster film della Warner mostrino una «gioventù di forte spirito mal cresciuta» dall’ambiente e dalle circostanze sociali. Del resto lo stesso Thomson sottolinea che con film come Mayor of Hell (1933) e altri istituendo la figura dell’ex gangster deciso a compiere buone azioni la Warner intende «fare ammenda indirizzando in una più degna direzione l’energia che aveva sollevato»: op. cit., p. 167. 22 Cfr. C. McArthur, op. cit., p. 66. 23 Cfr. Stuart M. Kaminsky, American Film Genres, Dell, New York, 1977, pp. 30-32. 24 Sull’argomento ci permettiamo di rimandare (anche per quanto riguarda il genere in epoca contemporanea) al nostro Il nuovo cinema americano (1967-1975), Marsilio, Venezia, 1978, pp. 42-43. Dobbiamo però aggiungere qui che, alla luce di quanto appena detto, pur sottoscrivendo la sostanza del discorso ormai classico proposto da Robert Warshow (si può leggere la traduzione italiana dell’articolo di Warshow, Il gangster come eroe tragico, «Calibano», n. 2, 1978), il critico americano ha tuttavia trascurato di accordare la dovuta attenzione al gangsterismo rurale. È d’altro canto vero che alla fine dei Quaranta (data di stesura e pubblicazione del noto articolo) non si era ancora stabilita una tradizione cinematografica dello small town gangster (o gangster rurale), la quale comincerà più o meno una decina d’anni dopo con film come Femmina e mitra (1958) e Ma’ Barker’s Killer Brood (1960), per cui la compattezza del lavoro di Warshow non ne esce intaccata. 25 Cfr. A. Bergman, op. cit., pp. 3 e 16. 26 Cfr. C. McArthur, op. cit., p. 38. 27 Un discorso importantissimo che in questa sede non possiamo permetterci: il rapporto fra musical teatrale e cinematografico. 28 È vero, come ricorda Ermanno Comuzio, che il gigantismo degli oggetti non è un’invenzione di Berkeley, ma la lacerazione dello spazio è idea tutta sua. Cfr., di Comuzio, Il musical americano degli anni Trenta in bilico fra Depressione e New Deal, «Cineforum», 141-142, febbraio/marzo 1975, p. 143. 29 E dunque il cinema di Berkeley non può essere semplicemente definito come costituito da «formalmente brillanti ma in definitiva vuoti numeri di canto e danza ed elaborate composizioni visuali». Cfr. Thomas Elsaesser, Vincente Minnelli, «The Brighton Film Review», 15, dicembre 1969, p. 13. 30 Le gold-diggers non sono un’invenzione di Berkeley: si veda un’altra data indicativa: il 1929, l’anno di Gold Diggers of Broadway. E quanto a date, non è una caso che l’ultimo gold-diggers film di Berkeley, Gold Diggers in Paris (1938) sia situato a Parigi, e che in realtà
già in L’amore in otto lezioni (1937) la “figura” si sia svuotata di ogni connotazione morale controversa: al contrario, insieme a Dick Powell, Joan Blondell esemplifica qui un’onestà assoluta ben lontana dal simpatico cinismo che l’aveva caratterizzata nei due precedenti film della serie. 31 Siamo molto lontani dalla quotidianità mitica – perché eccezionale – di un personaggio come Shirley Temple, emersa proprio con un musical sulla Depressione, Il trionfo della vita (1934) di Hamilton McFadden, suo sesto lungometraggio: per rappresentante della quotidianità che fosse, la Temple nel momento in cui entrava in scena diventava fenomeno. Inoltre vale la pena sottolineare che proprio tra la fine dei Trenta e l’inizio dei Quaranta – in concomitanza con l’avvento del personaggio-individuo e con l’affossamento del “carattere” – si affaccia, anche nel musical, il tema, peraltro funzionale, della psicanalisi: da Girandola (1938) di Mark Sandrich a Schiave della città (1944) di Mitchell Leisen. La componente psicanalitica troverà ampio terreno per esercitarsi, nei Quaranta, prima di tutto nei crime movies, poi nel western, da Notte senza fine (1947) di Raoul Walsh in avanti. 32 Cfr. A. Croce, The Fred Astaire & Ginger Rogers Book, Vintage Books, New York, 1977, p. 103. 33 Ci sembra peraltro eccessivo affermare che i musical diretti e/o coreografati da Busby Berkeley per la Warner all’inizio degli anni Trenta erano «duri ed esuberanti, non sentimentali e romantici», come scrive Jerome Delamater in S. Kaminsky, op. cit., p. 160. 34 Ivi, p. 162. 35 Cfr. per tutti Leo Braudy nel suo fine The World in a Frame, Anchor Press/Doubleday, Garden City-New York, 1977, pp. 142-43. 36 Cfr. M. Roth, Some Warner Musicals and the Spirit of the New Deal, «The Velvet Light Trap», 15, Spring 1977, pp. 1-7. 37 A. Mayer e R. Griffith, The Movies, Bonanza Books, 1957, cit. da R. Durgnat, op. cit., p. 121. 38 Ivi, p. 119. 39 Quella dello spiantato che mette ordine nella vita caotica dei miliardari è una vera tradizione degli anni Trenta e non un tema esclusivo di Capra: si pensi al delizioso La ragazza della 5a strada (1939) ancora di La Cava. 40 Cit. da A. Bergman, op. cit., p. 142. 41 Ivi, pp. 81 e 78. 42 Ivi, p. 79. 43 La casa, col nome di Paramount Publix, fece bancarotta nel 1932, e grazie alla West nel 1935 era di nuovo sulla cresta dell’onda col nome Paramount Pictures. 44 Cfr. C. Rourke, op. cit., p. 294. 45 Cfr. A. Eyles, The Marx Brothers, Their World of Comedy, A.S. Barnes, New York, 1969, p. 7. 46 Cfr. Noël Simsolo, Les Marx Brothers, «La Revue du Cinéma - Image et Son», 247, Février 1971, p. 63. 47 Cfr. A. Eyles, op. cit., p. 52. 48 Sull’aspetto tecnico-teorico dell’umorismo di Groucho ci permettiamo di rimandare al nostro I baffi di Groucho, «Il Verri», 3, novembre 1976, pp. 73-93, articolo al quale si sono direttamente ispirate queste righe. 49 Cfr. A. Eyles, op. cit., p. 159. 50 Non sarà inutile a questo punto citare la Rourke, contemporanea dei Marx: «Il teatro leggero è ancora una forma americana di spettacolo profondamente radicata, fresca e caratteristica, un luogo di sovrabbondanza e di sperimentazione, che rivela in sketch originali molte ampie pieghe del carattere americano, le effervescenze del momento, le ossessioni correnti, le reazioni popolari, le fasi momentanee di umorismo. Esso è allegro e pieno di lively art; in esso sopravvive ancora il trionfo dell’umorismo». Cfr. C. Rourke, op. cit., p.296. 51 Cfr. R. Durgnat, op. cit., p. 153. 52 Cfr. R. Sklar, op. cit., p. 208. 53 Il suo parente cinematografico più stretto in America è probabilmente lo Svengali dell’omonimo film diretto da Archie Mayo nel 1931, un piccolo capolavoro di perversione che, in una cornice scenografica dichiaratamente espressionista (soprattutto nel primo tempo) mostra presto la corda della ciarlataneria del protagonista (un grande John Barrymore), ma anche la sua efficacia, la sua natura votata al male e all’inganno. Vale la pena ricordare che nello stesso anno un altro immigrato, Michael Curtiz, ne girerà il seguito, The Mad Genius (1931), sempre con Barrymore. 54 Cfr. Leslie A. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano, 1982, passim. 55 Jean-Loup Bourget, Il cinema americano, a cura di Vito Attolini, Dedalo, Bari, 1985, p. 83.
Capitolo secondo GLI ANNI QUARANTA: COMINCIA IL XX SECOLO! «Tutti i miei coetanei sono cresciuti, in qualche misura, nel XIX secolo, perché il XX è cominciato soltanto nel 1945. Perciò siamo così angosciati, perché siamo stati costretti a compiere uno degli sforzi culturali più lunghi e più bruschi dell’intera storia dell’umanità. Ciò che io ero prima della seconda guerra mondiale mi sembra lontano assai più che quattro decenni; quasi, semmai, altrettanti secoli». John Fowles, Daniel Martin
1. La riscoperta dell’individuo Gli anni Trenta si chiudono con due film che il caso vuole girati dallo stesso regista (Victor Fleming) per la stessa casa produttrice (la Mgm) nello stesso anno (il 1939): Il mago di Oz e Via col vento. Sono superproduzioni (soprattutto il secondo) che vanno lette in una chiave storica. Non tanto perché nella vicenda di Dorothy e dei suoi amici può essere adombrata quella dell’America della Depressione e della sua vittoria, né perché quella di Scarlett dichiari espressamente una volontà di sopravvivenza esemplare (la forza della ragazza e il continuo riferimento alla terra); quanto perché queste due sfarzose produzioni segnano l’addio sia al cinema di impegno sociale (peraltro già storicamente esaurito dal 1934), sia a quello di (supposto) disimpegno legato a standard di genere leggero, costruito su modelli complessi e precisi ma sempre obbedienti a regole collaudatissime, e soprattutto attento a calibrare dosi d’assurdità di realtà in parti equilibrate. Hollywood abbandonò le tematiche “dure” come quelle di sesso e violenza dopo la pressione sull’ufficio Hays della Legion of Decency, un’organizzazione cattolica alla quale si associarono anche i rappresentanti di altre confessioni. Dopo che Hays era riuscito a far togliere alle mucche di Walt Disney le mammelle non meraviglia che la seconda metà degli anni Trenta sia stata caratterizzata da un cinema non poco asettico, anche se spesso felicemente fantasioso e riuscito sul versante dell’umorismo, del ritmo e a volte persino della critica politica (cfr. Frank Capra). Allo stesso modo la screwball e la commedia sofisticata avranno sempre meno spazio e il genere passerà da un meccanismo a orologeria o descrizione d’ambiente a palcoscenico per i primi nuovi comici del decennio (le coppie Bob Hope e Bing Crosby, Abbott & Costello, ecc.). Il mago di Oz e Via col vento sono due fiabe: ambedue riguardano qualcosa che non esisteva o che non esisteva più (o che non era mai esistito). Ambedue celebravano il coraggio e la simpatica testardaggine di chi non si rassegna a quello che sembra essere il destino. Ambedue esibivano un colorismo grandioso, una scenografia vivace, costumi sgargianti, proponendo uno spettacolo di dimensioni non comuni. In certo senso, questo era l’addio al triste decennio, una rivalsa a suon di musiche e di luce contro la cupezza dei primi anni di buio e frastuono. In fondo ambedue le pellicole inscenano, sia pure indirettamente, due miti agrari. Oz è un reame fatto di prati e di fiori, e il Sud di Scarlett – per quanto bistrattato e drammaticamente ferito – è ancora una terra capace di fornire agiatezza. Ambedue fantasie di “ricostruzione”, le pellicole non sono però tanto riassuntive di un percorso storico quanto idealmente rappresentative di uno spirito che ormai non riguarda più il passato ma che anzi se ne sbarazza con un ritorno gioioso al mondo amabile e noto verso il tempo felice che lo precedeva («Non c’è nessun posto come casa mia!») o con una pragmatica dichiarazione piena di concretezza e praticità («Ci penserò domani!»). Il mago di Oz e Via col vento sono per così dire il dramma satiresco del ciclo tragico fornito dalla Depressione: il primo in modo evidente, il secondo con quella sua capacità di ribaltare in comicità e leggerezza anche indiscutibili tragedie sia storiche che familiari (si pensi solo alla caratterizzazione dei personaggi negri o delle vecchie signore meridionali). La rivolta contro il destino si giustifica in un mondo in cui il destino è tragico. Ci vuole una sentenza come quella di Zeus perché Prometeo trovi la forza di alimentare la sua hybris. I primi anni Quaranta sono tutto tranne che anni di hybris. Il contrasto fra pubblico e privato che aveva percorso l’intero decennio precedente era ormai scomparso. Finita la crisi, l’America si riscopriva nei valori e persino nelle forme della sua tradizione e del suo mito. Certo, l’esperienza era stata amara e l’occhio non sarebbe mai più stato così innocente come aveva creduto (e aveva soltanto creduto) di essere prima: i Quaranta sono anni di riflessione, di pausa, anni involuti, psicologicamente difficili, nei quali si scopre che il destino esiste. Non è naturalmente il destino che voleva la nazione in ginocchio, povera, avvilita, distrutta; al contrario, è proprio in un momento di ripresa del benessere che il destino – paradossale come sempre – bussa alla porta. Il passaggio è relativamente semplice: rilanciato in modo vigoroso quell’individualismo che aveva vacillato sotto i colpi della Depressione, ecco che subito questa classica ideologia americana trova dialetticamente ragioni di incrinamento, di difficoltà. Lo schermo hollywoodiano lo proclama ora ad alta voce: l’individuo esiste, e non è certo più un problema il dimostrarlo. Quel che invece è difficile è il processo della sua personale affermazione, quel che lo turba
sono i condizionamenti ambientali, i quali non significano necessariamente povertà di natali e handicap sociali in genere. Non è dunque del tutto vero quel che afferma Michael Wood, secondo cui gli anni Quaranta nel cinema sostituivano a questioni di moralità privata questioni di moralità nazionale, ma lasciando da parte ciò che riguardava le classi e la politica»1. In fondo tutta la serie di film alto-sociali con Bette Davis – non a caso prodotti dalla casa più sensibile ai problemi di classe e a quelli sociali in genere negli anni Trenta, la Warner – può essere letta come critica a un mondo, a costumi e mentalità precisi. Se l’individuo degli anni Trenta per affermarsi doveva ribellarsi alla miseria del suo ambiente, come Rico e Tom, rivelando in questo modo che il milieu gioca un suo ruolo nella creazione del delinquente, con i Quaranta le cose sono identiche e opposte. La sofisticata Charlotte di Perdutamente tua (1942) di Irving Rapper che, ricchissima e affascinante sale la scaletta del transatlantico che la porterà in crociera era stata fino a poco tempo prima una sorta di Cenerentola timida e nevrotica schiacciata dalla prepotenza del carattere materno. L’America ci dice che i meccanismi socio-psicologici non sono certo cambiati col volgere della decade: quel che è cambiato è l’ambiente, il rapporto col denaro, la scenografia quotidiana. Dunque il problema non era soltanto di non soffrire mai più la fame, come aveva giurato Scarlett, ma di non soffrire mai più, o meglio, di trovare un modo per affermare la propria identità personale (e nazionale) davanti al mondo, compreso quello familiare. La corsa al successo nel cinema americano dei Quaranta ha poco a che vedere con quella degli anni Trenta. Non c’è violenza non c’è inganno, non c’è filosofia crudele che la muova o la teorizzi. Al più, come in Piccole volpi (1941) di William Wyler, crudeltà e inganno emergono come marchi di fabbrica, per così dire, di un’intera classe sociale, ma non come mezzi di riuscita individuale in un mondo che non lascia spazio né respiro al povero e al debole. Famiglie come quella di Wyler non sono tuttavia esemplari, rappresentative del tipo di nucleo che caratterizza questi anni nel cinema hollywoodiano. Molto meglio, ad esempio, la serie di “Andy Hardy” (cominciata nel 1937 e finita nel 1958), e in genere quei musical tipo I ragazzi di Broadway nei quali lo «I want success so!» pronunciato infinite volte in infinite (e in fondo sempre uguali) circostanze da Mickey Rooney – come sottolineava anche l’antologia C’era una volta Hollywood (1974) curata da Jack Haley Jr. – esprimeva tutta l’ingenuità ma anche la caparbietà della piccola America, di quel mid-west che per primo aveva vissuto la tragedia della Depressione e che trovava ideale immagine in La nostra città (1940) adattato per lo schermo da Sam Wood. In certo senso si tratta di un altro rilancio della Frontiera: ovviamente non nel senso del pionierismo, dell’esplorazione, dello sfruttamento, bensì nel senso in cui – ancora una volta – un’ideologia che aveva vissuto momenti non poco duri alcuni anni prima si riaffacciava e riproponeva i suoi miti sia in termini idilliaci (come in parecchio musical casalingo all’inizio dei Quaranta) sia drammatici (come in parecchio melodramma). Il melodramma, peraltro, abbandonate le vesti della quotidianità, della problematica sociale, degli scontri di classe e così via, assunse sempre più le vesti della “heroic tragedy”. Gesti nobilissimi, rinunce superiori, sacrifici spassionati ed esemplari: questo, si dirà, era stato anche nel melodramma anni Trenta, come insegna l’ultracitato Amore sublime. Si, ma negli anni Quaranta si piange di meno, la retorica ha invaso lo schermo in modo secco e sottile, i violini miagolano ancora sullo sfondo ma troppo numerosi e insistenti per essere creduti. “Heroic tragedy”, abbiamo detto, e non a caso. Queste tragedie – se di tragedie si può parlare («La formula hollywoodiana per costeggiare la tragedia senza contemplare il suo volto disperato», scrive Wood2) – non hanno la nobile qualità elisabettiana, ciò che muove i loro eroi, e ancor più le loro eroine, non è la lussuria o l’orgoglio. No, l’atmosfera è qui più raciniana, il contrasto è più spesso fra amore e dovere, la tragedia non sorge dall’incapacità di rinuncia, ma dal suo contrario, O meglio, la rinuncia ne è il coronamento: dal citato Perdutamente tua – uno dei più bei melodrammi usciti da Hollywood – a La grande menzogna (1941) di Edmund Goulding, i grandi melodrammi Warner sono pieni di donne superiori che sublimano il loro amore impossibile. Come nella tragedia eroica della Restaurazione inglese una classe celebrava se stessa, qui è una nazione che ama esibire i sentimenti più alti, le scelte più ammirevoli e nobili in un narcisismo molto più radicale di quanto può apparire. Del resto, si tratta di un’età di scelte, e molto più definitive di quelle a suo tempo imposte dalla Depressione. La questione dell’intervento in Europa infiammava l’intero Paese trovando fieri detrattori e difensori. Orgoglio, nobiltà e sacrificio sono il motore primo di non poche pellicole non solo in termini di scelta, ma semplicemente come esemplificazioni di coraggio individuale, di volontà personale. Ma questa volta non nella direzione del successo sociale ed economico, bensì in nome di un’umanità sofferente che è intenzione dell’eroe di turno soccorrere e alleviare dei dolori. Proprio in questo decennio si sviluppa infatti quel genere “biopics”, incentrato sulla biografia romanzata di noti personaggi della scienza e della cultura; che la Warner aveva incominciato a sfruttare qualche anno prima: Un uomo contro la morte (1940), La vita di Giulio Reuter (1941), ambedue di William Dieterle, Madame Curie (1943) di Mervyn
LeRoy, ecc. Scienziati, pionieri, giornalisti, benefattori vari sono gli eroi indomiti di queste pellicole che esaltano gli ideali superiori perseguiti dai protagonisti fra cento difficoltà. Si tratta di qualcosa che tende verso il bene comune, si tratta – se vogliamo – di un newdealismo che non sarà certo difficile rintracciare in varie produzioni del periodo (si ricordi quanto dicevamo di John Ford nel capitolo precedente), ma che questa volta, nell’insieme, ritorna a infiammare il singolo – sia pure per il benessere della comunità – senza divenire programmaticamente ideale per un’azione comune, o anche semplice ideologia di ripresa e ricostruzione.
2. La filosofia del tempo: Orson Welles e il New Deal Su un terreno decisamente critico e cinematograficamente originale lo stesso Orson Welles riprenderà questa connessione nei suoi primi film. Non sappiamo se si tratta dei primi esempi di cinema moderno in contrapposizione alla fine del cinema classico che, si suppone, è rappresentata da Via col vento3. Sappiamo però che l’elenco di componenti fornito da Bourget a sostegno dell’affermazione non ci convince affatto. Scrivere, ad esempio, che l’esperienza radiofonica indusse il regista «a caricare la colonna sonora (di Quarto potere, 1941) con un’informazione per così dire eccessiva, esempio nuovo e originale di una tecnica tradizionale applicata a un medium che le era sino a quel momento estraneo»4 non vuol dire proprio che l’originalità di Welles ne esca mutilata, come invece Bourget afferma. Al contrario, è suo merito avere utilizzato ideali suggerimenti forniti da un altro medium. Allo stesso modo, non ha senso porre fra i “precedenti” di Quarto potere negli anni Trenta l’esperienza teatrale di Welles. Che significa? Che aver lavorato in teatro fu per lui riduttivo nei confronti del posteriore lavoro cinematografico? O che la sua originalità ne risentì? O che essa ebbe modo di estrinsecarsi di più sul palcoscenico? Obiezioni del genere non hanno senso, sono mal poste e comunque mal formulate. E il fatto che vi sia qualche traccia di espressionismo tedesco nella fotografia di Gregg Toland non tarpa certo le ali al film che secondo François Truffaut provocò più vocazioni al cinema di qualsiasi altra pellicola mai fatta. Comunque, come si diceva, nei suoi rapporti col New Deal e con l’influenza che questo avrebbe ancora avuto – ovviamente in modo indiretto – sul cinema del periodo, Quarto potere è un film eloquente. Irriducibile a filoni, generi, ecc., esso dimostra fra l’altro come anche un’opera personalissima, originale e comunque non riconducibile ad alcuna tendenza non può non risentire di un clima che non si era ancora spento o che almeno aveva ancora una forte influenza sulla produzione cinematografica nazionale e in genere sulla cultura statunitense del tempo. Non intendiamo certo affermare che Quarto potere si adegui alle istanze rooseveltiane del decennio precedente e che Welles si prospetti come un tardivo sostenitore del presidente ancora in carica. Al contrario, la posizione del regista è sicuramente critica: quel che conta è che nel 1941, quando il New Deal era ormai un ricordo, un autore della personalità di Welles decida di formulare una critica. Welles, che per sua esplicita dichiarazione era legato idealmente e personalmente al gruppo di Roosevelt, tenne però a distaccarsi dalla figura classica dell’intellettuale americano del tempo; e a ragione, poiché molto più chiaramente di questi egli denunciò l’ambiguità del Capitale, che è, poi, probabilmente a sua insaputa, quella del New Deal. Quarto potere è una chiara denuncia di questa ambiguità: Kane da un lato è un ricchissimo proprietario, un magnate, un azionista e un capitalista; dall’altro è un democratico, un progressista in lotta, si badi, anche contro se stesso. Ecco, genialmente Welles ci mostra le due facce del Capitale, la sua struttura imprenditoriale e conservatrice, e la sua secrezione liberal, radicale, riformista. Come è stato detto, ambedue sono maschere, volti del Capitale. Orbene, non sono queste le stesse maschere, gli stessi volti del New Deal? Radicale, empirista, nazionalista, economicamente imperialista, progressista, antioperaio, espansionista, individualista tutt’insieme. Quello di Kane è puro riformismo, come quello di Roosevelt: salva il sistema ma non lo trasforma, come dice lo storico Louis Hartz. Ciò che si trasforma è il Capitale, il suo volto attraverso le diverse crisi, sempre salvandosi nelle sue cento maschere (e la maschera, reale e metaforica, comparirà anche nella storia bellissima di un altro mitico capitalista wellesiano, Arkadin). In questo senso il tema del Tempo – o meglio, per così dire, della sua forma – è centrale in Welles (e non solo nei primi film). Esso si presenta subito secondo un preciso aspetto contrastivo, una chiara opposizione. In Quarto potere abbiamo da un lato la presenza determinante della vecchiaia. Da Susan a Thatcher, da Leland a Bernstein, tutti i personaggi in qualche modo centrali nella vita di Kane sono presentati ormai impotenti, deboli, superati testimoni-protagonisti delle vicende relative al passato del magnate. È il tema, caro a Welles, della decadenza, della corruzione fisica, dell’effimera labilità delle grandi passioni che caratterizzano la giovinezza e la stessa maturità, condannate al balbettamento della memoria da un ciclo biologico inesorabile (si pensi soltanto a quel monumento al passato – la cui assurdità è scandita dagli insensati toni burocratici della segretaria e dalla stessa irrealtà quasi espressionista della luce e di un’architettura che per certi versi anticipa Il processo (1963) – che è il Museo Thatcher). Dall’altro lato, invece, l’eternità del denaro, o meglio, del Capitale (lo afferma Kane stesso: i
suoi soldi, anche a volerli buttar via, durerebbero più della sua stessa vita). Ma dire eternità del Capitale è comunque semplicistico: viene in mente il Conrad di Nostromo (un autore particolarmente caro a Welles che aveva preparato una versione cinematografica di Cuore di tenebra) e la generica, ma non per questo poco significativa “eternità” dell’argento nella miniera di Sulaco. La domanda è dunque: quale forma di eternità? In realtà il Tempo del Capitale è un tempo ciclico, continuamente in cerca di se stesso, è il tempo della produzione che ne è l’unica discriminante, un tempo iterato, una continua ripetizione di se stesso in quanto funzione dell’inesorabile ciclo produttivo. Il suo pendant strutturale in Quarto potere è appunto l’iterazione dei fatti stessi (narrativamente visti attraverso gli occhi dei personaggi-testimoni), i quali, sebbene narrati da persone diverse, ci mostrano in sostanza sempre un unico volto poiché infatti la problematica del personaggio Kane non nasce da versioni diverse dei fatti che lo riguardano (se così fosse, almeno una di esse sarebbe la verità – o la via alla verità – mentre invece nessuna dà al giornalista la chiave cercata), ma da una relativa carenza di informazioni e dall’oggettiva complessità del suo carattere di uomo pubblico e privato. L’iterazione del Tempo, la ripetizione che ne struttura la ciclicità si ritrova facilmente anche in L’orgoglio degli Amberson (1942), nel quale, se da un lato compare indubbiamente una visione “storica” del tempo, è però anche presente, sia pure in forme molto diverse da Quarto potere, lo stesso modello iterativo: l’amore infelice di Eugene per Isabel e, vent’anni dopo, quello altrettanto infelice di Lucy per George. Non basta, dunque, affermare che la dimensione statica del Tempo è prerogativa degli Amberson, tradizionalisti e feudali, e che quindi il film si risolve in un contrasto fra due opposte concezioni del costume, della società, del mondo (diciamo: quella agraria e quella industriale). In realtà, come dimostra il fatto che l’iterazione coinvolge inestricabilmente rappresentanti dell’una e dell’altra parte, il concetto iterativo (e capitalistico) del Tempo si presenta nel film, come «struttura profonda», a livello ben più comprensivo e globale5. Anche questa concezione del tempo è in fondo una critica ideologica al New Deal e alla sua concezione progressista della storia. Agrarianismo o industrialismo, la visione che sembra avere Welles di quest’ultima si identifica con un Tempo non parabolico, con una sostanziale ripetizione del passato al di là dall’innegabile progresso della tecnologia (peraltro osservato con simpatica ironia: la bicicletta negli Amberson). Ma vi sono altre facce della critica wellesiana all’ideologia del rooseveltismo. Quarto potere è anche una grande parabola sull’apparente contraddizione del Capitale e sui pericoli dell’individualismo a esso connesso: preso nel vortice della metamorfosi dialettica del Capitale, chi vuole sapere non ha punti di riferimento, ma solo contraddizioni. L’individualismo esiste, certo, ma solo per porsi come ambiguo, inconoscibile. Da bravo liberal, Welles si àncora poi, per la ricerca della soluzione, a un versante umanistico; l’immagine dell’uomo qualificata dalla sua dimensione individuale prima del coinvolgimento nel gioco delle apparenze del Capitale (la slitta di Kane bambino). Ed è esempio straordinario di cinema il contrasto fra il tentativo frustrato di conoscenza che corre per tutto il film davanti all’ambiguità del Capitale e la chiarezza totale, onnicomprensiva nel senso della profondità come dell’ampiezza di quadro dell’immagine che Welles organizza (si pensi solo al panfocus, alla messa a fuoco a diverse profondità di campo, che come è stato ben osservato, mette lo spettatore a confronto con un discorso non univoco, poco importa il livello di realismo). Un contrasto che rende ancor più bruciante la ricerca impossibile – impossibile perché la verità è persa nei recessi del prepolitico, del precapitalistico individuale – del cronista. E nonostante i mille contrasti fra le due famiglie in L’orgoglio degli Amberson, non si tratta dopotutto di un disaccordo solo apparente? Ambedue sono il Capitale, l’una – dicevamo – l’agrario, l’altra l’industriale; il loro scontro, quindi, è solo al livello del costume. E qui si vede ancora come il cinema di Welles si rapporti al New Deal in senso critico. Infatti, quello che il New Deal non era riuscito a fare (o non aveva voluto fare) era favorire il passaggio da una gentry agraria a una industriale cosciente del suo essere classe: cioè, un po’ quel che avviene nel film. Mostrandoci in modo diretto questo (mancato) passaggio negli aspetti sovrastrutturali e drammatici che lo qualificano, Welles, ha fatto un film esemplare di quel che doveva succedere e non era successo (ma che storicamente succederà comunque), secondo quelli che erano stati gli auspici di Charles Beard. E d’altro canto, in questo senso il film va visto come una storia retrospettiva del Capitale che, si diceva, supera le sue crisi assumendo volti diversi e apparentemente addirittura antitetici, quando in realtà non vi è sostanziale soluzione di continuità fra gli uni e gli altri. Con Welles per la prima volta viene tentato un discorso serio e sfaccettato sul Capitale americano storicamente e politicamente inteso. Prima esso era stato il male, la violenza generica del potere, la mala pianta della corruzione, oppure – e più spesso – la burberità benefica dell’Uncle Scrooge disneyano di turno (o addirittura la sconsideratezza quasi nonsensical di alcuni ingenui o burloni), ma mai oggetto di problema nella sua realtà diretta, anche se attraverso la tipica “mediazione” wellesiana.
3. La potenza del “nero”
Welles è comunque un esempio tanto importante quanto non probante, nel senso che dopotutto non si tratta certo di un regista medio. Ma anche il suo genio, è bene ricordarlo, fece i conti con il forte segno che la presidenza Roosevelt lasciò sul Paese. In realtà non si può ridurre il discorso sui Quaranta a questa sola componente, e lo stesso cinema wellesiano risentì anche di altre atmosfere. La tensione internazionale dovuta allo sviluppo del fascismo europeo, prima di tutto, e naturalmente la guerra che ne seguì. Da Terrore sul Mar Nero (1942) a Lo straniero (1946) il senso d’oppressione e di cupezza di quegli anni è ben presente nel suo cinema, e non è difficile leggere in questa chiave l’oppressione e la cupezza di tanto altro e apparentemente diversissimo cinema americano dei Quaranta, film noir in primo luogo. Non ci soffermeremo sulla definizione di noir, che ancora sta facendo discutere la critica. Diciamo semplicemente che il noir americano vive di un continuo contrasto fra ombra e luce, di una lotta fra bene e male che non porta chiari i crismi dell’uno e dell’altro. Il mondo del noir è raramente solare; i valori morali, per quanto chiari, sono raramente abbracciati in modo inequivocabile dai suoi eroi; la sua realtà ha sempre qualche piega incognita, imprevista, qualche reticenza inattesa, qualche sviluppo inusitato. Gli eroi del noir devono sempre prepararsi a qualche sorpresa perché per definizione nel noir la realtà è diversa da quella che già cupamente appare. Spesso la struttura del noir è quella dell’inchiesta, a sottolineare la continua domanda sul mondo, sulle persone e sulle cose che caratterizza questo genere cinematografico così squisitamente americano6. Ma se esso è davvero così americano ci dovrà evidentemente essere una qualche ragione di tanta articolazione proprio in questo periodo. E in effetti c’è. La Depressione aveva lasciato la sua eredità. Essa non riguardava finanza ed economia (o comunque non al cinema), ma l’innocenza che ormai l’America aveva perduto. La società del benessere, l’allegra nazione dei “Roaring Twenties” aveva conosciuto, come Scarlett O’Hara, la fame e la violenza, e nulla avrebbe potuto farla tornare spiritualmente quella che era stata. Fu in certo senso una specie di shock infantile, vale a dire un trauma che svegliò la nazione dalla sua infanzia. Questo spiega fra l’altro lo straordinario interesse che il decennio, come già abbiamo sottolineato, accordò alla psicanalisi, sia nel musical (Schiave della città) che nel noir (Furia umana, 1949) di Raoul Walsh. Già nel 1939 Charles Vidor con Vicolo cieco inscena rapporti fra un gangster e un analista che gli ricostruisce la sua tortuosa storia personale. L’attenzione alla psicanalisi è segno di un’America che ha ormai superato le problematiche rooseveltiane e che finalmente rivolge lo sguardo verso la propria individualità, peraltro non dimenticando che, finito il New Deal, è possibile puntare un dito accusatore contro speculatori, banchieri, capitalisti in genere: lo fecero, si diceva, in modi personalissimi, Frank Capra e Orson Welles, ma lo fecero – in film ancor più diversi – anche molti altri, e ancor prima dello scoccare dei Quaranta, dal Litvak di Il sapore del delitto al Fritz Lang del mezzo brechtiano mezzo buñueliano You and Me, ambedue del 1938. E non a caso il cinema mostra proprio in questi anni la metamorfosi del criminale da volgare assassino a imprenditore dalle mani apparentemente pulite. Si tratta, come dice Cagney a Bogart in I ruggenti anni Venti (1939) di Raoul Walsh, di «un nuovo tipo d’organizzazione» i cui componenti, come il Gates di Il fuorilegge (1942) di Frank Tuttle hanno in orrore il sangue e il delitto e che quindi si vedono costretti a commissionare ad altri le loro turpitudini, salvo far trasparire un’insana curiosità nei confronti di ciò che sembrano odiare. Il cinema americano di questi anni è anche giocato su questa dialettica tortuosa, su questa introversione formale e il killer si trova di conseguenza a essere l’intermediario fra l’ipocrisia dei mandanti e la loro reale natura. Egli diventa in certo senso il capro espiatorio delle loro colpe morali prima ancora che di quelle sociali e giuridiche. Non meraviglia allora che I ruggenti anni Venti sia anche un film dalla superficie nostalgica: nessun killer anni Quaranta sarebbe mai andato a morire sui gradini d’una chiesa. A sua volta il poliziotto è l’altra faccia della medaglia: al servizio della legge, egli però non si distingue dall’avversario più di tanto, come afferma a chiare lettere Il bacio della morte (1947) di Henry Hathaway: una morale che può essere allargata all’intera società, la quale – lo si sente dire in Giungla d’asfalto (1950) di John Huston – non ha «niente di diverso» dal mondo underground. In una situazione come questa non può suonare strano il citato You and Me che già nel 1938 (quando cioè Capra si dava ai suoi peana filodemocratici) metteva in scena un gruppo di ladri reintegrati che tutto sommato se ne stavano meglio ai tempi in cui si trovavano in guardina. Naturalmente un’idea del genere non poteva essere trattata che da un regista tedesco (o comunque europeo); ma è un fatto che il film è pur sempre girato in America allo scadere del New Deal. Così come è storicamente perfetto che Una pallottola per Roy di Raoul Walsh sia del 1941. In questa pellicola la solitudine, l’inutilità, la delusione, persino la astoricità del bandito emergono precise a dirci non solo che ormai non è più tempo
di gangster film, ma soprattutto che la sua corsa verso la morte partiva dall’ambito di una società nella quale egli era un misfit; ma non al modo in cui tradizionalmente tale si considera il fuorilegge, bensì perché rappresentativamente egli non incarnava più nemmeno quella forza antitetica e moralmente discutibile di cui il gangster si era in passato fatto portatore ed emblema. Come ricorda Carlos Clarens7, nel romanzo di Burnett da cui è tratto il soggetto si legge un «pesante discorso» («In questo Paese nessuno è onesto…») che fu poi espunto dalla sceneggiatura. Ma poco importa. Una pallottola per Roy trasuda ugualmente la sua condanna e la sua stanchezza. Clarens ha ragione a definire il protagonista Earle «un’immagine schietta ed efficace del gangster di campagna», continuando «ed era un presagio anche dell’estinzione del personaggio, mentre l’America moderna si consolidava in calcestruzzo e asfalto»8.
4. Ancora sul “nero”: la città come cifra Proprio in questi anni infatti la scenografia urbana irrompe nel cinema d’azione (e nel noir in particolare) con una forza che ha ben poco di casuale. A dire il vero essa era già presente negli anni Trenta, ma solo come teatro di violenze. In seguito diventerà una specie di entità buia e per certi versi addirittura terrifica, la sua allucinazione accompagnerà i percorsi solitari e pericolosi dei singoli detective, o comunque dei solitari protagonisti del noir, impegnati in itinerari-metafora, e la città sarà così un luogo dello spirito, un teatro cupo entro il quale la solitaria parte del protagonista adombrerà quella di tutti. La città dei Trenta è un impero da conquistare, quella dei Quaranta una terra quasi lunare che rispecchia l’animo di chi ci vive cercando giorno dopo giorno, ora dopo ora di sopravvivere a un mondo che offre ben poche contropartite. È almeno dai tempi delle edificanti lettere inviate dal padre a Pamela (eroina titolare dell’omonimo romanzo settecentesco di Samuel Richardson) che la città passa per luogo di perdizione, di corruzione, di crimine. Si tratta di un mitologema che ha radici storico-sociali individuabili nell’urbanizzazione che seguì il crollo dell’economia rurale a conduzione familiare in Gran Bretagna. L’urbanizzazione è continuata in pratica sino a oggi, ma con rigurgiti filorurali affacciantisi di tanto in tanto in questa o in quella situazione nazionale specifica. Così, durante il New Deal, contrassegnato da una politica economica di rilancio agricolo (si pensi soltanto al grande sforzo del progetto legato alla Tva), la città non poteva prima o poi non essere presentata secondo crismi di negatività. Sede dei giochetti concordati fra politicanti nei film di Capra (da È arrivata la felicità, 1936, in avanti), essa si vedrà opposta al villaggio, al paesino dove tutti si conoscono e in fondo si amano, uniti, nonostante eventuali disaccordi, per la realizzazione del bene comune. Il villaggio è una splendida metafora dell’America rooseveltiana, un emblema della sua volontà di concordia nazionale, della sua capacità di realizzare concretamente l’astrattezza dell’ideologia. Per questo non troveremo, negli anni Trenta, film dedicati a figure di gangster rurali, da Ma’ Parker a Bonnie & Clyde: la campagna era la roccaforte del New Deal, essa non andava toccata. Troveremo invece una città invasa dal disordine e dalla violenza gangsteristica, macchine in corsa per le sue strade, mitra che crepitano dai loro finestrini, colpi di pistola nei ristoranti e così via. Nemmeno il più anonimo abitante è sicuro nella sua casa-alveare, come dimostra bene Tutta la città ne parla (1935) di John Ford, dove anzi l’equazione gangster/cittadino si fa per la prima volta pericolosamente avanti sino a diventare vero e proprio tema del doppio, specularità inquietante che soltanto il contesto semicomico della pellicola riscatta. Ma gli anni Trenta non avevano approfondito l’aspetto scenografico del tema. La città esisteva ed era addirittura leggibile nei vari gangster film, ma sempre per tratti generali, per segni indicativi, ma non particolarmente caratterizzanti rispetto ad altri tipici di quel genere. Con gli anni Quaranta le cose cominciarono a cambiare. Come bene spiega Clarens, «a metà degli anni Quaranta l’industria cinematografica non dirigeva più il suo prodotto al consumatore della piccola città, dato che ormai la sua principale fonte di guadagno viene dal pubblico di quelle grandi»9. Il noir, quindi, è interessatissimo all’ambiente urbano, alle superfici stradali lisce e bagnate da una pioggia invisibile, alle ombre gettate da angoli ossessivamente illuminati, allo scintillio di vetrine troppo lucenti in contrasto con l’oscurità dell’esterno, al pallore del neon che occhieggia nel buio di strade insondabili, ai giochi espressionistici delle ombre sui muri che si muovono sinistramente e nevroticamente nell’inseguimento o nella fuga. In questo senso convince poco il pur correttamente costruito discorso di Michael Wood: Non è però questa l’impressione che ricaviamo dai soggiorni coperti di tappeti e dai luccicanti marciapiedi degli anni Quaranta. Queste non sono facciate di qualche altra cosa, sono la cosa in sé. Sono la loro colpa. Incarnano uno stile di vita urbana moderna che è ciò che tutti noi desideriamo (che tutti noi desideravamo), ma questo stile è sottilmente contaminato da riflessioni su ciò che verrà probabilmente a costarci il potercelo permettere10.
Questa è soltanto una metà della verità. L’aspetto realistico della città è innegabile, ma non si può non leggere quella scenografia anche in termini, se non di metafora, di atmosfera spirituale. La città notturna dei Quaranta è sempre anche un paesaggio dell’anima, o, perché no?, la scena di una potenziale
irruzione dell’inconscio. La sua (ri)scoperta non è una semplice presa di coscienza della realtà (dopotutto gli anni Trenta, per quanto in modo diverso, non erano poi stati poco “realistici”), ma il modo che l’America (Hollywood) sceglie per comunicare una solitudine che da un lato va letta come conseguenza della sempre più radicale massificazione della società e dall’altro come un’angoscia legata a un decennio fra i più cupi della storia del mondo moderno. Attento alla campagna e al villaggio, il New Deal non aveva privilegiato questi elementi nei film anni Trenta, e anzi aveva tralasciato qualsiasi attenzione specifica all’ambiente urbano, o meglio, a una sua riconoscibile caratterizzazione (se non d’interni). Con i Quaranta ecco che questa attenzione si sviluppa, ma in un’atmosfera sociale e morale alquanto diversa. La città del noir intanto è un percorso, una mappa entro la quale si inscrive un iter – per lo più tacito, inevidenziato – di crimine e/o d’indagine. Una mappa a ben vedere assurda, ché se soltanto conoscessimo perfettamente il recinto urbano del percorso compiuto da un qualunque personaggio cinematografico ne noteremmo indubitabilmente l’insostenibilità spaziale, l’assenza di logica topografica in relazione allo spazio reale della città. Se è possibile – per fare un esempio – che in Due ore ancora (1949) di Rudolph Maté il protagonista si trovi in un batter d’occhio da una zona residenziale a quella del porto commerciale di San Francisco dal momento che questo ampio scarto spaziale può fungere da elemento significante del suo smarrimento psicologico, in innumerevoli altri film (e non solo di detection) egli si è spostato da un luogo all’altro attraverso un semplice taglio di montaggio che tuttavia intende, al contrario, fornire una – evidentemente impossibile – continuità di percorso. Da ciò si deduce in prima istanza che la città nel noir emerge cinematograficamente come frammentazione e non come unità. Le sue linee e le sue luci possono obbedire a ispirazioni figurative di diverso carattere (realismo, espressionismo, ecc.), ma solo in quanto funzione dell’inquadratura, della sequenza, della psicologia, dell’azione, ecc. Ora, nel cinema specificamente poliziesco (o meglio ancora: di detection) la gamma dei referenti di tale funzione è tutto sommato alquanto ristretta: delitto, paura, mistero, pericolo, fuga, e poco più. Alla coltura estensiva, poniamo, di un genere come il melodramma, il poliziesco oppone una coltura intensiva, un raggio ridotto, ma in compenso densissimo, di atmosfere e possibilità. Certo, sullo sfondo rimane sempre la metropoli nella sua interezza, che come in La città nuda (1948) di Dassin apre la pellicola con un’immagine globale (ma si pensi in questo senso anche a Doppio gioco, 1949, di Robert Siodmak o al già citato Giungla d’asfalto) mentre una voce fuori campo commenta indicandola come un potenziale nido di crimini, di delitti, di brutalità in opposizione ai volti anonimi che la abitano11. Ma nella concretezza delle sue immagini particolari la città è sempre e comunque scenografia specifica. Si pensi da un lato al realismo dei docks e dell’ambientazione in generale in L’urlo della città (1948) di Robert Siodmak, regista che peraltro si distingueva per le sue componenti espressioniste, e alla visione distorta, grottesca, delirante di Londra in I trafficanti della notte (1950), che Jules Dassin girò in Gran Bretagna per una produzione inglese, ma che nondimeno è per molti versi un noir americano. Due esempi che indicano bene i diversi modi in cui la città come scenografia può assolvere la sua funzione. Il noir impiega in questo senso il background urbano secondo una polarità che esclude ogni passaggio intermedio: esso o è la folla anonima o il deserto d’asfalto. In Giungla d’asfalto vediamo un’auto percorrere un paesaggio desolato costituito da spiazzi e edifici dai quali emerge, in virtù dell’assenza di una qualsiasi componente umana (una assenza peraltro interessante come tale ed evidentemente a sua volta significante e significativa) una geometria secca e neutra nel suo squallore. Nel citato Due ore ancora, al contrario, il protagonista percorre a piedi le strade di San Francisco popolate di gente, portato infine a ravvisare nei più normali dettagli del quotidiano una potenziale, orribile minaccia. Tuttavia, sia la folla che il deserto assolvono una medesima funzione, quella di evidenziare il pericolo implicito nel fatto stesso che un luogo umano si costituisca come città. Ovviamente la città è anche spaccato sociale, veicolo d’informazione su contraddizioni, differenze, ingiustizie indipendenti a volte dallo specifico tema dell’indagine (quando d’indagine si tratta). In L’ombra del passato (1944) di Edward Dmytryk, e ancor più nel bellissimo remake di Dick Richards, Marlowe il poliziotto privato (1975), si passa da ambienti sfavillanti e lussuosi a miserevoli appartamenti di reietti, a bordelli e altri infimi luoghi. Ma tutto sempre in un quadro di incertezza, di domanda. In un modo o nell’altro la città è comunque mistero, ignoto, imprevisto. Il contrasto fra apparenza e realtà – da sempre alimento di arte e fiction – torna anche in questo tipo di cinema per ammonirci a diffidare di ciò che riteniamo familiare, per esortarci a scoprirvi risvolti inattesi, pericoli in agguato. È quello che Michael Wood chiama «l’effetto sospetto, cioè l’insinuarsi del dubbio e dell’oscurità nel regno solido e sereno delle apparenze fisiche»12. Si tratta, è evidente, di un atteggiamento paranoico che percorre gran parte dei migliori film del genere, e a volte anche quelli che, a rigore, sono film di detection più che
detective films. Una paranoia che, come si dirà più avanti, se negli anni Settanta aveva ragioni storicopolitiche molto precise, nei primi anni Quaranta nasceva dalla labilità, dalla sottigliezza, dalla fragilità dei punti di riferimento morale, una chiara conseguenza che la tempesta bellica aveva lasciato sullo spirito della nazione; mentre verso la fine del decennio essa trovò inoppugnabile ragione nell’esplosione della caccia alle streghe (non a caso gran parte degli sceneggiatori di noir li ritroveremo inclusi nelle liste nere della Commissione per le Attività Antiamericane). Il noir, in effetti, pur non affrontando in genere precisi problemi sociali e politici e pur limitando la sua eventuale accusa in questo senso a generiche indicazioni antiautoritarie o anticapitaliste, è un terreno magnifico per tastare il polso all’ideologia nazionalistica, nel senso che, situato in epoca che si suppone contemporanea, esso, all’apparenza, non impiega la forte stilizzazione – più difficilmente interpretabile – del musical né la privatizzazione delle istanze morali che è tipica del melodramma. Il noir è a suo modo la diretta esemplificazione di un pensiero morale nel quale il bene e il male non hanno quelle rispettive posizioni precise e inequivocabili che il cinema del passato aveva indicato. La cupezza e l’oscurità dei loro ambienti e delle loro stesse storie erano un’implicita accusa alla nazione, alla sua psicologia, al suo costume, alla sua morale, non meno di quanto gran parte del dramma e del cinema espressionista tedeschi lo furono a suo tempo per la Germania. Il noir è lo specchio di un’innegabile capovolgimento, e più specificamente la città, in ultima analisi, emerge dal noir come oggetto di una distorsione, temporale e/o spaziale, attraverso procedimenti stilistico-figurativi. Sarebbe semplicistico leggere tale distorsione in termini puramente moralistici. Sarebbe semplicistico, cioè, affermare che il delitto e il crimine in generale sono ciò che determina un’immagine allucinante, ossessiva o stralunata della città nel detective film, nel senso che delitto e crimine alterano il corpo “sano” della città presentandosi – appunto – come sua “malattia”. Al contrario, queste cause, a ben vedere, sembrano piuttosto effetti di un’ontologia dell’urbano che è tale in quanto opposta alla sua onticità (cioè a dire della sua pura fenomenologia). In altre parole, la città del noir è in fondo un’entità metafisica, non solo una pur eloquente presenza architettonica, topografica, sociale, umana, ecc. Ma a sua volta, e proprio per questo, la città è cifra per intendere il senso di scoramento che percorre l’America di questi anni, nazione che la guerra ha fatto vincitrice, ma che si porta dietro colpe e complessi che la ossessionano come fantasmi, dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki ai cedimenti di fronte ai criminali nazisti in vista di quella che sarebbe diventata un’altra terribile guerra, il braccio di ferro con l’Urss, e che presto si sarebbe concretizzato, in patria, nella vergogna del maccartismo.
5. Morto che parla: la voce fuori campo Quanto a questo malessere, gli anni Quaranta tengono a battesimo un procedimento formale di notevole effetto che avrebbe dominato per non pochi anni: la voice over, cioè la “voce fuori campo”, che, come nota Guido Fink in un suo fondamentale articolo sull’argomento, era già comparsa almeno dal 1933 in Potenza e gloria, diretto da William K. Howard su sceneggiatura di Preston Sturges13. Innumerevoli film degli anni Quaranta (e poi Cinquanta) si aprivano con una immagine cui subito si aggiungeva una voce, spesso maschile, che la commentava o più generalmente ricordava come mai l’azione era giunta a quel punto. In un’ottica tecnica si trattava di una specie di innesco del flashback, del procedimento che visivamente portava lo spettatore indietro nel tempo in relazione alle vicende dei personaggi, e da questo punto di vista essa non si differenziava poi tanto da altri procedimenti non uditivi ma visivi come ad esempio un primo piano del personaggio che diventa primissimo piano mentre l’immagine comincia ad apparire ondulata come una bandiera mossa dal vento mentre l’obiettivo sfuoca per poi riprendere su un’immagine, appunto, del passato. Non c’è dubbio che – poniamo in un noir – il flashback, opportunamente manipolato, sia una tecnica narrativa di una certa suspense. Esso infatti può venire interrotto in qualsiasi momento come a riassumere gli eventi fino a quel punto osservati, e può quindi essere ripresa tranquillamente, data l’ormai sicura instaurazione della convenzione del quadro narrativo. A sua volta, la voce fuori campo inserisce una sensazione più “umana” nella specifica tecnica. La fluttuazione delle immagini (peraltro allora in gran voga anche per indicare l’inizio di un sogno), certamente molto efficace, ha però un senso di artificialità che la voce, mentre percorre i luoghi della memoria, certamente non denota. Nel migliore studio apparso in Italia sull’argomento è detto fra le altre cose che nel cinema americano degli anni Quaranta si assiste a una separazione tra visione e narrazione, nel senso che la prima diventa vieppiù enigmatica, la seconda la più distaccata possibile dal flusso delle immagini14. L’osservazione è acutissima, e anche se il discorso che la segue batte versanti narratologici e più genericamente semiotici che a noi qui non interessano, la sua impostazione ci consente di proseguire nella comprensione dei motivi non strutturali ma ontologici (e financo gnoseologici) di questa tecnica. Dal caso limite citato da Fink, La signora di Shanghai (1948) di Orson Welles, a film molto più distesi come Come era verde la mia valle (1941) di John Ford la voce fuori campo copre uno spazio
davvero enorme. Ora, la dimensione memoriale che essa immediatamente evoca dà corpo a un’evidente connotazione di nostalgia. Qualcuno obietterà che in Rebecca - La prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock o Il filo del rasoio (1946) di Edmund Goulding l’azione lascia intravedere nel passato ben poco di cui essere nostalgici. Che il protagonista di Com’era verde la mia valle sogni ancora l’incanto della sua pur povera giovinezza è cosa comprensibile; ma che la moglie di un vedovo ripensi con piacere ai suoi infernali giorni nella villa infestata dallo spirito della prima moglie o che uno scrittore rimpianga i tempi in cui i suoi personaggi erano più felici è cosa alquanto opinabile. Naturalmente non intendiamo parlare di nostalgia nel senso usuale del termine, ma di un atteggiamento di fondo verso un non meglio identificato “passato” che è soltanto la spia di un disadattamento al presente. In certo senso, l’incubo nazionale della Depressione è stato seguito da una travolgentemente ottimistica ripresa che si era però trovata di fronte a un incubo ancora più grande, quello dell’avvento al potere delle dittature nazifasciste e della conseguente domanda morale che l’America prima o poi non poteva non porsi: arroccarsi nei superati cascami ideologici della dottrina Monroe o finalmente imporsi come grandissima potenza internazionale assolvendo nel contempo a un imperativo obbligo morale? Ovviamente questa domanda segnò soltanto l’avvio. Anche dopo che essa ottenne risposta precisa e consapevole l’incubo rimase ad aleggiare sul mondo: il disprezzo per la vita, l’orrore dei forni crematori, il sadismo delle bestiali pratiche di medicina da parte del nazismo – vagamente adombrate in questi anni in quel cupo film fantaorrifico, Il cervello mostro (1944, diretto da George Sherman su un racconto di Curt Siodmak) – avevano dimostrato che la realtà era un’altra o che, quantomeno, non sarebbe mai più stata come la si pensava prima. La “nostalgia” di cui la voce fuori campo era solo una forma aveva un che di perduto, di irrecuperabile. Molto di più: a parlare è raramente un “cattivo”, più spesso è solo un colpevole travolto dal caso o dai turpi schemi di altri, a volte addirittura un vero e proprio innocente. C’è qualcosa di biblico in questa prassi, una specie di ascendenza al mito della Caduta da parte di piccoli, compatibili Luciferi, «angeli di seconda classe», come li chiamerebbe il Capra di La vita è meravigliosa (1946), in versione seria e drammatica, i quali all’inferno sono tanto disadattati quanto in fondo lo erano in un paradiso che neanche riconoscevano come tale. Il contrasto video-aurale di cui parla Fink è eloquente: un mondo sconvolto, immagini difficilmente decifrabili, cupe, oscure, intricate, ombre sinistre, azioni enigmatiche sono in perfetta opposizione alla calma, alla triste, seria tranquillità con cui la voce fuori campo di turno esprime ormai l’ineluttabilità di ciò che è accaduto (qualunque cosa sia accaduta) e la compresa volontà di ripercorrere quell’iter penoso, doloroso, testimonianza inoppugnabile nel miglior caso della nostra dabbenaggine, nel peggiore della nostra inadeguatezza a un ruolo demoniaco che non ci compete. Certo, si potrebbe leggere tutto questo in una chiave direttamente sociologica, si potrebbe parlare per La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder di un mito di denaro romanticamente sposato a quello della passione che una società come quella americana volentieri coltivava e coltiva (salvo l’affondamento che cinicamente ne opera Wilder). Ma sarebbe troppo prevedibile, e inoltre non differenzierebbe film da film nel senso che renderebbe conto soltanto del perché il modello si rintraccia in momenti del tempo e del costume lontani fra loro. C’è invece qualcosa di caratterizzante il periodo in questione, c’è una particolare sensazione di innocenza perduta che difficilmente, ad esempio, rintracceremmo negli anni Venti. La voce fuori campo, è bene indicarlo, sottolinea fortemente un altro dato caratteristico del personaggio del cinema anni Quaranta in generale e del noir in particolare: la sua solitudine15. O’Hara che racconta la sua incredibile storia di inganno e perfidia in La signora di Shanghai è indubbiamente solo nella sua quasi onirica peregrinazione che finalmente lo conduce alla luce. Ma la sua voce che commenta dal classico punto di vista dell’autore onnisciente l’intera storia contribuisce a rendere il suo personaggio ancor più isolato; non solo fisicamente, ma soprattutto moralmente, e non solo all’interno del quadro costituito dallo sviluppo narrativo, ma anche dopo che questo si è concluso. Come se il marinaio, in una qualche parte del mondo, solitario, incupito, pensoso, rivedesse tutte le tappe di una storia scellerata che lo riguarda e che, peggio, riguarda soprattutto il suo amore per una donna che ha soltanto approfittato di lui cercando di perderlo in ragione del proprio interesse. Una storia d’amore con inganno che è anche una storia d’inganno con delitto: col suo stesso esserci la voce fuori campo intensifica le conseguenze psicologiche e spirituali della sovrapposizione di questi due modelli, ne potenzia il dramma che essi causano, amplia la grandezza e la profondità delle cicatrici da esse inferte nel loro gioco combinato. Ma, dicevamo, non si tratta soltanto di noir. In Com’era verde la mia valle si innesca un movimento contrario: quello per cui la voce fuori campo assolve la funzione di accentuare la dolce tristezza provocata dal pensiero della giovinezza passata. Non si tratta cioè di una deprecabile pagina del proprio passato che la voce commenta portando persino nel tono le stigmate di quanto di orribile avvenne, ma al contrario di un tenero insieme di ricordi che non possono non contribuire a far percepire la solitudine (anche soltanto ideale) del personaggio. Per felice che egli possa essere, per appagato, soddisfatto, amato e realizzato che si possa sentire, l’esperienza di quegli anni passati, di quell’adolescenza vissuta fra i profumi della campagna e l’odore delle industrie minerarie, i colori e i rumori di quel tempo
appartengono a lui e a lui soltanto. Tornare indietro nella memoria – sia pure da un tempo felice a un altro – è sempre un atto solitario che nemmeno il più tenero partner può completamente condividere. La mente è sempre sola nel momento in cui ricorda, niente e nessuno può entrare a far parte del suo quadro. L’isolamento della voce fuori campo in film come quello di Ford, lungi dal rappresentare alcuno spessore tragico o semplicemente drammatico, è però un mezzo non tanto (come verrebbe superficialmente da pensare) per sottolineare il mutamento da uno stato psicologico a un altro magari anche più felice (modello che è tipico del Bildungsroman: si pensi al finale del Wilhelm Meister di Goethe), quanto per rendere più evidente, più percettibile la solitudine della nostra anima nel momento in cui si volge per rivedere per un momento il difficile cammino compiuto. Il «distacco» di cui parla Fink, dunque, può essere dovuto a uno scetticismo raggiunto a caro prezzo (come spesso nel noir) o a una interiore sensazione del tempo passato e dei mutamenti che, in bene o in male, sono sopravvenuti in noi, nei nostri modi, nel nostro stesso carattere. In ogni caso la voce fuori campo denuncia una situazione psicologica e morale che, pur non contrastando con la sua funzione all’interno dello sviluppo tecnico-narrativo, è non poco rappresentativa di un momento dello spirito nazionale americano. Il discorso sulla voce fuori campo non può essere separato da quello sull’uso del flashback. La “revisione” del passato, se da un lato assolve rispettivamente alle diverse funzioni di cui parlavamo più sopra, dall’altro è anche connessa ai modi della sua messa in atto. Ad esempio, il lungo flashback di Giorni perduti (1945) di Billy Wilder, che comprende gran parte del film, non è comparabile, assimilabile, omologabile alla serie di flashback su cui è costruito, poniamo, Il romanzo di Mildred (1945) di Michael Curtiz o, per citare una pellicola appartenente ad altro versante, La strega rossa (1948) di Edward Ludwig, certamente minore ma con un geniale impiego di flashback a scatole cinesi, e ancor meno al flashback brevissimo, per citare da un altro ambito ancora, di Casablanca (1942) sempre di Curtiz. Quest’ultimo assolve una semplice funzione nostalgica, nonché quella di testimonianza di un momento chiave nella vita di Rick, il cui dolore lo sconvolge a tal punto da determinare un radicale cambiamento di vita. Gli altri due partecipano di un mistero, di una domanda, di un segreto. Ma il primo è in chiave di detection, il secondo di conradiana inchiesta dello spirito. Laddove infatti Il romanzo di Mildred ruota attorno a un assassinio e alla supposta colpevolezza dell’eroina titolare, La strega rossa usa i flashback come echi di voci che esprimono jamesiani punti di vista circoscritti su personaggi e vicende relativi al protagonista, al suo amore per la donna di un altro (che è il malvagio del film) e un tesoro in fondo all’acqua. Ambedue le pellicole si domandano: come andarono esattamente le cose? Ma il primo ricerca una verità fattuale, il secondo una verità umana. Questo non significa che nel primo non si possa rintracciare questa e nel secondo quella. È l’impostazione a essere profondamente diversa e a determinare la funzione del flashback. La storia di Mildred, della sua scalata al successo, del suo amore appassionato per la figlia egoista e del suo sacrificio finale non avrebbe avuto molto senso e assolutamente nessun mordente se narrata cronologicamente. L’eroe che da uno stato di invidiabile felicità cade in uno stato di compassionevole infelicità è sin dai tempi di Aristotele il cavallo di battaglia della tragedia. Ma se lo schermo ci avesse mostrato la strada del raggiungimento di questa felicità seguita passo passo, la molla tragica della caduta sarebbe stata di poco effetto perché troppo breve. Al contrario, è possibile ridurre la sua brevità (vale a dire, allungarne, protrarne l’effetto) se, una volta essa sia scattata, la storia ripercorre le tappe della felicità, che lo spettatore, a questo punto, sa dall’inizio tarate dall’evento funesto. Il flashback qui tragicizza, per così dire, una vicenda in sé anche tragica, che però non gode dello statuto del mito e più specificamente del fatto di essere universalmente nota: condizione essenziale perché la caduta tragica possa essere immessa nella storia molto presto in modo da porre il personaggio in una miserevole e compassionevole situazione, tale da evocare il più a lungo e il più intensamente possibile «la pietà e la trepidazione» (Aristotele) del pubblico. Il caso di Il romanzo di Mildred non è raro nel panorama del cinema americano del periodo. Noi tuttavia lo citiamo come esempio di uno dei possibili impieghi del flashback. Non ci interessa tanto una classificazione di questi impieghi (che lasciamo volentieri al vetero-strutturalista di turno) quanto la cognizione della diversità di essi, la coscienza che il semplice termine “flashback” (e il suo concettodefinizione) non soddisfa alcuna risposta che non sia strettamente semantica. Il flashback è una tecnica che, al di là dalla sua forma, si articola in modo complesso in relazione alla sua funzione. Così, nel citato film di Ludwig esso contribuisce in maniera determinante a stabilire un’atmosfera quasi epica in relazione agli eventi narrati. Non diversamente da un romanzo come Assalonne, Assalonne! di William Faulkner, anche qui opinioni e forse pregiudizi di persone specifiche si accavallano tentando di rendere conto di fatti dei quali forse nessuno è stato testimone. E quando all’interno di un flashback si inserisce il flashback memoriale di un altro personaggio la tecnica trionfa in modo da divenire non tanto la vera protagonista del film (sciocchezza che lasciamo agli infatuati di un errato concetto di cinefilia) ma la via
per la comprensione che la comprensione è impossibile, o se si preferisce, che gli eroi della vicenda non possono non appartenere a un’aura leggendaria, a un mondo che non potrà mai trovare soddisfazione nel puro e semplice, nel piatto e burocratico controllo della verità dei fatti. Ora, questi esempi, pur rappresentando soltanto se stessi, dicono chiaramente dell’ampiezza di gamma funzionale del flashback. E di conseguenza dicono chiaramente della formidabile importanza del passato nel cinema hollywoodiano del periodo. Non il passato in costume (non poco fasullo) dei film western anni Trenta, non quello allora appena trascorso dei ruggenti anni Venti nei gangster film degli anni Trenta, e nemmeno quello risibile e ingenuo nella sua grandiosità di cartapesta così tipico dei kolossal hollywoodiani; ma un passato sentito come peso, come tara, come condizionamento di un presente infelice, un passato che ha tanti modi di articolazione per esserci narrato e che proprio per questo appare come un’inevitabile imposizione che il nostro tempo (cioè quel tempo) ha ereditato. Sono storie di colpe, di errori, di ingenuità, di pericoli; ma sono anche grandi storie d’amore, grandi storie, cioè, di affetti che si perpetuano lungo l’arco di vite intere conducendo alla perdizione, alla catastrofe, alla morte. Storie d’amore e di morte: cosa di più normale, si chiederà? Sin dai tempi di Tristano e Isotta la narrativa ha quasi sempre trattato di questo. È vero, ma ora il peso del passato – benigno o maligno che sia – incombe ben più che nel dramma di La folla, nella violenza di Piccolo Cesare, nella miseria di Giglio infranto (1919) di D.W. Griffith, nel delirio di Sogno di prigioniero, nell’inesorabile, animalesco determinismo di Rapacità. Ora esso non solo condiziona gli eventi ma il modo stesso di narrazione della storia. A volte è un modo estremamente frammentato, come in Mildred e La strega rossa, a volte appena accennato come in Casablanca; ma sempre esso configura, organizza e in genere offre il passato come elemento determinante, come chiave di volta nella vita dei protagonisti e condizione assoluta delle stesse vicende che li riguardano. Interessante è inoltre notare come nel giro di alcuni anni (diciamo verso il volgere del decennio e all’inizio di quello seguente) la voce fuori campo si fa, per così dire, più audace: sia nel senso che, come in Eva contro Eva (1951) di Joseph Mankiewicz, essa si permette non solo di esporre e selezionare i dati della storia (quello, almeno implicitamente, l’aveva sempre fatto) ma addirittura di frustrare i nostri eventuali desideri relegando addirittura in secondo piano elementi che lo schermo ci offre come potenzialmente interessanti16; sia nel senso che essa acquista – se la frase non suonasse un po’ macabra – altre e più profonde (e certamente inusitate) risonanze, come in Lettera da una sconosciuta (1948) di Max Ophuls e Viale del tramonto (1951) di Billy Wilder, film nei quali la voce fuori campo appartiene a un morto. Lo stesso avviene in Due ore ancora di Maté (che, come abbiamo già detto, è del 1949), ma con l’alessandrina differenza che il protagonista che racconta ufficialmente la storia non è ancora defunto ma lo sarà di lì a poco: giusto il tempo di narrare alla polizia quel che gli è successo. Nel noir la voce fuori campo e il flashback che, almeno in questi anni, le è connesso, denotano inoltre una situazione, un’atmosfera, una vibrazione che non è eccessivo definire paranoica. Mentre questa definizione sarebbe certo esagerata per opere come Casablanca, Tutti gli uomini del re (1949) di Robert Rossen, Com’era verde la mia valle, Quarto potere, Schiave della città, ecc., essa non sfigura per film come Viale del tramonto, La fiamma del peccato, L’ombra del passato, Due ore ancora e lo stesso bellissimo Vertigine (1944), diretto da Otto Preminger (ma cui mise mano anche Mamoulian), dove le voci narranti si intrecciano in una struttura pre-Rashômon (Guido Fink, ad vocem) nella quale compaiono tutti, dall’assassino (ignoto, al momento) alla stessa (supposta) vittima. Si pensi alla sottile, pervasiva allucinazione della pellicola di Maté, alla cui qualità paranoica abbiamo del resto già fatto cenno: in apertura, ripreso di spalle, un uomo si avvia barcollante verso una stazione di polizia: là espone la sua denuncia, una persona è stata uccisa. Chi?, gli domandano. Io, risponde. Non è un inatteso colpo di scena iniziale, ma l’idea che regge l’intero film: un senso di paranoia – appunto – che lo percorre tutto, persino prima che il delitto nei confronti del protagonista venga perpetrato. Tutta la parte al St. Francis Hotel perde infatti la sua oggettiva tonalità gioiosa e libertina davanti alla precedente rivelazione, soprattutto se si tien conto che la vittima è appunto il divertito protagonista di quell’atmosfera festosa. Logicamente la seconda atmosfera festosa diventa parossistica, il jazz nel localino al porto è propedeutico, nella sua frenesia (stacchi velocissimi sugli strumentisti in crescendo), all’innesco della tragedia. E si pensi alla bellissima sequenza in cui Bigelow esce dal laboratorio dove gli hanno comunicato la sua sentenza di morte e corre disperato per le strade affollate di San Francisco: la macchina da presa lo inquadra, seguendolo dall’alto, prima di ¾ avanti, poi di ¾ indietro, mentre l’uomo passa allucinato fra la gente. Il senso di solitudine della scena è ovvio, ma anche quello della paura, del sospetto, della sfiducia, che giustamente si concreta, dopo un altro stacco, nell’immagine di Bigelow fermo e ansante davanti a un’edicola. La scena è simbolica: i giornali sono già pronti a parlare di lui e del suo incredibile caso. Nello stacco seguente il senso di paranoia si concretizza ancor più: una bimba gli va vicino per prendere una palla, una ragazza si ferma nei pressi e agita una mano verso
qualcuno. Ogni più banale e quotidiana immagine di vita diventa a un tratto insopportabile (per lo spettatore non meno che per il protagonista), chiunque è un potenziale nemico. Due ore ancora è forse un caso limite del senso di paranoia implicito nell’uso della voce fuori campo nel noir, il punto massimo di una gradazione che innegabilmente esibisce una vasta gamma di sfumature; ma è un ottimo esempio del rapporto fra l’uso di quella particolare tecnica e una condizione dello spirito che se nel film di Maté emerge dallo schermo in modo incontrovertibile, in altre pellicole è non meno presente, ma richiede nel contempo di essere letta e intesa. In ogni caso, si diceva, la voce fuori campo collegata a una persona morta (o in procinto di morire) che racconta la propria storia “nera” segna in certa misura l’ideale fine, l’ideale esaurimento della tecnica, tanto da consentire a William Holden in Viale del tramonto persino alcune amare battute di spirito e nell’insieme un tono di supremo, cinico distacco. Da quel momento in poi la voce fuori campo potremo ancora rintracciarla in questo o quel film, ma essa ha ormai portato a termine il ruolo che le competeva, quello di introdurre nel quadro un elemento di amarezza, di rimpianto, di irrecuperabilità dietro l’apparente funzione di fornire «significato o informazione»17. La voce fuori campo è, insomma, storicamente intesa, la indiretta testimonianza di una condizione esistenziale sia individuale che nazionale, un fenomeno irripetibile, in quei termini e in quei modi, nel cinema americano a venire, come testimonia il suo revival negli anni Settanta, citato dallo stesso Fink, il quale giustamente asserisce che essa fornisce ormai unicamente «mood». Non il «mood» di cui abbiamo appena parlato, naturalmente, ma quello di un cinema definitivamente concluso cui quella tecnica apparteneva e di cui essa può fungere da ottima sineddoche. Non è retorica dire che con la morte di Joe Gillis in Viale del tramonto muore anche quel noir cui in buona misura la pellicola di Wilder appartiene. Davanti a tanti decessi, a tante morti, viene da domandarsi se la voce di William Holden, in realtà, noi si creda soltanto di averla sentita parlarci e narrarci la sua storia come un racconto di fantasmi narrato da un convitato imprevisto e in fondo sconosciuto, come quella stessa voce nella tempesta che tormentava e forse tormenta ancora l’ormai folle Heathcliff nelle notti di bufera. La voce fuori campo non può comunque avere più sostanza delle ombre che sullo schermo si muovono per raccontarci in azione quella stessa storia; essa è cinema ad ugual titolo, e come tale – al di là della sua finzione – ci parla di tutte le altre cose che il cinema finge di non dirci.
6. La forza del Destino: il nuovo melodramma La fine della Depressione e del New Deal non coincise purtroppo con l’esultanza che chiunque avrebbe pronosticato. La nazione era ancora in crisi: sembrava un destino, e lo era. Il destino, infatti, entra in scena in modo prorompente proprio negli anni Quaranta: è lui che l’eroe – o l’antieroe – dovrà sconfiggere. In un primo tempo il problema poteva venire risolto dalla guerra, e come scrive Sklar: La guerra curiosamente non rappresentava tanto una trappola quanto una soluzione agli ostacoli privati, un modo per trasformare la trappola personale di ciascuno nel sacrificio per una causa superiore. A Humphrey Bogart, come ha fatto notare Barbara Deming, vennero affidati spesso ruoli memorabili di uomini che trovavano nell’impegno bellico la risposta ai loro dilemmi interiori – in Casablanca (1942), in Il giuramento dei forzati e in Acque del Sud (ambedue del 1944)18.
Ma poi la pace portò nuovi assetti cui non corrisposero nuovi valori. Come insegna tanta sociologia, i costumi cambiano molto più in fretta della mentalità, e dunque il pensiero morale è il primo a soffrirne. Il tempo di pace, prima e dopo la guerra, non è meno infernale della guerra stessa. «L’eroe che non vede nulla per cui combattere; l’eroe che dispera di costruirsi una vita per sé; l’eroe che conquista il successo ma scopre che è vuoto; lo scontento che rompe con il vecchio modo di vivere, per non ritrovarsi da nessuna parte»: queste sono le principali categorie, che rivelano una crisi di fiducia assai più profonda dell’incertezza sulla sopravvivenza in guerra19.
Le spiegazioni sociologiche – quelle per cui Pat O’Brien ringraziava Dio di aver corso più veloce di James Cagney quando erano ragazzi in Angeli con la faccia sporca – non bastavano più. Naturalmente il sociale contava ancora, ma un ulteriore elemento si era inserito nel quadro, una componente astratta, imponderabile, forse persino metafisica. Psiche o coscienza, jaspersiano “naufragio” o frustrazione esistenziale, esso chiamava comunque alla lotta. Non una lotta rooseveltiana, ottimistica, nazionale, gagliarda, ma uno scontro interiore che si dipana nelle angustie della mente, nella ristrettezza di un’individualità messa in forse nel momento stesso della sua affermazione. Si pensi ai grandi melodrammi (alcuni di innegabile quoziente noir) del periodo, si pensi al citato Lettera da una sconosciuta e alla sua incredibile organizzazione strutturale. Si pensi a come destino e scelta si intersechino e si confondano, in quel film eccezionale, così come le stradine d’epoca illuminate all’europea. E si pensi anche alle crudeli esercitazioni del Fritz Lang di La donna del ritratto (1944) e La strada scarlatta (1945), a come vi si intrecciano gli eventi e il caso, l’indole personale e la crudezza della realtà. Non sono lezioni di vita, ma enunciazioni di sfiducia e scetticismo. Con esse tutto è ormai morto, la bellezza, la speranza, l’amore. Non sono esperienze deprecabili, ma piuttosto il corso della vita stessa (per come ovviamente Lang la intende). Il destino bussa alla porta e noi gli rispondiamo nel modo
sbagliato, con la fede di qualche anno prima, con la stessa speranza, lo stesso entusiasmo. Persino il protagonista di Il grande Gatsby (1949) di Elliot Nugent da eroe culturale americano senza tempo diventa un personaggio in ritardo sui tempi. In questo clima si comprende bene il perché del remake del classico Amanti senza domani (1932) di Tay Garnett ad opera di Edmund Goulding, Trovarsi ancora (1940). Molto più romantico, molto meno secco asciutto, dell’originale, il film di Goulding esaspera i risvolti retorici della storia con un’autocommiserazione che la pellicola di Garnett – pur nel suo forte sentimentalismo – non esibiva. Il destino comparirà ancor più forte e inarrestabile in uno dei film-ripresa della voga storicocostumistica, Ambra (1947) di Otto Preminger. Gli anni Trenta avevano battuto la strada dell’adattamento da importanti testi letterari20 e il genere proseguì la sua strada anche in seguito con opere come Il lupo dei mari (1941) di Michael Curtiz, L’ereditiera (1949) di William Wyler, ecc. Ma forse soltanto Ambra (peraltro un testo letterario non poi tanto importante) può ben rappresentare – probabilmente grazie anche al colore – un senso dell’ambiente storico molto spiccato e determinato. Il bestseller di Kathleen Winsor non può certo competere non diciamo con Henry James, ma nemmeno con Jack London; eppure la sua versione cinematografica ha un certo fascino, e comunque è un ottimo esempio di quel senso di frustrazione davanti al destino (e insieme della caparbia volontà di opporvisi) di cui si parlava poc’anzi. In Ambra emerge una morale ancor più chiara che in altre pellicole: un errore originario viene pagato lungo il corso dell’intera vita, soprattutto se il caso concorre a dare un aiuto al giudizio morale. Fra Ambra e Stella Dallas non c’è gran differenza: ambedue sono pronte al sacrificio supremo, però Stella è condannata fin dall’inizio a essere quella che è, una donna volgare, mentre l’altra – massimo motivo di frustrazione – potrebbe invece occupare degnamente il posto che compete alla moglie di un nobiluomo (tant’è vero che un marito di rango – ancorché quello sbagliato – lo troverà). Ambra avrebbe potuto avere una vita diversa, ma, a differenza di certi gangster, non è un’eroina cristiana. La sua figura non è faustiana, le sue scelte non la rendono completamente responsabile di quel che le accade. È il destino a metterci lo zampino, e qualunque cosa la donna faccia, alla fine si ritorcerà sempre contro di lei. Ecco, questo è il miglior esempio del senso di frustrazione che permea l’intero decennio. Quanto a sacrifici, bisogna aggiungere, il melodramma anni Quaranta non solo ne è pieno, ma li esibisce con uno strazio che – come si diceva per il remake di Amanti senza domani – rinuncia a qualsiasi asciuttezza in nome di una retorica che quasi tocca punte di involontaria ilarità. «Oh, Jerry, non chiediamo la luna: abbiamo le stelle», dice Charlotte Vale a Jerry Durrence in chiusura di Perdutamente tua (1942) di Irving Rapper, dopo aver scelto di passare la vita a curare e assecondare la figlia psicologicamente turbata dell’uomo che ella ama rinunciando a unirsi a lui, mentre la musica di Max Steiner sopraffà lo schermo. E non è chi non ne percepisca l’eccesso di retorica; una retorica che proprio il destino rende più acuta, più potente in questa trama «molto romantica, piena di coincidenze e di miracoli alla Cenerentola»21. Gettati insieme in una casupola brasiliana, i due “navigatori” trascorreranno abbastanza tempo in compagnia l’uno dell’altro per riuscire a sviluppare una piccola serie di gesti privati (clamoroso quello di Paul Henreid che accende due sigarette) e di segnali di intimità. I due sono l’emblema dell’intesa sentimentale e vicariamente, per noi, consumano sullo schermo non soltanto il loro amore (questo, dopotutto, accadeva da decenni al cinema), ma anche ogni possibilità di felicità proprio quando ogni cosa, ogni dettaglio in ogni inquadratura ci parla dell’assolutezza del loro amore. E perché mai un esploratore dovrebbe unirsi a una pianista classica che non lo ama, trascurando la donna devota che, una volta ritenuto morto, riuscirà persino a salvare il figlio che l’altra porta in grembo senza alcun entusiasmo e a fargli da madre dopo aver curato impeccabilmente la rivale incinta? Pure, questo succede in La grande menzogna (1941) di Edmund Goulding, dove l’intrecciarsi dei casi e la volontà individuale giocano in un equilibrio quasi mozzafiato. D’altra parte è anche vero che il destino si affaccia in modi così preponderanti pure per personaggi e drammi di radicalmente opposta natura: la storia – ancora con Bette Davis – di Ombre malesi (1940) di William Wyler è strutturata su un concatenarsi di circostanze contro le quali inutilmente la protagonista assassina cerca di battersi. Il destino questa volta ha anche un volto, quello di Gale Sondergaard. È un volto orientaleggiante, serio, impenetrabile, impercettibilmente contratto da un desiderio di vendetta che pare venire da molto più lontano che una vedovanza indesiderata. Chi lo leggerà politicamente, chi razzisticamente; a noi sembra invece che i lineamenti falsamente eurasiatici della Sondergaard siano proprio il segno di una coscienza. Non, banalmente, una coscienza morale, ma qualcosa come la sensazione che qualunque intervento sulla realtà, qualunque tentativo di variare le conseguenze delle nostre scelte è destinato a scontrarsi contro qualcosa di ineluttabile, qualcosa che è al di fuori di noi e che ci osserva da un buio che va ben oltre una supposta qualità gotica, e dunque che va ben oltre la morale e lo stesso inconscio. Quel buio è esattamente antitetico all’ottimistica chiarezza predicata da Roosevelt qualche anno prima, quel buio è, a dir poco, il timore che ciò che ci aspetta dopo (quando che sia tale momento) ha già vinto su di noi.
Melodramma apparentemente esotico, psicologico, moralistico, Ombre malesi è invece una splendida testimonianza sul senso di fallimento di un decennio di cui esso sigla l’apertura, ottenendone non a caso uno dei maggiori successi di cassetta del suo anno. Ma testimonia – insieme a molte altre pellicole del tempo – anche dell’apertura di un nuovo, amplissimo ambito di operazioni cinematografiche, il cosiddetto “women’s film”, la pellicola costruita attorno a un importante personaggio femminile.
7. A proposito di tutte quelle signore. La figura della donna Verginella o maliarda, la donna hollywoodiana aveva sempre obbedito a cliché e solo con gli anni Trenta – e solo in alcuni generi (il western, per esempio) – aveva goduto di qualche evoluzione nella direzione di una maggior autonomia, di maggior carattere, iniziativa, coraggio e articolata umanità in generale. Col tempo ella evolverà dall’annoiata e testarda miliardaria di Accadde una notte all’intraprendente giornalista di Arriva John Doe (1941), ambedue di Capra, ma sempre in una posizione di subalternità, sempre come pianeta destinato a ruotare intorno a una stella centrale. I tempi però stanno cambiando. È vero che, per fare un titolo già noto, Stella Dallas era stato anch’esso un “woman’s film”, ma solo – si direbbe in judo – attraverso una “proiezione di sacrificio”, presentando cioè il personaggio in termini spregiativi e compatibili. Stella non ha né la cattiveria, né la fierezza, né la capacità di sognare delle grandi protagoniste hollywoodiane dei Quaranta e la sua storia diventa un “woman’s film” soltanto nel momento in cui si conclude. Ma con opere come Kitty Foyle ragazza innamorata (1940) di Sam Woo, Volto di donna (1941) di George Cukor, La signora Miniver (1942) di WilliamWyler, L’amica di Vincent Sherman, Femmina folle (1945) di John Stahl, Il romanzo di Mildred di Curtiz, L’anima e il volto (1946) di Curtis Bernhardt, Lo specchio scuro (1946) di Robert Siodmak, Il grido del lupo (1947) di Peter Godfrey, Il terrore corre sul filo (1948) di Anatole Litvak e tanti altri il cinema hollywoodiano sforna una ricchissima nuova tradizione che riflette quanto sia mutato il cinema dai tempi delle ingenue e delle vamp. Kitty Foyle è un perfetto esempio di come la situazione si andava evolvendo a Hollywood, e non solo per quanto riguardava l’immagine cinematografica della donna. Versione espurgata (ancorché precedente) degli orpelli romantici mitteleuropei di Lettera da una sconosciuta, la pellicola vanta un’incredibilmente brava Ginger Rogers nella parte titolare (vinse anche l’Oscar di quell’anno soffiandolo – inaudito! – alla Bette Davis di Ombre malesi). Ora, la Rogers si era fatta sino all’anno prima una solida reputazione grazie ai musical girati in coppia con Astaire, e fra quello stesso anno e il 1940 stava ulteriormente dimostrando con ben quattro film – Situazione imbarazzante (1939) di Garson Kanin, La ragazza della 5a strada (1939) di La Cava, Il piccolo porto (1940) ancora di La Cava e Il ponte dell’amore (1940) di Lewis Milestone – le sue innegabili doti di comedienne, già evidenti, soprattutto col divertente Una donna vivace (1938) di George Stevens. Kitty Foyle la laureò grande attrice drammatica. Certamente si trattò anche di versatilità, certamente si trattò anche della bontà della sceneggiatura dovuta a Trumbo e Ogden Stewart, ma a noi non importa ora tanto il perché della riuscita, quanto il semplice fatto che il “woman’s film” stesse ormai per diventare tanto di moda da impiegare “fuori ruolo” un’attrice specialista d’altri campi. a) La commedia Probabilmente il cambiamento più importante nella stessa commedia riguarda proprio la figura della donna. Tra la Hepburn dei Trenta e la Stanwyck di Lady Eva (1941) di Preston Sturges la parentela sussiste, è vero, ma i due personaggi sono agli antipodi. La donna della commedia brillante anni Trenta è ricca, sicura di sé, volitiva e disinvoltamente femminile, oppure è ricca, superficiale e ingenua. Qualche volta può persino essere povera, ma è comunque rigorosamente onesta. L’eroina del film di Sturges – incontrastato specialista del decennio – è un vero stendardo di quanto le cose siano mutate. Ella ha tutte le caratteristiche delle altre, a parte la ricchezza e l’onestà. È infida come un serpente (il simbolismo ofidico è evidente nel film) e conduce il gioco nei modi che vuole. Anche questo tipo di personaggio testimonia di una nuova aura femminile che i Quaranta tengono a battesimo, la misoginia di pellicole come questa parla chiaro invertendo il modello rivalutativo rintracciabile in non pochi “women’s films” e aprendo la strada al maggior misogino dell’intera Hollywood, Billy Wilder. È vero che Sturges è un regista particolarmente cinico e disinvolto e che di conseguenza a qualcuno verrebbe da pensare che tale immagine femminile sia soltanto la sua versione della donna in ambito di commedia. Ma una scorsa ad altre opere contemporanee di altri autori potrà al massimo dimostrarci quanto Sturges è superiore rispetto a essi, non quanto è diverso. A dire il vero, anche Sturges imperniò il suo mondo comico sul destino, o per meglio dire, sul caso («Egli riteneva che fosse il caso a determinare il successo e che l’insicurezza fosse un modo di vita obbligato», scrive Steven C. Earley22) ma trattandosi di commedia di costume tale essenziale componente veniva messa in ombra dal talento satirico dell’autore e anche dalla sua allegra amoralità
che si divertiva a porre in difficoltà, o addirittura a frustrare, personaggi di rigide convinzioni e di comportamenti intransigenti. Comunque, anche limitandoci alla sola figura della donna, il cinema di Sturges esemplifica meglio di ogni altro quanto la commedia sia solo la versione comica della tragedia, e forse meglio di ogni altro suo film questo si evidenzia in Il miracolo del villaggio (1944), nel quale la donna di Sturges non è perfida e malevola come certe eroine del noir, ma solo leggera e irresponsabile. Così, ella ritiene opportuno scaricare la propria responsabilità su un tizio che a propria insaputa dovrebbe diventare il padre di sei (sei!) figli di cui lei è incinta. A parte la delicatezza di un argomento simile per quei tempi, non esiste protagonista femminile degli anni Trenta che sarebbe mai giunta a tanto, e per di più in una commedia. L’emergere della donna sulla scena dell’immaginario sociale è vieppiù testimoniata da altre opere del settore nelle quali ella figura in modi assolutamente inediti. Nel film d’esordio (come regista) di Billy Wilder, Frutto proibito (1942), un capolavoro di complessa bellezza ancora oggi fra le cose più alte dell’autore, il gioco trigenerazionale messo forzatamente in scena da una sublime Ginger Rogers a spese del maggiore (nel senso di adulto e insieme di militare) Ray Milland è una delizia struttural-psicanalitica che difficilmente trova l’eguale nella storia del cinema americano. Non si tratta tanto dell’inganno perpetrato dalla ragazza quanto dei modi e dei volti con cui la donna si presenta all’uomo: la tenerezza che ispira un’adolescente, il compreso rispetto dovuto a una madre molto matura (che, gioco dei giochi, era nel film interpretata dalla madre della Rogers) e il desiderio che una giovane adulta sa risvegliare in un uomo emblematicamente disorientato, impacciato, confuso. Che magnifico quadro – un quadro essenziale, naturalmente – per come andavano le cose in America fra uomo e donna. Il puritanesimo originario aveva ordinato la società in modo che proprio alla donna fosse devoluto il compito seminale della costruzione morale della società (l’educazione dei figli, il mantenimento della casa, la rappresentatività sociale, ecc.). Nazione solo apparentemente patriarcale, gli Stati Uniti – come Leslie Fiedler ha ampiamente dimostrato – sono l’unico esempio di indiscutibile matriarcalismo in epoca moderna. Ma questi anni lasciano trapelare spiragli di verità nel quadro, permettono di comprendere che la funzione apparentemente secondaria della donna nell’ordine ufficiale stabilito sta mutando posizione, sta evidenziandosi per quello che è, sta avvicinandosi sempre più all’oggettiva, ancorché celata, realtà delle cose. Non si tratta tanto dell’“educazione” fornita all’eroina titolare in Kitty (1945) di Mitchell Leisen, anche se non a caso il Pigmalione della derelitta ragazza è un artista spiantato. Non si tratta cioè di un reale avanzamento compiuto dalla donna per quel che riguarda il suo posto nella società, bensì di un’evidenziazione del fatto che per quanti avanzamenti possa fare, ella – sia pure in modi non diretti – già ricopriva idealmente una funzione irrinunciabile. Non importa l’educazione di Kitty per essere una grande signora: basta l’intelligenza di Gene Tierney in Il cielo può attendere (1943) di Ernst Lubitsch. Non, si badi, la sua remissività, ma la superiore comprensione, di cui dà prova, che il mondo maschile è già vinto nel momento in cui, rinunciando a combatterlo, lo si osserva divertiti come si fa con i fantasiosi e ingenui giochi dei bambini. La funzione materna (grande alimento di certo melodramma: si veda il citato Mildred) è una costante del miglior cinema anni Quaranta, ma non in chiave di lacrimoso sacrificio (Amore sublime); piuttosto come asciutta scelta d’affetti alla quale non assistiamo in un commovente finale ma lungo tutto l’arco della vita del personaggio. In questo senso la figura della donna nel cinema americano si sta facendo sempre più matura, consapevole, superiore, non alla maniera in cui una ricca ereditiera riesce a girarsi attorno al mignolo uno sprovveduto professore di paleontologia, ma come donna che conosce bene cosa significa amare, esattamente come certe belve del noir, da Le catene della colpa (1947) di Jacques Tourneur a La fiamma del peccato di Wilder, sapevano sin troppo bene che cosa significa odiare. È comunque in linea con quanto appena detto che la commedia di questi anni insista su ambienti e scene di vita familiari: da Vita col padre (1947) di Michael Curtiz a Mamma ti ricordo! (1948) di George Stevens a Dodici lo chiamano papà (1950) di Walter Lang – che però segna già uno sfaldamento del tema nell’eccesso – è questa una tendenza che continuerà anche all’inizio dei Cinquanta. In fondo è una piega involutiva, ed estemporanea, di carattere nostalgico, che troverà nella commedia altre forme (così come, ad esempio, le stava trovando anche il musical, da Incontriamoci a St. Louis, 1944, di Vincente Minnelli a Summer Holiday, 1948, di Rouben Mamoulian), come ad esempio Margie (1946) di Henry King, un ritorno ai magici anni Venti che non è motivato dalla Depressione, ma, paradossalmente, dal periodo di ripresa che la seguì. Nazismo, comunismo, maccartismo: dato per scontato che gli anni Trenta erano stati ben poco allegri, furono gli anni Venti a incarnare i sogni giovanili di una generazione che giovane non era più. Nel film di King la scena del bagno, colorata e fantasiosa, quella della pista di pattinaggio, mossa e inventiva, canzoni castamente sbarazzine come 3:00 in the Morning rivissute nella memoria di una casalinga di mezza età parlano non solo della nostalgia di una donna più o meno frustrata per i begli anni della sua giovinezza ormai andati, ma, molto più largamente, di quella che qualunque donna – anche la più consapevole e libera – non può non sentire nei confronti – classico problema americano – di una spensieratezza, di un entusiasmo, di un’innocenza che non ci sono e non ci saranno più.
Questi sono gli anni in cui Spencer Tracy e Katharine Hepburn si combattono in corte come giuristi, avendo però una vita privata in comune, in La costola di Adamo (1949) di George Cukor, e non per nulla a Cary Grant è subentrato il simpaticamente burbero Tracy: se la donna si avvicina sempre più alla “parità” con l’uomo, l’uomo deve pur essere all’altezza di questa conquista. Quale parità era possibile col paleontologo di Susanna, ingenuo esponente di un sesso inadeguato? Tracy almeno, sebbene non meno asessuato, può vantare una decisionalità, una scorza che salvano le apparenze. Ma già un precedente film di Cukor, Scandalo a Filadelfia (1940), pur non vantando un personaggio femminile di nuova fattura e anzi mutuandolo da certe commedie anni Trenta nelle quali la donna compare come una tenera banderuola dagli incerti e superficiali desideri, si rivelò foriero di qualcosa di diverso in questo campo. Apparentemente la pellicola non ha molto di nuovo rispetto le commedie mezzo screwball mezzo sofisticate degli anni Trenta. Ma a starci attenti qualcosa si è insinuato nel mondo complesso e prevedibile di quel tipo di film. Dove mai sarebbe stato possibile un interclassismo che vede James Stewart anche solo sperare per un attimo di sposare la ricca divorziata Hepburn? Scandalo a Filadelfia è una girandola di possibili combinazioni sentimentali: il giornalista, l’ex marito, il nuovo fidanzato. Questa ideale promiscuità, che nemmeno un autore audace come Lubitsch osò mettere in scena con tale quoziente, è già un segno di diversità rispetto agli anni Trenta. È vero che alla fine tutto si rivela rassicurante e ognuno si accoppia con chi si deve accoppiare; ma il solo fatto di averci fatto baluginare per un momento davanti agli occhi altre possibili combinazioni (interclassistiche!) denuncia che qualcosa (ed era solo il 1940) stava cambiando nel cinema hollywoodiano a ridosso del costume e della mentalità nazionali. In ogni caso, la donna della commedia anni Quaranta è sempre più spesso una donna che lavora, sia essa un giudice come in La costola di Adamo o una commessa come in Il diavolo si converte (1941) di Sam Wood, Scrivimi fermo posta (1940) di Lubitsch o Molta brigata, vita beata (1943) di George Stevens, o attiva nipote di un lattoniere come in Fra le tue braccia (1946) ancora di Lubitsch, la businesswoman di Che donna! (1943) di Irving Cummings, la giornalista di La donna dell’anno (1941) ancora di Stevens. Hollywood come sempre mistificò un tema così importante giocando sugli aspetti potenzialmente divertenti dello scontro (quando scontro ci fosse), ma proprio per questo ci sembra non meno mistificante l’opinione di Brandon French quando afferma che I migliori anni della nostra vita (1946) di William Wyler riflette lo stato della mentalità americana durante la transizione dalla guerra alla pace nei tardi anni Quaranta per quanto riguarda il problema femminile. Nella sua partigianeria la French riesce persino a sostenere la santità e l’innocenza di Marie (la entraîneuse moglie di Fred) sulla base di un’ideologia del femminile della quale le prime vittime, a ben vedere, sono le donne stesse23. L’ascesa della donna nel cinema americano ha grazie a Dio altre forme e altre esemplificazioni (e anche altre motivazioni) che non la solita, prevedibile parzialità che ha tempestato sulla critica – cinematografica e non – degli anni Settanta. Ed è un peccato che non siano state né Marjorie Rosen, né Joan Mellen, né Molly Haskell a farci capire qualcosa di più in merito a questo problema. Forse non conviene fidarsi della storia scritta dai dominatori, ma di certo è bene evitare con intelligenza anche quella scritta dai dominati. b) Il “women’s film” L’atteggiamento ambivalente di Hollywood nei confronti della donna è esatto riflesso di una situazione psicologica tipica di un momento di transizione del costume e della mentalità. Da un lato la madre buona, o la giovane sensibile e innamorata, o la ragazza che sa guadagnarsi il pane da sé e si dimostra tanto disponibile all’affetto quanto autonoma nel condurre la propria vita; dall’altro la perversa del noir, l’infida e desiderabile creatura che finge innocenza e che invece trama per la distruzione dell’uomo. È del resto un vecchio archetipo oppositivo, quello in questione, e se nel quadro inseriamo un elemento xenofobo, ecco che subito la donna americana diverrà addirittura vittima di macchinazioni orrende tramate contro un sesso che è in realtà metafora della nazione. Ricordate i perfidi scienziati e gli orribili mostri degli anni Trenta? Ricordate l’immancabile timbro straniero sul loro passaporto? Oh, all’ufficio immigrazione il mostro può anche sfuggire grazie all’usuale trucco burocratico: una diversa identità. Ma è davvero tale? O non piuttosto uno di quei giochetti enigmistici in cui gli europei sono maestri? Dopotutto, sul passaporto del protagonista di Son of Dracula (1943) di Robert Siodmak è scritto il nome: conte Alucard. Come un famoso personaggio della saga di Superman, basterà leggere quel nome all’inverso perché possa cominciare il processo di esorcizzazione e perché si possa cominciare a capire – se ancora non lo si è fatto – che l’America e l’Europa vivono agli antipodi. Siodmak la sa lunga e piazza la sua creatura in America, sì, ma nella sua area più decadente, cioè nel terreno più adatto, in America, allo sviluppo di colture anomale. Vecchie mansions vagamente faulkneriane, paludi, fattucchiere. Siamo nel 1943: è davvero questa l’America che sta preparando il D-Day? Una festa di nozze tra Tennessee Williams e una «Cecoslovacchia magica» tra Capote e Meyrynk?
Al solito, la donna è al centro delle soprannaturali attenzioni degli stravaganti esseri che l’Europa manda in franchigia in Usa. Niente di nuovo: il modello, lo sappiamo, è ancora una volta richardsoniano e tutta una tradizione letteraria americana a uso e consumo delle casalinghe puritane tardosette e ottocentesche ne ha fatto man bassa. Ma qui è insidiato un intero ordine. Quale? Quello razionale, realistico, concreto, da sempre perno dello spirito pragmatico americano, ovviamente. Ma anche qualcos’altro. Lo capisce bene l’insospettabile (perché White Anglo-Saxon Protestant) Jean Yarborough nel suo La notte dei pipistrelli (1941), in cui uno scienziato d’origine europea (il solito Bela Lugosi), al servizio dell’industria americana, che si sente dire: «lei è un sognatore: troppo denaro per i sognatori non va bene» dal suo datore di lavoro, escogita un sistema per coltivare pipistrelli giganteschi con cui vendicarsi di chi lo sfrutta, di chi, come lui stesso dice, è ricco e felice, mentre la sua voce monologa fuori campo: «Sono tuoi i soldi che ti hanno dato. Tu li hai fatti ricchi e adesso dovrai anche andare a ringraziarli». Un audace esempio di critica del sistema: non poteva, in America, non prendere la forma del peccato faustiano, dell’orgoglio smisurato di chi vuole superare i limiti imposti dall’Ordine. Il mondo (cioè l’America) ha le sue leggi, che sono quelle del Capitale, e chi le rinnega è un mostro e un creatore di mostri. Che, guarda caso, parla l’inglese con accento europeo. Sarà in questo caso la stampa – tradizionale voce americana della ragione, della giustizia, e in ultima analisi del potere – a svelare l’arcano. Ma allora la donna chi è? La solita Clarissa insidiata da un Lovelace che puzza di zolfo, la quale prima o poi convolerà a giuste nozze col bravo ragazzo americano che la salva dal martirio di una seduzione innominabile, oppure la metafora (davvero imprevedibile?) del sangue vitale di un’America appetibile per chiunque ne sia estraneo? Un altro americano mette in guardia le sposine statunitensi da quel che può succedere nel momento stesso in cui si avvicinano all’altare: è Wallace Fox nel suo The Corpse Vanishes (1942), in cui il solito immigrato interpretato da Lugosi imbastisce la macabra metafora di uno scienziato che uccide (ma da gentiluomo europeo, con un’orchidea) le vergini al momento della cerimonia nuziale per poi trafugarne il cadavere e portarlo nella sua villa dove lo attende una moglie malata che per vivere ha bisogno – chissà perché – di sangue di sposa promessa. Anche qui è una giornalista (una donna: contrappasso comprensibile) a mandare tutto all’aria, e la consorte dell’intruso si rivelerà una vecchia decrepita, una volta privata della linfa fornita dai cadaveri ancora caldi. Nessuna meraviglia che la fine del film mostri accenti elisabettiani (sia pure impiegando fonti di romance in un contesto di tragedia) con la madre (Sycorax) di un servo-mostro (Caliban) malversato dal padrone che pugnala il signore mentre la moglie, priva dell’alimento americano, si rattrappisce e, intuibilmente, implode. Come può la vergine indifesa di film come questi diventare la ferma protagonista di Lo strano amore di Marta Ivers (1946) cui un altro immigrato, Lewis Milestone (con l’aiuto della bella sceneggiatura di Robert Rossen), darà forma temibile quando nella gita in macchina con l’amore di un tempo l’abbraccia artigliandolo in un modo non poi tanto diverso da quello in cui un’altra più famosa pantera, Gloria Swanson, artiglia Holden-Gillis nel capolavoro già citato dell’espatriato Billy Wilder, Viale del tramonto, che è da qualcuno considerato il più grande film gotico americano? La brava sposa dei Quaranta, quella che lavora e aspetta in attesa del marito alla guerra come nel sospetto Eravamo tanto felici (1943) di Edward Dmytryk, che strizza l’occhio al comunismo, produce i suoi anticorpi. Insieme al film di Wilder ne metteremmo un altro, meno famoso, meno “grande”, ma incredibilmente eloquente. Non poteva non girarlo un altro immigrato (con cui proprio Wilder e Siodmak avevano collaborato nei bei tempi europei), Edgar Ulmer. Il film si chiama Detour - Deviazione per l’inferno (1945) e vanta una tensione da horror film senza bisogno di esoterismi ed ectoplasmi, e con uno spazio quasi ridicolo: un continuo trasparente, una automobile, qualche stanza d’albergo, un bar. Tutto in questo film apparentemente “americano” è di taglio europeo, a cominciare dall’apertura che, in primo piano, inquadra il protagonista al banco di un bar mentre la sua voce monologa fuori campo e la luce si smorza lentamente, come in un vecchio film espressionista, dando inizio a un lunghissimo flashback. Ma soprattutto la versione che Ulmer ci dà della donna americana non ha precedenti nel cinema dei registi statunitensi. Quando il protagonista fa salire la ragazza sull’auto e la guarda pensa che è bella «non come una star del cinema, ma come una donna che vorreste per moglie». Ulmer ha già lanciato la rete, e la sua pesca si intuisce promettente. Ne esce un personaggio comparabile soltanto con la Jan Sterling di Asso nella manica (1951), che, va da sé, è ancora di Billy Wilder, ma questa volta il maschio è preso in un esercizio masochistico magistrale («Esser chiuso in gabbia è il mio sport favorito»), sollecitando la donna a una cautela che gli costerà uno sprezzante, tagliente, eloquentissimo «Sei come un marito!». Non è Doris Day che parla qui, né June Allyson, né Dorothy Provine, né le altre cento mogli-laureate del cinema americano. E non è nemmeno Lana Turner che, sia quando fa la moglie sia quando decide di non farla, sbaglia regolarmente, e regolarmente la sconta. Qui la donna muore solo per caso, poiché solo per caso una figura della sua forza può morire. Non c’è in Detour - Deviazione per
l’inferno la donna a due facce che audacemente Nicholas Ray avrebbe configurato in Johnny Guitar (1954), nel quale evidentemente Vienna ed Emma sono solo le due parti complementari di una temibile unità femminile che travolge un pistolero, un fuorilegge e la sua banda, e infine un intero paese. E quanto alla Stanwyck di un altro audace western, Quaranta pistole (1957) di Sam Fuller, è una fuorilegge che sa ammorbidirsi al momento opportuno. Non c’è spazio, nella donna di Detour - Deviazione per l’inferno, per l’amore (se non quello fisico, che peraltro l’uomo rifiuta) e l’isteria. Tutto nella sua figura è anomalo rispetto alle leggi del cinema americano così come anomalo è il trattamento dei momenti di maggior tensione, tagliati improvvisamente da monologhi inattesi o addirittura da azioni mute del tutto impreviste e irregolari, da calcolati prolungamenti nel tempo di montaggio che impediscono definitivamente una qualsiasi possibilità d’attribuzione del film di Ulmer a un qualche genere formalmente riconosciuto del cinema americano. In una sequenza densa di angoscia esistenziale, quando il protagonista, ormai fisicamente libero dall’incubo che per giorni l’aveva tormentato, viene avvicinato da una macchina della polizia che per lui può significare una semplice contingenza oppure l’ergastolo, la sua voce ci dice che questa è la nostra condanna: la possibilità sempre presente che un giorno «qualche forza misteriosa punti il suo dito a voi o a me senza alcuna buona ragione». Ci volevano dei registi europei per dare forma non soltanto a dei terrori impalpabili come questo, ma anche per osare una critica così dura nei confronti della donna, di quella stessa donna che da qualche anno aveva conquistato lo schermo non più come fatale compimento del destino dell’uomo, né come più o meno anonima compagna di gangster, impiegati, scienziati, ecc., né come caotico animale che, come alcuni personaggi della Hepburn anni Trenta, si prende ciò che vuole, persino – come nello splendido Il diavolo è femmina (1935) di George Cukor – in contrasto con la parte maschile che un’inversione di ruoli imposta la obbliga a volte a recitare. L’immagine della donna comunque sta cambiando: buona o cattiva, infida o generosa, la donna si è conquistata non tanto un posto di riguardo sullo schermo (quello l’aveva avuto da sempre) quanto il diritto di esigere che i personaggi femminili fossero finalmente più complessi e sfumati che nel passato e che i cliché della ragazza bene, di quella perduta, della giornalista o della bambola del bandito e persino quello abusatissimo della buona moglie non venissero cancellati (e perché mai? Non ve ne sarebbe ancora stato bisogno?) ma riconsiderati in termini più complessi, approfonditi e umani. L’umanità di Mildred nell’omonimo film di Curtiz, infatti, non è certamente in discussione, né, crediamo, quella di Kitty Foyle, nell’omonimo film di Sam Wood. L’America – non si fraintenda – non era maturata politicamente (il maccartismo alle porte lo dimostrava bene); era la donna che attraverso la tragedia della Depressione e la sua unanime solidarietà a Roosevelt, e di lì a poco attraverso la tragedia della guerra e la sua non meno unanime partecipazione attiva a essa, si era imposta all’attenzione del Paese in un modo che rendeva impossibile ogni rimando, ogni indugio. Così, Hawks dovrà aspettare qualche anno prima di girare quella deliziosa, amichevolissima satira della nuova situazione che fu Ero uno sposo di guerra (1949): il processo doveva decantarsi e sarebbe stato addirittura pericoloso toccare comicamente un simile argomento prima che esso fosse giunto a completa evoluzione (peraltro, il personaggio maschile, secondo la migliore tradizione anglosassone, non è americano, ma francese: rivincita delle rivincite). Ma Hawks fu qui particolarmente furbo: l’attore era il più amato comedian brillante di tutta l’America, Cary Grant. Non ci convince affatto la spiegazione che Higham e Greenberg forniscono in relazione al sorgere del “women’s film”. È vero che Via col vento fu in questo senso una sorta di antesignano, ma non crediamo affatto che, sociologisticamente, grazie a esso «i capi degli studios cominciarono a vedere come una sontuosa produzione costruita attorno a un personaggio femminile potesse assicurare profitti al box office»24. In realtà la sontuosità Mgm di Via col vento – dato e non concesso che si sia ripetuta spesso nei posteriori prodotti della casa al livello di quel celebre film – non trovò certo riscontro in seguito nelle produzioni “women’s” di altre case. È vero, come affermano i due critici, che nelle produzioni Warner anni Quaranta con la Davis gli ambienti erano sempre ricchi se non prodighi, ma si trattava di segni intesi a indicarci l’estrazione sociale dell’eroina, non di scenografie il cui fine era di impressionarci per la loro grandiosità e il loro dispendio. Del resto, non in tutti i film Atlanta può venire assaltata dai nordisti e bruciare in un immane rogo. Non ci convince, inoltre, l’affermazione secondo cui «Nei Quaranta, con il vasto pubblico di donne sole lasciate dai mariti, dai fidanzati, dai figli andati soldati, il bisogno di mezzi d’evasione di questo tipo divenne evidentemente pressante»25. Sembra spiegazione usualmente adottata per comprendere il successo del romanzo sentimentale inglese alla sua nascita nella prima metà del Settecento (marito in Borsa = moglie annoiata). Il punto è esattamente opposto: il genere – se di genere di tratta – non nasce in relazione a una situazione sociologica che sembrerebbe immutabile, sempre identica a se stessa (che cosa fa una donna rimasta forzatamente sola? Guarda film d’amore e di passione interpretati da altre donne), ma perché la situazione sociologica è mutata – o sta mutando – e di conseguenza il cinema (e qualsiasi altra arte), non può far altro che adeguarvisi, sia pure nei mille
diversi modi possibili in relazione al suo proprio linguaggio, ai suoi materiali, alle specifiche personalità dei suoi autori, ecc. Non va poi dimenticata l’altra coordinata del “women’s film”: il divismo, una componente che si ritrovò sposata alla nuova tendenza in modo felicissimo. Solo la Garbo e in parte la Dietrich avevano potuto beneficiare di film girati, per così dire, su di loro. Nemmeno dive indiscutibili come la Colbert o la Dunne godettero mai di questo privilegio. E divismo voleva evidentemente dire non più languori o sopracciglia arcuate sia pure in modo autoironico (ma ce ne furono tante come la Dietrich?), bensì realismo di sofferenza, veridicità di dolore, credibilità di sensazioni. La cosa interessante è che, però, tutto questo, come si notava più sopra, aveva regolarmente per teatro ambienti benestanti o addirittura ricchi, sempre molto scelti ed eleganti, un mondo senza problemi di denaro nel quale le passioni potevano svilupparsi e bruciare senza la distrazione inevitabilmente procurata dal bisogno. Ancora una volta, insomma, Hollywood propone “tragedie eroiche”, ma con una differenza: il contrasto amore/onore, amore/dovere, ecc. e la conseguente scelta di sacrificio non attingeva le proprie ragioni a un’ineluttabile necessità di casta. Di più: la scelta che portava al sacrificio era data quasi per scontata. Il film era in genere più interessato alla vita del personaggio durante le conseguenze del sacrificio. Ecco dunque che la componente morale di questi film si rivela solo confezione esteriore: non c’è modello da suggerire, ma solo il compiacimento sentimentaloide di crogiolarsi in una situazione anomala e sin troppo nobile. Da questo punto di vista molti “women’s films” sono per così dire l’anticorpo del noir, non nel senso che essi rispondano per le rime a quel genere duro e spietato, ma perché stendono il classico velo pietoso su quelle stesse oggettive, concrete cause sociali delle quali il noir fu l’indiretto – ma non dialettico – interprete. Questo spiega anche perché, nel suo insieme, il melodramma – cui certamente anche gran parte del “women’s film” appartiene – pur presentandosi come problema morale tratta in realtà problemi psicologici. I dilemmi apparentemente etici dei suoi eroi (spessissimo, appunto, eroine) sono in fin dei conti dilemmi esistenziali sovente in relazione con la patologia (sia in modo latente che manifesto). L’esempio di Charlotte (e della sua piccola protetta) in Perdutamente tua è emblematico; ma potremmo aggiungere l’assassina psicopatica di Lo specchio scuro di Siodmak (che, guarda caso, è gemella della protagonista buona), il miliardario perverso di Nella morsa (1949) di Ophuls, l’intera famiglia Towers e le sue follie in Delitti senza castigo (1941) di Sam Wood fino ad arrivare a quella vera e propria piccola clinica per malattie mentali che è la famiglia di Piccole volpi di Wyler. Ma con Piccole volpi siamo già su un altro terreno, stranamente diverso dalla maggioranza dei melodrammi – di donne o no – che costellano il cinema del periodo. È un dramma di classe, l’esatto opposto di ciò che erano i melodrammi anni Quaranta, nei quali tutto poteva venire toccato tranne l’appartenenza dei personaggi al loro ceto superiore. Qui i perfidi rivaleggiano in cattiveria come certi personaggi di Agatha Christie con le loro sordide imprese quando si trovano casualmente insieme in qualche pranzo misterioso. Solo, queste sono riunioni di famiglia come tante altre: vale a dire, è questo lo stile di vita borghese. Wyler fu in questo senso un regista alquanto coraggioso: dopotutto cinque anni prima aveva firmato la pur edulcorata prima versione di La calunnia, rivelando una qualche sensibilità davanti a problemi che usualmente Hollywood preferiva ignorare. Piccole volpi è un film importante, non tanto per la buona riuscita di regia e attori (cosa indiscutibile), ma perché la sua sola presenza ci permette di comprendere molto bene certe tendenze represse della Hollywood di allora, ci testimonia che l’assenza di interesse verso i problemi morali di una classe era soltanto imposta e che, a starci attenti, dietro a un qualsiasi melodramma del periodo si sarebbe qualche volta potuto leggere qualcosa di più che non un sublime sacrificio, un amore segreto, una sofferenza portata con forza e orgoglio. La stessa nevrosi di cui si diceva più sopra parla in fondo chiaro su come andavano le cose. Difficilmente l’austera, rigida madre di Charlotte in Perdutamente tua è rappresentativa soltanto di se stessa. L’esercizio durissimo della sua fredda autorità nei confronti della sopraffatta zitellina non può non avere radici altrove che non nel suo personale carattere di individuo. Essa riporta, è evidente, a un solido matriarcato che è tradizionale nel secolare sviluppo della borghesia (soprattutto anglosassone) e al quale sembra si possa sfuggire soltanto con un marito (come ha fatto la sorella di Charlotte, tranquilla ed equilibrata a un punto tale che la cosa diventa sospetta). Ecco allora che l’apparente aggiornamento del “women’s film”, e in genere l’emergenza che in questo decennio ebbe la figura della donna a Hollywood (ma si pensi anche all’audace anticipazione quasi femminista di Le cinque schiave, 1937, di Lloyd Bacon) nascondono un retroterra che continua ad avere un carattere conservatore. E in questo senso Hollywood – nonostante il gran numero di pellicole che concedono spazio alla donna – si dimostra più indietro della realtà sociologica che pure non manca di percepire. Dopotutto è ancora la donna sensuale e provocante di Gilda (1946) di Charles Vidor a fare testo, cioè una parente aggiornata della femme fatale di moda ancora nel muto. Ma proprio quel film dimostra che non è necessario essere una suffragetta o una intellettuale acida e scostante per reclamare – ancorché
nel modo soffice e ironico che solo una Hayworth poteva permettersi – contro le ingiustizie storiche nei confronti del gentil sesso: specificamente, il celebre numero “Put the Blame on Mame”. Higham e Greenberg hanno ragione quando sostengono che I misteri di Shanghai (1941) di von Sternberg anticipa la galleria di creature notturne che scorre lungo l’arco di Gilda. La parentela, anzi, è ancor più stretta: in ambedue si celebra la femme fatale (un mito così caro a Sternberg) e una vera e propria tragedia legata alla sua figura. È però anche vero che le differenze sono rimarchevoli. Esse ci interessano non tanto per proporre un gratuito confronto fra due pellicole dopotutto molto diverse fra loro, quanto perché l’una e l’altra sono non poco indicative di due diversi tipi di cinema, di due gusti non accostabili, di due concezioni visive lontane nel tempo ben più che cinque anni, e anche di due modi di presentare il mistero femminile. Anche in epoca di sonoro Sternberg è sempre stato un genio del muto. Il suo cinema è fatto, notoriamente, di scenografia, lusso, dispendio, luci e ombre ugualmente smaglianti, e le sue opere degli anni Trenta sono sicuramente molto più intonate alla loro epoca (anche se certamente non mediamente rappresentative di essa) di quanto I misteri di Shanghai non lo sia dei Quaranta. Le porcellane sontuose di Sternberg non hanno più ragione di essere in un mondo che nell’Oriente di lì a poco non vedrà semplicemente una supposta e mitica doppiezza, ambiguità, decadenza, ma un nemico fortissimo e numerosissimo. Sono, questi, gli anni della guerra, la Lunga Marcia si era compiuta nel 1935, e ora Mao e Chang-kai-shek combattevano contro il comune nemico giapponese ma con forti contrasti interni. La visione che Sternberg ha dell’Oriente è decisamente romantica, ed è più vicina all’esotismo del primo Romanticismo che non alle ironiche decadenze un po’ snob degli esteti inglesi tardo-ottocenteschi. O meglio, egli ne è una strana fusione, la versione estetica di una moda commerciale che l’Occidente ha a lungo vissuto nei confronti dell’Est. Ma ormai l’orientale non cela un pugnale ricurvo fra le sue maniche troppo larghe, egli ostenta un mitra in pugno, pilota aerei suicidi, e obbedisce alle sue (per un occidentale) inusitate tradizioni senza tanti misteri. La donna orientale, l’ambigua vedova di Ombre malesi, e ancor più la Gin Sling di I misteri di Shanghai, obbediscono a una galleria mitologica del passato: il torbidume che evocano (soprattutto la seconda), i loro destini di morte, tutto suona troppo retorico persino per un’età che ha fatto, del melodramma, della retorica la sua sostanza e la sua forma. A pensarci bene, le grandi rinunce della Davis non sono più credibili dei plateali, fin straniati gesti della Munson; ma hanno un’importante caratteristica, sono gesti occidentali, non “di Shanghai”. In certo senso sarebbe stato come girare Il terzo uomo (1949) di Carol Reed o Scandalo internazionale (1948) di Billy Wilder nel 1968: a chi sarebbe interessata la Vienna dell’occupazione o del mercato nero in quegli anni abietti? Il mondo era ancora grande nei Trenta; ma nei Quaranta si stava restringendo, e nel modo peggiore, cioè a suon di bombe e cannonate. E Shanghai (con tutto quel che rappresentava per un occidentale) poteva al massimo avere un qualche valore politico-militare: in ogni caso la morale e il sesso, l’inconscio e l’estetica non ci avevano quasi più niente a che fare. Di conseguenza anche la donna di Sternberg, fatale e maledetta – per se stessa prima ancora che per gli altri – cominciava ad avere sempre meno diritto di cittadinanza in quell’epoca. La fatalità e la maledizione persistevano, ma erano, appunto, quelle di Rita Hayworth, fasciata in raso, guanti neri e lunghi, scarmigliata e non insidiosamente composta nei capelli, esibizionistica e non introversa, sensualissima e concreta invece che astratta e scostante. I misteri di Shanghai chiude in pratica la carriera di Sternberg. Un film fuori tempo e proprio per questo stupendo come forse null’altro da lui mai fatto, ne segna la gloriosa fine. Di tutti i miti che Sternberg contribuì a creare (e a cominciare da Marlene, non furono pochi né secondari) lui fu quello che ebbe vita più breve, dimostrando che si poteva anche resistere all’avvento del sonoro con capolavori indelebili, ma che prima o poi il tempo prende le sue vendette. Con I misteri di Shanghai Sternberg muore eroicamente lasciandoci un noir fuori posto, un “woman’s film” non classificabile, un melodramma nostalgicamente legato a un cinema che non sarebbe mai più stato: il suo. Sternberg è a suo modo un regista-chiave per comprendere una importante fase di mutamento nel cinema. Con lui infatti se ne va un’idea ancora squisitamente visiva di quell’arte. Nonostante la brillantezza icastica di molti suoi dialoghi (si pensi solo a certi flash in L’imperatrice Caterina), è il suo gusto visuale ad avere regolarmente la parte del leone nelle opere da lui girate. La fine di Sternberg diventa quindi emblematica: il cinema rimane – e non potrebbe essere altrimenti – arte dell’immagine, ma il dialogo, le parole, i rumori, la musica invadono sempre più il campo. Che Hawks sia un maestro visuale non vi sono dubbi, eppure le sue commedie non sono concepibili senza il fondamentale supporto del dialogo; e lo stesso vale per il posteriore Billy Wilder: straordinario com’è da un punto di vista di struttura visiva, Uno, due, tre! non reggerebbe senza le sventagliate di dialogo che ne fanno uno dei film più parlati nella storia del cinema. In altre parole, il sonoro sta proseguendo sempre più la sua avanzata, nel senso che sta sviluppando vieppiù le sue componenti aurali e – sia pure limitatamente – riducendo quelle visive (a riprova, fra
l’altro di quanto, in una citazione precedente, diceva Guido Fink a proposito della voce fuori campo).
8. La musica cambia Prendiamo come probante esempio i musical del decennio. Così come Via col vento – dicevamo – aveva segnato la fine di un certo cinema, allo stesso modo Il mago di Oz tira una linea su un musical che aveva puntato molto sugli elementi visivi. Che si fosse trattato delle incredibili composizioni alla Berkeley o degli attentissimi contrasti fra bianchi e neri e sfumature di grigio (nonché sulle perfette, elaboratissime coreografie) nei film con la coppia Astaire/Rogers, il musical anni Trenta era stato molto sensibile all’aspetto iconografico. Con gli anni Quaranta prevale il “numero” filmato: non a caso trionfatrice del periodo è Carmen Miranda, una cantante molto simpatica, ma che non sa cantare e che non sa ballare, la quale punta tutte le sue carte sull’esotismo mozzafiato dei suoi costumi dopotutto sempre uguali. Oppure Frank Sinatra, buon cantante, ma francamente ben poco prestante per numeri eleganti, colorati, movimentati, strutturalmente complessi, come dimostrò bene Nuvole passeggere (1946) di Richard Whorf. Sinatra funzionava per una ripresa sul palcoscenico, in uno scantinato di Brooklyn, su una strada di periferia, al chiaro di luna con una ragazza, ma riuscite a vederlo nei ruoli di Astaire o fra le 100 girls che, viste dall’alto, compongono un fiore in un qualsiasi numero di Berkeley? Così, fra Notti argentine (1940) di Irving Cummings, Una notte a Rio (1941) ancora di Cummings, Tre settimane d’amore (1941) di Walter Lang, Accadde a Brooklyn (1947) di Whorf, Step Lively (1944) di Tim Whelan, intrattenitrice da night-club la prima, eterno sognatore alla ricerca del successo il secondo, ambedue – ovviamente ognuno a suo modo – interpretano l’atmosfera casalinga del periodo: la Miranda ne incarna il sogno esotico (e persino la sua falsità palese ne fa parte), Sinatra lo spostamento che dalla campagna (o dalla provincia) il musical stava facendo verso la città. Al Mickey Rooney inizio anni Quaranta è Sinatra a succedere. Il bravo ragazzo del Mid-West diventa il bravo ragazzo di Brooklyn: ambedue desiderano fama e fortuna. C’è tanta differenza? Anche le protagoniste di Le ragazze di Ziegfeld (1941) di Robert Z. Leonard vogliono la stessa cosa, ma c’è modo e modo di cercarla. Comunque la favoletta moralistica è secondaria rispetto alla ricostruzione di uno scenario alla Ziegfeld che ricorda in cinema Il paradiso delle fanciulle e che in quell’anno suona per lo meno nostalgico di qualcosa che era ormai definitivamente scomparso. Tanto scomparso che quello stesso Ziegfeld di cui Il paradiso delle fanciulle era un biografia viene, a distanza di dieci anni, simpaticamente osservato in articulo mortis dal Vincente Minnelli di Ziegfeld Follies (1946) che ce lo propone in completo bianchissimo come un angioletto, mentre fra le nubi si mette a ricordare i suoi cocchi prediletti in una pellicola che è solo una serie di numeri di rivista (alcuni peraltro molto piacevoli). No, l’eroe contemporaneo del musical ha grandi sogni ma se ne va soldato come l’esordiente – in pellicola – Gene Kelly di For Me and My Gal (1942) di Busby Berkeley, alle luci del varietà preferisce nobilmente il bagliore delle cannonate oppure la scura tenuta del sacerdote come Bing Crosby in La mia via (1944) di Leo McCarey. Insomma, il glamour se n’è andato. Se n’è andato persino dai film con Astaire, da Balla con me (1940) di Norman Taurog – tranne che nel celebre numero “Begin the Beguine”, che è un tripudio di brillantezza – a La taverna dell’allegria (1942) di Mark Sandrich, da L’inarrivabile felicità (1941) di Sidney Lanfield a Cieli azzurri (1946) di Stuart Heisler. Nemmeno essere in coppia con la Hayworth (cioè la miglior partner mai avuta dopo la Rogers) in L’inarrivabile felicità servì molto a Fred: il film è piacevole, ma non ha smalto. Così, comprensibilmente, negli anni Quaranta entra sulla scena del musical la “piccola città” con le sue non meno piccole istituzioni. Prima fra tutte la scuola, fucina collettiva di slanci (e di teoria) individualistici e già in sé istituzione “totale” entro la quale inscenare l’usuale gara sociale che ha per palio l’emergenza e il successo del singolo, peraltro salacemente represso se le sue istanze individualistiche battono la strada sbagliata della pur simpatica millanteria: si veda Girl Crazy (1943) di Norman Taurog, dove tale “discours pédagogique” prende anche la classica forma del contrasto cittàcampagna (coreografie ancora di Berkeley, ma spettacolarmente ben più ridotte rispetto alle sue cose anni Trenta). Quel che interessa però non è tanto l’evoluzione storica del musical in chiave sociologica, quanto in che misura tale mutamento riesce, per così dire, a scalfire l’ontologia del genere o quanto meno il modo e i modi in cui essa si adatta al mutamento. Ci sembra che la danza funga da ottima piattaforma di analisi. E logicamente. Se è vero che il musical classico degli anni Trenta dispiegava un’eleganza musicale che andava di pari passo con le figure di danza che la esprimevano visivamente, è anche vero che in esso non erano mai mancati esempi più mossi e vivaci. Certo, la dominante degli anni Trenta in questo senso era stata la grande lezione di Ziegfeld, come si diceva (rintracciabile soprattutto in Berkeley e in Cantor), secondo la quale la musica fungeva spesso da commento allo sfarzo scenografico e alla bellezza femminile coralmente intesa. Pure, vi sono momenti in quel cinema che, nell’eleganza dei motivi di Kern, Berlin, Gershwin e Porter, non trascurarono esplosiva allegria e vivacità (persino nel calibratissimo
Fred Astaire). Ora, tale componente si allarga ampiamente negli anni Quaranta, dominati da un tipo di performer infinitamente più vitale e scatenato: ancora Rooney (e la Garland), ad esempio. Esaltando il vitalismo sotteso all’etica individualista di nuovo in primo piano dopo la fine della Depressione, questi film non potevano non concedere alla danza la parte del leone come incarnazione figurale di essa. D’altro canto, è innegabile che la fusione fra danza e musica non ne viene in alcun modo inficiata: è il tono di questa fusione ad assumere gradazioni più acute e adeguate all’espressione delle emozioni specifiche. Ciò è comprovato dal fatto che usualmente le scene d’amore si risolvono ora a livello puramente musicale: la danza, insomma, esprime un’esplosione emozionale che non lascia posto ragguardevole alla sentimentalità. La casistica attoriale specifica del periodo è estremamente eloquente: sono gli anni di Vera-Ellen, di Betty Hutton, Ann Miller, Gene Kelly, Danny Kaye, ecc. E non per caso personaggi lontanissimi da questo tipo di impronta, come Kathryn Grayson e Howard Keel (spesso in coppia), si limiteranno al canto legandosi per tutto il resto della loro carriera al ruolo di “amorosi” tout court, e abbracciando spesso e volentieri il versante dell’operetta. Ci vorrà il genio di Minnelli – sicuro anticipatore degli anni Cinquanta – per disciplinare lo spettacolo e interpreti come Gene Kelly e la stessa Garland, o attraverso la trattazione di un ambiente che non permette eccessi (sia pure piacevolissimi) come in Incontriamoci a St. Louis (1944), o attraverso la costruzione di un universo spettacolare autonomo e significante nel quale ogni movimento è calcolato non solo in relazione alla comunicazione specifica di cui è veicolo, ma soprattutto in relazione all’intera opera come struttura: dove insomma, le singole componenti del film entrano programmaticamente in relazione fra loro in modo tale da non permettere “segni” che ne guastino la tenuta strutturale complessiva (spesso “messaggio” metalinguistico sullo spettacolo): si pensi a quel capolavoro di “eccesso programmato” (e armonizzato) che è Il pirata (1948). Sulla qualità nostalgica di gran parte dei musical di questi anni non crediamo sussistano dubbi: non solo nei titoli sopra citati, ma anche in varie biografie di vecchi artisti del campo, Hollywood si esercitò non poco in tale direzione di rimembranza. Dallo Stephen Foster di Swanee River (1940) di Sidney Lanfield al George Cohan di Ribalta di gloria (1942) di Michael Curtiz, da Al Jolson (1946) di Alfred E. Green a Dan Hammett in Dixie (1943) di Edward Sutherland non si contano in quegli anni i biopics di personaggi dello show-business. La nostalgia era in fondo un altro modo di rielaborare il tema di un’America rurale, pastorale, rooseveltiana, ma questa volta solo per celebrarla, non per propagandarla. Quei tempi, si diceva, erano finiti, e la mente ritornava a essi unicamente con rimpianto, senza alcuna speranza. Vanno dunque letti in questa luce, fra i tanti, anche California (1944) di Frank Ryan, piccola epica amorosa sui forty-niners con Deanna Durbin e le canzoni di Kern, Bellezze rivali (1946) di Preminger, ancora su musica di Kern, con inni patriottici e ballate ferroviarie, Festa d’amore (1945) di Walter Lang, un classico dell’America agricola, Summer Holiday (1948) di Mamoulian, l’all-black di Minnelli Due cuori in cielo (1943), il colorato Ti amavo senza saperlo (1948) di Charles Walters. Abbiamo indugiato tanto sui titoli perché il lettore possa rendersi conto che si tratta di un numero elevatissimo di produzioni (e naturalmente i film citati valgono solo come semplici esempi indicativi di una tendenza molto più ampia e nutrita). L’America fra guerra, preguerra e dopoguerra non sapeva dove guardare. I suoi drammi, direttamente o dialetticamente, potevano alludere a quel triste periodo di incertezze, ma i suoi musical di che mai avrebbero potuto parlare? Forte, sì, ma anche stanca, delusa, amareggiata, la nazione si era messa a ricordare i tempi felici in cui tutto andava come lo spirito nazionale esigeva (ma era stato, davvero così?). Del resto, il musical era sempre stato un genere onirico (e ancor più lo sarebbe diventato nei più cupi anni Cinquanta, come vedremo). Purtroppo il sogno sarebbe stato interrotto bruscamente da un annunciatore la cui voce a metà di un pezzo di Glenn Miller alla radio comunica drammaticamente che i giapponesi hanno bombardato Pearl Harbor. Come in tanti film che hanno fatto uso di questo cliché, la musica riprende, ma lo spirito non è più lo stesso. Il sogno continua, come continua il musical, ma con la coscienza che la realtà gli è dietro e che non basta ballare o cantare per far fuggire i fantasmi troppo concreti e tangibili di un’epoca arrivata senza che quasi ci se ne accorgesse e che prometteva, di lì a qualche anno, altri orrori.
9. Un leone nella strada: Val Lewton e il nuovo orrore È possibile che questi orrori alludano in qualche modo a quelli di cui soprattutto la Universal si fece alfiere sin dagli anni Trenta. Ma, come al solito, crediamo che il gioco sia più sottile e complesso. Già abbiamo detto dell’ampio gruppo di esuli europei che sin dagli anni Venti avevano cominciato ad arrivare in America e che l’avvento del nazismo spingerà sempre più a lasciare il loro Paese. Allo stesso modo abbiamo detto dei territori che essi preferirono battere, il melodramma (inteso in senso amplissimo: dunque anche il noir) e la commedia brillante. È probabile che in questi generi essi abbiano
dato le loro cose migliori da un punto di vista estetico; ma è anche probabile che un altro genere sia stato loro appannaggio anche maggiore, rivelatore di turbamenti e conflitti ben superiori a quelli – già non poco ossessivi – narrati sullo schermo, conflitti relativi al loro stesso essere altrove, alla loro condizione di esuli, e di conseguenza all’inevitabile scontro fra due mentalità e culture. Questo va bene quando si tratta di confronto accademico o anche di civile e amabile discussione; ma quando avviene sul terreno dell’immaginario il congresso culturale diventa una casa di fantasmi. Il sottile antieuropeismo che percorre il cinema americano dalla grande crisi al dopoguerra deve certamente non poco al conclamato isolazionismo che era seguito al crollo della Borsa e che arrivò sino a frenare l’intervento del Paese – ormai ristabilito – contro i nazisti. Cugino stretto di questo atteggiamento è naturalmente il nazionalismo. Comprensibilmente caldeggiato nel periodo della Depressione, il nazionalismo – identificato sotto le tranquillizzanti spoglie della democrazia – invase anche gli anni Quaranta. In un primo tempo con la coscienza che l’essere americani sconsigliava ogni ingerenza negli affari europei, poi per una comprensibile propaganda bellica, infine come arma ideologica contro il “pericolo rosso”. Dietro la sua baldanza e la sua sicurezza solare il nazionalismo nasconde sempre terribili abissi di paura. Nel cinema americano esso dunque ebbe due facce: la prima chiara, allegra, confortante, luminosa (si veda ad esempio Musica indiavolata, 1940, di Busby Berkeley), l’altra cupa, sinistra, paurosa, agghiacciante, ossessiva. Il film dell’orrore che dall’inizio dei Trenta è sempre stato puntuale sugli schermi americani, negli anni Quaranta diventa ancor più la concretizzazione di un’isteria nazionalista, come ben testimonia il trattamento del personaggio europeo di cui si diceva. E questo non solo nelle pellicole di evidente vena orrifica, non solo nei film che della visione del mostro avevano fatto emblema (dai bulloni sulle tempie della creatura di Frankenstein agli occhi iniettati di sangue di Dracula), ma anche in quelli che finalmente tenteranno un’elaborazione dell’orrore in terrore, come le straordinarie produzioni di Val Lewton. Il suo film più famoso, Il bacio della pantera (1942), diretto da Jacques Tourneur, denota profonde componenti xenofobe. La bella coppia americana Oliver-Alice (destinati ab initio l’uno all’altra) si vede separata ancor prima di unirsi dall’intrusa Irena, nativa di un misterioso Paese slavo, ancora legato a vecchie leggende e comunque al di fuori della potenziale area di influenza americana. Le navi a cui lavora Oliver non potranno mai approdare a quel lontano Paese e la vittoria (“Victory”, come la nave tanto ammirata da lui e dalla sua collega) potrà al massimo essere la morte, ma non la conquista. Molto di più. Dice la seconda parte del cartello allo zoo (uno dei luoghi privilegiati dei film terrifici e teromorfici di Lewton): «Non fate che si dica: questo luogo era bellissimo prima che voi arrivaste». Il grande zoo americano, fatto di fiere in cattività, esorcizza (ricordiamo l’attrezzo a forma di croce nella sequenza-chiave dell’ufficio) il nemico straniero che potrebbe aprire la stura al represso e che non per nulla s’impadronisce della chiave di una gabbia. La chiave è quindi la chiave del film, e non a caso essa compare in primissimo piano nel sogno di Irena a ricordarci che si tratta di un oggetto-limite, dal punto di raccordo di due mondi opposti e irriducibili, della chiusa che può riversare forze inarrestabili e paurose sulla tranquilla sicurezza dell’Eden americano. Ma c’è una differenza: Tourneur, come Lewton, è di origine europea, e non può fare a meno di trattare il suo “mostro” (che, come Bela Lugosi, è anch’ella un’attrice europea, Simone Simon) in un modo più morbido (così come l’Ulmer del già citato The Black Cat, in cui l’ex vampiro di Tod Browning diventava quasi un eroe positivo, non per nulla rappresentante della più audace branca della scienza umana del tempo, la psicanalisi): Irena è solo una vittima, non un mostro assetato di sangue. Le sue reazioni sono quelle di una donna gelosa e condannata a una pena che personalmente non si merita, ma cui comunque deve sottoporsi per origine. La cosa è chiara, ma forse non è un caso che Val Lewton – pur affidandola questa volta a Robert Wise (insieme, si noti, a un altro transfuga, Günther Frisch) – produca il suo seguito, Il giardino delle streghe (1944), presentando la figura di Irena in un sogno infantile che non ha nemmeno le caratteristiche dell’incubo, ma se mai quelle di una fiaba che soltanto gli adulti, ottusi e ciechi, possono temere. Giustamente nel film Irena alla fine non scompare, e gli adulti pur non potendola vedere nella sua sostanziale innocenza, devono ammetterne l’esistenza di gentilezza e tenerezza testimoniata dalla bambina. Ma Lewton merita di più che non una classificazione così generalizzata. La xenofobia di un film come Il bacio della pantera è sicuramente secondaria rispetto alle formidabili innovazioni che questo originale produttore pensò bene di apportare a un genere poco considerato come l’horror film. Da un punto di vista “letterario”, le innovazioni di Lewton son presto dette. Accogliendo la teorizzazione jamesiana secondo cui è molto più pauroso ciò che non si vede e secondo cui la grandezza del male va intuita e non mostrata, Lewton elaborò un cinema tutto costruito sulle ombre e l’oscurità: non un mostro, non un’immagine doveva sciupare l’atmosfera di terrore creata nello spettatore dalla coscienza che qualcosa era lì in agguato nelle tenebre. Solo qualche suono ambiguo e il volto terrorizzato
del/della protagonista, come in Il bacio della pantera o L’uomo leopardo (1943), tratto da un autore di noir, l’ottimo Cornell Woolrich di Black Alibi, e diretto ancora da Tourneur, oppure una pervasiva sensazione di malvagità e allucinazione come nel troppo poco citato La settima vittima (1943) di Mark Robson. Il cinema di Lewton – ed è questo uno dei pochissimi casi, forse l’unico in cui si attribuisce la paternità artistica dei film a un produttore invece che al regista o ad altri – è una delle migliori testimonianze dell’atmosfera dominante negli anni della guerra. Le sue opere vanno in pratica dal 1942 al 1946, e se è vero che Lewton sfortunatamente morì prima del tempo, è anche vero che la breve traiettoria del suo cinema appare oggi come compiuta in se stessa, eloquente di un momento preciso. Tralasciando la componente xenofoba di cui si diceva (e che oltretutto riguarda Il bacio della pantera ma non altre produzioni), il suo cinema fornisce la precisa sensazione di forze oscure e non facilmente identificabili che lavoravano nel buio ad accrescere il pericolo e la paura della comunità. Qualcuno dirà che questo è un discorso buono per tutti gli usi, che esso – ad esempio – si applicherebbe benissimo anche al terrore che avrebbe invaso la nazione di lì a qualche anno durante il maccartismo. Ma non è così: mentre le forze del fascismo erano riuscite a seminare un panico che però aveva trovato risposta in un forte senso della comunità e della democrazia (nonché in un altrettanto forte senso di solidarietà con l’Europa democratica che stava combattendo contro i nazisti), il maccartismo si sarebbe trovato di fronte una società allo sbando, incapace di riunirsi sotto una qualche egida, di passare al contrattacco, di rispondere alla reazione con una mobilitazione occasionale ma efficace. La vertigine che coglie i personaggi di Lewton è sempre rappresentativa di un gruppo (anche se gli eventi riguardano – com’ è inevitabile in un cinema narrativo – qualche personaggio specifico); il senso di disagio e a volte di paura dei film datati a qualche anno dopo non troverà alcun interlocutore, esattamente come i pochi che al maccartismo si opposero, nel momento in cui furono interrogati, non vennero trattati come interlocutori. Nelle strade buie dei film di Lewton si respira lo stesso timor panico che qualche anno dopo manipoli di marines affronteranno nelle giungle del Pacifico: da qualsiasi parte, là nell’oscurità o da dietro quelle piante, può balzar fuori un nemico rapido e inidentificabile, distruttivo e infido come un felino selvaggio o coloro che attaccarono Pearl Harbor a tradimento. L’atmosfera dei film di Lewton è questa, ed è evidente la radicale svolta nella concezione della paura. In realtà non era cambiato il cinema della paura, ma era il tipo di paura a essere cambiato e ad avere, di conseguenza, cambiato quel cinema.
10. Che cosa è un americano: il film di guerra La paura, peraltro, non alimentò soltanto il cinema dell’orrore. Il film bellico ebbe per ovvie ragioni un suo sviluppo al volgere delle sorti internazionali. Anzi, per meglio dire, dal momento dell’entrata degli Stati Uniti in guerra nel dicembre del 1941. Che il nazismo avesse fatto una forte impressione sull’America anche prima di quella data è testimoniato, in ambito cinematografico, dall’attenzione che Hollywood accordò alla guerra civile spagnola in Marco il ribelle (1938) di William Dieterle o dal citatissimo Confessioni di una spia nazista (1939) di Anatole Litvak, il cui côté politico è certamente meno interessante della splendida tensione con cui è costruita l’investigazione di un agente governativo a caccia di nazisti negli ambienti underground. Confessioni di una spia nazista è un film notevole comunque anche per la sottile paranoia che instillava nel pubblico: molto presto gli americani si sarebbero davvero guardati alle spalle persino fra i muri di casa loro chiedendosi se anche in mezzo ai propri cari non vi fosse qualche infiltrato, qualche spia, qualche quinta colonna. In fondo si tratta sempre dello stesso quadro: da Val Lewton al noir (o almeno, certo noir) è il mondo a non essere più chiaro come prima. La Depressione era certo stata un momento duro, ma non confuso, non oscuro, non paranoico. Mentre allora tutto era accaduto, ora tutto poteva accadere, e nessuno era in grado di dire che cosa e da parte di chi. I più sensibili non furono necessariamente i registi europei. Giunti dall’altro continente proprio per sfuggire al nazismo, essi erano ovviamente sintonizzati col problema: Duello mortale (1941) e Anche i boia muoiono (1943) di Fritz Lang, Il prigioniero di Amsterdam (1940) del recentemente immigrato Alfred Hitchcock, Hitler’s Madman (1943) di Douglas Sirk, Questa è la mia terra (1943) di Jean Renoir, La grande fiamma (1942) di Jules Dassin. Ma molti altri directors girarono cose di propaganda antinazista, e come al solito non ci interessano gli elenchi26. Molto più interessante è distinguere fra i vari film che in qualche modo hanno a che fare col tema del nazismo. “Film bellico”, in effetti, non è una definizione precisa. Il film bellico prende a soggetto individui o gruppi impegnati in azioni di guerra, in operazioni di prima linea, in problemi vari di carattere bellico. I film poc’anzi citati non rispondono a questa qualificazione. Essi trattano temi spionistici, resistenziali e genericamente propagandistici, e dunque a rigore non cadono all’interno del genere vero e proprio. D’altra parte, non è una classificazione che qui ci interessa, ma una storia dello spirito, delle idee, delle sensazioni e delle ossessioni sottese alle diverse direzioni dell’evoluzione del cinema americano. E dunque si dovrà notare
subito che ovviamente fino all’entrata in guerra degli Stati Uniti non esiste un solo film hollywoodiano che possa essere definito bellico e che metta in scena soldati americani impegnati sul campo di battaglia, se non con riferimento alla prima guerra mondiale: I fucilieri delle Argonne (1940) di William Keighley e Il sergente York (1941) di Howard Hawks sono fra i pochissimi del gruppo. Il primo non è molto più che un’incitazione al coraggio in tempo di guerra, ma il secondo dà corpo a un’intera ideologia nazionale in relazione al concetto stesso di guerra. Le radici rurali di York, i suoi modi, la sua cultura, la sua religiosità, i suoi trucchi per cogliere il nemico al fronte sono segni certi di americanità, di qualcosa – cioè – che distingue quel soldato da chiunque altro, per quanto coraggioso, nobile, eccezionale. York incarna il potere della semplicità e della verità, dell’innocenza e del valore non solo davanti al nemico ma anche davanti a quello stesso continente che da sempre guarda con sufficienza all’America. Egli è la prova concreta del pragmatismo americano, è il diretto erede di Franklin, di Lincoln e delle idee che hanno fatto la costituzione fornendo un modello politico per il mondo intero. Quasi sarebbe un personaggio irritante se non avesse il volto di Gary Cooper, il suo sguardo schivo, i suoi modi dolci e insieme rudi. Il personaggio (e il film) di York va molto al di là di se stesso: l’opera diventa una di quelle pellicole che riassumono il senso di un’intera nazione, ciò che essa pensa di se stessa e il modo in cui desidera presentarsi al resto del mondo in rapporto all’idea di pace e alla necessità della guerra. York è l’anticorpo di tutte le spie, i traditori, i boia, i sadici nazisti che gli schermi hollywoodiani proporranno in quegli anni, ma è anche l’ideale di uomo e di soldato che gli Stati Uniti indicano agli alleati europei, una dichiarazione di carattere e valori nazionali, una presa di posizione che intende ricordare all’Europa come agli stessi americani che cosa è un americano, come egli concepisce la guerra e la violenza, quanto la fede sia importante nelle sue scelte e come i suoi obiettivi siano lontanissimi dalla semplice risposta delle armi alle armi. York è una filosofìa di vita, e la sua forza è di non sapere di esserlo. Lo sa invece Hollywood, e lo dice a chiare lettere. L’America adesso conosce la propria identità, sa che dovrà combattere e sa anche come. Ma è non poco indicativo che il soldato americano anteguerra, Gary Cooper, diventi durante (e dopo) la guerra il soldato americano John Wayne: la realtà non è mai all’altezza del sogno, nemmeno quando sogna. Il sogno comunque dura poco, le divise diventano più moderne, gli aerei più grossi e potenti, le bombe più letali. Il sogno dura poco, nel senso che diventa un incubo, un incubo all’americana naturalmente, sognato cioè con un sorriso di fiducia, ma pur sempre nella paura che tutto possa succedere. Arcipelago in fiamme (1942) di Hawks, Bataan (1943) di Garnett, Destinazione Tokyo (1943) di Delmer Daves propagandano la bontà degli ideali americani, ma anche degli armamenti, della preparazione professionale, del coraggio e del cameratismo, della volontà di vincere, della certezza di essere nel giusto (e con i nazisti, nipponici o europei, non era difficile crederlo). La seconda guerra mondiale fornisce un raro esempio storico di cinema hollywoodiano direttamente interessato a fatti bellici contemporanei27. È vero che di lì a non molto vi sarà anche il Fuller della guerra in Corea (Corea in fiamme, 1950, e I figli della gloria, 1951), ma i campi di battaglia della seconda guerra mondiale sono osservati da Hollywood in modo capillare, con una produzione che, pur durando pochi anni, emergerà ricca e continua. In realtà, la produzione di carattere bellico ha una strutturazione storica più complessa, che fra l’altro ci obbliga ad anticipare la cronologia del discorso, che per comodità avevamo fissato approssimativamente in decenni. Mentre infatti la produzione degli anni Quaranta è caratterizzata da una fiction che intende porgere in modo problematico un’ideologia, o meglio, che vuole fare propaganda nazionale richiamando però il pubblico attraverso vicende private (amori, amicizie, drammi familiari, nostalgie, ecc. del protagonista e dei suoi commilitoni più stretti), con i Cinquanta, cioè a dire con l’allontanarsi di quell’evento tragico nel tempo, i film, nell’insieme, diventano vieppiù astratti, nel senso che o non si interessano più all’azione o vi si interessano troppo. Oppure essi si presentano in qualche modo problematici in relazione al preciso e infallibile manicheismo dei loro cugini di qualche anno prima. Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann è in realtà un enorme e articolato romanzone d’amore in cui i violini contano certamente non meno delle mitragliatrici e delle bombe; in Aquile nell’infinito (1955) di Anthony Mann è tutto un volo d’istruzione e un’intimità familiare fatta di linde cucine e di camere da letto senza un granello di polvere; in I giovani leoni (1958) di Edward Dmytryk ci si chiede continuamente – in modo implicito – chi è buono, chi è cattivo, e se i buoni possono essere cattivi e i cattivi buoni, mentre Monty Clift sbarra gli occhi come un ossesso e Marlon Brando quasi raccoglie mammole nella sua divisa di ufficiale del Führer. Il discorso dovrebbe continuare sino agli anni Sessanta e alle ulteriori trasformazioni del film di guerra, ma lo rimandiamo. Quel che conta è l’involuzione che il genere ha subito nel giro di pochissimi anni dimostrando un meccanismo operativo hollywoodiano di un certo interesse. Quando infatti un tipo di film nasce in stretto rapporto – anche cronologico – con fatti di grande immediatezza e di presa diretta, esso viene necessariamente confezionato in termini di propaganda. Ma quando i fatti si esauriscono (la guerra finisce) Hollywood continua a sfruttare quel genere evitando non tanto la propaganda quanto la
centralità della tensione dell’azione. Ovviamente l’azione non manca, ma nei film comincia a fare capolino qualche altro elemento di richiamo, qualche altra problematica, usualmente di carattere sentimental-esistenziale (a meno che non sia invece l’azione a diventare di per se stessa ideologia, come nell’ormai classico film iniziatore di una sorta di sottogenere, Quella sporca dozzina, 1967, di Robert Aldrich). È in pratica l’unico modo per sfruttare fino in fondo un vero e proprio filone minerario: attenuarne la mordente attualità e sviluppare componenti di riflessione che l’altra non permetteva (tranne che, ancora, in funzione dell’ideologia28). Dialetticamente Hollywood opera poi anche in modo esattamente opposto: cioè attraverso un formidabile impegno produttivo che intensifica, per così dire, le caratteristiche esteriori del tipo originale di film. Si pensi a Il giorno più lungo (1962) di Annakin, Marton e Wicki, su su fino a Tora! Tora! Tora! (1970) di Fleischer, nel quale ogni elemento personale svanisce a vantaggio della semplice azione29. Ma sul cinema bellico di altro momento torneremo più avanti. La commedia agganciata alla guerra causa a sua volta un certo imbarazzo. Da Il grande dittatore (1940) di Chaplin a Vogliamo vivere! (1942) di Lubitsch lo spettatore e il critico ne escono sempre perplessi. A prescindere dal fatto che a rigore non si tratta di film bellici, il primo fu certo un successo. Pure, molti dubitarono dell’adeguatezza del finale: come se la commedia dovesse rimanere nei limiti di una serie di indovinate gag antihitleriane e non c’entrasse nulla con i problemi della pace e del futuro dell’uomo. All’opposto, in un certo senso, il caso di Lubitsch. Criticato da ogni parte, suo film sbeffeggiava anch’esso selvaggiamente il nazismo ma toccando in modo divertente argomenti che Chaplin non aveva utilizzato direttamente e tanto a fondo come esca per il riso. In realtà Vogliamo vivere! è la riprova che la commedia proprio percorrendo terreni di vera e propria tragedia può uscire vincitrice. Urlare allo scandalo perché qualcuno aveva fatto ridere trattando l’invasione della Polonia e la questione ebraica è soltanto moralismo, e specificamente moralismo hollywoodiano: lo stesso che fece varare il codice Hays e ogni tipo di censura che per decenni ha afflitto il cinema in generale e quello statunitense in particolare. L’istituzionalizzazione di tabù è un classico meccanismo benpensante, ed è anche uno dei più forti impulsi alla costruzione di un cinema prevedibile e seriale. In certo senso due fra i migliori film comici usciti dal tema del nazismo e della guerra rivestono estrema importanza non solo per il loro valore estetico e morale, ma anche perché le reazioni con cui essi (in tutto o in parte) vennero accolti testimoniano di una pesante atmosfera che gravava sulla mentalità nazionale; talché, alla luce di questo, meraviglia meno che mai il fatto che di lì a pochi anni ben più serie nubi si sarebbero addensate sulla produzione cinematografica americana nelle vesti dell’isterismo e dell’intolleranza, del terrorismo psicologico e dell’inquisizione. Di più: la contaminazione fra commedia e film bellico suona pericolosa anche sul versante ideologico. Il film bellico, infatti, è per sua natura veicolo di propaganda nazionalista, alimento di mitologie di eroismo. Non riteniamo si tratti di un genere strutturalmente comparabile al western come invece afferma Campari30, ma piuttosto al livello largamente ideologico. Certo, si tratta della celebrazione del maschio in ambedue i casi, e anche – si diceva – di una comune sostanza nazionalistica (molto più evidente, a causa dell’istituzionalizzazione della violenza, nel bellico che nel western). Ma la struttura è comparabile soltanto ai livelli minimi nello stesso senso in cui è possibile affermare che Il rosso e il nero di Stendhal ha la stessa struttura di Ulysses, o – come dice Todorov – che ogni struttura narrativa trova la sua motivazione in una perturbazione dell’ordine iniziale. La «connotazione selvaggia» di cui parla Campari31, ad esempio, è, sì, caratteristica del bellico come del western, ma mentre nel primo è soltanto lo scenario di un pericolo, una specie di pathetic fallacy che rimanda a una figura di paura, sorpresa, terrore, imprevisto, minaccia, nel secondo esso – soprattutto nei grandi maestri del genere, da John Ford a Howard Hawks, ma anche nei più tardi Anthony Mann e Budd Boetticher – acquista uno spessore ideologico più ampio: il luogo della colonizzazione, il Deserto che diverrà Giardino, come del resto ricorda in altra parte del suo studio anche Campari. Si obietterà che dal punto di vista strutturale questo poco importa, ma in realtà sono proprio le funzioni dei suoi due “luoghi” a mutare. Solo in certi frangenti (penso ad alcuni straordinari momenti di Sentieri selvaggi) la wilderness dell’Ovest è sentita come paura e minaccia; ma ad esempio in un capolavoro come Il fiume rosso (1948) di Hawks essa è di regola la misura del tempo, delle stagioni, il teatro di una spazialità vissuta in modo duro ed esaltante, lo sfondo essenziale di un’epica che senza di essa sarebbe stata impossibile. Peraltro, bisogna ammettere che sia il film bellico sia il western partecipano effettivamente di un comune terreno ideologico, quello – sin troppo spesso citato – della frontiera intesa come continua espansione a Ovest, una colonizzazione che, giunta sino alle sponde del Pacifico, ha poi preso la via dell’oceano espandendosi fino alle Hawaii e nell’Estremo Oriente.
11. La frontiera interiore: il western Il campo di coltura più tipico di questa ideologia, il western, rifiorisce nei Quaranta. Già abbiamo detto dell’ideologia dello spazio nel Ford di Ombre rosse. Ora invece l’aspetto colonialistico e frontieristico emerge sempre più evidente. Da Sfida infernale (1946) di Ford a Il fiume rosso, due pellicole di profonda diversità, l’Ovest non appare più come spazio selvaggio, bensì come spazio abitato da passioni selvagge che in un modo o nell’altro dovranno essere incanalate nell’alveo della legge o quanto meno di quella comune convivenza che in America è normalmente la donna a incoraggiare e persino personificare. Il primo, una grande opera allegorica e il secondo, una grande opera epica, sono più che semplici celebrazioni di un momento – opportunamente romanzato – della storia nazionale. L’Ovest e il suo mito sono in questo periodo una sorta di vessillo che finalmente l’America interventista inalbera non tanto per consolidare la propria fiducia, quanto per ribadire una vocazione nella quale democrazia e frontiera, come sempre nella sua storia, si identificano. È proprio in base a questo paradosso che è possibile la nascita nel western di quegli anni, di un vero «culto del fuorilegge», come lo chiamano Fenin e Everson32. Naturalmente la tendenza ha le sue radici nella più classica tradizione popolare, da Robin Hood in avanti, ma si tratta di una tradizione folk che l’aria di quegli anni rinnova volentieri riprendendo un’etica delle circostanze che era in buona parte già stata del gangster film anni Trenta. Traviati dal caso, Jesse James e tutti gli altri incarnano bene un potenziale di forza e abilità ed efficacia che è in ultima analisi ciò di cui in quel tempo più che mai la nazione aveva bisogno. A starci attenti, è circa dall’antesignano Angeli con la faccia sporca (1938) che il cinema hollywoodiano è pieno di cattivi che in realtà sono buoni e che spesso pagano con la vita il fatto di “correre più lentamente” di altri compagni d’adolescenza: dal Cagney del film di Curtiz al John Garfield di Arcipelago in fiamme, al Tyron Power di Jess il bandito (1939) di Henry King, al Billy the Kid (1941) di David Miller (e si confronti quest ultimo, a riprova del nostro discorso, con l’omonimo film di King Vidor, 1930). Persino personaggi secondari, come il fratello di Jesse James, vengono riscattati dalla nuova ondata, come in Il vendicatore di Jess il bandito (1940) di Fritz Lang. Certo, lo stesso discorso vale per gli anni Trenta: forza, abilità, efficacia erano richieste con non minore insistenza durante il New Deal, con la differenza che mentre allora era chiamato in causa l’uomo comune, l’americano medio, il farmer del Mid-West e il cittadino della metropoli, qualche anno dopo persino il fuorilegge verrà, per così dire, riciclato a uso e consumo non di una ripresa nazionale ma di una raccolta di energie, di una force de frappe che faccia finalmente sentire la presenza e l’insostituibile funzione degli Stati Uniti addirittura in Europa. Naturalmente, peggiore era la qualità del prodotto, più evidente era la sua finalità propagandistica. Come ricordano Fenin e Everson33, nella serie B dei Three Mesquiteers si contano pellicole come Cowboy Commandos (1943) di S. Roy Luly e Texas To Bataan (1942) di Robert Ewwet Tansey, dove i protagonisti combattono nientemeno che – rispettivamente – i nazisti e i giapponesi. La vocazione propagandistica del western in una chiave non semplicisticamente storico-tradizionale è evidente. Essa lo è invece molto meno, anzi per nulla, in un paio di classici del decennio che si stagliano come (inutili) ammonimenti su qualcosa che era ormai sul punto di accadere alla nazione. Alba fatale (1942) di William Wellman e Notte senza fine (1947) di Walsh anticipano eventi terribili: il primo con la sua riflessione sull’innocenza e la colpevolezza, il secondo avvolgendo in un sudario d’incubo un genere tutto sommato trionfalistico e All-American come il western. Non è qui tanto questione di prendere una posizione sul problema del linciaggio (tema immediato del film di Wellman), ma di percepire che attraverso la sua innegabilmente democratica tesi l’opera ci parla di una necessità: quella di vigilare sui movimenti inconsulti, violenti, sanguinari e ingiusti della folla (cioè dell’opinione pubblica) abilmente maneggiata, e soprattutto su noi stessi e sul nostro modo di sentire il problema della colpa. Michael Wood ha ragione quando, a proposito di certi film anni Quaranta (fra cui lo stesso Alba fatale) scrive della «sgradevole idea che essere sospettati di qualcosa sia sufficiente a fare di noi dei colpevoli»34, e del resto non importava attendere il 1947 per avere chiara questa verità: Il processo di Kafka è del 1925, risalendo a un’epoca che in Europa non fu seconda, quanto a terrore e senso di colpa, al passaggio dai Quaranta ai Cinquanta in America. Per differente che sia, anche Notte senza fine tratta non dello stesso tema ma della stessa sensazione: terrore e senso di colpa. Vi diranno, e giustamente, che non è un western bensì un melodramma psicanalitico, ma ciò che importa è che nella vicenda del giovane cowboy bistrattato e ossessionato si cela la percezione di un’assenza di identità nazionale da parte dell’America stessa, la coscienza che per belli, giovani, forti che si sia, qualcosa non funziona. Dietro l’assassinio del padre – ombra di Amleto! – si nasconde l’usurpazione: l’usurpazione della democrazia, dell’ideale, della bontà, del diritto. Qualcosa di importante è stato ucciso molto tempo fa, qualcosa che ci impedisce di essere come per tanto tempo abbiamo creduto di essere. Notte senza fine è la metaforica caduta del grande mito progressista americano. Persino il suo titolo originale, Pursued, sembra un’inversione: l’inversione di quella, ricerca attiva della felicità («The Pursuit of Happiness»)
garantita nelle parole della Costituzione. Siamo noi, al contrario, i “ricercati” e con noi la nostra identità, il nostro senso e il nostro valore. Nella sua qualità d’incubo, nel suo psicanalismo decisamente molto riuscito Walsh ha saputo immettere un’atmosfera del periodo facendo così di un falso western una vera diagnosi in relazione a una sintomatologia forse non ancora chiara e evidente, ma sicuramente già emergente. Quanto alla terapia, nessuna pellicola poteva prescriverla, e ancora meno lo avrebbe potuto un film hollywoodiano. Lo sgretolamento del western, dei suoi arroccamenti, delle sue imperturbabili strutture, della sua stessa ingenuità, per non dire naturalmente della sua forza più granitica, un’ideologia nazionale che – nelle varie forme e nei vari modelli assunti nel tempo – si era rivelata uno dei più solidi baluardi cinematografici del nazionalismo americano, prende ulteriore consistenza con un altro prodotto anomalo del periodo, il discusso Il mio corpo ti scalderà (1941) di Howard Hawks e Howard Hughes. Tanta critica si è soffermata sull’argomento e non vi indugeremo. A parte i dieci giorni di regia di Hawks, questo western è un classico dell’anticlassicismo, una visione fobica della donna che ha il coraggio di svelare una volta per tutte il mito omosessuale dell’Ovest nella linea del già citato studio di Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano. La maestrina di Ford, la tenera ma risoluta pioniera di Hawks sono solo pupattole, anche se alla prima è devoluta una fondamentale funzione pedagogica e alla seconda, normalmente, quella di riempire il riposo del guerriero: la donna americana è – almeno nell’Ovest – persino inferiore al cavallo, ed è indicativo che la star (se a questo punto l’appellativo è ancora giustificato) del film sia Jane Russell, una diva che incarnava perfettamente gli attributi della più alta sessualità secondo i canoni che, con le opportune variazioni si sarebbero sviluppati fin dentro agli anni Cinquanta. Maestrine e pioniere le si sarebbe anche potute piantare lì, ma se si trascura Jane Russell, allora è il concetto stesso di West che non funziona più, e con esso tutta la virilità americana che esso implicava. Come si vede, già dal 1940 non erano mancate profonde revisioni al genere (e non solo al western); revisioni tali, anzi, da far sembrare minori persino quelle, in sé notevolmente vistose, che sarebbero sopraggiunte circa un quarto di secolo dopo, dal Doc (1970) di Frank Perry a Butch Cassidy (1969) di George Roy Hill. Ci siamo sforzati di indicare che non si tratta solo di rielaborazione formale o tematica dei vecchi canoni, ma che ancora una volta i mutamenti sono emblematici di qualcosa che stava avvenendo nel Paese, di atmosfere diverse dal passato, di mentalità e ossessioni che sopravvenivano a soppiantarne altre alla luce di – o, in collegamento con – eventi che la storia stava lavorando, preparando, saggiando e che vieppiù, procedendo negli anni (e a volte soltanto nei mesi) si mostravano elementi determinanti del nuovo periodo, quasi come ne fossero i confini e insieme il marchio. Si domanderà: bene, allora John Ford? I suoi western nella seconda metà dei Quaranta si chiamano, oltre a Sfida infernale, Il massacro di Fort Apache (1948) e I cavalieri del Nord-Ovest (1949), che, con Rio Bravo (1950), uscito all’inizio della nuova decade, e il contemporaneo La carovana dei Mormoni (1950) celebrano, sì, il mito della Frontiera, ma il primo in una chiave critica (la ben nota allusione alla figura di Custer, che solo sette anni prima Walsh aveva trattato secondo i crismi della migliore agiografia in La storia del Generale Custer, 1941, e comprensibilmente visto che si stava ormai entrando in guerra), il secondo in una chiave, non meno crepuscolare e quasi nostalgica. Sembra davvero che il maggior cantore del West cominci a comprendere che il tramonto si sta avvicinando. Ma questa volta non è il tramonto adombrato dalla nevrosi di Notte senza fine, o altri conturbanti prodotti che in qualche misura si sollevano contro il genere; no, questa volta è, per così dire, un tramonto implosivo, perfetto preludio alle grandi opere finali del maestro, da Sentieri selvaggi a L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). Un comandante psicopatico, un ufficiale ormai vecchio, una coppia che si affronta sul terreno dello scontro fra amore e dovere in relazione al proprio figlio soldato. In ognuno risuona una componente melodrammatica; l’azione c’è, e di ottima fattura, ma si sente che il problema è altro, che essa non ha più uguale importanza alla stregua dei sentimenti che agitano i personaggi, anche se è pur sempre in diretta relazione con quelli. Intendiamo dire che si avverte, ad esempio, in Il massacro di Fort Apache, a un certo punto l’indifferenza nei confronti dell’esito della situazione. Che gli indiani vincano o perdano, attacchino o no, è quasi secondario. Quel che importa è che un condottiero responsabile della vita dei suoi uomini e della stessa pace nazionale coi pellerossa sia tanto folle da mettere a repentaglio gli uni e l’altra. Anche nel western – e ovviamente nei modi adeguati al genere – la separazione fra bene e male, fra ragione e torto, non è più così chiara e netta. Anche qui è successo qualcosa, l’America non è più quella di prima, e a dispetto delle parole dei politici, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto non è poi tanto evidente agli occhi di tutti, o almeno agli occhi di quella coscienza nazionale che involontariamente Hollywood rappresenta. Come la letteratura, come i fumetti e come qualsiasi altra opera della fantasia, anche i film denunciano senza nemmeno averne coscienza i sogni dorati così come gli incubi di un Paese. E l’America stava per vivere in quegli anni uno dei peggiori incubi della sua storia. Giustamente Ford gira in bianco e nero Il massacro di Fort Apache e a colori I cavalieri del Nord-Ovest. Il primo si porta infatti dietro una cupezza che il colore avrebbe comunque alleggerito, il secondo, al
contrario, del colore ha bisogno per comunicare quel senso di crepuscolo che i toni del bianco e del nero non sarebbero stati sufficienti a rendere. Più teso e nervoso il primo con i suoi stacchi sostenuti, più disteso e ampio il secondo con le sue larghe inquadrature di campi lunghi, ambedue mostrano un’attenzione per la forma che è eloquente non solo di una perfetta, magistrale economia in relazione all’espressività (vale a dire all’intenzione narrativa), ma anche e soprattutto di quel tono sintomatico di cui si diceva più sopra. La forma stessa, cioè, rende conto dell’atmosfera nazionale che il film recepisce ed elabora – appunto – in quei modi. Naturalmente è anche di prammatica leggere nell’esaltazione della cavalleria che ambedue i film innegabilmente fanno una celebrazione dell’esercito americano nell’insieme dopo il suo recente ritorno da una dura avventura nel Pacifico e in Europa, dispensatore – esattamente come nei film di Ford, secondo le parole di Leo Braudy35 – di una «energia morale all’altrimenti astratto mondo delle città verso l’Est». Epperò non è poi tanto vero quel che scrive Bourget: «Respinti da altri generi cinematografici, l’umanesimo e la fede americana nel progresso si sono travasati nel western»36. Se lo scetticismo del noir è cosa innegabile, è anche vero che umanesimo e fede americana nel progresso sono leggibili anche nel musical del periodo, così com’è vero che altri generi fiorenti al momento non avevano mai brillato per quelle prerogative; così come, infine, è vero che il western era stato sempre il genere principe di quell’umanesimo e di quella fede.
12. Angelo buon diavolo: il film metafisico In certo modo questo è testimoniato anche da un tipo di film che difficilmente ci sentiremmo di definire “genere”, ma che pure presenta caratteristiche precise, un denominatore intercambiabile che imparenta fra loro vari film. Ci piace, nella genericità del termine, chiamarlo “film metafisico”. Esso si dipana nella storia di un qualche personaggio che per una qualche ragione superiore viene a contatto con il mistero celeste; o per meglio dire, si tratta di pellicole nelle quali compaiono messi divini ad aiutare qualcuno che sulla terra se la passa male. A volte la vittima è un giusto, altre è una persona normalissima nei confronti della quale la burocrazia divina ha commesso un qualche errore, a volte il protagonista entra in contatto con il messo celeste, a volte non lo vede mai né lo sente, e a volte ancora, dopo esserci entrato in contatto, non si rende né si renderà mai conto della natura dello strano personaggio. Le combinazioni sono tante, e dunque tanto di guadagnato per i soggetti utilizzabili in questo tipo di film. Quel che ora ci interessa è lo spirito che anima questa idea squisitamente quarantesca37. Non parliamo di opere come La via dell’impossibile (1937) di Norman Z. McLeod e i suoi due seguiti (McLeod nel 1939 e Del Ruth nel 1941), nei quali il soprannaturale era unicamente motivo di tranquillizzante divertimento, una sorta di alleanza fra opposti, fra componenti psiconarrative che la tradizione gotica ci aveva abituato a pensare nemiche. La via dell’impossibile e simili debbono non poco all’idea precorritrice dell’Oscar Wilde di Lo spettro di Canterville. Non così – o solo in minima parte – le buone entità dei film metafisici hollywoodiani di questi anni. Esemplificheremo alcuni dei titoli più noti: L’inafferrabile signor Jordan (1941) di Alexander Hall, Musica nelle nuvole (1942) di W.S. Van Dyke, Joe il pilota (1943) di Victor Fleming, Accadde domani (1944) di René Clair, La vita è meravigliosa (1936) di Capra, La moglie del vescovo (1947) di Henry Koster, Bellezze in cielo (1947) di Alexander Hall38. Il tema dell’entità benefica che modifica la vita degli uomini, che la controlla, la instrada e la riscatta nasce evidentemente su un terreno psicologico di grande instabilità e incertezza che il clima di quegli anni – su cui ci siamo sin troppo intrattenuti – aveva contribuito a dissodare. Lungi dall’essere un simpatico – e a volte francamente comico – anelito verso una spiritualità che tutto sommato nella pur dura, concreta etica americana non era mai mancata (almeno in via teorica), il “metafisico” è un altro e più inusitato modo di esprimere la propria nostalgia e la propria impotenza. Non solo perché rimanda a un mondo in cui ogni nostra decisione, magari errata, passa al vaglio di un occhio più alto, e dunque ci garantisce, se non altro, una continua attenzione, ma anche perché, rovesciando i termini della questione, non poco spesso questi angeli non sono poi così diversi da noi. Saranno magari splendidi ballerini come la Tersicore di Bellezze in cielo, o non del tutto insensibili al fascino femminile come il Dudley di La moglie del vescovo: tutti comunque si sono tolta sin da prima di entrare in scena quell’aria serafica che avrebbe guastato la sostanza garbatamente comica di queste pellicole. Da un certo punto di vista esse sono un po’ la risposta ai film gotici che nello stesso periodo (anche se non in gran quantità) venivano prodotti a Hollywood, e dei quali Il ritratto di Jennie (1948) di William Dieterle fu sicuramente il migliore. Altri titoli di un certo riguardo sono La casa sulla scogliera (1944) di Lewis Allen e Il castello di Dragonwyck (1946) di Joseph L. Mankiewicz. Forse non è un caso che il romanzo da cui è tratto il film di Dieterle fosse stato scritto dallo stesso autore da cui fu tratto La moglie del vescovo
(Robert Nathan). O quanto meno, la comune matrice gotica può sempre venire adattata alle necessità della produzione, la quale a sua volta, conscia o no che ne sia, si adopera non solo ad assecondare lo spirito nazionale ma anche a esprimerlo, a svelarne i piaceri e le ossessioni, i sogni e gli incubi. È un fatto, comunque, che il côté metafisico della Hollywood anni Quaranta tende verso le sponde del comico, o per lo meno del leggero. Macchine da risate come La donna e lo spettro (1940) di George Marshall o Ghost Catchers (1944) di Eddie Cline, per quanto forse più divertenti, sono certo meno sottili, meno delicate e meno pensose dei film che abbiamo prima citato. E comunque è cosa nota che il tema del fantasma in chiave comica o di commedia non è certo prerogativa del cinema anni Quaranta: da Il fantasma galante (1936) girato da Clair in Inghilterra a Il fantasma del pirata Barbanera (1968) di Robert Stevenson, pellicole del genere non se ne contano. Ma ciò che è più importante: il film metafisico americano non obbedisce semplicemente a una reazione nei confronti del tema orrifico che il film di fantasmi scandisce sulla scia di una ricchissima tradizione letteraria. Il film metafisico ha una sua autonomia, ha le sue motivazioni e leggi; esso si imparenta, naturalmente, all’altro, ma non ne è conseguenza secondaria e occasionale. Esso, piuttosto, si fa veicolo di un messaggio civile e umano in una società che sembrava sempre più allontanarsi da queste qualificazioni. Forse non è casuale che in The Remarkable Andrew (1942) di Stuart Heisler arrivi sulla terra nientemeno che lo spirito di Andrew Jackson a dare man forte a un giovanotto che intende combattere la corruzione politica nella sua cittadina, oppure – caso ancor più clamoroso – che in L’infernale avventura (1946) di Archie Mayo un gangster morto torni sulla terra inviato da Satana con il ruolo di procuratore generale, ufficio cui egli farà altissimo onore contro il volere del Maligno. In casi come questi, la storia e le istituzioni americane vengono messe in scena come cardini di riferimento irremovibili, rivelando qual è in ultima analisi il senso (o l’obiettivo, se si preferisce) del film metafisico anni Quaranta: una sempre più forte fede nei valori americani. Non si tratta in effetti soltanto di ideali così vistosi come quelli incarnati da una figura quasi mitica come Andrew Jackson o dalla santità e dal rispetto che circonda il concetto di giustizia e la sua applicazione in America; in Joe il pilota – si ricordi che la pellicola è del 1943 – si può facilmente leggere una celebrazione dell’aviazione statunitense e dei suoi ragazzi, in L’inafferrabile signor Jordan quella del culto dello sport, in La vita è meravigliosa quei valori jeffersoniani legati alla cittadina, alla provincia, al nerbo stesso della gens americana così cari a Capra e al New Deal in genere. Ci voleva un regista europeo capitato del tutto occasionalmente a Hollywood per girare film di questo carattere nei quali però si respirasse un’aria diversa, meno sanamente nazionale, meno ottimisticamente sicura che il paradiso è dalla parte dell’America: Ho sposato una strega (1942) e Accadde domani (1944) di René Clair, differenti come sono fra loro, hanno molto in comune col film metafisico eppure vi si colgono componenti che gli sono estranee. Ho sposato una strega è un esercizio di equilibrismo fra serietà e scherzo che, per quanto a volte scarichi la tensione accumulata, ne lascia sempre un po’ ad aleggiare attorno, conferendo in questo modo all’opera un che di conturbante e una sensazione di disagio mai troppo forte per poter chiaramente percepire il film come “gotico”, “orrifico”, ecc. Ha ragione Giovanna Grignaffini quando scrive che la “comicità” del film è più che altro affidata ai dialoghi, mentre la messa in scena «come in tutti i film di Clair, è rigorosissima, dettagliata e prevista in tutti i particolari, ma la sua funzione (e l’effetto che complessivamente produce) è proprio quella di annullarsi come presenza sensibile dal corpo del film, di scomparire in una nuvola di leggerezza come le creature immateriali cui dà corpo»39. E anzi, proprio per questo – per questa strana “assenza” di messa in scena – il film ne esce non poco diverso dai prodotti hollywoodiani in qualche modo ascrivibili allo stesso versante. La solarità superna (Joe il pilota), il dettaglio realistico della visione d’insieme (La vita è meravigliosa), persino la cartapesta dell’ambientazione western di Solo il cielo lo sa (1947) di Albert S. Rogell o quell’incredibile corteggiamento “divino” che si coglie garbatamente nell’interessamento di Dudley per la moglie di Mr. Brougham (La moglie del vescovo), tutto questo – e molto altro ancora – sono lontani dalla tranquilla (assente) messa in scena di Ho sposato una strega e, come aggiunge la stessa Grignaffini, anche di Accadde domani. Clair riesce a mantenere la sostanza “leggera” del film su un versante di trepidazione, vale a dire operando nel modo esattamente opposto a quello impiegato dai registi hollywoodiani che in quegli stessi anni avvicinavano questo tipo di cinema fantastico: la serenità di Joe il pilota, la «divinità in minore» di Clarence, «angelo di seconda classe», la sicurezza tinta di una vena mondana e signorile di Dudley, sono lontanissime dallo sguardo sin troppo affascinante della strega Jennifer di Clair. È vero, la ragazza arriva fra gli umani con ben altra intenzione che dare una mano, ma è singolare che a toccare in questo periodo un tema così sinistramente americano (un nome per tutti: Nathaniel Hawthorne) sia un regista europeo che in America rimarrà, fra l’altro, solo tre anni. Allo stesso modo, nel soggetto di Accadde domani un autore americano avrebbe trovato una miniera di possibilità per celebrare la stampa statunitense (un’altra istituzione ufficiale che Hollywood non ha mai mancato di osannare come una colonna portante dei valori democratici nazionali) – e forse non a
caso Clair figura co-sceneggiatore del film come del resto anche di quello precedente. E invece no: Accadde domani, anche più di Ho sposato una strega, si porta dietro un’ombra di ghiaccio che, pur senza cancellare affatto la venatura “comica” del film, lo separa nettamente da una commedia vera e propria. Per banale che possa sembrare, è l’ombra della morte, l’ombra che sempre, regolarmente accompagna questi film e che l’abile artigianato hollywoodiano riesce normalmente a esorcizzare. Quell’ombra, invece, Clair non vuole esorcizzarla, egli ha capito bene che non soltanto essa è la vera sostanza di questo cinema, ma che è attraverso di essa che la commedia metafisica può parlare. Solo che se questo è vero, la commedia metafisica non parlerà mai con un sorriso (o quanto meno, il suo sorriso ne nasconderà uno molto più triste e compreso). Gli occhi del vecchio Pop inquadrato nella finestra mentre osserva con conturbante e quasi ironica serietà l’interno del giornale e l’amico Larry non sono occhi da commedia, ma, appunto, da fantasia metafisica, da conoscenze che travalicano i limiti dell’umano. La sua figura è sempre in ombra, o meglio nel buio, quando appare essa si staglia illuminata su uno sfondo scuro indiscernibile, tutta la sequenza della divinazione va molto al di là dal gioco leggero, grazioso, ammiccante che è tipico del film metafisico hollywoodiano. Clair non ha semplicemente fatto del buon gotico o del buon fantastico, ma ha compreso che cosa si cela dietro la superficie di commedia del film metafisico, da quali incertezze esso nasce e quali terrori esprime. Mai come nei Quaranta l’America fu lontana dal cielo e mai come allora desiderò essergli vicina. A dispetto della sicurezza con cui il potere vociferava che Dio era dalla sua parte, e della cecità con cui la maggioranza della nazione seguì quella menzogna, il paradiso e i suoi angeli non erano affatto in vista. Per questo di lì a poco sarebbero nati perfetti miti di innocenza e di caduta, figure di angeli ribelli che non avevano fatto nulla di male. Dio non era stato offeso da loro ma da altri, e i nuovi angeli senza paradiso battevano la strada non sapendo dove andare come il Marlon Brando di Il selvaggio (1954) di Laslo Benedek oppure vivevano da disadattati «a Est del paradiso», come James Dean in La valle dell’Eden (1955) di Elia Kazan, in un luogo, in una patria che non era la loro e alla quale tentavano disperatamente di ritornare.
13. Fantasia come metafora: le avventure esotiche e gli orrori in arrivo Come sempre, nel cinema e nella cultura americana in genere, si trattava di una questione di identità. Il caso opposto – ma con problema identico – lo forniscono i film che sin dagli anni Trenta avevano scelto la celebrazione della maschera. Da alcuni anni la Warner si era specializzata, fra le altre cose, in avventure di carattere popolare e marinaro, fatte di duelli alla sciabola, merli e/o tolde di navi. In genere si dice che il loro noto interprete, Errol Flynn, fu l’erede di una tradizione inaugurata da Douglas Fairbanks. La cosa è molto attendibile, ma riteniamo più interessante osservare con attenzione non tanto l’emergere (o il ri-emergere) di questo tipo di pellicole dopo l’avvento del sonoro, né tantomeno l’adeguatezza dei suoi nuovi interpreti, ma piuttosto il ricco e più largo ambito nel quale esse possono essere incluse a partire dagli anni Quaranta. Il termine che in inglese le designa è swashbucklers, un genere – se tale si può chiamare – che prosperò ben poco prima degli anni Venti e che appunto Fairbanks portò a un acme di eccezionale splendore e successo. Nel decennio seguente i due film più famosi in questo senso hanno per protagonista Errol Flynn e sono Capitan Blood (1935) di Michael Curtiz e Le avventure di Robin Hood (1939), dello stesso regista. Usualmente si aggiunge loro Lo sparviero dei mari (1940), ancora di Curtiz e sempre con Flynn, che però è un’opera più diversa di quanto a prima vista si possa supporre. Mentre infatti gli eroi dei primi due lottano per riscattare o la propria personale condizione (Blood) o quella dell’intera nazione (Robin), il navigatore di Lo sparviero dei mari è un suddito di Elisabetta che combatte a maggior gloria della regina aiutandola contro le turpi trame dei suoi nemici. Naturalmente i modi di narrazione sono pressoché identici, e dunque la differenza non è stilistico-formale. È piuttosto lo spirito che è cambiato (o sta cambiando). Blood è addirittura un medico, dunque un uomo di scienza e – per i criteri dell’epoca – un intellettuale, e si ritrova costretto a girare la ruota lacero e seminudo come uno schiavo in mezzo ad altri schiavi: quale migliore metafora dell’America della Depressione, del cittadino in ginocchio che continua testardamente a vivere per poter finalmente sconfiggere lo spettro del male dell’ingiustizia, della stessa fame che incombe? Robin Hood nella foresta di Sherwood se la passa indubbiamente molto meglio (del resto non siamo ormai nel 1939?), ma la sua vita è consacrata a cacciare dal trono d’Inghilterra l’usurpatore Giovanni a favore del legittimo re Riccardo. Il suo dramma personale non esiste, o meglio, esiste in quanto dramma dell’intera nazione, una nazione affamata, bistrattata, umiliata che un giorno avrebbe ritrovato il suo orgoglio e il suo re: sembra quasi una interpretazione en arrière dell’avvento di Roosevelt e del New Deal. Ma con Lo sparviero dei mari le cose sono mutate: non è il capo, comandante dei prigionieri, capitano di una nave o re usurpatore a essere il nemico. Al contrario, il potere è legittimo e buono; solo, esso è circondato da infidi consiglieri, dignitari e nobili, figure e personaggi che tramano nell’ombra e che non si possono eliminare con un colpo di spada. All’oggettiva drammaticità della situazione precedente segue ora la corruzione e la malignità del presente: come certe commedie di Ben Jonson
lamentano la caduta morale seguita all’avvento sul trono di Giacomo dopo Elisabetta, così è possibile leggere in questi film un’atmosfera nazionale alquanto cambiata in una direzione comparabile. Si osservi il classico villain dei primi due film: Basil Rathbone. Un fiero malvagio davvero, dalle linee nobili, altero, prestante, audace, infido, certamente, ma capace di aggressività e persino di valore. Si guardi ora a un villain come Harry Daniell in Lo sparviero dei mari: agente spagnolo dell’Inquisizione, sfuggente e basso, labbra strette e sguardo torto. Quando mai avremo la soddisfazione di misurarci da uomo a uomo con lui? A starci attenti, quasi tutti i film del genere in questo periodo hanno villains non molto diversi: uomini spregevoli come i loro predecessori, cui però manca la grandezza di quelli, oppure belve assetate di sangue che seminano il terrore ovunque passano come lo spietato Leech, perfido pirata di Il cigno nero (1942) di Henry King o il Don Alvarado di Nel Mar dei Caraibi (1945) di Frank Borzage, nel quale lo straordinario Walter Slezak prefigurerà la perfidia levantina del mago di Sinbad il marinaio (1947) di Richard Wallace (che però appartiene a un altro tipo di film di cui parleremo fra un momento). È vero che Il cigno nero celebra inopinatamente una pace ritornata nei Caraibi sotto l’ala protettrice dell’Inghilterra aiutata dal corsaro Henry Morgan, il quale intende farla finita con le scorribande nella zona, ma è anche vero che questo racconto di concordia sembra fatto apposta per i trepidanti cuori di chi aveva appena visto con apprensione l’America entrare in guerra con un bucaniere anche più spietato di Leech. Ciò che ci sembra anche più interessante è che questo discorso non resta confinato all’ambito dello swashbuckler, ma si estende all’intero reame del film esotico, il quale in questi anni si arricchisce di sogni mediorientali, di fantasie arabe («An Arabian Fantasy» era il sottotitolo della coproduzione angloamericana Il ladro di Bagdad, 1940, di Michael Powell, Ludwig Berger e Tim Whelan): da Alì Babà e i 40 ladroni (1944) di Arthur Lubin al bellissimo Kismet (1944) di Dieterle, il decennio non manca di esotici scenari ricostruiti in studio che paiono fatti in serie quanto a modelli narrativi. Debole sultano (o califfo), fiero eroe, delicata e bellissima principessa, perfido visir: come nella commedia dell’arte il canovaccio e le maschere si ripropongono in continuazione. E anche qui il villain è regolarmente un serpente viscido il cui abito nero riveste un diretto e regolare simbolismo. Mentre il cattivo di Rathbone poteva vantare nobili natali e distacco aristocratico, questi malevoli consiglieri sanno soltanto strisciare ipocritamente davanti a un potere inetto che dà loro via libera. Ecco dunque un’altra metafora sulle debolezze della malleabilità politica e su chi non si accorge che, proprio come il barbaro mongolo Khan del film di Lubin o il malvagio visir di quello di Dieterle, anche il nazismo in Europa si era mosso con la stessa subdola perfidia, con lo stesso freddo calcolo. Il film esotico-orientale è uno dei prodotti più affascinanti – anche se esteticamente meno importanti – dell’immaginario hollywoodiano. In certa misura esso segna un ritorno alle origini magiche, meravigliose, e sostanzialmente baracconesche del cinema. Storicamente infatti è evidente che la loro verità è anche meno solida e credibile di quella del western. Il loro Oriente da Mille e una notte è appunto unicamente favolistico, o meglio, è la versione falsa di una falsità narrativa. Varrebbe la pena compilare una storia del cinema americano in questa chiave: come cioè Hollywood ha visto civiltà lontane nel tempo e nello spazio e come una nazione che ha sempre vantato la sua natura e le sue origini democratiche ha – e non solo in questo campo – trattato troppo spesso storie senza popolo. Per Hollywood le grandi masse sono quelle di De Mille, sono cioè entità inesistenti se non come forza d’urto e forza lavoro schiavisticamente governate. Vedremo più avanti il genere epico che trionfò di lì a qualche anno, ma già possiamo affermare con Michael Wood che si tratta anche in queste pellicole di una parodia della rivoluzione americana40, vale a dire di una messa in scena della rivolta non per ragioni di democrazia ma – per così dire – di monarchia costituzionale. Il popolo di Bagdad o Damasco si solleva per supposte ragioni sociali, ma in realtà solo per consentire la riscossa al principe legittimo che il cattivo ha creduto di avere eliminato da bambino e che, invece, come Biancaneve, si è salvato a sua insaputa. L’assenza di una vera massa in questi film è ulteriore conferma dell’«insinuazione che non si può assolutamente dar fiducia alla gente in quanto massa»41 e del fatto che, sia pure sotto mentite spoglie – come nel film epico – siamo di fronte a «un’America paradossale, il democratico rifugio di un popolo cui il popolo non piace»42. Il film esotico-orientale rende più che mai chiara l’estraneità del popolo all’azione: esattamente come nei melodrammi Warner e Fox del periodo il dramma riguarda sempre degli alto-borghesi e dei nobili (magari sotto le vesti di falsi poveri secondo la maniera alessandrina), mentre non si capisce mai perché la folla debba soffrire sotto un cattivo governo che infierisce con violenza su di essa senza ragione alcuna (una cosa è alzare le tasse, un’altra è frustare dei commercianti per far strada al visir quando i poveretti alzerebbero volentieri i tacchi senza bisogno di sollecitazioni di quel genere). La folla, cioè, è semplice funzione per comunicare al pubblico la malvagità del governante. Genere probabilmente foriero di un’implicita filosofia della politica americana in Medio Oriente a venire (così come più o meno negli stessi anni lo sarà su un versante d’altro tenore la serie “Road To”
con Crosby e Hope), il film esotico di questo tipo rientra peraltro nell’ambito di un esotismo più generale che comprende, tanto per intenderci, sia Il prigioniero di Zenda (1937) di John Cromwell che I vendicatori (1941) di Gregory Ratoff, nel quale in fondo ancora una volta giocano il destino e l’identità. Melodrammi in costume, e per questo più stilizzati, essi hanno in fondo le stesse radici, le stesse ragioni del più ampio genere melodrammatico cui appartengono, ma con l’aggiunta di un modello spesso rintracciabile, di un preciso concetto del potere, dei suoi luoghi e dei suoi pericoli. La corte orientale così come quella mitteleuropea sono aree di corruzione e di infide trame. L’ottica etica con cui Hollywood guarda a questi ambienti non è cambiata dai tempi della tragedia elisabettiana. È ancora e sempre un monrovismo di fondo a calibrare l’ideologia di queste pellicole: Europa da operetta o Arabia da operetta, le cose buone e democratiche si fanno, per ovvia e logica conclusione, solo in America. Qui non si trama, non si taglieggia, non si terrorizza. Non è un caso che anche nel campo orrifico, come si diceva più indietro, il malvagio sia sempre europeo, o quanto meno venga dall’Europa. E non è un caso che anche nei film orrifici di questi anni la scena del delitto sia in genere altrove. Applichiamo anzi questa osservazione a un fiorente sottogenere degli anni Quaranta, il film di zombi, e i conti torneranno ancor meglio: Ho camminato con uno Zombi (1943) di Jacques Tourneur, situato nelle Indie occidentali, così come vive a Haiti il capostipite del gruppo, Bela Lugosi, in White Zombie (1932) di Victor Halperin; Revenge of the Zombies (1943) di Steve Sekely, Valley of the Zombies (1946) di Philip Ford, sono tutte prove che non possono ascriversi unicamente all’ambito dell’orrore. In esse c’è da un lato una xenofobia indiscutibile, dall’altro la paura che qualcosa di incontrollabile si stia preparando da qualche parte nel mondo. Efficienti e inarrestabili come le armate naziste, gli zombi non sono solo un mito oscuro e diabolico legato al culto voodoo: essi materializzano bene un altro terrore. In King of the Zombies (1941) Jean Yarborough racconta di uno scienziato che sviluppa un vero e proprio corpo militare di zombi da lanciare contro il nemico durante la seconda guerra mondiale allora in corso. Precisa risposta di una nazione che reagisce alle insidie dell’oppositore affrontandolo con le stesse armi, King of the Zombies è, sì, un film ridicolo, ma non per questo poco eloquente di una psicosi nazionale. Esso lo è involontariamente, è naturale; e ancora più involontariamente la pellicola di Yarborough fornisce la nota dominante dell’intero decennio. Dagli zombi del nazismo a quelli del maccartismo, gli anni Quaranta furono marcati da un senso di “morte vivente”, e nel già citato L’invasione degli ultracorpi Don Siegel dimostrerà di avere compreso bene questa dominante: la vita degli invasori si organizza secondo modelli di assoluta freddezza e si esterna semplicemente nel movimento, tralasciando ogni passione e ogni gesto che la denota. Nel giro di dieci anni l’America si era trasformata in quello che all’inizio aveva deciso di affrontare e sconfiggere (riuscendoci): dal kamikaze nipponico alla Commissione per le Attività Anti-americane la distanza è meno lunga di quel che qualcuno potrebbe supporre. Nel suo rigore, eredità calvinista dell’America puritana, la nazione aveva così duramente e profondamente combattuto il male tanto da diventare come lui. Come nei vecchi processi alle streghe, chi era il malvagio e chi l’innocente? Chi la vittima e chi il carnefice? Il maccartismo rilancerà la domanda, e quel che è peggio, avrà una risposta già pronta. 1 Cfr. Michael Wood, L’America e il cinema, Garzanti, Milano, 1979, p. 103. 2 Ivi, p. 129. 3 Cfr. J.-L. Bourget, op. cit., p. 95. 4 Ivi, p. 96. 5 Come scrisse a suo tempo Guido Fink, «Non diremmo che Welles mostri una particolare disposizione alla storia. Ai suoi occhi, in fondo, non cambia nulla in vent’anni». Cfr., di Fink, l’articolo Orson Welles, il cinema come galleria di specchi, «Inquadrature», 12, autunno 1964. 6 E comunque, come scrisse Colin McArthur, indicando in Il falcone maltese di Huston il capostipite del genere, esso è caratterizzato da un «senso dell’isolamento umano e dalla sua coscienza del male». Op. cit., p. 41. 7 Cfr. Carlos Clarens, Giungle americane. Il cinema del crimine, Arsenale, Venezia, 1981, p. 148. 8 Ivi, p. 149. 9 Ivi, p. 178. 10 Cfr. M. Wood, op. cit., p. 96. 11 Questa è una clausola retorica tutt’altro che occasionale, e «un duro darwinismo sociale», dice ancora bene Clarens (op. cit., p. 178), ne era alla base, nonché – e soprattutto – la certezza che «la mala si estende su tutto il Paese» (ivi, p. 183). 12 M. Wood, op. cit., p. 104. 13 Cfr. G. Fink, From Showing To Telling: Off-Screen Narration in the American Cinema, «Letterature d’America», III, 12, primavera 1982, p. 10, nota 8. 14 Ivi, p. 18. 15 Cfr. quanto si diceva più sopra nella nota 6. 16 Cfr. G. Fink, op. cit., pp. 22-23. 17 Ivi, p. 36. 18 Cfr. R. Sklar, op. cit., p. 292. 19 Ibidem. 20 Lo sottolinea anche J.-L. Bourget, op. cit., pp. 86-88. 21 Cfr. Jerry Vermilye, Bette Davis, Milano Libri, Milano, 1984, p. 79.
22 Cfr. S.C. Earley, An Introduction to American Movies, New American Library, New York, 1978, p. 214. 23 Cfr. B. French, On the Verge of Revolt: Women in American Films of the Fifties, Ungar, New York, 1978, pp. xxx-xx. 24 Cfr. Charles Higham e Joel Greenberg, Hollywood in the Forties, Barnes, New York, 1968, p. 140. 25 Ibidem. 26 Ci piace però citare come curiosità la contaminazione tra fantascienza e guerra intitolata The Invisible Agent (1942) di Edwin L. Marin, scritto da Curt Siodmak, nel quale il figlio del protagonista del classico L’uomo invisibile (1933) di James Whale si arruola volontario dopo Pearl Harbor e utilizza la propria abilità in una missione segreta a Berlino per scoprire i piani di invasione degli Stati Uniti approntati dai nazisti. L’uomo riuscirà ad avere tutti i nomi delle spie tedesche e giapponesi operanti sul territorio americano. Ne parla ampiamente John Brosnan nel suo Future Tense. The Cinema of Science Fiction, St. Martin’s Press, New York, 1978, p. 69. 27 Nonostante J.-L. Bourget affermi che «i film di guerra veri e propri […] vennero girati dopo i fatti bellici». Op. cit., p. 91. 28 Vedi il classico topos del codardo o dell’infingardo, che nell’azione con i compagni cambia carattere e opinioni – da I fucilieri delle Argonne a Arcipelago in fiamme. 29 Scrive molto bene Roberto Campari a proposito di Il giorno più lungo, e specificamente della sua più importante sequenza bellica, che in essa «non si mitizzano più personaggi o sistemi di vita ma addirittura un fatto storico». Cfr., di Campari, Cinema americano (1945-1973), Ist. di Storia dell’Arte, Univ. di Parma, Parma, 1974, p. 153. 30 Ivi, p. 147. 31 Ibidem. 32 G.N. Fenin e W.K. Everson, op. cit., pp. 240-43. 33 Ivi p. 261. 34 Cfr. M. Wood, op. cit., p. 129. 35 Cfr. L. Braudy, op. cit., p. 129. 36 Cfr. J.-L. Bourget, op. cit., p. 115. 37 Idea peraltro molto sfruttata in seguito con pellicole come Il suo angelo custode (1956) ancora di Alexander Hall e, in certa misura, anche le cose “metafisiche” di Minnelli, da Ciao, Charlie! (1964) a L’amica delle cinque e mezza (1970), che però mancano programmaticamente di quell’atmosfera sospesa tipica del “film metafisico” storico e che – con alterne fortune (peggiori di sicuro quelle di Hall) – buttano tutto in commedia stile palcoscenico di Broadway, dal cui repertorio peraltro derivano in gran parte. 38 Ci piace citare (ma in realtà soprattutto per una componente metafisica visuale: lo strano accostamento delle sale di un grande magazzino nuovayorkese e l’immagine – bellissima – di Ava Gardner nella parte di Venere) anche Il bacio di Venere (1948) di William A. Seiter; e quanto all’indimenticabile Il cielo può attendere di Lubitsch, il tema metafisico è in realtà più un’occasione per una brillante commedia sentimentale che un comune denominatore da dividere con le altre pellicole di cui si diceva. Né, trattandosi di un maestro, poteva essere diversamente. 39 Cfr. G. Grignaffini, René Clair, La Nuova Italia, Firenze, 1980, pp. 96-97. 40 Cfr. M. Wood, op. cit., pp. 165-70. 41 Ivi, p. 169. 42 Ivi, p. 170.
Capitolo terzo GLI ANNI CINQUANTA: IN CERCA DI RIFUGI «Vi ricordate del periodo maccartista negli Stati Uniti? Quel meschino senatore del Wisconsin aveva ridotto al terrore un’intera nazione, presidenti e direttori di giornali scappavano a cercar rifugio e solo in un posto rimaneva libertà di parola nell’intero Paese: nelle riviste di fantascienza». Frederik Pohl, Ragged Claws
1. Maccartismo e altre cose da fantascienza La seconda metà degli anni Quaranta fu un (breve) tripudio per Hollywood. Il box-office straripava di dollari, la media di presenze settimanali al cinema era di 90 milioni di persone e le sale erano ben 21.500 (il numero più alto mai toccato nel Paese). Strano, perché proprio allora – esattamente a partire dal 1945 – ricominciarono le investigazioni anti-trust; o meglio, era naturale che lo Stato si intromettesse in una situazione che appariva così rosea e fiorente. Tanto rosea e fiorente che l’anno dopo, a seguito di uno sciopero di otto mesi, molti lavoratori del cinema si ritrovarono il salario accresciuto di un quarto, mentre all’estero si incominciava a tassare parecchio la produzione americana. Per quelle strane leggi che governano l’economia, vi furono anche fallimenti: piccole case indipendenti dovettero chiudere i battenti, e quanto alle grandi, ve ne furono che si fusero (la Universal e la International) o che vendettero (la Rko al miliardario Howard Hughes), mentre altri grandi produttori come David O. Selznick abbandonarono l’attività. I film comunque venivano sfornati a centinaia, ed è francamente difficile orientarsi in una produzione così massiccia, anche perché i filoni divennero meno rigidi, più sfumati, e le pellicole non poterono non risentire della nuova atmosfera che seguì la fine della guerra. La guerra aveva infatti – in via ipotetica – chiarito da che parte stava il bene e da quale stava il male. Il nazismo aveva fornito all’America il manuale ideologico necessario per comprendere che cosa non era democratico (e, dialetticamente, che cosa lo era). Ad esempio, fare i razzisti dopo le infamie hitleriane sarebbe stato certo non impossibile, ma di sicuro molto più difficile da tentare di giustificare. Di conseguenza, dopo la guerra, anche il modo di guardare la realtà cambiò. Da sempre Hollywood aveva preteso di denunciare torti e corruzione, ma questa volta non si trattava dei discorsi piacevoli e tutto sommato astratti di Frank Capra; questa volta si andava appunto, dal razzismo al mondo dello sport, dalla politica nei suoi meccanismi concreti all’ingiustizia nei confronti dei reduci. La ventata democratica che quel periodo si portò dietro subì, come è noto, una brusca interruzione. Gli Stati Uniti erano da parecchio tempo sul chi va là. Gli esperimenti sull’energia atomica, vero top secret, avevano portato in galera sin dal 1940 autori di fantascienza che, come Anson MacDonald, avevano avuto l’eccessiva fantasia di parlarne nei loro racconti. Naturalmente in quei tempi il nemico era Hitler, ma ben poco ci voleva perché questi non diventasse Stalin, col quale del resto il primo aveva stretto il patto di Monaco poco tempo prima. La psicosi atomica di quel periodo è una condicio sine qua non per comprendere il meccanismo del nazionalismo americano. La potenza nucleare era infatti – e giustamente – sentita come la chiave di volta della politica internazionale, come il fattore che avrebbe dato a chi la detenesse il controllo del mondo. Questo spiega fra l’altro l’insistenza del cinema di fantascienza di allora su tale tema, come vedremo. In realtà, si pensava, non era tanto in gioco il potere quanto la sopravvivenza: i filmetti didattici su che cosa fare in caso di attacco atomico hanno oggi una qualità delirante che soltanto l’ottica di quegli anni, la sua morbosità, la sua paranoia possono spiegare. Delle iniziative messe in piedi dalla Commissione per le Attività Anti-americane si è parlato sin troppo. Nel 1947 essa si rivolse anche al mondo del cinema, avendo ben compreso che un mezzo così forte di immaginario collettivo aveva potenziali influenze di gigantesca portata sul pubblico americano. In realtà il maccartismo non forzò la produzione di opere propagandistiche di carattere nazionalistico, non fu, cioè, promotore di un’ideologia patriottica nelle pellicole hollywoodiane, ma esercitò su di esse una drastica azione anticomunista. Il fatto ci sembra di grande importanza perché denuncia in modo chiaro quanto il maccartismo fu – nella sua diabolica ferocia – in paradossale buona fede. Non diversamente da certi inquisitori, McCarthy – uomo corrotto che dopo alcuni anni sarebbe stato smascherato come tale – aveva, sì, cavalcato la tigre dell’anticomunismo traendo da ciò vantaggi personali, ma vi aveva anche creduto davvero. In altre parole, non si trattava di un piano preordinato, di un gioco finalizzato a questo o a quell’obiettivo politico originariamente estraneo all’ambito di movimento che si identificava, appunto, nell’anticomunismo. Tutto ovviamente era stato organizzato, ma col preciso fine di eliminare qualunque traccia di sospetto comunismo dal Paese. Che poi McCarthy si sia avvalso di questa formidabile campagna per suo beneficio politico individuale non significa che
dietro alla caccia alle streghe vi fosse un intendimento diverso da quello che essa manifestò subito. Del resto, la caccia alle streghe non è identificabile nel solo McCarthy, ma in tutti coloro – e furono tanti, Richard Nixon compreso – che portarono acqua al suo mulino. È peraltro anche possibile che le forze conservatrici non avessero capito, dal loro punto di vista, che quello era proprio il momento di “riformare” la produzione hollywoodiana. È anzi molto giusto quel che scrivono T.W. Bohn e R.L. Stromgren a commento della famosa riunione dei membri dell’Association of Motion Picture Producers al Waldorf il 26 novembre 1947, nella quale la più potente associazione finanziaria cinematografica del Paese accettò in pratica le tesi maccartiste ostracizzando duramente gli eventuali impiegati comunisti: «Quel che l’industria temeva di più, naturalmente, non erano i Comunisti, ma la regolamentazione da parte del governo»1. Fedele al principio che è meglio regolamentarsi per proprio conto piuttosto che lasciare lo facciano estranei, l’industria cinematografica si schierò con la Commissione senza attendere che glielo imponesse – magari in modo anche più rigido – il governo, e, peggio ancora, in una forma che includesse altre costrizioni, limitazioni, forzate accettazioni. La famigerata storia di queste iniziative è molto nota e a noi interessa ora soltanto menzionarla per rievocare lo spirito con cui Hollywood si accingeva, in quel tempo, a continuare il suo lavoro. Non ci soffermeremo dunque sulle prime udienze del 1947, sul concetto di testimonianza “amichevole” e “non amichevole”, su chi tradì e chi sopportò; né diremo, dopo tanto inchiostro, dei “dieci” di Hollywood (in realtà la lista nera era più lunga); e, ancora, non insisteremo sulla seconda tornata di udienze nel 1951, periodo, ricordano giustamente Bohn e Stromgren2, in cui l’America stava combattendo in Corea, e dunque particolarmente sensibile al problema della sicurezza. In fondo, come disse uno dei “dieci”, Dalton Trumbo, chi collaborò facendo nomi, ritrattando e accusando non fu meno vittima di chi mantenne la propria dignità e la propria parola difendendo il diritto democratico alle proprie opinioni. Il periodo maccartista, dicevamo, non si identifica con McCarthy. Nel 1954 il senatore fu incriminato per illeciti, ma la campagna anticomunista continuò nel Paese e a Hollywood per molto tempo ancora (in pratica sino all’era kennedyana). Riteniamo che le prove migliori di quell’isteria (che subito la Motion Picture Producers Association si era affrettata a negare come tale nel documento uscito dalla riunione del Waldorf ) la possano dare, più che le parole e le cifre, i film stessi. Da circa un quarto di secolo la critica lo dice a chiare lettere: nessun terreno hollywoodiano fu più chiaramente sensibile all’atmosfera di quegli anni che il cinema di fantascienza. Perché? I fattori sono diversi. Contemporaneamente alla psicosi atomica (già di per sé materia classica di fantascienza) si sviluppa soprattutto negli Stati Uniti quella degli Ufo, i quali diventano un vero e proprio problema nel 1952. Gli Stati Uniti – e con essi anche il Canada, il Brasile, la Gran Bretagna e altre nazioni – promuovono inchieste e ricerche ufficiali, mentre le pubblicazioni specializzate di fantascienza nel 1953 giungevano attorno alla quarantina. L’opinione pubblica è sensibilizzata, la tensione è alta: in questo periodo si raggiunge anche il massimo numero di incontri ravvicinati di secondo tipo. D’altra parte, il tema fantascientifico per eccellenza, il viaggio spaziale, una volta spogliato degli orpelli sensazionalistici che sin troppe pulp magazines sin dagli anni Trenta avevano volgarmente sfruttato, è parente di quello, tradizionalmente americano, del western, di un cinema, cioè, che incarnava bene l’ideologia espansionistica statunitense e che in ogni caso si identificava da tempo con l’idea stessa della nazione americana. Il nazionalismo statunitense, in altre parole, poteva trovare nella fantascienza un terreno sicuramente non peggiore di quello western. C’è però un altro fattore, e il più ovvio: quello per cui la fantascienza aveva potenzialmente le carte in regola per divenire non tanto scienza quanto realtà. La psicosi atomica e quella degli Ufo sottolineavano anche e soprattutto la vocazione ammonitiva del cinema fantascientifico3: dal finale di La “cosa” da un altro mondo (1951) di Christian Nyby e Howard Hawks a quello originariamente concepito per L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel, il cittadino veniva continuamente messo sull’avviso di non fidarsi, di tenere gli occhi aperti, di sospettare anche del vicino di casa. Insomma, il cinema di fantascienza era la risposta, al livello dell’immaginario, ai titoli allarmati che ogni giorno comparivano sui giornali. Comunisti, bomba atomica, dischi volanti, tutto era intercambiabile, ogni oggetto di timore poteva presentarsi sotto un’altra forma: la semplice paura diventava terrore. L’anticomunismo servì fra l’altro da ottima valvola di sfogo (e in parte anche da alibi) per un peccato che gli Stati Uniti si portavano dietro dal momento stesso in cui, paradossalmente, avevano riguadagnato il loro Eden. Il lancio della bomba atomica a Hiroshima nel 1945 segna un momento centrale per la comprensione di gran parte di ciò che doveva avvenire nella fantascienza cinematografica americana degli anni seguenti. Al 1947 risalgono La morte è discesa a Hiroshima di Norman Taurog e Il prezzo del dovere di Melvin Frank e Norman Panama. I due film sono diversissimi fra loro: il primo semidocumentaristico e informativo sulla costruzione della bomba, il secondo edulcorata versione giustificativa del tragico evento. Da quel momento il cinema americano non parlerà più di Hiroshima e Nagasaki, delegando a
psicosi “atomiche” ogni indiretto riferimento al fatto. Anzi, si potrebbe persino leggere la produzione di quei due film come momento finale, liquidatorio di un formidabile problema (etico, storico, umano, militare, ecc.) per lasciar campo libero alla proposta di altre tematiche, prima fra tutte quella del viaggio nello spazio. È infatti del 1950 Uomini sulla Luna di Irving Pichel, opera mezzo scientifica e mezzo politicamente allusiva al grande timore nazionale che vede nella guerra fredda il suo momento più duro e difficile, subito seguita dal mimetico (e inferiore) RXM Destinazione Luna di Kurt Neumann. Ma, soprattutto, la guerra fredda, pur nella sua innegabile concretezza, servì bene da “diversivo” nei confronti della grande colpa nazionale degli anni Quaranta. Nell’ambito della fantascienza si svilupperanno, per le ragioni di cui si diceva più sopra, i germi di una paranoia che avrebbe portato ad alcuni film davvero deliranti: non solo La “cosa” da un altro mondo e Quando i mondi si scontrano (1951) di Rudolph Maté, ma anche – fra il 1951 e il 1952 – The Next Voice You Hear di William Wellman, Invasione Usa di Alfred Green e Red Planet Mars di Harry Horner. Tutte queste pellicole, in un modo o nell’altro, alludono al “pericolo rosso”, ma alcune assumono toni demenziali: Dio che parla alla radio nel film di Wellman, Dio che abita su Marte e che si trova contro nazisti e comunisti in quello di Horner. La fantascienza comunque è una cosa più seria di queste follie. Essa nutre un’ideologia che va al di là dal puro dato estemporaneo (dopotutto la durezza e l’isteria della caccia alle streghe non sono continuate per decenni) e che si pone invece come ideologia nazionale, come dato costitutivo del senso, della storia e della cultura dell’America, del quale un fenomeno come il maccartismo è stato soltanto una – ahimé sin troppo logica da questo punto di vista – aberrazione. L’ideologia espansionistica e colonialista del western dicevamo, è rintracciabile anche in non pochi film di fantascienza. Il film di carattere spaziale (e soprattutto esplorativo) si fonda su un’idea di colonizzazione, peraltro sposata a un problema di carattere gnoseologico4. Non si tratta di una semplice equazione, che riguarderebbe solo un particolare tipo di film (e non, ad esempio, quello fantapolitico). Inoltre in questo specifico tipo di film assistiamo più volte alla messa in questione di un ordine ideologico. In parole povere, non esiste western di carattere immediatamente pionieristico che ponga dubbi finali sull’esito positivo della direzione ideologica che mostra (tutt’al più li porrà sull’aspetto morale di essa); laddove nel film di fantascienza incontriamo a volte ostacoli pressoché insormontabili (civiltà superiori, scarti tecnologici, ecc.). La ragione è semplice: il western deve necessariamente fare i conti con la storia. Per quanto leggendario e fantasioso (si pensi solo ai film di De Mille), esso ha sempre una concreta struttura di riferimento fornita dal passato, per cui può essere forse messo in dubbio un singolo avvenimento storico, ma non il senso finale della corsa all’Ovest. Nel film di fantascienza, invece, tale riferimento manca, non c’è una storia, un passato cui dovere rifarsi. Certo, la forma della fantascienza è sempre quella del passato, nel senso che i modelli proposti da esso rimandano più o meno direttamente all’esperienza nota (società organizzate gerarchicamente, modelli etici classici, ecc.). Ma l’aspetto gnoseologico di questo cinema fornisce spazi vuoti per quel che riguarda le certezze di un’ideologia che si fonda sulla conquista. Non per nulla il film di fantascienza è il genere più aperto alla metafora politica di cui si diceva: l’“altro” non ha avuto la sua sanzione storica, la sua sconfitta che garantisca la possibilità di un qualsiasi discorso lungo la linea delle certezze. L’”altro” non appartiene a un passato archiviato nei suoi accadimenti esteriori, ma al futuro. Esso è presente e il volto che possiamo dargli non rimanda ad alcuna rassicurazione fornita dall’oggettività degli avvenimenti storici nei modi in cui essi sono concretamente accaduti. Ora, il film di fantascienza si sviluppa pienamente solo dopo la seconda guerra mondiale, ed è un fatto che tale sviluppo trova una sua causa fondamentale nella situazione storico-politica del periodo. In certo senso quasi si potrebbe dire che, almeno per quel che riguarda il comune aspetto ideologico di carattere espansionistico del western e del film di fantascienza, quest’ultimo nasce come supporto del primo, ormai teso verso altri statuti. È indubbio che un John Ford (per prendere l’autore più rappresentativo dell’intero western americano) nel dopoguerra batterà ancora le strade dell’ideologia colonialistica: Il massacro di Fort Apache (1948) e La carovana dei Mormoni (1950), per fare due esempi, ne sono precisa testimonianza. Ma è anche vero che proprio Ford nello stesso periodo tratterà, in alcuni suoi western, temi meno direttamente espressivi di tali istanze. Si pensi al tono crepuscolare di I cavalieri del Nord-Ovest (1949), al ripiegamento nostalgico e per certi versi démodé di Il sole splende alto (1953), a quell’altissima opera di psicologia etnica in un quadro grandiosamente rappresentativo dell’intera problematica dell’Ovest sganciata da specifici riferimenti storici, tanto da diventare tragedia assoluta, che è Sentieri selvaggi (1956), alla riflessione insieme tenera, severa e dolorosa sull’identità nazionale che è Soldati a cavallo (1959), ecc. Il western, cioè, sta a poco a poco mutando volto, come vedremo più avanti, sta perdendo le tinte dell’ideologia colonialista per diventare ripensamento di altri temi più indirettamente connessi alla storia dell’Ovest e dell’America tutta. Non a caso proprio negli anni Cinquanta esplode il genio personalissimo di un Budd Boetticher e di un Anthony Mann, autori alquanto lontani da una visione dell’Ovest quale quella arieggiata sin dai tempi di I pionieri (1923) di James Cruze, che per molti versi rimarrà un archetipo del western espansionistico. Tutto questo è
estraneo alla fantascienza proprio perché, si diceva, in certo modo sarà essa a sopperire al mutamento del western, sarà essa a prendere la staffetta ideologica che l’altro genere, ormai avviato per altre strade, le sta passando. E d’altra parte è pur vero che la fantascienza non è necessariamente da leggersi in una chiave storicosociologica. In fondo l’avventura fantascientifica organizza un sistema narrativo dominato da un protagonismo tecnologico nel quale si inscena la classica lotta fra creatore e creato. O se si preferisce, fra conoscenza e imprevisto. Che si tratti dei superstiti di Il mostro del pianeta perduto (1955), uno dei primi film diretti da Roger Corman, o degli ignari testimoni di una rivolta di insospettabili animaletti, come in Assalto alla terra (1954) di Gordon Douglas, la tecnologia genera mostri, o quantomeno si rivela insufficiente a inscriverli in un sistema di previsione. La fantascienza, insomma, si presenta sempre come esemplificazione di una minaccia nata dalla contaminazione di natura (statica) e cultura (dinamica) che si propone come attribuzione alla prima degli statuti della seconda. La scienza tenta di sovvertire un ordine? Ecco allora che i rappresentanti simbolici di quell’ordine sovvertiranno le certezze della scienza. Ora, si è detto spesso che il mondo contemporaneo è caratterizzato dalla crisi delle ideologie, soprattutto intese come sistemi teorici che tentano di imporre (o quantomeno di elaborare) al mondo un altro ordine. A questo punto è già chiara l’equazione potenzialmente sottesa al discorso fantascientifico: Cultura contro Natura = Ideologia contro Capitale. L’equivalenza, sia chiaro, è puramente formale. Ma è pur vero che il Capitale ha sempre cercato di porsi come “naturale” attraverso uno storicismo che ne dovrebbe giustificare le operazioni in nome, appunto, di un’idea evolutiva assoluta. La crisi delle ideologie, allora, si presenta bene come il referente di una lotta nella quale queste sono condannate a essere sopraffatte da mostri che esse non possono controllare e contenere. Il mostro, dunque, è il Capitale, o meglio esso ne è metonimia: un prodotto che rappresenta il produttore. E ciò vale anche quando apparentemente l’antagonista non intrattiene con l’eroe un rapporto, diretto o indiretto, di creazione. Non importa, cioè, che l’altro sia il mostro di Frankenstein né la drammatica involontaria deriva di pericolose ricerche scientifiche (formiche gigantesche, orrori sopravvissuti a radiazioni di guerre nucleari, ecc.). Anche quando esso ha il suo luogo naturale nello spazio profondo, come ad esempio il mostro metamorfico di Destinazione Terra (1953) di Jack Arnold, la sua relazione col sistema sussiste, sia pure in modi più sottili. In particolare, si tratta qui della figura ottimale della macchina tecnologica, fondamento essenziale di ogni film di fantascienza, la quale nella comparazione fra gradi estremi di sviluppo giustifica proprio quella ricerca che sembra irridere e umiliare. È vero, cioè, che davanti a certi mostri di scienza venuti dallo spazio il grado delle nostre conoscenze umane è risibile, ma è anche vero che, storicisticamente, il nostro destino è adombrato nella meravigliosa tecnologia davanti alla quale siamo al momento pressoché inermi. E dialetticamente il Capitale trova anche qui il modo di giustificare lo sviluppo della sua scienza. Come si vede, storia e ontologia sono due aspetti, due diversi punti di vista da cui guardare a uno stesso oggetto. Se è vero dunque che il maccartismo è facilmente e giustamente leggibile nella fantascienza hollywoodiana degli anni Cinquanta, è non meno vero che quel cinema aveva e ha ancora dietro di sé altri supporti teorici, altre motivazioni gnoseologiche. La storia del cinema americano è anzi proprio questo, una continua giustapposizione di eventi che, evocati da una mentalità, riescono a modificarla passo passo, da un lato, e tracciati astratti di una ragione che va misurata in termini epistemologici, su distanze che sono svincolate da quelle stesse motivazioni che hanno mosso il primo ordine di considerazioni. Nel caso in questione è particolarmente interessante rilevare, alla luce di quanto detto, che nonostante i radicali cambiamenti avvenuti negli ultimi quaranta anni nel cinema fantascientifico (è paragonabile tecnologicamente un’opera come Ricerche diaboliche, 1958, di Jack Arnold con un qualsiasi film di Steven Spielberg?), le linee teoriche che reggono questo tipo di cinema restano identiche, collegate a un’intera epoca di pensiero, di gusto, di dettati gnoseologici, non a un periodo, a mentalità, costumi che nel quotidiano tuttavia il cinema per sua stessa natura regolarmente registra. Il cinema di fantascienza, infine, è terreno particolarmente fertile e ricettivo per la psicosi anche perché – al di là di eventuali capacità di convincere della possibilità delle sue follie – ha per definizione diritto di manipolazione assoluta sui suoi oggetti; o meglio, in esso il rapporto fra cose e persone può venire variato a piacere non tanto nei suoi aspetti psicologici quanto addirittura in quelli visivi, concreti. In questo senso esso è un’immensa macchina simbolica che proietta timori e incubi di un periodo, di un popolo, di una classe. In Radiazioni BX: distruzione uomo (1957) di Jack Arnold le sempre minori dimensioni del protagonista, investito da una nube di ignota composizione, il quale – molto probabilmente – si “ritirerà” sino a proporzioni atomiche, alludono a una sensazione dello spirito, a un atteggiamento paranoico di fondo che vede non nel nemico alieno, nel marziano, nella “cosa” o in altro del genere il proprio temibile avversario, ma in qualunque oggetto o animale che un tempo non degnavamo neanche di uno sguardo. Tutto può esserci fatale nell’America degli anni Cinquanta a
differenza dal sospetto nutrito dal moribondo Bigelow in Due ore ancora, questa volta non è un qualsiasi essere umano il potenziale nemico, ma qualsiasi forma della realtà. Come nella pellicola di Arnold, la realtà si avvicina minacciosamente e noi diventiamo troppo piccoli per affrontare anche un suo solo particolare, un dettaglio che in passato abbiamo considerato senza importanza. E l’uomo più diventa piccolo più si ricorda di che cosa è veramente grande: il pensiero di Dio che chiude il film in questione non è tanto un riferimento di carattere conservatore, ma un sintomo di una stanchezza che nel 1957, dopo la guerra in Corea e dieci anni di atmosfera maccartista, l’americano medio poteva ben sentire.
2. Lo stile nevrotico La paura instillata dal maccartismo è anche la ragione per cui, come nota giustamente Gordon Gow, le sceneggiature originali furono allora più rare nei film hollywoodiani5. Si preferiva, infatti, muoversi su testi già collaudati a teatro o nelle librerie, i quali, benché potenzialmente soggetti a variazioni, avrebbero comunque attirato di meno l’attenzione dei censori che già in precedenza li avevano accettati. Una lista degli autori dalle cui opere negli anni Cinquanta furono tratti film è impressionante: si va da Tennessee Williams a William Faulkner, da Arthur Miller a Norman Mailer, da James Jones a Herman Melville, da Thornton Wilder a William Inge, per non parlare di Tolstoj a un estremo e delle cosucce leggere di G.S. Kaufman o John Van Druten dall’altro. Ma questa è una costante tutto sommato di non particolare rilievo. Molto più rilevante è invece – anche se presente nei film a diverso titolo – lo stile nevrotico del cinema anni Cinquanta in generale e del melodramma in particolare. La «shocking matter» di cui parla Tennessee Williams a proposito dei suoi drammi, aggiungendo, molto benpensantemente, che basta aprire i giornali per rendersi conto che la sua opera si ispira alla realtà, è forse molto meno nevrotica dei film che ne parlano (oppure, effettivamente, si tratta proprio di questioni non poco impressionanti e importanti). Si prenda una sorta di classico dell’epoca, Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann, trascurando per il momento che si tratta di un’opera sulla guerra ben diversa dai film d’assalto con John Wayne. La costruzione delle varie vicende che si intrecciano (e il quadro è abbastanza vasto) si sente falsa rispetto a un’idea originaria che, pure, se non abbiamo letto il libro di James Jones, non conosciamo. La famosa scena d’amore sul mare fra Lancaster e la Kerr (opportunamente parodiata da Billy Wilder in Quando la moglie è in vacanza, 1955) ha qualcosa di buffo non perché in se stessa sia divertente, ma perché ogni elemento che la compone intende concorrere a suggerire allo spettatore una sensazione di dirompenza, di irre-frenabilità, di violenta passione, ma nelle mani l’osservatore si ritrova soltanto un uomo e una donna che, in costumi da bagno castigatissimi, si baciano sulla riva dell’oceano, mentre in background le onde fungono come al solito da metafora di quella dirompenza. Qualcuno potrebbe osservare che, sì, questo è ciò che vede uno spettatore degli anni Ottanta dopo che Hollywood ha superato da molto tempo i limiti che la puritana censura del momento aveva imposto a questo come a tanti altri film di allora. Quel che intendiamo, in verità, è un’altra cosa. È vero che in quegli anni il pubblico era abituato a saper leggere in sequenze del genere una allusività che l’obiettivo non poteva permettersi di concretizzare in immagini più audaci (e dunque è vero che, per comune consenso, per convenzione come si dice, sequenze come quella “significavano” molto più di quanto dava a vedere il puro significante6) ma la differenza questa volta era di intenzioni. Certo, in un qualunque film una sequenza pensata in quei termini avrebbe alluso a un rapporto sessuale (si pensi a Scandalo al sole, 1959, di Delmer Daves), ma in questo film gli stessi significanti con lo stesso significato potenziato diventavano intollerabili per la censura e, in altro senso, per lo stesso spettatore. Perché mai? Per due ragioni diverse rispettivamente. La censura non poteva sopportare che in una scena d’amore figurasse una donna sposata in procinto di commettere adulterio; lo spettatore sentiva che, data la situazione alquanto anomala rispetto alle più o meno tacite leggi eufemistiche dell’epoca, una scena del genere non poteva svolgersi come una qualsiasi scena d’amore, ma avrebbe dovuto avere qualcosa che la caratterizzasse proprio in quanto “proibita”. Non entreremo in merito a questioni teoriche sul concetto e sul diritto o meno di censura, e neanche formuleremo giudizi o valutazioni su questo o altri film. Quel che ci preme sottolineare è che la situazione psico-spettatoriale in relazione a questa famosa scena denuncia che il cinema americano incomincia a instillare nel suo pubblico un disagio del tutto incomparabile a quello che esso aveva sicuramente denunciato, per ragioni differenti, sia nei Trenta che nei Quaranta. Ora non si tratta più di capro espiatorio europeo né di innocenza perduta dopo il momento del trionfo e della ripresa; ora Hollywood dice, molto chiaramente, seppure in modo involontario, che tutto lo scarto che possiamo sentire nei confronti della realtà non trova un canale di scarico nell’immaginario cinematografico, e che anzi proprio su quello schermo che ormai per decenni aveva deliziato gli scontenti, i sognatori, gli sconfitti, i personaggi non potevano più parlare come noi avremmo voluto, fare le cose che avremmo desiderato fare, vestire come sognavamo, vivere vicariamente la vita che per molte ragioni a noi non era stata concessa.
Non è soltanto una questione di contenuti, non è soltanto il fatto che ci si identifica più volentieri in un ricco e bellissimo giovane del bel mondo piuttosto che in un tarchiato gangster che viene dalla strada: se fosse solo questo, il gangster film avrebbe dovuto essere liquidato in meno d’un anno. Non è la realtà che è divenuta peggiore, i temi, i luoghi, i personaggi a essere meno belli e più sordidi. È piuttosto il modo in cui essi vengono proposti che li rende non tanto più sordidi, ma più nevrotici, o meglio, che fa sentire al pubblico che qualcosa non funziona, che quella scena – in se stessa impeccabile – non ha dietro di sé l’usuale falsità che chiediamo al cinema, ma una falsità diversa, qualcosa che le immagini vorrebbero nasconderci mostrandocela in altri modi e che invece noi percepiamo al di là da queste intenzioni. Se è vero, dunque, che esiste uno «stile paranoide” nella politica e nella vita americana, come afferma Hofstadter7, alludendo naturalmente alle immediate conseguenze del maccartismo, è anche vero che esiste uno “stile nevrotico”, cioè qualcosa che, pur essendo connesso all’altro, non riguarda necessariamente e direttamente la paura del comunismo, della delazione, dell’invasione atomica, della sicurezza nazionale e così via. Lo stile nevrotico è molto più pervasivo, esso è diffuso all’interno dell’intera produzione hollywoodiana. Non lo si legge tanto nei temi di non poche opere del periodo (è in genere, anzi, lo stile paranoide a esprimersi nelle tematiche), ma nell’atmosfera che caratterizza pellicole che in se stesse non dovrebbero esibire particolari scarti e ossessioni. Vediamo di chiarire la cosa. Mentre I Was a Communist for the Fbi (1951) di Gordon Douglas è una pellicola paranoica, L’uomo dal braccio d’oro (1955) di Otto Preminger è una pellicola nevrotica. Il primo, in tono semidocumentaristico e alquanto efficace, mette al corrente sulle infiltrazioni all’interno del partito di agenti governativi ben addestrati, dando per scontato il pericolo che ciò comporta per l’America e l’obiettivo che la democrazia non può non avere nei confronti dei comunisti; il secondo racconta la storia di un giocatore drogato che vorrebbe staccarsi dalla moglie paralitica, e schizza un quadro assolutamente non realistico di un underground di cartapesta. Ma mentre il primo si configura in una situazione politica che aveva permeato di sé il tessuto dell’America quotidiana e rispondeva a un terrore che, vero o falso, all’origine però esisteva, il secondo creava una suspense verso un problema che, pur vero, non era ancora uno dei grandi temi di discussione nazionale e che comunque in quel momento era sentito come secondario rispetto a quello politico. Di più: Preminger adotta quello che abbiamo chiamato uno stile nevrotico non per il tema che il film tratta, ma per il modo in cui viene trattato. A partire dall’ossessività della musica di Elmer Bernstein fino al montaggio estremamente drammatico di Louis L. Loeffler che toglie, per così dire, all’attore (Frank Sinatra) spazio di recitazione per costruire tecnicamente le sequenze senza che questi comunichi l’intero arco di un’esperienza fisica allucinante, il film è una struttura nella quale l’espressione è sempre controllata dalla tecnica. A immaginarcela ripresa con una “camera” fissa, la vicenda avrebbe un quoziente di “interpretazione” tanto alto da renderla insopportabilmente retorica. Preminger, cioè, chiede ai suoi attori non tanto di rinunciare all’interpretazione in favore di una manipolazione che il regista effettua alla moviola, ma, al contrario, di intensificare l’espressione dei loro sentimenti e delle loro sensazioni in modo che nel singolo take assemblato con gli altri fino a comporre la sequenza esso denoti una carica tanto forte che il taglio di montaggio dia l’impressione di arrivare al momento opportuno per bloccare sensazioni insostenibili (che peraltro – e ovviamente – continuano sino alla logica fine narrativa della sequenza). Ora, l’incapacità di mescolare calibratamente tecnica e recitazione da parte del regista di questo film non è causata da ragioni di scarsa abilità professionale, ma da qualcosa che lo porta necessariamente ad adottare questo “stile”. La lacerazione continua dell’impostazione dell’immagine, la disturbante limitazione di proseguimento della mimica, e in genere l’eccitato movimento di piani mentre la macchina da presa segue e studia il protagonista è quello che definiamo “stile nevrotico”, vale a dire l’impossibilità di costruire un discorso attraverso le immagini seguendo la premessa (un qualsiasi dato narrativo), scegliendo invece una via che sembra voler distruggere ciò che è appena stato pensato e organizzato. Questo, intendiamoci, può tranquillamente essere uno stile oculatamente scelto, voluto; ma soltanto se esso contribuisce a un’intensificazione e in genere a un migliore rendimento del concetto, della situazione, che intende esprimere visivamente. Qui però il montaggio indebolisce la tensione drammatizzandola a un punto tale da renderla poco verosimile e troppo retorica. Lo stile nevrotico in sostanza si definisce come un’incapacità di organizzazione visuale intesa come equilibrio fra componenti drammaturgiche e tecniche senza che questo si ponga a priori come dato formale del film, come sperimentazione, o meglio ancora come perfetta metamorfosi della forma in contenuto, realtà, messaggio. Contenuto, realtà, messaggio ci sono, ma si sente che quella forma è stata loro imposta, e si sente che questa imposizione ha comportato di necessità una frammentazione, una dispersione della forma stessa. Messe le cose in questi termini, viene da pensare che si tratti semplicemente di una questione personale, di un momento non felice nella carriera di un regista, di un’inadeguatezza occasionale, ma in realtà lo stile nevrotico è tale perché travalica il puro confine del
personale e dell’estemporaneo e diviene marchio, distintivo. Nel caso della pellicola in questione, le ragioni di questo stile sono probabilmente da cercarsi nel particolare soggetto. Il cinema americano aveva evitato attentamente di affrontare un tema come quello della droga, ed evidentemente Preminger – che aveva con coraggio assaggiato le ire della censura due anni prima con La vergine sotto il tetto (1953) – dovette muoversi con particolare attenzione su quel campo minato. Il film ebbe un enorme richiamo di pubblico (la droga, appunto, era un soggetto bandito dal codice Hays) e, pur essendo stati eliminati 37 secondi nei quali il protagonista era intento a prepararsi una dose d’eroina, o anzi proprio per questo, il regista mostrò non tanto una particolare prudenza nel trattamento del tema quanto – appunto – una nevrosi appena percettibile nei modi di conduzione. Non vorremmo dare l’impressione di valutare L’uomo dal braccio d’oro così importante da continuarne la discussione. Non si tratta di un buon film (come molte cose del sopravvalutato Preminger) e in fondo non è nemmeno così emblematico da un punto di vista sociologico, di costume, mentalità, ecc. Si tratta solo di un buon esempio per chiarire un concetto importante per la comprensione del cinema americano anni Cinquanta. Va da sé che lo stile nevrotico non è in realtà uno stile vero e proprio, vale a dire, non è assolutamente necessario che esso si esprima attraverso l’uso del montaggio nei termini di cui si diceva più sopra. E allo stesso modo lo stile paranoide di cui parla Hofstadter, ripreso da Dowdy, non deve necessariamente esercitarsi quando il soggetto della pellicola parla di comunisti. Il già citato Radiazioni BX: distruzione uomo di Arnold è un buon esempio di questo ultimo stile, con un personaggio sempre più piccolo e di conseguenza sempre più minacciato dal mondo intero, che però assume le vesti, le sembianze di una gigantesca congiura nei suoi confronti. Così (ma qui ammettiamo di avere gioco facile), l’intera serie di pellicole tratte da drammi di Tennessee Williams sono, indipendentemente dai loro registi e nonostante le eventuali caratteristiche autoriali, delle splendide esercitazioni in stile nevrotico. Da Un tram chiamato desiderio (1951) di Elia Kazan a Improvvisamente l’estate scorsa (1959) di Joseph Mankiewicz il drammaturgo ha dato a Hollywood (o forse sarebbe meglio dire che Hollywood ha preso da lui e da Broadway) alcune delle opere più emblematiche di quello stile. Si pensi soltanto al contrasto stridente tra fotografia “high key” e scenografia volutamente pesante e decadente in quest’ultima pellicola. Qualcosa evidentemente non funziona, ma non si tratta di imperizia da parte del director, se non altro perché il suo nome è Mankiewicz, vale a dire quello di un uomo di cinema indiscutibile che soltanto le follie e la disorganizzazione di una Hollywood ormai con un piede nella fossa poterono frustrare e sabotare durante le riprese di Cleopatra (1963). Si tratta piuttosto di un momento di transizione dal cinema hollywoodiano classico a una Hollywood che si sta ormai dirigendo verso la propria fine. Lo scarto come quello più sopra accennato esprime un disorientamento che aveva toccato anche i migliori registi. La domanda era: come può essere ancora possibile fare film, buoni film, film tesi, conseguenti, compatti in un’età che del cinema sembrava non volerne più sapere? E di conseguenza: che cosa doveva fare un cineasta per attirare un pubblico che era sempre più disinteressato? Se consideriamo Hollywood come una “fabbrica di miti” non potremo non comprendere che il problema per l’industria di allora non era affrontare una crisi ma quali miti costruire per poter continuare. Hollywood era insomma una specie di Santa Barbara piena di munizioni: solo, era necessario comprendere quali di esse erano quelle richieste dall’attuale situazione di combattimento. Ovviamente film come quelli tratti dai lavori di Tennessee Williams avevano un richiamo per la curiosità di chi aveva già visto i drammi originali o semplicemente per coloro che ne avevano sentito parlare. Non sono evidentemente le scelte di soggetti e le ispirazioni che preoccupano Hollywood in questo tormentato decennio, ma ancora una volta – come fare film. Il guaio fu che i produttori pensavano di continuare a saperlo, di essere cioè i depositari di una formula (o più formule) di successo: per questo imposero, come sempre avevano fatto, ai registi la loro volontà. Ma la situazione era mutata. Mentre ai bei tempi le formule funzionavano ancora e i registi, adattandovisi più o meno, inserivano, se del caso, il tocco della loro autorialità indipendentemente dal quoziente commerciale delle pellicole che venivano loro imposte, ora il box-office non funzionava e a ogni film che falliva il bersaglio si variava il tiro, non comprendendo – per riprendere la metafora precedente – che non si trattava dell’alzo ma delle munizioni. Come vedremo presto, vi furono battaglie vinte e battaglie perdute; ma le prime furono le più facili, quelle vistosamente mitologiche, quelle divistiche, che però non sono comprensibili senza capire che cosa era successo all’altro contendente: la tv.
3. I vantaggi della schizofrenia, ovvero: arriva la tv Gli anni Cinquanta sono indiscutibilmente un momento di ricambio generazionale nelle fasce di pubblico. Questa volta il maccartismo c’entra poco; c’entra invece qualcosa che gli sarebbe sopravvissuta di gran lunga, la televisione. Fra il 1945 e il 1950 il pubblico cinematografico americano calò del 25% mentre, più o meno nello stesso periodo, il numero di apparecchi tv venduti nel Paese crebbe da seimilacinquecento a sette milioni
e mezzo: poche cifre ma sufficienti a fornire il quadro di un’America cinematografica ormai entrata nel tunnel della crisi. Nessuna meraviglia che Hollywood abbia risposto in quegli anni con una serie di imprese tecniche a volte risibili a volte serie, tutte comunque tese a richiamare nelle sale il pubblico d’un tempo. Più interessante è, per così dire, il mutamento epistemologico nell’industria dello spettacolo riprodotto (o trasmesso). Il cinema, si sa, è fondato sulla registrazione dell’oggetto della ripresa; la televisione, invece, almeno ai suoi albori, sulla visione in diretta. Da un punto di vista estetico questo comporta, nel caso della tv, un “realismo”, una vocazione al fenomeno nel suo farsi che esclude qualsiasi concezione e programma di “elaborazione” del materiale. In questo senso si può dire che la tv abbia contribuito proprio a una maggiore autoconsapevolezza estetica del cinema americano, quello stesso cinema che sino ad allora sulle pagine dei quotidiani era stato letto e giudicato, nel migliore dei casi, sulla base delle capacità attoriali, della agilità dello script, del ritmo narrativo, e naturalmente del solito parametro contenutistico. Di lì a non molto, com’è noto, la critica francese proporrà una politique des auteurs presto ripresa anche in America attraverso la mediazione che ne farà Andrew Sarris. D’altra parte non è del tutto casuale che proprio gli anni Cinquanta siano quelli più ricchi di suggestioni teatrali nel cinema: non solo come si diceva, per quel che riguarda la ripresa di testi celebrati a Broadway, ma anche per il segno che questa lascerà su Hollywood in relazione ai prestiti attoriali e al tipo stesso di recitazione (l’Actors’ Studio di Elia Kazan e Lee Strasberg, la Neighborhood Playhouse di Sanford Meisner, la scuola di Stella Adler, ecc.). Che Broadway sia sempre stata un buon terreno di caccia per Hollywood non è certo un segreto, ma con gli anni Cinquanta il tempio del teatro per la prima volta agisce qualitativamente, imponendo non solo volti e voci ma soprattutto un’impostazione di metodo, come dicevamo più sopra. Si tratta insomma non di un fenomeno casuale, ma di un programma abbastanza preciso di rinnovamento da parte della capitale del cinema: a un mezzo fondato sull’immediatezza della realtà (o sulla stilizzazione dei suoi tratti caratteristici: si pensi, per fare un esempio, alla calcolatissima operazione “realistica” in chiave comica di una serie come “The Honeymooners”, 1952-57, peraltro ripresa dal vivo), il cinema risponde con gli esiti più sofisticati dell’intellettualismo newyorkese, con la proposta di un metodo recitativo di eccezionale ricercatezza. In altre parole, alle iniziative di carattere tecnico varate nel periodo e tese a un rilancio dello spettacolo cinematografico fa riscontro, in sede qualitativa, un tentativo di rinnovamento in una direzione diversa da quella della pratica della grande concorrente, la tv. La tv, infatti, col suo statuto “diretto”, sembrava escludere – si diceva – ogni livello poietico che non fosse quello della standardizzazione. Sydney Pollack disse qualche anno fa che la voga della fantasy nel cinema americano di questi ultimi anni si spiega col fatto che il cinema tenta disperatamente di proporre al pubblico esperienze che esso non può trovare in televisione. È da circa trentacinque anni che il cinema, in mille modi, sta facendo questo tentativo e – cosa non poco interessante – le esperienze più fallimentari esso le ha riscontrate quando le sue trovate intendevano “trasgredire” la natura originaria del medium (ad esempio, con lo Smell-O-Vision, che nelle sale introduceva lo stimolo a un ulteriore senso, l’olfatto8). Ma in fondo lo stesso Cinerama, che pure si appellava unicamente al senso di sempre, la vista, crollò miseramente: per i costi degli impianti, si disse, ma in realtà perché la tecnica intendeva attribuire al cinema una percezione eccessiva rispetto a quella ufficialmente inaugurata dal mezzo in termini storici. A partire dal mitico treno dei Lumière il rapporto fra immagine e percezione spettatoriale, a ben vedere, non è mai variato negli anni. Il tempo, piuttosto, ha consentito al cinema di fondarsi come linguaggio e di conseguenza non soltanto di elaborare una grammatica e una sintassi, ma, attraverso di esse, di poter raccontare delle storie: vale a dire, di innalzare al quadrato la (falsa) impressione di realtà di questo medium. Il treno dei Lumière non era un vero treno, esattamente come, poniamo, non c’era realtà nelle battaglie di La nascita di una nazione, nelle fucilate di Ombre rosse, nella biografia problematica di Quarto potere. Ora, immaginiamo che il romanzo come genere, messo in crisi dall’avvento del cinema, per risollevarsi si proponga con edizioni munite di figurine tridimensionali dei suoi personaggi, o magari con campioni chimici che al momento opportuno lascino sprigionare l’odore delle vivande descritte in questa o quella pagina: davvero espedienti del genere servirebbero a rilanciare l’abitudine alla lettura? O non sarebbe più proficuo lavorare sui dati costitutivi e caratterizzanti lo specifico ambito poietico del genere particolare e del mezzo d’espressione (in questo caso la letteratura) più in generale? Ecco perché qualunque tentativo di ampliare l’orizzonte percettivo del cinema in termini, per così dire, orizzontali invece che verticali è destinato al fallimento. È insomma attraverso le regole costituite
dal linguaggio (e l’eventuale loro trasgressione) che il cinema, come qualsiasi altra arte, può rilanciarsi. Gli anni Cinquanta sono stati in questo senso esemplari poiché hanno dimostrato che non esiste innovazione tale da riscattare il cinema. Certo, il Cinemascope non può essere considerato un fallimento, ma solo perché esso ampliava la percezione visiva all’interno delle regole originarie. Nel momento in cui queste venivano eliminate (Cinerama) ecco che l’innovazione tecnologica diventava semplice fenomeno da baraccone, tale da suscitare effimera curiosità, non certo assuefazione e adorazione. Molte possono essere le ragioni della differenza di statuto fra i due mezzi, ma indubbiamente una delle maggiori, nella tv, è la rintracciabilità di precise fasce orarie legate al tipo di pubblico. Il cinema insomma, fornisce prodotti indirizzati a questo o a quel pubblico, ma rimane pur sempre un quoziente di incertezza riguardo la loro destinazione, un’incertezza che la televisione non conosce dal momento che, godendo di un palinsesto, essa elabora le sue programmazioni in relazione a una definizione già codificata del pubblico disponibile alla visione durante questo o quel momento della giornata. Molto di più: il cinema, proprio per tale ragione, si vide costretto a elaborare un tipo di spettacolo mediamente polivalente in relazione ai vari tipi di pubblico. Al massimo esso (e comunque difficilmente quello americano) fornirà prodotti indirizzati a questo o a quel pubblico in relazione a una posizione nella scala sociale e in quella culturale, non – come invece in tv – in relazione all’età, alle funzioni e ai ruoli nell’ambito familiare e così via. L’avvento della televisione rivoluzionò l’organizzazione del sistema di fruizione dello spettacolo: l’obiettivo era un’altra concezione e dimensione del pubblico, peraltro già fornita dalla realtà dei fatti. Non c’è bisogno di “creare” un pubblico per questo o quel programma: esso è già lì “in natura”. Questo ovviamente la dice abbastanza lunga sulla tv. E il cinema? Davanti a una tale situazione gli anni Cinquanta si trovarono ad affrontare non semplicemente un problema di crisi e a elaborare non semplicemente dei modi di richiamare, riconquistare al cinema un ampio numero di spettatori. Il problema infatti presentava varie facce. La tv stava cominciando a condizionare i gusti stessi, i modelli culturali di un pubblico che da quel momento in poi non sarebbe, bene o male, più stato lo stesso. Prendiamo ad esempio il concetto medesimo di comicità. A partire dagli anni Quaranta per giungere sino ai primi Cinquanta la galleria comprende fra gli altri i Three Stooges, Abbott & Costello, Bob Hope, Red Skelton, Danny Kaye. Si tratta, è chiaro di artisti molto diversi fra loro, ma tutti di estrazione teatrale (Abbott & Costello, peraltro, ebbero agli inizi anche esperienze radiofoniche), e, quel che conta, tutti in qualche modo ancorati saldamente all’uso comico della parola (con l’eccezione, forse, degli Stooges, che a modo loro saldano la comicità slapstick con il gioco verbale). Hope, Skelton, Kaye, intendiamo dire, sono già comici potenzialmente televisivi, comici che richiedono uno spazio di movimento abbastanza ristretto, e comunque sufficiente a permetter loro di esercitare una notevole carica comico-verbale, o al massimo come nel caso di Skelton e anche di Kaye, una forte componente mimica facciale. Comici come questi sono evidentemente gli araldi di una nuova concezione di quell’arte, vessilliferi di una grande rivoluzione dello spettacolo leggero che continuerà con Jerry Lewis (il cui primo successo è televisivo) e con Woody Allen (non a caso autore di testi per la tv). Tutt’al più si può concedere che la tv abbia in certe occasioni e in certa misura mediato da una precedente tradizione teatrale. Tutt’al più, insomma, la tv riconduce lo spettacolo comico alle sue origini teatrali, a uno spazio d’azione, di movimento più ristretto, e di conseguenza a un più forte ruolo della verbalità e della mimica. Non è, fra l’altro, questa la maggior ragione del continuo successo di una coppia comica pre-televisiva (soprattutto anni Venti e Trenta) come quella di Laurel & Hardy anche in epoca di tv, e in particolare proprio sul piccolo schermo? Meno vorticosa, inventiva, nervosa di personalità come Chaplin e Keaton, la coppia Laurel & Hardy vantava ante litteram una “qualità televisiva” che non avrebbe mancato di emergere e funzionare per loro al momento opportuno. Gli anni Cinquanta vivono per la prima volta la schizofrenia che doveva caratterizzare, sia pure in vari modi, il cinema sino ai nostri giorni: da un lato una sua “televisizzazione”, dall’altro una ricerca di originalità e specificità spettacolare. È di certo sintomatico che nel 1952 Arch Oboler giri The Twonky, in cui un alieno mette in atto la sua invasione attraverso un televisore, il quale, da lui animato, prende vita e sbriga elettronicamente le faccende domestiche, ipnotizzando con un raggio chiunque intenda fermarlo. Da un lato la domanda è: perché mai si dovrebbe fermare una cosa tanto comoda? Dall’altro la domanda è: perché mai dovremmo lasciarci invadere? C’è però anche una terza domanda, che, come le altre due, il pubblico del tempo non si pose: che fine ha fatto il precedente invasore, il cinema?
4. Coppia di fanti con regina: Dean, Brando e la Monroe
Altre battaglie, si diceva, furono vinte. Ma furono vittorie di Pirro, come quella divistica. Il ricambio generazionale portò a un semplice calcolo: i miti divistici dai Trenta ai Quaranta si erano rivolti allo stesso pubblico per un quarto di secolo circa. Chi a vent’anni aveva applaudito Clark Gable in Accadde una notte lo applaudiva a quaranta in Mogambo (1953) di John Ford, naturalmente. Ma allora Gable aveva cinquantadue anni, e che cosa poteva dire ai ventenni del periodo? È per rispondere a questo interrogativo che gli anni Cinquanta videro la nascita di alcuni astri di talento, sì, ma soprattutto di grande fascino, tanto grande da inserirli nell’olimpo dei divi e non nella lista, professionalissima, degli attori. Marlon Brando, James Dean, Marilyn Monroe sono la risposta che Hollywood dava alla crisi indotta, come credevano i produttori, dall’avvento della tv e dal sospetto che nella città del cinema serpeggiasse il demone della cospirazione, della sovversione, del comunismo. Intelligentemente Hollywood non fece l’errore di ignorare il timore del caos che faceva tremare la nazione, ma, secondo i suoi migliori dettami, lo trasformò in una cosa diversa: ne fece, insomma, una sineddoche, qualcosa che doveva sollecitare la mente e l’attenzione ma che al tempo stesso non terrorizzasse la gente come invece ogni giorno facevano i titoli dei giornali. Il disordine è tradizionalmente maschile: i veri eroi di questa operazione saranno naturalmente i male leads per antonomasia degli anni Cinquanta: Brando e Dean. Ambedue, in modi profondamente diversi, impersonavano un turbamento dell’ordine. Figli di una generazione troppo giovane per avere vissuto la guerra (nati rispettivamente nel 1924 e 1931), erano però lontani da coloro per i quali la Depressione era soltanto una parola. Cresciuti in un’America affamata, entrambi in età adulta quando la guerra infuriava (per il primo quella mondiale, per il secondo quella di Corea e quella fredda), nel mondo degli anni Cinquanta non si trovavano a proprio agio. Il primo insofferente di ogni autorità, disciplina, convenzionalismo da Il selvaggio (1954) di Laslo Benedek a Fronte del porto (1954) di Elia Kazan, il secondo sradicato dalla famiglia, tipico modello di matriarcato in Gioventù bruciata (1955) di Nicholas Ray e di patriarcalismo biblico-protestante in La valle dell’Eden (1955) di Elia Kazan. Guardare i film girati in quel tempo da questa coppia richiama oggigiorno il sorriso: la scena in cui Brando spiega alla ragazza la propria filosofia della strada in Il selvaggio e quella in cui Dean insiste perché il padre accetti in dono il denaro da lui guadagnato con una rispettabile speculazione economica trasudano Actors’ Studio: i gesti sono plateali, i tempi di comunicazione dilatati, tutto è recitato come se si trattasse di un servizio fotografico fatto di diverse istantanee in relazione alla medesima situazione. La cosa più paradossale è che invece proprio gli “squares”, gli integrati, i borghesi di questi film sono i personaggi più credibili: si muovono normalmente, non esibiscono particolare retorica, la loro mimica è verosimile e umana, e insomma si comportano come lo spettatore è abituato a veder comportarsi chiunque nella normale vita quotidiana. L’osservazione è importante perché ci suggerisce che l’immagine del giovane ribelle in questi anni è stilizzata. Il che significa che ove in genere il ribelle assetato di verità e chiarezza, di onestà e libertà dovrebbe essere l’unico ad agire in modi spogliati da qualsiasi retorica, secondo un istinto naturale che lo rende un vero animale alla scoperta di un mondo guastato dalla civiltà, dal denaro, dalla sete di potere, dalla politica, dalla violenza, e nell’insieme dagli adulti, alla resa dei conti egli è l’unico a comportarsi in modo innaturale. La trasformazione di reali istanze psicosociali in mito forza ancora una volta Hollywood a ribaltare il quadro della situazione che intende mostrare. Per rendere più incisivo, memorabile e particolare il proprio eroe l’industria lo mitizza secondo costumi, gestualità e parole che si differenziano radicalmente da quelle delle persone comuni, ma così facendo deve necessariamente coltivare anche ciò che caratterizza quelle stesse “persone comuni”, nelle quali – indipendentemente dai nostri aneliti di verità e libertà – è ovvio che come pubblico noi più facilmente ci identifichiamo. Brando e Dean sono i nostri eroi, quello che vorremmo essere e dopotutto non siamo; i baristi e le loro figliole, o la ragazza tenera e carina della porta accanto siamo invece noi. Il problema non è tanto dovuto al fatto che, essendo semplici come Julie Harris, vorremmo incarnare uno spirito di rivolta che dopotutto cova in noi come in Dean; ma al contrario che, a ben vedere, nei panni di Julie Harris non ci si sta poi tanto male, che la sua sincerità, la sua disponibilità, la sua freschezza, la sua serenità sono in realtà quel che noi vogliamo per noi stessi, molto più di quanto non desideriamo, mitologicamente, incarnare la rivolta che Dean senza dubbio rappresenta. Ciò è tanto più provato dal fatto che in tutti e tre i film da lui interpretati come protagonista Dean non aveva un ruolo di decisa opposizione ai valori costituiti. In Gioventù bruciata la sua ribellione scoppia davanti alla visione di una famiglia in cui i ruoli sono ribaltati; in La valle dell’Eden il suo più grande desiderio è di essere amato dal padre e di conseguenza integrarsi in quel che rimane del già semidistrutto nucleo familiare; in Il gigante, con il denaro finalmente ottenuto col petrolio, il suo unico interesse è di essere accolto a far parte di una famiglia, intesa sia in senso letterale che metaforico, alla quale per nascita e storia personale non appartiene. Dean, insomma, non vuole affatto rivoluzionare il mondo: al contrario, lo vuole nell’ordine in cui l’ha sempre conosciuto. Solo, ne vorrebbe fare anch’egli parte. Il can can che venne fatto in patria e all’estero all’uscita di Gioventù
bruciata (sulla base anche di due titoli alquanto ambigui, quello inglese e quello italiano) fu soltanto dettato da volontà di scandalo e dalla solita isteria che prende una generazione quando quella che la segue spunta all’orizzonte. Sono film, per così dire, a due colonne sonore: quella degli adulti e quella dei giovani. Ognuno parla – e anche molto, a volte – all’interno del suo clan; i contatti invece sono del tutto impossibili e si limitano a discorsi sul tempo, sul profitto scolastico e sugli orari di ritorno a casa. Il guaio è che a casa non si ritorna, come sapeva bene Thomas Wolfe, una volta che te ne sei andato. Sì, bisogna essere dei Tom Sawyer, ma la tendenza degli eroi anni Cinquanta è quella di Huck Finn: la civiltà gli piace poco. In una società dove chiunque abbia voglia di lavorare si ritrova appiccato a un gancio da scaricatore in un magazzino del porto, come nel film di Kazan con Brando e dove – colpa paradossalmente molto peggiore – degli innocenti piccioni vengono uccisi perché il loro padrone ha fatto la spia, come si fa a riprendere il posto che ci era stato destinato? La domanda è però ambigua: in realtà è proprio il ritorno a identificarsi con la lotta. In altre parole Hollywood esorcizza la grande idea twainiana affermando per immagini che la rivolta è proprio cattiva perché viene fatta con gente che è cattiva, mentre la fiducia nella forza del potere costituito è la scelta giusta. Rimane da discutere se l’atto di coraggio di Brando che sfida il potente sindacato e si avvia al lavoro nonostante il divieto di quello significhi un’identificazione col potere costituito o semplicemente una scrollata di spalle verso supposti buoni e supposti cattivi. Il film ovviamente sembra sostenere la tesi tranquillizzante (del resto, poteva essere altrimenti all’inizio del decennio?), ma non è detto che la lettura non possa essere diversa. Quel che conta è che questi eroi sono finalmente arrivati sugli schermi americani interpretando un malessere che il pubblico ha finito per fraintendere. Hollywood rispose alla crisi anche con loro ma sempre stando bene attenta a garantirsi ogni sicurezza, ogni conforto, ogni credibilità. Eroi del dissenso, va bene, ma solo perché attraverso un iter spirituale complesso e drammatico comprendessero che una casa esisteva pur sempre e che era proprio lì nel punto dal quale erano partiti. Nel caso di Dean, poi, il mito si moltiplicò al quadrato e se la morte non fosse la morte quasi verrebbe da dire che si trattò di una perfetta trovata pubblicitaria. L’incidente di corsa di cui fu vittima non gli permise di continuare la sua promettente carriera, ma neanche di crollare come successe a Rita Hayworth, Jean Harlow e alla stessa Monroe. Esauritasi la vocazione generazionale, Brando rimase invece divo per la sua personalissima maschera: non incarnò più niente se non se stesso. Ma era un personaggio, e a Hollywood poteva vivere di rendita. I Cinquanta, ormai lo si è capito bene, furono in ogni senso anni di un moralismo rigoroso. La cosa non riguardava tanto i costumi: come dicevamo, risalgono ai primi anni della decade i forti attacchi al codice Hays, il quale di lì a poco capitolò definitivamente davanti a film come L’uomo dal vestito grigio (1956) di Nunnally Johnson e Baby Doll (1956) di Elia Kazan, fino ad arrivare al trattamento di temi audaci come l’omosessualità in Frenesia del delitto (1959) di Richard Fleischer e l’aborto in Blue Denim (1959) di Philip Dunne. Con il 1965 si avrà il primo seno nudo dai tempi del codice in L’uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet. In ogni caso il moralismo di cui parliamo è un altro. E più propriamente è ancora una volta quello che si esprimeva nei modi di trattazione di temi di difficile approccio. Baby Doll, ad esempio, che richiamò l’anatema del famigerato cardinale Spellman, è a starci attenti un film castissimo: a parte un po’ di pelle dell’allora giovane Carroll Baker, che si presentava al povero Eli Wallach in pose e atteggiamenti ingenuamente sensuali, anticipando molto maldestramente la Lolita di Kubrick (1962), il film non mostrava proprio nulla. Bene, a riprova della forza del mito ecco una notizia che forse qualcuno non conosce: sino al 1980 il suo titolo non figurava tra quelli dei dodicimila film trasmessi dalle centinaia di reti televisive dell’intera Unione. Ulteriore dimostrazione di tradizionalismo e conservazione fu in quegli anni il fatto che le nuove generazioni trovarono – sia pure con tutti i distinguo che dicevamo – i propri campioni in giovani attori come Brando e Dean, mentre dal supposto “rinnovamento” furono meno privilegiate le donne. In realtà la loro esclusione avvenne, appunto, al livello in cui si attuò la rivolta maschile. In Gioventù bruciata Natalie Wood è altrettanto scontenta di Dean e Sal Mineo per come vanno le cose in casa sua, e all’inizio sembra far parte di una banda femminile a seguito di quella dei ragazzi. Ma subito ci accorgiamo che in realtà è lei la mamma del gruppo dei reietti e che dopo tutto la sua rivolta si esplicita nell’avallare le gesta dei maschi. Dal punto di vista femminista è certo più rappresentativa di lei la protagonista titolare di Femmina ribelle (1956) di Raoul Walsh: autonoma, dura, capace di lavorare sodo e anche di arricchire, salvo poi cadere fra le braccia del solito maschio da happy end, come Hollywood vuole da sempre. Ma Jane Russell, per quanto giovane, non era Natalie Wood (17 anni di differenza) e per quanto rappresentativa della donna, non poteva proprio esserlo dell’adolescente di allora. In Gli uomini preferiscono le bionde (1953) di Hawks non c’era d’altra parte posto per la Wood (che oltretutto aveva ormai legato il suo personaggio a quello della brunetta): ce ne voleva un’altra, meno
nervosa, sofferta, pensosa: ci voleva un personaggio che non fosse così nuovo, giovane, moderno e che tuttavia lo fosse assolutamente. Ci voleva Marilyn Monroe. Il mito della Monroe è probabilmente la costruzione più falsa che sia mai uscita da Hollywood. Incapace di recitare, ancor peggiore come cantante, Marilyn era una versione oltreatlantico – cioè di glamour, in strass e trucco professionale, sotto luci di fotografi smaglianti e con décolleté da capogiro – di una qualunque attricetta italiana un po’ scollacciata anni Cinquanta. Solo che invece della miseria atavica (materiale ma anche culturale) del nostro Paese, invece del sottosviluppo e delle canzoni a voce piena e a pancia vuota sullo sfondo del Vesuvio, aveva dietro di sé il Paese più ricco del mondo, quello che aveva vinto la guerra, battuto la Depressione, costruito l’atomica, inventato la Coca Cola, e che infine poteva vantare i registi più professionali, spiritosi e capaci. Per di più ebbe degli agenti pubblicitari di rara bravura: sfruttarono il suo passato, il suo presente e (per quanto fu possibile) il suo futuro, riuscirono a separare commoventemente il suo carattere dal suo personaggio (che invece si identificavano bene), cioè a far piangere il pubblico sull’inevitabilità, che la poveretta viveva ogni giorno, di essere identificata con la solita oca bionda quando nel suo cuore palpitavano affetti rari e profondi. Alla sfrenata ricerca d’amore (e chi non lo è?), si era unita a un giocatore di baseball e a un intellettuale e ci mise persino un presidente. Le fecero chiudere bottega prima, perché (i suoi agenti che erano stati così persuasivi con gli spettatori evidentemente non lo erano stati con lei) non si deve confondere il pubblico col privato. Marilyn fu suicidata. Le circostanze della sua morte – e del resto anche quelle della sua vita – non ci interessano qui molto. Quel che si è detto, lo si è detto per far comprendere che il più grande mito femminile degli anni Cinquanta si allineava perfettamente a quelli dei decenni precedenti: una figura di donna cui non sono richiesti intelligenza, spirito, dinamismo, qualità “maschili” in genere, ma al contrario una vera e propria identificazione di pubblico e privato all’insegna della stupidaggine e, a esser buoni, dell’ingenuità. La trovata fu di avere aggiunto a questo trito modello la sofferenza che la poveretta avrebbe provato durante la sua non lunga vita, come se Marilyn fosse stata un Olivier destinato per ragioni più forti di lei a fare il pagliaccio in un circo tutta la vita. Il fatto è che Marilyn il pagliaccio era l’unica cosa che sapeva fare, e il suo mito nacque grazie anche al fatto che fare il pagliaccio era tutto quel che il pubblico le chiedeva. Di lì si poteva anche credere che, sì, all’occorrenza avrebbe fatto molto meglio e che era un vero peccato non sfruttarla in termini più nobili e seri. La fortuna di Marilyn è che a nessuno venne in mente di farglielo fare tranne una volta (e fu cronologicamente l’ultima occasione): Gli spostati (1961) di John Huston non lo si guarda come un film “serio” ma come un addio di alcuni celebri miti di Hollywood. Fu come una triste serata di gala: un’eventuale valutazione della bravura degli attori non c’entrava nulla.
5. La grande commedia e la sua crisi I nomi testé fatti sono solo indicativi di un tipo di risposta “vincente” che Hollywood dette alla crisi, nel senso che il pubblico reagì ancora e con entusiasmo a quei nuovi volti, accettando volentieri di farne i miti che già in fase progettuale essi intendevano essere ed erano. Non era però soltanto una questione di divismo. Gli anni Cinquanta sembravano non permettere la proposta di filoni, direzioni, orientamenti radicalmente nuovi; il terreno di movimento era delicato, un errore avrebbe compromesso non un singolo film ma un intero quadro produttivo. In questo senso, almeno in parte, va vista una vera e propria mutazione del cinema comico. Come sempre, esso si distinse in commedia leggera e film comico in senso stretto. In altri anni questa distinzione si sarebbe potuta esemplificare, poniamo, con Lubitsch da una parte e Laurel & Hardy dall’altra. Bene, le cose continuano secondo questa distinzione, ma il tipo di film che sia su un versante che sull’altro Hollywood propone è profondamente diverso. Gordon Gow9 riporta a motivazione della crisi della commedia (perché di crisi si tratta) l’opinione di chi afferma che il periodo era troppo serio e politicamente preoccupante perché la leggerezza potesse avere ancora spazio. Forse è un po’ semplicistico, ma è anche vero. Nemmeno la Depressione aveva inciso tanto sul morale del Paese: allora un terribile nemico aveva abbattuto a terra la nazione, ma almeno si sapeva che volto aveva. Ora, invece, chiunque, come dicevamo, poteva essere il tuo boia; il sospetto, la sfiducia, la paura governavano l’America come mai era avvenuto in precedenza. Eppure la spiegazione non ci convince appieno. In effetti, proprio con i Cinquanta incomincia a Hollywood un’operazione che sarebbe continuata – in modi vieppiù differenti – fin dentro i Settanta, un fenomeno che in Italia passa sotto l’etichetta “dissoluzione dei generi”. Il ferreo rigore con cui i vari generi obbedivano alle leggi dettate a Hollywood dalla produzione cominciò in quegli anni a indebolirsi. Naturalmente la produzione era ancora padrona e signora dei destini dell’opera, ma la vocazione di quest’ultima non appariva più tradizionalmente legata ai valori che ormai da decenni l’avevano caratterizzata: essa o si ammorbidì in una direzione casalinga e tranquillizzante non soltanto nell’immancabile momento dell’happy ending ma negli stessi ambienti, nei tipi di personaggi, nella casistica degli eventi, nei valori continuamente affermati sullo schermo dalla
prima all’ultima inquadratura, oppure subì (e mostrò) un’involuzione sostituendo alla vecchia ideologia un atteggiamento fondamentalmente nostalgico, un senso di fine (o di approssimarsi della fine) che poteva essere letto non solo in chiave di genere ma più largamente dell’intero mondo che Hollywood aveva sino ad allora incarnato e rappresentato. Del primo caso quella che abbiamo chiamato commedia leggera è buon esempio. La grande commedia degli anni Quaranta era stata quella di Preston Sturges e del primo Billy Wilder, e magari quella di Mitchell Leisen e dell’ultimo Lubitsch. Ora invece alle perfidie della donna e alle taglienti satire mitteleuropee si preferisce una visione familiare di piccole manie paterne, di conti da pagare, di figlie saltellanti in attesa della visita ufficiale del fidanzato, di battibecchi esageratamente ammiccanti fra marito e moglie, di cui Il padre della sposa (1950) di Vincente Minnelli resta esempio luminoso, insieme ai meno indovinati Papà diventa nonno (1951), 12 metri d’amore (1953), Come sposare una figlia (1958). Per trovare le vere gemme della commedia anni Cinquanta bisogna andare a pescare in acque non controllate, con un’azione di bracconaggio non diversa da quella dei loro autori. E a Hollywood per tutto il tempo l’unico vero bracconiere è stato Billy Wilder: Sabrina (1953), Quando la moglie è in vacanza, Arianna (1957), A qualcuno piace caldo (1959) sono probabilmente le uniche, vere, grandi commedie della decade. Il cinefilo, l’amatore, lo spettatore fedele arriccerà il naso e chiederà: ma come? e Il magnifico scherzo (1952) di Hawks? e le deliziose cosucce della coppia Tracy-Hepburn in Lui e lei (1952) di George Cukor o (ma meno deliziose) La segretaria quasi privata (1957) di Walter Lang? Francamente non è quella la commedia di cui stavamo parlando. Essa ci sembra nondimeno interessante (e a volte anche divertente), non foss’altro che per la parte che la donna vi assume, una specie di ripresa del suo ruolo nelle screwball anni Trenta, ma questa volta con una forza maggiore, con una coscienza della “parità” che liquida quella della “superiorità” mascherata che era stato un marchio di fabbrica, ad esempio, nelle più alte cose di Hawks. Ma l’audacia iconoclasta di Wilder, il suo perfettamente contenuto livore, la sua tristezza di uomo giusto che non perdona al mondo di essergli diventato odioso dopo un intuibile amore finito male, questo si respira solo nei suoi film. Wilder è il regista più profondamente moralista che Hollywood abbia mai avuto, e Hollywood l’ha sempre trattato con timore, certo, ma anche come fosse un autore immorale. Ogni volta gli ha imposto i suoi finali ideologici e ogni volta Wilder ha risposto facendosene beffe (cioè intensificandone a tal punto i valori da farli apparire stonati e non credibili rispetto al resto della pellicola). Combattente non “nato”, ma di sicuro allenato a esserlo, Wilder attacca tutto: il concetto di classe, l’ipocrita filosofia benpensante, l’arroganza del denaro, le frustrazioni sessuali dell’americano medio. Non gli sfugge niente, ogni battuta è una staffilata, ogni inquadratura un ghigno di cattiveria. Ma, ripetiamo, è una cattiveria indotta: Wilder, lo si sente nei più piccoli particolari – dalla direzione degli attori al dialogo alle trovate di sceneggiatura – è il più triste di tutti. Come un bambino innamorato del mondo, si è ritrovato cinico dopo che evidentemente il mondo l’ha trattato come Bogart (ma anche Holden) tratta Sabrina o come Cooper tratta Arianna. Nessuno chiede scusa, nessuno ripara con un “beau marriage” al disprezzo mostrato verso un essere umano candido e disponibile: solo nel finale dei film hollywoodiani questo è possibile. E Wilder, che non può rifiutare, lo accetta, ma a modo suo. Perché lui sa meglio di chiunque altro che è tutto falso e che di conseguenza il senso del falso deve trionfare. La commedia (per non dire dei drammi) di Wilder è la miglior testimonianza della miseria degli anni Cinquanta. Gli ambienti sono splendidi, e se non lo sono – come in Quando la moglie è in vacanza – ci se li immagina tali, ma non c’è via d’uscita, sono trappole alle quali noi non apparteniamo e dalle quali verremo prima o poi cacciati vergognosamente. Se questo non succede bisogna ringraziare Hollywood, ma con la coscienza di chi si risveglia da un bellissimo sogno, non con quella di chi continua a sognare. E la realtà è quella orribile che terrorizzava Kevin McCarthy nel film di Don Siegel. Davanti all’opera di questo autentico maestro qualunque altra pellicola passa in secondo piano, persino quelle di innegabile prima grandezza. Prendiamo un altro ammirevole autore, George Cukor. Gli si devono tre film con Judy Holliday che purtroppo, dopo il primo clamore, la critica ha un po’ trascurato. Sono gioielli che non ci si stancherebbe mai di rivedere, e sul versante sociologico segnano ulteriormente una riscossa femminile, o per meglio dire, suggeriscono bene che la donna continua a guadagnare attenzione e posto nella società americana al di là da quello che era stato il suo pur fondamentale ruolo nel passato. Ma il vero interesse di Nata ieri (1950) e La ragazza del secolo (1954) è piuttosto nella combinazione fra il personaggio straordinario di Judy Holliday e la scenografia. La Holliday, grande comedienne, rappresenta un personaggio ingenuo, la classica oca che nel cinema del passato funzionava da ninnolo al polso del gangster o del miliardario. Qui ella ha lo stesso ruolo, ma intanto – pur essendo di gradevole aspetto – non è la tradizionale biondona mozzafiato, bensì una ragazza dall’apparenza a tratti persino vistosa, ma comunque più credibile. Poi, la sua immagine è
continuamente coniugata con le linee enormi o lussuose di una metropoli nella quale ella è sempre fuori posto. Intendiamoci: la ragazza non si comporta come se non si trovasse a suo agio negli ambienti, quali che siano, in cui la vediamo. È oggettivamente la sua presenza a non essere in completa armonia con il resto. Il modo di camminare, di muovere la testa mentre osserva qualcosa, di spalancare gli occhi verso un mondo che le viene per la prima volta mostrato da un uomo giovane, bello, colto (William Holden) in Nata ieri, o che si ritrova paradossalmente stella della pubblicità in un mondo molto più veloce di lei, ma che non gode del suo buon senso, in La ragazza del secolo. La Holliday si presenta sempre come un polo ricettivo, tutto viene assorbito da lei: il punto è che viene sempre assorbito in modo da diventare attivo. Da cuscinetto senza interessi di un discutibile e volgare politicante diventerà donna sofisticata (ma non troppo: Hollywood è sempre all’erta), e – come scrive Comuzio su La ragazza del secolo, da «perfetta fruitrice di messaggi pubblicitari (la definiranno poi, anche per questo, la “ragazza americana media”) produce essa stessa pubblicità (come dice McLuhan, “nell’immagine collettiva creata dalla pubblicità è compreso anche il consumatore con funzioni di produttore”)»10. Insistiamo sulla Holliday perché l’attrice è stata probabilmente la maggior espressione di una critica femminile sugli schermi negli anni Cinquanta. Epoca ancora non matura per le rivolte degli anni Settanta, il riso soltanto poteva essere l’arma lasciata in mano a chi la volesse e sapesse usare. Come si diceva, il rapporto che oggettivamente la Holliday ha con lo spazio è sempre di scarto, di disagio: la donna è fuori posto. La sua ingenuità non solo di pensiero e di parola, ma anche di intenzioni e di movimento la rendono un pur grazioso pesce fuor d’acqua. Ci fa sorridere, a volte francamente ridere (la partita a “calabrache” con Broderick Crawford in Nata ieri è irresistibile), ma non ci fa pensare. In compenso, è lei che pensa: lo dimostrerà al politicante e anche ai pescecani della pubblicità. Ma è un fatto, ambedue le pellicole la vedranno cadere nelle braccia di qualcuno che intuibilmente non le lascerà molto più spazio dei primi. La società dei Cinquanta è ancora molto maschile, e non sarebbe certo stata Hollywood a contraddirla. Meno che mai nel secondo film cukoriano di Judy, Vivere insieme (1952), dove nel mirino non è tanto una società maschilista, ma il matrimonio. Tuttavia, il denominatore della donna come polo passivo, estraneo, “debole” è sempre presente. «Voglio pensare mezz’ora al giorno», conclude la protagonista, che comprende di non essersi ben esercitata in quell’arte fondamentalmente maschile. Vivere insieme divide con gli altri due film un realismo urbano che nelle commedie di coppia del passato non emergeva affatto. E del resto, non si tratta veramente di una commedia, ma di un film che alterna momenti di sorriso ad altri decisamente molto drammatici. In ogni caso era la prima volta che il cinema americano mostrava un personaggio come lei. Nata dalla tradizione che faceva capo a ZaSu Pitts (dal sonoro in avanti) e Martha Raye – vale a dire dalla versione femminile della slapstick – la Holliday ebbe l’intelligenza di attribuire a Pinocchio un’umanità che il burattino non aveva mai avuto. Non è facile credere che qualcuno – oltretutto affascinante come Holden – possa innamorarsi di lei e corteggiarla, ma soltanto perché sugli schermi hollywoodiani ci si innamora di (e si corteggiano) donne inesistenti, bellezze da copertina create nella stanza del trucco e sul set. Judy, in verità, è stata una delle prime donne “reali” del cinema americano ad onta della sua sin eccessiva ingenuità e di un character comico sicuramente individuabile. Le sue stesse gambe troppo grosse dicevano quanto era vero il suo personaggio, quanto poco esso obbediva ai cliché hollywoodiani e quanto quel cinema stava, anche attraverso di lei, diventando sempre più compromesso con la realtà. Non si trattava di un mutamento verso un sempre maggiore realismo (anche se in certo senso questo avvenne), ma piuttosto di un condizionamento che la realtà imponeva alla falsità programmatica del cinema hollywoodianamente inteso, secondo un processo che sarebbe giunto sino all’esplosione iperrealista degli anni Settanta. Ma la storia è lunga e la Holliday, morta a quarantadue anni, non le sopravvisse. A questa storia non appartengono certo commedie come Follie dell’anno (1954) di Walter Lang o le prime commedie di Douglas Sirk, da Vedovo cerca moglie (1951) a Non c’è posto per lo sposo (1952), pellicole nella più classica vena hollywoodiana oggi datatissime – ancorché piacevoli – che contribuirono a stabilire un’immagine del film leggero hollywoodiano anni Cinquanta in termini di “prodotto medio”: sono sempre cosucce d’ambiente familiare, piccoli conflitti fra generazioni, crucci fra parenti, fotografie di un’America per bene, rappresentativa nella sua anonimità, e facilmente identificabile, se si osserva il negativo, con quella stessa della quale i film con Dean e Brando erano la versione drammatica, con quella che annuì corrucciata e timorosa ai blateramenti di Joseph McCarthy, che gli diede tacitamente ma anche istericamente man forte, che aveva bisogno di capri espiatori per sentirsi pulita senza peraltro essere più sporca del solito. Qui di critica non se ne vede, ma soltanto un continuo compiacere quella medietà che aveva cominciato a fare capolino in certi film provinciali degli anni Quaranta (musical in testa) e che avrebbe avuto il suo spazio sicuro e onorato per lo meno sin verso la seconda metà del decennio seguente, quando pellicole bruttine come I peccatori di Peyton (1957) di Mark Robson le toglieranno la maschera, ma, come sempre, finendo per imporgliene un’altra.
6. Entrano i clown: dalla commedia ai comici Se si tolgono un paio di grandi autori e qualche regista medio (Frank Tashlin, ad esempio), la commedia degli anni Cinquanta non vale molto, e comunque ben meno di quella anni Trenta. Molto più importante è quel che avvenne in questo periodo nel cinema comico. In realtà tutto cominciò già nei Quaranta, anni d’esordio di personalità come Kaye, Hope in un primo tempo e, non molto dopo, Jerry Lewis e Jack Lemmon (naturalmente vi furono altri comici come Abbott & Costello, ma di originalità sicuramente inferiore). L’avvento del sonoro aveva portato un soffio di vitalità nella commedia. Le gag visuali alle quali necessariamente il muto doveva affidarsi potevano essere rimpiazzate non solo da battute brillanti ma anche da una più complessa organizzazione della trama, come capirono bene i maestri della screwball. Ma la screwball era un tipo di commedia pericoloso: nelle mani di un Capra, ad esempio, diventava critica politica (poco importa di quale spessore). Ora, come scrive Durgnat11, il maccartismo tagliò le gambe alla commedia sociopolitica, che aveva avuto in Preston Sturges un degno continuatore nei Quaranta. E d’altra parte non era facile impiantare una screwball asettica come i gioielli usciti dalle mani di Hawks (lo stesso Hawks, pur brillantissimo, aveva mostrato esiti inferiori nel suo Il magnifico scherzo rispetto a cose precedenti). In effetti la via alla singola personalità comica era più facile. Essa garantiva una maggiore possibilità di controllo e anche un rapporto col pubblico molto meno impegnativo. Finito il dramma (o meglio, la rappresentazione del dramma) con i Quaranta, entrano in scena i pagliacci. Alcuni di loro sono straordinari: la velocità dell’ingegno e della battuta in Hope, le acrobazie grammelot di Kaye, l’infantilismo scimmiesco del primo Lewis erano irresistibili. Ognuno di loro aveva naturalmente forti agganci col proprio tempo. Hope era una versione inoffensiva di Groucho. Il mondo non ne veniva minimamente scalfito (anzi è lui ad aver paura di esserlo), ma l’agilità verbale era della stessa stoffa. Hope, a differenza dall’altro, era più platealmente codardo, era il volto di quel che l’America non voleva essere e fingeva di non essere, ma al tempo stesso sapeva affrontare il pericolo e la morte per salvare il proprio onore o quello di altri innocenti. Hope impersonava l’eterno disgraziato travolto da cose più grandi di lui, un vero e proprio shlemiel (lui, che era uno dei pochissimi comici americani di origine non ebraica), che calcava il pedale della propria inadeguatezza ai ruoli che si trovava obbligato a impersonare. Soltanto negli anni Ottanta, con Chevy Chase, lo schermo hollywoodiano darà un codardo della sua statura. Non è casuale che egli fosse amatissimo presso il pubblico militare (famosi sono i suoi tour durante la guerra in visita alle truppe di stanza in zone di fuoco): Hope era l’altra faccia di esso, quello che in cuor suo il soldato americano temeva di essere. Ma era anche qualcos’altro. Come tutti i comici d’ingegno, Hope brillava per intelligenza e non per intraprendenza, e la sua maschera comica parlava di quanto diverso è l’intelletto dal corpo, di quanto chi sa pensare (e far ridere è una delle più alte conseguenze del pensiero) sappia difficilmente affrontare i disagi materiali. È paradossale, ma non è escluso che Hope in quei primi anni Quaranta, e dopo, pensasse anche per gli altri. Un’America che seguiva ciecamente i propri miti (e alcuni anche pericolosi e falsi) aveva il proprio rappresentante in un uomo il cui volto sembrava di gomma. Una battuta e una canzone (nei molti film da lui girati con Bing Crosby): non era una vera e propria filosofìa? Dorothy Lamour in sarong o in qualche altro costume esotico se ne stava là a farsi corteggiare, non c’era altra visione del mondo, e gli stessi luoghi nello spazio e nel tempo erano falsi come i personaggi del trio. Ma Hope poteva reggere un film da solo, e dunque la presenza degli altri aumentava l’odore di fasullo di quei set Paramount. Danny Kaye invece era più “vero”. La sua caratteristica, anzi, era regolarmente quella di capitare su un set e smascherarne la funzione, come, fra i molti esempi, in L’uomo meraviglia (1945) di Bruce Humberstone. I suoi ambienti sono spesso contemporanei e nazionali e per cambiarli deve fare come il protagonista titolare di Sogni proibiti (1947) di Norman Z. McLeod: sognarseli. Kaye è un bravo ragazzo, lui non è come Hope, infingardo e così piccolo da saperlo e da confessare di esserlo. Kaye crede in molte cose, è solo la vita che gli fa paura quando gli mostra il suo volto violento, cattivo, minaccioso. Anche lui, dunque, è il referente di qualcosa: la disponibilità e la bontà, non sostenute però da un carattere forte, da un allenamento dello spirito. I suoi film finiscono bene, ma solo perché sono comici e non potrebbero andare diversamente, e perché il nemico, al momento opportuno, è sempre incredibilmente impacciato. Un piatto forte di Kaye è il travestimento, il costume: che sia, appunto, sul palcoscenico, dove è finito per sfuggire a chi lo vuole morto, oppure indietro nel tempo come nei divertentissimi L’ispettore generale (1949) di Henry Koster e Il giullare del re (1954) di Norman Panama e Melvin Frank, Kaye si traveste continuamente. Anzi, si traveste anche nei film in cui è già travestito (da villano medievale a Robin Hood in quest’ultimo), e – delizia delle delizie – gioca magistralmente a passare dall’uno all’altro ruolo di secondo in secondo (il duello con Basil Rathbone).
Le sue filastrocche senza senso, le sue canzoni dolci e a volte anche troppo schmaltz (che si devono alla moglie, Sylvia Fine) erano l’ideale per divertire il bambino che era ormai diventato l’americano fra i Quaranta e i Cinquanta: impaurito, solo, diffidente, provato, la voce calda di Kaye lo conduceva nel mondo della fiaba, come in Il favoloso Andersen (1952) di Charles Vidor e, a differenza da Hoffman, non lo turbava con un’immagine di morte che è sempre dietro alla presenza del tema del doppio (una costante degli anni Quaranta: si pensi al film noir), ma con figure piacevoli, con un’esorcizzazione di quello stesso terrore, che però si riesce sempre a cogliere dietro le sue interpretazioni perfette e intelligenti, come nelle parti dell’entertainer e dell’ufficiale in Divertiamoci stanotte (1951) di Walter Lang. La maschera con lui non raramente si triplica e in Un generale e mezzo (1961) di Melville Shavelson lo vediamo in un altro ruolo di doppio (questa volta di un generale inglese), ma capace di imbastire un’imitazione della Dietrich. Danny Kaye segna il trionfale slabbramento di ogni termine di riferimento del cinema comico. Già Hope ci si era messo d’impegno in questa direzione, e non poche volte egli si indirizza verso l’obiettivo commentando con lo spettatore quel che gli accade, o comunque alle prese con componenti metacinematografiche. Kaye è un vortice così veloce da farci perdere i riferimenti. Lo schermo comico è là, ma quel che vi vediamo non instaura con noi il solito rapporto bassomimetico. Questi eroi sono stretti cugini di quelli del comico muto, dei Chaplin e meglio ancora dei Keaton, dei Langdon, dei Lloyd, ma hanno dietro di sé uno scenario che si divertono a evidenziare nella sua falsità. Niente nei loro film è creato per essere creduto, ma al contrario per eliminare la certezza, o meglio, la convenzione. Questi comici, si noti, sono molto più avanti del primo Lewis, che nelle sue pur divertenti interpretazioni, da La mia amica Irma (1949) di George Marshall a Il sergente di legno (1950) di Hal Walker, da Quel fenomeno di mio figlio (1951) di Hal Walker a Attente ai marinai! (1952) ancora di Walker, su su fino a Il caporale Sam (1952) di Norman Taurog, Morti di paura (1952) di George Marshall, Occhio alla palla (1953) di Taurog, riesce solo a mettere in crisi il mondo in cui si trova, non a eliminarlo. Il mondo continuerà comunque (e in questo senso i film con Lewis sono i più “realistici”), ma sarà sempre una messa in scena, laddove fino a qualche anno prima, a starci attenti, ecco che le quinte si trasformavano in qualcos’altro o addirittura cadevano a pezzi sotto gli involontari, ingenui colpi del disadattato di turno. Si può addirittura cogliere una sorta di iter della regressione infantile: dall’adulto ma codardo Hope al giovanile, indifeso Kaye sino al puerile Lewis: si tratta di una vera e propria temperatura del clima psicologico americano. Fra l’inizio e la fine dei Quaranta l’America torna indietro nel tempo, si chiude in un’involuzione psicologica che maccartismo, guerra fredda e Corea avevano decisamente contribuito a innescare. Peraltro, Hope veniva dal vaudeville, aveva dietro di sé un enorme tradizione teatrale, mentre gli altri due si erano fatti le ossa come stand up comedians. Hope aveva alle sue spalle un teatro, Kaye anche (sia pure in minor grado), e Lewis invece non aveva niente tranne, appunto, le routines con Dean Martin in qualche club. La comicità dei Cinquanta dunque è sicuramente più facile, o almeno non altrettanto elaborata, di quella che l’ha preceduta. Lewis, non per nulla, fu all’inizio un intrattenimento da ragazzini, non diversamente da una coppia molto inferiore a lui e Martin come Abbott & Costello. Piccoli tic, piccoli versi, piccole (stupide) battute: i comici degli anni Cinquanta sono tutti qua, giocano sul complesso parentale del pubblico, fanno sentire gli spettatori o genitori (Lewis) o bambini (vedi la serie di Francis il mulo parlante: a rigore, pellicole non comparabili con quelle dei veri e propri comici, ma piene della stessa ingenuità e della stessa minuscola malizia). Non è strano che l’ultimo film di Laurel & Hardy, Atollo K di Leo Joannon sia del 1950 e che per di più sia francese. Il surrealismo connaturato nei due grandi comici sulla cresta dell’onda dai tempi del muto non aveva nulla a che vedere con quello ammiccante di Hope né con le fantasie di Kaye né con quelle assolutamente gratuite di Jerry Lewis. Laurel & Hardy avavano iniettato il surreale nei loro personaggi, gli altri soltanto nei loro soggetti, nelle loro trovate. La realtà si stava avvicinando sempre di più, lo dicevamo. I nuovi comici la rielaborano, ma ormai i rapporti sono cambiati: l’ombra greve della politica e dell’insicurezza quotidiana incombe su una nazione che ride non perché ha imparato a prendersi beffe della realtà, ma perché quella realtà la vuole dimenticare, o vedere alle prese con chi – come Jerry Lewis – anche solo per un attimo, a differenza da lei, riesce a metterla in difficoltà.
7. Fine del musical, fine del cinema Mai come nei Cinquanta, di conseguenza, il musical assunse una funzione di intrattenimento e di fuga dalla realtà. E ancora una volta fu una cosa paradossale perché proprio allora quel genere, soprattutto grazie alla mano di Minnelli e Donen, si riscattò dalla qualità di entertainment per diventare struttura significante a tutti gli effetti, per diventare qualcosa che trascendeva il semplice piacere di qualche effervescente numero, di qualche difficile passo di danza, di qualche momento smagliante di canto o scenografia.
Schematizzando, potremmo dire che negli anni Trenta la dominante del musical americano era stata l’eleganza degli ambienti, dello stile di canto e di danza, dei costumi, mentre nei Quaranta lo pseudorealismo da un lato e la vitalità coreografica dall’altro. Nei Cinquanta il musical diverrà opera. Vale a dire che per la prima volta nella sua storia esso non sarà inteso come puro veicolo di spettacolo ma come sistema autonomo, struttura cinematografica che affida la sua impronta autoriale non alle componenti esteriori della sua costruzione (di certo un film di Berkeley è riconoscibilissimo come tale), ma a un rapporto stretto e problematico fra livello narrativo e livello caratterizzante (canto, danza). In altre parole, quasi tutto il musical precedente si costruiva su un terreno diegetico che, in teoria, non ammetteva come necessari canto e danza. Con questo non intendiamo dire che il musical anni Cinquanta non sarebbe pensabile senza tali elementi costitutivi caratterizzanti, ma che essi non sono semplice occasione di piacevole spettacolo bensì diventano componente inalienabile per la costruzione e la comprensione dell’opera nel suo insieme12. Certo, anche un ballo fra Astaire e la Rogers risolveva spesso le cose13 ma quando Astaire e la Charisse cominciano a ballare nel Central Park in Spettacolo di varietà noi vediamo che il problema posto da Minnelli è più ampio che non quello riferentesi alla possibilità di reciproca comprensione tra due individui (tema, peraltro, centrale del film). In Spettacolo di varietà si tratta infatti di due mondi e non solo di due temperamenti. Minnelli si sforza di elaborare una personale visione dello spettacolo che superi ogni possibile differenziazione. Si capisce bene che tale istanza si fonda su un terreno del tutto metalinguistico: il musical comincia a riflettere su se stesso (come del resto altri generi contemporanei). Ecco dunque come il modello “the show must go on”, pur ripresentandosi senza apparente soluzione di continuità rispetto al passato, diventa momento costitutivo del film al di là dalla sua funzione di esca narrativa. In Quarantaduesima strada lo spettacolo doveva effettivamente continuare, in Spettacolo di varietà il fatto che esso continui è la condizione perché Minnelli possa comunicarci il suo stesso concetto di spettacolo. Ovviamente non tutti i musical degli anni Cinquanta si fondano su questo modello. Ma è certo che una venatura metalinguistica li pervade tutti in qualche modo. E non pensiamo solo a Cantando sotto la pioggia, nel quale il gioco si allarga a dismisura includendo anche il cinema, e a pellicole della stessa portata, ma a opere meno fondamentali eppure ugualmente indicative come ad esempio Tre ragazze di Broadway (1953) di Stanley Donen, nel quale la danza – pur rimanendo ottimo esempio di spettacolo – diviene anche discriminante di carattere, segno di stili e personalità diversi. Laddove insomma negli anni Trenta la danza si proponeva come il terreno su cui incontrarsi e unificare differenziazioni personali, negli anni Cinquanta essa assolverà la funzione opposta, divenendo primariamente segnale di differenza. Si pensi alla sottile dialettica che struttura il contatto in termini di danza fra i due cacciatori americani e i nativi in Brigadoon (1954) di Minnelli, quando i protagonisti “dialogano” con gli scozzesi nella piazza del paese: intesa, certo, ma non eliminazione della diversità. Lì la danza si propone come un confronto etnologico, una misurazione di tradizioni culturali diverse (ciò che è uno dei massimi problemi alla base delle peripezie sentimentali di Gene Kelly nel film). Si pensi all’uso della danza da parte di un regista come Stanley Donen, sulla sua funzione significante che va ben oltre il ristretto universo dello specifico “numero”14. Ora, la qualità metalinguistica dei musical in questione si rintraccia anche in questo tipo di funzione riservata al ballo. Mentre gli anni Trenta avevano quasi regolarmente proposto nel musical un mondo astratto, che all’occasione sublimava i problemi personali in canto e danza (Astaire/Rogers) o che istituiva lo spettacolo (cioè l’organizzazione dello show) come realtà superiore in antitesi o in risposta ai problemi della realtà (Berkeley), smascherandosi a volte come sogno in senso immediato (ancora Il museo degli scandali), il falso realismo ambientale degli anni Quaranta contribuì a riqualificare l’onirismo che è a fondamento del musical. Gli anni Quaranta però rimasero, per così dire, a metà del lavoro: immisero cioè referenti di carattere convenzionalmente realistico, ma lasciarono canto e danza esterni a una profonda adesione al testo filmico. Essi, tutt’al più, potevano esprimere stati d’animo già presenti e comunicati, fornendo così una piacevole tautologia. Da questo punto di vista, l’importanza del musical anni Cinquanta sta invece nel fatto che in genere la regia elimina dal versante della verosimiglianza gli elementi espressivi che essa può risolvere e comunicare con canto e/o danza. In questo modo non vi sono zone del testo che si sovrappongono e l’azione emerge strutturalmente e organicamente costituita da verosimile e da sogno. L’evoluzione del musical, nel quarto di secolo che ha visto i suoi splendori, ha dunque un suo aspetto di continuità che è rinvenibile anche se adottiamo un’ottica fondata sull’opposizione tra verosimile e spettacolo (sogno, se si vuole). In pratica, il genere evidenzia un movimento che tende a privilegiare lo spettacolo nei confronti della “realtà”. Ma non tanto perché è lo spettacolo a essere più scenograficamente curato e centrale all’interno del film, quanto perché esso sembra vieppiù esercitare una sorta di pressione per invadere lo spazio dell’altra con l’intento di ordinarla15. Con l’eccezione dei film della coppia Astaire/Rogers (ma anche qui a volte è rintracciabile una giustificazione: ad esempio in Follie d’inverno, dove i due in alcune scene si trovano a ballare “verosimilmente”: dopotutto, sono in una
scuola di ballo), il musical anni Trenta ama contrapporre realtà e spettacolo e molto spesso i numeri sono numeri all’interno di una rappresentazione (o in vista di essa). La spinta dello spettacolo verso l’esterno, peraltro, è già rintracciabile in Berkeley, il quale, non limitando la rappresentazione all’ambito teatrale, invade spazi “altri” che però ancora non possono essere identificati con quelli reali. Già nei Quaranta le cose cambiano e da Fascino (1944) di Charles Vidor a Due marinai e una ragazza (1945) di George Sidney con le coreografie di Donen i numeri non si presentano più come spettacolo ma come prolungamenti-sostituzioni di “realtà”, commento agli eventi e luogo espressivo di ciò che verosimilmente vediamo accadere nella storia (salva restando la qualità tautologica di cui si diceva). Nei Cinquanta, con la perfetta integrazione fra storia e numeri musicali (nel termine va ovviamente inclusa anche la danza), quel che in passato aveva caratterizzato la rappresentazione spettacolare viene a identificarsi in modo significativo con l’azione. Così, in un film come Spettacolo di varietà non solo assistiamo allo sviluppo di uno spettacolo interno al film, ma alla spettacolarizzazione di alcuni momenti–chiave della storia. I due spazi, insomma, non si pongono più come oppositivi ma si completano l’un l’altro, e proprio a quello dei due meno assimilabile ai termini della verosimiglianza è devoluta la funzione della massima significanza. Nel musical degli inizi il mondo e i suoi problemi potevano trovare un momentaneo antidoto nel sogno fornito dallo spettacolo, in quello della fine il mondo è lo spettacolo, venendo a cadere la mediazione esercitata per il pubblico dal piano di verosimiglianza del film. Il musical, in altre parole, diventa entità assoluta, forma totale, visione del mondo in chiave coreografico-mimetica: come dice il citatissimo Minnelli di Spettacolo di varietà: «The world is a stage, the stage is a world of entertainment». L’identificazione fra mondo e spettacolo è la chiave di volta per comprendere il tramonto del musical come genere (al di là, s’intende, da intuibili questioni di carattere produttivo). Più di ogni altro genere americano il musical degli anni Cinquanta aveva compreso (o quanto meno anticipava) il destino del cinema nella nostra epoca. In un mondo che ancora intendeva lo spettacolo cinematografico, musicale e non, come entertainment, il musical già formulava – almeno implicitamente – quello che tutto il giovane cinema hollywoodiano degli anni Settanta avrebbe elaborato in termini senz’altro più consapevoli e critici, ma certo non più chiari: la realizzazione del mondo in immagine. Tutte le storie sono raccontabili (e cantabili e ballabili) e dunque tutti i film possibili sono già stati fatti: ancor prima di farli (della questione ci occuperemo più avanti). Quel che importa è perché proprio il musical esercita questo ruolo anticipatore. E la risposta non è difficile. Più di ogni altro genere, abbiamo detto, il musical prende a suo oggetto lo spettacolo. A differenza, poniamo, da un film bellico (il quale certamente spettacolarizza la realtà, ma solo per fornircene un’immagine il più possibile adeguata alla sua verità), il musical svela immediatamente il carattere onirico dell’immagine cinematografica e soprattutto si pone come discorso sullo/dello spettacolo. Il musical, cioè, è genere metalinguistico per natura e come tale necessariamente connesso, implicitamente o esplicitamente, a una teoria dello (o quanto meno a una riflessione sullo) spettacolo in sé. Ogni elemento costitutivo del musical invita a una lettura metalinguistica, a una “sospensione di credenza” nei confronti del reale per porsi come chiave di una definizione della realtà unicamente intesa come rappresentazione di essa. E questo è esattamente il terreno di riflessione di tanto cinema americano degli anni Settanta. La differenza – peraltro sostanziale – è di carattere scenografico e figurale: l’onirismo pittorico di un Minnelli non ha nulla a che vedere con l’iperrealismo di un Bogdanovich o di uno Scorsese; ma parte, magari inconsapevolmente, dalle stesse premesse. La realtà è superata dalla rappresentazione della sua immagine. Certo, in Minnelli la rappresentazione è ancora rappresentazione della realtà filtrata attraverso le lenti del sogno16 (pensiamo solo ai suoi colori), ma l’identità realtà/spettacolo è il primo passo teorico per l’elaborazione di un cinema la cui infinitamente maggiore verosimiglianza nasconde ugualmente una verità altrettanto falsa. Il tema del falso è, a starci attenti, il grande protagonista di questi anni: lo è, l’abbiamo detto, nel cinema comico, e lo è anche nel musical. Il suo trionfo, ovviamente, si celebra in Cantando sotto la pioggia, un film che molto probabilmente non fu pensato teoricamente così importante com’è nemmeno dai suoi autori. La splendida sceneggiatura (molti si sono intrattenuti giustamente sulla bellezza della pellicola, ma non ricordiamo alcuno studio sul suo incredibile ritmo: tutta la prima parte sino al ritrovamento di Kathy Selden è una vera vertigine di velocità e di economia) è una scatola cinese che si arricchisce nel tempo: mano a mano che gli anni passano, ogni riferimento a quel che sta succedendo al cinema odierno non può non ricondurre a quel film seminale che aveva già in sé tutto quello che sul cinema si sarebbe potuto dire in futuro. Non sul grande cinema, non sul cinema d’arte, non sull’immortale capolavoro: semplicemente sul cinema. La sequenza “You Were Meant for Me” è quasi certamente l’esempio più preciso ed esaltante (e insieme triste e dolente) a spiegazione e comprensione di che cosa Hollywood è stata per decenni. Come in ogni forma d’arte, il momento della grande esemplificazione metalinguistica arrivava con una crisi. Non era solo una crisi economica, era la crisi di un’idea, di una sensibilità, di un’intelligenza. Dietro la trascurabile storia del film si sente un intero immaginario che barcolla, che tenta di puntarsi contro
qualcosa per non cadere. Questo film straordinario, gaio e gioioso, è in realtà una trenodia alla vecchia Hollywood fatta con l’intelligenza che solo gli autori, i veri autori, hanno: non attraverso la visione della Hollywood contemporanea, ma esemplificando il presente utilizzando il passato. Fra l’altro, vale la pena notarlo – anche se senza particolare felicità, dato che oggi possiamo guardare indietro e vedere tutto col senno di poi – in quel modo si lasciava pur sempre uno spiraglio alla speranza: come la Hollywood del muto, che si riteneva spacciata dall’avvento del sonoro, riuscì a superare la tragedia che l’investì, allo stesso modo quella odierna, ecc. ecc. Ma c’era un particolare: questa volta il cinema non si era rinnovato, ma era cambiato. Si chiamava televisione e come alla fine degli anni Venti la nuova tecnologia richiese al pubblico una fruizione diversa da quella sino ad allora in uso, questa volta il nuovo mezzo di comunicazione richiese un altro tipo di fruizione, così diverso che il cinema non sembrò più quello di prima. E in effetti esso non era e non sarebbe mai più stato lo stesso. A guardarli dopo decenni, quei musical, sembrano completamente diversi da quello che sembravano quando uscirono: sempre e comunque una parata, ma non del circo che entra in città, bensì dei colori, del piacere, del giubilo, dell’abilità, del sogno che, dopo aver tolto le tende, si allontanano per sempre. Naturalmente – e come sempre – tutto successe, per usare la parafrasi di Pound a T.S. Eliot, «not with a whimper but with a bang». I costumi si fecero sempre più sgargianti come si conviene alle parate e come ricorda con nostalgia Charles Walters in Ti amavo senza saperlo (1948). I colori di Spettacolo di varietà – soprattutto quelli dei numeri musicali – hanno una qualità che, per banale che sia il dirlo trattandosi di Minnelli, è davvero pittorica17. E persino quei piccoli musical teneri e giovanili come Good News (1947) o L’allegra fattoria (1950), ambedue di Charles Walters, nella loro casalinga amabilità abbagliavano gli occhi. Ma si era alla fine. Broadway divenne sempre più fonte di ispirazione, ma non si può girare Brigadoon ogni volta; e se Damn Yankees! (1958) di George Abbott e Stanley Donen ha un paio di numeri degnissimi, South Pacific (1958) di Joshua Logan è un’intollerabile celebrazione dell’etnocentrismo e del colonialismo, mentre Pal Joey (1957) di George Sidney può vantare al massimo le bellissime canzoni di Rodgers e Hart. Persino Shakespeare fu scomodato con Baciami, Kate! (1953) di George Sidney, e con una rivisitazione metalinguistica per lo meno sospetta. E poi cose diverse come il musical di Broadway Il gioco del pigiama (1957) di Abbott e Donen, l’operetta come Rose Marie (1954) di Mervyn LeRoy – che peraltro aveva già visto una versione cinematografica nel 1936 firmata da W.S. Van Dyke – e quell’incubo incestuoso travestito da delicato, grazioso sogno che è Papà Gambalunga (1955) di Jean Negulesco. Non esiste critico che non abbia indicato in È sempre bel tempo (1955) di Gene Kelly e Stanley Donen il film limite del genere, la pellicola che ne segna la definitiva sepoltura. Tutti hanno parlato della sua stanchezza, del suo scetticismo, di come esso sia contrario, nello spirito, ai classici canoni del musical. Il fatto è che, diverso come esso è, in realtà ha soltanto la caratteristica di non comunicare la fine attraverso la vitalità e il dinamismo, ma – più normalmente – attraverso una stanchezza che era oggettivamente l’essenza della situazione. Si può leggere simbolicamente persino l’audace split screen (moltiplicazione delle immagini sullo schermo) dei tre commilitoni separati: come se la pellicola si spaccasse in parti diverse, come se i pezzi del film andassero davvero per la loro strada separati in modo da non potersi più ritrovare, riunire. Oh, i tre si ritroveranno naturalmente, dopotutto questa è Hollywood. La differenza col cinema del passato è che questa volta nessuno può fingere di crederci. Tutti sappiamo, appunto, che questa è Hollywood, solo che ora non le perdoniamo di esserlo perché ci ha tolto l’unica cosa che le chiedevamo: la credibilità della finzione. Come dicevamo più sopra, avremmo dovuto aspettare gli anni Settanta per capire che si trattava di un processo di natura teorica, di un cinema che stava scalzando le sue stesse radici. La pop art dei Sessanta fece da trait-d’union, e dopo capimmo non che era finito un cinema, ma che la fine del musical era la fine del cinema.
8. La morale come esercizio di stile: il melodramma Nel frattempo la fine del cinema si sta avvicinando anche su altri versanti. Meno vistoso, ma non meno forte e per certi versi addirittura violento, il melodramma. Ma per comprenderne i modi del declino sarà meglio chiarire qual è il suo oggetto e quale il suo obiettivo nell’ampio arco di vita che lo riguarda. Nel suo piacevole e ricco Il racconto del film18 Roberto Campari sostiene che il melodramma è caratterizzato da quello che egli chiama «impedimento amoroso. È certo vero che un enorme numero di film americani classificabili come melodrammi presentano tale costante tematica. Ma è anche vero che pellicole come Il romanzo di Mildred di Curtiz o Piccole volpi di Wyler, pur non presentando tale tematica come determinante, rientrano dopotutto nell’ambito del melodramma. Non si tratta, notiamolo, del fatto che – come giustamente afferma Campari – i generi non sono mai «puri», per cui
alcune componenti melodrammatiche sono riscontrabili in film che in realtà appartengono ad altri generi. La sostanza dei film citati (e di molti altri) è ontologicamente melodrammatica. I generi sono usualmente caratterizzati da ambiente, scenografia, costumi, a volte persino dall’epoca in cui l’azione è situata. Il melodramma, invece, è caratterizzato soprattutto dall’intreccio, fondato su temi inter-individuali che ruotano intorno a pochissime e precise leve: in pratica, sentimento e/o ambizione. Naturalmente queste componenti sono spesso riscontrabili, poniamo anche nel western. Ma l’ideologia del western (almeno di quello classico) è normalmente legata a un referente storico (opposizione natura-cultura come essenziale funzione del processo di colonizzazione dell’Ovest, ecc.). E dunque melodramma e musical (si noti in ambedue la radice musicale dei termini stessi che li designano) sono un po’ i “jolly” dei generi, si mescolano con tutto. Il musical, però, necessita di ampie scenografie, in questo allineandosi a generi come il western e in certa misura la fantascienza. Il melodramma invece non ha bisogno d’altro che di una stanza, di un “palcoscenico” (e non a caso molti film del genere sono tratti da lavori teatrali). Il che ovviamente non significa che il suo “teatro” non possa allargarsi ad amplissime dimensioni, da Via col vento a Il gigante fino al più recente Il padrino (1972) di Francis F. Coppola. Ma che cosa fa di questi film dei melodrammi? Al solito, sarà meglio tornare alle origini. Le succitate leve di sentimento e/o ambizione sono riscontrabili come molla dell’azione – e limitiamoci pure all’epoca moderna – per lo meno a partire dalla tragedia elisabettiana (magari con la modificazione di “sentimento” in “lussuria”, come ci ricorda una delle massime studiose del campo, Muriel C. Bradbrook), in un periodo che, a rigore, non conosceva ancora il melodramma storicamente inteso, le cui origini, com’è noto, datano al 1600. Fu allora che un particolare, preciso rapporto fra parola e musica tenne a battesimo questo genere letterario-teatrale-musicale. Il discorso è complesso e naturalmente non è possibile affrontarlo ora dettagliatamente. Basti dire che la dinamica del genere si affidava unicamente al veicolo sonoro concepito come rapporto completamente assoluto di parola e musica. In certo senso, da questo punto di vista, il melodramma è il punto d’arrivo del culto verbale che caratterizza il secolo e che trova nella poesia barocca un suo esito squisitamente letterario. Il melodramma secentesco è la celebrazione dei valori comunicativi della parola (per come essi erano intesi all’epoca, naturalmente) a un grado che li eccede, il mezzo di trapasso essendo fornito dalla musica. Non nel senso che la musica complementa la comunicazione verbale, bensì – al contrario – nel senso che la parola diventa una forma della musica. Liberatasi dal peso della significazione concreta, la parola diviene “nota”, cioè elemento aurale, esattamente come la musica diviene “parola”, in una combinazione di scambi continua. Sarebbe ora molto interessante leggere la cosa come conseguenza della reazione contro-riformistica al “realismo” (nei molti sensi del termine) della parola per come esso si era venuto configurando nel Cinquecento da Machiavelli ad Ariosto (e naturalmente ai pericoli che tale uso della parola comportava per il potere e le istituzioni). Ma quel che preme indicare è cosa del resto implicita in quel che si diceva, che il melodramma è fenomeno squisitamente secentesco e che già col Settecento esso subisce un forte mutamento dal momento che a quell’epoca cominciano a entrare in crisi i modelli nobili, aristocratici, mitologici che avevano caratterizzato il genere nel secolo precedente. Dalla crisi il melodramma uscirà mantenendo il primato delle passioni, delle emozioni, dei contrasti affettivi e sentimentali, ma in personaggi nuovi, rappresentativi dell’appropriazione borghese nei confronti dei modelli pertinenti alla vecchia classe. In certo modo, la visione borghese del mondo si sovrappone a quella aristocratica d’un tempo. Così, è noto, la nobiltà dello spirito (intesa come nobiltà di natali) diventa nobiltà indipendentemente dall’estrazione sociale dei personaggi. Così, è noto, i grandi melodrammi borghesi della nuova epoca, in ambito letterario, sono I miserabili di Victor Hugo, parecchi romanzi di Dickens e i feuilleton in genere. La borghesia immette nel quadro un elemento caratterizzante la sua epoca: il sociale. I contrasti non sono più fra semplici (e complesse) emozioni, ma fra queste e il sociale (storia, società, denaro). Alla nobiltà di sangue succede in forma negativa e concreta quella del denaro, in forma positiva quella dell’animo. L’opposizione strutturale si complica quindi vieppiù: emozioni e interesse si presentano come valori che si alternano e spesso si contraddicono. La passione funge da cattiva coscienza di una classe che ha fatto del denaro il referente assoluto. Insieme all’“impedimento amoroso” si denota un’altra costante (nel senso di tema che si rinviene spesso) del melodramma: lo sgretolamento della famiglia. Da Amore sublime a Come le foglie al vento (1956) di Douglas Sirk, il melodramma mostra rapporti familiari tormentati, difficili, delusi e, nell’insieme, l’impossibilità di felicità per il nucleo base della società borghese.
In verità, la vocazione del melodramma in questo senso è addirittura preborghese. Nell’Oratorio della figlia di Jefte del secentesco Claudio Monteverdi (uno dei capiscuola del melodramma storicamente inteso) tutta la tensione deriva dalla necessità, che l’eroe titolare si trova ad affrontare, di uccidere la propria figlia per mantenere fede a un giuramento solenne formulato a beneficio della propria comunità. Da un lato, viene da sé il discorso storico-sociologico – espresso molto bene da Ian Watt a proposito della situazione della famiglia rurale nell’Inghilterra settecentesca – secondo cui proprio l’avvento della borghesia come classe portò a uno smembramento della famiglia patriarcale e piramidale, autonoma ed economicamente autosufficiente. La diversa economia industriale portò allo sfaldamento di un nucleo che era basato su forme di produzione propria e su un commercio di piccolissima scala all’interno della sola area di relativa sussistenza. Viene da sé, dunque, affermare che ciò che segna il melodramma in epoca borghese è, appunto, il dominio dei modelli etici ed economici della borghesia. D’altra parte, l’esempio monteverdiano ci dice che in realtà il modello dello sgretolamento familiare non è strettamente e unicamente connesso all’epoca borghese. Infatti, pur nascendo da una cultura sostanzialmente aristocratica, l’oratorio di cui sopra mostra un’identica situazione di dramma familiare. Forse la formulazione migliore, allora, è quella tradizionale della tragedia secentesca francese: un conflitto tra amore (nei vari sensi del termine, compreso quello parentale) e dovere. In effetti molti infelici eroi del melodramma tradizionale si ritrovano prima o poi ad affrontare questa alternativa19. Il concetto di “dovere” in quanto centrale al melodramma si sviluppa in epoca ottocentesca in relazione alla morale elaborata dalla nuova classe. Il dovere non è più l’adesione agli imperativi che comporta l’appartenere a una classe superiore, ma una legge umana apparentemente democratica (cioè comune) a dispetto di quella espressa dall’interesse economico che pure – paradossalmente – l’ha generata. Il cinema, arte nata in epoca borghese, si appropria di quest’ultimo modello melodrammatico. Non per nulla il melodramma è alle origini uno dei primi generi in quanto modello preesistente e consolidato ben più del western e persino del film storico (che a sua volta può anche rientrare nel melodramma). Griffith non a caso si ispira esplicitamente a Dickens e lo vuole “sostituire” con il cinema. Ulteriore paradosso: il melodramma, genere letterario originariamente musico-verbale, trionfa subito in epoca di cinema muto. La verbalità diventa mimo, pantomima, la parola si sublima nell’immagine. Molto si potrebbe dire sullo sviluppo del melodramma cinematografico nei decenni che seguirono il muto. Ma nella sostanza il modello di fondo rimase lo stesso, quello – appunto – fornito ed elaborato dall’etica borghese, insaziabile conquistatrice di forme culturali che non le appartenevano e che essa trasformò in relazione al proprio codice morale e di costume. Non intendiamo ora ripercorrere le forme in cui il melodramma si è sviluppato durante l’intero arco della produzione cinematografica novecentesca, ma evidenziare piuttosto che la natura del melodramma – perché esso possa trovare una qualche definizione – richiede più di una singola componente tematica come discriminante di ascrivibilità al genere. Da un punto di vista storico (addirittura quasi filologico) il musical è il genere che più si avvicina all’originario concetto di melodramma, dal momento che in esso, in certa misura, il rapporto fra parola e musica si fa stretto e complementare. Quel che invece abbiamo di melodrammatico al di fuori del musical è materiale desunto dal trattamento che dell’eredità melodrammatica “storica” ha fatto la cultura borghese. Dal momento quindi che il concetto borghese di melodramma si affida a una visione di vita, affetti, sentimenti, passioni, denaro, società, ecc. quale quella che più sopra si indicava, e il tutto, si noti, all’interno di un modello di sviluppo che esclude un qualunque taglio “comico” di trattazione (dopotutto anche nella commedia vige spesso e volentieri quel tipo di Weltanschauung20) non meraviglia che il concetto di melodramma pervada nell’insieme l’intera produzione cinematografica. Tuttavia, crediamo che il discorso, fino a questo punto, manchi di un ulteriore angolo visuale. Il melodramma cinematografico, non dimentichiamolo, ampio o ristretto che possa essere il suo ambito di definizione e di operazione, è anche forma visiva, versante linguistico, struttura iconografica (di necessità non citiamo qui la fondamentale componente della musica). Non stiamo certo affermando che un importante criterio discriminante nell’attribuzione di un film al genere in questione risieda in una precisa grammatica formale, in un codice stabilito che fornisce a critica (consciamente) e pubblico (inconsciamente) un certo numero di referenti di sicura immediatezza. Del resto, ci pare lampante che, poniamo, lo stile melodrammatico di un Borzage si distanzi enormemente da quello di un Sirk, così come quello di un Kazan da quello di un Minnelli. Ciò che invece ci sembra comune al melodramma cinematografico nel suo insieme (almeno a partire dal sonoro21) sono alcune componenti chiave di varia natura. Per far qualche esempio, una componente scenografica che vuole la casa, l’abitazione, la stanza, ecc. come luogo di uno stato mentale, spirituale, morale, termine di un’opposizione che vede all’altro suo polo un altro spazio, temuto o ambito che sia. Poi, la funzione simbolica della scenografia non solo in
termini di caratterizzazione del personaggio (ciò che il melodramma ha in comune con la commedia), ma come espressione dello stadio emotivo cui egli è giunto nell’iter morale e sentimentale rappresentato dal suo problema, dalla sua vicenda. Un’ulteriore funzione simbolica è fornita da uno o più oggetti, sintetici referenti dei sostanziali termini del problema che egli (o essi) deve affrontare. Un uso “romantico” della componente naturale secondo i migliori dettami della tradizione ottocentesca: vale a dire, adeguamento o opposizione fra natura e stati d’animo. Un’accelerazione dei tagli di montaggio mano a mano che la vicenda si sviluppa verso il suo acme drammatico, pratica che nel western o nel film bellico si dispiega usualmente al momento della messa in scena del perfetto corrispettivo all’interno del sistema retorico pertinente questi generi (l’attacco, la battaglia, ecc.)22. Il melodramma anni Cinquanta è apparentemente vivo e vegeto, ma, dicevamo, si sta avviando verso la fine. Forse in nessun altro momento ne furono prodotti tanti, ma come sempre la morte di un genere è proprio quando esso prolifera e si moltiplica a dismisura. È tradizione indicare in Douglas Sirk uno dei massimi autori melodrammatici dei Cinquanta. Sirk è in effetti uno splendido uomo di cinema, ma è rappresentativo del melodramma solo per quel che riguarda il suo penchant familiare, strettamente sentimentale e – secondariamente – la componente etica che tutto questo include. Le sue storie sono vicende di conoscenza, di conscia o inconscia ricerca di luce e di verità; e regolarmente la verità si identifica nei valori naturali, nell’onestà, nell’accettazione dei propri sentimenti, e naturalmente nel risveglio di questi sentimenti se per caso, come in La magnifica ossessione (1954), essi non si fossero ancora affacciati alla coscienza. Come in ogni melodramma americano, anche in Sirk chi sbaglia paga, almeno fino a che non comprende il proprio errore. Questa morale, viva anche nei Quaranta ma allora attutita da un senso del destino che pareva quasi ineluttabile, domina la decade. È sin troppo facile trovarvi un raccordo con la spietatezza di quegli anni, con la calvinistica ferocia delle accuse e delle pene. Sirk più di ogni altro regista specialista tenta di smascherare la situazione della coscienza americana sotto una patina di sentimenti vissuti problematicamente, di conflitti interiori fra ciò che è conveniente e ciò che è giusto. Ma dietro il suo perbenismo si sente un’epoca di disagio. Astutamente però egli dissemina la sua opera di segnali di questo disagio. Non è un caso che nei suoi film siano sempre i figli i più duri moralisti nei confronti del/della protagonista, da Desiderio di donna (1953) a Secondo amore (1956) a Quella che avrei dovuto sposare (1956), quasi ad alludere a una difficile rigenerazione del futuro. È vero che alla fine i ragazzi comprendono il loro eccesso di durezza, ma la loro posizione lascia un sapore amaro in bocca che il ravvedimento non riesce a scacciare, apparendo anzi come un compiacente adeguamento alle necessità hollywoodiane. Sirk è però un autore cui si farebbe gran torto ad analizzare la sua opera in termini meramente contenutistici. La sua attenzione ai minimi dettagli in funzione di significazione lo rende un vero autore, e tutto il suo cinema è in sostanza fatto di componenti metaforiche che rimandano, appunto, ad altro che non la semplice storia narrata. La sua opera è anzi un vero terreno dove combattere la battaglia dei rapporti fra immagine e significato. Una critica fortemente ideologizzata si rifiuta tuttora di riconoscerne la maestria per il solo fatto che le sue storie evitano ogni riferimento socio-politico e anzi piegano i pochi elementi sociali che vi compaiono a considerazioni e a funzioni da romanzo sentimentale. In effetti, il cinema di Sirk può apparire come una traduzione in immagini del romanzo sentimentale più classico e meno impegnativo. Il punto è che proprio l’abilità del regista riesce a riscattarne l’originale condizione attraverso la creazione di un processo di significazione articolatissimo e complesso, per cui gli originali valori del soggetto (francamente scarsi) acquistano vieppiù spessore sino a strutturare le pellicole in precise e ampie opposizioni di fondo rinvenibili in ogni minimo momento scenografico e attoriale. Limitarsi all’aspetto rosa del cinema di Sirk significa applicare una semplice critica dei contenuti buona tanto per un trattamento quanto per una pellicola sinuosa ed eloquente alla stregua di Come le foglie al vento. Simboli e metafore si rincorrono nei suoi film a un ritmo addirittura vorticoso; solo, egli è un artista di tale livello da affascinarci in modo che ogni suo suggerimento in questo senso – e sono tanti – passi veloce e leggero, non visto e men che allusivo. Al di là dalla bravura di Sirk, però, è vero che il suo modo di concepire il melodramma (intendiamo dire la sua idea di esso) rimane sostanzialmente ancora ottocentesca e, con le dovute distinzioni, l’“impedimento amoroso” nella sua opera non è poi così diverso da quello che contraddistingue i libretti verdiani. Naturalmente vigono gli aggiornamenti del caso, dal petrolio e dalla psicologia familiare di Come le foglie al vento al problema razziale di Lo specchio della vita. Ma confrontato con un film come Il bruto e la bella (1952) di Minnelli, è evidente che, a parte ogni altra differenza, si tratta di una concezione alquanto diversa del melodramma. Sirk è un signore thomasmanniano nel cui mondo non esistono problemi di denaro (o comunque non tali da portare alla paura e al dolore), amante della campagna e dei suoi valori tradizionali, e comunque dell’intimità familiare che solo la vita di provincia rende possibile. Gentiluomo d’altri tempi, Sirk sopravvive a quei Quaranta che ebbero così cara la riscoperta della piccola città. Persino quando le
sue creature vivono nella metropoli, noi della città non vediamo gran che (Lo specchio della vita): la macchina da presa sta incollata ai personaggi, non soltanto perché profondamente interessata alla loro psicologia ma anche perché sembra quasi temere di allontanarsi vagando per un mondo caotico come quello urbano. Le macerie tedesche di Tempo di vivere (1958) sono anche l’espressione di una desolazione interiore e connaturata al luogo. Cose orribili possono ovviamente succedere ovunque (la sequenza finale della morte del soldato presso un casolare nello stesso film), ma il senso di morte e distruzione che connota palazzi e case è tipico di un luogo che, per ovvie ragioni, è il primo bersaglio di chi della morte ha fatto un mestiere. Pace, fratellanza, tranquillità nella natura: questo è il credo di Sirk, il quale non poteva non trovarsi a suo agio in una civiltà che, come quella americana, questo credo l’aveva codificato. In seguito l’anziano regista si accorgerà però che l’America jeffersoniana è una dichiarazione, non una pratica. E si ritirerà in Svizzera. Il melodramma di Vincente Minnelli è invece molto più sofisticato (come ispirazione e, spesso, ambientazione, non come tecnica): guarda a Broadway e a pièce audaci come Tè e simpatia (1958), alla grande pittura europea (come già nei suoi musical) come in Brama di vivere (1956), e persino a quella Hollywood che ancora una volta emerge metalinguisticamente dalla palude in cui il cinema stesso la mostra sempre più impantanata in Il bruto e la bella. In quest’ultimo lavoro è sorprendente come il regista riesca a convincerci del suo estremo stadio di corruzione (non morale ma umana) dopo aver costruito la storia in modo da escludere ogni compromissione dei suoi protagonisti, persone criticabili certo, ma afflitti da un senso di mancanza, quasi da una sorta di rimpianto per gli errori commessi e ormai adattati a vivere con se stessi e con i propri difetti e le proprie colpe, ma apparentemente estranei alla natura diabolica del loro méntore. Il bruto e la bella è davvero una esercitazione demoniaca, enfatizzata dal magnifico lavoro di luci e ombre curato da Robert Surtees e riassunta in quell’entrata all’Ade che è il portone della villa da cui comincia tutta la storia. Mentre Sirk, a prescindere da differenziazioni stilistiche, è un autore legato al passato, Minnelli è uno sperimentatore, guarda a ciò che col cinema si può fare, sente la necessità di sposarlo alla pittura, al teatro, all’arte del disegno, persino alla musica. Lo splendido finale di Qualcuno verrà (1958) – molti l’hanno sottolineato – è un vero momento di musical senza musica, la fotografia, assolutamente inverosimile, è componente di estrema astrattezza e stilizzazione, come i movimenti degli attori. Minnelli ha il dono, come Sirk, di proporre le sue invenzioni con una leggerezza che non permette a un occhio non attentissimo di percepirle perdendosi invece nel piacere della storia. Eppure si noti quanta involuzione anche in lui: pensiamo alla retorica di Brama di vivere che si giustifica solo nella complessità coloristica che intende riproporre la pittura di Van Gogh; pensiamo al difficile equilibrio fra tradizione eufemistica hollywoodiana e nudità e scabrosità del tema in Tè e simpatia; pensiamo al disagevole retour au pays di Qualcuno verrà, una specie di messa in scena di tipici modelli della moralità americana, ma sublimati da un’inverosimiglianza (di cui il celebrato colorismo della scena finale è soltanto un esempio) che lo rende già critica del cinema hollywoodiano e comunque versione artisticamente molto più seria e adeguata dello stesso spirito che l’anno prima aveva sparato l’annacquata bordata di I peccatori di Peyton (1957) di Mark Robson, con meno pruderie e con perfetto senso dei tempi, dell’uso dello spazio, dell’importanza simbolica del movimento, dell’esemplarità dei costumi e così via. Rispetto a Sirk, fra le molte differenze, comunque, Minnelli non ha e non vuole avere in sede melodrammatica il senso dell’idillio (che risparmia per certi musical, e anche lì in un modo che ci fa sentire quanto per lui la falsità del set faccia parte di un’idea di cinema che non intende affatto proporsi come realistica e verosimile, ma anzi si affida al versante del sogno dichiarato, o quantomeno, come per Manuela in Il pirata, all’incertezza fra sogno e realtà). È esattamente quello che Hollywood aveva evitato accuratamente di mostrare lungo l’intero arco della sua storia, accumulando incredulità, ma sempre fingendo che si trattasse di mondi a parte, i quali con la fantasia avevano a che fare soltanto perché ideati da qualcuno, ma che – una volta giunti sullo schermo – vivevano di un’autonomia tutta loro che escludeva seccanti discorsi sul vero e sul falso. Il quadrilatero del grande melodramma americano al tramonto negli anni Cinquanta comprende poi Elia Kazan e Nicholas Ray. Se Sirk è l’idillio e Minnelli è il sogno, Kazan è la realtà e Ray la decadenza. Realtà, decadenza, sono, questi, termini che si prestano a fraintendimenti. Al di là da contenuti ideologici, il cinema kazaniano del tempo (e specificamente Fronte del porto) sembra essere il primo a mettere a fuoco il quotidiano (figurativamente inteso), senza l’eccessiva prossimità che consente invece il non coinvolgimento dell’idillio. Le ombre, i cantoni, il grigiore degli angiporti, i cornicioni dei palazzi, i muri scrostati e le macchie d’umido sull’asfalto diurno – del resto in gran parte già presenti in un thrilling del regista che era anche melodramma Boomerang, l’arma che uccide (1947) – derivano idealmente dalla lezione del noir, solo che non costellano la notte e le sue luci artificiali, non sono prodotto di un urbanesimo così poco concreto da mostrarsi sempre al buio, così emblematicamente mentale da suggerire una componente onirica. No, le cose che il noir aveva mutuato
dalla realtà senza avere il coraggio (o semplicemente l’intenzione) di renderle reali, quelle cose vengono riprese da Kazan e messe alla luce del sole. È un sole pallido, che si intravede appena nel grigiore della foschia in alto, ma è sufficiente a farci sentire la forza concreta della città, dei suoi luoghi di lavoro, del suo squallore e della sua durezza. L’abilità di Kazan, tuttavia, è molto maggiore: egli infatti è un autore che ha modi di realismo diversi a seconda dell’ambiente delle culture che ritrae. In La valle dell’Eden, ad esempio, scompare l’inquietante urbanesimo grigio e violento di Fronte del porto; qui siamo nella California di John Steinbeck, è necessario il colore e un uso accorto della dominanza dei toni chiari o scuri a seconda dei personaggi o degli ambienti che condizionano l’azione: cupe le stanze del bordello così come (significativa equazione) della casa paterna, chiari i momenti d’amore e quelli di giovanile entusiasmo (ad esempio, nella sequenza del giovane protagonista al lavoro presso il condotto di legno). La fotografia di La valle dell’Eden ha una qualità d’altri tempi che però non è solo dovuta a particolari effetti tecnici, vale a dire a un uso accorto degli sfondi, dei costumi, degli insiemi coloristici. Più, dunque, che al livello attoriale (che lo rese famoso a quei tempi in relazione ai suoi rapporti con l’Actors’ Studio) Kazan è un vero uomo di cinema per queste componenti visuali. La sua formidabile capacità è quella di farci reagire interiormente come se fossimo davanti a una pellicola realistica, mentre (si pensi solo alla recitazione di Dean, alla scena del rifiuto del denaro da parte del padre e alla reazione del ragazzo) si tratta di un’opera sostanzialmente stilizzata. Nicholas Ray è l’ideale continuatore di questa stilizzazione (ideale perché il cinema dei due è in pratica contemporaneo), ma a un grado tale da diventare decadenza. È pratica comune identificare la decadenza con l’eccesso dei tratti caratterizzanti, cui naturalmente corrisponderebbe un rilassamento morale, un’involuzione autoriflessiva di una conoscenza ormai in grado di anticipare i propri meccanismi d’operazione. Ma c’è un’altra decadenza, quella di chi impiega la tecnica dell’eccesso in modo economico così da suscitare una tensione di qualità molto partitolare e inusitata. Quando si parla di Johnny Guitar è sempre molto difficile la scelta: porlo tra i grandi melodrammi oppure tra i grandi western? Di sicuro è una vera e propria opera lirica, nel senso che i suoi ritmi sono dilatati e il rapporto fra personaggi e azione va a favore dei primi. Non tanto nello scavo psicologico quanto nell’espressione delle loro tensioni, dei loro affetti. Tralasciamo qui le notazioni imperative sulla relazione fra questo film e il genere western, e limitiamoci a osservare il colore, le luci, il buio e soprattutto i luoghi dell’azione incredibilmente teatrali. Se mai il termine melodramma è stato applicabile al cinema Johnny Guitar è la pellicola che più gli si adatta: l’azione ha l’andamento della musica, le parole si snodano retoriche eppure tranquillamente pronunciate e ricevute, mentre i personaggi si cantano in faccia l’amore e l’odio. Il dialogo fra i due protagonisti quando si rivedono dopo anni («Dimmi che il tempo non è passato…») è fra i più commoventi dell’intero cinema americano, ha il sapore dell’innocenza perduta e della necessità di stringere i denti e tirare avanti. C’è in esso e nella sua rappresentatività qualcosa di più largo che non una pur maestosa storia d’amore, c’è la sensazione che l’America speri ancora di ritrovare se stessa dopo un brutto sogno durato tanto tempo. Non è metafora, naturalmente, solo disposizione dell’anima e della memoria, sensibilità tristemente affinata, frustrata ricchezza di sentimenti. Non c’è particolare in questo film che non sia stilizzato: Johnny che suona su una chitarra che sembra quasi finta e visibilmente incapace di muovere le dita sui tasti, l’assurda tenuta in nero di Dancing Kid (la cui traduzione italiana, Ballerino Kid, contribuisce involontariamente a una ancora maggiore stilizzazione), le gratuite impennate dei cavalli nel carosello notturno attorno al locale di Vienna che brucia, i nomi esausti delle donne e lo stesso nomignolo del protagonista maschile, il modo in cui ci si sfida a duello. A quest’ultimo proposito vale la pena sottolinearne l’austera esemplarità assolutamente inverosimile: si veda la morte del ragazzo nel saloon, o quella di Emma, che, nonostante avvenga in una delle non frequenti riprese all’aperto, sembra costruita fra la cartapesta, esattamente come resa in modo del tutto inverosimile è quella di Dancing Kid, la quale peraltro non è poco simbolica: un proiettile in mezzo alla fronte a un uomo innamorato cui viene risparmiato il cuore da una donna che non ha cuore e che ne ha avuto, in segreto, soltanto per lui. L’intreccio non dell’azione ma dei sentimenti è profondamente operistico, tutto avviene in modi rarefatti e stilizzati. Lo stesso accade in Gioventù bruciata, ma essendo qui l’ambientazione contemporanea, la stilizzazione dà meno nell’occhio, o per meglio dire si intensifica, si condensa in alcuni momenti specifici. Soprattutto quello in cui i tre ragazzi si stringono insieme nell’edificio vuoto illuminati da una sorta d’occhio di bue teatrale che li strania ancor più del senso di isolamento dell’immagine e della simbologia familiare (probabilmente, come è stato detto, da intendersi in chiave religiosa). La pistola che passa da una mano all’altra di Johnny Guitar, il coltello che fa lo stesso in quelle di Dean: sembra un balletto, e non per niente questo tipo di stilizzazione tornerà di lì a non molto in un altro film di profonda decadenza, West Side Story (1961) di Robert Wise, il cui uso delle luci e dei colori non è poi così distante da Johnny Guitar. Pellicola di denuncia sociale meno forte di quanto non si disse al momento della sua uscita, Gioventù bruciata in realtà fa propria questa istanza soltanto per decantarsi come riflessione altamente astratta su alcuni riferimenti istituzionali della realtà: il passaggio
dall’adolescenza alla giovinezza, i rapporti familiari e generazionali, i ruoli dell’uomo e della donna nel matrimonio e così via. Certo, sono temi di carattere sociale, ma sono anche temi universali così ampi da poter facilmente sollecitare domande esistenziali, relative, per esempio, al posto dell’uomo nell’universo, al suo senso, al significato della vita e ad altri perché (cfr., ovviamente, la sequenza al Planetarium). L’interesse di Ray per l’istituzione familiare come occasione per una verifica di se stessi, dei propri sentimenti di persona (più che di partner in una coppia), del proprio carattere e anche del proprio ruolo sociale è evidente anche in Dietro lo specchio (1936), e lo è tanto da far dimenticare l’assurdità iniziale che fornisce l’avvio alla storia: la presunta pericolosità psicologica del cortisone. Ray, inoltre, mostra spesso un debole per l’autorità: i suoi disgraziati eroi chinano volentieri la testa davanti a poliziotti o medici che interpretano un ruolo superiore, pacificante e chiarificatorio nel senso che forniscono ai primi i dati su cui essi poi dovranno ripensare se stessi e prendere le loro decisioni responsabili. Il discorso, lo si vede, è molto adulto e civile, eppure, come dicevamo, si tratta di un cinema decadente, nel quale la tensione delle situazioni – esaltata da un tesissimo commento musicale – è convogliata più dai gesti in relazione agli spostamenti dell’inquadratura che dalla vivacità drammatica dell’interpretazione. Ed si muove nello spazio della sua casa sempre più estraniato: apparentemente e verosimilmente è per causa della medicina pericolosa che prende, ma simbolicamente si tratta di un’estraniazione del tipico americano di mentalità e costumi middle-class dal proprio confortevole ambiente quotidiano. Un’estraniazione che è in fondo più forte dell’occasione che la innesca: la medicina, cioè, è soltanto un pretesto per far emergere le repressioni di un uomo medio in un’epoca che lo aveva trattato come un burattino, plasmabile, malleabile, devoto, chino al volere di coloro che fallacemente lo rappresentavano e che pure non erano certo migliori di lui. La decadenza non è certo in questo tema, ma, si diceva, nei modi di narrazione, nella messa in scena, nella direzione di ripresa. La tensione che aveva alimentato grandi melodrammi del passato non è più lì, sostituita da un’altra tensione, quella convogliata dall’aspettativa più che dalle azioni, dall’allusività della disposizione di cose e persone sulla scena più che dai loro stessi scontri. Il melodramma si stava dissolvendo. Genere di riferimento, componente comune a molti altri generi, nel cinema di Ray la sua evoluzione non era tanto tematica quanto formale, legata ai ritmi, agli spazi, alle forme stesse della ripresa. Probabilmente si tratta di una questione del tutto soggettiva, ma è indicativo che per il primo melodramma anni Cinquanta il pensiero corra al Kazan di La valle dell’Eden o al Sirk di Come le foglie al vento ma non al George Stevens di Un posto al sole (1951) o al Robert Wise di Solo per te ho vissuto (1953). Perfetti in se stessi ambedue, la loro eleganza e la loro convincente narratività non vantano però alcuna autorialità. Di essi – ed è ovvio che ne parliamo rappresentativamente, come opere che stanno per molte altre del genere – si ammirano molte cose, ma non quello che essi sono e valgono in relazione allo sviluppo (o alla decadenza) del genere. C’è comunque qualcosa che lega alcune – e soltanto alcune – di queste opere degli autori più vari: una componente di saga che corre da Il gigante (1956) di Stevens toccando in parte pellicole quali Come le foglie al vento e per certi versi addirittura La valle dell’Eden (che in realtà sullo schermo è una saga mutilata), su su fino a Dalla terrazza (1959) di Mark Robson e, ancora in parte, Lo specchio della vita di Sirk. Per saga non intendiamo tanto la classica struttura che si snoda lungo l’arco di molte generazioni incentrandosi attorno a una precisa famiglia, ma, più largamente, una storia individuale o familiare, che segue il personaggio (singolo o gruppo) lungo un arco cronologico abbastanza ampio da non identificarsi con una precisa esperienza particolare, ma con una vita o un segmento di vita che diano, la sensazione di un passaggio del tempo e di un mutamento della mentalità, della sensibilità, delle credenze avvenuto diluitamente e non a seguito di specifici, improvvisi eventi. L’allusione è comunque a una storia che passa e non dà tregua, che impone revisioni, che chiede scelte. Fra Secondo amore e Dalla terrazza da un certo punto di vista non c’è molta differenza tematica: in ambedue si tratta di voltare le spalle alle credenze e ai dettati sociali per dirigersi verso una vita felice che si identifica con la semplicità della natura. Ma vi è una grossa differenza: la storia di Sirk, per quanto sviluppata nel tempo, non segue la protagonista nel suo cammino verso la “verità”, non parla delle sue speranze, delle sue delusioni e del suo riscatto. Essa mostra soltanto una vedova non più giovanissima che finalmente, dopo molte titubanze dovute alla convenienza sociale, decide di unirsi all’uomo che ama; quella di Robson ha l’ambizione di fornire il quadro sociale di un mondo specifico, quello dell’industria e della finanza nordorientale, e di porsi anche come exemplum retorico di opzioni di vita, di concezioni del mondo e del lavoro. L’idillio sirkiano diventa cioè lezione sociale e morale in modo ben più deciso e scolpito, e questo a scapito dei valori metaforici e visuali del film, che non può vantare neanche la metà del ricco arsenale di significazione della pellicola di Sirk. O per meglio dire, della sua profondità di significazione, ché in Dalla terrazza ogni particolare è in realtà impiegato per fornirci informazioni, ma solo come supporto alla rigida e aprioristicamente impostata struttura morale dell’opera.
L’attenzione non tanto verso il passato quanto verso un senso più ampio della storia e del tempo è dunque caratteristica di questi anni, come, in alcuni esempi e in modi opportunamente adeguati al genere, vedremo anche nel western, che ha sempre avuto uno strano combattuto legame con la storia. A differenza dai Quaranta qui il destino non c’entra più, anzi il personaggio è chiamato a scegliere, decidere. In questi anni di decisioni che vengono dall’alto, di imposizioni di comportamenti, di intimidazioni e violenze morali, è il melodramma hollywoodiano a rispondere – magari in modo stereotipato, come nel film di Robson – con un minimo di dignità. Non certo nei soggetti, spesso prevedibili e comunque alquanto banali, ma nell’atteggiamento problematico nei confronti dei suoi personaggi in quanto soggetto di compromessi o di fierezza e onestà. Sono rari i casi di film come L’ammutinamento del Caine (1954) di Edward Dmytryk, pellicola che tradisce tutta l’ambiguità del suo regista, notoriamente collaboratore della Commissione per le Attività Antiamericane. L’atto d’accusa nei confronti della pur palese nevrosi del comandante parte da una fonte sospetta, l’intellettuale che è ufficiale di complemento, ed è ripresa da uomini seri e onesti. In questo modo essa acquista una sua veridicità da un lato, ma anche una sua ombra dall’altro. Ombra che diverrà più evidente e consistente al processo, quando emergerà che la nevrosi esiste, sì, ma che ciò che importa è la figura morale del soldato. L’ammutinamento del Caine è uno dei più maccartisti fra i film che non trattano direttamente il tema del comunismo e della sua minaccia, ma che, appunto, lo suggeriscono velatamente. L’imbarazzo di Van Johnson alla fine della pellicola, la sua presa di coscienza di ciò che il film afferma essere dietro l’apparenza concreta e indiscutibile della realtà la dicono lunga sugli onest’uomini che, ingannati dalla falsa verità dei reprobi, lottano in buona fede per una giustizia che si rivelerà fallace o comunque sottile, e di cui La mano sinistra di Dio (1955), sempre di Dmytryk, sembra l’epitome emblematica. Ormai, coinvolto nell’ambiguità, quattro anni dopo il regista girerà I giovani leoni, nel quale persino il nazista Brando riuscirà a essere buono e sensibile, però sempre in divisa a ricordarci da dove viene e che razza di gente è abituato a frequentare. Opera incerta come il suo regista dopo il crollo davanti agli uomini di McCarthy, I giovani leoni avrà negli anni seguenti il beneficio di due sole opere superiori, L’uomo che non sapeva amare (1963) e il western Ultima notte a Warlock (1959). Nessuna meraviglia. Quando diciamo che il melodramma degli anni Cinquanta è un genere che riesce a tenere alta la sua dignità intendiamo il miglior melodramma, quello che viene dalla direzione dei migliori registi del campo. Non bisogna infatti dimenticare che questi anni contano, per fare un esempio, lo scempio operato da Anthony Mann (regista tutt’altro che disprezzabile in altri ambiti d’operazione) su Serenata (1956), romanzo di James Cain a torto ritenuto minore, qui edulcorato dal moralismo hollywoodiano che non poteva tollerare il fine riferimento omosessuale del testo. Il volontario travisamento di opere letterarie a Hollywood, del resto, è cosa di sempre, e in mano a registi capaci (anche se in periodo non felice quanto a questo genere) come William Wyler può dare cose delicate come La legge del Signore (1956) che, pur più “comico” dell’originale romanzo di Jessamyn West (che collaborò alla sceneggiatura), mantiene un’invidiabile sicurezza sia tecnica che psicologica. Piace chiudere con l’unico film melodrammatico di un grande maestro che, specializzato nella commedia, ha però dato al cinema anche opere di estrema serietà (e in fondo proprio le sue commedie sono forse le sue cose più serie): L’asso nella manica (1951) di Billy Wilder, un’opera che meriterebbe un posto a parte, tanto acuta da non essere realmente classificabile. L’asso nella manica ha già in sé tutto quello che avverrà non solo nel cinema ma anche nella vita americana di lì a vent’anni. Nella turpe storia della creazione di un caso giornalistico a spese di un poveraccio che alla fine ne sarà vittima per il piacere della folla, per la sua curiosità malsana, per la sua insensibilità animale, per la sua stupida mediocrità è già compresa tutta la critica alla “società dello spettacolo” sviluppata nei tardi anni Sessanta in Europa. Pellicola di estrema perfidia, tanto sottile da insinuarsi nelle pieghe più nascoste del calcolo bieco del suo protagonista, L’asso nella manica è visualmente una vera sonda. La macchina da presa entra dappertutto (o meglio, dà quest’impressione), scivola entro cunicoli, spia da fessure, passa per fori sotto tonnellate di roccia. La prepotenza dell’idea disumana del protagonista prende forma nelle ricorrente ripresa ravvicinata da un angolo basso ma non tanto da rischiare di celebrarlo nel suo cinismo. Poi, al momento opportuno, si alza nell’aria a mostrare il “grande carnevale” che gli insetti umani si godono sulla pelle del disgraziato intrappolato sotto terra. Persino la donna, usuale bersaglio dell’acido wilderiano, è migliore del protagonista maschile del film («l’ve seen some hard-boiled eggs in my life, but you, you’re a twenty minutes»), forse il personaggio più spregevole dell’intera, ricchissima galleria del viennese. L’asso nella manica è senza dubbio un melodramma nonostante l’assenza di ogni “impedimento amoroso” (a meno che non si voglia intendere in questi termini l’impossibilità d’amore che Wilder predica); solo che è un melodramma osservato dalla parte del villain, una specie di Riccardo III nel quale però la misera fine alla battaglia di Bosworth suona appiccicata per compiacere il solito peloso moralismo hollywoodiano. La morte del giornalista è così
incredibile da diventare quasi comica. Il cinismo degli anni Cinquanta si era ormai così mostruosamente sviluppato da far sembrare la giustizia ridicola.
9. Terre indiane e altri personaggi al tramonto Fenin e Everson parlano giustamente di un western del dopoguerra23 perché il declino del genere (declino inteso come decadenza non del suo successo presso il pubblico ma delle vigorose componenti che lo avevano in precedenza qualificato) comincia a farsi vedere già da quegli anni. È però vero che i Cinquanta svilupparono in modo evidente una serie di segnali che non potevano essere fraintesi e che si proposero più forti e incidenti proprio in quel periodo. In fondo, e paradossalmente, la stessa democratizzazione del western è un segno del suo avvio verso il tramonto. Il western era stato un genere democratico soltanto in relazione al sistema di civiltà bianco. Lo sceriffo o il cowboy che lottano per ridurre all’impotenza il perfido bandito e persino il perfido capitalista che sfrutta l’espansione geografica, politica ed economica di una nazione sono eroi democratici sintantoché non incontrano qualcosa che freni tale espansione. Da questo punto di vista l’indiano è peggiore del bandito e dello speculatore. Questi si arricchiscono illegalmente grazie all’espansione, l’indiano invece è la cattiva coscienza di essa. Ciò spiega la sua demonizzazione. Mentre il cattivo bianco è in genere contrassegnato da qualche indicazione esteriore che denota la sua perfidia (un mezzo classico già nel teatro e, come abbiamo detto, anche nel cinema muto), come un particolare trucco che gli scurisca la pelle, gli infoltisca le sopracciglia, gli intorvi lo sguardo e così via, l’indiano è sempre uguale a se stesso: ha i suoi tratti etnici, i paramenti e i vestiti che competono alla sua tribù, ha le sue specifiche usanze e in genere si diversifica dagli altri indiani soltanto per questo. Non è un caso che quando un regista come John Ford vuole mettere in primo piano degli indiani sottolineando la loro particolare bellicosità e ferocia non in un’azione di guerra ma come portamento, atteggiamento e volto, egli ricorra a un qualche attore di chiara origine messicana. L’indiano non ha un volto buono né cattivo, egli non tradisce mai i suoi sentimenti; al più denota fierezza, ma non ferocia. È paradossale anche il fatto che i più noti indiani nella storia del western siano tutti attori bianchi. Certo, vi possono volta a volta esservi specifiche ragioni, ma nell’insieme si tratta proprio dell’incapacità indiana di recitare, di assumere pose, di inventare una mimica che esprima qualcosa che per costume il pellerossa ritiene debba rimanere inespresso. Come si fa a mettere in cattiva luce un nemico, nel bene e nel male, dignitoso come questo? Non si può, evidentemente, e allora ecco Jeff Chandler che assume la parte di Cochise nel film che è d’obbligo citare quando si parla del nuovo orientamento western nei confronti degli indiani: L’amante indiana (1950) di Delmer Daves. Il modello della pellicola di Daves è quello classico virgiliano nel quale il conquistatore straniero (non necessariamente violento) si unisce alla bella nativa (da Didone a Pocahontas) a suggellare sentimentalmente un nuovo status politico. Il tutto, naturalmente, condito da una saporita dose di romanticismo hollywoodiano, assente invece nell’epica classica e, cosa importante, da un’inusitata sensibilità nei confronti dei costumi indiani. Il film di Daves è stato sopravvalutato in conseguenza della sua indubbia importanza storica. Ma aveva il pregio di essere molto chiaro, di parlare direttamente della sua tesi e di farlo con la voce simpatica e la rassicurante presenza di James Stewart. Tutt’altra aria in una pellicola ben più grande, ma nata in fondo dalla stessa atmosfera di revisione: Sentieri selvaggi di John Ford. Su Sentieri selvaggi è stato detto di tutto tranne forse la cosa più ovvia: che è un film indirettamente filo-indiano, o per meglio dire, che i bianchi non vi fanno dopotutto una figura migliore di quella dei barbari Comanche Noyeki. Futterman è un assassino, il messicano un delatore che agisce per denaro (ma pronto alla fuga davanti al pericolo), i giovanotti sono molto impulsivi e tutto sommato non meno sciocchi, gli ufficiali di cavalleria sono poco più che lattanti, e soprattutto Ethan Edwards è uguale a colui cui per anni ha dato la caccia, il crudele capo Scar. La barbarie di Ethan, però, non deve essere intesa come una generica accusa alla società bianca non migliore degli assassini che combatte. Ethan rappresenta qualcos’altro: egli è il vecchio Ovest, una concezione della guerra, dell’onore, della forza, del pionierismo che ormai non è più. E appartiene alla prateria, alle distese selvagge, non a quell’America nuova che in modo meno grandioso ma non meno eroico i piccoli pionieri, i gruppi familiari timorosi ma testardi come i Jorgensen intendono costruire. Sentieri selvaggi è una trenodia alla prima fase della conquista del West, quella della pistola, dei duelli, degli inseguimenti al galoppo, dei berretti di opossum, di Davy Crockett, dei grandi sceriffi e dei grandi fuorilegge, da Wyatt Earp a Jesse James. John Wayne, nella miglior parte della sua carriera, li incarna tutti nel bene e nel male, ama e soffre senza che un segno lo tradisca, calcola stagioni e clima come un animale, mettendosi continuamente nei panni dei pellerossa senza comprendere di essere ormai come loro, una bestia astuta e braccata dalla storia che non scamperà al tramonto dell’Ovest epico in favore di quello civilizzatore (un tema che Ford tratterà con esemplare allegorismo in L’uomo che uccise Liberty Valance).
A guardarlo bene, Sentieri selvaggi si struttura su opposizioni radicali che rimandano tutte al suo significato di fondo. Lo stesso senso della famiglia di Ethan e Martin si nutre di opposti alimenti: il primo attento all’integrità della stirpe e ai valori della cultura bianca, il secondo alla tenerezza dei ricordi, alla dolcezza degli affetti. Di primo acchito Sentieri selvaggi sembra un western non diverso da molti altri: l’epoca, i costumi, le armi, il senso dello spazio, gli indiani, i massacri, la caccia, ecc. Ma a una riflessione attenta esso è così differente, così poco ossequiente ai modi tradizionali del genere. Lo stesso scorrere del tempo e dello spazio (il cambiamento continuo della scenografia) non hanno molto di regolare. I due searchers sembrano essersi allontanati dal pianeta verso lo spazio profondo e ignoto: la lettera che Martin manda alla ragazza giunge dopo anni luce e narra fatti che ormai sono sepolti dai mesi passati fra la sua stesura e il suo arrivo. Come in una comunicazione stellare, è necessario fare mente locale sui tempi e dare alle notizie la giusta collocazione non solo spaziale ma anche psicologica. Sentieri selvaggi è da questo punto di vista un’incursione nell’ignoto, un ignoto che, si badi bene, come sempre si identifica nell’inconscio (quello Scar che, bianco, è il riflesso di noi stessi). E al ritorno la porta che Ethan si chiude dietro restando nella wilderness è quella di una civiltà di cui lui, uomo d’altra epoca, non fa parte. L’America era appartenuta ai combattenti sul campo, agli eroi armati che guardavano alla razza come alla chiave per la sopravvivenza, ma che ora sono ineluttabilmente soppiantati dagli uomini pacifici, dai coloni operosi come Jorgensen, che quando suo figlio è ucciso non monta a cavallo al fianco di Ethan ma resta serio a fumare la pipa sul patio. I tempi sono cambiati ed è la gente come i Jorgensen che prevarrà. Ethan ha esaurito la sua funzione, il western è finito. Rimarranno ancora molte tracce di esso, ma saranno testimonianze di una decadenza implacabile. Cronologicamente a metà fra L’amante indiana e Sentieri selvaggi si situa Non sparare, baciami! (1953) di David Butler, un musical sciocco e zuccheroso, prevedibile e scontato in cui quella che di lì a poco sarebbe diventata la donna di casa di ogni commediola, Doris Day, gorgheggia canzoni sentimentali, riuscendo a romanticizzare in modi kitsch persino la drammaticità delle guerre indiane. Il film vinse l’Oscar per Secret Love, ma la vera canzone rivelatrice è un’altra: Take me back to the Black Hills, The Black Hills of Dakota, To the beautiful Indian country That I love.
Sulle Black Hills stavano i Sioux, una delle nazioni che dettero il maggior filo da torcere alla cavalleria americana. Il Paese era certo bellissimo, ma gli Stati Uniti avevano fatto di tutto perché non fosse più “indiano”. La decadenza risale comunque ad ancor prima, e con film più solidi. Gli amanti della città sepolta (1949) di Raoul Walsh, ad esempio – rifacimento in chiave western di Una pallottola per Roy (1941) dello stesso Walsh – è la miglior esemplificazione del fatto che il western è diventato solo una cornice. In realtà il film è un melodramma non lontano da quelle linee che avevano caratterizzato quest’ultimo genere negli anni Quaranta. Anche qui si respira un destino ineluttabile nelle varie fasi della fuga dei protagonisti, che sembra consacrata al pericolo, alle difficoltà, all’insuccesso. Che questo modello entri in un genere solitamente molto geloso dei suoi tratti primari come il western è indicativo, da un altro versante, che qualcosa sta cambiando. Questo è ovviamente più evidente ancora in Romantico avventuriero (1950) di Henry King, dove il mitico pistolero ripercorre con la mente la propria vita e le gesta in una chiave critica sino a rifiutare, per interposta persona (il figlio), tutto ciò che le sue azioni hanno significato (e implicitamente tutto ciò che il western incarnava per quel che riguarda il suo non poco celebrato mito). A questo proposito, anzi, è bene chiarire quel che a volte ci è sembrato formulato in termini inesatti. La critica francese esaltò oltremodo il noto Il cavaliere della valle solitaria (1953) di George Stevens, indicandolo come uno dei vertici del genere nella sua decade e nell’intera storia del western. Si tratta sicuramente di un’opera non dimenticabile, ma soltanto per la sua sin troppo emergente esemplarità. I volti e i colori dei buoni e dei cattivi, l’olimpica e un po’ triste calma del protagonista, le scontate lezioni morali che egli impartisce al bambino, non poche componenti fanno di quest’opera una sorta di exemplum cristologico non lontano (in ben altra chiave, ovviamente) da Teorema (1968) di Pasolini. Ma è anche vero che tutto vi appare scontato e che la pellicola mantiene il suo fascino grazie ai segni che la qualificano come opera cinquantesca, dotata di ottimi attori, colori, costumi che facilmente identifichiamo in un’epoca ormai divenuta mitica. In certo senso Shane è un eroe cooperiano: anch’egli vaga a metà fra due mondi, fra la civilizzazione e il deserto, e anch’egli non sa decidersi in quale entrare. Di qui, come scrive Campari, la sua malinconia24. È anzi proprio questa a dirci quanto il western stia cambiando. Il Natty di J.F. Cooper non l’avrebbe mai provata, indeciso, sì, ma forte della sua rappresentatività di una condizione del nuovo mondo. È
È strano piuttosto che questo film celebrato anche per la sua bellezza formale sia uscito per volontà della Paramount come una produzione wide screen nonostante fosse stato girato secondo il procedimento regolare: il che significò di conseguenza tagliare drasticamente la base e l’alto dello schermo. Ne uscì una pellicola mutilata, rovinata che la critica definì un capolavoro25. Il cavaliere della valle solitaria è senza dubbio un film mitico, ma non per eventuali strade che esso ha aperto o chiuso. Su questo versante lo è molto più Un dollaro d’onore (1959) di Howard Hawks, che è una vera summa dei luoghi comuni del western e che come tale, si intuisce bene, intende sbarazzarsene, o se si preferisce, rivisitarli per l’ultima volta: e, come dice Marx, dal momento che la storia si sta ripetendo, in chiave di commedia. Un dollaro d’onore non è un film da prendere sul serio nemmeno nei suoi momenti più drammatici (compresa la famosa scena della sputacchiera con Dean Martin). Esso è ben epitomizzato non solo da Walter Brennan (qui nella caratterizzazione più insistita della sua intera carriera), ma anche da Ricky Nelson, diretto magistralmente dal regista, il quale evidentemente non gli ha fatto capire il proprio gioco, lasciando che il giovane cantante recitasse come è chiaro egli aveva sempre pensato si dovesse recitare nei western. La serietà ridicola di Nelson non è imposta – questo lo si avverte subito – ma è proprio quella di un giovane che si ritrova a interpretare un coetaneo pistolero del vecchio West. La sua recitazione, calcata come se fosse fatta per un gioco di società a una festa di compleanno, è esattamente quello che il tipo d’opera conclusiva, definitiva di un genere richiedeva. Non esiste un solo elemento di verosimiglianza in questo film, dall’improbabile unione di John Wayne e Angie Dickinson, alla redenzione psicologicamente non preparata dell’ubriacone Dean Martin. È per questo che esso riesce: perché è tutto falso, esattamente come Hawks intende mostrarci che il western è falso e lo è sempre stato. La differenza col passato è che mentre allora i meccanismi della falsità erano accuratamente nascosti al pubblico, che pure ne conosceva l’esistenza e fingeva di ignorarla, qui essi sono scoperti e, paradosso dei paradossi, se non vi si presta attenzione, quasi non ce ne accorgeremmo tanto ormai siamo abituati alla nostra dose di falso26. Come fumatori che giorno dopo giorno aumentano il loro quoziente di nicotina, la sanità intellettuale della nostra fruizione è stata messa in pericolo dal fascino della vecchia Hollywood. Ed è una specie di nemesi il fatto che proprio Hawks, uno dei suoi più grandi e storici artefici, sia uno di coloro che ci mettono sull’avviso. Leo Braudy, che nel suo ottimo The World in a Frame non mostra particolare sensibilità al western come genere passibile di uno sviluppo e di una decadenza, ha però ampiamente ragione quando afferma: «Il passato americano, per come è usato dal western, ha perciò una doppia natura: è distante nel tempo e tuttavia intimo nella nostra conoscenza delle sue convenzioni e della sua moralità»27. In Un dollaro d’onore le convenzioni diventano così “intime” da apparire per quel che sono: convenzioni. Se L’amante indiana fece piazza pulita di un luogo comune sui pellerossa e se in generale l’involuzione dell’eroe western porta questi ad autoconfinarsi al di fuori dalle istituzioni che diverranno la vera punta di diamante del secondo momento di colonizzazione, è però necessario citare una pellicola seminale per comprendere non tanto il tramonto di una figura, un personaggio, un mito, un modello, un tema, ma di una tradizionale sensibilità nei confronti dell’eroe western in generale: Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinnemann. Il film ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro e non ci dilungheremo su di esso, se non quanto basta per sottolineare a nostra volta la sua connessione con un’atmosfera dell’America di quegli anni. Non pochi critici l’hanno detto: nella scelta morale che s’impone al gruppo sociale e che questo risolve con un diniego timoroso non si può non leggere una precisa allusione al silenzio della maggioranza durante i deprecabili eventi del periodo. L’eroe a questo punto non diventa il solito difensore dei deboli, ma un solitario per necessità che combatte per la propria vita e che mantiene alto il suo personale senso dell’onore affrontando un pericolo da cui potrebbe anche fuggire, ma che, egli sa bene, si ritroverà di fronte prima o poi nel futuro. Bella parabola sulla coscienza e sulla codardia, Mezzogiorno di fuoco, dicevamo, propone un nuovo eroe: non ardito, non sprezzante, non selvaggio, ma un buon borghese, neanche tanto più giovane, con una moglie – importantissimo – che gli si oppone (poco credibile, anzi, il cambiamento d’opinione della donna alla fine), insomma, qualcuno che non è accusato a torto e che deve provare la propria innocenza, ma che al contrario è troppo innocente per avere vicino a sé altre persone. Mezzogiorno di fuoco inaugura una piccola galleria di eroi del genere (primo fra tutti il protagonista dell’ottimo La pistola sepolta, 1956, di Russell Rouse), ma ancor più fa comprendere come sia mutato (o stia mutando) il modo di guardare al cowboy, all’eroe western di un tempo. All’opposto di Gary Cooper sta il John Wayne di Sentieri selvaggi, destinato a scomparire. Si chiederà: ma come? Cooper prende il calesse alla fine e si allontana lasciando per sempre la cittadina dell’Ovest. E dunque, di quale colonizzazione parliamo quando diciamo che dalla prima fase si è passati alla seconda? Il punto è proprio questo: consumato l’eroe classico, disgustato l’eroe onesto e benpensante, nella cittadina rimangono soltanto i codardi, i commercianti, gli affaristi, i piccoli proprietari, i commessi, i banchieri.
Probabilmente non sono disonesti, ma soltanto vigliacchi. Esprimeranno se stessi in un altro modo: manderanno l’avvocato Stoddard a Washington per rappresentarli alla fine di L’uomo che uccise Liberty Valance di Ford. Anche Stoddard, sperabilmente, è un uomo politico onesto, ma la vita la deve a Tom Doniphon, all’uomo che rappresenta l’Ovest che scompare, e peggio, costruirà involontariamente la propria fama su un’impresa che non ha mai compiuto. La leggenda è più forte della realtà, e quando irrompe, come dice Liberty Valance, bisogna stamparla: essa è la verità. Il tramonto del western americano è uno dei capitoli più tristi dell’intera storia di Hollywood. Non perché esso fosse mai stato poi tanto diverso, ma perché, come si diceva, la sua falsità era stata opportunamente celata e convenzionalmente ignorata dal pubblico. Ora non solo il film, non solo il cinema, ma l’intera storia del West viene messa in discussione. La forza e i sacrifici di tanti eroi del passato sono serviti soltanto a costruire un mito il cui destino era di essere prima o poi abbattuto. La rabbia di Marlon Brando in quello straordinario film da lui stesso diretto, I due volti della vendetta (1961), che apre il decennio seguente, cerca invano uno sfogo e va quasi oltre la pellicola stessa: Brando licenziò Kubrick che l’aveva iniziato. La legge – poco importa quale sia il passato di chi la rappresenta – è più forte, l’individuo duro, accigliato, selvaggio non può nulla contro di essa. Invano il pistolero si esercita per riprendere sensibilità alle dita della mano davanti a un oceano che è grande come la sua solitudine, invano egli sopporta tutto dall’amico traditore senza dargli la soddisfazione di un lamento. Non potrà nemmeno ferirlo nella cosa che quello ha più cara, la figlia, perché ci si mette di mezzo l’amore. Una ragazza bruttina doma l’ansia di vendetta di un uomo discutibile ma contro il quale – come dice di sé King Lear – si è peccato molto più di quanto abbia peccato egli stesso. Niente da fare: qui si va oltre il destino, qui è in gioco l’ineluttabilità della storia. Se non di quella che è nei libri, certamente di quella in celluloide. I reali dominatori degli anni Cinquanta sono invece Anthony Mann e Budd Boetticher, che stranamente gli specializzatissimi Fenin e Everson trattano in dieci righe o ignorano completamente. Dominatori non certo perché i loro western siano migliori di quelli appena citati, ma perché essi interpretano bene la nuova atmosfera senza l’ironia di Hawks, la tragedia di Ford, lo sconsolato scetticismo di Brando e di Zinnemann. Anthony Mann offre l’apparenza di un realismo concreto, senza mitologie, un po’ triste nella meditazione che quasi ogni suo protagonista fa sul proprio non sempre edificante passato. Ma la vocazione di Mann è quella di elaborare un Ovest rappresentativo di caratteri umani diversi a confronto. Lo sperone nudo (1952) ha qualcosa di classico nella sua teatralità, che però vive di maestose scenografie naturali. Ecco, Mann riesce a fare teatro anche nelle ampie bellezze naturali dell’America. L’epica si assottiglia sempre più, il dramma psicologico irrompe più forte. Tutto si consuma in occhiate, frasi allusive, sospetti, esortazioni, minacce lanciate da distanze irrisorie; dietro, invece, alberi altissimi, fiumi che ruggiscono, montagne che troneggiano. I protagonisti di Mann sembrano quasi fuori posto, quasi immeritevoli di trovarsi dove sono. Non per il loro passato o il loro carattere, ma perché non comprendono la grandezza della loro occasione di vita. Si può combattere, uccidere, morire, assaltare diligenze o banche, difendere un intero villaggio da scorribande di banditi e indiani, ma sempre attraverso il sentiero dell’epica. Gli eroi manniani sono la versione western di una mentalità – o meglio ancora di una dimensione – borghese di comportamento28. Naturalmente mettono mano alla pistola, bivaccano, cavalcano, ma il rapporto col prossimo non ha nulla di grandioso, a volte è onorevole, a volte meschino, a volte criminale, ma sempre perché è il loro personaggio a esserlo, non la funzione che essi intrattengono con il mondo. Mann è l’artefice di una sorta di western da camera dove paradossalmente non manca la natura né il movimento del viaggio. Tutto è vivace, dinamico: solo i suoi personaggi sembrano non rendersene conto. Giustamente nel suo western si passa da inizi tipo Winchester ’73 (1950), pellicola goldoniana nella struttura (Il ventaglio) e alquanto ariosa nella scenografia – a quel film finale compresso che è Dove la terra scotta (1958), dove il genere finirà nello spazio ristretto e in fondo più adeguato di una capanna, fra muri di legno entro i quali i suoi protagonisti erano dopotutto sempre stati, incapaci di cogliere una bellezza che era davanti ai loro occhi. Da un certo punto di vista il western di Mann è più decadente di quello di Boetticher. I suoi eroi sono gente dal passato vergognoso, la purezza di un tempo è completamente svanita, i fantasmi della colpa tornano regolarmente a ossessionarli sino alla liberazione attraverso l’eliminazione. Un tempo nel West uccidere il nemico cattivo era l’unica via alla civiltà e alla giustizia, alla colonizzazione e alla legge. In Mann è soltanto un percorso mentale, la rivendicazione di un riscatto, la completa rimozione di vere e proprie nevrosi sorte dopo che la coscienza ha incominciato a farsi sentire. Questo, fra l’altro, spiega l’enorme violenza dei suoi film (per l’epoca la ferita alla mano del protagonista in L’uomo di Laramie, 1954, fu una cosa inaudita); non è la violenza della wilderness, del paese senza legge, essa è comparabile soltanto a quella indiana, perché come quella appartiene al dominio dell’inconscio. Tutto questo non si rintraccia in Budd Boetticher. I suoi eroi sono ancora legati al modello tradizionale: sono equilibrati, risoluti, vittime di ingiustizie che sono la sostanza del mondo, ma che tentano di nobilitare quello stesso
mondo reagendo alla malvagità. Da Il cavaliere solitario (1958) a L’albero della vendetta (1959) Boetticher ha fatto un solo grande western (non a caso attori, luoghi e tutto sommato anche trame sono sempre gli stessi), un’opera molto dolente che medita sul concetto di torto e di vendetta, ma soprattutto su come i sentimenti debbano sempre scontrarsi con la violenza e l’irrazionalità. Ma non vi è nulla di oleografico in questo quadro. Il rapporto che stranamente lega sempre l’eroe col villain nei suoi film ci dice che qui non si tratta di esemplari vicende morali sin troppo facili. Silenziosi e discreti, i suoi characters si portano dietro qualcosa che li rende misteriosi, segreti. In Boetticher si evidenzia una mistica dell’eroe western proprio quando il genere è ormai alla fine. Del resto, è una mistica che trova forma convincente anche in aspetti squisitamente formali: i colori, le luci dei suoi film sono così assurdi, irreali, costruiti da far pensare a un’esercitazione teatrale, ma sempre evitando la sensazione del set e dello studio. Boetticher è un caso molto particolare di cineasta che gira non nascondendo la falsità del cinema, ma evitando ogni riferimento scenografico di carattere ricostruttivo. Egli indica la non-verità utilizzando persino scenari naturali. La realtà, anche nel western, comincia a vacillare sotto l’occhio della macchina da presa. Gli eroi non si accorgono più di essa o vi stanno perfettamente armonizzati alla sua impossibilità di verità. L’oceano di Brando sembra quasi dire che la wilderness è dappertutto e che comunque lo spettatore di western non deve meravigliarsi di vedere sullo schermo un’infinita distesa d’acqua non più che un monte, una prateria, un torrente: infatti non cambia nulla, l’Ovest è comunque scomparso. La sua scomparsa, in difetto in questi film, si legge in eccesso in Furia selvaggia (1957) di Arthur Penn. In un Ovest che sembra fatto di case e baracche come macerie bruciate in una luce troppo chiara nei suoi toni di grigio si muove un classico eroe bandito, Billy the Kid. Ma ci accorgiamo subito che questo non è un western, bensì una stilizzazione del genere che la componente psicanalitica e la cultura teatrale del regista contribuiscono a rafforzare in quanto tale. Furia selvaggia ha un titolo italiano assolutamente errato: mai pistolero fu tanto poco selvaggio come questo Paul Newman, sotto al quale sentiamo, sì, fremere un impulso folle e omicida, ma che pure conduce il suo comportamento in modi pacatissimi. Tutta la pellicola è in realtà pacata, certo, ma di quella distensione che è tipica di un mondo teatrale d’avanguardia: accettate le premesse, tutto il resto è persino tranquillizzante. Furia selvaggia, si può dire, è quasi un’anticipazione del western all’italiana: i suoi tempi rarefatti sono un ideale modello per Sergio Leone, che però li riprenderà inserendoli nel suo ipertrofismo, con una manovra che farà perdere loro la carica d’impatto che derivava – appunto – dall’origine teatrale riducendoli a calligrafismo esibizionistico. Le “macerie” di Furia selvaggia sono quelle dell’intero genere. Le cittadine operose, le ampie praterie, i monti scoscesi sono scomparsi. La pistola è in fondo rimasto l’unico segno che il presente ha in comune col passato. Ma la pistola la porta chiunque, un gangster come un astronauta: non solo è cominciata la fine del western, ma anche la dissoluzione dei generi.
10. Duelli nel Pacifico Abbiamo naturalmente parlato dell’Ovest fatto di cowboy, indiani, sceriffi, duelli, ecc., non di quello geografico, che invece prosegue a gonfie vele. Intendiamo dire che l’espansionismo americano continua sempre più nei Cinquanta, sino ad arrivare in Corea, dove troverà un’opposizione così forte da diventare guerra e così tenace da durare anni. Dal 1949 al 1957 molti film bellici girati dagli americani riguardano questa pagina della storia asiatica. In genere non furono pellicole di rilievo: I ponti di Toko-Ri (1955) di Mark Robson ha una sua spettacolarità, ma è opera labile, senza nerbo, più portata a una consistenza melodrammatica che realmente bellica. In ogni caso, il film di guerra di questi anni porta con sé il marchio di altre intenzioni che non quelle, celebrative ed esortative, di qualche anno prima. Se infatti Iwo Jima deserto di fuoco (1949) di Allan Dwan era stato un peana alla classica figura del sottufficiale americano, già Okinawa (1951) di Lewis Milestone è una disagevole testimonianza di caratteri psicotici e comunque psicologicamente non affidabili. Un po’ come sul Caine, gli eroi saranno anche eroi ma a prezzo di un’integrità che pochi anni prima nessuno avrebbe osato discutere e mettere in dubbio29. Naturalmente continuò il vecchio atteggiamento celebrativo (All’inferno e ritorno, 1955, di Jesse Hibbs), ma il pubblico cominciava ad abituarsi a personaggi tormentati, impauriti, ossessionati dagli orrori del combattimento (e, per inciso, tanto più credibili). Così i soldati di Cielo di fuoco (1949) di Henry King non se la passano tanto bene quanto a morale, oppure sono i politici a uscirne come una «galleria di grotteschi personaggi del Campidoglio»30. Ma c’è anche di peggio: per circa vent’anni Hollywood sarà atterrita, allucinata da un’idea che la scuote d’orrore, quella del tradimento. Non il tradimento della spia che decide di fare il proprio tornaconto, non la spia fredda e calcolatrice che ha scelto – quale che ne sia la ragione – di giocare per l’altra parte del campo, ma il tradimento “innocente” del soldato americano costrettovi, del giovane sottoposto a inaudite violenze psicologiche, del combattente vittima di un lavaggio del cervello che ne minerà per
sempre la credibilità personale, umana, professionale e politica. Quest’ultimo ossessivo tema è evidentemente una conseguenza delle isteriche angosce maccartiste: non a caso in Supplizio - Il traditore del campo 5 (1956) di Arnold Laven, Hollywood sente la necessità di porre sotto processo un disgraziato tornato in patria, accusandolo di non aver saputo resistere alla tortura psicologica dei suoi carcerieri. Hollywood però non si rese conto che in realtà il processo imbastito contro il giovane Paul Newman (al suo secondo film) era invece chiaramente un involontario attacco ai metodi della Commissione per le Attività Antiamericane e alle sue violenze psicologiche. Il fronte del silenzio (1957) di Karl Malden fu un’ulteriore bandiera dell’intransigenza anticomunista. La paura del lavaggio del cervello era evidente referente dell’infiltrazione psicologica che il comunismo si supponeva avesse in quegli anni entro i confini del Paese. L’odio ideologico prese perciò forme grottesche, che del resto tutto il mondo occidentale allora conobbe. È anzi estremamente interessante che questo odio portasse gli Stati Uniti ad assumere una posizione capovolta rispetto il nemico d’un tempo, il nazismo. Come dice Kagan, «I primi film bellici americani tendevano a mostrare i nostri ex-nemici come coraggiosi e mal guidati»31, ed effettivamente già i tedeschi della prima guerra mondiale ebbero il privilegio di essere considerati a posteriori degni dell’onore delle armi. Ma dopo tutti gli orrori di cui il nazismo si rese colpevole, dopo i reperti degli alleati ad Auschwitz, dopo il processo di Norimberga, trattare gli hitleriani, le SS e tutti gli altri aguzzini come gentiluomini col senso dell’onore e del fair play era un po’ troppo. Rommel la volpe del deserto (1951) di Henry Hathaway sollevò proteste in tutto il mondo civile. Kagan ha ragione a leggere questa pellicola come “l’ossessione dei Cinquanta nei confronti del comando e della responsabilità in un mondo di scarsa lealtà, una metafora della guerra fredda»32. Ci sembra una interpretazione davvero acuta. Non si tratta cioè soltanto di redimere – come si diceva più sopra – il nemico d’un tempo davanti ai pericoli prospettati da quello odierno, ma di un modo di sentire e di vivere un’epoca difficile, paranoica, angosciata da vuoti di nobiltà, di coraggio, di onestà, di fedeltà a se stessi. In questo modo un po’ tutti i film “filonazisti” del periodo trovano una motivazione più profonda che non un semplice gioco delle parti. Da Gli amanti dei cinque mari (1955) di John Farrow a Duello nell’Atlantico (1957) di Dick Powell il “nobile nazista” diverrà un topos del cinema bellico americano. Ma, come annunciavamo in apertura, la dominante del periodo – se non altro per ragioni di cronaca, di sensazionale attualità – fu la guerra di Corea. Non si trattò di un’occasione per film memorabili (tranne in un caso che vedremo subito), ma di una propaganda di cui gli Stati Uniti avevano forte bisogno, invischiati in uno scenario politico che preannunciava il ben più fatale errore nel sud-est asiatico una quindicina d’anni dopo. Film come Operazione “Z” (1952) di Tay Garnett o Valanga gialla (1952) di Joseph Lewis non avevano particolari meriti artistici: erano solo pellicole di forte sensazione, di esortazione alla durezza non meno di quelle che avevano trattato la guerra contro i nazisti o i giapponesi qualche anno prima. C’era però una differenza: vi si respirava un’aria più stanca, più cinica, più incupita. L’esercito americano in questi film è capace di crudeltà che non avevamo visto sulle spiagge del Pacifico. La durezza americana riflette qui una situazione dello spirito, non un adeguamento ai metodi del nemico. In fondo la motivazione è la stessa: la guerra ai comunisti. Ma è un’America provata dai processi alle streghe e dall’isteria quella che vediamo rappresentata vicariamente dai suoi soldati sullo schermo. Per questo chiunque avesse occhio e mente attenti e scevri da pregiudizio non avrebbe potuto prendere una posizione netta. Da un lato un sistema di vita che l’America non avrebbe mai potuto riconoscere per suo, e anche esempi di strategia, di doppiezza e perfidia politica che certamente non potevano contribuire a un’immagine umana e affidabile dell’Urss; dall’altro una nazione grande e forte che – incredibilmente – si era affidata alle mani di un gruppo di politicanti che nel migliore dei casi erano dei pazzi e degli ossessi. Come sempre in questi casi, spuntò un nome a fungere da cattiva coscienza per tutti. E come sempre in questi casi, vi fu chi sfruttò quel nome a vantaggio della propria sedicente causa. Il nome è Sam Fuller, la causa, naturalmente, è quella anticomunista. Fuller era un uomo troppo colto e intelligente per cadere nelle maglie di una qualsiasi posizione ideologica ufficiale. Tuttavia, è vero che i suoi film bellici del periodo si prestavano bene a essere letti in chiave reazionaria. Corea in fiamme (1951) è un canto spietato e tenerissimo contro la guerra, eppure non c’è critico italiano che a suo tempo non l’abbia preso per un’opera rozzamente anticomunista. La citatissima sequenza del dialogo fra il prigioniero e il soldato negro basterebbe a convincere – se letta senza il paraocchi dell’ideologia – del disgusto per la guerra che questo straordinario uomo di cinema ha saputo portare sullo schermo, senza alcun occhio di riguardo per quell’esercito americano che tanti l’avevano accusato di glorificare33. E quanto a I figli della gloria (1951), pur nella sua diversa scenografia invernale, la pellicola è ancora una visione di frustrazione e di sofferenza. Ma bisogna chiarire: Fuller non è un regista antibellico alla maniera di Renoir e nemmeno di Kubrick. Astratto anch’egli, è anch’egli
esemplare, ma non ha né tradizioni da discutere ed eventualmente da salvare né tesi da dimostrare. La guerra è per lui un fatto emozionale e ciò è tanto più straordinario se si pensa a quanto i suoi film siano icastici34. Della guerra Fuller sente la portata umana, le conseguenze emotive e psicologiche, ma non intende cedere sul fronte della violenza. Vale a dire, non vuole “usare” la violenza per isolarla e additarla a oggetto di rimprovero. Essa c’è, ed è anche oggetto di rimprovero, ma osservata così da vicino che è impossibile compararla a qualunque altro atteggiamento che non sia strettamente legato alla casistica del comportamento bellico. Fuller ha un forte senso del rito (sia esso religioso sia esso laico), e proprio per questo ha un non meno forte senso dell’eternità, che però in un mondo senza più ideali è destinato alla frustrazione, alla morte, o comunque al degrado che usualmente segue le nobili spinte destinate a non trovare sbocco. Non che i suoi protagonisti siano tutti decadenti, aristocratici eroi ormai delusi dalla vita; al contrario, essi incarnano una sorta di eccesso di pragmaticità, di concretezza che in fondo è il modo americano della decadenza per coloro che del sano buon senso frankliniano non erano in origine rappresentativi. Così il buon senso si tramuta in durezza, in cinismo, persino in violenza. Non è dunque soltanto la lotta animale per sopravvivere quella che Fuller mette in scena ma – indotti o innati – la meschinità del cuore, il triste realismo che subentra al sogno. E il sogno è sempre presente nei suoi film, sia pure in maniera tale da sottolinearne l’impossibilità, da Il corridoio della paura (1963) a Il bacio perverso (1964), come vedremo. In questo senso ci sembra troppo duro il giudizio di Caprara sugli eroi fulleriani e su quelli di La porta della Cina (1957) in particolare35. Fuller non si perde certo a raccontarcene le storie individuali, ma è attraverso la sua abilità nella descrizione dei caratteri che ne intuiamo un passato diverso: forse non più felice, ma almeno più innocente. Naturalmente la meschinità del sergente nei confronti della ragazza e del proprio figlioletto è condannabile, ma si intravede in tutti questi personaggi un grado di delusione che, quali che ne siano state le cause, ci induce a comprendere che qualcosa è accaduto. D’altra parte, gli stessi comunisti (o meglio, il loro capo), pur nella durezza e nel senso di pericolo che si portano dietro, sono mostrati capaci di sentimenti e sogni anche più degli altri. Solo una critica rozza può leggere l’antimilitarismo fulleriano, la sua formidabile accusa alla violenza, come il suo contrario. Esattamente come Faulkner, il regista si è sentito attaccare per ciò che descriveva senza che nessuno capisse che quel che mostrava era la forma concreta del suo orrore e del suo disgusto. In un’America che incominciava a celebrare il nemico nazista, la presenza di Fuller è non poco anomala, e la sua riduzione a viscerale anticomunista può in fondo essere letta come un’esorcizzazione nei confronti di un modo allora usuale di sentire il film bellico, di attribuirgli un’ideologia, o quantomeno una tendenza. Fuller, oltretutto, fu anche un maestro del piccolo budget: qualcosa che di lì a poco, in piena crisi hollywoodiana, sarà una via per tentare di salvare il cinema americano, le cui forme di produzione classiche non erano più in grado di far fronte a un mercato in drastico calo. Fuller individualmente, in quanto regista e produttore per la Fox, e alcune altre Case a più alti livelli tentarono di rispondere alla bancarotta dei grandi studios: fallirono, ma la formula della produzione indipendente (viva da sempre, con alterne fortune: già negli anni Trenta si ricordano i nomi di Roach, Wanger, Disney, Goldwyn, ecc.) alla lunga sarebbe risultata vincente. Era però ancora troppo presto: la crisi, pur forte, non era ancora tale da richiedere l’intervento deciso del nuovo corso. Inoltre, non si trattava, come vedremo, soltanto di produttori indipendenti, ma di realizzare film a bassissimo budget che si rivolgessero a un particolare e diverso tipo di pubblico. Era questione di qualche anno: sarebbe toccato a Roger Corman il ruolo di pioniere nel campo del B-movie non poco battuto dalla Hollywood del passato. È peraltro abbastanza strano che proprio un cinema di grandi tematiche come quello bellico si dovesse ritrovare tra i maggiori esempi di serie B. Probabilmente si trattava del fatto che da un lato operavano autori scettici e amari come Fuller, e dall’altro i soliti sacerdoti di un nazionalismo che ormai, dopo il ritorno e il problema dei reduci e dopo le angustie del maccartismo, le paure di compromissione, di censura, di inquisizione (anche nei confronti dei meglio intenzionati), ricopiavano pedissequamente il già visto e il già detto così da non sentirsi in dovere di spenderci sopra più di quanto fosse appena necessario. L’unico regista abbastanza coraggioso da staccarsi dal conformismo e da reagire alla delusione fu Robert Aldrich col suo Prima linea (1957), ancora oggi indicato come un riferimento essenziale dell’antimilitarismo in chiave non di scontentezza, delusione ecc. (Fuller), ma di sistema e politica. Dal sergente Stryker di Iwo Jima si passa ora ai folli e ai criminali che in quello stesso anno Kubrick avrebbe descritto nel classico Orizzonti di gloria (1957), magari ricordando la tappa di follia del già citato Okinawa. Con la differenza che quelli di Aldrich non erano rappresentativi degli organici superiori di qualunque esercito: essi erano decisamente americani, vestivano divise che qualche anno prima Hollywood aveva celebrato con una retorica proverbiale («Ringraziamo la Marina Americana…») e dirigevano le operazioni con sistematica e crudele logica di corruzione e interesse.
Con quel 1957 che vede tre diversi modi di cinema antimilitarista (Kubrick, Fuller, Aldrich) il film bellico conclude in certo senso la sua storia. Pellicole di guerra se ne faranno ancora, naturalmente, ma quello che sul tema c’era da dire era già stato detto tutto, nel bene e nel male. Da quel momento la guerra al cinema, pur continuando a essere ideologia, evidenzierà sempre più la sua qualità di spettacolo: non necessariamente di spettacolarità, ma di racconto che denuncia subito la coscienza della messa in scena. La guerra non sarà più una falsa realtà proiettata sullo schermo, allusiva a qualcosa che direttamente o indirettamente il pubblico aveva conosciuto (magari anche solo attraverso i racconti familiari o i giornali), ma la realtà della falsità, qualcosa di così concreto nei suoi effetti speciali da far dimenticare la stessa ideologia. Un soldato americano che muore nel Pacifico fra i Quaranta e i Cinquanta era ancora la rappresentazione convenzionale di una realtà. Dopo i Cinquanta l’immagine sarà soltanto la rappresentazione di se stessa: da Quella sporca dozzina (1967) di Aldrich a I berretti verdi (1968) di John Wayne fino ad Apocalypse Now (1979) di Francis F. Coppola c’è meno spazio di quanto si creda. Nati da ideologie diverse, girati con diversa tecnica e diverso stile, sono però tutti film che parlano di spettacolo, non di guerra. Perché, pur nella sua tragica continuazione, la guerra è in fondo finita, perché alla distanza si comprenderà bene che il vero vincitore sarà la sua rappresentazione.
11. Finzione della democrazia: il kolossal Scrive Baudrillard in un suo brillante e a tratti discutibile libro di appunti sugli Stati Uniti che l’America è nata per sfuggire alla storia36. La verità dell’affermazione dovrebbe essere temperata da alcune distinzioni. È vero che si tratta di un “azzeramento” della storia, ma non di una fuga. È vero cioè che l’America nasce per ricostruire una strada ripartendo daccapo. Questo comporta una notevole differenza, perché spiega, ad esempio, non solo il fascino che gli Stati Uniti hanno sempre dimostrato di subire da parte della storia europea (antica e moderna), ma anche la loro tendenza a rimaneggiarla, a rileggerla, a reinventarla. Da sempre Hollywood affronta il tema con una dovizia (Griffith, i film di DeMille fra i Venti e i Trenta, ecc.) che è sospetta. Su questa dovizia si è espresso molto bene Michael Wood37 che, fra l’altro, ne individua le origini in una reazione alla televisione (il che però non spiegherebbe la presenza dell’epopea – più genericamente, del film storico – nel cinema muto). Sansone e Dalila (1949) di DeMille, Quo Vadis? (1951) di LeRoy, I dieci Comandamenti (1956) di DeMille, Ben Hur (1959) di Wyler ci sembrano però qualcosa d’altro oltreché un tentativo di risposta alla tv. Sì, come dice Wood, nel kolossal tutto ha il fascino del denaro che si spreca, che si brucia, ma ci sembra sia questa un’attrattiva che il cinema (e non solo quello americano) ha fatto sua senza necessariamente passare per quello specifico genere: si pensi nei Sessanta al caso James Bond. L’immagine della catastrofe, riteniamo, ha ragioni più metafisiche di una pura esibizione di dépense. Essa segna un mondo che, biblico o latino, è comunque a fondamento della storia europea a venire (la diaspora ebraica, la predicazione cristiana, il diritto romano, ecc.) e il disastro che colpisce questo mondo, anche se usualmente mascherato da risposta moralistica del divino agli eccessi atei e corrotti dell’umano, è in realtà la messa in scena e la registrazione di una chiusura di conti con la storia. O almeno con quella storia. È vero che il genere ha inizi italiani, ma del tutto occasionali e non così riccamente, superbamente organizzati in vera e propria tradizione come nel cinema hollywoodiano. Per questo ci sembra inesatto equiparare l’incendio di Roma a quello di Atlanta in Via col vento. L’effetto non è molto diverso d’accordo, ma il senso lo è di sicuro. Nella catastrofe di Fleming l’America vede, bene o male, un momento della propria storia nazionale; in quella dell’urbe solo un mito lontano che in genere gli ordini scolastici statunitensi nemmeno si curano di prendere in considerazione. Diciamo che la cultura della Roma imperiale sta all’attenzione americana più o meno come quella dell’Arabia delle Mille e una notte sta a quella dell’Europa contemporanea: sono fiabe e nient’altro, occasioni per una diegesi accattivante e banalizzata in modelli quasi proverbiali. È certo invitante l’ipotesi woodiana (che è poi anti-weberiana) per cui la prodigalità del puritanesimo d’estrazione protestante è a fondamento di quella con cui sugli schermi dell’epopea si distruggono materiali. E forse ha anche qualcosa di vero. Ma oltre a quella ideologica, insistiamo, c’è una ragione metafisica per questa scelta. Il fatto che essa si riproponga tra la fine dei Quaranta e i Cinquanta trova appunto ragione nella reazione all’insidia della tv di cui si diceva. Ma il genere in quanto tale ha ben altre radici. Allo stesso modo, c’è una parte di verità nell’affermazione di Wood per cui l’epopea reinscena «una versione popolare della nascita del paese»38, ma è anche vero che, per orribili che siano se comparati tecnicamente a quelli americani, anche i film d’ambientazione grecoromana sfornati dall’Italia negli anni Sessanta mettono in scena rivolte popolari (per lo più, come quelle americane, guidate dal solito capo carismatico che a volte, marxianamente, è un esponente illuminato del gruppo oppressore, a volte semplicemente un leader di quello oppresso).
In realtà il kolossal è la rappresentazione del solito mito d’oppressione e di lotta per la libertà che va dal western al film bellico dal melodramma al noir. La vera, grande differenza è che qui sono, nominalmente, di scena le masse. Il detective combatte da solo contro il grande trust o il potente politicante, il gunman affronta da solo i ricchi allevatori o i prepotenti banditi, il manipolo di marine attacca postazioni nemiche cento volte più forti; nel kolossal invece le masse sono molto più numerose che non gli uomini del potere. Non hanno armi e non hanno educazione politica, per questo serve loro un capo che normalmente ha ben pochi tratti in comune con loro. Lui è bello e forte, loro sono individualmente brutti e deboli, lui è astuto e audace, loro sono sempliciotti e attendono in silenzio il segnale o meglio ancora che qualcuno (lui, appunto) apra il classico portone che conduce al sancta sanctorum del rappresentante del potere. Il sospetto nei confronti della «gente in quanto massa»39 di cui parla Wood è sacrosanto. La cosa strana, anzi, è che a parole le masse sono sacre, tutto si fa per loro e la loro libertà, ma nei fatti esse sono trascurate, emarginate, non solo dai cattivi ma anche dai buoni, che ne usano la forza d’urto solo nel momento decisivo. La rivoluzione, insomma, non è un fatto collettivo, ma è pensata da pochissimi che controllano e manipolano e indirizzano coloro per cui essi sostengono di farla. Non si tratta di abile strategia machiavellica: è una verità insita nelle cose, nei fatti stessi. La grande riscossa democratica del XVIII sec., in fondo, ha portato soltanto a una presenza formale più forte delle masse nel cast della storia. In pratica l’epopea hollywoodiana chiude la porta in faccia al popolo esattamente come, in modo geniale, fa Peter Brook all’inizio della sua edizione televisiva di King Lear. Il popolo continua a non esserci. Solo che si fa finta che ci sia. È esattamente quel che era successo in America negli anni Cinquanta: l’unica differenza è che Mosè non è McCarthy e che al popolo probabilmente vuole davvero bene, anche se, ahimè, la conduzione di tutta la faccenda non ha proprio niente di democratico. Ed è, guarda caso, esattamente quel che è successo a Hollywood per decenni. È quindi paradossale che il cinema americano tenti un’ulteriore carta di rilancio proprio con film che esemplificano e celebrano come democratico il modello sostanzialmente dittatoriale che gli ultimi tycoons hollywoodiani cercavano ancora di imporre a un cinema ormai in pezzi.
12. Dal Tempo storico al Tempo ciclico: le differenze del “nero” Il noir, si ricorderà, era stato un po’ il cinema degli anni Quaranta per antonomasia. I suoi detective disillusi passeggiavano per marciapiedi umidi che, come la loro vita, riflettevano solo pallidamente la realtà che in essi si rispecchiava. La loro grandezza non era nella capacità di risolvere i casi che affrontavano e nemmeno nell’indiscutibile abilità con cui la loro lingua metteva a posto il duro di turno, ma nella tristezza esistenziale che esprimevano, nel disincanto che caratterizzava il loro comportamento, nel sorriso amaro pronto a rispondere a ogni intimidazione e a ogni provocazione. Non tutti i poliziotti del noir di allora erano Philip Marlowe, naturalmente, ma tutti comunque sapevano come muoversi nella “mala”, come ribattere a un big boss e come vivere con una paga miserevole per un mestiere che non ne valeva la metà. Si trattava di personaggi dalla statura morale gigantesca che però all’apparenza non si distinguevano dagli altri, e incarnavano lo spirito dell’America tutta: di quella che era sopravvissuta alla Depressione e che stava assistendo alla tragedia della seconda guerra mondiale. I Cinquanta non furono così grandiosi. Invasi sempre più dal colore, gli schermi statunitensi non potevano ritrovare quell’atmosfera notturna che i Siodmak, gli Hathaway, i Preminger, i Lang avevano saputo dare loro. Gli eroi del noir – quando di eroi si trattava – si erano notevolmente rimpiccioliti, o forse, come diceva la Norma Desmond di Billy Wilder, era lo schermo che era diventato piccolo. Erano certo ancora coraggiosi e duri, come il protagonista di Il grande caldo (1953) di Fritz Lang, ma la loro violenza li denunciava come eroi imperfetti. Lo erano anche i poliziotti di Hammett e Chandler, naturalmente, ma la loro imperfezione coincideva con la loro umanità; era cioè qualcosa di anacronistico che li rendeva eccezionali. La coscienza di essere fuori tempo, di non potersi adattare alla corruzione dell’epoca li portava ad atteggiamenti tanto simpatici quanto sbagliati. In questo senso, essi erano davvero la coscienza del loro tempo. I protagonisti del noir anni Cinquanta, invece, seguono un loro impulso violento, un fine vendicativo, rabbioso, irreprimibile che li porta persino a tradire la fiducia di chi ripone in loro speranza: il Richard Conte di Gardenia Blu (1953) apparentemente non è paragonabile a Glenn Ford nell’altro film di Fritz Lang. È gentile, premuroso, attento, comprensivo: solo, lo è in funzione di un preciso fine, la cattura dell’assassino, mettendo così in pericolo la vita di una innocente. Per i protagonisti del noir anni Cinquanta non esistono più valori morali. Se sono poliziotti la legge li spinge ad atti e comportamenti che sono chiaramente in contrasto con lo spirito di essa. Nel noir anni Quaranta il detective non osservava la legge per individualismo e antiburocratismo; in quello di cui stiamo parlando egli si pone in vero contrasto con essa, lasciando che i suoi più profondi, nascosti, primitivi impulsi abbiano la meglio sulla coscienza che l’ordinamento civile si regge grazie alla legge che egli in qualche modo offende. La riprova che questo impulso irrazionale e violento non trova le sue
origini soltanto nel dolore (ad esempio la morte della moglie in Il grande caldo), ma in qualcosa di più nascosto viene da Pietà per i giusti (1951) di Wyler, nel quale apprendiamo che la durezza inspiegabile con cui Kirk Douglas si comporta deriva da uno shock infantile legato alla figura del padre. La psicanalisi, lo sapevamo, era sulla scena dal decennio precedente, ma prima era soltanto una diffusa curiosità nei confronti degli aspetti non sempre chiari della personalità individuale, mentre oggi è diventata (e non solo nel noir: in fondo lo stesso Dietro lo specchio di Ray è in qualche misura esemplare) l’arma per comprendere i motivi di una temibile asocialità. Non si tratta però di un passo avanti nella diagnostica (e tanto meno nella terapia) di una malattia della società, ma piuttosto di un sintomo che è la personalità a essere cambiata, che i valori non incarnati ma rimpianti da Marlowe non possono, nei Cinquanta, nemmeno più essere oggetto di nostalgia. Il caso più esemplare è quello di Un bacio e una pistola (1955) di Aldrich, un capolavoro riconosciuto a proposito del quale Biskind ha scritto bene: Il film che segnò la fine per il detective privato fu Un bacio e una pistola (1955), l’addio di Robert Aldrich al genere, uno splendido tour de force di pirotecnica stilistica, di atmosfera, e dialogo con il gusto dei migliori scrittori noir: Chandler e Cain, Cornell Woolrich e James Hadley Chase. Ma il contenuto è molto diverso. Mickey Spillane, sul cui libro il film era basato, era una corruzione di questa tradizione, e anche prima che Aldrich mettesse mano al Mike Hammer di Spillane, Hammer era una copia degenere di Marlowe e Spade. Egli aveva la loro durezza senza la loro moralità, una violenza non frenata da un codice personale40.
Al solito, è sempre l’era maccartista a nutrire queste opere. La mancanza di integrità morale e di responsabilità umana di Hammer, come notano sia Everson che Salizzato41, è legata al suo ruolo di anticomunista, che emerge ancor più evidente nei romanzi di Spillane. Tuttavia non è un caso che gli anni Cinquanta contino ben tre pellicole con Hammer, delle quali quella firmata da Aldrich è senza alcun dubbio la più bella e importante. In origine l’oggetto della caccia erano degli stupefacenti, ma poi divenne genialmente qualcosa in relazione all’atomo. Non una bomba, non una formula, non un marchingegno: semplicemente “qualcosa”. L’indefinitezza dell’oggetto della caccia è ciò che rende tanto teso e veloce il film, costruito, molti hanno notato, come un prodotto “nouvelle vague” ante litteram. Non si era mai vista sugli schermi hollywoodiani una struttura del genere: attacchi forsennati, stacchi inattesi, volti disumanizzati in un contesto non espressionistico e non europeizzante, linguaggio crudo, secchezza di gesti e violenza di modi: Un bacio e una pistola è in molti sensi un film unico, o comunque unico per quei tempi. Esso anticipò non soltanto lo sbarazzino atteggiamento tecnico della “nouvelle vague” francese, ma anche l’inusitata durezza del cinema americano dai tardi anni Sessanta in avanti. Non che Aldrich abbia nulla a che fare, poniamo, con Peckinpah: questi lento e calcolato, stremato fino alla stilizzazione del ralenti, quello così accelerato da sembrare casuale, sciatto, trasandato. E invece in Un bacio e una pistola è proprio la forma a diventare – a identificarsi con – il contenuto. È il mondo, è l’America di quegli anni a essere così disattenta, così disinteressata al modo di apparire. Naturalmente l’immagine regna sovrana in una società dello spettacolo, ma sono i suoi terrori (l’atomo, la violenza) a emergere e a invadere il palcoscenico come se non ci fosse più spazio per l’ordine, la tranquillità, la sicurezza. Da questo punto di vista Un bacio e una pistola è l’altra faccia del musical minnelliano, teso verso l’ordine fornito dal sogno perché stanco di una realtà del tutto inadeguata ai desideri (si veda l’esemplare caso di Il pirata). In una società del genere il meno che possa capitare all’eroe del noir è di essere un individualista. Si dirà: certamente, ma lo era anche nei Quaranta. Vero, però l’individualismo noir dei Cinquanta non inscena una delusione ma una scelta di vita. I protagonisti di Fuller, ad esempio, non hanno nulla del romanticismo di un Marlowe. La polizia per il poliziotto e la professione per il detective privato del passato erano un punto di riferimento, un faro nella nebbia della guerra, del dopoguerra e del disincanto che ne venne. Il protagonista del noir anni Cinquanta, come Joe in Il kimono scarlatto (1959) di Fuller fa il suo lavoro perché «gli dà protezione dalle sue confusioni razziali, gli dà un ruolo nel quale egli può sfuggire dai veri imperativi dell’io»42. Non è una questione autoriale, non riguarda solo il cinema di Fuller: il poliziotto di Pietà per i giusti è un altro esempio che parla chiaro. Questo, fra l’altro, spiega anche l’estremo realismo delle pellicole, da La casa di bambù. (1955) ancora di Fuller a un’altra pellicola dove il poliziotto è un violento che si nasconde dietro il distintivo, Sui marciapiedi (1950) di Preminger43. Naturalmente il noir, come abbiamo ormai detto spesso, non è solo questione di guardie e ladri. Alla dissoluzione del detective scettico e integerrimo, che trova probabilmente la sua migliore incarnazione in L’infernale Quinlan (1958) di Orson Welles, un regista che, quanto a dissoluzione, è a monte di qualsiasi discorso la riguardi, fa riscontro un universo noir senza l’immagine dell’autorità, oppure con una sua presenza in eccesso: specificamente, ed esemplificativamente, La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton e Rapporto confidenziale (1955) di Orson Welles (che però, a rigore, è una produzione britannica).
Il capolavoro di Laughton è facilmente leggibile in chiave metaforica, e proprio per questo risparmiamo al lettore ogni interpretazione. Basti la sua qualità fiabesca, la sua natura di falso non poco strana e inusuale in anni di supposta “riscoperta” della realtà. Mentre Hollywood si dibatteva in una crisi che non era solo economica ma che includeva i principi ontologici del suo proprio modo di concepire e descrivere la realtà, un non-regista propone un’opera senza precedenti (e senza epigoni) che fa appello ai terrori più riposti e atavici, che denuncia una “psicologia dell’erranza”, uno sradicamento senza senso del territorio, un’infanzia che pare interminabile come gli incubi che la costellano. Nessun dubbio che La morte corre sul fiume potesse essere fatto solo nei Cinquanta, decade di predicatori pieni d’odio e di sete di possesso, di bambini spauriti, di timori del buio, di vagabondaggi della coscienza, ma anche di un’incerta idea di cinema che lasciava spazio ai tentativi più strani e disparati, alle realizzazioni più audaci, alle fantasie più imprevedibili. Se Laughton fu in qualche modo un regista hollywoodiano in eccesso rispetto ai modelli usuali, Welles, come sempre, lo fu in difetto, a dispetto del conclamato barocchismo del suo cinema. La fine del noir che L’infernale Quinlan rappresenta trova in quel film modi sicuramente antihollywoodiani di concezione del cinema. Si pensi all’idea di piazzare la macchina da presa con un grandangolare sul tetto dell’automobile che corre lungo la strada: un procedimento alquanto ardito che implica l’assenza della persona autoriale al momento della ripresa e che dava nel contempo un carattere di estrema concretezza all’azione. Dopo alcuni anni (una decina) arriverà il travel movie a impiegare tecniche non molto diverse, ma al servizio di un mitologema americano (il viaggio) che immediatamente rivela la corda della sua sostanza ideologica, condizionata e condizionante. Mezzo di ripresa di una realtà pittoresca e invitante, artificio inteso a blandire, resuscitandolo una volta di più, il mito del movimento e della fuga così caro alla cultura americana di sempre, esso si svirilizza e si imbastardisce nei modi sempre uguali della routine, dell’accademia, gradevole sinché si vuole, ma retorica e manieristica. Ecco il cinema americano: la tecnica al servizio dell’ideologia. Ecco il cinema di Welles: l’ideologia della tecnica, ovvero la capacità fantastica di forgiare tecniche al servizio di un cinema che si decentra continuamente e che quindi non è univocamente significante ma informativo. La struttura generale dei film di Welles è in tal senso eloquente: essa è sempre una mancanza, nelle forme di una progressione spezzata, imbrogliata, o in quella, che è lo stesso, del cerchio labirintico, della spirale, del poliedro inafferrabile, non postulabile a una configurazione fissa, magari complessa ma precisa. L’aspetto tecnico, tuttavia, pur essendo centrale alla comprensione del cinema di Welles, e, dialetticamente, dello stesso cinema hollywoodiano, non può far dimenticare che quel grande regista fu l’unico a usare il noir avendo ben chiaro il momento di crisi che il genere viveva ormai sulla via del declino. Non solo in La signora di Shanghai, non solo in L’infernale Quinlan, ma forse ancor più in Rapporto confidenziale, nel quale egli continuò quel discorso sul Tempo a lui così caro, adattandolo, appunto, a una situazione diversa. È innegabile infatti che anche Rapporto confidenziale rientri e addirittura sviluppi la struttura ciclica della temporalità wellesiana. Il film, nel suo tracciato investigativo apparentemente rettilineo, è il tentativo di verificare la possibilità di sospendere il Tempo, di astoricizzare il Passato, di “cancellare la Storia” (sia pure tradotta nella storia personale di un individuo), di tagliar fuori dal flusso del Tempo una certa parte della vita di un uomo. E nel modo più paradossale: richiamando il passato alla vita attraverso l’indagine. Tutto il film è un gigantesco sberleffo al Tempo: il passato ritorna, richiamato da colui che lo vuole eliminare, il modello ciclico viene evocato per essere distrutto. I valori stessi lo richiedono: dirà Arkadin in uno dei suoi affascinanti racconti nel mezzo della festa goyesca al castello che le strane date assurdamente brevi, sulle tombe del suo sogno indicano il tempo in cui dura un’amicizia. I valori, dunque, che sul Tempo potrebbero ergersi vittoriosi (e in Rapporto confidenziale l’amicizia – altro grande tema wellesiano, da Quarto potere a Falstaff, 1966 – di questi valori è il segno emblematico) sono invece, alla resa dei conti, anch’essi facile preda del tempo. Ma in Rapporto confidenziale Welles non si accontenta della struttura usuale, e il film ripete il modello stesso su cui è costruito: per capire la ragione, il perché di quell’aereo che volteggia misteriosamente nel cielo nella sequenza d’apertura bisogna ripercorrere all’indietro il cammino dei fatti che hanno portato all’immagine di quel momento, così come Van Stratten dovrà ripercorrere all’indietro la vita di Arkadin. Il flashback diviene così non tanto banale e gratuito pretesto narrativo, ma fattore fondante della struttura stessa del film, porta aperta su un passato che è la storia di una porta aperta sul passato. Rapporto confidenziale è dunque il flashback di un flashback, la figura ciclica essendone l’unica dimensione strutturale potenzialmente moltiplicabile all’infinito come l’immagine di Bannister davanti agli specchi in La signora di Shanghai. Ma per la prima volta il Tempo ciclico di Welles diviene tragedia soggettiva, in quanto per la prima volta esso diviene la meta di una ricerca, l’oggetto del tentativo umano di realizzarlo per poi distruggerlo. Mentre in Quarto potere esso è un fatto inevitabile perché biologico e naturale, mentre in L’orgoglio degli Amberson esso coinvolge almeno due generazioni che, per quanto diverse fra loro e ugualmente tormentate nei rapporti fra i loro esponenti, ne sono – vincitori o vinti – comunque vittime, mentre in Il processo il tempo è sospeso, bloccato, e come tale esso è tragico
solo in quanto eternizzazione della sconfitta, dello scacco esistenziale, restando però comunque inavvicinabile (proprio perché rarefatto e intangibile) dall’uomo, in Rapporto confdenziale invece esso diventa essenziale elemento di tragedia in quanto termine non modificabile e quindi fattore della sconfitta di chi aveva pensato di poter intervenire su di esso. Rapporto confidenziale insomma è, con l’eccezione di Storia immortale (1967, produzione francese), l’unico film di Welles in cui l’uomo entra direttamente in lotta con il Tempo. La sconfitta è scontata, ma per la prima volta Welles ha mostrato un confronto che negli altri suoi film, pur evidente, non era mai stato così concreto. Non esiste noir, classico o no, che non sia anche un discorso sul Tempo e sulla Storia. I suoi migliori eroi, come il Dedalus di Joyce, vivono la storia come un incubo dal quale vorrebbero svegliarsi, ma la loro quest non è mai inequivocabilmente metafisica. Essa lo diventa perché i loro gesti e le loro scelte ci fanno intuire che dietro all’apparenza c’è qualcos’altro. Ma il realismo della messa in scena, l’ironia corruscata dal dialogo, la scenografia urbana ce li presentano come dei solitari d’altro tempo, degli uomini sopravvissuti a un’epoca. Rapporto confidenziale è invece un confronto fra due concezioni del Tempo, fra una visione storica, parabolica della realtà e un altra ciclica, eternamente iterata. Gli eroi del noir vivono il tempo passivamente, Van Stratten non sa di essergli dietro come un bracco sulla preda e al tempo stesso di esserne inseguito. È il peggio che possa capitare a chi si ritrova alle prese col Tempo: esserne l’inavvertito cercatore e l’altrettanto inavvertito bersaglio, destinato a una lotta impari e segnata dalla sconfitta. Ma, come in Rapporto confidenziale, il noir può prendere spessore metafisico, sostanza di ricerca esistenziale. Tutti i suoi protagonisti erano stati eroi esistenziali, ma nessuno era venuto a contatto col senso stesso dell’esistenza come Van Stratten. Rapporto confidenziale è il punto di fuga dell’intera storia del genere, è l’esemplificazione delle sue radici gotiche, delle sue parentele con la letteratura classica, con la pittura, con la fiaba e con la nozione stessa di avventura. E insieme la riflessione sull’impossibilità di affrontare il Tempo senza uscirne sconfitti. È una lezione che gli Stati Uniti – e Hollywood innanzitutto – stavano imparando a proprie spese. Il cinema americano in particolare sembrava incapace di comprendere che dai Quaranta erano passati ben più che dieci anni: un’intera epoca separava i due momenti, l’America l’aveva vissuta fino in fondo, dietro la propria sicurezza propagandistica, eppure si domandava ancora che cosa fare. La risposta non gliel’avrebbero certamente data gli anni Sessanta, i quali portarono al Paese il più grande shock della sua storia politica novecentesca. 1 Cfr. T.W. Bohn e R.L. Stromgren, op. cit., p. 395. 2 Ibidem. 3 Mi permetto di rimandare, sull’argomento, al mio Il nuovo cinema americano (1967-1975), Marsilio, Venezia, 1985, pp. 191-202. 4 Ivi, pp. 192-93. 5 Cfr. Gordon Gow, Hollywood in the Fifties, Barnes-Zwemmer, New York-London, 1971, p. 37. 6 Un maestro in questo senso fu Alfred Hitchcock, il cui cinema prodotto in sede hollywoodiana trasuda ammiccamenti d’ogni genere, simbolismi sessuali, allusioni osé. Tutta la fascinazione esercitata, ad esempio, da Kim Novak su James Stewart in La donna che visse due volte (1958) non ha senso se non si coglie nel film la continua serie di scarti significanti: uno per tutti, il risveglio della ragazza a casa del protagonista, nel quale i suoi indumenti intimi appesi ad asciugare lasciano intendere che l’uomo l’ha vista nuda mentre la distendeva nel letto. Ma su Hitchcock, più avanti. 7 Cfr. Richard Hofstadter, The Paranoyd Style in American Politics, 1965, cit. da A. Dowdy, The Films of the Fifties: The American State of Mind, W. Morrow & Co., New York, 1975, p. 159. 8 Molti testi si sono occupati delle innovazioni tecniche più o meno risibili nel cinema degli anni Cinquanta, ma il più divertente è certamente A. Dowdy, The films of the Fifties, cit., pp. 46-59. 9 Cfr. G. Gow, op. cit., p. 168. 10 Cfr. Ermanno Comuzio, George Cukor, La Nuova Italia, Firenze, 1978, p. 76. 11 Cfr. R. Durgnat, op. cit., p. 198. 12 Su questo fondamentale aspetto del musical anni Cinquanta, e del resto sull’intero genere cinematografico, è imperativo rimandare al miglior saggio italiano sull’argomento: Claver Salizzato, Ballare il film, Savelli, Roma, 1982, passim. 13 Come è stato scritto, «quando la Rogers e Astaire non riescono a comunicare attraverso convenzioni di linguaggio che siano socialmente accettabili, essi possono scoprire la verità dei loro sentimenti e la forza della loro invenzione nella danza. Per loro la danza è sempre un atto di scoperta, di improvvisazione, di invenzione in relazione alle mosse dell’altro». Cfr. Harriet e Irving Deer, Musical Comedy: From Performer To Performance, «Journal of Popular Culture», 3, Winter 1978, p. 410. 14 Cfr. Peter Lloyd, Stanley Donen, «The Brighton Film Review», 18, March 1970. 15 Sul musical anni Trenta come evasione dal caos e su quello anni Cinquanta come tentativo di ordine cfr. ancora i Deer, art. cit., p. 418. 16 Come dice bene Thomas Elsaesser, i musical di Minnelli sono costruiti su una «distinzione fra irreale e immaginario». Cfr., di Elsaesser, The American Musical, «The Brighton Film Review» cit., pp. 15-16. 17 Vale la pena, se non altro per il giudizio non poco anticonvenzionale, ricordare qui che un critico americano ha espresso opinioni durissime su Spettacolo di varietà. Cfr. Ethan Mordden, The Hollywood Musical, St. Martin’s Press, New York, 1981, pp. 177 e 189. Del resto, in quelle pagine, nemmeno Un americano a Parigi se la cava meglio. 18 Cfr. Roberto Campari, Il racconto del film: Generi, personaggi, immagini, Laterza, Roma-Bari, 1983, p. 23. 19 È anche vero che a volte il dramma nasce dal malinteso, cioè da eventi che, verificandosi, non si pongono come chiari e distinti e si prestano invece – per i modi in cui sono accaduti – a una diversa interpretazione da quella che effettivamente hanno. È un po’ lo stesso meccanismo che era alla base del concetto di “destino” per come, dicevamo più sopra, gli anni Quaranta l’avevano elaborato nel cinema americano. In fondo l’Ambra di Preminger era stanca vittima di una serie di malintesi, travolta da persone e da eventi più grandi di lei con i quali si era misurata senza comprendere che al di là da essi, e dietro di essi, stava una forza che l’avrebbe sempre e comunque schiacciata. Il malinteso comunque non caratterizza affatto gli anni Cinquanta, periodo, se mai, che vede dominanti le tematiche dell’impedimento amoroso e dello sgretolamento familiare.
20 Rinunciamo a malincuore a un pur breve esame del metodo di trattazione “comico” di componenti melodrammatiche nel cinema americano, ma non possiamo fare a meno di citare opere come Arianna (1957) o L’appartamento (1960) di Billy Wilder (ma il discorso potrebbe estendersi ad altre sue pellicole posteriori e anteriori). Wilder è l’autore che più di ogni altro ha compreso ed esemplificato nella commedia la qualità profondamente drammatica di quell’etica, di quella visione del mondo. 21 Nel melodramma muto, infatti, ci sembra che gli elementi discriminanti siano in gran parte altri: la combinazione di recitazione e primo piano, innanzitutto, nonché i modi tipicamente pesanti (ma funzionalmente articolati) del trucco; poi, è risaputo, la “teatralità” ambientale che la macchina da presa fa ben poco per dissimulare. Comunque è alquanto evidente che nel cinema muto l’articolazione grammatico-sintattica della ripresa si presenta secondo una gamma alquanto ristretta di forme e, quel che più conta, all’interno di tutti i generi (ovviamente con le necessarie differenze: è difficile riscontrare in Giglio infranto i campi lunghi delle scene di massa di Intolerance…); per cui non è del tutto peregrino sostenere, se non una nascita, almeno uno sviluppo dei generi in epoca posteriore. La nascita (o lo sviluppo) dei generi come conseguenza dello sviluppo del processo di produzione, sostenuta anche in tempi non lontani dai soliti “teorici” marxisti d’assalto, è una tesi, quindi, che andrebbe riveduta e corretta dal momento che l’articolazione di un linguaggio complesso fino al punto da permettere la fondazione dei generi non ci sembra necessariamente l’effetto di una causa economica identificabile nell’organizzazione imprenditoriale dell’industria cinematografica hollywoodiana. 22 Emanuela Martini, trattando delle origini del melodramma cinematografico, insiste giustamente sul primissimo piano «inventato da Griffith […] che consente un livello di identificazione emotiva con il personaggio impensabile fino a quel momento». Cfr., della Martini, Il melodramma: È il rombo del cannone o il mio cuore che batte?, Comune di Bologna, s.d., in particolare nel saggio La magnifica ossessione, pp. 1-8. Rimandiamo comunque a questo saggio anche per altri aspetti storici e linguistici che qui non abbiamo trattato. 23 Cfr. G.N. Fenin e W.K. Everson, op. cit., pp. 266-83. 24 Cfr. R. Campari, Western: problemi di tipologia narrativa, cit., p. 60. 25 Cfr. G.N. Fenin e W.K. Everson, op. cit., p. 336. 26 Il tema (o la componente) metalinguistico è sempre stato un piatto forte di Hollywood, ma è significativo che, oltre agli anni fra i Settanta e gli Ottanta, proprio i Cinquanta contino un numero altissimo di pellicole di questo tipo. Prima di tutto le biografie (biopics) Rodolfo Valentino (1951) di Lewis Allen, The Story of Will Rogers (1952) di Michael Curtiz, The Eddie Cantor Story (1953) di Alfred E. Green, La felicità non si compra (1953) di Curtiz, L’uomo dai mille volti (1957) di Joseph Pevney, The Buster Keaton Story (1957) di Sidney Sheldon. Poi le commedie: alcune cose di Abbott & Costello, Primo peccato (1952) di Claude Binyon, Hollywood o morte! (1956) di Frank Tashlin e l’ottimo La bionda esplosiva (1957) ancora di Tashlin. Di musical come Cantando sotto la pioggia si è già detto, di un metawestern come Slim Carter (1957) di Richard Bartlett vale la pena dire ora. In realtà l’atteggiamento metalinguistico è un marchio distintivo che Hollywood si porta dietro da sempre: è piuttosto l’occhio dello spettatore a disincantarsi anno dopo anno fino a leggerlo come tematica e non come trovata scenica o umoristica. Come dice Hegel, la «prima figura». riassume tutte le altre: bisognava solo rendersene conto. 27 Leo Braudy, The World in a Frame, Anchor Book-Doubleday, Garden City-New York, 1976, p. 125. 28 In questo senso non ci sentiamo di condividere completamente il giudizio non poco romantico di Jim Kitses, Horizons West, Thames & Hudson, London, 1969, per il quale la scenografia naturale di Mann «fornisce un correlativo per l’impulso e il conflitto dei suoi personaggi» e che essa punisce «il disordine morale, il comportamento innaturale, esasperato» (pp. 68-69). Kitses può anche avere ragione, ma la natura dell’eroe manniano non viene in genere toccata da questo mondo simbolico. 29 Così, è sin troppo facile leggere nel cinema hollywoodiano del periodo una posizione “centrista”, vale a dire la messa in scena di una tesi progressista e quella esattamente opposta (incarnate da uno o più personaggi), e infine scegliere una terza tesi moderata che medii fra le due. È quel che fa, regolarmente, Peter Biskind, Seeing Is Believing: How Hollywood Taught Us To Stop Worrying and Love the Fifties, Pantheon, New York, 1983, passim, ma soprattutto pp. 250-77. 30 Cfr. Norman Kagan, The War Film, Pyramid, New York, 1974, p. 82. 31 Ivi, p. 93. 32 Ivi, p. 94. 33 Tutt’al più, si può parlare per questi personaggi di «individualismo», come fa anche P. Biskind, op. cit., p. 62. 34 Cfr. Valerio Caprara, Samuel Fuller, La Nuova Italia, Firenze, 1985, p. 44, quando scrive: « I suoi attori perdono vieppiù in tipicità e compongono altorilievi viventi con l’atona fissità delle sculture tombali». 35 Ivi, pp. 62-63. 36 Cfr. Jean Baudrillard, L’America, Feltrinelli, Milano, 1987, passim. 37 Cfr. M. Wood, op. cit., pp. 151-70. 38 Ivi, p. 167. 39 Ivi, p. 169. 40 Cfr. P. Biskind, op. cit., p. 55. 41 Cfr. William K. Everson, The Detective in Film, Citadel, Secaucus 1972, p. 235 e Claver Salizzato, Robert Aldrich, La Nuova Italia, Firenze, 1983, pp. 38-40. 42 Cfr. Nicholas Garnham, Samuel Fuller, Secker & Warburg, London, 1971 p. 48. 43 Garnham ha parole molto precise e convenienti sulla qualità documentaria e in generale “realistica” del cinema di Fuller: ivi, pp. 34-35.
Capitolo quarto GLI ANNI SESSANTA: LA FINE DEL MITO Lo scorso giugno un bambino chiese a un uomo dove se ne stava andando con la sua auto. «A Washington», disse quello. «Perché?» chiese lui. «Per partecipare al funerale del Senatore Kennedy». Il bambino disse, «Ah sì – l’hanno ammazzato di nuovo». Arthur Schlesinger Jr., Violence: America in the Sixties
1. Un autore venuto dal muto: Hitchcock Nella trasformazione che Hollywood vive a partire dagli anni Cinquanta spicca il nome di un regista che non fu tanto innovatore da porsi come punta di diamante del mutamento. Egli anzi obbedì a un’idea molto tradizionale di cinema, ma vi aderì così perfettamente da superare la nozione corrente di quell’arte per divenire un autore a sé: Alfred Hitchcock. Britannico, Hitchcock arrivò a Hollywood nel 1940 e da allora non fece altro che migliorare la sua tecnica. La sua figura meriterebbe ben altra trattazione di quella che intendiamo ora dargli; la sua abilità di regista trova pari soltanto fra i grandi maestri d’ogni tempo. Non è tanto la sua maestria che qui ci interessa, ma il concetto di cinema che si evince dalle sue opere, in particolare nei Cinquanta e nei Sessanta. Paura sul palcoscenico (1950) apre simbolicamente il decennio con una trovata esemplare: un falso flashback. Vi sono cose che si danno da sempre per scontate e un flashback non potrà mai essere altro che la verità. Soggettivo, esso identifica le immagini con la psiche più profonda del personaggio, e quindi la menzogna gli è estranea. Hitchcock, con un colpo da maestro, dimostra che anche le convenzioni più radicate possono essere demolite. Evidentemente sarà meglio non toccarle più, poiché, dopo quella prima volta, continuare una pratica del genere significherebbe far precipitare il cinema intero nel caos. Ma il solo fatto di avere dimostrato che non esiste verità assoluta è importante. In questo caso, poi, lo è particolarmente perché, come dicevamo, si tratta dello scardinamento di una tecnica soggettiva. La voce fuori campo del personaggio racconta dei fatti e l’obiettivo li visualizza per noi. Finché per convenzione siamo certi che ciò che vediamo è la verità, bene; ma se qualcuno, come Hitchcock, arriva e dimostra che non lo è? La risposta a questa domanda può avere molte implicazioni. Una delle più importanti è che il soggetto inteso come fonte di verità è in crisi. Uno dei grandi paradossi del cinema come forma di comunicazione, e conseguentemente come arte, è che in esso la verità viene dal soggettivo e non dal (presunto) oggettivo. Naturalmente non vogliamo dire che la verità deriva dal “soggetto”: non basta evidentemente che un soggetto qualsiasi parli perché noi gli si debba credere. Quel che importa è che una qualsiasi tecnica che si ponga come espressione di un soggetto diventa al cinema per ciò stesso verità. Bene, la tecnica, dimostra Hitchcock, non è affatto una necessaria verità, non ne è affatto il veicolo; al contrario, essa può essere usata per mentire. In questo modo, non solo il soggetto non è di necessità credibile, ma nemmeno il soggettivo; in questo modo si dimostra come nel dopoguerra la mancanza di certezze investe anche domini che fino a quel momento non erano mai stati messi in discussione. Hitchcock è un autore sensibilissimo il quale si fa portatore di qualcosa che in seguito troverà altri modi di espressione, altre vie per comunicare una situazione mentale e morale che solo un improvvido vorrebbe rintracciare nei soggetti, nei temi dei film, e che invece affiora a volte a livelli meno prevedibili ma non meno concreti e significativi. Bisognerà attendere quattro anni perché il maestro riprenda in modo chiaro questo discorso. La finestra sul cortile (1954), film che giustamente molti hanno letto in termini metalinguistici (ovverosia come esercitazione sul cinema), è però anche una finissima riflessione sulla crisi del soggetto, o se si preferisce, del soggettivo. È vero che l’occhio della “camera” ingrandisce la realtà tanto da evidenziare situazioni dubbie e strane (fino al delitto), ma quel che importa ci sembra l’incertezza del visto, la denotazione ambigua dell’osservato. Il soggetto vede ma non ravvede, congettura ma non certifica, la realtà gli appare inquietante e dunque tanto più insopportabile che se fosse sicuramente minacciosa o sanguinosa. Ecco, la comprensione che la realtà non potrà mai dirci ciò che è, perché noi non siamo all’altezza di comprenderla alla visione, è la coscienza che questa pellicola agita. Perché la risposta sia indubbia è necessario che la controparte (la realtà) ci veda e prenda le sue decisioni. Accanto a questo, la scena generale del cortile che a prima vista si presenta come uno split screen – ovvero quella tecnica di visione che proprio in quegli anni andava affermandosi (l’abbiamo già osservata in È sempre bel tempo di Donen) e che corrisponde a una frammentazione della realtà, dunque a un sintomo psicopatologico, non a una più ampia possibilità di visione. Il mondo di Jeff costretto sulla sedia è una serie di piccoli palcoscenici, o meglio, di set entro i quali si svolgono storie decifrabili, certo, ma proposte in modo da offrire la realtà come smembrata, e dunque il proprio punto di vista (angolo d’osservazione), tanto privilegiato quanto confuso. Jeff non è il demiurgo di nulla, ma solo il testimone di una realtà che non riesce (né intende)
saldarsi in un’unica visione. A starci attenti, tutte le “storie” dei vari appartamenti rimandano a un unico tema, quello dell’amore, della sua mancanza, della solitudine che ne deriva, della sua ricerca. La stessa ricerca, dopo altri quattro anni, segnerà la vicenda di Scottie, che avvicinerà due vite (e due morti) della stessa persona in La donna che visse due volte (1958). La vertigine del titolo originale è molto meno connessa a quella che affligge il protagonista che non allo stato di deiezione che lo prostra in seguito alla perdita dell’affetto. Storia d’amore se mai ve ne furono, La donna che visse due volte ci dice quanto il soggetto si sgretoli davanti a una realtà impalpabile come quella dei sentimenti1. Per molti versi, del resto, il cinema di Hitchcock è fatto, prima che di suspense, di storie d’amore. E da sempre. Si prenda nel passato Il caso Paradine (1947). Nella difficile casistica dei film hitchcockiani esso appartiene a un ideale gruppo di cui fanno parte Rebecca - La prima moglie (1940), Il peccato di Lady Considine (1949), Il ladro (1956) e altri ancora. Un gruppo in cui non è tanto importante il tema dell’indagine, né quello dell’azione, ma piuttosto il percorso mentale e morale di almeno uno dei protagonisti davanti a eventi strani o eccezionali connessi alla personale storia di loro stessi o di altri. Chabrol e Rohmer, nella loro celebre monografia sul regista, hanno insistito sull’abiezione dell’avvocato preso d’amore per la propria cliente cogliendo bene il senso profondo del film, che non è, evidentemente, incentrato sulla scoperta della verità in merito all’assassinio del marito, ma alla capacità umana (in questo caso quella dell’avvocato) di negare il proprio sistema di valori tacitamente pretendendo di avere raggiunto la parte più riposta di se stessi. Abiezione. Letteralmente, una deviazione da un percorso. Ma, quel che importa, tale deviazione si concretizza davanti a un’altra deviazione: quella della signora Keane. In certo senso Hitchcock mette in scena un controtransfert: un caso di carattere clinico (non si dice così sia in procedura penale che in psicanalisi?). La prassi non gli è nuova: profondamente interessato alla psicanalisi – da Io ti salverò (1945) a Psyco (1960) – l’autore non si limita a raccontarci una “storia d’amore”, ma intelligentemente comprende che ogni storia d’amore è una storia di malattia mentale, che essa mette in gioco ben più che un rapporto. Anzi, genialmente, come ricordano i due critici francesi, la parola “amore” non è pronunciata una sola volta dai due protagonisti: dunque quel che è in gioco sono profondità psicologiche individuali, in ultima istanza irriducibili l’una all’altra. Il caso Paradine è dunque da questo punto di vista una storia di solitudini nella quale tutti, senza eccezione, tentano in diversi modi approcci impossibili di relazione: non solo l’avvocato con la cliente, ma la moglie dell’avvocato col marito, e anche il giudice con quest’ultima. Non a caso quando la relazione si dimostra possibile – la signora Keane col servitore – essa traligna in delitto e poi in suicidio. Ulteriore intelligenza: il regista non ci permette di vederla in atto, ma ci lascia pur ampiamente intuire quel che lega i due reprobi. Ecco allora che il supposto film su una “belle dame sans merci” si rivela discorso molto più universale: non celebrazione di un mistero ma visione del mondo. Non ci importa ora seguire passo passo le opere del regista, ma notare il progressivo percorso verso la dissoluzione del soggetto all’interno dei modelli apparentemente più regolari e tranquillizzanti. La “normalità” di Norman in Psyco viene ancor più esaltata nella sua condizione patologica dalla presunta normalità di Mark Stevens in Marnie (1964). Nel primo il colpevole ha un atteggiamento insospettabile, e nel secondo anche, con la differenza che è Marnie quella che sembra vittima di una patologia. Nel primo l’assassinio della ladra quasi potrebbe suonare come una punizione moralistica (ancorché crudele e vituperabile), nel secondo l’istinto al furto di Marnie quasi serve a coprire il vero caso patologico del film, Mark. Ora, questo spostamento creato dalle apparenze e la miglior tecnica di destituzione del soggetto: esseri dalla vita mentale a dir poco anomala non vengono trattati come “casi” ma sono anzi altri personaggi a venire presentati con tale qualificazione. La incerta personalità di Norman, l’inseguimento di Mark che tallona Marnie da vicino sino a rivelarsi un voyeur del crimine (che a sua volta trova un pendant proprio nella ragazza la quale, bambina, osservò un’atroce “scena primaria”) sono incertezze del soggetto che, se è per questo, è già possibile ritrovare nel citato Io ti salverò, dove però la fiducia nella psicanalisi (ancorché maneggiata impropriamente come in quel film) così tipica dei Quaranta porta alla “guarigione” di John, laddove in Psyco la galera attende il protagonista e in Marnie – in modo ben peggiore e proprio per questo significativo – il vero psicopatico diventa il mentore della guarigione della ragazza. Non sappiamo (anzi, ne dubitiamo) se, come vuole Norman Holland: Le tecniche formali del cinema mettono per noi in atto modi di trattare il contenuto inconscio. Il taglio di montaggio agisce come spostamento, il flashback come regressione, la sovrapposizione o una dissolvenza come condensazione, e così via2.
E dunque non sappiamo se l’estrema complessità (organizzazione) della tecnica in Hitchcock possa godere di una lettura psicanalitica di questo tipo. Siamo però certi che i film del maestro britannico trapiantato in America contraddicono le affermazioni di Charles Affron sul montaggio nel cinema americano:
I modi di montaggio analitico di Griffith-Ejzenštejn non sparirono dal cinema con l’avvento del sonoro, ma il loro impiego diminuì grandemente, persino nei film di Ejzenštejn. Nel cinema americano la parola “montaggio” fu riservata per le sequenze le cui marcate procedure di taglio resero il pubblico conscio di grandi rappresentazioni di attività, di configurazioni tematiche, di tempo che scorre, di viaggi, di allucinazioni e altri stati di alterazione della coscienza3.
La grandezza di Hitchcock è anche nel mostrare - come Ejzenštejn4 – «what things are doing» più che «what they are»5. Ed è non per nulla comune una sensazione all’uno e all’altro, non importa quale sia il grado di coinvolgimento specificamente richiesto: l’occhio sente il movimento, e lo sente a un punto tale da cessare di porsi ogni domanda sul “che cosa”. Come dice Hitchcock, basta un MacGuffin, un qualunque innesco, un qualunque pretesto, una qualunque occasione, per inverosimile che sia, e il meccanismo funziona da solo. Questa ideale domanda (o forse è meglio dire accettazione) di inverosimiglianza, si obietterà, è quella sottesa a ogni poiesi artistica e a ogni sua fruizione. Vero, ma con la differenza che in Hitchcock la fruizione non è poi tanto diversa da quella di un pubblico che si trovi davanti a una grande organizzazione fantastica e non a una pellicola “realistica”. L’unica richiesta è la consistenza degli elementi che compongono la detection (quando ve n’è una) o di quelli che esemplificano la logica di ogni tappa dell’escalation di paura (quando ve ne sia, perché – a differenza da quanto si dice – non sempre il cinema di Hitchcock “fa paura”). Ma se insistiamo su questi particolari decisivi ci accorgiamo che in fondo anch’essi, pur nella loro consequenzialità, nella loro consistenza, nella loro logica appartengono a un mondo della fantasia e non della verosimiglianza (non parliamo poi della “realtà”). Prendiamo la famosa sequenza della doccia in Psyco. Le cose scritte, fra i molti, da V.F. Perkins6 sono di grande finezza e non crediamo si possa dissentire dalla sua intelligente lettura simbolica. Essa ci introduce in modo agghiacciante in una dimensione di terrore e di sospetto, ci mette in guardia sul luogo e sul film. Da quel momento possiamo aspettarci di tutto in quello che seguirà. Persino di accettare l’improponibile dialogo fra una madre imperiosa e un figlio debole (noi ancora non lo sappiamo bene) che si svolge come un esercizio di ventriloquismo. Sdoppiamento della personalità, va bene, ma nessuno può credere a due voci diverse uscite dalla stessa bocca che altercano con un senso del tempo teatrale improbabile persino se appartenessero davvero a due persone diverse. Il fatto è che Hitchcock ci ha già persuaso che in quel film tutto è possibile, e noi siamo pronti a seguirlo dovunque lui voglia. Questa è la grande arte di un regista. Ma nel suo caso la cosa ha almeno un altro importantissimo risvolto: questo avviene sul versante di una crisi del soggetto. Vale a dire, noi non seguiamo semplicemente Hitchcock in un percorso di dubbia verosimiglianza, ma diveniamo “vittime” di un degrado dell’io. Attenzione: non si tratta solo del fatto che Psyco mette in scena la schizofrenia del protagonista (in questo caso il degrado daterebbe almeno all’introduzione della psicanalisi nei film), ma del fatto che l’autore è riuscito ad avere la nostra accettazione, la nostra sanzione, il nostro assenso su tale condizione patologica. È questo assenso la vera misura del degrado del soggetto. Non solo il malato non sembra malato, ma noi cadiamo nella trappola che è la sua stessa malattia, crediamo alla sua messa in scena, la quale, si noti, è a priori incredibile. Ed è qui che la tecnica del maestro gioca il suo ruolo fondamentale. La sequenza del trasferimento della madre dalla stanza in alto alla cantina, per come fu pensata e realizzata dal regista7, è un gioiello di abilità cinematografica, ma è anche la definitiva sanzione della nostra sconfitta come spettatori e di conseguenza dell’indiscutibilità della crisi del soggetto. Una crisi che in Marnie è leggibile nel gioco psicopatologico fra i due protagonisti: ognuno dei due si rilancia la propria “mancanza”, tutto è come un dialogo fra malati che si scambiano informazioni sul proprio stato. Gli sguardi, i gesti, gli atteggiamenti, le parole stesse sono quelli di due persone “diverse”. Ma, dal punto di vista dello spettatore, il film è un problema. Questo non è, come il di poco precedente David e Lisa (1962) di Frank Perry, una pellicola su due giovani che soffrono di turbe psichiche, ma – dichiaratamente – fra una ragazza con problemi del genere e un uomo “normale” che sembra volerla aiutare. Hitchcock, cioè, gioca su una dichiarazione di principio che un occhio attento non può dimostrare falsa, ma che al tempo stesso sente di non poter nemmeno accettare. L’incertezza, le sfumature, tutto è in scena lì, e noi non sappiamo di quale soggetto si sta parlando, di quale corpo si sta raccontando la storia, quale mente è in osservazione. Noi non sappiamo chi è chi. La rappresentatività di questo grande autore, tuttavia, emerge non solo a questo livello ontologico interno, ma anche in relazione a un’ontologia del cinema. Hitchcock, infatti, come dicevamo all’inizio, riveste particolare importanza nella trasformazione del cinema americano non in quanto avanguardia di esso, e non solo, aggiungiamo ora, per le caratteristiche di cui abbiamo parlato, ma anche per la nozione di cinema che egli nutrì e per i modi in cui l’applicò. Hitchcock era certamente un autore venuto dal muto (e sul rapporto di molto cinema di questo periodo con il muto si dirà più avanti). Le sue scenografie, il suo modo di concepire gli ambienti e l’azione al loro interno testimoniavano di una sensibilità che si era affinata sulla componente visuale8. Questa sensibilità non gli si affievolì mai, e insieme a essa continuò a caratterizzare il suo cinema anche una specie di passione per lo studio, ovvero per la falsità della scenografia. A Hitchcock non interessava
se i suoi sfondi naturali rifatti in cartone fossero verosimili o apparissero realistici; a lui imortava che lo spettatore “sospendesse la incredulità” per il tempo che occorreva alla storia per svilupparsi, proseguire e finire. Solo che, a differenza dai normali registi hollywoodiani, egli non fece mai nulla perché il falso potesse in qualche misura sembrare vero. Esso è in genere così platealmente ricostruito che vien da pensare si tratti di un’operazione intenzionale. Hitchcock, in altre parole, riporta il cinema indietro, alla sua evidente falsità, al suo baracconismo, alla sua stimolazione nei confronti della capacità di sognare. In certo senso egli è imparentabile a quel regista da lui diversissimo che è negli stessi anni Roger Corman, il quale compirà un’operazione simile, anche se diversa nelle implicazioni teoriche. Hitchcock è un maestro della macchina da presa, il suo modo di muoverla, la sua capacità di “pensare” qualsiasi scena in termini cinematografici è certo comune a Corman, ma Hitchcock concepisce la macchina da presa e i suoi movimenti come mezzi per risolvere problemi di sceneggiatura, o anche come aiuti per costruire la tensione in modo più complesso che non quello fornito dal semplice modello narrativo del soggetto. Le due più belle sequenze di Il sipario strappato (1966), opera che non è nemmeno fra le sue più alte, sono costruite con un montaggio strabiliante. La sequenza dell’uccisione del sovietico nella casa di campagna e quella dell’inseguimento nel teatro sono esempi luminosi: la prima di come il cinema sia effettivamente arte del montaggio (l’orrore e la violenza dell’assassinio si percepiscono in modo insostenibile senza che l’omicidio vero e proprio venga visto: la vittima è infatti fuori campo), la seconda di come il cinema non sia semplice arte visuale, ma di come esso sia ormai diventato un ambito d’operazione al quale la musica concorre in modo essenziale (l’intera sequenza è infatti organizzata sui movimenti della musica dell’orchestra allo stesso modo che nel precedente L’uomo che sapeva troppo, 1956). L’importanza che Hitchcock conferisce al set come teatro (e il palcoscenico è uno dei suoi luoghi retorici più cari da Paura sul palcoscenico allo stesso Il sipario strappato) senza alcuna intenzione di gabellare il falso per vero ne fa un precursore di più moderne estetiche. Soprattutto ci fa sentire come, pur nella sua profonda differenza dal cinema hollywoodiano dei generi, egli partecipa – addirittura anticipandola – alla dissoluzione del cinema americano classico che proprio questi anni stanno vivendo. Lo sfaldamento dei luoghi retorici del western, della commedia, del noir, ecc., che comporta una progressiva diminuzione di credibilità nella messa in scena, è condiviso dai film hitchcockiani, anch’essi a priori estranei a ogni interesse in questo senso. Per lo spettatore dell’epoca si trattava ugualmente di convenzioni accettate come tali, ma oggi, dopo diverse esperienze in direzione di nuovi moduli estetici, possiamo dire che anche all’interno di quella comune area le differenziazioni erano forti e in alcuni registi (Hitchcock, appunto) così forti da far pensare a una strana, affascinante operazione in una direzione contraria a quella che per decenni era stata dominante a Hollywood. Dal Kurosawa di Dodes’kaden (1970) al Saura di L’amore stregone (1985) tutto il miglior cinema mondiale si sensibilizzerà su un’onda di sempre maggiore stilizzazione. In Hitchcock i germi di questo mutamento sono reperibili prima ancora che in altri e più intellettualistici autori. Hitchcock in certo senso aveva già superato la ricerca di vérité degli anni fra i Sessanta e i Settanta, la sua lezione teneva già conto di quel che sarebbe venuto dopo. Non era preveggenza: solo l’innata capacità, la straordinaria sensibilità cinematografica di un uomo abituato a vedere attraverso l’obiettivo; dunque, un uomo che non si faceva illusioni sul cinema, sulla sua natura e sulle sue possibilità. Di un uomo che sapeva bene cosa fosse la realtà, e che proprio per questo non si sognava neanche di rendere il cinema “reale”, ma, al contrario, che intendeva rendere cinematografica la realtà. Esattamente quel che stava accadendo da quando il cinema era stato inventato e di cui non molti si erano accorti. A suo modo Hitchcock è anche uno dei padri dell’iperrealismo.
2. La nostalgia: prime avvisaglie Lo spettacolo come realtà, o meglio, la realtà come realizzazione dello spettacolo comincia a sentirsi negli anni Sessanta non tanto al cinema quanto nell’ambito superiore dal quale la realtà è condizionata: la politica. La presidenza di John Fitzgerald Kennedy esalta le caratteristiche di spettacolarizzazione che da sempre hanno governato la politica in America. Kennedy riuscì a vendersi con l’etichetta di una marca prestigiosa: da quel momento qualunque sua iniziativa ebbe il carisma della democrazia e del progresso. Così l’operazione alla Baia dei Porci o, ancor peggio, la preparazione dell’intervento americano in Vietnam non furono lette come pesanti sconfitte e responsabilità, ma la prima come necessaria prova di forza (ancorché fallita) e la seconda come qualcosa di susseguente al suo breve periodo di governo. La figura di Kennedy in sé non ci importa qui molto, e tuttavia essa è centrale per comprendere gran parte del cinema americano a venire (e non solo nei Sessanta). Quale che fosse in realtà il senso profondo della sua presidenza, è però vero che se la leggenda ha la meglio sulla realtà bisogna, come dice John Ford, stampare la leggenda. Kennedy riuscì a infondere a un’America provata dalla guerra fredda una fiducia e un senso di sicurezza come in precedenza soltanto
Roosevelt era riuscito a fare. Kennedy quindi riuscì a impersonare l’emblema di una età dell’oro nella quale ogni americano era ben felice di riconoscersi, dimenticando persino specifici e concreti problemi attuali del Paese. Non a caso risale a questo periodo quella che in seguito diventerà una straripante moda hollywoodiana: la nostalgia. Questo decennio è infatti segnato da un forte numero di film ambientati per lo più attorno agli anni Trenta: da Fango sulle stelle (1960) e Splendore nell’erba (1962) di Elia Kazan a Il figlio di Giuda (1960) di Richard Brooks e Millie (1967) di George Roy Hill, dalla rinascita del gangster film (i titoli sono troppi e non li citeremo) al musical d’epoca (anche qui non c’è che da scegliere in un mazzo ricchissimo) l’attenzione del cinema americano si sposta decisamente sul passato. Che si tratti spesso degli anni Trenta è in fondo comprensibile: l’età di Kennedy è da un punto di vista morale (ma fortunatamente non economico) equivalente alla grande fiducia rooseveltiana, il reinscenamento di un momento di unità e di un senso di fratellanza nazionale come mai il Paese aveva vissuto. Ma perché il passato in generale? Il sospetto è che l’identificazione tra era kennedyana ed era rooseveltiana sia soltanto un paravento per coprire con una spiegazione positiva una situazione la quale era invece non poco preoccupante9. In effetti il ritorno al passato dei Sessanta si divide in due grandi tronconi: uno problematico, drammatico, difficile, violento, ecc., l’altro divertente, grazioso, elegante e desiderabile. Al primo appartengono i grandi melodrammi kazaniani e i gangster film, al secondo le pellicole intrattenitive di carattere musicale o comunque leggero. Dunque, due modi – opposti – di guardare al passato. Quello divertente seguiva le leggi usuali della produzione hollywoodiana, quelle per cui il prodotto da dare al pubblico doveva sempre conformarsi ai desideri di quest’ultimo; quello drammatico rivelava che anche nell’età dell’oro si annidavano, e vistosamente, i germi della violenza e della tragedia. Gli anni Sessanta sono infatti stati, a detta del senatore Church, i più violenti della intera storia americana. Dal Vietnam alle repressioni studentesche all’assassinio Kennedy, il decennio rimarrà nella storia come un momento inaudito di agitazione e ferocia. Non è improbabile dunque che il modo problematico di sentire il passato da parte di Hollywood sia proprio una sorta di metafora del presente, un modo di non parlare di esso ma di far intendere l’atmosfera di incertezza e paura di questi anni. Inoltre se è vero che il passato prepara il presente, mostrarlo anche nei suoi termini più brutali e violenti può apparire come una magnifica lezione di storia, come un’esemplificazione dei rapporti fra ciò che gli Stati Uniti erano stati ed erano, come una lettura teleologica della storia. L’identificazione fra passato e presente, cioè, può anche esser fatta, ma ribaltando il modello, vale a dire non leggendo il passato in chiave di presente, bensì il contrario. Naturalmente nei singoli film è possibile continuare l’usuale lettura. Ad esempio, Il figlio di Giuda potrebbe ben suonare come una perfetta metafora proprio della presidenza Kennedy, col suo eroe populista e pragmatico, concreto e retorico, ma al tempo stesso capace di tramutare un proprio difetto in necessità sociale. Non sono comunque singole letture che ora importano, ma una visione globale della nazione e del suo presente nei modi in cui Hollywood la stava elaborando. La tendenza nostalgica (ma a questo punto l’aggettivo è perlomeno inesatto) è in fondo anche un ripiegamento del presente verso il passato nel tentativo di ritrovarvi quell’identità nazionale che apparentemente Kennedy aveva fornito al Paese ma che, a partire dalla sua scomparsa, si era tragicamente perduta. È vero che questa tendenza era affiorata ancora prima della scomparsa del presidente, ma è non meno vero che il suo mandato durò per così poco tempo che il Paese, faticosamente sulla via d’uscita dalla durezza dei Cinquanta, si ritrovò nella paranoia sessantesca seguita all’attentato. In altre parole, l’America era condannata a una ricerca d’identità che né la storia nè la cronaca le permettevano di compiere. Una ricerca che, dicevamo, non si limita agli anni Trenta come nei film citati e in molti altri – Il buio oltre la siepe (1962) di Robert Mulligan, Questa ragazza è di tutti (1965) di Sydney Pollack, il bellissimo Lo strano mondo di Daisy Clover (1965) ancora di Mulligan – ma che scende al 1917 con Le avventure di un giovane (1962) di Martin Ritt e addirittura ai “gay Nineties”, nell’usuale chiave leggera, in un musical come Hello Dolly (1970) di Gene Kelly. Era una ricerca ormai secolare, ma i Sessanta la affrettarono ulteriormente, la resero frenetica, ossessiva, angosciosa, allucinante. L’America si accorgerà di questa differenza solo qualche anno dopo, e subito tradurrà in cinema la sensazione di allora. Gli anni Settanta iniziali sono marcati da film paranoici, cupi, disperati, dei quali tuttavia un primo assaggio, in chiave non direttamente politica ma ugualmente kafkiana è in Mickey
One (1965) di Arthur Penn, che segue un personaggio disperato il quale tenta di sfuggire a qualcuno che, reale o immaginato, lo ossessiona tanto quanto il Paese è ossessionato dal pensiero di essere in balia di qualcuno che nell’ombra regge i fili di una congiura contro… Contro che cosa? Ecco, questo è il punto. Mentre negli anni Settanta il cinema americano ci farà comprendere senza possibilità di dubbio, che la congiura è contro le istituzioni democratiche, contro la libertà di pensare con la propria testa, contro lo spazio sacro della stampa, ecc., il cinema di questo decennio avverte che qualcosa non funziona, ma non riesce a dare corpo preciso a questa sensazione. A nostra volta in non pochi film del periodo percepiamo che il presente si porta dietro una ferita fresca che la nazione non riesce a sopportare, ma i suoi film denotano uno scarto nei confronti della realtà che non sembra addebitabile ad alcunché: gli inseguitori – se mai esistono – di Mickey non si sa perché siano in caccia, e quanto agli altri meno kafkiani eroi della decade, non è chiaro se essi agiscano per orgoglio, sete di denaro, attaccamento alle tradizioni, impulsi sessuali deviati, insoddisfazione sociale o altro. L’impressione generale è che a sua volta il cinema hollywoodiano intende coprire una realtà. Attraverso lo spostamento cronologico o la sostituzione del problema con un altro problema, la produzione americana sembra, cioè, voler evitare anche la semplice ipotesi che il terrore degli anni Cinquanta, le loro miserie, le loro chiusure, le loro isterie in fondo stavano continuando, in maniera aggiornata, anche nei Sessanta, alimentate da quell’immensa cesura psicologica (ma ovviamente anche politica, morale, ecc.) che fu l’assassinio di Kennedy. Alcuni cineasti coraggiosi infatti proposero, a un pubblico sempre più compromesso con la strategia dello struzzo, delle opere di straordinaria consapevolezza sociale e morale, pellicole in cui non si trattava tanto di maggiore “realismo” rispetto a quelle che abbiamo più sopra citato, bensì di un modo disincantato, duro, spietato, violento di guardare alle cose, senza illusioni e senza eufemismi terapeuticamente fallimentari. Si pensi – e rimaniamo all’inizio dei Sessanta – a La vendetta del gangster (1960) di Sam Fuller. Si pensi al cinismo inaudito di quella pellicola senza precedenti; alla durezza – non minore di quella degli assassini – con cui il protagonista mente a un moribondo, a come l’idea della vendetta ossessioni un personaggio che va ben oltre i suoi connotati individuali per diventare l’immagine senza veli e mistificazioni di una nazione molto diversa dalla sua “immagine pubblica”. Di lì a poco Bacio perverso (1964), sempre di Fuller, suonerà come un’accusa sociale ancora più larga (di un’intera società l’unica persona pulita è una prostituta) e uno dei maggiori cult movie dell’intero cinema americano fornirà il più inquietante affresco allegorico mai visto. In Il corridoio della paura (1963) i ritratti di Freud e Jung che dalla parete dello studio occhieggiano alla scena che ancora non riusciamo a comprendere guardano un’alterazione ormai in atto che si maschera da messa in scena di se stessa. Ogni film fulleriano parte da una simile premessa individuale, dalla patologia di un singolo alla ricerca di una soluzione che, possibile o impossibile, lo porta in un vertiginoso viaggio negli abissi sconosciuti che fondano e sostanziano il pregiudizio, l’ingiustizia, la sopraffazione, la violenza. Il protagonista di Il corridoio della paura in particolare vive una dimensione allucinante che trova la sua miglior resa figurativa nella fotografia di Stanley Cortez, tutta giocata sulla gamma di mille sfumature interne al bianco e nero. Il cinema di Fuller è più di ogni altro sempre e soltanto discorso sull’America: non solo nel senso di una denuncia dei suoi mali, ma soprattutto della cecità, dell’incapacità di avvedersene. Johnny scende nei gironi infernali di una nazione razzista, bellicista, votata alla distruzione atomica e non se ne accorge. Come in Dante, la sua vista è rivolta verso un “malo obietto”, verso l’oggetto sbagliato: egli guarda per non vedere. La sua sanità mentale (che è poi anche metafora di sanità civile) è compromessa molto prima che la fidanzata-sorella, in una straziante scena, abbracci il suo corpo ormai fisso nella rigidità della malattia. Il suo stesso disegno si fonda non solo su una menzogna, ma anche su uno stravolgimento dell’ordine civile (l’incesto) foriero delle più atroci conseguenze cui assisteremo. La morale di Fuller (se di morale si può parlare per un autore così ossessivo) è che, come afferma Marx, chi non capisce la storia è condannato a riviverla. Innegabilmente la pellicola presenta momenti datati, facilità che se potevano passare all’inizio dei Sessanta, certo il pubblico non perdona a più di vent’anni di distanza (la semplificazione del vocabolario psicanalitico, la sequenza delle ninfomani, quella del battello fluviale). Ma ciò non toglie nulla alla grande forza d’impatto di questo film “maledetto”, tentativo audacissimo di sondare il politico attraverso lo psichico. La pioggia torrenziale che si abbatte sul “corridoio” della nazione americana nell’evocazione psicotica della mente perduta del protagonista è un altro diluvio universale che, in piena tradizione biblica (così cara alla cultura americana di sempre), invade un’America incapace persino di capire la propria condizione di violenza e peccato.
3. Il realismo come angoscia L’angoscia americana aveva trovato nei Quaranta un ottimo veicolo nei detective movies, mentre i Cinquanta l’avevano espressa più direttamente nella fantascienza. Con i Sessanta l’angoscia diventa più palpabile, più concreta, acquista la forma della follia, anche se a volte mascherata dal riso isterico della
commedia. Con questo decennio cominciano a farsi sentire le mancanze, da Che fine ha fatto Baby Jane? (1961) di Robert Aldrich a Bunny Lake è scomparsa (1964) di Otto Preminger. Il primo in particolare ha tutte le carte in regola per figurare tra le pellicole più rappresentative della decade. In effetti, da un lato il richiamo metacinematografico, dall’altro l’inaugurazione di un nuovo filone geronto-orrifico e dall’altro ancora il metaforico vuoto cui il titolo stesso allude sono chiavi importanti per la comprensione non tanto di una nuova cinematografia quanto per il seppellimento della vecchia. Ormai non si tratta più di detection ma di vera e propria mancanza. I personaggi di Aldrich ci fanno pensare allo schermo che un tempo essi abitavano e che ora è rimasto vuoto e bianco senza di loro, e la Bunny di Preminger si sospetta addirittura che non sia mai esistita. Ecco, lo stile nevrotico dei Cinquanta sta diventando paranoico (cioè psicotico) nei Sessanta. Pochi anni prima esisteva un interlocutore cui non rispondere o da aggredire con violenza; oggi, anche a volerlo fare, il contraddittorio può avvenire solo davanti a uno specchio, o nel deserto della propria vita. Apparentemente anni vivaci (pur nel momento problematico vissuto da Hollywood), i Sessanta sono invece funerei e definitivi. Il mondo crolla addosso al detective (la solita coscienza del mondo) di Detective’s Story (1966) di Jack Smight, per il quale successo e bastardaggine si equivalgono. Lo scetticismo di Marlowe lascia il posto al cinismo di un’epoca nella quale non solo ogni mito è crollato ma che non ha nemmeno uno schema di riferimento morale, dal momento che la morale è da tempo in fase di transizione e non può dunque fornire alcun sistema cui in qualche modo rifarsi. Una pellicola chiave in questo senso è lo straordinario Senza un attimo di tregua (1967) del britannico John Boorman, un’opera i cui precedenti sono forse rintracciabili nell’eccezionale Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide (1966) di Jean-Pierre Melville. Il gangster duro e individualista uscito dopo anni di carcere non si ritrova nel mondo quotidiano, anche e soprattutto perché la sua etica, i suoi modi, le sue formule di pensiero e di comportamento sono stati superati dai tempi. Non siamo più in un’era che porta nomi e cognomi, il denaro non coincide con un individuo: esso si concretizza in assegni, conti correnti, banche, affari di vario tipo. Nessuno ne è portatore né garante, il Capitale circola indipendentemente da chi lo possiede. Walker – un nome non poco emblematico, allusivo di un continuo passaggio senza sosta – non lo capisce e alla fine si ritrova solo in un penitenziario in disuso, con del denaro che, a portata di mano, gli sfugge e non può raggiungere. Violento e disperato, Senza un attimo di tregua è fra le cose migliori del periodo, una confessione orgogliosa e sfinita di impotenza. Molta critica ha voluto leggere nel forte montaggio che presenta Walker sparare continuativamente verso il letto della moglie (che non c’è ed è già morta) in ralenti un «orgasmic shudder»10; ma a noi sembra che quel momento sottolinei da un lato la determinazione e dall’altro la frustrazione del personaggio, la sua testardaggine di uomo anacronistico, di eroe fuori tempo, incapace di comprendere la propria fine. Quei colpi evidenziano un disagio dell’anima che contrasta certo con i modi spicci dell’uomo, ma che nondimeno ne testimoniano lo spaesamento, il senso di isolamento e di perdita. Il realismo – che trova primamente corpo in Contratto per uccidere (1964) di Don Siegel – è un marchio della decade; ma, in modo non poi tanto paradossale, a esso corrisponde il suo esatto opposto, una visione del mondo colorata e gentile, soffice e sorridente che trova corpo nelle produzioni più diverse eppure più omologhe. Si pensi a tutti i film eufemistici e carezzevoli incentrati attorno a un’inchiesta o a una rapina o a un tema spionistico, da Sciarada (1963) a Arabesque (1966), ambedue di Stanley Donen, da Come rubare un milione di dollari e vivere felici (1966) di William Wyler a Il caso Thomas Crown (1968) di Norman Jewison: alcuni, una versione edulcorata della pungente ironia hitchcockiana, altri, scenario “comico” di pellicole che appena nel decennio precedente avevano fatto fremere non solo il pubblico in sala ma anche la censura, da Giungla d’asfalto di Huston a Rapina a mano armata (1956) di Stanley Kubrick. The Windmills of Your Mind, canzone-Oscar di Il caso Thomas Crown è addirittura un’epitome di queste produzioni e a suo modo dell’intero periodo: dopo l’affare Kennedy, dopo l’impegno in Vietnam, dopo Berkeley e il movimento hippie, il Paese faceva finta di nulla, cullava i sonni dello spettatore medio dicendogli che non c’era nulla da temere, che persino il crimine era una cosa divertente e deliziosamente romantica, che i ladri sono gentiluomini con hobby costosi. Era insomma la morale di Harper rovesciata: il delinquente era come il miliardario, solo che era simpatico, garbato, fine e piacevole. Questa è una decade dei due estremi, e comunque di una sempre maggiore erosione dei generi classici che si ritrovano frammischiati, spurii, impuri, contaminati: la commedia tinge il giallo, il melodramma colora il western, ormai non c’è più spazio per le formule, non è più tempo di modelli. Tutto si può combinare, ogni chimica è possibile, e il cinema hollywoodiano perde proprio quel difetto che era stato la sua più grande forza, il rigore e l’aderenza assoluti alla propria tradizione. Lo zucchero è una costante esattamente come lo è l’amaro: vie di mezzo non ce ne sono, le protagoniste o sono casalinghe o sono prostitute, o Doris Day o la Kelly di Bacio perverso. È però la prima a incarnare i desideri di uomini e donne. Doris Day sogna vicariamente per ogni americano: lavora sodo, fantastica grandi amori, sbava dietro a un visone ma non perde la propria
dignità solo per il denaro: nella sua bruttezza Il visone sulla pelle (1962) di Delbert Mann è un vero classico sessantesco. A guardarlo sembra che i Sessanta non sarebbero mai diventati quello che di lì a poco cominciarono a essere. Ma si osservi il cinquantesco Dieci in amore (1958) di George Seaton. Apparentemente sono due pellicole molto simili; eppure mentre in questa la Day sciorina credi superiori, nell’altro si limita a fare l’impiegata che, come la Pamela di Richardson, sa bene di avere a capitale solo la propria verginità. Mentre i turpi anni Cinquanta avevano almeno una parvenza di fede, il decennio successivo esibirà soltanto il moralismo che nel lassismo dell’epoca avrebbe dovuto far sorridere. E invece è sempre di questi anni la serie dei melodrammi di Delmer Daves che si apre con Scandalo al sole (1959). Forse la nostra ottica è un po’ tarata dagli anni trascorsi, forse che una ragazza rimanga incinta prima del matrimonio è un evento audace per l’apertura del decennio. Ma non dimentichiamo che quel decennio si aprirà ufficialmente un anno dopo con L’appartamento di Billy Wilder, un film di raro coraggio che sotto le vesti della commedia tratta lo scabroso tema della prostituzione professionale, della bassezza per arrivismo in una società clientelare e corrotta, del compromesso più bieco e strisciante. Wilder è uno dei pochissimi registi che anche nei Sessanta resteranno fedeli a se stessi, capace di infilare una gag strepitosa come quella degli spaghetti scolati con la racchetta da tennis in un’opera di insopportabile tristezza, che rinuncia alla visione storica per rinchiudersi entro quattro muri in un Kammerspiel che è metafora del respiro della vita di questi patetici, piccoli peccatori. Mentre Sabrina e Arianna mettevano a fuoco un conflitto di classi, mentre lo stesso Chaplin di Un re a New York (1957), di produzione inglese, trattava arditamente del maccartismo attraverso la classica lente dell’ingenuo che diventa la cattiva coscienza di tutti, finendo nel (ancora) britannico La contessa di Hong Kong (1967) per rinchiudere il suo genio nella cabina di una nave dove, fra Marlon Brando, la procacia della Loren e l’erotismo della situazione sembra quasi di assistere a una versione per famiglie di Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci; mentre insomma la commedia di poco prima denotava spesso interessi più larghi, ora persino la satira contro il comunismo in Uno, due, tre! (1961) di Wilder diventa un ingegnoso gioco teatrale dove a ogni schiocco di dita la scena cambia per lasciare spazio all’insostenibile carico di dialogo che James Cagney regge superbamente. Ciò che la critica non ha mai insistito nel notare, riguardo a questo periodo, è la costruzione “teatrale” dei film: meno eventuali prestiti da Broadway e un maggior rattrappimento degli spazi dell’azione, che peraltro già i Cinquanta avevano conosciuto. Ora, però, non c’è neanche più bisogno di sottolineare “tratto da un’opera teatrale di”, ora anche lo script originale risente – e soprattutto ne risente la regia – di un’implosione di Hollywood: incapace di espandersi secondo i meccanismi di un tempo, la città del cinema si riprogramma con un occhio di riguardo alla televisione a causa di una prassi che diverrà moneta corrente in seguito: la vendita pressoché immediata dei film ai grandi network, e dunque un tipo di riprese che all’origine permettessero una migliore fruizione in televisione. Questo spiega perché su ogni versante di genere il cinema hollywoodiano stia subendo i mutamenti più profondi: dalla Monument Valley fordiana si passa al legno compensato di L’uomo che uccise Liberty Valance, dal musical concepito come tripudio di scenografia si passa al film girato addosso alla star di turno, dal melodramma (genere in sé già alquanto potenzialmente Kammerspiel) di sapore cosmopolita di Perdutamente tua a quello ancora ampio ma provinciale di A casa dopo l’uragano (1960) di Minnelli, o dalle risonanze storico-sociali del citato Splendore nell’erba di Kazan all’intimismo di Strano incontro (1963) e L’ultimo tentativo (1965), ambedue di Mulligan. È un fatto che in questi anni si passi dal respiro della tragedia o dell’epica a quello del quotidiano. Persino in un film così poco “medio” come Mickey One di Penn, nel suo kafkismo, vengono battuti i luoghi specifici di una città non poi molto onirica. Il nostro eroe, cioè, per grandioso (vale a dire, umanamente rappresentativo) che possa essere il suo problema, vive in un mondo di strade aride e di fumosi bar. In altre parole, il quotidiano è ancora una volta entrato nel cinema americano, ma solo per indicare quanto il singolo sia tormentato da problemi inattesi, più grandi di lui, a volte addirittura allucinanti. Non si tratta delle conseguenze sull’immaginario cinematografico da parte di un momento d’inflazione o di una forte ondata reazionaria e censoria; si tratta di un incubo che l’America è condannata a vivere in tanto suo cinema per circa un quindicennio in modi diversi – a volte inequivocabilmente diretti, a volte vagamente allusivi – ma con allarmante continuità.
4. Fantapolitica e altre inquietudini Persino la fantascienza comincia ora a diventare quotidiana, vale a dire che comincia a tentare di unire quei due piani separati che da sempre ne costituivano il fascino. Chi mai poteva realmente credere alla storia di Frankenstein se non in termini di mitologico ammonimento? Nei Sessanta, invece, di mostri americani se ne vedono pochissimi, almeno fra quelli conformi all’iconografia tradizionale. I mostri del periodo sono molto diversi, hanno fattezze umane, parlano la nostra lingua, non celano alcuna identità e hanno sicuramente vissuto l’infanzia e la giovinezza alla stessa nostra maniera,
ricevendo la nostra educazione e sognando i nostri stessi sogni. Eppure c’è qualcosa che li divide da noi. Non è nemmeno questione di ideologia: il cinema hollywoodiano (e la realtà, se è per questo) ha tutta una tradizione di falsi scontri tra repubblicani e democratici uniti da un sincero amore per la nazione. I cattivi di una volta, se mai, erano quelli di Capra che, sì, forse saranno anche stati repubblicani, ma in realtà rappresentavano soltanto se stessi e i propri interessi, reprobi cui il cittadino medio e anonimo la faceva pagare cara. Oggi invece il cittadino assiste allarmato da dietro le tendine della finestra allo svolgersi di un sogno orribile dal quale nessuno lo verrà a svegliare. È un problema interessante e complesso. John F. Kennedy era stato l’unico in grado di risvegliare Mr. Smith dall’incubo, ma, paradosso dei paradossi, proprio lui aveva innescato il congegno e poi era stato eliminato. Il dottor Stranamore (1964) di Stanley Kubrick è la testimonianza – esteticamente superba – di una situazione anomala non soltanto per quel che riguarda la sicurezza mondiale, ma anche, e più sotterraneamente, uno dei grandi miti della politica americana. Il presidente più amato degli americani, l’uomo che ha saputo ridare fiducia al Paese, colui che ha fatto balenare davanti agli occhi della nazione la promessa di un progresso senza indecisioni e la speranza di una pace senza cedimenti fu proprio quello che non solo preparò l’intervento in Vietnam, ma che lasciò la nazione con un sistema di attaccodifesa atomico sensibile come l’ago di una bussola e pronto a esplodere al minimo gesto che fosse al di fuori dall’usuale. Per sofisticato che ne sia l’autore, Il dottor Stranamore è una pellicola che si fonda su un sano atteggiamento popolare: e se un matto si avvicina a uno strumento così delicato come la potenza nucleare, che succederebbe? Come si vede, la tanto decantata identificazione di Kennedy con le masse che l’applaudivano si fondava su un malinteso da parte di queste ultime. Presidente elitario capace però di attrarre il consenso attraverso la sua innegabile carica mondana e nell’insieme un’orchestratissima campagna pubblicitaria, Kennedy riuscì a vendersi così bene come figura carismatica del progressismo americano da vedersi bersagliato (e probabilmente eliminato) dalla destra, la quale – ottusa come al solito – non aveva capito che il presidente della “nuova frontiera” le era meno lontano di quanto sembrava. Come il suo successore Lyndon Johnson, anche Hollywood si ritrovò in eredità un oggetto che scottava e che poteva scoppiare da un momento all’altro: A prova di errore (1964) di Sidney Lumet e Stato d’allarme (1965) di James B. Harris sono solo due altri esempi di una psicosi atomica che, già viva nei Cinquanta, ora stava prendendo la forma precisa di un terrore politico. Da manifestazioni dell’inconscio, l’atomo e la sua potenza erano divenuti concretizzazione di una condizione da apprendisti stregoni, con la differenza che questa volta qualcuno aveva ucciso il mago prima che questi potesse mettere le cose a posto (dato e non concesso che ci sarebbe riuscito). Restava da vedere chi e perché l’aveva eliminato: se si fosse trovato un rapporto fra questa eliminazione e l’incantesimo ancora in atto, Il dottor Stranamore avrebbe perso anche quel côté comico che le platee volentieri gli riconobbero. Il nero e il grottesco fanno presto a diventare tragedia. Il periodo kennedyano segna anche un altro tipo di film pressoché ignoto in precedenza, il genere che si denomina fantapolitico. In esso la fantasticheria abbandona la primaria importanza del referente scientifico e si esercita in un’area strettamente politica. Occasioni per osservare i meccanismi politici americani al lavoro, Tempesta su Washington (1962) di Preminger e L’amaro sapore del potere (1964) di Franklin Schaffner immaginano situazioni di grande tensione interna che però condividono la zona della fantasia soltanto perché inventate. Più caratterizzati in questo senso film come Va’ e uccidi (1962) di Frankenheimer, in cui il tema dell’anticomunismo viene ripreso con grande drammaticità. Quel che conta è però la presenza stessa di questo genere di pellicole, l’attenzione, cioè, che si sta accordando al funzionamento delle istituzioni politiche nazionali. Il passaggio di Kennedy, infatti, segnò anche il mutamento del concetto di politica per il cittadino: ambito d’operazioni segrete e comunque altamente specializzate nel passato, la democraticità del presidente assassinato convinse tutti che in realtà la politica riguardava ogni americano e che quindi era bene conoscerne a fondo pregi e difetti di funzionamento. Pellicole dunque che illudono su una nuova conoscenza della politica e che sono il perfetto specchio dell’illusione democratica kennedyana alle quali fa riscontro quella di Frankenheimer con la sua visione ancora cinquantesca della propaganda comunista a chiarire bene che i modelli ideologici in America sono rimasti gli stessi anche dopo l’apparente rivoluzione dell’inizio anni Sessanta. Va’ e uccidi ha senz’altro questi legami col passato che l’appesantiscono, ma ha anche una qualità interessante; il senso di paranoia che lo pervade, il sospetto, l’allucinazione, la sensazione che la realtà è diversa da come sembra. Si dirà: d’accordo, ma anche questa è, in fondo, un’eredità degli anni Cinquanta. Solo in superficie, però, poiché questa volta si coglie più in fondo qualcosa che trascende il diretto riferimento politico per divenire senso stesso dell’esistenza. Proprio Frankenheimer dirigerà di lì a non molto Operazione diabolica (1966), film estraneo a qualunque componente politica, a qualsiasi riferimento ideologico, e piuttosto riflessione sull’impossibilità di vivere in un mondo che è pronto a fornirti una diversa identità, ma al patto di cancellare per sempre quella precedente. Operazione diabolica non è tanto un film sulla crisi e sulla
dissoluzione dell’individuo, ma sul dilemma stesso di esserci, un’opera sottovalutata che riflette una situazione dello spirito molto più estesa e sentita in quegli anni di quanto non si pensi. Scoprire che il mondo ha due volti e che un intero sistema è in moto dal momento in cui stanchi del primo, si opta per il secondo, cosicché non esiste attimo senza che un occhio estraneo osservi i tuoi eventuali passi falsi, denota un senso di impotenza, di cospirazione e di allucinazione che solo questi anni sono riusciti a esprimere in modo così pervasivo. Dalla delazione maccartista, plateale e melodrammatica, si passa a uno spionaggio sottile che investe la quotidianità dell’individuo per arrivare, dopo poco, al film più emblematico di questa sensazione ormai diventata marchio dell’epoca: un’altra opera sottovalutata, Rapina record a New York (1971) di Lumet, nel quale l’apparato registrativo, da nastri a monitor, percorre tutta la storia sequenza per sequenza, indicando come i protagonisti sono sin dall’inizio segnati da un destino di segreto mancato, di pedinamento e sconfitta (in questo caso, poi, a vantaggio del vero, grande criminale che ne esce pulito e inattaccabile proprio grazie all’involontario, inconsapevole sacrificio degli altri). La differenza con i Cinquanta è, appunto, che qui non c’è nulla di particolarmente drammatico: c’è tensione, naturalmente, ma non incontriamo alcun registro sovracuto di trattazione. Tutto avviene mentre i personaggi si muovono nel modo più normale, compiono i gesti più regolati, dicono le cose più comuni. Anche se la situazione è particolare, la macchina da presa è interessata più alla loro umanità che ai fatti eccezionali di cui sono protagonisti (il ringiovanimento in Frankenheimer, la rapina in Lumet). Insomma come si dirà a più riprese anche in seguito, l’inquietudine che il 1963 aveva portato agli Stati Uniti avrebbe lasciato un forte segno sul cinema (e non solo su quello) per almeno una dozzina d’anni.
5. Western e musical: cala il sipario Per qualche genere, in realtà, il segno rimase indelebile, nel senso che apparve più o meno chiaro quanto alcuni classici tipi di cinema americano erano destinati a estinguersi, come il western e il musical. Il primo, cinema americano per eccellenza, dette gli ultimi colpi di coda con alcune superproduzioni di scarso rilievo: La battaglia di Alamo (1960) di John Wayne, Cimarron (1960) di Anthony Mann, La conquista del West (1963) di Henry Hathaway, John Ford e George Marshall, autocelebrazioni che non a caso furono rispettivamente girate da un grosso attore specializzato, da un regista di western ormai vicino alla fine (remake, peraltro, di un glorioso precedente del 1931) e da una triade di directors con un passato, ma sostenuti soltanto da un discutibile afflato epico ormai tanto fuori tempo da rasentare l’idillio. Stava giungendo l’epoca dei cowboy solitari, alcuni addirittura contemporanei, da Solo sotto le stelle (1962) di David Miller a Hud il selvaggio (1963) di Martin Ritt. Ed è sintomatico che quello che passò per un classico, I magnifici sette (1960) di John Sturges, fosse in realtà la ripresa di un vecchio film di Kurosawa, il maestro giapponese decisamente più americanizzato e influenzato dal cinema statunitense11. Un po’ come sarebbe successo di lì a non molto con lo spaghetti-western, un cinema straniero cresciuto alla scuola americana riuscirà a influenzare la tradizione originaria: segno, quantomeno, di una debolezza radicale di quest’ultima. Cominciano anzi i western comici come La carovana dell’alleluia (1965) di John Sturges (regista principe della crisi del western) e L’infallibile pistolero strabico (1971) di Burt Kennedy: la burla giocata alla maggior forma di immaginario americano non porta bene. Il West si è ridotto al set di L’uomo che uccise Liberty Valance, esemplare e straordinario film, certo, ma lontano dall’usuale iconografia e scenografia western. Più aderenti all’epoca – vale a dire più seri nella comprensione dell’ineluttabilità della fine – opere come Sfida nell’Alta Sierra (1962) di Sam Peckinpah e Costretto a uccidere (1967) di Tom Gries, pellicole crepuscolari da un lato, in qualche modo innovative dall’altro, nel senso che proprio esse apriranno la strada alla revisione cinematografica dei miti dell’Ovest. Profondamente innovativi, invece, i due film di un non fortunato autore, Monte Hellman, usciti nel medesimo anno, il 1966: Le colline blu e La sparatoria. A rigore dovremmo forse parlarne nell’ampio gruppo di pellicole del “nuovo” cinema americano, ma si tratta di film così particolari che la loro ascrivibilità a un qualche ambito si rivela alquanto difficile. Opere decisamente nuove, esse però non rivelano le precise caratteristiche del nuovo western (vero e proprio canto del cigno del genere nei primi anni Settanta). Anomale e metafisiche, astratte e allucinate, sono cose che andrebbero trattate a parte da qualunque altro discorso. Prendiamo ad esempio La sparatoria. Intanto si tratta, come nei non molti film di Hellman, di una produzione indipendente (non per nulla la sua prima pellicola fu girata sotto l’egida di Roger Corman), ma soprattutto il suo approccio al genere western denuncia intenzioni fermamente personali che vale la pena osservare brevemente. Il modello esteriore è classico: un incontro, un ingaggio, una ricerca, una sparatoria. Gli ingredienti sono non meno tipici: un protagonista abbastanza virile, un amico più giovane e ingenuo, una donna
risoluta e misteriosa, un pistolero taciturno e spietato. Ma fin dall’inizio qualcosa non quadra: il paesaggio non è quello usuale, l’arrivo e la proposta della donna sono circondati da un senso di segreto, l’apparizione del killer (nero, come tutti i gunmen che si rispettino, da Lee Van Cleef a Yul Brinner) introduce una nota di ulteriore disagio. L’interrogativo si gonfia sempre più, man mano che l’azione (ma quale azione?) procede. In un deserto degno di Rapacità di Stroheim alcune figure senza storia e senza senso apparente procedono mosse da intenzioni e disegni diversi. Denaro, vendetta, curiosità, caparbietà: tutto è possibile. E in ognuna, tranne che nel pistolero (ma perché, poi, non anche in lui?), si intuisce un dolore, un momento di passato che ha segnato la loro vita conducendoli al punto in cui sono. Dopo le prime battute la macchina da presa è sempre in movimento, studia il bagliore del sole, il tramonto, la notte. Studia sentieri invisibili, tracce impercettibili in un paesaggio senza tempo, in un Ovest senza vestigia di una qualche socialità. La sparatoria è un western metafisico, giocato sulla spoliazione degli elementi storico-sociali del suo mito. È confronto con gli altri solo nella misura in cui è confronto con se stessi. Ma attenzione: non nel senso in cui un Mezzogiorno di fuoco o un La pistola sepolta si propongono come messa alla prova di se stessi attraverso un dialettico rapporto col proprio gruppo sociale. Gli “altri” di questo film sono individui e – quel che conta – difficilmente definibili nella loro umanità specifica. Warren Oates è davvero il protagonista, nel senso che deve confrontarsi con dei fantasmi i quali, in un modo o nell’altro, lo riportano in ultima analisi a se stesso. E dunque, ogni segreto, ogni intenzione, ogni problema è sempre del protagonista, destinato alla fine di questa discesa agli inferi, a misurarsi col proprio “doppio”. Siamo dunque ben lontani dal discorso civile del western anni Cinquanta, dal suo più o meno velato impegno sociale in un’America ormai in pasto alla reazione. Da orizzontale il discorso si fa verticale, scende nei meandri della mente per scoprire non il coraggio e l’onestà, ma l’identità. Un’identità perduta, sdoppiata, strana, che vive della frustrazione della ripetizione nell’errore o semplicemente nell’esperienza. In un’intervista Hellman affermò che la sua intenzione era quella di girare una sorta di nuova versione del mito di Sisifo (si ricordi che nella scena finale Oates sale per un pendio), che per lui grande fascino ha sempre rivestito il tema dell’azione iterata, della ripetizione dell’esperienza. Si vede bene, quindi, che l’Ovest di Hellman non ha nulla di storico, a dispetto del linguaggio del suo dialogo, del tutto perduto nella versione italiana, per il quale l’autore e la sceneggiatrice Adrien Joyce – che avrebbe firmato, fra le altre cose, l’ottimo Cinque pezzi facili (1970) di Bob Rafelson – si sono ispirati ai vari accenti di quell’amalgama di nazionalità che fu effettivamente il West dei tempi d’oro. Esso è il Paese dove si gioca l’ultimo dramma dell’esistenza, e non la solita messa in scena del “Sogno Americano”: una ricerca di se stessi il cui traguardo segna inevitabilmente, come nel mito, la scoperta della propria morte. Anche il lettore che non l’avesse visto e che pure fosse familiare con la tradizione del cinema western americano può comprendere bene da queste poche parole che La sparatoria è un’opera del tutto estranea al western comunemente inteso. Ed è alquanto anacronistico – teneramente anacronistico, a dire il vero – che più o meno negli stessi anni in cui alcuni vecchi maestri giravano ancora vecchi western come Far West (1963) di Raoul Walsh o El Dorado (1967) di Howard Hawks spuntasse un regista come Hellman, nel quale in certo senso era, per dirla con T.S. Eliot, la propria fine e il proprio principio, ma anche autori che avrebbero continuato a fare western come Peckinpah, aprendo non tanto nuove strade quanto piuttosto contribuendo a seppellire quelle vecchie. In maniera diversissima eppure identica, anche il musical discese la china seguendo le indicazioni del periodo. Anche qui infatti si osserva una radicalizzazione dei tipi di produzione. O Hollywood sforna musical di notevole effetto diretti a un pubblico sostanzialmente infantile, oppure riprende il mondo dello spettacolo come tema facendone il protagonista di opere a volte sfarzose, a volte semplicemente colorate, ma sempre in una chiave revivalistica e garbatamente metalinguistica. Il sogno, la realtà alternativa e traslata di Un americano a Parigi o di Spettacolo di varietà non appartengono più al musical americano. Lo stesso Susanna agenzia squillo (1960) sempre di Minnelli, pur nella sua leggerezza, rivela sintomi di preoccupante “realismo”: gli ambienti sono precisi, i momenti di ispirazione fantastica sempre meno. In altre parole, si può anche sognare con il musical ma solo se si è bambini, solo se si lascia un po’ di spazio alle trovate di Mary Poppins (1964) di Robert Stevenson e di Il dottor Dolittle (1967) di Richard Fleischer. Diversamente, bisogna lasciare campo ai suggerimenti broadwayani di My Fair Lady (1964) di George Cukor o ai romanzati biopics tipo Funny Girl (1968) di William Wyler, a loro volta sogni per bambini più grandi, ma non meno puerili. E del resto, lo stesso acclamato Tutti insieme appassionatamente (1965) di Robert Wise sembra un film nato dall’incontro fra la tendenza infantile e la
biografia, anche se non si comprende bene a quale pubblico di bambini esso si rivolge né di chi in realtà narri la biografia. La sensazione è che a Hollywood regni una grossa confusione: agli scenari inventati e truccati di Mary Poppins e alle sequenze d’animazione di Il dottor Dolittle fanno riscontro le Alpi di Wise, con le riprese dall’elicottero che riducono in un baleno l’inquadratura a distanze da cartolina. Finzione e realtà si incrociano senza mai incontrarsi; il luogo privilegiato dell’onirismo, il musical, diventa una terra di nessuno dove tutto accade, e purtroppo accade male12. Fino a che l’America si è ritenuta nel giusto e nel diritto ogni sogno era stato possibile; oggi che le cartoline-precetto vengono bruciate sui campus di mezza nazione qualcuno comincia a ripensarci. Naturalmente qui non si tratta di un “pubblico” genericamente inteso, né di un altro sin troppo ben identificabile; si tratta invece di una sensazione generale, per cui anche coloro che guardavano con riprovazione all’esuberanza delle nuove generazioni, la stessa “maggioranza silenziosa” che in questo periodo comincia ad essere identificata come tale, sente che non è più il caso di fare sogni. Non a caso nel 1967 esce Millie di George Roy Hill, che inizia anche in quest’ambito la voga sempre più vincente della nostalgia (una specialità del suo regista, da La stangata, 1973, a Il temerario, 1975), e due anni dopo quel Sweet Charity (1969) di Bob Fosse che segnerà, pur nei suoi notevoli balletti, una decisa decadenza del genere, un tempo il più puro e familiare e oggi veicolo sempre meno mascherato di erotismo e, a tratti, persino di volgarità13. La sessualità nel musical è come la scoperta del sesso in una bambola, dà fastidio, è inattesa, disturba e preoccupa. Persino nella marcia funebre del genere, il celebrato West Side Story (1961) di Wise, pellicola di incomparabile “realismo” rispetto alla tradizione, la sessualità si esprime solo attraverso la stilizzazione e non la provocatorietà della danza (che è appunto tipica del supposto “nuovo” musical di Fosse, fino a Cabaret, 1971, e All That Jazz, 1979). Non è casuale che a questa inversione di rotta del musical corrisponda, in modi più o meno larvati, l’immissione di un “impegno” di carattere politico (o meglio, sociologico): le minoranze etniche, la vita nei sobborghi metropolitani, il problema della delinquenza giovanile (West Side Story), nientemeno che il nazismo e la crisi della Germania anni Venti (Cabaret), e così via. Il sogno è sfumato, la (supposta) realtà preme alle porte: non sono più gli “eterni del sogno” a essere inscenati, ma lo specifico sociale e storico, quello cioè da cui il reale viene sostanziato, quello che lo marca, lo condiziona, lo tara. Ogni trasformazione onirica ne viene esclusa, il “reale” resta sogno, ovviamente, ma fingendo coscienza della propria realtà e dei suoi problemi. Ecco perché film come quelli citati potenziano gli unici trucchi loro rimasti da utilizzare dopo l’eliminazione dell’onirismo scenografico: si pensi all’uso delle luci in West Side Story (soprattutto nel duello finale, che ricorda, nella luministica, un’altra scena finale infinitamente più “musical” pur senza contare canzoni o danza: quella di Qualcuno verrà di Minnelli, che non per nulla è uno degli specialisti del genere), si pensi all’uso del trucco facciale e dei riferimenti alla luministica espressionista in Cabaret. D’altro canto, basta un’occhiata a musical contemporanei più “tradizionali” per rendersi conto che qui non è semplice questione di eterodossia, ma di un mutamento oggettivo del musical anche in coloro che più vorrebbero rispettarne le regole: si vedano esempi come i già citati Funny Girl e Hello, Dolly. Il primo rientra in una categoria particolare, quella biografica, che meriterebbe un discorso a sé14; il secondo, invece, girato da un esperto come Gene Kelly, è la cartina di tornasole della fine del genere. Tutto vi è rispettato calligraficamente, le grandi scene in campo lungo così come le mossette convenzionali dei ballerini: e tutto ha un sapore di stantio e di insopportabile. Qui, evidentemente, entrano in ballo fattori di gusto difficilmente analizzabili e classificabili. Qui il musical entra dialetticamente a far parte del grande discorso sulla “nuova Hollywood”, su un rinnovamento del cinema americano in termini metalinguistici, della riflessione da alcuni teorizzata e da molti operata sulla tradizione del cinema statunitense che si scopre spettacolo assoluto e che su questo assunto tesse una trama che sfugge a ogni azione operativa la quale non verta su una critica storica e linguistica di quel cinema in direzione figurativa. Ciò a indicare, se non altro, che non c’è nessun colpevole, che il musical è morto per estinzione e non per assassinio.
6. Realtà (transitoriamente) di cartone: la commedia Nella radicale violenza dei Sessanta non meraviglia che la stessa commedia – un genere che col musical aveva sempre condiviso uno statuto di allegra spensieratezza – evolva pian piano verso forme di distruzione che nello spettacolo leggero soltanto il cartoon aveva elaborato prima di allora. Un film antesignano fu nel 1963 Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo di Stanley Kramer, che riprende la vecchia struttura della comica slapstick e vi costruisce attorno un’incredibile trama che ruota su una caccia al tesoro. I protagonisti però sono chiaramente emblematici, rappresentativi di varie fette d’umanità americana, e non a caso vi è messo alla berlina quel mammismo che da sempre sociologi e operatori del settore mediologico hanno indicato come uno dei grandi miti nazionali. Dal culturista alla famigliola, al poliziotto, la rapacità di una società dall’apparenza rispettabile emerge come un’onda inarrestabile e le gag del film, molto spesso visive, rimandano a un cinema che da tempo non è più.
Questo ci porta non solo agli epigoni della pellicola ma anche a un discorso storico-teorico di non poca importanza. Da un lato infatti vediamo comparire operine gradevoli come La grande corsa (1965) di Blake Edwards, che ancora più dell’altra pellicola sembra mutuata da un cartoon (il trucco, la simbologia dei colori, il tipo di recitazione, tutto sembra preso di peso dai cartoni animati). Dall’altro, il rimando al cinema muto è una costante della produzione americana di questi anni, nel senso che in non pochi cineasti del periodo si nota un ritorno sempre più forte all’essenzialità e persino alla tradizione non sofisticata (ma qui in realtà di una sofisticatezza al quadrato) del cinema delle origini. Blake Edwards, ad esempio, è un cineasta per il quale non si darebbe cinema senza rimandi al passato; non certo per una ripresa di vecchie gag, ma perché il suo cinema ha qualcosa di visivo che in tempi moderni soltanto un Tati ha potuto vantare. Il suo Hollywood Party (1968) è un’opera che, a starci attenti, poteva anche rinunciare alla colonna sonora, dal momento che la maggior parte della pellicola è giocata sui gesti e i rapporti fisici che il protagonista intrattiene distruttivamente con gli altri personaggi. Hollywood, intendiamo dire, sta vivendo una regressione verso le proprie scaturigini: prima il discorso sullo spettacolo, poi la ripresa del linguaggio protohollywoodiano. Naturalmente stiamo qui parlando della commedia di autori che, pur non fra i maggiori, conservano un serio impegno artistico, ed escludiamo quindi le commediole di Delbert Mann o Michael Gordon, tutte linde e lustre di una gioia familiare che sembra uscita da un commercial. L’ordine che regna nei film con Doris Day è probabilmente la cosa più mistificante dell’intero cinema americano negli anni Sessanta. Nella sua verità a due dimensioni, nella sua imitazione dei cartoon il cinema di Edwards è paradossalmente molto più realistico. In esso la distruzione regna sovrana; e la distruzione – non dimentichiamolo – è il maggior tratto caratterizzante del decennio (compresi i film britannici della serie James Bond) che aprirà anzi la stura a una tradizione destinata a durare, con le opportune variazioni, sino a oggi. In qualunque direzione i personaggi si muovano, le auto si sfasciano, i letti crollano, le finestre si infrangono, e sempre senza che nessuno si faccia un graffio. Se non si sapesse che La pantera rosa (1964) ha ispirato il cartoon omonimo di Freleng e De Patie posto a sfondo dei titoli di testa, verrebbe da pensare che il film ha imitato l’altro. Una realtà nella quale nessuno si fa male, qualunque cosa accada, può sembrare tutt’altro che preoccupante, e per di più è almeno dai tempi di Walt Disney (e poi dei violentissimi, stupendi prodotti d’animazione della Warner Brothers) che case, ponti, speroni di roccia crollano impunemente per i protagonisti. Ma è proprio questa assenza di conseguenze che ci sembra la più profonda figura della violenza poiché essa permette un’iterazione che, al livello visivo, è quasi una coazione a ripetere per lo spettatore. Paperino, Silvestro o l’ispettore Clouseau vengono regolarmente e iteratamente sommersi da calcinacci e lamiere, le bombe scoppiano loro in mano e enormi pesi ne riducono il corpo a poltiglia che subito riprende l’immagine di sempre e con una scrollata di testa ricomincia le sue avventure (nel caso di Clouseau sono in realtà gli altri a figurare come vittime mentre lui, la causa, nemmeno si accorge dei guai che ha combinato, un po’ come un altro cartoon, Mr. Magoo, nato già nei Cinquanta presso gli studi della United Productions of America di Stephen Bosustow e Leo Salkin). Guarda caso, attori e cartoni animati (ufficialmente sugli schermi almeno dai tempi di Due marinai e una ragazza) li ritroviamo in un’altra commedia dal titolo estremamente in carattere col nostro discorso, Come uccidere vostra moglie (1965) di Richard Quine. Vi sono commedie americane del periodo che si presentano come una specie di manuale che intende insegnare a intraprendere e portare a termine atti normalmente ritenuti criminali. Ma tutto e sempre con un ridanciano ammiccamento. E se proprio di crimine non si tratta, allora è la tranquillità dei luoghi comuni della vita e della mentalità corrente a essere bersagliata, da L’erba del vicino è sempre più verde (1960) di Stanley Donen, dove a confronto sono anche due culture, quella americana e quella britannica, a L’appartamento dello scapolo (1962) di Frank Tashlin. I primi anni Sessanta continuano a essere un momento di trapasso. Se si confronta Colazione da Tiffany (1961) di Edwards con Lo sport preferito dall’uomo (1964) di Hawks le due pellicole sembrano distanti decenni. È vero, la prima è una sophisticated comedy adattata agli anni Sessanta, una piccola follia di timbro newyorkese dove tutto è teso al limite, a un punto tale, cioè, che con un’ulteriore tensione l’omogeneità della pellicola salterebbe. Fiaba moderna, Colazione da Tiffany – come del resto il romanzo di Truman Capote da cui è tratto – coniuga l’immaginazione sudista con la frenesia metropolitana settentrionale attraverso il supporto di luci soffici, colori caldi e attenuati, cercando per ogni via il consenso a una storia che francamente non si presta al successo se non per gli attori non meno morbidi che impiega (Audrey Hepburn, George Peppard) in una sarabanda lieve che del cinema classico non ha assolutamente nulla, a cominciare dal ritmo troppo disteso e descrittivo, del tutto insfruttabile come terreno di gag. Il film di Hawks invece, divertentissimo, è un aggiornamento della vecchia screwball: la donna in caccia cocciuta dell’uomo, la situazione imbarazzante in cui il protagonista viene a trovarsi e che deve affrontare per salvare il posto di lavoro, i malintesi sessuali che ne sorgono, le stupende
metafore che si rincorrono per tutto il film (prima di tutte quella della pesca, del “prendere all’amo”, ecc.), è tutto molto divertente e fine. Ma il colorismo è forte, quasi violento; al lustro Peppard viene sostituito l’imponente Rock Hudson, i paesaggi sono montani, lacustri, belli e fioriti ma anche selvaggiamente naturali. E quel che più conta, nella traslazione dei due generi – sophisticated e screwball – le caratteristiche dell’uno e dell’altro si sono così ampliate da rendere molto più distanti fra loro, come si diceva, i due tipi di film. Fra Susanna e Scandalo a Filadelfia, cioè, vi era meno distanza che fra il film di Hawks e quello di Edwards. Se è quindi vero che a questo periodo data un forte stadio della cosiddetta dissoluzione dei generi, è anche vero che, all’inverso, i generi si distanziano l’uno dall’altro – quando lo fanno – in modo nettissimo. Non per nulla Hawks è un vecchio maestro, un uomo di cinema, cioè, che difficilmente avrebbe potuto assimilarsi alla nuova tendenza, laddove Edwards unge di leggere sfumature drammatiche quella che in ultima analisi intende essere una commedia. La chimica, come si vede, nel cinema americano non funziona sempre con le stesse regole. Dipende, per così dire, anche dall’età dello scienziato; ma a qualunque stadio sia il suo aggiornamento, si può stare certi che l’esperimento riuscirà alla perfezione, anche se basato su tavole e riferimenti che gli orientamenti più moderni ritengono superati. Che la morale di questi anni stia cedendo è cosa inconfutabile. Anzi, è all’incirca dal dopoguerra che la tendenza si rileva, e quel che è peggio, la si rileva in settori normalmente estranei a rinvenimenti del genere, come appunto la commedia. Il gioco fra screwball e sophisticated era stato un continuo celare e mostrare, che il famoso tête à tête in Mancia competente sintetizza benissimo. Dopo la guerra, dopo il maccartismo e dopo Kennedy non sono più i ladri a mentire e nemmeno i giovanotti di promettente avvenire come i commessi di Scrivimi fermo posta. Con i Sessanta è addirittura il turno dei delinquenti travestiti da brave persone: l’avvocato di Non per soldi… ma per denaro (1966) di Billy Wilder ne è una quasi grottesca epitome, ma anche l’incredibile scambio nella notte brava di Baciami, stupido (1964), altro centro wilderiano. Certo, è facile con Wilder, un moralista che a ogni film ha costruito un tempio alla menzogna, ce l’ha fatta adorare attraverso irresistibili battute e poi ci ha silenziosamente ricordato di che stoffa era fatto ciò di cui avevamo riso. Ma Wilder, dicevamo, è un moralista. Più andante, per fare nomi, il Gene Kelly di Una guida per l’uomo sposato (1967), dove alcuni mariti fanno i salti mortali per nascondere alle mogli le loro scappatelle. Da La fidanzata di tutti (1955) di Charles Walters, esercitazione broadwayana su un single in opposizione al bravo marito suburbano, si passa dunque, per così dire, all’adulterio di massa, e sempre con un sorriso sulle labbra, sempre con un lieto fine che ci fa comprendere non quanto fosse falsa tutta la divertente (divertente?) storia che abbiamo appena visto, ma quella Hollywood che non ha il coraggio di rimanere coerente con le sue premesse. Hollywood cioè sente chiaro il cambiamento di costume che stava investendo l’America; sente che in un’epoca incerta è pressoché inevitabile che i valori del passato incomincino a cedere; registra dunque il mutamento, riducendolo, nella commedia, ai termini specifici del genere (battute, trovate, gag, risa, paradossi, situazioni-limite, ecc.) per poi concludere che, sì, tutti hanno imparato qualcosa dall’esperienza e in particolare che è sempre meglio rimanere come si era. Solo che il mondo – e l’America in particolare – non è così. Wilder l’ha dimostrato stupendamente, addirittura fingendo di accettare i moduli moralistici di Hollywood: «la gente più è grande, più è generosais», dice il protagonista di Baciami, stupido, non sapendo quel che realmente è successo e dunque involontariamente negando le proprie stesse parole. Come scrive John Steinbeck, è piuttosto dai poveri che si deve andare quando si ha bisogno. Ma Hollywood queste equazioni non le conosce e non le sa fare. Nel suo mondo i conti tornano sempre sulla base di leggi fisiche e matematiche che con la realtà non c’entrano. In particolare negli anni Sessanta, uno dei periodi nei quali più che mai la realtà si era fatta sentire. Hollywood non l’aveva ancora intesa bene: nel momento in cui capirà, comprenderà anche che la realtà può sembrare un incubo. Per ora è soltanto un sogno dove, come nei cartoon, non ci si può fare male e dove qualunque peccato e tradimento viene perdonato con uno sguardo contrito e un abbraccio appena al di là dalla parola “Fine”.
7. Metamorfosi del film bellico Gli anni Sessanta dettero la stura alla violenza anche in modi meno indiretti. Il solo film bellico sarebbe sufficiente a testimoniare di un’atmosfera che era molto cambiata rispetto gli anni precedenti. Anche Iwo Jima deserto di fuoco e i film di Sam Fuller erano stati alquanto violenti, ma ora la violenza si tinge di un sadismo che eccede la psicologia personale e che ammicca verso lo spettatore per farlo partecipe di un modo di sentire che nel passato era stato relegato nelle zone più cupe e detestabili dell’inconscio. Mentre all’inizio la decade si contraddistinse per superproduzioni affrescali che evidentemente intendevano pateticamente riconquistare un mercato ormai votato, come diremo più avanti, alla piccola produzione, in seguito, almeno in parte, le cose cambiarono. Il giorno più lungo di Andrew Marton, Bernhard Wicki e Ken Annakin è del 1962 e I cannoni di Navarone di J. Lee Thompson è del 1961,
mentre alla seconda metà del periodo appartengono opere come Patton, generale d’acciaio (1969) di Franklin Schaffner e Quelli della “San Pablo” (1966) di Robert Wise. In queste o si celebrava una tensione vissuta minuto per minuto senza la distanziazione fornita dalla storia e dall’intreccio degli eventi, esibendo una forte componente sanguinosa, oppure si teorizzava addirittura sulla durezza del soldato, animale da guerra incapace delle mosse politiche giuste per fare carriera, e in ultima analisi glorificando il credo omicida del lanzichenecco15. Altri addirittura, come I berretti verdi (1968) di John Wayne, celebrarono le gesta americane in Vietnam sfidando la regola, di cui si diceva, per cui era preferibile evitare di filmare la storia nel momento in cui era ancora materia di cronaca. Ma il film in questo senso più importante fu Quella sporca dozzina che si pose, come altre opere di Aldrich, a capostipite di un genere, o meglio, di un rinnovamento del genere. Anche nel film bellico infatti assistiamo all’usuale formarsi di una netta opposizione ideologicostrutturale: da un lato quel cinema si radicalizza assumendo e sviluppando vieppiù le caratteristiche di violenza di un tempo, dall’altro si intellettualizza preferendo alcuni registi porre il confronto col nemico in termini alquanto astratti, come una lotta tra civiltà e barbarie che può essere combattuta su un terreno di confronto di valori e non solo di cannoni e carri armati. Da Il treno (1964) di Frankenheimer a Ardenne ’44: un inferno (1969) di Sydney Pollack gli esempi non sono pochi, e non a caso col passare del tempo i modi di direzione ne sortiranno sempre più surreali, fiabeschi, inverosimili (la pellicola di Pollack è in questo eloquentissima, addirittura felliniana), sino a giungere alla parodia di Brian Hutton, I guerrieri (1970), ottimo esempio di dissoluzione dei generi. Ci interessa ora di più la radicalizzazione della violenza, perché essa parla molto chiaramente dell’atmosfera della decade e di tutto ciò a cui questa darà il via. Quella sporca dozzina, imperniato su una missione pericolosa di un gruppo di uomini ormai morituri e dunque pronti a tutto, fece uso di esplosivi e di spari non maggiore né minore che i film precedenti. Furono invece il tipo di linguaggio e le figure dei soldati a essere abbastanza inediti: assassini pieni di fegato che un tempo Hollywood avrebbe infamato senza tema di sprecare retorica, oggi essi emergevano duri e spietati, sì, ma capaci di azioni eroiche e grandiose16. Aldrich racconta insomma che l’epica è cosa da macellai e che può tuttavia essere ugualmente eccezionale. In questa accozzaglia di brutali individualisti, il senso del gruppo e del cameratismo si cementa sempre più, e una banda di malviventi diviene modello di coraggio e comportamento militare. È un attacco al militarismo, certo, ma è anche – secondo l’ambigua morale hollywoodiana – un monumento alla violenza. In questo modo Hollywood salvava capra e cavoli, caldeggiava la temperie dell’epoca e criticava modelli del passato in attesa del momento di dare il colpo di grazia al vecchio, classico cinema bellico con Non è più tempo d’eroi (1970), sempre di Aldrich, una celebrazione della codardia e uno smascheramento impietoso della vecchia retorica bellicista. Non meraviglia allora che il film di guerra diventi nel frattempo terreno di commedia. In fondo lo era sempre stato, ma mentre nel passato la leggerezza si esercitava fra le pieghe che la battaglia consentiva ai marmittoni, o addirittura solo in relazione a un tranquillizzante, tutt’altro che drammatico servizio di leva, da Off Limits – Proibito ai militari (1953) di George Marshall a La nave matta di Mr. Roberts di Ford, dai film con Jerry Lewis sull’argomento a Operazione sottoveste (1959) di Blake Edwards, ora guerra e commedia si incontrano, le bombe non fanno paura più di tanto, i morti non commuovono più e persino la durezza dell’occupazione (si ricordi Una campana per Adano, 1945, di Henry King) diviene piacevole gioco fra estranei ben disposti come in Il segreto di Santa Vittoria (1969) di Stanley Kramer. Solo l’atteggiamento critico dei Settanta permetterà un recupero del tema con opere quali M.A.S.H. (1970) e Comma 22 (1970), rispettivamente di Robert Altman e Mike Nichols, lezioni di dissoluzione del genere e anche di come l’assurdo possa fungere da critica, allo stesso modo di Duello nel Pacifico (1968) di John Boorman, che però stravolge l’assurdo sino a renderlo drammatico. In questo emblematico film si confrontano non due individui, e nemmeno due intelligenze, ma due diverse concezioni della vita che alla fine si scoprono identiche, si spogliano di qualunque iniziale ideologia, si osservano nella loro umanità ormai nuda dimostrando che il warfare è uno stato mentale prima che politico e che l’individuo che è in noi – persino in un personaggio di usi e costumi orientali – finirà per prevalere. Duello nel Pacifico è una pellicola non poco legata al proprio periodo; essa interpreta infatti un modo di pensare che nasce da un preciso momento storico-politico teso verso un ideologismo che gli anni Settanta svilupperanno in estremo grado arroccandosi vieppiù in quello che è stato definito un “narcisismo” estraneo a ogni impegno. Così la pellicola di Boorman, nella sua apparente ideologia umanistica, è invece un ulteriore gradino verso l’eliminazione di ogni critica, un’astrazione della tematica bellica stupendamente descritta e non poco esemplare, eppure non utilizzabile ai fini di un pacifismo che il decennio a venire non avrebbe più teorizzato ma avrebbe tentato di vivere nei fatti. Il ritiro dal Vietnam e l’avvicinamento con la Cina, durante l’amministrazione Nixon, sono due momenti storici
che in un certo modo segnarono la fine di un atteggiamento politico del movimento di protesta americano. Contestualmente, lo scandalo Watergate gli avrebbe indicato che a quel punto era diventata invece fondamentale quella che in Italia si chiamerebbe “questione morale”. Negli Stati Uniti, però, essa si tinse di un colore molto particolare: da un lato infatti aumentò il senso di paranoia che aveva investito il Paese dai tempi dell’attentato a Kennedy, dall’altro indusse sempre più a riflettere sui pericoli di una società che ormai sembrava proprio non poter fare a meno della riproduzione di se stessa, delle proprie immagini, delle proprie parole, con l’aggravante che questa necessità da un momento all’altro si era spostata dall’ambito politico a quello privato.
8. Jerry Lewis: l’astrazione e la regola La tendenza a un ritorno verso il cinema originario, verso l’essenzialità visiva che era stata tipica di quell’arte ai tempi del muto e che si rintraccia in un’ampia parte del cinema degli anni Sessanta, emerge in questo stesso periodo con particolare evidenza e forza in due registi fra i più diversi. L’uno comico da sempre, l’altro avventuroso producer e infaticabile autore di B-movies con un penchant per il fantastico e l’orrifico: Jerry Lewis e Roger Corman. Un’accoppiata alquanto strana, dirà il lettore; eppure la matrice operativa è comune. Jerry Lewis si era allenato per tutti i Cinquanta, come abbiamo visto, insieme a registi di secondo piano in opere di secondaria importanza. Poi, staccatosi da Dean Martin, in poco tempo passerà dietro la macchina da presa esordendo come regista-interprete di Ragazzo tuttofare (1960), dedicato a Stan Laurel. Stanley, il fattorino, è protagonista di piccole gag17 staccate nelle quali egli non parla mai (e in gran parte fondate sul meccanismo della distruzione che, si diceva, caratterizza certa commedia anni Sessanta). Cremonini afferma che esse sono «determinate da un perenne stato di rivolta del mondo» e nel rapporto fra individuale e sociale […] c’è uno sfasamento invalicabile, un gap istituzionale che è diventato il senso della vita stessa»18. Le pagine di Cremonini sono preziose per una riprova del discorso storico-culturale da un lato, ma anche ontologico dall’altro, che siamo andati facendo. Infatti, lo “sfasamento” tra sociale e individuale in questo film e nel cinema di Jerry Lewis in genere rispecchia una situazione psicologica del Paese, cioè di un’America ormai incapace non diciamo di ritrovare il vero spirito rooseveltiano, ma anche solo di continuare testardamente a credere nei valori con cui si era inaugurata la decade. Come si fa a inserire il proprio credo, i propri modelli, le proprie aspirazioni, i propri sogni all’interno di un sistema che non garantisce nulla, né la vita né la giustizia? Certo, Jerry Lewis non parla direttamente di questo, ma è anche vero che il suo mondo (un mondo decisamente cinematografico) non gode, ugualmente, di alcun sistema di riferimento, di alcuna omologazione fra pubblico e privato. Ma c’è di più. Sino a questo punto il discorso è, appunto, di carattere storicoculturale: esso, cioè, cerca di leggere in alcune caratteristiche primarie dei film un’atmosfera di cui il loro mondo è metafora, spesso involontaria. Tuttavia si considerino ancora le parole di Cremonini: «Al tema del Soggetto incapace Jerry Lewis sostituisce quello di un Oggetto che viene diretto dall’esterno»19. Qui non basta una lettura storico-sociale (peraltro sempre interessante); qui il discorso cresce attorno a un’idea della dissoluzione, della cancellazione del soggetto. La riduzione del soggetto a oggetto è un classico degli anni Sessanta, e non solo nel cinema di Jerry Lewis. Tutto il nuovo romanzo americano se ne è in qualche misura fatto carico, dal primo Stanley Elkin al primo Bruce J. Friedman fino ad arrivare a romanzieri di diversissima tradizione culturale come i californiani, di cui ovviamente Richard Brautigan è tra i più rappresentativi. In fondo è un meccanismo semplice: i modelli di vita precedenti non bastano più né si autogiustificano. Incalzato dall’opposizione e dalla radicale protesta delle nuove generazioni, il vecchio gruppo sociale non riesce più a mantenere la propria tranquillizzante immagine di se stesso. All’inizio dello sviluppo di un’era tecnologica i cui contorni sono per il futuro ben poco prevedibili, la società americana si avvia verso un mondo macchinistico, irreggimentato, ordinato e asettico nel quale il soggetto tradizionalmente inteso non può sopravvivere perché circoscritto e condizionato da quella che Cremonini chiama «l’astrazione della regola»20. L’astrazione della regola è esattamente quello che caratterizza i Sessanta. Qualcuno potrebbe obiettare che, al contrario, proprio i movimenti radicali in quegli anni stavano insegnando dubbiamente alla nazione che cosa significava l’assenza di regole. Ma le cose non sono mai così dirette. Gli Stati Uniti – o quantomeno la parte più rappresentativa di essi – non stavano abbracciando le istanze più o meno anarchiche delle minoranze giovanili né reagendo con una levata di scudi in difesa della tradizione. Incapaci di identificarsi nell’opposizione, essi guardavano ormai alle “regole” come a riferimenti astratti, come a qualcosa che per anni aveva dominato la loro vita e che ora finalmente mostrava il suo volto non tanto repressivo e feroce quanto astratto e meccanico. Come spesso succede, una cultura messa in discussione si ritrovò senza la forza di accettare valori nuovi e senza la convinzione di continuare a vivere con quelli vecchi. Il “pagliaccio” Jerry Lewis è una delle più precise forme in cui si esplicita e si esemplifica questo scarto, questo impaccio, questa impotenza.
E proprio l’astrazione nel cinema di Lewis testimonia del suo stretto collegamento col grande cinema d’un tempo. In L’idolo delle donne (1961) la celebre scena dello spaccato del collegio rimanda visivamente per lo meno a certe fantasie di Berkeley (si pensi al numero “Pettin’ in the Park” in La danza delle luci, che anticipa lo split screen di cui si è già detto), ma se si guarda attentamente la sequenza d’apertura non vi si potrà non scorgere una superba matrice “muta” fatta di cause ed effetti la cui gratuità (come gratuiti erano nel cinema muto) è sottolineata dalla finalizzazione dell’intera serie di gag: l’arrivo della macchina da presa davanti all’insegna della scuola. Per non dire di quel divertentissimo salto del protagonista al di sopra della marea di toghe nere in un’immagine che convoglia da sola il senso dell’intero film: l’uguaglianza anonima della folla e l’assurda, involontaria dichiarazione di individualità da parte di un “diverso” che in quest’epoca senza eroi può soltanto essere comico, dire cose comiche, fare cose comiche con la maggior serietà del mondo. Jerry Lewis mostra chiaramente quanto il cinema sia ricostruzione e falsità (lo spaccato di cui sopra ne è un buon esempio), e proseguendo negli anni la sua arte si incentra vieppiù su questo tema, sino a diventare vera e propria continua esemplificazione metalinguistica. Già con la sua terza regia questo è evidente: Il mattatore di Hollywood (1961) prende a scenario la città del cinema, mostrandola per tale e poi rivelando che i suoi set sono a loro volta ricostruzione. Jerry 8 e (1964), però, è anche più eloquente in tal senso, sia per i richiami cinematografici che per la sostanza cinematografica del testo. La tendenza metalinguistica, da sempre presente a Hollywood, è destinata a svilupparsi sempre più nel tempo (la ritroveremo ancora più forte nei Settanta e negli Ottanta), ma non è ora particolare materia del nostro interesse se non nella misura in cui essa sottolinea la matrice classica dell’arte lewisiana, più o meno come le strepitose gag di La palla n. 13 (1924) di Buster Keaton avevano dietro – e dentro – di sé la loro stessa ragione di essere in termini cinematografici. D’altra parte, questa componente è anche un altro segnale della disgregazione del cinema. Esattamente come il nouveau roman francese evidenziava i meccanismi preposti alla narrativa, così il metacinema è spia dei risvolti di un’arte nella quale dopotutto avevamo abbastanza ciecamente (e convenzionalmente) creduto. Il metacinema è cugino della dissoluzione dei generi, esso proviene dallo stesso territorio, ha le stesse motivazioni, testimonia dello stesso disagio. Su un’area molto diversa, anche la dissoluzione del soggetto di cui parlavamo riveste un ruolo nell’intero quadro. Le folli notti del dottor Jerryll (1963) – a sua volta rimando cinematografico a un’intera tradizione orrifica di mad doctors e più specificamente ad almeno tre pellicole tratte dal famoso racconto di R.L. Stevenson (una quarta, britannica, sarebbe stata girata in seguito, nel 1972, da Roy Ward Baker) – è una splendida dimostrazione della distruzione del soggetto, o meglio, della sua frammentazione. La vamp e la sposa fedele, l’impacciato professore e il playboy impomatato: come dice Cremonini, «tra i due ruoli c’è una continuità assoluta»21. È vero, ma questo non significa armonia e omologazione, bensì lotta, differenza, schizofrenia. Tutto alla fine si ricompone, certo, ma non sapremo mai come la storia andrà a finire: è quest’incertezza a rendere particolarmente evidente lo scarto di un soggetto che, vinto o vincitore, sarebbe però sempre identico a se stesso. Qui no, qui i ruoli si alternano; e in modo tale che questa alternanza sembra addirittura la condizione di sopravvivenza del soggetto e del rapporto che questo intrattiene con l’altro. Le diverse facce della realtà, che ad esempio Welles aveva intuito molto tempo prima (e con lui tutti i maggiori cineasti, da Chaplin a Keaton) divengono ora lo statuto di un cinema e di un’epoca. I tempi sono maturi perché l’impossibilità del soggetto di identificarsi con se stesso divenga non tanto materia di riso (lo era già stata con i Keaton e i Chaplin) quanto di ontologia dello spettacolo; e a un punto tale che Lewis girerà nel 1969 Controfigura per un delitto, un film nel quale Sammy Davis Jr. si “traveste” da Jerry Lewis e imita l’attore perfettamente: è il massimo cui può giungere l’osservazione dello spettacolo e di Hollywood da un punto di vista teorico per quel che concerne l’alienazione del soggetto. Un altro vive vicariamente nello stesso modo le stesse avventure del personaggio Jerry Lewis, confrontandosi con scenografie e con componenti di chiara matrice cinematografica (Dracula, Frankenstein) in una pellicola che intende evidentemente «uccidere progressivamente l’intreccio, che è quanto di più stereotipato si possa immaginare sul giallo»22. D’altra parte si raddoppia anche il personaggio interpretato da Peter Lawford in un inseguimento di soggetti geminati che ha persino qualcosa di inquietante. Il cinema di Jerry Lewis, dunque, al di là dalla sua sostanziosa patina comica, vanta non solo – come molta critica attenta ha dimostrato – un’eccezionale precisione di gag, uno studio ammirevole dei meccanismi del riso, ma proprio per questo anche una coscienza profonda delle tecniche che fanno del cinema un evento visivo, un’esperienza che non si affida allo sfarzo della ricostruzione scenografica o alla meraviglia di perfezionati effetti speciali, ma all’uso strettamente significante di ogni specifica inquadratura in un collegamento rigoroso che fa della sequenza non l’insieme di un’azione ma la visione globale di una serie di scatti minimi che compongono il meccanismo del comico; ed è in più una testimonianza (indiretta, certo) di un processo che da tempo si sta verificando nel cinema
hollywoodiano, una dissoluzione dei generi che è dissoluzione del soggetto, il correlativo oggettivo di un malessere che sta disgregando i vecchi riferimenti nazionali. Non bisogna confondere questo correlativo con la semplice presenza del tema del “doppio” (rinvenibile in vari momenti della produzione cinematografica americana), poiché si tratta sempre di un doppio diverso. La sua diversità, d’altra parte, non è semplicemente un fatto morale, ma piuttosto una questione di caratteri, di ruoli, di impersonazioni che sono segnale di un disagio psicologico e solo in seconda istanza etico. L’America dell’ideologia individualista non c’è più, né quella del collettivismo rooseveltiano, né quella – timorosa e isterica – dell’angoscia maccartista: la nazione di questi anni semplicemente non è, proprio come tanti eroi lewisiani non sono quello che sembrano, o anche – e ancor più semplicemente – non sono nulla per gli altri. Per farli esistere, dice l’autore in Ragazzo tuttofare, bisogna pur porre loro una domanda, per farli parlare bisogna pure che qualcuno glielo chieda. L’America dei Sessanta è in fondo più muta di lui, non ha niente da chiedere, e comunque nulla che abbia a che fare con un qualsiasi segno di umanità. Questo non significa che essa sia disumana, ma solo che non sa più dove sia l’umanità degli altri e, peggio, nemmeno la propria.
9. Roger Corman: il realismo dell’oggetto Insieme a Lewis Roger Corman condivide una pessima fama in patria. Ambedue sono infatti ritenuti cineasti di calibro infantile. In certo senso il giudizio non è sbagliato: tutti e due hanno infatti saputo elaborare un cinema della meraviglia e del divertimento, dello sgomento e della sensazione, tutti e due, insomma, hanno saputo tornare alle origini del mezzo, alle sue radici d’emozione e di stupore. Rispetto a Lewis, tuttavia, Corman riveste una più vasta importanza storica. Ma, solito paradosso, non tanto come regista quanto come produttore. È cosa nota che buona parte delle migliori leve della riscossa cinematografica americana anni Settanta è passata in un modo o nell’altro sotto la sua ala: Coppola, Bogdanovich, Hellman, Bartel, Demme, Scorsese sono fra i molti ad avere lavorato per lui, per i suoi film a bassissimo costo, facendosi le ossa esattamente come qualche anno prima se le era fatte lui, giungendo a comprendere che il cinema non è una questione di budget, ma di uso del budget, non è ipertrofismo ma economia. Prima di qualsiasi altro discorso, favorevole o no, sul suo cinema importa ricordare che Corman fu il primo a capire un fatto fondamentale: il ricambio generazionale nel pubblico fra i Cinquanta e i Sessanta. Egli fu cioè il primo a comprendere che la Hollywood dei bei tempi era finita, ma non tanto per eventuali difficoltà finanziarie né per carenza di talenti o altro del genere. Semplicemente, un nuovo modo di fare narrazione visiva stava nascendo con l’avvento della televisione; le vecchie generazioni di spettatori trovavano più comodo fruire beatamente fra i muri di casa propria gli spettacoli scelti per loro in un fitto palinsesto, mentre le nuove attendevano ancora un cinema che si facesse interprete non tanto delle loro ansie e dei loro problemi, quanto del loro immaginario, dell’inventario vergine legato alla loro cultura fatta di fumetti e strepitose fantasie, di miti scolastici e musicali. Negli Stati Uniti del periodo avviene infatti qualcosa di molto importante: una “scissione fra immaginari”. Mentre in precedenza la cultura di massa aveva unito le generazioni più disparate, talché Dick Tracy era un simpatico eroe sia per i quindicenni che per i quarantenni, con l’era della televisione le cose cambiarono. Il tipo di cultura di massa fornita dal piccolo schermo divenne familiare (almeno per quanto riguarda i programmi di prima serata) a una larga ma identificabile fascia di pubblico, ben diversa da quello costituito dai giovani liceali e universitari. Costoro avevano cominciato la loro ribellione, come sappiamo, già nei Cinquanta, e nei Sessanta la porteranno a compimento sia sul terreno politico (da Berkeley a Kent) sia su quello, francamente meno doloroso e compromettente, dell’immaginario. Sarà bene ricordare, infatti, che sul campus di Berkeley protestavano e cadevano sotto i colpi della polizia gli stessi studenti che un paio d’anni prima avevano celebrato con urla e fischi gli innocui riti di corteggiamento su cui erano imperniati i filmetti dell’American International (la Republic dei Sessanta, come ha scritto Mordden23) con Frankie Avalon e Annette Funicello: Beach Party (1963), Muscle Beach Party (1964), Bikini Beach (1964), tutti di William Asher. È purtroppo un vezzo europeo (soprattutto italiano) pensare alla protesta giovanile dell’America in quegli anni in termini sessantotteschi: nessuno dei capi né dei seguaci si era formato nei quadri di un partito della sinistra, ma aveva al massimo simpatizzato per un generico riformismo ingenuamente nutritosi alla lettura di qualche testo marxista fra i più popolari. La cultura di quei ragazzi era fatta di strips, di Twilight Zone, di isteria cinquantesca (dei genitori), di commedie anni Trenta viste (o riviste) sul piccolo schermo, di risibili pruriti sessuali conditi di Peyton Place, di Scandalo al sole, di Sandra Dee e di una curiosità verso il rapporto Kinsey paragonabile a quella che da noi in altri tempi, aveva agitato ed eccitato altre generazioni alla lettura del Mantegazza. Corman, buon regista e ancor migliore produttore, capì subito l’aria che tirava e dal 1955 cominciò a fare western e fantascienza, lasciando ben presto il primo e puntando sulla seconda e, di lì a poco, sull’horror film, del quale sarebbe stato incontrastato dominatore nei Sessanta.
Corman è ricordato, appunto, per questo tipo di pellicole; ma a volte ci si dimentica delle sue cose più direttamente adolescenziali come Rock All Night (uno degli otto film che girò nel prolifico 1956), Teenage Doll, Carnival Rock (del 1957), Sorority Girl e Teenage Caveman (del 1958). Mentre Hollywood, al meglio, riproduceva deliziosi e ormai datatissimi musical in odore di Broadway come il purtroppo ignoto in Italia The Music Man (1962) di Morton da Costa, Corman comprese che era invece il momento di aprire i teatri agli adolescenti, nel senso che erano loro il pubblico di domani e che il domani era già oggi. Corman, e soltanto adesso lo possiamo comprendere, fu il fondatore del cinema adolescenziale (e post) che avrebbe ramificato nei Settanta e negli Ottanta formando diversi settori di genere, dai bike movies (i film con giovani motociclisti, fatti di corse, acrobazie e audacie varie) agli hot rod (stessa cosa, ma con auto), dai campus movies (film di ambiente universitario) su su fino al cinema demenziale inaugurato da Animal House (1978) di John Landis e a sua volta proseguito abbandonando l’area accademica, da The Blues Brothers (1980) di John Landis in avanti. Corman è, insomma, per un certo verso, il padre del giovane pubblico cinematografico americano. Da un punto di vista storico-sociologico questo lo rende molto più importante di quanto non facciano certe sue regie di pellicole orrifiche. Si tratta di buone cose ispirate a E.A. Poe – in particolare il superbo La tomba di Ligeia (1964) – quasi tutte girate in Gran Bretagna e con l’ottimo Vincent Price nella costante parte del nobiluomo maledetto da un destino d’orrore. Price era l’attore adatto per Corman: capace di rendere la retorica un sottile gioco d’ammiccamenti, si può dire che egli contribuì al successo delle pellicole di Corman almeno quanto questi contribuì al suo successo come beniamino del pubblico amante della serie B. Price temperò la vocazione melodrammatica del regista con la propria capacità ironica, e questi, dal canto suo, ne sfruttò fino in fondo la stupenda maschera e la consumata abilità teatrale (Price è stato anche buon attore shakespeariano). Da un punto di vista strettamente cinematografico, gli horror di Corman sono perfetti. Dotati di pochi effetti speciali, essi ingenerano suspense unicamente grazie a trovate visuali e aurali: porte che cigolano, gatti che passano, mani che entrano inopinatamente in campo posandosi su qualche spalla ignara. Il cinema di Corman non usa di norma tecniche sofisticate come il ralenti o la dissolvenza incrociata, i suoi personaggi femminili cambiano identità dietro a una tenda trasparente o, ancor più artigianalmente, attraverso un taglio di montaggio. Le sue scenografie sono pensate in funzione dell’incubo dei protagonisti in una zona senza tempo che rispetta moltissimo quel Poe che invece continuamente offende dal punto di vista dell’aderenza alle vicende narrate dal testo. Ma ha ragione Turroni quando scrive che Corman è uno dei pochissimi registi ad avere visto Poe come «genio realistico»24: è qui che si misura l’aderenza del cineasta al maestro americano del fantastico. La sottile sensazione di realtà che emana dagli incubi poeschi è la stessa che ritroviamo in Corman. Di più: «Corman è un umorista e un moralista. Ride della paura che gli altri hanno degli altri, e non di se stessi»25. È questo, esattamente, il senso ultimo del cinema cormaniano ispirato a Poe: l’implicita condanna delle certezze che, a destra o a sinistra, dominavano l’ideologia di qualunque fascia generazionale americana. Attraverso il “suo” Poe Corman mette in guardia qualunque spettatore ammonendolo a non crogiolarsi nelle proprie sicurezze, nell’idea che egli ha di se stesso e di ciò che quell’idea regge. C’è sempre qualcuno che si dimostra “altro”, c’è sempre il pericolo del crollo di un intero mondo, c’è sempre una storia di peccato e frustrazione che forse non conosciamo e che comunque può emergere inattesa e apocalittica, pronta a ghermire tutto ciò che attorno a noi ci parla di noi stessi. Non si creda che il discorso investa soltanto il generico ambito di una quotidiana e colloquiale idea di morale. Corman è in perfetta sintonia con le avanguardie artistiche sessantesche. Come scrive ancora Turroni, in lui è ravvisabile «quel super-realism pop, ad esempio, che offre l’oggetto come mezzo e fine per giungere al significato dell’oggetto stesso»26. È davvero incredibile come il cinema a basso costo di Corman sia in realtà un cinema di ricostruzione. Ogni particolare, portali, nebbie, arazzi, alberi, stagni, focolari, balaustre, ecc. parla subito di qualcosa che non è vero, che è rifatto, che è assemblato; eppure la visione (o meglio, la suggestione d’insieme) è talmente realistica da costruire per noi un mondo lontano dall’incanto esotico dei film “arabi” in voga quasi un ventennio prima, lontano cioè da una “sospensione di incredulità”, da una volontaria accettazione del fantastico. La realtà di Corman non chiede disponibilità al sogno, ma allo scenario: in questo senso (come, dicevamo, anche la recitazione di Price) essa è molto teatrale. Ma non stilizzata alla maniera in cui nel teatro elisabettiano un cartello indicava che il luogo era la foresta di Arden, né veristica come un salotto borghese del tardo Ottocento poteva apparire una volta che lo scenografo l’avesse minutamente ricostruito sul palcoscenico. La teatralità degli scenari cormaniani è esattamente a metà strada tra la stilizzazione e il realismo storicamente inteso, è un luogo della mente così dettagliato e coerente nella sua incredibilità da apparire davvero come un sogno. Attenzione: esso non è “onirico”, non ha cioè le caratteristiche e il sapore di un sogno. Esso è concepito davvero con la rigorosa coerenza nell’assurdo che è tipica del sogno.
Ecco in che senso Corman si allinea al “super-realism pop”, ecco in che senso il regista «offre l’oggetto come mezzo e fine per giungere al significato dell’oggetto stesso». Nella loro follia, nella loro evidente carica ricostruttiva, le mura cormaniane sono proprio mura, sono riproduzione dell’oggetto in campo; esse non hanno altro significato che se stesse, poco importa quanto il luogo dell’orrore possa poi essere metaforicamente quello dell’esplosione dell’inconscio. La stessa distanza, la stessa concretezza che consente la “ricostruzione” dell’oggetto è ciò che permette, o meglio denota, l’ironia che segna questo autore. Non c’è bisogno di arrivare al divertente I maghi del terrore (1962) per accorgersene: basta l’episodio del barilotto di Amontillado in I racconti del terrore (1961) e ancor prima I vivi e i morti (1960), in cui la recitazione di Price è soltanto il culmine dei vari gradi del sorriso cormaniano. Il regista osserva i suoi eroi dalla distanza sufficiente per potersi permettere di farli muovere senza apparire negligente né, all’opposto, coinvolto. La sua passione non riguarda né loro né la storia e nemmeno la scenografia come insieme: riguarda piuttosto la carica di concretezza degli oggetti su cui la macchina da presa si intrattiene evidenziandone la fisicità, che però non è “realismo” bensì perfezione dell’immagine (cioè della rappresentazione) nella sua significazione. Non è un caso che, al di là dalla più facile fruibilità dei suoi film, Corman simpatizzi con l’avanguardia cinematografica statunitense. Dietro alle sue pellicole c’è un pensiero del cinema che soltanto il loro basso costo e il loro apparente sensazionalismo possono indurre a far valutare come secondarie e trascurabili. Non si tratta, sia ben chiaro, di opere d’arte emblematiche e superiori, ma di prodotti che rappresentano bene la temperie culturale della loro epoca indipendentemente dal fatto che sono usualmente ambientate in luoghi senza età. Certo, Baxter ha ragione quando parla dei legami che Corman riconosce fra Poe e il romance medievale, esattamente come ha ragione quando afferma che questi film attingono a una «vivacità e a un erotismo baudelairiani»27. Ma tutti questi riferimenti non devono offuscare il fatto che da La tomba di Ligeia a I vivi e i morti il tema della famiglia in decadenza preme forte e allucinante. Così come non va dimenticato che il goticismo di Sepolto vivo (1961) si sviluppa in un’America scossa dalla guerra civile che diventa sineddoche storica sin troppo chiara. Intendiamo dire che i semi della disgregazione del nucleo sociale e il terrore dei propri stessi terrori turbano la nazione sotto la tutto sommato tranquillizzante apparenza del filmetto da sale periferiche e doppio programma. Saranno proprio quei giovani spettatori divertiti e svagati, che di lì a poco invaderanno le sedi universitarie protestando contro l’America preparata da Kennedy e consacrata da Johnson, a disciogliere quel nucleo e l’idea stessa di unità nazionale che esso simboleggiava. Corman aveva capito non solo che cosa era cinema e non solo che cinema dare a un pubblico ormai diverso dal passato, ma anche quel che sarebbe successo in breve tempo a una nazione che, uscita dal buio del maccartismo, stava entrando in un altro incubo, forse meno vistoso, ma sicuramente non meno pauroso.
10. Ritorno alla ritualità: il concerto rock I frutti (o le verifiche) dell’intuizione cormaniana non tarderanno a farsi sentire: nel protagonista di Il laureato (1967) di Mike Nichols si identifica un’intera generazione. A fare i conti, sono esattamente quei bravi ragazzi che un paio d’anni prima bruciavano cartoline-precetto pubblicamente. Non che il giovane fosse come loro; era il problema cui egli si trovava di fronte che era uguale. In fondo ambedue erano di buona famiglia e ambedue non sapevano che cosa fare della propria (falsa) libertà e dell’entrata rituale nel mondo adulto. Il rapporto con Mrs. Robinson è dopotutto una ricerca della madre, e non a caso l’unica soggettiva del film è nel momento in cui il protagonista è bardato come un buffo alieno pinnato che si tuffa in un’acqua che ha da tempo perso, appunto, la sua valenza simbolica materna. Questa generazione, in coppie nel buio complice di un drive-in, ha decretato il successo di Corman, e questa stessa generazione ha acclamato gli eroi pop che in pochi anni sarebbero finiti senza vita sul pavimento di un hotel, o, al meglio, fra i rottami di un aeroplano: Janis Joplin, Jimi Hendrix, Otis Redding, Jim Morrison sono solo alcuni fra i molti nomi carismatici destinati dalla giovinezza alla tomba. Molti di loro li ritroveremo in un film importantissimo per capire non certo il cinema, ma il pubblico che ne fruiva allora: Monterey Pop (1968) di Donn Alan Pennebaker, una pellicola che aprì la stura a una serie di sostanziali documentari dedicati alla registrazione più o meno diretta di concerti rock, da Woodstock (1970) di Michael Wadleigh a Gimme Shelter (1970) di Charlotte Zwerin insieme a David e Albert Maysles, da Elvis Presley Show (1970) di Dennis Sanders al mitico Concerto per il Bangla Desh (1971) di Saul Swimmer. Diciamo subito che il nome di Pennebaker è quello di uno che fu tra i più prestigiosi registi del cosiddetto “cinema diretto”, corrente documentaristica americana esplosa verso l’inizio dei Sessanta a fianco del New American Cinema della scuola di New York ispirata da Jonas Mekas e dalla rivista «Film Culture». Ma a differenza dalla scuola newyorkese, Pennebaker, Leacock e gli altri autori del “cinema diretto” non tentano l’esperienza (apparentemente) “oggettiva” del Cassavetes di Ombre (1959) né la ricerca formale del Mekas di I fucili degli alberi (1962). L’abbandono programmatico di una presunta oggettività e la conseguente, attentissima selezione di montaggio del “cinema diretto” testimoniano
chiaramente in questo senso. Dopo film sul problema razziale e l’integrazione nelle scuole del Sud, sull’assassinio del presidente Kennedy (un tema che Hollywood avrà il coraggio di trattare solo nel decennio seguente), sullo scandalo di Joe McCarthy, sulla guerra in Vietnam, ecc. ecco che con Monterey Pop la corrente cui appartengono Pennebaker e Leacock (il quale a Monterey Pop ha collaborato) mostra la mancanza di fondo della sua critica, la debolezza di base della sua analisi, quel sostanziale “vuoto ideologico” così tipico anche del miglior cinema di denuncia americano. Caduto quindi l’alibi critico, rimane l’attenzione formale, l’accuratezza tecnica (pur nei limiti e quasi nel crisma volutamente artigianale del documentario americano anni Sessanta) che in Monterey Pop si precisa come un’ineccepibile volontà coloristica, un amore del cromatismo pop che di parecchie inquadrature fa degli splendidi poster per un’ideale camera di adolescenti. D’altro canto, e come si diceva, Monterey Pop è un po’ un antesignano del documentario di questo tipo. In passato cose del genere non erano mancate, ma si trattava di jazz o di folk: si vedano gli ottimi (soprattutto il primo) Jazz in un giorno d’estate (1960) di Richard Stern o Festival (1967) di Lerner, ambedue ambientati nella favolosa Newport; oppure di semidocumentari tipo le pellicole di Dick Lester sui Beatles, le quali si prestano a un discorso ben diverso da quello richiesto da un genere non-fictional. Monterey Pop coincide in pratica con la nascita e il consolidamento ufficiali del pop come genere musicale a sé. E questa qualità è visibile anche e soprattutto nella volontà cronachistica esterna di Pennebaker, nel suo occhio forse superficiale ma certo attento al fenomeno in sé, senza fuorvianti e disonesti cedimenti commerciali. L’industria, in altre parole, non ha ancora steso la sua longa manus su questo tipo di cinema; in esso i cantanti e i gruppi non sono ancora – come invece saranno di lì a poco – oggetto di propaganda o di mito (e il caso di Woodstock o di Elvis Presley Show, pur nella diversità dei due film, è lampante). Ciò che è avvenuto a Monterey è un fatto di costume, e in quanto tale va registrato, magari con qualche indulgenza estetizzante. Questo è l’atteggiamento del regista, e bisogna dargliene atto. A prescindere da questo, viene però il dubbio che quella carica distruttiva che porta Hendrix o gli Who a fracassare e bruciare chitarre e impianti sia alla fin fine il segno emblematico di una musica e di una generazione che, credendo di piegare in ginocchio una tecnologia cui non può rinunciare, non ha fatto altro che demolire e bruciare se stessa in un “urlo” di ginsberghiana memoria. La spettacolarizzazione dell’evento, dominante in film come questi, è la cifra di tutta l’industria della rappresentazione della “realtà” a venire. Ed è un segno della conversione della cultura cinematografica in televisiva. L’etica della “presa diretta” è il movente di operazioni anche molto più compromesse di quella di Pennebaker. Il concerto rock filmato è un tipico prodotto della cultura televisiva ormai imperante già in quegli anni: la troupe accorre sul posto e registra l’evento per il pubblico a casa. Solo che questi, come abbiamo detto, è formato da fasce generazionali del tutto estranee a eventi del genere; e inoltre il concerto rock era ed è tuttora un punto d’incontro frequentato anche per l’eccitamento dell’occasione nel suo farsi. Queste sono le ragioni per cui raramente in televisione happening di questo genere sono rintracciabili. Il cinema, con la sua pur minima ritualità di spettacolo, permette invece al giovane pubblico di assaporare (grazie ovviamente al grande schermo) l’accadimento, i colori, le musiche, i personaggi e nell’insieme la scenografia tutta, in modo molto più ampio e comprensivo dell’altro mezzo. Andare al cinema per vedere Woodstock significava reinscenare in sedicesimo lo stesso rito avvenuto sui prati quel giorno (e per qualcuno addirittura riviverlo). In ogni caso, tutto è ridotto a spettacolo, a immagine di un evento irripetibile che trova possibilità di riproduzione. È nella natura del cinema, non si tratta certo di una novità per hippies o giovani pacifisti. Conta piuttosto il fatto che fino alla romanticizzazione elaborata verso la metà dei Settanta (si veda ad esempio la probabilmente involontaria “cultura di destra” in una pellicola come The Song Remains the Same, 1976, di Peter Clifton e Joe Massot) il documentario rock è alquanto inutile, poiché sul piano dell’immagine e della sua tecnica non si individualizza ed evidenzia in opere specifiche, e se non fosse per la cronaca e l’informazione non sapremmo a quali avvenimenti, a quali “oggetti” le singole opere si riferiscono. Questo, sia chiaro, non intende affatto essere uno sprezzante giudizio sulla musica pop, ma solo sulle registrazioni cinematografiche che di essa ha fatto una certa industria. La questione può anche essere messa in questi termini (almeno dopo le prime e più originali prove): il documentario di musica rock si pone come mediatore di una conoscenza che non è critica ma mitologica. Il fedele freme non solo perché portato nella condizione di assistere ancora una volta all’epifania del dio, ma anche perché in quella di potere finalmente dare un volto alle sue gerarchie. Tutti hanno visto a suo tempo Clapton, Starr, Dylan, Harrison, ma non è sempre facile trovarsi davanti strumentisti come Russell e Preston in Concerto per il Bangla Desh. Il rito, si sa, richiede l’assoluto rispetto del rituale: gli idoli (= immagini), le divinità minori, l’arapalco ove si mostreranno, quelle bende, infule e sacri oggetti del culto che sono il particolare tipo di
vestiario e l’attrezzatura strumentale, e naturalmente i fortunati devoti che invece di assistere alla messa domenicale in televisione, vi partecipano personalmente. Lo ripetiamo, il discorso non si appunta contro il prodotto musicale in sé, ma contro i suoi apparati irrazionali. Il fatto è che sorge un sospetto peggiore. Proprio all’inizio del film di Clifton e Massot lo strumentista indiano Shankar e il suo gruppo accordano i loro esotici e affascinanti strumenti e subito dalla folla sale un grido di giubilo. Dice Shankar, in verità con molto spirito: «Se vi sono piaciuti gli accordi, spero che apprezzerete molto di più la musica». Ecco il sospetto: una volta ancora il medium sembra essere il messaggio, soprattutto se nutrito dall’idolatria di cui dicevamo. Ogni giudizio di valore affonda, ogni reale apprezzamento di un fatto indubbiamente estetico si eclissa davanti alla mitica figura di un uomo venuto dall’India con il suo sitar, emblematica immagine di una cultura che, fra l’altro, originariamente non è nemmeno la nostra.
11. La dissoluzione dei generi: il melodramma Abbiamo accennato a più riprese a questo importantissimo argomento, una vera e propria cesura nella storia del cinema americano, che però merita un’ulteriore riflessione. Con quel termine si designa infatti l’esaurimento della formula che fonda un qualsiasi genere cinematografico, ma non si chiariscono i termini di questa fine. La dissoluzione, in realtà, può avvenire sia dall’interno che dall’esterno. Essa cioè può davvero essere esaurimento, estenuazione, sottolineatura, eccesso dei momenti caratterizzanti il genere cosicché alla fine esso diverrà parodia – volontaria o meno – di se stesso. La cosa è leggibile già negli anni Cinquanta: Un dollaro d’onore, di cui ci siamo già occupati, è un buon esempio di un volontario accumulo eccessivo dei tratti che caratterizzano la formula fabulativa del western. D’altra parte la dissoluzione può avvenire attraverso la frammistione, vale a dire la mescolanza di due o più generi diversi. Anche qui gli anni Cinquanta hanno buoni esempi: il già citato Johnny Guitar è, come abbiamo detto, un western non più che un melodramma. Non ci importa adesso esemplificare i vari casi d’esaurimento e di frammistione. Molto più affascinante è un discorso sul perché di questo mutamento. Naturalmente potremmo liquidare il problema soggiungendo che anche i generi hanno una loro storia, una loro evoluzione, e che quindi col proseguire del tempo essi giungono inevitabilmente al termine delle loro possibilità narrative. Parole che non significano nulla se non che esiste il problema. Che cosa può infatti rendere conto dell’impossibilità di omologazione, poniamo, di melodrammi moderni come Un uomo oggi (1970) di Stuart Rosenberg, Appuntamento con una ragazza che si sente sola (1971) di Herbert Ross, Come eravamo (1973) di Sydney Pollack e Un attimo una vita (1977) dello stesso Pollack, per non dire di prodotti più smaccatamente commerciali, eppure linguisticamente aggiornati ai canoni formali della “new Hollywood”, come La cavalletta (1970) di Jerry Paris o La macchina dell’amore (1971) di Jack Haley Jr. L’etichetta della “nostalgia” è certo comune, ma la nostalgia di Bogdanovich non è quella di Pollack, la loro matrice generale può anche essere simile, ma i modi dell’attuazione sono radicalmente diversi. Eppure la “confusione” ha delle giustificazioni. In un momento che vede i generi cinematografici americani intrecciare, contaminare i loro elementi costitutivi in direzione di un cinema sempre più omologo, è comprensibile leggere cineasti e pellicole non poco diversi fra loro sulla base di un innegabile minimo comune denominatore. Ma se osserviamo le opere da vicino noteremo che la concezione melodrammatica di un Robert Rafelson si organizza secondo ritmi narrativi anomali rispetto a quelli dispiegati dal melodramma hollywoodiano classico. E in particolare, che i tempi delle singole scene (prima ancora che quelli delle sequenze) tendono a una dilatazione che supera di gran lunga la necessità di progressione dell’azione. Non si tratta, è evidente, di errori nei tempi di montaggio, ma di una diversa concezione della narrazione finalizzata non a una domanda sul rapporto di causa ed effetto tra gli eventi rappresentati, bensì a una sorta di introspezione (o meglio, a un tentativo di essa) condotta attraverso l’osservazione della superficie. Come ha detto Ian Watt, per fare della psicologia in letteratura o si entra nella testa del personaggio o si mostra quel che fa. Dal momento che più difficilmente della letteratura il cinema può scegliere la prima soluzione, va da sé che usualmente esso opti per la seconda (peraltro ben più adeguata alla sua natura di mezzo visivo). È quel che praticamente succede in ogni melodramma cinematografico. Solo, questa volta il cinema sembra non abbia nulla da mostrare nessuna azione da proporre, nessun personaggio da illustrare. Sembra, naturalmente, poiché in realtà – e continuiamo pure pensando ai personaggi di Rafelson – il potenziale d’osservazione è ricchissimo. La differenza è che questa volta la macchina da presa include, per così dire, uno scarto: lo scarto fra ciò che essa può proporre e quel che le sfugge, che non può non sfuggirle. Ancora una volta siamo, dialetticamente finché si vuole, di fronte a un’operazione metanarrativa, a un’implicita riflessione del cinema su se stesso, e in particolare su ciò che gli può competere e ciò che rimane al di fuori dalle sue possibilità d’illustrazione.
Vi è nei personaggi di Rafelson una delusione, un’inerzia che il cinema è impotente a catturare; ne vediamo le stanche azioni ma non possiamo cogliere attraverso la macchina da presa ciò che ha concorso a far sì che il personaggio sia come lo vediamo. All’opposto, in John Frankenheimer intuiamo che il passato – pur decisivo, naturalmente, nello sviluppo del carattere dei protagonisti – importa poco ai fini della comprensione dell’azione, e che invece è il presente a non offrirsi completamente in ciò che il personaggio principale fa lungo l’arco del film: lo sceriffo di Un uomo senza scampo (1970) è sorprendentemente controllato, all’apparenza, nel modo di vivere una storia d’amore che pure è per lui travolgente, e il paracadutista che si dà la morte alla fine di I temerari (1969) vive il suo rapporto con la matura e affascinante padrona di casa con un tocco di scetticismo e disillusione non distanti, perché no?, dall’Antonio di John Dryden, talché non sospetteremmo mai, seguendo la macchina da presa, che nel suo animo si è innescato un meccanismo di speranza e dolore tanto forte da portarlo all’autodistruzione. Nel melodramma contemporaneo, insomma, si instaura una dialettica fra visto e non visto, fra immagine del presente e memoria del passato. Seguendo i canoni tipici del nuovo cinema americano (di cui si dirà più avanti), i registi – al di là da personali tematiche e stilemi autoriali – tallonano i loro personaggi a distanza ravvicinata, tanto vicino da fornirci una realtà di grado n. Niente viene taciuto di quel che entra in campo, e tutto è ignoto riguardo quel che ne è escluso. La storia è, per così dire, orizzontale a svantaggio della verticalità delle personali vicende del protagonista. La “nostalgia”, dunque, si presenta paradossalmente, in quest’ambito, come rifiuto di una descrizione-narrazione del passato (o quantomeno del presente in funzione del passato). È in questo modo che la realtà diventa iperrealtà, unico elemento di conoscenza proposto allo spettatore. Sull’operazione iperrealista di L’ultimo spettacolo (1971) di Peter Bogdanovich già abbiamo detto28 e ancora, più avanti, diremo. Ma va comunque sottolineato che qui l’iperrealismo, oltre a esercitarsi in relazione alla struttura, alla grammatica, alla sintassi, alla retorica, alla tradizione di un intero genere cinematografico del passato, diventa proprio per questo operazione compiuta in corpore vili. In altre parole, si sfugge al modello di cui parlavamo più sopra soltanto riconsiderando nel suo insieme una tradizione (un genere) cinematografica. E l’iperrealismo, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Naturalmente vi è chi tenta strade diverse. Nel caso di Pollack ogni informazione necessaria è dispiegata sulla scena. Anzi, Come eravamo è concepito come un lungo flashback che getta luce proprio su ciò che non sappiamo dei due protagonisti. Ma a ben vedere, anche nel regista più “romantico” del cinema americano del periodo l’opera riposa su uno scarto. Questa volta si tratta del rapporto di causa ed effetto: la diversità di carattere e di formazione fra Kathy e Hubbel porta certo a delle crepe nella loro unione, ma Pollack è attentissimo a non enfatizzare ciò che li divide. Il loro matrimonio si erode lentamente attraverso discrepanze che lo proiettano in una dimensione quotidiana e non esemplarmente tragica. Il melodramma di “impedimento amoroso” di un Sirk, per fare un esempio, accerchiava i protagonisti con un destino di morte (Come le foglie al vento, Il trapezio della vita) o quantomeno con un’accusa morale di carattere sostanzialmente pubblico (Secondo amore, Quella che avrei dovuto sposare). Con gli eroi di Pollack no: il loro destino, l’eventuale accusa morale nei loro confronti sono legati agli atti della quotidianità, talché un banale gesto d’affetto in un momento insignificante della loro giornata ci dice su di loro molto più di quanto ci direbbe la loro reazione – giusta o sbagliata – davanti a un evento drammatico di eccezionale spessore. Persino in una pellicola come Un attimo una vita, dove, sì, compare un destino di morte, ma dove, anche, ogni gesto, ogni frase della donna rivela uno spessore simbolico-mitologico che rimanda non al rapporto fra i due ma alla ricerca di identità, di verità del protagonista (il cui nome non a caso dà il titolo alla pellicola). Un attimo una vita, vale a dire, risponde più a un concetto di melodramma monologico che di melodramma sentimentale classico. Non per nulla la pellicola ci rivela a un certo punto, per bocca di Bobby, particolari del passato del protagonista invece che di quello del personaggio decisamente più strano, sconosciuto, misterioso della ragazza. Sono solo esempi poco più che casuali, ma bastano a testimoniare che nel cinema americano contemporaneo qualcosa è successo anche per quel che riguarda l’ambito di questo larghissimo e pur preciso genere. Specificamente, che il melodramma sembrava tornare in certo modo alle sue origini storiche, abbandonando la tematica retorico-sentimentale sviluppatasi fra i Trenta e i Cinquanta, nonché i suoi modi di trattazione e di descrizione. Questo ritorno non segna, ovviamente, un rilancio del rapporto fra parole e musica (nel cinema leggi: immagine), ma un ripensamento su come il cinema della Hollywood in rinnovamento era impossibilitato a elaborare e mostrare tale rapporto. Il melodramma di allora, cioè, parlava dell’impossibilità cinematografica di costruire ancora melodrammi se non arrendendosi a ciò che la macchina da presa non può esprimere. In pratica si trattava della fine del genere inteso secondo le sue codificazioni (e realizzazioni) classiche; ma anche di una nuova dimensione d’espressione che attribuisce all’immagine un quoziente informativo in difetto, che allude a ciò che la comunicazione visiva comprende senza poter mostrare. Tarato, come altri generi e come il “nuovo” cinema americano nel suo insieme, da un eccesso di realtà, il melodramma ci ripete nei modi
che gli sono pertinenti che la vecchia idea che avevamo dal cinema non può non segnare il passo; che l’immagine e la realtà sono sempre e comunque separate da uno scarto; che c’è (paradosso dei paradossi) più verità nel sogno dichiarato – da E.T. a Darth Vader – che nel lacrimoso sacrificio di Stella Dallas o in quello asciutto e non poco sessantesco di Robert “Eroica” Dupea (protagonista di Cinque pezzi facili, 1970, di Rafelson), il cui stesso middle-name suona ormai come un richiamo nostalgico e patetico verso forme d’arte (e di mentalità, e di cultura) superate da un altro, forse ancor più fragile concetto d’eroismo. Che, parafrasando T.S. Eliot, il cinema “umano” non può sopportare troppa realtà.
12. La dissoluzione dei generi: continuazione Riteniamo che la dissoluzione dei generi abbia più ragioni. Intanto il nuovo gusto, il nuovo modo di fruizione imposto dalla televisione. La ricchezza, la varietà del palinsesto televisivo concorrono a modellare le attese e il gusto in una direzione non immediatamente univoca. Prima della televisione il cinema era uno spettacolo a orari fissi, a rituali stabiliti, con precisi, anche se diversi, modelli di immaginario. La televisione contribuisce a forgiare un immaginario solo: è variegato e composito come certi collage che fan da copertina a dischi alla moda e che riuniscono i volti, le personalità, i luoghi, le azioni, i modelli narrativi e intrattenitivi più disparati. La televisione non impone nella serata un western o una commedia, ma un’ampia scelta che, a comando (e oggi a telecomando), può esercitarsi su un’incredibile gamma di oggetti. In questo senso la dissoluzione dei generi cinematografici in termini di frammistione è sicuramente connessa alla ricchezza dei nuovi modi di informazione intrattenitiva forniti dalla televisione. D’altra parte, la produzione non se la sente più di investire in film destinati a un pubblico molto preciso e individuabile per la semplice ragione che quel pubblico sembra non essere più, che la risposta delle nuove platee è ancora meno prevedibile di quella delle precedenti. Il fiasco di Cleopatra non fu tanto la inusitata prova che il film in costume era tramontato (dopotutto l’anno seguente figurano tra le produzioni hollywoodiane pellicole come La caduta dell’Impero Romano, 1964, di Anthony Mann e La più grande storia mai raccontata, 1964, di George Stevens, nonché, nel 1963, 55 giorni a Pechino, di Nicholas Ray e Andrew Marton), ma piuttosto che la risposta del pubblico stava diventando sempre più imprevedibile. Nutrito per decenni a un kitsch che appariva il suo primario cibo, oggi lo spettatore se la rideva delle assurde battute di un copione involontariamente comico, persino se esso aveva il crisma della serietà che tradizionalmente hanno i testi sacri (cfr. La Bibbia, 1966, di John Huston). Di certo il ricambio generazionale c’entra qualcosa, ma non è un caso che ormai non siano più lo sfarzo, la sontuosità, la messa in scena ad attirare il pubblico, bensì la capacità di tenuta di una storia, la perfetta concatenazione delle gag, lo scandalo sollevato da certi soggetti, e altri elementi che, appartenenti o no al testo filmico, non si affidavano comunque all’impressione di ricchezza o anche solo alla ricostruzione nella quale un tempo gli studios più autorevoli si erano distinti. La frammistione dei generi divenne quindi pressoché imperativa per due ragioni: primo, lo spazio che l’operazione lasciava al gusto del pubblico, il quale se era scontento dell’aspetto bellico della pellicola, almeno si godeva i riferimenti western (ad esempio, I guerrieri, 1970, di Brian Hutton); secondo, per la meraviglia e la curiosità che, almeno all’inizio, questa pratica sollecitò. In fondo si trattava di un’operazione di rinnovamento, in certa misura persino d’avanguardia, ma compiuta su un materiale che la rendeva prodotto per tutti, estraneo a qualsiasi elitarismo culturale nella scoperta ironia degli ammiccamenti verso un pubblico che quanto a cinema se ne intendeva e che aveva potenzialmente visto tutto, o comunque abbastanza per non perdersi una sola allusione della sceneggiatura. Fra i generi, peraltro, ve n’erano alcuni che per loro natura vantavano una valenza più alta: il melodramma, prima di tutto, e, in un altro senso, la commedia. Due tipi di film che, quali che ne fossero state le alterazioni, in ogni caso non sarebbero mai tramontati. Il cinema degli anni Settanta anzi, arrivò persino a mescolarli tra loro in un’operazione alquanto audace che però trovò interessanti esiti. Così, il cinema americano riuscì a perpetuarsi in attesa di una riscossa che nessuno allora poteva predire ma che pure non sarebbe mancata, e la cui unica condizione era un cambiamento – neanche poi tanto radicale – dell’immaginario del pubblico, come diremo. Meno facilmente leggibile è il lavorio di esaurimento che i generi vissero dall’interno. Naturalmente si può sempre affermare che le formule col tempo diventano stantie, ma il punto è che con gli anni Sessanta (e ancor più coi Settanta) alcuni generi non si limitarono a mutare formula ma giunsero a un tramonto apparentemente definitivo. Il crepuscolarismo che marca il western del decennio – cominciato almeno da Solo sotto le stelle (1962) di David Miller su sceneggiatura del “blacklisted” Dalton Trumbo, e Sfida nell’Alta Sierra (1962) di Sam Peckinpah – tornerà in modo tutt’altro che sommesso in un classico di quest’ultimo autore, Il mucchio selvaggio (1968), opera che idealmente inizia una vera e propria poetica della violenza che per parecchi anni avrebbe contrassegnato l’intero cinema statunitense29. La ricchezza tecnica del fim di Peckinpah e il compiacimento non solo – cosa fin troppo evidente – dei dettagli più sanguinosi, ma soprattutto di un’iconografia che avrebbe fatto scuola per almeno dieci anni, fatta di spolverini, di gruppi a cavallo ripresi in teleobiettivo, di tagli di montaggio sveltissimi e numerosissimi, di generali e
pistoleros messicani probabilmente mutuati dallo “spaghetti western” ma ancora più sadici e astorici dei loro cugini di firma italiana, fanno dei western una palestra di strano, abnorme calligrafismo, giocato sulla miseria, la povertà, l’abiezione e comunque l’estraneità alla norma sociale. Peckinpah esalta alcune componenti del genere, le sposa a dati storicamente marginali ripresi da una tradizione del tutto fittizia, mescola le carte e osserva le turpi combinazioni fornite dal suo gioco, che però mantiene sempre una viva simpatia verso gli eroi travolti dal destino ma fedeli a se stessi. In genere i rappresentanti della società sono i più abietti e rapaci personaggi del suo cinema western (e non solo western), mentre i banditi salvano pur sempre un’idea d’onore che si identifica nell’amicizia e nella parola data. Sono, queste, le conseguenze della distruzione che gli anni Sessanta hanno operato sui classici miti borghesi della famiglia, del successo, della legge, della società, ecc. Peckinpah è da questo punto di vista un ottimo rappresentante dell’anarchismo idealista che era alla radice della protesta giovanile di quegli anni. La sua stessa violenza, dopotutto, non era così gratuita come poteva sembrare. Era dai tempi della repressione antisindacale e del gangsterismo fra i Venti e i Trenta che l’America non aveva visto le sue strade bagnate del sangue di persone cadute quotidianamente sotto il piombo della polizia o dei fuorilegge. Nei Sessanta invece tutto il Paese assiste sgomento alle riprese in diretta televisiva del cosiddetto “assedio di Chicago” e piange la morte violenta di Martin Luther King e di vari studenti. La violenza diventa di nuovo non più un fatto episodico e sgradevole ma un pervasivo evento culturale. Peckinpah non fa che interpretare e tradurre in immagini questa violenza, e lo fa soprattutto (ma non soltanto) in un genere che era a suo tempo stato la bandiera dell’americanismo, dell’ideologia espansionistica della frontiera. Scettico individualista, egli è tuttavia molto più imparentato con la protesta sessantesca di quanto lui stesso avrebbe mai ammesso. A parte Il mucchio selvaggio, il western come genere subirà i colpi della dissoluzione anche su versanti meno duri. Butch Cassidy (1969) di George Roy Hill, ad esempio, idealizza il fuorilegge non alla maniera di Fritz Lang e Sam Fuller con la figura di Jesse James, ma come se i banditi fossero i simpatici eroi di una ballata che ha spesso il sapore di una commedia. Un po’ quel che nel gangster film era avvenuto un paio d’anni prima con Gangster Story, nel quale un banjo in stile bluegrass accompagna le scorribande dei due protagonisti come se si trattasse di un’allegra scampagnata30. Non è affatto casuale che il primo regista pensato per questo film fosse François Truffaut (ma alla fine l’accordo andò in fumo), mentre Roy Hill è notoriamente un regista amante di figure e scenari nostalgici e tenuemente eroici. In ogni caso la figura diretta, immediata, mitologica o no poco importa, del bandito passa ormai attraverso il filtro di una aprioristica simpatia nei suoi confronti che mai in precedenza Hollywood aveva avuto il coraggio di nutrire o di confessare salvo quando aveva volutamente manomesso la storia originale fornendo una variante tanto improbabile quanto (spesso) piacevole e godibile che giustificasse la discutibilità di quella posizione verso il supposto malvagio di tutta una precedente tradizione. La dissoluzione dei generi tocca, fra le altre cose, l’ambito della morale. Il bandito è colui nel quale ci identifichiamo. Ma è il film stesso a mutare i propri contorni e le proprie componenti, i modelli e le formule. All’origine fu in certo modo l’ondata registica televisiva di cui si dirà anche più avanti; autori abituati a un’idea di cinema estremamente funzionale non solo tecnicamente ma anche in relazione ai gusti del pubblico. Vale a dire una spettacolarità che sta addosso ai personaggi più che essere sviluppata nell’ariosità delle immagini. Se da un lato Corman e la sua “ricostruzione” avevano riportato il cinema alle sue origini, dall’altro proprio la sua attenzione ai giovani, alla loro vita, ai loro gusti nei campus, nei bike, negli hot rod e nei rock movies aveva attratto l’attenzione verso un cinema all’aria aperta, ma non troppo esteso, libero ma non whitmanianamente onnicomprensivo. I registi televisivi compresero bene la fondamentale importanza del personaggio rispetto ai ritmi scanditi della commedia o del meloramma classici. L’obiettivo lo seguiva più da vicino, ne intuiva una vicenda che aveva luogo, sì, in uno spazio ampio, ma che tuttavia sembrava ora importare più del teatro ove avveniva. È un pregiudizio della critica ritenere che con l’avvento delle riprese esterne del “nuovo” cinema la macchina da presa renda il senso dello spazio e dell’immensità americana. Certo, in Easy Rider non mancano i campi lunghissimi di una nazione che sembra fatta per un negozio di cartoline, ma il loro quoziente di significazione è tutto sommato alquanto inferiore a quello, poniamo, dei western di John Ford. L’obiettivo del “nuovo” cinema americano si porta dietro una componente documentaristica e cronachistica che gli preclude un uso finalizzato del paesaggio naturale. In genere esso appare quasi come occasione e l’interesse dei registi si appunta piuttosto su visioni – di grande immediatezza – della realtà urbana. I primi ribelli fra i Sessanta e i Settanta, da Easy Rider a Punto zero (1971) di Richard Sarafian, percorrono mezza America fra scenari naturali di non piccola bellezza che però informano lo spettatore ormai urbanizzato della pittoricità del suo Paese, della sua grandezza, delle cose bellissime che esso include e di cui si è probabilmente dimenticato. Il paesaggio di quei film non è rappresentazione della coscienza, della solitudine, magari dell’inconscio o altro ancora. Esso è l’America, quella parte di
America. L’interazione fra personaggio e ambiente, di conseguenza, offre scarse possibilità di sviluppo e di significazione. Finalmente il cinema americano rende un’impressione di realtà. Finalmente il cinema, per dirla con Wallace Stevens, non è fatto di «idee intorno alla cosa», ma della «cosa stessa». L’illusione di realtà è una delle più compatibili ingenuità di quegli anni. Nel momento in cui la realtà si stava spettacolarizzando il pubblico credette di assistere per la prima volta a una perfetta riproduzione del mondo; mentre era il mondo che assumeva vieppiù le vesti dello spettacolo. La stessa dissoluzione dei generi, in questa chiave, non fu altro che una tappa ulteriore della marcia verso un cinema che riduceva sempre più le distinzioni interne, le discriminanti, le differenze di categoria e classificazione. La visione sta diventando una, i mille aspetti del mondo si stavano omologando nello spettacolo, concedendogli in cambio la garanzia di realtà cui il mondo abdicava. Alcuni vecchi concetti stavano ormai crollando: fra di essi quello di spettacolo e quello di realtà. Il cinema, come il mondo non aveva più distinzioni. Dire Mgm poteva alludere ai musical di Arthur Freed così come a un disco di Conway Twitty; dire Paramount era un ammiccare agli ammiccamenti stessi delle commediole esotiche con Bob Hope e Bing Crosby, ma anche riferirsi alle multinazionali del petrolio; dire Warner Bros. significava il “truecolor” incredibile di Johnny Guitar, ma anche alcuni paperback di (relativo) successo. Il mondo non era più lo stesso, gli oggetti avevano diversi referenti e valenze: tutto congiurava perché la falsità dello spettacolo sostituisse quella che forse presuntuosamente avevamo ritenuto la verità della vita. 1 Anche la nota lettura che Raymond Bellour fa di Intrigo Internazionale, in «Communications», 23, Paris, 1975, nel suo saggio dal titolo Le blocage symbolique, può essere interpretata in chiave di dissoluzione del soggetto. 2 Cfr. N. Holland, The Dynamics of Literary Response, cit. in Charles Affron, Cinema and Sentiment, The University of Chicago Press, Chicago, 1982, p. 76. 3 Cfr. C. Affron, ivi, p. 77. 4 Il confronto è stabilito da Roy Armes, Film and Reality, Pelican Books, Harmondsworth, 1974, p. 157. 5 Cfr. C. Affron, op. cit., p. 77. 6 Cfr. V.F. Perkins, Film As Film, Pelican Books, Harmondsworth, 1972, pp. 107-15. 7 Cfr. François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, trad. it., Pratiche, Parma, 1977. 8 Cfr. ancora R. Armes, op. cit., p. 157. 9 Scrive molto bene Alfredo Rossi nel suo Elia Kazan, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 71, a proposito di Splendore nell’erba: «La storia d’amore al centro dell’intrigo è strutturalmente determinata non tanto dagli avvenimenti della storia (come potrebbe avvenire nel romanzo classico) ma dalla loro valenza simbolica nella società americana. Kazan non racconta una storia i cui esiti sono condizionati da eventi politico-economici, ma – sta qui l’acutezza – i cui meccanismi sono psicologicamente e socialmente determinati dai fantasmi che quegli avvenimenti politicoeconomici producono nell’ideologia storicamente dominante». Davvero un’ottima lettura dell’incipiente tendenza nostalgica del cinema americano nel suo insieme. 10 Cfr. John Baxter, Hollywood in the Sixties, Tantivy-Barnes, London-New York, 1972, p. 79. 11 Ancora J. Baxter parla dell’idea, vigente allora a Hollywood, che ogni film di Akira Kurosawa poteva essere tradotto in western, per cui una pellicola come L’oltraggio (1964) di Martin Ritt si ispirerebbe direttamente a Rashômon e I magnifici sette a La sfida del samurai (che a sua volta ispirò Per un pugno di dollari di Sergio Leone). Tutto vero, ma c’è un particolare: Kurosawa è stato a sua volta, e in precedenza, influenzato dal cinema americano e dal western in particolare, per cui il gioco delle influenze è in questo senso molto più sottile e biunivoco; proprio come il rapporto fra il “nuovo western” di Peckinpah e quello all’italiana. 12 Scrive Jerzy Toeplitz nel suo Hollywood and After, H. Regnery Co., Chicago, 1974, p. 61 a proposito di Tutti insieme appassionatamente: «Invero, ogni sorta di cose era ficcata nel film: una monaca canterina e un coro di bambini, un conflitto fra amore terreno e dovere spirituale, fra amore parentale e senso del dovere, una resistenza patriottica contro l’occupazione nazista dell’Austria al tempo dell’Anschluss nel 1938 – davvero un’abbondanza di virtù evangeliche e di alti sentimenti. Voi ditene una e quella c’era, e tutto (o almeno la maggior parte di esso) messo in musica dall’incomparabile coppia Richard Rodgers e Oscar Hammerstein». Pauline Kael descrive i registi e le loro imprese in modo molto pungente: «Sono i Pavlov della regia: ci tramutano in cani che emettono saliva al segnale. Quando il padre crudele vede la luce e dice: “Lei ha riportato la musica in questa casa” chi può resistere all’impeto dell’emozione?… Ma è la più facile e forse la più primitiva specie di emozione quella che ci hanno fatto sentire». 13 Lo testimonia anche un diverso tipo di film, il musical con Elvis Presley, nei Sessanta così radicato da diventare una sorta di sottogenere a sé. Veicolo non solo per le prodezze canore di Elvis, ma anche e soprattutto per un erotismo del corpo nella performance, i titoli vanno da Il delinquente del rock and roll (1958) di Richard Thorpe a Viva Las Vegas (1963) di George Sidney, per citare solo un paio delle cose più note. 14 Il cosiddetto biopic comincia nel musical verso gli anni Quaranta (ma con avvisaglie sin dai Trenta). Con poche eccezioni – ad esempio La storia di Vernon e Irene Castle (1939) di H.C. Potter – sembra che gli “eroi culturali” di questa branca non comprendano ballerini. 15 Come scrive giustamente J. Toeplitz, op. cit., p. 57: «Un eroe moralmente ambiguo e discusso, come Patton, e un film che manca di un eroe, come Tora, Tora, Tora, sono differenti aspetti dello stesso fenomeno: una tendenza ad abbandonare concetti idealizzati a ridimensionare miti romantici». 16 Si noti come la retorica della nobile azione di gruppo già rintracciabile in I magnifici sette diventa qui molto più spigolosa e violenta. Raddrizzatori di torti, i cowboy di Sturges riscattavano i loro peccati con una rigorosa aderenza all’umanità (nei fatti se non nei modi), in questo parenti del “mucchio selvaggio” del posteriore Peckinpah. Gli eroi di Aldrich invece possono anche uscirne in ultima analisi positivi, ma il loro unico codice è l’abilità nell’uso delle armi. Gli obiettivi diventano per loro il fine ultimo, non oggetto di una metamorfosi che dalla strategia li porta su un versante di valori. Ancora una volta, siamo nel momento più difficile dei Sessanta, e Aldrich lo interpreta perfettamente. Già qualche anno dopo Peckinpah, nella sua celebrata violenza, mostrerà riferimenti a valori individuali che varranno come una sorta di anticipazione dell’etica relativistica degli anni Settanta. 17 Sul funzionamento di queste gag cfr. G. Cremonini, Jerry Lewis, La Nuova Italia, Firenze, 1980, soprattutto pp. 28-32, ma anche passim. 18 Ivi, p. 30. 19 Ivi, p. 31. 20 Ivi, p. 32. 21 Ivi, p. 50. 22 Ivi, p. 71.
23 Cfr. E. Mordden, op. cit., p. 202. Dal canto suo, e non meno a ragione, John Baxter scrive dell’American International che si trattava di «una compagnia la quale nel suo rispondere al gusto del pubblico con un basso budget e un alto quoziente di intrattenimento rifletteva quello della Warner negli anni Trenta». Cfr. J. Baxter, op. cit., p. 140. 24 Cfr. Giuseppe Torroni, Roger Corman, La Nuova Italia, Firenze, 1977, p. 68. 25 Ivi, p. 64. 26 Ivi, p. 71. 27 Ivi, p. 149. 28 Rimandiamo il lettore al nostro Il nuovo cinema americano (1967-1975) Marsilio, Venezia, 1985, nel capitolo dedicato alle poetiche dell’iperrealismo. 29 Anche per questo argomento rimandiamo al nostro studio sopra citato nel capitolo dedicato alle poetiche della violenza, e specificamente al cinema di Peckinpah. 30 Scrive ancora J. Toeplitz, op. cit., p. 149: «Bonnie e Clyde sorridono sempre, sono frivoli, un po’ infantili, certamente affascinanti. Uccidono anche un po’ frivolmente e senza volerlo fare. È difficile non amarli, non rimpiangere la loro morte così giovani. Da qui c’è solo un passo per arrivare all’apoteosi, e procedendo, all’identificazione».
Capitolo quinto GLI ANNI SETTANTA E OLTRE: NEW HOLLYWOOD ED ERA TELEVISIVA «L’uomo comune è l’eroe comune. L’eroe comune è l’eroe. (…) A meno che non crediamo nell’eroe, che cosa c’è in cui credere?». Wallace Stevens, Examination of the Hero in a Time Of War
1. Rinnovamento? Nella seconda metà degli anni Sessanta, dunque, alcuni film cominciarono a segnare la strada di un rinnovamento sia tecnico che tematico. Titoli diversissimi come Il laureato, Costretto a uccidere, Gangster Story, Easy Rider hanno per altrettante diverse ragioni diritto a tale posto innovativo. In gran parte di queste opere il capovolgimento dei termini di trattazione della figura del protagonista rispetto al passato è alquanto evidente. Ma è questa la novità? Prendiamo il già citato Il laureato di Nichols. Senza dubbio il rapporto figli/genitori (e più generalmente giovani/società) vi è descritto in modi alquanto diversi da Gioventù bruciata. Il protagonista non è più un introverso estraneo ai costumi sociali del gruppo, ma un introverso i cui problemi sorgono proprio perché i costumi del gruppo premono sempre più su di lui condizionandone persino i movimenti (come dimostra brillantemente la sequenza della piscina). Cinema più “realistico”, nel senso che la sua qualità mitopoietica si maschera ben più che in quello precedente sotto le apparenze della quotidianità dell’esperienza, Il laureato esemplifica bene la sostanza ideologica di fondo dell’intero cinema hollywoodiano a venire. La differenza col cinema del passato, anzi, sta qui: nell’abbandono del registro sovracuto nella descrizione del “quotidiano”, con la conseguenza, al livello dei generi, di staccarsi dall’universo del melodramma per divenire ibrido fra questo e la commedia. Ecco già un dato abbastanza sicuro: se qualcosa caratterizza gran parte del “nuovo” cinema, è la difficoltà di attribuzione dei suoi prodotti a un genere preciso, o almeno, come dicevamo più indietro, alle formule classiche del genere specifico. Questo, è evidente, contribuisce vieppiù a imbrogliare le carte anche a livello ideologico. In Ben che piazzando la croce alla porta della chiesa mentre rapisce la sposa sorride divertito è da leggersi tutto il sorriso di un cinema che sembra non prendersi più sul serio, che preferisce scartare l’asso del melodramma o della screwball per fare del cinema una costruzione svincolata da convenzioni retoriche classiche. Ma, si diceva, l’operazione implica una confusione ideologica. Questi eroi burloni, schiacciati dalla vita che tutti conosciamo per davvero, non fanno che perpetuare il buon senso di un’etica che raccomanda “sympathy for the (poor) devil”. Mitologicamente siamo nella tradizione dello schlemiel, persino del trickster, temperato però dalle dure lezioni della socialità, che peraltro non rinuncia a farsi eroe nonostante se stesso. Tutto il melting pot americano concorre a forgiare tale composito personaggio: tradizione ebraica, indiana, Wasp si danno la mano per costruire una figura mitologica che forse in quanto tale non esiste, ma che di certo è un magnifico referente delle esperienze dei singoli, anonimi, massificati individui programmati e prodotti da un’ideologia che ha da tempo scoperto le sue carte. La confusione ideologica è evidente: sul piano della “realtà” della narrazione tutto sembra indicare una denuncia; su quello del mito siamo di fronte invece a un ulteriore fantasma di alterità, di distacco, di solitudine. L’unicità del personaggio nel contesto narrativo che lo riguarda è pura mitologia nel momento in cui operano i meccanismi classici dell’identificazione spettatoriale. La qualità mitologica di Easy Rider di Hopper è molto più esplicita di quella di Nichols: la sua struttura infatti rimanda al viaggio eroico, alla discesa agli inferi di campbelliana memoria. Easy Rider, cioè, denuncia presto la sua affiliazione ai meccanismi della immaginazione mitologica, alle sue strutture, alle sue figure, ai suoi percorsi, ai suoi tòpoi. Ideologia (cioè falsa coscienza), miticità. Il rinnovamento allora sta altrove. Ma la questione che si pone a questo punto è: si tratta davvero di un rinnovamento? Se i termini di fondo di questo cinema sono rimasti sempre gli stessi, necessariamente ciò che lo contraddistingue dovrà essere letto a livello di superficie: appunto i giovani, la tecnologia, il linguaggio e un po’ tutte le “voci” che qualche critico si è sforzato di compilare nel tentativo di capirci qualcosa. Ma, ad esempio, invertire i valori etici tradizionali mostrandoci che, dopotutto, abbiamo sempre usato il cannocchiale dalla parte sbagliata non significa mantenere lo stesso rapporto proporzionale, la stessa direzione vettoriale, la stessa struttura morale? Che importa sapere chi è il buono e chi il cattivo quando un buono e un cattivo rimangono sempre e comunque a strutturare moralmente tale cinema? Se partiamo da queste premesse vedremo allora che giudicare in termini direttamente politici film come Fragole e sangue (1970) di Stuart Hagmann e
L’impossibilità di essere normale (1970) di Richard Rush potrà fornirci solo una parte della verità, più o meno la stessa che avremmo se leggessimo il posteriore Il cacciatore (1978) di Michael Cimino come un film sulla guerra in Vietnam (ciò che in tutto il mondo è stato a suo tempo regolarmente fatto). Si tratta dello stesso procedimento di formazione del sogno nel quale gli elementi costitutivi “stanno per” qualcos’altro. Nei due film citati, ad esempio, l’università non può essere letta in termini di verosimiglianza, e ancor meno può essere letta in tal modo la rivolta dei rispettivi protagonisti, e non solo perché la preparazione ideologica dei veri studenti americani fosse superiore a quella dei mattacchioni in questione. Intendiamo dire che la struttura di tali pellicole, indipendentemente dalla loro componente “universitaria” vive a sé, inscenando l’usuale rito etico-sociale per cui, stanchi delle regole, ci si diverte a infrangerle. A prescindere da ogni altra considerazione, è incredibile come il cinema hollywoodiano abbia proceduto per anni ruotando attorno a questa semplice formula. Come insomma Hollywood abbia (con le dovute eccezioni, Altman in prima linea) sempre girato lo stesso film. Nessuna cinematografia può vantare tanta “coerenza”. Come nella Hollywood del lontano passato, all’interno del grande mare a omogenea percentuale di iodio si salva solo – quando c’è – l’autorialità specifica, la presenza di una mano registica personale e riconoscibile che però è non a caso quasi sempre quella di autori già sperimentati (le eccezioni fra i giovani le vedremo fra poco). Possiamo forse distinguere come di Mankiewicz il fine Uomini e cobra (1970) rispetto a La banda di Jesse James (1972) di Phil Kaufman; ma possiamo distinguere l’autorialità di quest’ultima da quella del Don Medford di Il giorno dei lunghi fucili (1971)? Non a caso le non molte personalità riconoscibili di questo cinema appartengono, come Sydney Pollack, a una generazione (in senso professionale: dai cinque ai dieci anni) diversa dai giovani registi. Siamo insomma, come diremo ancora, di fronte a una politica che gli studios abbracciarono a suo tempo in modo incondizionato: tematiche giovanili, registi giovani, basso budget. Fu appunto Easy Rider ad aprire la sequela. Ma solo per il successo che gli arrise: come è noto, già qualche anno prima altri registi (peraltro della stessa scuderia, quella di Roger Corman) avevano battuto le stesse strade. L’intelligenza di Dennis Hopper fu proprio quella di miticizzare la tematica giovanile, di renderla, sì, indicativa, rappresentativa di una problematica americana contemporanea, ma al tempo stesso di farne il modello tipico e atemporale di cui si diceva.
2. Sì, rinnovamento Dunque il rinnovamento hollywoodiano avviene all’insegna dell’anonimato, del film generico (per quel che riguarda il particolare mondo autoriale che lo esprime) nel quale l’autore è sommerso dall’apparente attualità della tematica trattata. Non a caso gli studios “affittano” qualche regista giovane con qualche idea concreta al fine di accalappiare un pubblico diverso, coetaneo, ovvero di riproporsi come spettacolo. È la logica dell’industria e non sorprende nessuno. La vera Hollywood nasce, è ormai evidente, quando essa sembra essere già cresciuta; quando cioè alcuni giovani registi, evitando la facile demagogia delle tematiche realistico-politiche, si assestano su versanti iconografici e addirittura teorici di ben altro spessore. La diversità delle istanze di tali autori è forse la miglior prova della vitalità di questo cinema, il quale, dopo una fiammata incontrollata e sostanzialmente anonima, trova finalmente le voci adatte a esprimerlo in termini originali e comunque degni di attenzione. Certo, Bogdanovich non è Scorsese. Ma quel che conta è la comune volontà di riconsiderare il cinema come concetto, non quella – fino ad allora vigente – di “ringiovanire” le tematiche hollywoodiane. Da questo punto di vista Bogdanovich è con Altman il maggiore regista del periodo. Con lui il cinema diventa coscienza della fine, coscienza cioè che l’immagine non può essere altro che ripetizione di un precedente. Il sistema di immagini che costituisce l’universo filmico si è da tempo strutturato come chiuso, nel senso di “esaurito”: ogni possibile alchimia di componenti è ormai inattuabile, il cinema è morto. Potremo così celebrarne le gesta storicamente come in Vecchia America (1975) o ricostruirne i meccanismi classici, da L’ultimo spettacolo a Ma papà ti manda sola? (1972), ma sarebbe assurdo pensare che fare cinema sia una categoria creativa originale in un mondo sopraffatto dalle immagini. L’operazione di Bogdanovich è evidentemente di tipo iperrealistico in quanto in essa occupa un posto centrale il concetto e la pratica della riproduzione. Ma qui va evitato un malinteso: non si tratta della ripresa del puro e semplice concetto classico di imitazione. Nell’operazione iperrealista non è questione di imitare, ma, appunto, di riprodurre1. Ora, Bogdanovich non riproduce i temi e le linee tipici dell’iperrealismo pittorico, ma riprende la polemica iperrealista operando con il cinema, riproducendo, cioè il cinema stesso nei suoi generi (melodramma, commedia, musical, ecc.). Più ancorati a un versante di immediata pratica figurativa sono Coppola e Scorsese, registi non a caso eminentemente “urbani”, cioè di un’estrazione sociologica che è per molti versi quella dell’iperrealismo pittorico. Con loro il
cinema si piega all’operazione che una decina d’anni prima era stata della pittura americana. L’immagine diventa creazione iperrealistica. Il problema è più complesso di quel che forse può apparire. Per anni si era dibattuto sul concetto di realismo nel cinema, e proprio quando la natura fantastica del mezzo sembrava finalmente aver trionfato su ogni chimerica istanza di cinema/verità, ecco che i dati del reale nella sua quotidianità ti rientrano dalla finestra rifacendo le composizioni di pittori come John Salt, di Eddy, di Estes, ecc. All’obiezione vi è, vediamo, più di una risposta. Intanto, iperrealismo non significa realismo: la qualità onirica, ad esempio, della pittura iperrealista balza agli occhi indipendentemente dal fatto che essa si costruisce su dirette basi fotografiche. L’onirismo di certe strade e vetrine è così evidente da non necessitare di alcuna dimostrazione. A nostro parere, anzi, i momenti più onirici e irreali di Taxi Driver (1976) non sono tanto nelle inquadrature di carattere neoespressionista che pure il fim presenta, ma nei momenti più quotidiani e statici del film: i tassisti seduti al tavolo del bar ripresi in campo totale, il protagonista e il Mago che discutono avvolti da una luce rossastra vicino all’automobile, il primo che esce dal cinema insieme alla ragazza. La realtà al secondo grado dell’iperrealismo è più vera del vero ed è la risposta al grado inferiore di realtà che è il prodotto di ogni arte divenuta industria. La battaglia di questi registi è stata coraggiosa: abbracciando ogni compromissione implicita nel fare cinema a un livello industriale, essi scavano nei recessi della loro pratica per denunciarne le contraddizioni nel momento in cui sembrano cedere le armi. Tuttavia non è una celebrazione di alcuni intelligenti registi settanteschi che qui ci interessa fare, ma osservare quali sono i termini reali del supposto rinnovamento cinematografico hollywoodiano. Riassumendo quanto detto finora, a un primo momento di rinnovamento tecnico-tematico (che però sia strutturalmente sia ideologicamente lasciava le cose com’erano) si sussegue un certo numero di autori (peraltro pochi) che tentano di investigare sul cinema, sulla sua natura, sulle sue possibilità, sul suo stesso ruolo in un mondo sommerso dalle immagini. In questo senso si spiegano bene le dirette influenze tecnico-figurative dei commercials televisivi su questo cinema. La spiegazione volgare le farebbe risalire alla formazione televisiva degli autori che peraltro non tutti hanno avuto, ma in realtà assistiamo a una sorta di proliferazione ed equivalenza delle immagini. A un punto tale da consentirci quantomeno il sospetto di assistere alla produzione di una stessa e unica immagine. Ciò fra l’altro spiegherebbe ulteriormente proprio la confusione ideologica di cui si diceva, la concezione e la costruzione di opere nelle quali una rivolta in un campus e girata con la tecnica di uno short pubblicitario, o la storia di un disadattamento sociale con quella di una soap opera. Dunque il meccanismo azzerante che aveva caratterizzato la Hollywood dei tempi d’oro si ripete in quella dei nostri giorni: questa volta la pietra dello scandalo non è più una cinica produzione capace di condizionare radicalmente la volontà e l’universo personale di un regista, ma qualcosa di identico e diverso. Certo, grossi rinnovamenti si sono avuti nei quadri direttivi degli studios che ancora si ostinano a fare cinema dopo il crollo dei Sessanta, ma questo non altera la sostanza del quadro. Lasciata libera la mano del più mediocre autore, ci si accorge che il condizionamento non è esterno ma strutturale. All’arcigno, rude, ignorante produttore del passato si sostituisce direttamente il Capitale. Il condizionamento, insomma, è implicito nella pratica stessa di questo cinema, del cinema americano. La spettacolarizzazione del reale operata dal Capitale non ha ormai più bisogno di intermediari: essa si denuncia tale nel momento in cui opera. Da questo punto di vista Bogdanovich e gli altri hanno tentato l’unica strada teorica possibile nella contraddizione irriducibile del cinema americano dei Settanta. Esiste però un’altra strada, ed esiste perché c’è stato un regista che ha avuto l’intelligenza e il coraggio di pensarla e di praticarla: Robert Altman. Naturalmente dal cinema di Altman si può sempre estrapolare una poetica, ma la sua operazione si pone prima di tutto come “azione” autoriale. Altman ha scardinato tutte le strutture della narratività cinematografica classica serializzandone2 i dati invece di collegarli. Tipico esempio di cinema in progress, la sua caratteristica è quella di costituirsi su due registri corrispondenti (elaborazione e opera) che evidenziano subito la propria assenza di struttura regolare: il cinema di Altman si fa praticamente minuto per minuto senza un riferimento assoluto (distanza dalla pratica classica di produzione), il film si costituisce come assenza spettacolare (nei due sensi del termine), nella quale i rapporti di significazione si evidenziano seguendo una vera e propria “trasversalità” rispetto al corpo cinematografico classico (forse la sua opera più esemplare in questo senso è California Poker, 1974). Altman tuttavia non ha mancato di accedere anch’egli alle istanze iperrealistiche, corroborando ulteriormente la sua posizione anomala nel contesto generale del cinema americano dei Settanta, soprattutto se si tiene conto che in Nashville (1975) si incrociano l’asettico antipsicologismo e l’obiettivismo del cinema iperrealista da un lato e una decisa ed esemplare affrescalità sociopolitica dall’altro. Come non poteva la reazionaria, ultraconservatrice capitale della musica country statunitense diventare metafora dell’America tutta? E come non poteva una città (e una nazione) che dell’ambiguità
ha fatto la propria bandiera non diventare ghiotto tema emblematico di un regista specialista per quel che riguarda l’impossibilità di fissare concretamente, una volta per tutte i termini precisi, oggettivi della realtà?3. Da questo punto di vista Nashville è un film che riassume tutto il precedente cinema di Altman: vi è leggibile la poetica del rischio a lui così cara, la concezione del film come entità in progress, non predeterminata ma in espansione secondo le mille sfaccettature della realtà (e il montaggio si rivela in questo senso più che mai fattore determinante), l’uso centrale e insostituibile della musica (qui, poi, la vera protagonista), l’impiego costante dell’ironia, ecc. In certo senso un film a esso contiguo è California Poker: lo stesso amore per il gioco, la stessa caparbia volontà di tentare la fortuna sono in Nashville ingigantiti a livello macrocosmico mentre la storia si dipana non seguendo alcuna linea narrativa precisa e compiuta, ma semplicemente come insieme di momenti insignificanti in una struttura globale formidabile ancorché senza contorni distinguibili. Ma l’amore del gioco in Nashville ha una sua giustificazione etica precisa. È l’ideologia della prova, del tentativo, della volontà di realizzazione del Sogno Americano. Come si diventa presidenti in America? Cantando: tutta l’America (e tutto il film) è una grande canzone, in linea con l’importanza dei media nel cinema dell’autore. Una canzone fatta della barcollante eppure ancora resistente vecchia tradizione “Mother-HomeCountry”, della pervicace convinzione che «qualcosa di buono dobbiamo pur aver fatto per durare duecento anni», e soprattutto della facile, comoda filosofia del «non me ne importa qualunque cosa accada». In questo enorme affresco, paradossalmente, si rileva una relativa vistosità in sede tecnica: pochi movimenti di macchina, uso estremamente parco del famoso “zoom” altmaniano. L’affresco infatti, lo dice Altman stesso, non richiede la dinamicità di film diversamente impostati. Il dinamismo di Nashville è, piuttosto, interno, nell’espansione quasi informale della sua struttura, nelle anticipazioni ironiche che costituiscono una delle chiavi per la comprensione della sua architettura. Non è un caso, si deve aggiungere, che però tutti questi autori si siano lanciati in diversa misura nel terreno della produzione. È, questa, una schizofrenia facilmente comprensibile: il caso di Coppola parla chiaro, con la sua tensione fra opere di circolazione commerciale (peraltro ottimamente confezionate) e altre decisamente audaci, cui accenneremo più avanti. Un aspetto di estremo interesse, nato dall’importante pratica di questi autori, e tale da mostrare ancora una volta la formidabile capacità di esorcizzazione del capitale nei confronti di ciò che in rapporto a esso si pone come critica, è la componente nostalgica. Chi la vuole rifugio nel passato dalle brutture del presente (ma i Trenta, i Quaranta, i Cinquanta, i Sessanta non furono poi una festa tanto riuscita), chi la pensa come referente di una restaurazione, chi come furbesco ammicco al pubblico di mezza età giocato sul sicuro terreno dell’introspezione esistenziale (da consumarsi però dopo alcuni mesi sul piccolo schermo televisivo). E così via. Il fatto è che l’operazione nostalgica nasce come riflessione metalinguistica e non satirica, etica, di costume o altro. Non per nulla i suoi archetipi sono rintracciabili nel solito Roger Corman, l’unico regista dei Sessanta che abbia meditato davvero (sia pure nella vorticosità della sua cronologia filmografica) gli elementari fondamenti linguistici del cinema. Un autore che non a caso ha tenuto a battesimo proprio gran parte degli homines novi di cui sopra. Quando Corman fa Il clan dei Barker (1970) o Scorsese America 1929: sterminateli senza pietà (1971) di certo non si aspettano di vincere il Pulitzer per il miglior articolo sul banditismo anni Trenta. Non per nulla la ventata nostalgica batte ai suoi inizi su un genere particolare del cinema americano classico, e soltanto in seguito arriveranno i sentimentalismi – veri o falsi – di altri autori. Il cinema americano comincia a rivedersi, a riconsiderare la propria storia come storia dell’America. Il cinema hollywoodiano comincia a riassumersi, prima battendo, nei nuovi termini stilistici, le strade del gangster film (il miglior esempio, a livello di genere, di quell’individualismo che aveva alimentato il cinema classico in linea con la più codificata etica americana) e poi calando la maschera e imponendo il discorso metalinguistico in modi diretti. È ovvio, un cinema ormai saturo di immagini ha a sua disposizione una sola ultima immagine utilizzabile: quella di se stesso come produttore di immagini. «Tutti i film possibili sono già stati fatti», diceva Peter Bogdanovich, e dunque rifarli “uguali” significa in ultima analisi filmare il cinema, cioè fare nostalgia. Bogdanovich ha teorizzato e praticato la “morte del cinema”. Immediatamente Hollywood ha istituzionalizzato tale pratica sfornando uno stuolo di registi che, pur attraverso strade diverse, ne hanno seguito le indicazioni, giocando non sul registro della critica ma sugli aspetti esteriori che tale cinema aveva fornito. Intanto quella narratività di stampo alquanto classico che era ovviamente stata anche il modello strutturale dell’iperrealismo di Bogdanovich e che in taluni registi diverrà vera e propria avventura (si pensi al caso vistoso di John Milius, e non solo a Il vento e il leone, 1975, e a Dillinger, 1973, ma all’eccezionale affabulazione epica che riesce a nobilitare un tema così poco nobile come il surf
nel confezionatissimo Un mercoledì da leoni, 1978); poi, l’acquisizione degli stilemi esteriori del cinema nostalgico, vale a dire soprattutto un’accurata scenografia divenuta pura ricostruzione memoriale che contempla unicamente se stessa4, con l’eventuale variante dell’inserimento dei termini melodrammatici in un contesto che non li richiedeva necessariamente (o viceversa). Da questo punto di vista un altro riferimento fitzgeraldiano, Gli ultimi fuochi (1976) di Elia Kazan – ancora l’opera di un “vecchio” – non sarà forse autocelebrativo, ma certamente snatura il senso primario dell’operazione nostalgica attribuendo al passato una qualità che è davvero nostalgica e che essa aveva avuto solo in chiave critica vale a dire con un sorriso consapevole non tanto dell’irrecuperabilità di quel passato, ma soprattutto del senso del presente.
3. Decalogo del nuovo cinema Dunque, non è questione di opere esteticamente memorabili. Il punto è piuttosto – come in quasi tutto l’Occidente – che nei Settanta l’estetica si è spostata dai film al cinema, poiché da quel momento in avanti qualunque discorso estetico è possibile solo in relazione all’intero concetto di cinema e non in relazione al singolo film. Perché ogni film rimette in discussione il cinema. Ovviamente la produzione statunitense del periodo vanta opere più ammirevoli di altre, ma non è un caso che queste come quelle presentino spesso un diretto rapporto con un atteggiamento metalinguistico, in particolare in relazione a quella tradizione nella quale si ravvisa usualmente il cinema americano. Questo è però il punto d’arrivo di un lavorìo che, come dicevamo, parte addirittura dagli anni Cinquanta portando a un rinnovamento che è così schematizzabile: 1) incremento delle produzioni indipendenti; 2) piccoli budget produttivi; 3) ricerca di un pubblico giovane; 4) messa in questione dei valori etico-sociali sostenuti dal cinema precedente; 5) attenzione alla politica e al costume; 6) costruzione e stilemi di carattere documentaristico; 7) rinuncia agli studios e ricerca degli spazi quotidiani; 8) ricambio delle leve registiche; 9) abbandono dello star system e lancio di volti nuovi; 10) revisione ideologica dei “generi” classici. Queste componenti, ovviamente, non sono tutte sempre rintracciabili nelle singole opere, ma si può stare certi che alcune di esse sono regolarmente presenti in esse. Inoltre, va rilevato che alcune sono strettamente connesse fra loro. È evidente, fra le altre cose, che un cinema di questo tipo contribuisce non poco a ridurre le distanze fra opere ufficiali e opere estranee al sistema di produzione classico. In alcuni registi, anzi, si assiste addirittura a una sorta di osmosi fra cinema “regolare” e cinema “non ufficiale”. La revisione della concezione costruttiva dell’opera – unitamente a un maggior interesse critico – sarà il migliore terreno di scambio fra due cinema che in passato erano stati agli antipodi5. Peraltro, sarebbe un errore pensare che il nuovo corso sia connesso a un cinema “povero” rappresentato da cineasti giovani e sconosciuti. Il più volte citato Il laureato dimostra il contrario. Quel che conta, da questo punto di vista, è la rappresentatività sociologica e morale del nuovo cinema. Da questo momento in avanti, e per alcuni anni, il personaggio in preda a dubbi di natura sostanzialmente etica che lo coinvolgevano individualmente si trasforma in un essere senza riferimenti, in un eroe senza eroismo, in cinema come in letteratura. In precedenza il problema era stato di scelta; negli anni Settanta il problema sarà l’impossibilità di scegliere, dal momento che l’unica realtà tangibile è ormai lo scarto incolmabile fra l’oggetto e il desiderio. Non a caso alcune pellicole si pongono in termini di vero e proprio delirio, da Dài… muoviti! (1970) di Stuart Rosenberg a Piccoli omicidi (1971) di Alan Arkin. Ormai quel che in passato era stato un cinema di casi morali diventa un cinema di casi clinici. Quell’isolamento che nel cinema classico – e più largamente nell’intera letteratura americana – era stato segnale o di una grandezza morale o di una scelta errata ma nondimeno grandiosa (si pensi a Herman Melville) o anche di un’alienazione rispetto a una realtà insoddisfacente, diventa ora “assenza di realtà”. Il personaggio non può più nemmeno permettersi di ritrovarsi “altro” rispetto al reale per il semplice fatto che il reale non c’è più, sostituito da un’apparenza impossibile a classificarsi, una continua metamorfosi che si cerca inutilmente di intendere.
In questa situazione le strade che il cinema americano poteva battere erano due: a) la descrizione dello smarrimento (a sua volta passibile di diversi modi di figurazione); b) la riflessione sul cinema in quanto mezzo impotente a garantire e definire una qualsiasi certezza. In questo modo fin dall’inizio gli anni Settanta daranno da un lato opere che cercheranno di concretizzare la figura del disagio, l’ideologia dell’assenza, ritrovando una volta ancora nel vecchio caro individualismo (ma con segno invertito) un ancoraggio al discorso; e dall’altro una rimeditazione più o meno esplicitamente teorica sui rapporti fra realtà e cinema. Il disagio, peraltro, non è da intendersi in senso strettamente politico. Politica è in gran parte la sua origine, ma lo sviluppo acquista dimensioni universali e paranoiche. Per esempio, parecchi film del periodo mostrano un indiscutibile interesse – sempre drammatico – nei confronti della tecnologia. Opere diversissime come Rapina record a New York di Lumet, La conversazione (1973) di Coppola, I tre giorni del Condor (1975) di Pollack, per fare qualche titolo, sono l’esemplificazione di un mondo in preda alla macchina, nel quale i valori usuali non soltanto non trovano più terreno nel sistema morale e persino gnoseologico tradizionale, ma nemmeno riescono a sopravvivere in termini contrastivi nei confronti della realtà. Al più, come nel film di Pollack, il singolo può anche cavarsela, ma al prezzo di una condanna a vivere in un universo kafkiano nel quale chiunque può essere il carnefice, nel quale i tradizionali mezzi di democrazia restano un’incognita sul bordo fra verità e compromesso.
4. Un Gershwin della macchina da presa: Woody Allen Un universo kafkiano è anche quello nel quale vivono i personaggi di Woody Allen. Ma Woody è uno degli autori più moderni del cinema statunitense, non ha côté romantici, non riesce a credere in quello che vede se non è cinema. I suoi eroi o vivono la realtà come se guardassero Casablanca o si ritrovano in una vita che è cinematografica e/o romanzesca, ma sempre sfasata rispetto ai modelli originali. Che si tratti del cinefilo di Provaci ancora, Sam (1972) di Herbert Ross, del personaggio da prison film di Prendi i soldi e scappa (1969) o dell’antieroe di Amore e guerra (1975), ambedue di Allen, il nostro autore non si prende mai sul serio, o meglio, per prendersi sul serio deve passare attraverso il filtro dello smontaggio: ancora una volta, smontaggio dei generi cinematografici, smontaggio del cinema in termini metalinguistici. Anche Woody Allen, dunque, per diverso che sia dagli altri cineasti del nuovo cinema e per quanto non lavori a Hollywood ma a New York, rientra nell’alveo delle sue tendenzeguida. Di più: il suo primo cinema – vale a dire fino allo stesso Amore e guerra – denota un affastellamento, un’immediatezza, una caoticità che ne denunciano l’origine appassionata e ben poco hollywoodiana. A suo modo Woody è un ulteriore aspetto dell’evoluzione del cinema americano. Il montaggio delle sue prime opere, sebbene curato da un veterano come Ralph Rosenblum, appare aritmico, amatoriale, riscattato solo dal senso musicale dell’autore che grazie alle note riesce a cucire sequenze il cui ritmo non sempre è cadenzato al modo giusto, le cui aperture non sempre trovano perfezione di collegamento con le immagini che hanno chiuso la sequenza precedente. Woody, stranamente, fa (o meglio, faceva) un cinema che suonava non poi tanto diverso da quello in (supposta) presa diretta così tipico della nuova produzione all’inizio dei Settanta. Anzi, se paragonato, poniamo, ad America, America, dove vai?, da un punto di vista tecnico Prendi i soldi e scappa è addirittura più ingenuo e immediato. È con Io e Annie (1977) che nel suo cinema le cose cambiano. Mentre prima Woody aveva portato sullo schermo le ossessioni della minoranza ebraica newyorkese e aveva dato loro corpo in modo che esse si identificassero perfettamente con quelle di tutti noi, con questo film il regista-attore costruisce una parodia molto più diretta e meno autoreferenziale delle «ossessioni emergenti del periodo in relazione allo stile di vita, all’autosoddisfazione, e al benessere fisico e psicologico»6 che permettono alle loro nevrosi di marca contemporanea di rovinare ai protagonisti il loro rapporto sentimentale. Da un certo punto di vista il cinema di Allen si interiorizza, si introverte mostrando un anno dopo la sua autentica matrice esistenziale e bergmaniana con Interiors (1978). Ma si tratta pur sempre di un autore newyorkese. Anzi di uno dei registi di punta della New York Renaissance in celluloide. Dopo il gruppo di Mekas non c’era stata una produzione metropolitana di particolare riguardo, e Allen, insieme a qualche altro autore (Avildsen, in certa misura e anche Scorsese, fra i vari), lancia nel Paese e nel mondo un’immagine di New York osservata questa volta non attraverso la lente hollywoodiana, ma dallo sguardo di un autentico nativo: Manhattan (1979) è la prima evidente, immediata dichiarazione d’amore che Woody abbia fatto alla città. Di Manhattan si è parlato molto, forse troppo. Ma dopotutto si trattava di un (moderato) ritorno alla commedia dopo l’exploit drammatico, serioso di Interiors. Inoltre, audacemente il regista aveva scelto il bianco e nero (in realtà il film fu girato a colori dall’ottimo Gordon Willis, poi virato). Ancora: per la prima volta l’autore si metteva in scena direttamente, in modo immediatamente autobiografico (l’aveva fatto anche in Io e Annie, ma affidando, almeno idealmente, la parte principale alla partner). E forse non
è estraneo all’attesa suscitata dal film anche lo sviluppo odierno del mito di New York (leggi, appunto, Manhattan), cui lo stesso Allen ha contribuito. Dicevamo che a partire da Io e Annie il cinema di Allen si affina. La storia non si sviluppa come galleria di gag ma si solidifica attorno a uno o più centri di raccordo. Il montaggio è più accorto, meno violento, la macchina da presa più sicura. Allen, insomma, stava mettendo a frutto le sue esperienze precedenti, raffinava il suo sguardo e la sua concezione dell’opera, comprendeva che il cinema è prima di tutto una dimensione metaforica, allusione continua che oltrepassa i semplici dati mostrati. Così, in Manhattan il canto d’amore per la città – immediatamente comunicato in apertura di film – trova in alcuni momenti una vera, precisa dimensione cinematografica: la sequenza al Planetarium, ad esempio, che pure riporta a precedenti suggerimenti in questo senso (si pensi a Gioventù bruciata di Nick Ray), denota un’attenzione psicologica che prende corpo ed esemplificazione attraverso l’idea scenografica, l’uso della luce e dell’ombra, la scelta dei primi piani. Insomma, il protagonista è sempre al centro del discorso, ma questa volta nel discorso non c’è solo il centro, bensì tutto un sistema iconografico e linguistico in sintonia con quel che egli è, con le situazioni che sta vivendo, con le sue emozioni, i suoi pensieri, i suoi desideri. Eppure man mano che il cinema di Allen procede in questo affinamento si spegne vieppiù la forza e la personalità del regista. Questo si comprende bene davanti a un film come Stardust Memories (1980), dove il cineasta si aggrappa a un’ispirazione felliniana, fa ricorso a un sistema che non è il suo, non limitandosi (cosa correttissima) a rileggere un regista ammirato, ma a ripeterlo nelle ossessioni e nell’iconografia. Se si confronta questo Allen con quello delle sue prime prove il divario apparirà abissale: quel che Woody guadagna in tecnica cinematografica lo perde in originalità. Certo, egli continua a immettere nei suoi film quel genio comico che da sempre lo contraddistingue, ma ciò che emerge da queste ultime prove è, appunto, soltanto il suo genio comico. Non c’è un’idea visiva, per quanto riuscita, che si stagli ai nostri occhi come segno originale, come personale firma dell’autore che lui e soltanto lui poteva concepire. Le sue battute invece sì: nessun altro potrebbe concepirle così acute, vivaci, paradossali. Questo, se non altro a riprova che riuscire a fare del cinema per davvero non significa riuscire a fare necessariamente del buon cinema o meglio, del cinema personale. Manhattan obbedisce a un’indicazione creativa inalienabile: lo spessore simbolico dei personaggi. Ma in realtà soltanto uno di essi sfugge a un simbolismo di natura sociologica, quello della ragazza (peraltro sin troppo evidente: si pensi al discorso finale nell’atrio prima della sua partenza). Gli altri incarnano tipi sociali newyorkesi decisamente indovinati, ma non rimandano a un’ulteriore connotazione in una chiave svincolata da tale limitante rappresentazione. Così, emerge il paradosso di cui si diceva: il miglior cinema di Allen – fino agli anni Ottanta – è quello peggiore. Quello, cioè, dove il cineasta, obbedendo alla sua natura, si esibisce in splendide gag verbali e buone gag visuali tentando – cosa di non poco conto – di smontare alla sua maniera i pezzi di un cinema (film storico, documentario in presa diretta, fantascienza, ecc.) cui in seguito sceglierà di allinearsi, evitando il ricorso ai “generi” ma non quello a dei sistemi di riferimento che non sono i suoi. Con gli anni Ottanta le cose cambiano. Anche Allen rimedita il cinema, la sua natura di falso, e anche quelle che per lui sono le sue maggiori fonti di ispirazione. E soprattutto il falso rapporto che esso intrattiene con la realtà. Da un lato Zelig (1983) dall’altro La rosa purpurea del Cairo (1985) dimostreranno il forte giro di boa degli interessi e dei modi stessi dell’autore. Ambedue opere di rilevante risvolto teorico, nel loro indiscutibile divertimento esse sono una dichiarazione di poetica del falso, un’esortazione a distinguere fra reale e immaginario, fra cinema e vita. Senza dubbio si tratta anche qui di una produzione che segue personali esperienze del regista, specificamente un amore per il cinema che non gli aveva consentito la distanziazione necessaria dall’oggetto del suo interesse (ma a cui egli aveva sopperito con la sua straordinaria intelligenza, col suo irresistibile umorismo). Ma l’interazione fra spettacolo e realtà nell’ultimo dei due è un’idea densa di implicazioni teoriche, una sorta di manifesto sulla spettacolarizzazione ormai dominante nel nuovo decennio. Lo stesso Zelig è in fondo una metafora del cinema, della sua adattabilità a essere (e a mostrare) ciò che vuole e che meglio si adatta al gruppo in cui si trova (il pubblico); ma è anche un discorso sulla manovrabilità, sull’adattamento del cinema a mostrare una realtà che non è affatto come quella vera. Il clown del cinema americano è riuscito in un’operazione che non sempre ha visto il trionfo di cineasti seri e sussiegosi. La sua intelligenza, la sua acutezza l’hanno avuta vinta sugli stessi arcigni esponenti di un cinema di sicuramente minor grado intrattenitivo del suo. Forse il segreto è nel fatto che Allen riesce ancora a imbastire una storia in un mondo in cui ogni storia è sempre la stessa, in cui ogni storia è già stata raccontata (ricordate Bogdanovich?). Ma la racconta confondendo il fantastico e l’immaginario in uno sfondo di verosimiglianza ben presto superata. Davvero si tratta di riuscire a raccontare storie? Forse invece il punto è di farlo riuscendo ogni volta a riguadagnare una posizione di scetticismo attraverso il
divertimento; ma quel divertimento, come in ogni clown, non è soltanto un’altra versione della tristezza (magari anche solo di non poter più raccontare storie, o di non poter raccontarle nel modo in cui si vorrebbe)? In fondo anche Woody decostruisce i suoi ultimi film, reimpiega il linguaggio della narrazione per ragionare su di esso, per rivederne i termini. Woody conosce fin troppo bene queste operazioni. E allora, ove possibile, è invece d’uopo leggere le sue pellicole in un altro senso, guardarle come espressione di una nuova realtà, questa sì inoppugnabile: la promozione di New York da cittàguida dell’arte e della cultura occidentale a città del cinema, cioè a metropoli non più dell’immaginato ma dell’immaginario. Nel momento in cui la realtà perde la sua consistenza, il suo spessore e si fa rappresentazione di un mondo di immagini non necessariamente preconfezionate, ma comunque disponibili al consumo, nel momento in cui il cinema realizza l’arte rendendola oggetto concreto e facendo dello stesso mondo oggettuale una produzione artistica, ecco che Woody Allen passa a un cinema adeguato a queste istanze (ci arriva come cineasta consapevole, un po’ in ritardo, ma già nelle sue prime cose è rintracciabile una coscienza in questo senso). New York diventa così il centro del mondo, non più soltanto una città amatissima, ma il referente di ogni avvenimento, il sistema di immaginario entro il quale si inscrive ogni pensiero e ogni sua realizzazione. Woody ha trovato anche le ragioni teoriche per amare quello che da sempre amava. Ed ecco allora che Hannah e le sue sorelle (1986) diventa un altro film rispetto a quell’opera tutto sommato intimistica che appare, quell’esercitazione sul tema della famiglia che, ebraico o euro-nordico, Allen sembra sentire profondamente. Ecco insomma un altro film su New York: case decorate, strade sporche, botteghe, librerie polverose, grattacieli e facciate inusitate di palazzi, ogni momento della scenografia ci parla della metropoli. A guardarlo da questa angolazione Hannah e le sue sorelle è un film costruito su New York, un’opera in cui non c’è momento nel quale la città sia secondaria, estranea. C’è una fetta d’America in questa pellicola e Woody è in certo senso un Gershwin della macchina da presa, e più in generale del cinema americano: ogni cosa che tocca diventa inno al luogo delle forme nuove, del lavoro, dell’intelletto e all’intrecciarsi di vite e destini, al gigantismo di una nazione e di una città che sono ormai – piaccia o non piaccia – il punto di riferimento del mondo occidentale. Da grandi magazzini a bui ristoranti, da tavole calde a palcoscenici pronti per audizioni, da palchi al Met a pontili traballanti sull’Hudson, New York ci è continuamente servita davanti. E non solo nella scenografia, ma nei tipi umani, nelle attività, nei caratteri: il fiscalista, il regista televisivo, l’artista, ecc. In questa terra desolata dove tutti sono sterili (i figli adottivi di Hannah sia nel primo che nel secondo matrimonio), rimanere incinta di un uomo impotente è davvero un miracolo divino. Ma è anche la garanzia di una continuità che Manhattan si assicura, la certezza che in ogni caso l’enorme formicaio proseguirà la sua esistenza e che, come il Grand Hotel di Goulding, vedrà giorno dopo giorno «gente che va, gente che viene: e tutto senza scopo». Woody questo lo sa, eppure ogni volta gira un film cercando di capirlo, questo scopo. E ogni volta non riesce a individuarlo: l’unica cosa che regolarmente si ritrova in mano è un film. In fondo, è forse il primo a sapere che lo scopo era soltanto questo. Nel mondo ottantesco dei gadget elettronici, nella società che ha realizzato la realtà nello spettacolo, una coscienza del cinema è già quasi umanesimo. Anche se il protagonista è un omino senza volto (perché dai mille volti), un bel viso a due dimensioni che intende ritornare dentro lo schermo, alcune tenere marionette che non sanno ciò che vogliono e che da un giorno all’altro potrebbero finire protagoniste di una situational comedy televisiva, ripetendo sino all’ossessione della tragedia quegli atti che la dolente umanità di Woody Allen era riuscita a far loro compiere come se la vita – almeno a Manhattan – fosse una stanca piccola commedia interpretata da due vecchi attori i quali recitano a memoria battute delle quali nemmeno ricordano più il senso.
5. Ancora sul “cinema umano”: la moda e Cassavetes Da questo punto di vista il regista più démodé (e paradossalmente molto di moda qualche anno fa in Italia) è John Cassavetes, uno dei pochissimi umanisti rimasti al cinema americano. Certo, ve ne sono degli altri, ma tutti operano all’interno del sistema uomo/oggetto (i citati Coppola e Pollack, per esempio). Cassavetes affronta invece anacronisticamente il problema affrontando direttamente l’uomo. Ma l’uomo nel cinema è l’attore. Di qui il suo personale approccio di ripresa ravvicinata, nonché il suo tipo di ripresa fondata sul pianosequenza più che sul montaggio, come aveva dimostrato già dai tempi di Ombre7. Anche in seguito il suo continuò a essere un cinema umanistico, agitando problemi certo connessi con la società e persino le istituzioni, ma sempre attento ai loro riflessi sull’individuo. Mariti (1970), ad esempio, è un’impietosa riflessione sulla condizione umana. Non, si badi bene, sul matrimonio. La condizione matrimoniale funge solo da innesco della problematica del film. Il vero protagonista è il tempo. E meglio ancora, la presa di coscienza che le istituzioni sociali creano abitudine, atrofizzano le conseguenze degli impulsi. Non a caso il film si apre su un’immagine di morte. La morte dell’amico non è solo un fatto biologico, ma una metafora della vita dei protagonisti in relazione a ciò che essi sono stati e che ancora ritengono di poter essere (esattamente all’opposto del divertente e in
Italia inedito Bye Bye Braverman, 1968, di Lumet, nel quale invece i personaggi sono indicati come caratteri fissi di una sorta di tradizione etnica, quella ebraico-americana). Nel film non accade molto. Nonostante noi si assista a un funerale, a un viaggio intercontinentale, a giochi d’azzardo, ad avventure sessuali, il film si presenta con una piattezza che ci rivela direttamente l’incidenza marginale di questi eventi sui personaggi. Come se i tre uomini fossero per un momento usciti dai loro confini, dal loro mondo e si aggirassero come sprovveduti turisti in un Paese che forse un tempo conoscevano bene e che ora non conoscono più. In realtà è il meccanismo psicologico che governa le loro azioni in quel “paese straniero” (che non per nulla è l’Inghilterra, a sottolineare l’estraneità di quel tipo di vita, di quelle azioni) a mostrare fallimentare, perché velleitaria, la loro scelta, il loro colpo di coda. Cassavetes, dunque, non ci parla direttamente di matrimonio, di lavoro, di problemi quotidiani (lo farà in seguito, adattandosi al ritorno del “privato” sulla scena dei Settanta in Minnie e Moskowitz, 1971, e Una moglie, 1974, anche se è innegabile che la quotidianità avesse dominato pure il precedente Volti, 1968), ma rovescia il discorso dimostrando che la vita dei protagonisti è fatta di quel che nel film praticamente non vediamo (giusto un breve litigio familiare, che peraltro ha la funzione di farci comprendere come uno degli uomini in casa ci vive male e dunque ha le sue motivazioni per andarsene). Il regista, poi, usa la macchina da presa con stilemi da cinema-verità. La muove spesso, ma sempre incollata ai suoi personaggi. Non c’è un momento in cui si lascia andare alla curiosità del luogo nuovo, di un’Inghilterra ammaliante e vivida. Il “paese straniero” non ha bisogno di essere particolarmente attraente: è stato scelto a priori perché straniero, il suo quoziente d’attrazione è nella mente dei protagonisti, non nella realtà. Cinema umanistico, quello di Cassavetes, che proprio per questo osserva sempre l’uomo, cioè l’attore. I piani lunghi sono dunque una logica conseguenza della necessità di seguire da vicino i personaggi, studiarli nella loro trasformazione che li porta dal primo gioioso impulso alla coscienza di quello che ormai sono e non possono non essere. Autore forse un po’ sopravvalutato (si pensi allo stanco e falso Love Streams, 1984), ma di certo ancora fiducioso in un mondo “antropocentrico”, il suo miglior film dei Settanta – nonostante il grande successo di Gloria - Una notte d’estate (1980) – ci sembra proprio quello in cui, pur all’interno di questa sua usuale componente, egli svolge un discorso più strettamente connesso al cinema di genere come sistema retorico. Pensiamo a L’assassinio di un allibratore cinese (1976), un vero smontaggio del gangster film classico. Il Cassavetes degli anni Settanta è in genere interessato a uno studio del personaggio umano in un cinema sempre più dominato dagli oggetti e dalla tecnologia e ci dà la sua versione di questo mondo dall’angolazione opposta a quella di tanti e pur disparati registi americani del periodo, da Spielberg allo stesso – e molto più critico – Scorsese. Un cinema, quindi, di esseri umani la cui situazione alienata è colta dall’interno. Al massimo Cassavetes prende in considerazione – in termini direttamente ideologici – un’istituzione. Non aspettiamoci da lui comunque una visione globale della realtà. Egli è di quelli che necessitano di filtri specifici, di un passaggio emblematico attraverso il particolare. E in un mondo dominato dall’oggetto, il particolare diventa l’uomo. In L’assassinio di un allibratore cinese il regista sembra concedere una certa attenzione anche all’oggetto, anche alla tecnologia. Non come tema, è chiaro, ma come terreno di ricerca linguistica. Tutta la costruzione del film, anzi, tende a renderci linguisticamente il contrario di quel che siamo abituati ad attenderci in un gangster film. Si indugia sul protagonista e sulla sua attività dilazionando il meccanismo di innesco del dramma, e quando questo viene finalmente innescato il regista elimina sistematicamente ogni topos sensazionalistico, ogni suspense prevedibile. Il montaggio è congegnato in modo da rompere regolarmente l’attesa costruita sino a quel momento (caso vistoso: la lunga sequenza dell’“esecuzione” finale nell’edificio deserto). In questo modo cade ogni parabolicità narrativa anche da un punto di vista cronologico (quanto tempo è passato fra la sequenza della supposta esecuzione e il momento del ritorno del protagonista nel suo locale?). La costruzione perfetta, sapientemente congegnata del gangster film classico si perde qui nell’attenzione a particolari secondari ai fini dell’azione: insomma, quel che interessa Cassavetes non è il meccanismo ma la persona. E a tal punto che, alfine di non ingenerare dubbi e confusione, il regista immette nella storia una forte venatura etica: il protagonista sceglie la morte per mantenere fede al proprio ruolo. Un ruolo che egli non ha scelto freddamente, un ruolo cui è stato in qualche modo costretto, ma di cui è nondimeno responsabile.
Alta lezione morale, questa di Cassavetes, che – oltre a essere superiore al frusto modello hemingwayano (non c’è qui allusione ad alcun riscatto, non si parla sensazionalisticamente di “sfida” e di “codice”) in quanto dettata non da una concezione della vita e del mondo (moralismo) ma di se stessi (morale) – è momento coerentissimo all’interno della poetica personale di questo autore troppo a lungo e troppo a torto acclamato per certe sue componenti ideologiche. L’assassinio di un allibratore cinese, in questo senso, conferma il cinema di Cassavetes come “cinema di esseri umani” nel momento stesso in cui smontando e demitizzando i meccanismi del gangster film classico ne fa emergere non solo un’antiretorica, ma anche una visione dell’uomo e delle sue responsabilità. Discorso civilissimo in un’epoca che si stava avviando invece verso le sponde del disimpegno, dell’intrattenimento, della spettacolarizzazione acritica della realtà. Ma anche discorso individuale e sostanzialmente conservatore, che evita di riconsiderare la presenza e la funzione dell’umano in un universo che di giorno in giorno diventa vieppiù tecnologicizzato. Il destino del pur nobile cinema di Cassavetes non poteva essere altro che l’ibrido ottocentismo di Love Streams, un Kammerspiel familiare che coniuga Ibsen e Los Angeles deludendo sia le vecchie che le giovani generazioni.
6. Una, due, tre Hollywood Paradossalmente, Cassavetes, che aveva gravitato attorno al New American Cinema Group dieci anni prima, non è un buon esempio del rinnovamento cinematografico dei Settanta. Non perché nel suo cinema non vi sia rinnovamento, ma perché questo non prende quasi mai le forme che invece Hollywood sembra prediligere (a parte un’impronta casalinga e semidocumentaria). Contestualmente ai nuovi, giovani cineasti operano anche nomi di prestigio del cinema precedente, e in modo adeguato alle nuove istanze. Se da un lato cioè ritroviamo i Friedkin, gli Hopper, gli Hagmann, i Milius, ecc., dall’altro figurano i Nichols, i Penn, i Lumet, gli Huston, ecc. Lungi da curiosità statistiche, il fatto è indicativo non tanto della capacità di adeguamento e rinnovamento personale dei secondi, quanto della segreta compromissione del nuovo cinema. Già abbiamo detto che non basta invertire i segni etici per conclamarne la rinascita; le strutture permangono e con esse il quoziente mitologico che esse si portano dietro da sempre; talché nemmeno un regista fine come Billy Wilder sembra aver capito che al di là dalla facciata (le macchine da presa a spalla e le zoomate citate con disprezzo nel bellissimo Fedora, 1978) il cinema americano degli anni Settanta è molto meno “nuovo” di quel che sembra. Se l’organizzazione del set, la revisione etica, l’interesse politico sono solo tigri di carta, che cosa qualifica tale cinema in senso altro? La risposta non è difficile, e già è leggibile in quanto abbiamo scritto sino a questo punto a proposito del decennio. Basta osservare questo cinema non in se stesso ma in relazione, appunto, all’arco dell’intero periodo; basta tener conto dell’evoluzione globale del fenomeno. C’è una prima Hollywood, in presa diretta, giovanilistica, protestataria, che segue le prime avvisaglie crepuscolari di registi appartenenti a precedenti generazioni, giovani entusiasti, appassionati, nutriti a una visione critica della società americana, politicamente orientati in senso progressista e così via. E c’è una seconda Hollywood (cronologicamente quasi contestuale alla prima, ma che le sopravvive nel tempo) formata da cinefili spesso cresciuti nelle scuole universitarie di cinematografia, fatta di persone che usualmente non disdegnano una visione critica del Paese, ma i cui interessi primari si appuntano sul cinema stesso. Ma c’è anche una terza Hollywood, che ha fatto sue le profonde conoscenze tecniche della seconda, ma che si è avviata verso un cinema o marcatamente spettacolare (in questo seguendo altri rappresentanti della seconda wave) oppure più introspettivo, come una testimonianza indiretta di quella “cultura del narcisismo” che verso la metà dei Settanta ebbe buon gioco in un’America ormai slegata da qualsiasi riferimento sia ai valori comuni sia a quelli usualmente definiti “alternativi”. Della prima si è accennato, ma non si può non aggiungere che in realtà la sua serietà politica era puro pretesto per proporre temi di notevole risonanza nell’America di Johnson e di Nixon, peraltro in piena armonia con la sostanza politica della protesta studentesca fondata su un riformismo di obiettivi ben lontano da una proposta sociale meditata e organizzata. Non è un caso che il film più emblematico del gruppo, Easy Rider, celebri due “eroi” che non appartengono ad alcun partito. Testimoni, si dirà. Ma eliminati non per questa loro funzione bensì per quel che sociologicamente essi rappresentano davanti a un’America retrograda, stolida e violenta. Piuttosto, con i due protagonisti del film di Hopper muoiono gli apparati di una cultura giovanile, dalle motociclette alle musiche rock della colonna sonora, le cui istanze politiche si riducono a curiosare in preda all’Lsd nel carnevale di New Orleans. È una wave spesso estetizzante che scopre le possibilità del teleobiettivo, del montaggio rapido e alternato, della dissolvenza incrociata (si pensi all’orgia coloristica di tecniche in Il ritorno di Harry Collings, 1971, di Peter Fonda), un nugolo d’autori del tutto dimentichi del cinema del passato che portano la macchina da presa in pieno deserto per dirci, dopotutto, che l’America non è solo quella di Hollywood, ma un
Paese dalle risorse turistiche, una terra di quotidianità la cui realtà è possibile mettere a fuoco con l’aiuto espertissimo di un Lazslo Kovacs. E dietro la cartolina turistica sta un potenziale di violenza che solo in parte il cinema degli studios aveva mostrato. L’universo della finzione, nelle loro intenzioni, doveva cadere e dietro la violenza ritroviamo un’altra violenza, questa volta vestita come un ventenne becero del Texas o come un poliziotto in divisa scura ben lontano dai tormentati eroi del noir di alcuni anni prima. Insomma il sociologismo di gran parte di questo cinema tende a operare in modo da coprire strutture immaginarie sostanzialmente identiche a quelle del cinema del passato. Il cinema vorrebbe passare per documento: da un lato, della realtà contemporanea (America, America, dove vai?, 1968, di Haskell Wexler); dall’altro, della revisione di una serie di miti storici che il cinema del passato aveva non poco contribuito a rendere tali (Doc, 1971, di Frank Perry). La seconda wave, invece, più ingenua o meno onesta che sia, sovverte radicalmente questo uso del cinema. Essa è composta in gran parte, si diceva, di persone provviste di un invidiabile corredo storico e teorico, di un’esperienza critica e tecnica che giustamente ha fatto gridare alla cinefilia del loro atteggiamento. È una generazione (meglio, un gruppo) cresciuta davanti alla moviola, nelle cineteche, nelle aule universitarie dei dipartimenti di cinema, ha lavorato con Roger Corman, cioè con il maggior rappresentante americano di un ritorno all’essenzialità del cinema come linguaggio. Sono cineasti che non si illudono sulla “realtà” del cinema, che ne conoscono sin troppo bene la carica di immaginario: non a caso, è da loro che vengono i primi importanti suggerimenti sulla relazione fra cinema e iperrealismo: L’ultimo spettacolo di Bogdanovich, Duel (1971) di Spielberg, Alice non abita più qui (1975) di Scorsese, ecc.
7. Quando hai visto un’astronave di plastica, le hai viste tutte All’interno della seconda “ondata” tuttavia si distingueranno alcuni cineasti che pur senza abbandonare la componente metalinguistica, autoallusiva del loro cinema seguiranno una strada meno riflessiva e più spettacolare, abbracciando proprio quella direzione restaurativa che, si badi bene, non si identificò in un ritorno al cinema del passato (paradossalmente coloro che continueranno nella strada imboccata in precedenza saranno molto più aderenti e fedeli a esso, come Bogdanovich), ma con un rilancio della “grande avventura”, del cinema plateale e sensazionalistico, eccitato e sostanzialmente infantile. Che proprio in autori particolarmente giovani si ravvisi questa svolta “istituzionale” è meno strano di quanto sembri. Si tratta di una generazione cresciuta a Disney e series televisive, più che a Clark Gable e Gary Cooper. Rappresentanti, questi ultimi, della “grande avventura”, certo, ma all’interno di un cinema che, bene o male, agitava problemi e valori, rispecchiava ideologie e cronaca, proponeva scelte morali attraverso metafore e simboli. Nei cineasti tecnologici della terza wave (da non confondersi con i cineasti tecnici della seconda) l’etica si semplifica in rapporto direttamente proporzionale alla complessità elettronica degli effetti speciali. Eppure opere di grande successo come Guerre stellari (1977) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), rispettivamente di George Lucas e Steven Spielberg, sono anch’esse “nostalgiche”, come è stato detto spesso, nel senso che la prima si articola secondo una struttura precisa di citazioni e riferimenti al cinema del passato, e la seconda si pone come metafora dell’operazione cinematografica stessa, come parabola narrativa il cui unico oggetto è il cinema. Qui però (non per nulla, bene o male, si tratta di due film fantascientifici) ogni aggancio teorico alla realtà è assente, il cinema non è più il referente di un intero sistema di immagini che rimanda al suo (falso) equivalente reale. Il contrastato rapporto realtà/cinema che aveva nutrito il miglior Bogdanovich diviene in Lucas e Spielberg rapporto cinema/cinema, poiché le opere non consentono a priori alcuna altra struttura referenziale (ben altre erano state in questo senso le prime prove di questi autori, da L’uomo che fuggì dal futuro, 1970, a Duel, 1971). Questo spiega in certa parte anche perché una vena mistica le percorre. Ma sarebbe riduttivo limitare la lettura a questo ambito ideologico. Intanto, come dicevamo, la ricchezza di riferimenti cinematografici di Guerre stellari ne fa un esempio perfetto di dissoluzione dei generi che trova nella componente favolistica (e dunque nello stesso irrazionalismo che lo caratterizza) un piacere del racconto che supera ogni classificazione. E questo rende conto dell’atteggiamento voyeuristico che il film di Lucas sollecita nel pubblico, spogliato com’è da qualsiasi riferimento di carattere «morale o emozionale», secondo quanto afferma Jonathan Rosenbaum8, il quale purtroppo limita le sue appropriate osservazioni sul film incentrandone il senso sul ritmo narrativo come unico parametro che possa rendere ragione della rapidità con cui alcune trovate (le due lune, il binocolo di Luke) sono messe in scena. A Rosenbaum sfugge che, a differenza dal film di Spielberg, qui siamo in un futuro assoluto, e che di conseguenza ogni elemento costitutivo è dato nella sua immediatezza, nella sua quotidianità. È, insomma, il classico rapporto di verità che si instaura nel momento dell’esperienza onirica. In una parola, è cinema. I suoi paesaggi, deserti e metafisici, le sue categorie etiche, il suo teriomorfismo, le sue immagini di terrore, le sue fantasmagorie sono quelli del
sogno. Trattati però con la familiarità che nel sogno marca il “non familiare”. Del film non abbiamo visto nulla e già abbiamo visto tutto, qualcosa ci richiama a luoghi, strutture, personaggi, frasi di un passato oscuro e noto (dopotutto, la forma del futuro nella fantascienza non è sempre quella del passato?). Guerre stellari non poteva quindi non essere un film metacinematografico. Quel che nella pellicola di Lucas si attua nella sua struttura, nella sua iconografia, e naturalmente nelle sue stesse citazioni, in Incontri ravvicinati del terzo tipo diventa invece metafora precisa. Per quasi tutto il film il mistero ne percorre la storia. Quel che nella sua eccezionalità era quotidiano in Guerre stellari, nel film di Spielberg assume la suggestione della paura. In Guerre stellari tutto è noto: lo scarto di conoscenza si instaura fra personaggi e pubblico. In Incontri ravvicinati non si sa nulla: lo scarto fra personaggi e pubblico si affida unicamente alle leggi contraddittorie dell’attesa e della certezza che caratterizza la parabola spettacolare. Così Spielberg può permettersi di tendere la sua storia a un punto tale da operare lo “slittamento” della pellicola in altre direzioni: e questa diventa un horror movie. Si pensi alla sequenza del rapimento del bambino: oggetti casalinghi che si muovono quasi prendendo vita, le viti di una griglia che girano da sole (la sensazione è che da quel buco stia per uscire qualcosa di orrendo), la divisione degli spazi, tipica dell’horror movie, in zona del pericolo (l’esterno) e zona di salvezza (l’interno), ecc. Inoltre, la Devil’s Tower, punto fissato dell’incontro, oltre a un nome che rimanda decisamente a certa topografia da film orrifico, denuncia un aspetto che non può non ricordare certe formazioni rocciose della Monument Valley di John Ford. Ma la chiave è nel finale: ormai il luogo dell’incontro è stato approntato, maestranze di ogni genere vi si avvicendano incessantemente, le macchine da presa sono pronte a registrare l’eccezionale avvenimento, un musicista attende il via per cominciare la comunicazione a cinque note fra terrestri e “creature”, insomma la scena della rappresentazione galattica è perfettamente organizzata. A questo punto un regista (e di che nome: François Truffaut) prende il comando: ordina al musicista di accelerare i tempi di esecuzione e fra il ronzio delle macchine da presa dirige l’intera azione. È chiaro, questo è un film sul cinema, Truffaut non fa altro che interpretare se stesso. Spielberg sta filmando una ripresa cinematografica, sta celebrando l’operazione di direzione e di sforzo comune che presiede a un film. Il disco volante variopinto non è altro che il prezioso, misterioso, affascinante oggetto di ogni ripresa cinematografica, l’essenza della creazione da vincere, da catturare nella visione impressionata della pellicola, il quale a sua volta rimanderà i “rapiti” non invecchiati di un sol giorno, esattamente come un film cattura la giovinezza degli attori. Dice Truffaut a Dreyfuss (si badi, l’unico attore noto nell’intero cast) mentre si accinge a salire sull’oggetto: «Io la invidio molto». Il transfert regista-attore non poteva avere formulazione più evidente e diretta. Il mistero della montagna è quello del set cinematografico, il mistero dell’oggetto spaziale è quello che ogni film sottende. In questa storia di un borghesuccio americano chiamato alla grandezza della conoscenza universale si cela una perfetta, esemplare metafora del cinema. L’oggetto ormai conosciuto accoglie un uomo mentre ne restituisce altri, perché, al di là dalle inusitate forme dei suoi abitanti, esso è una cosa degli uomini, dell’intelligenza, della conoscenza, della creatività, della pace. Incontri ravvicinati è un inno al cinema. Ma non meno importante nei due film-guida dell’intera produzione fantascientifica di questi ultimi dieci anni è la concezione della loro costruzione prospettica, che ne interpreta il senso in modo preciso. Guerre stellari è infatti concepito come un film in 3-D, ogni sua linea dinamica tende a perforare lo schermo in direzione dello spettatore: astronavi che compaiono in distanza e in un baleno si ingrandiscono fino a scomparire “oltre” lo spazio dello schermo, gruppi di uomini (si fa per dire) che percorrono corridoi asettici in direzione dello sguardo spettatoriale, personaggi che si precipitano in fuga o in aggressione verso l’obiettivo, il raggio stesso dell’arma della Forza percorre tutto lo spazio del quadro in cento ghirigori che regolarmente, sia pure per un attimo, trapassano la barriera dello schermo. È lo spettacolo che invade lo spazio dello spettatore, che, per le ragioni riportate più sopra, non “avviene” ma inter-viene. Lucas sa che lo spettacolo ormai è sempre lo stesso. Generi, strutture: tutto è eguagliato dalla forma del cinema, ormai giunto a un punto tale da non poter essere continuamente altro che se stesso, diverso e identico a un tempo. Ecco allora che lo spettacolo si impone in un altro modo: non attraverso la sua specifica organizzazione strutturale (ché ormai non ne ha più una, se mai l’ha avuta), ma attraverso un rapporto col pubblico che è fisico, che è “frazione” di un limite tradizionalmente convenzionale. La riflessione sul cinema diventa quindi non solo considerazione operativa del suo dissolversi nel mare dello spettacolo “generalizzato” (nei due sensi del termine), ma tentativo di trovare un’altra forma spettacolare di rapporto col pubblico. Certo, si diceva, l’operazione è parente stretta del 3-D degli anni Cinquanta; ma con la differenza che questa volta il cinema ha capito di avere esaurito i suoi statuti di spettacolo ogni volta singolarmente privilegiato, che, in altre parole, esso fonda questa operazione su una considerazione di carattere teorico. All’opposto (ma vettorialmente identico), il film di Spielberg è concepito sulla prospettiva contraria: le sue linee di forza tendono nella direzione della “trasgressione” dello schermo. Quel che vi avviene, avviene al di là dalla barriera attraverso una serie di accorgimenti atti a suscitare tale sensazione. Intanto,
un fattore scenaristico-psicologico: a differenza dai vari film di fantascienza del passato incentrati sulla scena della Terra, la cornice scenografica naturale si presenta quasi sempre in termini normali, di verosimiglianza. I film di Jack Arnold, ad esempio, come abbiamo già detto, erano famosi per l’abilità del regista nell’utilizzare gli aspetti onirici, addirittura fantastici del paesaggio naturale: i suoi deserti assumevano l’aspetto di zone “altre” più vicine all’incubo astrale di un pianeta sconosciuto e temibile che alla normalità delle loro effettive forme. Incontri ravvicinati è invece costituito dall’irruzione dell’anormale nel normale non soltanto idealmente, ma anche verosimilmente. In secondo luogo, il frequente impiego di campi lunghi o lunghissimi denuncia la costituzione di una scena da penetrare, in continua attesa dell’irruzione, la quale, si badi bene, avviene sempre in modo longitudinale. È vero che più volte gli oggetti astrali giungono anche dal fondo, ma questo non fa che potenziare la sensazione della scena come di uno spazio intermedio fra l’occhio e, al suo opposto, lo spazio indefinito da cui i visitatori giungono. A differenza, insomma, dai vari film di invasione del passato (amichevole o bellicosa che fosse), l’alieno non prende posto se non alla fine sul palcoscenico, limitandosi a sfiorarlo a volo radente, venendo dal nulla e ritornandoci continuamente. In tal modo viene a crearsi una zona mediana giustificata da una ulteriore profondità di prospettiva (reale e ideale) che non si limita alla concretezza rassicurante dello schermo, ma che diventa, nella sua connessione con l’altro che è al di là da essa, momento spaziale cui l’occhio dello spettatore non può non rivolgersi dinamicamente. Iconograficamente si pensi soltanto alla bella scena dell’arrivo dell’oggetto volante: le maestranze sono radunate attorno a esso, dell’Ufo si vede poco o nulla, le ombre degli uomini in tuta bianca si allungano sulla superficie dell’astroporto improvvisato concretizzando magnificamente il senso di profondità che corre lungo tutto il film (e si pensi anche al cartellone della pellicola, una strada notturna che corre in avanti verso un punto luminoso e nascosto, non a caso disegnato dallo stesso Spielberg). La barriera verticale dello schermo è idealmente violata, tutto concorre a portare l’occhio dentro a uno spazio che ne lascia intuire un altro (quello sconosciuto dell’universo da cui proviene l’Ufo). Lo spettacolo si è costituito per noi secondo una diversa dimensionalità, cerca nuove strade per proporsi, investiga altre alchimie spaziali (anche qui, nei due sensi del termine). Così, mentre lo spettacolo hollywoodiano si ripensa nell’eliminazione della differenza che lo rendeva specifico, in tal modo denunciando la maggior crisi della sua storia, esso indica anche la coscienza del suo malessere tentando di rifondare un diverso rapporto fra lo spettatore e lo schermo, fra spazi della fruizione e spazi della scena. Certo, le tematiche fantascientifiche sono apparentemente le più propizie a operazioni del genere, proprio perché aprioristicamente aperte a soluzioni di questo tipo. Ma in realtà, alla luce di quanto si è detto finora, si tratta di una falsa credenza, poiché non esiste una definizione teorica della costituzione degli spazi spettacolari legata a un genere cinematografico, e men che mai oggi che tale barriera si è dimostrata inequivocabilmente labile, se non infondata. Oggi finalmente è possibile una “storia dei generi cinematografici” poiché la loro supposta evoluzione è finita e ogni loro linea specifica tende a riunirsi con quelle degli altri in un unico punto che ne testimonia l’illazione. Peggio: c’è da chiedersi se in verità sia mai esistita una “storia” dei generi, dal momento che gli elementi del codice che li classificherebbe come tali non solo sono intercambiabili a livello di funzione, ma rimandano a un modello iterato che, al di là dalle sue varianti, giustifica continuamente se stesso. Così, non esiste in fondo opera di quegli anni (e in fondo anche odierna) che non sia un film sul cinema, perché, come ha detto qualcuno, «Quando hai visto un’astronave di plastica le hai viste tutte».
8. Superproduzione e cinema di consumo Si noti che tale sorta di “restaurazione” cinematografica trova un suo formidabile corrispettivo in sede economico-produttiva. Un numero rilevante di film già nei primi anni Settanta nasce sulla scorta di una superproduzione che è in buona parte segno della avvenuta ripresa economica del cinema americano. Ciò è un’importante riprova dell’impressionante mutamento che questo cinema ha vissuto se confrontato con quello dei tardi anni Sessanta e degli stessi inizi Settanta. Da Il padrino (1972) di Coppola a Lo squalo (1975) questo gigantismo produttivo aveva cominciato a serpeggiare quando ancora il cinema americano sembrava vivere dell’artigianalità che lo stava caratterizzando. Ulteriore istanza di un sistema che solo apparentemente era tramontato e che invece rientrava in un diagramma di regolare alternatività: a starci attenti, ad esempio, il cinema americano del dopoguerra, da Dmytryk a Kazan, è marcato da una scarnificazione scenografica alquanto diversa dal trade mark hollywoodiano, da un’aura di “povertà”, di austerità esteriore. La restaurazione di cui si diceva si presenta in modo vieppiù radicale se si pensa che la quasi totalità dei film che all’inizio la rappresentano divergono radicalmente dalla pretesa “realtà” che era stata uno dei sedicenti obiettivi del nuovo cinema statunitense qualche anno prima. Non alludiamo soltanto all’ovvio caso della fantascienza di Lucas e Spielberg, ma anche a quello di plateali (ancorché a volte ben fatti) film orrifici come L’esorcista (1973) di Friedkin e addirittura alle venature più o meno apocalittiche di opere, appunto, come Lo squalo e naturalmente le varie pellicole su incendi, terremoti, e altri vari clamorosi incidenti pubblici. A proposito di questi ultimi, merita fra l’altro riflessione il fatto che il loro
richiamo nei confronti del grande pubblico si appunta sulla distruzione, sulla dépense. In certo senso è un po’ quel che negli anni Sessanta era accaduto col britannico James Bond (il cui successo peraltro si era fondato su meccanismi psicologici più complessi): lo spreco e la distruzione sono in genere fonte di ripresa per il capitale cinematografico americano. Ma tale spreco non va letto soltanto nei suoi termini diretti, volgari di annientamento. Sul versante del fantastico anche la tentativa e sonoramente punita ripresa del musical (sia pure in modi assolutamente non comparabili con il genere classico) rientra nel quadro. Sono insomma finiti i tempi del road movie, delle corse all’aria aperta per le grandi arterie americane. E quand’anche esse sussistano non si tratta più di una moto o di un’automobile che si ammaccano e si ribaltano, ma di un imprecisato numero di esse secondo la più vieta spettacolarità esteriore. Con le motociclette di Easy Rider cadono i sogni di un’intera generazione; con gli innumerevoli veicoli di questi film non si ammacca nulla se non gli appositi stuntmen. Spreco, si diceva. E quale maggior spreco, a tutti i livelli, di un film come The Wiz (1978), un “all black” di Sidney Lumet. Spreco di costumi, concepiti come quelli di una rivista all’italiana, vale a dire oggetto di puro stupore; spreco di spazio, in un film i cui interni sono di proporzioni gigantesche; spreco ideale, perché l’opera non trova assolutamente una collocazione nel sistema cinematografico americano se non, appunto, come gratuità che caratterizza quel momento produttivo. Così, a un cinema che implicitamente si proponeva come funzionale si sostituisce un cinema del tutto svincolato da qualsiasi riferimento che non sia la gratuità del puro spettacolo. Non a caso l’autore di The Wiz è uno dei registi meno riconoscibili e personali (il che non significa disprezzabile) dell’intero cinema americano contemporaneo, il quale, oltretutto, è anche un personaggio che opera dagli anni Cinquanta: insomma, il rappresentante di una vera e propria ideale saldatura. La linea che corre dall’inizio della “rivoluzione” alla restaurazione ha una sua continuità logica ben lontana da ogni casualità. Cominciato come specchio di realtà, il nuovo cinema americano si è presto trasformato in una specie di “cinema nel cinema”, rappresentato da alcuni autori che ne hanno sviscerato, in diversissimi modi, la sua pura realtà di immagine, la sua impotenza di prodotto onirico, forma perpetuata di una rappresentazione di morte nella quale, appunto, le immagini della morte (quanta violenza, quante rappresentazioni dirette e brutali della morte nel cinema americano dell’ultimo ventennio!) erano poi la morte delle immagini, ridotte a continua iterazione a dizionario ormai sfogliato fino in fondo, a una conoscenza esaurita del possibile cinematografico. È a questo punto che il cinema assume proprio gli aspetti esteriori dei prodotti che tale istanza avevano praticato, rivivizzandone quella forte componente diegetica che da sempre lo aveva fondato ed eliminando la sostanza teorica che questo cinema aveva più o meno nutrito. Ma, è ovvio, la narratività pura non può essere altro che puro spettacolo, soprattutto quando l’autore stesso scompare in essa. Il soggetto si dilegua, si eclissa, in piena coerenza con la teorizzazione e la pratica dell’arte americana contemporanea. Il soggetto non esiste più: rimane l’opera, asettica, costruita, sfarzosa, spettacolare persino. Ecco ciò a cui conduce l’istanza iperrealista nel momento in cui il suo supporto teorico ne viene escluso: essa diventa pura fantasia senza creatore, senza stilemi individuali, autoriali riconoscibili (dopotutto un film di Bogdanovich è riconoscibile in quanto tale esattamente come lo è un quadro di Estes: assenza del soggetto non significa, va da sé, mancanza di un autore e nemmeno di stilemi caratterizzanti). Si pensi a Grease (1978) di Randal Kleiser, apparentemente iperrealizzazione di un qualsiasi musical universitario fra i Quaranta e i Cinquanta, e invece muto, impersonale sogno di un passato sganciato da ogni significazione che non rimandi ad altro che al film stesso. Ma i sogni, si sa, sono in genere sognati da un soggetto: questo Minnelli ce l’ha detto da tempo, e nelle sue fantasie la sua mano (le sue ossessioni, se vogliamo) è riconoscibilissima. E quali sono le ossessioni di registi come John Badham e in genere quelli della cosiddetta “new new Hollywood”? Il rilancio del fantastico (nelle sue molte accezioni e nelle sue molte forme) che caratterizza l’odierno cinema americano trova qui le sue più profonde ragioni: non come reazione a un sedicente imperante razionalismo, ma come impossibilità (o forse non volontà) da parte del cinema hollywoodiano di proseguire una seria critica della realtà non in termini “realistici” ma in termini teorici. La teoria – quando c’era – era servita a colmare un vuoto: quando il cinema americano vide che le cose potevano essere ampiamente recuperate con una produzione che o negava la presa diretta delle prime esperienze o rilanciava un altro olimpo divistico (sia pure ribaltando il classico glamour delle stelle hollywoodiane d’un tempo) o riproponeva un intimismo e un sentimentalismo che in epoca di alta tecnologia e di appiattimento del privato suonavano a dir poco come cattiva coscienza, allora la teoria non interessò più nessuno. Nemmeno molti critici che pure in precedenza l’avevano individuata e discussa. Il cinema di consumo, la pellicola usa-e-getta, il “film spazzatura” conquistò anche loro.
9. Ossessioni: la paranoia post-kennedyana
Può anche darsi che la piega spettacolare presa dal cinema hollywoodiano a partire dalla metà degli anni Settanta circa, la quale doveva svilupparsi sempre più negli anni Ottanta, sia stata una specie di reazione alla cupezza di qualche anno prima. Non dobbiamo dimenticare che i primi anni della decade osano finalmente trattare – sia pure solo esemplarmente – un tema che aveva condizionato per circa un decennio lo spirito della nazione e che aveva aleggiato su di essa come un fantasma sino al momento in cui Hollywood non pensò bene di esorcizzarlo con un’ultima impennata di aumentata paranoia che doveva finalmente dissolversi proprio con l’avvento della sempre maggiormente vincente superspettacolarità della produzione cinematografica. Nel giro di cinque anni si contano fra i molti: Azione esecutiva (1972) di David Miller e il bellissimo Perché un assassinio (1973) di Alan J. Pakula, ma anche vere e proprie metafore di quell’unico (unico per la coscienza americana) delitto: Un uomo oggi (1970) di Stuart Rosenberg, Il giorno dello sciacallo (1973) di Fred Zinnemann, Roulette russa (1975) di Lou Lombardo, ecc. Tuttavia, non è questione di opere sul tema dell’attentato politico. La tragedia di Dallas è all’origine di tutto un clima psicologico che ha lasciato ampio segno anche sul cinema americano dei nostri anni nel suo complesso. Si tratta di una serie di componenti diverse la cui risultante finale riguarda il cinema come la narrativa statunitense, caratterizzati dalla presenza di personaggi in preda ai più neri incubi della socialità. La paranoia che presiede a tali opere trova appunto le sue radici nello shock del 1963 e in tutto quello che, direttamente o indirettamente ne è derivato: la Grande Società johnsoniana (che ricorda da vicino il Combine di Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey e il Tristero di L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon), la cricca di malfattori nell’amministrazione Nixon, le rivolte nelle università di mezza nazione, il secondo assassinio Kennedy, il caso Watergate, ecc. Ora, il personaggio spaesato, spiazzato rispetto a quel che gli capita, la vittima di maneggi poco chiari, di un capitale suadente e spietato, l’omino in balia di eccessi cui non sa dare un nome, di crisi che non sa a che cosa ascrivere, il biedermann col quale tutti parlano un linguaggio straniero, schiacciato da forze impreviste e spesso addirittura segrete, è la logica conseguenza di uno status miserevole della nazione il cui meccanismo si è inceppato davanti alla prova storica che i conti politici non tornavano più come in passato. Naturalmente il personaggio può volta a volta assumere aspetti diversi: può essere uno studente buffonesco in rivolta come in L’impossibilità di essere normale di Richard Rush, un giornalista coraggioso e tragico come in Perché un assassinio di Pakula, un intellettuale nevrotico alle prese con un mondo misterioso, segreto, surreale come in Dai… muoviti! di Rosenberg, un perfetto schlemiel in preda al fascino della abbagliante Wasp come in Il rompicuori (1972) di Elaine May, l’ingenuo cowboy giunto nella metropoli dell’Est e pronto per esserne divorato come in Un uomo da marciapiede (1969) di John Schlesinger, un anziano detective forzato a ritornare nel proprio passato per scoprirvi abissi di menzogna e comunque l’irrecuperabilità degli affetti di tutta una vita come nel bellissimo Yakuza (1975) di Pollack, e così via. Questo riguarderà la componente comica o drammatica dei singoli film (ma non è un caso che, nella migliore – recentissima – tradizione della dissoluzione dei generi, spesso le due si fondino insieme nella stessa pellicola), ma non il modello in sé. Ciò porta fra l’altro a una particolare casistica attoriale: non per nulla le star di maggiore impiego e successo di questo cinema sono personaggi come Dustin Hoffman, Al Pacino, Elliot Gould, ecc., vale a dire dei physiques du rôle dichiarati cui non è affatto estraneo – anagraficamente o apparentemente – un côté ebraico. La cultura cui tale “nuova tradizione” si rifà (consapevolmente o no poco importa) è proprio quella della commedia ebraica, dello shlemiel vittimizzato da tutti ma non senza una simpatica componente umoristica, quella dell’ormai noto black humour che poco tempo prima aveva pervaso la narrativa di autori come Stanley Elkin, Bruce J. Friedman, ecc. E quand’anche tale componente sia assente dal personaggio, si tratta pur sempre di un individuo scelto secondo precise caratteristiche fisiche: si pensi a un Jack Nicholson, i cui tratti decisamente Wasp non allontanano la sua disponibilità alla sconfitta, da Cinque pezzi facili (1970) e Il re dei Giardini di Marvin (1972), ambedue di Bob Rafelson, a Chinatown (1974) di Roman Polanski. In certo senso, si tratta di un cinema di personaggi ossessionati. Paranoia post-kennedyana, d’accordo. Ma le ossessioni americane si innestano spesso in qualcosa di meno facilmente identificabile, qualcosa cui non sempre è facile dare un nome e un cognome. Le vere ossessioni, lo sappiamo, non emergono mai in modo vistoso, ma affiorano alla superficie con fermezza, non occupano sempre lo spazio dell’opera nella sua interezza, ma vi si assestano come componenti a volte discrete, silenziose, quasi banali (perché accettate come ovvie e normali da coloro che non ne colgono il senso allucinante). Non intendiamo certo fornirne ora un elenco, ma solo indicare alcune delle presenze più ineliminabili, più costanti, più caratterizzanti di quel cinema.
Ovviamente, e prima di tutto, la presenza della tecnologia, o meglio, dell’oggetto tecnologico. Automobili e motociclette, computer e registratori, centrali nucleari e modernissime realizzazioni elettroniche, il cinema statunitense dei Settanta (e a maggior ragione degli Ottanta) sembra permeato da tali presenze che, come attori comprimari, accompagnano passo passo i protagonisti fornendo loro un incubo di efficienza che è anche una minaccia di estinzione. Sempre più privato di dimensioni umane, il cinema americano odierno può vantare, lo si diceva, ben pochi registi il cui interesse umanistico supera (o quantomeno denuncia senza possibilità di malintesi) tale asettica visione del mondo: Pollack, Coppola, Altman. È probabile che questa ossessione non sia da leggersi in termini immediati, che essa sia un’altra forma di denuncia dell’usuale paranoia di cui abbiamo parlato a più riprese, causata da un sistema onnivoro e onnipresente, una metafora della fantomatica Organizzazione che stende la sua longa manus sulla nazione tutta. In fondo, l’oggetto tecnologico è la figura finale dell’efficienza produttiva del capitale, e dunque, più che metafora, sua metonimia. È un fatto che, senza citare pellicole direttamente interessate a questa presenza tanto da farne, appunto, un vero e proprio tema (si pensi a Sindrome cinese, 1978, di James Bridges) essa percorre quasi ogni film americano dai Settanta in avanti, che si tratti delle motociclette di Easy Rider, dell’automobile di Punto zero, del registratore di Mannequin (1970) di Jerry Schatzberg, del sistema televisivo (nonché dei nastri) di Rapina record a New York, del sistema telefonico di I tre giorni del Condor, della stazione radio di Un uomo oggi o di quella di American Graffiti (1973) di Lucas, ecc. E non è un caso che da esso dipenda regolarmente la vita dei protagonisti, che esso in qualche modo ne condizioni gli atti e gli esiti, la loro volontà e il loro futuro. La lotta, dunque, viene ingaggiata col sistema non più che con la macchina, che del sistema è ulteriore figura. L’ossessione che sconvolge tanti personaggi del cinema hollywoodiano di questo periodo trova nell’oggetto tecnologico il suo referente meno sospettabile, ma altrettanto eloquente ed essenziale quanto qualunque altra minaccia.
10. Ossessioni: lo spazio Ancora, se si esclude una ricca e mitica tradizione western, il cinema del passato ha raramente mostrato l’ossessione assoluta dello spazio che è invece facilmente leggibile, a ben vedere, in questo cinema. Per ossessione dello spazio intendiamo non solo la presenza di spazi sconfinati e praterie, di oceani o altro del genere, ma anche un diverso rapporto fra individuo e ambiente. Per chiarire meglio quel che intendiamo, si pensi alla funzione dello spazio urbano nel gangster film americano anni Trenta: pura scenografia, esso era la cifra del caos umano e morale che nei grandi agglomerati urbani permetteva lo sviluppo di una criminalità. Se si confronta tale uso dello spazio con quello del cinema di questi anni si noterà che la sua funzione è alquanto cambiata. Non abbiamo più qui l’insieme urbano nel senso e nella visione della sua struttura globale come referente della formicolante anonimità di una società che è già di massa, ma quadri che, realisticamente o meno, segnano un’attenzione soprattutto ai particolari, una funzionalità iconografica decisamente superiore a quella del passato. La città del gangster film hollywoodiano era per lo più una città notturna nella quale ogni luce, ogni asfalto rimandava indirettamente al suo silenzio, alla sua morbosità, alla sua trasgressione. La città odierna è invece spesso ripresa luminosamente, come tranche de vie comune di un’America non meno anonima dell’altra, ma più inconsapevole, più normale, più immediata nella sua stessa decadenza e corruzione che, è importante notarlo, è globale e non manicheisticamente fondata. Si tratta, in parte, della matrice semidocumentaria che ha marcato gran parte del primo cinema della New Hollywood, il quale peraltro non disdegnò di riprendere i suggerimenti cupi del cinema classico, non solo nei film che iperrealisticamente ne riflettevano la loro superata dimensione storica e insieme, appunto, la crisi del reale nella società dell’immagine. Siamo lontanissimi dunque dalle esercitazioni del King Vidor di Il palcoscenico della strada (1931), calco cinematografico di un realismo teatrale imposto dalla triste verità della Grande Crisi e dal populismo che in parte l’aveva caratterizzato. La città del cinema contemporaneo è asettica come un quadro di Richard Estes, oppure fonde elementi iperrealistici con altri di carattere neoespressionistico come in quel film-manifesto (da questo punto di vista) che è Taxi Driver. Le sue strade diurne sono assolate e semideserte come in certi film di Lumet (Unpomeriggio di un giorno da cani, 1975, ad esempio), oppure trasudano una quotidianità che quasi sempre cela l’anomalo, il pericoloso, il surreale: si pensi ai già citati Piccoli omicidi, Dai… muoviti!, La conversazione, I tre giorni del Condor. Lo spazio urbano di questo cinema, insomma, mostra una “normalità” che è direttamente proporzionale alla carica di violenza, alienazione, mostruosità che essa cela. A differenza dal cinema del passato, ogni sua connotazione di alterità non è immessa in un contesto oggettivamente estraneo a essa, ma ne emerge come sua sostanza dietro le apparenze del suo contrario. Un altro modo di esprimere l’atmosfera di paranoia del periodo. Ed è ovvio che, a maggior ragione, tutto questo sarà leggibile in pellicole che di questa atmosfera intendono rendere direttamente conto. In Perché un assassinio di Pakula si sviluppa un’indagine allucinante che passa per i luoghi meno sospetti, per gli aspetti più normali
dell’agglomerato urbano, in questo caso, poi, coprendo i più vari aspetti della nazione, compresi quelli rurali, a indicare l’estensione della congiura che è la sostanza di questo film. Lo spazio dunque (e quello urbano in particolare) trova in anni recenti modi di trattazione addirittura fantasiosi e onirici. Lo spazio come entità metafisica, e non solo come presenza architettonica, geometrica, concreta è un’iterazione molto cara al cinema americano degli ultimi lustri. Si pensi – quasi un caso limite – a Blade Runner (1982) di Ridley Scott, opera per alcuni versi sopravvalutata, ma la cui scenografia è testimonianza esemplare dell’idea di metropoli come ambiente tutt’altro che concreto e reale, ma, piuttosto, disastrato, onirico, assurdo. La fatiscenza di Los Angeles in quel film (ma si tratta di L.A. solo nella versione italiana: quella originale non dà indicazioni precise) non allude a una decadenza fisica della città, bensì a un deperimento, a un’astrazione del suo concetto. Certo, è d’obbligo leggere tale decadenza anche su un versante morale; ma l’erosione riguarda prima di tutto l’idea di essa come utilizzatissimo background di tanto cinema. Non a caso in un film straordinario come il citato Senza un attimo di tregua di Boorman, San Francisco si identifica idealmente con Alcatraz: non solo una prigione, ma addirittura una prigione in disuso, una sorta di rovina ormai oltraggiata dal tempo. L’identificazione, ovviamente, non riguarda una banale omologazione fra carcere e libertà in un mondo corrotto e pericoloso; ma piuttosto un senso della fine che le accomuna entrambe. Fine di che cosa? Sicuramente dei valori; ma soprattutto di una discutibile idea di socialità e urbanesimo. Da questo punto di vista gran parte del cinema americano degli anni Settanta può essere letto come una corsa verso la rovina e la desolazione9. Anche quando, come nella Los Angeles di Il lungo addio (1973) di Altman, la città non presenta affatto connotazioni di decadenza fisica, ma anzi appare più che mai moderna (e in quel film quasi futuribile) e funzionale nella sua artificialità luminosa, nei suoi luoghi agiati ed eleganti. Per cui è paradosso comprensibile incontrare per le sue strade notturne – come succede a Marlowe – soltanto un cane, unico abitante di una metropoli altrimenti percorsa da auto che potrebbero benissimo non avere guidatore (arriveremo anche a questo, e comunque nel film di Altman i volti degli automobilisti sono invisibili). E guarda caso, quel cane viene apostrofato dal poliziotto col nome di Asta, quello, cioè, di una vecchia attrice (Asta Nielsen), o meglio ancora, quello del coccolato animale di una celebre coppia del detective movie, Nick e Nora della serie “Thin Man”, l’uomo ombra. È giusto: dopotutto, la città nel cinema è sempre e comunque metafora della “città del cinema”. Ovviamente il tema dello spazio non si esaurisce in ambito cittadino. Anzi, un ampio numero di film americani di questi anni ha scelto zone provinciali e rurali a suo sfondo, sia in pellicole di sapore strettamente nostalgico, come nella ricca gamma dei gangster film incentrati sugli anni Venti e Trenta, da America 1929: sterminateli senza pietà di Scorsese a Gangster Story di Penn, da Dillinger di Milius a Gang (1973) di Altman, da Il clan dei Barker di Corman a Fbi e la banda degli angeli (1974) di Steve Carver, e parecchi altri; sia in altre opere estranee al genere come, per fare qualche esempio, Un uomo senza scampo e I temerari, ambedue di Frankenheimer, Paper Moon (1973) di Bogdanovich, Un tranquillo weekend di paura (1972) di Boorman, Sugarland Express (1974) di Spielberg, Un uomo da buttare (1975) di John G. Avildsen. Opere diversissime, è evidente, ma che proprio per questo permettono importanti rilievi in merito a comuni denominatori altrimenti insospettabili. E dunque la possibilità di rintracciare, appunto, delle ossessioni indipendenti da ogni altra differenza. È un fatto che in questi film lo spazio trova una sua utilizzazione del tutto particolare così da farsi cifra tipica delle opere di questo periodo. Per essere più esatti, è tipica di questi anni una tendenza sempre più forte a “spazializzare” la dimensione scenografica del film; a porre, cioè, il protagonista (o i protagonisti) in una cornice spaziale molto più vasta di quel che non avveniva in passato. Naturalmente non si può dimenticare che tutto il western americano classico aveva fatto dello spazio una specie di personaggio e anche una sorta di veicolo ideologico, così come non si può dimenticare che l’invenzione del road movie non è certo degli anni di Easy Rider: da Accadde una notte di Capra a I dimenticati di Preston Sturges il cinema hollywoodiano del passato ha profuso il tema a piene mani. Quel che conta, invece, sono i modi in cui tale tradizione è stata utilizzata nel cinema americano dei Settanta. Non parleremo qui della diversa apparenza ideologica di personaggi come quelli di Capra e Sturges rispetto a quelli di un Easy Rider, ma piuttosto dell’aumentata presenza, in questi anni, del “personaggio” spazio per cui il tema americanissimo del viaggio, e più in generale del movimento, non ruota solo attorno alle esperienze personali di chi vi è coinvolto (come appunto era stato in passato) quanto piuttosto si pone come evento affiancato dalla scena stessa in cui esso avviene. In altre parole, il cinema hollywoodiano riscopre l’America, la guarda, l’accarezza; la studia, e comunque sempre la rappresenta secondo un’iconografìa molto più ampia di prima. L’America è un altro personaggio della storia: sarà l’America pittoresca dell’Arizona, del New Mexico e del Texas come in Easy Rider, quella selvaggia e panica del Sud di Un tranquillo weekend di paura, o quella rurale e ubertosa di Gangster Story. Si tratta comunque di una specie di “ingresso” dei cento aspetti della nazione nel catalogo delle presenze concrete del cinema americano. All’infuori della tradizione western classica – da John Huston a John Ford a Howard Hawks – è pressoché impossibile trovare tale ricchezza spaziale e paesaggistica nel cinema americano del passato,
quasi sempre fatto di fondali e trasparenti. Il senso whitmaniano dei grandi spazi che aveva caratterizzato il western copre ora l’insieme del cinema americano, l’ideologia che esso sottendeva invade il cinema nel suo insieme sulla base di questo parametro. In certo senso, come del resto è stato detto da qualcuno a proposito di singoli film, molte di queste pellicole sono dei cripto-western (Easy Rider in primo luogo) e quasi si può dire che, da questo punto di vista, il cinema hollywoodiano si è westernizzato. Paradossalmente, il western contemporaneo ha in parte eliminato questa sua classica componente, interiorizzando la sua scenografia e/o strutturandosi secondo un’ideologia immediata. Si pensi alla ben nota revisione storico-ideologica del genere, come in Soldato blu (1970) di Ralph Nelson, Il piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn, Doc di Frank Perry, alla sua metafisicizzazione, anche attraverso l’uso del paesaggio come nei già citati film di Monte Hellman, Le colline blu e La sparatoria, all’esemplarità da parabola di opere come La ballata di Cable Hogue (1970) di Peckinpah o I compari (1971) di Altman, all’estetizzazione di pellicole (peraltro abbastanza poche) come Il ritorno di Harry Collings di Peter Fonda (nel quale ogni occasione spaziale viene costretta entro il gioco combinato di dissolvenza e colore), o in senso meno tecnico e più allegorico (ma anche l’allegoria è, oggi, una forma di estetismo) come Uomo bianco, va’ col tuo dio (1971) di Richard Sarafian. Per non parlare dell’esasperazione della violenza e dei suoi aspetti esteriori, la quale, pur non condizionando di necessità l’impiego dello spazio nel western, denuncia però comunque lo sviluppo iconografico di una strada diversa da quella classica.
11. Ossessioni: il passato Western a parte, abbiamo dunque un rilancio pressoché assoluto del vecchio mito frontieristico, che in realtà non può essere altro che un ripiegamento di sapore nostalgico, una riflessione sull’America del passato, il ricordo (quanto vero è cosa da discutere) di una condizione edenica che ci rimanda al tradizionale sogno puritano di una comunità di santi fondata e realizzata nel Paradiso terrestre estraneo all’Europa che è il Nuovo Mondo. Solo, ancora una volta si tratta di un’ideologia, di una falsa coscienza, perché l’America è quella che è, e qualunque cosa sia essa non è il nuovo Eden dei Padri Pellegrini. Dice Jack Nicholson ai due amici di Easy Rider: «Una volta questo era un gran bel Paese. Non riesco a capire cosa gli sia successo». Siamo davvero sicuri che gli sia successo qualcosa? Il ripiegamento nostalgico verso un passato che è puro mito, la vitale costruzione di un’idea d’America che è stata e non è più, ci porta dritti dritti a un’altra ossessione, quella del voyeurismo: vale a dire, il tema dello sguardo come condizione dell’essere americani. Che cos’è infatti la tanto decantata nostalgia di un cospicuo numero di film di questi anni se non uno sguardo rivolto all’indietro, una volontà di cogliere finalmente quello che nel momento in cui si era vissuto non era stato inteso e compreso? Non per nulla la presenza della nostalgia percorre l’intero nuovo cinema americano sin dai suoi esordi. È ovvio che la nostalgia per un periodo disastroso come gli anni Trenta si giustificherebbe soltanto sul versante della follia. La nostalgia che è al fondo di queste opere non riguarda, è evidente, il periodo storico in sé, quanto il cinema che a suo tempo ne aveva fatto oggetto di narrazione. D’altro canto, qui non si tratta necessariamente di impiegare le armi della filologia per attuare agguerriti confronti: a volte questo è possibile e addirittura necessario, ma più spesso si tratta di un cinema che imita se stesso non nelle forme esteriori e tecniche bensì nei suoi miti. E qui torniamo all’inevitabile termine di ogni discorso sulla nuova Hollywood: l’uguaglianza del cinema – di tutto il cinema, e del cinema americano in particolare – con se stesso, ovvero con la scoperta che, dagli anni Sessanta in avanti, il cinema ha sempre più chiarito e che è formulabile in questo modo: ogni immagine è dopotutto sempre la stessa, l’industria culturale, nella sua forma di produzione di immagini, ha esaurito il suo repertorio, nel senso che l’indifferenziazione che caratterizza una società ormai nutrita di sole immagini spoglia le immagini stesse di ogni rappresentatività specifica, di ogni referenzializzazione. I film che vediamo e che ancora vedremo sono sempre lo stesso film, una figura del Capitale capace di assumere le forme più svariate nascondendo però sempre la stessa immagine: l’ha capito Godard e l’ha capito Bogdanovich, ambedue operando (e ognuno a suo modo, s’intende) di conseguenza. Detto questo, è ancor più ovvio che il cinema americano scavi ampiamente il versante metalinguistico che Hollywood come fabbrica di queste immagini/immagine ha così gigantescamente coltivato e prodotto. È ovvio che il cinema hollywoodiano ci racconti se stesso non solo nel senso generale che si diceva, ma anche in modi diretti, immediati. In una parola, appunto, metalinguisticamente. Di metalinguaggio abbiamo già parlato, ma l’insistenza è giustificata dal numero impressionante dei film americani sul cinema. Drammi o commedie l’obiettivo non fa altro che riprendere se stesso nel momento in cui riprende. La fabbrica di immagini si racconta in quanto tale, mostra sfacciatamente il segreto delle sue operazioni, narrando nel contempo la sua storia; si pensi a un film in questo senso esemplare come Vecchia America di Bogdanovich o anche a versioni più “basse” di questo tema come Won Ton Ton il cane che salvò Hollywood (1976) di Michael Winner e Il più grande amatore del mondo (1977) di Gene Wilder.
L’ossessione dello sguardo che pervade film diversissimi come Rapina record a New York di Lumet e Gli ultimi fuochi di Kazan, è l’ossessione di un cinema ossessionato da se stesso, di un cinema che per essere stato troppo guardato l’unica cosa che riesce a conoscere davvero è se stesso, di un cinema che dopo averci descritto in cento modi la paranoia è dopotutto il cinema stesso, la sua capacità di realizzare in immagini tutto quello che è nel momento in cui lo riduce a immaginario, la sua volontà (che è poi la sua condanna e la sua gloria) di essere sempre e comunque cinema, fingendo una verità che non é mai stata. L’ossessione voyeuristica del cinema hollywoodiano anni Settanta è la figura finale, definitiva della sua qualità di menzogna, della sua programmatica impossibilità di porsi come realtà. È insomma, l’esempio particolare e insieme generale del grandioso limite del cinema. Una cinematografia che sembra essersi profondamente rinnovata (sia pure solo su un versante tecnico-produttivo e non ideologico) ci mostra ancora una volta che ogni rinnovamento grande o piccolo, vero o falso, si sviluppa sempre e comunque su un terreno “altro”, nel territorio di una fantasia irriducibile al reale anche nei suoi prodotti apparentemente più realistici. Ed ecco che passato, sogno e paranoia diventano un’unica cosa, aspetti diversi di una realtà che è quella del falso, come ha capito benissimo l’Altman dello stupendo Il lungo addio, dove una tradizione classica di detective movie si sviluppa secondo forme imprevedibili, diventando pura metafora trasposta di quel che Hollywood era e non è più, pur continuando a rimanere sogno operante. Lo «hurray for Hollywood!» finale (preso dritto dritto, si noti, da Hollywood Hotel di Busby Berkeley e non a caso canzone scritta da quel Johnny Mercer che è anche paroliere dell’omonima canzone-guida del film di Altman) vuol dire che quella Hollywood non esiste più ma che quel che Hollywood è stata non sarà mai morto fintantoché qualcuno girerà una pellicola sulla sua morte come quella. Tutto è morto e tutto ancora vive, sempre e comunque come una menzogna allegra quanto i salti finali di Elliot Gould sulla strada messicana che non a caso si anima in una vera e propria resurrezione. C’è però un film che vanta la sequenza più emblematica dell’intero cinema americano anni Settanta, un momento degno dei migliori esempi di cinema hollywoodiano della nostalgia (si pensi all’intenso Salvate la tigre, 1971, di John G. Avildsen, al commovente confronto di celebrità delle rispettive epoche fra due personaggi di generazioni diverse quando essi hanno in riva all’oceano un rapporto sessuale occasionale): l’ex studente della Berkeley in rivolta, Moses Wine, dopo molte delusioni politiche e private, si è dato alla professione di detective (private eye: ancora un’allusione allo sguardo) e ricercando per un cliente uno dei vecchi leader del movimento (che in seguito sapremo tranquillamente ricco e integrato), fronteggiando la morte a ogni angolo di strada senza sapere chi è il suo nemico (ancora la paranoia), si trova da solo a rivedere davanti a un piccolo schermo alcuni nastri registrati della rivolta studentesca e degli scontri di quegli anni. L’omino (altro physique du rôle, Richard Dreyfuss) guarda in silenzio le immagini, poi esce in un pianto calmo, tristissimo, immobile: quelle immagini non sono cinema per lui, sono la sua realtà ormai perduta, la sua giovinezza che se n’è andata, i suoi sogni naufragati davanti a un matrimonio fallito, a una vita grigia e a tratti ridicola, le sue speranze politiche svanite nella routine e nel compromesso dell’America anni Settanta. Ma quel pianto è anche il pianto di chi per un attimo ha intravisto la realtà in un’immagine, sapendo che oggi è troppo tardi per recuperarla come realtà, che oggi per lui è soltanto possibile vivere la sua vita in immagini.
12. Rinnovamenti a metà Le immagini, tuttavia, non si organizzano più in modo categoriale. La dissoluzione dei generi, del resto, è non una causa ma una conseguenza della spettacolarizzazione della realtà. Il cinema americano, però, non è uno sprovveduto, esso ripensa, sì, i termini della sua storia e del suo immaginario, ma è capace di elaborare immagini e modelli che, almeno all’apparenza, riescono a proporsi come nuovi e addirittura inediti. Esiste tutta una produzione hollywoodiana nei Settanta che non solo non prospetta l’indeterminatezza, la “confusione” dei generi di cui abbiamo in precedenza parlato, ma che anzi, nella generale indeterminatezza e mescolanza delle immagini, nella globale riduzione del mondo a narrazione per immagini, paiono suggerire che l’originalità non è morta, che è possibile un cinema non sempre d’autore ma certo individuabile e distinto rispetto alle forme comuni della produzione che la serialità televisiva ha reso vieppiù normali e accettate dal grande pubblico. Si prenda quello che non a caso è ritenuto un film importante nel rinnovamento hollywoodiano e che, più particolarmente, viene definito un western di carattere radicalmente diverso da qualunque altro nel passato, Un uomo chiamato cavallo (1970) di Elliot Silverstein, regista di derivazione televisiva. La storia è nota: come sappiamo, non erano mancati vari tentativi di “riabilitazione” nei confronti degli indiani almeno dal dopoguerra. Tuttavia, il film di Silverstein ha respirato il libertarismo degli anni Sessanta, la scoperta dell’antropologia, la rivolta delle minoranze etniche e tutti gli altri importanti fenomeni socioculturali di quella decade. In questo modo, laddove un regista triviale avrebbe composto
un’opera direttamente allusiva al presente attraverso il solito espediente della metafora globale (o addirittura dell’allegoria), Silverstein trova invece proprio nei suggerimenti politici forniti dal presente le armi intellettuali e conoscitive per distaccarsi da esso, per osservare il problema con occhio quasi documentaristico, e comunque apparentemente alquanto impassibile. Ne nasce così un film di notevole bellezza in cui la costante attenzione della macchina da presa verso il protagonista si giustifica sui due versanti del racconto e dello studio di costume (o meglio, di acculturazione). Un uomo chiamato cavallo si presenta in fondo come un esorcismo illuministico: gli stessi gesti, la stessa lingua, gli stessi atteggiamenti che in un primo tempo erano apparsi minacciosi, ostili, acquistano via via denotazioni culturali (in senso antropologico) altamente qualificate, ragioni e valori precedentemente illeggibili a causa dell’ignoranza del codice. Il biondo anglosassone vestito da indiano è una sorta di brutto anatroccolo fra gli strani, dignitosissimi cigni autoctoni, e il film si snoda sul bordo di una perfetta lezione etico-culturale. Il primo tempo, strettamente incentrato sul tema testé accennato, è un gioiello di rigore sia scientifico sia psicologico che abilmente utilizza lo scenario naturale ai suoi fini: un’accurata scelta scenografica di una zona piatta e larga, di spazi che sembrano sconfinati senza però cadere nella tentazione turistica (grossa pecca di certo cinema americano settantesco). L’acme della pellicola ruota sul sacrificio del sole, cruento e orribile se lo osserviamo con gli occhi della nostra cultura, metaforico e grandioso se solo ci sforziamo di leggerlo nei suoi termini culturali originari. L’ascesa dell’iniziando verso la fessura luminosa è una precisa figura simbolica del suo trionfo, del suo accoglimento in un gruppo più grande e maturo, quel “popolo degli uomini” che presto lascerà il campo a ben altro gruppo sociale. Tralasciamo l’errore dell’inserimento di un trito modello romantico (l’amore fra lo straniero e la ragazza indiana, che per giunta muore), e soffermiamoci sui valori ideologici della pellicola. Il vecchio western gli è alquanto estraneo: niente picchi alla John Ford né riprese dinamiche alla Walsh, niente carovane, cavalleggeri e altra oleografia western. Gli indiani sono però così ben descritti che in ultima analisi non è possibile non identificare in loro un’idea di nobiltà e giustizia che è in perfetta linea con tutto un pensiero molto familiare all’epoca in cui la pellicola fu girata. Quel che vogliamo dire è che, per buon saggio antropologico che sia, Un uomo chiamato cavallo ha una sua datazione, che per quanto alieno dai modi usuali del genere western (con indiani), esso è però in regola con le istanze più aggiornate della tematica politica. Esattamente come il vecchio melodramma e il vecchio road movie rientrano ugualmente nell’apparente novità di Cinque pezzi facili di Rafelson. Forse per la prima volta nel cinema americano la crisi di un intellettuale viene raccontata al di fuori dai soliti modelli melodrammatici hollywoodiani, ma con rigore, con limpidità sia letterale sia metaforica. Film riccamente sociologico e altamente cinematografico, esso segna la resa dei conti di un problema di classe che negli Stati Uniti ha una sua storia tutta particolare. Nell’America del Vietnam l’alta borghesia intellettuale, colta e informata quanto basta per non abbracciare ciecamente le istanze di quella ignorante e reazionaria, non trova altri riferimenti che la propria impotenza. Del tutto esclusa da un rapporto con le classi subalterne (di cui potrà anche abbracciare l’esperienza ma non la causa, anche perché queste ultime di “cause” non ne hanno più), capace solo di autocelebrarsi nostalgicamente attraverso l’esecuzione di una partitura di Chopin cui fa da commento una paronamica di 360° su una stanza che è l’immagine di un’intera vita e un’intera classe, l’unico atto possibile è di superare ancora una volta il ponticello che divide la propria casa dal resto della zona e lo stretto che divide la zona dal resto dell’America per lanciarsi in un altro e più oscuro viaggio verso il Canada (un’America nuova, più giovane, più imprevedibile, meno sperimentata). Film su un radicale disagio e su un’esponenza sociale che il cinema americano aveva troppo trascurato o malinteso, Cinque pezzi facili sfata tutti i miti di spontaneità, rozzezza, immediatezza affibiati alla giovane cinematografia americana dei primi Settanta. Ricercatissimo nell’iconografia, il film, ad esempio, mostra ritmi di movimento alquanto diversi nella prima e nella seconda parte: mosso e a tratti nervoso quando Bobbie vive la vita di una classe che non è la sua, lento e a tratti esangue quando egli ritorna nell’ambito familiare. Prova di un talento indiscutibile che si sarebbe purtroppo infranto sugli scogli delle esercitazioni manieristiche di Il postino suona sempre due volte (1981) e La vedova nera (1987), il film di Rafelson affronta un problema americano riuscendo facilmente a generalizzarne i termini e preparando il terreno per affrontare con successo, nella pellicola seguente, il problema americano: con Il re dei Giardini di Marvin – uno dei capolavori degli anni Settanta – il senso di sconfitta e d’impotenza dell’opera precedente diverrà tragedia, la nostalgia non più immobilità ma destino, le radici familiari impossibile desiderio d’innocenza. Film di straordinaria forza intimistica, Cinque pezzi facili, nella sua inadeguabilità a un qualsiasi melodramma di rottura con le proprie radici e di ritorno a esse, è però un’opera che rispolvera un tema
classicamente americano che rimanda a Washington Irving, Mark Twain e alla maggior letteratura ottocentesca del Paese. Il suo innegabile rinnovamento formale (i ritmi, le immagini, i tempi delle scene, la recitazione stessa) non intacca però la sostanza psicologica e intimistica della pellicola, la quale, anche se giocata – come abbiamo scritto più indietro – sul terreno dei silenzi, della mancanza d’informazione sul protagonista, è poi in realtà una più moderna versione di un disagio sociale sin troppo americano. Persino in registi assolutamente insospettabili, in autori che si sono presto posti come alfieri di una nuova concezione del cinema rintracciamo ripensamenti e rallentamenti. Naturalmente in modi adeguati alla loro maestria, in termini del tutto degni dell’alto livello della loro preparazione e della loro pratica del cinema. Si veda il caso dello Scorsese di New York, New York, che è ovviamente sintomatico di una tendenza più ampia e che comunque non è semplicemente rappresentativo di se stesso. Intanto New York, New York è il primo film di Scorsese girato completamente in studio. Il regista viene da una scuola di “presa diretta”, da una sorta di stilematica documentaristica che qui è del tutto assente. Scorsese sembra dunque avere abbandonato i canoni del giovane cinema per tornare ai vecchi sistemi hollywoodiani. E non solo scenograficamente. La pellicola è costruita tecnicamente secondo la più squisita tradizione hollywoodiana, abbandonando le lunghe sequenze da cinema-verità dei primissimi film come Mean Streets (1973). Ancora, nel tessuto della vicenda si inseriscono continuamente scene che rimandano in modo evidente a esempi cinematografici del passato, ai melodrammi di Minnelli, ad esempio, e, per espressa dichiarazione del regista, a precedenti autori come Stahl, Leisen, e altri. Ma l’appassionato potrà ripescarvi allusioni persino ad Astaire (il marinaio che sembra uscito da Seguendo la flotta, 1936, di Mark Sandrich) e a chissà quanti biopics di musicisti come andavano di moda un tempo. Scorsese non intende costruire una macchinetta per cinéphiles10 bensì porsi in linea, nei termini a lui congeniali, con quel cinema della nostalgia che da qualche anno teneva banco. Si è detto spesso che il cinema della nostalgia nascondeva in realtà una nostalgia del cinema, una coscienza della fine di una pratica e di una fruizione cinematografica ormai sepolte dai tempi e dalla tecnica. In questo modo ripercorrere, nei vari sensi in cui ciò è avvenuto (da Bogdanovich a Pollack), il proprio passato identificandolo con quello del mezzo che lo riproponeva (il cinema), diveniva un’operazione metalinguistica giocata su un terreno sostanzialmente iperrealistico. L’immagine si proponeva come istituzionalizzazione, come simulacro dietro al quale non c’era altro che se stessa. Scorsese abbraccia questa istanza e sotto la maschera dell’omaggio a questo o a quel film, a questo o a quel regista, ri-gira una biografia d’artisti tribolati. Lo fa a suo modo, naturalmente, inserendovi, cioè, la sua usuale tematica individualistica intesa come impossibilità di fusione, di comunicazione della coscienza. Da Mean Streets a Taxi Driver il suo cinema è sempre stato un teatro di lupi solitari alla disperata e impossibile ricerca di una comunicazione umana e sociale. Che si trattasse di una minoranza etnica, di un rapporto sentimentale, di un tentativo di comprensione politica, i suoi personaggi fallivano ancora prima di cominciare. Fotografato con cura ricostruttiva certosina dal superbo Laszlo Kovacs, il film, pur nella sua differenza rispetto ai precedenti del regista, denuncia la continuazione rigorosa di un discorso dolente tipicamente scorsesiano nel momento in cui ci invita a partecipare a una piccola festa della memoria in nome di un passato cinematografico irrecuperabile. La differenza, tuttavia, è quella che ora ci interessa di più, perché, dicevamo, denuncia un momento di fermata in un autore che aveva contribuito non poco al rinnovamento reale del cinema americano di quegli anni (e che anche in seguito girerà opere di rilevante importanza e successo estetico). Quelli esemplati sono solo tre fra i molti film passibili di essere prodotti qui a esemplificazione del nostro discorso; a indicare, cioè, come i modi e le personalità più interessanti e innovative della cinematografia anni Settanta mostrarono, prima o poi, una certa compromissione con modelli e concezioni del cinema di carattere sostanzialmente conservatore o quantomeno anche ammirevole mitopoieticamente ma non sempre completamente alieno da connessioni con pratiche di “resa” davanti all’assedio metalinguistico. Se si confronta New York, New York col posteriore Fuori orario (1985) si vedrà bene quanto – nel comune sfondo scenografico di una metropoli evidentemente amatissima – la pellicola più recente rifiuti coraggiosamente di entrare in circuito con l’ormai dominante concezione del cinema come pratica autoreferenziale e come invece essa riesca a costruire un universo completamente autonomo grazie ai meccanismi stessi che presiedono alla fruizione cinematografica: quelli del sogno. Il sogno di New York, New York deve ancora troppo a quello canonico del musical e del melodramma hollywoodiano classico; quello di Fuori orario vive di un’autonomia invidiabile, di una struttura le cui componenti rimandano continuamente l’una all’altra senza ricorrere a un patrimonio, a un inventario cinematografico estraneo al film. Ma evidentemente gli anni Settanta non erano, nell’insieme, ancora pronti per questo coraggio; o per meglio dire, la seconda metà di quella decade dovette fare i conti con
un cinema assolutamente incapace di proporsi se non in riferimento al proprio passato. La dissoluzione dei generi aveva forse distrutto i generi, ma non aveva eliminato il vecchio cinema.
13. Dietro la maschera: il “new horror” È però necessario non fare confusione. Quando abbiamo parlato, per quel che riguarda la dissoluzione dei generi, di un’intensificazione, di un’evidenziazione delle loro componenti primarie, e, insomma, di una dilatazione e insieme di un esaurimento dei possibili narrativi e dei modi di proporli, non intendevamo farvi rientrare – almeno direttamente – fenomeni che invece, pur appartenendo all’apparenza a questo versante, avevano altre e più complesse ragioni. L’esempio più importante è quello che da qualche anno va sotto il nome di “new horror”, di nuovo orrore. Genere da sempre relegato nella serie B, l’horror movie è regolarmente stato il banco di prova delle pulsioni più nascoste, la valvola di scarico di tensioni che altri generi non potevano così chiaramente vantarsi di essere. Delizia delle platee periferiche di sempre il film orrifico si è sentito etichettare di regola come una sorta di divano per spettatori sia rozzi che sofisticati, sul quale esprimere con grida o risate l’accumulo di materiale inconscio che quegli stessi film contribuivano a far emergere e comunque ad addensare ai confini di una razionalità che troppi problemi, troppi timori, troppi eventi avevano e hanno, quantomeno implicitamente, messo in discussione. Probabilmente uno dei “piccoli padri” del “new horror” è quel George Romero che lasciò di stucco non poche platee smaliziate col suo davvero inedito La notte dei morti viventi (1968). Girato per divertimento con alcuni amici nei ritagli di tempo consentiti dalla sua professione di pubblicitario cinematografico, il film di Romero doveva addirittura aprire un genere a sé nel campo orrifico11, ma anche – e soprattutto – fornire, sia pur timidamente, alcune direttive che negli anni a venire sarebbero state riprese e sviluppate da altri giovani cineasti. Perché, si badi bene, il “new horror” più che ogni altro genere è caratterizzato dall’età dei suoi sostenitori. Mentre infatti nel nuovo cinema statunitense fra i Sessanta e i Settanta ai nomi inediti si mescolavano in fondo anche quelli di cineasti in qualche misura affermati e a volte addirittura famosi (si pensi per tutti a un regista come John Huston e a un suo film che supera di parecchio quanto a qualità non poche opere, anche molto significative, della nuova ondata: Città amara, 1972), nell’ambito dell’horror sono personaggi giovanissimi come John Carpenter, Tobe Hooper e il canadese David Cronenberg che occupano i posti di rappresentanza. Il rilievo è meno occasionale di quanto possa sembrare, se si tiene conto dei risvolti teorici del fenomeno, dei quali parleremo fra un momento. Torniamo a Romero. La critica sottolineò a suo tempo molte cose di questo notevole film, ma non ne indicò il valore pionieristico, e Romero venne inteso come un piccolo maestro del genere, non un innovatore. D’accordo, era difficile intuire allora quel che ne sarebbe sortito sul versante del genere. Pure, La notte dei morti viventi non era un’opera che forniva elementi di sviluppo: tutto quel che il “nuovo orrore” sarebbe stato era già in alcune sue immagini. La definizione di “new horror” è un compito molto difficile per la critica cinematografica dei generi, dal momento che essa non è possibile senza una previa definizione di horror: ovvero una questione contro la quale si sono spuntate armi a volte affilatissime. Peraltro, l’usuale distinzione fra “orrore” e “terrore”, per quanto funzionale, non comprende elementi teorici che possano facilitare un’attribuzione di nuovo ai vari film che dalla seconda metà dei Settanta hanno invaso gli schermi. Si sarebbe insomma tentati di affermare che non esiste un “nuovo horror” ma soltanto un rilancio del cinema orrifico. Tuttavia, a osservare con attenzione alcuni di questi film, qualcosa ci dice che, anche tralasciando le innovazioni strettamente tecniche (effetti speciali) essi non sono facilmente identificabili con la produzione classica. Non si tratta soltanto del fatto che i riferimenti poeschi di Corman o la ritualità che presiede al conflitto tra scienza e soprannaturale nei film di Fisher sono pressoché assenti da alcune opere di Carpenter o Cronenberg, ma di componenti più sottili e meno facilmente rintracciabili. Certo, il cinema orrifico del passato riposava in genere su un’ispirazione letteraria (poco importa se fedele o no all’originale) che ne garantiva l’istituzionalità e un posto preciso nella nicchia culturale delle creazioni fantastiche. Intendiamo dire che, con tutte le differenze del caso, fra la trasposizione cinematografica di Guerra e pace, Tom Jones, Il rosso e il nero, Grandi speranze e altri classici, grandi e piccoli, della narrativa occidentale da un lato e un qualunque Dracula di Fisher o un qualunque racconto di Poe adattato da Corman dall’altro, correva culturalmente meno distanza di quella che non vi sia tra questi ultimi e La cosa (1983) di Carpenter. Non è questione, come abbiamo detto, della formidabile perfezione di effetti speciali che nobilita (essa sola, in questo caso) il recente film di Carpenter e che è del tutto irriscontrabile negli horror films del passato, ma di un modo di fare cinema orrifico indipendentemente dall’articolazione del sapere
letterario di cui tanti film, orrifici e non, avevano in passato fatto parte. Non vorremmo essere fraintesi. Non stiamo sostenendo che ciò che in passato imparentava film orrifici non era una comune origine letteraria, organizzata secondo alcuni miti prevalenti (il complesso di Frankenstein, la claustrofobia, il blasfemo come inversione speculare dei valori religiosi istituzionali, ecc.). Si trattava insomma di ossessioni elaborate da una cultura che le aveva esemplificate lungo diverse linee e su diversi terreni narrativi, per cui, poniamo, il problema del limite è comune, dopotutto, sia a Il rosso e il nero che a Frankenstein. Quali caratteristiche presentano allora i nuovi horror films tali da farli sfuggire a questo comune ambito culturale12? La maggior parte della critica intende la cosa come una definitiva, assoluta rinuncia all’ambiguità che in varia misura era rintracciabile nell’horror del passato. In altri termini, la dominante del genere sarebbe oggi una visione totale dell’orrifico, una continua mostra dell’abnorme. Ciò è in qualche misura vero. In un’epoca in cui trucchi ed effetti speciali hanno invaso da protagonisti il campo del cinema in più di un genere, era quasi inevitabile che l’horror film – magnifico terreno d’esercizio in questo senso – ne avesse la sua parte. E, si sa, questo genere la sua parte se la può prendere solo nell’accentuazione di ciò che lo caratterizza: l’orrore, appunto. Naturalmente dietro questa pratica è leggibile qualcosa di più che non un barocchismo, una “maraviglia” per un pubblico più o meno sprovveduto, più o meno disposto a godere dell’ammicco da parte di un’estetica dell’orrido che ha radici – come ci insegna Mario Praz – già in Leonardo e che trovò particolare celebrazione e apprezzamento in epoca ottocentesca. Il “new horror”, insomma, non è semplice cascame tardo-romantico. In certa misura esso si giustifica nell’appiattimento di informazioni e modelli fornito e imposto dalla cultura di massa: qualcosa come un modo di “épâter le bourgeois” (dove per “bourgeois” si intende l’anonimo consumatore di miti mediologici). L’eccesso di orrore, insomma, ne scuote i sogni riposanti fatti di commercials in effetto flou e di una visione del mondo in cui il reale non si distingue dall’immaginario. Un forte (e persino sano) pugno nello stomaco lo può, in questo contesto, fornire solo ciò che è in eccesso, ciò che non si allinea con l’uniformità dei modelli. Ma, si sa, tutto è sempre e comunque sottoposto a usura. Ovvero: c’è regolarmente un modo di atrofizzare, inglobare il diverso. È un’operazione automatica, che non richiede nemmeno particolari accorgimenti: la novità, nel momento in cui diventa seriale, passa ad assumere uno statuto diverso, una diversa accezione mitologica, più tranquillizzante, più familiare, persino quando essa si presenta sotto le spoglie dell’orribile. A questo punto l’unica arma è l’ironia. Un’ironia che si può ottenere in diversi modi. Quello che sembra oggi il più battuto, il più opportuno, il più in linea con la stessa dissoluzione dei generi, è la strada dell’esasperazione dei modelli. L’orrore cioè diventa laidume, sbracamento, disgusto fisiologico. È quel che caratterizza il cinema di John Waters, celebrato new waver dei nostri anni. Il ragionamento è semplice: se l’horror è alterazione orribile dell’umano nel mostruoso, una critica possibile al genere nel modo in cui oggi esso si prospetta si può attuare degradando l’umano ad animale, a parodia di se stesso. Tuttavia, se è vero che il “new horror” è definibile nei termini di cui si diceva più sopra, è anche vero che in alcuni registi esso si presenta in modi più sottili e complessi. Se è vero, insomma, che un Tobe Hooper gioca non poco sul sensazionalistico, è anche vero che un David Cronenberg rivela sofisticatezze alquanto personali che contribuiscono a rendere il campo meno direttamente definibile. Cronenberg è un autore senza dubbio attento all’aspetto mostruoso, eccessivo dei suoi film, ma è anche un regista che all’occorrenza sa dosare con sapienza questo irrinunciabile ingrediente. In Scanners (1981), ad esempio, le scene di vero orrore (anzi, “nuovo” orrore) sono solo due, e una soltanto all’inizio del film. Questo porta il pubblico ad attendersi per tutta la pellicola quel che solo alla fine succederà, cioè una “ripresa” del mostruoso. In tal modo la pellicola si costruisce su un’aspettativa e non su un accumulo di qualificazioni orrifiche. In che senso, allora, si può parlare di “new horror” per opere come questa? Il mostruoso non manca, ma non ne è la componente in praesentia, per cui va da sé che in casi del genere l’elemento orrifico è soltanto la piattaforma da cui far partire e da cui sviluppare un cinema che in ultima analisi si distanzia dall’orrore tout court. Un cinema “psicologico”, tutto incentrato su attese, vuoti, tensioni. Lo stesso si può dire di alcune cose di Brian De Palma, il cui barocchismo ci sembra però sopravanzare le qualificazioni del genere. Forse è eccessivo il duro giudizio che ne dà Teo Mora come semplice brutta copia di Hitchcock i cui film, per di più «hanno tutti il sapore di un cibo già masticato e
mal digerito»13 ma d’altra parte davanti agli entusiasmi di tanta critica la tentazione di stroncare un personaggio tutto sommato discutibile è molto forte. I film di De Palma non mancano di controllo e soprattutto abilità, ma è anche vero che il suo sensazionalismo è a lungo andare disturbante (si pensi al plateale falso finale di Carrie lo sguardo di Satana, 1976). De Palma ha sicuramente un forte senso del cinema, ma non ha il senso del limite. Non perché i suoi orrori siano particolarmente insostenibili (al contrario, egli è forse il meno sanguinolento se comparato a Hooper e ad altri di quella estrazione), ma perché per lui l’obiettivo è un gioco con cui trastullarsi senza tenere conto dell’intelligenza dello spettatore. Di questi De Palma conosce bene i meccanismi psicologici ma non fino a che punto la sua mente vada sollecitata e fino a che punto sia necessario lasciarle spazio per esercitarsi. Quali che siano le sue parentele con Hitchcock, ci sembra che in questo senso De Palma sia lontanissimo dal maestro britannico, autore la cui grandezza sta proprio, fra le altre cose, nella libertà di pensiero concessa ai propri spettatori nonostante la certosina pianificazione (è noto che Hitchcock lavorava con lo storyboard) di ogni sua pellicola. Come che sia, da Non aprite quella porta! (1974) di Hooper a Il fantasma del palcoscenico (1974) di De Palma, il “new horror” sembra avere un preciso penchant per il tema (o quantomeno l’uso) della maschera. Tobe Hooper ne è forse l’esempio più probante, ma in certa misura anche Carpenter. A un secondo grado, cioè, il mostro diventa non tanto l’abnorme fisico, ma il nascosto, e il protagonista di The Elephant Man (1980) di David Lynch è pauroso non per quel che di lui si vede ma appunto per quel che è celato. Non si confonda con la teorizzazione jamesiana in merito al fantastico; con l’idea, cioè, secondo cui ciò che non si vede ed è lasciato all’immaginazione del pubblico è molto più spaventoso di qualunque descrizione, per quanto orrifica. Qui non si tratta di incertezza sul fantastico, di ambiguità in relazione all’e sistenza o meno dei fantasmi di cui qualche personaggio interno alla storia parla (il famoso caso di Il giro di vite); qui il problema non è in rapporto a ciò che esiste ma ai modi della sua esistenza (per dirla con E.M. Cioran, il problema non è l’esistenza ma la grammatica). Sì, la dominante del “new horror” è una continua, impietosa, quasi volgare messa in scena dell’orrido, una disposizione ad assecondare la curiosità dell’occhio, dunque una vera e propria “pornografia” nel darsi iterato di visioni orrifiche senza limite. La governante di Il giro di vite, si è sempre detto, potrebbe avere visto davvero i fantasmi, oppure essere pazza; il disgustoso assassino di Nightmare (1984) di Wes Craven sappiamo bene che non esiste, eppure egli è visibile, presente, orrendamente pauroso. Quando nella pellicola di Craven il muro dietro la testa del personaggio che dorme si increspa come un lenzuolo percorso da un artiglio (ciò che in effetti, a livello di trucco, è esattamente quel che succede), l’orrore non nasce più dall’incertezza teorizzata da James ma da una legge fisica pacificamente accettata che imprevedibilmente crolla lasciando posto a un incubo. Ecco dunque una nuova definizione di incubo: il lupo di Cappuccetto Rosso non fa paura perché è un lupo e come tale ama mangiare esseri umani, ma perché, contro ogni possibilità reale, si traveste da essere umano per attuare i suoi disegni. L’orrore, quindi, non vuol dire tanto irruzione di fantastico nella realtà (definizione che ovviamente ha del vero ma che è anche abusatissima), ma piuttosto “rimanere senza realtà”, incerti, nel caso migliore, se ciò che viviamo e vediamo è realtà oppure no. L’orrore, diciamolo, è una delle derive del postmoderno, cioè uno degli esiti (certo il più drammatico) che l’indistinzione fra reale e non reale – una vera e propria patologia alquanto caratteristica nella nostra epoca – ha prodotto. E The Elephant Man? Non faceva paura perché nascosto? Il punto è proprio qui. L’orrore, il “nuovo” orrore, non è soltanto la semplice visione dell’orrendo che tanto cinema del passato (e non solo Val Lewton) ci aveva risparmiato. L’indecisione di cui si parlava non è sulla natura o meno del fantastico, ma sui modi (la grammatica di Cioran) della sua proposizione. Il nascosto, in altre parole, è in questi film il vero protagonista, il vero problema (anche quando l’insopportabilmente orrido si mostrerà, questo è soltanto uno degli stadi dell’intera operazione psicologica di costruzione del senso dell’orrore). Si dà così tutto un gioco di visto e non visto, di impossibili identità che quasi sfiora il carnevalesco (sia pure su un versante di terrore e non di festa gioiosa, rivelando, fra l’altro, cosa si nasconde dietro alle pieghe della festa, o comunque che vi si nasconde qualcosa). In certo modo partecipa a questo modello persino un film come Poltergeist (1982) di Tobe Hooper su soggetto di Spielberg, in cui, sino alle sequenze finali, il mostruoso è presente ma celato (e, paradosso, proprio negli oggetti della più banale quotidianità: il televisore in primo luogo – ricordate il già citato The Twonky di Oboler?). Per tale ragione parte di queste pellicole (così come Scanners anche parecchie cose di De Palma, ad esempio) assomigliano non poco a dei detective movies, per questo esse inscenano il classico modello dell’inchiesta, della ricerca. Certo, qui essa è farcita di sensazionalismi che agli autori di “Black Mask” sarebbero sembrati spazzatura, ma è pur sempre una domanda di verità che le domina. In questo senso il “new horror” è alquanto lontano dal gotico di autori letterari classici come M.R. James o Sberidan Le Fanu. In costoro il mistero, mano a mano che la
vicenda procedeva, allargava la sua ala su luoghi e personaggi sino a divenire gratia sui, sino a rendere addirittura inutile una richiesta di verità. Il “new horror” invece ci dice che in ultima analisi dietro la maschera dell’orrore c’è sempre qualcos’altro, e ci invita a scoprirlo; anche se troppo spesso, come in Non aprite quella porta!, ciò che sta dietro la maschera è ancora più orribile della maschera stessa.
14. Riscoperta del corpo: la “fantasy” Non è raro sentir dire che il “new horror” è un tipico prodotto post-moderno nel senso che esso invade gli schermi americani quando ormai la televisione domina il campo e che quindi è uno dei modi in cui Hollywood tenta di proporre sul grande schermo quel che il piccolo, per diverse ragioni non può dare. Naturalmente in questo c’è qualcosa di vero, così come probabilmente la stessa cosa può essere detta per il cinema pornografico, per la fantasy e per la stessa fantascienza di gran moda dalla fine dei Settanta. Pure, meccanismi esplicativi del genere non convincono appieno. Davvero il pornofilm si moltiplica e gode di un notevole successo di pubblico solo in termini di concorrenza alla televisione? Davvero i mondi della fantasy – se non altro per il loro in genere forte budget produttivo – non sono pensabili sugli schermi familiari? Crediamo sia innegabile che l’esplosione del pornocinema trovi un buon terreno di rigoglio in una serie di fenomeni di costume (o meglio, di mutamenti di costume) che almeno a partire dai primi anni Settanta – e probabilmente più indietro – hanno segnato la vita americana. E crediamo che il grande successo, anche letterario, della fantasy in questi anni sia connesso a una forte tendenza irrazionalistica e addirittura paramistica che decisamente, lo abbiamo detto, il cinema fantastico nel suo insieme non ha mancato di mostrare. Dalla “forza” di Guerre stellari ai mondi favolosi di Conan il barbaro (1982) di John Milius il passo è brevissimo. Quel che incuriosisce nel successo che ha arriso alla fantasy è che apparentemente la sua matrice non è diversa da quella dei film esotici fra i Quaranta e i Cinquanta. Tuttavia è indicativo il tonfo di una pellicola, peraltro britannica, come Scontro di Titani (1981), una ripresa del film mitologico il cui insuccesso la dice abbastanza lunga su quello che il pubblico chiedeva. La domanda infatti non era più di storie favolose radicate nel mito classico né di altre fatte di un inventario soprannaturale ormai ben noto (tappeti volanti, meccanismi di natura magica, geni nella lampada e via dicendo), ma di mondi dominati dalla cupezza e dalla forza. Le terre del mito e quelle dell’oriente favoloso erano in fondo dei bei paesi che purtroppo soffrivano sotto il giogo di un qualche tiranno, di una qualche divinità malefica, di questa o quella maledizione. Le terre della fantasy no: vi si intuisce l’oscurità di un medioevo le cui connotazioni negative non sono identificabili in questa o quella identità di potere. Il cattivo della fantasy, in altre parole, non ha un’anagrafe: è il concetto stesso del mondo a essere bieco, triste, povero, cupo, sordido nella sua pur innegabile grandezza, che è della magia e del valore guerriero. Ecco, il paese della fantasy è in continuo stato di guerra; ma non perché in esso vi si combattano continuamente delle battaglie bensì perché si comprende subito che là soltanto il forte e l’audace possono emergere. Non il forte e l’audace che trent’anni prima si incarnava nell’astuto principepezzente capace di riconquistarsi il trono grazie alla sua intelligenza e alla sua democrazia, le quali infallibilmente gli guadagnavano subito le simpatie di un popolo oppresso. L’eroe della fantasy non porta alcun messaggio ideologico di carattere democratico; al contrario, egli riposa su un individualismo che è lo stesso che ha spinto intere giovani generazioni nelle palestre e nelle scuole ottantesche di culturismo fisico. Prodotto di un narcisismo senza concetto, l’eroe della fantasy è la concretizzazione fisica di un’ideologia della lotta per il successo. Naturalmente, ogni eroe è in fondo sempre tale; ma questa volta l’eroe non ha intelligenza, solo eccezionali capacità fisiche. Fra il piccolo e grazioso Tony Curtis e l’imponente e temibile Arnold Schwarzenegger non ci sono solo trent’anni, ma anche uno scetticismo nato già nei Sessanta, cresciuto nei Settanta e trasformato in ideologia della violenza negli Ottanta. Attenzione, perché l’eroe di Rambo (1982) di Ted Kotcheff e Conan sono uguali non solo per l’identico volume dei muscoli, ma soprattutto per l’idea di fondo che ne motiva e sostanzia le azioni: essi sono la coscienza della nostra impotenza davanti a un sistema che ci appiattisce affermando di rappresentarci quando in realtà ci ha dimenticato. Cugini del purtroppo ormai classico Il giustiziere della notte (1974) di Michael Winner, i vari eroi del cavalletto e degli anelli sono quel che i joggers dei Settanta non sapevano che sarebbero diventati: bruti che combattono per il bene e la verità, ma che non sarebbero capaci di formulare una semplice definizione di che cosa è il bene e che cosa è la verità. Perfetti figli di un periodo fin troppo smaccatamente definito “edonistico”, essi in realtà vivono – come sempre i divi – vicariamente le loro avventure e i loro trionfi, e non incarnano nulla se non un desiderio impossibile. L’immaginario del pubblico, cioè, non ha più strutturazione, diramazioni: esso esiste, sì, ma solo come figura immobile di forza e violenza cui tradizionalmente – se compiuta dall’eroe – si dà il nome di giustizia. In questo senso erano incredibilmente più veri gli eroi peckinpahiani: fuorilegge, ma con un
senso dell’onore che, sia pure non tanto credibile, li rendeva per lo meno parte di un quadro umano. Il West di Peckinpah è dunque molto più vero dei mondi paramedievali di Conan e dello stesso Vietnam di Rambo. Questi eroi vagano per terre che sono solo sfondi onirici: verosimili o meno, non è questo che conta, bensì ciò che noi vogliamo vedere e il senso che gli vogliamo attribuire. È straordinario come gli Stati Uniti, dopo avere sonoramente perso una guerra tanto impopolare nel mondo intero come quella del Vietnam, siano riusciti a vincerla sugli schermi hollywoodiani. Non è soltanto l’illusione di una rivincita; no, è proprio la sensazione di una vittoria che, in un mondo ormai spettacolarizzato, viene davvero ritenuta tale e vissuta in questi termini. Comunque, il caso di Rambo, per quanto eloquente, non riguarda la fantasy in senso stretto. Esso è certamente fantasy ma solo nella misura in cui lo è il cinema stesso di questi anni. Esso è mosso da motivazioni psicologiche non diverse, poi, da quelle che stanno dietro a Conan; ma è anche vero che il film di Milius dispiega una scenografia e un inventario alquanto particolari, che non solo rendono impossibile su quel terreno qualsiasi paragone con le pellicole sui vari e fantasiosi vendicatori contemporanei, ma anche con quelle stesse di fantascienza. Dietro a Rambo c’è un cinema violento che trova le sue radici per lo meno in Quella sporca dozzina (ma volendo si può risalire sino ai film bellici di Fuller), con la differenza che il senso del gruppo e la ideologia della necessità di formare un corpo composto da elementi diversi e uguali si sfalda per diventare celebrazione del bruto senza mandato. Dietro ai dodici strani “apostoli” di Aldrich c’è un potere che spietatamente e disinvoltamente usa anche ciò che ufficialmente denuncia e condanna; dietro a Rambo c’è solo un potere che rappresenta ogni istanza di reazione alla soppressione dell’anelito del singolo verso la giustizia e l’azione. I veri Rambo della platea sono degli insetti microscopici che non pensano minimamente a un paragone, sia pure in perdita, fra se stessi e il loro eroe, ma a lasciargli il compito che nessuno di loro è in grado di fare: sputare sulla comunità costituita e sullo “spirito delle leggi”, su ciò che nel bene e nel male tiene insieme gli uomini. Pellicola pre-illuministica, Rambo non ha nemmeno l’alibi del medievalismo: essa è chiaramente un’opera moderna che esprime senza alcun pudore lo spirito di tempi che, irreggimentati senza scampo, cibano i perdenti e gli schiavi di fantasie di potenza, sfruttando lo stesso côté romantico della vecchia Hollywood, ma su versanti di distruzione e non di costruzione, di violenza e non di tenerezza, di impeto e non di delicatezza. Da questo punto di vista fra la Garbo che fa la Karenina e il personaggio interpretato da Stallone non c’è poi grande differenza: il modello è cambiato, il suo meccanismo è identico. Solo, l’eroe ottantesco mostra la propria sessualità nel fallicismo d’attacco di un fucile mitragliatore. Eroe post-femminista, Rambo riempie un vuoto lasciato da un’ideologia capace di critica storico-sociologica ma non di elaborazione teorica: Cleopatra Jones (1973) di Jack Starrett e Coffy, la pantera nuda (1973) di Jack Hill erano state versioni nero-femministe dello stesso modello. Hollywood non si pone problemi: la storia va avanti e il suo immaginario vi si adegua in modo indolore. Il culto del corpo iniziato nei Settanta continua dunque negli Ottanta, ma al di fuori da contesti socio-politici: è il modo migliore per farlo ulteriormente risaltare. Il paesaggio pseudomedievale della fantasy ha in fondo l’asetticità di una palestra, tutto è là in funzione della presenza del corpo dell’eroe. È vero che non ogni opera di fantasy sfoggia Schwarzenegger nel suo cast, ma è anche vero che ben poche pellicole del genere non dispiegano un eroe da parallele. La fantasy, tuttavia, non è riducibile al solo pseudomedioevo di opere come quella di Milius o Kaan principe guerriero (1982) di Don Coscarelli. Essa può essere rivisitazione di leggende come nel celebre Excalibur (1981) di John Boorman. Eppure, a prescindere dalla vena ironica di questa pellicola, la differenza fra medioevo vero e falso è la stessa che c’è fra film realistico e non: persi ambedue nell’immaginario, la distinzione è inutile ed errata. Piuttosto, ci sembra più interessante osservare la fantasy nelle sue ragioni storiche. Da dove viene? A che cosa si imparenta? All’epica? Alla fiaba? E poi, perché solo in tempi abbastanza recenti ha visto fioritura cinematografica, e perché soprattutto in America? Il genere si presenta come un’elaborazione spuria di una favolistica da parte di un Paese che ha sempre, magari tacitamente, lamentato l’assenza di questa come di altre tradizioni culturali14. Della favola la fantasy mantiene l’ambientazione eroica, le vicende impressionanti. In realtà la cosa è più complessa, poiché vi si rilevano anche componenti dell’epica e del mito. Il tema dell’orfano divino, la lotta gigantesca, la vocazione del protagonista e così via. Solo che molto spesso la tendenza al concreto tipica dell’anima americana ha portato i vari autori a connotare storicamente la terra di nessuno della fantasy: in genere, come dicevamo, un medioevo non meno spurio, fornito unicamente della tradizione costumistica e scenografica, ma del tutto estraneo all’episteme dell’epoca. Il medioevo infatti è sempre stato per l’americano il punto di riferimento dell’ignoto, esattamente come per l’europeo esso aveva incarnato, in tempi molto posteriori, il referente della superstizione e dell’ignoranza. Il medioevo ha avuto i suoi giudici: Mark Twain in America, l’Illuminismo in Europa. Ma il disprezzo e il dileggio di Twain (si ricordi il suo odio per Walter Scott e la derisione del suo Un americano alla corte di re Artù) erano anche spia di una mancanza, esattamente come il culto della ragione per il Settecento illuminista
nascondeva, secondo la convincente dimostrazione francofortese, pieghe impreviste di irrazionalismo che avrebbero avuto il loro tragico sviluppo nel corso della storia. La fantasy intende colmare quel vuoto. Lo fa nei modi seriosi di scrittori come Howard o Anthony, oppure in quelli ironici e divertiti dell’ineffabile duo De Camp/Pratt. Ma lo fa. E in un’epoca di dissoluzione delle forme entro le quali l’eroe aveva compiuto il suo dovere, in un periodo in cui l’astorico del genere era svanito col genere stesso, non è possibile non ritrovarsi in un tempo che non fa nemmeno più le viste di camuffarsi da storico (come il western, come il kolossal, ecc.), ma finge un passato mai stato che, dicevamo, si accorda perfettamente con una condizione storico-esistenziale tipicamente americana. Il culto del corpo di Conan rappresenta il grado alto di narcisismo raggiunto negli anni Ottanta, ma la sua supposta miticità, il teatro senza tempo delle sue gesta è un sogno americano di storia che regolarmente diventa incubo, un desiderio nazionale di temporalità che subito, con le sue orrende magie, si rivela più una minaccia che la nostalgia di un’assenza.
15. Riscoperta del corpo: il pornofilm Come abbiamo scritto altrove15, a volerlo osservare troppo da vicino, il corpo diventa un’astrazione. Dall’iperrealismo sono dialetticamente derivate la fantasy e altre direzioni cinematografiche di questi ultimi anni: persino il boom del cinema pornografico, il quale aveva una storia tutta autonoma, ma che proprio verso l’inizio dei Settanta cominciò una vita nuova trovando nel lungometraggio una misura adatta per proporsi al di fuori dai luoghi convenzionali della sua fruizione diventando una non minore parte dell’industria cinematografica. Dal momento in cui, nel 1970, la Fox si assunse la distribuzione di Beyond the Valley of the Dolls di Russ Meyer, il mercato del pornofilm mutò moltissimo. Non ci interessa studiare qui le motivazioni teoriche o sociologiche o psicologiche del pornocinema. Ci interessa invece sottolineare che esso troverà il mercato che si diceva proprio contemporaneamente al rilancio del cinema americano. Il cinema pornografico è la versione “per adulti” di quell’iperrealismo che era stato una costante di quegli anni. L’attenzione al dettaglio, la ripresa del particolare è identica a quella dei maggiori pittori iperrealisti, o se si preferisce a quel risvolto del fenomeno che fu la body art16. Solo che l’eccesso di realtà, il «vedere tutto, vedere sempre di più e più da vicino» non permette di «sospettare che a un effetto di ingrandimento consegue sempre un processo di astrazione»17. Ora, lo sviluppo iperrealistico dello spettacolo (e più genericamente dell’arte) è la spia della grande trasformazione in atto non tanto nel costume quanto negli stessi dati epistemologici della nostra epoca, ed è anche il fenomeno teorico che sta alla base della nuova estensione del pornografico a evento comune. La saturazione del corpo globale delle immagini, cioè la loro riduzione a un’unica immagine, a un corpo, è la miglior espressione non della morte delle immagini ma dell’immagine della morte. Il cinema ha saputo nella sua storia fornirci un’immagine della morte che certo non ha mai avuto riscontri. Per questo la pessima qualità di fotografia e scenografia (per non parlar del montaggio) dei pornofilm europei non può consentire a quelle opere di competere con certa parte del mercato americano. Entrato nei grandi circuiti, il pornofilm statunitense ha saputo rinnovarsi proponendosi come oggetto di reale fruizione al di là dall’immediatezza dell’immagine. Agli inizi dei Settanta escono i primi lungometraggi di Gerard Damiano: alle carte da parati da poco prezzo, ai lettucci disfatti e intuibilmente maleodoranti, alle lampade da comodino in stile svendita di magazzino, alla biancheria intima sgualcita e persino bucata Damiano sostituisce ambienti a volte sfarzosi, suppellettili costose, costumi di sicura scelta, prodotti insomma di una fantasia che ha ben compreso come la rappresentazione della sessualità in atto richieda, per dirla ancora con Coleridge, «una volontaria sospensione di incredulità». Al trasandato realismo di tante pellicole europee Damiano sostituisce l’onirismo che da sempre è la natura primaria del cinema. Ma attenzione: non perché pizzi di marca e colori eleganti e sfumati di coperte e armadi siano più “onirici” di altri, ma perché, come ha detto bene Enrico Ghezzi, «anche quando la scenografia è curata e variata (Odyssex di Damiano), il suo ruolo è quello di permettere di apparire meglio all’hard, o di enfatizzarlo per contrasto evocando luoghi “proibiti” o tabù»18. Non solo. La bellezza indiscutibile delle attrici, l’intrinseca provocatorietà del loro corpo, l’indugio su di esso nei momenti di intimità (il risveglio al mattino, il rito del letto serale che prelude al sonno notturno senza che la scena sia necessariamente preparatoria in modo diretto alla prossima sequenza di sesso) trasuda un fascino che il pornofilm usuale non ha. Damiano sa costruire con abilità una struttura pornografica superando di gran lunga il semplice filmpretesto di esibizioni hard core. Tutto nei suoi film rimanda continuamente all’erotismo e nulla è pura parentesi, momento di stacco e di attesa fra un amplesso e l’altro: nulla cioè viene lasciato al caso, nulla
viene subito come un momento inevitabile, una necessaria soluzione di continuità fra situazioni di pura esibizione genitale. Damiano insomma prolunga la prevedibilità, o se si preferisce, l’attesa, riempiendola di immagini che permettono all’immagine hard di “apparire meglio”. Soggetto e sceneggiatura vantano una consistenza, un tracciato narrativo, una particolare attenzione alla valorizzazione degli angoli di ripresa in funzione non soltanto dell’esibizione sessuale ma più largamente della carica erotica di immagini che non mostrano copulazioni di alcun tipo. In questo senso le pellicole di Damiano sono opere erotiche che si avvalgono anche di immagini hard le quali però attenuano la durezza moralistica di questa attribuzione grazie, appunto, al loro inserimento in una struttura narrativa organizzata. L’onirismo squisitamente cinematografico di cui si diceva, peraltro, è in alcune sue opere potenziato dal soggetto stesso, come nel caso del celebre The Devil in Miss Jones (1973), che narra di una ragazza la quale, morta e destinata all’inferno, riesce a tornare in vita per poter provare le sensazioni che non ha precedentemente fatto in tempo ad avere. La potenziale ironia della storia viene smussata dall’erotismo congenito del regista, il quale, quando se ne allontana, cade spesso nel triviale, come nel noto Gola profonda (1971) che il regista stesso definisce «uno scherzo»19. Damiano è a suo agio quando la sua fantasia spazia in luoghi sofisticati e barocchi, verosimili o assurdi che siano. E più di Russ Meyer, la cui vis comica era più difficilmente rielaborabile, ha lasciato un segno nel campo. Il seguito a The Devil in Miss Jones (1982) di Henri Pachard lo mostra bene. Forse un po’ più lezioso delle cose tipiche di Damiano, il film di Pachard ne condivide però il gusto per il dettaglio e un’ironia che lascia presto spazio ai meccanismi dell’eccitazione, all’esibizione sensuale. L’idea, che qui non riporteremo, sfrutta naturalmente quella della pellicola originale. Un onirismo ancora più evidente la pervade, una fantasiosità di costumi, colori, scenari decisamente imparentati con altre cose di Damiano (si pensi a Odyssex, nel cui ultimo episodio la casa di piacere diventa proprio una sorta di, pur gradevolissimo, inferno, o se si preferisce, di sontuoso padiglione orgiastico giocato sull’opposizione tra sfondi bui e scintillio di una scenografia tanto strana ed essenziale da apparire stilizzata). Un senso di ricostruzione domina gli ambienti, ma proprio per questo la sostanza onirica delle immagini emerge ancora più forte, esaltata dai costumi fallici dei diavoli-guardiani. Non c’è dubbio, questo è un “wet dream” nel quale la «sessualizzazione dell’universo» di cui parla il Kleinpaul a proposito del pensiero primitivo giunge a un grado tale da invadere persino il terreno escatologico. Un sogno, peraltro, che come quasi tutti i sogni è fondato sull’eccesso. D’altra parte, si sa bene, l’eccesso comporta inevitabilmente del cattivo gusto se incontrollato, dell’umorismo se è intenzionale e pilotato. L’umorismo, a sua volta, può organizzarsi in diverse direzioni. Fra le più usuali: la parodia se allusivo a strutture narrative già fondate (un modo, fra l’altro, di fare dissoluzione dei generi); l’ironia se l’autore assume quello che Thomas Mann chiama «il punto di vista degli dèi», vale a dire un distacco dal proprio materiale così ampio da superare persino un’eventuale pretesa di oggettività in modo da giungere, per così dire, a un punto d’osservazione verticale. Le caratteristiche fondanti, primarie del genere (o comunque del narrato) si condensano quantitativamente a un grado tale da diventare, appunto, eccesso. Non, si badi, eccesso strettamente sessuale: il pornocinema è per definizione una continua addizione. Ma, è importante notarlo, continua addizione dello stesso addendo, grado zero della narratività, incipit che continua a ripetersi come un disco che si incanta. In questo senso il pornofilm non è affatto un genere cinematografico dal momento che non ha sviluppato una retorica narrativa, ma solo una retorica grammaticale e non sintattica. Naturalmente anch’esso ha alcune precise figure retoriche (nel senso di tòpoi visivi) e addirittura una sorta di struttura (microstruttura, a dire il vero) narrativa che si attua attraverso la giustapposizione di alcuni tipi di copulazione i quali seguono di norma un percorso cronologico interno sempre identico. Ma gli manca l’ampiezza diegetica non diciamo del western o della fantascienza (ambedue fondati su una larghissima idea di spazio) ma nemmeno del melodramma, nemmeno cioè del genere cinematografico potenzialmente più ristretto in termini spaziali, più disponibile a un Kammerspiel proprio perché appuntato, giocato sui corpi degli attori e su quelli soltanto (ciò che ha capito perfettamente Fassbinder, uno dei registi che, facendo melodrammi, si è forse più di ogni altro avvicinato idealmente al limitare che divide questo genere dal pornofilm: non certo per le sue eventuali visioni di copulazione, ma proprio per la sua formidabile condensazione del senso del corpo, condizione necessaria ma non sufficiente per fare del melodramma ma anche condizione unica per fare del pornocinema di normale amministrazione). Tuttavia il pornocinema americano si sviluppa necessariamente su una contraddizione, su una doppia vocazione. Da un lato esso, come si diceva, riscatta la volgarità del prodotto corrente nei termini in cui si è accennato; ma dall’altro, proprio perché pornocinema, non può rinnegare le sue radici o i suoi obiettivi, risolvendo l’attenzione, l’organizzazione e a tratti la finezza della sua struttura scenico-narrativa in pura e semplice copulazione. È questo il limite delle migliori cose realizzate nell’ambito. Limite, peraltro, che si riduce enormemente nei film di Russ Meyer, dal momento che la loro satira delle
fantasie americane di perversione (non di necessità sempre sessuali) rivela un’autonomia rispetto le finalità erotiche di questo cinema: certo, esse sono lì, nella pellicola, a far parte integrante del tessuto finalizzato alla visione delle varie copulazioni, ma al tempo stesso rimangono come ottimi modelli di carnevalizzazione della repressione collettiva. Si pensi al sadomasochismo suggerito, nei film di Meyer, dal nazista americano; o su un altro piano, tuttavia non molto lontano dal primo, alla stilizzazione del tutto irreale delle sue ragazze (ad esempio, la cowgirl o la contadinella, proposte esattamente come le vuole l’oleografia pubblicitaria, ma ovviamente al tempo stesso demitizzate allegramente attraverso la stessa componente hard dei film). In certo senso Meyer opera su miti sociali laddove Damiano opera su miti naturali. È quindi il secondo che gioca la partita perdente, poiché se è possibile satireggiare la cultura, è però impraticabile tentare una critica della pulsione (e questo spiega fra l’altro il fallimento dei momenti comici nei film dell’autore di Gola profonda). Questa può al massimo essere identificata e persino descritta, ma non esiste procedimento di razionalizzazione che possa mediarla intellettualmente così da disattivarla (piuttosto, come insegna la psicoanalisi, il contrario). In ogni caso, non meraviglia che in tempi di postmoderno (dagli anni Sessanta in avanti, intendiamo) emerga prepotente la presenza, dopo quella in sé già annosa del pornocinema tout court, di un pornocinema di qualità. Anzi, se si osserva l’elenco fornito da Philip Stevick (una enumerazione di ciò che in letteratura caratterizza il postmoderno) si noterà l’impressionante coincidenza con ciò che caratterizza, pur nella loro diversità, i film di Damiano e di Meyer: pochi rimandi alla tradizione, pubblico limitato, utilizzazione della “bad art” (questo cinema è esso stesso “bad art”), assenza di valori come divertimento per l’osservatore e come caratteristica primaria dell’esperienza, assenza di profondità estetica e filosofica, ecc.20. L’emergenza del pornocinema di qualità è dunque una caratteristica e un segno del postmoderno, un’epoca in cui basta cambiare posto a una virgola perché il senso si inverta, e soprattutto un’epoca in cui a quella virgola si cambia regolarmente posto. Il titolo stesso dei film di Damiano-Pachard parla chiaro: dal delizioso The Devil and Miss Jones (Il diavolo si converte, 1941) di Sam Wood a quell’identico titolo, in cui però “and” è sostituito da un malizioso “in”. Non si tratta, come vorrebbero i moralisti, del fatto che il diavolo è metaforicamente entrato nel cinema: è il cinema a essere entrato nel diavolo. Questo successo, questa imposizione innegabile del pornocinema in anni recenti ci dice dunque, per gli stessi modi della sua attuazione, per la sua organizzazione narrativa, per la sua più o meno sviluppata componente ironica, per la sua ripresa anche parodistica di modelli desunti da cliché hollywoodiani, della connessione fra di esso e la crisi del vecchio cinema, nonché, più specificamente, la fine dei suoi generi. Non a caso nelle sale regolari si assiste sempre più a un dispiego di sequenze che ci indicano quanto il cinema hollywoodiano sia avviato verso le sponde di un’audacia hard core. Non è solo, lo abbiamo detto, una questione di costume in mutamento, ma di una corporalità che sta ormai entrando a far parte dell’immaginario collettivo, dei suoi fantasmi, delle sue costanti. Il concetto di sesso e di trasgressione è evidentemente cambiato. Mentre una volta il controllo sociale era garantito dalla sua repressione, da tempo il potere ha compreso che per raggiungere quello scopo è bene invece manipolarlo e distribuirlo. In questo senso il pornocinema fa ormai parte se non del cinema hollywoodiano in senso stretto, certamente del cinema americano. Industria che ha i suoi centri sia sulla costa orientale che su quella occidentale, esso rientra nella grande, globale immagine cui si è ridotto il mondo; esso fa parte del grande spettacolo comune nel quale rientrano tutte le immagini giornalmente fruite da tutti. La spettacolarizzazione del reale non conosce censura. Bandito dalla produzione regolare, il pornocinema non solo vi sta a poco a poco entrando, ma ha preso il proprio posto nell’immenso teatro dei nostri sogni in celluloide e ormai destinati alla privatizzazione fornita dal videotape. Riuscite a superare le dogane della morale e della censura ecco che la tecnologia – cioè il massimo fattore concreto di progresso – lo risospinge verso il consumo personale, e dunque colpevole. Le pratiche private non richiedono ironia, né critica, né sorriso: sono le più seriose di tutte, e proprio per questo il cinema pornografico, come tanto altro cinema, è finito. Ma questa volta, fatto davvero paradossale, nel momento stesso del suo riscatto.
16. La vita è maestra di scuola Altro e non meno strano paradosso è che a riempire questo vuoto subentra un cinema la cui pornografia è tutta fra le righe, e – cosa anche più importante – riguarda le giovani generazioni, vale a dire coloro che, si sarebbe supposto, ne erano rimaste estranee, superiori, lontane grazie alla loro appartenenza storica a un costume ormai evoluto. La grande scoperta di un pubblico giovanile fra i Sessanta e i Settanta porterà infatti anche a distorsioni come quella dei film scolastici, delle pellicole incentrate su avventure goliardiche di qualche gruppo di buontemponi scurrili, dove però di sesso se ne vede pochissimo, e dove la pornografia, oltreché nel linguaggio – estremamente sboccato – sta soprattutto nella facilità prostitutiva delle gag nei confronti di un pubblico a dir poco periferico.
Naturalmente si tratta di un’ennesima via per sfruttare economicamente il già martoriato cinema americano e il suo sempre più acquiescente e piatto pubblico. Ma vi sono altre ragioni per il successo (fortunatamente temporaneo) di queste pellicole. Si crede a torto che nel 1973 American Graffiti abbia aperto la strada al cinema da liceo e da college che per almeno dieci anni da allora ha imperversato in America. L’operazione nostalgica di Lucas aveva in realtà poco a che fare con l’umorismo sguaiato di questo tipo di film, il cui campione “storico” è piuttosto Animal House (1978) di Landis, che però, come diremo più avanti, vanta delle ragioni più serie che non le sciocchezze dei film cui dette la stura. Di certo pellicole come Porky’s questi pazzi, pazzi porcelloni (1982) di Bob Clark e i suoi seguiti, Fuori di testa (1982) di Amy Heckerling e Class (1983) del pur superiore Lewis John Carlino non possono aspirare a molto più di una qualifica che non si limiti alle oscenità, agli scherzi camerateschi o comunque ai pruriti che li caratterizzano. C’è anche chi, come lo scrittore, sceneggiatore e regista John Sayles, ha avvicinato l’argomento con maggior serietà, soprattutto nel delicato Promesse, promesse (1982), in una chiave di nostalgia molto fine che, soprattutto per quanto riguarda il suo The Return of the Secaucus Seven (1980), gli sarebbe stata copiata con abilità dal Lawrence Kasdan di Il grande freddo (1983). Ma Sayles è comunque un’eccezione. Anzi, proprio lui affermò molto acutamente che in una pellicola come Fuori di testa «si possono notare tracce di un’opera molto più seria prima che qualcuno insistesse a farla veloce e divertente». Il tema scolastico, insomma, è terreno per sviluppi diversi e opposti. Ma se all’inizio degli Ottanta esso si è affermato sul versante dell’umorismo volgare e sbracato non ne mancano le ragioni. Da tempo il cinema americano ha colto nella scuola il terreno migliore per un’investigazione sociologica generazionale. Nei Cinquanta/Sessanta film come Il seme della violenza di Richard Brooks leggevano nell’istituzione educativa il più chiaro vivaio di delusione e violenza di una generazione che stava tenendo a battesimo l’era del rock (proprio Rock Around the Clock apriva la pellicola). L’obiettivo della protesta di ieri era la comunicazione del disprezzo da parte dell’ultima generazione nei confronti di quella precedente e l’instaurazione dell’anarchia. L’obiettivo di oggi è la conquista sessuale, lo scherzo, il divertimento. Negli anni fra i Cinquanta e i Sessanta la scuola era una metafora di ordine sociale e autorità generazionale. Essa aveva dietro di sé il potere, e l’insegnante che si accingeva a combattere la sua battaglia contro una classe riottosa incarnava ben più che un professionista: egli rappresentava i meccanismi di controllo di un’intera società. Proprio per questo la sua figura doveva emergere del tutto aliena da ogni atteggiamento repressivo, da ogni esercizio di dura, diretta autorità: diversamente, i valori antitetici a quelli propugnati e praticati dagli antagonisti avrebbero comunque prevalso, anche quando – se non soprattutto – questi ultimi ne fossero usciti sconfitti. Ma poiché una lotta impostata in questi termini è comunque perdente (nel senso che la violenza caratterizzante un’intera generazione richiede una risposta adeguata a tali caratteristiche), ecco allora che, come al solito, il cinema americano sceglieva la strada manicheistica che voleva il male fosse appannaggio e prerogativa di qualche mala pianta, estirpata la quale tutto poteva svilupparsi correttamente e con generale soddisfazione. L’ideologia, insomma, aveva elaborato la sua solita via di scampo dopo avere impostato un problema la cui reale soluzione ne richiedeva una compromissione rispetto ai valori da essa predicati e mai praticati. Nel cinema “scolastico” dei primi anni Ottanta l’istituzione diviene semplicemente il playground degli scherzetti da colonia estiva di un nutrito gruppo di perdigiorno. L’obiettivo, si noti, è da un certo punto di vista pressoché identico a quello dello stesso tipo di cinema di vent’anni prima, ma questa volta, marxianamente, la storia si ripete come commedia. In ambedue si coglie immediatamente lo scherno nei confronti della cultura, ma in modi opposti. Questa volta esso sembra non avere bersaglio e svilupparsi su un terreno gioioso, divertente, giovanile, goliardico che è fine a se stesso. Non c’è nulla di casuale: il filone scolastico di cui parliamo è diretta progenie della politica reaganiana nei confronti della scuola e della cultura (proprio nell’estate 1983, dopo i noti tagli economici al bilancio della cultura, Reagan se n’era uscito con frasi offensive nei confronti degli insegnanti, naturalmente subito ridimensionate dopo le proteste formali delle associazioni di categoria). Lo stesso Animal House, film precedente l’avvento di Reagan, risente tuttavia di un’atmosfera di cui questi è soltanto il punto d’arrivo. Peraltro, e in modo interessante, il crollo di prestigio dell’istituzione scolastica si nota, ovviamente in modi diversi, anche nel breve momento di gloria che arrise all’inizio degli Ottanta alla stessa scenografia nel filone horror: palestre, dormitori, aule, ecc. che divenivano alvei di fiumi di sangue, di crudeltà e spaventi inenarrabili, di orrende mascherate e così via come ad alludere a un pericolo e a una violenza che, pur se incarnate nel solito maniaco (non a caso usualmente un ragazzino o una ragazzina), divenivano, per così dire, parte del mobilio che i solerti bidelli spolverano ogni mattina dopo la solita notte di tregenda.
Naturalmente quello che abbiamo chiamato “film scolastico” sottende una situazione generale leggibile nell’intera produzione cinematografica americana (per non dire d’altro). Ad esempio, se in Gioventù bruciata il problema familiare giovanile si interiorizzava nei singoli rappresentanti dell’ultima generazione, oggi al massimo quello stesso problema può denunciarsi – come in Gente comune – unicamente sul divano di uno psicanalista. In altre parole, nel primo caso rifiuto d’autorità, nel secondo caso assenza d’autorità. Questo, si noti, vale anche per i corrispettivi programmi televisivi: la differenza che corre fra il cinquantesco “Leave It To Beaver” e i settanteschi “Giorno per giorno”, “Il mio amico Arnold” e “I Jefferson” è di anni luce. I genitori d’un tempo si conformavano a (ed esprimevano) un modello di saggezza che li rendeva addirittura cliché, quelli di oggi sono impantanati nei loro problemi quotidiani e affettivi, lasciano campo libero a nanetti che parlano come Milton Berle, o, se negri adulti, acquisiscono tutti i tic e gli snobismi dei bianchi. Nessuna meraviglia allora che l’unico principio d’autorità il cinema americano contemporaneo vada a cercarlo nello spazio, fra civiltà e società remote dalla nostra. Nessuna meraviglia per l’inno all’irrazionale di cui si parlava, intessuto all’inizio da Spielberg e Lucas, e poi ripreso da altri giovani registi che, sia pure in chiave spesso leggera sembrano interessati soltanto a forze e valori estranei al Contemporaneo. In questa chiave “il ritorno dello Jedi” si presenta con uno spessore metaforico di notevole portata: il ritorno del papà, dell’ordine, dei valori, forse – e addirittura – persino della Cultura. Eroi castissimi, quelli di Lucas e Spielberg, di Dante e Kleiser, per i quali l’atto sessuale si sublima in un’incoronazione (Guerre stellari) o in un abbraccio (Incontri ravvicinati), quando non addirittura eroi infantili e prepuberali (E. T.). Ben altra musica, invece, nelle pellicole di cui si diceva: atti di brutalità e violenza nel passato, concretizzazione dei sogni erotici scolari, cari al Thomas Wolfe di Angelo, guarda il passato, in tempi contemporanei (in Class, ad esempio, il ragazzetto se la fa con la madre di un compagno). Nessuna tragedia, sono finiti i tempi del tè e della simpatia: ovvero, il tè e la simpatia non sono più un problema. Davvero, la vita è maestra di scuola.
17. Il corpo visto troppo da vicino: la nuova commedia Se la riscoperta del corpo marca quest’epoca, è anche vero che essa è un topos tipico di qualsiasi epoca. Lungi dall’essere infatti caratteristica di questo o quel momento, essa è l’usuale conseguenza di una costante che è la diretta conseguenza dell’evoluzione del costume. Ogni epoca conquista (o perde) qualcosa nelle convenzioni e nelle abitudini che una precisa articolazione morale stabilisce generazione dopo generazione. L’evoluzione del costume comporta sempre una supposta riscoperta del corpo: naturalmente questa sarà volta a volta conseguita e documentata in modi diversi e tali comunque che ad alcune generazioni più indietro sembrerebbero a dir poco scandalosi. Anche la morale ha una storia, e solo il mito gliela può negare. Qualcuno potrebbe obiettare a questo punto che l’equazione fra corpo e costumi è alquanto semplicistica, che l’idea di corpo non deve essere necessariamente identificata nella sessualità. A prescindere dal fatto che la psicoanalisi testimonia il contrario, quando parliamo di costumi non intendiamo soltanto quelli sessuali, o meglio quel che la morale predica in merito, ma il concetto che del corpo si fanno le varie epoche. Ad esempio, il cerimoniale di vestizione medievale non sottende tanto una rigorosa morale sessuale (che dire allora di quello, certamente meno austero, del Settecento?) quanto un’idea del corpo come secondario rispetto alla funzione determinata dall’abito. Il che ci riporta alla nota nozione della fondamentalità del ruolo e non dell’individuo in quell’epoca (l’anagrafe comparirà solo in era di organizzazione burocratica, vale a dire nel momento della costituzione di una società borghese). Naturalmente essendo corpo e sessualità strettamente connessi (ma non necessariamente, come dimostra il sin troppo noto esempio dell’amor cortese), non c’è bisogno di psicoanalisi per rilevare quanto al mutamento del concetto del primo corrisponda un mutamento nelle forme o anche soltanto nell’idea della seconda. Chiediamo scusa di questa virata socioculturale, tesa a dimostrare semplicemente che, come sempre, anche in questi anni sono circolati miti che non erano tali perché inesistenti, ma al contrario perché sin troppo comuni in ogni età. È però vero che la riscoperta del corpo nella sua edizione più recente ha preso varie forme, varie strade nel cinema americano, incarnandosi in modi differenti in diversi settori di attività e di concezione del cinema. Della fantasy e del blue movie abbiamo detto. Ma si pensi a quanto a questa riscoperta è legato il nuovo cinema comico.
Da un lato il comedian alla Jerry Lewis si ritrova intellettualizzato in Woody Allen (o meglio, trova in Allen il corpo intellettualizzato come problema in una dialettica fra sé e la mente); oppure torna con Mel Brooks all’origine belluina e primitiva della risata con flatulenze, rumori e altri troppo facili esiti corporali, appellandosi a un pubblico implicitamente considerato come un’orda barbarica e non come un insieme di pensieri, volontà e desideri inquadrati in una civiltà sofisticata come quella occidentale nel XX sec. A pensarci bene è quasi incredibile come lo stesso pubblico possa ridere sia di Woody Allen che di Mel Brooks. Questo accredita la tesi che il pubblico non è genericamente volgare come si crede, ma che risponde in modi radicalmente differenti a radicalmente differenti sollecitazioni: una tesi di risonanza addirittura greca («Chi distingue lo spirito dell’uomo che va su verso l’alto e quello della bestia che va giù verso terra?»), che però riposa comunque sul concetto di corpo. L’antitesi Allen/Brooks trova anzi chiara formulazione in queste parole: Paradossalmente, in momenti diversi, la commedia può trionfare sulle limitazioni materiali del corpo e anche indulgere nell’ugualmente potente impulso di godere dei piaceri del corpo 21.
C’è un modo tuttavia di essere “corporali” senza per questo lasciare via libera al puro sfogo fisiologico e d’altra parte senza fare del corpo un meccanismo incontrollabile e separato dal condizionamento della mente (Lewis). Lo rappresenta in questi anni John Landis (insieme agli autori che l’hanno seguito, come Jim Abrahams) che già dal brutto Schlock (1971) aveva cominciato una carriera il cui inizio è stato sicuramente sopravvalutato dalla critica italiana, ma che dopo l’aneddotico Ridere per ridere (1977) – una serie di barzellette quasi sempre non divertenti – aveva finalmente trovato la sua strada con Animal House (1978) e The Blues Brothers. In realtà se è vero che questi film lanciarono Landis sulla scena internazionale è anche vero che questo avvenne soprattutto grazie a uno degli interpreti, John Belushi, il quale divenne il vessillo, in quelle pellicole, di una corporalità animalesca e di una comicità che si identificava nella semplice presenza fisica e in alcuni gesti del tutto inadeguati a quel tipo di corpo. Belushi dunque, contribuì al successo di Landis, ma al momento in cui questi se ne separò fu in grado di fare film decisamente migliori sul terreno tecnico, forse non sempre indovinati ma assolutamente spogli di quell’aura occasionale che invece era una caratteristica dei suoi primi successi. Intendiamo dire che Tutto in una notte (1984) è una pellicola confezionata in modo molto superiore ad Animal House e che persino Spie come noi (1986), soprattutto nel primo tempo, denota una costruzione più attenta e solida dello stesso celebratissimo The Blues Brothers. L’attenzione e la simpatia verso un cinema sbracato come il suo principale protagonista, d’altro canto, è eloquente proprio di un rilancio del corpo come presenza e non come estetica. Non si tratta di impreparazione o ingenuità del pubblico (un pubblico, si noti, ormai cresciuto a dozzine di film al giorno sullo schermo televisivo), ma proprio di una diversa volontà e richiesta di fruizione dello spettacolo. Alla pellicola perfettamente confezionata di cui il cinema hollywoodiano ha dato prova da sempre (e soprattutto dopo la “rivolta semidocumentaristica” dei primi Settanta) si affianca un altro cinema, la cui forma coincide con il contenuto. Il montaggio aritmico, le scenografie trasandate, l’assurdità stessa della trama sono il corrispettivo in termini cinematografici della volgarità, dell’ineleganza dei personaggi (Belushi in primo luogo). In Belushi si incarna davvero quella «living exaggeration»22 che secondo Charney è il senso della grassezza nel comico. Non ci sembra che questo senso sia rintracciabile in Oliver Hardy, mentre certamente è il segno distintivo di Belushi. A differenza da Mel Brooks, la corporalità di Belushi è animale e rivoltante; essa non intende solleticare il cattivo gusto del pubblico, ma porgli davanti quello della carne che si scopre come pura e semplice fisiologia. Dopo le sciocchezze spiritualistiche fra i Sessanta e i Settanta era inevitabile che, a ridosso della “cultura del narcisismo” (della cultura cioè che revisionò i miti intellettuali e spirituali dell’immediato passato) si sviluppasse anche il tema, la presenza della corporalità assoluta, della necessità biologica senza alcun fine se non se stessa. Non è un caso, che questi personaggi manchino di linguaggio, blaterino monosillabi senza senso (come Belushi) oppure parlino con la voce impostata dell’annunciatore televisivo, dell’attore in una parte, del rappresentante di qualcosa che non ha nulla a che vedere con una personale individualità (Dan Aykroyd), oppure ancora che sparino le loro frasi con la velocità e la facilità di un con man, di un imbonitore da fiera sempre in procinto di truffare qualcuno (Chevy Chase). Molto interessante è l’origine di questi comici: la televisione. Stranamente, lo sbracamento e la volgarità oggettiva sono stati covati sul piccolo schermo (soprattutto nella fortunata trasmissione Saturday Night Live) e poi, opportunamente audacizzati, sono passati al cinema. La televisione dà certamente un senso del corpo inferiore all’altro e più anziano mezzo, ma proprio per questo nel momento in cui qualcuno evidenzia questo senso, lo sottolinea, lo sfrutta, ecco che esso esplode dirompente. Il successo di Belushi & soci deriva anche dall’intelligenza di avere battuto strade non congeniali al piccolo schermo, alla sua tradizione e ai modi della sua comunicazione. Tant’è vero che
soltanto Belushi trovò veramente fortuna come attore cinematografico, mentre gli altri mantennero il loro pubblico di appassionati, ma non riuscirono mai (soprattutto il pur bravissimo Aykroyd) a sfondare se non grazie alla “spalla” dello sfortunato amico che doveva morire tragicamente nel 1982. I nuovi comici tentarono l’assalto a Hollywood giocando sul loro terreno usuale, quello dell’ammiccamento e dell’ironia, e insomma prendendosi gioco del vecchio cinema. Ma la cosa non durò molto. A poco a poco le cose tornarono (relativamente) serie. In Fletch – Un colpo da prima pagina (1985) di Michael Ritchie, un cineasta emerso ai tempi del boom della “New Hollywood”, ritroviamo, per fare un esempio, scherzi, battute, persino parodie, ma vi aleggia una sensazione di serietà di fondo che cinque anni prima sarebbe stata irrintracciabile. Non per nulla un idolo post-Belushi è Eddie Murphy (peraltro anch’egli proveniente dalle file del Saturday Night, ma con un cast cambiato e adattato ad alcuni anni dopo), un attore divertente ma interprete di pellicole sempre solide, con un percorso preciso, con modelli narrativi presi sul serio, da 48 ore (1982) di Walter Hill a Beverly Hills Cop (1984) di Martin Brest. È anzi rivelatore che il rilancio della trama e della solidità narrativa si identifichi in questi ultimi anni con l’inchiesta e in genere col detective film (in una chiave particolarmente moderna, in questo caso, visto che il poliziotto è un negro, e – secondo gli usuali cliché del piedi piatti – è molto più bravo dei cattivi che sono bianchi). Murphy sembra non riuscire ad allontanarsi da questo modello se non grazie proprio a John Landis che in Una poltrona per due (1983) ne sfrutta più a fondo le indubbie qualità serio-comiche. Quella dei cliché è una storia lunga e iterata; tanto da diventare superficie. Questo cinema non ha più nemmeno autocoscienza, il metalinguaggio diventa linguaggio in sé, non operazione riflessiva. Il pubblico, nell’insieme già ignaro delle allusioni di un tempo, oggi non ci bada neanche se le riconosce. Il cinema si ripete di continuo, la profezia (che in realtà era già l’affermazione di uno stato di fatto) di Bogdanovich trova perfetto e più ampio riscontro nella realtà degli anni Ottanta.
18. Concretezza dell’astratto: gli anni Ottanta Paradossalmente, più si riscopre il corpo più ci allontana da esso. Dopo il bagliore della fisiologicità belushiana, ecco un cinema così astratto da sembrare concreto. In certo senso (e solo idealmente) è un nuovo iperrealismo; solo che non vi è in esso alcuna coscienza teorica. E un iperrealismo senza coscienza teorica diventa facilmente un incubo: anche limitandoci al solo ambito del comico si pensi a I vicini di casa (1981) di John G. Avildsen, nel quale – operazione intelligente ma promozionalmente perdente – la coppia Belushi/Aykroyd si scambia i ruoli: il Wasp diventa misterioso e minaccioso, conturbante e infido, mentre l’alien interpreta la parte di un borghese, benpensante, medio signore di mezza età americano. Lo scontro fra mondo medio e quello di un underground da incubo è un classico dei pieni anni Ottanta, il cui esempio maggiore resta Fuori orario (1986) di Martin Scorsese, un capolavoro che si presta a diverse letture, ma che in ultima analisi è la spia di un malessere non poco ottantesco e che è così riassumibile: una realtà osservata troppo da vicino diventa incubo. È il principio che, in positivo, è alla base di tutta la forte produzione fantastica di questi ultimi anni (non a caso i protagonisti sono spesso dei bambini, non solo per assecondare un pubblico cinematografico la cui età media si sta abbassando sempre più, ma anche perché è il mondo adolescenziale quello più suscettibile alla fantasia e al sogno); e che in negativo ha consentito la visione di orribili esperienze, le quali molto spesso sembrano, appunto, uscire da una scenografia onirica. Si pensi a I guerrieri della palude silenziosa (1981) di Walter Hill o a Velluto blu (1986) di David Lynch. Si tratta di un doppio movimento su cui si sta sviluppando il tipo di visione che caratterizza il contemporaneo. Tutto prende le mosse dall’endemica penetrazione dell’immaginario televisivo: vale a dire dalla straordinaria diffusione delle immagini attraverso il piccolo schermo fin nelle pieghe della più riposta realtà quotidiana. Da un lato le immagini, proprio perché destinate comunque alla televisione (come si diceva più sopra per quanto riguarda la produzione di film e non solo di serie e telefilm), si fanno sempre più adattabili ai modi di fruizione di essa, talché quasi tutte le pellicole prodotte a Hollywood da almeno venticinque anni (ma probabilmente molto di più), appaiono come pensate e scritte per il piccolo schermo. Dall’altro – e in linea più teorica – l’immagine televisiva consente (o impone) una visione della realtà molto meno dettagliata e ampia di quella originariamente cinematografica. Questo comporta una sensazione di realtà meno articolata, ma più ravvicinata. È come un ideale avvicinamento a specifici oggetti in campo: essi non sono disposti in modo realistico (in modo cioè da far pensare e sentire che ciò che si vede potrebbe essere vero e comunque in modo da avere la stessa concretezza che in essi si riscontra in realtà), ma sono osservati con grande attenzione e cura all’interno di una struttura narrativa quasi sempre modellata su un archetipo, su un cliché. In questo modo l’immagine televisiva agisce sullo spettatore non soltanto in termini strettamente tecnici, ma anche e soprattutto in termini gnoseologici. Ciò che crediamo di vedere delle cose è una falsa immagine, è qualcosa di addomesticato alla funzionalità di quell’immagine nel più ampio contesto della narratività televisiva (ma in realtà dell’immagine televisiva tout court). Così la televisione diviene la fonte del nostro
immaginario, il quale non è più desunto né da una diretta realtà né dalla mediazione che l’autore ne fa attraverso la scrittura (e nei casi autoriali migliori anche la scrittura filmica) ma da un sistema di segni che è convenzionale prima ancora che gli oggetti vengano percepiti in quanto parte di uno specifico sistema convenzionale paragonabile, diciamo, a quello dei generi nel cinema hollywoodiano23. La pratica è ormai divenuta così abituale, il fatto è ormai così radicato che persino la critica vi cade spesso preda. Così quando Pollack gira un film che, bello o brutto, è sicuramente cinema e non ha nulla da spartire con la sostanza e la forma dell’immagine televisiva come La mia Africa (1985) gran parte dei recensori ne lamenta la retorica, la sentimentalità, la superproduzione in termini molto più duri di quanto essi stessi avevano fatto vent’anni prima col ben inferiore Dottor Zivago (1965) dell’inglese David Lean. Angolazioni, tecniche di luce, persino metafore vengono trascurate o comunque sottovalutate perché effettivamente estranee al tipo di linguaggio e di immagini cui la televisione ha abituato tutti. E paradossalmente fra critica e pubblico è il secondo a essere meno prevenuto nei confronti del cinema, se non altro perché disarmato a priori per quel che riguarda i modi della lettura critica. Il problema del corpo, evidentemente riproposto sia da un cinema sin troppo attento alla realtà, sia da una televisione che si suppone abbia fatto della realtà il proprio statuto, è ovviamente anche un grande problema ideologico. Ce lo ricordano, fra gli altri, anche Adorno e Horkheimer: «Non ci si può liberare del corpo e lo si esalta, quando non si può colpirlo»24. In realtà, cioè, la contemporanea attenzione al corpo è a dir poco sospetta. Una bellissima del nuovo cinema hollywoodiano, Jacqueline Bisset, si lamenta nello stupendo, piccolo testamento di George Cukor, Ricche e famose (1981), che in questi anni tutti hanno una nevrosi del corpo, che l’ossessione della giovinezza e della bellezza del corpo ha toccato vertici di follia. Mishima, dal canto suo, nell’omonimo film di Paul Schrader (1985), stabilisce addirittura una differenza fra l’uomo e la donna in questo senso (la cura maschile del corpo sottenderebbe un impulso di morte). I film orrifici di cui abbiamo parlato – il “new horror” di questi anni – sono del resto la diretta testimonianza, ribaltata, di quanto affermano i due francofortesi nelle loro bellissime brevi pagine sull’argomento. Questo spiegherebbe bene la convivenza di pellicole fra le più diverse come, poniamo, I guerrieri della notte (1979) di Walter Hill – che avrebbe dato il via a tutta una serie (ahinoi, anche in Italia) di film su una violenza urbana di carattere vagamente postmoderno (fino a darle un odore di postatomico), come Nove settimane e mezzo (1986) di Adrian Lyne, campione di cinema pornografico destinato a persone per bene, come Saranno famosi (1980) di Alan Parker, che avrebbe aperto la stura a tutta una serie di pellicole scolasticospettacolari le quali sarebbero degenerate negli street movies di break dance, scratch dance, ecc. La strafottenza corporale, prima ancora che morale, delle bande di Hill trova il suo perfetto pendant nelle ridicole umiliazioni corporali che nella pellicola di Lyne un declassato Mickey Rourke impone a una Kim Basinger sempre più destinata a improbabili degradazioni (si veda anche il brutto Nessuna pietà, 1986, di Richard Pearce). Ma che dire di opere insospettabili come Il colore viola (1986) di Spielberg, che se da un lato è un E. T. in chiave negra e anche uno strano musical campestre, dall’altro è – o meglio non ha il coraggio di essere – una dubbia esaltazione del corpo come preliminare alla liberazione dello spirito. È sintomatico che per essere felici (o meglio, per ricercare una traccia di perduta felicità) sia necessario tornarsene indietro nel passato come l’eroina titolare dello struggente Peggy Sue si è sposata (1986). Reduci da cocenti delusioni di vita, questi personaggi (e aggiungiamoci pure il Gordie del delizioso, fragile Stand by Me, 1986, di Rob Reiner) il corpo lo sfaldano entrando nella macchina del tempo: non ne hanno più, o meglio ne hanno un altro, impalpabile, quasi trasparente, come quello che ci concedono i sogni. Rivedere il proprio passato, cogliere il momento dell’errore che ci è sfuggito e che ha condizionato la nostra vita tanto da farci essere quello che così poco ci piace essere: questa è l’unica chance rimasta agli eroi umanistici del cinema americano contemporaneo. Non le esercitazioni sciocchine del Robert Zemeckis di Ritorno al futuro (1985), una specie di santucciano Orfeo in Paradiso ribaltato e senza alcuna tensione morale, ma un’altra occasione di dispiegare il proprio amore della nostalgia, di far valere per una volta il valore delle immagini su quello del corpo, riscattando quest’ultimo dalla misera condizione cui una sin troppo sospetta cura nei suoi confronti l’ha ridotto. Il valore delle immagini, il valore del corpo. Ha ancora importanza questa distinzione? Ridotto a un’unica, immensa immagine, il mondo è il Corpo. Il cinema americano, come ambito-leader di una pratica che è però planetaria, e la sua dipendenza dalla gnoseologia televisiva rendono ogni distinzione accademica, impossibile. Qualsiasi aspetto della realtà, qualsiasi volto, qualsiasi angolo, qualsiasi immagine è il riassunto del mondo esattamente come il mondo comprende in sé ogni dettaglio del sistema universale delle immagini.
C’è un romanzo americano fra i più grandi del dopoguerra che già nel 1971 aveva compreso ciò che l’industria dell’immagine stava operando sulla nostra cultura. Scriveva allora Stephen Schneck in Nocturnal Vaudeville: Che ve ne rendiate conto o no, si stanno facendo film dovunque, in ogni momento. Tutte le macchine da presa nascoste, così come tutte le macchine da presa visibili e i registratori, per non menzionare strumenti elettronici clandestini, altamente sensibili capaci di un raggio telescopico, capaci di ascoltare attraverso i muri, di fotografare attraverso il tessuto cranico, attraverso ricevitori telefonici e apparecchi radio e bottoncini transistorizzati. Un enorme numero di apparecchiature sta costantemente filmando, registrando, ascoltando e osservando la vita in questi luoghi. Il metraggio radunato da molte fonti è quindi tagliato, editato, diviso, riunito e sincronizzato con altro metraggio, altri nastri messi insieme ad altre colonne sonore, e quel che ne esce è una realtà in se stessa, solo occasionalmente assomigliante agli eventi originariamente registrati. Vi sono ormai due perfettamente ovvi livelli di realtà quotidiana. Prima c’è l’evento, e poi c’è l’evento dell’evento, la realtà rifatta in film e nastri magnetici. Ma non fate errori su ciò a cui ci riferiamo quando parliamo di questi film segreti. Considerate la possibilità che il cosiddetto film hollywoodiano e la cosiddetta legittima industria cinematografica potessero far solo la parte di inconsapevoli babbei, facciate, false piste e trappole per la vera industria cinematografica. L’industria che sta preparando più che semplici film. L’arte di attirare dentro coloro che sono fuori; le arti del controllo della folla, del controllo della mente; del fare stelle cinematografiche di semplici spettatori e da persone che son solo lì di passaggio; la sparizione della sino a quel momento inviolata linea sottile tra finzione e realtà, documentario e invenzione – questa era ed è l’arte di quei misteriosi cineasti, uomini come A.R., Del Close, M.H., V.C.D., Nocturnal Vaudeville, e uno o due altri ai quali si deve l’abolizione della divisione tra fatto e finzione, l’abolizione della differenza fra spettatore e attore25.
Quello che proprio all’inizio dei Settanta si sarebbe sviluppato sino alle estreme conseguenze cui assistiamo da tempo è già tutto nelle parole di Schneck. Steven Spielberg predica da anni che un giorno ognuno sarà in grado di proiettarsi direttamente nel proprio cervello i film che desidererà, ma in certo senso questo è già accaduto. In una realtà come quella descritta nel brano citato l’oggettiva spettacolarizzazione del mondo implica che ognuno la veda e la viva a suo modo, che ognuno, insomma, abbia il suo film. Il resto è soltanto una questione di tecnologia. Questo libro comincia con un esergo da un altro romanzo, una citazione che lascia spazio alla speranza per una continuazione della cultura scritta e della cultura in generale; ma vicino a essa figurano altre parole, che in certo senso negano le prime. È la contraddizione di un’epoca che, come dice la celebre frase di Gramsci, ha visto la morte del vecchio, mentre ancora il nuovo non può nascere, «e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati». La morte è sempre cupa, e a chi non dispiace che il cinema americano che abbiamo tanto amato sia morto? Lo rivediamo ogni giorno sul piccolo schermo, ma è come guardare la foto di un necrologio: mette tristezza.
19. Ombre nell’acqua Gli anni Settanta sono ormai un’immagine lontana, un’epoca in cui fra realtà e cinema si era stabilito un rapporto stretto, sì, ma anche tale da fare in modo che gli eventi della prima avessero una qualche ripercussione sul secondo. Già nella seconda metà del decennio le cose sarebbero cambiate: col supporto della tecnologia digitale che da George Lucas in poi doveva fare scuola, iniziò una mutazione che doveva chiamare in causa modi e modelli di narrazione, certo, ma anche e soprattutto di concezione nella confezione delle immagini, nella loro forma, nella loro posizione rispetto all’obiettivo, nella loro luce, nel tipo di sintassi che doveva impiegare; e, si noti, tutto senza togliere nulla alla capacità e alla personalità del singolo autore, tutto senza imporre nulla che a priori eliminasse gli esiti potenzialmente originali che un’individualità colta, spiccata, determinante può instillare e proporre nella propria opera. Di più ancora: non si doveva trattare “soltanto” di una questione di carattere iconografico, ma anche del posto che la narrazione occupava in relazione all’osservatore (e viceversa); anche, cioè, di una riflessione sulla natura della narrativa cinematografica. Tale riflessione, peraltro, rientra in un ambito ancor più vasto, quella che per parecchi lustri ha agitato in America l’intero campo della fiction in prosa (per una volta giunta prima dell’altra nell’arena della storia). Insomma, il problema riguarda, al solito, l’intera area di conoscenza che da tempo definiamo come “postmoderno”. Se la metafiction e per certi versi la voga nostalgica dei Settanta rientrano in quest’area, di certo l’esplosione di ciò che ne costituisce il centro e la struttura portante ha avuto luogo nel decennio seguente. Sia la metafiction che la nostalgia sono state solo avvisaglie di una perdita di strutture di riferimento, di un malessere gnoseologico, di un ripiego su figure e ambienti esterni o comunque lontani da quel presente che peraltro il cinema americano del passato aveva sempre finto di tesaurizzare. Con gli anni Ottanta esso non finge nemmeno più. Non nel senso che rinuncia a immagini del presente, ma nel senso che il presente non più collegabile a nulla che possa spiegarlo o di cui esso possa essere spiegazione: esso è messo in scena e basta. I paesaggi iperreali di Sotto un tetto di stelle (1988), le verità di costume in formato pubblicitario di True Stories (1986), la semplice, disinvolta brutalità di Drugstore Cowboy (1990) non lasciano trapelare alcun messaggio, alcuna raccomandazione, alcun
monito: serio o faceto, il presente accade e la macchina da presa lo registra; non nel modo in cui lo teorizzava il “cinema verità”, ma perché l’immagine, per quanto ricostruita ed elaborata, può spogliarsi di tutte quelle connotazioni che un sistema retorico stabilito e sviluppato nel tempo è riuscito ad attribuire. Naturalmente non sono così ingenuo da pensare a un’assenza di retorica, a un’inattingibile oggettività. Solo, mi sembra che, non esistendo più la struttura di riferimento che faceva capo all’industria hollywoodiana nel suo insieme (non parlo di produzione in senso stretto, naturalmente, ma delle quasi sempre tacite leggi che per decenni avevano presieduto ai modi di narrazione del film), ogni autore stia godendo di una libertà espressiva che se anche spesso egli non sa apprezzare e sfruttare, evita pur sempre di imporgli determinati modelli che l’uso e criteri extraestetici avevano un tempo consacrato. Su questo sfondo di libertà raramente sfruttata si è mosso l’intero decennio, cui peraltro non sono certo mancate non tanto strutture di riferimento quanto direzioni specifiche che una lettura a posteriori può tentare di rintracciare in termini di poetiche. Lungi dalle mie intenzioni fare un qualunque elenco di esse. Mi sembra piuttosto ben più importante sforzarsi di individuare la linea comune che comprende e unisce gli elementi di differenziazione dei vari film. La vulnerabilità di cui parla Robert Ray a proposito del cinema orrifico, fantascientifico e del disastro nel suo A Certain Tendency in the Hollywood Cinema non avrebbe avuto più senso dieci anni dopo in un cinema e, ben più importante, in una cultura che, secondo le parole di Lipovetsky, sono diventate «il regno indifferente dell’uguaglianza»26 L’assenza di scarto, l’assimilazione del contrastante, l’accoglimento del diverso, la parificazione dell’oppositivo, che trovano, per fare un esempio, dignità artistica nella pratica del collage già predicata dal surrealismo27 e ben più rappresentativa immagine concreta e aggiornata nell’uso del pulsante televisivo, sono la figura emblematica, la cifra che riassume lo spessore di fruizione che presiede all’epoca, e non solo davanti a un qualsiasi schermo. In questo senso il cinema degli anni Ottanta è stato sempre uguale. Ciò non significa che sia stato sempre identico. La varietà di storie e di generi, derivati proprio dalla settantesca dissoluzione di quelli tradizionali attraverso alchimie ancora oggi forse in certa misura da tentare, ci parla in apparenza di un cinema variegato e differenziato: gli anni Settanta, ad esempio, non avevano mai visto tanti thriller e polizieschi come hanno avuto gli Ottanta, un decennio che per certi versi ha assistito anche a una sorta di rilancio – aggiornato, naturalmente – della commedia rosa e addirittura del film di ricostruzione storica (intendendo come tale, per esempio, Le montagne della luna, 1990, di Bob Rafelson). Persino il vecchio genere quarantesco del film metafisico ha trovato in quel decennio buona accoglienza (da Always, 1988, di Steven Spielberg a L’uomo dei sogni, 1989, di Phil Alden Robinson). Insomma, un rigoglio di filoni e proposte così articolato non si vedeva da tempo. Naturalmente tralascio le critiche a una produzione che, davanti alle sterminate possibilità offerte dalla contaminazione dei generi d’un tempo, si è limitata a usarla in termini tutto sommato superficialmente barocchi, mutuandone modelli esteriori, ma non quei suggerimenti tecnici che nel passato avevano fatto la gloria di quel cinema (spesso di serie B). L’occasione perduta è troppo evidentemente chiara per insistervi. A dire il vero, un genere non rientra in questo discorso. Un tempo il contenitore che riassumeva, abbracciava l’intero cinema era in fondo il melodramma, in cui soltanto il cinema comico non riusciva a entrare. Asciutto o lacrimoso, il cinema d’allora metteva in scena grandi contrasti di estremo spessore retorico, problemi morali e sociali, psicologici e individuali da cui in taluni casi, se non proprio il comico, persino la commedia fu toccata (quella di Billy Wilder, per esempio). Oggi, sfaldatosi lo spessore etico, la discriminazione che ci fa scegliere in funzione di un valore invece che di un altro, la meraviglia ha sostituito il dilemma, dalle trovate peregrine di Gremlins (1984) di Joe Dante alla mise en abîme di Nightmare (1984) di Wes Craven. Sto naturalmente parlando dell’horror film, o per meglio dire del film fantastico che da tempo spesso indossa panni di marca gotica e che sembra essere diventato non solo l’ago della mutazione cinematografica evidenziatasi nel decennio in questione, ma anche il supergenere che riesce a comprendere e a riassumere anche gli altri. So bene che un buon numero di pellicole ottantesche non intrattengono alcun rapporto con quello che generalmente definiamo horror film. Ma, come dicevo, più che all’horror in senso stretto alludo a un côté volta a volta gotico, ombroso, notturno, inquietante, allucinante, misterioso. E qui i titoli non si contano, da Uno sconosciuto alla porta (1990) del britannico John Schlesinger a Il silenzio degli innocenti (1990) di Jonathan Demme. Di più: l’inquietante serpeggia anche in simpatiche commedie come Tutto in una notte (1985) di John Landis, Qualcosa di travolgente (1986) di Jonathan Demme, Appuntamento al buio (1987) di Blake Edwards, in una frammistione di toni che un tempo chiunque avrebbe trovato inadeguata, lontana dalla più squisita e classica idea di decorum. Nello stesso horror domina l’incertezza. Nessuna tranquillizzazione ci restituisce ai termini della realtà, ma, al contrario, come nel citato film di Craven, il cortocircuito fra reale e immaginario sembra non potersi interrompere, ponendoci nella condizione di non poter mettere a fuoco qual è il nostro
posto nel sistema che dovrebbe consentirci di comprendere ciò che ci perviene e ciò che ci è estraneo. Non è più soltanto metafiction, non è più soltanto l’ammicco di un autore che lacera la narrazione con un riferimento che appartiene a un sistema estraneo a quello del testo. Già dagli anni Sessanta un romanziere come John Barth ce l’aveva predicato in cento modi, anticipando di due decadi quel che il cinema avrebbe poi vissuto. Per questa ragione film di matrice tendenzialmente fantastica come tutta la produzione cartoon fiabesca alla Disney, Da Fievel sbarca in America (1988) a La sirenetta (1990) – nonché quella meno infantile ma non meno prevedibile nella sua pur insolita ironia, come L’ammazzavampiri (1985) di Tom Holland – non hanno riscosso un vero, grande successo di pubblico. E per questa ragione, inoltre, pellicole fantastiche di finezza e spessore come La zona morta (1983), che pure è opera di un beniamino del decennio, il canadese David Cronenberg, hanno funzionato in termini deterrenti: l’incertezza va bene, ma se si tenta di attribuirle un qualunque valore umano, esistenziale, una dimensione di dolore, di sofferenza, allora il gioco viene subito rifiutato. Se invece l’incertezza si istituzionalizza in ibrido, ecco che giunge puntuale il trionfo di cassetta, il cui caso in questo senso più vistoso è probabilmente quello di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) di Robert Zemeckis, il quale se da un lato rimanda alle a suo tempo strombazzate esperienze combinatorie della Mgm in Due marinai e una ragazza (1945) di George Sidney, dall’altra fa piuttosto venire in mente il racconto di Robert Coover Cartoon nel suo bellissimo A Night at the Movies (1987), la cui importanza sia sul versante teorico che su quello operativo è ben maggiore che non il troppo lungo e comunque irripetibile giochetto di Zemeckis. Ma l’orrifico e il fantastico sono solo il punto d’arrivo della situazione in quel decennio. Prima della loro dominante invasione qualcosa si è verificato per cui il cinema americano non poteva ritrovare in quella direzione la sua fonte di immaginario più rappresentativa e determinante, la sua qualificazione più emblematica. Come si diceva, negli anni Ottanta questo cinema ha concesso particolare attenzione al corpo. Ovviamente con questo non si intende semplicemente una maggiore tolleranza della censura, anche se il film pornografico soft e hard rientra – l’abbiamo visto – a pieno titolo nel discorso. Quel che importa è però in che modo esso vi rientra, insieme a tipi di film di tutt’altra natura, apparenza e fattura. Più che di attenzione al corpo dell’attore, di sfruttamento delle sue risorse, di oculata gestione delle sue abilità ed eventuali attrattive (o défaillance); più di una sua utilizzazione in una direzione stilizzata che entri a far parte del sistema scenico e largamente drammaturgico globale (vedi ad esempio la retorica gestuale di raccordo tipica dell’impostazione attoriale dell’Actors’ Studio); più che di una valorizzazione divistica, ormai anzi in declino, attraverso le usuali tecniche luministiche e di ripresa, l’attenzione riservata al corpo dal cinema degli anni Ottanta riguarda la riduzione dello spazio fra l’osservatore e l’osservato. Non sto parlando evidentemente della sovrabbondanza di primi piani e campi americani che hanno invaso il cinema di Hollywood da quando la televisione si è dimostrata la più importante acquirente dei suoi prodotti: questa è la spiegazione volgare, giusta, logica, ineccepibile, ma decisamente scarna, superficiale, povera sul versante teorico. La riduzione dello spazio, della distanza si legge in un ravvicinamento che, lungi dall’essere messa in luce, è piuttosto omologazione fotografica. Alla vecchia, trionfale luministica di studio, all’high key esaltante volti e ambienti davanti all’infuriare della Depressione; al regime notturno denso di chiaroscuri che era espressione di un disagio dell’animo in quei primi anni Quaranta; e al ritrovato e supposto “realismo” della New Hollywood, alle sue riprese esterne, alle sue locations, al suo solatio Far West, alle strade dall’asfalto che fumava tremolando il suo calore sull’orizzonte, a quelle porte aperte da cui l’abbagliante luce del giorno veniva interdetta con una figura che vi si incastonava; a questa luce, sempre e comunque foriera di un corpo tridimensionale, concreto, quotidiano, palpabile, si sostituisce una luce artificiale, anzi artificiosa, che accorcia la distanza fra noi e il mostrato. Non è una questione di primi piani, ripeto, ma la stessa sensazione che ci coglie quando, da qualunque distanza noi si stia osservando, ci troviamo di fronte a una superficie. La tridimensionalità, la concretezza, la verità (o la sua illusione) non sono più: noi sappiamo che ne siamo stati portati – e non nel semplice spazio! – a distanza talmente ravvicinata da averne la percezione condizionata. Ancora non sappiamo in quali termini, ma ci rendiamo conto che quel neon, quell’ombra in pieno giorno, quella bruma non intendono essere ricostruzioni e/o riproposte fedeli, ma artifici intesi a rendere la sensazione di una falsità che non è la stessa che aveva dominato il cinema americano di sempre; non la falsità che ammiccando allo spettatore, chiedendogli la sua cosciente o incosciente complicità, fingeva di rendergli un’immagine di realtà. Al contrario, la sensazione è che ora lo spettatore percepisca l’immagine come falsa, come non rispondente ai modelli di realtà che usualmente il cinema gli aveva proposto per anni, e che sia invece l’autore, e chiunque con lui abbia voluto il film, a fingere di mostrare la realtà proponendola sotto – è il caso di dirlo – una diversa luce. Insomma, lo spettatore sente di avere di fronte un altro cinema e i cineasti fanno come se niente fosse, mantenendo il solito atteggiamento degli stregoni di cui parla Lévi-Strauss (o degli aruspici di
Cicerone, se è per questo), con la differenza che questa volta il secondo stregone sa di non possedere le stesse conoscenze, la stessa cultura, le stesse intenzioni del primo. Intendo dire che nel cinema degli anni Ottanta non è un qualche obiettivo ma l’Obiettivo, inteso come il riassunto di un’idea della ripresa e della realtà, a essersi “avvicinato” al corpo, ad averlo pensato (e reso) in termini sicuramente nuovi rispetto al passato. Non solo il corpo umano, ma il corpo stesso del mondo. Tutta l’arte degli anni Sessanta ci aveva avvisato a gran voce, tutto il romanzo di quegli anni dietro al gioco e alla parodia aveva urlato la sua ammonizione e la sua profezia. Persino al cinema qualche anno dopo avevamo avuto precisi suggerimenti: la funzione tutt’altro che occasionale delle superfici e dei riflessi in Robert Altman, gli accesi e allucinati primissimi piani oggettuali in Martin Scorsese, i primi ammirevoli tentativi di riconfezione in Peter Bogdanovich, tutto questo ci stava portando verso Guerre stellari, verso il trapasso dal corpo fisico a quello elettronico, alla mcluhaniana estensione del primo nel secondo. Non si tratta dunque di un ravvicinamento del corpo, non si tratta di un diverso modo di proporcelo. Il fatto è che il corpo diventa evanescente, impalpabile come quello del protagonista di Ghost (1990) di Jerry Zucker: passa attraverso i muri e, quel che è peggio, appare con una luministica diversa, con una differente compattezza. E quand’anche questo non fosse così direttamente evidente, ecco che Hollywood non lesina attenzione alle sue eventuali mancanze congenite, patologiche, da Figli di un dio minore (1986) di Randa Haines a Rain Man (1989) di Barry Levinson a Nato il 4 Luglio (1989) di Oliver Stone. Ma in fondo anche esempi come questi ultimi appartengono a una sfera limite. Prendiamo allora pellicole assolutamente non sospettabili, non foss’altro perché concepite e dirette da cineasti di solida scuola, di rassicurante cultura sessantesca, come I giardini di pietra (1987) di Francis Ford Coppola o Gunny (1986) di Clint Eastwood: opere che, nonostante asseriscano in fin dei conti la ricchezza di sentimenti che cova sotto certe cariatidi del militarismo, sono pur sempre giocate, incentrate su un lavoro registico-attoriale appuntato solo e soltanto sul corpo. Qui non è semplice questione di ordini gettati con acqua fredda sulla faccia delle reclute né di linguaggio da caserma (pure, se andiamo a controllare i modi e gli accenti del sergente Stryker nell’inarrivabile Iwo Jima deserto di fuoco (1949), di Allan Dwan, vedremo subito che anche su questo terreno di confronto il personaggio sembra un’educanda), ma di una vera e propria trasformazione fisica dei personaggi: sia James Caan che Clint Eastwood paiono i pioli austriaci del Giusti, hanno acquisito una squadrata verticalità che ne fa dei birilli, si muovono come manichini impagliati, esibendo un’impietosità di rughe che invece di fungere da parziale indennizzo alla loro legnosità ne aumenta l’irriducibilità all’umano e ne indica in qualche modo una quasi animale e coriacea misticità da tartaruga o da elefante. Qualcuno potrà dire che dopotutto è questo che ci aspettiamo dalla figura di un sergente. Certo, ma è un fatto che se confrontiamo con loro il pressoché contemporaneo (e oscarizzato) Lou Gosset jr. di Ufficiale e gentiluomo (1982) di Taylor Hackford non potremo non rimarcare quanto il lavoro del regista sul corpo di quest’ultimo sia stato scarso, irrilevante e soprattutto ispirato ai vecchi, superficiali modelli del cinema americano classico. Sociologi e filosofi ci stanno da tempo dicendo che il rilancio del corpo obbedisce al crescente narcisismo di una società edonista che ha perso ogni riferimento che le consentisse di operare distinzioni e che di conseguenza si è rifugiata in un culto dell’Io svuotato persino dell’ideologia individualistica che l’aveva nutrita fino a quel momento: Jogging, gare ciclistiche, sci di fondo, pattinaggio, rolling, camminata, pattinaggio a rotelle, surf, qui i nuovi officianti ricercano di meno la prodezza, la forza, il riconoscimento che la forma e la salute, la libertà e l’eleganza di movimento, l’estasi del corpo. Cerimonie dalla doppia sensazione di una cerimonia di materiale tecnico: per mettere alla prova il suo corpo, decide di informarsi di tutte le innovazioni, d’acquisire e di dominare le più sofisticate protesi, di cambiare regolarmente il materiale.28
Vero. Ma bisogna aggiungere che a questo punto il corpo trapassa alla sfera oggettuale: svuotato di ideologia e identificatosi esso steso con l’ideologia, il cinema se lo ritrova così vicino, così prepotentemente in vista, così gloriosamente riproducibile grazie a tecniche vieppiù sofisticate che ormai non è nemmeno più necessario guardarlo, ma è sufficiente osservarlo, secondo l’acuta distinzione della Sontag29. Del resto, se continuassimo a guardarlo non ne comprenderemmo nulla: esso è infatti troppo ravvicinato, troppo dettagliatamente in vista per essere colto nella sua totalità e, dunque, compreso. Al massimo esso può venire fantasticato, cioè a dire idealizzato, pensato in termini di mitica perfezione. Solo che la mitica perfezione per gli anni Ottanta non è quella dell’Apoxioumenos. Età che ha coltivato il corpo in palestre senza filosofia né cultura attica, gli anni Ottanta concepiscono la mitica perfezione in termini di ipertrofia. Di qui l’esempio più luminoso di perfezione corporea dell’epoca, Conan il barbaro di John Milius, la cui garanzia di misticità viene fornita dalla sua proiezione in un passato che nemmeno esiste, dal momento che se egli fosse inquadrato in un passato reale questo avrebbe ogni prova per contestarne la verità.
L’operazione del resto non comporta particolari difficoltà in un’epoca la cui arte «integra tutto il museo immaginario, legittima la memoria, tratta ugualmente sia il passato sia il presente»30. Intendo dire che la liquidazione del passato è uno dei maggiori fattori caratterizzanti l’intero ambito del postmoderno e che la riduzione dell’esperienza a un presente che si brucia e si riproduce continuamente secondo forme che sono (o meglio, intendono essere) sempre nuove consente facilmente una felice esplosione di quella fantasy cui l’eroe di Robert Howard originariamente appartiene. Ma la costruzione del falso passato dura poco. L’epoca – l’etica punk lo dice chiaramente – non solo non ha una qualsiasi nozione di passato, ma è anche caratterizzata da un’altra negazione programmatica: NO FUTURE, intendendo ovviamente non certo che il futuro non esiste (o non esisterà), ma che esso non può non assumere nell’immaginario – cinematografico e non – le forme inquietanti della distopia post-atomica (che non a caso assomiglia a una qualche versione aggiornata della nostra idea di Medio Evo). Del resto, la stessa cosa, sia pure in termini più composti, ci viene detta da un campione della stessa epoca, sì, ma rappresentativo del versante perbenista cui i punk non appartengono né intendono appartenere, il romanziere post-minimalista David Leavitt, che in un suo scritto The New Lost Generation, pubblicato su «Esquire» nel 1985, afferma: «Se gli anni Sessanta erano un’era di ingenue speranze, gli anni Ottanta sono un’era di ironica assenza di prospettive», e continua celebrando lo scetticismo della sua generazione sino ad arrivare alla spavalda affermazione: «Siamo più sani e meno isterici. Non perdiamo la testa, perché l’idea di un mondo senza futuro ci è del tutto familiare, viene data per scontata, non è nulla di nuovo». Che questa filosofia ne sia la conseguenza o la causa, il corpo è comunque così vicino che l’obiettivo rischia di superarlo passandogli attraverso come il già evocato fantasma di Ghost fa col muro. Oltre quel corpo-muro c’è di tutto, dai futuri desolati della distopia post-atomica a una dimensione orrifica che, intrattenga essa o no rapporti col nostro mondo, è comunque la negazione di ogni sicurezza, di ogni messa a fuoco, di ogni concretezza, non semplicemente sollevando paure poi confortate da un dénouement tranquillizzante, ma installando il dubbio del rimando, del trompe l’œil strutturale, delle scatole cinesi, della priorità dell’incubo, sia esso sognato da Lao-Tse o da una farfalla. Così, da Videodrome (1983) di David Cronenberg (a rigore, tuttavia, una produzione canadese) fino a Il serpente e l’arcobaleno (1988) di Wes Craven, Alien Nation (1988) di Graham Baker, Essi vivono (1989) di John Carpenter, possiamo certo cogliere fini suggerimenti teorici di carattere sociologico e politico, mentre invece non c’è alcun suggerimento comparabile da cercare in Hellraiser (1987) di Clive Barker o – nonostante il tenue riferimento al Vietnam – in Horror in Bowery Street (1988) di Jim Muro. Ma ugualmente si tratta di pellicole che ci precludono di pensare in termini parentetici al genere cui appartengono. La parola fine suggella ogni volta un’esperienza cronologica, non la sollecitazione mentale che essi inducono. In questo senso non c’è poi gran differenza tra uno qualunque di questi film e, poniamo, La casa dei giochi (1987) di David Mamet. Per appartenenti a generi diversi che siano, essi nascono in ogni caso dalla stessa inquietudine, dallo stesso scarto, dalla stessa crisi dei modelli di conoscenza. Rispetto al Moderno, caratteristica primaria del quale, secondo Lipovetsky, è l’“inachevement”, il postmoderno aggiunge la perfezione del compiuto, del finito; solo, esso denuncia senza fallo la sua mancanza di una terza dimensione, o se vogliamo, la natura artificiale di essa, esattamente come le immagini create dal computer, rappresentazioni perfette ma fredde di una realtà che ormai sembra inattingibile. È insomma, la conseguenza radicale di quella che Daniel Bell ha chiamato «eclisse della distanza» e che ha portato al dominio della sensazione, della simultaneità, dell’immediatezza, dell’impatto a svantaggio dello spazio e del tempo lasciato alla riflessione. Un altro modo, insomma, di leggere le origini dell’osservazione ravvicinata del corpo da parte non solo della macchina da presa ma del nostro intero sistema culturale. Mai come negli anni Ottanta il tema del doppio ha dominato nel cinema americano (il suo punto culminante è sicuramente Inseparabili, 1988, di David Cronenberg: anche questo, a rigore, canadese), in un’epoca, cioè, che, attirata dalla e intenta alla superficie, ha sempre meno armi per distinguere l’identità. Certo, ce l’avevano detto in mille salse che era necessario andare oltre l’apparenza. Ma che fare se oltre non c’è nulla? Al massimo lo spazio, le figure, lo spessore di quell’“oltre” possono essere ciò che attende il protagonista di Tron (1982) di Steven Lisberger una volta che compie il gran salto nel virtuale, un mondo metafisico senza quasi colore e certo senza vita che non sia artificiale. I cineasti più sensibili hanno colto questa differenza: quando Coppola scrive la tenera pagina di Peggy Sue si è sposata calcola bene che la luministica del presente e quella del passato siano platealmente diverse: fredda asciutta, rutilante e greve la prima, calma, variegata, vivace, sfumata e umana la seconda (ciò che non si legge affatto in quel suo pallido, tanto minore quanto celebrato doppio, Ritorno al futuro (1985) di Robert Zemeckis: a proposito di rifiuto della riflessione). Scorsese, poi, dimostra molto chiaramente nel sublime Fuori orario (1985) che ormai tutto ciò che ha le connotazioni dell’umano (anche quelle negative, naturalmente) – amore, sofferenza fisica e morale, sentimento di solitudine,
compassione, creatività, volontà individuale, angoscia di morte – viene vissuto come un incubo dal rampante protagonista yuppie monitorizzato e senza alcuna “terza” dimensione. Ma il cinema ottantesco nel suo insieme non è fatto dai Coppola e dagli Scorsese, autori che fungono semmai da commentatori esterni, maggiori di qualunque giovane coevo, certo, ma superati dall’onda globale della produzione di quegli anni, dal suo trend, dal suo gusto, dal suo diverso senso della forma e soprattutto della realtà. Da grandi registi quali sono, essi hanno addirittura manipolato uno dei tratti caratteristici dell’epoca costruendovi attorno pellicole memorabili (le due di cui si diceva). Sostiene infatti Heidegger, in quel suo fondamentale a mai troppo citato saggio sull’epoca dell’immagine del mondo, che la nostra modernità è caratterizzata dal gigantesco e dai suoi travestimenti, ivi compreso quello del «sempre più piccolo»31. E che altro sono, da questo punto di vista, i due film in questione se non una variazione, l’uno in chiave nostalgica e l’altro in chiave più angosciosamente esistenziale, dei Viaggi di Gulliver (rispettivamente, primo e secondo libro). Il cinema degli anni Ottanta, tuttavia, di regola non opera così sottilmente: l’ipertrofismo schwarzeneggeriano (ma anche stalloniano) trova adeguato pendant nelle enormi mostruosità di Alien di Ridley Scott, La cosa di John Carpenter, o anche nella faraonica megalopoli di Blade Runner, ancora di Scott. Si noti: ho citato di proposito pellicole che per un verso o per l’altro meritano attenzione poiché intendo svuotare queste riflessioni da qualsiasi possibilità di fraintendimento: non si tratta di moralismo né di nostalgia, ciò di cui parlo accomuna i film più rispettabili con quelli del tutto trascurabili: è insomma qualcosa che perviene più al versante epistemologico che all’estetico. Evidentemente in tutto questo non può non esservi qualcosa di infantile. È infatti almeno dall’inizio degli anni Ottanta con E.T l’extraterrestre di Steven Spielberg che Hollywood ha bombardato per parecchio tempo il pubblico con eroi da scuola media (a volte anche molto teneri e credibili, come in Stand by Me, 1986, di Rob Reiner), lanciandosi nel proprio laboratorio a operazioni di sintesi che farebbero invidia al più pazzo degli scienziati, trasformando persino Arnold Schwarzenegger da eroe barbaro nella bomba-robot futuribile di Atto di forza (1989) di Paul Verhoeven, sino a farne vittima armata di un Kindergarten in Un poliziotto alle elementari (1990) di Ivan Reitman. L’iter è perfetto, logico, implacabile: il corpo si gonfia, si ipertrofizza, sfonda in direzione del meccanico, del tecnologico, del robotica, del cibernetico, quindi viene esorcizzato nell’umoristico e nell’infantile. Il corpo ha compiuto la sua (temporanea) traiettoria. Dell’originaria categorizzazione baudrillardiana32, il cadavere e l’animale appartengono al passato, o per meglio dire hanno una loro universalità, una continuità che permette loro di presentarsi in diversi modi; ma quelli che soprattutto qualificano l’epoca odierna sono gli altri due, il robot e il mannequin. Per quanto riguarda quest’ultimo modello ne farei risalire l’origine a Blade Runner, dove, si noti, esso coincideva con l’altro. Oggi possiamo definire addirittura profetico quel libro di Baudrillard. Tuttavia il suo discorso era incompleto quando affermava che: ogni sistema rivela così di volta in volta, dietro l’idealità dei suoi fini (salute, resurrezione, produttività nazionale, sessualità liberata), il fantasma riduttore sul quale si articola, la visione delirante del corpo che costituisce la sua strategia.33
In realtà gli anni Ottanta hanno ampiamente dimostrato che i quattro modelli di riferimento, lungi dall’occupare nel decennio una qualunque disposizione gerarchica, hanno visto un’esplosione capillare della propria iconografia cinematografica, soprattutto, come si diceva, gli ultimi due, che costituiscono più dell’altra coppia la novità dell’epoca. Sommariamente, il cadavere ha goduto d’un trionfo inusitato dal thriller all’horror, nei quali è stato osservato secondo un’esasperata autopsia; l’animale ha persino ritrovato il suo minimo denominatore con l’umano, genericamente nel porno hard e più specificamente in quello teratofilo (beastiality, nel gergo del genere), mentre la stessa indulgenza censoria verso il corpo rientra del resto in quest’ambito; il robot e il (la) mannequin, come già detto, sono ormai da tempo a fior di cinema e hanno anzi invaso anche altre cinematografie, come dimostra il successo del francese Nikita (1990) di Luc Besson, altra pellicola in cui i due modelli di corpo in pratica si identificano. Dove Baudrillard ha incontestabilmente ragione è quando scrive della produzione artistica che, entrata nella fase della duplicazione, «espellendo qualsiasi contenuto e qualsiasi finalità, essa diventa in qualche modo astratta e non figurativa»34. Dunque i quattro modelli del corpo non nascondono più alcuna ideologia, essi non “stanno per” nulla che non sia la loro immagine, poiché «l’universo cool della digitalità assorbe quello della metafora e della metonimia»35. Può quindi anche darsi che, come afferma Jean-Claude Arnod, si sia perso il gusto di fermarsi a studiare l’immagine sullo schermo, a cercarne le eventuali “connotazioni”36. Ma dato e non concesso che questa un tempo fosse la regola, è anche vero che a partire dagli anni Ottanta i film non propongono più, non forniscono più tanto frequentemente terreno per letture del genere. Chiedersi se è nato (anzi, se è morto) prima l’uovo o la gallina non ha molto senso, e serve a poco. In un mondo in cui non è reale
quello che è riproducibile, ma quello che è riprodotto37, questo è il minimo che può (non) accadere. In compenso è la realtà ad acquisire sensi ulteriori, simbolici, metaforici, attraverso operazioni estetiche compiute sul suo corpo: gli anni Ottanta – non dimentichiamolo – sono anche gli anni dei sin troppo chiacchierati graffiti metropolitani et similia. A questo riguardo una cosa di cui i nostri sapienti critici d’arte hanno chiacchierato meno è il fatto che questi ultimi sono per lo più opera di adolescenti (uno dei più celebri e più coccolati dai galleristi di New York ha confessato di avere incominciato la sua attività intorno ai dodici anni). Eh sì, perché, come si diceva, non va dimenticato l’aspetto generazionale di questa cultura. Evito di proposito il termine “ludico” poiché esso dopotutto caratterizza l’intero ambito delle produzioni artistiche: no no, qui si tratta proprio di età anagrafica, cercatori di tesori come in I Goonies (1985) di Richard Donner o viaggiatori nello spazio come in Explorers (1985) di Joe Dante, i nostri eroi sono spesso in possesso della sola licenza elementare e molti di loro ancora aspettano il permesso di portare i pantaloni lunghi. Sull’infantilizzazione della cultura americana, e se è per questo dell’intero occidente, si è già espresso chiaramente Federico Fellini: Io mi domando quel che è potuto accadere a un certo momento, quale specie di maleficio ha potuto colpire la nostra generazione perché, improvvisamente, si sia incominciato a guardare ai giovani come messaggeri di non so quale verità assoluta. I giovani, i giovani, i giovani… Si sarebbe detto che stessero per arrivare sulle loro astronavi (…) Solo un delirio collettivo può averci fatto considerare come maestri depositari di ogni verità dei ragazzi di quindici anni.38
È dunque evidente che l’etica del meraviglioso nel cinema odierno appartiene in sostanza all’ambito del cartone animato (il che trova riscontro anche nella moltiplicazione dei cartoon veri e propri) e come tale nasce dal e si giustifica sull’esercizio dello sguardo secondo i modi di questo. Solo che, non potendo a rigore modificare il corpo, l’obiettivo ne modifica i modi d’osservazione da un lato e il tipo di corpo da mostrare dall’altro: luce, fotografia, angoli, effetti speciali non sono altro che la moneta corrente di questa modificazione. Quando addirittura non si giunga all’intersezione dei due piani con opere non solo sin troppo plateali come Roger Rabbit, ma anche come il superiore Abyss (1989) di James Cameron, nel quale gli effetti speciali sono probabilmente quanto di più vicino all’effetto cartoon la tecnica dell’epoca sia riuscita a costruire. L’operazione può anche essere inversa, giungendo il cinema a dare movimento al cartoon senza animazioni, o per meglio dire, alla strip, rifiutandone la semplice ispirazione soggettistica e anche genericamente figurativa (questa la si era già vista molto spesso al cinema, sino almeno dal 1919), ma ricostruendone perfettamente tratti, colori, angolazioni, luci, come in Dick Tracy, (1990) di Warren Beatty (ma non dimentichiamo in certa misura anche il meno celebrato Popeye, 1980, di Robert Altman e il ben noto Batman, 1989, di Tim Burton). Ma non c’è nulla da fare: comunque la si rigiri, rimane sempre uno spiazzamento, un gap fra critica e pubblico. I successi di cassetta del decennio trovarono la critica impreparata. Gli anni Ottanta ci hanno mostrato (e in seguito la tendenza sarebbe continuata anche più decisa) che è ormai il pubblico a scoprire il film. Questo non significa che tutte le pellicole che gli piacciono siano buone, ma che di norma quelle buone – o quantomeno quelle che possono vantare una qualche rappresentatività epocale che non si limita a una semplice e vuota mitologia – le ritroviamo fra quelle che il pubblico sceglie. La censura del mercato esiste ancora, sia chiaro, ma pare ormai altrettanto chiaro che le sue vittime, per belle e lodevoli che possano essere, obbediscono a un concetto e a una pratica di cinema superata dal tempo. Il corpus globale del cinema hollywoodiano ottantesco, per retrogrado che possa essere in non pochi suoi prodotti, ha dalla sua questa patina di aggiornamento. È poco, sì, ma abbastanza da consentire di parafrasare ciò che Finkielkraut ha scritto sulla scuola e gli studenti: «la critica è moderna, gli spettatori postmoderni»39. E se è vero il principio illuminista per il quale la libertà è impossibile all’ignorante, c’è da chiedersi seriamente come potevano andare le cose a partire da una situazione dove chi detiene il sapere non sa e chi sa non sa di sapere né come elaborare ciò che sa. D’altra parte era anche molto difficile che il critico potesse contribuire a far cambiare le cose lavorando – per continuare la metafora – con un programma di studio che cambiava di continuo e che comunque il pubblico non aveva affatto voglia di studiare, anche perché in esso di cose che il cinema e la sua critica avrebbero potuto studiare ce n’erano poche. In una splendida poesia del metafisico inglese Thomas Traherne, Shadows in the Water (Ombre nell’acqua), l’artista si chiede quale sia la natura del mondo che vede riflesso in una semplice pozza, interroga gli uomini che egli è certo vivano in quel mondo del tutto simile al suo: chi sono? Sono come lui? Che segreti quel mondo nasconde? Forse che essi rappresentano le vite di altri uomini lontani? E conclude che quando la sottile pelle che lo divide da quel mondo si sarà spezzata egli potrà accedere alla felicità che quelle sembianze, ne è certo, hanno in serbo per lui. Il cinema americano degli anni Ottanta è stato la risposta alle domande di Traherne: l’impercettibile scarto è svanito, noi siamo allora entrati nel mondo degli antipodi. È quello che vedevamo ogni giorno al cinema, la stessa liquidità, la stessa azzurrina e fredda trasparenza. Il corpo “altro” era stato superato e
l’obiettivo era entrato oltre l’argento dello specchio: Quello che abbiamo visto ci è piaciuto? Ci ha convinto? Ha fatto sì che ognuno vi vedesse “another me”? Come che sia, ricordiamo che la parola “pellicola” indica una pelle molto sottile, esattamente come, in inglese, la parola film. 1 Su questo argomento rimando ancora una volta al mio Il nuovo cinema americano, cit. nel capitolo sull’iperrealismo. 2 Sulla serializzazione nel cinema di Altman si parla nel citato Il nuovo cinema americano, specificamente nel capitolo. dedicato all’opera del regista sino al 1975. 3 Su questo importante aspetto del cinema di Altman si veda Lino Micciché, L’incubo americano, Marsilio, Venezia, 1984, p. 44 e passim. 4 In questo senso l’operazione più esemplare è quella di un autore non più giovane e inoltre d’origine britannica, il Jack Clayton di II grande Gatsby, 1974, il quale non a caso ha scelto un testo che è invece una delle maggiori testimonianze del valore e dello spessore intellettuale e culturale che il tema della nostalgia ha da sempre agli occhi dell’America. 5 Anche a questo argomento si accenna nel citato Il nuovo cinema americano, pp. 66-68. 6 Cfr. Seth Cagin e Philip Dray, Sex, Drugs, Violence, Rock ‘n’ Roll and Politics, Harper & Row, New York, 1984, p. 255. 7 Cfr. al proposito anche James Monaco, American Film Now, New American Library, New York, 1979, pp. 305-6 e in genere nell’intero capitolo dedicato a Cassavetes. Il libro di Monaco, comunque, è fra le migliori cose scritte sul cinema americano degli anni Settanta. 8 Cfr. J. Rosenbaum, The Solitary Pleasures of “Star Wars”, «Sight and Sound», 4, Autumn 1977, p. 209. 9 E soprattutto il detective movie nel quale Hollywood si è sempre dilettata dal momento che ogni fabulazione è, dopotutto, una detection; ma anche perché come genere che riusciva a mantenere intatto il suo quoziente d’interesse poteva fungere magnificamente da materiale su cui sperimentare le nuove tecniche di riproduzione, cavia ideale per riconsiderare il cinema del passato come sia nostalgia che iperrealismo hanno fatto per parecchi anni. 10 Cosa che si divertiranno a fare i cineasti della generazione posteriore: Gremlins (1984), di Joe Dante, ad esempio, è una pellicola costruita su citazioni da altri film, così come tante altre della stessa covata di autori, Spielberg compreso, a partire dal sopravvalutato I predatori dell’arca perduta (1981), un’opera chiave, però, come vedremo, per comprendere l’ulteriore colpo di timone ottantesco della produzione hollywoodiana. 11 Teo Mora nel suo Storia del cinema dell’orrore, Fanucci, Roma 1978, tomo primo, 2, p. 262, nota 17, fa un’interessante distinzione fra zombies, body snatchers e living dead: «Zombie, infatti, è il morto che mediante pratiche voodoo viene privato dell’anima e reso schiavo della volontà del suo padrone. Body Snatcher (estensione semantica del termine che designa i dissotterratori di cadaveri) è l’entità che, annullando la personalità individuale del corpo in cui si è introdotto, lo rende partecipe di un organismo stereotipato più ampio. Living dead è infine il morto riapparso dalla tomba e dotato di volontà e impulsi autonomi, anche se non necessariamente della memoria del suo passato». Ma ancora più interessante è la sua lettura storica dei tre topoi: «Il trasferirsi dell’interesse cinematografico da una figura all’altra basta probabilmente a fornire una periodizzazione del fantastico americano, e delle inquietudini inconsce del Paese: negli Anni Quaranta imperversavano gli zombies, i cui padroni sono o aristocratici creoli o, più spesso, quinte colonne naziste; i body snatchers trionfano nella fantascienza degli Anni Cinquanta e della guerra fredda; i living dead emergono dalle loro tombe proprio nel 1968 del maggio francese: il cinema americano passa così dal rifiuto del totalitarismo alla paura del lavaggio del cervello al terrore dello scatenarsi di una furia e di una violenza incontrollate e irrazionali». 12 Tralasciamo naturalmente ammiccamenti metalinguistici come il piacevole Un lupo mannaro americano a Londra (1981) di John Landis, il quale rientra in un discorso più generale di ripensamento (appunto “meta”) del quale ci siamo nelle precedenti pagine occupati. 13 Cfr. T. Mora, op. cit., p. 266. 14 Non a caso, l’unica tradizione originale che l’America può vantare è quella che fa capo alla cultura negra (Le storie dello zio Remo di Joel Chandler Harris, ad esempio, ridotte in cartone animato da Disney). Tuttavia, il discorso è più complesso poiché in realtà, la vera “mancanza” riguarda più una tradizione che non l’oggetto della questione: a suo modo Stephen Vincent Benét è in parte un favolista, e certamente tale è Frank Baum, l’autore di Il mago di Oz. Il problema, insomma, riguarda l’autorialità individuale in quanto opposta a quel che invece caratterizza l’Europa, cioè l’esistenza di un corpus favolistico che specifici individui (i Grimm, ad esempio) si sono limitati a raccogliere e rielaborare. 15 Cfr. Il nuovo cinema americano, cit., p. 20. 16 Su questo argomento cfr. ivi, pp. 206-7. 17 Cfr. Marco Salotti, Lo schermo impuro, Editori del Grifo, Montepulciano, 1982, p. 13. 18 Cfr. E. Ghezzi, Reintroduzione, «Filmcritica», 326-327, Agosto-Settembre 1982, p. 418. 19 Cfr. tutta l’interessante intervista con Damiano intitolata The American Dreamer, in Kenneth Turan e Stephen F. Zito, Sinema, Signet, New York, 1975, pp. 166-73. 20 Cfr. P. Stevick, “Scheherazade Runs Out of Plots, Goes On Talking; The King, Puzzled, Listens: An Essay On New Fiction”, The Novel Today, a cura di Malcolm Bradbury, Fontana/Collins, Glasgow, 1977, pp. 186-216. 21 Cfr. Maurice Charney, Comedy High & Low, Oxford U.P., New York, 1978, p. 160. 22 Ivi, p. 161. 23 Scrivono Marshall McLuhan e Harley Parker in Through the Vanishing Point, Harper & Row, New York, 1969, p. 266: «Né la televisione in bianco e nero né quella a colori è film. Essa è un raggio X. La luce giunge attraverso l’immagine al visore; il visore non è una “camera”, ma uno schermo. La “camera” televisiva non ha otturatore ma funziona come un mosaico mutevole. Totalmente diversa da fotografie e film, l’immagine televisiva è discontinua e piatta. Cioè, è un mondo di intervalli. È estremamente tangibile e presente». Dieci anni dopo il libro di McLuhan e Parker viene pubblicata l’edizione ampliata di un noto studio di Stanley Cavell, The World Viewed, Reflections On the Ontology of Film, Harvard U.P., Cambridge (Mass.), 1979, un’opera di grande profondità e intelligenza, nella quale, però, dopo quanto abbiamo appena citato, parole come «Il film ribalta le nostre convinzioni epistemologiche: la realtà è nota prima che siano note le sue apparenze. Il mistero epistemologico è se, e come, si può predire l’esistenza dell’uno dalla conoscenza dell’altro, il mistero fotografico è che si possono conoscere sia l’apparenza che la realtà, ma che ciononostante l’una non è predicibile dall’altra», sembrano superate in una cultura che non include più nemmeno il tipo di intelligenza necessario per pensarne i concetti e formularli in quel modo. 24 Cfr. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1974, p. 251, e in genere l’intero saggio “Interesse per il corpo”. 25 Cfr. S. Schneck, Nocturnal Vaudeville, Dutton, New York, 1971, pp. 30-31. 26 Gilles Lipovetsky, L’ère du vide, Gallimard, Paris, 1983, p. 164. 27 Ma con intenti e persino pratiche ben diversi. Sarà bene ricordare le auree parole di Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 85: «Il surrealismo è ancora solidale con il realismo che contesta, ma raddoppia con la sua irruzione nell’immaginario. L’iperreale rappresenta una fase ben più avanzata, nella misura in cui anche questa contraddizione del reale e dell’immaginario vi è cancellata». 28 G. Lipovetsky, op. cit., p. 243. 29 Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, Einaudi, Torino, 1975, pp. 15-16. 30 G. Lipovetsky, op. cit., p. 178. 31 Martin Heidegger, “L’epoca dell’immagine del mondo”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 100).
32 J. Baudrillard, op. cit., pp. 128-29. 33 Ivi, p. 129. 34 Ivi, p. 89. 35 Ibidem. 36 J.C. Arnod, Lo spettatore bambino, «Panoramiques», n. 0, Maggio 1990, p.18. 37 J. Baudrillard, op. cit., p. 87. 38 Dichiarazione citata da Alain Finkielkraut, La défaite de la pensée, Gallimard, Paris, 1987, p. 175, originariamente in Fellini par Fellini, Calmann-Lévy, Paris, 1984, p. 163. 39 Ibidem, p. 169.
HOLLYWOOD FIN DE SIÈCLE: SOGNO E REALTÀ AMERICANA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE di Michele Fadda L’immagine è nota e, come si sa, è Caillois1, tra gli altri, a fornircela. È l’immagine, per esempio, che ci figura un sogno come il disegno sulle ali di una farfalla: ideale di un segno che vale per il suo uso puramente ornamentale, e piacere di un senso la cui incertezza equivarrebbe all’elogio di un’assenza del senso. Perché, al di là del sogno come sintomo, del sogno come simbolo o mito possibile, di un sogno privato capace di sconfinare in un sogno collettivo (o – il che è la stessa cosa – di un sogno collettivo che riesce a farsi sostanza delle nostre più intime fantasticherie), al di là di tutto questo, insomma, ognuno di noi ben sa quanto sempre possa farsi largo la “realtà” paradossale di un sogno “senza realtà”, che trova in seno al suo stesso corpo la sua unica giustificazione. Nessuna origine e nessun(a) fine, in questo caso; nessuna trascendenza, nessuna appartenenza, ma solo l’immanenza di un sogno in fondo muto (perché incapace di parlare d’altro), di uno “spettacolo” privo d’orizzonte che, non rimandando più a un oltre da sé (visibile, invisibile), come la cupola delle delizie della Xanadu di Coleridge si affaccia nella notte del sognatore, per sedurlo (o terrorizzarlo, a voi la scelta) ed esautorarlo di ogni tipo di responsabilità nei confronti del sogno medesimo, di se stesso e del mondo (contravvenendo così al vecchio detto, secondo il quale, invece, “è nei sogni che iniziano le responsabilità”…). Ma per quale motivo evocare quest’immagine? Ovvia risposta: perché è forte la tentazione di associare la sostanza di questo sogno allo statuto dello spettacolo (e della realtà) contemporaneo, con particolare riferimento – ed è questo che c’interessa – alla deriva a cui è giunto, negli ultimi anni, il cinema hollywoodiano. Non è soltanto la persistenza della tematica e dello specifico “fantastico” in tanti film statunitensi contemporanei a ricordarcelo. O meglio: è proprio l’importanza assunta dalla dimensione fantastica, nelle varie versioni desunte dal modello fornito dalla narrativa di un Philip Dick, a segnalarci la possibilità di una più ampia mutazione in atto, insieme linguistica, produttiva e tecnologica, capace di portare direttamente a compimento ciò che (dipende dai gusti) può apparire da un lato come il migliore dei sogni possibili, dall’altro come il peggior incubo covato da Hollywood nel corso della sua storia. Nell’ipotesi infatti del venir meno di quelle negoziazioni con il reale e la cultura che, seppure con condensazioni e spostamenti, avevano caratterizzato il miglior cinema americano; nella prospettiva, appunto, di una realtà che sfuma completamente nel sogno e – logico corollario – di un sogno che si fa realtà, e nel momento in cui, cioè, forse si saluta l’avvento finale di un regime di reificazione dell’arte, ecco che il sortilegio sembra essersi compiuto, almeno in un doppio senso: vuoi nelle vesti “della fine” del cinema americano, intesa come termine della sua capacità di farsi specchio della realtà (americana, prima di tutto); vuoi come “il” vero “fine” di Hollywood, nel senso di attuazione definitiva di un progetto, insieme esplicito e implicito, di fuga dalla realtà, e di irreversibile spettacolarizzazione globale del mondo. È inutile negarlo: di questi tempi, il grido d’allarme è particolarmente diffuso tra i vari esegeti della storia del sogno hollywoodiano. Perché, è ovvio, di grido d’allarme si tratta, almeno fra chi, come noi, ha imparato ad amare questo cinema anche per la complessità delle articolazioni dei suoi confini, e per la pluralità dei mondi che è stato capace di esprimere. E in effetti, senza arrivare al pessimismo di chi può elencare ben «venticinque ragioni per cui tutto è finito»2, basta andare alle acute pagine che, in questo stesso volume, Franco La Polla ha dedicato al cinema americano degli anni Ottanta per rendersi conto in quale misura una certa Hollywood sia andata incontro a un processo d’involuzione infantilistica e di omologazione, in fondo in larga parte imputabile a una sorta di stato d’eccitazione innescato dalle sue stesse componenti. La Hollywood fin de siècle, in buona sostanza, correrebbe il rischio di dover pagare il prezzo di un cinema tutto incentrato sull’evidenza sensibile, immediata del proprio stesso corpo (o, come si è più volte detto, del “corpo” in generale), in un orizzonte spettacolare non a caso troppo spesso autoreferenziale, che per comodità si può provare a riassumere, dal punto di vista storico e strutturale, nei seguenti termini. In primo luogo, si osserva da diverse parti3, il vicolo cieco in cui si è incanalata la cosiddetta “New New Hollywood” sarebbe soprattutto quello imposto da un rinnovato determinismo di carattere insieme tecnologico ed economico, di cui il blockbuster – la forma per antonomasia dell’eccesso tecnico e finanziario – è solo l’esempio più manifesto. È una storia ben nota, ormai. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, e dal quel punto di svolta rappresentato dall’uscita sugli schermi di Guerre stellari di
Lucas, il cinema americano sarebbe risorto dalle sue stesse ceneri adeguando il proprio prodotto alle nuove esigenze di un mercato multimediale e globale. Nell’ambito di un sempre più pervasivo “capitalismo culturale”, nel quale la retorica del marketing sembra porsi come l’unico “grande racconto” possibile nell’orizzonte della scomparsa delle metanarrazioni legittimanti della modernità4; o, ancora, nell’evidenza dello sfaldarsi di un pubblico omogeneo per razza, etnia, classe e nazionalità, e della frantumazione della fruizione stessa dello spettacolo cinematografico (disperso nel consumo “casalingo”, attraverso la diffusione dei videotape)5, anche Hollywood si è trovata costretta a ribadire la sua forza attraverso un’attività di “pre-visione”. O, per essere più precisi: Hollywood è tornata a esercitare il suo ruolo dominante nel mercato della cinematografia mondiale soprattutto attraverso un’attività di “promozione” pubblicitaria in fin dei conti precedente l’effettiva visione di ogni singolo film, nella quale è l’enormità dell’investimento tecnologico ed economico a mostrarsi non più come semplice valore aggiunto, ma come valore assoluto, o se volete, come unica “ideologia” in un sistema apparentemente scevro da ideologie che trova il suo collante, il suo rituale di consenso, nella natura ormai “modulare” di un prodotto cinematografico permutabile in una pluralità di suppellettili legate al merchandising (dal mercato dei vhs – e ora dvd – sino alla vendita dei vari supporti fonografici legati alla colonna sonora; senza contare il rendiconto economico ricavato nell’editoria collaterale, o dai vari gadget, giocattoli, memorabilia, e chi più ne ha più ne metta…). Sono gli effetti del passaggio definitivo dal vecchio sistema produttivo d’integrazione “verticale” a quello attuale d’integrazione “orizzontale”, evidente nei fenomeni di concentrazione finanziaria a cui sono andate incontro alcune delle vecchie major (il modello di riferimento è ovviamente quello fornito dalla Disney; ma in questo senso basta pensare all’espansione della Time-Warner per rendersi conto dell’evidenza di un “potere” multinazionale, quasi obbligato a diversificare il suo prodotto in ambiti non necessariamente legati alla semplice dimensione filmica). Un sistema che tuttavia, è bene sottolinearlo, non si giustifica più nell’incarnare i valori della produzione, ma al contrario – come è logico che sia in una società post-fordista – mostra tutta la sua specificità in un meccanismo che promuove la logica innescata dallo sguardo del “consumatore”. Si tratta, in questo caso, di privilegiare il puro piacere del gioco, l’eccitazione della discontinuità, il feticismo della novità tecnologica e di una merce consumabile nella infinita varietà dei suoi supporti; di difendere, in altri termini, un atteggiamento spettatoriale che non cerca tanto un principio organizzativo d’ordine temporale e narrativo quanto, appunto, l’ebbrezza del disorientamento spaziale autoreferenziale, apparentemente impossibilitato a confermare alcuna ideologia che non sia quella di un’esperienza immediata, immanente e presente dello spettacolo e dei suoi meccanismi6. Lo spettacolo cinematografico ritrova forse la sua origine traumatica, il suo shock benjaminiano, ma si tratterebbe di un trauma dolce, innocuo, fonte primaria di una regressione infantile. La spinta, da un certo punto di vista, è quasi quella di riportare il cinema americano a un regime di “attrazione”, come nel cinematografo delle origini, di esibizione di una magia che travalica ogni contenuto (di cui il predominio dell’effetto speciale prodotto dall’Industrial Light and Magic sarebbe la prova più evidente). Al punto che il mondo che passa sullo schermo può avere uno statuto più simile al luccichio di Las Vegas o al sorriso accondiscendente di Disneyland, un orizzonte della simulazione e del gioco da esperire in maniera simile al viaggio in un theme park, come in fondo avviene nella saga spielberghiana di Jurassic Park, spazio emblematico da ogni punto di vista, nel quale magari si può anche discutere del nuovo principio di realtà, ma solo con l’occhio puntato all’adiacente gift shop del parco divertimenti7 (e con il pensiero già rivolto all’emozione che ci potrà dare l’altro “Jurassic Park”, il “vero” parco da edificare al più presto al di fuori delle pareti di una sala cinematografica). Del resto, qui non si tratterebbe altro che di confermare a largo raggio la profezia recitata da George Lucas («quando penso ai miei film, li trovo più simili a un parco divertimenti, che a un romanzo o a un’opera teatrale», aveva detto a suo tempo il regista di Guerre stellari…). Ma al di là di questi eccessi, la deriva in atto sarebbe comunque quella che vede via via spostare l’attenzione dello spettatore dal contenuto diegetico – un tempo ragion d’essere della trasparenza hollywoodiana – alle componenti extradiegetiche d’ogni singola pellicola, in un rovesciamento esplicito dei rapporti di forza tra tecnologia e referente, motivazione e tecnica8. La gravità di una storia, il principio di verosimiglianza, la consistenza dei personaggi… tutto ciò che un tempo fondava la classicità hollywoodiana può ora perdere il suo peso specifico quando, sull’eco del tam tam pubblicitario, al posto dell’”affetto” per le vicende narrate subentra, magari, l’affetto per lo speciale “effetto” del fragore del dolby digitale (essendo la musica per certi aspetti il vero motore diegetico di questo genere di film9), la corsa sfrenata dello sguardo nell’ebbrezza da velocità imposta dalla tecnologia dell’action movie contemporaneo, o l’esplodere di una violenza che ovviamente, come nell’universo dei cartoon, non fa male, non fa scandalo, come è logico che sia in un mondo organizzato secondo un principio innanzitutto ludico. In generale, questo è il risultato di un’inversione dell’effetto prospettico della rappresentazione classica, nel quale non c’è più una posizione privilegiata dello sguardo, ma al contrario
si esalta, nell’annullamento della distanza tra l’osservatore e lo schermo, la vertigine di un’immersione nell’immagine, di un’esperienza dei segni colti, apparentemente, senza alcuna mediazione. Così, a entrare in primo piano sono ora tutta una serie di elementi che, seppure fondamentali, si configuravano un tempo come tangenziali rispetto alla consecutio del racconto: la musica, appunto, l’onirico, il bizzarro e la freakishness, lo spettacolare nelle sue varie forme. Solo che non si tratterebbe semplicemente di far risaltare il “margine” rispetto alla “norma”. Quando infatti il margine diventa “norma”, normalità, il rischio è che cessi la possibilità dell’”altro“ di farsi contrappunto rispetto alla standardizzazione; o, ancor di più – nella definizione di questa nuova norma, che cerca una risposta estetica di natura sempre più immersiva – il prezzo da pagare è che l’immagine filmica diventi incapace di attivare un qualsiasi processo d’identificazione primaria e secondaria10. Non sarà certo un caso se oggi va così di moda descrivere nelle vesti di una macchina celibe, proprio questo cinema che celebra ed esalta la potenza del suo hardware. Nessuna progettualità, nessuna ipotesi di rappresentazione identitaria: questo sarebbe il cinema che mette da parte contemporaneamente sia l’idea di un’identità che di un’alterità, dove, per dirla con Baudrillard, si celebra semmai “l’inferno dello stesso”, l’episteme che storicamente è il logico approdo della fine delle opposizioni imposta dal post guerra fredda, e nella quale, appunto, l’indeterminazione della posizione del sé e dell’altro, di soggetto e oggetto, naturale e artificiale, interno ed esterno, realtà e finzione, prepara forse l’avvento di un dominio incontrastato del transeconomico, del transestetico, transgenerico (o trans-gender che dir si voglia), transpolitico, e via dicendo, nella contaminazione di tutte le categorie, nell’ibrido assoluto11. Un cinema senza origine e fine e in tal senso senza padri e senza madri, che postula il suo “essere” nel vuoto di un’”identità artificiale” non dissimile da quella del giocattolo vivente di A. I. (2001) di Steven Spielberg, tanto che risulta a questo punto difficile anche solo ipotizzare l’esistenza di un’“American Identity”, di uno specifico culturale “americano” a cui possa fare riferimento una Hollywood inserita in una monocultura non più segnata dall’americanizzazione del globo, bensì dalla globalizzazione dell’America12. Visto che, come ha scritto giustamente Timothy Corrigan, è almeno a partire dalla messa in scena del fallimento, insieme produttivo e ideologico, di I cancelli del cielo (1980) di Michael Cimino, che la cinematografia americana misura la sua difficoltà a costituirsi come correlato mitico nazionale in un orizzonte sociale in ogni senso “globalizzato”13. Disperso, si è detto, nei suoi riti di fruizione, nel suo proporsi a un pubblico senza un minimo comune denominatore riconoscibile, un film può al limite farsi catalizzatore di un’entità frammentata soltanto ricreando continuamente un’identità ibrida, mobile, non localizzabile e identificabile, magari moltiplicabile, come nel divertente Mi sdoppio in quattro (1996) di Harold Ramis. Per questo, le figure retoriche adeguate a questa condizione – l’ossessivo travelling delle soggettive su steadicam, ad esempio, quegli sguardi senza soggetto e senza corpo, insieme soggettivi e oggettivi, come nel famoso piano sequenza in Quei bravi ragazzi (1990) di Scorsese – possono rivelarsi sintomo di un generalizzato stato patologico delle forme di rappresentazione del visibile14; o per questo, a voler essere ottimisti, la “forma” in questione può rivelare il suo stato di salute solo in una meta-morfosi inarrestabile, in quel morphing, l’effetto speciale principe del cinema di questi anni, che permette al volto, già di per sé camaleontico, di Jim Carrey in The Mask (1994) di Chuck Russell di essere tutto e nessuno, di assumere ogni maschera possibile senza mai stabilizzarsi in un’identità fissa, alimentando quel regime dell’uguaglianza generalizzata stigmatizzato da La Polla per la Hollywood anni Ottanta, regime che ora, a cavallo tra due secoli, troverebbe la sua apoteosi, se non fosse che…
Paradossi del globale Se non fosse che, sì, quanto sopra è senz’altro vero, per più di un motivo; eppure, rimane il sospetto che un tale ritratto descriva solo in parte e a un livello superficiale lo stato delle cose nel cinema contemporaneo. Non si tratta soltanto di prendere atto che le regole del gioco e i vari accessori del grande giocattolo hollywoodiano sono di questi tempi molto più numerosi di quanto la nostra sommaria descrizione lasci intendere. No, il problema è un altro, e coinvolge proprio lo spirito, la stessa metodologia attraverso cui la critica e la storiografia possono rivolgersi a questa svolta globale e ipertecnologica del cinema americano. Perché è sicuramente vero che anche Hollywood partecipa della tendenza – comune a tutta l’arte occidentale nel Novecento – di porre sempre più la logica del “sentire” al centro dell’evento estetico, con il risultato di rivelare l’incapacità dei vecchi strumenti teorici kantiani e hegeliani, il giudizio e la dialettica, «a reggere l’impatto di un’esperienza che non può più essere raccontata né come sussunzione del particolare all’universale, nè come superamento della contraddizione»15. Ma è altrettanto vero che comunque, nel caso specifico del cinema americano, non sembra affatto utile affrontare l’impatto “immediato” di questo sogno in apparenza autoconcluso né con il metro di un giudizio teso a stigmatizzzare il potere della tecnica nel tardo capitalismo, né, viceversa, con l’occhio di chi si compiace di individuare dovunque l’esplodere di un principio di piacere puramente negativo, in ragione del quale solo una metamorfosi metastabile, una radicale, iconoclasta,
deleuziana estetica della “differenza” si dà a essere, quasi che un film hollywoodiano fosse un film d’avanguardia, quasi che un film hollywoodiano non fosse un film americano… Proviamo allora a fare un passo indietro, per ricordare almeno un dato troppo spesso dimenticato in un certo tipo d’analisi. E cioè che, per quanto riguarda l’America, è sempre meglio vagliare con un minimo di sospetto la possibilità stessa di un determinismo assoluto di carattere tecnologico. Le “macchine”, in qualunque modo le si intenda, non sono mai autonome, e certo rimandano a un sistema di pensiero, tanto più in un Paese che da sempre, non da oggi, ha fatto del “tecnologico” una delle sue principali ragioni d’essere. L’ideale americano, ci ha insegnato Leo Marx16, è quello di una possibile integrazione tra la “macchina” e il “giardino”, l’artificiale e il naturale, e in questo senso anche la tecnica partecipa a buon diritto della fenomenologia del “meraviglioso”, categoria che negli Usa non deve necessariamente essere intesa quale mezzo di sospensione di ogni sistema identitario o metafisico. Al contrario, come ha scritto Nye, in America trascendente e immanente possono compenetrarsi, e il giardino e la macchina sono entrambi l’oggetto di un’esperienza estetica del “sublime” che non coincide con la dialettica indicata a suo tempo da Kant. Il piacere nei confronti di qualsiasi effetto capace di disorientare la percezione non viene interpretato in senso negativo, come l’istanza che inibisce l’articolazione del linguaggio, ma come segno della grandezza nazionale, esperienza che cementa l’identità in una società multiculturale e sempre rimanda alla possibilità di una rappresentazione17. Il fatto poi che questa stessa rappresentazione possa ben presto farsi “merce”, o che questa identità non sia mai stata pienamente stabile e che l’America, per definizione, sia il terreno di un conflitto contraddittorio tra natura e cultura e quanto altro, non smentisce il nostro discorso, ma anzi conferma quanto la meraviglia e la tecnica (la meraviglia della tecnica) siano sempre il luogo di una negoziazione (non di una decostruzione), nella quale s’intrecciano una pluralità di significazioni, pratiche visuali e strategie narrative tra gruppi sociali differenti, in vari contesti storici18. Tutto questo è particolarmente palese nel caso specifico di quella grande tecnologia del meraviglioso che si chiama Hollywood. È quasi banale ribadirlo, ma tant’è: l’“esperienza immediata” – il manifestarsi di un “sentire” legato anche allo stupore infantile, all’esplosione di un pathos – è da sempre centrale nel cinema americano, non solo in quanto elemento imprescindibile della risposta estetica, ma perché fondamento dello stesso articolarsi dei rituali identitari di consenso. Da questo punto di vista, se è vero che un’“estetica delle attrazioni”, del piacere spettacolare, permane da sempre nel cuore del linguaggio cinematografico statunitense19, è d’altra parte sbagliato considerare simili attrazioni nelle vesti di una presenza totalmente “altra” rispetto alla coerenza narrativa e visiva di ogni pellicola. Nel cinema americano, narrativo e spettacolare lavorano all’unisono, e l’emozione e il pensiero sanno fondersi, perché l’essenza di questo linguaggio è, prima di tutto, melodrammatica nel suo dare sfogo a una tensione all’identità che non può però mai nascondere completamente le proprie contraddizioni20. Esattamente per questo motivo Hollywood è stata compiutamente “classica” (se per classico intendiamo una condizione ideale d’armonia tra le parti) solo per un breve arco della sua vita, lasciando invece spazio a quelle tipiche, instabili operazioni di compromesso tra il singolo e la società, la libertà e la legge, infanzia e maturità, spettacolo e realismo che sono caratteristiche del vivere americano21. E anche per questo, in fondo, il cinema statunitense è stato il privilegiato luogo di sfogo della “perturbanza”, di una generalizzata poetica dello “stranamente familiare”: allo stesso tempo fuga dalla realtà e rimpatrio mai pienamente concluso, ambivalenza d’identità e alterità nella quale si alimentano tutte quelle nevrosi e accomodamenti, le varie pulsioni insieme positive e negative che proprio il libro che state leggendo ci ha insegnato, in questi anni, a cogliere (e ad apprezzare). È bene dunque essere chiari: a Hollywood il problema non è mai stato quello di rappresentare la realtà; piuttosto, si è trattato di rendere conto di un “modo”, di varie modalità di rivolgersi al reale nell’edificazione di un’altra realtà. A ben vedere, sempre si è trattato dello splendore di uno spettacolo che ci seduce, di un sogno autoconcluso; solo che la grandezza di Hollywood è consistita nel fare di quello stesso sogno un mondo: non tanto una forma, qualcosa che limita e delimita il senso, quanto, appunto, un mondo da intendere come luogo di una condivisione, di proiezione dei desideri e di unheimlich, nel quale si sfogano relazioni, rapporti di forza che, sì, molto ci possono dire della realtà che viviamo o abbiamo vissuto. Ragione per cui la domanda più legittima da porsi, per quel che concerne il cinema contemporaneo, non riguarda tanto (o almeno, non solo) la crisi delle forme hollywoodiane di significazione e di rappresentazione del visibile; la domanda più onesta da porsi è se ora è ancora possibile il farsi autentico di un mondo, in un globo dominato dalla tecnoscienza e dall’economia globale che, osserva Jean Luc Nancy22, assomiglia più a un glomus, a una rete, a un’agglomerazione di dati e di merci che deforma il profilo del mondo e si nutre di un’esaltazione incapace però di nascondere la sua pulsione all’autodistruzione (reificata, in maniera metaforica ma anche atrocemente “letterale”, nel crollo del World Trade Center); spettacolo in ogni senso eccessivo che, nel caso specifico dell’America di fine millennio, si mostra sempre più come un Luna Park globale e impazzito, insieme panico e ridicolo23.
Già, perché è proprio il senso d’esaurimento implicito nella logica dello spettacolo globale a suggerirci la presenza di un mondo – uno spettacolo – sovraeccitato ma che non basta più a se stesso. Non per nulla, i nostri non sono semplicemente gli anni della massima espansione dell’economia globale, ma anche i tempi di una massificata presa di coscienza del fenomeno. Ma al di là di questo, resta il fatto che anche Hollywood non può restarsene con le mani in mano. Lo stesso La Polla, in un suo precedente intervento, lo aveva intuito: «gli anni Ottanta sono in un certo senso anni di assestamento. Il cinema ci darà ancora meraviglie, ma in realtà uscite dai reparti ottici, meccanici ed elettronici della produzione. Il cinema li osserverà passare, come già sta facendo, e come stiamo facendo noi. Poi sarà, per tutti, il momento di rimboccarsi le maniche»24. Infatti: non è che la Hollywood degli anni Novanta e Duemila rinunci a sfruttare le sue potenzialità spettacolari e tecnologiche, tutt’altro. Ciononostante, non è forse un caso se, nel portare in scena l’enormità della tecnica e dello spettacolo, il cinema degli ultimi anni si compiaccia anche di evidenziarne il potenziale entropico. Si prenda Titanic (1997), il più grande blockbuster dei nostri tempi: pur con tutti i suoi difetti, il film di James Cameron ha avuto almeno il pregio di indicare apertamente il destino finale del gigantismo della macchina. In effetti, ultimamente non è difficile individuare esempi di un’assuefazione allo strapotere della tecnica e del ludico, che può portare alla parodia stessa dei meccanismi del gioco (visto magari come gioco al massacro: si pensi al divertente Pronti a morire, 1995, di Sam Raimi), alla visione del globo come scherzo burlone (l’immagine dell’universo sotto forma di biglia di vetro, con cui si conclude M.I.B. Men in Black, 1997, di Barry Sonnenfeld), o viceversa addirittura al desiderio di spegnere definitivamente la macchina, e con essa il mondo stesso, come accade nel finale di Fuga da Los Angeles (1996) di John Carpenter. Anche senza contare simili esempi, resta il fatto di una tecnologia che si è imposta al massimo grado ma che non riesce a sottrarsi dalle sue dinamiche contraddittorie e paradossali. E proprio il caso del morphing dimostra che la tecnica di quest’allucinazione docile e benvenuta non è poi così innocua, priva di perturbanza, né totalmente avulsa dalle dinamiche identitarie dell’America, perché, come scrive giustamente Vivian Sobchack: L’enfasi drammatica del morphing su un processo in atto mette in primo piano non solo le contraddizioni politiche ma anche quelle metafisiche. Minaccia, cioè, di dissolvere le ossessioni dominanti dell’identità americana nel momento stesso in cui fa appello ai loro stessi miti e ai fondamenti dell’ideale americano della mobilità sociale e la mutevolezza del “all youc can be” del “self made man”.25
L’osservazione è più che corretta. Ma se questo è vero, allora una volta di più si tratterà di riconoscere nelle modalità dello spettacolo non, banalmente, la fonte dell’alienazione nella modernità (o postmodernità), ma la capacità di riflettere sull’orizzonte in cui tutti ci troviamo, e con essa la possibilità di elaborare una nuova forma di mappatura, nella quale il “senso della fine” – variamente associabile alla crisi del soggetto, della rappresentazione, della storia – si può accompagnare alla negoziazione della sostanza di una nuova identità, seppure “terminale”26. Cosicché anche nel fallimento del tecnologico, nell’evidenza del disastro, si possa, come in Apollo 13 (1995) di Ron Howard (film ingiustamente sottovalutato), trovare lo spazio per una nuova forma di rimpatrio, secondo un sentimento che può, in una qualche misura, essere individuato come minimo comune denominatore nella Hollywood di questi anni. Cosa intendiamo dire? Intendiamo dire semplicemente questo: dopo l’orgia del parco dei divertimenti, imperante nel decennio degli Ottanta, nel pieno dello svolgersi dell’estetica del globale, il cinema americano degli ultimi anni, pur con tutti i suoi limiti, si è posto comunque alla fine il problema del come “abitare” questa specie di sogno troppo reale, ibrido, senza identità, inafferrabile, autoconcluso e legato all’eccitazione momentanea. Non si tratta solo di rilevare, ovviamente, che è un’idiozia far coincidere tutto il cinema di questi anni con l’estetica puramente ludica del blockbuster. Si tratta proprio di constatare che Hollywwod è attraversata da un desiderio di tornare a casa, evidenziato non solo nella riproposizione di alcuni generi tradizionali come la commedia romantica e il melodramma, nel romanticismo ritrovato di film come I ponti di Madison County (1995) di Clint Eastwood o il bellissimo L’età dell’innocenza (1993) di Martin Scorsese. Un nostos certo paradossale, visto magari in uno specchio rovesciato – come nel recentissimo Ritorno a Cold Mountain (2003) di Anthony Minghella – nel quale l’approdo ha i tratti incerti di un oleogramma e non è ben chiaro chi ritorna da chi, se siamo noi a cercare la patria perduta o se è questa che ci viene a cercare. Spirito ulissico spesso frustrato, perché, in un mondo che si è fatto defenitivamente spettacolo, schermo sempre più inafferrabile, la nostalgia non può neppure configurarsi nelle vesti di quella fede e amore verso l’immagine che aveva caratterizzato la New Hollywood degli anni Settanta. Ma tant’è. Dai già citati Apollo 13 e A. I. a Salvate il soldato Ryan (1998) e Prova a prendermi (2001) di Spielberg, sino a Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis e persino un film come Aliens (1986) di James Cameron o il Lynch di Una storia vera, il cinema hollywoodiano contemporaneo presenta esempi diversi di questo problematico homecoming, in una
corsa verso mogli e madri perdute forse mai destinata a placarsi, che cerca però comunque di abitare l’America, e lo spettacolo che la costituisce, anche nell’era della sua evidente dissoluzione. È il “paradosso del globale” qui a confermarsi, il fatto che la globalizzazione della cultura, dello spettacolo, dell’economia o di quant’altro non ha annullato ma anzi rinnovato le pretese del “localismo”, in una dialettica tra locale e globale, a dire il vero mai pacifica, che è specifica dei nostri anni27 (e che nel cinema non è evidenziata solo dalla diffusione dell’home cinema…). Non fraintendeteci: non è per nulla scontato il compimento del nostos in questione, anzi è assai probabile che resti allo stato di promessa; quello che interesssa è la pulsione che lo presiede, e che ci dice che il cinema hollywoodiano, malgrado i suoi effetti decostruzionistici, non è esattamente il posto più adatto per rinnovare il taglio dell’occhio bunueliano. E anzi, a questo proposito, è bene ricordare che la fuga in un’immaginario ludico tipica del blockbuster nelle sue varie diramazioni, è anch’essa, in realtà, il riflesso della pulsione più classica nella fondazione dell’America, paradossale progressione teleologica che non va avanti ma ritorna all’indietro, a un Paradiso, in fondo mai conosciuto, non segnato dal peccato e la colpa. È la vecchia logica di Disneyland che ora tende a farsi più reale che mai (in ogni senso: si pensi al terribile esperimento comunitario di Celebration, vera e propria citta “ideale”, con ventimila abitanti, costruita all’interno di Disney World). Con però una differenza fondamentale che si lascia intendere nel cinema anni Novanta (e oltre): e cioè che ora questo mondo si svela, finalmente, almeno per quello che è, il frutto di un realismo innanzitutto psicotico. Non più l’isteria nevrotica, tratto comune a tanta Hollywood del passato, ma la psicosi sembra infatti essere il motivo dominante dello “stare nel mondo” (e nel sogno) degli esseri che popolano il cinema americano contemporaneo. Da Barton Fink (1991) e l’uomo che non c’era (2001) di Joel e Ethan Coen a L’esercito delle dodici scimmie (1995) di Terry Gilliam, da Il seme della follia (1994) di John Carpenter a A Beautiful Mind (2001) di Ron Howard e Affliction (1997) di Paul Schrader, passando per lo stesso Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick, fino ad arrivare alla saga di Scream (1996-2000) di Wes Craven, è lo statuto psicotico sia della percezione che dell’oggetto da percepire a decretare la trasformazione di ciò che solo pochi anni fa era sentito come una pronoia, in una rinnovata paranoia28, coltivata non solo dalle istituzioni ma anche nella nostra stessa soggettività malata, come dimostra, anche se in maniera un po’ troppo didascalica, The Truman Show (1998) di Peter Weir (o il più modesto The Game, 1997, di David Fincher). E il dato è assolutamente fondamentale, per diversi motivi. Perché da un lato ci palesa la tendenza di un cinema che ormai ha interiorizzato la tecnica del meraviglioso sino a renderla invisibile, in maniera tale da trasformare definitivamente, nel trompe l’00li generalizzato, l’“immaginato” in “percepito” (non è un caso, per esempio, che l’effetto speciale, ormai, non si mostri più tanto nella sua straordinarietà, ma, attraverso le tecniche digitali, s’integri nel racconto sino a rendersi impercepibile); ma anche perché, da un altro lato, il sistema di credenza e di fede, nel momento stesso in cui viene riattivato, può essere sospeso nella scoperta dello statuto incerto e allucinato di questa “realtà”, nel sentimento ancora una volta “stranamente familiare” del Pinocchio di A.I. quando, nell’allucinazione finale della sua casa materna, si ritrova «in una mia casa che però non è la stessa casa»: epifania che ancora una volta prova quanto non conti tanto la “rappresentazione” ma il modo con cui la si vive, una tensione all’abitare che però in questi casi non può mai placarsi, perché è sempre “transito” verso un altro luogo, o verso lo stesso luogo che non è più lo stesso, instabile ricerca di uno spazio che gioco forza si nega nel momento stesso in cui lo si afferma (si pensi al terribile e infinito gioco di identità e differenza messo in atto da Ricomincio da capo, 1993, la bella e inquietante commedia di Harold Ramis; o ancora, certo in termini più radicali e patologici, allo spaesamento costitutivo di Strade perdute e Mulholland Drive di David Lynch). Il “familiare” – lo spiritus loci inteso nelle sue varie connotazioni – è quindi senz’altro centrale, ma non per questo si dimostra quale il migliore dei mondi possibili in cui lo spirito regressivo hollywoodiano possa rifugiarsi. A starci attenti, proprio la famiglia può essere, e in effetti è negli anni Novanta e Duemila, il luogo in cui si perpetua il disastro, lo scollamento di tutti i rapporti. L’esempio di maggior successo in tal senso è stato quello di American Beauty (1999) di Sam Mendes (mentre forse, da questo punto di vista, il capolavoro rimane il già citato Affliction), ma basta dare un’occhiata alle prove uscite da produzioni independenti ormai sempre più inserite nel mainstream (ciò che in genere passa il convento del Sundance Festival) per raccogliere le istanze di un romanzo familiare segnato da una conversione della trama edipica in stupro quasi inconsapevole (si pensi al rovesciamento dello statuto della “felicità” domestica nei suburbs, in un film come Happiness (1998) di Todd Solondz). Del resto, è soprattutto nei territori di quest’ambigua “indipendenza” che il conflitto tra globale e locale si consuma nella forma del “politicamente corretto”: malattia che ha investito la società americana degli ultimi decenni a vari livelli, e che anche nel cinema si evidenzia in quello che Robert Hughes ha definito «il culto del maltrattato bambino che è in noi», la nuova sensibilità in cui si «decreta che i nostri eroi saranno solo delle vittime»29, un vittimismo generalizzato che lascia ovviamente spazio a un nichilismo
insieme masochistico e sadico spesso fine a se stesso (perché il “politicamente scorretto” è l’altra faccia della medaglia di questo deprecabile fenomeno, come dimostra l’iconoclastia – invero ormai addolcita – di John Waters in La signora ammazzatutti (1994) e A morte Hollywood! (2000), o invece pellicole un po’ insulse come Tutti pazzi per Mary (1998) dei fratelli Farrelly, e Cose molto cattive, 1998, di Peter Berg). Come che sia, è certo che la «tirannia del normale»30, l’impulso a una normalizzazione che non esiste e che in realtà annichilisce le immagini dell’“altro”, segna, nella crisi delle ideologie, la resistenza e la persistenza di discorsi di genere, razza, che nel migliore dei casi possono confermare il sincretismo della realtà (e dello spettacolo) in cui viviamo solo nell’evidenza dello scontro non riconciliabile tra clan, nella distruzione del “quartiere”, del vivere armonico della comunità locale, come ci ricorda il cinema di Spike Lee, in Jungle Fever (1991), ad esempio, e soprattutto in Fa’ la cosa giusta (1989). Tuttavia, ancora una volta il discorso non si esaurisce qui. Accanto alle dinamiche che rivelano il disagio che affronta il locale nell’era globale, l’impulso ad abitare si può manifestare con un’altra intenzionalità ed esiti non così funesti. Non si tratta, a dire il vero, di uscire dalla psicosi, perché il dato di fatto – molto postmoderno – è ormai quello di una spettacolarizzazione generalizzata del reale che non permette più la fuga da un sogno, una trasparenza che, ormai, è la nostra unica realtà. Si può, però, come c’insegna il malinconico A Beautiful Mind, imparare a convivere con i nostri fantasmi, spalancare gli occhi di fronte alla contraddizione nella quale siamo immersi. Certo, è un occhio in crisi quello che viene messo in gioco: occhio del pistolero miope di Gli spietati (1992) di Eastwood, incapace di prendere la mira e di mettere a fuoco le cose; occhio disincarnato e ormai meccanico, lanciato a corsa pazza verso la sua sconfitta e fine, come nell’incredibile suicidio della “soggettiva” nel piano sequenza iniziale di Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow. Eppure, c’è del metodo pure in tale follia, in questa modalità visiva che magari sa lasciare anche spazio a uno sguardo perplesso, inebetito, alla possibilità di un’identificazione, per quanto provvisoria e ambigua, con una soggettività “stupida” che, come in Forrest Gump o Il grande Lebowski (1997) dei fratelli Coen (non a caso, uno dei pochi veri cult movie di questi anni), sembra comunque l’unica in grado di rendere conto del carattere discontinuo della nostra storia, della continua commistione tra realtà e finzione, della natura pluridiscorsiva e plurimediatica dell’identità americana31. A riprova che esiste comunque, nella Hollywood contemporanea, anche un principio “produttivo” (non solo distruttivo), capace di consolidarsi in un progetto estetico e ideologico (se lo vogliamo chiamare così), certo identificabile, per esempio, in due film che ci sembrano esemplari del cinema del nostro tempo. Il primo film in questione è senz’altro Dracula di Bram Stoker’s (1992) di Francis Ford Coppola. Un blockbuster a tutti gli effetti, non c’è dubbio, in cui si agitano tutte le sopra citate strategie volte a soddisfare i palati dei sostenitori dell’immediatezza della sensazione, o a dar sfogo al prevalere della tecnica e dell’extradiegetico. E tuttavia, non è chi non veda in quest’autentico capolavoro il segno di una nuova concezione non disorganica ma organica, costruttiva del cinema, mai schiava della tecnica, ma funzionale a un nuovo pensiero e senso della visione. In questo film per più di un verso straordinario, il fondersi delle categorie nell’ibrido costituzionale, dello sciogliersi dei confini che dividono un mondo dall’altro, si compie in un geniale uso delle dissolvenze, che riscrive le categorie dello spazio e del tempo nel segno di una continuità assolutamente consustanziale allo statuto della realtà contemporanea, ma anche capace di ricondurre il cinema nel solco della sua stessa origine, di spettacolo popolare consegnato al dominio delle attrazioni (si pensi alla portata semantica della magnifica scena della seduzione in un cinematografo delle origini). Bastano infatti puns visivi come quello, meraviglioso, della mutazione dell’occhio in vetro, e poi stelle e diamanti, o la stessa struttura speculare e rovesciata dell’organizzazione narrativa, nella quale magicamente la scena finale si sutura con la promessa della sequenza iniziale32, per ricordarci che qui siamo di fronte a un’alchimia dello sguardo, nella quale gli “effetti” sono piegati a un principio di consistenza, al fluire metamorfico di una nuova continuità del racconto cinematografico, colma di autentica e non contraffatta passione. Come osserva proprio lo stesso La Polla: Coppola sta adeguando le forme del raccordo all’episteme della contemporaneità, quella riduzione del mondo a immagine che non può non sfociare nell’idea di una realtà racconto, di una interminabile storia in cui la realtà è destinata a tramutarsi nell’era della sua vieppiù incalzante identificazione con lo spettacolo. Ma tale pratica non va intesa come puro versante tecnico di un pensiero del cinema. Al contrario, la metamorfosi dell’immagine avviene regolarmente su un terreno di accostamento analogico di carattere formale. Come a dire, un montaggio delle attrazioni senza montaggio ma con parvenze di una dissolvenza che tramuta la tecnica in metamorfosi.33
L’altra pellicola esemplare è invece Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, probabilmente il film più rappresentativo del nuovo cinema americano degli anni Novanta. Un film che è stato, e ancora è (anche se la moda tarantiniana sembra avviata a un lento declino) un fenomeno culturale ad ampio raggio, e su cui, si sa, si è detto di tutto, ma del quale il minimo che si può dire è che rinunci ad affrontare, con un’intenzionalità in qualche modo costruttiva, l’orizzonte culturale, sociologico della globalizzazione. Le continue allusioni e riferimenti alla popular culture, il culto feticistico per le sue icone e il suo repertorio di merci, reificato in una struttura di concatenazione reversibile ancora una volta
ibrida e a puzzle, fanno di Pulp Fiction il manifesto di una generazione che non vive più la perdita di “senso” come un problema, ma che fa anzi della logica del consumo il principio stesso del suo stare al mondo (per questo il regista non ha potuto che disconoscere la resa della sua sceneggiatura nel moralistico e apocalittico ritratto della società dello spettacolo in Assassini nati, 1994, di Oliver Stone). Tarantino lo afferma esplicitamente: «Vi fa sentire a casa l’idea che, dovunque andiate, troverete un MacDonald. Sono piccole cose come queste, come la Coca Cola e il Big Mac, come Madonna ed Elvis Presley, Muhammad Alì e Kevin Costner che rendono noi americani parte del mondo, che ci piaccia o meno»34. Naturalmente, il piacere con cui ci si concede al sex appeal dell’inorganico, alla deriva di una sostanza che odora di sintetico, in un racconto trattato come carne macinata dove il sangue sa di ketchup e uno che muore alla fine te lo ritrovi più sorridente e affamato che mai in un diner, non si mostra del tutto scevro da un senso funesto, perturbante. L’universo di Tarantino è quello partorito da uno sguardo perplesso e infantile, che vive il mondo senza avere superato ancora la sua fase anale (esemplificata nell’orologio che Bruce Willis nasconde nelle viscere) o almeno la sua fase “orale” – considerato il ruolo fondamentale svolto dal cibo. Ma con un valore aggiunto: e cioè che è questo stesso repertorio umano che si è ridotto a “cosa”, oggetto di consumo, in una prospettiva “cosale” dei resti dell’umanesimo che, si sa, può essere al tempo stesso vissuta come una liberazione e come il peggior incubo. Da questo punto di vista, il suo assumere, a livello globale, la dimensione artificiale come naturale, fa della tarantinizzazione la faccia opposta della disneyzzazione35. Solo che a differenza di quello di Disney, l’universo di Tarantino sa farsi “sintomo reale”, riflesso di una scelta dell’“abitare” un certo orizzonte che lascia aperto l’enigma di una violenza inorganica con la quale, volenti o nolenti, il cinema e tutti noi dobbiamo fare i conti. Ciò che infatti conta sottolineare è la possibilità da parte della Hollywood contemporanea di introiettare la circolazione infinita dei segni e delle merci nell’età della globalizzazione, all’interno di una logica di scambio e di negoziazione che si costiuisce a sua volta come ipotetico “globo”, certo in continuo assestamento, un po’ come avveniva nel globe del teatro elisabettiano (non a caso richiamato, in chiave postmoderna, in un filone molto ricco del cinema anni Novanta; si pensi a opere come Shakespeare in Love (1998) di John Madden, o Romeo+Juliet (1996) di Baz Luhrmann; o ancora l’interessante docufiction Riccardo III - dUn uomo un re (1996) di Al Pacino, vera e propria meditazione su un gran teatro del mondo poroso e permeabile, e sul carattere deforme della forma identitaria contemporanea). Costituzione di un “mondo” che deve essere incerta e lasciare aperte molte soluzioni: dal disincanto dei “padri”, lo sguardo “adulto” che non si riconosce in un reale ridotto a immagine, alla difficile integrazione dei figli, nell’adulto rimasto bambino che s’interroga ancora – lui stesso giocattolo in un orizzonte sintetico e fatto a mo’ di giocattolo – sul posto in cui poter essere, in cui vivere.
Mondi (im)perfetti: o del sogno della famiglia Un dato dunque da accettare è che nel teatro angusto della “famiglia” non sono più centrali le trame identitarie legate allo sfogarsi dell’edipo. Non è più tempo di quella rivolta contro i padri che aveva segnato in qualche modo la New Hollywood degli anni Settanta, di quell’archetipo di Abramo e Isacco che Guido Fink, in un suo saggio, aveva individuato, riferendosi agli esempi di Shining (1980) di Kubrick e Apocalypse Now, nel modello di uno scontro tra un figlio e una paternità folle, assassina e da uccidere, sì, ma comunque parte di noi, «ruolo che potremmo dover sostenere a nostra volta»36. Tra il rifiuto del padre assente e la ricerca della madre assente, il cinema americano di questi ultimi anni pare invece pendere più volentieri per la seconda soluzione, c’insegna, per esempio, Belli e dannati (1991) di Gus Van Sant. Ma si tratta a ben vedere, come ci testimonia questo stesso film, del “sogno” di una famiglia, una cosa assai diversa e assai problematica. Nel desiderio del narcolettico che sogna la sua casetta nel suo “Private Idaho”, si consuma in fondo lo sforzo non di raggiungere una realtà perduta, ma di coniugare l’onirico con la realtà, di risolvere lo scarto schizofrenico tra interno ed esterno, mente e corpo da parte di un mondo e personaggi ancorati a un’infanzia che sembra rifiutarsi di rendere operativo il sogno, di riportare le forme del discorso a quelle della vita. È la frattura del bambino che nasce adulto e che, invecchiando prima dei suoi stessi genitori, sembra vivere la solitudine paradossale di un’infanzia eterna che non può neppure godersi, come accade in Jack di Coppola. Ma forse, per intendere questa condizione, è meglio rivolgersi a uno dei maggiori responsabili della riduzione del mondo hollywoodiano a un giocattolo più utile a essere esposto sugli scaffali che a essere “realmente” esperito dai suoi consumatori. Gran parte del cinema di Steven Spielberg negli ultimi quindici anni sembrerebbe infatti ribadire la morale paradossale di un giocattolo al quale è stata sottratta proprio la sua ragione più autentica per esistere e fondarsi in un luogo: il gioco. È la storia amara dei giocattoli descritta nel film d’animazione (digitale) Toy Story (1996) di John Lasseter, e che anche in un cinema live action sempre più consustanziale a quello del cartone animato si fa sentire nella forma dello scarto tra un giocattolo preconfezionato imposto ai suoi acquirenti e il diritto all’invenzione, la consapevolezza che è solo la casa dei giochi costruita dal bambino a possedere valore e vita, e non il
vuoto della illusion of life disneyana. In effetti, anche film francamente detestabili come Jurassic Park contengono, a ben vedere, una critica indiretta allo stesso mondo che pongono in essere. Ma se questo è vero, ecco che la sindrome da Peter Pan – evidente anche in film spielberghiani nello spirito, come Casper (1995) di Brad Silberling – si rafforza in una prospettiva ancora più malinconica di quella che già possedeva. A partire da L’impero del sole (1987), Spielberg ci ha quindi mostrato, vuoi nel fallito Hook (1991) che nel più convincente Prova a prendermi, l’elogio di un “volo” – reale, fantastico – che non sembra più possibile integrare con la gravità, il calore di una famiglia; un rituale della perdita dell’innocenza e dell’attentato arrecato alla dimensione della fantasia nel quale si evidenzia tutta la fatica della favola a volersi fare “vera”. Cosicché non sorprende che il destino, ancora una volta in A. I., sia quello che costringe, con risvolti senz’altro tragici, ad abitare (dopo l’evidenza della fine del parco divertimenti, immerso nei fondali di un oceano ghiacciato) la sostanza di una casa fondata sull’abisso del vuoto spinto e digitale, nella quale l’eterno bambino giocattolo e ormai clone si trova suo malgrado costretto a vivere, senza il conforto di alcun genitore. O forse si tratta solo di commedia, o per meglio dire di una situazione comica. Non ci riferiamo tanto a pellicole, per altro di grande successo, quali Mamma ho perso l’aereo (1990) di Chris Columbus e i suoi vari sequel, la saga sulle marachelle del bambino (Macaulay Culkin) abbandonato a casa dai genitori, di cui ci dimenticheremo ben presto. Ci riferiamo piuttosto al rifiuto della crescita e della maturità così come si configura nello sviluppo contemporaneo del filone dei film demenziali. Quel genere che negli anni Ottanta postulava il dominio dell’adolescenza secondo un principio di distruzione del set legato, a ben vedere, a una pulsione all’autodistruzione e alla tragedia (incarnata, nel cinema e nella vita, dall’irripetibile figura di John Belushi), regredisce ancor più, negli anni Novanta, alla sostanza di un’infanzia del tutto prepuberale, reificata sul corpo permutabile dell’adulto Jim Carrey (l’attore, si è detto, più d’ogni altro consustanziale alle vicende del morphing, la forma – identitaria ed estetica – di un bildungsroman del quale resta solo la bildung, la “formazione” inarrestabile e sempre reversibile in una miriade di maschere37). Così come impone la regola del demenziale, la deriva verso una comicità tutta incentrata sulla fisicità e sul corpo resta centrale. Anzi, si può forse dire che Carrey è la prova definitiva della teoria bergsoniana del “comico”, nell’evidenza di un soggetto senza coscienza, che vive nell’illusione e nel sogno e soprattutto si sdoppia regredendo a cosa, animale, marionetta, giocattolo o – com’è logico che sia di questi tempi – cartone animato. Il legame con la dimensione animale è alla base della definizione stessa del personaggio di Ace Ventura (il discorso vale sia per Ace Ventura: l’acchiappanimali, 1994, di Tom Shadyac che per Ace Ventura-Missione Africa, 1995, di Steve Oedekerk). Ma questo non basta. La straordinaria abilità attoriale di Carrey si costituisce come il correlativo oggettivo di un corpo marionetta e giocattolo, in preda agli spasmi incontrollabili della perdita del sé. E ancor più che in Belushi, l’animalità e la corporalità si mostrano in una regressione alla fase anale dell’umano che avrebbe fatto la gioia di Bataille e delle sue fantasie escrementali (essendo la comicità quasi coprofila di Carrey – l’uomo capace di ventriloquare attraverso il suo ano… – il corrispettivo hollywoodiano della surreale figura rovesciata dell’uomo col sedere al posto del cervello descritta da Bataille38, tra l’altro già preconizzata, alcuni anni fa, da Society, 1989, di Brian Yuzna). Se non fosse che non c’è, almeno apparentemente, alcuna portata antiborghese in tutto questo, ma anzi l’accoglimento di questa comicità nelle vesti di qualcosa di familiare, per tutti. Jim Carrey può essere anche un idolo delle famiglie, e non a caso il suo personaggio, che già in partenza è fatto della materia di cui sono fatti i cartoon, sia poi stato trasformato subito in un vero cartone animato per la tv. In buona sostanza, di fronte alla comicità carreyana è difficile dire se il riso che ne consegue è una forma di difesa, finalizzata a ricomporre la nostra normalità, o al contrario qualcosa che mette in moto un’identificazione verso un’identità ormai inorganica, animale, dalle mille facce. In una società che ha fatto dell’anormale il normale – nei ben noti eccessi legati alla chirurgia estetica, alle pratiche del piercing e quant’altro –, in un mondo in cui, per esempio, Michael Jackson, un essere umano che si è fatto freak, vuole proporsi come modello per le famiglie e i bambini (e vi risparmiamo ogni genere di commento su come questo stesso individuo possa poi trattare i suddetti bambini, perché attiene alla cronaca e non alla critica cinematografica) non è facile affermare dove inizi il distacco e la partecipazione rispetto allo spettacolo della freakishness – una reazione simile a quella che si ha davanti a un reality show, nella varie case dei grandi fratelli che altro non sono che versioni contemporanee dei vecchi freak show. Ma forse ci sbagliamo, e il vero sadismo viene tutto dalla parte dello schermo ed è rivolto, anche se non ce ne accorgiamo, proprio contro di noi. Carrey non è mai, infatti, una vittima, bensì, semmai, l’ultimo supereroe (che altro sono, in fondo, personaggi come Ace Ventura e The Mask?) dotato di poteri sovrumani (onnipotente, in Una settimana da Dio, 2003, di Shadyac), che può – come dimostra nella sua versione “seria”, e questa volta anche tragica, in Man on the Moon (1999) di Milos Forman – farsi beffe del mondo spettacolarizzato (e anche degli spesso mediocri film che interpreta) senza vivere la sua diversità, il suo statuto cartoonesco e giocattolesco come trauma, al contrario degli altri “veri” supereroi che popolano lo schermo, esseri di una natura ancor più sfacciatamente fumettistica, vittime di una
diversità, legata spesso a ferite infantili, che impedisce loro di vivere la normalità delle relazioni umane, come testimoniano i vari Spider-man (2002) di Raimi, Hulk (2003) di Ang Lee, o le varie incarnazioni di Batman. Proprio quest’ultimo esempio ci permette però di avventurarci in un’altra definizione possibile della vicenda. È il caso del cinema di Tim Burton, di sicuro uno dei corpus più affascinanti all’interno della deriva infantilistica della Hollywood fin de siècle. La dialettica del normale e del diverso viene infatti vissuta dal cineasta alla luce di un’intenzionalità ben differente. C’è modo e modo d’essere infantili, e la ritrovata spontaneità del gioco deve essere messa in atto accogliendo nel proprio seno quel gradiente di alterità che va a costituire ogni universo familiare, tutti i “mostri” che abbiamo nutrito e coltivato nella nostra sensibilità di bambini. Certo, il Johnny Depp di Edward mani di forbice (1990) esprime, a un livello superficiale, tutta la malinconia di un essere impossibilitato a vivere una situazione di presunta normalità. Ma in realtà, nel cinema burtoniano bastano pochi istanti per rendersi conto che la tragedia è solo nostra, nella nostra ottusa normalità e che i “mostri” vengono solo in pace, per salvarci (anche se i marzianetti dell’esilarante Mars Attacks!, 1996, sembrerebbero dimostrare il contrario). Burton è l’artista che si accosta con fiducia e amore alla necessità della maschera; non solo perché è attraverso questa che si costituisce il carattere eterogeneo del suo cinema inimitabile, fatto, come scrive Adriano Piccardi, di spazi e personaggi «risultato di una migrazione continua dei segni, che li strappa senza sosta a se stessi per cercare altrove un completamento mai del tutto raggiunto»39; ma anche perché è solo dal punto di vista del margine, della Edgetown di Nightmare Before Christmas (1993) (diretto da Selick su soggetto dello stesso Burton), o di quel patrimonio legato alla serie b hollywoodiana e all’oggettistica della popular culture americana, che si può esprimere in pieno il rifiuto della versione disneyana, stupidamente ottimista della famiglia nucleare statunitense (un universo che Burton conosce bene, proveniendo proprio dalla factory di Disney, nella quale aveva lavorato come animatore). Si tratta però, come si sa, di una fiducia amara. La maschera burtoniana, il monstrum che deve essere messo in mostra con lo stesso amore e partecipazione di uno sguardo browninghiano, è volto mortuario, gotico, oscuro che, scrive La Polla, racchiude in sé «il carattere funeral-testamentario dello spettacolo cinema»40, come testimonia l’appassionata riflessione metacinematografica di Ed Wood (1994). Eppure, il senso del lutto che pervade questa versione dell’infanzia e del cinema non riesce mai a dissimulare la forza di una verità che non si trova a livello della “rappresentazione” ma nell’atto della “produzione” del mondo, nella nostra stessa affabulazione creativa. Per questo, lo scarto ma anche la continuità tra l’evidenza delle maschere nel sogno e la presenza dei volti invecchiati di queste al “funerale della fantasia” in Big Fish (2003), o ancora, in questo stesso grandissimo film, il ribaltamento sul letto di morte del rapporto tra un padre e un figlio scettico che accompagna questo stesso padre a morire nell’universo spettrale che ha creato, sono momenti tra i più commoventi dell’intero cinema contemporaneo, perché capaci di interrogare lo statuto di verità della nostra episteme ricomponendo comunque un mondo familiare, nel pieno del solco della tradizione più autenticamente americana (cosa altro sono se non versioni aggiornate del vecchio tall tale, i racconti iperbolici del protagonista di Big Fish?). Un mondo senz’altro “orfano”, paradossale nel suo vivere il mito, il sogno di una famiglia, nell’evidenza della morte di questo, ma cionostante rivolto lo stesso al futuro, anche nella sua filiazione verso una magia che può ora solo essere rivissuta nella sua imperfezione. Già, a proposito di filiazioni, di mondi perfetti e imperfetti. Il discorso può essere ampliato, ed esteso a quella persistenza, o tentativo, di ristabilire una parvenza di “classicità” nel cinema postmoderno che è una delle versioni più comuni di questa sindrome del “ritorno a casa”. A dire il vero, forse in questi casi non si tratta nemmeno più di cinema postmoderno, se con questo termine s’intende lo svelamento dello statuto di falsità di tutte le nostre significazioni, e l’affermarsi dell’incredulità rispetto alle metanarrazioni legittimanti. Quindi, la classicità in questione è ancora una volta qualcosa di diverso dalle poetiche della nostalgia della New Hollywood dei Bogdanovich. All’evidenza del venir meno di un rapporto “naturale” con l’immaginario che aveva caratterizzato quella stagione del cinema americano, subentra ora un sistema di credenza paradossale che, come in Burton, nello stesso istante in cui mostra l’esaurimento di quelle strutture che avevano consentito l’instaurazione di un mito della collettività, si adopera ancora per accordare una fede, una fiducia verso quella immagine segnata dal lutto. Tutto il cinema di Clint Eastwood, forse il maggior rappresentante di questo neo-classicismo hollywoodiano, lo starebbe a dimostrare. Cineasta della tardività, classico che subentra dopo il classico, Eastwood ha l’ironia amara di proporre il suo stesso personaggio nelle vesti di un fantasma (il pistolero de Gli spietati), di una lettera proveniente dal regno della morte indirizzata ai figli (si pensi a I ponti di Madison County), in vista della formazione di una famiglia provvisoria, dove almeno il “sentimento” della classicità possa essere salvaguardato. Che il mondo di Eastwood si configuri come un dialogo con l’aldilà (esplicito in Mezzanotte nel giardino del bene e del male, 1997) è certo, ma è certo pure che è solo da questa cerimonia funebre che si può attuare l’ipotesi di una filiazione. Non è un “mondo perfetto” l’imperfetto mondo di Un mondo perfetto (1993), ma è pur sempre un mondo, che ci appartiene nelle sue contraddizioni e
ferite. Ragione per cui il senso dell’esaurimento del mito si stempera nell’evidenza del bambino che alla fine piange per la morte del padre putativo, nell’emozione che riesce a ristabilire una relazione con un’immagine che scompare41, e un rapporto con una versione del tutto credibile del paeasaggio dell’America contemporanea. A proposito di paesaggio, invece. Non è raro di questi tempi vedere manifestare questa presunta classicità in atto, come rinnovamento di quel sentimento “pastorale” che da sempre è elemento fondante dell’identità americana. La strategia di questi film è, da questo punto di vista, abbastanza chiara. Si tratta in buona sostanza, almeno in linea teorica, di regredire a uno stato precedente la costituzione delle forme di rappresentazione, a una condizione edenica anteriore alla stessa formazione della civiltà. Lo sforzo, in una sorta di corrispettivo delle tendenze new age degli ultimi tempi, è cioè quello di immergersi in un rapporto di continuità e identità con la natura, l’animale. Gli esempi possibili possono essere film come il già citato Ritorno a Cold Mountain o L’uomo che sussurrava ai cavalli (1998) di Robert Redford, o ancora di più i bei momenti panici contenuti in La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick, oppure una pellicola pluripremiata come Balla coi lupi (1990) di Kevin Costner (il cui momento più toccante è senz’altro quello in cui ci restituisce lo sconcerto innocente della soggettiva animale, immersa negli occhi del lupo), opera che però, naturalmente, cerca il succo della sua identità, la possibilità di una rinascita del genere nazionale per antonomasia (il western) nell’identificazione con l’altro per eccellenza della mitologia americana: l’indiano. Come aveva scritto Leslie Fiedler tanti anni fa, solo il ritorno del vanishing American, del pellerossa ci rimanda, con il suo sguardo estraneo, a un altro genere di spazio e di tempo, a una vastità della natura non umanizzata42. Solo che in questi casi, non si può fare a meno di notare che è ancora una volta il ritorno di un fantasma col quale si ha a che fare (fantasma dell’indiano ma anche dell’eroe western Costner, che non a caso all’inizio del film si immola in una sorta di suicidio rituale), la sostanza di un sogno e di un’alternativa utopia comunitaria e familiare da vagliare in tutta la sua fragilità. Così, non è un caso che in Verso il sole (1996), l’ultimo film di Cimino, il cineasta contemporaneo che più d’ogni altro ha vissuto il fallimento della prospettiva classica, la retrodatazione del sentimento del sublime americano si configuri come scacco alla possibilità stessa di una rappresentazione, in favore di uno spirito trascendente lanciato semmai verso i territori dell’invisibile. Come ha scritto Giona A. Nazzaro in un suo saggio sul film, il tema della fuga e dell’unione archetipica tra il bianco e l’indiano, non passa attraverso un movimento orizzontale, ma verticale, teso a fondare quella comunità perduta, edenica, in un altrove che non può essere fisico43. Se non fosse, però, che poi questa trascendenza si incarna, alla fine di questo film, nel volo di un rapace ricostruito al computer, effetto che conferisce anche alla metafisica ciminiana una sostanzialità disneyana. La “pastorale” americana non sembra infatti potersi sottrarre, nell’orizzonte contemporaneo, dalla sua deriva sintetica, e anche senza arrivare alla ridicola rifondazione familiare in un paesaggio cibernetico messa in atto da Zemeckis nel suo Contact (1997), resta il fatto che è soltanto nella dimensione dell’artificiale, della tecnica, che – parafrasando i termini della macchina e del giardino descritti da Leo Marx – l’utopia della “famiglia” può fondarsi nella sua unica prospettiva possibile: quella in cui solo la “macchina”, alla fine, può ancora essere il “giardino”.
Orientalismi: o che fine hanno fatto gli eroi Una macchina come un giardino, sì. A questo proposito, viene logico ricordare che la continuità tra artificiale e naturale, come già detto, è fenomeno sempre presente nello svolgersi del sublime americano, della fondazione stessa del Nuovo Mondo, a ben vedere già in quell’ur-racconto sulla scoperta dell’America che è La tempesta di Shakespeare44. La “magia” di Prospero è racchiusa in seno a ogni definizione dell’America, solo che una cosa è parlare di una macchina nel giardino, un’altra è invece constatare il dominio assoluto di una certa modalità dell’artificiale che non solo rischia di invalidare la contraddizione tra natura e cultura alla base del carattere americano, ma permette quell’affermazione psicotica di un mondo sull’abisso, senza fondo, al quale è stato sottratto il suo “fuori campo”, che non è unicamente parte integrante dell’elaborazione spaziale del cinema fantastico (si pensi a un film come Dark City, 1998, di Alex Proyas, a Minority Report, 2002, di Spielberg, o soprattutto a The Abyss di James Cameron), ma il corrispettivo più autentico della sostanza della società dello spettacolo (evidenziata, oltre che dal già citato The Truman Show, da Ed tv, 1999, di Ron Howard e dal più convincente Da morire, 1995, di Gus Van Sant). Ma a questo punto entriamo direttamente all’interno della questione della fine dell’analogico, del dominio del virtuale, e dell’affermarsi della spettacolarizzazione del mondo in una versione ormai sempre più “digitale”. Cosa è cambiato, in effetti, con il perfezionamento delle tecniche della rappresentazione numerica, con il loro ingresso pervasivo nel grembo del racconto hollywoodiano? Bene: di fronte al coro generalizzato di chi ogni giorno si riempie la bocca per stigmatizzare o viceversa esaltare la cosiddetta “rivoluzione digitale”, viene solo voglia di dire, finalmente!, che in realtà non è cambiato proprio un bel niente. È assurdo equiparare la svolta (solo episodicamente) “numerica” dei
film contemporanei con lo shock generato dall’introduzione del sonoro e del colore, almeno fino a quando non si dimostrerà che il digitale è riuscito a concretizzarsi in un autentico “linguaggio”, e quindi a riscrivere le regole del racconto e della rappresentazione – e non necessariamente in modo totale, dato che, si sa, ogni rivoluzione tecnologica si attua come compromesso con le forme del passato. Fino ad allora, il cinema rimarrà quello che è, e cioè l’apoteosi di un’“epoca dell’immagine analogica”, che ha avuto virtualmente inizio nel secolo XIX. Detto questo, non si può d’altra parte neanche nascondere la testa sotto la sabbia. Bisognerà però allora chiedersi in quale modo il digitale può porsi come ulteriore occasione di riflessione sullo statuto della realtà in cui viviamo. Da un lato come sintomo, per altro già rivelato nelle pagine precedenti, di una “clonazione” costitutiva del reale che sembra realizzare la famosa profezia delle streghe a Macbeth («non dovrai temere nessuno generato da ventre di donna»…)45. Dall’altro, forse ancora di più, come ulteriore terreno per rilevare i caratteri di una mutazione in verità contraddittoria e paradossale: il fatto, per esempio, che anche nello spirito più radicale della trascendenza tecnologica, il problema dell’immanenza rimane centrale, e il senso di gravità e di presenza nel tempo, nel corpo e nello spazio continua a porsi in tutta la sua necessità.46 Ma di che corpo, di che spazio stiamo parlando? Qui non è possibile dilungarsi oltre anche perché, in questo senso, conviene davvero tornare alle pagine precedenti di La Polla per avere un’idea convincente dei caratteri del fenomeno. Ci sia concesso però almeno di delineare lo sviluppo delle tematiche del corpo e dello spazio negli anni Novanta all’interno di una tendenza più globale. Vale a dire: ciò che ormai sembra evidente, è che per tanti versi si è compiuta la profezia recitata a suo tempo da Marshall McLuhan: quella che postula la tecnologia come estensione naturale della nostra fisicità e l’età dell’informazione come era in cui è la stessa informazione a diventare “ambientale”, nella sospensione della tensione tra esterno e interno, osservatore e osservato; la profezia, in altri temini, che registra la crisi delle strutture dell’autoidentità nel progressivo passaggio dal mondo occidentale a quello orientale47. In uno “spazio” della rappresentazione che si è fatto sempre più grafico, e con un “corpo” che ci restituisce gesti sempre più coreo-grafici, è infatti l’affermarsi di un senso fortemente formalizzato in chiave “orientale” a porsi in essere. E il dato non è soltanto teorico, come si sa. Se, solo per fare un esempio banale, la Hollywood degli anni Trenta e Quaranta aveva saputo rinnovarsi, nei contenuti e nelle forme, accogliendo nei suoi Studios gli esiliati del cinema europeo, ora, nel cinema a cavallo tra i due millenni, si assiste al transito in terra americana di una nutrita schiera di cineasti provenienti dall’Oriente. Ecco quindi sbarcare a Hollywood i vari Ang Lee, e i transfughi del cinema hongkonghese degli anni Ottanta, Ringo Lam, Tsui Hark e soprattutto John Woo, l’unico che in verità è riuscito a fare scuola con i suoi Senza tregua (1993), Nome in codice: Broken Arrow (1996) e Face Off (1997) (volendo è possibile registrare anche una prova “giapponese”, quella del Takeshi Kitano di Brother, 2000; ma si tratta di un caso anomalo nel suo odio dichiarato verso la società americana, e meriterebbe una trattazione a parte). Tutta gente che si mostra d’improvviso al pubblico occidentale solo per farci capire, in fondo, che il Tarantino di Le iene (1992) non aveva inventato niente, perché, anche senza l’arrivo di questi registi, il cinema americano aveva già cercato di abbeverarsi verso Est, per ritrovare le forme più consustanziali alla sua dimensione contemporanea e introiettare le figure di una violenza che sembrano valere più per le loro geometrie, per la bellezza quasi fine a se stessa delle linee tracciate dalla combinazione dei proiettili nello spazio. Ora, il fatto che questa presenza proveniente dall’Est estremo si riveli soprattutto nei territori di genere dell’action movie contemporaneo, non sminuisce affatto l’importanza del fenomeno, anzi: perché se è proprio sulla nozione di un “agire” e di un fare che si registrano le conseguenze più importanti, la deriva orientale può misurare il suo peso sul modello stesso del personaggio hollywoodiano, se non sullo statuto antropologico del “carattere” statunitense. È l’idea stessa dell’individualismo americano a essere interrogata, proprio la capacità dell’individuo di imporre la sua “azione” sul mondo con una finalità possibile. Forse, infatti, è eccessivo affermare che non è più tempo d’eroi, ma di sicuro questo non è più il tempo per un certo tipo d’eroe. Non più gli “atti di forza” compiuti dall’eroe ipermuscolato degli anni Ottanta, in quest’orizzonte; ma neppure l’affermarsi dell’impatto di una carne fatta di metallo, come nei cyborgs interpretati a suo tempo da Arnold Schwarzenegger. Il terminator cameroniano letteralmente si liquefà nella seconda puntata della saga, Terminator 2 - Il giorno del giudizio (1991). O forse, ancor più, l’eroe si fa aria, o della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e si ricompone nelle vesti di un Ariel scespiriano (o, di nuovo, nell’evidenza demonica di un Peter Pan) che esercita la sua forza esclusivamente nell’agilità, nella forma di un balletto etereo – accelerato, o rallentato nel ralenti, in ogni caso evidenziato nella sua coreografia costitutiva – che trova in se stesso il suo valore immediato, come testimonia Neo, l’eletto di Matrix (1999) dei fratelli Wachowski, certo uno dei film che più ha sfruttato a suo vantaggio gli stilemi di un’estetica orientale. Proprio Keanu Reeves, in effetti, si è imposto come attore modello di questa nuova incarnazione dell’identità eroica. È lui, in fondo, il protagonista di film come Point Break (1991) della Bigelow, o di
Speed (1994) di Jan De Bont, pellicola prodotta da Joel Silver, già artefice della saga di Die Hard (19881995), e massimo teorico di un cinema adrenalinico tutto fondato sulla vertigine del movimento e della corsa inarrestabile. In quest’orgia dromotica e cinetica, Keanu Reeves è senz’altro il personaggio tipo che, come nel film surfistico della Bigelow, si lascia cavalcare dall’onda, senza imporsi sugli eventi ma a ben vedere lasciandosi trasportare da questi. È un’altra delle tante forme possibili di “perdita di sé”, che non si realizza solo in una femminizzazione dell’eroe (perché – corollario –, ci insegna il cinema della Bigelow, nell’orizzonte contemporaneo sono solo le donne, o forse la loro versione androginica, a poter mettere “in moto” il mondo: si pensi a film come Blue Steel, 1990), o allo stesso Strange Days), ma anche nell’evidenza di un’assenza d’identità che rende il prototipo del personaggio di Reeves una corporalità vuota, tutta di superficie e priva di “profondità”, in ogni senso “stupida”48. Ma siamo pur sempre in Occidente, non possiamo dimenticarlo. Per quanto sia possibile registrare anche la presenza di pellicole prodotte a Hollywood in tutto e per tutto “orientali” (è il caso di La tigre e il dragone, 2000, di Ang Lee, tra l’altro un film davvero ineccepibile dal punto di vista strettamente formale), è come sempre difficile postulare un’assoluta assenza di “gravità”, e mettere in atto completamente le strategie seduttive, di totale sospensione del predominio della soggettività che il cinema (e la cultura) dell’estremo oriente ci sa donare (ne è prova la palese mistificazione dello specifico orientale in L’ultimo samurai, 2003, di Edward Zwick). L’orientalismo va meglio inteso come un altro dei numerosi ibridi che ci propone il cinema americano, nel quale, ancora una volta, non possono del tutto tacere i rituali identitari che da sempre lo costituiscono. Non è un caso, per esempio, che dai tempi del risibile Tron ogni tentativo di tradurre sullo schermo l’estetica in tutto e per tutto immateriale del cyberpunk si sia, per lo più, dimostrato un fallimento estetico e commerciale (si pensi al canadese Johnny Mnemonic, 1995, di Robert Longo, o a Il tagliaerbe, 1992, di Brett Leonard). E a parte questo, non sorprende neppure che l’integrazione della leggerezza di uno stile grafico per largo verso desunto dall’oriente si accompagni a forme di “pesantezza”, che cercano di ricondurre i personaggi, gli spazi sul solco di una consistenza che sembravano avere irrimediabilmente perduto. Si pensi al caso di un cineasta oggetto di un culto (forse troppo) appassionato, come Michael Mann. Il suo cinema, scrive Nazzaro, riprende sì dalla televisione (Mann fu il principale artefice della serie “Miami Vice”) tutto il glamour di un filone stylish che deve molto sia all’estetica pubblicitaria che a quella bertolucciana, e con esso la sensualità degli oggetti patinati, il senso artficiale e superficiale di un mondo fotografato da Dante Spinotti quasi fosse racchiuso in un acquario; ma in fondo solo come punto di partenza per ritornare a un cinema d’azione in cui i valori costitutivi dell’umano possano ancora compiersi, nell’utopia di superfici che «ritornino finalmente a raccontare gli uomini» e nelle quali si possa recuperare una prospettiva mitologica anche nella fine d’ogni mitologia49. C’è però qualcosa di mortuario e di funereo anche in questa specie di canto del cigno della metafisica dell’eroe. Film come l’ormai celeberrimo Heat (1995) si mostrano piuttosto, è stato scritto, nelle vesti di una liturgia del torpore maschile50, del funerale di un elemento in realtà intrappolato dalla freddezza degli interni domestici contemporanei (la casa “postmoderna” maledetta da Pacino in questo stesso film), e capace di rifugiarsi nell’utopia di un’amicizia in realtà più omosessuale che virile solo attraverso il bagno di sangue, l’esplodere di una violenza parossistica comunque inserita nelle geometrie del combattimento di stampo orientale (cosa che del resto accade, in termini molto più risibili, in un film come Fight Club, 1999, di David Fincher). Siamo, in effetti, di fronte a un requiem del maschio americano non dissimile da quelli, in verità ben più oscuri e senza possibilità di grazia, messi in scena da Abel Ferrara, in pellicole come King of New York (1990), New Rose Hotel (1998), Blackout (1997) e soprattutto Fratelli (1996). Sono questi, comunque, casi in cui si evidenzia un substrato “morale” che manca a tanto cinema contemporaneo, la scelta, almeno, di rinnovare la sensazione del “dolore” e di restituire alle dinamiche della violenza il loro valore euristico e di scandalo. Certo, si tratta d’esempi rari, ma ciò non toglie che le “poetiche della violenza” ancora oggi possano sussistere come il corrispettivo dell’ultimo, estremo e paradossale persistere della difesa dell’umanesimo, anche se questo permane solo come residuo fantasmatico. Dinamica del resto evidente anche, se non soprattutto, in grandi cineasti come Scorsese e Paul Schrader: nel loro umanesimo visto come itinerario cristologico e via crucis (L’ultima tentazione di Cristo, 1988, ovviamente); in un rituale della violenza che si può nascondere, in tutta la sua verità, anche all’interno della favola (Cape Fear, 1991), della comunità familiare (Quei bravi ragazzi, Casinò, 1995) e della fondazione stessa della società americana (Gangs of New York, 2002); o in un’eticità quasi bressoniana (Lo spacciatore, 1992, uno dei film più belli di Schrader). Ciò detto, rimane però da chiedersi se sia poi così necessario impegnarsi a difendere con i denti gli ultimi resti di quella cosa che un tempo si chiamava uomo. O per meglio dire: se vale la pena non accettare l’evidenza che al pari di quella della realtà, anche l’idea di uomo non è più la stessa e che di conseguenza il rapporto tra i due enti non può che essere ripensato. C’è qualcosa di estremamente nobile nel culto funereo che attraversa certo cinema. Ma perché negare a priori al cinema post-umano
qualsiasi progettualità? Forse hanno ragione studiosi come Scott Bukatman51 a riconoscere nelle dinamiche del movimento inarrestabile messo in atto dalla deriva tecnologica della realtà e dell’uomo, non solo una possibile occasione per svincolarsi dalle costrizioni della società della tecnica, ma anche il senso di spaesamento specifco di un’identità da sempre sincretica come quella americana, costituita proprio da un’incessante border crossing. E poi, diciamocelo con franchezza: fa piacere constatare che nel cinema americano attuale esiste qualcuno (i fratelli Coen in Il grande Lebowski) che considera il nichilismo semplicemente, con scherno, come la filosofia di un gruppo di cretini disposti a tagliarsi un dito del piede. Il cinema dei due fratelli cineasti ci indica, infatti, che la stupidità costitutiva di tanti personaggi del cinema contemporaneo, l’anestetizzazione nel quale siamo immersi, può lasciare spazio a un’umanità “ordinaria” per la quale la “realtà” di un immaginario degradato non è necessariamente il peggiore dei mondi possibili, e attraverso cui tutte le relazioni più stereotipate possono finalmente saltare per aria, come i birilli di un bowling (c’è qualcosa di liberatorio nella mancanza di destrezza dei personaggi coeniani). Di qui, la potenza della perplessità di uno sguardo ontologico, non epistemologico, riassunto nella ricchezza del paesaggio piatto e gelato di Fargo (1996), complessità muta che ci invita a vagliare, di nuovo, la seguente ipotesi: che solo con una certa idiozia si possa cogliere un reale spogliato dalle mediazioni menzognere del pensiero52; o che, forse, nella fine di una corretta “visione del mondo”, nell’u scita del mondo dalla sua rappresentazione si cela l’occasione di «un mondo che può forse diventare ricco di se stesso, senza più alcuna ragione, né sacra, né cumulativa»53.
Hollywood endings: la Storia, l’Apocalisse… Così facendo, si ritorna però al quesito che in fondo ci ponevamo già dall’inizio. Può ancora sussistere una storia del cinema hollywoodiano in ciò che sembrerebbe mostrarsi come l’evidenza della sua fine? Può ancora esistere un fine in una prospettiva apparentemente senza origine e senza fine, nella quale si decreterebbe la fine del cinema e, con essa, la fine di quel “mondo” che aveva posto in essere? Per rispondere al dilemma, poniamoci, in questa storia terminale di Hollywood, il problema della rappresentazione della Storia, quella con la S maiuscola. Come ha ampiamente dimostrato La Polla in queste pagine, Hollywood, seppure sempre con “ritardo”, in via indiretta e senz’altro reticente, non si è mai sottratta dall’affrontare i traumi della storia americana, dall’articolarli in una rappresentazione possibile. Ora, però, nella dimensione temporale coniugata in un «futuro anteriore»54, nella logica che salda la fine con l’inizio, con l’utopia di un luogo senza tempo spurgato da ogni colpa e vissuto nell’eccitazione del gioco, è l’intera capacità hollywoodiana di riflettere sul passato e il presente a essere messa in discussione. È, per esempio, il modo con cui il cinema americano ha affrontato il trauma del Vietnam a dimostrarcelo. Questa guerra, questa sconfitta definitiva del sogno americano, è stata, come si sa, l’occasione che ha dato origine a un ricco filone, concretizzatosi, al di là del capolavoro Apocalypse Now, in film che sono una risposta tardiva all’evento storico in questione: i vari Platoon (1986) di Stone, lo stesso Full Metal Jacket (1987) di Kubrick. Tutte pellicole che, a dire il vero, dimostrano innazitutto la loro difficoltà a strutturare le aporie della storia in una maniera terapeutica, rivelando, semmai, «un esorcismo senza promessa di redenzione»55, capace di dare sfogo a una forma di racconto indirizzata verso i territori dell’ossessione e del trauma. La strategia, già nella saga di Rambo, è quella di trasformare i colpevoli in vittime, di inserire la Storia reale in un rituale melodrammatico dell’innocenza in cui a essere in primo piano (ancora una volta in una “fantasia” tutta “infantile”) è la sofferenza, quasi patetica, dell’eroe56. È infatti la debolezza della “falsa” coscienza che dovrebbe farsi interprete della Storia a rivelarsi, il declino di una soggettività che può comprendere l’enigma di una guerra solo nell’evanescenza delle sue articolazioni, come nel caso dell’Io corale e decostruito in una moltitudine di punti di vista fantasmatici che racconta il passato in La sottile linea rossa. In questo senso, il cinema americano degli ultimi anni vaglia con particolare insistenza l’inattendibilità dei suoi “testimoni”, dei possibili detentori della “verità” d’ogni racconto. Certo, la Storia, specie quella degli anni Settanta, è una delle ossessioni primarie della Hollywood contemporanea, reificata in un rinnovarsi della moda del biopic, in pellicole quali Nixon-Gli intrighi del potere (1995) di Stone, Larry Flint (1996) di Forman o Malcom X (1992) di Spike Lee. Ma ciò non toglie, poi, che questa stessa ossessione si realizzi nella spesso dichiarata “falsità” dell’immagine che ne consegue, nella smentita di un passato strutturato come immaginario in L’esercito delle dodici scimmie, nel falso flashback di un film come I soliti sospetti (1995) di Brian Singer, o nel compromesso bugiardo e incestuoso della ricostruzione storiografica in Stella solitaria (1996) di John Sayles. Come dimostra uno dei film più discussi in tal senso, JFK (1991) di Stone, la Storia, specie quella che si costituisce come enigma costituzionale, può solo rivelarsi nella sua sostanza al tempo stesso reale e fantastica, in un universo multimediale e caleidoscopico nel quale una miriade di discorsi, tutti credibili ma anche inattendibili, si fronteggiano tra loro senza mai consolidarsi in una “realtà” certa. Al punto che la deriva “fantastica” sulla Storia può mostrarsi in un’ottica per alcuni “immorale”, come nel tocco di colore (la veste della bambina
che poi ritroveremo su un cumulo di cadaveri) che Spielberg inserisce nell’orrore in bianco e nero dell’olocausto, in Schindler’s List (1993). Ma si tratta sul serio di una prospettiva solo falsa, immorale? La verità è che, da sempre, è un’operazione illeggittima e inutile quella di cercare di quantificare il gradiente di “realtà” andato perduto nelle trattazioni che Hollywood, non da oggi, ci ha fornito della nostra Storia. Sempre, nel caso del cinema americano, si è trattato di una “fantastoria”57, che non ha nulla a che vedere con quella messa in moto dai testimoni oculari, dagli studiosi, o dagli storici di mestiere. Per risalire al “documento” che squadri davvero il nostro passato, bisogna rivolgersi ad altri ambiti. Semmai, questo sì, Hollywood ci può concedere la possibilità di riflette sui “modelli” con cui ci avviciniamo alla Storia, le strutture di conoscenza che la storiografia ci fornisce, modelli che, ci insegna l’epistemologia più recente”, si costituiscono sempre secondo una natura prima di tutto “narrativa”. Una pratica che, tuttavia, è bene ribadirlo, non ha proprio nulla a che vedere con una presunta “fine della storia”, o con l’incapacità totale di potere in qualche modo parlare di questa medesima Storia. Piuttosto, la possibilità che Hollywood possiede di farsi portavoce delle dinamiche della Storia, è ancora una volta contraddittoria e paradossale. Il fatto che la “crisi”, nel nostro mondo e anche nel cinema (in generale, in tutte le istanze narrative di quest’ultimo secolo) ha preso il posto della Fine nell’evidenza di storie senza fine58, non impedisce di constatare che ci sono altri rapporti tra la finzione e la realtà che non siano quelli della consolazione e della menzogna59. Un film come Forrest Gump lo starebbe a dimostrare. Quest’opera a ben vedere di grandissima complessità, anche nella sua pulsione fantastica e mistificatoria – evidente nella correzione “digitale” dei documenti “reali” –, e soprattutto nel suo obbligarci a comprendere la storia attraverso il punto di vista di un deficiente, non solo ci restituisce pienamente il carattere molteplice e pluridiscorsivo della contemporanea identità americana, ma è capace di “farsi Storia”, mostrandoci l’ambivalenza costitutiva della nostra percezione del passato, l’ontologia incerta di una prospettiva storiografica inevitabilmente strutturata dal linguaggio tecnologico. Pellicole come quella di Zemeckis attestano così non la sparizione, ma la “persistenza dello storico”. Come osserva Vivian Sobchack, la figura di Forrest si pone infatti, al tempo stesso, come «sintomo» e come «commento» di un certo orizzonte storico e culturale. La storia appare cioè da un lato come “prodotto” – esattamente il risultato di una messa in scena spettacolare, legata al desiderio del “consumatore” e alla logica del mercato; dall’altra si mostra invece come “processo”, come modello di una rappresentazione della storia nel suo farsi, fatto che permette non solo d’essere spettatori passivi ma anche di operare una critica possibile.60 È bene allora mettersi l’animo in pace, e accettare la possibilità che il cinema americano sappia anche pensare la Storia nei termini di un’immagine dialettica, di freccia entropica segnata dall’indeterminazione e dalla costellazione dei significati, di conseguenza non più lanciata verso un’ipotesi di compimento. Ma come? – si dirà –, parlare di entropia nel cinema americano può solo voler dire riferirsi a quella deriva dello spirito apocalittico (anche questo carattere fondante della civiltà americana) messa in atto dai film del nostro tempo, esemplificazione definitiva di un’Apocalisse spurgata da qualsiasi finalità escatologica. L’ossessione della fine del mondo – presente nei vari Armageddon (1998) di Micheal Bay, Fight Club, Strange Days, o in Seven di Fincher – non starebbe altro che a significare l’evidenza di un disordine esperibile solo come gioco, sogno, fantasia infantile, più o meno perturbante, ecc., ecc…. Sarà anche vero, ma a questo punto la cosa non ha più nemmeno importanza. Perché una certa Apocalisse – o se volete un trauma non più rimuovibile da parte della Storia – è già stata, lo sappiamo bene, fuori dalle pareti delle sale cinematografiche. L’undici settembre è l’abbaglio che mette in ridicolo qualsiasi spettacolarizzazione possibile dell’Apocalisse, o al contrario (e ammetterlo non ci dà certo grande conforto) l’ennesima prova di uno spettacolo che si è fatto realtà, in un evento storico che, non a caso, si può descrivere solo utilizzando i parametri dell’immagine cinematografica, facendo appello all’archivio di un immaginario che, però, non potrà più essere quello di prima. Come reagirà Hollywood al punto di svolta di tutta la società globale? Come potrà questo sogno, questa cupola delle delizie reggere alla realtà, troppo cinematografica, del nostro peggiore incubo? Reggerà, reagirà, statene certi. Questa storia di sogno e realtà, questo racconto sempre uguale e sempre diverso, quest’ipotesi dell’immaginario che ha segnato la nostra personale storia di uomini e cinefili, è una storia non ancora finita, che ci piaccia o meno… 1 Roger Caillois, L’incertezza dei sogni, Feltrinelli, Milano, 1989. 2 Wheeler Winston Dixon, Twenty-five Reasons Why It’s All Over, in Jon Lewis, (a cura di) The End of Cinema as We Know It. American Film in the Nineties, New York University Press, New York, 2001, pp. 356-66. Lo spazio di quest’articolo non ci permette di rendere noto per intero il cahier des doleances di Dixon. Per ovvi motivi di spazio, ci limitiamo a elencare solo alcune delle “ragioni” di questa presunta fine di Hollywood: i film costano troppo e sono troppo legati al merchandising; i film sono indirizzati unicamente a un pubblico giovanile; c’è un abuso del digitale e dell’effetto speciale; un abuso dell’estetica da Mtv; e soprattutto, su tutto questo, aleggia “la maligna influenza di Spielberg e Lucas… 3 Si veda in questo senso, tra gli altri, il saggio di Thomas Schatz, “The New Hollywood”, in Jim Collins, Hilary Radner e Preacher Collins (a cura di), Film Theory Goes to the Movies, Routledge, New York, 1993, pp. 8-36. Cfr. anche Justin Wyatt, High Concept: Movies and Marketing in Hollywood, University of Texas Press, Austin, 1994.
4 Si veda, a questo proposito, Vanni Codeluppi, Il potere della marca, Bollati Boringhieri, Torino, 2001, pp. 17-8. 5 Richard Maltby, “Introduction”, in Melvyn Stokes e Richard Maltby, Identifying Hollywood’s Audiences. Cultural Identity and the Movies, British Film Institute, London, 1999, p. 10. 6 Sull’affermarsi, in senso più generale, della logica dello sguardo del “consumatore” nella cultura americana di fine secolo, sono d’obbligo le fondamentali osservazioni di David E. Nye in American Technological Sublime, Mit Press, Cambridge & London, 1994, pp. 290-96. 7 Il riferimento è a una scena del primo Jurassic Park (1992), in cui due dei protagonisti si trovano a discutere della differenza tra illusione e realtà sui tavoli del ristorante del parco, mentre intanto la macchina da presa indaga gli scaffali del vicino gift shop; scena stigmatizzata da Thomas Elsaesser nel suo “The Blockbuster. Everything Connects, but Not Everything Goes”, in Jon Lewis (a cura di), op. cit., p. 11. 8 Thomas Elsaesser, “Specularity and Engulfment: Francis Ford Coppola and Bram Stoker’s Dracula”, in Steve Neale e Murray Smith (a cura di), Contemporary Hollywood Cinema, Routledge, London, 1998, p. 196. 9 Cfr., ibidem. Ma si veda anche Laurent Jullier, L’ècran post-moderne. Un cinéma de l’allusion et du feu d’artifice, L’Harmattan, Paris, 1997. Jullier parla non a caso di “film concerto”, per riferirisi a un evento cinematografico che non solo cerca l’effetto di una performance al presente, “dal vivo”, ma più in generale vede una predominanza della dimensione sonora su quella strettamente visiva (p. 38). 10 Laurent Jullier, op. cit., pp. 63-71. 11 Jean Baudrillard, La trasparenza del male, Sugarco, Milano, 1991, in particolare pp. 125-34. 12 Charlie Keil, “«American» Cinema in the Nineties and Beyond. Whose Country’s Filmmaking Is It Anyway?”, in Jon Lewis (a cura di), op. cit., pp. 53-9. 13 Timothy Corrigan, A Cinema Without Walls. Movies and Culture after Vietnam, Rutgers University Press, New Brunswick, 1991, p. 32. 14 Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano, 2000, p. 3. 15 Mario Perniola, L’estetica del Novecento, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 154. 16 Leo Marx, La macchina nel giardino, Edizioni del lavoro, Roma, 1987. 17 David E. Nye, op. cit. 18 David E. Nye, Narratives and Spaces. Technology and the Costruction of American Culture, Columbia University Press, New York, 1997, pp. 2-3. 19 Cfr., Tom Gunning, “The Cinema of Attractions: Early Film, Its Spectator and the Avant Garde”, in Thomas Elsaesser (a cura di), Early Cinema: Space, Frame, Narrative, British Film Institute, London, 1990, pp 52-62. 20 Linda Williams, “Melodrama Revised”, in Nick Browne (a cura di), Refiguring American Film Genres, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1998, pp. 49-9. 21 Robert B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, Princeton University Press, Princeton, 1985. 22 Jean Luc Nancy, La creazione del mondo. O della mondializzazione, Einaudi, Torino, 2003 p. 6. 23 Cfr. Marc Dery, The Pyrotechnic Insanitarium. American Culture on the Brink, Grove Press, New York, 1999. 24 Franco La Polla, “Postfazione” (1987), in Il nuovo cinema americano, Lindau, Torino, 1996, p. 237. 25 Vivian Sobchack, “Introduction”, in Vivian Sobchack (a cura di), Meta-morphing. Visual Transformation and the Culture of Quick-Change, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2000, p. XII. 26 Si vedano, in quest’ottica, gli studi di Scott Bukatman, in particolare il recente Matters of Gravity. Special Effects and Supermen in the 20th Century, Duke University Press, Durham e London, 2003. 27 Vanni Codeluppi, op. cit., p. 34. Ma si veda anche John Naisbitt, Il paradosso globale, Franco Angeli, Milano, 1996. 28 Marc Dery, op. cit., p. 18. 29 Robert Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, Milano, 1994, pp. 23-4. 30 Leslie Fiedler, La tirannia del normale, Donzelli, Roma, 1998. 31 Di questo ho già discusso in “Inside and Outside of History(ies)”, saggio a cui mi permetto di rimandare, contenuto in Franco La Polla (a cura di), The Body Vanishes. La crisi dell’identità e del soggetto nel cinema americano contemporaneo, Lindau, Torino, 2000, in particolare pp. 66-70. 32 Thomas Elsaesser, Specularity and Engulfment: Francis Ford Coppola and Bram Stoker’s Dracula, cit. 33 Franco La Polla, Dimenticare Dracula, ovvero: la dissolvenza delle attrazioni, «Cineforum», n. 321, gennaio/febbraio 1993, p. 12. 34 Tom Shone, What Makes Tarantino Tick, «Premiere», novembre 1994, p. 53, citato in Emanuela Martini, Junk Movie, «Cineforum», n. 339, dicembre 1994, p. 60 (il corsivo è nostro). 35 Dana Polan, Pulp Fiction, British Film Institute, London, 1999, p. 70. 36 Guido Fink, Due, tre, molte apocalissi, «Cinema & Cinema», n. 24, luglio-settembre 1980, pp. 62-73. 37 Vivian Sobhack, “At the Still Point of the Turning World”, in Vivian Sobhack (a cura di), op. cit., p. 136. 38 Marc Dery, op. cit., pp. 109-11. 39 Adriano Piccardi, Painting in action: il cinema pop di Tim Burton, «Cineforum», n. 340, dicembre 1994, p. 58. 40 Franco La Polla, “Nuova «New New Hollywood» o «Next Generation»?”, in Franco La Polla (a cura di), Poetiche del cinema hollywoodiano contemporaneo, Lindau, Torino, 1997, p. 12. 41 Frédéric Sabouraud, “Di padre in figlio”, in Luciano Barisone e Giulia D’Agnolo Vallan (a cura di), Clint Eastwood, Editrice Il Castoro, Milano, 2000, p. 224. 42 Leslie Fiedler, Il ritorno del pellerossa, Rizzoli, Milano, 1972, p. 24. 43 Giona A. Nazzaro, I cancelli del cielo, «Cineforum», n. 359, novembre 1996, p. 9. 44 Leo Marx, op. cit. 45 L’osservazione, come sempre intelligente, è di Gualtiero De Marinis, in Generato non creato, «Cinefomm», n. 354, maggio 1996, p. 4. 46 Tomàs Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 57. 47 Marshall McLuhan, “I vestiti nuovi dell’imperatore”, in Marshall McLuhan, Il punto di fuga, Sugarco, Milano, 1985, pp. 268-72. 48 È quanto osserva R. L. Rutsky in “Being Keanu”, in Jon Lewis (a cura di), The End of Cinema as We Know It, cit., p. 190. 49 Giona A. Nazzaro, Michael Mann: l’ultimo dei classici, «Cineforum”, n. 351, gennaio/febbraio 1996, p. 61-3. Ma si veda anche Piermaria Bocchi, Michael Mann, Editrice Il Castoro, Milano, 2002. 50 Christopher Sharrett, “End of Story”, in Jon Lewis (a cura di), cit., p. 322. 51 Cfr., Scott Bukatman, op. cit.
52 Di «idozia del realismo moderno» discute Mario Perniola in L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino, 2000, pp. 6-13. 53 Jean Luc Nancy, op. cit., p. 31. 54 Cfr., Thomas Elsaesser, Specularity and Engulfment: Francis Ford Coppola and Bram Stoker’s Dracula, cit. 55 Thomas Elsaesser, “Subject Positions, Speaking Positions”, in Vivian Sobchack (a cura di), The Persistence of History, Routledge, New York, 1996, pp. 17-8. 56 Linda Williams, Melodrama Revised, cit. pp. 61-70. 57 Franco La Polla, “Storia e fantastoria: la diversità americana”, in Franco La Polla, L’età dell’occhio, Lindau, Torino, p. 162. 58 Frank Kermode, Il senso della fine, Rizzoli, Milano, 1972. 59 Paul Ricoeur, Tempo e racconto. La configurazione nel racconto di finzione, Jaca Book, Milano, 1987, p. 52. 60 Vivian Sobchack, “Introduction”, in The Persistence of History, cit., p. 2.
Ombre sugli anni Trenta: James Cagney e Humphrey Bogart in I ruggenti anni Venti.
Il gangster e la sua aspirazione sociale: Edward G. Robinson in Piccolo Cesare.
Occhiate mute: Paul Muni in Scarface.
Imparare le buone maniere: Jean Harlow e James Cagney in Nemico pubblico.
Il detective e i suoi ambigui sentimenti sociali: Humphrey Bogart e Lauren Bacall in Il grande sonno.
La donna come oggetto di desiderio e concentrato di vizio: Marlene Dietrich in Angelo.
Vite poco riposanti: Mae West.
Hollywood e la realtà: Clark Gable e Claudette Colbert in Accadde una notte.
La donna come oggetto gastronomico: Viva le donne!.
L’ordine: Ginger Rogers e Fred Astaire in Voglio danzare con te.
(False) liti in famiglia: i fratelli Marx in Animal Crackers.
Il criminale fa la legge e la religione: James Cagney con Pat O’Brien in Angeli con la faccia sporca.
Bela Lugosi nella parte di Dracula.
Boris Karloff nella parte di Frankenstein.
Il New Deal: Il sorriso di Henry Fonda in Alba di gloria.
Il New Deal: il gigantismo di Orson Welles in Quarto potere (in alto) e la statura scientifica di Edward G. Robinson in Un uomo contro la morte (in basso).
Appuntamento al Rick’s: Ingrid Bergman e Humphrey Bogart in Casablanca.
Cambia anche il musical: Gene Kelly, Rita Hayworth in Fascino di King Vidor.
La metafora di chi non comprende che le cose stanno cambiando: Clark Gable e Vivien Leigh in Via col vento.
La donna irraggiungibile degli anni Quaranta: Glenn Ford e Rita Hayworth in Gilda.
Vivere nel peccato: George Sanders e Hedy Lamarr in Sansone e Dalila.
E morire in santità: Robert Taylor e Deborah Kerr in Quo vadis?.
Gli alieni sono dovunque: Kenneth Tobey e il suo gruppo in La “cosa” da un altro mondo.
Faith Domergue e bellimbusti cosmici in Cittadino dello spazio.
Tentazioni stilizzate: Gene Kelly in Cantando sotto la pioggia.
Non c’è un posto come casa propria: Judy Garland in Incontriamoci a St. Louis.
Metafore animali e spettacolo musicale: Follie di Ziegfeld.
Eroi del loro tempo: Marlon Brando in Un tram chiamato desiderio e (in basso) James Dean con Natalie Wood in Gioventù bruciata.
I turbamenti del casalingo: Marilyn Monroe e Tom Ewell in Quando la moglie è in vacanza.
Amori di una casalinga: Doris Day in Attenti alle vedove.
Recitare se stessa: Marilyn Monroe con Jack Lemmon e Tony Curtis in A qualcuno piace caldo.
Il cowboy diventa vecchio: John Wayne in Sentieri selvaggi.
Il silenzio come sintomo: Robert Stack, Dorothy Malone e Rock Hudson in Il trapezio della vita.
Una psicoanalista per baby-sitter: Gregory Peck e Ingrid Bergman in Io ti salverò.
I pericoli di una natura storicizzata: Cary Grant e Eva Marie Saint in Intrigo internazionale.
Crisi del soggetto: Jerry Lewis dirige davanti a una platea vuota in Ragazzo tuttofare.
Ritorno alla natura del cinema: scenografia baracconesca in La maschera della Morte Rossa.
Tramonto del western: Randolph Scott e bottiglia in un tipico western decadente di Boetticher.
Lee Marvin, James Stewart e John Wayne, le tre accezioni della frontiera in L’uomo che uccise Liberty Valance.
Un film epitaffio: Marilyn Monroe e Clark Gable in Gli spostati.
Cowboy degli anni Sessanta: Peter Fonda e Dennis Hopper in Easy Rider.
A che cosa serve un titolo di studio: Dustin Hoffman fugge con Katharine Ross in Il laureato.
Starsene al caldo nel flusso della storia: Woody Allen e Diane Keaton in Amore e guerra.
Lo shlemilh tra realtà e immaginario: Woody Allen in Provaci ancora, Sam.
Il nuovo western. La celebrazione della fine dell’eroe: William Holden e banda in Il mucchio selvaggio (in alto); tutti hanno bisogno di una mamma: Dustin Hoffman in Il piccolo grande uomo.
La divertente falsità della commedia anni Ottanta: un’attrice che è un attore e un attore che è un regista. Dustin Hoffman e Sidney Pollack in Tootsie.
Il manierismo di Robert Altman: Shelley Duvall e Sissy Spacek in Tre donne.
Dalla Tv al cinema delle origini: John Ritter in Vecchia America.
Una realtà incerta: Griffin Dunne e Linda Fiorentino in Fuori orario.
Sogni di gloria: Willem Dafoe e Tom Cruise in Nato il 4 luglio.
Fenomeni da baraccone: Michael Keaton e Jack Nicholson in Batman.
Chi dorme non piglia pesci: Robert Englund in Nightmare - Dal profondo della notte.
Un diverso senso del corpo: Arnold Schwarzenegger in Atto di forza.
Narcolessi e omofilia: Keanu Reeves e River Phoenix in Belli e dannati.
Peggio di un cane: Anthony Hopkins in Il silenzio degli innocenti.
Celebrazione del trash: Johnny Depp e Martin Landau in Ed Wood.
Lavorare in amicizia: Robert De Niro e Joe Pesci in Casinò.
Versioni di pastorale: Kevin Costner in Balla coi lupi.
L’amore non finisce mai: Gary Oldman e Winona Ryder in Dracula di Bram Stoker.
Il cinema come theme park: Jurassic Park.
Problemi di identità: Jim Carrey in The Mask.
Sex appeal dell’inorganico: Uma Thurman in Pulp Fiction.
L’idiozia diventa storia: Robin Wright Penn e Tom Hanks in Forrest Gump.
Il senso della fine: Ralph Fiennes e Angela Bassett in Strange Days.
Orientalismi: Keanu Reeves Matrix.
Mondi perplessi: Steve Buscemi in Fargo.
La morale del giocattolo: Haley Joel Osment in A.I. Intelligenza artificiale
Il sogno della famiglia: Ewan McGregor in Big Fish.
Indice dei film Abyss, The A casa dopo l’uragano (Home from the Hill) Accadde a Brooklyn (It Happened in Brooklyn) Accadde domani (It Happened Tomorrow) Accadde una notte (It Happened One Night) Ace Ventura: l’acchiappanimali (Ace Ventura, Pet Detective) Ace Ventura - Missione Africa (Ace Ventura: When Nature Calls) Acque del Sud (To Have and Have Not) Affliction - Afflizione (Affliction) After Tomorrow A.I. Intelligenza artificiale (A.I. Artificial Intelligence Alamo (The Alamo) Alba di gloria (Young Mr. Lincoln) Alba fatale (The Ox-Bow Incident) Albero della vendetta, L’ (Ride Lonesome) Al di là delle tenebre (The Magnificent Obsession) Alì Babà e i 40 ladroni (Ali Baba and the Forty Thieves) Alice non abita più qui (Alice Doesn’t Live Here Anymore) Alien Alien Nation Aliens - Scontro finale (Aliens) Al Jolson (The Jolson Story) Alle frontiere dell’India (Wee Willie Winkie) Allegra fattoria, L’ (Summer Stock) All’inferno e ritorno (To Hell and Back) All That Jazz - Lo spettacolo continua (All That Jazz) Always
Amante indiana, L’ (Broken Arrow) Amanti dei cinque mari, Gli (The Sea Chase) Amanti della città sepolta, Gli (Colorado Territory) Amanti senza domani (One Way Passage) Amaro sapore del potere, L’ (The Best Man) Ambra (Forever Amber) America, America, dove vai? (Medium Cool) America 1929: sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha) American Beauty American Graffiti Americano a Parigi, Un, (An American in Paris) Amica, L’ (Old Acquaintance) Amica delle cinque e mezza, L’ (On a Clear Day You Can See Forever) Ammazzavampiri, L’ (Fright Night) Ammutinamento del Caine, L’ (The Caine Mutiny) Amore e guerra, (Love and Death) Amore folle (Mad Love) Amore in otto lezioni, L’ (Gold Diggers of 1937) Amore stregone, L’ (El Amor Brujo) Amore sublime (Stella Dallas) A morte Hollywood! (Cecil B. Demented), 356 Anche i boia muoiono (Hangmen Also Die) Angeli con la faccia sporca (Angels with Dirty Faces) Angelo (Angel) Anima e il volto, L’ (A Stolen Life) Animal Crackers Animal House Annie del Klondike (Klondike Annie) Apocalypse Now,
Apollo Appartamento, L’ (The Apartment) Appartamento dello scapolo, L’ (Bachelor Flat) Appuntamento al buio (Blind Date) Appuntamento con una ragazza che si sente sola (T.R. Baskin) A prova di errore (Fail Safe) A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot) Aquile nell’infinito (Strategic Air Command) Arabesque Aratro e le stelle, L’ (The Plough and the Stars) Arcipelago in fiamme (Air Force) Ardenne ’44: un inferno, (Castle Keep) Arianna (Love in the Afternoon) Armageddon - Giudizio finale (Armageddon) Arriva John Doe (Meet John Doe) Assalto alla terra (Them!) Assassini nati (Natural Born Killers) Assassinio di un allibratore cinese, L’ (The Killing of a Chinese Bookie) Asso nella manica (Ace in the Hole) As Young As You Feel, Atollo K (Atoll K) Attente ai marinai! (Sailor Beware) Attimo una vita, Un, (Bobby Deerfield) Atto di forza (Total Recall) Avventure di Robin Hood, Le (The Adventures of Robin Hood) Avventure di un giovane, Le (Hemingway’s Adventures of a Young Man) Azione esecutiva (Executive Action) Baby Doll
Baciami, Kate (Kiss Me, Kate) Baciami, stupido, (Kiss Me, Stupid) Bacio della morte, Il, (Kiss of Death) Bacio della pantera, Il (Cat People) Bacio di Venere, Il (One Touch of Venus) Bacio e una pistola, Un (Kiss Me Deadly) Bacio perverso, Il (The Naked Kiss) Bad Girl Balla coi lupi (Dances with Wolves) Balla con me (Broadway Melody of 1940) Ballata di Cable Hogue, La (The Ballad of Cable Hogue) Banda di Jesse James (The Great Northfield Minnesota Raid) Barton Fink - È successo a Hollywood (Barton Fink) Bataan Batman Beach Party Beautiful Mind, A Becky Sharp Bellezze in cielo (Down to Earth) Bellezze rivali (Centennial Summer) Ben Hur Berretti verdi, I (The Green Berets) Beverly Hills Cop Beyond the Valley of the Dolls Bibbia, La (The Bible) Big Fish Bikini Beach Billy the Kid Bionda esplosiva, La (Will Success Spoil Rock Hunter?)
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Canto del mio cuore, Il (Song O’ My Heart) Cape Fear - Il promontorio della paura (Cape Fear) Capitan Blood (Captain Blood) Caporale Sam, Il (Jumping Jacks) Cappello a cilindro (Top Hat) Capriccio spagnolo (The Devil Is a Woman) Carne e il diavolo, La (Flesh and the Devil) Carnival Rock Carovana dei Mormoni, La (Wagon Master) Carovana dell’alleluia, La (The Hallelujah Trail) Carrie - Lo sguardo di Satana (Carrie) Casablanca Casa dei giochi, La (The House of Games) Casa di bambù, La (House of Bamboo) Casa sulla scogliera, La (The Uninvited) Casinò (Casino) Caso Paradine, Il (The Paradine Case) Caso Thomas Crown, Il (The Thomas Crown Affair) Castello di Dragonwyck, Il (Dragonwyck) Catene della colpa, Le (Out of the Past) Cavaliere della valle solitaria, Il (Shane) Cavaliere solitario, Il (Buchanan Rides Alone) Cavalieri del Nord-Ovest, I (She Wore a Yellow Ribbon) Cavalletta, La (The Grasshopper) Cavallo d’acciaio, Il (The Iron Horse) Cenerentola a Parigi (Funny Face) C’era una volta Hollywood (That’s Entertainment!) Cervello mostro, Il (Lady and the Monster) Che donna! (What a Woman!)
Che fine ha fatto Baby Jane? (Whatever Happened to Baby Jane?) Chi ha incastrato Roger Rabbit (Who Framed Roger Rabbit) Chinatown Ciao, Charlie! (Goodbye, Charlie) Cieli azzurri (Blue Skies) Cielo di fuoco (Twelve O’Clock High) Cielo può attendere, Il (Heaven Can Wait) Cigno nero, Il (The Black Swan) Cimarron 55 giorni a Pechino (55 Days at Peking) Cinque pezzi facili (Five Easy Pieces) Cinque schiave, Le (Marked Woman) Città amara - Fat City (Fat City) Città dei ragazzi, La (Boys Town) Città nuda, La (The Naked City) Clan dei Barker, Il (Bloody Mama) Class Cleopatra Cleopatra Jones: licenza di uccidere (Cleopatra Jones) Cocoanuts, The Coffy, la pantera nuda (Coffy) Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s) Colline blu, Le (Ride the Whirlwind) Colore viola, Il (The Color Purple) Come eravamo (The Way We Were) Com’era verde la mia valle (How Green Was My Valley) Come le foglie al vento (Written on the Wind) Come rubare un milione di dollari e vivere felici (How To Steal a Million)
Come sposare una figlia (The Reluctant Debutante) Come uccidere vostra moglie (How To Murder Your Wife) Comma 22 (Catch-22) Compari, I (Mc Cabe and Mrs. Miller) Conan il barbaro (Conan the Barbarian) Concerto per il Bangla Desh (The Concert for Bangla Desh) Confessioni di una spia nazista (Confessions of a Nazi Spy) Conquista del West, La (How the West Was Won) Contact Contessa di Hong Kong, La (A Countess from Hong Kong) Contratto per uccidere (The Killers) Controfigura per un delitto (One More Time) Conversazione, La (The Conversation) Corea in fiamme (The Steel Helmet) Corpse Vanishes, The Corridoio della paura, Il (Shock Corridor) Corte marziale (The Court Martial of Billy Mitchell) Cosa, La (The Thing) “Cosa” da un altro mondo, La (The Thing from Another World) Cose molto cattive (Very Bad Things) Costola di Adamo, La (Adam’s Rib) Costretto a uccidere (Will Penny) Cowboy Commandos Dài… muoviti! (Move!) Dalla terrazza (From the Terrace) Damn Yankees! Da morire (To Die For) Danza delle luci, La (Gold Diggers of 1933) Da qui all’eternità (From Here to Eternity)
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Don Juan - Don Giovanni e Lucrezia (Don Juan) Donna che visse due volte, La (Vertigo) Donna dell’anno, La (The Woman of the Year) Donna del ritratto, La (The Woman in the Window) Donna e lo spettro, La, (The Ghost Breakers) Donna incatenata, La (Unfaithful) Donna vivace, Una (Vivacious Lady) Doppio gioco (Criss Cross) Dottor Dolittle, Il (Doctor Dolittle) Dottor Miracolo, Il, (Murders in the rue Morgue) Dottor Stranamore ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, Il (Dr. Strangelove, or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb) Dottor Zivago, Il (Doctor Zhivago) Dove la terra scotta (Man of the West) Dracula Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker’s Dracula) Drugstore Cowboy Due cuori in cielo (Cabin in the Sky) Duel Duello mortale (Man Hunt) Duello nell’Atlantico (The Enemy Below) Duello nel Pacifico (Hell in the Pacific) Due marinai e una ragazza (Anchors Aweigh) Due ore ancora (D.O.A.) Due volti della vendetta, I (One-Eyed Jacks) E adesso, pover’uomo? (Little Man, What Now?) È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes To Town) Easy Rider Ebbrezza dell’oro, L’ (Sutter’s Gold)
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Gangster Story (Bonnie and Clyde) Gardenia Blu (The Blue Gardenia) Generale e mezzo, Un (On the Double) Gente comune (Ordinary People) Ghost Catchers Ghost - Fantasma (Ghost) Giardini di pietra (Gardens of Stone) Giardino delle streghe, Il (The Curse of the Cat People) Gigante, Il (The Giant) Giglio infranto (Broken Blossom) Gilda Gimme Shelter Gioco del pigiama, Il (The Pajama Game) Giorni perduti (The Lost Weekend) Giorno dei lunghi fucili, Il (The Hunting Party) Giorno dello sciacallo, Il (The Day of the Jackal) Giorno più lungo, Il (The Longest Day) Giovani leoni, I (The Young Lions) Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause) Girandola (Carefree) Girl Crazy Giudice, Il (Judge Priest) Giullare del re, Il (The Court Jester) Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle) Giuramento dei forzati, Il (Passage to Marseille) Giuramento dei quattro, Il (Four Men and a Prayer) Giustiziere della notte, Il (Death Wish) Gloria - Notte d’estate, Una (Gloria) Gola profonda (Deep Throat)
Gold Diggers in Paris Gold Diggers of Broadway Good News Goonies, I (The Goonies) Grande caldo, Il (The Big Heat) Grande corsa, La (The Great Race) Grande dittatore, Il (The Great Dictator) Grande fiamma, La (Reunion in France) Grande freddo, Il (The Big Chill) Grande Gatsby, Il (The Great Gatsby) Grande Lebowski, Il (The Big Lebowski) Grande menzogna, La (The Great Lie) Grande sentiero, Il (Cheyenne Autumn) Grande sentiero, Il (The Big Trail) Grande sonno, Il (The Big Sleep) Grand Hotel Grease - Brillantina (Grease) Gremlins Gunny (Heartbreak Ridge) Grido del lupo, Il (Cry Wolf ) Grissom Gang - Niente orchidee per miss Blandish (Grissom Gang) Guerra lampo dei fratelli Marx, La (Duck Soup) Guerre stellari (Star Wars) Guerrieri, I (Kelly’s Heroes) Guerrieri della notte, I (The Warriors) Guerrieri della palude silenziosa, I (Southern Comfort) Guida per l’uomo sposato, Una (A Guide for the Married Man) Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters)
Happiness Heat - La sfida (Heat) Hello, Dolly Hellraiser High Pressure, Hitler’s Madman Ho camminato con uno zombi (I Walked with a Zombie) Hollywood Hotel Hollywood o morte! (Hollywood or Bust) Hollywood Party (The Party) Horror in Bowery Street (Street Trash) Ho sposato una strega (I Married a Witch) Hud il selvaggio (Hud) Hulk Humorisk Idolo delle donne, L’ (The Ladies’ Man) Iene, Le (Reservoir Dogs) Impareggiabile Godfrey, L’ (My Man Godfrey) Imperatrice Caterina, L’ (The Scarlet Empress) Impossibilità di essere normale, L’ (Getting Straight) Improvvisamente l’estate scorsa (Suddenly, Last Summer) Inafferrabile signor Jordan, L’ (Here Comes Mr. Jordan) Inarrivabile felicità, L’ (You’ll Never Get Rich) Incontriamoci a Saint Louis (Meet Me in St. Louis) Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind) Infallibile pistolero strabico, L’ (Support Your Local Gunfighter) Infernale avventura, L’ (Angel On My Shoulder) Infernale Quinlan, L’ (Touch of Evil)
Inseparabili, (Dead Ringers) Interiors Intolerance, Intrigo Internazionale (North By Northwest) Invasione degli ultracorpi, L’ (Invasion of the Body Snatchers) Invasione Usa (Invasion Usa) Invisible Agent, The Invito alla danza (Varsity Show) Io e Annie (Annie Hall) Io ti salverò (Spellbound) Ispettore generale, L’ (The Inspector General) Was a Communist for the Fbi Iwo Jima deserto di fuoco (Sands of Iwo Jima) Jazz in un giorno d’estate (Jazz on a Summer Day) Jerry 8 e 3/4 (The Patsy) Jess il bandito (Jesse James) JFK - Un caso ancora aperto (JFK) Joe il pilota (A Guy Named Joe) Johnny Guitar, Johnny Mnemonic Jungle Fever Jurassic Park Kaan principe guerriero (The Beastmaster) Kimono scarlatto, Il (The Crimson Kimono) King Kong King of New York King of the Zombies Kismet Kitty (Kitty)
Kitty Foyle ragazza innamorata (Kitty Foyle) Ladri di biciclette Ladro, Il (The Wrong Man) Ladro di Bagdad, Il (The Thief of Bagdad) Lady Eva (The Lady Eve) Lady Lou - La donna fatale (She Done Him Wrong) Larry Flint (The People vs. Larry Flint) Laureato, Il (The Graduate) Legge del mitra, La (Machine Gun Kelly) Legge del Signore, La (Friendly Persuasion) Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknown Woman) Lights of New York Liliom Love Streams - Scia d’amore (Love Streams) Luci della città (City Lights) Lui e lei (Pat and Mike) Lungo addio, Il (The Long Goodbye) Lupo dei mari, Il (The Sea Wolf ) Lupo mannaro americano a Londra, Un (An American Werewolf in London) Ma’ Barker’s Killer Brood Macchina dell’amore, La (The Love Machine) Madame Curie (Madame Curie) Mad Genius, The Maghi del terrore, I (The Raven) Magnifica ossessione, La (Magnificent Obsession) Magnifici sette, I (The Magnificent Seven) Magnifico scherzo, Il (Monkey Business) Mago di Oz, Il (The Wizard of Oz)
Malcom X Mamma ho perso l’aereo (Home Alone) Mamma ti ricordo! (I Remember Mama) Mancia competente (Trouble in Paradise) Manhattan Mannequin - Frammenti di una donna (Puzzle of a Downfall Child) Man on the Moon Mano sinistra di Dio, La (The Left Hand of God) Ma papà ti manda sola? (What’s Up, Doc?) Marco il ribelle (Blockade) Margie Maria di Scozia (Mary of Scotland) Mariti (Husbands) Marlowe il poliziotto privato (Farewell My Lovely) Marnie Marocco (Morocco) Mars Attacks! Mary Poppins M.A.S.H. Mask, The Massacro del giorno di San Valentino, Il (St. Valentine’s Day Massacre) Massacro di Fort Apache, Il (Fort Apache) Matrix (The Matrix) Mattatore di Hollywood, Il (The Errand Boy) Mayor of Hell Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (Mean Streets) Mercoledì da leoni, Un (Big Wednesday)
Mezzanotte nel giardino del bene e del male (Midnight in the Garden of Good and Evil) Mezzogiorno di fuoco (High Noon) Mia Africa, La (Out of Africa) Mia amica Irma, La (My Friend Irma) Mia via, La (Going My Way) M.I.B. - Men in Black Mickey One Migliori anni della nostra vita, I (The Best Years of Our Lives) Millie (Thoroughly Modern Millie) Minnie e Moskowitz (Minnie and Moskowitz) Minority Report Mio corpo ti scalderà, Il (The Outlaw) Miracolo del villaggio, Il (The Miracle of Morgan’s Creek) Mi sdoppio in quattro (Multiplicity) Misteri di Shanghai, I (The Shanghai Gesture) Mogambo Moglie, Una (A Woman Under the Influence) Moglie del vescovo, la (The Bishop’s Wife) Molta brigata, vita beata (The More the Merrier) Mondo va avanti, Il (The World Moves On) Montagne della luna, Le (Mountains of the Moon) Monterey Pop Morte corre sul fiume, La (Night of the Hunter) Morte è discesa a Hiroshima, La (The Beginning or the End) Morti di paura (Scared Stiff ) Mostro del pianeta perduto, Il (The Day the World Ended) Mucchio selvaggio, Il (The Wild Bunch) Mulholland Drive
Mummia, La (The Mummy) Muscle Beach Party Museo degli scandali, Il (Roman Scandal) Musica indiavolata (Strike Up the Band) Musica nelle nuvole (I Married an Angel) Music Man, The My Fair Lady Nascita di una nazione, La, (The Birth of a Nation) Nashville Nata ieri (Born Yesterday) Nato il 4 Luglio (Born on the Fourth of July) Nave matta di Mr. Roberts, La (Mr. Roberts) Nella morsa (Caught) Nel Mar dei Caraibi (The Spanish Main) Nemico dell’impossibile, Il (The Go-Getter) Nemico pubblico (The Public Enemy), Nessuna pietà (No Mercy) New Rose Hotel New York, New York Next Voice You Hear, The Nikita Nightmare Before Christmas Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street) Non aprite quella porta! (The Texas Chainsaw Massacre) Nixon - Gli intrighi del potere (Nixon) Nome in codice: Broken Arrow (Broken Arrow) Non c’è posto per lo sposo (No Room for the Groom) Non è più tempo d’eroi (Too Late the Hero)
Non per soldi… ma per denaro (The Fortune Cookie) Non sparare, baciami! (Calamity Jane) Nostra città, La (Our Town) Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread) Notte all’opera, Una (A Night at the Opera) Notte a Rio, Una (That Night in Rio) Notte dei morti viventi, La (The Night of the Living Dead) Notte dei pipistrelli, La (The Devil Bat) Notte senza fine (Pursued) Notti argentine (Down Argentine Way) Nove settimane e mezzo (Nine and a Half Weeks) Nulla di serio (Nothing Sacred) Nuova ora, La (This Day and Age) Nuvole passeggere (Till the Clouds Roll By) Occhi del mondo, Gli (The Eyes of the World) Occhio alla palla (The Caddy) Odyssex Off Limits - Proibito ai militari (Off Limits) Okinawa (Halls of Montezuma) Oltraggio, L’ (The Outrage) Ombra del passato, L’ (Murder, My Sweet) Ombre (Shadows) Ombre malesi (The Letter) Ombre rosse (Stagecoach) Operazione diabolica (Seconds) Operazione sottoveste (Operation Petticoat) Operazione “Z” (One Minute To Zero) Orgoglio degli Amberson, L’ (The Magnificent Ambersons) Orizzonti di gloria (Paths of Glory)
Padre della sposa, Il (The Father of the Bride) Padrino, Il (The Godfather) Il palcoscenico della strada (Street Scene) Pal Joey Palla n. 13, La (Sherlock Junior) Pallottola per Roy, Una (High Sierra) Pantera rosa, La (The Pink Panther) Papà diventa nonno (Father’s Little Dividend) Papà Gambalunga (Daddy Long Legs) Paper Moon Paradiso delle fanciulle, Il (The Great Ziegfeld) Parola ai giurati, La (Twelve Angry Men) Patton, generale d’acciaio (Patton) Pattuglia sperduta, La (The Lost Patrol) Paura sul palcoscenico Peccato di Lady Considine, Il (Under Capricorn) Peccatori di Peyton, I (Peyton Place) Peggy Sue si è sposata (Peggy Sue Got Married) Pellegrinaggio (Pilgrimage) Perché un assassinio (The Parallax View) Perdutamente tua (Now, Voyager) Per un pugno di dollari Piccole volpi (The Little Foxes) Piccoli omicidi (Little Murders) Piccolo Cesare, (Little Caesar) Piccolo grande uomo, Il (Little Big Man) Piccolo porto, Il (Primrose Path) Pietà per i giusti (Detective Story) Pionieri, I (The Covered Wagon)
Pirata, Il (The Pirate) Pistola sepolta, La (The Fastest Gun Alive) Più grande amatore del mondo, Il (The World’s Greatest Lover) Più grande avventura, La (Drums Along the Mohawks) Più grande storia mai raccontata, La (The Greatest Story Ever Told) Platoon Point Break Poliziotto alle elementari, Un (Kindergarten Cop) Poltergeist - Demoniache presenze (Poltergeist) Poltrona per due, Una (Trading places) Pomeriggio di un giorno da cani, Un (Dog Day Afternoon) Ponte dell’amore, Il (Lucky Partners) Ponti di Madison County, I (The Bridges of Madison County) Ponti di Toko-Ri, I (The Bridges at Toko-Ri) Popeye Popolo muore, Un (Arrowsmith) Porky’s questi pazzi, pazzi porcelloni (Porky’s) Porta della Cina, La (China Gate) Postino suona sempre due volte, Il (The Postman Always Rings Twice) Posto al sole, Un (A Place in the Sun) Potenza e gloria (The Power and the Glory) Predatori dell’arca perduta, I (Raiders of the Lost Ark) Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run), Prezzo del dovere, Il (Above and Beyond) Prigioniero dell’isola degli squali, Il (The Prisoner of Shark Island) Prigioniero di Amsterdam, Il (Foreign Correspondent) Prigioniero di Zenda, Il (The Prisoner of Zenda) Prima linea (Attack!)
Primo peccato (Dreamboat) Processo, Il (The Trial) Promesse, promesse (Baby It’s You) Pronti a morire (The Quick and the Dead) Prova a prendermi (Catch Me if You Can) Provaci ancora, Sam (Play it Again, Sam) Psyco (Psycho) Pulp Fiction Punto zero (Vanishing Point) Qualcosa di travolgente (Something Wild) Qualcuno verrà (Some Came Running) Quando i mondi si scontrano (When Worlds Collide) Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch) Quarantaduesima strada (42nd Street) Quaranta pistole (Forty Guns) 48 ore (48 HRS) Quarto potere (Citizen Kane) Quei bravi ragazzi (Goodfellas) Quel fenomeno di mio figlio (That’s My Boy) Quella che avrei dovuto sposare (There’s Always Tomorrow) Quella sporca dozzina (The Dirty Dozen) Quelli della “San Pablo” (The Sand Pebbles) Questa è la mia terra (This Land Is Mine) Questa ragazza è di tutti (This Property Is Condemned) Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo (It’s a Mad, Mad, Mad, Mad World) Quo Vadis? Racconti del terrore, I (Tales of Terror) Radiazioni BX: distruzione uomo (The Incredible Shrinking Man)
Ragazza della 5a strada, La (Fifth Avenue Girl) Ragazza del secolo, La (It Should Happen To You) Ragazze di Ziegfeld, Le (Ziegfeld Girl) I ragazzi di Broadway (Babes on Broadway) Ragazzo tuttofare (The Bellboy) Rain Man Rambo (First Blood) Rancho Notorius Rapacità (Greed) Rapina a mano armata (The Killing) Rapina record a New York (The Anderson Tapes) Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin/Confidential Report) Raven, The Re a New York, Un (A King in New York) Rebecca - La prima moglie, (Rebecca) Re dei giardini di Marvin, Il (The King of Marvin Gardens) Red Planet Mars Remarkable Andrew, The Return of the Secaucus Seven, The Revenge of the Zombies Ribalta di gloria (Yankee Doodle Dandy) Riccardo III - Un uomo un re (Looking for Richard) Ricche e famose (Rich and Famous) Ricerche diaboliche (Monster on the Campus) Ricomincio da capo (Groundhog Day) Ridere per ridere (The Kentucky Fried Movie) Rio Bravo (Rio Grande) Ritornerà primavera (One More Spring) Ritorno a Cold Mountain (Cold Mountain)
Ritorno al futuro (Back to the Future) Ritorno di Harry Collings, Il (The Hired Hand) Ritratto di Jennie, Il (Portrait of Jennie) Rock all Night Rodolfo Valentino (Valentino) Romantico avventuriero (The Gunfighter) Romanzo di Mildred, Il (Mildred Pierce) Romeo + Juliet (William Shakespeare’s Romeo + Juliet) Rommel, la volpe del deserto (The Desert Fox) Rompicuori, Il (The Heartbreak Kid) Rosa purpurea del Cairo, La (The Purple Rose of Cairo) Rose Marie Roulette russa (Russian Roulette) Ruggenti anni venti, I (The Roaring Twenties) RXM Destinazione Luna (Rocketship XM) Sabrina Sahara Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan) Salvate la tigre (Save the Tiger) Sansone e Dalila (Samson and Delilah) Sapore del delitto, Il (The Amazing Doctor Clitterhouse) Saranno famosi (Fame) Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story) Scandalo al sole (A Summer Place) Scandalo internazionale (A Foreign Affair) Scanners Scarface (Scarface: The Shame of a Nation) Schiave della città (Lady in the Dark) Schindler’s List
Schlock Sciarada (Charade) Sconosciuto alla porta, Uno (Pacific Heights) Scontro di Titani (Clash of the Titans) Scream Scrivimi fermo posta (The Shop Around the Corner) Secondo amore (All That Heaven Allows) Segretaria quasi privata, La (The Desk Set) Segreto di Santa Vittoria, Il (The Secret of Santa Vittoria) Seguendo la flotta (Follow the Fleet) Selvaggio, Il (The Wild One) Seme della follia, Il (In the Mouth of Madness) Seme della violenza, Il (Blackboard Jungle) Sentieri selvaggi (The Searchers) Senza tregua (Hard Target) Senza un attimo di tregua (Point Blank) Sepolto vivo (Premature Burial) Serenata (Serenade) Sergente di legno, Il (At War with the Army) Sergente York, Il (Sergeant York) Serpente e l’arcobaleno, Il (The Serpent and the Rainbow) Settimana da Dio, Una (Bruce Almighty) Settima vittima, La (The Seventh Victim) Seven La sfida del samurai (Yojimbo) Sfida infernale (My Darling Clementine) Sfida nell’Alta Sierra (Ride the High Country) Shakespeare in Love Signora ammazzatutti, La (Serial Mom)
Signora di Shanghai, La (The Lady from Shanghai) Signora Miniver, La (Mrs. Miniver) Silenzio degli innocenti, Il (The Silence of the Lambs) Sinbad il marinaio (Sinbad the Sailor) Sindrome cinese, La, (The China Syndrome) Singing Marine, The Sipario strappato, Il (Torn Curtain) Sirenetta, La (The Little Mermaid) Situazione imbarazzante (Bachelor Mother) Slim Carter Society Sogni proibiti (The Secret Life of Walter Mitty) Sogno di prigioniero (Peter Ibbetson) Soldati a cavallo (Horse Soldiers) Soldato blu (Soldier Blue) Sole splende alto, Il (The Sun Shines Bright) Soliti sospetti, I (The Usual Suspects) Solo il cielo lo sa (Heaven Only Knows) Solo per te ho vissuto (So Big) Solo sotto le stelle (Lonely Are the Brave) Son of Dracula, 107 Song Remains the Same, The Sorority Girl Sottile linea rossa, La (The Thin Red Line) Sotto un tetto di stelle (Starlight Hotel) South Pacific Spacciatore, Lo (Light Sleeper) Sparatoria, La (The Shooting) Sparviero dei mari, Lo (The Sea Hawk)
Specchio della vita, Lo (Imitation of Life) Specchio scuro, Lo (The Dark Mirror) Speed Sperone nudo, Lo (The Naked Spur) Spettacolo di varietà (The Band Wagon) Spider-man Spie come noi (Spies Like Us) Spietati, Gli (The Unforgiven) Splendore nell’erba (Splendor in the Grass) Sport preferito dall’uomo, Lo (Man’s Favorite Sport?) Spostati, Gli (The Misfits) Squalo, Lo (Jaws) Stand by Me - Ricordo di un’estate (Stand by Me) Stangata, La (The Sting) Stardust Memories Stato d’allarme (The Bedford Incident) Steamboat Round the Bend Stella solitaria (Lone Star) Step Lively Storia del generale Custer, La (They Died with Their Boots On) Storia immortale (The Immortal Story/Une histoire immortelle) Story of Will Rogers, The Strada scarlatta, La (Scarlet Street) Strade perdute (Lost Highway) Strange Days Straniero, Lo (The Stranger) Strano amore di Marta Ivers, Lo (The Strange Love of Martha Ivers) Strano incontro (Love with the Proper Stranger)
Strano mondo di Daisy Clover, Lo (Inside Daisy Clover) Strega rossa, La (Wake of the Red Witch) Submarine Patrol Sugarland Express Sui marciapiedi (Where the Sidewalk Ends) Summer Holiday Sunrise at Campobello Suo angelo custode, Il (Forever Darling) Supplizio - Il traditore del campo 5 (The Rack) Susanna (Bringing Up Baby) Susanna agenzia squillo (Bells Are Ringing) Swanee River Sweet Charity - Una ragazza che voleva essere amata (Sweet Charity) Tarzan l’uomo scimmia (Tarzan the Apeman) Taverna dell’allegria, La (Holiday lnn) Taxi Driver Teenage Caveman Teenage Doll Tè e simpatia (Tea and Sympathy) Temerari, I (The Gypsy Moths) Temerario, Il (The Great Waldo Pepper) Tempesta su Washington (Advise and Consent) Tempo di vivere (A Time to Love and a Time to Die) Teorema Terminator 2 - Il giorno del giudizio (Terminator 2: Judgement Day) Terrore corre sul filo, Il (Sorry, Wrong Number) Terrore sul Mar Nero (Journey Into Fear) Terzo uomo, Il (The Third Man) Tesoro dei Faraoni, Il (Kid Millions)
Texas To Bataan Ti amavo senza saperlo (Easter Parade) Tigre e il dragone, Il (Crouching Tiger, Hidden Dragon) Titanic Tomba di Ligeia, La (The Tomb of Ligeia) Tora! Tora! Tora! Traditore, Il (The Informer) Trafficanti della notte, I (Night and the City) Tram chiamato desiderio, Un (A Streetcar Named Desire) Tranquillo weekend di paura, Un (Deliverance) Trapezio della vita, Il (The Tarnished Angels) Tre giorni del Condor, I (Three Days of the Condor) Treno, Il (The Train) Tre ragazze di Broadway (Give a Girl a Break) Tre settimane d’amore (Weekend in Havana) Trionfo della vita, Il (Stand Up and Cheer) Tron Trovarsi ancora (Till We Meet Again) True Stories Truman Show, The Tutta la città ne parla (The Whole Town’s Talking) Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide (Le deuxième souffle) Tutti gli uomini del Presidente (All the President’s Men) Tutti gli uomini del re (All the King’s Men) Tutti insieme appassionatamente (The Sound of Music) Tutti pazzi per Mary (There’s Something About Mary) Tutto in una notte (Into the Night) Twonky, The Ufficiale e gentiluomo (An Officer and a Gentleman)
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Uomo invisibile, L’ (Invisible Man) Uomo leopardo, L’ (The Leopard Man) Uomo meraviglia, L’ (Wonder Man) Uomo oggi, Un (WUSA) Uomo senza scampo, Un (I Walk the Line) Uragano (The Hurricane) Urlo della città, L’ (Cry of the City) Va’ e uccidi (The Manchurian Candidate) Valanga gialla (Retreat, Hell!) Valle dell’Eden, La (East of Eden) Valley of the Zombies Vecchia America (Nickelodeon) Vedova allegra, La (The Merry Widow) Vedova nera, La (Black Widow) Vedovo cerca moglie (Weekend with Father) Velluto blu (Blue Velvet) Vendetta del gangster, La (Underworld USA) Vendicatore di Jess il bandito, Il (The Return of Frank James) Vendicatori, I (The Corsican Brothers) Ventesimo secolo (Twentieth Century) Vento e il leone, Il (The Wind and the Lion) Vergine sotto il tetto, La (The Moon Is Blue) Verso il sole (The Sunchaser) Vertigine (Laura) Via col vento (Gone with the Wind) Via dell’impossibile, La (Topper) Via del tabacco, La (Tobacco Road) Viale del tramonto (Sunset Boulevard) Vicini di casa, I (Neighbors)
Vicino alle stelle (Man’s Castle) Vicolo cieco (Blind Alley) Videodrome Visone sulla pelle, Il (That Touch of Mink) Vita col padre (Life with Father) Vita di Giulio Reuter, La (A Dispatch from Reuters) Vita di Vernon e Irene Castle, La (The Story of Vernon and Irene Castle) Vita è meravigliosa, La (It’s a Wonderful Life!) Viva Las Vegas Viva le donne! (Footlight Parade) Vivere insieme (The Marrying Kind) Vivi e i morti, I (House of Usher) Vogliamo vivere! (To Be or Not To Be) Voglio danzare con te (Shall We Dance) Volti (Faces) Volto di donna (A Woman’s Face) West Side Story White Zombie Whoopee Wild Boys of the Road Winchester ’73 Wiz, The Won Ton Ton il cane che salvò Hollywood (Won Ton Ton, The Dog Who Saved Hollywood) Woodstock - Tre giorni di pace, amore e musica (Woodstock) Yakuza You and me Young America Zelig Zio Sam si diverte (They Had to See Paris)
Zona morta, La (The Dead Zone)