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Italian Pages 287 [205] Year 2007
La grande Hollywood racconta come il cinema interpreta e costruisce desideri sociali e stili di vita nell’America del periodo 1930-1960. Forma di intrattenimento dominante, il cinema produce spettatori che in sala vivono più intensamente modelli esistenziali e percorsi possibili della propria identità. La rappresentazione del desiderio e dei rapporti intersoggettivi si modifica negli anni, soprattutto in relazione alla dialettica tra maschile e femminile. Ma anche la messa in scena, le forme del racconto e la qualità visiva dell’immagine mutano. Grazie a un metodo che fonde l’analisi del film e la teoria narrativa con gli studi storici sulle dinamiche di gender, questo libro indaga le diverse forme di convergenza tra stili di vita e modi di messa in scena. La ricerca si sviluppa attraverso i generi più rappresentativi, dalla commedia sofisticata al noir, dal film d’avventura al woman’s film, dal musical al family melodrama. Nella convinzione che il circuito tra socialità e forme dell’identità raggiunga una maggiore intensità simbolica nei film di successo, La grande Hollywood affronta film che hanno raggiunto un vasto pubblico e sono stati apprezzati dalla critica, come Accadde una notte e Venere bionda, La fiamma del peccato e Il romanzo di Mildred, Gli uomini preferiscono le bionde e Cantando sotto la pioggia. E insieme interpreta e celebra le tecniche di recitazione e il fascino straordinario dei divi e degli attori che hanno popolato il nostro immaginario: Cary Grant e Katharine Hepburn, Marlene Dietrich e Joan Crawford, William Holden e Marilyn Monroe, Lauren Bacall e Humphrey Bogart. è professore associato di Cinema all’Università di Roma Tre. Ha studiato e insegnato all’Indiana University. È autrice di numerosi saggi e volumi tra cui Visconti a Volterra (2000), Performance, Rewriting, Identity: Chantal Akerman’s Postmodern VERONICA PRAVADELLI
Cinema (2000) e Alfred Hitchcock. Notorious (2003). Collabora a «La valle dell’Eden» e «Bianco & Nero».
Veronica Pravadelli
La grande Hollywood Stili di vita e di regia nel cinema classico americano Marsilio
© 2007 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2020 ISBN 978-88-297-0745-4 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Seguici su Facebook Seguici su Twitter Iscriviti alla Newsletter
Indice Copertina Abstract - Autrice Frontespizio Copyright Ringraziamenti Introduzione Le teorie sul cinema classico americano, dal 1970 a oggi Il subversive text: lo stile oltre la storia Feminist film theory e cinema classico: perdita e riconquista del piacere I dispositivi formali del film classico: la teoria di Raymond Bellour La proposta di David Bordwell & Co.: Il modello classico come film ordinario Metacritica e nuove proposte di fine anni ottanta: il film classico e la tradizione melodrammatica Cinema classico e «modernità» Il cinema dei primi anni trenta: modernità e autoaffermazione femminile Cinema e New Woman: desiderio, affermazione, attrazione Il dinamismo visivo e la sovrimpressione Sessualità/Maternità/Esibizione: l’eccesso di Venere bionda Visionarietà e mobilità sociale: La danza delle luci
Ordine, parola, razionalità: l’apogeo del modello classico Verso desideri normativi e sobrietà visive Accadde una notte: la flapper si sposa Screwball comedy e scrittura classica: Susanna Uomini forti e film biografico: Emilio Zola Uomini forti e film d’avventura: Avventurieri dell’aria Il soggetto maschile del noir: tra sguardo impotente e desiderio di conoscenza Crisi del soggetto, crisi della rappresentazione Visione/Soggettività/Modernità Sguardo e conoscenza: L’ombra del passato e La fuga Parola, verità, Edipo: La fiamma del peccato e Notte senza fine Profondità di campo e spazio urbano: Sui marciapiedi Le (dis)avventure del desiderio femminile nel woman’s film degli anni quaranta Dinamiche psichiche e scenari sociali del femminile Edipo I. Il rapporto figlia/madre in Perdutamente tua Edipo II. Il rapporto madre/figlia in Il romanzo di Mildred Edipo III. Il rapporto figlia/padre in Notorious Lo sguardo desiderante della donna in Perdutamente Eccesso, spettacolo, sensazione. Il family melodrama degli anni cinquanta
Forme del melodramma Corpo, gender, classe: l’identità maschile negli anni cinquanta Stile, tecniche, identità Sensazione e situazione: Picnic e Come le foglie al vento Doppio stile e modernità: A casa dopo l’uragano Corpo performativo e immagine non-referenziale: gli eccessi del musical La forma del musical: film classico vs film di genere Artificio e soggettività I: Le ragazze di Harvey Artificio e soggettività II: Gli uomini preferiscono le bionde L’immagine non-referenziale: Cantando sotto la pioggia Bibliografia
LA GRANDE HOLLYWOOD
Vorrei innanzitutto ringraziare Barb Klinger e Jim Naremore che nei loro corsi di Ph.D. all’Indiana University mi hanno insegnato a studiare il cinema americano. Spero di essere una discreta allieva. Per suggerimenti e indicazioni, discussioni e incoraggiamenti ringrazio Lucilla Albano, Sara Antonelli, Raymond Bellour, Norma Bouchard, Katrina Boyd, Enrico Carocci, Lorenzo Cuccu, Thomas Elsaesser, Arturo Mazzarella, Enrico Menduni, Laura Mulvey, Giorgio Tinazzi, Vito Zagarrio, e in particolare Francesco Casetti che segue da anni il mio lavoro. Un ringraziamento va agli amici torinesi Giaime Alonge, Federica Villa e soprattutto Giulia Carluccio, che in questi anni mi hanno generosamente coinvolta in molte loro iniziative nazionali e internazionali, dove ho potuto confrontarmi su alcune importanti questioni. Ringrazio inoltre Leonardo Quaresima che ha ospitato in pubblicazioni e convegni da lui coordinati alcuni interventi qui confluiti. L’attività di ricerca si è svolta soprattutto negli Stati Uniti e si è avvalsa del contributo fondamentale delle biblioteche della New York University, dell’University of Connecticut, della Wesleyan University e soprattutto dell’indiana University, che vorrei ringraziare. Ricordo inoltre la Biblioteca di Area delle Arti – Sezione Spettacolo dell’Università di Roma Tre che ha celermente esaudito le mie numerose richieste. Un grazie a Enrico Carocci per l’aiuto con le foto. Sono riconoscente a Franco Moretti per avermi per primo trasmesso, nei suoi corsi all’Università di Verona, la passione per lo studio, oltre a fondamentali questioni di metodo. Ricordo con affetto Lino Micciché che, tra l’altro, ha inizialmente proposto questo progetto a Marsilio. Un grazie sentito a Giorgio De Vincenti, per la fiducia e il sostegno che mi ha dimostrato in questi anni, e non da ultimo per alcune animate discussioni che mi hanno aiutato a riformulare alcune ipotesi. Ringrazio in modo del tutto speciale Paolo Bertetto per aver letto e discusso le varie versioni del manoscritto, suggerito alcuni cambiamenti, e soprattutto per il calore affettivo di questi anni vissuti insieme.
INTRODUZIONE
Nell’immaginario popolare e nel vocabolario critico le espressioni «cinema classico americano» o «cinema hollywoodiano» rinviano a un oggetto dai contorni a prima vista ben definiti, per non dire cristallini. L’analisi dei tratti che caratterizzerebbero l’esperienza cinematografica tuttora più importante, almeno nella formazione dei modi e dei metodi di studiare il cinema1, rende invece problematica la definizione di classicità. Ci sembra che dietro la presunta trasparenza, questa formula celi un’opacità di fondo: l’espressione cinema classico americano è un portemanteau che comprende tratti anche antitetici e che riunisce film assai diversi. Come ogni categoria, questa nozione esiste in quanto «formazione discorsiva», non come oggetto che può essere identificato e definito una volta per tutte2. L’estensione del corpus – quali film sono classici? – dipende evidentemente dal grado di genericità dei tratti pertinenti scelti. Benché non sia l’interesse primario di questo studio, la questione del «corpus classico» occupa un ruolo non irrilevante nella nostra indagine, che mira in primo luogo a far emergere l’eterogeneità della forma classica: di qui la necessità di marcare graficamente la differenza sulla parola stessa, spesso usata tra virgolette o in corsivo. Possiamo sin da ora anticipare che la nostra ipotesi considera propriamente classico solo il cinema della seconda metà degli anni trenta. Se una ricognizione approfondita, e per quanto possibile esaustiva, del «discorso sulla classicità» – simile a quanto ha fatto Rick Altman sul genere, per
intenderci3 – meriterebbe un volume a sé, non possiamo non affrontare, per introdurre il nostro lavoro, alcune considerazioni di fondo, rinviando al primo capitolo una discussione più elaborata della questione. Per lo spettatore comune, l’espressione cinema classico americano evoca un cinema dominato dal glamour di grandi attrici e attori e da storie ben raccontate, i cui intrecci e personaggi sono riconducibili a generi con una tradizione non cinematografica alle spalle. Con il cinema di genere il pubblico ha un rapporto essenzialmente compulsivo: gli spettatori desiderano vedere ripetutamente storie simili, fare esperienza del già conosciuto. Per gli studiosi e gli spettatori attenti alle dinamiche produttive, il cinema classico è anche il cinema dei grandi studios, in particolare dall’avvento del sonoro a fine anni cinquanta: il prezioso lavoro degli storici ha ampiamente dimostrato come la cosiddetta Golden Age abbia avuto nella struttura economico-produttiva uno degli elementi costitutivi del suo successo. Se questo era noto da tempo, più recente è stata un’altra acquisizione: che ci sia, per esempio, una relazione assai stretta tra politiche economico-produttive e stile. Non c’è soltanto lo stile classico, ma anche molti studio styles. Ogni studio predilige determinati generi e divi, ma anche modalità della messa in scena e stili visivi particolari, tanto che un occhio allenato può riconoscere, in poche inquadrature, la casa di produzione del film4. Più in generale, per spettatori diversamente sofisticati, l’espressione cinema classico americano evoca un particolare connubio tra una forma del narrare e una forma dell’esperienza spettatoriale: la logica narrativa è fondata su azioni motivate da cause e scopi precisi ancorati al soggetto umano, al personaggio. L’ossatura del racconto classico è
costituita dai desideri del protagonista: nell’efficace espressione di David Bordwell, «la storia del film classico si fa conoscere solo come effetto, come ricaduta sull’individuo»5. La motivazione, che lega tutte le azioni sino alla risoluzione finale, costituisce la regola narrativa classica per eccellenza. La risoluzione finale, spesso erroneamente confusa con l’happy end, è il termine ultimo della catena di azioni e reazioni che si sono succedute dall’inizio: è fondamentale che la conclusione sia motivata, sostanzialmente necessaria, non positiva, perché il dispositivo narrativo funzioni. Del resto, non sono certo rari i film con un unhappy end, e numerosissimi quelli con un finale ambiguo. Il film classico narra dunque storie in cui è centrale la traiettoria di un individuo, o spesso di una coppia: questa centralità, sostenuta dalla motivazione, attiva un’esperienza spettatoriale cognitiva ed emotiva fortemente partecipante. Da un lato lo spettatore deve comprendere i nessi causali, le motivazioni che regolano i rapporti tra i vari personaggi, dall’altro egli condivide emotivamente le vicende umane narrate, entrando nella diegesi grazie a una serie di strategie retorico-stilistiche. Il processo di identificazione dello spettatore con lo schermo è costitutivo del tipo di fruizione attivato dal film classico, anzi il film classico è la forma filmica – da tempo non più dominata, ma mai scomparsa – che ha più sfruttato tale processo. In questo frangente non possiamo discutere in modo articolato un concetto tanto fondamentale quanto complesso e che, negli anni, è stato rielaborato attraverso contributi psicoanalitici e dei gender studies sempre più sofisticati, cui si sono successivamente affiancati gli studi provenienti dalla psicologia cognitiva6. Va, tuttavia, almeno sottolineato che nel corso del film lo spettatore assume identificazioni multiple, ponendosi nella posizione ora di un personaggio ora di un altro. In secondo luogo, anche se il film classico attiva un’identificazione
privilegiata con il protagonista, è più corretto dire che esso istituisce un processo di identificazione con la diegesi, e che l’identificazione va oltre il personaggio. Benché le due dinamiche siano strettamente correlate, il loro rapporto muta e va storicizzato: mentre il cinema della seconda metà degli anni trenta mostra un equilibrio tra personaggio e diegesi, con una tendenza a enfatizzare il secondo elemento, negli anni quaranta ci si concentra maggiormente sulle dinamiche psichiche del soggetto. La centralità assunta dai processi consci e inconsci del personaggio – tramite una parallela evoluzione dei dispositivi tecnico-formali – implica un sostanziale mutamento nel modo in cui lo spettatore si relaziona all’immagine: ora domina il coinvolgimento con le dinamiche della soggettività rispetto alla comprensione delle dinamiche del mondo narrato. Questi sviluppi si manifestano in particolare nel noir e nel woman’s film, oggetto di analisi del quarto e quinto capitolo. Ma il coinvolgimento spettatoriale non dipende solo dalle tecniche narrative. Contrariamente all’idea, un tempo molto in voga, che l’identificazione sia solo una questione di linguaggio, l’immaginario ha un ruolo centrale in questo processo. Basta pensare, per limitarci a un aspetto macroscopico, alla tendenziale diversità di gusto del pubblico femminile rispetto a quello maschile o a quello omosessuale, allo stretto legame tra il gender dello spettatore e il genere di film più amato. Come le tecniche narrative e i modi di messa in scena, anche l’immaginario cinematografico mostra, tra l’inizio degli anni trenta e la fine degli anni cinquanta, sensibili cambiamenti: tipi e figure sociali, stili di vita, percorsi soggettivi diversi per il femminile e il maschile si susseguono in questi anni tanto da rendere possibile una mappatura delle tendenze dominanti. Solo per fare un esempio, il destino del soggetto femminile transita dall’emancipazione della working girl dei primi anni trenta, ancora imbevuta
dello spirito della modernità di inizio secolo, a forme più subordinate e tradizionali, in cui il matrimonio è il modello di riferimento, a tentativi, come nel woman’s film degli anni quaranta, di superare i limiti della «corretta femminilità», anche usurpando ruoli e funzioni maschili. Grazie a un approccio che fonde in particolare i saperi della teoria narrativa cinematografica e dell’analisi del film, con gli studi storici sulle dinamiche e la rappresentazione socio-mediale delle identità di gender, questo studio offre un’ipotesi interpretativa che mira a cogliere i modi tramite cui il cinema si fa interprete e al tempo stesso costruisce desideri sociali e stili di vita nell’America del periodo 1930-1960. Forma di intrattenimento dominante, il cinema dà espressione e contemporaneamente forma il soggetto spettatoriale, che in sala vive in modo più intenso e strutturato modelli esistenziali e percorsi possibili della propria identità. La rappresentazione delle identità desideranti e dei rapporti intersoggettivi si modifica negli anni, soprattutto in ordine alla relazione maschilefemminile. Ma contemporaneamente anche i modi della messa in scena, le tecniche e le forme del racconto cinematografico, la qualità visiva dell’immagine mutano e assecondano il diverso statuto del soggetto umano. Questi cambiamenti producono anche una mutazione nella qualità della fruizione, in quanto il film attiva in misura diversa dinamiche cognitive ed emotive. In questo periodo si succedono tre diversi modelli di soggettività: se nel cinema classico degli anni trenta l’entità del soggetto si esprime nell’azione, che traduce in modo a-problematico determinati contenuti psichici, il cinema degli anni quaranta, certamente anche a causa del trauma della guerra, ci presenta un soggetto irrimediabilmente scisso tra esperienza conscia e inconscia. Infine, negli anni cinquanta emerge una modalità del soggetto dai tratti
fortemente performativi, in cui l’identità è, in definitiva, una costruzione socialmente sancita, non l’espressione di contenuti innati e caratteristiche biologiche. Va ora definito il criterio seguito nella formazione del corpus di film su cui abbiamo lavorato. Il nostro discorso mira a mettere in rilievo le tendenze dominanti: si tratta di uno studio fortemente interpretativo, di natura anche storica, che non punta però all’esaustività quantitativa. Abbiamo esaminato un numero ampio di film, non tutti nominati, scelti in base al criterio che ci sembrava pertinente, in relazione alle domande che ci interessavano e alle risposte e ipotesi che cercavamo. La più efficace e influente rappresentazione dei desideri sociali e degli stili di vita prevalenti traspare dalle pellicole più viste e più amate dal grande pubblico e dalla critica di settore. I film analizzati e citati sono tutti, salvo rare eccezioni, di grande impatto, spesso con una posizione importante al box-office e/o premiati con Nomination agli Oscar o statuette, o ancora presenti nelle varie «liste dei migliori film» del periodo. Sovente hanno in seguito sollecitato l’interesse della critica accademica moderna più sofisticata, con la quale questo studio ha cercato un dialogo assiduo. Abbiamo dunque seguito un criterio sostanzialmente opposto a quello scelto da David Bordwell, Janet Staiger e Kristin Thompson in The Classical Hollywood Cinema (1985), opera fondamentale sull’argomento in cui un campione di film del periodo 1915-1960 è stato selezionato nel «modo più casuale possibile», con il risultato che si tratta quasi sempre di «film ordinari», che non si trovano in nessuna lista o classifica. Poiché per la maggior parte i film prodotti a Hollywood sono «ordinari», è evidente che la scelta casuale porta alla formazione di un campione che statisticamente privilegia il tipo di film più comune. Ma non sono queste le pellicole che il pubblico correva in massa a
vedere o di cui si discuteva ampiamente nei giornali e nelle riviste. Rispetto al nostro progetto di ricerca, il criterio di Bordwell, Staiger e Thompson si è prefisso evidentemente scopi di altra natura, su cui rifletteremo nel primo capitolo7. È evidente che il circuito tra socialità, forme dell’identità e modi di rappresentazione raggiunge una maggiore intensità simbolica, una configurazione più paradigmatica e più efficace nei film di successo. E dunque, per cogliere la natura e la forma dei modi di essere più cercati e desiderati, è necessario considerare opere che hanno raggiunto il pubblico più vasto8, che sono non di rado anche quelle apprezzate dalla critica. Non si tratta di poche unità per anno, ma di un numero notevole, data la quantità dei film prodotti e la frequenza con cui allora si andava al cinema. Tra i circa cinquecento film americani prodotti annualmente negli anni trenta, i trecentottanta del decennio successivo, i duecentottanta degli anni cinquanta, i film a grosso budget sarebbero, secondo Brian Taves, fra un terzo e un quarto della produzione totale: dunque una netta minoranza, ma certamente un corpus numericamente consistente9. La nostra scelta ha naturalmente dovuto fare i conti anche con la disponibilità su supporto video dei materiali. Crediamo tuttavia che analizzando un campione più ampio vedremmo confermate le nostre ipotesi. Questo progetto indaga le diverse forme di convergenza tra stili di vita e modi di messa in scena attraverso l’analisi dei generi più rappresentativi dei periodi considerati. Nel primo capitolo vengono discusse le varie teorie e metodologie di analisi emerse dal 1970 in relazione al cinema classico americano per cogliere i paradigmi, i tratti discorsivi e strutturali delle modalità più importanti di affrontare da un punto di vista teoricometodologico il cinema hollywoodiano. Partendo dalla tesi del subversive text,
vengono analizzate le influenti proposte di Laura Mulvey e della Feminist Film Theory, il lavoro di Raymond Bellour, le posizioni di David Bordwell, le nuove indicazioni emerse da fine anni ottanta che cercano di coniugare in modi diversi analisi teorica e storica, come per esempio la dualità classico/melodrammatico discussa da Rick Altman e il rapporto classicità/modernità sviluppato da Miriam Hansen, Jim Naremore e altri. Nei successivi sei capitoli, due per decennio, abbiamo affrontato quelli che consideriamo i modelli formali e rappresentativi dominanti che si succedono, lavorando sempre sul connubio tra film, ricerca storica di gender e analisi delle forme, al fine di definire i modi di vita e le esperienze del desiderio che marcano i diversi periodi. Il secondo capitolo esamina l’inizio degli anni trenta, le ultime stagioni del cosiddetto «periodo di transizione» del sonoro, una fase per certi versi preclassica, in quanto sussiste la tendenza a una messa in scena ancora intrisa della spettacolarità del muto, per esempio attraverso l’uso della sovrimpressione. Ma in questi anni fanno ancora presa le storie di affermazione della donna tipiche della sua nuova mobilità sociale, resa possibile dalla modernità. Così il discorso dà spazio alla New Woman, figura cardine dell’immaginario dei primi decenni del Novecento. Verso la metà degli anni trenta, scomparsi i residui formali della visionarietà del cinema precedente, si stabilizza una messa in scena trasparente, razionale e funzionale al racconto: sono gli anni dell’apogeo della scrittura classica, che potremmo forse delimitare dall’uscita di due capolavori come It Happened One Night (Accadde una notte) nel 1934 e Stagecoach (Ombre rosse) nel 1939, accomunati dal racconto di un viaggio, il modo più efficace ed esemplare per tradurre
in immagini il principio della linearità narrativa. Ma in questi anni, dominati dalle politiche di Roosevelt, assistiamo anche a un forte ridimensionamento della morale moderna e a un ritorno imperioso dei valori più tradizionali, come il matrimonio e la famiglia. Così la Nuova donna deve rinunciare alle sue ambizioni, mentre la figura dell’uomo forte popola l’immaginario cinematografico. La commedia sofisticata e il film d’avventura sono i due generi che meglio incarnano queste dinamiche. Nei primi anni quaranta il film di guerra non solo sostiene la politica interventista americana, ma dà linfa al modo di rappresentazione classico. Quasi contemporaneamente, tuttavia, comincia a emergere un nuovo connubio tra immaginario socio-mediale e tecniche della messa in scena che alimenta in particolare due generi, il noir e il woman’s film. Forme per certi versi gemelle, sono accomunate da alcuni procedimenti narrativi, come il flashback e la voiceover, e dalla scelta di personaggi marginali e di storie di sesso e violenza. Si distinguono invece per la diversità del punto di vista, maschile nel noir, femminile nel woman’s film. Questi film narrano traiettorie del desiderio trasgressive attraverso tecniche formali innovative, come la profondità di campo, che iscrivono una mutata condizione del soggetto. Anche grazie all’esplicita messa in scena di dinamiche psicoanalitiche, il protagonista è preda dei propri fantasmi inconsci e perde la capacità di agire che caratterizza il personaggio classico. In questo mutato scenario, il corpo assume una marcata fisicità, registrata da una nuova visionarietà dell’immagine filmica. A queste dinamiche sono dedicati il quarto e il quinto capitolo. Negli anni cinquanta, la televisione comincia a minare il primato del cinema come forma di intrattenimento popolare e l’immaginario americano è
dominato da uno stile di vita emergente che invade tutti i media: la cultura consumistica della famiglia suburbana diventa l’aspirazione prevalente, l’American Dream alla portata di tutti. L’indiscusso centro di questo stile di vita è la famiglia nucleare, luogo di agi e sicurezze, ma anche di frustrazioni e disillusioni. Così il soggetto è preda di un conflitto irrisolvibile tra le proprie aspirazioni e quelle della «morale borghese». Il family melodrama si incarica di narrare il nuovo scenario sfruttando appieno le innovazioni tecnologiche, formati panoramici e Technicolor in primis, che rendono più spettacolare e visionario lo show cinematografico e portano in primo piano la sessualità e il corpo. Questi sviluppi sono affrontati nel sesto capitolo. Alcuni tratti del family melodrama sono sfruttati in modo mirabile anche dal musical, in particolare nei film prodotti sin da metà anni quaranta dall’Arthur Freed Unit di MGM. Come cerchiamo di argomentare nel settimo capitolo, il musical è un genere particolare che per sua natura mette in discussione alcuni paradigmi di fondo della classicità. Tramite le dicotomie vita/arte e realtà/finzione, a partire dal cinema di inizio anni trenta di Busby Berkeley, il musical ha sempre mostrato la natura performativa dello spettacolo cinematografico e negato con forza il principio dell’illusione di realtà. Queste peculiarità si radicalizzano negli anni cinquanta: la spettacolarità dell’immagine aumenta il grado di artificiosità del film sino al punto in cui il rapporto tra realtà e finzione viene meno. Anticipando le pratiche del postmoderno, in alcuni casi l’immagine viene a perdere qualsiasi tratto referenziale. Questo processo investe anche lo statuto del corpo e del soggetto: più di ogni altro genere, il musical del periodo mostra la natura performativa e processuale dell’identità, smascherando al contempo ogni credenza sia sulla naturalità dell’essere, tipica del soggetto classico, che
sullo statuto scissionale dell’io della modernità. Così il progetto estetico e rappresentativo del musical costituisce la forma più innovativa e avanguardistica del periodo.
Tutte le proposte teoriche e metodologiche di analisi del film (come testo) che si sono succedute dalla fine degli anni sessanta, sino alle più recenti ipotesi interpretative che integrano, per semplificare, analisi testuale e contestuale, attraverso la categoria di spettatore o di audience storica, sono emerse, in linea di massima, tramite lo studio del cinema classico americano. Nel caso degli studi sull’audience storica va ricordato il ruolo fondamentale del cinema primitivo, anche se mi sembra che il primo studio articolato sia quello di Miriam Hansen sul fenomeno Valentino, un cinema dunque già «classico». Per una panoramica del ruolo del cinema americano nello sviluppo dell’analisi del film si veda R. Bellour, Le cinéma américain, 2 voll., Paris, Flammarion, 1980. Per quanto riguarda Hansen mi riferisco a M. Hansen, Babel & Babylon, trad. it. Babele e Babilonia, Torino, Kaplan, 2006. 1
Sul concetto di formazione discorsiva si veda naturalmente Michel Foucault, L’archéologie du savoir, trad. it. L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Milano, Rizzoli, 1971, che definisce il quadro epistemologico dello studio della storia della cultura. D’altronde, tutta la ricerca sviluppata in questo libro sul circuito del desiderio fra intersoggettività e formazioni immaginarie guarda ancora alla riflessione di Foucault su sessualità e discorso (M. Foucault, La volonté de savoir, trad. it. La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1984, primo volume della Storia della sessualità, Milano, Feltrinelli, 19841985). 2
Ci riferiamo a R. Altman, Film/Genre, trad. it. Film/Genere, Milano, Vita & Pensiero, 2004, un modello di assoluto rilievo per analisi di questo tipo. 3
In questo ambito vanno ricordati almeno: T. Balio, United Artists. The Company Built by the Stars, Madison, The University of Wisconsin Press, 1976; Id. (a cura di), The American Film Industry, ed. rivista, Madison, The University of Wisconsin Press, 1985; Th. Schatz, The Genius of the System, New York, The Pantheon Books, 1988; V. Zagarrio (a cura di), Studi Americani, Venezia, Marsilio, 1994. 4
D. Bordwell, The Classical Hollywood Style, 1917-1960, in D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, New York, Columbia University Press, 1985, p. 13. 5
Sull’identificazione rinvio a Estetica del film, Torino, Lindau, 1996; R. Allen, Projecting Illusions. Film Spectatorship and the Impression of Reality, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; M. Smith, Engaging Characters. Fiction, Emotion and the Cinema, Oxford, 6
Clarendon Press, 1995; E. Cowie, Representing the Woman: Cinema and Psychoanalysis, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997. Sui criteri di formazione del campione si veda Bordwell, Staiger, Thompson, The Classical Hollywood Cinema, cit., pp. 388-396. 7
Secondo Kathryn Fuller, nelle cittadine di provincia si potevano sostanzialmente vedere gli stessi film che uscivano nei teatri di prima visione dei grandi centri urbani, con la differenza che nei lussuosi Picture Palaces delle metropoli i film arrivavano prima e la qualità della visione era superiore. Cfr. K.h. Fuller, «You Can Have the Strand in Your Own Town»: The Struggle between Urban and Small-Town Exhibition in the Picture Palace Era, in G.A. Waller (a cura di), Moviegoing in America, Malden-Oxford, Blackwell Publishers, 2002, pp. 88-98, 89. 8
Per i dati sulla produzione si veda C.S. Steinberg, Film Facts, New York, Facts on File Inc., 1980. Cfr. inoltre B. Taves, The B Film: Hollywood’s Other Half, in T. Balio, Grand Design, Berkeley, University of California Press, 1993. 9
1. LE TEORIE SUL CINEMA CLASSICO AMERICANO, DAL 1970 A OGGI
Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta il critico Andrew Sarris reinterpreta il movimento della politique des auteurs per il contesto americano, contribuendo più di ogni altro all’affermarsi negli Stati Uniti della auteur theory, ovvero la formazione di un canone di autori del cinema hollywoodiano. Sarris è l’esponente più influente di un movimento che, come in Inghilterra, ridisegna la pratica critica cinematografica. Particolarmente forte a New York, la critica autoriale si diffonde attraverso retrospettive e soprattutto sulle pagine di riviste come «Film culture» e «Film comment»1. Anticipata nel famoso saggio di Manny Farber, Underground Films (1957)2, grazie ai contributi di Sarris in «The Village Voice» e in The American Cinema (1968) questo metodo critico si istituzionalizza. Come Truffaut, Sarris si scaglia polemicamente contro la «tradizione di qualità» e la critica dominante che difendeva il cinema del «realismo sociale» e «l’arte seria», dando invece rilievo, da un lato, a questioni stilistiche e formali, dall’altro, al cinema popolare. Sarris si batte affinché venga riconosciuto il valore artistico del cinema hollywoodiano, stabilendo in The American Cinema una sorta di graduatoria capeggiata dai pantheon directors, i registi più significativi3. Come i «giovani turchi», riconosce nel regista l’autore del film e, in sintonia con la prospettiva francese, propone di valutare l’autorialità considerando «la competenza tecnica, la presenza di uno stile visivo distinto e di un significato che nasce dalla tensione tra il regista e le condizioni di produzione in cui lavora»4. Mentre una più articolata disamina del lavoro di Sarris e della critica autoriale negli anni sessanta va rinviata ad altra sede5, ci interessa ricordare come la moderna teoria del testo, che emerge attorno al 1968, si configuri come un vero e proprio «salto di paradigma» rispetto alla auteur theory. In quegli stessi anni lo strutturalismo decreta «la morte dell’autore» e sostiene che l’analisi dei prodotti culturali deve interessarsi alle relazioni che si istituiscono tra gli elementi del testo, ovvero ai modi di produzione del senso. Poiché è il linguaggio a produrre il soggetto, e non viceversa, la nozione di autore entra fortemente in crisi. Il concetto, tuttavia, non scompare, ma viene riproposto da alcuni in chiave strutturalista: si pensi alle proposte di Geoffrey NowellSmith su Visconti e di Peter Wollen su Hawks (e Ford)6. Sotto l’influenza dello strutturalismo lo studio del cinema, e in particolare del cinema classico americano, vive, attorno al 1970, una trasformazione radicale7. I modelli di analisi che emergono in questo ambito costituiscono, cronologicamente, i primi riferimenti teorico-metodologici per questo studio. Mentre la convergenza tra lo strutturalismo e la «questione dell’ideologia» è alla base dell’opposizione tra classic realist text e subversive text, l’incontro tra il paradigma strutturalista, la semiologia e la psicoanalisi guida il lavoro di Raymond Bellour. Infine, la riconfigurazione di questi parametri in una prospettiva di gender ispira il saggio di Laura Mulvey Piacere visivo e cinema narrativo e la nascente Feminist Film Theory. IL «SUBVERSIVE TEXT»: LO STILE OLTRE LA STORIA8
Il dibattito sullo statuto ideologico dell’apparato cinematografico e del film favorisce nei primi anni settanta la formazione di un discorso concettuale di grande suggestione, che costituisce, tra l’altro, uno degli sviluppi più importanti dell’analisi del film: l’originale rielaborazione di alcuni interventi apparsi nei «Cahiers du cinéma» tra fine anni sessanta e inizio anni settanta, e tradotti in inglese su «Screen», porta alla formulazione di una griglia teorico-interpretativa del cinema classico non più monolitica. Due scritti, in particolare, hanno un ruolo di primo piano: l’intervento di
Jean-Louis Comolli e Jean Narboni Cinéma, idéologie, critique (1969), in cui si propone una tipologia del rapporto tra film e ideologia, ovvero di come il testo veicoli, o meno, un messaggio ideologico, e lo scritto di Jean-Pierre Oudart, Cinéma et suture (1969), in cui si discute il rapporto tra strategie tecnico-formali ed esperienza spettatoriale. Riprendendo la tipologia proposta da Comolli e Narboni, gli studiosi più accorti individuano nel cinema classico la compresenza di due diversi modelli di rappresentazione, il classic realist text e il subversive (o progressive) text. Il realist text è «imbevuto dall’inizio alla fine dall’ideologia dominante che vi compare in forma pura e inadulterata […]. Questi film accettano il sistema stabilito di dipingere la realtà: “realismo borghese” […] cieca fede nella “vita”, nell’“umanità”, nel “buon senso”». Al contrario il subversive text «sembra a prima vista appartenere fermamente all’ideologia ed esserne dominato», ma risulta invece legato ad essa in modo ambiguo. Guardando la struttura del film si possono cogliere due momenti: uno in cui il testo sembra restare entro certi limiti, un altro in cui li trasgredisce. Se si legge «il film obliquamente, cercando sintomi e se si guarda oltre l’apparente coerenza formale, si vedrà che il film è cosparso di crepe: è diviso da una tensione interna che non si riscontra in un film ideologicamente innocuo»9. Nel primo gruppo rientrerebbero tutti quei film che, «nascondendo» i loro processi di scrittura – utilizzando cioè l’invisible style – e privilegiando i nessi dell’intreccio e della sua risoluzione, «nascondono» anche l’ideologia veicolata dal racconto. Componente fondamentale del classic realist text è il processo di identificazione cui lo spettatore è interpellato, processo che, fondandosi su schemi inconsci, impedisce all’esperienza filmica di diventare esperienza cosciente. Nel privilegiare l’istanza dell’Immaginario, a scapito di quella del Simbolico, il cinema di Hollywood non farebbe altro che alimentare quella «falsa coscienza» che, all’indomani del ’68, intellettuali e critici si propongono di mettere in discussione10. Quando si vanno ad analizzare concretamente i film, si fa però strada la consapevolezza che il loro funzionamento ideologico è diversificato. A nostro avviso si può cogliere una scansione cronologica, all’interno del periodo 1930-1960: rispetto al cinema degli anni trenta, quello dei due decenni successivi mostra dispositivi narrativi e modelli di messa in scena profondamente mutati11. Nel cinema degli anni quaranta e cinquanta le storie diventano complesse e confuse, i nessi di causa ed effetto non sono più rigorosamente rispettati e il racconto riesce solo faticosamente a spiegare, e risolvere, i conflitti della story. Spesso, è così contorto e inverosimile da risultare contraddittorio. Ma è il livello stilistico, o meglio l’eccesso stilistico, che rivelerebbe le contraddizioni del racconto stesso e quindi, questo è il punto fondamentale, dell’ideologia veicolata. Lo stile, in altre parole, svelerebbe ciò che la story censura e non riesce a esplicitare, acquistando dunque una funzione critica e rivelando le contraddizioni dell’ideologia. Nel rendersi visibile, e nell’oltrepassare il racconto, lo stile porterebbe in superficie, così come il sintomo, dei contenuti latenti. Si tratta di un «contro-cinema» che mette in discussione, attraverso codici stilistici ed espressivi, il progetto formale del film classico. Questo secondo tipo di testo, di cui il family melodrama degli anni cinquanta costituisce un nucleo importante, è il subversive text12. Il saggio di Thomas Elsaesser Tales of Sound and Fury (1972) costituisce la prima articolata interpretazione del «film sovversivo». Dedicato al family melodrama degli anni cinquanta, l’intervento di Elsaesser ha un ruolo di primo piano, in quanto apre un vero e proprio campo di ricerca: a partire dalla centralità che rivestono nel dibattito su film classico/film sovversivo, gli studi sul melodramma rimarranno nei decenni successivi un luogo privilegiato nelle elaborazioni teoriche e metodologiche sul cinema hollywoodiano. Anzi, come speriamo di chiarire in seguito, si può affermare che la dialettica tra classico e melodrammatico sia il nucleo teorico forte di quasi tutti i modelli di interpretazione sul film americano e che, a partire da questo elemento, sia possibile spiegare gli snodi più interessanti nel modo di affrontare il tema13. Elsaesser evoca la tradizione melodrammatica a teatro e nel romanzo sottolineando che, in linea con questa tradizione, il melodramma hollywoodiano è costruito sulla discontinuità, «sull’evidenza di crepe e rotture nel tessuto dell’esperienza e sul
richiamo alla realtà della psiche»14. La forma melodrammatica si manifesta in periodi di cambiamenti sociali che mettono in crisi l’esperienza soggettiva. Le variazioni tonali del melodramma esprimono sia tali cambiamenti che le diverse modalità tramite cui gli individui li vivono. In virtù della necessità di esprimere stati emotivi e psichici, il melodramma poggia sull’intensità, resa formalmente da codici visivi e musicali, a scapito del linguaggio verbale che qui ha una minore rilevanza15. Secondo Elsaesser, l’intensità e l’eccesso stilistico del melodramma, che significano oltre l’azione e il linguaggio, costituiscono un’indicazione assai chiara dell’uso cosciente «dello stile come significato», il tratto che definisce «la sensibilità modernista all’opera nella cultura popolare»16. Dunque, dietro la spettacolarità delle immagini e la forza dell’emozione, il melodramma hollywoodiano attiva un’operazione sovversiva, in cui l’esperienza spettatoriale diventa la presa di coscienza critica dei valori espressi dal film. Il lavoro di analisi compiuto in quegli anni porterà molti studiosi a scovare all’interno del cinema classico una miriade di «testi sovversivi». Una ricognizione sulla tipologia di questi film mi ha portato a due conclusioni: da un lato che, a parte pochi casi eccellenti, i film sovversivi sono prodotti negli anni quaranta e cinquanta, dall’altro che appartengono sostanzialmente a tre generi, il family melodrama degli anni cinquanta, il noir e il woman’s film del decennio precedente. È soprattutto su queste opere che negli anni settanta e ottanta si è affinata l’analisi del film. Con l’affermarsi della Feminist Film Theory, la nozione di film sovversivo viene declinata nella prospettiva di gender. «FEMINIST FILM THEORY» E CINEMA CLASSICO: PERDITA E RICONQUISTA DEL PIACERE
Nella doppia veste di concetto teorico e pratica analitica il binomio classic realist e subversive ha contribuito in modo determinante anche allo sviluppo della Feminist Film Theory (FFT). Poiché il film sovversivo è un testo parzialmente aperto e dalle dinamiche identificative molteplici, esso è divenuto un modello di riferimento per le femministe che sono riuscite a cogliere, in molti film del periodo classico, elementi di autonomia del femminile. Nell’ambito della FFT, la nozione di film sovversivo viene inizialmente proposta da Claire Johnston e Pam Cook a metà anni settanta. Le due autrici partono dalla lettura che Lacan fa di Lévi-Strauss a proposito del funzionamento dei sistemi di parentela nell’elaborazione del rapporto tra soggetto e simbolico. La parentela è una struttura regolata da un sistema di scambio che è anche un sistema di comunicazione attraverso cui uomini e donne vengono posizionati: in questo sistema sono sempre gli uomini che scambiano le donne. Pertanto, le donne diventano un segno che circola assicurando la comunicazione tra uomini, clan, gruppi ecc. Nella lettura lacaniana, tale sistema di scambio viene applicato al complesso edipico: così la donna come segno sta a significare, innanzitutto, il non-uomo, la differenza, la mancanza e, quindi, la castrazione17. Il tipico film classico è fondato su questo modello, sull’asimmetria tra maschile e femminile18. Tuttavia, ponendosi sulla scia di Comolli e Narboni, Johnston si chiede anche se sia possibile, per un regista di Hollywood, assumere una posizione critica nei confronti del sistema dominante. Il gesto critico dell’autrice consiste nell’appropriarsi di questa suggestione teorica e di riformularla in chiave femminista: esistono, cioè, all’interno del cinema hollywoodiano, subversive films in relazione alla differenza sessuale, all’articolazione del rapporto maschile/femminile? Come si rintracciano sul testo queste operazioni? È dunque possibile un controcinema all’interno del sistema? Johnston nota che nei film di Dorothy Arzner e Ida Lupino, le uniche registe donne del periodo classico, vi è una frattura tra ideologia e testo: esse «cercano attraverso espedienti formali di produrre uno iato tra ideologia sessista e testo del film»19. In particolare, nel cinema di Arzner è iscritto uno specifico discorso femminile che sovverte e contraddice quello maschile20. In film come Merrily We Go to Hell (1932) e Dance, Girl, Dance (1940), l’operazione sovversiva viene assicurata da
strategie retoriche che rompono l’identificazione della spettatrice promuovendo invece la comprensione dei meccanismi narrativi e ideologici21. La perdita del piacere a favore della riflessione è uno dei tanti punti di contatto tra la posizione di Johnston e Cook e il più famoso e influente intervento di Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, pubblicato nel 1975 su «Screen». Nonostante il concetto di subversive text abbia fortemente influenzato gli studi femministi, è indubbio che Piacere visivo e cinema narrativo rimane, a trent’anni dalla sua pubblicazione, l’intervento più importante della FFT. Se è vero che alcuni fondamentali concetti sono presenti in Johnston e Cook, per esempio la donna come mancanza e come spettacolo, il ruolo dello sguardo nella rappresentazione filmica, è anche vero che spesso essi vengono più enunciati che spiegati: mancano alcuni passaggi esplicativi, così che la proposta spesso rimane a livello di suggestione senza trasformarsi in effettivo modello teorico, ruolo che compete invece a Piacere visivo. La forza e l’efficacia argomentativa con cui Mulvey propone una teoria psicoanalitica non solo del film classico, ma anche dell’apparato cinematografico e dell’esperienza spettatoriale, colpiscono ancora oggi. In particolare, Mulvey teorizza la centralità dello sguardo nell’esperienza cinematografica: ovvero, lo sguardo è il vettore del funzionamento dell’apparato, del rapporto spettatore/schermo e delle dinamiche diegetiche del testo filmico. La tesi centrale del saggio investe la relazione di omogeneità che esisterebbe tra le dinamiche psichiche del soggetto umano, come le ha spiegate la psicoanalisi freudiana, il dispositivo cinematografico e le strutture narrative e linguistiche del film classico. Il cinema hollywoodiano iscrive, tramite strategie formali altamente codificate, la differenza sessuale, replicando così il rapporto di subordinazione del femminile verso il maschile che caratterizza la società patriarcale e che Freud ha descritto in molti suoi interventi22. In primo luogo, il piacere visivo dell’esperienza cinematografica si fonda sull’attivazione di due pulsioni del guardare contraddittorie, il voyeurismo e il narcisismo. Queste dinamiche, tuttavia, non sono ugualmente disponibili per lo spettatore e per la spettatrice, in quanto il cinema classico ha iscritto la differenza sessuale nelle sue strategie retoriche e, conseguentemente, nell’esperienza spettatoriale. Nel film classico «il piacere del guardare è stato scisso in attivo/maschile e passivo/femminile»: la funzione della donna è puramente erotica e si esaurisce nel sostenere il desiderio maschile, motore dell’azione narrativa. Così il rapporto attività/passività è registrato sia a livello narrativo che retorico: mentre l’azione diegetica viene condotta dal personaggio maschile, la soggettiva è la figura che meglio mette in scena il ruolo attivo dell’uomo. Grazie alla tecnica cinematografica – profondità di campo, movimenti di macchina, montaggio – «il protagonista maschile è libero di imperare sulla scena, una scena di illusione spaziale in cui egli articola lo sguardo e crea l’azione»23. In sintonia con le elaborazioni più avanzate del periodo, Mulvey riscontra, nei meccanismi dello spettacolo cinematografico e nelle tecniche filmiche del cinema classico, dispositivi che attivano nello spettatore le dinamiche inconsce studiate dalla psicoanalisi. Ma, diversamente da Baudry e Metz24, per i quali l’esperienza cinematografica non è sessualmente definita, Mulvey afferma che la differenza di gender è iscritta non solo nella rappresentazione filmica, ma anche nell’esperienza cinematografica. Il cinema classico è costruito per il solo piacere dello spettatore maschile: se l’identificazione è il riconoscimento di sé nell’immagine del proprio simile, è chiaro che, poiché è il personaggio maschile a dominare la scena, con l’azione e lo sguardo, solo l’uomo in sala potrà identificarsi con l’eroe. Unendo il proprio sguardo a quello del personaggio, lo spettatore sarà in grado di possedere vicariamente la donna. Dunque, la disparità nella rappresentazione si traduce in una disparità spettatoriale. È questo il punto più controverso e dibattuto del saggio, cui si cercherà, a iniziare da Mulvey stessa, di contrapporre una visione meno negativa dell’esperienza femminile. Se «per un bel po’ qualsiasi femminista che scrivesse sul cinema si sentiva obbligata a situarsi in relazione a Mulvey»25 cercando di smentirla, il tempo ha ampiamente dimostrato la centralità di questo saggio nell’ambito degli studi cinematografici. Così
come è del tutto evidente che le critiche mosse in quegli anni sono state prontamente accolte dall’autrice che, in un saggio del 1981, ha completato la sua proposta teorica. L’importanza di Piacere visivo sta nel suo impianto teorico di base, ovvero nell’avere fornito un modello forte di interpretazione del film centrato sulle dinamiche di sguardo, desiderio e identificazione e nell’avere sottolineato la non universalità di questi processi, ovvero la differenza che comportano per il maschile e il femminile, sullo schermo e in sala. L’eccesso della prima proposta di Mulvey stava nel non dare alcuno spazio al desiderio e all’autodeterminazione del soggetto femminile. In Afterthoughts on «Visual Pleasure and Narrative Cinema» Inspired by King Vidor’s duel in the Sun (1946), Mulvey offre un’ipotesi alternativa e complementare, ammettendo la possibilità del piacere femminile. Rifacendosi all’interpretazione freudiana della sessualità, afferma che il cinema classico in realtà permette alla spettatrice di identificarsi con l’immagine cinematografica. Secondo Freud la sessualità femminile preedipica è segnata, come per il maschio, dall’attività, e solo nell’età adulta dalla passività. Freud nota che per la donna questo passaggio è particolarmente difficile e doloroso e che il soggetto femminile tende in età adulta a regredire alla fase fallica, tanto che la bisessualità caratterizza le donne molto più degli uomini. È precisamente questa dinamica che, secondo Mulvey, il cinema hollywoodiano attiverebbe: la spettatrice può in taluni casi identificarsi con l’eroe in virtù della regressione alla fase attiva preedipica. Il cinema strutturato attorno al piacere maschile consentirebbe così «alla donna spettatrice di riscoprire quell’aspetto perduto della sua identità sessuale, il mai pienamente represso fondamento della nevrosi femminile»26. È con spirito e scopi simili che la FFT si muove in quegli anni, nel tentativo non solo di analizzare e capire le forme simboliche della sottomissione femminile, ma alla ricerca di fenomeni in cui il desiderio femminile si scopre meno soggiogato e uniformato, e in cui il piacere della donna ha modo di attivarsi o di mostrarsi in forme che la psicoanalisi freudiana non aveva ipotizzato. In secondo luogo, si indagano le pratiche filmiche con l’intento di identificare forme del desiderio e dell’identità maschile diverse dal controllo e dal potere. Così, assieme all’esperienza spettatoriale, anche il dispositivo testuale del film classico è connotato dalla molteplicità. Come mostrano molti contributi significativi di fine anni ottanta, particolari generi, film e autori mostrano dinamiche del desiderio complesse, in cui vi è spazio per l’espressione del desiderio femminile e per una limitata autodeterminazione della donna. Per esempio, in The Women Who Knew Too Much. Hitchcock and Feminist Theory, Tania Modleski ribalta le conclusioni cui era pervenuta Mulvey in Piacere visivo, che aveva visto nel cinema del regista inglese la radicalizzazione delle traiettorie sadicovoyeuristiche del cinema classico. Per Modleski il cinema di Hitchcock è segnato da dinamiche del desiderio ambigue o, quanto meno, non monolitiche. La violenza cui vengono sottoposte le donne è segno del loro potere e le strategie di contenimento del desiderio, così efficacemente messe in atto dal testo classico, in Hitchcock non funzionano pienamente: le donne rimangono sostanzialmente «resistenti all’assimilazione in termini patriarcali». Quando poi si narra una traiettoria edipica femminile, è lo specifico desiderio della donna, per esempio nella forma del rapporto madre/figlia, che viene messo in scena. E la «fascinazione con la femminilità sovverte le aspirazioni al controllo e all’autorità non solo dei personaggi maschili ma dell’autore stesso»27. Più in generale, il cinema di Hitchcock mette in crisi nozioni di genere fisse, in quanto attiva identificazioni e posizionalità mutevoli: lo spettatore maschile, per esempio, può identificarsi fortemente con il femminile, abbandonando così le prerogative della forza e dell’autonomia maschili. In effetti, nella visione di alcuni film, lo spettatore assume di frequente identificazioni passive, femminili e masochiste, come nel caso di Jeff in Rear Window (La finestra sul cortile, A. Hitchcock, 1954)28. Gaylyn Studlar avanza un’ipotesi interpretativa di grande interesse a proposito dei sei film della collaborazione tra Josef Von Sternberg e Marlene Dietrich. Mettendo in campo un corpus psicoanalitico di ampio spettro, Studlar afferma che, lungi dall’essere costruiti attorno al controllo sadico-voyeurista del maschile sul femminile, i film Von Sternberg/Dietrich mostrano tutti i tratti dell’estetica masochistica: in luogo della causalità e linearità classiche essi presentano plot ripetitivi e circolari che mettono in
scena la sospensione del desiderio. Sospensione e ripetizione riattivano il momento della separazione e della perdita del bambino dalla madre. Mentre nel sadismo il piacere è dato dal possedere l’oggetto, il desiderio masochistico dipende dalla separazione: il masochista assapora la suspense e la distanza dall’oggetto. Per quanto riguarda la donna, Marlene non è l’oggetto passivo, segnato dalla mancanza, del desiderio maschile, ma una figura che è sia oggetto che soggetto dello sguardo. Il masochismo prevede la reversibilità delle posizioni soggettive, lo scambio continuo dei ruoli di potere: in ultima analisi, esso mette in scena questioni riguardanti la bisessualità. Ma lo stile masochista si regge anche su principi diversi da quelli della classicità. È uno stile visivo sensuale in cui dettagli, frammenti e ornamenti vengono privilegiati. Le sequenze non sono articolate in modo analitico, come nel cinema classico, ma vivono di momenti intensi. Diversamente dalla classicità, che attraverso l’azione si muove verso il differente e il cambiamento, l’economia del desiderio masochistico privilegia, grazie alla ripetizione, il simile e la stasi29. Come il lavoro di Modleski su Hitchcock, il contributo di Studlar è ben più complesso e articolato di quanto non possa rendere conto questa sommaria trattazione. Non è nemmeno possibile proporre una mappatura esaustiva della FFT: le proposte innovative sono numerosissime, poiché il campo costituisce uno degli episodi più fertili degli studi sul cinema nel panorama internazionale30. Nei capitoli successivi torneremo a più riprese sull’argomento nell’analisi di periodi, stili e film particolari. Va comunque segnalato, nell’ambito dello sviluppo delle teorie sul cinema classico, che il lavoro delle studiose ha investigato sia la complessità che la molteplicità delle strategie testuali e comunicative, contribuendo ad arricchire e affinare le tecniche interpretative del film. Particolare attenzione è stata dedicata ai film in cui il desiderio e l’identità femminile sono particolarmente complicati e tortuosi. Come vedremo, l’analisi di film come Blonde Venus (Venere bionda, J. Von Sternberg, 1932), Now, Voyager (Perdutamente tua, I. Rapper, 1942) e Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred, M. Curtiz, 1945), mette in luce che il desiderio della donna, pur essendosi esercitato in forme subordinate o contenute, ha trovato un certo margine d’azione e libertà, ancorché limitato, nella ricerca di forme identitarie nuove o censurate. I DISPOSITIVI FORMALI DEL FILM CLASSICO: LA TEORIA DI RAYMOND BELLOUR
Negli anni in cui la FFT pone le proprie basi, si sviluppa anche la proposta forte di Raymond Bellour, la cui prima analisi, su una sequenza di The Birds (Gli uccelli, A. Hitchcock, 1963), risale al 1969. In una decina d’anni l’analista francese pubblica una serie di studi su film hollywoodiani, poi raccolti a fine decennio nel volume L’analyse du film (1979). Mentre alcuni suoi spunti mostrano una forte sintonia con il primo intervento di Mulvey, Bellour è anche il maestro riconosciuto di «Camera Obscura», la rivista di Berkeley che nel 1976, anno della sua fondazione, dà inizio alla FFT d’oltreoceano. I lavori di Bellour nascono come analisi testuali di singoli film, ma già dal secondo studio sul film classico, il dialogo in macchina tra Humphrey Bogart e Lauren Bacall in The Big Sleep (Il grande sonno, H. Hawks, 1946), diventa chiaro che il lavoro del critico francese ha una portata teorica di fondo, in quanto l’analisi rivela, oltre ai dispositivi del singolo film, quelli del cinema classico tout court31. Servendosi in modo originale dei contributi dei più influenti pensatori francesi del periodo, Bellour fonde i principi dello strutturalismo di Lévi-Strauss e Barthes con la semiologia di Metz e la psicoanalisi di Lacan, allo scopo di scovare le strutture soggiacenti del film classico. L’analisi gli consente di formulare un modello teorico di indubbio valore. Secondo Bellour i dispositivi di base del film classico sono l’alternanza e la ripetizione, esemplificati in modo paradigmatico dal campo/controcampo, cui va aggiunta la variazione, come nel caso della tipica sequenza classica in cui il campo/controcampo è interrotto da un piano totale che funge da elemento di rottura. Alternanza, ripetizione e variazione sono riscontrabili sia a livello narrativo che del singolo codice e il
funzionamento del micro-evento narrativo è in realtà assai simile a quello del film nel suo complesso. Le analisi dei frammenti di Gli uccelli e Il grande sonno, condotte attraverso la segmentazione della scena nei singoli piani, la ricerca dei codici pertinenti e l’articolazione dei rapporti di alternanza, ripetizione e rottura tra i vari codici, rivelano che nel cinema classico le strutture significanti, ovvero il sistema di relazioni e le modalità di combinazione e significazione degli elementi, sono fisse, mentre variano gli elementi che entrano in gioco. In altre parole, solo i principi di alternanza, ripetizione e variazione rimangono costanti, mentre mutano i codici pertinenti e l’immaginario del film. Se un codice può non essere pertinente – la mobilità della mdp, a differenza della scala dei piani, non è sempre significante –, ogni codice pertinente è tale in quanto le sue unità vengono poste in relazione dialettica, in alternanza l’una con l’altra. In secondo luogo, nel caso dell’alternanza, per esempio, tra personaggio maschile e femminile, è assai importante vedere come viene declinata la dialettica luce/ombra, o l’opposizione tra inquadratura frontale e obliqua, o qualsiasi altra alternanza. Questo aspetto è di fondamentale importanza in quanto determina la sostanziale apertura e flessibilità della teoria di Bellour, in sintonia con la FFT, ma in opposizione alla proposta di Bordwell & Co., cui daremo spazio tra poco. Bellour, infatti, «non giunge a ipostatizzare lo stile come elemento autonomo e riconoscibile del film, ma considera invece gli elementi linguistici come elementi incardinati nella forma filmica […] coordina le opzioni stilistiche alle figure immaginarie operanti, avvalendosi quindi di un’idea di testo come forma complessa e non come mera somma di procedure di simbolizzazione»32. L’analisi combinata di stile e immaginario conduce Bellour alla stessa conclusione di Mulvey. Le analisi di Il grande sonno e Gli uccelli mostrano che il film classico è un dispositivo che ha tradotto in termini tecnico-formali la condizione psichica e sociale della differenza sessuale, dove il maschile occupa la posizione di soggetto e il femminile quella di oggetto33. Su questo punto Bellour è forse ancora più esplicito nella bella intervista concessa a Janet Bergstrom per «Camera Obscura» nel 1979. Dopo avere discusso i paradigmi critico-teorici dell’autore, anche in relazione al contesto intellettuale francese, Bergstrom afferma di «sentire sempre più un senso di claustrofobia e frustrazione» nel leggere i lavori di Bellour. Anche se egli «è critico verso il sistema simbolico» da lui studiato, Bergstrom si sente intrappolata nel sistema stesso e si chiede «quale futuro l’analisi testuale del film classico possa avere se per la donna non esiste che una possibilità: il suo ruolo ha senso solo in relazione all’eroe maschile, al lavoro che questi compie per venire a patti col desiderio e la legge». La risposta di Bellour non lascia spazio ad alcuna negoziazione. Egli afferma: «Mi sembra che il cinema classico americano si fondi su una sistematicità che opera proprio a scapito della donna, se così si può dire, determinando la sua immagine, le sue immagini, in relazione al desiderio del soggetto maschile che così definisce se stesso attraverso questa determinazione. Questo vuol dire che la donna si trova per se stessa implicata in relazione al desiderio e alla legge, ma in una prospettiva che fa ricadere le rappresentazioni dei due sessi sulla logica dominante di uno dei due». Bergstrom replica che «le dinamiche dell’identificazione nel cinema classico prevedono possibilità ulteriori», ma non elabora ulteriormente il proprio punto di vista34. Come sottolineato in precedenza, è questa la strada che la FFT seguirà, cercando di «smentire» Bellour e la prima Mulvey35. LA PROPOSTA DI DAVID BORDWELL & CO.: IL MODELLO CLASSICO COME FILM ORDINARIO
La pubblicazione di The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960 (1985) di David Bordwell, Janet Staiger e Kristin Thompson (B/S/T) è un evento che scuote il già vivace mondo accademico anglo-americano: il volume diviene subito oggetto di analisi critica e anima un dibattito acceso in cui non mancano i toni polemici. The Classical Hollywood Cinema colpisce non soltanto per la portata teorica, storica e analitica del progetto interpretativo messo in campo, ma anche per la
sua assoluta alterità rispetto alla maggior parte degli studi di quel periodo, la sua novità. Anche a distanza di vent’anni si può cogliere il carattere innovativo del lavoro di B/S/T36, che assume uno statuto significativo soprattutto in relazione agli altri modelli interpretativi di cui abbiamo sinora discusso. La proposta di B/S/T costituisce senza dubbio la teoria più forte sin qui incontrata, poiché concepisce il testo classico come un modello che spiega l’intera produzione americana dai tardi anni dieci a fine anni cinquanta. Dunque, una teoria altamente astratta, in grado di accomodare differenze e variazioni, sia sincroniche che diacroniche, per quanto riguarda il genere, le forme dell’immaginario e le tecniche di messa in scena. Il progetto si propone di «articolare un approccio teorico alla storia del cinema»37 mettendo in relazione due nozioni: mode of film practice e mode of film production. con il primo si intende un sistema di norme che consente di stabilire una serie coerente di idee su come un film debba funzionare. Tali idee sono condivise da registi e spettatori e determinano, dunque, le scelte stilistiche dell’autore e la comprensione del film da parte dello spettatore. Le norme stilistiche sono rese possibili dal modo di produzione, una serie di procedure e norme di lavorazione all’interno di un sistema economico industriale. Il film classico hollywoodiano è, dunque, «una costruzione teorica basata sulla relazione tra questi due concetti»38. Secondo gli autori, il periodo 1917-1960 vede una sostanziale stabilità del modello formale, in quanto le innovazioni tecnologiche, quali il sonoro, la profondità di campo e il Technicolor, vengono prontamente assorbite nel format classico. Bordwell è a tal proposito molto netto: afferma che tali «cambiamenti crearono alcune inefficienze produttive e costi extra, ma in tutti i casi il modo di produzione hollywoodiano assorbì le innovazioni e si stabilizzò. Lo stile classico assegnò prontamente alle nuove tecniche funzioni già canonizzate; in modo reciproco, alcuni nuovi dispositivi estesero e arricchirono il paradigma classico»39. Nel lungo capitolo dedicato allo stile e nel contemporaneo Narration in the Fiction Film (1985), Bordwell delinea i tratti costitutivi del cinema classico: innanzitutto le tecniche filmiche sono subordinate alla narrazione, costituita da eventi legati da un rapporto di causa-effetto, ovvero dal desiderio di un soggetto umano di ottenere qualcosa. Le strategie compositive devono dunque assicurare la trasmissione delle informazioni narrative, mentre il principio della coerenza narrativa e della totalità del mondo trascina con sé una precisa configurazione della scena: la sequenza classica prevede unità di luogo, tempo e azione, e a tale scopo concorrono tutte le modalità di ripresa e montaggio. Le tecniche sono limitate e il livello di standardizzazione elevato. Per quanto riguarda l’esperienza spettatoriale essa è definita, sostanzialmente, da uno sforzo cognitivo di comprensione delle motivazioni narrative. Si tratta di una fruizione che implica il livello cosciente e in cui non vengono attivati procedimenti inconsci. Bordwell disconosce qualsiasi validità alle dinamiche dell’identificazione e del desiderio, negando addirittura che tali processi abbiano luogo40. Una delle sfide di questo studio è di proporre una visione esattamente opposta a quella della stabilità del modello classico. Del resto, in contrasto con quanto affermano molti studiosi, Bordwell vede la persistenza del modello classico anche nel cinema americano contemporaneo, regolato dalla continuità che, attraverso nuovi tratti stilistici, verrebbe, rispetto al periodo precedente, solo intensificata. Ma l’intensificazione non produrrebbe cambiamenti sostanziali nella forma filmica, il cui schema di base rimarrebbe immutato, così come immutate rimarrebbero le operazioni mentali attivate dallo spettatore nella visione del film41. Per Bordwell, l’intensificazione visiva è un aspetto quasi irrilevante del cinema contemporaneo, così come l’eccesso melodrammatico lo è per il periodo classico. Come abbiamo iniziato a vedere, proprio la dialettica tra classico e melodrammatico è al centro di altre ipotesi interpretative e costituisce la sfida più importante al modello bordwelliano. Per definire il modo di rappresentazione classico Bordwell sceglie come tratti pertinenti degli elementi di base, in modo da poter accogliere film assai diversi, da The Jazz Singer (Il cantante di jazz, A. Crosland, 1927) a Written on the Wind (Come le foglie al vento, D. Sirk, 1956), da Accadde una notte (F. Capra, 1934) a T-Men (T-Men
contro i fuorilegge, A. Mann, 1947) o, per usare una terminologia più precisa, i capolavori e i «film ordinari». È a questa seconda categoria che i tre studiosi sono interessati, ed è in relazione a questo tipo di film che il paradigma viene pensato e costruito. Ma è altresì solo questo tipo di film, numericamente la maggioranza dei film prodotti a Hollywood, che «il regime di Bordwell» riesce a spiegare42. L’avere privilegiato il typical film è uno degli elementi innovativi di questo studio, perché storici e analisti si sono solitamente confrontati con i capolavori e con i film d’autore43. Tuttavia, come ha rilevato Tom Gunning, l’essersi concentrati così monoliticamente sul film tipico ha reso il modello classico piuttosto statico, così come l’avere considerato un periodo tanto lungo ha necessariamente portato a privilegiare gli elementi di stabilità a scapito dei cambiamenti. In ultima analisi, «il paradigma classico diventa così omnicomprensivo che la possibilità di un’alternativa radicale sembra risiedere solo in film non dominati da interessi narrativi» e rimane completamente inesplorato il modo in cui tale paradigma può rendere conto di «film aberranti» quali, per esempio, quelli di Von Sternberg. In effetti, conclude Gunning, «non sono sicuro che Sternberg non offra una sfida al paradigma classico paragonabile a Mizoguchi, che il libro discute in modo dettagliato»44. La tesi di Studlar sull’anticlassicità dell’autore di origine austriaca conferma l’impressione di Gunning, anche se tale analisi nasce e si alimenta in un contesto del tutto diverso da Bordwell. Tuttavia, i punti di contatto tra prospettive emerse in ambiti e per scopi diversi suggeriscono che a fine anni ottanta il panorama critico anglo-americano pullula di voci contrarie a teorie forti sul film classico. La mancanza di flessibilità di Bordwell è un effetto di due tesi di partenza: da un lato che lo stile sia strettamente legato al modo di produzione, per cui alla standardizzazione del metodo produttivo si lega una standardizzazione del modello formale; dall’altro che l’esperienza spettatoriale si configuri come un mero processo di comprensione dell’intreccio, o meglio di come dall’intreccio si possa risalire alla fabula. Ripreso direttamente dagli scritti dei formalisti russi, questo concetto viene usato da Bordwell in modo eterodosso, e diventa un elemento centrale delle teorie cognitiviste dello studioso. Ma è anche uno degli aspetti più criticati. Ponendosi in diretta antitesi con gli studi psicoanalitici, ideologici e femministi, che appaiono nemici contro cui combattere45, Bordwell nega addirittura che nella visione filmica si attivi un processo interpretativo. In Narration in the Fiction Film il critico è ancora più netto, in quanto propone una distinzione tra viewing e reading (o interpreting)46. Da un lato, come afferma Douglas Pye in un’analisi molto acuta, Bordwell lavora all’interno di confini molto severi e rigidi limitando (eccessivamente) il campo d’azione della nozione di stile: «Oltre a riferimenti agli eventi narrativi e ai personaggi, la relazione tra stile e significato è accantonata». In secondo luogo, questo porta Bordwell a porre limiti assai netti anche all’esperienza dello spettatore, tanto che «egli dice molto poco sulla relazione tra l’attività inferenziale necessaria alla comprensione del senso narrativo e la risposta dello spettatore alle norme ideologiche […]. Infatti, Bordwell ha poco da dire sulle questioni riguardanti lo spettatore, Hollywood e l’ideologia»47. Tutta l’analisi di Bordwell sullo stile è viziata dal fatto che non è possibile parlare di «dispositivi tecnici e sistemi formali» senza fare riferimento «ai loro contesti – gli specifici campi drammaturgici e ideologici che presentano e commentano»48. Nel limitarsi a descrivere i dispositivi narrativi e stilistici, Bordwell sminuisce le possibilità del cinema hollywoodiano, ironico effetto per un impegno così prodigioso verso questo cinema. I limiti di questo importante lavoro mi sembrano dunque due: da un lato il grado eccessivamente astratto e generale del paradigma classico, che sottovaluta i cambiamenti stilistico-rappresentativi che si verificano negli anni quaranta e cinquanta rispetto agli anni trenta; dall’altro la semplificata visione dell’esperienza spettatoriale che viene ridotta a mera comprensione diegetica. Una miriade di studi, condotti secondo metodologie diverse, ha dimostrato come sia impossibile sostenere questa visione. Ma limitiamoci a una pratica generalizzata delle case di produzione hollywoodiane, ovvero le strategie di promozione e marketing dei film: è noto che alcuni generi o cicli venivano pensati e pubblicizzati per un pubblico specifico, maschile o femminile. Evidentemente tale pratica riconosceva implicitamente che tra film e spettatore si instaurava un rapporto di ordine identificativo, esperienza diversa
da quella cognitiva proposta da Bordwell. Ben prima dell’avvento degli studi psicoanalitici, gli studios avevano compreso – certo in modi forse meno sofisticati – che la natura della funzione cinematografica implicava un forte coinvolgimento psichico. Anche il fenomeno del divismo dava indicazioni simili: anzi, come ha ben spiegato Richard Dyer, il divismo mostrava come l’esperienza identificativa tra spettatore e star superasse i confini dello spettacolo in sala, invadendo l’intera vita quotidiana degli spettatori49. Pertanto, appare assai difficile negare che il dispositivo classico sia molteplice e dipenda anche da pratiche di genere e gender. Proprio l’analisi storica ha dimostrato che questi discorsi non sono invenzioni a posteriori di studiosi e teorici – come sembra pensare Bordwell – ma fenomeni sviluppatisi in seno al contesto produttivo hollywoodiano. METACRITICA E NUOVE PROPOSTE DI FINE ANNI OTTANTA: IL FILM CLASSICO E LA TRADIZIONE MELODRAMMATICA
A fine anni ottanta l’elaborazione critico-teorica più avanzata sul film classico cerca di far dialogare i diversi approcci che si erano affermati negli ultimi vent’anni al fine di cogliere la molteplicità stilistica, produttiva e ideologica del cinema americano. La sfida da raccogliere e rilanciare non era facile: si trattava, da un lato, di non perdere il patrimonio prezioso delle «interpretazioni ideologiche» fiorite negli anni settanta e ottanta, e di cui la FFT costituiva la linea più originale e fruttuosa, dall’altro, di fare i conti con il modello alternativo proposto, a metà anni ottanta, da Bordwell. Più in generale, si trattava di calibrare in modo nuovo il rapporto fra teoria e storia: mantenendo le indubbie conquiste scaturite dall’incontro tra semiotica, psicoanalisi e marxismo, era necessario stabilire una relazione più solida con le condizioni storiche della produzione e della ricezione cinematografiche, ma anche investigare in maniera più articolata il rapporto tra il modo di rappresentazione classico e altre forme popolari di intrattenimento. Queste sono alcune delle questioni affrontate dalla rivista «The South Atlantic Quarterly» in un numero del 1989 dedicato a Film and TV Theory Today e curato da Jane Gaines. Il dossier, che sarà ripubblicato nel 1992, integrato di alcuni saggi, in un volume dall’eloquente titolo Classical Hollywood Narrative. The Paradigm Wars, appare, retrospettivamente, come un contributo fondamentale al dibattito sullo statuto del cinema classico iniziato a fine anni ottanta, dopo la grande stagione della FFT e dopo l’uscita dei lavori di Bordwell. In particolare, l’intervento di Rick Altman, Dickens, Griffith, and Film Theory Today, che apre entrambe le pubblicazioni, costituisce a mio avviso una posizione imprescindibile nell’evoluzione del pensiero critico che stiamo delineando50. Rimasto a lungo (inspiegabilmente) poco discusso, appare una sorta di intervento-ponte tra le posizioni sin qui delineate e l’emergenza degli studi sulla modernità e sul popular modernism di Miriam Hansen, Tom Gunning, Jim Naremore e Ben Singer, che caratterizzano gli ultimi quindici anni circa e su cui ci soffermeremo nell’ultima parte del capitolo. Altman inizia chiedendosi esplicitamente: «how classical was classical narrative?». Egli interroga gli sviluppi della teoria sul film classico cercando di spiegare anche le ragioni che ne hanno reso possibile l’emergenza. Al cuore della nozione di classicità cinematografica c’è qualcosa di scontato: «per Bazin il termine implica maturità, armonia, equilibrio perfetto, forma ideale […]. Nell’uso che ne fa Bordwell, il termine classico indica armonia, unità, tradizione, capacità di seguire le regole, standardizzazione e controllo». Entrambe le definizioni, conclude Altman, si basano in modo esplicito sulle teorie letterarie francesi del XVII secolo51. Questa ipotesi, che secondo Altman è del tutto insufficiente a spiegare il cinema hollywoodiano, è anche un esempio di come molti paradigmi dei Film Studies si siano formati ricorrendo al discorso letterario. L’ipotesi alternativa di Altman è che, al contrario, se si fosse guardato in modo più sistematico al rapporto con il teatro popolare, in particolare il melodramma, lo statuto delle teorie sul cinema classico sarebbe stato profondamente diverso. Questo approccio rispecchierebbe più da vicino i reali rapporti tra cinema,
teatro e letteratura, dato che, contrariamente a quanto si è spesso creduto, gli adattamenti cinematografici di grandi opere letterarie sono molto spesso avvenuti attraverso la mediazione di un precedente adattamento teatrale. In altre parole, ciò che veniva adattato per lo schermo non era l’opera letteraria, ma uno degli adattamenti teatrali dell’opera stessa. Questo fenomeno è stato sintomaticamente oscurato dalla critica, che ha sempre privilegiato il rapporto tra il film e l’opera letteraria. Una delle vittime più illustri di questo atteggiamento è Ejzenštejn, o forse l’esegesi ejzenštejniana, che nel saggio su Griffith e Dickens – così si spiega il titolo dell’intervento di Altman – parla appunto del rapporto tra romanzo e film quando invece è noto che il regista americano si ispirava ad adattamenti teatrali delle opere dickensiane52. Partendo da questa constatazione Altman si chiede, anche un po’ polemicamente, qual è l’effetto che ha provocato sulle pratiche teoriche contemporanee il fatto che «generazioni di produttori e studiosi hanno rimosso il debito del cinema verso il melodramma popolare a favore del romanzo e della pièce ben costruiti, prodotti più duraturi e più accettabili dal punto di vista culturale? O, per formulare la domanda in modo più provocatorio e produttivo, di quali tendenze della teoria filmica corrente è sintomatica la negazione del debito del cinema verso il melodramma?»53. Nelle pagine che seguono Altman elabora una proposta teorica di grande interesse, coinvolgendo le principali teorie narrative – da Barthes a Bakhtin, da Brooks a girard, da Bazin a Bordwell – e analizzando i dispositivi classici di alcuni romanzi di Balzac, dispositivi presenti anche nell’opera filmica54. In particolare, Altman critica l’idea che il testo classico operi per il controllo e la trasformazione delle tensioni e delle forze caotiche in una forma ordinata e armonica. Prendendo come esempio Le père Goriot, lo studioso parla di testo dalla doppia focalità (dual focus), classico, ma con inflessioni melodrammatiche: da un lato è il più classico dei romanzi in quanto «assicura continuità, linearità, causalità psicologica incentrando il racconto sulla crescita sociale e morale del giovane Eugène de Rastignac», dall’altro non si esaurisce nel raccontare le esperienze del personaggio principale, tramite cui il lettore vede e legge il mondo. Attraverso goriot e Vautrin, Balzac inserisce nel romanzo la modalità melodrammatica: i due, infatti, «sembra vengano da un altro mondo, attaccati al loro ruolo come in un legame rituale come […] gli antagonisti del melodramma». Anche se sono caratterizzati psicologicamente, lo sono in modo mitico, in quanto rappresentano «due modelli statici di paternità», uno legato al Bene l’altro al Male, elementi su cui si fonda il romanzo popolare seriale. Il romanzo di Balzac vede la compresenza di elementi storici, dunque mutevoli, e psicologici, legati al personaggio principale, e di valori immutabili, legati ai due personaggi secondari. Mentre l’elemento classico ha una focalità singola (Rastignac), quello melodrammatico è duale (goriot, Vautrin). In definitiva, secondo Altman, un romanzo come Le père Goriot è classico, ma non solo, ed è fondamentale vedere la relazione tra la superficie classica e quella melodrammatica: solo così si può rendere conto della complessità del modello classico55. Per Altman, il rapporto tra testo a focalità singola o duale non può essere definito in modo teorico, ma va visto nelle sue diverse attualizzazioni. Questa proposta è l’esatto contrario del modello di Bordwell, che svilisce le differenze e le complessità dei testi riducendo la classicità a uno scheletro narrativo astratto. Come per il romanzo, anche il teatro mostra una dinamica simile nella dualità fra il dramma ben costruito (well-made play) e il melodramma popolare. Ma come nel caso del romanzo, il cinema hollywoodiano viene visto come l’erede del teatro borghese naturalistico, dove dominano la parola e il racconto, mentre viene rimossa la relazione con il teatro e le forme popolari di intrattenimento, in cui si fondono strategie narrative e spettacolari56. Per concludere, Altman propone una teoria del film classico come testo a focalizzazione duale: da un lato segue la formula aristotelica di causa-effetto ed è incentrato sulla traiettoria di un personaggio, dall’altro perpetua simultaneamente gli scopi del teatro popolare, in quanto la «spettacolarità e una varietà di emozioni forti sono necessarie» al film hollywoodiano57. Nonostante il film cerchi spesso di mascherare il suo lato melodrammatico, come l’inconscio non può che tornare in
superficie. Anzi, spesso la popolarità e la longevità di un film non stanno tanto nel suo plot, quanto nei momenti di maggior intensità, quelli in cui, per l’appunto, la motivazione narrativa è minima. Il testo classico va visto come «un sistema dinamico a livelli molteplici in cui forze contraddittorie coesistono e si scontrano regolarmente»58. Infine, la dualità del film classico deve essere legata allo studio dei generi che, dietro «le loro caratteristiche di superficie classiche», hanno iscritte «tradizioni melodrammatiche diverse»59. L’intervento di Altman ha ricoperto un ruolo significativo nell’elaborazione di questa proposta, in particolare per quanto riguarda la nozione di focalizzazione duale. Una delle tesi che il nostro studio avanza è che tale concetto va visto secondo parametri storici. Cioè non si tratta solo, come propone Altman, di identificare quali tradizioni melodrammatiche vengono attivate nei singoli testi (o generi), ma va riconosciuto come il peso della tradizione melodrammatica aumenti e sovrasti quella classica nel cinema degli anni quaranta e cinquanta, in cui, soprattutto nel noir e nel family melodrama, entrano in crisi i tratti chiave della classicità, la linearità e la causalità narrative, il desiderio del protagonista come vettore della motivazione e della logica dell’intreccio, mentre fondamentali diventano sia i processi di spettacolarizzazione dell’immagine che la messa in scena di emozioni forti, tipici elementi cardine delle forme popolari di intrattenimento. Assieme al contributo di Altman va ricordato, nel dossier curato da Gaines, almeno quello di Bill Nichols. L’intervento di Nichols è di natura metacritica e offre riflessioni a largo spettro sullo statuto delle teorie del cinema da Metz a Bordwell di particolare interesse. Nichols appare come una delle voci più autorevoli nell’articolare pregi e difetti delle due linee di ricerca più significative sul cinema classico, quella ideologicointerpretativa, tra cui spicca la FFT, e quella neoformalista di David Bordwell. Mentre l’articolo è dedicato in larga misura a una serrata analisi dei presupposti metodologici delle proposte di Bordwell, Nichols discute a più riprese, per contrasto, i fondamenti delle analisi ideologico-interpretative, con le quali ha una marcata sintonia60. A livello più generale, Nichols è interessato a vedere come le riflessioni di teoria del racconto si siano sviluppate nell’ambito delle discipline cinematografiche. Grazie soprattutto allo stretto legame creatosi, negli anni settanta, tra psicoanalisi e femminismo, si è affermato un modo di guardare al racconto classico come il locus della messa in scena del desiderio del soggetto, visto però attraverso il doppio filtro dell’ideologia e del gender. Questo sviluppo della critica cinematografica ha messo fine «all’impeto originale e al desiderio per una scienza o poetica del racconto» iniziata da Metz61. È questo progetto per una scienza del racconto che, a metà anni ottanta, Bordwell cerca di far risorgere, ponendosi però non nella scia della semiologia metziana, ma in quella dei formalisti russi. Anche se non mancano elementi di interesse, secondo Nichols il lavoro di Bordwell è viziato, in primo luogo, da una pretesa di oggettività e scientificità che porta l’autore a privilegiare la descrizione di dispositivi e tecniche narrative a scapito dell’interpretazione, riconoscendo allo spettatore operazioni e processi universali e limitati, ovvero indipendenti dalla propria identità. L’approccio cognitivista si è posto progettualmente in alternativa a quello psicoanalitico: si spiega così il disconoscimento, da parte dell’autore americano, dell’identificazione, uno dei capisaldi delle analisi interpretative. Mentre l’identificazione è un processo senz’altro attivato da procedimenti testuali, essa è informata dall’esperienza soggettiva e personale dello spettatore e della spettatrice. Al contrario, il processo cognitivo di cui parla Bordwell è non solo universale, ma assai limitato nel suo scopo. Lo spettatore deve organizzare l’informazione narrativa dell’intreccio per risalire alla fabula. La fabula, osserva Nichols, «è una versione espansa di quel racconto fatto dall’investigatore alla fine del film su cosa è veramente accaduto e perché ciò fosse importante, come avviene in alcuni detective film». Così concepita la fabula è paragonabile a «quei modelli di conoscenza dell’intelligenza artificiale dove la soluzione dei problemi avviene senza il minimo riferimento alla soggettività umana». Tuttavia, osserva acutamente lo studioso, bisogna considerare che la fabula non esiste materialmente e che è una nostra creazione. È pertanto
impossibile parlare di oggettività e disconoscere il coinvolgimento e l’identificazione soggettiva62. Se per Nichols il progetto teorico di Bordwell è in larga misura insostenibile, egli considera di grande valore il lavoro analitico e testuale, in particolare l’abilità dello studioso di spiegare il funzionamento narrativo e formale, non dei momenti salienti di un film, ma di quelli più banali, «mostrando come i processi siano iscritti ai livelli minimi del testo dove l’attività cognitiva è continuamente in gioco»63. Queste analisi corroborano la teoria che insiste sulla necessità di analizzare un film nella sua totalità, in contrasto con le pratiche poststrutturaliste che sceglievano, al contrario, un frammento del testo, un episodio saliente e stilisticamente eccentrico rispetto al resto del film. Questo punto è di estremo interesse, perché mette a confronto modelli e pratiche analitiche inconciliabili, cogliendo le peculiarità di entrambi (oltre a consentirci di avanzare un nuovo modello di analisi che utilizzi, rielaborandoli, elementi di entrambi). Vale la pena soffermarsi su questo punto, anche per cogliere alcuni elementi a mio avviso problematici della posizione di Nichols. Egli oppone l’analisi bordwelliana del testo nella sua totalità alla lettura sintomatica tipica di molta critica ideologica degli anni settanta e primi anni ottanta. Leggere un film «sintomaticamente» significava cercare di cogliere momenti di rottura o riflessività che esponessero le operazioni ideologiche, momenti in cui le strategie di contenimento del testo venissero meno. Le analisi che applicavano la teoria del testo sovversivo spesso giungevano, immancabilmente, a questo punto: a mostrare come in momenti specifici, spesso una scena particolare, il film contenesse in nuce la negazione dei propri meccanismi ideologici, narrativi e testuali. L’iscrizione della negatività veniva altresì collegata a presunte strategie autoriflessive del film classico che, dunque, finiva per diventare brechtiano, moderno64. Nichols ricorda in questo contesto l’analisi di Stephen Heath su Suspicion (Il sospetto, A. Hitchcock, 1941) contenuta in Narrative Space, un saggio giustamente famoso65. Le letture sintomatiche, troppo concentrate su momenti particolari e sovversivi del film, sono poco adatte a spiegare il dispositivo narrativo complessivo del testo: la proposta di Bordwell è dunque ben accetta per Nichols in quanto colma una grossa lacuna delle letture sintomatiche. Nichols ha ragione a sottolineare il limite teorico di tale modello interpretativo. Tuttavia, non va dimenticato che questo atteggiamento ha contribuito a rendere molto più sofisticata l’analisi dei dispositivi retorici e comunicativi del film classico. Il limite, a mio avviso, sta meno nell’aver stabilito una relazione tra espressività e autoriflessività, che nell’aver privilegiato il frammento rispetto all’intero film (oltre ad avere attribuito allo spettatore le stesse capacità del critico). Va ricordato, tuttavia, che il limite di queste analisi era già stato sottolineato dieci anni prima, in ambito femminista, da Janet Bergstrom in un’esemplare lettura del lavoro di Claire Johnston. Per Bergstrom la rupture thesis di Johnston è problematica, in quanto il momento di negatività viene sempre recuperato dal testo, che alla fine cancella la memoria della momentanea eterogeneità. Pertanto, per valutare la posizione ideologica e di gender del film non basta guardare a momenti specifici, ma va considerato «il movimento narrativo nel suo complesso»66. Il merito che Nichols assegna a Bordwell, di avere ridato vita all’analisi del testo nella sua complessità, è forse un po’ troppo generoso. Da un lato perché molte analisi degli anni ottanta erano andate oltre il frammento sovversivo, dall’altro perché, a ben vedere, ben poche sono le analisi complessive di film classici che Bordwell offre. Vi è un ulteriore e più importante aspetto che costituisce, tra l’altro, un elemento cardine della nostra proposta, cioè il fatto che, rispetto al modello di classicità proposto da Bordwell – che conferma, peraltro, le pionieristiche riflessioni di Bazin in L’evoluzione del linguaggio cinematografico –, il cinema degli anni quaranta e cinquanta appare assai diverso. L’invisibilità dello stile, la motivazione narrativa e stilistica, cardini del modello bordwelliano, così forti negli anni trenta, in particolare nella seconda metà del decennio, negli anni successivi vengono sostituite da tratti opposti: se nel cinema degli anni trenta potevano esserci momenti di rottura, nel cinema degli anni quaranta e cinquanta la rottura diviene sistematica, ovvero passiamo a un modello formale
sostanzialmente diverso. Non è un caso che la gran parte di analisi compiute è stata fatta su film di questi due decenni: soprattutto le femministe si sono concentrate su quei generi o cicli di film in cui più evidenti fossero i tentativi di problematizzare rappresentazioni tradizionali della femminilità. In ultima analisi, sono convinta che le letture sintomatiche, pur concentrandosi spesso su frammenti di film o su pochi aspetti retorico-formali, abbiano in realtà preso di mira testi che, nella loro totalità, erano ben più complessi e ambigui di quanto il modello oggettivo/denotativo di Bordwell faccia credere. Basta vedere, come osserva ancora Nichols, il modo in cui viene analizzato il melodramma da Bordwell e dalla FFT: non sembra nemmeno il medesimo oggetto di analisi67. Lo stesso si può dire per il film noir. Evidentemente, conclude Nichols, un modello secondo cui la visione cinematografica è limitata a processare informazioni come fa un programma di computer sembra più adatto a spiegare l’esperienza di un cyborg che di un soggetto umano. Alla comprensione della fabula, che gli approcci ideologico-interpretativo-poststrutturalisti davano per scontata, non si può non aggiungere l’interpretazione. CINEMA CLASSICO E «MODERNITÀ»
Le ultime proposte di metodo che prendiamo in considerazione emergono negli anni novanta. Legate in primo luogo ad alcune teorie sulla modernità, studiano il cinema e l’esperienza spettatoriale alla luce di nuove indagini di ordine estetico, mediologico ed esperienziale. Nel definire lo scritto di Altman un intervento-ponte, intendevamo sottolineare il tentativo del critico di guardare al cinema in relazione ad altre forme popolari di intrattenimento, cercando al tempo stesso di cogliere la complessità della fruizione filmica, in cui convergono processi di varia natura: cognitivi, emotivoidentificativi e puramente sensoriali. In questo ambito l’intervento di Altman mi sembra anticipare le tendenze critiche del decennio successivo. I lavori su cinema e modernità confermano e rendono più solida la convergenza fra teoria e storia, ma mostrano anche un mutato atteggiamento di fondo verso la natura popolare del cinema hollywoodiano, con una rinnovata attenzione alle questioni del piacere, nodo peraltro già ampiamente indagato dalla FFT. La dimostrazione che il rapporto di Hollywood con l’ideologia è contraddittorio (testo sovversivo) e che la rappresentazione delle relazioni di gender è meno univoca di quello che si pensa (FFT) nascevano anche da un bisogno più originario, dimostrare che le forme dell’intrattenimento popolare sono complesse e sofisticate e dunque meritevoli di attenzione, non meno del cinema d’autore europeo o di forme artistiche e letterarie d’élite. Con il tempo questa necessità è scemata e non vi è stato più bisogno, almeno nel contesto anglo-americano, di difendere il cinema popolare, anche perché, dopo la grande stagione delle Nouvelle Vague, la sfida dell’innovazione è stata raccolta in primo luogo dal cinema di intrattenimento. La questione è estremamente complessa e non può essere indagata in questa sede. Va comunque segnalata perché aiuta a spiegare il mutato atteggiamento critico. A questa rinnovata fiducia nel cinema popolare si accompagna una constatazione emersa con le ricerche storiche: non solo il cinema ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione della modernità e del soggetto moderno, ma tale fenomeno è comprensibile se l’analisi del cinema viene fatta in relazione a tutta una serie di altre pratiche sociali e mediali. Al tempo stesso, negli anni ottanta diventa per la prima volta visibile una grande quantità di materiali filmati dei primi anni del cinema, soprattutto grazie a programmi di archiviazione e restauro promossi dalle cineteche di tutto il mondo. Questa possibilità cambia radicalmente i modi di affrontare la forma filmica: in particolare, emerge con nuova evidenza la consapevolezza della diversità del cinema primitivo rispetto alla forma narrativa che domina dagli anni dieci. Il cinema dei primi anni non viene più visto, in modo deterministico, come una forma imperfetta che gradualmente si evolve verso la forma narrativa. Emerge, al contrario, l’ipotesi che il cinema primitivo sia un modo di rappresentazione specifico, nelle strutture formali e
nelle pratiche della ricezione, e che, dunque, debba essere indagato nella sua peculiarità. Una delle proposte più utili e produttive è stata avanzata da Tom Gunning, secondo cui il rapporto tra primitivo e classico può essere definito dall’opposizione attrazione/narrazione. Anche riprendendo, a mio avviso, alcune precedenti suggestioni di Noël Burch, Gunning sostiene che «il cinema primitivo non è dominato dall’impulso narrativo» e che sino al 1906 la relazione tra film e spettatore è diversa da quella che si instaura successivamente. Il «cinema delle attrazioni» è innanzitutto un cinema «che mostra qualcosa»: contrariamente al cinema narrativo-classico, sostanzialmente voyeurista, il cinema delle origini è un cinema esibizionista, «che sollecita l’attenzione dello spettatore, incita la curiosità visiva, e dà piacere attraverso uno spettacolo eccitante». Dunque, «l’esibizione teatrale domina sull’assorbimento narrativo, enfatizzando la stimolazione diretta di shock o sorpresa a scapito dello sviluppo del racconto e della creazione di un universo diegetico. Il cinema delle attrazioni spende poca energia per creare personaggi con motivazioni psicologiche o una marcata individualità». In ultima analisi, nel cinema primitivo domina il visivo sul narrativo68. La nozione di attrazione e l’idea che il cinema primitivo attivi una stimolazione sensoriale, più che un assorbimento psicologico o un processo cognitivo, viene elaborata ulteriormente attraverso l’analisi del contesto in cui il cinema stesso nasce, ovvero la metropoli di inizio Novecento. Le esperienze di shock percettivo e di iperstimolazione visiva dell’estetica e della fruizione cinematografica sono in sintonia con l’esperienza quotidiana del soggetto urbano studiata da Simmel, Kracauer e Benjamin, così come la mobilità dello sguardo e le sensazioni forti e fugaci del cinema sono comuni a tutta una serie di altre tecnologie (treno e telegrafo), forme di intrattenimento (parco dei divertimenti e panorama), dispositivi visivi (vetrina) e spazi pubblici (arcate, grandi boulevard) della modernità69. Ma la componente attrazionale del cinema sopravvive oltre la forma primitiva e compete con la forma narrativa. Osserva Gunning: quando il cinema diventa narrativo «l’attrazionalità non scompare ma diventa sotterranea, [si insinua] in certe pratiche d’avanguardia, e diventa anche una componente del film narrativo, più evidente in alcuni generi (per esempio il musical) che in altri»70. Troviamo qui una convergenza importante con la proposta di Altman di vedere il classico come una forma duale, in cui sono compresenti spettacolo, ovvero attrazione, e racconto. Questa ipotesi ha trovato negli ultimi anni conferme e sviluppi. Per esempio Miriam Hansen ha parlato di cinema classico come vernacular modernism, ovvero di come il cinema americano abbia sviluppato una componente riflessiva e metacritica attraverso strategie dell’eccesso. Tale componente, evidente per esempio nella slapstick comedy, ma anche nell’horror e nel musical, consente allo spettatore di affrontare le ambivalenze costitutive della modernità. Scrive Hansen: «La dimensione riflessiva del film hollywoodiano in rapporto alla modernità può assumere forme cognitive, discorsive e narrative, ma essenzialmente è ancorata all’esperienza sensoriale, a processi di identificazione mimetica che sono per lo più svincolati dai meccanismi di comprensione narrativa»71. Jim Naremore ha affrontato in modo simile il noir, mostrando la peculiare convergenza nella formazione del genere fra tradizioni moderniste e sperimentali e forme d’intrattenimento popolari, soprattutto la pulp fiction. Il noir è il prodotto di «una tensione artistica intrigante» in cui confluiscono strategie sperimentali, come «la preoccupazione modernista per la soggettività e la psicologia del profondo», il «controllo del punto di vista» e sensazioni basse da blood melodrama di sesso e violenza72. Questa linea di ricerca è assai suggestiva per il nostro progetto, in quanto il concetto chiave che la guida può costituire il punto di partenza per un’analisi dell’evoluzione del cinema classico dall’avvento del sonoro sino a fine anni cinquanta. L’ormai assodato bisogno di aprire il film hollywoodiano, e considerarlo nelle sue molteplici possibilità sia estetico-rappresentative che spettatoriali, viene qui sviluppato nella direzione di una storicizzazione del rapporto tra racconto e attrazione, tra cognizione e sensazione. Il periodo considerato vive fasi diverse, in cui può dominare la componente narrativa o in cui la narrazione e l’attrazione sono equamente operanti.
Determinare la successione di questi diversi modelli è ormai un lavoro necessario per una comprensione del cinema hollywoodiano come forma complessa.
1 Cfr. J. Naremore, Authorship, in T. Miller, R. Stam (a cura di), A Companion to Film Theory, Malden, Blackwell, 1999, pp. 9-24, 15-16. 2
Recentemente ripubblicato in M. Farber, Negative Space, edizione ampliata, New York, da capo Press, 2006.
3
A. Sarris, The American Cinema, New York, E.P. Dutton, 1968.
4
P. Cook, The Auteur Theory, in Id. (a cura di), The Cinema Book, London, BFI, 1985, p. 137.
Oltre agli studi citati, si vedano J. Caughie (a cura di), Theories of Authorship, London-New York, Routledge, 1981; D. Andrew, The Unauthorized Auteur Today, in J. Collins, H. Radner, A. Preacher collins (a cura di), Film Theory Goes to the Movies, New York, Routledge, 1993, pp. 77-85; L. Albano, Il secolo della regia, Venezia, Marsilio, 1999; D.A. Gerstner, J. Staiger (a cura di), Authorship and Film, New York-London, Routledge, 2002; G. De Vincenti, Autore, in Enciclopedia del Cinema, I, Roma, Ist. Enciclopedia Italiana Treccani, 2003; G. Pescatore, L’ombra dell’autore, Roma, carocci, 2006. 5
6 Cfr. G. Nowell-Smith, Visconti, London, Secker and Warburg-BFI, 1967, ed. Rivista 1973; P. Wollen, Signs and Meanings in the Cinema, London, Secker and Warburg-BFI, 1969, ed. rivista Bloomington, Indiana University Press, 19723. 7
Molti di questi snodi sono stati studiati da F. Casetti in Teorie del cinema. 1945-1990, Milano, Bompiani, 1990.
Il termine progressive è stato spesso usato come sinonimo di subversive. data la sua migliore traducibilità in italiano, ho optato per il secondo. 8
9 J.-L. Comolli, J. Narboni, Cinéma/idéologie/critique, in «Cahiers du cinéma», 216, ottobre 1969, pp. 11-15, 13-14. In inglese il saggio appare su «Screen», 12.1, primavera 1971. L’intervento di Jean-Pierre Oudart sulla sutura è pubblicato sulla rivista inglese qualche anno più tardi: cfr. J.-P. Oudart, Cinema and Suture, in «Screen», 18.4, inverno 1977-1978. 10 Un’analisi articolata di questo episodio della critica anglo-americana sta in D.N. Rodowick, The Crisis of Political Modernism. Criticism and Ideology in Contemporary Film Theory, Urbana-Chicago, University of Illinois Press, 1988, pp. 67-110. 11 Tra le cause di tale cambiamento vi è l’ingresso a Hollywood della psicoanalisi freudiana, le cui dinamiche cominciano, negli anni della seconda guerra mondiale, a venire esplicitamente usati nella stesura dei soggetti e nella caratterizzazione dei personaggi. Questa questione sarà affrontata in particolare nel quarto e quinto capitolo. 12 Per una disamina precisa e intelligente di questo dibattito si veda B. Klinger, «Cinema/ Ideology/Criticism» Revisited: The Progressive Genre, in B.K. Grant (a cura di), Film Genre Reader II, Austin, University of Texas Press, 1995, pp. 74-90. 13 Per un’analisi del ruolo del family melodrama nello sviluppo della teoria del cinema in ambito anglo-americano, si veda il saggio di Laura Mulvey, «It will be a magnificent obsession». The Melodrama’s Role in the Development of Contemporary Film Theory, in J. Bratton, J. Cook, C. Gledhill (a cura di), Melodrama. Stage, Picture, Screen, London, BFI, 1994, pp. 121-133. 14 Th. Elsaesser, Tales of Sound and Fury. Observations on the Family Melodrama, trad. it. Storie di rumore e di furore. Osservazioni sul melodramma familiare, in A. Pezzotta (a cura di), Forme del melodramma, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 65-109, 73 (traduzione rivista). 15 Va notata la consonanza, su questo e altri aspetti, fra la prospettiva di Elsaesser e quella di Peter Brooks. Il volume di Brooks The Melodramatic Imagination esce nel 1976. Su questa questione ritornerò nel sesto capitolo. 16
Elsaesser, Storie di rumore e di furore, cit., p. 92.
Su queste questioni si veda l’eccellente saggio di E. Cowie, Woman as Sign [1978], in P. Adams, E. Cowie (a cura di), The Woman in Question: m/f, Cambridge, The MIT Press, 1990, pp. 117-133. 17
18 Il cinema di Raoul Walsh è tra i primi a essere analizzato in questo senso. Cfr. P. Cook, C. Johnston, The Place of Woman in the Cinema of Raoul Walsh [1974], trad. it. Il ruolo della donna nel cinema di Raoul Walsh, in P. Bachmann (a cura di), Raoul Walsh, Torino, Quaderni del Movie club di Torino, 1977, pp. 127-135. 19 C. Johnston, Women’s Cinema as Counter-Cinema [1973], trad. it. Cinema delle donne come controcinema, in «nuova dwf», 8, luglio-settembre 1978, pp. 56-67, 65. 20 Id., Dorothy Arzner: Critical Strategies [1975], in C. Penley (a cura di), Feminism and Film Theory, New York, Routledge, 1988. 21
P. Cook, Approaching the Work of Dorothy Arzner [1975], ora ivi, pp. 46-56, 47.
Oltre a essere sparsi nei diversi volumi della sua opera, gli scritti di Freud sulla femminilità sono raccolti in E. Young-Bruehl (a cura di), Freud sul femminile, Torino, Bollati Boringhieri, 1993. 22
23 L. Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, trad. it. Piacere visivo e cinema narrativo, in «nuova dwf», 8, luglio 1978, pp. 26-41. 24 Ricordo che una prima versione di questo saggio viene presentata nel 1973, dunque ben prima della pubblicazione dei saggi di Metz, che appaiono originariamente nel famoso numero 23 di «communications» del 1975. 25 J. Bergstrom, M.A. Doane, The Female Spectator: Contexts and Directions, in «Camera Obscura», 20-21, maggio-settembre 1989, p. 7.
26 L. Mulvey, Afterthoughts on «Visual Pleasure and Narrative Cinema» Inspired by King Vidor’s duel in the Sun (1946), trad. it. Le ambiguità dello sguardo, in «Lapis», 7, marzo 1990, pp. 38-42, 39. 27
T. Modleski, The Women Who Knew Too Much. Hitchcock and Feminist Theory, New York, Routledge, 1988, p. 3.
28
Ibid., pp. 82-83.
29 Cfr. G. Studlar, In the Realm of Pleasure. Von Sternberg, Dietrich and the Masochistic Aesthetic, New York, Columbia University Press, 1988. 30 Un buon punto di partenza per testare l’evoluzione di questo campo di ricerca è il volume curato da E.A. Kaplan, Feminism and Film, Oxford, Oxford University Press, 2000. In italiano si veda il mio Feminist Film Theory e Gender Studies, in P. Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006. 31 Ogni analisi di Bellour è contemporaneamente uno studio di un particolare film e una teoria del testo classico: «Se al contrario c’è del senso […] esso si costituisce [nei film di Hawks], diciamo nel cinema classico americano, attraverso una corrispondenza di equilibri operati, come legge del testo in sviluppo, attraverso i suoi numerosi livelli codicali e pluricodicali, i suoi sistemi: multipli per natura ed estensione, essi non si lasciano ridurre ad una struttura o ad una relazione semantica davvero unitaria». R. Bellour, L’ovvio e il codice, in Id., L’analisi del film, Torino, Kaplan, 2005, p. 105. Per una recente valutazione del lavoro del teorico francese cfr. Th. Elsaesser, Classical/post-classical narrative (die hard), in Th. Elsaesser, W. Buckland, Studying Contemporary American Cinema, London, Arnold, 2002. 32
P. Bertetto, Prefazione, in Bellour, L’analisi del film, cit., p. 7.
L’analisi della sequenza di Il grande sonno lo porta a queste conclusioni: «da una parte lo scarto tra la presenza nel dialogo e la presenza nell’immagine, che privilegiano rispettivamente Marlow e Vivian; dall’altra la differenza dell’angolo di ripresa, concentrata su Vivian che astrae il suo viso sulla superficie dello schermo. Vi si riconoscerà facilmente un doppio segno di mitologizzazione della donna». R. Bellour, L’evidenza e il codice, ibid., p. 105. E a proposito di Gli uccelli: «Hitchcock, apparentemente, è qui a fianco di Melanie. Melanie ha l’iniziativa dell’azione e il suo sguardo che fonda l’alternanza binaria organizza il découpage del reale. Ma riceve, dall’inizio, ce ne ricordiamo, il limite di un transfert di sguardo che Hitchcock effettua a favore del pescatore […]. Se Hitchcock infatti sposa lo sguardo di Melanie per andare fino a Mitch in una comune scoperta dove questi si trova in posizione di oggetto, l’inversione che si opera da un centro all’altro significa chiaramente che Mitch è l’intermediario, il primo doppio di Hitchcock nell’inchiesta che egli conduce sul desiderio che si esprime nello sguardo di Melanie». Id., Sistema di un frammento, ibid., pp. 97-98. 33
34 J. Bergstrom, Alternation, Segmentation, Hypnosis: Interview with Raymond Bellour, in «Camera Obscura», 3-4, 1979, pp. 71-103, 96-97. 35 Afferma Judith Mayne nel 1990: «molto del lavoro compiuto dalle femministe nell’ultimo decennio è stata una risposta alle ipotesi formulate nei lavori di Mulvey e di Bellour». J. Mayne, The Woman at the Keyhole, Bloomington, Indiana University Press, 1990, p. 20. 36 Va comunque ricordato che alcune importanti anticipazioni metodologiche erano apparse in D. Bordwell, K. Thompson, Film Art. An Introduction, New York, McGraw-Hill, 1979, trad. it. Cinema come arte, Milano, Il Castoro, 2003. 37 D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, New York, Columbia University Press, 1985, p. XV. 38 T. Gunning, The Classical Hollywood Cinema: Film Style and Mode of Production to 1960, in «Wide Angle», VII, 3, 1985, pp. 74-77, 75. 39 D. Bordwell, Film Style and Technology, 1930-1960, in Bordwell, Staiger, Thompson, The Classical Hollywood Cinema, cit., p. 339. Su questo problema si veda il bel saggio di Giulia Carluccio, Questioni di stile, in P. Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film, RomaBari, Laterza, 2006. 40 Ibid. Cfr. inoltre D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, Madison, The University of Wisconsin Press, 1985, pp. 156-166. 41 Questa è la tesi principale dell’ultimo lavoro di Bordwell dedicato al cinema americano dal 1960 a oggi. Cfr. Id., The Way Hollywood Tells It. Story and Style in Modern Movies, Berkeley, University of California Press, 2006. 42 L’espressione è di Robert Ray. Cfr. R.B. Ray, The Bordwell Regime and the Stakes of Knowledge, in Id., How a Film Theory Got Lost and Other Mysteries in Cultural Studies, Bloomington, Indiana University Press, 2001. 43 Molti commenti hanno riconosciuto questo importante aspetto di The Classical Hollywood Cinema. cfr. Gunning, The Classical Hollywood Cinema, cit.; R. Barton Palmer, Review to Bordwell, Staiger and Thompson, The Classical Hollywood Cinema, in «Post Script», V, 3, primavera-estate 1986, pp. 88-91. 44
Gunning, The Classical Hollywood Cinema, cit., p. 77.
Si veda per esempio D. Bordwell, Contemporary Film Studies and the Vicissitudes of Grand Theory, trad. it. Le illusioni della teoria, in «Bianco & Nero», LVIII, 1-2, gennaio-giugno 1997, pp. 20-67, un intervento molto discutibile. 45
46
Cfr. Id., Narration in the Fiction Film, cit.
D. Pye, Bordwell and Hollywood, in «Movie», 33, inverno 1989, pp. 46-52, 47. Anche Barton Palmer sottolinea che il maggior problema del modello neoformalista di Bordwell & Co. è «la mancanza della componente semantica, che prenderebbe in considerazione questioni legate al “significato”». Barton Palmer, The Classical Hollywood Cinema, cit., p. 91. 47
È piuttosto sintomatico che, salvo rare eccezioni, le recensioni critiche al volume presentino una struttura molto simile: agli elogi per la mole di film, dati e materiali analizzati, e per avere riportato in auge l’analisi storica, segue la disamina altrettanto attenta e puntigliosa dei limiti di questo imponente lavoro. Per una strenua e articolata difesa del lavoro di Bordwell si veda invece D. Eitzen, Evolution, Functionalism, and the Study of American Cinema, in «The Velvet Light Trap», 28, 1991, pp. 73-85. 48
Pye, Bordwell and Hollywood, cit., p. 51.
49
Cfr. R. Dyer, Stars, trad. it. Star, Torino, Kaplan, 2004.
50 Altman è uno degli studiosi che ha più fortemente messo in discussione il regime bordwelliano: oltre a questo intervento, il suo lavoro sul genere rappresenta, evidentemente, un modello alternativo e incompatibile con il paradigma classico di Bordwell. Ci riferiamo ovviamente a R. Altman, The American Film Musical, Bloomington, Indiana University Press, 1987 e soprattutto a Id., Film/Genre, trad. it. Film/Genere, Milano, Vita & Pensiero, 2004. 51 Id., Dickens, Griffith, and Film Theory Today, in «The South Atlantic Quarterly», LXXXVIII, 2, primavera 1989, pp. 321-359, 326-327. 52
Ibid., pp. 321-325.
Ibid., pp. 325-326. Sul rapporto tra classico e melodrammatico si veda, nello stesso dossier, l’intervento di Christine Gledhill, Between Melodrama and Realism: Anthony Asquith’s Underground and King Vidor’s The crowd, in J. Gaines (a cura di), Classical Hollywood Narrative. The Paradigm Wars, Durham, Duke University Press, 1992, pp. 129-167. 53
54
Su questi nodi è sempre utile il saggio di R. Barthes, S/Z, Torino, Einaudi, 1973.
55
Altman, Dickens, Griffith, and Film Theory Today, cit., pp. 331-334.
56
Ibid., pp. 338-339.
57
Ibid.
58
Ibid.
59
Ibid., p. 354.
La biografia intellettuale di Nichols parla da sé. Basta ricordare quale spazio avesse dedicato a queste linee di ricerca nei due volumi di Movies and Methods (Berkeley, University of California Press, 1975 e 1985), riferimento obbligato sui metodi di analisi del film per il periodo coperto. Ma ricordiamo anche che Nichols è tra i fondatori di «Women and Film», la prima rivista femminista di cinema nata a Los Angeles nel 1970. 60
61 Id., Form Wars: The Political Unconscious of Formalist Theory, in «The South Atlantic Quarterly», LXXXVIII, 2, primavera 1989, pp. 487-515, 488. 62
Ibid., pp. 496-497.
63
Ibid., p. 494.
64
Altman, Dickens, Griffith, and Film Theory Today, cit., p. 350.
S. Heath, Narrative Space, in Id., Questions of Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1981. Trovo, comunque, che l’analisi di Heath del film di Hitchcock non sia incompatibile con quella di Bordwell: rispetto al critico americano, Heath non si limita a descrivere i procedimenti, soprattutto la costruzione dello spazio, ma li interpreta. 65
66 J. Bergstrom, Rereading the Work of Claire Johnston [1979], in Penley (a cura di), Feminism and Film Theory, cit., pp. 80-88. 67
Nichols, Form Wars, cit., pp. 504-505.
T. Gunning, The Cinema of Attractions. Early Film, Its Spectator and the Avant-Garde, in Th. Elsaesser (a cura di), Early Cinema. Space Frame Narrative, London, BFI, 1990, pp. 56-62. Ma si veda anche T. Gunning, The Whole Town’s Gawking: Early Cinema and the Visual Experience of Modernity, in «yale Journal of criticism», 7.2, autunno 1994, pp. 189-201. L’idea di André Gaudreault che il cinema primitivo sia dominato dalla «mostrazione» ha chiari punti di contatto con la teoria dell’attrazione. Si vedano, A. Gaudreault, Film, Narrative, Narration. The Cinema of the Lumière Brothers, in Elsaesser (a cura di), Early Cinema, cit., pp. 68-75. Sul modo di rappresentazione primitivo e classico cfr. N. Burch, La lucarne de l’infini, trad. it. Il lucernario dell’infinito, Parma, Pratiche, 1984. Su «cinema e modernità» si veda anche L. Charney, V.R. Schwartz (a cura di), Cinema and the Invention of Modern Life, Berkeley, University of California Press, 1995. Sulla modernità, si muove in una prospettiva diversa l’importante lavoro di G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche, 1993. 68
69
Cfr. B. Singer, Melodrama and Modernity, New York, Columbia University Press, 2001, pp. 101-105.
70
Gunning, The Cinema of Attractions, cit., p. 57.
M. Hansen, The Mass Production of the Senses: Classical Cinema as Vernacular Modernism, trad. it. La produzione di massa dei sensi. Il cinema classico come modernismo vernacolare, in «La valle dell’Eden», II, 4, 2000, pp. 17-37, 31. 71
72
48.
J. Naremore, More than Night. Film Noir in Its Contexts, Berkeley, University of California Press, 1998, pp. 40-
2. IL CINEMA DEI PRIMI ANNI TRENTA: MODERNITÀ E AUTOAFFERMAZIONE FEMMINILE
Il cinema americano degli anni trenta presenta due modelli narrativi e due modalità della relazione soggetto/desiderio: il primo caratterizza, in linea di massima, il periodo che va dall’avvento del sonoro alla stagione 1933-1934, il secondo si sviluppa negli anni successivi e continua sino alla fine del decennio. Tale periodizzazione indica delle dominanti, più che delle cesure nette, e soprattutto nel periodo «attorno al 1933-1934» i due modelli coesistono. Tuttavia è indubbio che lo svolgersi del decennio segna un progressivo affermarsi del modello classico. già Robert Brasillach e Maurice Bardèche, nel 1943, parlavano di classicismo del talkie riferendosi al cinema americano del periodo 1933-19391. Più recentemente, in una prospettiva culturale attenta soprattutto alle forme dell’immaginario cinematografico, Robert Sklar ha parlato di due Golden Age nel cinema degli anni trenta: mentre gli anni della grande depressione, «l’età della turbolenza», rappresenterebbero una delle sfide più significative ai valori tradizionali nella storia dell’intrattenimento di massa negli Stati Uniti, nella stagione 1933-1934 il cinema accorre in sostegno del nuovo corso rooseveltiano e comincia a dirigere i propri sforzi nella direzione opposta, promuovendo i valori americani tradizionali, in particolare il patriottismo e l’unità nazionale e, più in generale, l’ordine sociale2. Integrata da analisi di ordine estetico-formale e di gender, l’ipotesi di Sklar rimane una tesi valida su cui riflettere ulteriormente. Le configurazioni dominanti del desiderio e della soggettività nelle due epoche sono assai diverse, soprattutto per quanto riguarda il soggetto femminile e il suo rapporto con il maschile. In secondo luogo, i principi esteticorappresentativi del cinema dei primi anni trenta mostrano elementi residuali del cinema muto, con la presenza di componenti visive e attrazionali che contrastano con la classicità più compiuta, in cui l’aspetto visionario del cinema è sostanzialmente eliminato mentre diventano centrali il dialogo, una marcata sobrietà visiva e una concatenazione più precisa e razionale del racconto. La transizione dall’età della turbolenza a quella dell’ordine si verifica dunque attraverso cambiamenti stilistico-formali che, a loro volta, trovano riscontro in un diverso immaginario che testimonia mutate modalità di essere del soggetto. La modernità urbana emersa nei decenni fra Otto e Novecento ha rivoluzionato la condizione femminile con il passaggio, più che epocale, da una concezione vittoriana della donna e del rapporto tra i sessi, a una visione moderna che ha implicato, in primo luogo, l’abbandono della sfera domestica e l’entrata del soggetto femminile nella sfera pubblica. Il lavoro delle storiche americane ha investigato in modo mirabile, e al tempo stesso affascinante, questo periodo con ricerche che hanno riguardato tutti i fenomeni e le esperienze del «quotidiano femminile» in ambito privato e pubblico, dalle condizioni professionali a quelle abitative, dai rapporti tra donne a quelli con gli uomini, dalle forme del tempo lavorativo alle dinamiche del tempo libero, con particolare attenzione ai modi della fruizione dell’intrattenimento e dell’acquisto di beni di consumo e prodotti di bellezza. Proprio l’ambito dell’intrattenimento e del consumo, secondo gli studi più avanzati, è stato visto come il locus primario dell’emergenza e del consolidarsi di nuove forme del desiderio e dell’identità femminile. In questo processo il cinema, medium visivo per eccellenza del periodo, ha rivestito un ruolo fondamentale. Nancy Cott, studiosa di punta del «moderno femminismo americano», ha mostrato che negli anni venti vi fu «una uniformazione culturale senza precedenti» e che l’immagine della donna emancipata, esportata con successo soprattutto in Germania, fu un elemento imprescindibile di tale fenomeno. Quando radio e cinema diventano, negli anni venti, forme di comunicazione dominanti,
diventa possibile rivendicare e diffondere «un unico “modo di vita americano”». Peraltro le star del cinema cominciano a sostituire leader politici, uomini d’affari e artisti nell’ammirazione dei giovani americani3. La nostra analisi si fonda sul presupposto che la fusione dei saperi relativi alla storia sociale e culturale con quelli estetico-comunicativi è in grado di spiegare in modo più efficace il cinema americano del periodo, cinema di massa per eccellenza. Pertanto, l’analisi di tecniche narrative e formali sarà vista in relazione a quella delle forme della soggettività dominanti. La scelta di porre maggior enfasi sulle questioni femminili è dovuta anche alla constatazione che la donna in questo periodo vive processi di trasformazione ben più importanti e interessanti del soggetto maschile, divenendo così, nei testi culturali, la figura privilegiata dell’investigazione narrativa e simbolica. CINEMA E NEW WOMAN: DESIDERIO, AFFERMAZIONE, ATTRAZIONE
Negli anni immediatamente successivi all’avvento del sonoro l’immaginario cinematografico si nutre ancora delle figure che avevano popolato gli schermi nei Roaring ’20s, oltre a presentare nuovi tipi sociali e modelli comportamentali. Il cinema continua a essere la forma più efficace per rappresentare la vita moderna urbana: in particolare, esso dà voce e visibilità al desiderio di emancipazione e autoaffermazione del soggetto femminile, in piena continuità con il decennio precedente. Studi e indagini dell’epoca, ma anche ricerche recenti sull’audience, hanno rivelato che il pubblico femminile costituiva, negli anni venti e nei primi anni trenta, la maggioranza del pubblico cinematografico, e che l’industria operava in tal senso, investendo maggiormente nei film che attraevano le donne. Melvyn Stokes ha notato che le ricerche sulla composizione dell’audience dell’epoca erano piuttosto impressionistiche, e che probabilmente quasi tutte le indagini compiute avevano dati imprecisi. Tuttavia, la frequenza con cui commentatori e analisti, in pubblicazioni di largo consumo o accademiche, rimarcavano questa convinzione, indica che in realtà esistevano prove convincenti sul predominio dell’audience femminile. E, in ultima analisi, secondo Stokes appare meno importante che le donne fossero veramente la maggioranza che «il fatto che Hollywood comunque credesse che tramite la loro diretta partecipazione o la loro capacità di influenzare gli uomini costituissero il target primario». Questa convinzione ebbe effetti importanti se consideriamo che una grande parte dei film degli anni venti erano melodrammi con protagoniste femminili o storie di romance, mentre nel decennio successivo nacque il woman’s film, genere che nella prima metà degli anni trenta rappresentava un quarto delle pellicole in testa al box-office4. In un’ottica simile va letta la maggiore rilevanza del divismo femminile su quello maschile nei primi anni trenta, fenomeno alimentato in particolare dalle fan magazine, il cui pubblico era quasi esclusivamente femminile. Altrettanto significativo è che nella seconda metà del decennio il box-office sia invece dominato da bambini e adolescenti, come Shirley Temple e Mickey Rooney, e da divi maschili5. I film che le donne inurbate amavano vedere e su cui, dunque, investivano con profitto il proprio desiderio, erano film in cui l’immagine della New Woman palesava tutta la sua forza e la sua attrattiva. La figura della flapper, in particolare, mostra i tratti più innovativi e diventa il modello di riferimento primario. La flapper, impersonata da attrici come gloria Swanson, Clara Bow e Joan Crawford, è caratterizzata da una grande energia e vitalità6. Che si tratti della donna altolocata o della working girl, «l’immagine della nuova donna emana innanzitutto un senso di libertà fisica, movimento non controllato, andatura sicura, grande energia […] queste donne si muovevano con grande sicurezza nel mondo un tempo riservato agli uomini. Con una spontaneità esplosiva si lanciavano sulle piste da ballo, si tuffavano nelle piscine e accettavano qualsiasi sfida – bere, fare sport e spogliarsi –, entravano in qualsiasi ambiente lavorativo, ma anche al college e nei circoli sociali, correndo nelle strade della città verso l’ufficio o il negozio con grande baldanza»7. Segnata dallo spirito di indipendenza e dal desiderio di autoaffermazione, perseguiti anche con un uso libero del corpo e della sessualità, la nuova donna eclissa l’immagine del modello
vittoriano, rappresentato sullo schermo dalle eroine deboli, sofferenti e pure del cinema di Griffith interpretate da Lillian gish e Mary Pickford. Questa dicotomia esprime quella transizione epocale, per la condizione femminile, che gli storici hanno felicemente definito il passaggio dalla «True Womanhood» vittoriana alla «New Womanhood» moderna. Il culto della vera femminilità, affermatosi nella prima metà dell’Ottocento, si fondava su quattro attributi fondamentali, cui la donna doveva sottomettersi pena la sua emarginazione sociale: religiosità, purezza sessuale, sottomissione all’uomo e domesticità8. È evidente che la nuova femminilità rovescia tutti i valori, promuovendo in particolare l’autodeterminazione, l’abbandono della sfera domestica, l’entrata nel mondo del lavoro, e una certa libertà sessuale. È significativo, infatti, che l’atmosfera restauratrice dei secondi anni trenta porti a condannare esplicitamente questi comportamenti auspicando una minore libertà per la donna. L’evento del fallen woman cycle rappresenta il contributo di Hollywood più visibile a questo fenomeno. I film del ciclo, come per esempio i famosi Stella Dallas (Amore sublime, K. Vidor, 1937) e Kitty Foyle (Kitty Foyle ragazza innamorata, S. Wood, 1940) e il meno noto The Bride Walks Out (La forza dell’amore, L. Jason, 1936), e molti altri, mostrano che la donna ribelle viene socialmente marginalizzata e che l’unica possibilità, dopo la trasgressione, è il ritorno nella sfera domestica, la rinuncia all’ascesa sociale e spesso al vero amore, a favore di un marito senza glamour (Kitty Foyle e La forza dell’amore) o della felicità dei figli (Amore sublime). Le nuove libertà sembrano possibili solo per un breve periodo, gli anni eccitanti tra il momento in cui le giovani donne abbandonano la famiglia di origine e il momento in cui si sposano. Evidentemente, la nuova immagine non implica la scomparsa delle precedenti: come altre forme culturali del periodo, il cinema degli anni venti e trenta mette in scena immagini alternative della femminilità (e della mascolinità)9. Se a inizio anni trenta la figura di riferimento è la donna emancipata, nella seconda parte del decennio l’immagine femminile viene cooptata in un sistema di valori più tradizionali. L’autoaffermazione femminile può avere luogo solo nei grandi spazi della metropoli, lontano da quelli angusti, fisicamente e moralmente, della famiglia e della small town. L’esperienza del soggetto rappresentata dal cinema in questo periodo appare in sintonia con le analisi offerte negli anni dieci e venti dai sociologi urbani come Simmel, Kracauer e Benjamin con una significativa differenza: l’individuo sembra avere acquisito una maggiore capacità di far fronte ai pericoli e agli shock percettivi che il movimento incessante e caotico della città gli presenta. La vicenda tipica di una working girl dello schermo si sviluppa tra l’ambiente protetto dell’ufficio o del negozio, dove solitamente lavora con altre giovani donne, e quello più vivace e meno sicuro delle strade e dei luoghi di intrattenimento, soprattutto club, piste da ballo e ritrovi notturni, dove trascorre le sue serate. Frequenti sono anche gli episodi ambientati nello spazio domestico, che presenta due alternative: la giovane donna vive a pensione in una stanza ammobiliata oppure condivide un piccolissimo appartamento con altre ragazze. Ma vi è un’altra figura assai comune e più trasgressiva e che incarna la maggiore libertà sessuale del periodo: gli schermi pullulano di show girls, kept women e gold diggers, donne giovani e un po’ spregiudicate, che grazie al fascino e alla disponibilità sessuale cercano di assicurarsi un tenore di vita pieno di glamour o anche solo un po’ di sicurezza economica, qualche bel vestito o cappellino sfizioso10. Potremmo dunque affermare che la rappresentazione della metropoli come trasformazione e movimento continuo, energia perennemente in moto, trova massima espressione in tutti quei film in cui il soggetto femminile si batte per l’affermazione personale, attraverso il lavoro o il sesso. Il movimento e la trasformazione non danno però vita, classicamente, solo a traiettorie narrative lineari, ma vengono espressi in modo specificamente cinematografico e visivo da momenti in cui il racconto viene sospeso e sostituito da dinamiche puramente spettacolari in cui, attraverso espedienti linguistico-formali, si ricrea per lo spettatore un’esperienza di vertigine e turbinio visivo. Questi episodi attivano un tipo di fruizione in cui viene momentaneamente sospesa la facoltà cognitiva a favore di dinamiche pre-cognitive, legate alla fase che precede la trasformazione del visivo in senso e vicine invece al momento pre-simbolico, in cui la percezione incontra
forme e colori, elementi statici o in movimento, non scenari dotati di senso, ovvero con soggetti umani che interagiscono11. IL DINAMISMO VISIVO E LA SOVRIMPRESSIONE
Come abbiamo accennato nella conclusione del capitolo precedente, negli anni novanta emerge una linea di ricerca, definita da Ben Singer la «New York School»12, che, partendo dalle riflessioni di alcuni fondamentali pensatori della modernità, ha ripensato all’avvento del cinema in relazione al paesaggio urbano negli anni tra Ottocento e Novecento e alle forme culturali e della visualità di quel periodo. La «tesi sulla modernità» ha sottolineato la somiglianza tra «alcuni fattori chiave, formali e spettatoriali, tra il cinema – un medium che produce impressioni forti, frammentazioni spazio-temporali, subitaneità, mobilità – e la natura dell’esperienza metropolitana. Entrambi sono caratterizzati dalla preminenza di attrazioni visive forti e fuggevoli e da un’attenzione distratta e non contemplativa»13. Il cinema delle origini, ma anche alcune forme narrative degli anni dieci, vanno visti come un’espressione dell’iperstimolazione cui è sottoposto il soggetto nella moderna metropoli. Con le sue eroine mascolinizzate, il serial-queen melodrama è anche un esempio paradigmatico della New Woman di inizio secolo. Il genere sviluppa in modo straordinario il tema dell’eroismo femminile attraverso intrecci d’azione e d’avventura e narra di «eroine intrepide che mostrano una varietà di qualità tradizionalmente “maschili”: forza fisica e resistenza, fiducia nei propri mezzi, coraggio, autorevolezza sociale e libertà di esplorare esperienze nuove al di fuori della sfera domestica»14. Popolato di incidenti, cambiamenti e movimenti continui, suspense, fughe e inseguimenti, incendi e allagamenti, secondo Singer il serial-queen è una versione estetica della quotidianità urbana, fatta di eccessive stimolazioni sensoriali. Nella città moderna la vita diventa più intensamente fisica e l’attenzione visiva e auditiva si deve plasmare secondo nuove necessità. Ma anche il cinema come medium e apparato può essere visto in questo senso, perché produce un’esperienza spettatoriale paragonabile a quella del soggetto nella quotidianità della metropoli. Le dinamiche dell’attrazione, nella felice e fortunata proposta di Tom Gunning, costituiscono la soluzione estetica e comunicativa più efficace e significativa. Valutare la loro funzione nel mutato panorama del cinema narrativo sonoro di inizio anni trenta è uno strumento necessario per definire lo statuto del modo di rappresentazione di quel periodo. Nel cinema dei primi anni del sonoro la componente attrazionale ha un ruolo decisamente più importante che nella seconda metà del decennio e può essere vista come una modalità formale che esprime la peculiare esperienza del soggetto nella moderna metropoli, e in particolare il plot di autoaffermazione della New Woman. L’opposizione tra racconto e spettacolo si sviluppa attraverso la dialettica tra parola e immagine e tra immagine «fenomenologica» e immagine «visivo-dinamica». La componente attrattivo-visiva non riconducibile all’azione e al racconto è legata alla pura percezione, alla sensazione visiva. Il dispositivo a mio avviso più interessante è un esplicito retaggio del cinema degli anni venti e riguarda proprio la polifonia visiva, cinetica e illuministica della metropoli, cardine formale e figurativo dei documentari della tradizione «sinfonia della città», ma anche di Sunrise (Aurora, 1928), esordio americano di Murnau15. La rappresentazione della città come movimento ed energia viene codificata in sovrimpressioni molteplici e complesse in cui sono il movimento e la trasformazione dell’immagine, più che la sua leggibilità, a essere importanti. Sorta di morphing su pellicola, l’immagine qui perde i tratti della riconoscibilità iconica: il film rinuncia ad alcuni elementi costitutivi del suo apparato, la base fotografica, e, dunque, alla possibilità di registrare fenomenologicamente la realtà. In questi frangenti è altresì fondamentale l’assenza del soggetto umano, del personaggio, che invece diventa centrale con l’inizio del racconto. Per questo la polifonia visiva della sovrimpressione tende ad apparire all’inizio di un film, quando ancora nulla sappiamo di azioni e caratteri e quando, dunque, il dispositivo affabulatorio non è ancora entrato in funzione. Oltre che al puro movimento, la polifonia visiva e la sovrimpressione possono
essere legate a tecniche esibitorie del corpo femminile e al plot di autoaffermazione della donna. Anzi, proprio la natura della sovrimpressione a mostrare la metamorfosi la rende particolarmente adatta a evocare le storie di trasformazione del soggetto femminile e il generale dinamismo della New Woman. In secondo luogo, le tecniche esibitorie del corpo, soprattutto nel contesto della performance spettacolare – il cinema di questi anni pullula di show girls e ballerine, cantanti e attrici di cabaret –, conservano un elemento dell’attrazione primitiva, in quanto appaiono come una versione narrativa dell’iniziale esibizionismo teatrale del cinema. Nella formulazione che Gunning ha adottato per il cinema delle origini, la performer, pensiamo a due figure carismatiche come Mae West e Marlene Dietrich, «mostra qualcosa […] sollecita l’attenzione dello spettatore, incita la curiosità visiva, e dà piacere attraverso uno spettacolo eccitante»16. L’inizio di Glorifying the American Girl (Millard Webb, 1929) è particolarmente esuberante. Il film, la storia di una giovane donna che abbandona il luogo in cui è nata per iniziare una carriera di cantante e ballerina, inizia con uno spettacolare prologo di circa quattro minuti, in cui l’intrecciarsi delle immagini in sovrimpressione è così complesso e articolato da rendere quasi vertiginosa l’esperienza percettiva [1-3]. La prima inquadratura mostra una carta geografica degli Stati Uniti su cui vengono sovrapposte una miriade di giovani donne che, in fila indiana, una dopo l’altra e vestite con la stessa divisa, si muovono in una serie di serpentine percorrendo tutto il territorio nazionale. Le figure sono piccole sagome, riconoscibili, ma più vicine a una forma robotica che umana. Le geometrie dei loro movimenti assomigliano ai balletti che Busby Berkeley coreograferà qualche anno dopo per i musical Warner Brothers e tradiscono dunque una filiazione con il musical teatrale di Broadway. Del resto il successo della protagonista, la sua consacrazione a star, avverrà proprio in uno spettacolo di Broadway che porta il titolo del film stesso. La prima trasformazione sensibile dell’immagine dà vita all’inquadratura di una giovane donna che indossa un tailleur da ufficio: dopo pochi istanti essa si trasforma in un’altra figura femminile vestita con il tipico costume lamé della Ziegfeld girl e adornata di un copricapo vertiginoso, mentre nella parte inferiore dell’inquadratura è sempre visibile la serpentina di ragazze in movimento. Poi l’inquadratura muta nuovamente: viene ripreso un treno in movimento, mentre in sovrimpressione continua a essere inquadrata la serpentina che, quindi, duplica il movimento del treno accrescendo l’effetto di turbinio. L’immagine continua a trasformarsi secondo lo stesso principio: in sovrimpressione vediamo una giovane donna «qualunque», ma anche moltitudini di ragazze raggruppate in posizioni simmetriche e, nella parte superiore del piano, automobili che si muovono per le strade di una città. Nell’ultima inquadratura del prologo viene sovrapposta la scritta «Glorifying 1927» che appare decine e decine di volte stimolando l’atto percettivo tramite un movimento che porta la didascalia a fuoriuscire dall’inquadratura in direzione di chi sta in sala. All’inizio del prologo era apparsa la scritta «Glorifying 1919» e a metà episodio «Glorifying»: la didascalia stessa sembra quasi compiere, quindi, una traiettoria cronologica.
1. Glorifying the American Girl (M. Webb, 1929).
2. Glorifying the American Girl (M. Webb, 1929).
3. Glorifying the American Girl (M. Webb, 1929).
Vale la pena soffermarsi su questo film, e in particolare sul frammento iniziale, perché costituisce un esempio radicale della tendenza che stiamo descrivendo. Forse il plot, l’ascesa di una ragazza comune ai fasti di Broadway, e l’uso del revue format, con i numeri di artisti famosi come Eddie Cantor e Rudy Vallee, non hanno molto di originale, se un recensore dell’epoca descrisse il film come «Nulla […] che non sia stato già fatto nel talkie molte volte»17. Tuttavia, il prologo merita la nostra attenzione e il film, proprio per il fatto di appartenere al periodo di transizione tra muto e sonoro, mostra con maggiore evidenza le questioni relative al desiderio femminile. Anche senza addentrarci, per il momento, nel racconto, il prologo sviluppa con una certa precisione il tema dell’affermazione femminile. Se da un lato la sequenza suggerisce, attraverso l’uso di molteplici sovrimpressioni, l’idea di movimento, trasformazione e dinamismo, è altrettanto vero che tali tematiche sono associate a un oggetto specifico, «la ragazza americana» enunciata nel titolo. In effetti, anche se lo statuto «sensazionale» e attrattivo domina il prologo, è possibile fornirne un’interpretazione ed è ragionevole sostenere che in questo spettacolare inizio operino sia strategie attrattive che dispositivi di senso18. Le figure che popolano l’immagine sono tutte femminili e comprendono le lunghe serpentine che abbiamo descritto o soggetti individuali: l’alternanza tra la dimensione collettiva e quella individuale è costante e caratterizza tutto il prologo. Non mi sembra azzardato sostenere che il film riesce qui a evocare con chiarezza la condizione storica della donna moderna americana: come il titolo si riferisce in modo impersonale «alla» ragazza americana, altrettanto impersonali sono le figure robotiche che si muovono in fila indiana, e che si dirigono verso i grandi centri urbani. Viene così visualizzato il movimento delle giovani donne verso le città in cerca di lavoro che caratterizza i decenni tra fine Ottocento e inizio Novecento. Ma anche alcune inquadrature individuali hanno un afflato collettivo, come quando vediamo l’immagine di una giovane che lava i piatti e che stira, a esemplificare la condizione della True Womanhood all’interno dell’ambiente domestico contro cui le nuove generazioni si ribellano. In ultima analisi, il prologo sembra fare esplicito riferimento alla «figura tipica» femminile del periodo: le sagome in movimento esprimono al tempo
stesso il tratto dell’anonimità e dell’universalità della figura che vediamo muoversi su tutto il suolo americano. Il soggetto dell’immagine è dunque la working girl degli anni venti, la moltitudine di stenografe e centraliniste, lavandaie e infermiere, segretarie e commesse che invade i luoghi di lavoro19. Al tempo stesso la serpentina coreografata e la figura della Ziegfeld girl introducono l’ambiente dello spettacolo, il mondo di riferimento della diegesi. Il prologo, dunque, sembra farsi carico di una funzione di «commento storico», grazie a un espediente formale tipico del cinema del decennio, mentre il racconto si concentra sulla traiettoria di un soggetto particolare scegliendo il mondo dello spettacolo per narrare il tentativo di affermazione della giovane gloria. La ragazza lavora in un luogo di ristoro e intrattenimento della metropolitana di New York, dove canta accompagnata al piano dal fidanzato Buddy. Ma sogna di fare qualcosa di importante, prima di sposarsi. Per Buddy, invece, l’immagine più romantica è gloria che lo attende a casa. Assoldata da un impresario, la ragazza comincia una difficile carriera di artista itinerante che la porta lontano dal luogo di origine, ma non dimentica Buddy del quale sembra innamorata. Quando torna a New York per un’audizione l’uomo è alla stazione di grand central ad aspettarla. L’accompagna al teatro dove gloria ottiene il ruolo. Ma alla fine il giovane comprende che la fidanzata non rinuncerà alla carriera e sceglie di stare con Barbara, amica e collega della coppia da sempre innamorata del ragazzo e il cui unico desiderio è sposarsi con lui. Il film si conclude con lo spettacolo Glorifying the American Girl che sancisce il successo della protagonista; tra il pubblico Buddy e Barbara assistono felici al trionfo di gloria. Mentre è nel camerino tra un numero e l’altro, la donna riceve un telegramma di congratulazioni con l’annuncio che in giornata i due si sono sposati. Gloria incredula scoppia a piangere e, dopo aver indossato il costume per il numero successivo, esce con gli occhi umidi verso un nuovo applauso. L’ultima inquadratura del film è ancora un’immagine del successo della protagonista. Così il film dimostra che l’affermazione femminile è possibile. Attraverso l’opposizione tra le due donne mette in scena la dialettica tra l’immagine moderna della New Woman e quella più tradizionale di Barbara, tra l’autonomia della donna mascolinizzata e la più comune passività femminile. Anche il più famoso What Price Hollywood? (A che prezzo Hollywood?, G. Cukor, 1932) narra una storia di autoaffermazione in cui una ragazza qualunque riesce a diventare una famosa diva di Hollywood. Il film presenta tratti comuni alle storie di «innalzamento sociale» dell’epoca, ed è arricchito da elementi peculiari del mondo del cinema, per esempio la rappresentazione del rapporto tra spettatrice e diva. Anche se meno articolato dell’inizio di Glorifying the American Girl, l’incipit del film di Cukor produce un’immagine e un’idea di movimento, metamorfosi e dinamismo in sintonia con l’analisi sin qui condotta. Le prime inquadrature, legate l’una con l’altra da sovrimpressioni, giocano sul rapporto tra campo e fuoricampo nascondendo l’identità del soggetto protagonista, riuscendo così, proprio grazie all’occultamento del volto, a trasmettere l’impressione di movimento e metamorfosi più che a raccontare un’azione. Il film inizia con l’inquadratura di un giornale che viene sfogliato: si tratta di una fan magazine piena di foto di dive e belle donne cui si sovrappongono le gambe sexy di una giovane, inquadrata solo dalla cinta in giù, mentre si infila le calze. Il legame tra le due inquadrature non viene esplicitato e appare puramente «associativo»: le eleganti gambe femminili rinviano alle bellezze fotografate nella rivista. Una seconda sovrimpressione mostra il giornale visto in precedenza che continua a essere sfogliato da un invisibile soggetto fuoricampo. Una terza sovrimpressione porta al piano di un corpo femminile inquadrato sempre, come in precedenza, solo a metà: la donna, probabilmente la stessa, si sta infilando un vestito. L’immagine ritorna per la terza volta sulle pagine della rivista, quindi inquadra un terzo frammento femminile: vediamo l’inquadratura ravvicinata di una bocca su cui mani invisibili stanno stendendo il rossetto. A questo punto un lento carrello indietro va a scoprire il viso di una giovane donna che ha le sembianze di Constance Bennett (Mary Evans). Sono necessari pochi altri secondi per capire con precisione lo statuto del frammento appena visto. Prima vediamo che la giovane si trucca sbirciando una rivista per imitare lo stile di qualche diva del momento. Poi un’inquadratura meno ravvicinata ci conferma che la giovane
donna è la stessa di prima: l’abito che porta è effettivamente quello indossato dal corpo tagliato a metà ripreso in precedenza. A questo punto il dispositivo del film diventa esplicitamente narrativo e il montaggio associativo delle prime inquadrature viene sostituito dal classico montaggio analitico. Proprio l’avere ritardato la costruzione classica della scena, e con essa, necessariamente, l’inizio del racconto, rende assai chiaro il funzionamento della classicità, i suoi principi e i suoi effetti. Retrospettivamente, nella mente dello spettatore tutta la scena viene per certi versi assorbita dal flusso narrativo. Tuttavia, resta il fatto che il film inizia con un procedimento visivo e associativo legato alla metamorfosi del soggetto femminile e che l’impressione del divenire è data da una pluralità di opzioni: l’associazione iconica tra gli elementi dei diversi piani, l’uso della sovrimpressione, il movimento all’interno del quadro, la velocità del montaggio contribuiscono alla sensazione generalizzata di dinamismo e trasformazione. Anche in questo caso, la retorica formale non-narrativa dell’incipit è un perfetto preludio al plot di affermazione che verrà narrato. Significativamente, nel momento in cui si compie l’ascesa divistica della protagonista si ricorrerà allo stesso procedimento, con una serie di spettacolari sovrimpressioni del primo piano illuminato di Bennett con le insegne al neon dei teatri che annunciano i suoi film. Questa immagine paradigmatica della modernità urbana ci consegna un commento esplicito sul rapporto privilegiato che la New Woman intrattiene con la modernità stessa. Come in Glorifying the American Girl, il compagno della protagonista non riesce ad accettare il successo della donna e il suo ruolo di secondo piano nella coppia. Anche se alla fine torna dalla moglie, è palese la difficoltà dell’uomo di occupare un ruolo «poco mascolino»20. Un caso del tutto particolare è l’incipit di Rain (Pioggia, L. Milestone, 1932), un prologo lirico-poetico che riprende non solo le strategie visivo-dinamiche della «sinfonia della città», ma si ispira direttamente al documentario poetico di Joris Ivens, Regen (1929), di cui riprende anche il titolo. Il film rientra nel ciclo del fallen woman, genere con una forte tradizione letteraria, in cui la protagonista trasgredisce le norme della moralità vittoriana con un comportamento sessuale anticonvenzionale: è spesso una prostituta, ma può essere anche una giovane donna che, come la protagonista di La lettera scarlatta di hawthorne, diviene madre al di fuori del matrimonio21. Il film di Milestone è la seconda versione cinematografica della storia di Sadie Thompson, una prostituta, qui interpretata da Joan Crawford, che vive nell’isola di Pago Pago e che un missionario riformatore tenta inutilmente di redimere. L’isola di Pago Pago è una sorta di avamposto al tempo stesso militare e liberal, dove i soldati si mescolano ai nativi e a molti civili americani venuti qui proprio per sfuggire all’onda riformatrice che ha invaso il paese. Il gestore della pensione in cui alloggia Sadie, interpretato dal bravo guy Kibbee, è a tal proposito esplicito, e afferma di avere abbandonato Chicago per vivere tranquillo. A Pago Pago il divertimento è non solo tollerato, ma incoraggiato, e Sadie trascorre il suo tempo in compagnia dei soldati, tra alcol e musica. L’inizio del film non lascia prevedere nulla di tutto ciò. In una bizzarra contrapposizione con l’intreccio, Pioggia si apre con una serie di inquadrature in cui si susseguono immagini di nubi, pioggia, gocce d’acqua, poi ancora pioggia e nubi in un chiaro montaggio associativo codificato nel decennio precedente dal documentario lirico. L’inizio anti-narrativo è seguito da un breve episodio che fa da transizione al racconto vero e proprio: dopo un piano di acqua che sgorga potentemente da un tubo, la mdp si muove all’indietro rivelando una tinozza che raccoglie il getto. Ora vediamo un gruppo di soldati che marciano sotto la pioggia cantando, mentre in una sorta di montaggio delle attrazioni interno al piano, sullo sfondo dell’inquadratura un gruppo di nativi si muove all’unisono in direzione opposta ai soldati trasportando del legno. All’iniziale assenza di soggetti umani, nel preludio lirico, si sostituisce dunque una presenza collettiva e scarsamente soggettiva, sorta di relais con l’entrata in scena degli attori della storia. Con un controllo affatto banale degli strumenti espressivi, il film transita dall’evocativo al narrativo, prima attraverso il montaggio associativo, i raccordi visivi e una musica lirica, poi con un’efficace articolazione del rapporto tra campo e fuoricampo e l’impiego del dialogo22. Il frammento lirico iniziale verrà inserito
nuovamente a seguire l’episodio in cui Sadie appare e a precedere la scena in cui viene discussa la presenza dei signori Davidson, la coppia di riformatori che sosta temporaneamente nell’isola. Più che dare un’interpretazione precisa della sequenza lirica, mi interessa ribadire che il suo statuto formale e comunicativo è paragonabile agli esempi già discussi, in quanto si fonda su un dispositivo visivo-associativo e su procedure di montaggio ampiamente codificate nel decennio precedente. Ma il film di Milestone è anche un esempio di film in cui l’emancipazione femminile si gioca tutta sul piano della libertà sessuale, ed è dunque un valido complemento alle pellicole sin qui analizzate. Il punto di vista del film è decisamente complice del soggetto femminile e del suo stile di vita. Sadie viene presentata con un’esplicita «retorica erotica» attraverso quattro inquadrature, quattro frammenti del suo corpo: prima una mano ingioiellata, poi un’altra, quindi una caviglia, poi l’altra, precedono la ripresa del viso pesantemente truccato. La stessa presentazione verrà ripetuta alla fine del film, quando, dopo un breve periodo di ravvedimento, prontamente registrato sul corpo, ora agghindato sobriamente e privo di make-up, e in seguito alla morte del missionario, Sadie ritorna al suo look e alla sua vita abituale. Così, in modo per certi versi simile a Venere bionda, che si conclude con l’immagine contraddittoria di Marlene, madre erotizzata, Pioggia ha un finale altrettanto problematico: vestita «da prostituta», Sadie pare comunque accettare l’amore sincero del soldato che l’aveva aiutata contro Davidson23. Nei tre film considerati, l’esibizione e lo spettacolo del corpo femminile non rappresentano la subordinazione della donna, ma diventano il luogo della sua emancipazione. Il corpo erotizzato può essere visto in modo opposto alle prime formulazioni della FFT e costituisce, per riprendere un commento di Jane Gaines, non un segno «della patologia dello spettatore maschile», ma un’indicazione della «gratificazione» della donna24. Naturalmente non propongo di estendere questa ipotesi in modo generalizzato al cinema hollywoodiano, ma di valutare attentamente la sua validità per il periodo che stiamo analizzando. Ritengo che il grosso investimento sulla sessualità e il corpo femminile nel cinema tra fine anni venti e inizio anni trenta sia la propaggine estrema delle trasformazioni che la donna americana, e i costumi sociali in generale, vivono nell’epoca della modernità, e che il cinema dei Roaring ’20s aveva così efficacemente messo in scena. In questo periodo la moralità vittoriana subisce un forte ridimensionamento, perché la modernità fa emergere un nuovo atteggiamento nei confronti della sessualità. In Intimate Matters. A History of Sexuality in America, gli storici John D’Emilio ed Estelle Freedman hanno descritto gli eventi e le pratiche che hanno permesso un cambiamento radicale nei modi di concepire e vivere la sessualità da parte degli americani. I due studiosi rintracciano, nei primi anni dieci, i segni di un «nuovo ordine sessuale», il declino, per lo meno fra medici, teorici della sessualità e borghesia illuminata, di modelli comportamentali basati sulla continenza e l’autocontrollo in favore di «un’etica sessuale che incoraggiava l’espressività». È in questo contesto, tra l’altro, che Freud viene inizialmente recepito. Gli americani, osservano D’Emilio e Freedman, «assorbirono una versione del lavoro di Freud secondo cui l’impulso sessuale era una forza insistente che chiedeva di essere espressa»25. In quegli anni anche il lavoro del sessuologo e psicologo inglese havelock Ellis fu particolarmente influente. Pur operando ancora in un contesto concettuale ottocentesco e prefreudiano, che ben spiega le sue idee semplificate della sessualità e del soggetto, Ellis ebbe il pregio di difendere pratiche non ortodosse, generalmente considerate perversioni, quali l’autoerotismo e l’omosessualità, perché credeva che vi fosse bisogno non di maggiori restrizioni, «ma di maggior passione»26. Più in generale, le opinioni sulla sessualità, espresse anche da altri autori dell’epoca, si dirigevano verso una svolta epocale, in quanto la difesa dell’«espressività sessuale» era solo un aspetto di un più vasto orientamento verso un nuovo regime che «portava il sesso oltre la cornice riproduttiva […] attribuendogli il potere dell’autodefinizione individuale». Il sesso diventava, in altre parole, «un segno di identità, la fonte della vera natura
dell’individuo», e la sua espressione andava incoraggiata, perché avrebbe assicurato la coesistenza e la pace sociale27. La prima ricezione dell’opera di Freud non riconosce, evidentemente, l’esistenza e la funzione dell’inconscio, ed è dunque in totale contrasto con l’interpretazione che diventerà dominante nei decenni successivi, quando la questione dell’identità si giocherà sul piano della storia personale del soggetto e del suo rapporto con l’inconscio. Questa prospettiva dominerà lo scenario socio-mediatico americano dagli anni del secondo conflitto mondiale sino all’inizio dei primi anni sessanta, e diventerà un elemento costitutivo dell’immaginario cinematografico del periodo. Affronteremo questa questione nel quarto e quinto capitolo, in relazione al noir e al woman’s film degli anni quaranta. Va ribadito che il passaggio dall’idea positivista di «espressività sessuale» a quella psicoanalitica scissionista, secondo cui il soggetto è irrimediabilmente preda del conflitto tra le varie istanze psichiche, è di fondamentale importanza. Il cinema degli anni trenta, e non solo quello dei primi anni, è un cinema che crede, sostanzialmente, nella prima ipotesi. Certo non sono assenti squarci anticipatori della fase successiva – per esempio nei film della coppia Von Sternberg/Dietrich e più in generale nelle produzioni direttamente legate allo stile del cinema di Weimar, come l’horror di inizio decennio –, ma il trend dominante si muove nella direzione positivista evidenziata. SESSUALITÀ/MATERNITÀ/ESIBIZIONE: L’ECCESSO DI «VENERE BIONDA»
Venere bionda rappresenta un caso limite nella rappresentazione del soggetto femminile, ed è uno dei film più rivelatori dei complessi investimenti simbolici che all’epoca si riversano sull’immagine della donna. La protagonista infatti si muove tra opposte identità femminili, in un vertiginoso movimento, spaziale e metaforico, che la porta a essere moglie e madre, poi amante e performer, quindi madre in fuga e prostituta [4], e ancora artista di grande successo, ma priva degli affetti più importanti, per tornare a essere, in un finale fortemente contraddittorio, una bizzarra diva-madre. Il film fonde le diverse e antitetiche possibilità che l’immaginario dell’epoca riserva alla donna, concentrando sul corpo di Marlene opzioni di segno opposto: la protagonista è prima sessualmente virtuosa, poi trasgressiva, prima si dedica alla casa e alla famiglia, poi riprende a lavorare come cantante di night club. I film del periodo tendono a presentare personaggi con caratteristiche omogenee, dotati di una certa consistenza, che si tratti di «una donna con un passato», la fallen woman, di una gold digger in cerca di marito, una cenerentola baciata dalla fortuna o ancora una working girl che vuole migliorare la sua condizione28. Venere bionda esprime invece una visione contraddittoria del rapporto tra peccato e virtù, tra maternità e sessualità, per esempio mostrando che, nonostante la donna a un certo punto si prostituisca, essa non viene mai meno ai suoi doveri di madre. Anzi è proprio prostituendosi che a New Orleans riesce a mantenere il figlio. Ed è grazie ai soldi guadagnati come cantante, e poi come amante di Nick Townsend/ Cary Grant, che Helen Faraday può pagare le costose cure del marito in Germania. Dunque è la donna, che dopo il matrimonio aveva abbandonato il lavoro, a dover provvedere alla famiglia, mentre il capofamiglia rivela la propria inadeguatezza. Tra i film della coppia Von Sternberg/Dietrich, Venere bionda è quello che ha maggiormente ispirato gli studiosi, in particolare, ma non solo, quelli di area femminista. Si potrebbe quasi dire che ogni nuova tendenza della FFT ha trovato modo di manifestarsi anche attraverso l’analisi di questo film, che costituisce un caso ideale per testare i diversi trend degli studi di genere29. Proprio la complessità e la ricchezza dell’opera hanno tenuto vivo l’interesse per il film, il cui appeal non deriva solo dalla presenza di Marlene, ma da una serie di elementi formali e visivi che lo rendono peculiare, per esempio la struttura narrativa ellittica, in luogo della classica linearità, la prevalenza di immagini plastiche in luogo dell’abituale dinamismo, la sensualità visiva in luogo della sobrietà classica, il rapporto tra il femminile, l’esotico e l’animalità, e le forme estreme della performance di Marlene.
Gaylyn Studlar ha sostenuto che la struttura ellittica e ripetitiva del film è antitetica ai principi classici della causalità e della linearità e va vista come una soluzione formale ed estetica del masochismo, fondato sulla sospensione, non l’appagamento, del desiderio30. Anche le vicende censorie, secondo Lea Jacobs, hanno contribuito alla forma ellittica del film, con episodi o dettagli importanti omessi, per far fronte alle richieste dei funzionari censori, che talvolta rendono poco comprensibili le motivazioni dei personaggi. Contrariamente all’idea che il codice hays sia entrato in vigore nel 1934, lo Studio Relations Committee, la sezione della MPPDA addetta alla censura, era pienamente attiva nel periodo 1929-1934. In particolare, gli uffici di Los Angeles si occupavano del monitoraggio delle sceneggiature prima che i film entrassero in produzione. Nel 1931 la pratica era divenuta sostanzialmente obbligatoria e si traduceva in un’attività di negoziazione tra la casa di produzione e l’ufficio guidato da Jason Joy. Nel suo studio sul rapporto tra il fallen woman cycle e la censura, Jacobs sostiene che, in realtà, le vicende di Venere bionda mostrano che la necessità censoria di eliminare scene esplicite della «caduta morale» del personaggio femminile si rivela in sintonia con la tecnica narrativa del regista, «che predilige modi di rappresentazione indiretti o ellittici», mentre si scontra con i desideri della produzione, che avrebbe voluto un finale in cui la ricostituzione della coppia avvenisse con un personaggio maschile più simpatetico, ovvero sostituendo il poco attraente Herbert Marshall, marito di Helen, con Cary Grant. Sternberg scelse invece di riunire Helen con il marito, accontentando dunque gli uffici della censura, perché questo finale era conforme «alla regola della compensazione dei valori morali», secondo cui la caduta del personaggio viene poi compensata dalla sua rigenerazione31.
4. Venere bionda (J. Von Sternberg, 1932).
5. Venere bionda (J. Von Sternberg, 1932).
6. Venere bionda (J. Von Sternberg, 1932).
E tuttavia il finale è altamente contraddittorio e riassume in modo mirabile le modalità anticonvenzionali di rappresentazione della femminilità perseguite in tutto il film. Quando, nell’ultima scena, Marlene, vestita con un abito da sera, si reca in visita
al figlio, mentre i giornali hanno appena dato la notizia del suo fidanzamento con Nick, il contrasto tra l’eleganza glamour della diva e la modestia dell’appartamento, da un lato, e il suo ruolo materno, dall’altro, si palesano con tutta evidenza. Nell’episodio precedente avevamo ritrovato Marlene che si esibiva all’Opéra di Parigi in abiti maschili, un’immagine di mannish lesbian non rara nella cultura urbana di inizio anni trenta e che costituisce uno dei tratti significativi dell’immagine divistica di Dietrich32 [6]. Peraltro, l’immagine della diva che i precedenti film americani con Von Sternberg avevano diffuso non poteva essere più lontana dal ruolo domestico che qui le viene assegnato. La trasgressione ultima del film risiede, forse, proprio nel voler accostare modelli di femminilità antitetici, in cui si riconosce sia la sessualità attiva della donna che la sua volontà di sacrificarsi, in un mescolamento di ruoli e atteggiamenti raramente rappresentato. Ma in questo processo non tutto ha il medesimo peso, non tutto può essere salvato. L’immagine della madre sessualizzata su cui il film si chiude è un’immagine forte che rende conto dell’economia del racconto, incentrato sul tentativo di Marlene di far fronte alle esigenze del figlio in assenza del padre. Il rapporto madre/figlio ne esce rafforzato, mentre a essere messo in discussione è evidentemente il modello familiare, le dinamiche del triangolo edipico. La funzione paterna non viene solo marginalizzata, ma dichiarata irrilevante33. Ma l’immagine più potente e affascinante, e che certo rafforza l’autonomia del femminile rispetto al maschile, è evidentemente quella di Marlene che si esibisce. In particolare, il famoso numero Hot Vodoo, con la diva che fuoriesce dal corpo di una grossa scimmia e canta accompagnata dal ritmo dei tamburi e da un gruppo di «selvaggi», è un’esibizione eccessiva che non solo esplicita il rapporto tra femminilità e animalità, ma rompe tutte le regole del decoro [5]. La trasgressività dell’episodio è in sintonia con ciò che definirei l’eccesso esibitorio del cinema del periodo, il desiderio di produrre shock o stupore in luogo dell’«assorbimento psicologico» che dominerà la classicità più compiuta. I primi anni trenta sono caratterizzati da forme molteplici di esibizionismo cinematografico, che segnalano l’emergenza di dispositivi spettacolari o sensazionali che – come aveva affermato Mulvey a proposito del corpo femminile – arrestano il racconto e «interpellano» più direttamente l’attenzione dello spettatore. Il dominio del visivo e del sensibile sul narrativo accomuna le strategie comunicative di molti film del periodo: le spettacolari riprese aeree e le sequenze colorate di Hell’s Angels (Gli angeli dell’inferno, H. Hughes, J. Whale, 1930), i mostri di Freaks (T. Browning, 1932), gli horror come Dracula (T. Browning, 1931), Frankenstein (J. Whale, 1931), Svengali (A. Mayo, 1931) e King Kong (M. Cooper, E. Schoedsack, 1933), mentre tra le esibizioni eccessive di particolare interesse è quella di Mae West in I’m no Angel (Non sono un angelo, W. Ruggles, 1933) e She Done him Wrong (Lady Lou - La donna fatale, L. Sherman, 1933)34. Nonostante le macroscopiche differenze tra la personalità e lo stile performativo di West e Dietrich, vi sono significativi punti di contatto tra le due, specialmente in relazione a Venere bionda e Non sono un angelo. Tutta la presentazione iniziale di West, che si esibisce in un circo, è costruita enfatizzando la «sensazionalità» dell’artista. Quando Tira si presenta all’all-male audience che la aspetta trepidante, le dinamiche tra oggetto e soggetto dello sguardo sembrano rovesciarsi: Tira impone il suo corpo eccessivamente sessualizzato sullo spettatore, riducendo al minimo la separazione tra lo spazio occupato dal pubblico e quello abitato dalla performer. Successivamente il potere (economico) d’attrazione e seduzione di Tira, come quello di Marlene, aumenterà tramite l’associazione del femminile con l’animalesco: Tira diventerà una domatrice di leoni concludendo l’esibizione con un numero altamente sensazionale, mettendo la testa dentro la bocca del pericoloso felino. Ma la matrice attrazionale del film, del circo e del personaggio di West, sono rivelati con maggiore evidenza attraverso una peculiare rappresentazione del pubblico dell’artista. Gli altolocati newyorkesi che assistono allo spettacolo di Tira affermano a più riprese di voler essere «eccitati», e attendono con trepidazione il momento clou dell’esibizione. Infine, dopo lo spettacolo si recano nel camerino della donna per ringraziarla dell’emozione: «What a thrill you gave us» la apostrofa emozionata una delle spettatrici. Implicate con una sessualità eccessiva vicina all’animalità, Mae West e Marlene Dietrich non rappresentano solo immagini forti e trasgressive di
autodeterminazione femminile. I loro film, in sintonia con procedimenti diffusi nel cinema di inizio anni trenta, tradiscono anche la persistenza, nel cinema pre-classico, di tecniche e dispositivi attrazionali. VISIONARIETÀ E MOBILITÀ SOCIALE: «LA DANZA DELLE LUCI»
Il dinamismo visivo e la pirotecnia spettacolare trovano nei musical Warner Brothers, diretti o coreografati da Busby Berkeley, l’esempio più radicale del periodo. Dopo il grande sviluppo nei primi anni del sonoro, soprattutto grazie al format della rivista, il musical vive un periodo di forte crisi nel biennio 1931-1932. Quando ormai le sorti del genere sembrano segnate, a Hollywood irrompe Busby Berkeley, geniale coreografo di Broadway. Giunto sulla West coast nel 1930 per Whoopee, Berkeley rimane grazie all’incoraggiamento di Mervyn LeRoy, che intuisce le potenzialità visionarie del coreografo. Berkeley esordisce nel 1933 con tre film che escono uno di seguito all’altro: in pochi mesi l’industria cinematografica trova un nuovo talento e una nuova forma musicale, il backstage musical. Prima 42nd Street (42a strada, L. Bacon) poi The Gold Diggers of 1933 (La danza delle luci, M. LeRoy), quindi Footlight Parade (Viva le donne, L. Bacon): tre musical invadono gli schermi americani contribuendo anche a risollevare un po’ il morale degli spettatori. Il contributo di Berkeley non può essere sottostimato: il backstage musical è infatti la prima forma veramente «cinematografica» di musical, la prima espressione che si libera della natura fortemente teatrale del genere dei primi anni, e che apporta innovazioni importanti nel linguaggio e nella messa in scena filmica. Per coerenza argomentativa, la nostra analisi non può che accennare ad alcuni aspetti del genere musicale Warner35. Se i film della coppia Fred Astaire/Ginger Rogers (RKO, 1933-1939) sono in perfetta sintonia con la scrittura classica, il musical WB rappresenta uno dei modelli più alternativi e radicali di messa in scena di inizio decennio. In relazione alla dicotomia racconto/spettacolo, il backstage musical è un testo duale, nel senso che presenta due stili di regia, o meglio due forme filmiche completamente autonome e irrelate. Mentre la presenza dei numeri musicali e ballati è motivata dal fatto che l’intreccio riguarda la messa in scena di uno spettacolo, dalle prove alla prima, la peculiarità di questo sottogenere sta nelle opposte opzioni formali che caratterizzano l’intreccio e lo spettacolo. A differenza dei musical degli anni precedenti, in cui il materiale narrativo è estremamente ridotto, qui la fabula è ricca di eventi: narra la difficile vita quotidiana, negli anni più bui della depressione, di alcuni artisti e ballerini di Broadway che sperano di trovare un produttore che li coinvolga in uno spettacolo, e la nascita di storie d’amore, dietro e fuori le quinte. La messa in scena degli eventi al di fuori del set e la ripresa dello spettacolo seguono strategie opposte: mentre il racconto è classicamente fondato sull’unità della scena e sul montaggio analitico, gli spettacolari numeri di Busby Berkeley sono una performance visiva di grande impatto che si nutre dei movimenti vorticistici della mdp. L’uso energico della mdp raddoppia il dinamismo dei numeri ballati, in cui decine di ballerine e ballerini si muovono su piattaforme semoventi e scalinate vertiginose, con la mdp che si sposta in modo altrettanto elegante e spettacolare sui loro corpi [8]. Posizionata ora vicino alle gambe divaricate delle ballerine, come nei famosi crotch-shot, ora in alto, a inquadrare da una «posizione impossibile» le geometrie floreali dei balletti, l’uso innovativo della mdp proposto da Berkeley contraddice le regole di base della regia classica. È evidente, infatti, che il pubblico diegetico non può vedere, dalla sua «posizione teatrale», ciò che solo il punto di vista cinematografico e non-umano della mdp può riprendere e consegnare allo spettatore in sala: le famose composizioni floreali di Berkeley prendono vita solo grazie alla mdp, sia quando, come nella maggior parte dei casi, sono riprese dall’alto, che quando, come nel bellissimo numero By a Waterfall in Viva le donne, la mdp è posta nell’acqua e riprende dal basso i movimenti delle ballerineninfe36. Il lavoro di Berkeley è l’esempio forse più estremo della tendenza visionaria anti-classica del cinema di questi anni, in cui la percezione può diventare un’esperienza di vertigine ancora pienamente debitrice della visionarietà del periodo muto. Come in Der lezte Mann
(L’ultimo uomo, F.W. Murnau, 1924) o Čelovek s kinoapparatom (L’uomo con la macchina da presa, D. Vertov, 1929), Berkeley rifiuta di usare la mdp come un occhio umano, enfatizzando invece le maggiori possibilità della tecnica cinematografica rispetto al soggetto umano. L’attrazionalità è assicurata dallo statuto antiumanistico di questi espedienti, che non vengono impiegati per narrare traiettorie soggettive, ma per stimolare la percezione. Al polo opposto della profondità psicologica, l’esperienza visiva delle coreografie di Berkeley attiva lo stupore e la meraviglia per composizioni complesse e al tempo stesso perfette, in cui i corpi perdono la loro umanità e individualità per divenire pezzi di un ingranaggio. In relazione al nostro discorso, La danza delle luci è particolarmente interessante non solo per la componente spettacolare, ma anche per il modo in cui articola le dinamiche della femminilità. Mentre in 42a strada e Viva le donne tale questione è inesplorata o al meglio secondaria, in questo film la figura della gold digger è centrale e la sua presenza rende l’intreccio più complesso e rivelatorio di quello degli altri due film. Tale complessità è il risultato della fusione dei materiali semantici del backstage musical – la vita fuori dal teatro dei ballerini – con quelli della commedia – la dialettica maschile/femminile si incrocia con quella di classe e si nutre dei misunderstandings provocati dallo scambio di identità. La centralità della questione femminile nell’intreccio, esplorata in termini storicamente verosimili – e non, quindi, secondo i più semplificati canoni del genere, incentrati sul corteggiamento tra due giovani ballerini, qui e altrove impersonati dalla coppia Dick Powell e Ruby Keeler –, si aggiunge alla funzione altrettanto centrale che il corpo femminile riveste nelle parti spettacolari. Così il film, oltre a essere costruito attorno alla dialettica classicità/anti-classicità, racconto/attrazione, mette in scena un discorso articolato sul corpo e il soggetto femminile di cui presenta almeno due opzioni alternative. Coacervo di dualità e opposizioni, sia da un punto di vista dell’immaginario che da quello più propriamente estetico-comunicativo, il film riassume molte delle dinamiche che caratterizzano il cinema più innovativo di questo periodo.
7. La danza delle luci (B. Berkeley, 1933).
8. La danza delle luci (B. Berkeley, 1933).
9. La danza delle luci (B. Berkeley, 1933).
Mentre in un teatro di Broadway si svolgono le prove del musical We are in the Money, la polizia interviene e chiude lo show per bancarotta. Tre ballerine squattrinate vivono in un piccolo appartamento ammobiliato in attesa di una nuova scrittura. Di
fronte, un pianista senza lavoro [7], interpretato da Dick Powell, suona melodie sentimentali indirizzate a Ruby Keeler, una delle tre inquiline. L’amica Dixie le informa che un produttore sta iniziando un nuovo show ed è in cerca di artisti. Si tratta di un musical sulla depressione, una litania sulla fame, su uomini dimenticati che marciano cantando il loro dolore. Il pianista, assoldato assieme alle tre ragazze, procura misteriosamente 15 mila dollari, consentendo così al produttore di iniziare le prove. Powell non vuole apparire sulla scena, ma la sera della prima il cantante si infortuna e il misterioso giovane è costretto a sostituirlo. Lo spettacolo ha tutte le caratteristiche delle coreografie di Berkeley. Il numero Petting in the Park prima si concentra sulla giovane coppia Powell/Keeler, poi dà spazio alla performance collettiva che dà avvio alla parte più spettacolare37. La fusione di spettacolarità e sessualità è visivamente molto efficace nell’episodio in cui le ballerine indossano un corpetto di latta che viene aperto con un apriscatole dando vita a un vero e proprio streap-tease. Ma la parte più interessante del film arriva dopo lo spettacolo: il successo decretato dai giornali rivela l’identità di Powell, rampollo di una ricca dinastia di Boston. La famiglia del pianista è scandalizzata nel vedere il coinvolgimento del giovane con l’intrattenimento popolare e ancor più quando viene a conoscenza che si è fidanzato con una ballerina. Il fratello e l’avvocato di famiglia giungono a New York per convincerlo a tornare a casa, pena la perdita dell’eredità, e a lasciare la ragazza, che giudicano, senza conoscerla, una «gold digger parassita» interessata solo alle sue fortune. Le due amiche di Keeler decidono a questo punto di tenere fede al cliché: tanto vale sfruttare i benefici della gold digger se comunque si è ritenute tali. Così iniziano a estorcere regali e inviti costosi ai due attempati aristocratici. Ma i due bostoniani, all’inizio impettiti, asettici e snob, si lasciano presto trascinare dall’allegria «popolana» e verace delle due e finiscono per comportarsi esattamente come il più giovane Powell, prima stigmatizzato [9]. L’intreccio si conclude con un triplo matrimonio e fornisce così un commento preciso e ironico sul rapporto tra i sessi. Il cliché della gold digger come ragazza priva di scrupoli è in verità sovvertito: le giovani donne, che preferiscono indubbiamente un marito danaroso, sono comunque personaggi più che positivi, sono vivaci, simpatiche, di buon cuore e con un senso profondo dell’amicizia femminile. Se nel loro atteggiamento non manca l’interesse per la sicurezza economica è però vero che esse rappresentano, per gli esangui bostoniani, una linfa rigeneratrice impagabile, la cosa migliore che poteva loro capitare. Mentre l’immagine dell’aristocratico del Nord-Est repressivo e represso ne esce ridimensionata, la figura della giovane donna intraprendente e sicura di sé, gold digger o working girl che sia, viene ancora una volta valorizzata e, in ultima analisi, sono proprio gli uomini a trarre i maggiori benefici dall’incontro.
1 R. Brasillach, M. Bardèche, Histoire du cinéma, 19432, citato in D. Bordwell, On the History of Film Style, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1997, p. 47. 2 R. Sklar, Movie-Made America. A Cultural History of American Movies, ed. rivista, New York, Vintage Books, 1994, pp. 175-194. 3 N.F. Cott, La donna moderna «stile americano»: gli anni Venti, in F. Thébaud (a cura di), Storia delle donne. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 91-92. Per una trattazione più esaustiva dell’argomento si veda il volume di N.F. Cott, The Grounding of Modern Feminism, New Haven-London, yale University Press, 1987; E.B. Freedman, The New Woman: Changing Views of Women in the 1920s, in «The Journal of American history», LXI, 2, settembre 1974, pp. 372-393. Miriam Hansen ha descritto questa transizione attraverso il fenomeno divistico di Valentino, interpretato alla luce della nuova mobilità femminile. Cfr. M. Hansen, Il ritorno di Babilonia: Valentino e la spettatrice, in Id., Babele e Babilonia, Torino, Kaplan, 2006. 4 M. Stokes, Female Audiences of the 1920s and early 1930s, in M. Stokes, R. Maltby (a cura di), Identifying Hollywood’s Audiences, London, BFI, 1999, pp. 42-60, 43-44. 5 Ibid. La classifica del box-office delle star compilata secondo le indicazioni degli esercenti è in questo senso un dato molto indicativo. Cfr. C.S. Steinberg, Film Facts, New York, Facts on File, 1980, pp. 57-59. Sul divismo degli anni trenta si veda T. Balio, Grand Design. Hollywood as a Modern Business Enterprise, 1930-1939, Berkeley, University of California Press, 1993, pp. 143-177. 6 Laura Mulvey ha recentemente discusso il rapporto tra New Woman e modernità analizzando la figura di Clara Bow in It (c. Badger, 1927). Cfr. L. Mulvey, The Young Modern Woman of the 1920s: A Convergence of Feminist Film Theory and Gender Studies, relazione presentata al convegno I piaceri del testo. Identità di genere, storia e teoria del cinema, Università degli Studi di Torino, Torino, 11-12 dicembre 2006.
7 M.P. Ryan, The Projection of a New Womanhood: The Movie Moderns in the 1920s, in J.E. Friedman, W.g. Shade, Our American Sisters. Women in American Life and Thought, Boston, Allyn and Bacon, 1976, pp. 366-384. 8 Per un’analisi articolata di questa importante questione si veda B. Welter, The Cult of True Womanhood: 18201860, in M. Gordon (a cura di), The American Family in Social-Historical Perspective, New York, St. Martin’s Press, 19782, pp. 313-333. 9 L’immaginario socio-culturale dei modelli di femminilità e mascolinità del tempo viene discusso da Christina Simmons in Modern Sexuality and the Myth of Victorian Repression, in B. Melosh (a cura di), Gender and American History Since 1890, London-New York, Routledge, 1993, pp. 17-42. 10 Secondo i dati dell’American Film Institute catalogue, tra il 1921 e il 1930 furono prodotti 4 film con personaggi di operaie e 46 con domestiche, quasi tutti ruoli minori. Mentre si contano 49 film con commesse, 28 con stenografe e ben 114 con segretarie. Cfr. Ryan, The Projection of a New Womanhood, cit., pp. 374-375. 11
Su questi aspetti si veda F. Casetti, L’occhio del Novecento, Milano, Bompiani, 2005.
12
Cfr. B. Singer, Melodrama and Modernity, New York, Columbia University Press, 2001, pp. 101-102.
13
Ibid.
14
Ibid., p. 221.
Sulla «sinfonia della città» si veda G. Tinazzi, La sinfonia della metropolis, in P. Bertetto (a cura di), Velocittà. Cinema & futurismo, Milano, Bompiani, 1986; G.P. Brunetta, A. Costa (a cura di), La città che sale. Cinema, avanguardie, immaginario urbano, Rovereto, Manfrini, 1990, in particolare i saggi di Brunetta, Uricchio e Costa. 15
16 T. Gunning, The Cinema of Attractions. Early Film, Its Spectator and the Avant-Garde, in Th. Elsaesser (a cura di), Early Cinema. Space Frame Narrative, London, BFI, 1990, pp. 56-62. 17 In D. Crafton, The Talkies. American Cinema’s Transition to Sound, 1926-1931, Berkeley, University of California Press, 1997, p. 334. 18 Della fusione tra sensazione e senso come procedimento estetico-comunicativo parla a più riprese Casetti in L’occhio del Novecento, cit. 19 I dati sull’occupazione e sui lavori femminili riferiti al 1930 si trovano, tra l’altro, in R. Milkman, Women’s Work and the Economic Crisis, in N.F. Cott e E.h. Pleck (a cura di), A Heritage of Her Own. Toward a New Social History of American Women, New York, Simon & Schuster, 1979, pp. 507-541. 20 Il film di Cukor meriterebbe un’analisi più articolata, ma in questo frangente mi interessa evidenziare un tratto, il legame tra sovrimpressione e plot di autoaffermazione femminile, che accomuna film dai risultati espressivi molto diversi. Anche se il prologo di Glorifying the American Girl è un episodio di grande interesse, il film non può sostenere il paragone con A che prezzo Hollywood? Il film di Cukor è anche una riflessione sul funzionamento del cinema e del divismo di cui la protagonista stessa è del tutto cosciente. All’inizio, per esempio, la sequenza descritta si conclude con la donna che, dopo aver visto sulla rivista la foto di Clark Gable e Greta Garbo, piega il giornale a metà, appoggia il suo viso a quello dell’attore, sostituendosi dunque a Garbo, e, esagerando l’accento mascolino dell’attrice, dice «darrrrlink, how I looove you, my darrrlink». Da un lato, dunque, la protagonista sembra commentare ironicamente il proprio processo di imitazione, dall’altro Constance Bennett prova grande piacere nel costruire la propria immagine – che in parte è anche un modo di essere –, il proprio stile attraverso l’imitazione di modelli. Come dimostra Sarah Berry, questo esempio è in sintonia con alcune idee del tempo sull’audience femminile: «Il concetto di emulazione della star è rappresentato sia in termini di calcolo che di fantasia, ma anziché essere discusso in termini di identificazione psicologica con una o più star particolari, è spesso presentato come un movimento cosciente nell’adozione di un certo numero di tratti dell’abbigliamento e del comportamento». Non si tratta mai, in ogni modo, di ubbidire passivamente agli imperativi del marketing, ma di un processo «connesso sia alle attività immaginative della fan culture femminile che all’uso cosciente da parte delle donne della semiotica sociale della moda». Cfr. S. Berry, Screen Style. Fashion and Femininity in 1930s Hollywood, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2000, pp. 24-30. Sul processo di apprendimento di Constance Bennett ha recentemente riflettuto anche Laura Mulvey in The Possessive Spectator: Feminist Film Theory in a New Technological Age, relazione presentata al convegno Cinema e psicoanalisi, Università degli Studi di Roma Tre, casa del cinema, Roma, 27-28 ottobre 2006. 21 Sul fallen woman film si veda il bel libro di L. Jacobs, The Wages of Sin. Censorship and the Fallen Woman Film, 1928-1942, Berkeley, University of California Press, 1997. 22 Il film impiega numerosi altri espedienti visivo-formali di indubbio interesse, lontani dai canoni classici e più vicini allo stile sensuale di Von Sternberg. Un esempio mirabile delle qualità visive di Milestone si trova anche in All Quiet on the Western Front (All’Ovest niente di nuovo, 1930), in un’inquadratura che fonde molteplici dinamiche dello sguardo. Cfr. a questo proposito la suggestiva analisi di L. Albano, Lo specchio e lo sguardo. L’identificazione speculare in All Quiet on the Western Front di L. Milestone, 1930, relazione presentata al convegno Cinema e psicoanalisi, cit. 23 Per un’analisi più articolata del film rinvio a A. Lawrence, Constructing a Woman’s Speech: Sound Film. «Rain» (1932), in Id., Echo and Narcissus. Woman’s Voices in Classical Hollywood Cinema, Berkeley, University of California Press, 1991. 24 J. Gaines, Introduction: Fabricating the Female Body, in J. Gaines, C. Herzog (a cura di), Fabrications. Costume and the Female Body, New York-London, Routledge, 1990, pp. 1-27, 5. 25 J. D’Emilio, E.B. Freedman, Intimate Matters. A History of Sexuality in America, Chicago, The University of Chicago Press, 19972, p. 223. 26 Ibid., pp. 224-226. Sul rapporto Freud/havelock si veda anche J. Mitchell, Psychoanalysis and Feminism, trad. it. Psicoanalisi e femminismo: Freud, Reich, Laing e altri punti di vista sulla donna, Torino, Einaudi, 1976. 27
D’Emilio, Freedman, Intimate Matters, cit., pp. 225-226.
Per una panoramica complessiva sul cinema del decennio è assai utile il ricco volume di R. Dooley, From Scarface to Scarlett: American Films in the 1930s, San Diego, HBJ, 1981. 28
29 Oltre agli interventi direttamente citati nell’analisi, i contributi a me noti sono: B. Nichols, Blonde Venus: Playing with Performance, in Id., Ideology and the Image, Bloomington, Indiana University Press, 1981, pp. 104-132; E.A. Kaplan, Women and Film. Both Sides of the Camera, New York-London, Routledge, 1983, pp. 49-60; A. Weiss, «A Queer Feeling When I Look at You»: Hollywood Stars and Lesbian Spectatorship in the 1930s, in D. Carson, L. Dittmar, J.R. Welsh (a cura di), Multiple Voices in Feminist Film Criticism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1994, pp. 330-342; P. Petro, The Hottentot and the Blonde Venus, in Id., Aftershocks of the New. Feminism and Film History, New Brunswick, Rutgers University Press, 2002, pp. 136-156. Su Marlene e la FFT cfr. anche J. Mayne, Marlene, Dolls, and Fetishism, in K. McHugh, V. Sobchack (a cura di), Beyond the Gaze: Recent Approaches to Film Feminism, in «Signs», XXX, 1, autunno 2004, pp. 1257-1264. 30 G. Studlar, In the Realm of Pleasure. Von Sternberg, Dietrich and the Masochistic Aesthetic, New York, Columbia University Press, 1988. 31 Jacobs, The Wages of Sin, cit., pp. 88-93. Jacobs parla di tre versioni della sceneggiatura e di almeno due diversi finali. 32 Su questo aspetto si veda Weiss, «A Queer Feeling When I Look at You», cit., e R. Gregg, Cary Grant in Who’s a Fairy. Per una storicizzazione della dimensione queer di Cary Grant, in G. Alonge, G. Carluccio (a cura di), Cary Grant. L’attore, il mito, Venezia, Marsilio, 2006. 33 Mi sembra quindi del tutto condivisibile l’interpretazione di Studlar, secondo cui il rapporto tra madre e figlio, che negli anni non subisce variazioni, incarna alla perfezione la dinamica del masochismo nella versione deleuziana. 34
Cfr. Th. Doherty, Pre-Code Hollywood, New York, Columbia University Press, 1999.
Sui rapporti tra Busby Berkeley e Hollywood si veda Th. Schatz, The Genius of the System, New York, The Pantheon Books, 1988, ed E. Mordden, The Hollywood Studios. House Style in the Golden Age of the Movies, New York, Simon & Schuster, 1989. 35
36 Sul punto di vista impossibile dei musical di Berkeley si veda anche M. Rubin, Busby Berkeley and the Backstage Musical, in S. Cohan (a cura di), Hollywood Musicals, The Film Reader, London-New York, Routledge, 2002. Sullo stile dell’autore rinvio a F. La Polla, Busby Berkeley: lo spazio come fantasmagoria, in Id., Stili americani, Bologna, Bononia University Press, 2003. 37 Per un’interessante analisi della funzione del collettivo nei musical Warner si veda M. Roth, Some Warner Musicals and the Spirit of the New Deal, in R. Altman (a cura di), Genre: The Musical, London, Routledge & Kegan Paul, 1981, pp. 41-56.
3. ORDINE, PAROLA, RAZIONALITÀ: L’APOGEO DEL MODELLO CLASSICO
VERSO DESIDERI NORMATIVI E SOBRIETÀ VISIVE
Il modo di rappresentazione classico si afferma verso la metà degli anni trenta imponendosi come modello dominante sino alla fine del decennio. È solo per questo limitato periodo che, a nostro avviso, si può parlare di cinema classico. Tale proposta si comprende se il termine classico viene declinato non tanto in senso produttivo, quanto piuttosto secondo parametri estetico-rappresentativi e comunicativi. Da un lato, la classicità va intesa come una modalità narrativa i cui canoni sono in sintonia con la poetica aristotelica: il racconto è basato sulla «favola, cioè un ben ordinato intreccio di fatti» in cui peripezie e riconoscimenti hanno un ruolo fondamentale. Nella tragedia la favola, l’azione, determina i caratteri, incarnati da personaggi, e non il contrario. Di qui il dominio dell’azione sul personaggio. In secondo luogo, il racconto classico ha una forma organica, nel senso che la favola «costituisce un tutto compiuto; e le parti che la compongono devono essere coordinate per modo che, spostandone o sopprimendone una, ne resti come dislogato e rotto tutto l’insieme»1. Pochi superficiali accenni sono sufficienti per chiarire il debito del racconto classico cinematografico nei confronti del testo aristotelico. Del resto, sin dagli anni dieci i manuali di sceneggiatura americani prescrivevano che l’intreccio fosse costruito secondo le regole della Poetica. Anche il discorso critico e interpretativo ha spesso analizzato il cinema classico in questa prospettiva. Senza dubbio le proposte di Bazin e di Bordwell, per quanto diverse, hanno almeno un importante elemento in comune: la loro definizione di classicità è in fondo una riattualizzazione, forse anche una semplificazione, del modello aristotelico. Bordwell dichiara subito il suo debito nei confronti del critico francese, sottolineando, proprio all’inizio del suo studio sullo stile classico, come la nozione di classicità avanzata da Bazin sia vicina al modo in cui Hollywood stessa intendeva il proprio cinema: i principi di «decoro, proporzione, armonia formale, rispetto per la tradizione, la mimesi, la cancellazione della produzione materiale, e il controllo preciso della reazione dello spettatore – sono canoni che i critici di ogni linguaggio chiamano solitamente “classici”»2. Per Bazin, a differenza dei «giovani turchi», la grandezza di Hollywood, «ciò che fa la superiorità mondiale di Hollywood è sicuramente il valore di alcuni uomini, ma anche la vitalità, e, in una certa misura, l’eccellenza di una tradizione. La superiorità di Hollywood è solo secondariamente di ordine tecnico, essa risiede molto di più in ciò che in poche parole potrebbe essere chiamato “il genio cinematografico americano” che bisognerebbe analizzare e definire secondo una sociologia della produzione». Così, ogni regista che «si trova imbarcato su questa potente flotta», va valutato «tenendo conto della corrente, e non come se navigasse a suo piacimento su di un lago tranquillo»3. Il cinema americano, in ultima analisi, è un’arte classica, e ciò che è più ammirevole è il sistema che lo regge più che le singole autorialità. In L’evoluzione del linguaggio cinematografico, Bazin sostiene che il cinema americano (e francese) tra il 1930 e il 1940 è «un’arte pervenuta visibilmente all’equilibrio e alla maturità» e che nel 1938-1939, in particolare, il cinema raggiunge «una sorta di perfezione classica fondata da un lato sulla maturità dei generi drammatici elaborati da un decennio o ereditati dal cinema muto, dall’altro sulla stabilizzazione dei progressi tecnici». Un tratto fondamentale della classicità è la standardizzazione delle pratiche di montaggio nella costruzione della scena, con l’affermazione del découpage analitico. Bazin coglie con grande chiarezza i tratti e gli effetti distintivi di tale pratica, che ritrova nella «verosimiglianza dello spazio», ovvero
nella conoscenza da parte dello spettatore della posizione del personaggio, anche quando si abbia un primo piano, e negli intenti «esclusivamente drammatici e psicologici» del montaggio stesso4. Le successive formulazioni di Bordwell sulla costruzione dello spazio classico e sull’articolazione degli indici stilistici appaiono senza dubbio come un ampliamento e un arricchimento delle suggestioni baziniane, anche se non sono riducibili meramente a questo. Mentre una più articolata analisi del rapporto fra le teorie di Bazin e di Bordwell non può essere compiuta in questa sede, va almeno segnalata un’importante e fondamentale differenza tra le due proposte. Per Bazin la classicità viene messa in discussione dopo il 19 0 attraverso, in particolare, l’uso della profondità di campo e del piano-sequenza, mentre per Bordwell queste stesse innovazioni, come in seguito il technicolor, i formati panoramici e il suono stereofonico, non inficiano la forma classica, ma anzi la rendono più forte. Lo stile classico assegna a ogni nuova tecnica una «funzione già canonizzata»; al massimo l’innovazione può «estendere ed arricchire il paradigma classico»5. Nel definire la classicità come modo di rappresentazione, è per noi cruciale un elemento di cui non v’è traccia, né in Bazin né in Bordwell, e che troviamo invece nei metodi di analisi del testo che si sono formati con l’incontro tra semiotica e psicoanalisi: ovvero la questione del senso del film, e di come esso venga articolato, per il soggetto guardante, per lo spettatore. Il dispositivo narrativo e i codici o indici stilistici che lo rendono possibile non ci interessano in modo astratto, ma solo perché essi costruiscono dei percorsi di senso, non infiniti, ma nemmeno univoci, verificabili dall’analisi attraverso particolari strumenti. Tali percorsi si iscrivono nell’orizzonte del desiderio (Bellour, Mulvey): dunque il film classico è un modo di narrare e rappresentare il mondo in cui il soggetto guardante mette alla prova il suo desiderio, il suo io nel tentativo di conoscere e realizzare se stesso attraverso e in rapporto all’altro. In questo ambito il soggetto non è coinvolto in meccanismi vuoti o astratti, di mera cognizione – come vorrebbe Bordwell, per esempio – ma attraverso il film incontra desideri e forme dell’identità storicamente possibili6. Il senso del film potrà dunque essere colto solo dall’analisi combinata di stile, racconto e immaginario in relazione a particolari dinamiche della storia materiale e culturale. Da ultimo, il soggetto spettatoriale non è neutro, ma è un soggetto di gender e come tale viene coinvolto e si fa coinvolgere dal film in modi diversi. Sia la nozione di soggetto che quella di testo e narrazione implicano dunque dei processi, non delle strutture fisse. Scrive Teresa De Lauretis: la soggettività «si costituisce proprio nella relazione tra narrazione, senso e desiderio; cosicché l’opera stessa della narratività consiste nel coinvolgere il soggetto in certe posizioni di senso e di desiderio»7. Nella seconda metà degli anni trenta il cinema americano mostra una forte inclinazione verso una forma della rappresentazione in cui convergono, da un lato modelli di soggettività e del desiderio più normativi, dall’altro modi espressivi in cui si riduce sempre più la presenza di elementi anti-narrativi e spettacolari in favore di una narrazione forte fondata sul dominio dell’azione e della parola. La mutazione rispetto al cinema dei primi anni del decennio è importante perché sancisce a livello di forma una rinnovata fiducia nell’ordine e nella razionalità, e nella possibilità di spiegare in modo oggettivo ogni comportamento e azione umana. In questo senso va inteso il ruolo primario assunto dal dialogo rispetto alla dimensione visiva, e al tempo stesso la leggibilità dell’immagine in termini verbali. L’organicità del testo classico risiede nella funzionalità di ciascuna parte rispetto al tutto, ma anche nella comprensione dell’agire individuale rispetto a norme sociali. Il soggetto del cinema classico non ha ancora vissuto la scissione freudiana e dunque il suo statuto di pienezza o mancanza, e la qualità del suo desiderio, non sono legati all’esperienza psichica individuale, ma sono spiegabili in termini razionali. In secondo luogo, la trasgressione perde il fascino che esercitava solo qualche anno prima, soprattutto per la New Woman, e il soggetto si preoccupa di trovare il «giusto posto» nell’ambito di un ordine sociale che appare stabile come non mai. In questo rinnovato scenario, la mobilità e l’ascesa sociale, le storie di emancipazione continuano a occupare gli schermi, ma hanno più spesso un esito negativo che positivo. Forse nessuna attrice come Barbara Stanwick ha incarnato così efficacemente il ruolo della ragazza povera, che ambisce al glamour e alla
ricchezza tramite il lavoro o il matrimonio con un uomo di alto rango, ma che alla fine deve rinunciare ai propri sogni. La forza dell’amore e Amore sublime, interessante «film medio» il primo, famoso melodramma il secondo, rappresentano rispettivamente esempi dei due casi. Le storie di ascesa sociale falliscono o lasciano il posto alla formazione e alle dinamiche della coppia, che diventa il modello di riferimento primario. Com’è noto, è la commedia a farsi carico di questa importante funzione. La commedia, soprattutto nella sua versione screwball, è il genere classico per eccellenza, proprio per la sua capacità di fondere una messa in scena perfettamente invisibile e un intreccio interessato alla formazione e all’inserimento della coppia in un ordine già costituito. Se questo modello di ordine sociale non viene mai meno, va comunque sottolineato che alcuni film, per esempio le più famose opere della seconda metà del decennio, recuperano almeno parzialmente una possibilità di autodeterminazione per il soggetto femminile, o comunque una sostanziale parità tra i sessi. Non è però irrilevante che il setting sia sempre quello aristocratico o alto-borghese e che i protagonisti vivano di rendita. La forza della donna screwball è dunque anche imputabile alla sua classe, oltre che alla sua femminilità, e tale dinamica conferma che la rappresentazione dominante offerta negli anni trenta lega identità di genere a identità di classe: così alla gioiosa e folle determinazione di una Katharine Hepburn che riesce spesso a ottenere quello che vuole, si oppone l’ambizione sempre frustrata di Stanwick, che a volte vorrebbe solo poter comprare qualche bel vestito. Il rapporto tra ordine formale e normatività soggettiva verrà indagato tramite l’analisi di due delle più famose commedie del decennio, It Happened One Night (Accadde una notte, 1934) di Frank Capra e Bringing Up Baby (Susanna, 1938) di Howard Hawks. Il film di Capra mostra come, dietro alla freschezza e all’esuberanza da flapper di Claudette Colbert, si nasconda in realtà un desiderio forte per il matrimonio in cui la donna resta comunque subalterna all’uomo. D’altro lato, il personaggio di Clark Gable è l’immagine ideale di «sana mascolinità» che si diffonde negli anni venti e si consolida con il New Deal. Il film di Hawks, come altre screwball del periodo, tra cui The Awful Truth (L’orribile verità, L. Mccarey, 1937), Holiday (Incantesimo, G. Cukor, 1938), The Philadelphia Story (Scandalo a Filadelfia, G. Cukor, 1940), My Favorite Wife (Le mie due mogli, G. Kanin, 1940), His Girl Friday (La signora del venerdì, H. Hawks, 1940), presenta invece una diversa opzione del rapporto tra maschile e femminile. Articolata attorno a una sostanziale parità tra i sessi, la screwball comedy offre una versione altolocata dell’idea di «matrimonio cameratesco», una delle tante facce delle moderne pratiche amorose emerse nei primi anni del Novecento, in cui l’uomo ambiva a una donna «he could sleep with and talk with too»8. Se un matrimonio alla pari è l’esito cui tendono le spensierate sortite delle sofisticate eroine, in altri generi l’indipendenza della donna tende a essere condannata: nel cinema degli anni trenta la donna forte è spesso anche cattiva, così può essere giustamente punita. Bette Davis è il prototipo della «Hollywood Bitch», e in molti film la sua cattiveria verso l’uomo più debole si ritorce contro di lei: basta pensare a Of Human Bondage (Schiavo d’amore, J. Cromwell, 1934), Jezebel (Figlia del vento, W. Wyler, 1938), The Little Foxes (Le piccole volpi, W. Wyler, 1941)9. Ma un film ancora più rivelatorio delle dinamiche che stiamo descrivendo è Dark Victory (Tramonto, E. Goulding, 1939), in cui Davis è una ricca e viziata, ma simpatica e indipendente, ragazza dell’aristocrazia, che pensa a tutto fuorché al matrimonio. Abituata a trascorrere le giornate tra gare a cavallo e party, scopre di avere una malattia inguaribile che le lascia poco tempo da vivere: così comincia a riflettere sui «veri valori» della vita. Innamoratasi, ricambiata, del medico che l’ha in cura, accetta di sposarlo anche nella consapevolezza della brevità del rapporto. Con l’uomo abbandona la città, luogo dei suoi sofisticati divertimenti, e si trasferisce nella campagna del Vermont, dove impara a diventare una buona moglie, ad accudire il marito che lavora tutto il giorno alle sue ricerche di laboratorio e a vivere una vita semplice. La morte giunge solo quando la protagonista si è riabilitata: è difficile non vedere la malattia come una punizione per l’eccessiva autonomia della giovane. Anche i film di Dorothy Arzner affrontano la questione dell’indipendenza femminile. In Christopher Strong (La falena d’argento, 1933) Hepburn è un’aviatrice di
successo che ha una relazione con un uomo sposato. In attesa di un figlio dall’uomo, si suicida lasciando precipitare il proprio aereo. In Craig’s Wife (La moglie di Craig, 1936) la protagonista sceglie invece un buon matrimonio per paura di finire in povertà come la madre, ma sviluppa un attaccamento ossessivo alla casa estraniandosi totalmente dagli affetti più cari. Nei film di Arzner la donna autonoma o che non si piega alle convenzioni, nella migliore delle ipotesi rimane sola, nella peggiore muore in giovane età. Nel cinema classico il matrimonio diventa l’unica forma in grado di dare un’identità stabile al soggetto: per la donna questo significa spesso dover rinunciare all’attività lavorativa remunerata e tornare fra la mura domestiche. Se nel cinema dei primi anni trenta dominavano figure e modelli emersi durante i Roaring ’20s, con l’avanzare del decennio tali modelli diventano minoritari, marginali e vengono invece sostituiti da immagini e stili di vita emersi o consolidatisi durante il New Deal. Evidentemente non si tratta di meccaniche e automatiche sostituzioni, quanto piuttosto dell’intrecciarsi di una molteplicità di figure, in cui immagini almeno in parte innovative convivono con modelli residuali. In ogni caso, la nuova tendenza è innegabile. Se analizziamo la struttura del box-office, molti dati contribuiscono all’immagine di un periodo in cui ordine, normalità e mascolinità tornano in auge. Abbiamo già sottolineato l’inversione di gender nel sistema divistico, con il dominio, nella seconda metà del decennio, di divi maschili. Ma altri elementi mostrano l’appeal di interessi più tradizionali: la carriera trionfale della star bambina Shirley Temple, in testa al boxoffice per ben quattro anni di seguito, dal 1935 al 1938, e il successo del divo adolescente Mickey Rooney, primo negli incassi nei tre anni successivi, senza dimenticare la presenza della giovane Sonja Henie, olimpionica norvegese di pattinaggio e protagonista di film di ambientazione sportiva, sono dati assai significativi nel rappresentare l’interesse del pubblico per la famiglia e i suoi valori. Negli stessi anni il virile Clark Gable resta saldamente ancorato ai primissimi posti, quasi sempre secondo dietro Temple, il film d’avventura e in costume è tra i generi più amati dal pubblico, mentre i film biografici e quelli d’avventura sono tra i più premiati agli Oscar10. Il duo Astaire/Rogers è la coppia più in voga a metà anni trenta: basta un confronto superficiale tra i musical da loro interpretati e i film di Busby Berkeley per notare come la pirotecnia, l’eccesso visivo e l’erotizzazione del corpo femminile abbiano lasciato il posto a uno stile di ripresa sobrio e uniforme, in cui anche la performance viene messa in scena attraverso una rappresentazione classica dello spazio e in cui la sessualità, come nella commedia, viene relegata al piano verbale11. «ACCADDE UNA NOTTE»: LA «FLAPPER» SI SPOSA
Accadde una notte è un film dall’indiscusso successo critico e di pubblico. Premiato con cinque Oscar, è stato considerato nella sua esemplarità come testo autoriale, ma anche come caso paradigmatico di studio style12. Eliminato ogni retaggio della visionarietà del muto e dell’attrazionalità di molto cinema di inizio decennio, il film di Capra è perfettamente classico nel modo di articolare intreccio, lavoro della mdp e montaggio. In questo frangente non ci interessa semplicemente ribadire la classicità formale del film, ma analizzarla in relazione al rapporto fra rappresentazione di genere e immaginario socio-mediale. Le strutture di base della scrittura classica si fondano su un’omogeneità tra logica narrativa e logica della messa in scena, basata sulla motivazione e sul rapporto di causa-effetto, nel senso che così come ogni azione è causata da quella che la precede ed è la causa di ciò che segue, anche i modi della ripresa e il concatenamento delle inquadrature seguono lo stesso principio. Evidentemente la motivazione è il mezzo e il supporto dell’invisible style, perché l’atto enunciativo, la mdp e il montaggio diventano invisibili in quanto subordinati alle necessità narrative. In secondo luogo, motivazione e causalità sono ancorate al personaggio: sono i suoi desideri e gli ostacoli che a questi si frappongono a costituire l’ossatura del racconto classico13.
Il desiderio forte del personaggio è un elemento cardine del film classico e costituisce un aspetto discriminante nei confronti del cinema degli anni quaranta, quando inizia l’inesorabile corrosione dell’unità del personaggio. Se l’individuo degli anni trenta è un soggetto pieno, senza inconscio, la cui azione traduce il desiderio in modo automatico, nei protagonisti del noir e del woman’s film lo scarto tra corpo e psiche è forte e produce un’impasse nella capacità di agire del soggetto. Il meccanismo rappresentativo del cinema classico, il suo statuto di dispositivo di rappresentazione del mondo, si basa sulla dialettica, ovvero sull’opposizione sistematica sia di elementi semantici che tecnico-formali. Il potere di seduzione del cinema classico, ma anche il suo impatto ideologico, si fonda sulla capacità del meccanismo narrativo di oscurare sia le operazioni sintattiche che quelle semantiche. L’analisi dettagliata delle strutture formali, la decostruzione dell’opera in testo (Barthes) dimostrano come la produzione del senso sia altamente codificata e come il senso sia connaturato all’intrattenimento. Il testo propriamente classico è più chiuso di quello di inizio anni trenta, nel senso che è in grado di risolvere formalmente in modo più convincente le dicotomie che solleva. Questa importante prerogativa contraddistingue il cinema della seconda metà degli anni trenta rispetto a quello precedente e successivo e dunque è plausibile dedurre che, proprio in virtù del funzionamento del modello formale, il cinema di questi anni si pone come fondamentale produttore di modelli identitari. Se è vero che il cinema hollywoodiano è fondato su un «sistema dei generi», su una pluralità di generi che contemporaneamente invadono gli schermi, è anche vero che tale sistema ha connotazioni diverse nelle varie epoche e che i «generi dell’integrazione» dominano in questi anni14. La dualità ha un ruolo assolutamente centrale nella forma classica, tanto che qualsiasi interpretazione dei suoi meccanismi testuali e spettatoriali non può prescindere da un’analisi strutturalista. La dualità informa il testo classico in tutti i suoi livelli, ma nella commedia il sistema di differenze converge in modo sistematico sull’opposizione maschile/ femminile. Tale meccanismo viene attivato attraverso una peculiare regolamentazione dei primi due movimenti del film. All’inizio di Accadde una notte viene prima introdotto il personaggio femminile, poi quello maschile. In secondo luogo, la presentazione mostra gli opposti stili di vita dei due. Nella prima scena Ellie Andrews, giovane e ricca ereditiera, è nel lussuoso yatch del padre. Ellie sta litigando col genitore, contrario al suo matrimonio [10]. Nel secondo episodio viene introdotto il protagonista maschile, Peter Warne, giornalista appena licenziato, mentre ubriaco litiga al telefono con il suo boss. La presentazione dei due personaggi principali evidenzia in primo luogo i diversi stili di vita e status sociali: Ellie è ricca e viziata, Peter è squattrinato e sin troppo sbruffone, ma con principi morali saldi. La dicotomia divertimento/lavoro, elemento cardine del campo semantico del genere, modella subito l’identità sociale dei due. Ma l’inizio stabilisce anche un’omologia tra Ellie e Peter, mostrati nel comune atto di ribellarsi alla figura paterna. All’opposizione sociale si unisce così un parallelismo generazionale che prepara o anticipa una possibile unione. Ma affinché questo avvenga i due devono cambiare, attenuando così le forti differenze iniziali. Ed è soprattutto il personaggio femminile che si trasforma. Ellie è una giovane energica e volitiva che si ribella al padre, contrario al suo matrimonio. Ma è anche viziata e inconsapevole di ciò che la circonda. Il viaggio da Miami a New York costituisce la sua Bildung, il suo apprendistato alla vita adulta e alla realtà di povertà e miseria della Middle America. Capra riesce qui a operare, in modo assai efficace, su un doppio livello, narrativo e ideologico, e a motivare l’evoluzione del personaggio iniettando al contempo una buona dose di populismo. È celebre, in particolare, la sequenza in cui Ellie va a fare la doccia nel motel in cui ha pernottato. Il lungo carrello che segue la ragazza mentre si avvicina alla fila di donne in attesa inquadra uno squarcio della Depression-era veramente memorabile. La firma di Capra sta proprio nella capacità di fondere l’intreccio screwball, gli scontri verbali e la comicità fisica tra uomo e donna, con la rappresentazione «realistica» delle classi subalterne. I numerosi carrelli all’interno del bus sono spiegabili in questo senso: nel seguire i movimenti dei protagonisti il regista riprende al contempo i visi e i corpi della povertà.
La traiettoria narrativa è centrata sull’evoluzione del rapporto della coppia, ovvero dall’iniziale reciproco disprezzo al finale riconoscimento del comune innamoramento. Sin dalla sequenza della lite con il padre la messa in scena mostra una raggiunta simbiosi fra le regole della continuità classica e l’uso del dialogo: il ritmo dei piani è veloce, come i battibecchi tra padre e figlia, e la precisione dei raccordi assicura l’invisible style. I momenti attrazionali e di spettacolarità visiva sono assenti e il film si segnala per la perfetta funzionalità narrativa di ogni scelta di messa in scena. Il racconto può dunque dipanarsi secondo i principi della causalità e della motivazione: la traiettoria narrativa sviluppa il desiderio di Ellie di andare a New York per sposare Westley, e al tempo stesso il tentativo di Peter di sfruttare il fortuito incontro per riavere il lavoro perso. L’uomo aiuta la donna per non perderla di vista, ma si innamora di lei ricambiato. Come in altri importanti film del periodo il viaggio è la forma esemplare in cui viene tradotta l’idea di base del racconto classico. L’idea che il racconto classico sia una traiettoria, uno spostamento, diviene un elemento narrativo: l’eroe e l’eroina compiono un viaggio sia letterale che metaforico, uno spostamento da un luogo di partenza (Miami) a uno di arrivo (New York), un viaggio a tappe in cui i personaggi gradualmente evolvono. La risoluzione finale viene costruita sin dall’inizio tramite strategie squisitamente classiche: il film anticipa il finale stabilendo un’unione formale tra i protagonisti che contraddice la separazione diegetica. Ellie e Peter entrano in scena separatamente, ma nel comune atto di ribellarsi contro l’autorità (il capo di Peter ha evidenti funzioni paterne). Inoltre, benché all’inizio non si sopportino nemmeno, la regia li unisce ancora prima che si incontrino: dopo avere inquadrato Ellie con il suo biglietto per New York, la mdp si sposta con un movimento combinato di carrello e panoramica lasciando la donna fuoricampo e andando a inquadrare Peter, che sta parlando da una cabina telefonica. Se i due sono inconsapevoli dell’esistenza l’uno dell’altra, la regia li unisce nella stessa inquadratura, incrociando formalmente i loro destini, prima che il racconto lo faccia effettivamente. L’espediente in questo senso più significativo è quello «delle mura di gerico»: la coperta appesa per separare i due nella stessa stanza da letto – a proteggere la verginità di Ellie – mostra in realtà quanto labile e fittizia sia la loro separazione.
10. Accadde una notte (F. Capra, 1934).
11. Accadde una notte (F. Capra, 1934).
12. Accadde una notte (F. Capra, 1934).
Diversamente dalle commedie sofisticate di Hawks, Cukor e Mccarey, il film di Capra sostiene una visione della sessualità e del rapporto maschile/femminile piuttosto tradizionale, in sintonia con il ritorno all’ordine che caratterizza il New Deal15.
L’interpretazione più frequente vede l’opera di Capra etichettata come «cinema utopico»: l’analisi del film nel contesto delle immagini identitarie che caratterizza il periodo mostra invece un ancoraggio forte al panorama socio-mediale dell’epoca, molto più delle screwball comedies successive. Non mi riferisco solo alla rappresentazione della realtà di miseria della depressione, su cui si è ampiamente scritto, quanto piuttosto alle figure della mascolinità e della femminilità, che non sono per nulla utopiche, ma rinviano all’immaginario e all’iconografia del tempo, in particolare al suo lato più conservatore. In uno studio di grande interesse e utilità, Christina Simmons ha analizzato le nuove teorie sulla sessualità emerse negli anni venti e trenta negli Stati Uniti, e soffermandosi sul lavoro svolto in quegli anni da sociologi, psicologi, ma anche letterati e giornalisti, è giunta a definire una tipologia di figure maschili e femminili presenti nell’immaginario dell’epoca, in uno spettro che va da modi di essere tradizionali a identità innovative e moderne. Simmons sottolinea che le indubbie conquiste delle donne, culminate con l’ottenimento del diritto di voto nel 1920, si attenuano con il passare del tempo, tanto che negli anni trenta si assiste a una regressione della condizione femminile, a una nuova forma di subordinazione. A questo stato di cose contribuiscono anche, come mostra Blanche Wiesen Cook, le politiche economiche e sociali rooseveltiane, che furono pesantemente sfavorevoli alle donne. Basti pensare che uno dei primi provvedimenti del nuovo corso legiferò sul licenziamento di tutte le donne sposate che, come il marito, lavoravano per l’amministrazione statale. Nonostante l’impegno indefesso della First Lady, in questi anni fu quasi inesistente l’aiuto per l’occupazione femminile16. Secondo Simmons sono quattro le figure di femminilità più diffuse nel periodo. Il nuovo valore dato all’espressività sessuale porta a rigettare l’immagine della moglie virtuosa e pura, fuoco della morale vittoriana. Ma anche la matriarca pudica che «disciplinava con durezza i figli e dominava il marito» appariva come un retaggio di un’epoca ormai superata, soprattutto perché ignorava i bisogni della sessualità maschile17. La donna in carriera, la femminista era invece poco amata per ragioni opposte: nel pensare a se stessa mostrava poco interesse per l’uomo, spaventato dalla sua eccessiva indipendenza. Di frequente la donna in carriera veniva dipinta come «ostile alla sessualità ma segretamente frustrata e disperata di ricevere l’attenzione maschile. Altri invece suggerivano che potesse essere lesbica»18. È l’immagine della flapper che cattura l’interesse e diviene la figura positiva di donna negli anni venti, poiché «incarnava sia l’immagine popolare della donna libera, ma riteneva anche un elemento di dolcezza che non spaventava l’uomo». La flapper era una combinazione ideale di elementi diversi che riuscivano a soddisfare il desiderio maschile: da un lato era attiva e perspicace, frequentava il mondo maschile e rifuggiva dall’ambiente domestico, dall’altro però «le interessavano più gli uomini e i bambini che il suo lavoro remunerato o il suo sviluppo individuale attraverso una carriera lavorativa». Alla flapper interessava l’indipendenza, ma non voleva una carriera che le facesse rinunciare al matrimonio o alla famiglia. Al tempo stesso era interessata al sesso, che vedeva come un elemento normale della vita, ma il suo comportamento non era libertino: la flapper era, tutto sommato, una ragazza romantica che desiderava essere protetta dall’uomo scelto. Figura femminile ideale, era la compagna altrettanto ideale del «maschio sano», l’immagine di mascolinità positiva che emerge nel periodo. In una rinnovata attenzione per la sessualità femminile, l’uomo doveva essere rieducato affinché potesse comprendere i bisogni della compagna. Così la prima immagine da ripudiare era quella del «bruto violento». Con la stessa certezza andava rifiutata anche l’immagine opposta, quella dell’uomo debole che non riusciva a soddisfare sessualmente la donna e che, come la donna troppo indipendente, veniva bollato di omosessualità. Così la figura ideale diveniva quella dell’healthy animal, un uomo capace di relazionarsi alla donna, senza temere la sua sessualità. Sensibile e al tempo stesso deciso, il maschio sano assumeva la funzione guida nel matrimonio: a lui la flapper cedeva volentieri il comando19.
Anche in virtù di altre interpretazioni, per esempio il ruolo da protagonista in Cleopatra (C.B. De Mille, 1934), film uscito lo stesso anno, Claudette Colbert è una flapper ideale. Ellie ha tutta la verve di questa figura quasi mitica, definita da Fitzgerald «lovely, and expensive, and about nineteen»20. Ha una volontà di ferro e un forte desiderio di indipendenza, ha un corpo atletico ma all’occasione può essere sexy. Ellie fugge dallo yatch del padre tuffandosi con grande destrezza in mare, un po’ come le eroine dei serial-queen melodramas degli anni dieci [11]. Successivamente, quando ha bisogno di un passaggio, avendo ormai perso l’autobus ed essendo senza soldi, non esita ad alzare la gonna e mostrare le gambe sexy, sicura, come in effetti accade, che qualcuno si fermerà a raccoglierla. Nonostante la sua autonomia, Ellie però non sa muoversi negli ambienti popolari e ha bisogno dell’aiuto di Peter, che invece si trova a suo agio nei luoghi dei forgotten men. L’uomo può dunque esercitare tutta la sua sbruffoneria e mostrare la sua supposta superiorità anche nei momenti più quotidiani, come quando a colazione insegna a Ellie a mangiare correttamente. La giovane ha un’autonomia tutto sommato limitata, e non mette mai in discussione la leadership maschile nella conduzione della coppia. È una ragazza romantica, come si vede nella scena in esterni sotto il riflesso della luna, desidera essere protetta da un uomo forte e, nonostante tutto, non pensa che al matrimonio. Gable è d’altro canto uno dei divi che meglio incarnano la figura dell’healthy animal, avendo attenuato l’aggressività sessuale da bruto che caratterizzava i suoi primi film21 [12]. In Accadde una notte la subordinazione del femminile è in realtà assai più ampia e profonda che non il rapporto New Woman/New Man, in quanto riabilita non solo il matrimonio, ma anche la famiglia e il rapporto padri/figli22. Diversamente da molte commedie sofisticate, in cui le figure parentali sono assenti o mai decisive negli snodi più importanti, nel film di Capra la figura paterna è fondamentale. La struttura narrativa e i rapporti intersoggettivi ribaltano l’iniziale conflitto tra figlia e padre e anzi, non solo il padre si trasforma da tiranno opprimente a patriarca benevolo23, ma si allea con Peter nell’attuazione letterale di quel processo simbolico in cui, per conservare l’ordine sociale, gli uomini si scambiano le donne. Quando, alla fine del film, il matrimonio tra Ellie e Westley sembra inevitabile, Peter riesce a farsi ricevere dal signor Andrews e a confessargli di essere innamorato della figlia. Il genitore, che pur di riavere la ragazza aveva accettato il matrimonio con Westley, ha in realtà capito che la giovane è innamorata di un altro. Così, quando gli invitati sono ormai giunti e la cerimonia sta per iniziare, il padre invita la figlia a raggiungere Peter passando dalla porta di servizio. Inizialmente ostacolo al desiderio di Ellie, il padre diventa colui che ne rende possibile la felicità. Ecco dunque che, come nelle società primitive analizzate da Lévi-Strauss, la donna è il tramite della comunicazione tra uomini e il segno che assicura e sostiene l’ordine simbolico della società. La conversazione fra il padre e Peter, all’insaputa della donna, ha le sembianze di un patto tramite cui, di generazione in generazione, gli uomini assicurano la continuità della famiglia e dell’ordine sociale. Nel celebrare i valori di fondo della tradizione americana, il film mette in scena, necessariamente, anche la subordinazione del femminile al maschile. «SCREWBALL COMEDY» E SCRITTURA CLASSICA: «SUSANNA»
La screwball comedy costituisce a nostro avviso il modello di riferimento della classicità, in quanto gli ideali di normalità e razionalità regolano sia le strutture della messa in scena che dell’immaginario. Il perfetto equilibrio tra progetto ideologico e formale spiegherebbe anche l’impermeabilità del genere a cambiamenti stilistici. Un film come The Bachelor and the Bobby Soxer (L’intraprendente signor Dick, I. Reis, 1947), uscito in piena epoca noir, ha ancora uno stile perfettamente trasparente e non mostra alcuno scarto rispetto alle opere di dieci anni prima. La commedia sofisticata, priva di elementi consolatori o sentimentali, è l’espressione di una riflessione profonda e matura sul rapporto tra io e mondo. Narra di un uomo e di una donna adulti, attratti reciprocamente l’uno dall’altra, che decidono di unirsi in matrimonio non per formare una famiglia, ma per soddisfare i loro impulsi sessuali, riconoscendo all’istituzione del
matrimonio il ruolo fondamentale di contenimento e soddisfacimento al tempo stesso della pulsione erotica. In alcuni casi, per esempio in Le mie due mogli, la coppia formata da Cary Grant e Irene Dunne, sceglie il (ri)matrimonio per mascherare l’evidenza che ai due non dispiacerebbe affatto continuare il rapporto triangolare con Randolph Scott, personaggio con cui Dunne ha trascorso alcuni anni da naufraga in un’isola e per il quale Grant prova un’immediata attrazione. In L’orribile verità, la protagonista ha rapporti con tre uomini diversi e la sua promiscuità, fonte di gioia ilare, non può che essere controllata dal matrimonio. La commedia, in altre parole, risolve razionalmente il problema del desiderio e della sessualità, sostenendo la necessità dell’istituzione matrimoniale nel mantenimento dell’ordine sociale. Tale soluzione sottintende una nozione di soggettività pre-freudiana, non marcata dalla mancanza, ma dalla pienezza, dall’idea che il desiderio possa essere soddisfatto. La commedia si basa anche su una nozione del rapporto maschile/femminile in cui è assente il conflitto e vige, unico tra i generi, una sostanziale uguaglianza tra i sessi. Secondo Robert Sklar, questo tratto farebbe del genere l’esempio paradigmatico della componente «fantastica» del cinema del periodo. In realtà essa sembra rinviare al modello del «matrimonio cameratesco», in cui non solo l’uomo e la donna dovevano «essere amici e anche amanti prima di imbarcarsi in un affare serio come il matrimonio»24, ma in cui il sesso diventava l’elemento centrale: nel matrimonio cameratesco «l’adattamento e la soddisfazione sessuale di entrambi i partner erano le misure principali dell’armonia coniugale e anche i mezzi che contribuivano all’ordine sociale»25. Pertanto, la commedia sofisticata della seconda metà degli anni trenta presenta il modello più avanzato e moderno del rapporto di coppia, mentre tutti gli altri generi sono ancorati a forme di intersoggettività in cui la donna è marginale o subordinata. Resta il fatto che solo le classi più abbienti possono accedere all’opzione screwball. L’orribile verità, Susanna, Incantesimo, Scandalo a Filadelfia, La signora del venerdì, ma anche Sylvia Scarlett (Il diavolo è femmina, G. Cukor, 1935) e The Women (Donne, G. Cukor, 1939) negoziano in modo del tutto particolare il rapporto tra ordine e trasgressione, legge e desiderio, maschile e femminile, riuscendo a trovare un equilibrio tra istanze spesso antitetiche. In molti casi la traiettoria narrativa delinea il passaggio da un triangolo amoroso a un rapporto di coppia oppure il passaggio da un partner iniziale a un partner ideale. L’inizio del film vede solitamente uno dei protagonisti in procinto di sposarsi con un partner improbabile, mentre l’improvvisa e proverbiale entrata in scena del secondo protagonista serve a dimostrare l’inadeguatezza del partner iniziale. L’intreccio screwball potrebbe dunque essere descritto come quel racconto che narra della formazione di una coppia attraverso la sostituzione di un partner iniziale con uno ideale. Per riassumere, la commedia sofisticata è un modello paradigmatico di classicità in quanto il desiderio del soggetto e la traiettoria narrativa si muovono in modo necessario, motivato e razionale verso la costituzione della coppia all’interno dell’istituzione matrimoniale. Ordine sociale e ordine formale costituiscono i due poli attorno ai quali convergono sia il progetto della messa in scena che quello ideologico. In quest’ambito il desiderio del personaggio viene espresso dalla fusione di dialogo e azione che insieme concorrono all’avanzamento del racconto sino alla risoluzione conclusiva. La struttura binaria del film mostra un rapporto conflittuale tra l’istanza maschile e femminile, ma tale dualità è pretestuosa e viene risolta quando i due comprendono che il rapporto d’amore e d’amicizia che li lega è la soluzione esistenziale ideale, che rende possibile la loro felicità all’interno dell’ambiente domestico. L’inadeguatezza della situazione di partenza viene mostrata connotando i partner iniziali in modo opposto a quelli ideali. Per esempio, il personaggio di Ralph Bellamy in L’orribile verità e La signora del venerdì non può in alcun modo competere con Cary Grant, ed è poco credibile che Irene Dunne e Rosalind Russell lo vogliano sposare. Poco attraente fisicamente, mammone e amante della quiete della campagna, nulla può contro lo charme sofisticato e l’urbanità energica di Cary Grant. Così come in Susanna, Alice, la repressiva e morigerata fidanzata che Grant dovrebbe sposare, è talmente inadeguata rispetto al personaggio di Katharine Hepburn, da non avere alcuna chance.
È proprio sull’opposizione tra i due modelli di femminilità, che rinviano alla dicotomia fra True Womanhood e New Womanhood, che si gioca il discorso del film di Hawks. La dualità viene istituita con i primi due movimenti del film ed espressa sia a livello narrativo che visivo. La prima sequenza di Susanna ci mostra il protagonista, il paleontologo David Huxley/Cary Grant, nell’intento di completare la ricostruzione di un gigantesco brontosauro. In compagnia di un collaboratore e di Alice Swallow, l’assistente che sta per sposare, Huxley appare subito uno scienziato con la testa fra le nuvole – come lo stesso Grant sarà nell’ultima screwball di Hawks, Monkey Business (Il magnifico scherzo, 1953) – totalmente assorbito dalla sua attività e, come un bambino con i propri giocattoli, noncurante di ciò che lo circonda. Miss Swallow, d’altro canto, ha il ruolo di guida e organizza razionalmente la giornata di David. La donna, in virtù di un look ben codificato – tailleur sobrio, occhiali e capelli raccolti in uno chignon –, è una figura sia asessuata che castratrice: nell’iniziale dialogo prospetta al futuro marito una vita di impegni professionali priva di svaghi, vacanze e bambini (ovvero, sesso). Nell’episodio successivo il protagonista è al campo da golf con Mr Peabody, un possibile benefattore del museo. Tra i due si inserisce Susan Vance/Katharine Hepburn, impegnata nella sua partita. L’incontro tra i due è fatale. In pochi attimi si susseguono alcuni misunderstandings memorabili: l’uomo lascia da solo un allibito Peabody e abbandona il campo da golf costretto, per non perdere la propria auto, ad aggrapparsi goffamente al veicolo di cui Susan si è inopinatamente impossessata. Il contrasto tra serietà e divertimento, tra lavoro intellettuale e fun, così tipico della commedia, viene evidenziato da una serie di antitesi per quanto riguarda gli ambienti, il ritmo e i personaggi femminili. All’ambiente chiuso e un po’ ammuffito del museo fa da contrasto l’apertura e la solarità, in un contesto di svago e libertà, del campo da golf all’aria aperta. Più in generale è l’opposizione fra staticità e movimento a meglio rappresentare l’opposizione tra le due donne e i due stili di vita che incarnano. Susan è l’antitesi di Alice, divertente e pazza al tempo stesso: anche in virtù del dispositivo del genere, Hepburn appare subito come la «compagna ideale» che andrà a sostituire quella iniziale. Se i due movimenti del film indicano i due possibili destini del protagonista, va rilevato che il discorso di gender viene costruito attorno al femminile: tale strategia risponde al funzionamento generale delle commedie hawksiane, in cui il soggetto maschile è subalterno a quello femminile [13-14]. Nella sua scarna essenzialità, la prima sequenza rispetta tutte le regole della scrittura classica, in particolare l’unità dello spazio e il posizionamento dei personaggi al suo interno. Nell’efficace formulazione di David Bordwell e Kristin Thompson, «lo stile mira a presentare uno spazio ben definito, coerente e stabile in cui la tecnica cinematografica viene impiegata per attirare l’attenzione sulle informazioni narrative salienti. In questo stile, l’illuminazione, i costumi e il posizionamento delle figure umane non cambiano in maniera sostanziale da un’inquadratura all’altra»26. L’incipit del film mostra inoltre come, dopo dieci anni dall’avvento del sonoro, il dialogo sia ormai perfettamente integrato nella logica narrativa classica e sia lo strumento principale per veicolare l’informazione narrativa27. Ma l’aspetto più importante è la rappresentazione dello spazio e, in secondo luogo, le modalità tramite cui l’interazione spazio-personaggio/i definisce l’identità dei soggetti del racconto, in particolare il rapporto maschile-femminile. La dimensione spaziale è la principale artefice, a nostro avviso, della costruzione del senso del film classico. Lo spazio non è solo unitario, organico e coerente, rispondendo a un’idea di ordine e razionalità (Bordwell), ma è anche, e soprattutto, uno spazio relazionale, che include o esclude i soggetti, li pone in rapporto di alterità l’un l’altro (Bellour): lo spazio, dunque, marca la differenza e il desiderio. Il dispositivo classico funziona attraverso una calibrata articolazione della continuità e dell’alternanza, come Raymond Bellour ha per primo evidenziato. Da un lato è la relazione tra elementi che produce il senso, dall’altro il testo classico, basato su una rete di opposizioni binarie non fisse, ma variabili, chiede di essere interpretato secondo un modello binario (flessibile). Nel primo episodio la relazione tra Alice e David si fa
progressivamente più impersonale e fredda: la messa in scena spinge il senso del film in direzione opposta alla diegesi che annuncia l’imminente matrimonio dei due. La generale staticità dell’episodio, la distanza della mdp, che non giunge mai al PP, la dicotomia parola/immagine concorrono a minare il rapporto intersoggettivo della coppia, a costruire un senso di distanza, separazione e incomprensione, cioè un senso altro rispetto a quanto presentato dalla situazione diegetica. La forma del film suggerisce, in altre parole, che il racconto è iniziato con una falsa pista: capiamo subito che quel matrimonio non si farà mai28. In questa prospettiva, la sequenza successiva rappresenta un movimento opposto, introduce una situazione e un’azione diegetica, un personaggio femminile, una rappresentazione dello spazio e un modello esistenziale diametralmente opposti rispetto all’incipit. La situazione ludica, siamo all’aria aperta, in un campo da golf, e il dinamismo generalizzato, del filmico e del profilmico, si sostituiscono al serioso grigiore e alla staticità del museo. Qui è il movimento che diventa protagonista: quando David comincia a rincorrere la pallina, entrata sfortunatamente in possesso di Susan impegnata in un’altra buca del percorso, i veloci spostamenti del personaggio sull’erba sono seguiti da lunghi carrelli. Anche il dialogo contribuisce al dinamismo, anzi lo raddoppia: i due parlano velocemente – pur senza raggiungere i frenetici accavallamenti dell’overlapping dialogue delle sequenze successive – mentre si muovono, così che una generalizzata sensazione di energia invade sia l’immagine che il sonoro. Per quanto riguarda il trattamento visivo, notiamo un protagonismo dell’interprete femminile che, a differenza di Alice, viene subito centrata a livello compositivo. Più in generale, non si notano differenze nelle modalità di ripresa del personaggio maschile e di quello femminile, ma si stabilisce una relazione paritaria tra i due: distanza e angolo di ripresa della mdp, posizionamento all’interno del piano, illuminazione sono simili. Vi è una sola differenza: è subito Susan a condurre l’azione, David non può che cercare di tenerle testa. Da questo momento Susan impedisce in tutti i modi che David si allontani da lei, coinvolgendolo nella sua assurda storia con il leopardo e portandolo nella villa della zia in Connecticut, impedendogli così di rientrare a New York per la cerimonia. David è fortemente riluttante a seguire la donna, anzi la vede come la fonte dei suoi guai e fa di tutto per allontanarla da sé. Tuttavia, la messa in scena suggerisce che l’unione dei due è inevitabile e che è destinata a formarsi secondo i parametri di Susan, ovvero sotto l’egida del divertimento e dell’irrazionale, del dinamismo e del desiderio. Che l’unione tra Susan e David sia inevitabile ci viene suggerito nella sequenza che conclude la loro prima serata. Si tratta di una scena breve, quasi banale, un dialogo in campo/controcampo dopo che David è sceso dall’automobile della donna. Una scena del tutto simile, per funzione, dinamiche narrative e stilistiche, a quella di Il grande sonno scelta da Bellour in una delle sue famose analisi29. La sequenza è composta da undici inquadrature e presenta una combinazione di codici altamente strutturata, in particolare per quanto riguarda la distanza della mdp, l’angolo di ripresa, l’illuminazione, la presenza/assenza schermica dei personaggi. Con la terza inquadratura inizia il campo/controcampo, la serie di alternanze/ripetizioni che rappresentano lo scheletro formale della scena classica. È tramite questo sistema che si costituisce la coppia eterosessuale, l’identità del maschile, del femminile e del loro rapporto. In altre parole il testo classico produce l’identità di gender tramite una rete di opposizioni binarie che, dunque, costruiscono la differenza di gender in termini duali. Tuttavia, il testo classico non si limita a stabilire una dicotomia, ma privilegia uno degli elementi a scapito dell’altro, avanzando, quindi, una proposta ideologica. Le inqq. 3-11 presentano in questo senso indicazioni assai interessanti: si tratta di un campo/controcampo classico in cui si alternano, dall’inizio alla fine, piani di Susan e di David. Un primo elemento discriminante è la presenza sullo schermo del personaggio: è il volto di Susan che fa da cornice all’intero segmento, poiché la donna apre (inq. 3) e chiude l’alternanza (inq. 11). Susan è il perno formale della sequenza: oltre all’inquadratura iniziale e finale, il volto di Susan occupa il piano centrale della sequenza (inq. 7). Evidentemente, nel cinema classico la centralità formale produce
anche una centralità narrativa e «morale». Il ruolo primario di Susan è corroborato da altre scelte: per quanto riguarda l’angolo di ripresa, la donna viene inquadrata frontalmente, mentre David viene ripreso in modo obliquo; il viso della donna è ben illuminato, radioso, mentre quello dell’uomo è nella penombra. Anche la distanza della mdp privilegia il personaggio femminile: tutte le inquadrature di Susan sono dei MPP, mentre David viene sempre ripreso in MF, con l’eccezione dell’inq. 10 in cui il personaggio maschile, essendo inciampato e caduto a terra, viene inquadrato in FI. Il personaggio femminile ha un ruolo visivo privilegiato ed è, dunque, il vettore primario dell’identificazione. Questa centralità visiva rende subalterna il protagonismo verbale del personaggio maschile, agente principale del dialogo, e trasforma Susan nell’agente attivo dell’azione. Ciò che la sequenza annuncia viene finalizzato negli episodi immediatamente successivi, quando risulterà impossibile per David liberarsi della donna che diventerà, definitivamente, il motore narrativo. Innanzitutto nella «sequenza delle telefonate» vengono stabiliti in modo preciso i termini della dualità semantica del film, in relazione ai personaggi femminili e agli oggetti. Lo stile, specialmente il montaggio alternato, combinato con particolari scelte iconico-compositive, rende esplicito come la dialettica sia la forma simbolica del film classico. David riceve prima la telefonata di Alice, poi, dopo l’arrivo della clavicola intercostale, quella di Susan. La donna gli chiede aiuto perché non sa come portare un leopardo domato nella villa di campagna della zia. L’opposizione Alice/Susan viene espressa con inquadrature in cui vengono mescolati elementi comuni e opposti. Le due donne sono riprese nel medesimo atto di parlare al telefono, entrambe sedute a un tavolo e in MF, con un’identica disposizione nel profilmico di oggetti (la lampada sulla destra, la finestra con le tende aperte sempre nella parte destra dell’inquadratura): ma è il look, il corpo vestito a decidere del senso. Con i capelli raccolti, gli occhiali da bibliotecaria e una giacca formale, Alice incarna l’ordine, la rigidità, il lavoro, la noia. Con l’abito lungo di organza bianco, Susan evoca l’eleganza dell’upper middle class, il tempo libero e il divertimento, mentre l’entrata in scena del leopardo ne esacerba il côté di follia e imprevedibilità e la noncuranza delle norme sociali. La struttura binaria del film investe anche i luoghi del racconto. Ogni genere ha trovato alcuni luoghi di elezione, luoghi simbolici che rinviano a forme sociali istituzionalizzate, o al contrario prive di regole definite, a particolari modelli di comportamento del soggetto. Evidentemente, come i personaggi, le strutture linguistiche e le scelte iconico-rappresentative, i luoghi del film entrano in un rapporto duale l’un l’altro30. Luogo di elezione della commedia è la metropoli, cui viene opposta la campagna. Gli ambienti e i personaggi glamour del genere non possono che vivere nella grande città: continuando la tradizione della commedia degli anni venti rappresentano il lifestyle altolocato della modernità urbana, mentre la campagna è il luogo del passato e delle tradizioni contadine, di abitudini grossolane e arretrate di cui farsi beffe. Per questo il personaggio di Ralph Bellamy in La signora del venerdì e L’orribile verità è così paradigmatico31.
13. Susanna (H. Hawks, 1938).
14. Susanna (H. Hawks, 1938).
15. Susanna (H. Hawks, 1938).
In Susanna la campagna ha una funzione diversa rispetto a quella più codificata e tale differenza è legata al diverso statuto del maschile e del femminile. In contrasto con gli altri film del genere, in cui tutti i personaggi principali, e in particolare la coppia di protagonisti, sono completamente in sintonia con lo spirito screwball, nel film di Hawks, come l’analisi ha sottolineato, solo la protagonista femminile è tale. A David Huxley manca l’eleganza, l’ironia e la classe che Cary Grant ha in tutte le altre commedie interpretate. Il protagonista maschile non ha quella leggerezza morale e sessuale che caratterizza i protagonisti screwball, anzi segue il morigerato stile di vita della fidanzata. Il carattere di Susan è invece pienamente «sofisticato» sin dall’inizio: così la funzione della donna è quella di trasformare il soggetto maschile facendolo diventare più simile a lei, ovvero un carattere adatto all’intreccio in cui è inserito. La campagna è il luogo in cui questa trasformazione avviene. Trascinato in un ambiente dove le regole vengono meno, David vive una regressione radicale che investe, in primo luogo, la sua identità sessuale. La virilità dell’uomo viene messa in questione: prima veste abiti femminili, poi, alla disperata ricerca del prezioso osso, assume pose animalesche. Abbandonata la consueta rigidità, David si esibisce in posture ed espressioni bizzarre, imitando i personaggi che lo circondano. Il film raggiunge livelli di pazzia raramente visti: il ritmo elevato diventa progressivamente vera e propria vertigine, sino al climax della prigione dove la follia arriva al nonsense. Solo l’arrivo di Miss Swallow riesce, significativamente, a riportare un po’ d’ordine. Completata la trasformazione di David, la coppia può ritornare nel luogo «naturale» della commedia, la città. Nel finale Susan, nel tentativo di raggiungere David sull’impalcatura, fa andare in mille pezzi il brontosauro, vanificando il lungo lavoro dell’uomo: così, in luogo del matrimonio un po’ vittoriano che si annunciava per David all’inizio, l’unione con Susan nasce sotto gli auspici della moderna camaraderie tra uomo e donna [15]. Nella sua acclamata trasparenza, nella sua eccessiva ovvietà, il film aveva tradito, sin dalla sequenza iniziale, i «segni del proprio raccontare»32, indicando in Susan il personaggio, e il modello, su cui puntare. UOMINI FORTI E FILM BIOGRAFICO: «EMILIO ZOLA»
The Life of Emile Zola (Emilio Zola, W. Dieterle, 1937) fu uno dei film più acclamati e premiati di quegli anni: ottenne dieci Nomination agli Oscar vincendone tre, fra cui quello per il miglior film, vinse il New York Film Critics Circle Award come miglior film, capeggiò la classifica del «Film Daily», fu secondo nella National Board of Review e tra i primi dieci film nella classifica stilata da «The New York Times». Salutato immediatamente come un capolavoro, ebbe ancora più successo del film biografico che lo precedette, The Story of Louis Pasteur (La vita del dottor Pasteur, W. Dieterle, 1936) e contribuì a fare dei biopic con Paul Muni un prestige film al pari dei film epici in costume interpretati in quegli anni da Errol Flynn. Nella seconda metà degli anni trenta i due generi sono fra i trend produttivi più importanti della Warner Brothers, che riesce, grazie al successo commerciale dei film epici e al successo critico dei biopic, a divenire un prestige studio quanto MGM e Paramount33. Film in costume o d’avventura e film biografici sono generi e filoni assai rappresentativi della forma classica e la loro analisi ci consente di arricchire e completare il discorso iniziato con la commedia. In contrasto con le forme della commedia, in cui il personaggio femminile ha un ruolo fondamentale, il film d’avventura e quello biografico sono generi prettamente maschili, in cui le donne vengono relegate a ruoli del tutto secondari. Tale peculiarità è il cardine della generale filosofia di questi filoni che, attraverso una figura maschile forte, capace di dominare luoghi selvaggi e pericolosi, oppure dinamiche storiche assai complesse, promuovono una rappresentazione del mondo lineare e precisa, in cui il soggetto umano (purché di sesso maschile) può, attraverso l’azione fisica o l’impegno intellettuale, produrre un significativo cambiamento per il bene comune, per i suoi simili e per la patria. Non ci sono, forse, nel cinema di questi anni, esempi migliori di ritorno all’ordine e ai valori tradizionali; in modo simile, la fiducia nelle capacità umane di intervenire e influire sulle vicende del mondo appare quanto mai salda e forte. Da un lato, dunque, il mondo sembra leggibile e le dinamiche che lo sorreggono comprensibili, dall’altro l’uomo può contrastare e mutare il corso degli eventi perché/purché sorretto da valori e ideali certi e giusti, di chiara matrice umanistica, come la verità e la giustizia. Emilio Zola è il secondo dei quattro più famosi film biografici diretti da William Dieterle tra il 1936 e il 1940 per Warner Brothers34. Del genere, il cui capostipite è Disraeli (1929), il film condivide i tratti fondamentali: il personaggio storico è «uno straniero, un libero pensatore, un paladino dei diritti umani, un genio eccentrico»35. La vita di Zola viene narrata quasi interamente, dal periodo in cui giovane e squattrinato vive in una «tipica soffitta d’artista» parigina, condivisa con l’altrettanto giovane e squattrinato pittore e amico Paul Cézanne, sino alla morte, che cade proprio la notte precedente la riabilitazione pubblica del capitano Dreyfus. Il film si sofferma in particolare su due esperienze: prima il successo come romanziere, che il film fa iniziare con la pubblicazione di Nana, e poi l’affare Dreyfus, che occupa gli anni della maturità dell’artista. Il film dedica ampio spazio alla questione Dreyfus, soffermandosi in particolare sul processo subito dallo scrittore e terminato con la condanna dello stesso a un anno di carcere. Se è vero che a tratti il film è narrativamente discontinuo – per esempio, l’affare Dreyfus appare all’inizio quasi un corpo estraneo, in quanto non viene legato alle vicende del protagonista ma è introdotto senza rispettare la regola classica di causa ed effetto –, esso incarna, sin troppo, la fiducia «classica» nella verità e nell’oggettività dei fatti impersonata dall’azione di un uomo. Zola è un grande personaggio pubblico che combatte tutta la vita per la verità e per sconfiggere i soprusi che i potenti perpetrano verso i più deboli. Se la dose di populismo è piuttosto marcata, sono altrettanto evidenti le tracce del social problem film che a inizio anni trenta costituisce, assieme al backstage musical, il genere su cui Warner concentra i propri sforzi produttivi. Grazie anche alla presenza di Paul Muni nel ruolo principale, il film di Dieterle ci ricorda chiaramente I am a Fugitive from a Chain Gang (Io sono un evaso, 1932), il famoso film di Mervyn LeRoy in cui il protagonista, accusato ingiustamente, trascorre molti anni in carcere, e, fuggito e rifattosi una vita come cittadino modello, finisce nuovamente in prigione. Evaso una seconda volta, nel finale, tornato a salutare la fidanzata, Muni se ne va nel buio spaventato dall’essere riconosciuto e alla domanda della donna su come riesca a vivere risponde «I steal» (Rubo). Così il film si chiude su
una nota totalmente pessimista: non solo il sistema giudiziario si è rivelato ingiusto, ma addirittura un’istituzione sociale così importante ha, parafrasando il titolo di un altro social problem film Warner di fine anni trenta, They Made me a Criminal (Hanno fatto di me un criminale, B. Berkeley, 1939), trasformato un cittadino onesto in un criminale. Se le problematiche sociali restano pressoché intatte, la trasformazione del ruolo del protagonista è un indice chiaro della mutata atmosfera rispetto all’inizio del decennio. Del resto, anche un film come Hanno fatto di me un criminale, quasi un remake di Io sono un evaso, concedeva al protagonista, il quasi esordiente John Garfield, erroneamente incolpato di omicidio, la chance di vivere la propria vita. Quando il detective incaricato dell’indagine ritrova l’uomo in un villaggio dell’Arizona e capisce che è innocente, decide di non riportarlo in prigione. Se l’istituzione avrebbe forse agito diversamente, il detective compie un giusto atto di bontà umana e giustizia. Nel film di Dieterle, invece, l’ingiustizia subita dal capitano Dreyfus viene alla fine sanata dalle istituzioni: la sua innocenza, come la precedente colpevolezza, viene esibita pubblicamente, e lo sfortunato militare, che ha trascorso molti anni della sua vita matura in carcere, non si vede solo restituiti i gradi ma viene anche promosso. Va sottolineato che il riconoscimento della verità può avvenire solo quando le cariche istituzionali, che sino ad allora avevano coperto la corruzione dei più alti militari, mostrano la volontà di fare luce sulla vicenda. Se i detrattori di Zola preferiscono la menzogna, al fine di salvaguardare l’onore della nazione, il protagonista è convinto che, invece, lo svelamento della verità non può che rafforzare l’identità e l’unità nazionale. Il film veicola un messaggio di forte patriottismo, con momenti di retorica nazionalista – come nel finale, quando Anatole France commemora lo scrittore –, che non saranno dispiaciuti a Roosevelt. La forza del film sta nel fatto che il trionfo della giustizia è reso possibile dall’azione di un singolo individuo, il cui vigore morale viene esaltato sino alla fine. Nella scena iniziale Emile dice all’amico Cézanne che «la gente preferisce le menzogne alla verità» e questa affermazione, pronunciata tra gli stenti del freddo invernale, con il protagonista che tenta inutilmente di chiudere i pertugi da cui entra l’aria gelida, è un saggio della moralità dell’uomo e rappresenterà il leitmotiv di tutto il film. Zola vuole diventare il cantore delle miserie umane e contribuire al riscatto dei più umili, ma anche denunciare i soprusi dei potenti. Su questi binari viene costruito l’intreccio che appare suddiviso in due parti. Nella prima metà si narra del successo dello scrittore che, dopo essere stato censurato, riesce, con la pubblicazione di Nana, a ottenere un successo popolare. Il trionfo è inarrestabile: Zola pubblica un romanzo dopo l’altro e ottiene premi e riconoscimenti come la Legion d’Onore. Le sue opere provocano risentimenti nelle alte sfere, ma, come dice allo Chief Censor che lo rimprovera di avere criticato l’esercito, i fatti possono dare fastidio, ma sono veri. Zola è ormai famoso e ricco, ha combattuto e vinto molte battaglie e, come dice all’amico Cézanne, ormai vuole solo riposare. È a questo punto, quando il film e la carriera del protagonista sembrano volgere al termine, che inizia l’affare Dreyfus e, con esso, la seconda parte del film. Mentre gli amici dello scrittore non credono alle accuse, Zola è persuaso che il capitano sia colpevole. In realtà non ha voglia di interessarsi al caso: per un momento il protagonista sembra vacillare e quasi rinnegare i suoi ideali. Ma la sua reticenza dura poco: una sera, mentre con la moglie legge una lettera dell’Académie Française che gli annuncia la probabile nomina a membro della prestigiosa istituzione, la signora Dreyfus giunge a casa dello scrittore. Zola la riceve malvolentieri e non è molto disponibile a considerare le prove a discolpa del marito che la donna gli ha portato. Quando sente che la verità è stata nascosta ha un sussulto, ma la reazione non ha seguito. La donna se ne va sconsolata, ma dimentica i documenti sul tavolino. Nel momento psicologicamente più pregnante del film lo scrittore ritorna sui suoi passi e riacquista coscienza del suo ruolo. È un frangente interessante dal punto di vista della costruzione delle dinamiche identificative: Zola è seduto al tavolo, guarda prima un autoritratto di Cézanne, implicitamente ricordando le critiche che l’amico gli aveva fatto nel loro ultimo incontro. Il pittore l’aveva rimproverato di essere diventato
«troppo ricco e grasso», di essersi un po’ dimenticato degli ideali di gioventù. Mentre guarda il ritratto, Zola tiene in una mano la lettera dell’Académie e nell’altra i documenti dell’innocenza di Dreyfus. Guarda nuovamente il ritratto, poi strappa la lettera dell’Académie e si mette a leggere le carte del complotto [16]. Nella scena successiva lo scrittore ha riunito tutti gli amici intellettuali per leggere loro il famoso J’accuse che ha intenzione di far pubblicare [18]. L’intervento di Zola insiste, con un classico ritorno alla frase iniziale, sulla «verità», sul fatto che le prove sono inappuntabili e indicano da un lato l’innocenza di Dreyfus, dall’altro che le più alte cariche dell’esercito conoscono le prove e le hanno occultate. Tutta la seconda parte del film sarà dunque dedicata all’azione dello scrittore per far emergere la verità, mentre Dreyfus langue in una celletta a Devil’s Island. Il capitano, come la moglie, non ha mai perso la speranza e le frequenti scene dell’accusato assicurano, classicamente, la trasmissione di tutte le informazioni necessarie allo sviluppo del racconto.
16. Emilio Zola (W. Dieterle, 1937).
17. Emilio Zola (W. Dieterle, 1937).
18. Emilio Zola (W. Dieterle, 1937).
I momenti forti sono costituiti dal processo contro Zola, in particolare dalla difesa dello scrittore che, rivolgendosi alla giuria, ricorda di aver fatto tutto in nome della verità, e non per screditare la Francia. Ma l’arringa non produce effetti positivi e lo
scrittore viene condannato a un anno di carcere. Convinto dagli amici scappa a Londra, da dove continua a tuonare con i suoi articoli. Alla fine il nuovo ministro della guerra impugna la situazione e fa dimettere tutti gli ufficiali: «Truth is on the March» recita in prima pagina il giornale da cui, a Londra, Zola apprende di avere vinto la dura battaglia. Mentre Dreyfus viene liberato, Zola torna a Parigi e nel treno confida agli amici che, ancora una volta, fortunatamente, i fatti confermano di seguire la regola del «cause and effect like roots and trees»: è difficile trovare in un film un’ammissione così esplicita del funzionamento del dispositivo narrativo classico. Nell’affermare che, in ultima analisi, la realtà funziona secondo il principio di causa ed effetto, il film, per bocca del suo protagonista, e forse del suo autore36, sostiene che, obbedendo alla stessa regola, il cinema classico opera sotto il segno dell’imitazione della realtà. Nel finale del film questa affermazione viene ancorata nuovamente all’azione individuale: solo il soggetto umano può essere l’agente primario di una tale dinamica, perché, come ricorda Anatole France, nessun uomo più di Zola amò e si sacrificò per gli altri. Lo scrittore è stato, secondo le ultime parole del film, «a moment of the conscious of man». Anche grazie alla magniloquenza e alla pomposità, esacerbati dalla buona ma eccessiva interpretazione di Muni37, il film appare un inno ai tradizionali valori umanistici, ma anche un tributo a un «grande uomo», in sintonia con il populismo rooseveltiano di quegli anni, mentre nulla traspare della modernità di inizio anni trenta di cui abbiamo parlato. Anzi, se il cinema ha soprattutto dato voce e corpo all’uomo e alla donna comuni, alle masse inurbate, gli stessi soggetti che peraltro popolavano le sale cinematografiche, il biopic ci riporta a un modello sociale certamente premoderno, in cui è assente la trasformazione e il dinamismo. A questo scopo le modalità di messa in scena privilegiate danno l’immagine di un uomo «bigger than life»: l’assoluta centralità del protagonista, rappresentato come unico artefice delle azioni che intraprende, porta anche a un eccessivo centramento visivo del personaggio. Benché Zola sia quasi sempre ripreso in compagnia della moglie o di amici, la mdp tende a riprendere il protagonista lasciando spesso vicino ai bordi dell’inquadratura gli altri personaggi. Con l’eccezione di alcune riprese di Dreyfus e successivamente della moglie del capitano, Zola ruba sempre la scena: mentre al protagonista sono riservati un gran numero di piani ravvicinati, raramente le conversazioni sono formalmente bilanciate. Un’eccezione è rappresentata dal rapporto tra lo scrittore e Cézanne, ma il pittore esce di scena prima di metà film. Particolarmente interessante è la marginalità visiva di Alexandrine, moglie dello scrittore, che, nonostante sia quasi sempre presente, è relegata a un piano visivo del tutto secondario. Anche quando condivide lo spazio con il marito e gli è vicina, e ciò accade assai di frequente, la ripresa le riserva uno spazio marginale nell’inquadratura. Più che una compagna di vita, la donna sembra un supporto morale alle battaglie del marito, ma non diventa mai un soggetto dell’azione [17]. Si può supporre che sia sempre stata innamorata – la vediamo entrare nella soffitta con la madre dello scrittore nella scena iniziale del film –, ma la sua presenza non viene mai resa esplicita: né dal dialogo, né dall’azione, e del matrimonio non si fa mai cenno. Alexandrine sembra più una dama di compagnia che una moglie, presente ma silenziosa. Certamente queste scelte supportano l’immagine complessiva data dal film, di un uomo la cui intera vita è riempita dalla sua funzione pubblica e per il quale tutto il resto è secondario. Emile Zola appare come un esempio estremo di «eroe ufficiale», ovvero quel personaggio che, assieme al suo opposto, l’«eroe fuorilegge», rappresenta il polo ideologico del cinema americano. L’eroe ufficiale, nella definizione di Robert Ray, «normalmente interpretato da un insegnante, un avvocato, un politico, un contadino o un uomo di famiglia, rappresenta il credo americano nell’azione collettiva e nel processo legale oggettivo che sostituisce nozioni soggettive di legalità e illegalità»38. Sostenitore della legge e del libro, l’eroe ufficiale crede nel progresso, nella cultura e nella civilizzazione ed è, dunque, il polo opposto del fuorilegge e dei suoi surrogati, sostenitori della libertà individuale dagli obblighi e dalle costrizioni sociali e familiari. Così come il presidente Lincoln in Young Mr Lincoln (Alba di gloria, J. Ford, 1939), che si affida alla parola scritta della Legge, anche per Zola la parola è il mezzo privilegiato per la ricerca della verità. E il film è un trionfo del
logocentrismo: la parola scritta, nei romanzi e negli articoli provocatori pubblicati su «L’Aurore», ma anche quella letta, come il J’accuse che sentiamo pronunciare dallo scrittore, o la celebrazione finale di Zola fatta da Anatole France, costituiscono in questo film un esempio radicale del dominio della parola nel cinema degli anni trenta, un dominio che è in primo luogo quello della ragione rispetto alla sensazione. UOMINI FORTI E FILM D’AVVENTURA: «AVVENTURIERI DELL’ARIA»
Come il film biografico, anche il film d’avventura gode in questi anni di un ampio successo di pubblico e rappresenta, nel percorso delineato in questo capitolo, un supporto importante alla classicità. Tra gli elementi comuni ai due generi va segnalata una simile articolazione del rapporto di gender: l’agente dell’azione e lo spazio diegetico sono marcatamente maschili, mentre il femminile ha ruoli marginali o subordinati, sino a divenire, come nel caso di Only Angels have Wings (Avventurieri dell’aria, H. Hawks, 1939), un corpo estraneo, un intruso che il maschile cerca in tutti i modi di espellere. Se questo elemento è interpretabile anche in chiave autoriale, proprio l’eccesso di Hawks rispetto al genere – pensiamo per esempio a Gunga Din (g. Stevens, 1939) – ci consente di investigare meglio le contraddizioni e le strategie di contenimento del desiderio. Alternare l’analisi di opere di «registi a contratto» come Dieterle con film di autori come Hawks è una necessaria strategia interpretativa se si vuole rendere meglio conto dell’oggetto d’analisi: com’è noto, nel cinema hollywoodiano i film più riusciti o importanti, più complessi o intriganti, o semplicemente interessanti e rivelatori di dinamiche extratestuali, possono essere sia film di studio che film d’autore. Come Susanna, anche Avventurieri dell’aria è un film dallo stile eccessivamente ovvio, come direbbe Bellour citando Rivette; ma l’ovvietà/invisibilità, lungi dall’essere una caratteristica autoriale, come ha sostenuto Andrew Sarris, va a nostro avviso vista nel suo contesto storico39. Hawks è un autore dallo stile permeabile e si lascia influenzare dalle modalità di ripresa e messa in scena dominanti nei diversi momenti della sua carriera: dunque, cambia ripetutamente stile. Solo i film di questo periodo e poche successive opere hanno uno stile trasparente, mentre il cinema degli anni quaranta e cinquanta è in sintonia con le forme di ripresa del tempo. Si pensi per esempio a Gentlemen Prefer Blondes (Gli uomini preferiscono le bionde, H. Hawks, 1953), musical in Technicolor dallo stile visivo spettacolare, a La signora del venerdì, che ha tracce evidenti di noirizzazione, mentre Red River (Il fiume rosso, H. Hawks, 1948) ha uno stile espressivo anch’esso debitore dell’epoca, in particolare per quanto riguarda la fotografia40. In Hawks la dualità converge in modo sistematico sul rapporto maschile/femminile, che viene declinato non secondo parametri uniformi, ma molteplici. Peter Wollen sostiene che l’autorialità di Hawks risiede nel rapporto tra il mondo del film d’avventura e il suo opposto, quello della screwball comedy: la commedia mostra «le tensioni che sottendono i drammi d’azione» da un punto di vista opposto. Se nel film d’avventura «l’uomo riesce a piegare la natura, la donna, l’animalesco e l’infantile nelle commedie viene umiliato e vive una fase di regressione»41. Dunque, l’eccesso di Susanna rispetto alle commedie di quegli anni, con la donna che domina l’uomo, si può spiegare proprio in un contesto autoriale42. In linea con le dinamiche del genere, Avventurieri dell’aria narra la classica traiettoria edipica del soggetto maschile che deve psichicamente venire a patti con la propria mascolinità. Rispetto alle commedie il rapporto maschile/femminile viene declinato nei termini del conflitto e dell’esclusione reciproca. La duplice linea narrativa del film riguarda, da un lato, lo sforzo di Jeff/Grant di salvare dal crac finanziario la compagnia aerea postale che dirige, dall’altro l’evoluzione del suo rapporto con il simile – l’uomo – e con l’altro – la donna –, secondo i parametri della classica traiettoria edipica. Il film presenta una situazione di amicizia maschile dai tratti omosessuali che rallenta il movimento verso una corretta mascolinità, ovvero l’unione con la donna.
L’arrivo di Bonnie/ Jean Arthur e più tardi dell’ex fidanzata Judy/Rita Hayworth, ora sposata con un altro pilota, alterano il precario equilibrio di Jeff che, nella lontana e selvaggia Barranca, ama la compagnia del gruppo di piloti con cui lavora, in particolare quella di Kid. Jeff è incapace di impegnarsi seriamente con una donna: le donne lo spaventano perché pregiudicano la sua libertà. Jeff rifugge dal commitment ed è, nelle parole di Leslie Fiedler, il tipico «eroe americano in fuga dalla donna e dalla casa»43. Il film lavora dunque sulla necessità di contenere il desiderio deviato e promuovere l’eterosessualità. Il rapporto tra Jeff e Bonnie può nascere dopo che l’amico del protagonista, Kid, viene eliminato e sostituito dalla donna. All’inizio il film stabilisce un’omogeneità strutturale e formale tra Kid e Bonnie. Per esempio, la prima serata si conclude con i due che guardano fuoricampo verso Jeff, mentre il protagonista raggiunge l’aereo in mezzo alla pista. Nella sequenza immediatamente successiva – è l’alba – Kid viene svegliato dal rumore dell’aereo, guarda fuori dalla porta-finestra e vede Jeff tornare incolume. La ripetizione del paradigma soggetto guardante/oggetto guardato in due episodi adiacenti stabilisce prima un’omologia tra i due contendenti – Bonnie e Kid desiderano lo stesso oggetto – poi dà a Kid un temporaneo vantaggio. Significativamente, alla fine del film Bonnie guarderà Jeff salire sull’aereo esattamente dalla posizione prima occupata da Kid: accettata dal gruppo dei piloti Bonnie può ora sostare nello spazio maschile per eccellenza, l’ufficio di Jeff. In un altro episodio Kid interrompe un dialogo fra Grant e Arthur e l’inquadratura posiziona visivamente Jeff in mezzo, schiacciato tra i due contendenti. In un altro momento la triangolazione viene evocata anche in assenza di Jeff: in un dialogo in campo/controcampo, Bonnie si rivolge a Kid come se questi fosse innamorato di Jeff. Bonnie: «che cosa fai quando ritarda?» Kid: «divento pazzo». I due dichiarano così il loro comune innamoramento per il protagonista. Avventurieri dell’aria mostra chiaramente il funzionamento di uno dei «criteri formali di riconoscimento» dello strutturalismo stesso, quello che Deleuze definisce locale o di posizione44. Se il film si sofferma sulle dinamiche della mascolinità, più in generale esso sottoscrive la posizione freudiana sul sostanziale conflitto tra i due sessi. Attraverso un’attenta articolazione dei diversi spazi, il film mostra che la possibilità di un soggetto di occupare uno spazio dipende dal suo sesso: mentre nell’ufficio di Jeff possono sostare solo i piloti, il bar è un luogo misto in cui l’accesso alle donne è consentito45. In questo gioco di inclusioni ed esclusioni la popolazione locale viene marginalizzata e può sostanzialmente rimanere solo in spazi ben definiti, separati da quelli dei bianchi. L’orchestrazione dello spazio si serve in modo mirabile della porta, oggetto e dispositivo al tempo stesso, che consente di articolare in modo assai efficace passaggi e separazioni. Avventurieri dell’aria è un film modello per un’analisi strutturalista. Il rapporto io/altro è organizzato in base a un sistema di opposizioni, secondo cui è la dimensione sociale a costruire l’io e non viceversa. Che lo statuto del soggetto dipenda dalla sua posizione nella struttura è a tratti così marcato da risultare, nonostante la perfetta invisibilità dello stile, visibile. La messa in scena delle dualità di base, in particolare il rapporto maschile/femminile, mostra nell’incipit un’articolazione più sofisticata rispetto a Susanna. Mentre il film precedente necessita di due sequenze distinte per presentare gli elementi primari del racconto, qui i due movimenti vengono messi in campo in un unico episodio: grazie al suo abituale (e congeniale) dinamismo, combinato a dialoghi impeccabili, Hawks riesce a muovere i tre personaggi, la protagonista Bonnie Lee/Jean Arthur e i due piloti Joe e Les, in uno spazio liminare, il porto sudamericano di Barranca, dove l’identità femminile assume, nel giro di poche inquadrature, modalità antitetiche. In secondo luogo, la dimensione discorsiva dell’identità di gender viene posta in relazione all’identità culturale e nazionale tramite la dicotomia americano/sudamericano. Significativamente, il personaggio femminile ha uno statuto flessibile, mutevole, rispetto a quello maschile, e può, in virtù della sua femminilità, essere vicino al nativo, all’esotico.
L’episodio iniziale è suddiviso in tre parti: tale segmentazione disegna un chiaro percorso ideologico che rappresenta la struttura portante del film. Dopo alcuni piani di ambientazione, atti a presentare il setting, il porto di Barranca, una non precisata località nell’America del Sud, con l’inq. 12 inizia la vicenda: due giovani uomini, che camminano di buona lena nel porto con dei pacchi, vengono ripresi in FI, perfettamente centrati e seguiti con un movimento di carrello nel loro spostamento. Si tratta di un’inquadratura piuttosto lunga: dopo i piani d’insieme del porto, o quelli anonimi della nave e del suo capitano, i modi della ripresa sono la spia del futuro ruolo narrativo dei due. Il primo episodio inizia, dunque, con l’inq. 12 e prosegue sino al piano 51: quaranta piani complessivi per una durata poco superiore ai quattro minuti. Joe e Les si recano al molo dove la nave ha appena attraccato per consegnare alcuni pacchi di posta, ma come si evince dal dialogo sperano di trovare qualche passeggera attraente con cui passare alcune ore. I due, apprenderemo di lì a poco, lavorano come piloti per una compagnia aerea di trasporti postali diretta da Jeff/Cary Grant. Durante il tragitto guardano costantemente fuoricampo, nella speranza di vedere qualcosa di interessante. Mentre consegnano i pacchi il loro sguardo si posa interessato su una giovane donna che sta scendendo dal ponte per la sosta: la nave, infatti, ripartirà qualche ora dopo. I due cominciano a seguirla: inizia una serie di inquadrature (12-27) in cui si alternano piani della donna che cerca di sfuggire loro e piani dei due giovani che la inseguono tra bancarelle e venditori ambulanti. Poi la donna viene attratta dalla musica che proviene da un locale e si affaccia. Qui ha inizio la seconda parte dell’episodio (inqq. 28-43): Bonnie segue con partecipazione una performance di «nativi» in cui si mescola danza, canto e musica. I modi della ripresa tendono a enfatizzare l’alterità della donna rispetto al gruppo; tuttavia, si istituisce anche un legame tra il femminile e l’esotico, entità legate da una simile posizione di alterità rispetto alla norma, il maschile e l’occidentale/l’americano. In questo frangente i due uomini sono assenti e la scena presenta un’alternanza di piani dello spettacolo e della protagonista che lo guarda. Alla fine della danza Bonnie si allontana e reincontra Joe e Les. Inizia qui la terza e ultima parte dell’episodio (inqq. 44-51). La donna cerca nuovamente di sfuggire, ma quando capisce che sono americani si scusa e si unisce ai due. Anzi è talmente contenta di sentire una lingua che non assomigli al «pig latin» che propone di offrire lei un drink. Tenendosi a braccetto i tre si incamminano contenti verso un locale. Nell’episodio appena descritto il soggetto femminile compie una traiettoria piuttosto articolata. Nel giro di pochi istanti Bonnie assume identità antitetiche e tale rovesciamento è assicurato da opposte strategie formali. Sullo statuto della forma del film valgono naturalmente le riflessioni fatte a proposito di Susanna. Vi è, tuttavia, nell’incipit di Avventurieri dell’aria, un elemento che qualifica in modo assai convincente il rapporto espressione/contenuto avanzato da Mulvey46. L’incontro iniziale tra Joe/Les e Bonnie, che costituisce il primo movimento, è girato secondo il paradigma voyeuristico mulveyano e mette in scena una dinamica di gender perfettamente classica. Tale paradigma viene però problematizzato e rovesciato nella terza parte: la protagonista si rivela essere una donna forte e volitiva, poco incline alla subordinazione e diventa, nel giro di poche battute, un buddy, un compagno complice e divertente. Il nuovo statuto della donna è espresso da modi di ripresa non voyeuristici e riflette una dinamica ben evidenziata dagli studi autoriali su Hawks. Se nei film d’avventura la donna costituisce un pericolo per la sopravvivenza del gruppo maschile, essa deve essere in qualche modo neutralizzata. Poiché l’amicizia maschile è un sentimento più forte e importante del rapporto d’amore eterosessuale, il gruppo maschile può sopravvivere se la donna viene mascolinizzata, se diventa un camarade47. La sequenza successiva conferma il doppio statuto della donna: i tre si siedono per bere qualcosa e pianificano la serata davanti a una «real American steak». Come in precedenza, quando Bonnie aveva scoperto che i due erano americani, in questo frangente l’identità dei tre è data dalla loro «americanità»: da un lato vengono eliminate le differenze di gender e la donna assume i tratti del buddy, dall’altro il gruppetto si identifica nella comune appartenenza culturale. L’equilibrio viene rotto dalla subitanea entrata in scena del protagonista maschile, il cui ufficio si apre proprio sul bar. Jeff interrompe la
conversazione dei tre e in modo brusco chiede a Joe di prepararsi immediatamente per partire [21]. L’arroganza dell’uomo provoca la reazione di Bonnie che richiama Jeff a un comportamento più cordiale e rispettoso. Per tutta risposta il protagonista la guarda e, con l’evidente intenzione di sminuirla, di metterla al proprio posto, commenta: «chorus girl?» (Una ragazza del coro?). Bonnie un po’ umiliata e risentita risponde: «I do specialty» (Faccio assoli). Il breve scambio, girato in campo/controcampo, iscrive nuovamente un rapporto di gender conflittuale con la differenza che, rispetto alla sequenza iniziale, tale conflitto viene ora impersonato dai due protagonisti del film. Se, come in Susanna, sono necessarie due sequenze affinché il conflitto ideologico si intrecci con quello narrativo, diversamente le questioni di genere, in particolare le posizionalità attribuibili al femminile, sono ben articolate anche prima dell’entrata di Grant. L’episodio iniziale, in effetti, mette in scena in modo mirabile i legami tra femminile, spettacolo, natura ed esoticità, così importanti nel cinema classico. Per cogliere appieno il funzionamento e l’importanza delle dinamiche voyeuristiche, vale la pena analizzare nel dettaglio lo stile dell’episodio. La scena inizia con l’articolazione classico-voyeuristica evidenziata da Mulvey in Piacere visivo e cinema narrativo. da un lato il maschile viene introdotto in modo dinamico e attivo tramite la combinazione di azione, una camminata ripresa efficacemente con un lungo carrello, e sguardo; dall’altro l’apparizione del femminile, richiedendo l’arresto dell’azione, viene rappresentata con un’inquadratura fissa che attiva un atto contemplativo. Ma va altresì notato che, mentre i due piloti guardano fuoricampo costantemente, il fuoricampo viene inquadrato solo quando il loro sguardo si poggia sulla donna: con l’apparizione di Bonnie lo sguardo maschile diventa una soggettiva [19-20]. Infine, avvalorando l’ipotesi che il fuoricampo rappresenti una minaccia – nel film gli uccelli che provocano la morte dei piloti vengono appunto da uno spazio non visto –, la donna emerge dall’invisibilità a minacciare la stabilità del gruppo maschile: la futura entrata in scena di Rita Hayworth sarà, in questo senso, ancora più misteriosa, erotica e minacciosa di quella iniziale di Bonnie.
19. Avventurieri dell’aria (H. Hawks, 1939).
20. Avventurieri dell’aria (H. Hawks, 1939).
21. Avventurieri dell’aria (H. Hawks, 1939).
Nella seconda parte dell’episodio, l’articolazione dello sguardo è funzionale a costruire un discorso che lega la donna con la natura e/o l’esotico. Nell’eterogeneo mondo del porto «i nativi» stanno, come in seguito, in uno spazio separato, cui solo la
protagonista femminile si avvicina. In questo frangente la posizione di Bonnie è duplice e liminale: la performance spettacolare si svolge in un luogo separato che stabilisce una sorta di opposizione fra colonizzato/colonizzatore (questo locale, tra l’altro, si opporrà al locale dei bianchi, frequentato dai protagonisti). Ma Bonnie, entrando, fa in modo che quest’esperienza non sia lasciata fuoricampo, invisibile, ma diventi visibile. Questa validazione viene fatta, non a caso, tramite le soggettive della donna. La danza è ripresa da diversi punti di vista, alcuni più ravvicinati, altri meno, e le inquadrature più lontane rappresentano il punto di vista di Bonnie che rimane sull’uscio. Dunque, tra spettatrice diegetica e spettacolo si stabilisce un contatto diretto: Bonnie guarda la coppia danzare sensualmente e la coppia le restituisce lo sguardo ringraziandola della sua approvazione. Da un lato, quindi, Bonnie è colei che dà visibilità alla danza dei nativi ponendosi però anche come diversa, esterna, superiore: la prima e l’ultima inquadratura dell’episodio (28 e 43) sono di Bonnie, mentre la donna viene inquadrata, con un’illuminazione privilegiata, anche in altri tre piani (32, 39, 41). Dall’altro lato la reversibilità dello sguardo, Bonnie guarda la coppia che le ricambia lo sguardo, implica il possibile scambio dei ruoli e, dunque, una somiglianza strutturale tra i due soggetti: del resto la donna indica con il suo ok che la performance le è piaciuta molto. Quando scopriamo, nella sequenza successiva, che Bonnie è una showgirl, il discorso del film diventa chiaro: Bonnie è all’inizio spettacolo per gli uomini, diventa spettatrice di una performance ed è, abitualmente, qualcuno che si esibisce per il piacere altrui. Ma l’elemento più significativo dell’episodio iniziale è che la donna e i nativi vengono posti sullo stesso piano. Significativamente, durante la scena della danza i due piloti, che stanno seguendo da vicino la donna, non vengono mai inquadrati, come se fossero misteriosamente usciti di scena, ma riappaiono appena Bonnie distoglie lo sguardo e si allontana dallo spettacolo. L’episodio lavora dunque su più livelli, tanto che nell’ultima parte assistiamo a un nuovo rovesciamento di paradigma. Quando Bonnie scopre che Joe e Les sono americani, l’identità culturale ha il sopravvento su quella di gender e la donna si identifica immediatamente con i due: ora cammina a braccetto con loro, mentre un carrello a precedere accompagna la camminata dei tre. Non più donna sexy ma camarade, Bonnie diventa attiva e complice del maschile. L’entrata in scena di Jeff, che costituisce l’effettivo inizio dell’intreccio, porrà fine all’ambiguità del femminile: sin dal primo scambio verbale la donna viene posizionata come altro dell’uomo, in sintonia con i famosi parametri di Mulvey. La funzione di Bonnie, e il generale dispositivo narrativo del film, seguono alla lettera le formulazioni della studiosa inglese (e di Freud): la donna riattiva nel soggetto maschile la paura di castrazione e costituisce una minaccia all’unità del gruppo maschile. Hawks mostra un interesse, e forse anche una predilezione, per i rapporti omoerotici, suffragata dal continuo ricorso a inquadrature d’insieme. Al tempo stesso, l’entrata in scena della donna costituisce anche l’innegabile inizio, per Jeff, del superamento del complesso edipico. Così, nonostante l’attenzione per forme dell’identità complesse, il film di Hawks si conclude con l’affermazione della mascolinità normativa che trascina l’inevitabile subordinazione del soggetto femminile. In definitiva, come Susanna costituiva una parziale eccezione rispetto alle commedie coeve, così Avventurieri dell’aria è in grado, a differenza di molti film d’avventura contemporanei, di evocare identità di genere alternative, prima della definitiva affermazione dell’ordine e della norma. Nei decenni successivi Hawks riuscirà a esprimere questi interessi in modo assai più radicale. Va comunque sottolineato, rimandando il lettore all’analisi di Gli uomini preferiscono le bionde, che Hawks è con Hitchcock, anche se in modi diversissimi, l’autore più seriamente implicato con questioni di gender.
1
Aristotele, Poetica, trad. it. Di A. Plebe, M. Valgimigli, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 204-211.
D. Bordwell, The Classical Hollywood Style, 1917-1960, in D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, New York, Columbia University Press, 1985, pp. 3-4. 2
3 A. Bazin, De la politique des auteurs, trad. it. Sulla politique des auteurs, in La pelle e l’anima. Intorno alla Nouvelle Vague, a cura di G. Grignaffini, Firenze, La casa Usher, 1984, pp. 66-75, 69-70.
4 Id., L’evoluzione del linguaggio cinematografico [1950-1955], in id., Che cosa è il cinema?, a cura di A. Aprà, Milano, Garzanti, 1986, pp. 74-92, 80-82. 5 D. Bordwell, Film Style and Technology, 1930-1960, in Bordwell, Staiger, thompson, The Classical Hollywood Cinema, cit., p. 339. 6 Sull’organizzazione dello sguardo nel cinema classico si veda F. Casetti, La visibilità del mondo, ovvero come il cinema classico ha organizzato lo sguardo, in F. Casetti, F. Colombo, A. Fumagalli (a cura di), La realtà dell’immaginario. I media tra semiotica e sociologia. Saggi in onore di Gianfranco Bettetini, Milano, Vita & Pensiero, 2003, pp. 109-124, e R. Eugeni, Film, sapere, società, Milano, Vita & Pensiero, 1999. Sul cinema americano come costruttore di identità si veda G.P. Brunetta, Identità, miti e modelli temporali, in id. (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, t. I, Torino, Einaudi, 1999. 7
T. De Lauretis, Desiderio e narrazione, in id., Sui generis, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 39.
E.K. Trimberger, Feminism, Men, and Modern Love: Greenwich Village, 1900-1925, in B. Melosh (a cura di), Gender and American History Since 1890, London-New York, Routledge, 1993, p. 136. 8
9 Cfr. E.E. Doss, Images of American Women in the 1930s: Reginald Marsh and Paramount Picture, in «Woman’s Art Journal», IV, 2, autunno 1983-inverno 1984, pp. 1-4. 10
Cfr. C.S. Steinberg, Film Facts, New York, Facts on File, 1980.
Per un confronto dei diversi generi musicali si veda M. Rubin, Busby Berkeley and the Backstage Musical, in S. Cohan (a cura di), Hollywood Musicals. The Film Reader, London-New York, Routledge, 2002, e l’ormai classico R. Altman, The American Film Musical, Bloomington, Indiana University Press, 1987. 11
12 Su questi aspetti si vedano i saggi di T. Balio, Th. Schatz, R. Sklar nel bel volume curato da Vito Zagarrio, Studi Americani, Venezia, Marsilio, 1994. 13
Bordwell, The Classical Hollywood Style, cit.
L’espressione «generi di integrazione» è di Thomas Schatz. Cfr. Th. Schatz, Hollywood Genres, New York, McGraw-Hill, 1981. 14
15 Sul rapporto tra il cinema di Capra e il New Deal si veda G. Muscio, Roosevelt, Arnold, and Capra (or) the Federalist-Populist Paradox, in R. Sklar, V. Zagarrio (a cura di), Frank Capra. Authorship and the Studio System, Philadelphia, Temple University Press, 1998. 16
Sul New Deal per le donne si veda B. Wiesen Cook, Eleanor Roosevelt, II. 1933-1938, New York, Viking, 1999.
C. Simmons, Modern Sexuality and the Myth of Victorian Repression, in B. Melosh (a cura di), Gender and American History Since 1890, London-New York, Routledge, 1993, pp. 17-42, 27. 17
18
Ibid., pp. 29-30.
19
Ibid., pp. 26-27.
Citato in E. Todd Wiley, The «New Woman» Revised. Painting and Gender Politics on Fourteenth Street, Berkeley, University of California Press, 1993, p. 147. Rinvio a questo studio esemplare per un’analisi del rapporto tra l’iconografia della New Woman nella scuola pittorica newyorkese della Quattordicesima Strada degli anni trenta e le dinamiche di genere connesse alla modernità. 20
21 In A Free Soul (Io amo, C. Brown, 1931), per esempio, l’attore mostra una fisicità rude ed eccessiva, ma estremamente accattivante e sexy. Nei primi film Gable è «una celebrazione della crudeltà […]. Incarna una mascolinità crudele e in qualche modo questo fatto combinato con la bellezza del suo viso diventa ingiustificatamente e inequivocabilmente sexy». M. LaSalle, Dangerous Men. Pre-Code Hollywood and the Birth of the Modern Man, New York, St. Martin’s Press, 2002, p. 66. 22 Sulla rappresentazione dell’amore nel cinema americano si veda R. Campari, Il discorso amoroso, Roma, Bulzoni, 1980. 23 Th. Schatz, La «screwball comedy» degli anni ’30, in C. Salizzato, V. Zagarrio (a cura di), Effetto commedia, Roma, Di Giacomo, 1985, p. 68. 24 N.F. Cott, La donna moderna «stile americano»: gli anni Venti, in F. Thébaud (a cura di), Storia delle donne. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 96. 25
Id., The Grounding of Modern Feminism, New Haven-London, yale University Press, 1987, p. 157.
D. Bordwell, K. Thompson, Technological Change and Classical Film Style, in T. Balio, Grand Design: Hollywood as a Modern Business Enterprise 1930-1939, Berkeley, University of California Press, 1993, p. 110. 26
27 Ibid., p. 113. In due diverse occasioni Bordwell e Thompson hanno analizzato un’altra commedia di Hawks, La signora del venerdì (1940). Cfr. D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, Madison, The University of Wisconsin Press, 1985, pp. 188-193; D. Bordwell, K. Thompson, Film Art. An Introduction, New York, McGraw-Hill, 1979, trad. it. Cinema come arte, Milano, Il Castoro, 2003, pp. 464-468. 28 Per un’analisi più articolata di questo film rinvio al mio Susanna e le strutture formali della classicità, in P. Bertetto (a cura di), L’interpretazione dei film, Venezia, Marsilio, 2003. 29
Si tratta del già citato saggio L’ovvio e il codice, in R. Bellour, L’analisi del film, Torino, Kaplan, 2005.
Su questo aspetto rinvio al fondamentale lavoro di Rick Altman sulla teoria del genere. In particolare Film/Genre, trad. it. Film/Genere, Milano, Vita & Pensiero, 2004. 30
31 La dialettica città/campagna non si esprime nella stessa forma in tutti i film screwball. Si veda Schatz, La «screwball comedy» degli anni ’30, cit. 32
B. Henderson, La «romantic comedy», in Salizzato, Zagarrio (a cura di), Effetto commedia, cit., p. 62.
33
Schatz, The Genius of the System, cit., pp. 199-227.
34 Sul rapporto tra il regista e la casa di produzione si veda Th. Elsaesser, Il regista «a contratto»: William Dieterle e il film biografico, in V. Zagarrio (a cura di), Hollywood in progress, Venezia, Marsilio, 1984, p. 109. 35
Altman, Film/Genere, cit., p. 67.
Thomas Elsaesser afferma che i biopic di Dieterle «sono di solito definiti come mezzi ponderosi, benintenzionati, liberali ma noiosi per veicolare idee umanistiche, direttamente attribuite al regista e alla sua personalità». Elsaesser, Il regista «a contratto», cit., p. 111. 36
37 A proposito dell’interpretazione di Muni in La vita del dottor Pasteur, Thomas Schatz afferma che l’attore «era dotato di istrionismo eccessivo, lunghe tirate, e un senso del suo status di artista e crociato sociale molto forte»: un giudizio che possiamo estendere anche al personaggio di Zola. Cfr. Schatz, The Genius of the System, cit., p. 208. 38 R.B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, Princeton, Princeton University Press, 1985, p. 59. 39 Cfr. A. Sarris, Howard Hawks, in J. Hillier, P. Wollen (a cura di), Howard Hawks American Artist, London, BFI, 1996, p. 104. 40
Sul cinema di Hawks si veda il bel libro di Barbara Grespi, Howard Hawks, Genova, Le Mani, 2004.
41
P. Wollen, Signs and Meanings in the Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 19723, p. 91.
Il cinema di Hawks ha ricoperto un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle teorie autoriali cui possiamo solo accennare. Secondo Claire Johnston, chiaramente influenzata da Wollen, «per Hawks, c’è solo il maschio e il nonmaschio; per essere accettata nell’universo maschile la donna deve diventare uomo». E nel confronto con Ford, Hawks è spesso «perdente». Se Wollen considera Hawks un autore meno complesso di Ford, per Johnston la donna di Hawks «è una presenza traumatica che deve essere negata», mentre nell’universo di Ford essa ha «la funzione di perno», in quanto rappresenta la cultura e la civilizzazione. Più recentemente, sempre nell’ambito dell’analisi di gender, Elizabeth Cowie ha proposto una tesi radicalmente diversa, affermando che «nei film di Hawks le caratteristiche convenzionali maschili e femminili non operano in modo fisso; non solo le donne agiscono come gli uomini, ma gli uomini agiscono come le donne, e questo è vero sia dei film d’avventura che delle commedie». Si veda c. Johnston, Women’s Cinema as Counter-Cinema, trad. it. Cinema delle donne come controcinema, in «nuova dwf», 8, luglio-settembre 1978, pp. 61-62 ed E. Cowie, Representing the Woman: Cinema and Psychoanalysis, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, p. 30. 42
43
Citato in Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, cit., p. 91.
Cfr. G. Deleuze, A quoi reconnaît-on le structuralisme? [1967], trad. it. Lo strutturalismo [1976], Milano, SE, 2004. 44
45 Utili spunti per l’analisi della struttura del film si trovano in A. Williams, Narrative Patterns in «Only Angels Have Wings», trad. it. Modelli narrativi di «Only Angels Have Wings», in A. Aprà, P. Pistagnesi (a cura di), Il cinema di Howard Hawks, Venezia, La Biennale di Venezia - Mostra Internazionale del cinema, 1981. 46 Laura Mulvey ha dichiarato privatamente che l’idea originaria per Piacere visivo e cinema narrativo nasce dall’episodio in cui appare Rita Hayworth, quando la diva giunge al locale dov’è riunito il gruppo maschile. 47
Wollen, Signs and Meanings in the Cinema, cit., pp. 82-91.
4. IL SOGGETTO MASCHILE DEL NOIR: TRA SGUARDO IMPOTENTE E DESIDERIO DI CONOSCENZA
CRISI DEL SOGGETTO, CRISI DELLA RAPPRESENTAZIONE
La letteratura critica su The Classical Hollywood Cinema ha sottolineato, senza mancare di indicarne i pregi e l’originalità, che la discussione di Bordwell sul noir (e sul melodramma degli anni cinquanta) dimostra in modo palese i limiti della sua stessa teoria sul cinema classico. Contrariamente all’idea che il noir rappresenti un esempio di cinema sovversivo, rispetto al cinema degli anni trenta, Bordwell afferma che esso può essere perfettamente integrato all’interno della classicità. Per lo studioso americano le innovazioni del noir sono motivate dal suo rapporto storico con la detective fiction o con «nuove forme di realismo». Poiché questi parametri sono puramente formali, non possono essere utili a definire la «sovversività» o meno del noir: per questo scopo è necessario, come afferma Douglas Pye, affrontare il cinema in termini di rappresentazione, ovvero considerare «come valori e istituzioni dominanti vengono raffigurati», e quali forme materiali assume la rappresentazione. Dunque, discutere il grado di sovversività di un film richiede l’attivazione di «parametri rappresentativi e stilistici nel senso più stretto»1. In termini simili, Barton Palmer suggerisce che l’approccio neoformalista di Bordwell non coglie la «questione noir», in quanto questi film, «come unità “socialmente collettiva” nel senso bakhtiniano, interrogano le normali strutture del film hollywoodiano producendone di nuove. L’importanza di queste differenze è, in definitiva, sociale e va vista in relazione alle forme ideologiche e della ricezione. Ma al modello neoformalista, così come allo strutturalismo classico, manca una componente semantica, che dovrebbe interrogare le questioni relative al “significato”»2. La centralità della nozione di rappresentazione nella nostra analisi è già ampiamente emersa nei capitoli precedenti, dove lo stile e le strutture formali del film sono stati messi in relazione con particolari modelli di soggettività e del rapporto individuo/mondo. Nel film classico il ruolo dominante della narrazione omnisciente e della ripresa oggettiva esprime una rappresentazione unitaria del mondo in perfetta sintonia con la causalità narrativa del racconto. Tali strategie configurano mondi rappresentati altamente leggibili, in cui ruoli e funzioni dei soggetti sono parimenti riconducibili a posizioni previste e codificate. Il personaggio classico esprime la sua essenza nell’azione che traduce in modo a-problematico il suo desiderio. La leggibilità del mondo e dell’azione individuale è sostenuta da una dinamica ulteriore, quella del conflitto e della dialettica, costruita da precise strategie narrative e di regia. Da ultimo, il rapporto spazio/individuo si declina nel controllo del primo da parte del secondo. Il noir e il woman’s film rovesciano tutti i paradigmi elencati. Sovente i due generi sono stati giustamente visti «come le due facce della stessa medaglia nel lavoro simbolico prodotto a Hollywood negli anni ’40»3, il primo teso a rappresentare la crisi del soggetto maschile, il secondo quella del soggetto femminile. Si tratta di generi paralleli sia nelle forme dell’immaginario che in quelle retorico-formali: basti pensare alla presenza quasi strutturale, in entrambi, della narrazione in prima persona in voiceover, del flashback e del rapporto tra presente e passato. Frank Krutnik sostiene che «il thriller tende a trattare il dramma dell’eroe “dislocato” in modo serio […]. Come la rappresentazione drammatica del regno femminile – questioni legate alla famiglia, la casa, l’amore romantico, la maternità, l’identità e il desiderio – è stata affrontata in termini di genere dal melodramma femminile, si può considerare il thriller come una forma di melodramma maschile»4. Tuttavia, esiste a mio avviso una fondamentale
differenza tra i due modelli. Nel noir il soggetto maschile compie una ricerca sul mondo, e spesso, ma non sempre, sulla donna, che sostituisce la ricerca sull’io e sul proprio desiderio. Nel woman’s film, invece, la ricerca del soggetto femminile è sempre su se stessa, in particolare sulla propria identità sessuale. Il rapporto tra pubblico e privato risulta dunque rovesciato, a confermare la tradizionale suddivisione dei ruoli di gender. In entrambi i generi domina lo scenario edipico, maschile o femminile, e la frammentarietà o discontinuità del racconto risponde alla non-linearità dei percorsi del desiderio del protagonista, dominato dal «ritorno del rimosso». In un’epoca che ha visto «la sostituzione dell’etica protestante con l’etica freudiana»5, o il passaggio dall’età dell’innocenza a quella adulta6, non si può non partire dal discorso psicoanalitico per affrontare il cinema degli anni quaranta. Questo passaggio appare cruciale e, debitamente articolato, ci aiuta a declinare l’irriducibile differenza tra il cinema degli anni trenta e quello del decennio successivo. Il cinema dei secondi anni trenta appare infatti del tutto dominato dall’etica protestante: tale condizione si riscontra nella struttura narrativa, nel rapporto spazio/personaggio e nella sostanziale oggettività del racconto. Inoltre, anche la funzione della differenza di classe, in rapporto a quella di gender, può essere inserita nello stesso paradigma, e anzi sembra costituire la categoria primaria della differenza. Ovviamente non mancano i conflitti di gender, come ben mostra la screwball comedy. Nella commedia sofisticata, il conflitto di gender è strutturale, ma è in parte un falso conflitto, nel senso che, pur configurando, almeno negli esempi più avanzati, un rapporto paritario tra maschile e femminile, proprio il fatto di raccontare il milieu alto borghese, invalida in parte la carica eversiva del genere. In secondo luogo, nella commedia, e più in generale nei film del periodo, il soggetto accetta la posizione che occupa: non vi è, in altre parole, una rivendicazione dell’identità di gender diversa da quella dominante. Per questo è così rilevante la questione della posizionalità, secondo cui l’identità è data a priori dall’ordine simbolico e non dipende in alcun modo da un autonomo percorso individuale. È anche per questo che il soggetto degli anni trenta è un soggetto che appare senza inconscio, definito solo dalle proprie azioni, inconsapevole di sé come soggetto. Si tratta di un soggetto pre-freudiano, per il quale la rimozione, paradossalmente, riesce alla perfezione. L’emergenza della soggettività come processo, piuttosto che come fatto o dato, è visibile nel cinema prodotto durante la guerra e negli anni successivi. L’esperienza dell’io non è più questione di inconsapevole posizionalità, ma si attua in una dialettica continua e serrata tra le pulsioni individuali e le richieste del sociale, non è riconducibile a una generalizzata identità strutturale, ovvero collettiva, ma si esplica nell’assoluta singolarità dell’io. Come in psicoanalisi, dove «alla domanda che fonda ogni cura, “chi sono Io?”, l’analista risponde infatti: “tu sei la tua storia”, inaugurando così la costruzione narrativa del soggetto moderno»7, allo stesso modo il noir e il woman’s film narrano, ancora più il secondo del primo, storie ossessivamente individuali. In entrambi i generi un personaggio adulto deve venire a patti con il proprio desiderio, in una oscillazione continua tra presente e passato, tra esperienze traumatiche e tentativi di abreazione, tra l’imposizione di una corretta mascolinità o femminilità e il desiderio di essere altro da ciò, secondo scenari che riprendono, ancorché in forma semplificata, le formulazioni freudiane. Nel noir e nel woman’s film le rimozioni non hanno mai successo – del resto l’insuccesso della rimozione è iscritto nel suo stesso dispositivo – e il soggetto è per sua natura scisso. Tali scenari si sviluppano non solo secondo linee temporali discontinue e contorte, ma anche in spazi particolari8. Entrambi generi urbani, il noir ha come set privilegiato le strade notturne, illuminate al neon, della metropoli – non qualsiasi città, ma, in ordine di importanza, New York, Los Angeles, San Francisco, Chicago e Las Vegas –, i luoghi dell’intrattenimento popolare e borghese – nightclub e luna park, ristoranti e bische, palasport per gli incontri di boxe –, ma anche gli uffici di detective squattrinati in palazzi fatiscenti e in prossimità di stazioni ferroviarie rumorose – valga per tutti l’ufficio di Bradford galt in The Dark Corner (Grattacielo tragico, H. Hathaway, 1946) situato presso la stazione sopraelevata di Third Avenue a New York –9, i diners
hopperiani à la Nighthawks (1942) e i complessi popolari lontani dal centro urbano, come il tenement house in cui gene Tierney vive con il padre tassista in Where the Sidewalk Ends (Sui marciapiedi, O. Preminger, 1950), titolo che ben descrive questo luogo topico del noir. Nel woman’s film i luoghi urbani del noir vengono contaminati con quelli dello spazio domestico in cui vive la protagonista, così che allo spazio pubblico del genere maschile si affianca quello privato del melodramma. Talvolta è solo una differenza di grado, soprattutto quando elementi noir invadono il woman’s film, ovvero quando il racconto stesso è scisso in due spazi, quello domestico e quello urbano, una procedura che, in casi estremi, porta a una vera e propria ibridazione di generi. Il caso più famoso è quello di Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred, M. Curtiz, 1945), dove noir e melodramma si contendono in eguale misura le vicissitudini della protagonista, interpretata da Joan Crawford: tale dualità è espressa da una precisa dialettica degli spazi, tra l’ambiente domestico della casa e della famiglia, e quello del crimine e della passione tipico del noir, che declinano anche il rapporto tra passato e presente. The Damned Don’t Cry (I dannati non piangono, V. Sherman, 1950) mostra una dinamica assai simile, anche se il noir qui prende decisamente il sopravvento. Con una tecnica narrativa veramente esemplare, l’investigazione da parte della polizia sull’assassinio di un famoso mafioso di Las Vegas si trasforma subito in un’indagine sul soggetto femminile, la donna ripresa ai bordi di una piscina nei filmini familiari trovati dalla polizia in casa del morto. Il lunghissimo flashback, narrato dal punto di vista della protagonista, ancora un’impareggiabile Joan Crawford, ci narra di come la donna sia entrata in attività con l’organizzazione mafiosa dopo avere lasciato la famiglia. L’ambiente domestico e della small town da cui proviene, mostratoci in poche ma efficacissime scene all’inizio del film, appare in tutta la sua arretratezza, con la donna totalmente soggiogata al volere del marito e del padre. A confronto la città, pur essendo il luogo dell’illegalità e dell’alienazione, sembra assolutamente preferibile. Tra i luoghi urbani legati all’esperienza femminile vi è il negozio di sartoria dove, prima del prêt-à-porter, le donne abbienti potevano vedere le ultime creazioni del loro stilista di fiducia indossate da giovani modelle. La figura della modella è un topos ricorrente nel noir e nel woman’s film: come nel caso della performance artistica, le tecniche di esibizione su cui si fonda ne fanno un dispositivo privilegiato per definire lo statuto del corpo femminile. Solitamente è un’occupazione temporanea indispensabile per il sostentamento alla protagonista, che proviene sempre da uno strato sociale popolare: è il primo lavoro che la squattrinata Crawford dei Dannati non piangono trova quando arriva in città, è l’occupazione di Tierney in Sui marciapiedi, mentre in The House on 92nd Street (La casa della 92a strada, H. Hathaway, 1945) un elegante atelier serve da copertura all’attività di un gruppo di spie tedesche su cui l’Fbi sta indagando. Generi urbani per eccellenza, noir e woman’s film sfruttano in modo mirabile i luoghi dell’intrattenimento e dell’incontro della moderna metropoli dove si sviluppano forme di vita marginali o illegali, e in cui sesso, violenza e alienazione si manifestano senza censure. VISIONE/SOGGETTIVITÀ/MODERNITÀ
Rispetto allo stile classico, il cinema degli anni quaranta sviluppa una tendenza esplicita alla visionarietà, ma anche alla discontinuità narrativa. Citizen Kane (Quarto potere, O. Welles, 1941) ha evidentemente un ruolo importante nel passaggio tra le due forme, poiché opera una rottura sia delle strutture narrative e del punto di vista che dei principi compositivo-visivi classici. Discontinuità e frammentazione del racconto, impossibilità di un punto di vista oggettivo, emergenza di una prospettiva soggettiva parziale sono le principali innovazioni narrative del film di Welles. Dal punto di vista visivo Quarto potere opera un simile ridimensionamento del soggetto umano, subordinato allo spazio attraverso la profondità di campo, il grandangolo e angolazioni eterodosse, mentre il piano-sequenza e il long take evidenziano l’emergenza della dimensione temporale nel suo flusso. Non è questo il luogo per una discussione più
articolata del film di Welles, anzi per il nostro discorso è sufficiente questa descrizione quasi manualistica delle innovazioni del film10. La natura di film-limite, film-laboratorio, film eccentrico pone Quarto potere in una posizione di forte alterità rispetto alla produzione hollywoodiana, ma al tempo stesso la sua influenza è indiscutibile. Tutte le innovazioni introdotte o radicalizzate da Welles verranno incorporate nel cinema più «estremo» di quegli anni, ma in forma attenuata. A proposito della profondità di campo, Bordwell afferma che il film di Welles è un’anomalia e che non è dunque un buon prototipo per capire il funzionamento di questa tecnica. Tuttavia, «se non fosse stato fatto molti registi di Hollywood avrebbero continuato a combinare una profondità moderata e occasionale con il montaggio e il movimento di macchina. Ma Kane più di ogni altro film è servito a persuadere i registi che piani molto ravvicinati e una grande profondità di campo potevano intensificare la drammaticità della scena»11. Il noir costituisce il filone in cui questa integrazione è più forte ed evidente. Non è solo un macro-genere, ma anche uno stile visivo che contamina altri generi, che subiscono, in questo periodo, una sorta di noirizzazione. Basta pensare al western, a film d’autore come My Darling Clementine (Sfida infernale, 1946) di Ford e Pursued (Notte senza fine, 1947) di Walsh, ma anche a western di studio, però di notevole efficacia narrativa e visiva, come Ramrod (A. De Toth, 1947), con una grande Veronica Lake, e Station West (S. Lanfield, 1948), in cui Dick Powell è un ufficiale dell’intelligence militare inviato da Washington nel West per scoprire chi ha ucciso due soldati. Se molti woman’s film scelgono opzioni narrative e visive assai simili al noir, ad esso non è immune nemmeno il musical, genere agli antipodi, incompatibile con il noir stesso. In Cover Girl (Fascino, ch. Vidor, 1944), per esempio, film della coppia Rita Hayworth/Charles Vidor, precedente il più famoso Gilda (1946), si fa uso del flashback, dell’illuminazione contrastata, di specchi e superfici riflettenti, e il noir look è particolarmente marcato nell’episodio in cui la protagonista ritorna al teatro di Brooklyn ormai chiuso dove si esibiva all’inizio della carriera. La lista di film ibridati con il noir potrebbe facilmente allungarsi con altri esempi più o meno noti. La capacità del noir di esprimere concetti e sensazioni in termini puramente visivi e illuministici, è un’innovazione radicale rispetto alla scrittura classica. Altrettanto innovativo è l’uso della parola, la cui funzione viene parimenti ridefinita. Nel percorso che abbiamo sinora delineato, il nuovo statuto dell’immagine può sembrare in sintonia con il registro visivo-dinamico dei primi anni del sonoro. In realtà, non si tratta affatto di una ripresa di modalità espressive e comunicative già utilizzate in passato, quanto piuttosto di una nuova articolazione del rapporto tra narrazione e attrazione, tra parola e visione, in cui il secondo termine assume, nel cinema più innovativo, un ruolo dominante o comunque opposto rispetto al cinema della classicità. Il noir produce un nuovo modello rappresentativo, è responsabile di una nuova fase che poggia su una mutata nozione di soggettività, pienamente implicata con la modernità. Non si tratta più, tuttavia, della modernità che emerge dalle teorie sociologiche di Simmel, Benjamin e Kracauer, quanto piuttosto di quella riconducibile all’analisi freudiana e più in generale psicoanalitica, che rileva l’impossibilità della condizione di pienezza del soggetto. Il cinema classico è fondato su un dispositivo narrativo causale talmente perfetto da rendere quasi irrilevante la componente visivo-attrattiva. L’efficacia comunicativa dell’inquadratura classica dipende non solo dall’alto grado di leggibilità dell’immagine, ma dal fatto che essa traduce e si presenta come un doppio della parola, ovvero del dialogo, mezzo di comunicazione per eccellenza12. L’egemonia della funzione narrativocomunicativa è legata anche all’alto grado di oggettività dell’immagine. Il cinema degli anni trenta predilige un punto di vista omnisciente, ancorché dalle sembianze umane, simile a quello del romanzo ottocentesco13, e che attiva un’identificazione con la diegesi e con il personaggio: i due livelli non sono separabili e anzi operano congiuntamente. Tali strategie possono essere interpretate in senso lato come la traduzione hollywoodiana di un modo preciso di vedere il rapporto soggetto/mondo. Alla base opera un processo di integrazione dell’individuo nello spazio sociale che appare regolato da norme codificate ben precise. Le traiettorie del personaggio sono
tentativi di integrazione in un ambiente strutturato da un punto di vista ideologico e morale. È in questo senso che si spiega il ruolo primario che riveste la commedia, nelle sue svariate forme e declinazioni, nella seconda metà degli anni trenta. Sono invece assai meno numerosi, in quegli anni, i film che narrano il tentativo di sovvertire i modi di essere dominanti. E questo è vero in particolare per i rapporti di gender, come abbiamo sottolineato nel capitolo precedente. Un film come Amore sublime (1937), in cui la protagonista, madre affettuosa e amorevole, non rinuncia alla propria sessualità, è un’eccezione, e appare più in sintonia con il cinema di inizio decennio o con quello degli anni quaranta, con film come Venere bionda (1932) o Il romanzo di Mildred (1945), che mettono in scena un conflitto simile, che con il cinema coevo. L’ipotesi che vorrei avanzare è che esiste, dunque, una relazione esplicita tra dinamiche formali e sociali: la narrazione oggettiva, l’organicità dello spazio visivo possono essere legate alla stabilità delle norme sociali e morali cui l’individuo deve aderire. Il lavoro ideologico del film consiste nel mostrare che tali norme non assicurano solo la continuità del sociale, ma permettono la felicità dell’individuo. È indubbio che le figure ribelli sono del tutto marginali nella seconda metà degli anni trenta, mentre sono dominanti nel cinema del dopoguerra. Il cinema degli anni quaranta non è però monolitico: noir e woman’s film sono i modelli dominanti del dopoguerra e costituiscono dal punto di vista estetico-formale l’esperienza più innovativa e «moderna» nel panorama americano del periodo. Ma non esauriscono la produzione hollywoodiana dell’epoca. In Power and Paranoia (1986), uno studio che dopo vent’anni rimane un punto di riferimento imprescindibile sul cinema del periodo, Dana Polan parla della presenza di due forme incompatibili esemplificate, rispettivamente, dal film di guerra e dal film noir. Nel war film domina «una logica della temporalità che lega tutti i momenti della totalità sociale in una sintesi», mentre il noir sembra «suggerire che questo sogno della totalità è fragile, reversibile e instabile», «gli oggetti sembrano resistere al nostro controllo […] l’apertura di una portiera può uccidere, la progressione temporale si dilata e diventa un incubo di coincidenze e ripetizioni alogiche»14. La rilevanza dei due modelli, tuttavia, non è la stessa: il film di guerra, com’è ovvio, domina i primi anni quaranta, mentre il noir inizia ad affermarsi nel 1944 e ha il suo momento d’oro nel periodo 1945-1948. Nel 1943 cominciano a diffondersi alcuni segnali e tendenze da fine del conflitto. Per esempio, nel luglio di quell’anno «Variety» informa che gli studios cominciano ad archiviare le storie di guerra perché il box-office ha segnato un calo del 40 per cento15. Un altro segnale da fine della guerra riguarda l’emergere di un nuovo discorso sul ruolo della donna. Secondo Michael Renov, già a partire dal 1944 i discorsi ufficiali e non di molte agenzie governative cominciano a parlare del «problema» del lavoro femminile, ovvero di come mandare a casa le donne ora che i soldati stanno per tornare dalla guerra. Scrive Renov: «Note interne delle agenzie governative mostrano che il lavoro femminile viene definito “manodopera in eccesso” e che vengono fatti sforzi per indurre al ritiro volontario, un atteggiamento che viene trasmesso dagli editoriali dei maggiori quotidiani e riviste e attraverso altri centri dell’opinione pubblica»16. Nel noir, il passaggio dal racconto oggettivo a quello soggettivo costituisce per il cinema un’evoluzione simile a quella del romanzo moderno rispetto a quello ottocentesco. Si abbandona una forma del narrare omnisciente, in cui la mdp è un osservatore esterno alla diegesi, con una conoscenza superiore a quella dei singoli attori, per assumere un punto di vista privilegiato e individuale che è, al tempo stesso, necessariamente parziale. Emerge una narrazione soggettiva che si esprime, in primo luogo, attraverso una mutazione radicale dell’iscrizione della soggettività come corporeità. Si tratta, per usare un’efficace espressione inglese, di embodied subjectivity, ovvero una soggettività non trascendentale, ma materiale, in cui il corpo diventa materia sulla quale si incidono i segni dell’identità e dell’esperienza sensoriale. Gli atti percettivi e le azioni sono mostrati nella loro materiale fisicità. Ma questi atti sono quasi sempre dei fallimenti, e le traiettorie individuali sono marcate dallo scacco e dalla mancanza. Kaja Silverman ha notato che in un certo numero di film di metà anni quaranta, esempio paradigmatico il capolavoro di Wyler The Best Years of Our Lives (I migliori anni della nostra vita, 1946), il soggetto maschile è metaforicamente castrato,
mentre viene attribuito, in una chiara inversione dei ruoli tradizionali, «il controllo narrativo e scopico al personaggio femminile». Silverman sottolinea che in molti casi la condizione di mancanza del soggetto maschile è «il sintomo di una crisi storica più ampia», legata al conflitto mondiale e all’immediato dopoguerra, tesi ampiamente suffragata anche da molti altri studi17. E tuttavia, vorremmo aggiungere, il potere della donna è più uno stratagemma retorico che il segnale di un potere effettivo. Contemporaneamente, infatti, nei woman’s film assistiamo a una parallela castrazione del soggetto femminile: come vedremo nel capitolo successivo, i tentativi di autodeterminazione della donna sono spesso votati al fallimento o ricondotti a parametri di comportamento più tradizionali. Rispetto alla figura dominante dell’integrato degli anni trenta, in questo decennio si consolida quella del ribelle e dell’alienato, sia per il maschile che per il femminile. In questo senso va ribadita la centralità della nozione di soggetto moderno: nel noir e nel woman’s film l’io è scisso, ha coscienza di sé come soggetto non trascendente ed è irrimediabilmente segnato dalla mancanza. L’emergenza della visione soggettiva come sintomo della modernità è uno dei grandi temi delle riflessioni filosofiche sulla «specificità» della cultura occidentale e in tale ambito il cinema ha occupato una funzione di primo piano. Le teorie sull’apparato emerse negli anni settanta hanno interpretato il cinema classico come un sistema di visione e rappresentazione trascendentale nella tradizione della prospettiva quattrocentesca, della camera obscura e della fotografia. Di questa tradizione, il cinema, nella sua forma dominante, quella classica, rappresenterebbe l’apice, la forma paradigmatica del Novecento. La qualità della visione, il tipo di soggetto costruito e il rapporto tra osservatore e immagine istituiti dal cinema classico sarebbero conformi agli altri episodi della tradizione visiva occidentale appena evocati. «La concezione del sistema quattrocentesco», afferma Stephen Heath, «è quella di uno spazio scenografico, spazio posto come spettacolo per l’occhio dello spettatore. L’occhio e la conoscenza vanno di pari passo; soggetto, oggetto e distanza dell’osservazione fissa permettono all’uno di controllare l’altro»18. Nonostante il cinema sia, a differenza della fotografia, fondato sulla mobilità, il racconto classico annulla la mobilità trasformando il movimento e la temporalità del cinema in dimensione spaziale. Dunque, «lo spazio ideale rimane quello della visione fotografica che riesce a fare della mdp un occhio; nel senso di occhio distaccato e non-problematico, un occhio libero dal corpo, al di fuori di ogni processo, uno sguardo puro» e che consente allo spettatore di divenire osservatore omnisciente19. Nonostante questa posizione sia stata in seguito messa in discussione, essa appare ancora utile a un discorso sul cinema americano, purché venga rielaborata secondo una prospettiva meno monolitica e più storica. In effetti, collegare il cinema classico a forme della visione pre-moderne non appare del tutto fuori luogo, anche se non si tratta, come sembra, di una mera tautologia. Se abbandoniamo l’interpretazione ideologica che sostiene la riflessione di Heath, del tutto in linea con quelle di Baudry e Metz – che qualche anno prima avevano interpretato l’apparato cinematografico, più che il cinema classico, come un apparato ideologico-borghese capace di far credere al soggetto di essere il produttore della visione –, e consideriamo i cambiamenti storicamente percepibili delle forme della messa in scena, possiamo in realtà ascrivere queste qualità al cinema americano dei secondi anni trenta20. Al contrario, l’emergenza della visione soggettiva nel cinema degli anni quaranta implica l’abbandono di un soggetto della visione distaccato e trascendentale, privo di corporeità, un puro occhio, e l’iscrizione di un soggetto del tutto implicato con la visione e il racconto: il cinema ora rende visibile la presenza di un io materiale, poiché l’atto narrativo e percettivo è quello di un io particolare, non distaccato né oggettivo, ma un io corporeizzato. Basti pensare quanto sia frequente il caso di un personaggio che perde conoscenza o la facoltà di vedere con chiarezza e come tale perdita, o il lento riaffiorare delle capacità cognitive, vengano messi in scena tramite una dettagliata descrizione delle menomate sensazioni fisiche. Uno dei primi esempi è forse lo svenimento di Marlowe/ Bogart in Il mistero del falco, colpito dagli sgherri di Sidney
greenstreet, e il suo successivo risveglio, con l’immagine sfuocata che diventa lentamente chiara e leggibile. Oppure pensiamo al protagonista di Murder My Sweet (L’ombra del passato, E. Dmytryk, 1944), bendato per tutto il film, ma anche drogato, privo di conoscenza o in preda a un’intensa attività onirica, o ancora ad Alicia Huberman/Ingrid Bergman in Notorious (1946) che, all’inizio ubriaca, alla fine avvelenata, vede in modo sfuocato, rovesciato o doppio, sino a diventare, prima del last minute rescue, quasi cieca. In tutti questi casi si tratta di una visione dallo statuto fortemente soggettivo e marcato sul corpo del personaggio. Ma queste immagini sono anche altamente spettacolari e visionarie, costruite attraverso complesse sovrimpressioni o manipolazioni delle dimensioni prospettiche e fotografiche dell’immagine: nel caso di sequenze oniriche, di visioni sfuocate a causa della perdita di conoscenza, di allucinazioni o impasse di natura fisica e psichica, l’immagine filmica non registra più il profilmico, ma esprime la dimensione psichica e soggettiva del protagonista. Sta qui il divario fondamentale rispetto alla sovrimpressione di inizio anni trenta. Mentre nei primi anni del sonoro essa era l’analogo filmico del dinamismo e dell’energia della città moderna, qui esprime invece la crisi e la scissione dell’individuo. Nel primo caso, come abbiamo argomentato nel secondo capitolo, il dinamismo visivo non è legato a un’istanza individuale, ma esprime la dimensione collettiva del soggetto urbano. Inoltre, si palesa la possibilità dell’autodeterminazione del soggetto, che può trovare uno spazio di libertà nel magma caotico della metropoli. Nel noir tutto appare rovesciato: da un lato il soggetto vive la propria alienazione in solitudine, dall’altro la città diventa un luogo sinistro, doppio e misterioso, in cui l’individuo si dibatte e si smarrisce, senza speranze concrete di integrazione. Il mutato statuto della visione appare in sintonia con dinamiche più generali della cultura occidentale. In Techniques of the Observer Jonathan Crary, il cui lavoro si muove in un ambito simile a quello della New York School, sostiene che nei primi decenni dell’Ottocento, prima della scoperta della fotografia, si verifica un «cambio di paradigma» nella cultura occidentale per quanto riguarda la funzione strutturale della vista, i modi della visione e lo statuto dell’osservatore. Uno degli scopi dello studioso, che si muove in un’ottica esplicitamente foucaultiana, è di rintracciare la genealogia della modernità nell’emergenza di una nuova modalità dell’esperienza visiva, in relazione sia a certi dispositivi ottici che a certe forme del soggetto osservante. Secondo Crary «la visione viene sradicata dalle condizioni stabili e fisse incarnate dalla camera obscura […]. L’esperienza visiva acquista una mobilità e un valore di scambio mai visti, libera da un referente fondante». L’atto percettivo diventa autonomo rispetto alla realtà e perde «l’apoditticità della camera obscura di stabilire la propria verità»21. All’incorporeità della visione attivata dalla camera obscura, si sostituisce una visione rilocalizzata nel corpo. L’Ottocento, come ha dimostrato Foucault, vede il proliferare di discipline e istituzioni che indagano il corpo e l’attività umana e la scienza si interessa alle possibilità visive dell’occhio umano. Vi è, in definitiva, una riorganizzazione «della conoscenza del corpo e della relazione tra tale conoscenza e il potere». Questo risultato è l’effetto dell’emergenza di una nuova figura di osservatore: la visione diviene «misurabile e dunque merce di scambio»22. La modernizzazione della visione implica ulteriori cambiamenti: l’atto percettivo viene dissociato dal tatto ed emerge un nuovo regime di separazione dei sensi, in cui la visione diviene progressivamente autonoma, ma anche astratta rispetto allo spazio e agli oggetti tangibili. La modernità trasforma la visione in attività temporale e cinetica e rende impossibile l’osservazione contemplativa: «Non c’è mai un accesso puro al singolo oggetto; la visione è sempre multipla, adiacente e si sovrappone ad altri oggetti, desideri e vettori». A inizio Ottocento l’osservatore viene riposizionato «al di fuori delle relazioni fisse tra interno ed esterno presupposte dalla camera obscura e posto in un terreno non demarcato in cui la distinzione tra sensazione interna e segno esterno è irrimediabilmente indistinta»23. In ultima analisi, Crary sostiene che il nuovo modello di visione sarebbe caratterizzato da due principali dinamiche: la visione diventa soggettiva (e non più oggettiva), ma anche misurabile in modo razionale. Il noir costituisce il luogo cinematografico privilegiato per testare la convergenza tra il discorso sulla visione soggettiva e la modernità. Attraverso la figura del Private I
(Eye), la messa in scena dello statuto della visione in rapporto al mondo e alla conoscenza mostra i tratti appena evocati e appare inconciliabile con il cinema degli anni precedenti. Ma il noir mostra anche l’emergenza della visione quantificabile e scientifica resa possibile dalle tecniche di registrazione, in primis l’apparato cinematografico stesso. Nel sottogenere del police procedural thriller o thriller semidocumentario24, categoria creata già da Borde e Chaumeton nei primi anni cinquanta25, per esempio in La casa della 92a strada e The Street with no Name (La strada senza nome, W. Keighley, 1948), sorta di glorificazione delle capacità dell’Fbi, l’intelligence riesce, grazie alle più sofisticate tecniche investigative, in cui la vista non è l’unico, ma certamente il principale senso attivato, a risolvere con scientifica precisione e inaudita abilità tutti i casi investigati. Questi film hanno uno stile piuttosto lontano dai noir più famosi, utilizzano una serie di tecniche oggettivanti che creano un registro espositivo, più che narrativo, come per esempio una voice-over dall’intonazione fredda e scientifica, in luogo dell’abituale timbro emotivo, un look documentaristico, che proviene dalle riprese di vere esercitazioni dell’Fbi, dei loro uffici e luoghi di lavoro ecc. Peraltro le tecniche che espongono le procedure di identificazione, come il lavoro sulle impronte, precorrono molto degnamente sia le tecniche di ripresa che quelle investigative della serie televisiva CSI (Crime Scene Investigation). Questo sottogenere, forse meno studiato, ma che comprende anche un capolavoro come T-Men (T-Men contro i fuorilegge, A. Mann, 1947) e altri film di grande riuscita, esacerba alcuni tratti del noir, per esempio la solitudine del protagonista e il lavoro sullo spazio urbano, mentre per esempio elimina o rende marginale la presenza femminile. SGUARDO E CONOSCENZA: «L’OMBRA DEL PASSATO» E «LA FUGA»
In L’ombra del passato e Dark Passage (La fuga, D. Daves, 1947) i rapporti tra visione e conoscenza e tra soggetto e spazio costituiscono i due poli tensivi attorno a cui è costruito il discorso dei due film. Adattamenti di romanzi hard-boiled – rispettivamente di Raymond Chandler e di John Goodis –, i due film hanno numerosi tratti in comune, come la traiettoria del protagonista, che in entrambi i casi deve provare la sua innocenza, e la rappresentazione dello spazio narrativo e urbano. La scena iniziale pone subito in primo piano la questione della visione. In L’ombra del passato Philip Marlowe/Dick Powell è seduto in una stazione di polizia con gli occhi bendati: accusato di due omicidi, il detective racconterà, in un lungo flashback, gli eventi che hanno preceduto il suo arresto riuscendo alla fine a provare la propria innocenza. Nei pochi momenti al presente, Marlowe non toglie mai le bende e l’inquadratura finale vede il protagonista allontanarsi dal commissariato libero, ma ancora bendato, anche se la sua cecità sembra comunque temporanea. La fuga inizia in modo per certi versi speculare: l’ostacolo alla visione è riversato qui sullo spettatore, cui non è mostrato il volto del protagonista, introdotto mentre fugge dal carcere di San Quintino. Poiché il plot prevede che il personaggio principale, interpretato da Humphrey Bogart, si faccia un’operazione di chirurgia facciale, il film non può mostrarne il viso prima che l’intervento abbia luogo, pena la distruzione dell’immagine divistica dell’attore. Così, se nella prima parte del film il volto dell’uomo non può essere inquadrato e nella seconda rimane avvolto nelle bende, solo nell’ultima parte vediamo ripreso il divo Bogart [24]. Lo statuto divistico dell’attore si riflette in modo produttivo sull’aspetto del film, in forma assolutamente congeniale alla filosofia del noir. In sintonia con altri importanti episodi della storia della WB – valga per tutti l’espediente del montage sequence escogitato a inizio anni trenta, narrativamente funzionale, espressivo ed economico al tempo stesso –, Delmer Daves riesce a trasformare in risorsa estetico-espressiva un’apparente mancanza. È chiaro infatti che l’impossibilità di mostrare il divo, uno dei più redditizi al box-office a metà anni quaranta, limita le opzioni di messa in scena. Il regista decide di ripetere la scelta di The Lady in the Lake (La donna nel lago, R. Montgomery, 1946), ricorrendo alla ripresa in soggettiva [22]. Tuttavia, tale opzione viene in parte normalizzata attraverso l’uso di
altri espedienti che assicurano l’identificazione. Per esempio, Daves si serve di una nuova macchina a mano molto leggera che gli consente di riprendere da vicino alcuni movimenti del protagonista, ponendo così lo spettatore accanto al personaggio. L’effetto è visibile soprattutto nell’episodio iniziale, quando Vincent Parry si muove tra la boscaglia: la mdp riprende l’avvicinarsi dell’uomo ai cespugli toccando assieme al corpo dell’attore foglie e arbusti. Nella memorabile sequenza del taxi, quando il protagonista viene condotto dal medico che gli farà l’operazione, Daves risolve con una magistrale sceneggiatura della luce l’evidente problema di nascondere il viso di Bogart. Con il protagonista seduto nel sedile posteriore, le riprese dal suo punto di vista avrebbero dato luogo a inquadrature della nuca del tassista26. Ma così la scena non sarebbe stata efficace, dato che è il tassista a suggerire l’operazione stessa. Daves decide di inquadrare frontalmente i due: nella parte sinistra Bogart rimane in ombra, mentre nella parte destra il tassista viene bene illuminato [23]. L’opposizione tra luce e ombra crea una costruzione tensiva nell’inquadratura, divisa fra due parti, ma che si adatta anche alle necessità narrative e produttive: il protagonista non solo non deve essere visto dallo spettatore, ma vuole non farsi riconoscere dal tassista, che invece capisce subito chi sia. L’episodio rappresenta un esempio paradigmatico del côté melodrammatico del noir, in base a cui il contrasto tra oscurità e luce attiva simultaneamente una ricezione percettiva, affettiva e cognitiva27.
22. La fuga (D. Daves, 1947).
23. La fuga (D. Daves, 1947).
24. La fuga (D. Daves, 1947).
Gli altri episodi di dialogo sono di norma girati in soggettiva: in luogo del tradizionale campo/controcampo vediamo lunghe inquadrature ravvicinate degli interlocutori di Vincent ripresi dal suo punto di vista. Prima l’uomo che gli dà un
passaggio in macchina, poi Irene, quindi il chirurgo, vengono ripresi mentre parlano con Parry e guardano in macchina. La ripresa in soggettiva limita solo parzialmente le possibilità affabulatorie, ma vi sono momenti di evidente artificiosità. Mentre, infatti, l’uso della soggettiva è inizialmente motivato dal fatto che il protagonista è in fuga e da solo, nelle sequenze in interni la mancanza del controcampo è immotivata e appare assai forzata, in particolare nel lungo dialogo con Irene. Lo spettatore viene comunque rassicurato sull’identità della star: la presenza della voce di Bogart risarcisce in parte l’assenza visiva del protagonista, mentre nella sequenza del taxi ci viene mostrata la sagoma del viso dell’attore. L’assenza/presenza di Bogart, più che rompere l’abituale identificazione, crea un tipo diverso di posizionamento spettatoriale: il nostro punto di vista è quello di una figura alienata, ingiustamente condannata e in fuga. Così, per certi versi, «il fatto che Parry non possa identificarsi con lo statuto di condannato che gli è stato ingiustamente apposto modella la nostra stessa incertezza ad unire forzatamente la nostra prospettiva con la sua»28. Nei due film le dinamiche della visione sembrano muoversi tra due poli: da un lato, come abbiamo visto, lo sguardo soggettivo è embodied, ma anche limitato, dall’altro, la facoltà di guardare appare un dispositivo alla portata di tutti. In molti noir ogni personaggio di qualche rilievo è al tempo stesso oggetto e soggetto dello sguardo, e vi è spesso la sensazione che tutti guardino tutti. Questo meccanismo non produce chiarezza, verità, non rende più facile la lettura dei fatti, ma complica lo statuto della conoscenza e rende spesso inverosimile o difficilmente comprensibile il racconto. In effetti, l’intreccio può essere dominato da tattiche di inseguimento o nascondimento, da tentativi di mascheramento o fuga, dove non è sempre chiaro, o importante, il motivo o l’identità dei soggetti implicati. In un recente studio di grande interesse, Edward Dimendberg ha interpretato il noir in relazione al mutato rapporto tra soggetto e spazio urbano nel dopoguerra, ovvero in rapporto a una serie di regimi e apparati di visione – come nuove tecniche di sorveglianza, modelli fotografici di ripresa dello spazio cittadino –, ma anche considerando i diversi modi di attraversamento dello spazio metropolitano. La relazione tra individuo e collettività cambia radicalmente nello spazio urbano popolato da masse di corpi che transitano e si muovono di continuo. Secondo Simmel, nella città il soggetto «deve imparare a ignorare le altre persone e sviluppare una calcolata indifferenza ai corpi con cui condivide i mezzi di trasporto pubblico e le strade», a diventare insomma blasé. Ma anche l’attenzione è necessaria, tanto che le tecniche di sorveglianza che emergono tra i due secoli diventano fondamentali per distinguere, nella massa, il delinquente. Così, conclude Dimendberg, si potrebbe dire che «la vita urbana richiede un attento bilanciamento tra il notare e l’essere indifferenti alle altre persone»29. L’uso di location vere ha portato a parlare del noir in termini di «cinema realista», ma forse è più accurato, in questo senso, vedere il genere come un documento fotografico e storico, una testimonianza visiva della realtà architettonica urbana americana. Questa funzione di documento è tanto più percepibile per i molti luoghi ripresi che non esistono più, come la stazione sopraelevata di Third Avenue a New York o Bunker hill a Los Angeles30. Tuttavia, è chiaro che le questioni relative alla vista e alla percezione indicano strategie che poco hanno a che fare con il «realismo». I complessi intrecci del noir e i complicati movimenti dei personaggi negli spazi urbani disegnano rapporti intersoggettivi alienati, in cui tutti sembrano controllare tutti, in un vertiginoso movimento che sembra destinato all’implosione. La fuga è in questo senso emblematico. Per provare la propria innocenza, Vincent Parry, condannato per l’omicidio, che non ha commesso, della moglie, deve trovare il vero colpevole. Ma l’investigazione di Parry è resa difficile, non solo perché è egli stesso ricercato dalla polizia, ma perché il protagonista non sembra avere alcuna idea di chi sia il vero assassino. Anche quando pensa di essere al sicuro, nascosto nell’appartamento di Irene, Parry è in realtà sorvegliato, oltre che ricercato dalla polizia, dall’uomo che l’ha per primo soccorso e che Parry ha preso a pugni quando si è visto scoperto. Mentre conduce la ricerca su Madge/Agnes Moorehead, che si rivelerà essere la colpevole, il
protagonista è a sua volta oggetto della ricerca dell’uomo che vuole la taglia, mentre Madge stessa cerca di scoprire l’identità dell’uomo, cioè Vincent, che Irene sta nascondendo. Infine, quando Madge accidentalmente muore, cadendo dall’alto, come non raramente accade nel noir, non c’è più nessuno che possa provare l’innocenza del protagonista. L’intrecciarsi di ricerche molteplici, con lo stesso personaggio che simultaneamente è soggetto e oggetto di ricerca, costruisce un turbinio di traiettorie in cui la città di San Francisco diventa una trappola da cui sembra impossibile, per Vincent, fuggire, nonostante egli non sia apparentemente riconoscibile. Come quando, nel diner, il poliziotto intuisce da una domanda «sbagliata» e dall’impermeabile indossato che Vincent è un tipo sospetto, impedendo così, ancora una volta, che Bogart lasci la città. Quando alla fine troviamo il protagonista in un paese dell’America del Sud, senza peraltro che ci venga mostrato o spiegato come abbia fatto a scappare, la soluzione appare più un escamotage divistico – la coppia Bogart/Bacall può ricostituirsi – che una soluzione narrativamente credibile. Il caso di L’ombra del passato è in parte diverso. Se Marlowe è sia il soggetto che l’oggetto della ricerca è anche vero che, pur essendo all’inizio accusato dalla polizia, non rischia mai di essere effettivamente condannato come Parry. Di Marlowe colpisce l’incapacità di cogliere segnali e indizi, la scarsa abilità di portare avanti l’investigazione: non solo rimane bendato per tutto il tempo, ma a un certo punto si lamenta che tutti lo manipolano. In compenso, Marlowe è capace di una produzione onirica e allucinatoria davvero ragguardevole, come si vede nelle sequenze che esprimono l’esperienza immaginaria del protagonista per effetto della droga. Ma nel film troviamo anche un esempio sublime e davvero spettacolare di come, secondo l’opinione di Crary, la distinzione tra sensazione interna e segno esterno sia irrimediabilmente indistinta nella visione moderna. L’inizio del flashback raccontato dal protagonista è uno degli episodi memorabili del genere. Alla stazione di polizia Marlowe inizia il proprio racconto e narra di come tutto sia cominciato una sera quando era nel suo ufficio. La scena si apre con un’inquadratura del protagonista che, seduto, guarda fuori dalla finestra: è buio, è sera, la città è un tripudio di luci che si stagliano nell’oscurità. Mentre guarda fuori il viso dell’uomo viene riflesso nel vetro; dopo qualche istante un altro viso appare, più in alto, riflesso sopra il volto del detective [25]. L’immagine sembra ora ambigua e il vetro diventa la superficie ideale per rompere la divisione netta tra spazio esterno e interno: da un lato l’esterno, le luci, sembrano, attraverso la superficie trasparente, penetrare nella stanza, dall’altro l’interno, riflettendosi, sembra quasi voler uscire. Questa situazione di incertezza aumenta con l’apparizione del secondo viso: forse perché Marlowe è pensieroso, il nuovo volto sembra un’immagine proveniente dalla psiche del protagonista, un ricordo oppure un incubo. Ma in un piano successivo ci accorgiamo invece che si tratta di un cliente che è venuto in cerca dei servizi del detective: quando la mdp si sposta a inquadrare l’uomo, l’ambiguità viene fugata31. La condizione di indeterminatezza di quest’immagine riflessa – dov’è la fonte dell’immagine? – è in sintonia con la difficoltà del detective di interpretare correttamente ciò che vede. Questa inabilità è mostrata in tutta la sua evidenza a proposito di Velma, la ragazza che il cliente chiede a Marlowe di scovare e che il detective cercherà per tutto il film: in una delle prime scene, a Marlowe viene mostrata la foto di una donna attraente autografata con il nome Velma. Sottovalutando il potere non indexicale della parola, per tutto il tempo l’uomo crederà che quella sia l’immagine della ragazza. Marlowe sembra invece più abile a interpretare voci, parole e odori. A un certo punto riconosce l’identità di Ann perché la giovane pronuncia la stessa frase che gli aveva detto nel buio del bosco qualche tempo prima. E alla fine riconosce di nuovo la ragazza grazie al profumo. Ann si reca al commissariato per portare a casa l’uomo: Marlowe è ancora bendato, ma nel taxi riconosce la fragranza della giovane e può forse, ora che il mistero è risolto, iniziare con lei una storia d’amore. PAROLA, VERITÀ, EDIPO: «LA FIAMMA DEL PECCATO» E «NOTTE SENZA FINE»
Nel noir la visione soggettiva implica una diminuita capacità di leggere i segni del mondo, rispetto al cinema del decennio precedente, limite quanto mai significativo in un intreccio investigativo che mira a scoprire la verità. Ma l’emergenza dell’embodied look, compresi i suoi limiti, segna in qualche modo la fine della visione trascendente, «oggettiva», assai più potente, ma sostanzialmente una mera finzione, qualcosa che il soggetto umano non ha mai posseduto. Pur non potendo elaborare in modo approfondito questa importante questione, vorremmo rimarcare la funzione del noir nel processo di mutazione delle forme della visione. Secondo gli studi più avanzati, l’ontologia della visione e del rapporto tra visione, conoscenza e verità, che è alla base della cultura greca, ha dominato la cultura occidentale sino a fine Ottocento. Nel suo monumentale studio sull’argomento, Martin Jay ipotizza che la ocularcentric tradition cominci effettivamente a entrare in crisi con le riflessioni di Bergson, in virtù di tre innovazioni radicali: in Bergson la prospettiva perde il tratto della trascendenza, il processo cognitivo dell’individuo non è astratto o trascendente, ma corporeizzato, e infine la dimensione temporale ritrova un ruolo primario rispetto a quella spaziale32. Un tassello ulteriore di questo «cambio di paradigma» viene sottolineato da Hans Blumemberg, che evoca una fondamentale differenza tra cultura greca ed ebraica: «Per il pensiero greco ogni certezza è basata sulla visibilità […] il sentire non ha alcun significato per la verità e non è in alcun modo vincolante [… ma] deve essere confermato visivamente». Invece nella letteratura del Vecchio Testamento «la visione è sempre predeterminata, messa in questione o superata dall’ascolto. Il creato è basato sulla parola e in termini di credibilità la parola supera sempre il creato»33.
25. L’ombra del passato (E. Dmytryk, 1944).
26. La fiamma del peccato (B. Wilder, 1944).
27. La fiamma del peccato (B. Wilder, 1944).
Il noir sembra almeno in parte comprensibile alla luce di questo nuovo paradigma. Da un lato la centralità della parola, non in quanto comunicazione intersoggettiva, come avviene con il dialogo nel cinema più squisitamente classico, ma come strumento
per raccontare la propria traiettoria, appare un mezzo indispensabile di conoscenza. Si tratta di una parola soggettiva, caricata dell’esperienza personale dell’io, che trova nel racconto l’unica chance per capire il suo destino ormai segnato o per salvarsi: esempi paradigmatici dei due casi sono, rispettivamente, Double Indemnity (La fiamma del peccato, B. Wilder, 1944) e L’ombra del passato, ovvero due dei cinque film che, usciti nell’immediato dopoguerra a Parigi, ispirarono alcuni critici francesi a coniare il termine film noir iniziando di fatto la lunga fortuna critica del genere34. Potremmo dire che la parola, il monologo, il racconto assume la funzione di conoscenza che lo sguardo, la vista non può più esercitare: è evidente che quando Walter Neff/Fred McMurray, in La fiamma del peccato, entra per la prima volta a casa Dietrichson, l’apparizione di Phyllis/Barbara Stanwyck, che compare sopra la scalinata del grande soggiorno coperta solo da un asciugamano, lo ammalia a tal punto da nascondergli la «verità» sulla donna, del tutto evidente invece allo spettatore [27]. Nel noir la vista spesso inganna, soprattutto nel caso in cui l’uomo guarda la donna, quando il detective, o un suo surrogato, incontra la femme fatale35. È questo un topos del noir che è giustamente diventato un topos degli studi critici sul genere, in particolare della FFT. All’inizio del film di Wilder un uomo claudicante e sanguinante entra di sera negli uffici della compagnia di assicurazione in cui lavora. Raggiunto l’ufficio comincia a registrare la sua confessione al dittafono, indirizzando il suo racconto a Barton Keyes/Edward G. Robinson, suo datore di lavoro e chiara figura paterna [26]. Neff dice di aver ucciso il signor Dietrichson «for money – and for a woman […]. It all began last May». A questo punto la voce dell’uomo e l’immagine presente lasciano il posto all’episodio dell’incontro con la donna, che avviene in un assolato e caldo pomeriggio losangelino. Le modalità di messa in scena dell’inizio trasmettono l’impressione che il protagonista abbia compreso i suoi atti solo quando sente giungere la morte: l’impellenza di raccontare prima che sia troppo tardi lo spinge a correre in ufficio, quando ormai tutti se ne sono andati da tempo, quasi che la confessione sia l’ultimo atto in vita di Neff. Ma l’azione di Walter esprime anche il desiderio di raccontare lui stesso, al padre simbolico, il misfatto, prima che qualcun altro lo faccia. La voce roca e tremante, piena di brevi pause molto efficaci, esprime l’emozione di Walter, il dispiacere di dover confessare a un uomo che ama, senz’altro più del vero padre, la terribile e imperdonabile colpa, il fatto di averlo deluso. Racconto verbale e flashback sono strategie frequenti nel noir, che esaltano la tendenza del genere a far emergere il desiderio rimosso del protagonista. I noir strutturati attorno a queste dinamiche attivano in forme più chiare e articolate i contenuti edipici, dando forma a traiettorie che mostrano la difficoltà del soggetto maschile a superare la fase pre-edipica. In La fiamma del peccato la funzione paterna rappresenta molto chiaramente la Legge, mentre il figlio simbolico non è in grado di identificarsi con il padre, condizione necessaria, secondo Freud, alla formazione del Super-Io. Keyes stesso descrive la sua funzione come quella di un medico, un poliziotto, un padre confessore, una figura istituzionale che rappresenta l’ordine simbolico, per riprendere la terminologia lacaniana. In un chiaro conflitto edipico, Walter invece trasgredisce la Legge, cercando di escogitare un piano perfetto che sfidi il potere del padre36. Simili dinamiche informano anche il western-noir di Walsh Notte senza fine, in cui la funzione della parola appare ancora più marcata, sin quasi eccessiva rispetto all’immagine. Ma anche il ruolo delle dinamiche edipiche e familiari è più forte e articolato che nel film di Wilder: come per la donna nel woman’s film, l’esperienza del soggetto maschile è qui resa problematica da un trauma infantile rimosso (e dimenticato) che perseguita il protagonista impedendogli dei sani rapporti familiari e romantici. La centralità della casa e dell’ambiente domestico avvicina la traiettoria di Jeb Rand/Robert Mitchum a quella delle eroine del woman’s film e in parte femminilizza il personaggio. Come in Duel in the Sun (Duello al sole, K. Vidor, 1946), il film incorpora tratti del melodramma contribuendo efficacemente allo sviluppo di un filone o sottogenere di western ibridati con il melodramma stesso e di cui Johnny Guitar (N. Ray, 1954) è forse l’esempio più famoso37. In modo simile alla protagonista di The
Snake Pit (La fossa dei serpenti, A. Litvak, 1948), la cui follia è dovuta all’eccessivo amore per il padre, come si vede nel momento in cui riesce finalmente a ricordare il trauma infantile, Jeb non ricorda nulla della famiglia d’origine e non sa perché è stato adottato dalla signora Callum, che lo ha cresciuto assieme ai suoi due figli. All’inizio del film Thorley/Teresa Wright raggiunge Jeb in una casa diroccata su un’altura per portargli vettovaglie e una mappa [29]. Jeb deve fuggire prima che chi lo insegue lo raggiunga e lo uccida. Ma la donna gli dice che non andrà con lui anche se lo ama. L’uomo sembra in procinto di partire, ma non riesce a lasciare il luogo, è convinto che qui siano iniziati i suoi problemi e ora che la morte sembra imminente vuole capire che cosa lo perseguita, per quale motivo non è riuscito ad avere una vita normale. «Qui è iniziato e qui deve finire» dice alla donna amata. Pensando che lì si nasconda il mistero della sua infelicità, comincia a raccontare ciò che non capisce: la memoria è parziale, l’uomo ricorda solo l’immagine di stivali e speroni e il flash di spari di fucile [28], poi la madre di Thorley, interpretata da Judith Anderson, che arriva alla capanna, lo trova nascosto e impaurito e lo porta via con sé. Come per Walter Neff, Jeb sente il bisogno irrefrenabile di raccontare i ricordi alla neomoglie, nella speranza di scoprire, tramite la parola, la verità. Evidentemente questa è una situazione narrativamente quasi assurda, visto che l’uomo sembra così giocarsi l’unica chance di salvezza: ma come sentiremo spesso nel corso del film, Jeb non riesce a seguire il suggerimento della madre adottiva di guardare avanti, e deve investigare, fare chiarezza sul proprio passato. Solo questa operazione sembra aver senso. Il flashback si sofferma sugli episodi salienti della vita del protagonista e dei Callum, in particolare del piano di vendetta di Grant Callum, fratello del marito morto della madre adottiva che, ritenendo il padre di Jeb responsabile della morte del familiare, vuole far ricadere la propria vendetta sul figlio. Il piano di Callum consiste nel convincere il fratellastro di Jeb prima, il fidanzato di Thorley poi, a uccidere l’uomo, ma Jeb è più scaltro e riesce sempre a salvarsi e uccidere il rivale: ma questo esito gli aliena l’amore della ragazza, che comincia a odiarlo e trama ella stessa per ucciderlo. In seguito Thorley accetta la corte di Jeb e lo sposa con l’intento di ucciderlo la prima notte di nozze. Ma la donna non resiste al desiderio per lo sposo e nel momento decisivo invece di ucciderlo gli si concede pienamente. A quel punto Callum sopraggiunge con i suoi sgherri sperando di cogliere di sorpresa Jeb e farlo finalmente fuori. Ma il protagonista riesce a fuggire e a rifugiarsi nella casa diroccata. Qui il racconto e il flashback si concludono, il film si ricongiunge con l’inizio. Ora, quasi per miracolo, Jeb finalmente ricorda i tasselli mancanti: gli stivali e gli speroni erano quelli del padre che, nella stessa casa in cui si trova ora, si difendeva sparando, proprio come lui dovrà fare tra un istante. Per terra i corpi del fratello e della sorella morti. Poi il padre viene colpito e muore. Mentre terrorizzato assiste alla terribile scena, Jeb vede entrare Callum che trascina la futura madre adottiva per farle vedere la fine del suo amante. Ora è tutto chiaro: la signora Callum, la cui riluttanza a raccontare i fatti diventa ora comprensibile, tradiva il marito con il padre di Jeb, di cui era molto innamorata. E la sparatoria, in cui entrambi i padri perdono la vita, era un regolamento di conti d’onore.
28. Notte senza fine (R. Walsh, 1947).
29. Notte senza fine (R. Walsh, 1947).
30. Notte senza fine (R. Walsh, 1947).
Mentre il film lascia intendere che Jeb ha probabilmente assistito, non visto, alla scena primaria, al coito tra il padre e la signora Callum, esso ha anche messo in scena il destino di un uomo costretto, suo malgrado, a ripetere gli errori del padre e, come lui, a lasciare una scia di violenza e di morte. In un finale che ripete la scena del trauma, Jeb deve difendersi, come il padre, dagli attacchi di Callum e dei suoi, ma decide poi di arrendersi. Mentre sta per essere impiccato la madre adottiva spara al cognato, ponendo così fine alle trame violente da lei stessa causate. Pur non essendo la protagonista principale del racconto, il personaggio della Anderson – efficace almeno quanto il più famoso ruolo come Mrs Denvers in Rebecca (Rebecca, la prima moglie, A. Hitchcock, 1940) – è in realtà la chiave del film, causa e soluzione del problema. Mentre la crisi della mascolinità è marcata da una chiara femminilizzazione del soggetto maschile, posto in una posizione di passività, è peculiare, rispetto ai noir più ortodossi, il processo di conoscenza del protagonista, che, come per la donna del woman’s film, è più diretto verso se stesso che verso lo spazio esterno. In questo senso si comprende l’uso strutturale dello spazio domestico, che assicura il legame con il melodramma: la casa è il luogo in cui avviene il trauma infantile, ma anche quello in cui il trauma viene rivissuto e curato. Come nella cura psicoanalitica la parola è lo strumento tramite cui il soggetto può superare il trauma stesso [30]. In questo scenario Thorley ricopre un ruolo in parte paragonabile a quello dello psicoanalista: incoraggia l’uomo a ricordare, lo ascolta paziente e interessata e, alla fine, decide di restargli accanto. Giunta con l’intenzione di aiutarlo nella fuga, dopo avere scoperto la verità decide di stare con lui, consapevole che la attende la morte. Il racconto, la parola è riuscita laddove i fatti, anni di vita fianco a fianco avevano fallito. PROFONDITÀ DI CAMPO E SPAZIO URBANO: «SUI MARCIAPIEDI»
Più di altri generi il noir fa un uso sistematico e radicale della profondità di campo. Com’è noto, questa tecnica ha alimentato in momenti diversi il dibattito teorico sullo statuto dell’immagine filmica, e in alcuni casi è diventata il luogo privilegiato per la definizione dell’estetica del cinema, dell’interpretazione ideologico-materialista o della
teoria neoformalista del film: ci riferiamo rispettivamente alle proposte di Bazin, Comolli e Bordwell38. Come per altri importanti nodi della teoria o della critica del cinema non possiamo, in questo contesto, considerare l’argomento in tutta la sua complessità. Va comunque rilevato che la posizione di Bazin, per esempio, appare poco utile al nostro progetto in quanto inconciliabile con l’idea di cinema come modo di rappresentazione. Appare invece più proficua la suggestione di Bordwell secondo cui «“l’impressione di realtà”, sia che si tratti dell’opzione di Bazin che di quella di Comolli, non è una guida illuminante a ogni questione di stile che vogliamo studiare»39. Tuttavia l’ipotesi del teorico americano secondo cui la profondità di campo va vista come una tecnica che rende leggibile l’immagine e guida l’attenzione dello spettatore, in sintonia con l’approccio neoformalista e cognitivista, mi sembra del tutto insufficiente40. L’uso della profondità di campo nel noir appare legato a una più ampia ridefinizione del visibile e della visibilità che attraversa la cultura americana del periodo. Le riprese di luoghi veri, soprattutto gli esterni delle grandi città americane, e più in generale la realtà urbana marginale e popolare, testimoniano che i modelli iconografici di riferimento del cinema degli anni quaranta sono estremamente diversi da quelli del decennio precedente. Mentre nel cinema classico lo stage del teatro borghese, con i personaggi al centro della scena che conversano, sembra essere ancora un importante, ancorché residuale modello di ispirazione, il noir si rivolge, e al tempo stesso alimenta, forme visive completamente diverse, di cui la fotografia costituisce probabilmente l’espressione più importante. Lo spazio della grande metropoli rappresenta una rottura radicale rispetto allo spazio chiuso del set, che nell’imitare il set teatrale imitava anche la stanza degli interni domestici. Nel regime classico dominano il dialogo e la conversazione, mentre i conflitti e le soluzioni sono strutturati attorno a rapporti intersoggettivi. Nel nuovo regime iconico degli anni quaranta, il dialogo ha un ruolo secondario e il senso viene veicolato attraverso espedienti visivi. Per esempio, gli spazi urbani sembrano dominare i soggetti umani e l’atmosfera noir consiste anche nel rendere palese la solitudine e l’alienazione dell’individuo attraverso modi particolari di ripresa e di illuminazione, oppure in virtù di una diversa declinazione della funzione degli oggetti. Simili interessi e strategie informano il lavoro di alcuni fotografi dell’epoca. Esther Bubley, per esempio, riprende ossessivamente donne sole in stanze ammobiliate, o che aspettano in un diner, o che dormono nella sala d’aspetto di una stazione d’autobus. Anche grazie a un esplicito lavoro sulla luce, è palese, come ha mostrato Paula Rabinowitz a proposito di una serie di fotografie del 1943, la somiglianza tra le opere di Bubley e l’iconografia noir41. Lo stile di Weegee, fotografo e giornalista specializzato in scene di crimine e di violenza notturne, è caratterizzato da immagini contrastate con un background molto scuro su cui si stagliano i soggetti scelti. Secondo Edward Dimendberg, soprattutto nelle fotografie di New York di The Naked City (1945), Weegee aspira, come molto noir, «a umanizzare gli abitanti della metropoli senza volto, a far riemergere un’esperienza del luogo in una realtà urbana sempre più omogeneizzata»42. Rispetto allo spazio neutro della stanza, in cui le figure umane sono centrali, lo spazio del noir si articola in due poli opposti: da un lato gli interni appaiono claustrofobici, pieni di oggetti e personaggi, oltre che di zone d’ombra, con una tendenza alla composizione centripeta, dall’altro i personaggi si muovono in spazi esterni molteplici, anzi il film noir si caratterizza per la molteplicità delle location. Diversamente dal cinema classico, in cui l’azione si svolge in pochi luoghi, che tendono a ripetersi con grande sistematicità, nel noir l’azione si sposta di frequente in luoghi diversi della città, tanto che, invece della classica continuità narrativa e spaziale, qui domina un senso di dislocazione e discontinuità. Attraverso opzioni formali precise, i due spazi del noir esprimono due diversi modi di essere del soggetto. L’inquadratura centripeta rappresenta uno spazio che si chiude inesorabilmente sul protagonista: negli spazi interni, luci, oggetti e individui costituiscono una barriera al suo movimento, mentre i bordi dell’inquadratura sembrano bloccare lo spostamento verso l’esterno. In definitiva l’immagine centripeta mostra un personaggio visivamente in trappola, incapace di muoversi liberamente e controllare lo spazio. In questi casi la profondità di campo è fondamentale: proprio la visibilità assoluta di ogni elemento inquadrato
assicura che l’oggetto stesso diventi un palese ostacolo per il soggetto umano. Se gli esempi sono numerosissimi, forse gli episodi più memorabili hanno come protagonista il maestro della fotografia John Alton in alcuni film di Anthony Mann, T-Men contro i fuorilegge e Raw Deal (Schiavo della furia, 1948), e in The Big Combo (La polizia bussa alla porta, 1955) di J.h. Lewis. In T-Men, per esempio, alcune scene ricordano esplicitamente Quarto potere: vi sono lunghe inquadrature con tre diversi piani dell’azione, tutti rigorosamente a fuoco, e pochi movimenti di macchina. In alcuni frangenti il protagonista è al centro dell’inquadratura, ma sovrastato da altri personaggi che guardano verso di lui: l’effetto complessivo è che lo spazio oltre i bordi dell’inquadratura sia inaccessibile al protagonista. La molteplicità degli spazi esterni e dei luoghi reali rappresenta invece la seconda modalità dello spazio noir. come la dimensione temporale, frammentata dal flashback, cui spesso si aggiungono situazioni oniriche che rendono ancora più ambiguo il racconto, anche lo spazio del noir è frammentato, sia nel rapporto tra una scena e l’altra che all’interno della stessa sequenza. Alla logica della totalità si sostituisce quella della frammentazione e il personaggio si trova più spesso nel luogo sbagliato che in quello appropriato43. Al tempo stesso il genere sembra più interessato alla ripresa dei luoghi che a quella dei soggetti umani: le numerose inquadrature urbane prive di personaggi, ma ugualmente pullulanti di vita ed energia, testimoniano la perduta centralità dell’individuo, che ora compete con lo spazio per l’attenzione della mdp. La messa in scena dello spazio urbano come luogo di alienazione per il soggetto può diventare particolarmente efficace quando vengono impiegati espedienti riflessivi e in parte stranianti, come lo specchio o ancor più la finestra, che ritorna con grande regolarità sino a diventare, nel caso di Sui marciapiedi, la principale figura significante. Abbiamo già sottolineato l’efficacia e il fascino con cui in L’ombra del passato il vetro trasparente, la notte, le luci della metropoli e lo sguardo debole del soggetto vengano fusi in un’inquadratura fortemente ambigua dal punto di vista del senso, ma assai indicativa dello statuto del rapporto tra soggetto e spazio. Nel film di Preminger, in cui ritroviamo la coppia protagonista di Laura (Vertigine, 1944), Dana Andrews e gene Tierney, la finestra è il motivo iconografico che struttura il film, il filtro tramite cui viene rappresentata la condizione alienata del soggetto. Mentre investiga su un omicidio, in una sala da gioco clandestina, il detective Mark Dixon/Andrews, un poliziotto con pochi scrupoli perseguitato dal passato criminale del padre, uccide accidentalmente un sospetto. Temendo le conseguenze del suo gesto, Dixon escogita un piano per coprire il suo crimine e porta il cadavere nella casa del morto, un appartamento in una casa popolare lontano dal centro della città, «dove finisce il marciapiede», come recita il titolo originale44. Ma quando viene incolpato dell’omicidio un tassista innocente, il padre dell’ex moglie del morto, Morgan/Tierney, di cui il detective si sta innamorando, Dixon è scisso e aiuta la donna nella ricerca di un avvocato che scagioni il padre. L’uomo continua l’investigazione del primo omicidio nella speranza di far arrestare il complice del proprio padre, da cui è ossessionato. La traiettoria edipica di Dixon è del tutto paragonabile a quella di Mitchum in Notte senza fine: entrambi vittime del comportamento illecito del genitore, hanno perso qualsiasi punto di riferimento e la certezza di valori stabili e lottano per districarsi da un labirinto morale in cui non si distingue il bene dal male45. Come non raramente accade nel noir, Dixon viene salvato da una donna: alla fine, quando ormai è riuscito a non farsi scoprire, si redime confessando l’omicidio. Morgan, che lo ama, gli promette che resterà ad aspettarlo fedele. Va sottolineato l’uso melodrammatico della luce, ovvero la corrispondenza tra l’aspetto visivo e quello cognitivo: in molti episodi del film la natura duale del protagonista viene mostrata oscurando in parte il suo volto, mentre alla fine, quando si consegna alla giustizia, dal suo viso sono scomparse le ombre46. Oltre a mostrare i tratti visivi e formali più comuni del genere, per quanto riguarda l’intreccio e la struttura narrativa, la caratterizzazione dei personaggi, l’iconografia e l’illuminazione, il film si distingue per un impiego strutturale del motivo della finestra particolarmente efficace. La finestra non solo funge da cornice, attivando un’esplicita operazione di mise-en-abyme, ma risulta funzionale all’articolazione del rapporto di
alterità tra soggetto e spazio urbano, oltre a marcare i forti contrasti di classe della metropoli47. La ricorrenza della finestra, che appare sempre perfettamente centrata, è tale da indicare una chiara scelta formale. Non si tratta, infatti, della stessa apertura: piuttosto, il film è punteggiato da una serie di finestre appartenenti ai diversi luoghi e spazi dotati di pregnanza narrativa e percorsi dai protagonisti. Tuttavia, la forma e la qualità dell’inquadratura non muta e le finestre sono tutte sostanzialmente equivalenti: riprese di notte si aprono sulle mille luci di New York che brillano in lontananza. Ma ogni inquadratura marca l’incolmabile distanza tra l’orizzonte sfavillante e lo spazio senza charme in cui è posta la mdp, tra la ricchezza del centro e la povertà degli spazi marginali dove vivono i protagonisti. Il distretto di polizia di Third Avenue, dove lavora Dixon, ha le finestre che danno sul retro, ma la stanzetta dove il protagonista dorme quando è di turno ha un’apertura che mostra all’orizzonte le luci notturne della metropoli [31]. Mentre vediamo Dixon coricarsi nella branda, la finestra occupa la parte centrale dell’inquadratura. Il disinteresse dell’uomo per ciò che si vede in lontananza rende esplicita la funzione riflessiva dell’inquadratura, destinata solo allo sguardo dello spettatore. Le luci non solo appaiono irraggiungibili: la presenza di una grata raddoppia l’opposizione tra i due spazi e mostra che il destino del protagonista è già segnato. Ancora più esplicito è l’episodio dell’appartamento che Morgan condivide con il padre. Dopo che l’uomo è stato arrestato, Dixon accompagna la donna a casa. La scena in interni del dignitoso appartamento si apre e si chiude con la stessa inquadratura della finestra ben centrata: l’apertura ci mostra nuovamente le luci e i grattacieli in lontananza, rimarcando ancora una volta la distanza tra i due spazi [33], distanza che la donna deve percorrere ogni giorno per recarsi al lavoro. Il film dunque pullula di luoghi marginali – su tutti i due tenement houses dove vivono Morgan con il padre e l’ex marito della donna – e di vite dure e faticose: ogni personaggio sembra sempre sull’orlo della semi-povertà e della sconfitta. Ma in un paio di circostanze il divario tra i due spazi si attenua e le luci sembrano diventare accessibili. All’inizio del film Dixon è in macchina con il suo collega nei pressi di Times Square: dall’interno dell’automobile, incorniciata dal finestrino, vediamo la gente che numerosa cammina sui marciapiedi e si dirige verso i divertimenti notturni. Ma l’episodio in cui lo spazio dei personaggi sembra fondersi con quello della città è quando Dixon e Morgan sono al ristorante [32]. I due si siedono a un tavolo posto vicino a una grande finestra che si sporge sul selciato: mentre conversano e mangiano vediamo al di là del vetro la vita energetica della notte. Nel momento in cui tra i due sembra nascere un sentimento, lo spazio urbano non appare più così alienante, il soggetto potrebbe avere una chance di integrazione. La speranza è fuggevole, ma la conclusione, come abbiamo già sottolineato, non è priva di una visione futura. Il film di Preminger suggerisce che l’amore può essere l’unica arma di salvezza in un mondo alienato e alienante. Se molto è stato giustamente detto del rapporto di morte che lega la femme fatale all’eroe del noir, forse bisognerebbe indagare più a fondo il modello di coppia, senza dubbio più raro, ma non meno interessante, formata da una donna e un uomo ugualmente soli, ma che unendosi riescono a salvarsi mitigando, grazie alla presenza dell’altro, la propria endemica solitudine48.
31. Sui marciapiedi (O. Preminger, 1950).
32. Sui marciapiedi (O. Preminger, 1950).
33. Sui marciapiedi (O. Preminger, 1950).
1
D. Pye, Bordwell and Hollywood, in «Movie», 33, inverno 1989, pp. 46-52, 50.
R. Barton Palmer, Review to Bordwell, Staiger and Thompson, The Classical Hollywood Cinema, in «Post Script», 3, primavera-estate 1986, pp. 88-91, 91. Simile è anche il commento di Tom Gunning nella sua recensione al volume. Cfr. T. Gunning, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, in «Wide Angle», VII, 3, 1985, pp. 74-77. 2
V,
3 M. Turim, Flashbacks and the Psyche in Melodrama and Film Noir, in Id., Flashbacks in Film. Memory & History, New York, Routledge, 1989, p. 182. 4
F. Krutnik, In a Lonely Street: Film Noir, Genre, Masculinity, New York, Routledge, 1991, p. 164.
J. Walker, Couching Resistance. Women, Film, and Psychoanalytic Psychiatry, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1993, p. 7. 5
6
J. Belton, Cinema Stylists, Metuchen (New Jersey)-London, The Scarecrow Press, 1983, p. 329.
7
S. Vegetti Finzi, Introduzione, in Id. (a cura di), Psicoanalisi al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. XIV.
8
Per un’analisi del tempo e dello spazio nel noir si veda L. Gandini, Il film noir americano, Torino, Lindau, 2001.
Si noti la somiglianza iconografica con lo spazio e le location di The Maltese Falcon (Il mistero del falco, J. Huston, 1941): l’inquadratura dell’ufficio del detective mostra la scritta rovesciata del nome stampata sul vetro della finestra, come in precedenza si era visto all’inizio del film di Huston, e l’ufficio appare elevato, vicino alla stazione, come quello di Sam Spade, ripreso a livello del Golden Gate. 9
10 Per una recente valutazione del dibattito critico-teorico sullo statuto di Quarto potere si veda G. Carluccio, La materia di cui sono fatti i sogni. Monologo, soggettività e onirismo in Quarto potere, in P. Bertetto (a cura di), L’interpretazione dei film, Venezia, Marsilio, 2003. 11
D. Bordwell, On the History of Film Style, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1997, p. 225.
La funzione determinante della parola è anche interpretabile in modo intermediale, ovvero in relazione alla radio. È utile in questo contesto Michele Hilmes, Radio Voices: American Broadcasting, 1922-1952, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997. 12
13 Questo confronto è stato diversamente analizzato dagli studiosi. Un intervento particolarmente influente negli anni settanta e ottanta è quello di Colin MacCabe, Realism and the Cinema: Notes on Some Brechtian Theses, in «Screen», 15, estate 1974, pp. 7-27. 14 D. Polan, Power and Paranoia. History, Narrative, and the American Cinema, 1940-1950, New York, Columbia University Press, 1986, p. 194. L’alternanza di questi due modelli emerge anche in W. Winston Dixon (a cura di), American Cinema of the 1940s, Oxford, Berg, 2006. 15 Cfr. D. Reid, J.L. Walker, Strange Pursuit: Cornell Woolrich and the Abandoned City of the Forties, in J. Copjec (a cura di), Shades of Noir, London-New York, Verso, 1993, pp. 57-96, 61.
16
M. Renov, Hollywood’s Wartime Women: Representation and Ideology, Ann Arbor, UMI Research Press, 1989, p.
47. 17 K. Silverman, Historical Trauma and Male Subjectivity, in E.A. Kaplan (a cura di), Psychoanalysis and Cinema, London-New York, Routledge, 1990, pp. 110-127, 114. Reid e Walker sostengono che nelle discussioni sul noir e la «crisi della mascolinità» troppo spesso si dimentica che è stata la depressione a mettere in discussione «il culto “fallico” dell’aggressività, dell’individualismo e della fiducia in sé», molto più che la guerra e il dopoguerra. Cfr. Reid, Walker, Strange Pursuit, cit., p. 63. Su queste dinamiche si veda anche R.S. McElvaine, The Great Depression: America 1929-1941, New York, Times Books, 1984. 18
S. Heath, Narrative Space, in Id., Questions of Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1981, pp. 19-75,
30. 19
Ibid., p. 32.
Per quanto riguarda Metz e Baudry rinvio ovviamente ai loro classici studi. Cfr. C. Metz, Le signifiant imaginaire, trad. it. Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio, 1980; J.-L. Baudry, Cinéma: effets idéologiques produits par l’appareil de base, in «Cinétique», 7-8, 1970, pp. 1-8; Id., Le dispositif: approches métapsychologiques de l’impression de réalité, in «communications», 23, 1975. 20
21 J. Crary, Techniques of the Observer. On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, An October Book, Cambridge, The MIT Press, 1992, p. 14. 22
Ibid., pp. 16-17.
23
Ibid., pp. 19-24.
24
Per un’utile analisi dei sottogeneri del noir si veda Krutnik, In a Lonely Street, cit., pp. 188-226.
R. Borde, E. Chaumeton, Panorama du film noir américain, 1941-1953, Paris, Editions de Minuit, 1955. L’importanza di questo studio viene analizzata da J. Naremore in More than Night. Film Noir in Its Contexts, Berkeley, University of California Press, 1998, pp. 18-22. 25
26 Come decide di fare Jean-Luc Godard in A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), dove inquadra ripetutamente la nuca di Michel Poiccard, nel tragitto da Marsiglia a Parigi, e poi quella di Patricia Franchini. 27 Su questa questione rinvio al bel saggio di M. Meisel, Scattered Chiaroscuro. Melodrama as a Matter of Seeing, in J. Bratton, J. Cook, C. Gledhill (a cura di), Melodrama. Stage, Picture, Screen, London, BFI, 1994, pp. 65-81. 28 J.P. Telotte, Voices in the Dark. The Narrative Patterns of Film Noir, Urbana, University of Illinois Press, 1989, p. 121. Sulle dinamiche di sguardo del film si veda anche F. Casetti, L’occhio del Novecento, Milano, Bompiani, 2005, pp. 109-114. 29
E. Dimendberg, Film Noir and the Spaces of Modernity, Cambridge, Princeton University Press, 2004, pp. 21-
23. 30 Tra i film che meglio sfruttano i luoghi veri di New York va ricordato The Naked City (La città nuda, 1948) di Jules Dassin. 31 La funzione del vetro e le tecniche di riflessione e messa in scena hanno elementi in comune con la sequenza di The Woman in the Window (La donna del ritratto), noir di Lang uscito nello stesso anno, in cui il professor Wanley/Edward G. Robinson vede riflessa in una vetrina la donna di cui osserva un ritratto esposto nella vetrina stessa. Benché il fascino e la complessità dell’episodio langhiano siano ancora superiori, certamente grazie alla presenza della figura femminile, mi sembra che le dinamiche di visualizzazione messe in atto in L’ombra del passato e l’impatto seduttivo nei confronti dello spettatore non siano lontani dal film di Lang. Per un’analisi di questa scena di La donna del ritratto, in parte estendibile al film di dmytryk, si veda P. Bertetto, Il riflesso, la lacrima, il nero, in G. Carluccio, F. Villa (a cura di), La post-analisi. Intorno e oltre l’analisi del film, Torino, Kaplan, 2005, pp. 59-86, 68-74, ora in Id., Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007. 32 M. Jay, Downcast Eyes. The Denigration of Vision in Twentieth-Century French Thought, Berkeley, University of California Press, 1994, pp. 186-209. 33 H. Blumemberg, Light as a Metaphor for Truth, in D.M. Levin (a cura di), Modernity and the Hegemony of Vision, Berkeley, University of California Press, 1993, p. 46. 34
Su questo importante episodio di storia della critica si veda Naremore, More than Night, cit., pp. 11-17.
Su questo fondamentale aspetto si vedano almeno, oltre a Mulvey, E.A. Kaplan (a cura di), Women in Film Noir, London, BFI, 1978; M.A. Doane, Femmes fatales, trad. it. parziale, Donne fatali. Cinema, femminismo, psicoanalisi, Parma, Pratiche, 1995. 35
36 Per un’interpretazione psicoanalitica del film cfr. C. Johnston, Double Indemnity, in Kaplan (a cura di), Women in Film Noir, cit., pp. 100-111. 37
Cfr. A. Bazin, Evoluzione del western, in Id., Che cosa è il cinema?, a cura di A. Aprà, Milano, garzanti, 1986.
Cfr. A. Bazin, Montaggio proibito e William Wyler o il giansenista della messa in scena, ivi; J.-L. Comolli, Tecnica e ideologia, Parma, Pratiche, 1982; Bordwell, On the History of Film Style, cit. 38
39
Ibid., p. 163.
40
Ibid., pp. 163 ss.
P. Rabinowitz, Black & White & Noir. America’s Pulp Modernism, New York, Columbia University Press, 2002, pp. 25-59. 41
42
Dimendberg, Film Noir and the Spaces of Modernity, cit., pp. 67-68.
43
Polan, Power and Paranoia, cit., pp. 193-196.
Evidentemente questo è uno dei tanti casi in cui la traduzione italiana del titolo perde completamente il senso originale. 44
45
J. Place, Women in Film Noir, in Kaplan (a cura di), Women in Film Noir, cit., pp. 35-54, 41.
46 Sullo stile visivo del film si veda la bella analisi di G. Carluccio, L. Cena in Otto Preminger, Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp. 62-66. 47 È indubbio che a questo proposito La finestra sul cortile si è nutrito dell’iconografia noir, anche se il film è stato girato completamente in studio. Il complesso che L.B. Jefferies vede dalla sua finestra è un tenement house, una casa popolare uguale a quelle che si vedono in molti noir, come per esempio in Sui marciapiedi e Grattacielo tragico. Ma ancora più importante è il motivo narrativo e iconico al tempo stesso di un personaggio che vede accidentalmente dalla propria finestra un omicidio o un indizio importante, per esempio qualcuno che esce di soppiatto. È il caso dei due film appena citati, ma anche di The Window (La finestra socchiusa, T. Tatzlaff, 1949). Da ultimo, nel film di Hitchcock opera ancora in modo determinante l’opposizione tra il quartiere povero e quello ricco, tra il Greenwich Village di James Stewart e l’Upper East Side di Grace Kelly. Su New York e La finestra sul cortile si veda J. Sanders, Celluloid Skyline. New York and the Movies, New York, Alfred A. Knopf, 2003, pp. 228-241. 48 Un esempio paradigmatico di questo modello è il rapporto tra Van Heflin e Lizabeth Scott in The Strange Love of Martha Ivers (Lo strano amore di Martha Ivers, L. Milestone, 1946), film di rara disperazione in cui, tuttavia, i due alla fine trovano un po’ di pace.
5. LE (DIS)AVVENTURE DEL DESIDERIO FEMMINILE NEL WOMAN’S FILM DEGLI ANNI QUARANTA
DINAMICHE PSICHICHE E SCENARI SOCIALI DEL FEMMINILE
Nel secondo dopoguerra le forme del desiderio femminile assumono tratti spiccatamente innovativi, e al tempo stesso problematici, rispetto agli anni del conflitto bellico, quando le donne, al pari degli uomini al fronte, si sacrificano per l’interesse nazionale lasciando momentaneamente in secondo piano le aspirazioni personali. L’abbandono della sfera domestica e l’entrata in quella pubblica e lavorativa si erano progressivamente consolidati a partire da fine Ottocento e sino agli anni venti, mentre gli anni della depressione avevano visto un parziale arretramento delle conquiste femminili. Con la guerra la condizione della donna americana muta nuovamente: le donne sono costrette a occupare spazi e ruoli solitamente destinati agli uomini, ma rimasti vacanti con l’invio delle truppe in Europa. L’immagine di Rosie the Riveter è la figura femminile più forte del tempo: inventata da Norman Rockwell per la copertina del «Saturday Evening Post» del 29 maggio 1943, raffigura una donna bianca di circa trent’anni, muscolosa e vestita con la tuta da lavoro, in un momento di riposo. Rosie sta mangiando un sandwich e tiene in grembo un utensile industriale, mentre sulla fronte porta un paio di occhiali da lavoro. Ma sta anche calpestando una copia di Mein Kampf: il contributo della donna alla guerra è dunque molto evidente, e il suo lavoro nell’industria bellica risulta speculare e funzionale a quello degli uomini sui campi di battaglia. Nelle settimane e nei mesi successivi l’immagine di Rosie the Riveter viene riproposta in diverse versioni in poster, riviste e film con fini propagandistici, e con il diretto contributo del governo federale, al fine di invitare le donne a impegnarsi per il paese nello sforzo bellico. L’immagine negozia attentamente codici della femminilità e della mascolinità: da un lato, infatti, deve convincere le donne ad abbandonare la sfera domestica e andare a lavorare nell’industria pesante, ovvero a ricoprire un ruolo tradizionalmente maschile; dall’altro è fondamentale che le donne capiscano che la loro partecipazione deve essere for the duration, solo per la durata della guerra. Dunque, la strategia di attenuazione delle differenze di gender, con Rosie talmente forte e muscolosa da sembrare quasi un uomo, non deve marginalizzare troppo la femminilità della donna, pena la concreta possibilità che essa si sostituisca veramente all’uomo1. Ipotesi storiche verificate a più riprese sostengono che l’esperienza dell’home front ha in realtà reso poco desiderabile per molte donne il rientro a casa. Ciò che può essere iniziato come sacrificio e necessità si è rivelato di ben altro segno, contribuendo ad alimentare quel processo di autodeterminazione del soggetto femminile iniziato qualche decennio prima. In un intervento pubblicato nell’agosto del 1944, quando la fine della guerra era imminente, e intitolato Woman’s Place After the War, Eleanor Roosevelt si chiede se «le donne vorranno tenere i loro impieghi dopo la fine della guerra». Anche se «potrebbero sfruttare in futuro» le abilità acquisite probabilmente non lo faranno «se hanno una casa e una famiglia che le richiamano a un tipo di vita diverso». Se la First Lady lega il destino lavorativo delle donne all’effettiva futura disponibilità di lavoro, non sembra disponibile a sacrificare facilmente il desiderio femminile di autorealizzazione. Nel decennio precedente Eleanor Roosevelt aveva sostenuto con grande forza la necessità di incoraggiare il lavoro femminile, a dispetto delle opposte politiche del marito2. E ora, infatti, non dice mai che le donne dovrebbero lasciare il posto agli uomini, perché nonostante «il primo obbligo del governo e dell’economia sia di assicurarsi che ogni uomo nelle condizioni di lavorare abbia un lavoro, e che ogni donna che ha bisogno di un lavoro l’abbia […] dobbiamo lottare affinché […] ogni persona che desideri lavorare […] abbia la possibilità di lavorare a
qualcosa che la soddisfi da un punto di vista creativo»3. Mi sono soffermata su questo breve scritto perché riesce, in uno spazio piuttosto limitato, a far emergere i tratti più significativi del discorso del tempo sulla condizione femminile. L’abile costruzione retorica mette in luce non solo il punto di vista liberal dell’autrice, ma anche quello reazionario e restauratore, che mira a far tornare tra le mura domestiche le donne e che, com’è noto, sarà quello dominante. L’argomentazione di Eleanor Roosevelt è interessante perché parte da riflessioni di ordine economico e biologico che paiono «oggettive» per poi spostarsi verso livelli di discorso più ampi, per esempio quello della realizzazione personale, che mettono radicalmente in discussione l’oggettività dei primi dati. Tale spostamento consente di pensare il soggetto femminile come agente del proprio desiderio al di fuori del ruolo materno e dello spazio domestico. Se durante il periodo bellico l’interesse nazionale aveva posto in secondo piano rivendicazioni di gender, anche in virtù delle nuove possibilità che il conflitto stesso aveva offerto alle donne, nel dopoguerra il desiderio di emancipazione è forte. Il pluripremiato film di William Wyler, Mrs Miniver (La signora Miniver, 1942), offre un’immagine paradigmatica del rapporto gender/guerra secondo i parametri del sacrificio. Nella parte iniziale del film, quando ancora il conflitto non è iniziato, il signore e la signora Miniver, coppia altoborghese che vive in una villa della campagna poco fuori Londra, ha ancora alcuni tratti della coppia screwball. Sofisticati, affiatati e complici, nonostante i molti anni di matrimonio, i due sono altresì accomunati da un ulteriore aspetto, indispensabile al loro stile di vita: i coniugi Miniver sono innanzitutto dei convinti consumers, amanti delle cose belle e costose che acquistano in segreto l’uno dall’altro. L’inizio del film, siamo nel 1939, quando ancora la gran Bretagna non è entrata in guerra, ci mostra Kay Miniver tra l’affrettato e l’indeciso salire su un autobus nel centro di Londra, poi scendere, avendo cambiato idea, e correre tra il traffico caotico di mezzi e pedoni verso un negozio nella speranza di trovare ancora un meraviglioso e bizzarro cappellino che non aveva avuto il coraggio di acquistare [34]. Poche inquadrature ci consentono di dedurre che l’impulso di Kay si verifica di sovente: la proprietaria del negozio aveva messo da parte l’articolo convinta che la donna sarebbe tornata a comprarlo. Quando Kay ammette un po’ colpevolmente «I do like nice things» (Mi piacciono molto le cose belle), si palesa con evidenza il fatto che il piacere per quel cappellino è forse il retaggio del desiderio di eccentricità che aveva caratterizzato il personaggio femminile della commedia sofisticata: basti pensare al copricapo di Rosalind Russell in La signora del venerdì e all’insensato nastro che pende attorcigliato dai capelli di Katharine Hepburn in Susanna. Ma il desiderio di curare il proprio look è anche un modo per la donna di ricavarsi uno spazio tutto per sé, di attivare un desiderio per se stessa, diverso dal ruolo materno e domestico. E certo non è secondario che la metropoli sia il luogo dove piacere e desiderio vengono soddisfatti: l’energia caotica e il movimento della città, ben resi dai movimenti di Dolly sulle folle agitate, verranno sostituiti dalle inquadrature più sobriamente classiche della tranquilla e agiata cittadina borghese di Belham dove la famiglia Miniver vive. Contemporaneamente a Kay, il marito decide di comprare una costosa macchina sportiva decappottabile. Ma il consumo facile e l’amore per il superfluo e lo spreco sono atteggiamenti incompatibili con il sacrificio necessario in guerra. Quando il paese entra in guerra, Kay deve accantonare l’amore per il non necessario e l’eccentrico, ma così deve rinunciare anche a ogni possibilità di autonomia. La protagonista perde i tratti di indipendenza che la caratterizzano all’inizio e assume atteggiamenti e movenze più tradizionali, per esempio vestendo abiti molto sobri e rinunciando a oggetti e addobbi frivoli. La funzione di madre e moglie diventa totalizzante: le immagini più memorabili sono quelle della madre protettiva che nel rifugio sotterraneo antiaereo veglia con il marito i bambini sotto i bombardamenti notturni [35]; oppure quella di moglie timorosa che si affaccia all’alba a vedere se il marito torna incolume dalla spedizione a Dunkerque. Stephen Jay Schneider ricorda che non solo il film è fortemente interventista, ma «fa sembrare la famiglia un’istituzione che vale la pena difendere»4. E certo non è un caso che il titolo del film non contenga il nome di battesimo della protagonista, come per esempio nei famosi Stella Dallas e Mildred Pierce, woman’s film in cui il personaggio femminile si ribella al ruolo tradizionale
assegnatole, ma contenga solo il cognome del marito a sottolineare la condizione di donna sposata della protagonista.
34. La signora Miniver (W. Wyler, 1942).
35. La signora Miniver (W. Wyler, 1942).
In effetti si potrebbe dire che La signora Miniver è una sorta di anti-woman’s film, se con tale formula intendiamo quel genere, che trova la sua massima espressione negli anni quaranta, in cui il desiderio e le dinamiche psichiche femminili palesano una volontà di autonomia dalle norme stabilite. Nella nostra analisi useremo il termine nell’accezione più ristretta di Mary Ann Doane piuttosto che in quella di Jeanine Basinger, che gli attribuisce un raggio d’azione talmente ampio da fargli perdere alcuni importanti tratti. Per Basinger il woman’s film «pone al centro del suo universo una donna che tenta di venire a patti con problemi emotivi, sociali e psicologici specificamente connessi al fatto di essere donna»5. Secondo Basinger non si tratta di un genere e non va confuso con il melodramma, perché altrimenti si finirebbe per eliminare quasi la metà dei film, come «le commedie della donna in carriera interpretate da Rosalind Russell, le biografie musicali di donne realmente vissute» ecc.6. Per quanto utile possa essere questa prospettiva, essa sembra avere un difetto di fondo che in parte la invalida: ovvero è una definizione talmente vasta da non consentire di differenziare film diversissimi. È come raggruppare in un unico genere i film che hanno un protagonista maschile. Al contrario, in una prospettiva simile a Doane7 consideriamo woman’s film quelli in cui il desiderio del soggetto femminile si manifesta in forme socialmente trasgressive e in cui la donna cerca una traiettoria di emancipazione e ridefinizione del proprio ruolo sia nel contesto familiare che in quello pubblico. Il desiderio femminile è sempre, almeno in parte, destinato allo scacco, ovvero l’esito parzialmente positivo del tentativo della donna di mutare il proprio destino è segnato dalla perdita di ciò che le è più caro. In particolare, costruiti attorno a scenari esplicitamente freudiani, tali film mostrano l’incompatibilità tra la «corretta femminilità» di cui parla Freud e altre forme del desiderio. Il ruolo materno e la passività femminile, per esempio, risultano essere incompatibili con forme di soggettività attiva in cui la donna si costituisce come soggetto sessuato, oltre la funzione di madre, e cerca un’autonomia economica al di fuori del matrimonio, anche esautorando l’uomo e prendendone il posto. Amore sublime e Il romanzo di Mildred sono i film più significativi al riguardo e non a caso sono stati tra quelli più analizzati e
dibattuti soprattutto nell’ambito della FFT. In particolare, il film di Curtiz, e la famosa interpretazione di Joan Crawford nei panni della protagonista, riassumono tutti i tratti appena elencati: Mildred è costretta a lavorare per sostenere la famiglia in gravi difficoltà economiche per l’incapacità del marito di trovare lavoro. Lasciata dal coniuge, Mildred si trova a dover mantenere le due figlie. Dopo avere iniziato come cameriera, apre un proprio ristorante e gli affari prosperano a tal punto che la donna diventa una vera imprenditrice, proprietaria della catena Mildred’s. Ma il successo economico non è sufficiente a riguadagnare l’affetto della figlia maggiore, che ha di nascosto una relazione con il secondo marito della madre. Falsamente incolpata della morte dell’uomo, Mildred riesce alla fine a dimostrare la propria innocenza, pena, tuttavia, l’atroce scoperta che la figlia è colpevole dell’omicidio. Persa in precedenza la figlia più piccola, morta di malattia, Mildred ora perde anche Veda. Nonostante nel finale la donna sembri reiniziare una relazione con il primo marito, la sua sconfitta è totale. Ed è difficile non leggere metaforicamente la traiettoria complessiva della donna: emancipatasi sia dal ruolo di moglie sottomessa che di madre sofferente, Mildred viene punita per essere riuscita a configurare per sé un modello nuovo e trasgressivo in cui, tra l’altro, la vera soulmate della donna è la fidata collaboratrice e amica Ida. Come Venere bionda, Il romanzo di Mildred configura infatti non solo la marginalizzazione del soggetto maschile, incapace di svolgere le proprie funzioni, ma anche l’istituzione di una possibile genealogia femminile in cui le donne si identificano con l’esperienza di altre donne. Ma questa traiettoria viene interrotta perché il rapporto madre/figlia fallisce e Veda non giunge a identificarsi con la madre. Il rapporto tra Mildred e la figlia costituisce un esempio paradigmatico del modo in cui il cinema hollywoodiano ha rappresentato la relazione tra madre e figlia, sistematicamente messa in scena sotto il segno della conflittualità. L’immaginario cinematografico ha inconsciamente seguito e alimentato le note tesi freudiane sull’Edipo e sulle dinamiche del triangolo familiare, riproponendo scenari che rispettano, ancorché in versione semplificata, le riflessioni della psicoanalisi ufficiale, la cui diffusione negli Stati Uniti ha riguardato non soltanto medici e specialisti, ma anche un’audience di massa, coinvolta nell’esperienza attraverso trattati e manuali fai-da-te che hanno popolarizzato i concetti principali della disciplina. Si tratta di un episodio di indubbio fascino e interesse della storia della psicoanalisi, noto come pop psychoanalysis, cui è utile fare riferimento8. Nel woman’s film la messa in scena del desiderio femminile è totalmente implicata con la psicoanalisi e costituisce un elemento imprescindibile nel definire la convergenza sull’immagine della donna tra dinamiche testuali e dinamiche sociali. Il woman’s film degli anni quaranta rappresenta la forma culturale più efficace per raccontare «il problema della donna», in particolare il discorso che si è sviluppato nell’ambito della «psichiatria psicoanalitica americana». Secondo Janet Walker, che alla questione ha dedicato un importante studio, le «due istituzioni», la psichiatria psicoanalitica e il cinema hollywoodiano, in un preciso momento storico, tra la seconda guerra mondiale e la metà degli anni sessanta, «sono state assolutamente centrali alla formazione della psicosessualità femminile e all’esperienza quotidiana delle donne». Sulla malattia mentale femminile si sono sviluppati discorsi e pratiche attraverso una miriade di testi – film, ma anche altre forme della cultura popolare, come riviste, manuali, pubblicistica di varia natura – e di contesti – la psichiatria organizzata, gli ospedali psichiatrici, l’istruzione. La relazione fra testi e contesti è tale, secondo Walker, che i primi ci consentono «di conoscere i secondi»9. Non tutti i woman’s film hanno come soggetto del racconto la malattia mentale femminile e il rapporto tra paziente e medico in un contesto ospedaliero. Quasi sempre tali elementi rappresentano una fase particolare del racconto. Solo in alcuni casi la diegesi riguarda esclusivamente la malattia della donna e si sviluppa all’interno dell’istituzione psichiatrica. In La fossa dei serpenti la protagonista, interpretata da Olivia de havilland, viene internata in un ospedale per malati mentali e sottoposta a una serie di trattamenti che alla fine sembrano avere successo. Anche in Possessed (Anime in delirio, C. Bernhardt, 1947) la parte al presente vede la protagonista,
interpretata da Joan Crawford, sempre nel lettino dell’ospedale dove è stata portata all’inizio, mentre i lunghi flashback, che costituiscono la parte più significativa del film, mostrano le cause che hanno reso folle la donna. Il rapporto tra malattia psichica femminile e cura è centrale anche in The Three Faces of Eve (La donna dai tre volti, N. Johnson, 1957). Il film presenta un caso di personalità multipla, reso splendidamente da Jane Woodward, e mostra come le questioni del woman’s film degli anni quaranta si siano esemplarmente fuse con quelle del family melodrama del decennio successivo, a testimoniare una correlata ma diversa convergenza storica fra testo e contesto. Negli anni cinquanta, come vedremo nel sesto capitolo, l’istituzione familiare, in particolare il modello della suburban family, è un’immagine talmente dominante da rendere necessariamente marginale la rappresentazione dell’autonomia femminile. O forse, è più corretto dire che l’autonomia femminile è meno possibile e, dunque, viene poco rappresentata. In altri film, alcuni dei quali saranno analizzati nelle pagine che seguono, la malattia mentale della donna costituisce un aspetto fondamentale, ma non l’unico della diegesi. La malattia e la cura sono snodi importanti nel più complesso processo di costruzione e/o trasformazione del soggetto femminile, anche al di fuori dei rigidi parametri del matrimonio e della famiglia. In altre parole, la cura può essere il viatico per un cambiamento radicale della condizione della donna, in quanto le apre possibilità prima insperate. In Now, Voyager (Perdutamente tua, I. Rapper, 1942), per esempio, la protagonista, Bette Davis, riesce prima a liberarsi dal dominio dell’autoritaria madre, e in seguito a costruire il proprio desiderio al di fuori del matrimonio, scegliendo una vita da single senza tuttavia rinunciare al ruolo materno. In Whirlpool (Il segreto di una donna, O. Preminger, 1950), dove le dinamiche del woman’s film sono intrecciate con quelle del thriller, la protagonista, gene Tierney, è una ladra sposata a un famoso psicoanalista. Troppo interessato alla propria carriera, il marito non si accorge del problema della moglie, su cui invece ricadono le attenzioni di un misterioso ipnotizzatore. L’uomo fa credere alla protagonista di volerla curare tramite l’ipnosi, ma in realtà si serve di questa tecnica per farla accusare di un omicidio da lui stesso perpetrato. L’assassino viene alla fine scoperto e la donna scagionata: a quel punto il marito comprende di dover curare la moglie per aiutarla a sconfiggere la propria pulsione. Paradossalmente, il forte narcisismo aveva impedito all’uomo di vedere che la persona a lui più vicina aveva bisogno delle stesse attenzioni riservate ai suoi pazienti. Dopo essere stata vittima della cura sbagliata, la donna potrà guarire grazie alle capacità terapeutiche del marito. In Johnny Belinda (J. Negulesco, 1948) la protagonista, interpretata da Jane Wyman, è sordomuta, e la natura dell’handicap richiede una traiettoria di trasformazione in parte difforme da quella attivata negli altri film e più vicina a quella di Perdutamente tua. Le figure adulte sinora descritte sono colte in una fase in cui non riescono più ad accettare le prescrizioni della «corretta femminilità»: sono tutte donne mature e sposate la cui malattia psichica rappresenta in realtà il rifiuto del proprio ruolo e l’emergenza di un desiderio femminile diverso. La sordomuta Belinda, invece, al pari di Charlotte Vale in Perdutamente tua, è una bambina che deve diventare adulta: si tratta, in altre parole, di accedere alla sessualità e alla femminilità, non di ribellarvisi. La traiettoria di Belinda è tra le poche a seguire correttamente l’ipotesi di Freud10. In relazione al rapporto fra testo e contesto, tra film e psicoanalisi, non è evidentemente necessario che il film tratti la malattia mentale e il rapporto paziente/medico affinché un’interpretazione del desiderio venga avanzata. Se da un lato i film sulla malattia mentale femminile costituiscono un corpus nutrito e fondamentale del woman’s film, in molti altri la questione del desiderio femminile non viene sanzionata dall’istituzione medica. In questi casi l’interpretazione psicoanalitica dovrà mettere in gioco il rapporto fra il contenuto manifesto e il contenuto latente del film, appoggiandosi alle tecniche analitiche che consentono di scorgere nel dispositivo narrativo una messa in scena dell’inconscio. Si tratterà, in altre parole, di psicoanalizzare sia il personaggio che il testo nella sua complessità.
Prima di presentare la tipologia del genere, così come verrà analizzato nelle pagine seguenti, è utile precisare che cosa si intende per psichiatria psicoanalitica e quale sia il rapporto tra le due discipline nel contesto americano. È stato spesso notato che la rappresentazione della pratica psicoanalitica nel cinema hollywoodiano è non solo semplificata, ma palesemente erronea. Per esempio lo psicoanalista può somministrare medicinali oppure usare l’ipnosi o ancora l’elettroshock. In realtà, come fa notare Janet Walker, più che di palesi errori da parte di sceneggiatori e registi sprovveduti, si tratta di scelte narrative che in fondo rappresentano, certo non la lettera, ma almeno lo spirito, la specifica natura della psicoanalisi americana, «la cui caratteristica chiave è l’imbricazione profonda con la psichiatria organizzata. La psichiatria e la psicoanalisi americane crebbero insieme e ognuna rafforzò l’autorevole statuto dell’altra». La popolarizzazione di queste complesse pratiche provoca una necessaria semplificazione non solo delle singole discipline, ma anche del loro rapporto: così nelle riviste di largo consumo, come nel cinema, si afferma la tendenza a «fondere le varie discipline della psiche umana senza che si specifichino attentamente le distinzioni pertinenti che si sottolineerebbero nella letteratura accademica e professionale»11. Tra i film considerati, La fossa dei serpenti è forse quello che risente in modo più marcato di questa tendenza: il medico sottopone la protagonista a ripetute sedute di elettroshock, ma con la stessa determinazione e costanza la interroga sul proprio passato facendola, alla fine, risalire all’evento che avrebbe causato il suo stato attuale. Nonostante la presenza di tecniche eterogenee, tuttavia, qui (nel woman’s film), come nel noir, è il discorso psicoanalitico, più che quello psichiatrico, che spiega le traiettorie e le forme del desiderio umano. L’idea che la causa della malattia si trovi in un evento del passato avvenuto in ambito familiare e ormai sedimentato nell’inconscio – e inaccessibile alla coscienza – guida la logica narrativa di questi film. Indipendentemente dalla mescolanza delle terapie, è l’abreazione dell’evento traumatico che determina la guarigione. La psicoanalisi cui questi film fanno riferimento è, sostanzialmente, quella degli Studi sull’isteria (1895) di Freud e Breuer, nel senso che essi condividono le prime ipotesi freudiane sulla possibilità forte di guarigione, tramite l’analisi e l’abreazione. Lo scetticismo freudiano degli anni successivi, con l’ipotesi che in realtà «l’analisi sia infinita» (Analisi finita e infinita, 1937), non viene preso in considerazione dal cinema di questi anni, anche se le riflessioni mature di Freud sono praticamente contemporanee ai film di cui ci occupiamo. La preminenza del discorso psicoanalitico su quello psichiatrico è anche legata, come nel noir, alla tecnica narrativa dominante, il flashback. In effetti, i momenti al presente sono estremamente ridotti, a volte quasi insignificanti – in Anime in delirio, per esempio, si tratta di brevi istanti in cui la protagonista, stesa sul lettino, è priva di conoscenza –, e interrompono per poco i lunghi episodi del passato che sono il vero focus del film. Anche se la formula crisi-terapia-cura rappresenta una semplificazione del reale funzionamento della psicoanalisi, è più utile, piuttosto che dichiararla poco «realistica», chiedersi se tale strategia abbia delle ragioni e delle funzioni, ovvero quale sia il suo statuto ideologico. Nel suo già citato studio sugli anni quaranta, Dana Polan mette in relazione l’uso della psicoanalisi freudiana nel cinema con l’affermarsi di una certa opinione sulla scienza come «razionalità umanistica», come «traiettoria attraverso il caos per costruire il senso» al fine di erigere un sistema12. Secondo Mary Ann Doane la psicoanalisi serve «a convalidare modi di differenza sessuale socialmente costruiti che sono già operanti»13. Dunque, il woman’s film adotta un modello già rifiutato da Freud perché si integra con modelli narrativi esistenti, essi stessi prodotti e produttori dell’organizzazione patriarcale. Il discorso psicoanalitico ha una forma «che permette la costruzione di suspense e climax […]. Offre dunque un modello di risoluzione narrativa» pienamente in sintonia con il dispositivo narrativo hollywoodiano14. A differenza del noir, che spesso ha come esito la morte dei protagonisti, i film sulla malattia femminile hanno una soluzione in parte positiva, concludendosi solitamente con la guarigione del personaggio principale. Tuttavia, tale esito è agli antipodi rispetto alla soluzione classica, in quanto il finale non fa altro che alimentare la strategia della contraddizione che caratterizza il woman’s film e, più in generale, il cinema degli anni
quaranta. La guarigione è sempre una soluzione di compromesso e mostra che la crisi psichica del soggetto femminile può risolversi solo se la donna accetta, almeno in parte, forme codificate di desiderio, pena l’esclusione sociale. Anche nei casi in cui emergono soluzioni alternative e configurazioni del desiderio nuove, come in Perdutamente tua e La donna dai tre volti, il dispositivo centrale del film verte comunque sulle difficoltà del soggetto femminile a far emergere il proprio desiderio. In ultima analisi, il woman’s film mette in scena la femminilità come problema in un doppio legame con le strutture psichiche del soggetto e con dinamiche socio-mediali tese alla (ri)definizione della femminilità stessa. Il ruolo chiave della psicoanalisi freudiana si riscontra innanzitutto nella centralità degli scenari edipici, perno narrativo di tutti i film analizzati. Evidentemente i dispositivi narrativi del film hollywoodiano richiedono un’alta conflittualità dei rapporti intersoggettivi e l’utilizzo di concetti e dinamiche della disciplina deve essere finalizzato al funzionamento drammaturgico del testo. A tal proposito verrà di volta in volta privilegiato un aspetto o un rapporto del triangolo edipico: la prima distinzione da fare è tra film che mettono in scena il rapporto tra figlia e madre e quelli che si concentrano sulla relazione tra figlia e padre. Indipendentemente dal film, e questo è un elemento di assoluto rilievo, non si può parlare propriamente di triangolo edipico, in quanto uno dei genitori è sempre assente dalla scena. Questo è uno dei tratti più evidenti della semplificazione che le teorie psicoanalitiche subiscono, ma è chiaro che questa semplificazione è necessaria affinché il conflitto primario del racconto sia riconducibile al principio della dualità. In secondo luogo, nel caso del rapporto figlia/ madre la protagonista può ricoprire, a seconda dei film, uno o l’altro ruolo. L’analisi che proponiamo punta a evidenziare come, proprio in virtù della molteplicità delle dinamiche che a turno vengono attivate nei film, il woman’s film degli anni quaranta presenti un discorso assai coerente sulla femminilità e sul desiderio della donna, che trova riscontro in pratiche socio-culturali e dispositivi formali che nel decennio si consolidano. Rispetto al cinema degli anni trenta non è tuttavia solo l’immaginario a mutare. Le modalità di messa in scena e il dispositivo narrativo del woman’s film, del tutto paragonabili alle forme del noir, propongono soluzioni incompatibili con la scrittura classica. Il passaggio fondamentale riguarda l’abbandono del racconto oggettivo a favore della narrazione soggettiva: questa transizione trascina con sé tutta una serie di variazioni che cambiano radicalmente sia lo statuto dell’immagine che quello dell’intreccio. Il racconto della traiettoria individuale viene compiuto dal soggetto medesimo, che spesso narra in prima persona le vicende che la riguardano, la storia del tentativo di costruire la propria identità di gender. Poiché la protagonista occupa sia il ruolo di personaggio che quello di narratore, l’atto narrativo viene coinvolto e fuso con il narrato e il film risulta dominato a ogni livello dalla soggettività della protagonista. Ma il personaggio-narratore non è un soggetto razionale, definito dall’azione, piuttosto è un soggetto scisso dominato fortemente dall’inconscio, da desideri malati o illeciti, soggiogato dal ritorno del rimosso e, in ultima analisi, incapace di superare correttamente il complesso edipico. La scissione tra esperienza conscia e inconscia ha effetti sulla forma del film: in luogo della classica linearità, il racconto vede l’alternarsi di eventi presenti e passati, stati diurni e oniricofantasmatici. Ma il racconto è anche frammentato e discontinuo e presenta situazioni e rapporti intersoggettivi spesso ambigui e comunque poco trasparenti. Fra le tecniche narrative e i modi della ripresa funzionali all’emergere dell’istanza soggettiva vanno segnalati: l’uso della voce di commento della protagonista, solitamente inserita nei momenti di passaggio fra presente e passato, all’inizio del flashback, l’uso di piani ravvicinati, a riprendere il viso pensieroso della donna, mentre riflette, prima che venga inserito il flashback sulla propria storia passata, il frequente ricorso a sovrimpressioni e dissolvenze, che segnalano l’abbandono del regime temporale presente e oggettivo e il passaggio al passato soggettivo. Dal punto di vista visivo sono importanti: l’uso reiterato del contrasto fra luce e ombra, in particolare, ma non solo, sul volto della
protagonista, inquadrature dalla composizione sbilanciata, l’impiego della soggettiva e della sovrimpressione. A differenza del cinema di inizio anni trenta, in cui questa figura era legata all’eccitazione del soggetto urbano, nel woman’s film la sovrimpressione è funzionale al discorso che stiamo portando avanti: la scarsa leggibilità dell’immagine traduce lo stato psichico del soggetto, che per motivi diversi è incapace di vedere chiaramente e agire razionalmente. Di qui la presenza frequente di corpi soggiogati e impossibilitati a muoversi, in stato di sottomotricità, mentre la psiche è sottoposta a un lavoro costante. La questione dell’inconscio diventa un problema di visione: come il noir, il woman’s film – e questo è forse uno dei contributi più importanti di Quarto potere – mette in scena questioni legate alla prospettiva e al punto di vista, così che la manipolazione e la deformazione dell’immagine, dall’estremo della profondità di campo in cui tutto è (sin troppo) leggibile, all’estremo opposto della sovrimpressione offuscata, in cui non si riconosce nulla, traducono i due poli della condizione del soggetto, e dell’esperienza percettiva dello spettatore. La transizione costante tra uno stato di coscienza e uno di incoscienza, quest’ultimo viatico all’emersione dell’inconscio, registra sulla pellicola, forse in modo troppo netto, ma comunque non irrilevante, la dualità dell’esperienza soggettiva studiata dalla psicoanalisi. È la rilevanza che assumono la soggettività e l’inconscio che ci spingono, così come era avvenuto per il romanzo moderno, ad avanzare l’ipotesi che il cinema hollywoodiano più innovativo e sperimentale degli anni quaranta possa essere definito moderno. Nonostante rimanga la propensione alla risoluzione, il woman’s film non mette in scena una trasformazione lineare del soggetto femminile, ma due modi opposti di essere, tra malattia e sanità, tra stato infantile e adulto, tra ruolo subordinato e autodeterminato, lasciando intendere che la transizione alla condizione positiva è così difficile e complicata da lasciare il dubbio che, proprio come nel discorso psicoanalitico, non si compia una volta per tutte, ma sia un processo costante. EDIPO I. IL RAPPORTO FIGLIA/MADRE IN «PERDUTAMENTE TUA»
Gli scenari edipici rappresentati dal woman’s film rispecchiano, nei loro tratti di base, le formulazioni freudiane. Com’è noto, Freud ha disconosciuto l’importanza della fase pre-edipica e del ruolo materno nella formazione del soggetto, valorizzando principalmente la fase edipica e la funzione paterna. Nella prima teoria della femminilità Freud aveva affermato che la bambina ha uno sviluppo analogo a quello del maschio e che, dunque, mentre il secondo desidera inizialmente la madre, la prima trova nel padre il primo oggetto del desiderio. Solo in un secondo momento Freud ammette che anche la bambina desidera insistentemente la madre15. Pur riconoscendo la specificità femminile, per Silvia Vegetti Finzi egli non ha però «mai smentito le sue teorie sul modo con cui si diventa donna a partire dalla monosessualità infantile. Probabilmente pensava che le psicoanaliste vi avrebbero portato una integrazione e non, come invece accadde, un sovvertimento»16. Secondo il paradigma freudiano il rapporto tra madre e figlia è segnato dalla conflittualità, mentre non vi è traccia dell’amore materno incondizionato e dell’identificazione speculare che la bambina vive nei confronti della madre, e neppure del rapporto fluido e basato sulla compassione che spesso caratterizza le relazioni tra donne. Tuttavia, all’oblio cui Freud destina la madre, si affianca, suo malgrado, l’ostinazione con cui alcune isteriche hanno lottato per «divenire soggetto del proprio discorso, protagonista della propria vita»17. Per Vegetti Finzi il caso di Anna O., il famoso fallimento di Breuer, ha reso possibile quel fondamentale passaggio «dal discorso sull’isteria al discorso dell’isterica», che ha consentito una prima costituzione della soggettività femminile. La storia di Bertha Pappenheim, meglio nota come Anna O., dimostra che l’isteria ha finalità emancipatorie, in quanto la sua funzione principale è di liberare la donna «dall’autorità maschile e dai condizionamenti sociali verso l’individuazione e la soggettività»18. I sintomi isterici di Anna O. Emergono in prossimità della malattia del padre, che la giovane assiste amorevolmente per mesi. In quella situazione Anna viene a contatto per la prima volta con il corpo maschile, e la connessione tra sessualità, incesto e morte probabilmente sconvolge la sua mente. Il trauma del corpo paterno la fa regredire al
legame pre-edipico materno, ma la madre è purtroppo assente. La cancellazione della madre, simbolizzata dalla perdita della lingua d’origine tedesca, rende impossibile l’identificazione con la stessa, e così la giovane sprofonda in una rimozione irrisolvibile. In base alle informazioni fornite da Ernst Jones sembra che, in età più matura, Anna O. Sia riuscita a curarsi e si sia impegnata attivamente nel movimento femminista, lavorando soprattutto con i bambini orfani dei pogrom. Queste attività appaiono chiaramente «una sublimazione degli antichi fantasmi di amore e morte». Il rifiuto di sposarsi e avere figli viene sostituito da una serrata attività in favore delle donne e dei bambini, ed è interpretabile «come un proseguimento dell’irrisolta filiazione, come un prendersi cura del suo, mai partorito, fantasma di bambino», così come per le prostitute e le ragazze madri il lavoro è «espressione sublimata dei remoti desideri di sessualità e di generazione»19. Mi sono soffermata sul caso di Anna O. Per l’innegabile somiglianza tra l’esperienza della signorina Pappenheim e la traiettoria formativa di Charlotte Vale in Perdutamente tua. Una somiglianza che, per estensione, ci aiuta a definire in modo più dialettico e produttivo lo statuto e la funzione del woman’s film. Charlotte rifiuta il matrimonio, ma non la maternità, replicando così la ricerca di autonomia dal maschile per cui si era battuta Anna O. Questa opzione si iscrive nel più ampio raggio d’azione del genere che mira, come la cura psicoanalitica, a far emergere la voce femminile nella sua differenza rispetto ai discorsi che la vorrebbero ridurre al silenzio o ai margini. Pertanto, le strategie di contraddizione e rovesciamento del discorso patriarcale sono in sintonia con l’operazione che, agli albori della FFT, Claire Johnston e Pam Cook riscontravano nei film di Dorothy Arzner e Ida Lupino. Charlotte Vale, figlia dell’aristocrazia di Boston, è una giovane goffa e poco attraente che vive in solitudine nella propria stanza, quasi prigioniera della vecchia madre che la tratta da serva. Ma grazie alle attenzioni della cognata Lisa, che le presenta un famoso psicoterapeuta, Charlotte riesce, attraverso la cura, a emanciparsi dalla figura materna e a costruirsi una vita propria, ovvero a diventare attraente e ad avere una vita sessuale. Il film narra la trasformazione completa di Charlotte Vale da anatroccolo a cigno: dopo un periodo di cure lontana da casa la donna diventa bella, elegante e molto corteggiata [36-37]. Tornata a Boston, Charlotte non cede alle insistenze della madre di riprendere i modi sobri del passato: così finalmente si libera del dominio psicologico della figura materna. La sua vita è ormai completamente cambiata: riceve anche una favorevole offerta di matrimonio che però rifiuta perché innamorata, ricambiata, di un uomo già sposato, Jerry, con cui ha avuto una relazione nel periodo lontano da casa. Dopo la morte della madre, la protagonista, divenuta ormai padrona della grande proprietà di famiglia, decide di collaborare all’attività del medico che l’aveva curata e prende a vivere con sé Tina, la figlia dell’uomo amato, conosciuta nella clinica in cui lei stessa era stata: come la stessa protagonista, la bambina ha squilibri psicologici causati dal mancato affetto materno. Nel contorto finale Charlotte propone all’uomo di sublimare l’amore fisico e di unirsi a lei nel comune affetto per la bambina. Il desiderio del soggetto femminile, la formazione e trasformazione della sua identità di gender costituiscono il tema di base del film. Attraverso una perfetta gestione delle tecniche narrative e formali, le dinamiche dell’intreccio si fondono mirabilmente con quelle psicoanalitiche: mentre la presenza di simmetrie è una basilare norma della scrittura classica, nel film di Rapper diventano vere ripetizioni, che servono al processo di abreazione e guarigione del soggetto. Così la trasformazione della protagonista si carica di toni assai diversi da quelli classici: lungi dal narrare il processo di integrazione del soggetto nell’ordine sociale, così tipico del film classico, il film mette in scena la creazione di una soggettività autonoma rispetto alle norme dominanti, in cui l’io risulta sostanzialmente duplice, ambiguo rispetto ai codici della femminilità. La trasformazione di Charlotte implica in primo luogo il passaggio dall’invisibilità alla visibilità, passaggio quanto mai adatto al linguaggio cinematografico: la giovane vive quasi segregata nella sua stanza, mentre dopo la cura sembra avere solo una vita sociale e pubblica. Ora Charlotte, per anni dimenticata da tutti, diventa il centro di ogni ambiente che frequenta. Sin dall’inizio del film la donna è presentata come un enigma,
un mistero, e in tre scene chiave l’entrata in scena di Charlotte è preceduta dalle chiacchiere di parenti o conoscenti che parlano di lei. La donna come enigma è un topos sia della teoria psicoanalitica freudiana e lacaniana che dell’immaginario cinematografico, in particolare del cinema americano degli anni quaranta, ed è stato interpretato in relazione alla differenza sessuale, alla mancanza della donna rispetto all’uomo. Nel woman’s film tale dinamica è codificata attraverso una particolare articolazione del rapporto tra punto di vista, campo e fuoricampo. All’inizio di Perdutamente tua la conversazione tra Lisa, il medico e la madre della giovane ci informa che Charlotte Vale è una ragazza problematica, con scarsa autostima e che non esce mai di casa. La presentazione visiva della protagonista viene ritardata sfruttando in modo assai efficace la dialettica tra campo e fuoricampo. Quando il maggiordomo bussa alla stanza di Charlotte, per chiederle di scendere, vengono inquadrate le mani della giovane: Charlotte, impegnata in un lavoro di incisione, butta i mozziconi di sigaretta nel cestino e nasconde il portacenere nel cassetto. La prima immagine della protagonista, già ampiamente annunciata dall’austerità eccessiva della madre, sottolinea la sua mancanza di libertà, il suo dover nascondere al genitore, come fanno i bambini, alcuni suoi gesti o comportamenti. Quindi, nell’inquadratura successiva vengono ripresi i piedi della donna mentre scende le scale: la mdp si muove seguendo lo spostamento di Charlotte, enfatizzando così le sue scarpe sformate e sgraziate, e continuando a lasciare fuoricampo il corpo e il viso della protagonista. La curiosità dello spettatore di vedere Bette Davis aumenta, considerato in particolare lo statuto divistico dell’attrice, da anni ai vertici della sua popolarità20. L’immagine dei piedi è accompagnata dal suono della voce della madre proveniente dal fuoricampo: in particolare Charlotte sente l’espressione che la definisce il «brutto anatroccolo» di famiglia. Una successiva inquadratura ci mostra la protagonista in FI sulla porta del salone: con il suo vestito scuro a fiorellini, gli occhiali e un’acconciatura da vecchia, Charlotte appare una zitella ingrigita e l’attrice è quasi irriconoscibile. Una simile tecnica di presentazione viene impiegata quando la protagonista fa il suo esordio in pubblico completamente trasformata. Dopo un periodo trascorso nella clinica del dottor Jaquith in Vermont, Charlotte viene mandata in crociera affinché possa abituarsi a socializzare. Ma Charlotte non esce mai dalla sua cabina, alimentando così le chiacchiere sul suo conto. Tra l’altro è presente sotto falso nome, avendo preso il posto e l’identità di una conoscente, tale Miss Beauchamp. Quando finalmente deve uscire, per visitare il posto dove la nave ha attraccato, viene introdotta in modo spettacolare con una messa in scena che evoca nuovamente il mistero della donna attraverso l’articolazione del fuoricampo. I villeggianti sono sul ponte e aspettano Charlotte, l’unica a non essere ancora pronta. Si chiedono chi sia e quale sia il suo look, qualcuno dice di averla vista fugacemente e che sembra «interessante». Poi la mdp si stacca dalla folla e, mentre gli sconosciuti passeggeri volgono lo sguardo verso l’alto, inquadra un paio di scarpe bicolori molto chic. La trasformazione è già palese, ma ci viene rivelata magistralmente attraverso un bel movimento di Dolly dal basso verso l’alto che percorre il corpo della donna sino a rivelarne il volto. La tecnica rivelatoria è ancora più efficace per lo spettatore del film che non aveva avuto ancora modo di ammirare la donna. Charlotte ci viene mostrata in tutto il suo charme e il cambiamento non potrebbe essere più radicale: ora veste elegantemente, la sua figura è snella, il viso è incorniciato da un magnifico cappello che tiene raccolti i capelli. La stessa sorpresa coglierà Lisa e June – la nipote che si divertiva a prendere in giro la goffa zia – quando Charlotte sbarca al porto di New York di ritorno dalla lunga crociera. Se l’evento narrativo è simile alle due entrate in scena analizzate – la protagonista appare scendendo le scale – in questo caso lo spettatore già conosce il look e l’identità della donna, avendola seguita per tutto il viaggio e la storia d’amore con Jerry: forse per questo, perché lo svelamento allo spettatore è già stato fatto, la mdp non sfrutta il fuoricampo come in precedenza. Ma la trasformazione della protagonista è tale che Lisa e June non la riconoscono nemmeno.
36. Perdutamente tua (I. Rapper, 1942).
37. Perdutamente tua (I. Rapper, 1942).
38. Perdutamente tua (I. Rapper, 1942).
39. Perdutamente tua (I. Rapper, 1942).
Il passaggio dall’invisibilità e la marginalità sociale alla visibilità e centralità della donna passa inevitabilmente attraverso il lavoro sul corpo. Affinché Charlotte diventi un soggetto attivo è necessario che diventi oggetto dello sguardo altrui: solo così può uscire dall’oblio e dal fuoricampo e diventare protagonista delle proprie scelte e del proprio desiderio. Dunque, a nostro avviso la centralità del corpo implica dinamiche
opposte a quelle spesso evidenziate dalla FFT: mentre l’invisibilità della protagonista è legata alla rimozione della sessualità e alla subordinazione della donna al volere materno – Charlotte era una giovane dalla sessualità precoce, ma la madre l’ha costretta a lasciare il ragazzo di cui si era innamorata –, la sua visibilità implica la riscoperta del desiderio e della sessualità. La rimozione della sessualità ha reso la ragazza depressa, nevrotica, poco desiderabile e priva di narcisismo. L’abreazione dell’evento traumatico la rende invece attraente, amabile, decisa e desiderabile. Solo attraverso questo passaggio Charlotte diventa cosciente di sé come soggetto del desiderio. La felicità della donna dipende anche dall’essere oggetto del desiderio maschile. Dunque, in questo film, l’esibizione e lo spettacolo del corpo femminile non rappresentano la subordinazione della donna, ma la possibilità per la donna di diventare soggetto e di affermare la propria volontà: così la cultura materiale moderna, la moda, il make-up e la beauty culture sono strumentali alla gratificazione della donna e alla creazione stessa dell’identità femminile più che al piacere maschile21. È in questo senso fondamentale che l’accesso al corpo femminile non sia mediato da uno sguardo maschile diegetico, tanto che è possibile ipotizzare che lo spettatore ideale del film, iscritto dalle tecniche di messa in scena, sia proprio la spettatrice22. Nella scena iniziale non vi è alcuna mediazione tra l’occhio della mdp e il corpo sgraziato della protagonista. Nell’episodio della nave, quando Charlotte appare trasformata, il movimento di Dolly della mdp spettacolarizza il corpo della protagonista creando una traiettoria puramente filmica, ovvero un punto di vista altro rispetto a quello dei villeggianti che guardano la donna scendere le scale, e destinato al piacere dello spettatore in sala: mentre i turisti guardano dal basso, la mdp si muove verso l’alto; in secondo luogo, gli sguardi diegetici sono del tutto anonimi, in quanto provengono da soggetti che non hanno alcun ruolo particolare nel film e dunque non possono fungere da legame tra mdp e spettatore. Ma è il terzo episodio descritto, l’accoglienza al porto di Lisa e June, a iscrivere con grande chiarezza uno sguardo di gender femminile e ad attivare, dunque, una ricezione femminile del film. Madre e figlia prima guardano incredule l’elegante Charlotte scendere le scale della nave, poi, dopo averla abbracciata, si guardano l’un l’altra sorprese, mentre la donna è circondata da attraenti giovani uomini che la salutano calorosamente. Questa scena è costruita attorno allo sguardo che circola fra i tre personaggi femminili: Lisa e June, madre e figlia, guardano, prima sorprese, poi felici, Charlotte, quindi, approvata la sua trasformazione, diventano complici della donna, incoraggiandola ad affrontare la vecchia madre. Non bisogna dimenticare che è solo grazie all’interesse di Lisa che la protagonista ha potuto iniziare la cura rigeneratrice. Anche l’incontro risolutore con la madre è tutto giocato sulla relazione tra corpo e sguardo. Tornata a casa, Charlotte deve affrontare la reazione del genitore che non approva il nuovo look della figlia. La signora Vale ordina a Charlotte di camminare su e giù per la stanza per vederla meglio, quindi le intima di reindossare i vecchi abiti, che ha fatto stringere per adattarli alla sua figura dimagrita, e di occupare la stanza più vicina alla propria. Per un istante temiamo che la protagonista non sia in grado di affermare la propria volontà e ricada nel vecchio meccanismo, ma il timore viene subito fugato. Charlotte va nella sua vecchia stanza e comincia a cambiarsi. La madre giunge a ribadire gli ordini già dati, ma che la figlia non sembra seguire. Charlotte l’affronta affermando la propria autonomia, quindi si muove verso il fuoricampo, dietro un séparé, per vestirsi. Mentre la metà destra dell’inquadratura è occupata dalla sagoma della madre, inquadrata in MPP da dietro, nella parte sinistra vediamo il muro dietro cui sta Charlotte. Simmetricamente all’inizio, quando la figlia aveva sentito la madre definirla un brutto anatroccolo, ora la madre deve ascoltare la figlia reclamare la sua autonomia. Nel momento in cui Charlotte dice con fermezza che deciderà da sola della propria vita, lo sguardo di disapprovazione della madre non può appoggiarsi sul corpo della figlia, fuoricampo e invisibile all’occhio materno: così, l’assenza del contatto visivo replica, attraverso l’invisibilità di Charlotte, le modalità tramite cui, all’inizio del film, era stato rappresentato il rapporto conflittuale tra madre e figlia. Al tempo stesso, si può affermare che la madre perde il potere sulla figlia quando il suo sguardo non incontra più il suo corpo. Poi Charlotte riemerge dal fuoricampo, con un nuovo abito,
nero, lungo e scollato: il corpo vestito, su cui la donna poggia le camelie appena inviate da Jerry, segna ancora una volta la possibilità di autodeterminazione del femminile, l’acquisizione di una soggettività autonoma. Charlotte conquista la sua definitiva libertà quando rifiuta di indossare l’abito scelto dalla madre e veste quello acquistato a New York con Lisa. Quella sera la «nuova Charlotte» si presenterà a tutta la famiglia: i fratelli e le cognate, tutti esterrefatti dalla trasformazione della donna, non potranno che prendere atto del miracolo. Reciso il legame malato con la madre, Charlotte si incammina sulla strada della «corretta femminilità» e si fidanza con un esponente di una ricca famiglia di Boston che ha incontrato proprio grazie agli auspici materni. Alla grande ribellione segue dunque l’accettazione delle convenzioni: per una donna del suo rango il matrimonio è inevitabile e Charlotte, pur non essendo innamorata di Livingstone, gradisce la compagnia dell’uomo e sembra accettare il suo corteggiamento. Ma quando il matrimonio appare imminente la protagonista rivede casualmente Jerry e capisce di esserne ancora innamorata. Pur non potendo unirsi all’uomo, decide di comune accordo con Livingstone di rompere il fidanzamento. La vecchia madre è naturalmente contraria alla decisione: ne segue una lite che provoca la morte dell’anziana signora Vale. A questo punto Charlotte sprofonda in una nuova crisi e parte per il Vermont. Giunta nella clinica del dottor Jaquith Charlotte riconosce Tina, la figlia problematica di Jerry e di cui l’amante le aveva mostrato una foto, e le si avvicina affettuosamente [38]. Qui inizia l’ultima parte del film, in cui la traiettoria della femminilità si dirige verso mete non codificate. Già durante la crociera Charlotte si era identificata in Tina e aveva riconosciuto nell’esperienza della bambina, raccontata dal padre, la propria sofferenza di bambina privata dell’affetto materno. Così Charlotte si dedica a lei coprendola di attenzioni e amore, diventando una sorta di madre vicaria, sino a portarla a vivere con sé a Boston. Nell’ultima scena vediamo Tina scendere le scale trasformata: con i capelli raccolti e un vestitino chic va ad abbracciare il padre appena giunto a casa Vale con il dottor Jaquith. La bambina, proprio come Charlotte dopo la cura, è quasi irriconoscibile [39]. Il viaggio in crociera e la scoperta della sessualità avevano consentito alla donna di completare la formazione, arrestata dal divieto materno. Tale formazione avrebbe dovuto avere come esito il matrimonio. Charlotte, invece, sceglie la solitudine e decide, come la signorina Pappenheim, di dedicarsi alla cura dei bambini. La vediamo infatti discutere del progetto di una nuova clinica con il dottor Jaquith. Se rinuncia al matrimonio, Charlotte non rinuncia però alla maternità: Jerry, alla fine, chiama Tina «our child», sanzionando così la nuova funzione dell’ex amante. Ma è importante sottolineare che Charlotte rifiuta di continuare la relazione erotica con l’uomo e gli propone un rapporto segnato solo dal comune amore per Tina. Così Charlotte, ora che è adatta a inserirsi in società, rifiuta di entrarvi completamente, in nome dell’assoluta autonomia. In un bel saggio sul film, Elizabeth Cowie ha affermato che Perdutamente tua mette in scena il desiderio fantasmatico femminile. Il fantasma è una scena immaginata dal soggetto, che vi appare da protagonista, e in cui il desiderio stesso viene realizzato: tale rappresentazione è distorta in modi e gradi diversi dai meccanismi difensivi. Due appaiono gli elementi fondamentali di questa dinamica psichica: la mobilità delle posizioni soggettive e la centralità della scena rispetto all’oggetto. Da un lato il fantasma originario, «originario nel senso che istituisce il meccanismo del fantasma», non il suo contenuto, «è una scena in cui il bambino è presente in forma intercambiabile con gli altri partecipanti come soggetto guardante, come uno o l’altro dei genitori, o anche come la persona che scoprirà il bambino guardare». Dall’altro, il fantasma riguarda più la messa in scena del desiderio che l’ottenimento di un oggetto: «il piacere fantasmatico sta nella disposizione, non nel possesso degli oggetti. Nel sogno, e soprattutto nei racconti di finzione, le necessità narrative possono oscurare questo, perché il tipico finale mostra la risoluzione dei problemi». Ma il piacere provocato dai racconti è nel come si giunge al finale, non nel momento in cui ciò si verifica23. In Perdutamente tua, ai «normali desideri» della prima parte del film corrisponde una certa perversione nelle motivazioni e negli snodi dell’ultima parte. Il film racconta una traiettoria edipica femminile incompleta (o perversa secondo Freud):
rifiutando l’uomo amato Charlotte esclude il padre dallo scenario triangolare scegliendo il rapporto madre/figlia che diventa esclusivo e fonte di pienezza. In questa traiettoria la «buona madre» Charlotte si sostituisce alla «cattiva madre». Ma in queste trasformazioni la protagonista finisce per occupare due posizioni. Charlotte «è sia la signora Vale che Tina», vuole essere madre ma si identifica anche con la bambina: in Tina riconosce evidentemente se stessa da ragazza. Pertanto il film risulterà appagante solo se la spettatrice si identifica con i fantasmi del testo, ovvero non semplicemente con la protagonista, ma con il rapporto madre/figlia. Se invece si identifica con Charlotte il finale è deludente perché la donna rinuncia all’uomo che ama. Resta comunque il fatto che lo spettatore «rappresenta l’unico luogo in cui tutti i termini del fantasma hanno fine»24: l’esperienza di chi sta davanti allo schermo consiste nel rintracciare le dinamiche psichico-fantasmatiche nei dispositivi testuali, non nella mente del personaggio. EDIPO II. IL RAPPORTO MADRE/FIGLIA IN «IL ROMANZO DI MILDRED»
Il romanzo di Mildred affronta la questione del desiderio femminile attraverso l’esperienza tortuosa di Mildred Pierce/Joan Crawford, prima moglie e madre devota, poi madre single costretta a lavorare per mantenere le due figlie, infine donna di successo che perde gli affetti più cari. Tratto da un romanzo di James M. Cain, il film di Curtiz è uno degli esempi più alti del genere e una delle interpretazioni più riuscite di Crawford che per questo ruolo vinse l’Oscar. Il romanzo di Mildred fonde in modo assai efficace le convenzioni del woman’s film con quelle del noir: come molti noir – il modello esemplificato da La fiamma del peccato – inizia quando il destino è già compiuto e non resta che raccontarlo, come nel woman’s film il racconto e il punto di vista appartengono al personaggio femminile. Il film si apre con l’omicidio di un uomo in una villa sulla costa californiana. Nelle inquadrature immediatamente successive Joan Crawford cammina disperata nei pressi di un molo: la donna sta per buttarsi, ma l’arrivo di un poliziotto impedisce il gesto suicida. L’inizio è dunque tipicamente noir: un omicidio, una femme fatale che cammina nella notte in una strada bagnata [40]. Dall’interno di un chiassoso locale un uomo riconosce la donna e la invita a bere qualcosa. Mildred accetta le avance dell’uomo e lo porta nella casa in cui è avvenuto l’omicidio, ma pentitasi se ne va chiudendolo dentro. Lo sfortunato vede il corpo del morto e scappa mentre giunge la polizia. Arrivata a casa, Mildred viene raggiunta da due agenti che le chiedono di seguirli alla stazione di polizia. Il detective incaricato dell’indagine la informa che Monty Baragon, secondo marito della donna, è stato ucciso e che Bert Pierce, il suo primo marito, è accusato dell’omicidio. Mildred difende l’uomo, ma il detective sembra piuttosto sicuro dell’ipotesi. La donna insiste e afferma di avere commesso un errore a divorziare da lui. Quindi, seduta di fronte al detective, comincia a raccontare gli ultimi quattro anni della sua vita. Il primo flashback inizia con la fine del matrimonio tra i due: Mildred è una casalinga che per far quadrare il bilancio cucina torte per il vicinato, Bert lavora nel campo immobiliare, ma è disoccupato da tempo [41]. Inoltre ha una relazione con un’altra donna: dopo l’ennesima lite, a causa di un costoso abito comprato da Mildred per la figlia maggiore Veda, la donna caccia il marito di casa. Mildred non si perde d’animo, comincia a lavorare come cameriera, quindi, grazie all’aiuto di Wally, ex socio del marito, da sempre innamorato di lei, riesce a comprare a credito una vecchia casa per aprire un ristorante. La donna viene corteggiata da Monty Baragon, ricco decaduto da cui ha comprato il locale e, nell’unico momento di piacere che si concede, la figlia più piccola Kay si ammala di polmonite e muore. La disgrazia spinge Mildred a dedicarsi ancora di più al lavoro, soprattutto per esaudire i costosi desideri della figlia maggiore. Il locale viene inaugurato con grande successo e Bert infine concede a Mildred il divorzio. Il ristorante si afferma al punto che nel giro di poco tempo «Mildred’s» diventa una catena. Gli affari vanno a meraviglia grazie anche al lavoro di Ida, collaboratrice instancabile con cui Mildred ha anche un forte rapporto di amicizia [42]. Ma con il successo arrivano anche i guai: non solo Veda disprezza la madre, «che
odora troppo di grasso», e ambisce al mondo altolocato di Monty, ma l’uomo comincia a chiedere insistentemente soldi per pagare i propri divertimenti e quelli della ragazza. Stanca dell’uomo, di cui è stata un tempo innamorata, Mildred lo liquida con un generoso assegno, poi, dopo l’ennesima cattiveria della figlia, caccia Veda di casa. Ma dopo un viaggio di riflessione, Mildred si pente del gesto. Per riavere la ragazza a casa chiede a Monty di sposarla: solo lo stile di vita dell’uomo può convincere Veda a tornare dalla madre. L’uomo accetta a patto di diventare co-proprietario dell’attività della futura moglie. Ma una sera, dopo aver scoperto alcune trame del marito, Mildred si reca nella casa marina per parlargli e lo scopre in intimità con la figlia. Veda dice alla madre che Monty le chiederà il divorzio per sposare lei. Mildred se ne va affranta, ma quando l’uomo nega di voler sposare la ragazza Veda lo uccide. La madre promette alla figlia di proteggerla ancora una volta. Alla stazione di polizia Veda, credendo che la madre abbia detto la verità, confessa la propria colpevolezza. Quando sta per sorgere l’alba la protagonista può finalmente lasciare il palazzo: Bert è rimasto ad aspettarla e i due, rimasti soli, forse ritorneranno insieme. La struttura narrativa e l’articolazione del punto di vista indicano che, a fronte del tentativo della donna di immaginare per sé un modo di essere autonomo rispetto al maschile, il desiderio femminile viene in ultima analisi contenuto e controllato e l’autodeterminazione di Mildred ha un esito tragico. La scissione del racconto tra presente e passato non è soltanto una tecnica narrativa particolarmente efficace e ampiamente usata nel decennio: presente e passato costituiscono due diverse opzioni per il personaggio femminile e due diverse modalità del rapporto con il maschile. In realtà rappresentano due punti di vista e due mondi, espressi tramite due diversi stili visivi. In un bel saggio sul film, Pam Cook ha affermato che mentre lo stile delle brevi sequenze al presente è quello del noir, i due lunghi flashback in cui Mildred racconta la propria storia hanno uno stile visivo assai diverso, con l’immagine più illuminata e l’assenza di angoli di ripresa obliqui. Il film sembra scisso «tra il melodramma e il noir, fra il “woman’s film” e il “man’s film”, una scissione che indica la presenza di due voci, una femminile, l’altra maschile»25. Come ha mostrato Thomas Schatz studiando la storia produttiva del film, questa dualità nasce dalla scelta di utilizzare il flashback, espediente che avrebbe consentito di superare lo scoglio della censura, e dall’aver assegnato la scrittura del film a due sceneggiatori diversi26.
40. Il romanzo di Mildred (M. Curtiz, 1945).
41. Il romanzo di Mildred (M. Curtiz, 1945).
42. Il romanzo di Mildred (M. Curtiz, 1945).
Nonostante il passato, il successo di Mildred e il punto di vista femminile occupino la maggior parte del film, è significativo che i pochi istanti al presente, dominati dal punto di vista maschile – la polizia, la Legge, la verità –27, fungano da cornice, contenimento e annullamento dell’autoaffermazione femminile. Tutto ciò che Mildred è riuscita a fare diventa una parentesi passata, già finita quando inizia il film. La colpa della donna è di usurpare il ruolo maschile. D’altronde, Bert Pierce è talmente inadeguato che Mildred non ha alternativa: all’inizio del racconto al detective la donna afferma che prima di iniziare a lavorare viveva praticamente in cucina e la prima immagine del flashback è proprio della donna tra i fornelli che cucina torte. Bert non riesce a svolgere né il ruolo di padre e mantenere la famiglia, né quello di marito, visto che ha da tempo un’amante. Mildred invece non pensa che ai desideri delle figlie: forse la sua colpa è quella di averle viziate troppo, soprattutto Veda, e nel film è forse percepibile una critica alla consumer culture che ancora, peraltro, non si è affermata in modo sensibile. Tuttavia, Mildred è l’unico personaggio totalmente positivo del film: il primo marito è troppo debole e così anche il secondo. Bert non trova un impiego, mentre Monty è un aristocratico decaduto che disprezza il lavoro. Dunque, due modelli di mascolinità debole cui si contrappone la mascolinità attiva di Mildred. E l’unico rapporto di totale complicità del film è tra Mildred e Ida, collaboratrice inseparabile e lavoratrice indefessa con cui la protagonista condivide tutte le fatiche. Purtroppo, questa relazione non è sufficiente affinché si costruisca una «genealogia femminile», come in Perdutamente tua, dove Tina riesce a identificarsi con Charlotte. Veda, al contrario, non è in grado di identificarsi con la madre e anzi sviluppa una personalità opposta a quella di Mildred: alla mascolinità della madre si contrappone l’iperfemminilità della figlia. Mentre la protagonista è attiva e porta avanti l’azione, Veda è unicamente interessata a diventare oggetto del desiderio e dello sguardo maschile. Significativamente, dopo che la madre ha pagato per anni costose lezioni di piano e canto, perché la figlia diventi un’artista, Veda finirà per esibirsi in un locale notturno e intrattenere gli ospiti come una soubrette qualsiasi, davanti agli occhi esterrefatti dei genitori.
Una contraddizione forte del film, tipica della messa in scena dell’autonomia femminile in molto cinema del tempo, è che Mildred viene punita per aver rifiutato il ruolo subalterno all’interno della famiglia, «per essere uscita dalla cucina», nonostante tale trasgressione sia resa necessaria dalla debolezza maschile. Questa operazione è in perfetta sintonia con la paura che nel dopoguerra attanaglia l’immaginario sociomediale, ovvero che la donna americana non voglia lasciare il posto di lavoro e tornare tra le pareti domestiche. Nell’impossibilità di dichiarare esplicitamente la colpa della protagonista, pena la distruzione del piacere affabulatorio, il film agisce contro Mildred in modo più sottile, ma estremamente efficace, attraverso alcune opzioni di tecnica narrativa. Nonostante la polizia non creda mai alla colpevolezza di Mildred, l’inizio del film è costruito al fine di far credere allo spettatore che la donna sia responsabile dell’omicidio. Nei due piani iniziali viene inquadrata una casa sulla costa dall’esterno e da due angolazioni diverse. Nella seconda inquadratura iniziamo a udire degli spari, che continuano dopo lo stacco quando, con la terza inquadratura, viene ripreso l’uomo colpito: siamo ora in interni, l’uomo caracolla verso la mdp, poi cade. Nel piano successivo è a terra e pronuncia il nome di «Mildred» mentre dal fuoricampo l’assassino gli getta addosso la pistola. Dopo una nuova inquadratura della stanza, la mdp torna all’esterno e inquadra un’automobile che se ne va. L’episodio successivo inizia con un bel movimento di gru che scende lentamente, mentre una figura di donna entra in campo da destra camminando verso la parte esterna di un molo. Dopo avere nuovamente inquadrato la donna da dietro, con il piano 9 la mdp finalmente rivela l’identità della protagonista: Joan Crawford, vestita di un’elegante pelliccia e con un’espressione affranta dal dolore, si muove verso la ringhiera del molo. Da un lato, quindi, l’inizio nasconde l’identità dell’assassino, inquadrando l’ucciso dal punto di vista di chi spara e lasciando nell’invisibilità il fuoricampo; dall’altro, le riprese di Joan Crawford in uno spazio che sembra adiacente a quello in cui è stato compiuto l’omicidio – siamo sulla costa californiana – dopo che l’ucciso ha pronunciato il suo nome, non può che farci pensare che la donna sia l’assassina. Per certi versi l’inquadratura di Mildred assume la funzione del fuoricampo assente, quindi, la domanda che il film sembra porre non è «chi ha ucciso Monty?» ma «perché Mildred lo ha ucciso?» La colpevolezza di Mildred sembra in seguito avvalorata dal comportamento verso Wally: evidentemente la donna lo attira nella casa sulla costa per farlo incolpare del delitto. Del resto Mildred è presentata come una femme fatale – è elegante, appare nella notte, è circondata dal buio, ma con il viso ben illuminato – e l’iconografia iniziale è quella del noir. dunque, tecnica narrativa e stile visivo danno informazioni assai precise e, nonostante il film inizi con un enigma, il testo cerca di dare già una risposta. Se alla fine Veda dovrà pagare per le proprie colpe, la «falsa colpevolezza» di Mildred rappresenta in realtà un giudizio sul comportamento della madre, che non è stata in grado di educare la figlia e, dunque, è corresponsabile dei suoi atti. EDIPO III. IL RAPPORTO FIGLIA/PADRE IN «NOTORIOUS»
Come ogni film di Hitchcock, Notorious (Notorious L’amante perduta, 1946) non può essere ascritto semplicemente a un genere. Forse perché la nozione di woman’s film è meno solida e istituzionalizzata, si è spesso parlato di questo film, e di altri dell’autore, in relazione al noir28. Sovente, tuttavia, la differenza tra i due generi riguarda solo il punto di vista narrativo: mentre l’immaginario, lo stile visivo e la tecnica narrativa possono essere simili, il noir privilegia il punto di vista maschile, il woman’s film quello femminile. In questa prospettiva non è quindi improprio parlare di Notorious in relazione al woman’s film, in quanto il racconto poggia in gran parte sulla traiettoria di Alicia Huberman/Ingrid Bergman. Dietro il Macguffin della bottiglia d’uranio e della spy story, Notorious cela trame molteplici che investono il desiderio e l’identità sessuale dei tre protagonisti principali, legati da un rapporto triangolare. Come in Suspicion (Il sospetto, 1941), il film mette in scena una traiettoria edipica femminile caratterizzata da un eccessivo amore per il
padre e dall’assenza della figura materna, ovvero quella con cui il soggetto femminile deve identificarsi per maturare29. Ma la difficoltà di giungere a una corretta eterosessualità investe parimenti i due personaggi maschili, la cui identità di gender è assai debole e non è priva di un investimento omoerotico30.
43. Notorious (A. Hitchcock, 1946).
44. Notorious (A. Hitchcock, 1946).
Le dinamiche psichiche di Alicia sono doppiamente irrisolte: l’assenza del modello con cui identificarsi e, contemporaneamente, l’incapacità di sostituire il genitore amato, dell’altro sesso, con un compagno, precludono il superamento della fase edipica, che prevede, appunto, l’abbandono degli investimenti sui genitori e la loro trasformazione in una serie di identificazioni secondarie. Se l’identificazione è il principio di base della costituzione immaginaria dell’io, la sua mancata attivazione non può che arrestare lo sviluppo del soggetto o dirigerlo verso mete diverse da quelle dell’eterosessualità e della monogamia. È quanto succede ad Alicia. Alicia vive la scoperta delle attività illegali del padre come un tradimento del proprio amore, si lascia andare e diventa sessualmente promiscua: «When I found out about him, I just went to pot: I didn’t care what happened to me»31 dice a Devlin/Cary Grant. Come in Il sospetto, «la posizione del padre rispetto alla legge determina in modo deciso la sessualità (aberrante) della figlia. Nel primo caso la severità eccessiva del padre verso la legge produce una mancanza di sessualità nella figlia, nel secondo, l’infedeltà del padre verso la legge causa un eccesso di sessualità nella figlia»32. In entrambi i film il personaggio di Cary Grant è l’antitesi del padre e per questo può logicamente sostituirlo: in Il sospetto è totalmente irresponsabile mentre in Notorious è un rappresentante della legge sin troppo severo. È tramite la dicotomia padre/Devlin che vengono dunque iscritte nel testo le dinamiche stesse del complesso edipico e che, sin dall’inizio, vengono posizionati gli elementi necessari alla sua risoluzione. L’eroina deve innamorarsi di Devlin, così diverso dal padre, per riuscire a liberarsi del genitore e avviarsi a un’equilibrata femminilità. Il percorso di Alicia, e il suo ruolo nell’investigazione della Cia a Rio de Janeiro, mostrano una precisa trasformazione del comportamento della donna, che alterna fasi di passività e attività secondo un piano che conferma, in ultimi analisi, sia l’ipotesi di Freud che quella di Mulvey. Questo percorso viene attuato tramite precise opzioni di messa in scena, in particolare l’uso strutturale e strutturato della soggettiva. Considerando l’articolazione di questa figura retorica, e il rapporto tra soggetto guardante e oggetto guardato, il film appare diviso in cinque parti, con Alicia che
ricopre alternativamente la posizione di oggetto e soggetto33. Nella prima parte del film la donna è l’oggetto dello sguardo di fotografi e giornalisti, che sperano in un gossip da mettere sulle pagine della cronaca di Miami, ma anche degli agenti dei servizi che cercano di coinvolgere la donna nei loro piani per scoprire la verità sulle attività filonaziste del padre. Nella parte centrale del film i ruoli si rovesciano. Sfruttando il fascino che esercita su Alex Sebastian, Alicia si infiltra nell’organizzazione e riesce a carpire molte informazioni utili. È la donna che compie la ricerca e l’investigazione, mentre l’azione degli agenti, e in particolare di Devlin, si arresta. L’attività della donna viene espressa soprattutto tramite alcune soggettive, in cui la combinazione di sguardo e movimento della mdp disegna traiettorie di suspense assai efficaci e al tempo stesso eleganti. I momenti più memorabili sono quelli della bottiglia e della chiave [43]. Ma Alicia non ha solo un ruolo attivo maschile: è al tempo stesso in una posizione di pericolo, di vittima, sempre sull’orlo di essere scoperta. Con l’aiuto di Alicia, Devlin riesce a individuare l’ultimo tassello, l’uranio nella bottiglia. Purtroppo la donna viene però scoperta e lentamente avvelenata. Così, simmetricamente all’inizio, perde ogni possibilità di agire, diventa oggetto e vittima, in balia degli altri, guardata a vista [44]. Quando alla fine Devlin la salva, la donna è ormai un corpo informe, portata via a braccia. Nell’ultimo episodio Alicia è l’unico personaggio a non guardare, mentre Devlin prende in mano la situazione e diviene, come all’inizio del film, il protagonista attivo del racconto. Così, quando Alicia accetta finalmente le mete passive cui la destina Freud, l’uomo può tornare a ricoprire il ruolo maschile che la donna aveva usurpato nella parte centrale della diegesi. Se il paradigma freudo-mulveyiano viene in ultima analisi confermato, Notorious mostra con altrettanta evidenza che lo scambio di ruoli e posizioni è del tutto possibile. Anticipando una tendenza che si manifesta più chiaramente negli anni cinquanta, in Notorious Hitchcock avvalora la differenza tra sex e gender, fatto biologico il primo, costruzione performativa del soggetto il secondo, e mostra, forse inconsciamente, la discorsività del rapporto tra identità e gender34. LO SGUARDO DESIDERANTE DELLA DONNA IN «PERDUTAMENTE»
In Humoresque (Perdutamente, J. Negulesco, 1946) lo sguardo attivo della donna è continuo e insistente e si manifesta nell’incontrollabile desiderio erotico di Helen Wright/Joan Crawford, matura signora della ricca borghesia newyorkese, per il talentuoso e più giovane violinista Paul Boray/John Garfield. Il film mette in scena un rovesciamento totale delle tradizionali dinamiche tra femminile e maschile, sia nelle forme dell’immaginario che in quelle della messa in scena. Il desiderio della donna per l’uomo si sviluppa attraverso la subordinazione economica del secondo alla prima: Helen diventa la mecenate di Paul e lo aiuta a ottenere il suo primo importante contratto, quindi lo colma di doni sino a farne, con l’inizio della relazione d’amore, una sorta di kept man. Paul è l’oggetto del desiderio di Helen e tale dinamica viene espressa assai efficacemente attraverso un’orchestrazione spettacolare ed eccessiva delle dinamiche di sguardo. In Perdutamente l’oggetto passivo, che a ogni apparizione arresta il racconto, è l’uomo, mentre la donna è il soggetto guardante e l’agente dell’azione. Ma l’esito di questa opzione è fatale per la donna: nell’impossibilità di ottenere l’amore totale dell’uomo, che pur innamorato ha come primo interesse la musica, Helen si suicida gettandosi in mare mentre Paul è impegnato in uno dei suoi concerti.
45. Perdutamente (J. Negulesco, 1946).
46. Perdutamente (J. Negulesco, 1946).
Come Il romanzo di Mildred, il film di Negulesco ha una struttura narrativa duale basata sulla dialettica tra punto di vista femminile e punto di vista maschile. Il film di Curtiz non aveva solo riportato al grande successo Joan Crawford, ma aveva anche inaugurato lo studio style di Warner a metà anni quaranta, così fortemente sintonizzato sul noir35. Entrambi i film, come anche il successivo Anime in delirio, sempre interpretato da Crawford, declinano il woman’s film nei toni del noir e il desiderio femminile nei toni della morte36. In Perdutamente, tuttavia, l’imbricazione dei generi è ancora più complessa. All’inizio del film il grande violinista Paul Boray è in crisi e il suo spettacolo viene cancellato. L’uomo è infelice e ricorda con rimpianto la sua infanzia protetta e alimentata dall’interesse per il violino. Il flashback ci riporta alla New York degli anni venti, prima della grande depressione, e ripercorre i momenti più significativi della vita del protagonista: il primo violino acquistato dal padre, la vita di ogni giorno in un quartiere popolare lontano dal centro, tra la strada e la drogheria di famiglia, poi le prime prove in un’orchestra della città, quindi l’incontro con il maestroamico che lo aiuta a cercare un impiego. Per più di mezz’ora Perdutamente è un film biografico che si concentra sullo sviluppo della personalità artistica del protagonista. Il film cambia registro narrativo e punto di vista nel momento in cui Paul incontra Helen Wright: ora si entra nel regno del woman’s film, e la donna diventa sia la protagonista del racconto che il soggetto dal cui punto di vista la storia viene narrata. Il primo incontro, che ha luogo a una festa in casa della donna, definisce i termini entro cui si svilupperà il rapporto tra i due. Non è solo il rovesciamento del rapporto soggetto/oggetto a decretare la peculiarità dell’incontro e del film, quanto piuttosto alcune connotazioni che appaiono singolari e al tempo stesso molto efficaci. La festa è molto movimentata e Paul si è messo a suonare il piano; peraltro l’uomo è venuto al party dietro consiglio dell’amico, perché nell’ambiente potrebbe trovare i giusti contatti per un possibile lavoro. La sequenza mostra i tipici tratti visivi e formali del cinema degli anni quaranta, in particolare quelli del noir: gli spazi ampi ed eleganti sono ripresi in profondità di campo, mentre in un grande specchio si riflettono ospiti e oggetti. Attirata dalla musica Helen viene ripresa mentre si fa dare un paio di occhiali che inforca con bramosia per guardare meglio l’artista [45]. La donna si avvicina, quindi si toglie gli occhiali. L’incontro appare dunque sotto il segno dello sguardo forte della donna sull’uomo, ripreso centralmente nell’inquadratura mentre esegue la performance: se il performer è per definizione un oggetto su cui spettatori e spettatrici poggiano il loro sguardo, il gesto di indossare gli occhiali per vedere meglio qualifica lo sguardo della donna come sguardo che desidera e vuole conoscere. Ma questo gesto è significativo perché viene ripetuto più volte durante il film sino a diventare un elemento strutturale del racconto, che definisce il soggetto femminile. Gli occhiali di Joan Crawford diventano un «oggetto espressivo» che «fa parte delle relazioni sociali e dell’azione narrativa, impregnato dello stesso “spirito” del personaggio che lo tocca»37. È in questa circostanza che Perdutamente cessa di essere un film biografico e diventa un woman’s film: d’ora in poi la scena sarà occupata insistentemente da Helen e dal suo desiderio per Paul. Mary Ann Doane ha rilevato che la donna con gli occhiali è un cliché che indica «una condensazione fortemente marcata dei temi relativi alla sessualità repressa, alla conoscenza, alla visibilità e alla visione, all’intellettualità e al desiderio. La donna con gli occhiali sta a indicare intellettualismo e al tempo stesso scarsa desiderabilità, ma nel momento in cui se li toglie (un momento che, a quanto pare, dev’essere quasi sempre mostrato e che è legato alla sensualità), viene trasformata in spettacolo, nella raffigurazione stessa del desiderio»38. Gli esempi sono innumerevoli e Doane cita, tra l’altro, anche il film di Negulesco. Ma Perdutamente non sembra seguire sino in fondo il percorso descritto dalla studiosa americana, in quanto Helen non diventa mai lo spettacolo, l’oggetto desiderabile, ma resta sino alla fine una donna troppo attiva. È vero che a volte la protagonista si toglie gli occhiali, ma il gesto non qualifica mai il passaggio descritto da Doane: Helen è sempre colei che guarda, non è mai colei che viene vista, si appropria troppo dello sguardo e dunque deve sparire dalla scena. Proprio perché usa indebitamente lo sguardo, minacciando tutto il sistema di
rappresentazione basato sulla differenza sessuale, la donna con gli occhiali deve morire. Il film opera l’esclusione di Helen elevando altre due figure femminili a sostegno del personaggio maschile. La sin troppo protettiva madre di Paul, che non approva la relazione del figlio con Helen [46], anche quando questa ottiene il divorzio e può dunque sposare l’amante, e la scialba compagna di studi del giovane, la «ragazza della porta accanto» che aspetta pazientemente che il protagonista le rivolga uno sguardo, vengono sistematicamente opposte alla protagonista attraverso precise opzioni visive. Al concerto d’esordio la madre e l’amica siedono in platea, mentre Helen assiste con il marito dal palco di famiglia. Ancora una volta la protagonista indossa gli occhiali per guardare meglio l’amato, mentre il marito è mostrato nell’atto di guardare la moglie che guarda e desidera un altro uomo. Come in altri film del periodo, tra cui Laura, Gilda e The Lady from Shanghai (La signora di Shanghai, O. Welles, 1947), è presente un rapporto triangolare tra due uomini e una donna, in cui il marito o compagno iniziale della donna è immorale, anziano, ambiguo e impotente. In questo frangente Helen è visivamente privilegiata rispetto alle due figure femminili, in quanto viene inquadrata a più riprese. Tuttavia, il fatto che anche alle altre due donne venga riservato un primo piano, mentre guardano l’uomo esibirsi, segnala che il loro statuto non è inferiore a quello della protagonista. Dopo che è iniziata la relazione tra Helen e Paul, un giorno la donna giunge con gli occhiali già sul viso e con il volto ripreso per metà illuminato e per metà in ombra. La codificazione della luce è indicativa e segnala l’inizio della discesa della protagonista39. Nel concerto successivo Helen viene ripresa con un movimento di carrello che si avvicina lentamente mentre la donna appare progressivamente sempre più in ombra. La giovane gina, invece, accortasi della presenza dell’amante, scappa piangendo dalla sala. Quando il marito le concede finalmente il divorzio, Helen corre a dare la notizia all’amato impegnato a teatro nelle prove. La donna si siede lontana in platea, nell’ombra, indossa ancora una volta gli occhiali e scruta l’uomo mentre suona. Quindi gli fa recapitare un biglietto annunciando di dovergli comunicare una notizia molto importante. Ma l’uomo mostra ancora una volta l’ordine dei suoi interessi e, non sapendo di essere visto, getta via il biglietto e prosegue le prove. Per Helen è ormai chiaro che la scelta di lasciare il marito è probabilmente inutile. Dopo aver cercato invano l’approvazione della signora Boray, Helen è disperata e si reca nella villa al mare, dove la relazione con l’uomo era iniziata, mentre Paul si esibisce in un concerto. Le riprese dell’auditorium segnalano la fine della relazione: mentre Helen è assente, nel palco ora siede la famiglia del violinista, a indicare l’uscita di scena definitiva dell’amante e l’inizio di una relazione lecita approvata dalla madre. Helen, che ha rinunciato a guardare, ascolta l’ultimo concerto dell’amante alla radio. Così, incapace di occupare il ruolo femminile, la donna si dà la morte.
1 Per un’analisi della costruzione discorsiva dell’immagine di Rosie the Riveter si veda M. Dabakis, Gendered Labor. Norman Rockwell’s Rosie the Riveter and the Discourse of Wartime Womanhood, in B. Melosh (a cura di), Gender and American History Since 1890, London-New York, Routledge, 1993, pp. 182-204. 2 Cfr. B. Wiesen Cook, ER’s New Deal for Women, in Id., Eleanor Roosevelt, II. 1933-1938, New York, Viking, 1999, pp. 70-91. 3
E. Roosevelt, Woman’s Place After the War, in «click», 7 agosto 1944, ora in http:// newdeal.feri.org.
Cfr. S.J. Schneider, 1942. Movies and the March to War, in W. Winston Dixon (a cura di), American Cinema of the 1940s, Oxford, Berg, 2006, pp. 74-93, 89. Sul cinema di guerra di questi anni si veda anche G. Alonge, Obiettivo Burma!, in Id., Uno stormo di Stinger, Torino, Kaplan, 2004, pp. 101-111. 4
5
J. Basinger, A Woman’s View: How Hollywood Spoke to Women, 1930-1960, London, chatto & Windus, 1993, p.
20. 6
Ibid., p. 7.
Ci riferiamo naturalmente al volume di M.A. Doane, The Desire to Desire. The Woman’s Film of the ’40s, Bloomington, Indiana University Press, 1987. 7
8 Cfr. B. Ehrenreich, The Hearts of Men, New York, Anchor Press, 1983; J. D’Emilio, E.B. Freedman, Intimate Matters. A History of Sexuality in America, Chicago, The University of Chicago Press, 19972.
9 J. Walker, Couching Resistance. Women, Film, and Psychoanalytic Psychiatry, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1993, pp. XIII-XIV. 10 Il film è un’interessante ibridazione tra il woman’s film e il family melodrama: si può così spiegare la conquista da parte della protagonista di un ruolo tradizionale all’interno della famiglia (in primis quello materno) – preclusole all’inizio a causa dell’handicap – in luogo della consueta ribellione alle convenzioni, tipica del woman’s film. del mondo del family melodrama il film ha tutto: l’ambientazione in una small town, il clima di repressione, l’eccessiva ipocrisia della gente. 11
Walker, Couching Resistance, cit., p. 6.
D. Polan, Power and Paranoia. History, Narrative, and the American Cinema, 1940-1950, New York, Columbia University Press, 1986, pp. 162-164. 12
13
Doane, The Desire to Desire, cit., p. 46.
14
Polan, Power and Paranoia, cit., p. 164. Cfr. anche Walker, Couching Resistance, cit.
Su Freud e la femminilità si veda, tra l’altro, T. Brennan, The Interpretation of the Flesh. Freud and Femininity, London-New York, Routledge, 1992. 15
16
S. Vegetti Finzi, Introduzione, in Id. (a cura di), Psicoanalisi al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. XII.
Id., Le isteriche o la parola corporea, ivi, p. 23. Le informazioni e l’interpretazione del caso di Anna O. Sono tratte da questo intervento. 17
18
Ibid., p. 25.
19
Ibid., pp. 24-25.
Quando gira Perdutamente tua, Bette Davis ha già vinto due Oscar come migliore attrice per i ruoli in Dangerous (Paura d’amore, A. Green, 1935) e Jezebel (Figlia del vento, W. Wyler, 1938). 20
21 J. Gaines, Introduction: Fabricating the Female Body, in J. Gaines, C. Herzog (a cura di), Fabrications. Costume and the Female Body, New York-London, Routledge, 1990, pp. 1-27. 22 La questione della spettatrice in relazione a questo film è affrontata, tra l’altro, da Teresa De Lauretis in The Practice of Love, trad. it. Pratica d’amore, Milano, La Tartaruga, 1997. Come Venere bionda, Il romanzo di Mildred e pochi altri, Perdutamente tua è stato uno dei film più analizzati dagli studiosi. Oltre agli interventi citati si vedano L. Jacobs, «Now Voyager»: Some Problems of Enunciation and Sexual Difference, in «Camera Obscura», 7, 1981 pp. 89-110; R. Barton Palmer, The Successful Failure of Therapy in «Now, Voyager», in «Wide Angle», 8.1, 1986, pp. 2938; M. LaPlace, Producing and Consuming the Woman’s Film. Discursive Struggle in «Now Voyager», in C. Gledhill (a cura di), Home is Where the Heart Is, London, BFI, 1987, pp. 138-166; E.A. Kaplan, Motherhood and Representation, London-New York, Routledge, 1992, pp. 110-115. 23 E. Cowie, Fantasia, in Id., Representing the Woman: Cinema and Psychoanalysis, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, pp. 123-165, 130-133. 24
Ibid., pp. 149-150.
25
P. Cook, Duplicity in Mildred Pierce, in Kaplan (a cura di), Women in Film Noir, cit., pp. 68-82, 71.
Jerry Wald, produttore del film, lavorò con ostinata perseveranza a superare tutte le difficoltà della lunga fase produttiva e il grande successo del film deve molto al suo lavoro. Dopo avere trovato un accordo con Joseph Breen del PCA, Wald incarica catherine Turney, principale sceneggiatrice melodrammatica di WB, di scrivere il film. A quel punto, afferma Schatz, «Wald capisce che la struttura a flashback creava due storie molto diverse, un melodramma domestico e un murder mystery, che richiedevano due stili diversi e, in definitiva, sceneggiatori diversi». Così, mentre la Turner sviluppa il woman’s film, ad Albert Maltz, specialista in film d’azione maschili, viene affidato il plot noir. Cfr. Th. Schatz, The Genius of the System, New York, The Pantheon Books, 1988, pp. 414-422, 416. 26
27 Nel suo famoso intervento, Mulvey aveva sottolineato l’importanza che gli eroi di Hitchcock fossero «esemplari dell’ordine simbolico e della legge», affinché il rapporto maschile/ femminile si costituisse sotto il segno della subordinazione della donna all’uomo. Cfr. L. Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, trad. it, Piacere visivo e cinema narrativo, in «nuova dwf», 8, luglio 1978, pp. 26-41, 37. 28 Su Hitchcock e il noir si veda J. Naremore, Hitchcock at the Margins of Noir, in R. Allen, S. Ishii-gonzáles, Alfred Hitchcock. Centenary Essays, London, BFI, 1999, pp. 263-277. 29 Cfr. S. Freud, Il tramonto del complesso edipico [1924] e Alcune differenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi [1925], in Id., La vita sessuale, Torino, Boringhieri, 1970 e successive edizioni. 30 A proposito della relazione triangolare tra due uomini presunti eterosessuali e una donna, desiderata da entrambi, Eve Kosofsky Sedgwick ha affermato che questa dinamica maschera una componente omoerotica del desiderio di un uomo verso l’altro. In questo scenario la donna sarebbe il tramite dello scambio attraverso cui l’uomo potrebbe dare forma al suo desiderio per lo stesso sesso. Cfr. E. Kosofsky Sedgwick, Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire, New York, Columbia University Press, 1985. 31 «Quando ho scoperto delle sue attività sono andata in pezzi: non mi importava più nulla di quello che mi succedeva». 32 T. Modleski, The Women Who Knew Too Much. Hitchcock and Feminist Theory, London-New York, Routledge, 1988, p. 58. 33
Per un’analisi più elaborata del film si veda il mio Alfred Hitchcock. Notorious, Torino, Lindau, 2003.
Sul rapporto tra sesso e genere rinvio all’importante lavoro di Judith Butler e, in particolare, a Gender Trouble, trad. it. Scambi di genere, Firenze, Sansoni, 2005. 34
35
Cfr. Schatz, The Genius of the System, cit.
Su Joan Crawford attrice melodrammatica si veda J.-L. Bourget, Faces of the American Melodrama: Joan Crawford, in M. Landy (a cura di), Imitation of Life, detroit, Wayne State University Press, 1991, pp. 429-439. 36
37
J. Naremore, Acting in the Cinema, Berkeley, University of California Press, 1988, p. 87.
M.A. Doane, Il film e la mascherata: teorie sulla spettatrice, in Id., Donne fatali. Cinema, femminismo, psicoanalisi, Parma, Pratiche, 1995, p. 35. 38
39 Il viso illuminato o in ombra segna in modo inequivocabile il sostegno o la condanna del personaggio da parte del film. Su questa strategia in Venere bionda si veda l’analisi di Bill Nichols, per molti versi estendibile a Perdutamente. B. Nichols, «Blonde Venus». Playing with Performance, in Id., Ideology and the Image, Bloomington, Indiana University Press, 1981.
6. ECCESSO, SPETTACOLO, SENSAZIONE. IL FAMILY MELODRAMA DEGLI ANNI CINQUANTA
FORME DEL MELODRAMMA
Nel capitolo introduttivo abbiamo analizzato la funzione del melodramma nel dibattito teorico sul cinema del periodo classico. Secondo le linee di ricerca più innovative e articolate il melodramma, o meglio il modo melodrammatico, non ha costituito uno dei tanti generi della variegata produzione hollywoodiana, ma un metodo di rappresentazione alternativo a quello classico, dotato di strategie esteticocomunicative proprie, che danno risalto alle componenti emotive e pre-simboliche dell’immagine e ridimensionano la logica narrativa causale fondata, in primo luogo, sull’azione motivata del personaggio principale. In questo studio abbiamo sostenuto come i cambiamenti, l’evoluzione delle forme e del linguaggio del cinema americano, durante i tre decenni del periodo «classico» sonoro, possano essere considerati alla luce dei mutevoli rapporti tra classico e melodrammatico, nel senso che, mentre la classicità domina la seconda metà degli anni trenta, il registro melodrammatico e attrazionale caratterizza il cinema più innovativo degli anni quaranta e cinquanta. Questa mutazione si esprime attraverso nuove modalità di rappresentazione del soggetto umano, in particolare una rinnovata attenzione al corpo e alla sessualità. Il soggetto diviene il locus del desiderio inappagato, della scissione tra desiderio conscio e inconscio, dell’incapacità di agire. Ma che cosa si intende per melodramma e melodrammatico? Nonostante il termine sembri rinviare a un oggetto vasto, ma dai contorni piuttosto certi, in realtà l’analisi dell’uso e della diffusione del termine indica che il suo significato non è univoco e che esso dipende dal contesto, dal discorso in cui si viene a trovare. In ambito angloamericano vi è una differenza sostanziale tra l’uso emerso nei primi anni settanta, contestualmente all’istituzionalizzarsi dei Film Studies – e diffusosi negli anni successivi, sino a diventare il fenomeno più dibattuto e studiato degli anni settanta e ottanta –, e il significato che il termine melodramma ha assunto per l’industria cinematografica e la stampa professionale sin dagli anni dieci. Nel primo caso, a partire dal famoso saggio di Thomas Elsaesser, Tales of Sound and Fury. Observations on the Family Melodrama (1972)1 – cui si deve la prima e imprescindibile articolazione del fenomeno –, ci si riferisce ad alcuni generi o sottogeneri in cui domina il registro emotivo e sentimentale: questi film affrontano problematiche legate alle dinamiche familiari, in particolare il rapporto genitori/figli o, nella versione del melodramma materno, incentrate sulla figura della madre sofferente e spesso non sposata. Da un punto di vista formale, il family melodrama degli anni cinquanta, cui è dedicato esplicitamente il saggio di Elsaesser, mostra uno stile altamente espressivo e in cui il senso è veicolato più dagli elementi visivi e sonori che da quelli verbali e narrativi. Questo aspetto è particolarmente significativo in quanto rende conto, come vedremo in seguito, dello statuto anti-classico del genere. In secondo luogo, l’eccesso visivo del melodramma – che sfrutta in modo mirabile anche le novità tecnologico-spettacolari del periodo, come il Technicolor e i formati panoramici – è stato interpretato alla luce di dinamiche e processi psicoanalitici, contribuendo in modo determinante a sviluppare quel metodo così produttivo, per l’analisi del film, nato dalla convergenza tra estetica cinematografica, narratologia e psicoanalisi. La validità di questa proposta viene confermata da una seconda e altrettanto importante convergenza: l’ipotesi formulata dagli studiosi di cinema e quella avanzata negli stessi anni da Peter Brooks nel suo influente The Melodramatic Imagination (1976)2, condividono molti elementi fondativi. Oltre che per gli studi teatrali e letterari, lo studio di Brooks si è rivelato estremamente
influente per quelli cinematografici. Va tuttavia sottolineato che in alcuni interventi sul family melodrama vengono elaborate in modo assolutamente autonomo alcune delle intuizioni concettuali e metodologiche che stanno alla base del lavoro di Brooks. Si pensi proprio all’intervento di Elsaesser, che in realtà precede quello di Brooks, ma anche a saggi di Geoffrey Nowell-Smith e Laura Mulvey (1977) che, contemporaneamente ma autonomamente da Brooks, pongono più direttamente la questione del rapporto tra estetica e psicoanalisi3. Studi più recenti, in particolare di Steve Neale e Ben Singer, hanno allargato il campo d’investigazione sia nel metodo che nei contenuti. Un lavoro d’archivio encomiabile ha evidenziato che l’uso del termine melodramma da parte dell’industria cinematografica e della stampa professionale era riservato a film in cui predominavano l’azione, la violenza e la suspense, non il sentimento. Concentrandosi sul periodo 19381960, e consultando i periodici del settore più importanti – «Variety», «Film Daily», «The Hollywood Reporter», «Motion Picture Herald» –, Neale ha rilevato che per l’industria, i professionisti del settore e il pubblico, il termine melodramma non rinviava a «pathos, romance e domesticità, ma all’azione, l’avventura e l’eccitazione; non si trattava di generi “femminili” e del woman’s film, ma di film di guerra, d’avventura, horror e thriller, generi solitamente considerati “maschili”»4. I film canonici del family melodrama degli anni cinquanta, quali per esempio Come le foglie al vento, erano a volte definiti melodrammi, ma solo perché avevano temi «sensazionali», non per i motivi sottolineati dalla critica negli anni settanta. Per gli stessi motivi nemmeno il woman’s film è definito melodramma; il termine più comune è, semplicemente, «drama», mentre «blood and thunder melodramas» sono sostanzialmente tutti i noir5. In questo senso, osserva Neale, l’industria non fa altro che reiterare l’uso che del termine aveva fatto sin dagli anni dieci, quando venne applicato, per esempio, ai film d’avventura seriali. Questo fenomeno è stato indagato recentemente da Ben Singer in un lavoro esemplare per la capacità di fondere approccio testuale e contestuale. In Melodrama and Modernity, Singer considera il melodramma cinematografico dei primi due decenni del secolo scorso nel contesto di altre forme popolari di intrattenimento, in primo luogo il melodramma teatrale e i periodici popolari, e nel contesto della modernità e dell’urbanizzazione di fine Ottocento e inizio Novecento. Riprendendo le teorie di Simmel, Benjamin e Kracauer, Singer interpreta questa forma melodrammatica come un’espressione dell’intensità fisica dell’esperienza quotidiana del soggetto nella moderna metropoli. Il melodramma sensazionale era da un lato la versione cinematografica aggiornata del melodramma teatrale vittoriano, dall’altro la versione estetica della modernità, fatta di eccessive stimolazioni sensoriali. Lavorando su materiali iconografici dell’epoca, Singer scopre che la metropoli è rappresentata soprattutto come un pericolo: dal terrore generale per il traffico a quello particolare per il tram elettrico, e qualche anno dopo l’automobile, la vita metropolitana si configura come un assalto continuo al corpo dell’individuo. Il sensazionalismo del melodramma cinematografico – e dell’intrattenimento popolare in generale – sarebbe dunque spiegabile in questo contesto6. Nei melodrammi che dal 1907 popolano gli schermi cinematografici dominano i tratti maschili, non quelli femminili: in luogo di emozioni e complessità psicologiche vi è azione e violenza fisica, alla (finta) sicurezza dell’ambiente domestico si sostituisce il setting pericoloso della metropoli. Riprendendo la terminologia di Tom Gunning, si deve osservare che in questi film la componente attrattiva domina su quella narrativa e configura per il melodramma uno statuto anti-classico: la propensione per le sensazioni vivaci, le impressioni rapide e potenti, sovrasta l’interesse per la motivazione e la causalità narrativa, così come il ricorso all’episodicità, alle coincidenze e all’implausibilità rappresenta una sfida all’unità diegetica e allo sviluppo logico dell’azione7. Nello sforzo di trovare una soluzione di compromesso, Singer propone di vedere il melodramma come un cluster concept. Si può parlare di melodramma ogni qualvolta un testo presenta una qualsiasi combinazione di alcuni dei suoi cinque elementi costitutivi: pathos, intensità emotiva, polarizzazione morale, struttura narrativa non-classica, sensazionalismo. Mentre il melodramma hollywoodiano attiva, essenzialmente, i primi due tratti, escludendo la dicotomia morale, il melodramma d’azione spesso ribalta la
formula privilegiando la polarizzazione morale, ma escludendo il pathos8. Per esempio, i serial-queen melodramas del periodo 1912-1920, melodrammi seriali d’azione incentrati su eroine mascolinizzate, su cui si sofferma gran parte del lavoro analitico di Singer, esemplificano il secondo caso. A differenza dei melodrammi di Griffith e di quelli teatrali studiati da Brooks, dove la giovane protagonista è la vittima indifesa del villain, qui l’eroina è forte e attiva, dotata di qualità e competenze maschili. Anche se non pensato esclusivamente per un’audience femminile, il genere riflette e alimenta l’immagine della donna emancipata e urbanizzata del periodo, cui è consentito, per la prima volta, lasciare lo spazio domestico e avventurarsi autonomamente nello spazio pubblico come lavoratrice, consumer e spettatrice9. I tratti di forza e coraggio ne fanno, però, personaggi per i quali è impossibile provare pathos. Se nel melodramma orientato verso l’azione il conflitto è esterno, e si gioca nell’incontro del corpo umano con gli spazi e gli oggetti, passibili di mettere in pericolo la vita del personaggio, nel melodramma emotivo il conflitto è tutto interno al corpo dei protagonisti, o meglio, il corpo, come nell’isteria, diventa il luogo in cui il senso viene iscritto. Il corpo melodrammatico, afferma Brooks, trasforma «l’affetto psichico in significato somatico», diventando così un testo da decifrare10. Sta qui, secondo l’autore, uno degli elementi di modernità del melodramma. Al di là delle differenze sottolineate da Singer, credo si possa ritrovare nella centralità del corpo il tratto distintivo del melodramma. Solo nel melodramma, attraverso un’aesthetics of embodiment, «i significati più importanti sono inscritti sul o col corpo», mentre in altri ambiti il corpo è semplicemente dato per scontato11. È in questo senso che va vista la componente melodrammatica del noir e del woman’s film, dove l’esperienza del soggetto è innanzitutto corporea. Secondo Brooks l’emergenza dell’estetica e della retorica melodrammatica coincide con la Rivoluzione francese. Evidentemente, non si tratta di vedere il family melodrama hollywoodiano degli anni cinquanta in relazione diretta con forme melodrammatiche precedenti, quanto di leggere la centralità del corpo in questo genere attraverso un processo di storicizzazione e riorientamento di teorie sul melodramma e forme melodrammatiche precedenti12. Ci si muove, comunque, nell’ambito della modernità, nel senso non solo di Brooks, ma anche di Foucault, secondo il quale la nascita dell’uomo moderno si identifica con una serie di pratiche di controllo e sottomissione del corpo umano. Se nei serial-queen melodramas degli anni dieci, la rappresentazione del corpo rispecchia l’esperienza fisica del soggetto metropolitano, con una predilezione per corpi in pericolo e iperstimolati sensorialmente, e comunque sempre in movimento, i corpi dei family melodramas degli anni cinquanta sono leggibili alla luce di svariati fenomeni del periodo. Innanzitutto, il luogo privilegiato non sono gli esterni della città, ma gli interni di case medio e alto borghesi della provincia americana – Midwest e Sud, con in testa il Texas – in cui i protagonisti cercano di realizzare il sogno della suburban family, modello dominante dell’immaginario americano del dopoguerra. L’azione e lo spostamento nello spazio sono limitati, e limitati sono i pericoli fisici che il corpo subisce. Più che la violenza fisica, il nucleo melodrammatico sta in alcune situazioni in cui i corpi vengono compressi nello spazio e i conflitti psichico-emotivi scoppiano. All’iperstimolazione sensoriale della metropoli descrittaci da Simmel e Benjamin, qui si contrappone la sessualità repressa, legata ai rigidi modelli identitari che l’immagine della famiglia suburbana prevede, per il maschile e per il femminile. Come vedremo, tale modello ha tratti più arretrati rispetto a pratiche dell’agire e della corporeità emerse nei decenni precedenti: per esempio, la spinta a far rientrare in casa la donna è agli antipodi rispetto all’immagine della New Woman ma anche a quella della lavoratrice che, durante il periodo bellico, prende il posto dell’uomo impegnato in guerra. In secondo luogo, queste dinamiche si intrecciano con il discorso sulla sessualità proposto dalla psicoanalisi, o meglio dalla sua versione americanizzata pop. La popolarizzazione della psicoanalisi, in particolare di quella freudiana, è un fenomeno di estremo interesse, che investe la società americana sin dagli anni dieci e raggiunge l’apice negli anni quaranta e cinquanta. Rispetto alle aperture di medici e
psicologi dei primi decenni del Novecento, che incoraggiavano l’espressività sessuale13, la suburban ideology sembra segnare il passo anche se, dopo circa tre decenni, alcune conquiste sono diventate ormai strutturali. Tuttavia, l’immagine della donna come homemaker, dedita all’educazione dei figli e alle cure della casa – una villetta con giardino nei sobborghi, di ampie dimensioni e munita di tutti i confort, cui, dunque, bisogna riservare molto tempo –, pur non implicando un ritorno a una femminilità vittoriana rinvia, comunque, a un più generalizzato modello socio-sessuale in cui domina una separazione degli spazi di gender secondo la tradizionale dicotomia esterno/interno, pubblico/privato. Nel family melodrama le attività femminili si svolgono tra la cucina e il giardino, come si vede rispettivamente all’inizio di Bigger than Life (Dietro lo specchio, N. Ray, 1956) e All that Heaven Allows (Secondo amore, D. Sirk, 1955), mentre l’unico spazio pubblico riservato alle donne è il country club, presente o almeno nominato in ogni film, o sue versioni popolari, come la festa di paese di Labor day in Picnic (J. Logan, 1956). Nei rari casi in cui la donna lavora, la sua attività è incompatibile con il matrimonio o presenta una famiglia monca: oltre alla Lana Turner di Imitation of Life (Lo specchio della vita, D. Sirk, 1959), ricordiamo almeno il bel personaggio di Rosalind Russell in Picnic, una maestra di scuola che ha pagato con la singlitudine il suo desiderio di lavorare e che, pateticamente, riesce alla fine a farsi sposare con uno stratagemma tra il casuale e l’involontario. In sintonia con la teoria dell’espressività sessuale, riattualizzata in forme più scientifiche e complesse in questi anni dal lavoro di Alfred Kinsey e della sua équipe all’Indiana University di Bloomington – i famosi Report sulla sessualità maschile e femminile sono pubblicati rispettivamente nel 1948 e nel 1953 –, il family melodrama mostra che il controllo della libido ha effetti devastanti e che la sua libera espressione è necessaria all’ordine sociale. La casa è un luogo malsano, fonte di patologie psicosessuali che mettono in crisi la salute mentale dei suoi componenti e a volte anche la loro incolumità fisica: un esempio di rara efficacia è rappresentato dal tentativo di James Mason di uccidere il figlioletto in Dietro lo specchio, a causa degli effetti nocivi di farmaci. Come vedremo, il soggetto femminile e quello maschile hanno patologie simili, espresse attraverso la messa in scena spettacolare del corpo. Valga per tutti l’esempio di Picnic, dove, a fronte di un vasto mondo femminile autoreferenziale, in cui ciascuna donna presenta dinamiche psico-sessuali variamente articolate, il personaggio di William Holden concentra su di sé, letteralmente sul suo corpo, le paure e le sfide dell’uomo americano del dopoguerra. Dunque, la dicotomia maschile/femminile, pubblico/privato del paradigma brooksiano si munisce degli orpelli del periodo, offrendo una versione della forma melodrammatica in cui il rapporto tra estetica e psicoanalisi rimane senz’altro centrale. CORPO, «GENDER», CLASSE: L’IDENTITÀ MASCHILE NEGLI ANNI CINQUANTA
Nonostante differenze definitorie piuttosto marcate, lo statuto del corpo appare centrale, o quantomeno significativo, in ognuna delle formulazioni considerate. Che si tratti del corpo femminile iperstimolato e mascolinizzato della moderna metropoli di cui si occupa Singer, o del «corpo sofferente» dell’eroina virtuosa e vittimizzata di cui ha parlato recentemente Linda Williams14, o ancora, del corpo isterico di cui parlavano i teorici degli anni settanta, il melodramma e i suoi sottogeneri sono innanzitutto un body genre, per parafrasare il titolo di un altro famoso intervento della stessa Williams15. In realtà non vi è, a mio avviso, una dicotomia così profonda tra la versione dell’industria e quella della critica contemporanea, come Neale e Singer sostengono, se poniamo come centro dell’analisi il corpo nel senso inteso da Brooks. Il corpo diviene il locus dell’iscrizione dell’identità e l’identità è, in primo luogo, il risultato di pratiche sessuali e sessuate. Il corpo melodrammatico, femminile e maschile, è innanzitutto un soggetto (e oggetto) del desiderio che chiede di dare libera espressione alle proprie pulsioni, ovvero esige di poter desiderare diversamente da quanto i modelli sociomediali dominanti vorrebbero. Ma prima che il desiderio si trasformi in racconto, prima che l’io incontri l’altro, è la pulsione colta nel suo manifestarsi, visualizzata in
atteggiamenti e posture del corpo, a essere protagonista. Il family melodrama riconosce implicitamente che la sessualità è una componente centrale della natura umana16. I momenti più melodrammatici e formalmente eccessivi sono costituiti da situazioni in cui il corpo viene investito dalla pulsione. Se vogliamo trovare l’origine di questa modalità, dobbiamo identificarla, probabilmente, in The Outlaw (Il mio corpo ti scalderà, H. Hughes/H. Hawks, 1943) e soprattutto in Duello al sole, dove il corpo strisciante di Perla, fasciato di rosso o di nero, secondo i momenti, diventa sempre più un oggetto informe e animalesco, preda del desiderio mortale per Lewt17. Il film di Vidor e il personaggio di Jennifer Jones costituiscono, per certi versi, la matrice di molti melodrammi degli anni cinquanta. Basta pensare al personaggio di Marilyn Monroe in Niagara (H. Hathaway, 1953) – in particolare la sequenza in cui la diva, vestita di rosso, mostra tutta la sua carica erotica esibendosi in una melodia sensuale davanti agli ospiti del motel – e a quello di Dorothy Malone in Come le foglie al vento (1956) – soprattutto l’episodio del ballo sfrenato della donna mentre il padre è colto da infarto. È indubbio che vi sono somiglianze fortissime nel modo in cui la pulsione erotica viene scritta sul corpo delle tre dive e sull’immagine filmica. Da un lato il colore, il codice più primitivo e diretto, esprime tramite l’impiego del rosso il desiderio erotico del personaggio. Dall’altro il lavoro della mdp privilegia angolazioni sghembe, inquadrature fuori fuoco o asimmetriche, sino a far diventare il corpo femminile una macchia di colore dai contorni incerti, un puro dinamismo. Nei film di Vidor e Sirk, per esempio, vi è un piano non antropomorfico in cui il campo visivo è occupato solo dal lembo del vestito della protagonista che danza in modo sfrenato18. In questi casi c’è un recupero esplicito del sensazionalismo, del thrill tipico del melodramma muto: questi episodi sono imbevuti dell’attrazionalità primitiva, in cui si dà spazio a sensazioni brevi e intense. Evidentemente, il recupero di queste forme va storicizzato: se l’estetica del serial-queen melodrama può essere vista in relazione all’esperienza urbana della New Woman, l’ipotesi che qui proponiamo è che l’iscrizione della pulsione sessuale rappresenti la modalità storicamente specifica della componente attrazionale del family melodrama. Il processo di storicizzazione deve necessariamente coinvolgere sia la forma, la materialità della sensazione, che la sua funzione nell’atto comunicativo, dunque, in ultima analisi, l’esperienza spettatoriale. Ci sembra che questa traiettoria termini con Psycho (Psyco, 1960): il film di Hitchcock rappresenterebbe la radicalizzazione o la messa in scena più esplicita sia del lavoro sulla visione svolto dal noir, che della scrittura della sensazione portata avanti dagli anni quaranta congiuntamente dal noir, dal melodramma e, come vedremo nell’ultimo capitolo, dal musical19. La scrittura della sensazione testimonia un fondamentale cambiamento rispetto al cinema classico degli anni trenta. Così come il noir e il woman’s film, il melodramma degli anni cinquanta costituisce un modo di rappresentazione in cui torna a dominare l’immagine, la visione rispetto alla parola. E non è un caso che tutte le scoperte tecnologiche del periodo abbiano una funzione di questo tipo: dal Technicolor al cinemascope, dal suono stereofonico ai grandi movimenti di macchina, come le riprese dall’elicottero, l’immagine audiovisiva acquisisce nuovi strumenti e dispositivi che la rendono non solo più spettacolare, ma anche più autonoma rispetto al linguaggio verbale20. È in questo senso, quindi, che la teoria di Brooks risulta pienamente calzante: i colori accesi e la musica enfatica, la gestualità dei corpi, oltre ad altri elementi del profilmico, come le griglie, gli specchi e i filtri, ma anche il grandangolo e lo spazio orizzontale dello Scope che ingabbia i personaggi, costituiscono i codici principali del melodramma, capaci di significare più del linguaggio verbale. Attraverso l’uso dei codici visivi, il melodramma mostra uno «sforzo per ritrovare sulla scena qualcosa di simile al mitico linguaggio primordiale, un linguaggio tutta presenza, purezza, immediatezza. Implicito in questa proposta è senza dubbio un grande sospetto nei confronti del codice sociolinguistico esistente […] il linguaggio convenzionale dei rapporti sociali appare ormai incapace di esprimere autentici valori umani»21. Benché l’identità sessuale e di gender rappresenti la categoria più significativa, vi sono altre categorie della differenza che definiscono la relazione tra desiderio
socialmente sanzionato e desiderio non codificato. La differenza di classe è discriminante quasi quanto quella sessuale: peraltro, troviamo un’ulteriore conferma del legame con le forme melodrammatiche originarie esplorate da Brooks, il romanzo sentimentale e il melodramma teatrale, dove il binomio sesso/classe caratterizzava il conflitto tra vizio e virtù, costitutivo del melodramma stesso. Dai romanzi di Richardson all’Emilia Galotti di Lessing, da Intrigo e amore di Schiller ai melodrammi di Pixérécourt, l’intreccio melodrammatico prevedeva lo scontro fra i rappresentanti delle classi aristocratica, ormai giunta al declino, e borghese. Il villain era un libertino dai costumi sessuali e morali corrotti che attentava la virtù dell’eroina della nascente classe borghese, e la giovane doveva lottare per difendere la propria verginità, metafora della virtù della classe sociale di appartenenza22. Nei melodrammi degli anni cinquanta i termini non sono più così netti. In realtà, «il melodramma hollywoodiano non si concentra sul conflitto tra personaggi buoni e cattivi, ma piuttosto sul pathos creato da situazioni di antinomia morale in cui due o più personaggi moralmente giusti (o comunque non cattivi) scoprono che i loro interessi sono sostanzialmente incompatibili»23. L’assenza della dialettica tra vizio e virtù non segna comunque la scomparsa delle differenze di classe, che rimangono costitutive del genere: ma tali differenze significano in quanto legate a determinate pratiche sessuali. Il family melodrama non presenta, film dopo film, un unico modello del rapporto genere/classe, in cui a una certa identità sessuale corrisponde un’identità di classe. La combinatoria è assai varia e mostra una sinergia con il discorso socio-culturale del tempo. Se il modello della famiglia suburbana ha come target primario la middle-class bianca, l’analisi degli storici mostra che «nel secondo dopoguerra per nessun gruppo sociale, negli Stati Uniti, queste norme furono irrilevanti»24. La flessibilità con cui pratiche e comportamenti transitano da un soggetto all’altro, indipendentemente dal suo sesso o dalla sua classe sociale, avvalora anche l’ipotesi suggerita da Barbara Klinger, secondo cui le invenzioni formali sono il procedimento naturale tramite il quale i generi si evolvono25. Per esempio, nel caso del soggetto maschile, la virilità eccessiva può caratterizzare un ricco proprietario terriero come il capitano Wade/Robert Mitchum in Home from the Hill (A casa dopo l’uragano, V. Minnelli, 1960), oppure un soggetto di estrazione popolare come il personaggio di William Holden in Picnic, che diventa l’oggetto del desiderio delle molte donne del film. Il film di Logan è uno degli esempi più interessanti per valutare lo statuto del corpo. Va sottolineata, in particolare, la simmetria con cui vengono trattati visivamente il corpo maschile e quello femminile. Nello spazio di pochi momenti il corpo dei due protagonisti, William Holden e Kim Novak, viene esposto pubblicamente in tutta la sua materiale ed erotica bellezza, offerto allo sguardo desiderante del pubblico diegetico. Nella sfilata trionfale che la consacra Reginetta di Bellezza durante la festa di Labor day, Madge/Kim Novak viene esibita a tutta la comunità ed è costretta, suo malgrado, ad accettare la sua riduzione a oggetto erotico [47]. Mentre la sorella minore, che ha appena vinto una borsa di studio per andare al college, è il classico tomboy (maschiaccio) e patisce perché è considerata solo intelligente, Novak soffre perché tutti ne ammirano solo la bellezza. In una delle prime sequenze, mentre si guarda allo specchio afferma: «I am getting tired of only being looked at». Un problema simile affligge Hal/Holden, il cui arrivo in una cittadina del Kansas, proprio il giorno di Labor day, scuote le pulsioni sopite o represse della piccola comunità femminile composta da Flo Owens, le due figlie Madge e Milly, e la maestra elementare, interpretata da Rosalind Russell, che vive a pensione presso di loro. Messosi a sistemare il giardino della vicina di casa, per guadagnarsi vitto e alloggio, Hal si denuda ed esibisce un torso perfetto, attirando lo sguardo delle quattro donne che stanno conversando davanti alla loro abitazione. In una perfetta inversione del paradigma di Mulvey, la soggettiva ci mostra prima lo sguardo di Rosalind Russell poggiarsi interessato sull’uomo, quindi l’attraente corpo maschile; una seconda soggettiva inquadra le quattro donne mentre insieme guardano lo sconosciuto, attirate dalla sua prestante virilità. Il film si apre dunque all’insegna della mascolinità, indicando che il soggetto maschile può oramai, al pari di quello femminile, divenire oggetto dello sguardo e del piacere. Tale dinamica segnala un processo di femminilizzazione del maschio che, nella ricostruzione di Steven
Cohan, inizierebbe a fine anni quaranta con l’esordio di Montgomery clift in Il fiume rosso (1948)26.
47. Picnic (J. Logan, 1956).
48. Picnic (J. Logan, 1956).
Nelle dinamiche complessive del film, tuttavia, l’erotismo del corpo maschile significa e funziona nelle modalità appena descritte solo se visto contemporaneamente anche come un corpo «proletario», o non borghese: la sessualità di Holden è intrecciata al suo essere un uomo del gutter (di bassi natali), come gli rimprovera il ricco ex compagno di college, scialbo e poco attraente, cui il protagonista sta per soffiare la bella Madge. Alan Benson è il rampollo della famiglia che controlla le attività produttive del luogo – come gli Hadleys in Come le foglie al vento – ed è destinato a guidare l’impresa familiare e a sposare la bella ma povera Novak. Con la sua gray flannel suit sembra maturo e pronto al matrimonio, ma eroticamente opaco e poco eccitante rispetto all’amico: per Alan è impossibile competere con Hal, l’attrazione tra Novak e Holden appare subito fatale. Nell’opposizione tra la sessualità dirompente e il disordine morale di Hal, e il comportamento responsabile ma noioso di Alan, emerge l’opposizione tra due immagini contrastanti di mascolinità, le stesse che troviamo in tutti i film già evocati e che dominano il panorama sociomediale del tempo. Chiaramente, non è possibile scorgere in ogni film un dispositivo narrativo che rifletta sempre, in modo letterale, le tensioni dell’epoca o che risarcisca narrativamente sempre l’immagine positiva: il testo culturale di genere negozia i contenuti e i desideri sociali con i meccanismi formali ereditati dalla sua stessa storia, che sono in parte indipendenti dai primi. Tuttavia, il family melodrama mette in scena in modo esemplare le immagini conflittuali di mascolinità dell’epoca. Nella famiglia dei sobborghi i ruoli della donna e dell’uomo sono divisi in modo più tradizionale rispetto al periodo bellico: mentre il marito, il breadwinner, provvede al sostenimento economico della famiglia, la moglie, la homemaker, si occupa a tempo pieno della casa e della famiglia. Nel suo bel libro sulla mascolinità del periodo, Barbara Ehrenreich mostra come la costruzione dell’immagine del breadwinner sia dovuta alla convergenza di una serie di discorsi, in primo luogo la psicoanalisi, tesi a validare tale figura come «l’unico statuto normale per il maschio adulto»27. Medici, sociologi e pensatori dell’epoca ipotizzano che questo ruolo convenzionale, come quello femminile, abbia delle cause naturali. Per la psicologia
comportamentale, in particolare, il ciclo vitale culmina nella fase della maturità che implica, per il soggetto maschile, l’accettazione di una serie di compiti e responsabilità: essere responsabile e maturo, anche a un’età giovanissima – in quel periodo l’uomo americano si sposa mediamente a ventitré anni –, significa scegliere una partner, sposarsi, fare una famiglia, assumersi delle responsabilità civiche28. Il breadwinner ideale coniuga la capacità di muoversi consapevolmente nello spazio pubblico e lavorativo con doti di emotività e affettività che sviluppa all’interno dello spazio privato familiare. Non deve dunque solo provvedere al sostentamento economico della moglie e dei figli, ma anche colmarli di protettivo affetto. Si tratta quindi di un modello di mascolinità e di matrimonio nuovo in cui, certamente, la nuova consumer culture gioca un ruolo di primo piano. Fondere sensibilità e affettività con una certa virilità e capacità decisionale non è semplice. Altrettanto forte dell’immagine del breadwinner è quella di colui che si ribella a questo modello, il gray flannel rebel, come lo chiama Ehrenreich. Per molti diventa difficile, per esempio, assicurare alla famiglia lo standard di vita suggerito dal consumismo di massa del dopoguerra. Esemplare in questo senso è Dietro lo specchio. Ed Avery è un maestro di scuola che abita in una bella casa con la moglie e un figlio, a cui però il salario non basta. Così all’insaputa della famiglia si trova un secondo impiego presso una compagnia di taxi. Ma il troppo lavoro affatica Ed che una sera si sente male. All’ospedale il medico gli prescrive del cortisone di cui però l’uomo comincia presto ad abusare. I farmaci lo rendono psichicamente instabile sino a che, in un momento di follia, Ed tenta di uccidere il figlioletto. Anche se il medico darà nel finale una spiegazione rassicurante, imputando il comportamento di Avery solo all’uso eccessivo dei medicinali, il film di Ray è una chiara critica dell’ideologia suburbana, del consumismo e del ruolo del breadwinner. Nei momenti di crisi il protagonista si lascia andare ed esprime tutto il suo disprezzo per i valori che dovrebbe sottoscrivere: la permissività e la sicurezza emotiva, cardini dell’educazione del periodo, diventano petty domesticity, mentre Ed rivaluta l’autodisciplina, il senso del dovere e il duro lavoro, come dice in un discorso ai genitori dei suoi alunni che lascia tutti attoniti. Avery considera mediocre e banale la propria vita, sogna azioni eroiche e importanti [49-50]. È il segnale inequivocabile del fallimento della suburban ideology, secondo la quale, invece, proprio la serietà e la responsabilità del breadwinner sono comportamenti eroici, non banali, e rappresentano «un’accettazione dei limiti degli sforzi personali in un momento in cui l’azione su scala più vasta sembra solo sciocca o sospetta»29.
49. Dietro lo specchio (N. Ray, 1956).
50. Dietro lo specchio (N. Ray, 1956).
La figura del breadwinner è presente in modo sistematico nel family melodrama, ma la sua rappresentazione e funzione narrativa variano in modo sensibile. La critica
proposta da Dietro lo specchio è un’opzione marginale, piuttosto rara. È più comune che la suburban ideology, e con essa i ruoli del maschile e del femminile previsti, venga rappresentata in modo positivo e sia il modo di vita cui aspira la coppia superstite alla fine del film. Pur tuttavia, quasi sempre il film privilegia, attraverso tecniche di messa in scena melodrammatiche, personaggi e dinamiche segnati da un desiderio eccessivo e incontrollato, in chiaro contrasto con il comportamento serio e responsabile della coppia suburbana, cui viene riservato uno stile visivo più sobrio, privo degli eccessi stilistici melodrammatici. In molti casi sopravvive un tratto della forma originale settecentesca, poiché i membri della classe sociale più agiata e in declino, l’aristocrazia terriera o industriale, hanno un comportamento libertino ed entrano in conflitto con i rappresentanti dell’emergente middle-class, dalla moralità quasi irreprensibile. Come le foglie al vento e A casa dopo l’uragano sono esempi paradigmatici. Il film di Sirk si conclude con Mitch/Rock Hudson e Lucy/Lauren Bacall che lasciano la proprietà degli Hadley per andare a sposarsi e vivere in una bella suburban home piena di bambini ed elettrodomestici. Questa conclusione era stata motivata da un breve ma significativo scambio tra Kyle Hadley e Lucy all’inizio del film quando, alla domanda di Kyle «cosa vi ha detto la chiromante?», Lucy aveva risposto che «un giorno [si sarebbe] vestita di bianco finendo poi in un sobborgo, con un marito, molti debiti e figli». Tuttavia è innegabile che il film abbia dedicato le sue maggiori cure alla coppia scapestrata dei fratelli Hadley, Kyle/Robert Stack e Marylee/Dorothy Malone, alcolizzato e quasi impotente il primo, ninfomane la seconda. Sirk definì i due fratelli «the secret owners of the picture»: in effetti, tramite colori, musica e angolazioni di ripresa eccessive, conformi e in sintonia con l’esuberanza del loro desiderio, Kyle e Marylee diventano i protagonisti dell’immagine, mentre Mitch e Lucy sono risarciti solo dal punto di vista narrativo30 [51]. In A casa dopo l’uragano le dinamiche sono assai simili. Protagonista incontrastato dell’immagine è il capitano Wade Hunnicutt/Robert Mitchum, grande proprietario terriero abituato ad avere tutte le donne che desidera, mentre la moglie, per punirlo dei reiterati tradimenti, non gli si concede più da molti anni. Oltre al figlio Theron, Wade ha anche un figlio illegittimo, Rafe/George Peppard, che vive e lavora nella sua proprietà, ma di cui non ammette pubblicamente la paternità. Rafe è un perfetto breadwinner: affidabile, sicuro e responsabile, ma anche affettuoso e protettivo nei confronti di Libby, la donna che sposerà. Significativamente, la proposta di matrimonio avviene all’interno di un grande supermercato, pieno di prodotti di ogni tipo, ben evidenziati dall’uso della profondità di campo. Come Kyle Hadley nel film di Sirk, Wade muore violentemente, pagando in definitiva per le sue colpe. Purificato dalla presenza di una mascolinità eccessiva e fuori tempo, il mondo narrato legittima Rafe a rappresentare il nuovo stile di vita. Ora che il padre-padrone è morto, l’uomo si prende cura anche della vedova, che porta a vivere con sé: Hannah/Eleanor Parker potrà così prendersi cura del nipotino che sta per nascere. Benché la messa in scena, sia in Sirk che in Minnelli, valorizzi in modo talmente palese il personaggio negativo da spingere l’identificazione, o l’empatia, almeno in parte in quella direzione, è anche vero che entrambi i film terminano evocando l’inizio di un nuovo mondo e di un nuovo modello di vita. Il family melodrama è dunque irrimediabilmente scisso tra due traiettorie stilistiche che rinviano, chiaramente, a due diversi modi di essere del soggetto31. La figura maschile che si fa carico di validare il nuovo modello sociale e familiare appare a tutti gli effetti anche un redeemer, un salvatore che non solo elimina il villain dal sistema, ma indirizza la sessualità femminile nella direzione moralmente accettabile. All’impurità della donna si contrappone la purezza dell’uomo: sia Libby che Lucy, infatti, prima di unirsi all’eroe sono state, per loro scelta, le donne del villain, e l’intervento di Rafe e Mitch le salva dalla sicura infelicità. Rafe addirittura accetta di diventare il padre di un figlio non suo, il bambino che Libby porta in grembo: così purifica doppiamente il mondo dal capitano, scegliendo di comportarsi in modo opposto a Mitchum, che l’aveva lasciato senza padre. Anche se vittima, in passato, di soprusi o ingiustizie nell’ambito familiare, il redeemer è psichicamente poco coinvolto con la sua vita precedente, e dunque è
piuttosto equilibrato. Sotto questo profilo è profondamente diverso dai personaggi melodrammatici con cui interagisce, totalmente invischiati con il proprio passato, in balia di dinamiche edipiche e fasi regressive del desiderio. In virtù del suo equilibrio psichico il redeemer può, dunque, ergersi a guida morale per la collettività oltre che per la donna di cui si innamora. È il caso di Michael Ross/Lee Phillips in Peyton Place (I peccatori di Peyton, M. Robson, 1957), nuovo preside della High School di Peyton Place, ricca cittadina del New Hampshire, che non solo vuole introdurre metodi di istruzione seri e responsabili, cercando un equilibrio fra tradizione e innovazione, ma tenta di attirare l’interesse di Constance MacKenzie/Lana Turner, madre single della giovane Allison, che si dedica solo al lavoro e alla figlia. Constance sembra vivere nel ricordo del marito morto che la figlia non ha conosciuto, e rifiuta qualsiasi coinvolgimento erotico ed emotivo. La donna ha in realtà nascosto la verità e vive nella menzogna: Constance non ha perso il marito e Allison è il frutto di una relazione adulterina. Come Libby in A casa dopo l’uragano, Constance deve trovare un uomo che cancelli la macchia del suo passato. Dopo molti rifiuti e tentennamenti, quando Michael sta per lasciare Peyton Place la donna accetta il suo amore. Il ruolo di guida morale del protagonista maschile è suggerito sin dall’inizio attraverso alcuni espedienti retorici. L’incipit riprende elementi formali presenti in altri melodrammi del periodo: per esempio, l’inquadratura dall’elicottero delle case e della vegetazione del luogo, a sottolineare i tipici colori autunnali, sembra quasi una citazione dell’inizio di Secondo amore. Quindi la voice-over di una giovane donna viene sovrapposta a piani fissi del luogo ripreso durante le quattro stagioni. La voce ci annuncia l’arrivo del «tempo dolceamaro» della quinta stagione, quella dell’amore. Espediente poco usato nel family melodrama, la voiceover, combinata alla qualità finzionale delle immagini fisse, conferisce un sapore rétro, del tempo ormai passato, e sembra rinviare a qualcosa di ormai finito. Quindi, l’immagine riprende un’automobile che transita e si dirige verso il paese. Peyton Place e i dintorni ci vengono presentati dal punto di vista del personaggio alla guida: di lui non sappiamo nulla, ma il film sottolinea che si tratta di un racconto soggettivo e ci invita, dunque, a condividerne il punto di vista. Dopo avere superato le zone più limitrofe, l’auto giunge nel paese, talmente pulito e perfetto da sembrare una ricostruzione non camuffata [57]. Fermatosi per rinfrescarsi e chiedere informazioni presso un diner del centro, ora possiamo vedere il protagonista da vicino: come tutti i redeemers citati è un uomo nel pieno della maturità, dall’aspetto più che piacevole, e dai modi garbati e rassicuranti [58]. Michael Ross è l’opposto di Hal in Picnic, che giunge in autostop e che alla fine dovrà lasciare il luogo. Anche l’ingresso nell’edificio scolastico si presenta sotto i tratti della correttezza e dell’irreprensibilità morale. Quando va a incontrare l’insegnante più anziana – e che concorreva alla sua stessa carica – è non solo cortese e affabile, ma desideroso di stabilire con lei un rapporto di collaborazione. La dote di Ross che più colpisce è l’equilibrio: da un lato è anti-repressivo, dall’altro non è permissivo, e pensa che i ragazzi vadano educati in modo responsabile. Questo non significa che sia sessualmente inattivo: il suo interesse erotico per la signora MacKenzie si manifesta sin dal loro primo incontro, e non mostra tentennamenti, nonostante i reiterati rifiuti della donna che, come Hannah in A casa dopo l’uragano, reprime la propria sessualità. Per concludere, il redeemer appare un’estensione dell’immagine sociale del breadwinner: è un uomo maturo e responsabile che, in un curioso spostamento rispetto alle forme primarie del melodramma, è dotato di quell’integrità sessuale che originariamente era prerogativa del soggetto femminile. Così può procedere sia a eliminare il villain dalla scena che a salvare moralmente la donna.
51. Come le foglie al vento (D. Sirk, 1956).
52. Come le foglie al vento (D. Sirk, 1956).
53. Come le foglie al vento (D. Sirk, 1956).
54. Come le foglie al vento (D. Sirk, 1956).
STILE, TECNICHE, IDENTITÀ
Le dinamiche del desiderio dell’epoca si realizzano non solo in determinate strutture narrative e tipi di personaggi, ma anche in modelli formali e di messa in scena in cui hanno un ruolo preponderante le nuove innovazioni tecnologiche. Come nel caso del sonoro, l’impatto e la funzione delle nuove tecnologie non si ferma alle motivazioni che sembrano averle ispirate: entrando in contatto con forme e stili consolidati, finiscono per contribuire alla loro trasformazione, più che adeguarvisi. La diffusione dei formati panoramici, in particolare il cinemascope, e l’ulteriore investimento nel Technicolor, già ampiamente utilizzato negli anni quaranta, ma ora maggiormente impiegato dopo l’introduzione dell’Eastman color Process, sono dovuti, com’è noto, alla necessità di rispondere alla sfida lanciata dalla televisione. Solo differenziando il più possibile il film dal prodotto televisivo l’industria cinematografica può sperare di competere in qualche misura con la nuova forma di intrattenimento32. La spettacolarità dei formati panoramici, accresciuta dall’uso del Technicolor, contrasta in modo evidente con il bianco e nero del piccolo schermo. Rispetto alla produzione precedente il cinema si segnala anche per i suoi contenuti sensazionalistici e scabrosi, in evidente contrasto con le tematiche rassicuranti e domestiche della televisione. Tale dinamica si concretizza nell’affermarsi dell’adult film. Secondo Barbara Klinger, l’adult film è il prodotto di una specifica congiuntura fra trend produttivi e valori socio-culturali riguardanti la sessualità, che si afferma negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Categoria che travalica il singolo genere, l’adult film trova nel family melodrama la quintessenza della sua peculiarità. Come tutta una serie di drammi teatrali e romanzi popolari del periodo, che spesso diventeranno adattamenti cinematografici33, esso presenta situazioni narrative adatte a persone mature, offrendo «una serie impressionante di argomenti sensazionalistici. Tra questi disfunzioni psicologiche, rapporti prematrimoniali, adulterio, frigidità, omosessualità, ninfomania, sterilità, nascite illegittime, alcolismo, lotte familiari, violenza e abuso di droghe»34. Se l’emergenza di tecnologie spettacolari e tematiche sensazionali sono state spiegate, entrambe ma separatamente, in relazione alla diffusione della televisione, è possibile sostenere che l’incontro tra queste due dinamiche indipendenti ha dato luogo a uno stile specifico: lo stile melodrammatico nasce dalla trasformazione della tecnica in forma, dalla rifunzionalizzazione di tecnologie specifiche in un modello formale particolarmente adatto a mettere in scena i desideri sociali degli anni cinquanta. Oltre agli stilemi direttamente riconducibili a innovazioni tecnologiche e imputabili a generali trasformazioni dell’industria cinematografica, vi sono altri dispositivi tecnicoformali che partecipano alla revisione della messa in scena classica, continuando e ampliando il lavoro già compiuto nel cinema degli anni quaranta. Particolare importanza riveste il rapporto tra spazio e personaggio. Il dispositivo narrativo-visivo del family melodrama non solo subordina le traiettorie individuali a quelle della collettività (racconto), ma sancisce una scarsa capacità del soggetto di controllare lo spazio circostante, di operare in modo attivo su di esso per cambiarlo. Rispetto al noir e al woman’s film, questa condizione si attua non nello spazio urbano delle grandi città, ma nell’ambiente domestico e familiare della small town. La figura umana appare ora controllata dallo spazio circostante, secondo strategie che provvedono a inglobare o a imbrigliare il corpo umano. Alla prima strategia concorre il cinemascope, il cui effetto di dilatare lo spazio orizzontalmente, comprimendo al tempo stesso la dimensione verticale, viene spesso accresciuto dall’uso combinato di lenti grandangolari (e dalla profondità di campo). Chiaramente l’effetto complessivo di queste scelte dipende anche da altri fattori, poiché l’uso del formato panoramico non è di per sé condizione sufficiente a rappresentare uno spazio che ingloba i corpi. Tuttavia, l’uso dello Scope ha comportato anche lo sviluppo di particolari tendenze nella ripresa e nel montaggio. Per esempio, con il formato panoramico lo stile delle conversazioni diventa sensibilmente diverso da quello classico, con una particolare ricaduta sullo statuto del corpo umano. La perduta autonomia del soggetto è espressa in modo ancora più significativo da un lavoro visivo che tende a imbrigliare il corpo, a frapporre ostacoli materiali alla sua azione. In molti episodi il corpo è circondato da una miriade di oggetti quotidiani che sembrano bloccarne il movimento: l’inquadratura melodrammatica è infatti caratterizzata anche da un eccesso nel profilmico che è
fortemente popolato [53]. Evidentemente, la profondità di campo è un elemento necessario a quest’effetto: tuttavia, a differenza che nel noir, dove è spesso impiegata negli esterni della metropoli o in interni di bar e locali, nel family melodrama essa dà piena visibilità agli interni di case borghesi, pieni di oggetti e arredi di ogni tipo. Alcuni oggetti hanno una funzione più significativa di altri: per esempio, le griglie formate dalle intelaiature di porte e finestre, e che in parte celano le figure dei protagonisti, vengono usate nei momenti di maggiore distacco e difficoltà tra i personaggi [52]. In Sirk, in modo particolare, la griglia si carica di effetti più forti grazie anche all’uso combinato del chiaroscuro o di filtri colorati: in Secondo amore, per esempio, nel momento in cui Cary/Jane Wyman capisce che la relazione con Hudson le farà perdere l’affetto dei figli, e che dunque dovrà rinunciare all’amore per il giovane in cambio della pace familiare, l’inquadratura, in particolare il viso della donna, viene invasa dai toni cromatici del blu e del giallo. In Come le foglie al vento Lucy è più volte ripresa dietro l’intelaiatura di una finestra in momenti in cui il marito, tornato a bere, è ubriaco e violento. Nella sequenza iniziale – che è, in realtà, la parte finale, visto che il film è quasi tutto in flashback – quando il marito sta litigando ferocemente con Mitch, la donna viene inquadrata nella penombra, dietro il vetro, mentre guarda verso l’esterno. In un altro episodio Lucy guarda sconsolata fuori dalla finestra dopo che il marito ha inspiegabilmente ripreso a bere. Lo sguardo introspettivo, ovvero l’atto tramite cui un personaggio, ripreso nei pressi di una finestra, guarda nel vuoto o è assorto a pensare, è un’immagine piuttosto diffusa nel cinema americano del decennio. Questa figura sembra indicare una fase successiva alla perdita del potere conoscitivo della vista – il personaggio non sta guardando, ma sta pensando o «sentendo» le proprie emozioni –, forse, in un’ottica deleuziana, l’emergenza del pensiero, nella sua versione hollywoodiana35. Un ultimo esempio di griglia nella filmografia sirkiana che vorremmo segnalare si trova in Lo specchio della vita. Siamo alla fine della prima parte: Lora Meredith ha finalmente un’audizione per una parte a teatro, l’occasione che aspetta da mesi, ma il fidanzato è contrario alla carriera di attrice della donna e insiste perché vi rinunci. Lora però non ha alcuna intenzione di cedere: recitare a teatro è la sua ragione di vita. Lo scontro tra i due viene dapprima suggerito attraverso un’inquadratura separata in due parti esatte: sulla destra Lora è illuminata dalla luce, sulla sinistra Steve è immerso nel buio. Tramite la calibratura della luce e dell’ombra Sirk provvede in modo non ambiguo, in un gesto che certamente è paragonabile a quello di Von Sternberg nei film con Marlene Dietrich, a stabilire chiari parametri empatici ed emotivi. Nell’inquadratura che chiude la sequenza giungiamo al climax drammatico: l’inconciliabilità delle posizioni porta i due a lasciarsi. Ancora una volta l’inquadratura è divisa perfettamente a metà: la parte destra è occupata dalla porta d’ingresso del palazzo, a forma di griglia, mentre Lora e Steve, visibili dietro il vetro stesso, stanno scendendo le scale per uscire, dandosi le spalle l’un l’altra; la parte sinistra dell’inquadratura rimane invece al buio.
55. A casa dopo l’uragano (V. Minnelli, 1960).
56. A casa dopo l’uragano (V. Minnelli, 1960).
Nell’episodio successivo alla rottura vediamo Lora specchiarsi, così come nella sequenza prima evocata di Secondo amore Cary si guardava allo specchio. Ma episodi simili si ritrovano in tutti i film di Sirk. Forse ancora più della griglia, lo specchio è particolarmente caro a Sirk e ritorna con una tale insistenza da diventare un vero e proprio leitmotiv. In Come le foglie al vento l’autore di origine tedesca combina in modo del tutto peculiare l’inserimento nel profilmico di particolari oggetti con modalità della ripresa, specialmente il lavoro di mise en cadre, in funzione di una tessitura complessiva del film fortemente performativa. In questo senso l’inquadratura nell’inquadratura, tramite il riflettersi del personaggio in uno specchio, è un motivo ricorrente che suggerisce chiaramente la frammentazione del soggetto. L’uso dello specchio fa parte delle codificazioni visive dell’eccesso, in quanto vi è un vero e proprio lavoro, una scelta cosciente di regia, affinché lo specchio e l’immagine che esso riflette rientrino nell’inquadratura. Nello specchio sono riflesse le figure di Kyle e Marylee quando rientrano a casa dopo una serata di eccessi, il primo trasportatovi di peso da Mitch, la seconda dalla polizia, poco prima della scena melodrammatica più importante, la morte del padre. Il personaggio che si specchia in un momento di particolare tensione drammaticoemotiva rappresenta una sorta di stadio dello specchio rovesciato: non si tratta, cioè, di istanze in cui il soggetto riconosce se stesso, ma di atti in cui egli non si ri/conosce più. Quando in Dietro lo specchio James Mason, ormai succube dei medicinali, guarda il suo viso riflesso, il volto dell’uomo viene frammentato in più parti: si tratta di una delle soluzioni più frequenti escogitate dal cinema per rappresentare il doppio, la scissione tra vita conscia e inconscia, una figura che nel family melodrama convalida il côté inconscio dell’esperienza del soggetto. Anche in questo caso, come per l’erotizzazione del corpo, vi è un trattamento simmetrico tra maschile e femminile. SENSAZIONE E SITUAZIONE: «PICNIC» E «COME LE FOGLIE AL VENTO»
Lo stile melodrammatico e l’iscrizione della sensazione si manifestano in modo paradigmatico nella situazione, tratto fondativo dell’estetica del melodramma. In questi episodi gli elementi formali e dell’immaginario del genere evocati dalla nostra analisi si esprimono con particolare forza, soprattutto in relazione al trattamento della figura umana. L’esame di due momenti topici in Come le foglie al vento e Picnic è tesa anche a dimostrare la simmetria fra l’erotizzazione del corpo femminile e maschile. La scena in cui Marylee si spoglia ballando al ritmo sfrenato di un brano jazz raccoglie molti degli aspetti sin qui sottolineati. Notiamo il corpo imbrigliato tra gli oggetti della stanza, il ritmo serrato ed energico della danza, la prevalenza del rosso36 [54]. Oltre a dare spazio a sensazioni brevi e intense, l’episodio va visto anche in relazione alla nozione di situazione. Lea Jacobs ha esplorato la questione ipotizzando una dualità tra situazione e azione: nella situazione si allenta l’azione narrativa mentre i personaggi incontrano circostanze nuove e il pubblico vive una tensione drammatica potenziata. Nella situazione, sorta di versione cinematografica del tableau teatrale, un improvviso snodo degli eventi lascia i personaggi in un’impasse o dilemma e chiede loro di reagire prontamente37. Ci sembra che l’idea possa essere ulteriormente rielaborata: la situazione è una scena di particolare intensità in cui senza motivazioni narrative vengono a incontrarsi e scontrarsi pulsioni e desideri contrastanti che solo casualmente (coincidenza) si trovano vicini. La mancanza della classica motivazione narrativa rende il conflitto, proprio perché immotivato, impossibile da risolvere. Per tutte queste ragioni la situazione è antitetica all’azione classica. In questi momenti i corpi vengono compressi nello spazio sino a scoppiare, rendendo più chiara la forza della pulsione e della sensazione. Questi attimi sono anche i più spettacolari. Nella scena della morte del padre in Come le foglie al vento il tratto della situazionalità è in parte mascherato dal montaggio alternato fra il padre, prima nello studio poi sulle scale, e la figlia nella propria stanza. Il montaggio avvicina due personaggi che si evitano continuamente e che quasi non sono consapevoli l’uno della
presenza dell’altro: la relazione viene creata solo formalmente, ma così facendo l’intensità emotiva aumenta perché sembra che il ballo sfrenato di Marylee causi la morte del padre. La sensazione è creata da elementi essenzialmente non narrativi: il ritmo del montaggio aumenta in modo frenetico, quasi a mimare il ritmo della danza della Hadley, mentre il volume della musica è così elevato da invadere la casa e, metonimicamente, ogni inquadratura, cosicché è quasi impossibile, per lo spettatore, udire la caduta del padre mentre rotola giù dalle scale. Si produce così un effetto spettatoriale non privo di interesse. Mentre Mitch e Lucy vanno a soccorrere il padre, avendo quindi sentito la caduta, dal momento che, data la loro posizione, non possono averla vista, il volume della musica impedisce a Marylee di sentire, e di rendersi conto della tragedia. Ma neppure allo spettatore è dato di sentire ciò che sta avvenendo, benché egli sia invece stato posto in condizione di vedere la morte del signor Hadley. Pertanto, il film invita lo spettatore a identificarsi parzialmente con Marylee – con la quale egli condivide la percezione del sonoro –, mentre al contempo gli impedisce di identificarsi con Mitch e Lucy, i quali, come si è detto, non sentono la musica, ma la caduta. Se l’esperienza sensoriale dello spettatore è duplice, visiva e sonora, e quindi superiore a quella dei singoli personaggi, è però rilevante che l’unico tipo di identificazione offerto sia con Marylee, e non con gli altri protagonisti. In ultima analisi, in questo episodio l’identificazione riguarda la sensazione che la musica e il ballo provocano sul corpo della donna, non la comprensione dell’azione. In Picnic la situazione più melodrammatica riguarda il personaggio di Holden, il cui corpo viene femminilizzato in diversi momenti. In particolare, durante il lungo episodio del picnic di Labor day, il gruppo dei protagonisti si ritrova un po’ casualmente a condividere uno spazio autonomo della festa. Rosalind Russell chiede pateticamente a Hal di ballare con lei, ma l’uomo declina l’invito. È irrequieto e indeciso perché è attratto da Madge, ma non vorrebbe ferire l’amico Alan, fidanzato con la giovane. Russell insiste ripetutamente sinché strappa accidentalmente la camicia dell’uomo: così il busto muscoloso e sexy di Hal viene nuovamente esposto, come all’inizio del film. Il gesto viene messo in scena in modo eccessivo e assai efficace: dal momento in cui l’indumento viene strappato, l’uomo rimane bloccato, quasi in un freeze frame, e incapace di proferire una sola parola. Hal occupa la parte centrale dell’inquadratura e la sua posa sembra una pantomima: con il protagonista immobile e silenzioso, l’inquadratura è una resa letterale del mutismo del tableau teatrale di cui parla Brooks38. Muto e immobile, Hal assiste al collasso del mondo che lo circonda. Russell, in una performance veramente notevole, esplode e urla che è un perdente e che dovrebbe finirla di fingere. Milly, la sorella minore di Madge, anch’essa ubriaca, urla alla sorella che la odia e che è stanca di essere considerata solo una ragazza intelligente. Così, senza un motivo particolare, il conflitto scoppia e il melodramma raggiunge l’apice emotivo. Come nel film di Sirk il corpo di Marylee era simbolicamente la causa della morte del padre, qui il corpo di Hal causa la reazione isterica dei personaggi. D’ora in poi nulla sarà più come prima: Hal e Madge decideranno di lasciare il paese per tentare di vivere la loro storia. In entrambi i film la dimensione visiva significa più di quella verbale: il Technicolor, il formato panoramico, la musica, la recitazione diventano autonomi rispetto all’intreccio. In un rinnovato scetticismo per la parola, il corpo erotico comunica ciò che il linguaggio è incapace di esprimere. DOPPIO STILE E MODERNITÀ: «A CASA DOPO L’URAGANO»
Nell’ambito dell’evoluzione dei modi di rappresentazione, il family melodrama costituisce un superamento evidente della classicità, e in particolare del tratto della trasparenza e dell’invisibilità. Lo stile melodrammatico non è solo eccessivo e narrativamente poco motivato, così che il senso viene veicolato più dall’immagine che dall’intreccio. Elemento costitutivo del registro melodrammatico è l’alternanza, nel film, di due diversi stili di ripresa e regia, da un lato quello melodrammatico, appunto, caratterizzato da eccessi cromatici, fotografici, musicali e narrativi, dall’altro uno stile
visivo più sobrio: tale procedimento mette in discussione sia il principio della trasparenza che il potere del dispositivo narrativo39. A casa dopo l’uragano sfrutta in modo esemplare questa opzione, legandola alla rappresentazione dei diversi modi della mascolinità presenti nel film. I tre personaggi maschili, il capitano Wade Hunnicutt e i suoi due figli, Theron e Rafe, vengono definiti nella loro identità di gender ciascuno attraverso la presentazione dello spazio, una stanza, in cui vivono. Nonostante l’eccessiva esuberanza sessuale di Wade ci sia chiara fin dalle prime sequenze, essa ci viene esibita, per spostamento, in quella che a mio avviso è la sequenza più efficace del film, sequenza che è anche la chiave narrativa del destino tragico di Theron. È l’episodio in cui, parafrasandone i dialoghi, Wade decide «di fare del figlio un uomo» iniziandolo alla caccia e, implicitamente, al sesso. In questo frangente, lo scarto fra racconto e stile è particolarmente accentuato: benché la scena sia importante per il destino di Theron – è qui che il suo futuro si decide –, non è lui, ma il padre, a esserne il dominatore. Oggetto di scherno dei mezzadri paterni, Theron si è fatto convincere a rimanere nel bosco quasi tutta la notte, ad aspettare una preda che invece, come tutti sanno, si caccia solo di giorno. Il padre lo trova mentre fischietta e aspetta, ancora ignaro dello scherzo, e lo riporta a casa. Theron è sconvolto dall’accaduto e chiede al padre di insegnargli «le regole del gioco». La Bildung di Theron inizia quella notte stessa nella stanza del padre, quando imbraccia un fucile e spara il suo primo colpo. La scena tra padre e figlio è divisa in due parti, ambientate la prima nella stanza del figlio, la seconda in quella paterna. Come anche nella scena parallela – che ritrae Rafe nella propria stanza –, la disposizione del profilmico, soprattutto la scelta degli oggetti che riempiono lo spazio narrativo, è fondamentale per capire il personaggio. Gli oggetti sono infatti usati simbolicamente, caricati di connotazioni primarie che rinviano a stili di vita e valori culturali ben precisi, e di cui i protagonisti sono una personalizzazione. Nella scena tra padre e figlio la dicotomia in questione è chiaramente quella tra natura e cultura, tra istinto e conoscenza. È questa la sequenza fondamentale del film, poiché la specifica articolazione linguistica consente di andare ben oltre il livello del racconto, che fino a quel momento il testo ha privilegiato. I codici visivi e la loro relazione con i dialoghi rinviano a un patrimonio ideologico e culturale che non viene direttamente esplicitato dal racconto, ma che l’eccesso stilistico della scena ci costringe necessariamente a prendere in considerazione. Mentre Wade e Theron parlano, non è la conversazione l’oggetto privilegiato dell’inquadratura (come nel cinema classico). Con brevi movimenti di carrello e panoramica la mdp è più intenta a seguire Wade, che parlando si aggira per la stanza del figlio, come se vi entrasse per la prima volta, guardando e toccando i vari oggetti: una carta geografica del mondo, un sasso – Theron, come vediamo, colleziona rocce e farfalle –, fino a giungere al cannocchiale, la cui presenza al centro della stanza ci era stata rivelata sin dalla prima inquadratura [55]. Mentre fa girare il cannocchiale sull’asse, il padre, riferendosi a quanto successo nel bosco, afferma: «credo che tu debba sapere un paio di cose». È a questo punto che un carrello indietro consente a entrambi i personaggi di condividere il campo visivo: l’ultima parte del dialogo è un’inquadratura fissa di padre e figlio, che pur essendo vicini appaiono visivamente separati dal cannocchiale. Dopo avere osservato la stanza ancora una volta, Wade conclude dicendo: «Questa è la stanza di un ragazzo. Vieni che ti porto a vedere come vive un uomo».
57. I peccatori di Peyton (M. Robson, 1957).
58. I peccatori di Peyton (M. Robson, 1957).
L’impatto della scena è dato dalla contrapposizione tra linguaggio verbale e visivo, che a sua volta produce uno scarto tra l’esperienza dello spettatore e quella del personaggio. A fronte di Wade che identifica nel figlio solo una mancanza di virilità, noi riconosciamo nell’interesse di Theron per la conoscenza – di cui però egli stesso è incosciente – il valore della cultura, ossia la rappresentazione del mondo come un sistema di saperi e valori. Ci viene cioè mostrata l’esistenza di un discorso codificato, visto però dai personaggi solo come una mancanza rispetto a un’ipotetica esperienza diretta, istintiva della realtà, al di fuori di ogni convenzione o legge sociale: una dicotomia tra cultura e natura espressa visivamente dalla transizione da uno spazio all’altro, da una stanza all’altra. Theron segue il padre per andare a vedere «how a man lives», e la scena si sposta nella stanza del capitano. Un doppio movimento combinato di carrello e panoramica, a seguire il movimento del capitano, ci mostra la stanza nella sua maestosità e ci induce subito a confrontarla con quella di Theron appena vista. E le differenze risultano immediatamente evidenti: innanzitutto le tonalità cromatiche, dal rosso vivo della poltrona ai marroni che il Technicolor rende vivissimi e molto vicini al rosso, in contrasto con i colori tenui della stanza di Theron. Oltre ai colori, gli oggetti sono l’altra dominante del profilmico: i muri appaiono tappezzati da una quantità incredibile di fucili di varie misure e marche, e di animali imbalsamati, trofei di caccia del capitano. A radicalizzare l’effetto visivo contribuisce l’uso di un grandangolo più ampio di quello precedente, che aumenta a dismisura le dimensioni dello spazio [56]. Mentre il capitano si siede nella poltrona rossa – e tre cani si muovono automaticamente ai suoi piedi – la stanza appare enorme, il numero dei piani dell’azione elevato, e la distanza tra Wade e il figlio, che pure viene inquadrato, sproporzionata rispetto alle intuibili distanze effettive del profilmico: seduto sulla sua poltrona, con i cani ai suoi piedi, colui che ci viene mostrato sembra in effetti un re, e ciò che gli sta attorno il suo regno. In questo senso è importante la presenza del figlio nell’inquadratura, perché fa in modo che il punto di vista offerto sia quello, esterno, della mdp: è, cioè, il testo, e non il personaggio (Theron), che vede la maestosità dello spazio e il dominio che vi esercita il capitano, sempre inquadrato frontalmente (si ricordi invece come nella scena precedente, benché fossimo nella stanza di Theron, questi ci fosse mostrato solo di spalle e mai, visivamente, in pieno controllo dello spazio abitato). Tutto qui appare stilisticamente ingigantito e testualmente sovraccaricato in rapporto al resto del film: troppi fucili, troppe prede, troppi bagliori cromatici e una profondità di campo eccessiva, wellesiana potremmo dire. Come è stato osservato, lo stile è un sintomo della sensualità dirompente del protagonista40. Potremmo dunque affermare che lo stile funziona in modo opposto alla storia: condannato a morire nel racconto, Wade domina nell’immagine. Solo a lui viene riservata una tale «estetizzazione», tanto che la sequenza rimane la più carica di tensioni di tutto il film. La visione di questo spazio ci viene offerta più volte nella stessa scena e sempre con movimenti espressivi della mdp, cioè solo parzialmente motivati da spostamenti dei personaggi. Si veda la soggettiva di Theron, ma anche i movimenti di macchina all’entrata della madre, come pure la tendenza a inquadrare in piano americano i personaggi più prossimi alla mdp, così da includere più spazio possibile nel campo visivo. Solo nell’ultima parte dell’episodio, durante il dialogo tra Wade e la moglie, questa tendenza cambia e si passa a campi/controcampi di mezze figure, privilegiando quindi il linguaggio verbale rispetto a quello visivo. Notiamo come in questo frangente i piani della moglie siano leggermente più ravvicinati di quelli di Wade. E tuttavia l’impatto della scena è solo lievemente allentato dall’entrata di Hannah, anche perché le scene seguenti saranno tutte dedicate all’educazione di Theron. Se già lo spazio di Theron era stato ripreso con uno stile non melodrammatico, la differenza tra i due stili del film emerge con più chiarezza se confrontiamo il trattamento visivo riservato al capitano e a Rafe. In particolare, grazie alle regole narrative e compositive più ferree e durature della classicità, la simmetria e la ripetizione, il confronto tra i due viene costruito attraverso il congiunto utilizzo di
somiglianze e differenze. Allo stile eccessivo melodrammatico riservato al capitano si contrappone la sobrietà di certi tratti usati per rappresentare Rafe, tratti che sono assai simili, per esempio nei toni cromatici, a quelli usati per Theron. La sequenza che vogliamo descrivere è quella in cui il figlio illegittimo viene ritratto nella sua modesta ma dignitosa stanzetta. Si tratta dell’episodio in cui Theron va a fare visita al fratello. La scelta del set ci impone innanzitutto di rapportare Rafe a Wade. Rafe ci viene presentato nel suo regno, così come il capitano ci era stato mostrato, in precedenza, nel proprio. Le somiglianze vanno però oltre; anche Rafe vive con dei cani, ma non ha con loro quel rapporto padrone-servo che invece ha il padre, i cui cani accorrono ai piedi al solo schiocco delle dita. L’episodio invece si apre con una figura intera di un cane che si dibatte mentre l’uomo cerca di lavarlo. Un carrello indietro, mentre Theron apre la porta, ci offre uno sguardo d’insieme della stanza. È, come ci aspettiamo, una stanza dignitosa, normale e senza eccessi decorativi. Così come senza eccessi sono i movimenti della mdp, la profondità di campo e le tonalità cromatiche, varie sfumature di marrone che, come nella stanza del fratello Theron, non tendono mai al rosso. Lo spazio, e la relazione che il personaggio ha con esso, sono più denotativi che connotativi: perché il testo è più interessato a costruire il personaggio che non lo spazio circostante. Gli iniziali movimenti di assestamento sono seguiti da un lentissimo movimento di carrello avanti su Rafe, mentre questi diventa finalmente il centro del racconto. Al figlio illegittimo è offerta finalmente l’occasione di parlare di sé e di rivelare le sofferenze della propria condizione. È appunto questo carrello in lento avvicinamento a Rafe che costruisce e legittima il suo personaggio, anticipando stilisticamente la conclusione del film quando, nell’epigrafe sulla tomba del capitano, il suo nome sarà a fianco di quello di Theron. In questo frangente il film invita lo spettatore a identificarsi con Rafe e con ciò che egli rappresenta, una mascolinità fondata sui valori della famiglia borghese, in cui il maschio non possiede sessualmente e/o economicamente tutti coloro che gli stanno attorno – come nell’ordine feudale-aristocratico –, ma forma con la compagna un nucleo familiare che riconosce i propri valori nella paritaria comunità d’affetti privata. In questo senso, la sequenza al supermercato, dove Rafe rivede Libby e le propone di sposarlo è, dal punto di vista del setting, piuttosto inconsistente con il resto del film, perché prende i propri materiali iconografici da una realtà sociale contemporanea alla realizzazione della pellicola: ossia il supermercato e con esso la società dei consumi in cui la famiglia media americana di quel periodo si riconosceva. Anche il dialogo non può che essere compreso nel contesto degli anni cinquanta. Libby suggerisce a Rafe di trovarsi una moglie che accudisca alla casa e che spenda il denaro che lui guadagna. Definisce cioè, in una sola frase, i ruoli del breadwinner e della homemaker della suburban family. Lo spazio eccessivo del capitano ritorna solo una seconda volta, quando l’uomo viene ucciso, evento che segue la riappacificazione con la moglie. Il capitano, ora visibilmente soddisfatto, si avvia verso lo spazio melodrammatico, transizione di cui la mdp si fa testimone. Notiamo una quasi assoluta somiglianza tra le inquadrature che seguono e la sequenza che abbiamo appena descritto: il capitano compie la stessa azione – si avvia verso il frigorifero per prendere una birra – e la mdp lo segue come in precedenza. Così facendo ci rivela nuovamente, per la seconda volta, quello spazio che non ci era più stato mostrato. Ed è infatti tra gli oggetti del proprio desiderio che il capitano muore, colpito dal padre di Libby. Quello spazio così maestoso e carico di sensualità, da dominare e imbrigliare, è ora più una trappola che un regno, e la quantità eccessiva degli oggetti, come pure le forti tonalità cromatiche, sembrano circuire il personaggio senza lasciargli via di scampo. Eppure le contraddizioni non si risolvono totalmente, e la dicotomia tra i due stili viene efficacemente ricondotta, nel finale, al livello della singola inquadratura, come se la compresenza dei due registri, che nel corso del film erano rimasti separati e destinati a sequenze e personaggi diversi, fosse riconducibile alla risoluzione del racconto stesso. Hannah è appena arrivata sulla tomba del marito quando Rafe la raggiunge. È la prima uscita della donna, rimasta a casa per settimane e settimane
dopo la tragedia. Rafe le propone di andare a vivere con lui e Libby ma, prima di andare, Hannah gli chiede di guardare la lapide – dove è inciso il suo nome –, su cui la mdp si era già fermata all’inizio della scena, facendoci notare le sue dimensioni, come pure, unica in tutto il cimitero, il suo colore: un grande blocco rosso, della stessa tonalità della stanza del capitano. La lapide viene inquadrata sovente durante il dialogo, ma solo in alcune inquadrature occupa una parte consistente dello schermo. E tuttavia, quando i due si allontanano, la mdp non li segue, ma compie dei piccoli movimenti di assestamento, affinché la metà sinistra dello schermo venga occupata totalmente dalla lapide rossa. A questo punto la mdp rimane fissa, mentre nella metà di destra Rafe e Hannah si allontanano dopo essersi girati ancora una volta verso la tomba. L’ultima inquadratura è quindi una sorta di split-screen con le due metà occupate da materiali antitetici. Seppure morto, il capitano non scompare dallo schermo e il rosso della lapide non può che ricordarci le tonalità della sua stanza. La dicotomia cromatica delle due metà riprende e fonde i due stili visivi del film e, dunque, sembra indicare la presenza genetica del vecchio nel nuovo, del passato nel presente. Come se il testo, pur avendo legittimato il nuovo attraverso Rafe, non volesse disfarsi del vecchio, alla cui carica violenta, ma anche emotiva, ha riservato la sua estetica più efficace.
1 Th. Elsaesser, Tales of Sound and Fury. Observations on the Family Melodrama, trad. it. Storie di rumore e di furore. Osservazioni sul melodramma familiare, in A. Pezzotta (a cura di), Forme del melodramma, Roma, Bulzoni, 1992. 2
Cfr. P. Brooks, The Melodramatic Imagination, trad. it. L’immaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche, 1985.
Cfr. G. Nowell-Smith, Minnelli and Melodrama, e L. Mulvey, Notes on Sirk and Melodrama, in C. Gledhill (a cura di), Home is Where the Heart is, London, BFI, 1987. Rinvio a questa fondamentale antologia per una panoramica degli studi sul genere. 3
4 S. Neale, Melo Talk: On the Meaning and Use of the Term «Melodrama» in the American Trade Press, in «The Velvet Light Trap», 32, autunno 1993, pp. 66-89, 69. Il saggio viene ripreso in Id., Genre and Hollywood, London, Routledge, 2000. 5
Ibid., pp. 73-74.
B. Singer, Melodrama and Modernity, New York, Columbia University Press, 2001, pp. 59-99. Sul sensazionalismo del cinema muto si veda, in italiano, M. Dall’Asta, Le forme dell’eccesso: il cinéroman francese fra sensazionalismo e nostalgia, in «cinegrafie», V, 9, 1996, pp. 93-117. 6
7
Singer, Melodrama and Modernity, cit., pp. 46-49.
8
Ibid., pp. 44-55.
Su questo fenomeno di grande fascino esistono molti contributi significativi. Oltre ai lavori già citati nei capitoli precedenti si veda lo studio di Kathy Peiss, Cheap Amusements. Working Women and Leisure in Turn-of-the-Century New York, Philadelphia, Temple University Press, 1986, estremamente influente non solo per gli studi storici, ma anche quelli culturali. In campo cinematografico vanno segnalati i bei contributi di Lauren Rabinowitz, For the Love of Pleasure. Women, Movies and Culture in Turn-of-the-Century Chicago, New Brunswick-London, Rutgers University Press, 1998, e Shelley Stamp, Movie-Struck Girls. Women and Motion Picture Culture after the Nickelodeon, Princeton, Princeton University Press, 2000. 9
10 P. Brooks, Melodrama, Body, Revolution, in J. Bratton, J. Cook, C. Gledhill (a cura di), Melodrama. Stage, Picture, Screen, London, BFI, 1994, pp. 11-24, 21. 11
Ibid., pp. 17-18.
Un gesto suggerito anche da Tom Gunning in The Horror of Opacity, in Bratton, Cook, Gledhill (a cura di), Melodrama. Stage, Picture, Screen, cit., p. 51. 12
13 Cfr. J. D’Emilio, E.B. Freedman, Intimate Matters. A History of Sexuality in America, Chicago, The University of Chicago Press, 19972. 14 In un volume dedicato al melodramma americano, non solo cinematografico, Williams propone almeno due tesi interessanti: da un lato che il riconoscimento della virtù di chi soffre è specifico del melodramma americano e che tramite quest’operazione «la cultura democratica americana ha articolato in modo forte la struttura morale del sentimento che anima la sua voglia di giustizia» (p. 26), dall’altro che il melodramma non è una tendenza o una tradizione del cinema americano ma la sua modalità dominante (pp. 22-23). Cfr. L. Williams, Playing the Race Card. Melodramas of Black and White from Uncle Tom to O.J. Simpson, Princeton, Princeton University Press, 2001, in particolare pp. 10-44. 15
Id., Film Bodies: Gender, Genre and Excess, in «Film Quarterly», 44.4, estate 1991.
16
M. Haskell, From Reverence to Rape. The Treatment of Women in the Movies, London, Penguin, 1974, p. 251.
Su questo film si veda L. Mulvey, Afterthoughts on «Visual Pleasure and Narrative Cinema» Inspired by King Vidor’s Duel in the Sun (1946), trad. it. Le ambiguità dello sguardo, in «Lapis», 7, marzo 1990, pp. 38-42. 17
18 In Duello al sole, in verità, si tratta della madre di Perla, che nel prologo del film danza in un saloon gremito di gente. 19 Su una simile posizione si muove Linda Williams in Discipline and Fun: Psycho and Postmodern Cinema, in C. Gledhill, L. Williams (a cura di), Reinventing Film Studies, London, Arnold, 2000, pp. 351-378. Come sempre Williams offre molte valide suggestioni anche se, stabilendo un rapporto pressoché diretto tra il film di Hitchcock e l’attrazionalità primitiva, a mio avviso storicizza poco la questione. 20 Per una prospettiva teorica del rapporto tra spettacolo e visione si veda A. Costa, Il cinema e le arti visive, Torino, Einaudi, 2002. 21
Brooks, L’immaginazione melodrammatica, cit., p. 95.
Per una ricognizione dello sviluppo del melodramma nelle diverse forme espressive si veda C. Gledhill, The Melodramatic Field: An Investigation, in Id. (a cura di), Home is Where the Heart is, cit., pp. 5-39. 22
23
Singer, Melodrama and Modernity, cit., p. 54.
E. Tyler May, Homeward Bound. American Families in the Cold War Era, New York, Basic Books, 1988, p. 13. Rinvio a questo studio per un’analisi delle implicazioni sociali e politiche della questione. 24
25 B. Klinger, «Cinema/Ideology/Criticism» Revisited: The Progressive Genre, in B.K. Grant (a cura di), Film Genre Reader II, Austin, University of Texas Press, 1995, pp. 74-90. 26 Cfr. S. Cohan, Masked Men. Masculinity and the Movies in the Fifties, Bloomington, Indiana University Press, 1997. Cohan ricostruisce l’immagine maschile del decennio trattando, oltre a Montgomery clift, le figure di William Holden, Cary Grant, Humphrey Bogart, Marlon Brando, Rock Hudson e altri. 27
B. Ehrenreich, The Hearts of Men, New York, Anchor Press, 1983, p. 15.
28
Ibid., pp. 15-19.
29
Ibid., p. 17.
30
Il commento di Sirk sta in J. Halliday, Sirk on Sirk, New York, The Viking Press, 1972, p. 98.
Spunti utili per l’analisi di questi film si trovano in Elsaesser, Storie di rumore e di furore, cit.; Nowell-Smith, Minnelli and Melodrama, cit.; D.N. Rodowick, Madness, Authority and Ideology. The Domestic Melodrama of the ’50s, in Gledhill (a cura di), Home is Where the Heart is, cit. 31
32 Dopo i primi esperimenti degli anni trenta, grazie in particolare a David O. Selznick che produce A Star is Born (È nata una stella, W. Wellman, 1937), Nothing Sacred (Nulla sul serio, W. Wellman, 1937), The Adventures of Tom Sawyer (Le avventure di Tom Sawyer, N. Taurog, 1938) e, soprattutto, Gone with the Wind (Via col vento, V. Fleming, 1939), negli anni quaranta escono venti film in Technicolor l’anno, mentre negli anni cinquanta, il numero di film a colori è la metà della produzione totale. Per un’analisi, oltre che dei dati, del rapporto tecnologia/ estetica, si veda S. Neale, Cinema and Technology. Image, Sound, Color, Bloomington, Indiana University Press, 1985. 33 Si pensi, per esempio, a Picnic di William Inge, Tea and Sympathy di Robert Anderson e Peyton Place di Grace Metalious. 34 B. Klinger, «Local» Genres. The Hollywood Adult Film in the 1950s, in Bratton, Cook, Gledhill (a cura di), Melodrama. Stage, Picture, Screen, cit., pp. 134-146, 138. 35 Per l’analisi di Come le foglie al vento si vedano Elsaesser, Storie di rumore e di furore, cit.; Mulvey, Notes on Sirk and Melodrama, cit. L’analisi più approfondita del film è di B. Klinger in Melodrama and Meaning. History, Culture, and the Films of Douglas Sirk, Bloomington, Indiana University Press, 1994. 36 Sulla funzione di Marylee nell’economia complessiva del film si veda C. Orr, Closure and Containment: Marylee Hadley in «Written on the Wind», in M. Landy (a cura di), Imitation of Life, detroit, Wayne State University Press, 1991, pp. 380-387. 37
L. Jacobs, The Woman’s Picture and the Poetics of Melodrama, in «Camera Obscura», 31, 1993, pp. 121-147.
Brooks, L’immaginazione melodrammatica, cit., pp. 83-112. Per un’analisi della figura di Holden si veda Cohan, Masked Men, cit., pp. 164-200. 38
39 Sullo stile di Minnelli si veda il bel libro di J. Naremore, The Films of Vincente Minnelli, Cambridge, Cambridge University Press, 1993. 40
Cfr. Klinger, «Cinema/Ideology/Criticism» Revisited, cit., p. 84.
7. CORPO PERFORMATIVO E IMMAGINE NON-REFERENZIALE: GLI ECCESSI DEL MUSICAL
Il cinema più innovativo degli anni cinquanta mostra un’esplicita propensione alla spettacolarità e alla visionarietà. Nel family melodrama tali opzioni sono dovute alla convergenza tra nuove forme della soggettività, innovazioni tecnologiche e tradizione melodrammatica. Ma la spettacolarità dell’immagine cinematografica può essere anche il veicolo per una riflessione di tipo diverso: negli ultimi anni della Golden Age hollywoodiana emerge una tendenza, particolarmente forte nel musical, che combina tecniche spettacolari e di intrattenimento con riflessioni di natura teorica sullo statuto dell’immagine e del rapporto tra finzione e realtà. Non si tratta semplicemente di film sul cinema, anche se a volte lo sono, o per lo meno non è questa la novità a cui ci riferiamo. Si tratta di film che mettono in discussione l’esistenza stessa del rapporto tra realtà e finzione, per rivelare che esistono solo livelli diversi di finzionalità: è il caso, per esempio, di Singin’ in the Rain (Cantando sotto la pioggia, 1952). Il film di Stanley Donen e gene Kelly suggerisce, in ultima analisi, che siamo ormai entrati nel regno dell’immagine e del simulacro e che la realtà può essere evocata, ma non rappresentata. Il discorso teorico del film non è lontano dal postmoderno e anzi non è azzardato considerare Cantando sotto la pioggia proprio in questa prospettiva. Oltre alla riflessione sull’immagine, il film indaga il rapporto fra arte e intrattenimento, in particolare la relazione conflittuale fra teatro e cinema e la supposta gerarchia tra le due forme. Tale strategia rientra nella più ampia tendenza del musical di questi anni ad affrontare, secondo modalità assai diversificate, il rapporto tra il cinema e le altre arti: si pensi, per citare due esempi molto distanti, al lavoro sulla pittura compiuto in An American in Paris (Un americano a Parigi, V. Minnelli, 1951) e all’opposizione tra musica colta e musica popolare in Silk Stockings (La bella di Mosca, R. Mamoulian, 1957). La riflessione sul rapporto realtà/finzione non riguarda solo l’immagine, ma investe anche lo statuto del soggetto che vive un passaggio ulteriore. A differenza del noir e del woman’s film, che rappresentavano la nascita del soggetto moderno e scisso, nel cinema degli anni cinquanta comincia a farsi strada l’ipotesi che i modi della soggettività non siano fondati sulla possibilità di esprimere l’io, tramite un legame diretto fra interno ed esterno, o che la verità dell’io risieda nell’inconscio, ma che l’identità sia il prodotto di atti performativi, di gesti e azioni socialmente riconosciuti. Solo dai processi discorsivi può nascere il senso e la significazione, mentre qualsiasi forma di biologismo perde valore. Per esempio, l’inversione di gender, e più in generale la reversibilità del maschile e del femminile, diventano sempre più frequenti. Oppure la messa in discussione dei tradizionali modi di essere non viene mascherata, ma resa più esplicita e, per certi versi, supportata: basta confrontare Avventurieri dell’aria (1939) con Il fiume rosso (1948) per vedere come a distanza di dieci anni la camaraderie maschile si trasformi, nello stesso autore, da amicizia virile a rapporto esplicitamente omoerotico. Oppure si può confrontare Il diavolo è femmina (1935) con Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo, B. Wilder, 1959) per una sensibile radicalizzazione del travestitismo e dell’inversione di genere. The Harvey Girls (Le ragazze di Harvey, G. Sidney, 1945) e Gli uomini preferiscono le bionde mostrano in modo mirabile la costruzione performativa del soggetto. Attraverso la rielaborazione delle convenzioni del genere musicale, Judy Garland e Marilyn Monroe ridisegnano la mappa del femminile dando vita a personaggi dall’identità mobile. Come per l’immagine non referenziale, questa visione della soggettività è scettica verso l’idea di realtà e di natura, e del corpo come espressione diretta della psiche. Marilyn rappresenta
chiaramente l’esperienza più significativa, una rottura radicale che Andy Warhol coglierà genialmente con le sue serigrafie trasformando la diva in pura immagine. Gli storici del cinema concordano da tempo sul fatto che le innovazioni tecnologiche introdotte negli anni cinquanta sono spiegabili, in primo luogo, dalla necessità per l’industria cinematografica di fare concorrenza alla televisione. Lo spostamento in massa dai grossi centri urbani verso i sobborghi dà luogo a uno stile di vita diverso da quello che aveva decretato il successo del cinema come prima forma di intrattenimento: ora la casa piena di beni confortevoli diventa il luogo della felicità individuale e la televisione la forma di intrattenimento primaria. La presenza del piccolo schermo si palesa con grande evidenza nell’immaginario cinematografico del decennio ed è significativo che la funzione testuale della televisione sia conforme ai valori del genere cui il film appartiene. Per esempio, nel family melodrama la televisione concorre a disgregare la famiglia o a separare emotivamente i suoi diversi componenti. All’inizio di Dietro lo specchio, il protagonista Ed Avery rientra a casa stanco dopo una lunga giornata di lavoro e trova il figlioletto davanti alla televisione: l’uomo rimprovera il figlio di perdere il suo tempo guardando programmi noiosi e ripetitivi. In Secondo amore i due figli della protagonista, contrari alla relazione della madre vedova con un uomo più giovane, per Natale le regalano la televisione sperando così, ipocritamente, di alleviare la sua solitudine. Il cinema testimonia in forme diverse il ruolo primario che la televisione ha ormai assunto nella vita degli americani. In An Affair to Remember (Un amore splendido, 1957), remake di Love Affair (Un grande amore, 1939) entrambi diretti, a quasi vent’anni di distanza, da Leo Mccarey, la televisione ha una funzione narrativa secondaria, ma nelle poche apparizioni viene connotata inequivocabilmente come il luogo della falsità e della menzogna, così come il cinema era spesso visto, dagli uomini di teatro, come il regno della finzione. In un certo numero di film, come It’s Always Fair Weather (È sempre bel tempo, S. Donen/G. Kelly, 1955) e A Face in the Crowd (Un volto nella folla, E. Kazan, 19577), il cinema rappresenta la televisione come un mezzo connotato in modo fortemente commerciale, tanto che, afferma chris Anderson, l’immagine della tv che ne esce «sembra più un prodotto della Scuola di Francoforte» che di Hollywood1. A differenza della radio, di cui il cinema dà solitamente una rappresentazione positiva, il mezzo televisivo è sempre fortemente criticato. Nel percorso che stiamo delineando si può forse ipotizzare che l’avvento di un’immagine simile a quella cinematografica abbia alimentato la perdita della nozione di realtà. Posta a fianco dell’immagine filmica, quella televisiva fa sorgere il dubbio che il rapporto fra realtà e immagine abbia subito un cambio di paradigma. Forse la televisione, come il cinema, non ha un rapporto diretto con la realtà, ma è solo una delle sue tante possibili (e infinite) rappresentazioni. Ci si muove, dunque, nell’ambito dell’indeterminazione postmoderna, di cui il concetto baudrillardiano di simulacro rappresenta la forma più radicale2. Non possiamo in questo contesto affrontare una questione così spinosa e complessa. Riteniamo, in ogni modo, che negli anni cinquanta emerga nel cinema americano una tendenza secondo cui è palese la perdita della referenzialità dell’immagine. Tale tendenza riguarda in modo particolare il musical MGM dell’Arthur Freed Unit. Il musical ha uno statuto peculiare nell’ambito della classicità, in quanto sembra contraddire, come già abbiamo visto a proposito delle opere di Busby Berkeley, l’idea che il film classico ruoti attorno al dominio del narrativo, della causalità e della trasparenza. La nostra ipotesi tenta di rendere conto di tale diversità in una prospettiva sia storica che estetica, mettendo in rilievo lo statuto del musical nell’evoluzione del modo di rappresentazione del cinema americano. LA FORMA DEL MUSICAL: FILM CLASSICO «VS» FILM DI GENERE
Il musical ricopre un ruolo ambiguo nel panorama critico-teorico sul cinema classico, per molti versi unico fra i generi. Il suo statuto si è infatti mosso tra due poli contraddittori: da un lato è stato spesso considerato, soprattutto dai produttori e dalla
critica non accademica, una specie di sinonimo del prodotto hollywoodiano stesso, il genere che incarnava più di ogni altro la nozione stessa di spettacolo, l’idea di Hollywood come dream Factory, «l’epitome dell’intrattenimento di massa, sia da un punto di vista produttivo che del consumo»3. Dall’altro, nel momento in cui si cominciavano a studiare e delineare i tratti formali del cinema classico secondo paradigmi più scientifici, ci si rendeva conto che il musical sembrava mettere in questione alcuni dispositivi chiave della classicità stessa. Il musical poteva dunque essere considerato l’essenza dell’epoca d’oro del cinema americano o in alternativa una significativa eccezione. Queste affermazioni avvalorano un’interpretazione non prescrittiva del cinema americano che ci sembra opportuno considerare. La peculiarità del musical rispetto agli altri generi riguarda in primo luogo il meccanismo narrativo, ovvero la relazione tra racconto e spettacolo. Le letture ideologiche degli anni settanta e ottanta e la teoria cognitivista di Bordwell sostengono che il film classico è un dispositivo narrativo che mette in scena soggetti che agiscono per raggiungere mete ben precise. Anche se queste due linee di ricerca hanno opinioni del tutto diverse sulla natura dell’esperienza spettatoriale4, hanno entrambe un’idea unitaria, univoca della classicità, nel senso che riconoscono il medesimo funzionamento a qualsiasi film e una scarsa rilevanza alle differenze. C’è, al fondo, un livello di «determinismo economico» per cui si tende a uniformare più che a differenziare, dimenticando, per esempio, che le strategie di differenziazione erano assai importanti a livello produttivo. La prima e più illustre vittima è proprio il genere di cui vengono sottostimate le specificità. Da un lato si dà poco spazio alle differenze sintattiche, dall’altro si crede che le peculiarità semantiche non abbiano alcun particolare impatto. Come ha affermato Rick Altman, l’approccio ideologico considera «ogni singolo genere come una specifica tipologia di menzogna, una non-verità la cui caratteristica principale è l’abilità nel fingersi vera»5. In effetti, la lettura ideologica e quella cognitivista sono accomunate da un ulteriore elemento: entrambe fondano il proprio discorso sui macro-dispositivi linguistici e formali del film narrativo classico, senza prendere in considerazione i codici specifici di genere e neppure l’immaginario. Nel tentativo di affrancarsi dalla critica contenutistica e costruire metodi formali fondati sullo «specifico cinematografico», si sono sottovalutati altri tratti primari: solo la FFT, a nostro avviso, è riuscita in quegli anni a fondere l’analisi dei dispositivi con quella dell’immaginario. In quest’ambito la proposta di Rick Altman appare di indubbio interesse, in quanto parte proprio dal presupposto che la nozione di genere non sia ancillare rispetto a quella di classicità, ma anzi renda problematica ogni posizione universale sul film classico. Nel valutare il panorama critico disponibile, Altman rileva che le teorie sul genere letterario e cinematografico emerse sulla scia dello strutturalismo sono sostanzialmente di due tipi, semantiche e sintattiche. La prima guarda al genere come a «un elenco di tratti comuni, atteggiamenti, personaggi, riprese», la seconda invece si interessa alla relazione tra gli elementi. «L’approccio semantico pone, dunque, enfasi sulle componenti del genere, mentre quello sintattico privilegia le strutture con cui essi sono organizzati»6. Ma è ancora più importante la diversa qualità dei due approcci. Gli studi semantici si applicano a un vasto numero di film e non hanno «valenza esplicativa», in quanto sembrano interessati solo a riconoscere un film di genere e a compilare delle liste. Al contrario, l’approccio sintattico si propone innanzitutto di interpretare il film di genere: «rinuncia all’applicabilità capillare in cambio della capacità di isolare le strutture portanti del significato specifico di un genere»7. Altman propone di fondere i due approcci, ovvero di unire l’applicabilità a un vasto corpus di film con la capacità di interpretare il corpus stesso, e dunque di unire l’ambito e il fine della storia del cinema con quello della teoria. Secondo lo studioso americano i generi nascerebbero in due modi: un insieme di elementi semantici già stabili può essere sviluppato tramite una sperimentazione sintattica in una sintassi coerente, oppure il procedimento opposto, una sintassi coerente può adottare una serie nuova di elementi semantici. Per esempio, nel musical dei primi anni del sonoro (1927-1930) vi è il tentativo di creare con una semantica del backstage musical una sintassi melodrammatica, con la musica che riflette il dolore della separazione. Dopo la crisi del
genere nel biennio 1931-1932, il musical va in una direzione diversa: «pur mantenendo sostanzialmente lo stesso materiale semantico, il genere associava sempre più l’energia della musica alla gioia dell’accoppiamento, alla forza della comunità e ai piaceri dell’intrattenimento»8. L’approccio di Altman è in grado di superare i vistosi difetti dei metodi che subordinavano il testo di genere al testo classico, in quanto non solo dà rilievo all’aspetto semantico del film, ma coglie, nella combinazione semantica-sintassi, l’unicità di ciascun genere, relegando a un livello più generale, ma anche secondario, ciò che i vari generi possono avere in comune tra loro. Tuttavia è necessario ritornare su alcuni aspetti del rapporto fra testo classico e testo di genere, in relazione al musical, per definire il campo discorsivo in cui muoverci. Abbiamo già sottolineato che il primato assegnato al racconto, alla story, appare a molti del tutto inadeguato, per non dire marcatamente sbagliato, nel definire il musical, perché è evidente che nella struttura di questo genere un ruolo fondamentale è giocato dalla componente spettacolare: i numeri cantati e danzati segnano una sospensione del racconto e si presentano come puro intrattenimento, momenti in cui l’esperienza spettatoriale è definita dal piacere più che dal sapere, che invece caratterizza il racconto. I modi di articolare il rapporto tra racconto e spettacolo sono molteplici: se ne può costruire una tipologia che costituisce il punto di partenza più utile per un discorso sul genere di natura sia storica che teorico-interpretativa. A un’estremità troviamo il format del revue musical, la prima forma a emergere, che come l’originale teatrale è pressoché privo di intreccio e consiste in una serie di numeri musicali autonomi9. Ma a eccezione di questo caso estremo, i registri del racconto e dello spettacolo si alternano nel corso dello stesso film. La natura di questo rapporto varia in modo significativo e seguirne la traiettoria dagli anni trenta agli anni cinquanta consente di cogliere lo statuto particolare del musical rispetto alla classicità. Proprio perché, come afferma Richard Dyer, «la nozione di intrattenimento è un’idea ovvia, non viene mai discusso ciò che essa veramente significa»10. Poiché il musical tematizza la questione dell’intrattenimento, che gli altri generi mascherano attraverso una diversa opzione semantica, esso è in grado di produrre un discorso teorico sulla natura del cinema e dell’immagine anche in rapporto agli altri media. Nel mutato mediascape degli anni cinquanta il musical può riflettere sullo statuto del cinema hollywoodiano meglio di altri generi. In particolare, i musical MGM cantano le ultime gesta della grande Hollywood in un momento di passaggio, quando cioè il cinema non è più la forma dominante di intrattenimento popolare, ma nemmeno è stato ancora definitivamente sostituito. Nonostante il numero di film e sottogeneri prodotti, sono tre le serie di musical più significative, influenti e problematiche da un punto di vista formale e interpretativo: si tratta, in ordine cronologico, dei film di Busby Berkeley per Warner Brothers, dei musical della coppia Fred Astaire/Ginger Rogers (RKO) e dei film usciti dall’Unità di produzione di Arthur Freed alla MGM. Le chiavi di lettura da utilizzare per l’analisi riguardano, oltre al mutato statuto del rapporto tra racconto e spettacolo, l’opposizione tra show musical e musical integrato. Ogni film musicale delle tre serie ricade infatti in una delle due categorie: lo show musical verte sull’allestimento di uno spettacolo a Broadway, alternato con le vicende quotidiane dei protagonisti al di fuori del teatro, mentre nel musical integrato i numeri musicali e il racconto fanno parte dello stesso mondo narrato. Un’implicita (e inconscia) propensione a valorizzare il racconto ha portato gli studiosi – in modo molto simile al cinema stesso – a considerare la storia del musical come una lenta conquista della narratività e dell’integrazione. Se i film di Berkeley sono l’esempio più radicale di separazione tra show e spettacolo, quelli di Astaire e Rogers costituiscono un modulo di musical diverso, un primo esempio di integrazione tra racconto e spettacolo, in cui la polarità tra i due registri viene attenuata. Martin Rubin, per esempio, ha sottolineato che gli spazi della diegesi e dello spettacolo non sono diversi, ma tendono a essere gli stessi: lo spazio della performance «non è confinato a un luogo separato come lo stage teatrale, ma ogni spazio è potenzialmente adatto alla performance». Altre strategie concorrono ad avvicinare i
due registri: da un lato il mondo della performance «appare più naturale e controllato», meno eccessivo che in Berkeley, dall’altro «il mondo della diegesi è più artificiale e stilizzato» rispetto a quello dei musical Warner. L’effetto complessivo di queste scelte è di ridurre drasticamente il gap tra racconto e spettacolo11. L’integrazione tra racconto e numero musicale è anche dovuta al fatto che i momenti di spettacolo sono in parte motivati dagli eventi del racconto, fino al punto che i numeri musicali di coppia «sono un racconto»12. Anche lo stile della ripresa tende a uniformarsi: nonostante spesso i numeri di danza siano girati con riprese in continuità, seguendo in figura intera o campo medio i movimenti dei due ballerini, lo stile è del tutto classico, in perfetta sintonia con il periodo. Del resto i film Astaire/Rogers, girati fra il 1933 e il 1939, condividono molti tratti della commedia sofisticata, genere classico per eccellenza. Se la storia del musical può essere vista come «una progressione dalla primitività dell’aggregazione alla maturità dell’integrazione»13, questo tragitto può ritenersi compiuto con la produzione dei musical MGM della Arthur Freed Unit14. Qui, è stato affermato, l’inserimento di un numero canoro o danzante viene motivato da elementi narrativi così da attenuare l’artificiosità della tipica situazione del musical integrato, in cui un personaggio, durante un qualsiasi momento della quotidianità, esplode in un canto o una danza gioiosa. Questa ipotesi mi sembra in realtà piuttosto problematica e tradisce il desiderio di ricondurre lo spettacolo sotto l’egida del racconto. Se Altman aveva di sfuggita accennato a una critica, quando affermava che la nozione di integrazione «si fa portatrice di uno standard di realismo che è antitetico allo spirito del genere»15, in epoca più recente critiche più articolate e convincenti sono state avanzate nell’ambito dei queer studies attraverso la nozione di estetica o gusto camp. Partendo da un primo contributo di Susan Sontag degli anni sessanta, la nozione di camp è stata rielaborata a più riprese, in particolare da Richard Dyer in un saggio su Judy Garland. Questa prospettiva si è rivelata particolarmente produttiva, nello studio del cinema americano, in quanto fonde mirabilmente questioni di natura estetica con questioni relative al soggetto e all’identità, individuando nel camp l’iscrizione di una soggettività poco normativa. Il gusto camp può essere sia uno stile che un atteggiamento spettatoriale, un modo particolare di relazionarsi con il film. Alla base del camp sta, in ogni modo, un atteggiamento ironico verso la rigida divisione di gender in maschile e femminile: in quest’ottica lo stile eccessivo e artificioso del musical MGM, in particolare quello dei numeri musicali, viene percepito come un commento critico all’intreccio romantico che domina la storia. In questa prospettiva risulta necessario mettere in discussione la presunta tendenza all’integrazione, secondo cui l’eccessività dello spettacolo verrebbe motivata e finalizzata al racconto, la formazione della coppia. L’eccesso visivo e spettacolare assume un’istanza parodica nei confronti dell’azione, creando uno iato tra racconto e stile. Secondo questa linea interpretativa, la dialettica fra i due livelli testuali è quanto mai importante e va dunque mantenuta, non neutralizzata. Al tempo stesso il camp nasce nel momento della fruizione, sta nell’occhio di chi guarda più che nel film, tanto che negli Stati Uniti è stato, storicamente, una pratica di lettura e interpretazione di prodotti di intrattenimento di massa sviluppata dalla comunità gay. Il fenomeno è rilevante e del tutto particolare specialmente se consideriamo che il musical è da tempo decisamente «fuori moda», ma mantiene un seguito di nicchia nella comunità omosessuale, e non solo americana. Lo statuto parodico del camp style è inteso come sovvertimento delle regole: così il camp divenne lo stile autoriflessivo di gay che, in epoca di censura sessuale, dovevano passare per eterosessuali, potendo al tempo stesso fare l’occhiolino agli iniziati che condividevano lo stesso orientamento sessuale16. Alcune dive del cinema hollywoodiano hanno acquisito uno statuto di «icona gay» comprensibile nei termini appena evocati, ma che, secondo le ricerche di Cohan, hanno ottenuto nuova linfa tramite Internet. Il leggendario appeal di Judy Garland presso la comunità gay è paradigmatico, ma anche del tutto particolare. Dyer si è interrogato sui motivi dell’adorazione dei gay per l’attrice, sul significato che l’immagine della diva ha assunto in questa comunità. È la compresenza di ordinarietà e differenza, oltre che l’androginia del suo personaggio, per esempio in The Pirate (Il pirata, V. Minnelli,
1949), a fare di Judy Garland una figura che sfida la norma e i ruoli sessuali codificati. Più che essere interpretata in modo camp, è una star che esprime il dispositivo e il funzionamento del camp stesso17. Partendo da questi presupposti, Matthew Tinkcom ha sottolineato come la creazione dello stile camp della Freed Unit sia dovuta al contributo del gay labor, inteso non solo, materialmente, come il lavoro creativo dei numerosi artisti e professionisti gay dell’unità Freed, ma anche come un’effettiva influenza sullo stile, sul look dell’immagine. Il «lavoro gay» rende problematica la storia d’amore eterosessuale: la fusione tra «romance eterosessuale e “stile visivo omosessuale”» è responsabile del look visivo eccessivo del musical18. In secondo luogo, lo stile camp permette al film di «passare» come innocuo prodotto di intrattenimento, così come i gay nella quotidianità devono mascherare le proprie tendenze e passare come etero. La distanza parodica evocata può essere vista nel contesto del nuovo statuto dell’immagine e della soggettività: l’idea che la lettura camp dia un’interpretazione opposta a quella dominante, sostituendo alla nozione di musical come puro intrattenimento quella di genere in cui si compie un lavoro di decostruzione dell’identità, va vista in questo senso. Ma l’idea che il significato si crei in modo in parte autonomo dal film è forse un’ulteriore conferma della perdita di referenzialità dell’immagine cinematografica. Da ultimo, tali strategie hanno importanza proprio perché investono lo statuto del soggetto umano, in particolare l’identità di gender. L’artificiosità dei numeri musicali può, essendo in qualche misura integrata al racconto, mettere in risalto l’elemento artificioso, performativo, di ogni agire umano, mostrando quindi la non naturalità, la socialità del gender. In quest’ambito, il musical MGM si mostra più radicale del family melodrama, che si dedica a criticare le forme codificate dell’identità di gender senza però spingersi a dichiarare la natura discorsiva del gender stesso. Per definire lo statuto del musical in relazione alle questioni della referenzialità e della performance bisogna considerare, a nostro avviso, non il concetto di integrazione, ma quello di motivazione, solo apparentemente intercambiabili. Poiché la motivazione è il principio cardine dell’azione classica, lo statuto del musical in termini di classicità dipende dal grado di motivazione che lega il numero musicale alla storia. Se consideriamo le tre forme principali del genere, possiamo notare una progressiva diminuzione del grado di motivazione. Nei film di Busby Berkeley i numeri musicali sono del tutto motivati, in quanto la storia riguarda l’allestimento di uno spettacolo di Broadway. Se consideriamo in quest’ottica i film della coppia Astaire/Rogers dovremmo chiederci se i numeri di danza sono narrativamente motivati. Cioè, avvengono in spazi codificati come spazi dello spettacolo e dell’esibizione? In realtà Fred Astaire in assolo o in coppia con Ginger Rogers tende a ballare in qualsiasi luogo, trasformando in una sorta di stage ogni spazio che frequenta. Anzi è più facile che si danzi in un ambito quotidiano, o in uno spazio liminare, come la hall di un hotel, che in quello di un locale notturno o un teatro. Tuttavia, la motivazione non viene mai meno in quanto, a eccezione di Carefree (Girandola, M. Sandrich, 1938), Astaire è un ballerino di professione. Che balli negli spazi di un lussuoso hotel veneziano invece che nei teatri in cui solitamente si esibisce, come in Top Hat (Cappello a cilindro, M. Sandrich, 1935), o diriga e canti con la banda dei marines, dopo che la fidanzata e partner di ballo si è rifiutata di sposarlo, come in Follow the Fleet (Seguendo la flotta, M. Sandrich, 1936), non sembra fare differenza. Il personaggio di Astaire è definito dalle sue qualità artistiche, dal suo essere un ballerino professionista: questo elemento motiva e rende verosimili le danze. In altre parole, la motivazione assicura la plausibilità del racconto: le danze di Astaire e Rogers, quando non avvengono in spazi destinati all’esibizione, non immettono un tratto di artificiosità nella realtà, ma sono semplicemente la dimostrazione delle abilità professionali di due ballerini. La motivazione narrativa opera in modo antitetico rispetto all’eccesso spettacolare, il cui tratto primario è quello del puro piacere visivo. Pertanto, nel motivare ogni numero musicale il dispositivo narrativo può controllare e in parte disattivare l’eccesso visivo. Questa operazione è
ancora più riuscita nei film di Astaire e Rogers in cui manca la spettacolarizzazione dell’immagine, così importante nei numeri musicali di Busby Berkeley. Nei film della Freed Unit il rapporto tra racconto e numero musicale è di segno opposto e la motivazione è quasi assente. Nella maggior parte dei casi non vi è alcuna ragione perché i personaggi inizino a cantare. Non si tratta di artisti, di cantanti e ballerini e sono spesso assenti gli spazi ufficiali dell’esibizione: eppure i personaggi cantano e danzano trasformando lo spazio quotidiano in uno spazio fantastico. Solo in questa forma musicale viene a rompersi la dicotomia fra racconto e spettacolo e lo spettacolo, la finzione invade tutto il film: così lo show e l’intrattenimento non sono più l’oggetto della storia, è l’immagine stessa che diventa spettacolo puro. L’effetto è particolarmente efficace quando il personaggio principale è un tipo comune, non un artista professionista, come per esempio Judy Garland in Meet Me in St. Louis (Incontriamoci a St. Louis, V. Minnelli, 1944) e in Le ragazze di Harvey, normale ragazza di liceo nella St. Louis di inizio Novecento nel primo, cameriera del ristorante Harvey’s a Santa Fe nel secondo. Nei musical della Freed Unit si concentrano vari tipi di eccesso: da un lato l’uso del Technicolor e gli ampi movimenti di macchina rendono sia artificiosa che spettacolare l’immagine, dall’altro le normali attività quotidiane vengono continuamente interrotte da canti e danze che spesso coinvolgono tutta la comunità. Se i film di Berkeley avevano valorizzato il collettivo, in sintonia con lo spirito del New Deal che spingeva verso la cooperazione, i musical di Astaire erano proprio l’opposto, in quanto egli «era troppo bravo come performer singolo per essere funzionale ad un’etica dello sforzo collettivo e della cooperazione»19. I musical MGM rivalutano la coralità e il collettivo, ma lo scenario è opposto a quello dei musical Warner di inizio anni trenta: l’energia, l’abbondanza, l’intensità, la trasparenza e i valori della comunità caratterizzano ormai il quotidiano, tutto il mondo del film, e non solo i numeri musicali20. Dyer sostiene che l’escapism del musical connota il progetto utopico del genere: le categorie appena nominate sono categorie utopiche in quanto rappresentano la soluzione a tensioni o inadeguatezze sociali, sempre almeno in parte «reali». Il rapporto fra problema e soluzione utopica viene messo in scena attraverso il conflitto formale tra racconto e numeri musicali, di cui il critico inglese propone tre modelli. In On the Town (Un giorno a New York, S. Donen/G. Kelly, 1949), per esempio, viene «dissolta la distinzione tra racconto e numeri, di fatto suggerendo che il mondo del racconto è anche (già) utopico»21. A tale scopo, solitamente si evita di ancorare il film a un tempo e uno spazio precisi, preferendo luoghi geograficamente lontani, oppure l’America di inizio secolo, oppure ancora scegliendo comunità così diverse da quella standard bianca e urbana, per esempio quella contadina o quella afro-americana, tanto «da poter quasi far credere (a un’audience americana, bianca e urbana) che il canto e la danza sono “nell’aria”», parte inteGrante di un mondo passato. Il racconto viene introdotto più tardi e rappresenta un pericolo temporaneo all’utopia: così il modello di Un giorno a New York «rovescia gli altri modelli di musical in cui il racconto domina e i numeri sono una fuga temporanea da esso»22. La proposta di Dyer mi sembra particolarmente utile alla nostra analisi. Contrariamente all’impressione del critico inglese che questo modello sia raro, mi sembra invece che costituisca una valida definizione dei musical della Freed Unit e, in definitiva, il modello più sfruttato nel dopoguerra. Quasi tutti i migliori musical MGM sono dominati dall’impulso utopico: Incontriamoci a St. Louis e Le ragazze di Harvey, ma anche Il pirata, Yolanda and the Thief (Jolanda e il re della samba, V. Minnelli, 1945), Brigadoon (V. Minnelli, 1954) Gigi (V. Minnelli, 1958) e molti altri23. È altresì evidente che il registro utopico e la mancanza di verosimiglianza sono tratti particolari della perdita referenziale dell’immagine. Spettacolo e performance diventano la modalità egemone della messa in scena e lo spettatore deve accettare il «patto di genere» che la rappresentazione musicale sia irreale. Così, se lo scopo del musical è di intrattenere, ovvero di produrre un piacere puro, scarsamente implicato con un processo di significazione, al tempo stesso l’esperienza di fruizione del genere richiede
un’implicita operazione cognitiva, in quanto lo spettatore deve capire e accettare il patto che ciò che vede è privo di dati referenziali. ARTIFICIO E SOGGETTIVITÀ I: «LE RAGAZZE DI HARVEY»
Le ragazze di Harvey è un «tipico» musical MGM di metà anni quaranta: dalle forme produttive agli indici stilistici, dalle strutture dell’immaginario alla presenza attoriale e alle tecniche recitative e canore, il film rappresenta un esempio perfetto di studio style. La ricetta creativa e realizzativa è talmente riuscita che si potrebbe persino pensare che il regista sia lo stesso Minnelli, l’autore di punta dell’Unità Freed, e non George Sidney. Se pensiamo all’inizio, non possiamo non notare la somiglianza con l’incipit di Incontriamoci a St. Louis: dopo i primi momenti ambientati nel treno per Sandrock, dove Susan/Judy Garland incontra le ragazze di Harvey, la cittadina in cui la storia sarà ambientata ci viene introdotta con una spettacolare passed-along song, un motivo cantato collettivamente in cui, letteralmente, la canzone viene passata da un personaggio all’altro, con ogni performer che canta una parte della canzone per poi girarla a quello successivo. Questa traiettoria musicale è accompagnata da movimenti spaziali, con i personaggi che si muovono nell’ambiente e la mdp che li segue con ampi spostamenti. A differenza degli assoli o dei duetti, legati alla storia d’amore e alla formazione della coppia, la passedalong song è legata alla comunità e ha l’importante funzione di costruirne o evocarne l’unità. Rick Altman ha sottolineato che «spostandoci da un cittadino contento a un altro, possiamo riconoscere in che misura i loro interessi comuni hanno sincronizzato ogni singolo movimento», mentre Jane Feuer ha rimarcato che «il parallelismo tra la formazione della coppia e la formazione di una comunità stabile è un segno certo del folk musical»24. In Le ragazze di Harvey la costruzione della comunità ha uno statuto forse ancora più significativo che in altri folk musical per la forte componente western, genere con cui il film di Sidney è ibridato. La passed-along song è almeno in parte una tecnica cinematografica, un dispositivo in cui il montaggio occupa un ruolo fondamentale. On the Atchison, Topeka and the Santa Fe, melodia portante di tutto il film, inizia all’interno del saloon, luogo western per eccellenza, intonato dall’aiuto cuoco nero, che con il tipico passo «noncoreografato» del folk musical, più vicino alla camminata che alla danza25, attraversa tutto lo spazio interno e giunge sino all’uscita del locale. A quel punto la canzone viene passata ad altri membri della comunità, quindi, attraverso un ponte sonoro sull’immagine delle ruote del treno in movimento, ritorniamo nella carrozza: la canzone continua a transitare di personaggio in personaggio, con le ragazze di Harvey che cantano affacciate al finestrino, sino a che il treno giunge a destinazione. Ora un’inquadratura dall’alto riprende nello stesso spazio il treno e la main street del paese: così i due luoghi sono prima mostrati separatamente, poi avvicinati attraverso la comune canzone, quindi fusi in un unico luogo [61]. Il treno sosta per far scendere Susan e le ragazze di Harvey, accolte da cow-boy in cerca di moglie, quindi prosegue il suo tragitto. Le ragazze lavoreranno nel nuovo ristorante della catena Harvey che si sta aprendo a Sandrock, mentre Susan ha lasciato un paesino dell’Ohio per venire a sposarsi, dopo aver risposto a un annuncio matrimoniale. Se da un punto di vista narrativo gli episodi iniziali ci presentano i personaggi e le loro motivazioni, da un punto di vista formale la passed-along song anticipa la costruzione di una comunità, o meglio la trasformazione di Sandrock in un villaggio civilizzato. L’intreccio riprende i tratti principali del western: non solo l’ambientazione, ma soprattutto l’opposizione tra wilderness e civilization, qui declinata nella dicotomia tra il saloon e il ristorante per famiglie Harvey26. I due locali rappresentano due tipi di divertimento, il wild time e il good time, come dirà il reverendo del paese, offerti e incarnati da due diversi tipi di donna, le prostitute del saloon, gestite da Angela Lansbury, e le cameriere del ristorante, guidate dall’energica Judy Garland. L’idea di comunità anticipata all’inizio sarà qui più difficile da raggiungere rispetto al folk musical, proprio per la forza dei materiali del western, il cui valore ideologico è agli antipodi rispetto al musical.
Il film era stato concepito come un western e doveva essere interpretato da Clark Gable, ma dopo mesi di pre-produzione non si riuscì a venirne a capo e MGM decise, secondo la testimonianza di Sidney, «di darlo all’Unità Freed» perché lo trasformasse in un musical27. La particolare storia produttiva del film ha un esito positivo e l’ibridazione tra strutture formali e ideologiche dei due generi dà luogo a un esempio estremamente riuscito, certamente non meno interessante di un film molto analizzato e discusso come Il romanzo di Mildred, uscito lo stesso anno. Se il film di Sidney è a tutti gli effetti in sintonia con il folk musical MGM, è invece peculiare il discorso sulla sessualità femminile, spesso assente dal genere, e la cui iscrizione può essere spiegata proprio dall’ibridazione con il western. Per il nostro discorso va rilevato che la fusione tra i due generi porta alla negazione di un’essenza femminile: il film invita a prendere atto che l’identità di gender è il prodotto di performance, una pratica discorsiva più che l’espressione dell’interiorità del soggetto. Sandrock si prepara all’apertura del nuovo ristorante della Fred Harvey Company, una catena di luoghi di ristoro e hotel costruiti lungo la rete ferroviaria Atchison, Topeka and Santa Fe Railway dal 1870 circa. I ristoranti Harvey non avrebbero portato nel Sud-Ovest solo buon cibo, ma anche «civilization, community, and industry to the Wild West», grazie anche all’impiego di personale quasi esclusivamente femminile. Peraltro Harvey assume donne nel momento in cui i lavori loro destinati sono sostanzialmente quelli di domestica e insegnante, contribuendo dunque ad ampliare le opzioni lavorative femminili28. Il film mostra esplicitamente questa dinamica. Dopo avere conosciuto il promesso sposo Susan rinuncia al matrimonio, ma non torna nell’Ohio e viene assunta nel nuovo locale: come per le altre ragazze, provenienti da svariati luoghi sperduti degli stati del Midwest, il viaggio e il lavoro da Harvey rappresentano un’opportunità unica di emancipazione economica e sociale. Il cestino da viaggio vuoto di Susan ci dice che la ragazza è povera e che il matrimonio scelto a distanza era in primo luogo una chance economica.
59. Le ragazze di Harvey (G. Sidney, 1945).
60. Le ragazze di Harvey (G. Sidney, 1945).
61. Le ragazze di Harvey (G. Sidney, 1945).
L’apertura del nuovo locale preoccupa Ned Trent, proprietario del saloon. Unico luogo di intrattenimento del posto, il saloon teme la concorrenza del ristorante che aprirà proprio di fronte, sul lato opposto della main street. La dualità tra wilderness e
civilization si esprime tramite i tentativi da parte dei gestori del saloon di sabotare il ristorante, il cui successo è immediato: prima rubando la carne, la famosa steak di Harvey, poi spaventando le ragazze sparando di notte nelle loro stanze, quindi mettendo un serpente in una delle camere e infine incendiando il locale stesso. A eccezione del primo episodio, in cui Ned Trent è coinvolto, le intimidazioni sono organizzate autonomamente dal gestore del saloon all’insaputa del proprietario: ormai innamorato di Susan, Trent smette di compiere azioni illegali, anche se il ristorante alla fine manda out of business il saloon. Dopo il grande successo della prima festa organizzata da Harvey’s, con gli uomini di Sandrock che preferiscono divertirsi a ballare con le cameriere invece di andare a giocare d’azzardo e intrattenersi con le donne del saloon, Trent decide di trasferire il locale a Flagstaff. Alla fine gli spazi del saloon vengono occupati dal ristorante, i cui locali sono andati completamente distrutti dall’incendio. Mentre Susan, pur di restare accanto a Trent, si unisce alle ragazze del saloon e a insaputa dell’uomo sale nel treno per Flagstaff, lui prende la stessa decisione: pur di non lasciare Susan abbandona la sua attività equivoca e rimane a Sandrock. L’uomo seguirà a cavallo il treno per riportare indietro l’amata. La fusione tra western e musical è particolarmente produttiva, perché i due generi appartengono a due ordini opposti. Riprendendo l’utile e felice formula di Thomas Schatz, il western è, come il gangster e il noir, un genre of order, in quanto prevede «l’eliminazione di un pericolo per l’ordine sociale» per mano dell’eroe, mentre il musical, come la screwball comedy e il melodramma, è un genre of integration, ovvero ambientato in uno spazio sociale già civilizzato in cui «si traccia l’integrazione dei personaggi principali nella comunità»29. La fusione di due generi opposti è assai più interessante che non quella tra generi dello stesso «sistema», dando luogo a una sorta di smascheramento reciproco dei valori culturali supportati da ciascun genere, in quanto ognuno dei due immette ciò che l’altro di solito rimuove. In Le ragazze di Harvey manca l’eroe del western, ma è assente anche la tipica coppia del musical, solitamente presentata e costruita da una serie di parallelismi formali e figurativi30. Da un lato il genere western fa a meno del personaggio principale cedendo la funzione al musical e a Judy Garland. Dall’altro l’intreccio presenta comunque una conflittualità vicina al western, in aperto contrasto con la struttura drammaturgica del folk musical, in cui il racconto vero e proprio è considerevolmente ritardato, per lasciare spazio ai numeri musicali, e il conflitto narrativo è sostanzialmente inesistente. Se pensiamo a Incontriamoci a St. Louis, la decisione del padre di trasferire la famiglia a New York per lavoro, e che incontra lo sfavore di tutti i componenti, non solo viene introdotta piuttosto tardi, ma non sembra mai un pericolo reale, tanto è forte la componente utopica. Nel film di Sidney, invece, il conflitto è molto più tangibile e ben costruito e attraversa tutto il film; in secondo luogo, in opposizione al principio formale del parallelismo tipico del musical, qui domina l’opposizione dialettica, esemplificata dal contrasto tra le due donne, Angela Lansbury e Judy Garland. L’azione principale si svolge nei pressi della main street, una strada diritta ai cui lati stanno tutte le attività commerciali e di intrattenimento della comunità. Come in un campo/controcampo la diegesi si concentra su due spazi posti l’uno di fronte all’altro e abitati da due gruppi di donne dal comportamento opposto: da una parte le prostitute del saloon, dall’altra le pudiche cameriere del ristorante, da un lato il vizio del West ancora privo di leggi ferree, dall’altro la virtù civilizzatrice dell’Est. È il tipico conflitto del western che permane sino alla fine, nonostante l’assenza effettiva di violenza e di morte, dovuta all’ibridazione con il musical31. Tuttavia, lo sviluppo del conflitto può aver luogo solo quando l’iniziale separazione tra i due spazi viene rotta e comincia la contaminazione tra i due luoghi e, inevitabilmente, tra i due set di valori supportati. Le ragazze di Harvey non presenta semplicemente un’iconografia western inserita in un racconto musicale, ma fonde i valori culturali e controculturali di entrambi i generi: si tratta, se mi è concesso, di un «testo bifocale»32 al quadrato, in cui, cioè, le soluzioni narrative e i valori veicolati sono il prodotto degli incroci tra i due generi. La messa in scena della sessualità femminile è in quest’ambito un elemento di indubbia importanza. Il film presenta due modi di essere del femminile opposti e apparentemente
inconciliabili, l’uno vicino al western, l’altro al musical. In verità, proprio in virtù dell’ibridazione, lo sviluppo narrativo evidenzia vari momenti di incrocio e sovrapposizione tra le due modalità. Il primo episodio significativo del confronto tra le due donne è un «parallelismo a distanza» che mette in risalto i loro diversi stili canori: se il parallelismo è un dispositivo formale del musical, qui viene rielaborato in sintonia con il western, mettendo a confronto non i due soggetti della futura coppia, ma le due donne, rappresentanti di opposti codici culturali. Nella prima scena del film Judy Garland, appartata in coda al treno, canta una melodia triste mentre sullo sfondo, in retroproiezione, vediamo la Monument Valley, leggermente sfuocata. È un assolo che esprime la sofferenza della donna, diretto al pubblico in sala: è l’unico numero in cui non è presente un’audience diegetica33. È un piano-sequenza in cui la mdp, posta su un Dolly, si muove avvicinandosi e allontanandosi dal personaggio sino a terminare su un PP della protagonista. L’uso della retroproiezione ha l’evidente effetto di astrarre il volto dallo spazio [59]. La scena si propone di presentare una performance canora di Garland. Viene seguita dal lungo episodio all’interno del treno, in cui Susan fa la conoscenza delle ragazze Harvey. Quindi la diegesi si sposta a Sandrock, nel saloon dove Angela Lansbury sta cantando accompagnata al piano. Lo stile di messa in scena è agli antipodi rispetto alla scena precedente. Da un lato le scarse abilità canore della donna appaiono subito evidenti, soprattutto in relazione all’interpretazione di Garland, dall’altro la profondità di campo rende visibili tutti gli oggetti di arredamento del locale, rendendo meno centrale il soggetto umano, posizionato nella parte destra dell’inquadratura, e non al centro, e ripreso dall’alto. Al volto sofferente di Garland che canta, fuoco della scena iniziale, si contrappone la ripresa dello spazio del saloon, mentre la donna che lì si esibisce appare poco più che un elemento del profilmico [60]. Il secondo episodio di confronto tra i due modi del femminile è collettivo, e riguarda da un lato la lezione del maître alle cameriere sulle regole e i modi di servire, dall’altro un episodio speculare all’interno del saloon, in cui le ragazze fanno le prove del can can. Dagli abiti, lunghe gonne e grembiuli per le prime, succinti abitini sexy per le seconde, ai parametri visivi e coloristici, le due scene oppongono la pruderie alla sessualità esibita. Gli spazi del ristorante e del saloon rimangono per la prima parte del film separati, senza che nessuna delle protagoniste si avventuri nel luogo altrui. Saranno le ragazze virginali di Harvey, sempre vestite di tutto punto con l’abito lungo bianco e nero, a essere attratte dall’altro spazio, a essere incuriosite dalle donne facili e scostumate del saloon. Del resto, benché l’attrazione di Trent per Susan sia evidente sin dapprincipio, l’uomo non fa nulla per iniziare il rapporto con la donna. È Susan che lo avvicina per prima ed è di fatto responsabile dell’inizio della relazione. Lo scontro decisivo tra i due gruppi e i due spazi avviene alla festa del ristorante: le ragazze di Harvey non si limitano più a offrire buon cibo, ma cominciano a intrattenere i maschi del luogo con balli e danze. La festa lascia il saloon vuoto e le ragazze di Lansbury con Trent vanno incuriosite al locale di fronte. Ma gli uomini non le seguono e sembrano ormai preferire il good time al wild time. Il saloon dovrà chiudere i battenti e spostarsi in un luogo dove l’azione di civilization non si è ancora compiuta. Se le ragazze di Trent saranno costrette ad andarsene, è vero che le ristoratrici di Harvey’s, trasferitesi dopo l’incendio nei locali del saloon, anche in virtù di questo spostamento assorbono metaforicamente un elemento residuale delle donne che le hanno precedute. Del resto, la sequenza finale delle prostitute nel treno verso Flagstaff è perfettamente simmetrica a quella iniziale con le future ristoratrici in viaggio per Sandrock. La protagonista è presente in entrambe, prima a fianco delle une poi delle altre, letterale anello di congiunzione tra i due gruppi e i due modelli di femminilità. Nella scena finale Susan, che ha accettato per amore di Trent di diventare una ragazza del saloon, afferma che non vi è poi una grande differenza tra i due tipi di donna, solo un vestito diverso. Questa dichiarazione esplicita il dispositivo narrativo del film ed è un esempio mirabile della duplicità e dell’ambiguità della star che la lettura camp di Richard Dyer ha evidenziato. Susan mette in discussione modi di essere socialmente
sanciti e si muove tra identità sessuali opposte. Ma se tra la vergine e la prostituta la distanza non è incolmabile, allora l’identità, e non solo quella di gender, è il frutto di atti sociali, non l’espressione di un’essenza. A differenza del «musical puro», che tende a eliminare il discorso sulla sessualità, la fusione con il western è un’operazione trasgressiva che consente di disattivare le tipiche strategie di contenimento del film classico. ARTIFICIO E SOGGETTIVITÀ II: «GLI UOMINI PREFERISCONO LE BIONDE»
Gli uomini preferiscono le bionde riscrive le dinamiche del femminile fondendo l’autorialità di Hawks, regista sempre attento all’ambiguità dei rapporti di gender, con le qualità divistiche e recitative di Marilyn Monroe in coppia con Jane Russell34. Nella filmografia di Marilyn, Gli uomini preferiscono le bionde è, assieme a How to Marry a Millionaire (Come sposare un milionario, J. Negulesco, 1953), il film in cui la complicità femminile è centrale. Tuttavia, mentre nel film di Negulesco essa è il mezzo tramite cui le tre amiche riescono ad accalappiare un uomo, in Hawks l’amicizia tra Lorelei/Marilyn Monroe e Dorothy/Jane Russell è un’opzione alternativa e conflittuale rispetto alla coppia eterosessuale. Ripetendo il dispositivo di Il fiume rosso, Hawks mostra che l’amicizia omoerotica, femminile in questo caso, maschile nel western precedente, non può coesistere al rapporto tra uomo e donna. In Hawks, anzi, l’amicizia è sempre di natura sessuale e configura, in modo piuttosto esplicito, dispositivi del desiderio che minano quello più tradizionale. La forza del rapporto tra Lorelei e Dorothy è evidente ed è stata già segnalata35. Di particolare interesse è il fatto che in Gli uomini preferiscono le bionde il rapporto tra femminile e maschile viene articolato attraverso un originale utilizzo dei codici narrativi e formali del genere musicale. Come in molti suoi film, il rapporto di Hawks con il genere è chiaramente autoriale: Hawks è allo stesso tempo all’interno e all’esterno del genere, e, pur non trasgredendone i canoni essenziali, riesce a osservarli con occhio critico, tanto da proporcene una messa in scena personale e non scontata. La riflessione sul gender è in questo senso fondamentale: nelle mani di Hawks i generi ci restituiscono una rappresentazione del soggetto umano e del suo desiderio non fissa ma performativa. In questo film il rapporto femminile/maschile viene costruito attraverso una rielaborazione della struttura narrativa e un riutilizzo tendenzioso del rapporto tra storia e numeri musicali. Il dispositivo narrativo del genere musicale presenta peculiarità che lo contraddistinguono dalla struttura classica tout court. In particolare, la costituzione della coppia eterosessuale, centro narrativo e ideologico del genere, viene determinata da strategie retoriche precise, per esempio ricorrendo a continui parallelismi tra i due protagonisti a livello di «set e situazioni, costumi e movimenti, sino al dialogo e alle singole inquadrature». In luogo di motivazioni psicologiche e relazioni causali, nel musical «la sequenza delle scene è determinata non in virtù di necessità narrative, ma in risposta a un bisogno più importante: lo spettatore deve avere la sensazione che i due protagonisti formano una coppia anche quando non sono insieme, ancor prima del loro incontro»36. I parallelismi servono, dunque, ad avvicinare i due, a unirli formalmente prima che diegeticamente. In quest’ottica è chiaro che in Gli uomini preferiscono le bionde non vi è alcuna coppia eterosessuale che risponde a questa definizione. L’unica coppia che attraversa tutto il film è quella costituita da Lorelei e Dorothy. Semmai, il film può essere descritto come il tentativo di dividere la coppia iniziale, formata dalle due showgirl, per destinarle a normali nozze. Il film, in effetti, si conclude con un doppio matrimonio: ma il movimento finale della mdp, che stringendo sulle due protagoniste spinge contemporaneamente fuoricampo i due promessi sposi, è un’esplicita messa in discussione dell’evento diegetico finale, il matrimonio stesso. Con una strategia tipica da subversive text, Hawks propone un rovesciamento, suggerendo che l’unione tra le due donne è l’opzione preferita [65].
Il film inizia con un’esibizione di Lorelei e Dorothy che duettano davanti al pubblico di un locale notturno [62]. Con l’eccezione di un breve momento, in cui Dorothy esce fuoricampo lasciando Lorelei protagonista dell’inquadratura, le due sono costantemente riprese in two-shots. È il primo di una serie di duetti in cui le amiche dimostrano complicità e affiatamento perfetti. Ma viene anche suggerito che, come in un’unione tra uomo e donna, le due hanno anche caratteristiche opposte: Dorothy è bruna, Lorelei è bionda, la prima è alta, la seconda più minuta. La presenza di elementi opposti – in seguito, si aggiungerà il diverso colore dei loro abiti – dà l’idea di una coppia in qualche modo completa e autosufficiente (così come lo sono molte coppie della commedia, soprattutto americana).
62. Gli uomini preferiscono le bionde (H. Hawks, 1953).
63. Gli uomini preferiscono le bionde (H. Hawks, 1953).
64. Gli uomini preferiscono le bionde (H. Hawks, 1953).
65. Gli uomini preferiscono le bionde (H. Hawks, 1953).
Nell’episodio successivo, Gus, lo stupido e ricco fidanzato di Lorelei che avevamo visto tra il pubblico, si reca nel camerino delle due per consegnare l’anello di fidanzamento a Marilyn: l’entrata dell’uomo si configura come una vera e propria intrusione, che separa momentaneamente le due donne e che Dorothy non manca di segnalare con alcune battute esplicitamente gelose. Troviamo in questi due opposti movimenti la matrice del progetto narrativo del film: in Gli uomini preferiscono le bionde le due amiche sono alternativamente unite e separate, e questa alternanza riflette, in linea di massima, quella tra numeri musicali e plot. L’amicizia femminile, in altre parole, sembra possibile solo nel regno della performance, dello spettacolo e, per estensione, della fiction, mentre la realtà è dominata dai tentativi di unire la donna all’uomo. In questo itinerario trova spazio anche l’articolazione degli sguardi destinati a Marilyn, oggetto sia del tradizionale sguardo maschile che di quello dell’amica. I momenti di unione e complicità tra Lorelei e Dorothy sono quelli più significativi dal punto di vista stilistico: in questi episodi le tecniche di messa in scena diventano visibili e segnalano, dunque, l’importanza degli eventi narrativi. Questa strategia espressiva – anch’essa in sintonia, come l’immaginario del film, con lo stile di molto cinema del decennio – è sistematica e connota anche l’ultima inquadratura precedentemente descritta. Al contrario, l’eccesso stilistico è assente negli episodi in cui le protagoniste sono impegnate con un personaggio maschile, si tratti di Gus, del detective Malone o dell’anziano miliardario che si invaghisce di Lorelei. In questi casi la messa in scena è più sobria, poco incline a sottolineature enfatiche. L’amicizia femminile è sviluppata in modo particolare nel regno della performance e dello spettacolo. Questa dimensione riguarda, letteralmente, i numeri musicali, ma anche momenti in cui l’apparizione delle due donne viene trasformata in spettacolo. L’inizio del film e la terza scena, l’arrivo della coppia al porto di New York, rappresentano, rispettivamente, il primo esempio dei due casi. È assai curioso che, in un rovesciamento che mi sembra piuttosto interessante, l’autonomia femminile venga rappresentata proprio tramite la spettacolarizzazione del corpo della donna. Il film di
Hawks sembra suggerire che, quando a essere oggetto dello sguardo maschile sono due donne, complici e consce del ruolo che si attribuisce loro, il risultato può essere opposto alla canonica subordinazione del femminile. Questa dinamica viene ripetuta due volte e trova, nel finale, un terzo esempio, ancorché rielaborato. Dopo la performance iniziale e il fidanzamento ufficiale di Lorelei, le due amiche si imbarcano per una crociera che le condurrà in Europa, dove Marilyn dovrebbe sposare Gus. L’arrivo delle due al porto viene presentato con la tipica retorica classica: vengono inquadrati alcuni giovani ben vestiti, i ginnasti della squadra olimpionica americana, il cui sguardo, verso il fuoricampo, appare sempre più ipnotizzato. Nell’inquadratura successiva vediamo l’oggetto del loro interesse: Lorelei e Dorothy, elegantemente vestite e truccate, camminano verso la nave; in un piano successivo un carrello le segue mentre si muovono tra due file di uomini che continuano a guardarle [63-64]. L’entrata in scena viene coreografata come fosse un balletto o una parata militare: pur trattandosi di un normale evento diegetico, l’apparizione di Lorelei e Dorothy viene dunque trasformata in uno spettacolo. Le stesse strategie vengono impiegate in seguito, quando le due entrano per la prima volta nel salone ristorante della nave. Qui l’arrivo della coppia – seguita da un simile movimento di macchina – attiva il desiderio scopico del vecchio miliardario, che strabuzza gli occhi incredulo, ma anche della banda che intrattiene gli astanti, e i suonatori, distratti dalla bellezza delle due donne, cominciano a sbagliare l’esecuzione. Ma il rapporto antitetico tra amicizia e amore viene evidenziato formalmente, tramite precise modalità di inserimento del numero musicale nella story. Il primo di questi episodi riguarda la scena dei saluti: la nave sta per salpare e i passeggeri devono salutare amici e fidanzati. Preso possesso della sua stanza, Dorothy inizia a divertirsi con i ginnasti e le loro fidanzate: mentre la protagonista canta la famosa Bye Bye Baby, tutti i presenti ballano e fanno il coro. Nella stanza accanto, Lorelei sta salutando Gus: è un momento di intimità, privato, e Marilyn comincia a cantare la stessa canzone. Se il destinatario della melodia sembra essere il fidanzato – e il testo della canzone è certamente motivato dalla diegesi – è difficile, proprio in virtù del ruolo che il parallelismo ha nel musical, non stabilire una relazione tra la performance canora di Dorothy e quella di Lorelei. Forse le due si stanno dando un addio reciproco: il viaggio è l’ultima occasione per stare insieme, prima del matrimonio di Lorelei. Oppure il parallelismo è legato al desiderio triangolare: Dorothy si rivolge a Lorelei che, però, indirizza la sua canzone d’amore a Gus. Questa seconda ipotesi sembra avvalorata dalla scena successiva: Dorothy è sull’uscio della stanza di Lorelei, guarda con desiderio la coppia, quindi batte un colpo sulla porta, come per dare il tempo. L’intimità dei due viene rotta, tutti entrano nella stanza di Marilyn che risponde immediatamente alla chiamata dell’amica. A questo punto il gruppo continua la performance iniziata prima e lo spettacolo diventa divertimento puro. Così l’amicizia femminile viene legata non solo alla performance, allo spettacolo e alla finzione, ma anche al divertimento; ed è forte la sensazione che il rapporto di coppia uomo/donna sia legato, almeno in questo film, a modalità opposte. La temporanea uscita di scena di Gus riunisce le due amiche rinviando ancora una volta la loro separazione. La forza dell’amicizia femminile è anche esaltata dalla debolezza dei personaggi maschili. Come ha ben sottolineato Laura Mulvey, in questo film «lo sguardo maschile è il locus dell’impotenza». I membri della squadra olimpica, per esempio, vengono prima mostrati mentre guardano voyeuristicamente le due donne, ma in seguito, la loro esibizione in piscina «sembra più uno spettacolo omoerotico che una celebrazione dell’eterosessualità»37. L’alternanza tra momenti di unione e separazione continua per tutto il film, e un’analisi complessiva conferma il paradigma sinora evidenziato. Il finale, dunque, sembra essere la logica conclusione delle politiche formali perseguite da Hawks. Se, come abbiamo già suggerito, la scelta di escludere i due uomini dall’inquadratura finale indica una preferenza per l’amicizia femminile, ciò nonostante il matrimonio ha luogo. In quest’ottica, il film narra lo sforzo di rinviare il più possibile il processo di maturazione e l’accettazione della Legge, al contempo eleggendo l’amicizia omoerotica
a fase privilegiata dell’esperienza. Gli uomini preferiscono le bionde è, dunque, la versione femminile di Il fiume rosso: se il lungo viaggio della mandria sospendeva l’unione con la donna, permettendo il libero dispiegarsi dell’amicizia maschile38, la crociera verso l’Europa ha, evidentemente, la stessa funzione. Ma la difficoltà con cui certi scopi narrativi vengono raggiunti è la prova della consapevolezza che un diverso immaginario è possibile. In Le ragazze di Harvey come in Gli uomini preferiscono le bionde la rottura di tecniche narrative e formali classiche – là attraverso la fusione di due generi antitetici, qui tramite la riscrittura di un codice di genere, il parallelismo, e l’antitesi tra stile e immaginario – consente di riformulare la nozione tradizionale di soggettività e suggerisce che, così come il racconto filmico, anche il soggetto è una costruzione, una messa in scena di materiali e pratiche e che, dunque, nuovi modi di essere e stili di vita possono sostituire o affiancare modelli consunti. L’IMMAGINE NON-REFERENZIALE: «CANTANDO SOTTO LA PIOGGIA»
Cantando sotto la pioggia, uno dei film più amati da pubblico, critica e accademia fonde in modo mirabile il massimo dell’intrattenimento e del puro piacere con una riflessione teorica sulla natura dell’immagine. Omaggio dichiarato a Hollywood e al genere musicale39, il film suggerisce che la dicotomia tra realtà e finzione, perno drammaturgico dei film sul cinema, è da mettere in questione: come il senso di un’immagine emerge dal suo confronto con altre immagini, così l’emergenza della soggettività e la percezione del sé non sembrano più dipendere dall’espressione dell’io, dalla mera traduzione in azioni e parole di una presunta interiorità. Piuttosto l’io nasce ed è reso possibile da strategie performative e discorsive. Questi piani di discorso si sommano a quello più ovvio, ma certo non insignificante, che riguarda il metalinguismo del film, il fatto che esso mostri e narri le dinamiche del making cinematografico e del rapporto tra film e audience. La struttura metalinguistica instaura una relazione fra testo e spettatore opposta a quella che troviamo nei musical degli anni settanta di Fosse, o in New York, New York (M. Scorsese, 1977) e Nashville (R. Altman, 1975), in cui non rimane più nulla della funzione che il genere aveva in precedenza. Nel film di Kelly e Donen il metalinguismo non diminuisce la funzione di entertainment tipica del genere e il divertimento raggiunge punte estreme proprio nei momenti in cui ci viene mostrata la costruzione dell’immagine cinematografica. Si pensi ai problemi con il sonoro durante le riprese in studio (i vari tentativi di posizionare correttamente il microfono), alle risate degli spettatori alla prima di The Dueling Cavalier, quando la pista sonora s’inceppa pregiudicando così la sincronizzazione tra immagine e suono, o ancora la rivelazione finale che la voce cinematografica di Lina Lamont è invece di Kathy Selden. Benché la funzione metalinguistica predomini – e Cantando sotto la pioggia non è l’unico film del periodo che la sfrutta40 –, essa è ben lontana dal pregiudicare la funzione primaria del genere. E credo si possa dire che le risate dello spettatore in sala non diminuiscono neanche quando sono mediate da quelle del pubblico diegetico. Il discorso sull’autoriflessività e il metalinguismo occupa sostanzialmente tutto il film, anche se si sviluppa secondo coordinate diverse. In molti casi, si intreccia con la riflessione sul sonoro e sul rapporto immagine/suono. Il primo episodio significativo riguarda l’incontro tra il protagonista e la platea festante che lo accoglie al di fuori del teatro per la prima di The Royal Rascal41. Questa scena sviluppa in modo mirabile il discorso riguardante il cinema, le altre arti e le forme di intrattenimento popolare. Su richiesta dell’intervistatrice, Don racconta al pubblico raccolto gli inizi della sua carriera in coppia con cosmo Brown. Il commento verbale di Don viene sovrapposto a una serie di brevi sequenze in cui i due amici sono ritratti mentre si esibiscono in vari locali. C’è però uno stridente contrasto tra la descrizione di Don e le immagini che egli stesso descrive. Mentre racconta che la loro carriera si è sviluppata in pratiche artistiche alte (teatro classico, conservatorio, accademia d’arte drammatica, danza, ruoli sofisticati nel cinema muto), le immagini ci mostrano i due che invece calcano le scene di pratiche basse (night-club, vaudeville, tip-tap e ruolo di cascatore). Il
flashback si conclude con Simpson, il responsabile dello studio Monumental, che offre a Don il primo ruolo di protagonista in un film con Lina Lamont, film a cui ne seguirono molti altri, sino a The Royal Rascal, che il pubblico diegetico sta per vedere. L’episodio sollecita una serie di osservazioni. Riconosce in primo luogo che il musical ha rielaborato dispositivi di forme d’intrattenimento popolare già formatesi42. Il montaggio stabilisce anche una sorta di cronologia obbligata, del resto vicina ai dati biografici di gene Kelly (e di molti altri artisti del tempo), e sembra indicare che Hollywood fosse la meta agognata di molti artisti, come in effetti era. Però la funzione primaria della sequenza è quella di riflettere sullo statuto stesso del cinema. Il cinema è una pratica bassa come ci mostrano le immagini, o è una pratica alta come il commento di Don suggerisce? O meglio ancora, c’è un cinema basso, quello che le immagini del flashback mostrano, e un cinema più sofisticato, il dramma di cappa e spada che sta per essere proiettato? E di conseguenza, dove si iscrive il film Cantando sotto la pioggia? Credo che sia lo stile parodico della sequenza a fornire la risposta. La parodia cioè non dà una risposta, ma fa del problema un falso problema, trasponendo il tutto sul piano del gioco e dello scherzo. La sequenza iniziale parodizza la macchina cinema, in particolar modo il rapporto tra star e pubblico43. Ma la strategia metalinguistica non è sufficiente per produrre una vera critica dell’apparato cinematografico. Nel seguito del film la questione della legittimità del cinema è infatti formulata su parametri diversi. Non è più una questione di canoni estetici, ma è il pubblico a stabilire se un film è buono o meno. Il personaggio di Kathy assolve questa funzione. Inizialmente, quando Don, assaltato dai fan si rifugia nella macchina della ragazza, lei non lo riconosce, perché, come gli spiega, va poco al cinema. Lei ambisce a essere un’attrice di teatro, arte superiore al cinema; solo gli attori di teatro recitano, quelli di cinema fanno solo della pantomima. Il cinema poi, basato com’è su storie codificate, va bene soltanto per intrattenere le masse. Le affermazioni di Kathy vengono però destituite di ogni validità quando, nell’episodio seguente, alla festa dello studio, Kathy, in abiti discinti, esce da un’enorme noce di cocco, iniziando così un numero stile Ziegfeld Follies in cui si esibisce per intrattenere gli ospiti. Successivamente, prima della dichiarazione d’amore, la giovane afferma, contraddicendo quanto aveva detto al primo incontro, di avere visto tutti i film di Don Lockwood e di avere anche letto i pettegolezzi sul suo conto pubblicati nelle fan magazine. Kathy insomma cambia repentinamente idea sul cinema. Il film, dunque, sfrutta altre pratiche artistiche allo scopo di legittimare il cinema e di conseguenza il musical. Anche l’uso dei motivi musicali fa parte in qualche modo di quella strategia di testualizzazione e di omaggio alla storia del musical, e più specificamente del musical MGM, di cui si è già parlato. Poche sono le musiche ideate appositamente per il film. La maggior parte delle canzoni, composte da Arthur Freed (liriche), che del film è anche il produttore, e da Nacio herb Brown (musiche) sono pezzi riciclati già usati in precedenza in altri musical dello studio. Motivi come Singin’ in the Rain, Broadway Rhythm e Broadway Melody sono utilizzati sin dai primi musical dello studio alla fine degli anni venti44. La strategia metalinguistica del film è sorretta, riprendendo i noti termini di Christian Metz, dalla dialettica tra discorso e storia: Cantando sotto la pioggia sfrutta alternativamente ora l’uno ora l’altro polo45. In quest’ambito va chiarito se la storia riesce a contenere il discorso, se il film in qualche modo conserva nel suo complesso la qualità di verosimiglianza, o se il discorso eccede la storia rivelando il processo di costruzione dell’immagine cinematografica e della storia stessa. La dicotomia storia/discorso viene sviluppata attraverso il rapporto tra immagine e suono e tra vero e falso. Il livello del racconto si snoda su due piani separati, ma anche collegati: da un lato il farsi del film, The Dueling Cavalier che diventa The Dancing Cavalier quando si decide di fare del primo un film sonoro. È questo il livello della finzione e della menzogna; tutto ciò che riguarda l’apparato cinema e, con esso, il ruolo pubblico che gli attori sono chiamati a ricoprire, è dimostrato come falso: il presunto legame romantico tra Don Lockwood e Lina Lamont è solo una strategia di mercato,
Don stesso mente al pubblico nella prima sequenza, e Lina, star del muto, è costretta al silenzio in pubblico perché la sua voce gracchiante contrasterebbe con l’immagine sofisticata della star costruita negli anni del muto. Quando il Monumental Studio decide di trasformare The Dueling Cavalier in un musical, si pone dunque il problema della voce di Lina: la soluzione è di farla doppiare da Kathy Selden. Il film mostra chiaramente come l’effetto di realtà dato dall’unità di corpo e voce sia costruito tramite il doppiaggio, che riesce appunto a mascherare la separazione tra corpo e voce su cui è fondata l’immagine cinematografica. È però evidente che se tale manipolazione è resa manifesta al pubblico di Cantando sotto la pioggia, per il pubblico diegetico bisognerà ricorrere allo svelamento sul posto, a teatro, perché esso se ne renda conto. Come dire, insomma, che l’estetica del verosimile è confusa con la realtà e che la costruzione deve essere svelata perché il pubblico se ne renda conto, e che dunque il grado di finzione del cinema è infinito.
66. Cantando sotto la pioggia (S. Donen/G. Kelly, 1952).
67. Cantando sotto la pioggia (S. Donen/G. Kelly, 1952).
Se tutto è falso al cinema, dalle immagini vere e proprie al comportamento pubblico delle star, ciò che si svolge al di fuori del set è invece vero, e veri sono soprattutto i sentimenti dei personaggi che, lontani dal set, diventano persone. La finzione e la verità sono visualizzate da due diversi stili di recitazione. Don non è in realtà uno sbruffone, ma è estremamente insicuro di sé; con cosmo e Kathy non deve mentire, come fa con il pubblico, ma può essere se stesso. E, ciò che conta maggiormente per le dinamiche del testo, sono veri i sentimenti di Don per Kathy. Nella prima parte del film la separazione tra vero e falso è netta, ci sono poche contaminazioni tra i due livelli. Abbiamo, quindi, da un lato la storia del film da farsi, dominata dal discorso, dall’altro gli eventi al di fuori del set, presentati invece come storia. Nel seguito del film si assiste per contro a un doppio processo di contaminazione: il discorso invade la storia e la storia il discorso. Cominciamo dal primo aspetto, l’intreccio romantico tra Don e Kathy. Si è detto fin qui che il loro è un amore vero. E l’inizio della sequenza della dichiarazione d’amore sembra confermarlo: Don e Kathy escono da quello che sembra un camerino per una pausa di lavorazione; il dialogo, dai toni intimi, è accompagnato da un uso della mdp oggettivante. La manipolazione è ridotta al minimo: si tratta di un piano sequenza con movimento di carrello a seguire il movimento dei personaggi, costantemente in mezza figura; siamo in esterno giorno e la luce è quella naturale. Certo, se si guarda attentamente si può ipotizzare che ci sia una macchina del vento che solleva la sciarpa di Kathy. Ma sono soprattutto i movimenti dei due personaggi attorno a un palo, posto al centro dell’inquadratura, che appaiono calibrati e coreografati con grande precisione. Si tratta, dunque, di un episodio pensato e preparato nel dettaglio, ma che si cerca di presentare come naturale, non costruito. Nella scena successiva il procedimento viene rovesciato. Benché il dialogo faccia presagire che Don sta per dichiarare il proprio amore a Kathy, questo non viene verbalizzato subito, perché, come egli dice, c’è bisogno dell’ambiente adatto («proper setting»). Don conduce Kathy all’interno di un set spoglio che prepara a puntino per il grande momento: pone la
ragazza su una scala, accende le luci di scena affinché la illuminino con il tipico effetto di soft focus, accende la macchina del vento perché scompigli giusto un pochino i suoi capelli; da ultimo, non si limita a dire il suo amore, ma glielo canta [66]. Alla manipolazione del profilmico va aggiunto il lavoro della mdp, ora più vicina all’azione, ora più lontana, le riprese dall’alto, come pure il montaggio. Il livello della storia viene quindi contaminato da quello del discorso e il rapporto di reciproca esclusione tra i due livelli viene così stravolto. Se il coinvolgimento sentimentale fra Don e Kathy ci era stato presentato come vero, e lo stile della parte iniziale della scena era in parte riuscito a convincerci, la seconda e più elaborata parte dell’episodio ci mostra che l’espressione del sentimento può avvenire solo tramite codici già operanti. La sequenza ha quindi una doppia funzione: da un lato indica che la separazione tra finzione e realtà, fra attore e persona, precedentemente suffragata dal film, non può più essere mantenuta, dall’altro ci consente anche di uscire dal testo in questione e rivedere, per così dire, tutte le scene d’amore verosimili come sapientemente costruite. Per certi versi, è la classica storia d’amore che viene decostruita. Il rapporto tra vero e falso è sviluppato anche attraverso la dicotomia tra Lina e Kathy. Lina, come si è detto, ha una brutta voce e deve essere doppiata da Kathy. A Lina è quindi attribuita una voce che non le appartiene, ma al tempo stesso Kathy viene dotata di un corpo non suo. Il riconoscimento finale svelerà la finzione per affermare la realtà, ricomponendo l’unità corpo/voce in entrambi i personaggi: a Lina la sua vera voce, a Kathy il suo vero corpo. A ben vedere però la sequenza della dichiarazione d’amore appena discussa problematizza l’idea che il corpo di Kathy sia un corpo vero, vero nel senso di naturale. Kathy viene artificiosamente abbellita e da semplice ragazza è visivamente trasformata in una star. Così Kathy vive una trasformazione simile a quella cui è sottoposta Lina: a Kathy un corpo più bello, a Lina una voce più bella. Cantando sotto la pioggia sembra dunque suggerire che la storia d’amore, offertaci come vera, non è meno costruita del film che si sta girando. L’ipotesi viene confermata nella scena finale. Così come la dichiarazione d’amore aveva potuto aver luogo solo in un set, il riconoscimento di tale amore può avvenire solo in un altro spazio scenico, a teatro davanti a un pubblico. Si noti la somiglianza stilistica delle due scene, sia per quanto riguarda il profilmico che il lavoro della mdp: luce diffusa, costruzione sull’asse con campi e controcampi, piani ravvicinati e campi più lunghi. Le due scene, insomma, che dovrebbero far parte della storia, del vero, sono girate proprio sulla scena e secondo i canoni filmici con cui si girano le sequenze romantiche. Il film non rivela quindi solo la costruzione del rapporto tra immagine e suono (film nel film) ma anche la costruzione della storia. Si tratta, in ultima analisi, soltanto di distinguere i vari livelli della costruzione. Il film opera anche in senso opposto a quello appena descritto, con la storia che invade il discorso. La costruzione del rapporto immagine/suono è infatti eseguita, se così si può dire, a spese di Lina Lamont. Lo svelamento della costruzione dell’unità immagine/suono non è fine a se stesso, non ha cioè solo una funzione metalinguistica. È invece sin dall’inizio usato per scopi narrativi e caricato di connotazioni morali. Se la costruzione dell’immagine audiovisiva è di per sé neutrale, Lina, beneficiaria di tale costruzione, è invece un personaggio cattivo e la sua cattiveria è una componente vera della storia (fa licenziare Kathy, fa togliere il nome della ragazza dai titoli di testa, cerca di controllare le scelte dello studio). Certo, è pur sempre un musical, e il villain di un musical non è mai troppo pericoloso, però è necessario che la costruzione venga narrativizzata affinché la storia di Cantando sotto la pioggia abbia una risoluzione. Ed è anche indispensabile che la storia bilanci il discorso. A questo sembra servire l’ultima inquadratura del film: un grande tabellone pubblicitario di Singin’ in the Rain con i ritratti dei due attori protagonisti, Don Lockwood e Kathy Selden, che all’inizio occupa tutto lo schermo, ma che poi va a occupare una parte dell’inquadratura, mentre un carrello all’indietro riprende i due in carne e ossa e in abiti quotidiani [67]. Per un istante siamo portati a credere che il prato all’aperto in cui si trovano i due attori sia uno spazio reale, lontano dal set. Ma è evidente che siamo sempre nei locali del Monumental Studio e che gli attori in carne e ossa sono solo un po’ più veri
dell’immagine che pubblicizza il film. In Cantando sotto la pioggia il livello della finzione ha ormai definitivamente incorporato la storia, e l’inquadratura finale rivela che ogni immagine è un palinsesto di livelli di funzione più che l’imitazione della realtà.
1
C. Anderson, Hollywoodtv. The Studio System in the Fifties, Austin, University of Texas Press, 1994, p. 17.
Pur non essendo il solo filosofo ad aver teorizzato il simulacro, concetto ripreso in ogni modo dalla filosofia antica, si deve a Jean Baudrillard l’elaborazione più «sistematica» del concetto stesso. Si veda in particolare J. Baudrillard, La precessione dei simulacri, in Id., Simulacri e impostura, Bologna, cappelli, 1980; Id., Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 1979. Per un’analisi della questione in relazione alla teoria del cinema, e una considerazione dell’apporto di Foucault, Deleuze, Klossowski e Perniola all’argomento, cfr. P. Bertetto, L’immagine simulacro, in «Bianco & Nero», 553, marzo 2005, pp. 95-117. 2
3 S. Cohan, Introduction. Musicals of the Studio Era, in Id. (a cura di), Hollywood Musicals. The Film Reader, London-New York, Routledge, 2002, pp. 1-15, 1. 4 Secondo Bordwell l’atto di visione è un’operazione del tutto cosciente guidata, nel caso del film classico, dal desiderio di comprendere la storia, i suoi snodi e motivazioni. L’analisi ideologica vede la storia come il mezzo per mascherare i valori veicolati dal racconto. Così, nel tentativo di seguire e capire il racconto, lo spettatore verrebbe inconsciamente guidato ad accettarne i valori. Cfr. il primo capitolo. 5 R. Altman, Un approccio semantico-sintattico al genere cinematografico, in Id., Film/Genre, trad. it. Film/Genere, Milano, Vita & Pensiero, 2004, p. 332. Un’utile riflessione sul concetto di genere sta in L. Quaresima, Generi, stili, in Id. (a cura di), Il cinema e le altre arti, Venezia, La Biennale di Venezia-Marsilio, 1996, pp. 223-229. 6
Ibid., p. 333.
7
Ibid., p. 334.
Ibid., p. 337. Per un’analisi più approfondita di tali questioni si veda il volume dell’autore, R. Altman, The American Film Musical, Bloomington, Indiana University Press, 1987. 8
9 Si tratta di un sottogenere «pressoché limitato al periodo di follia per la musica, in cui qualsiasi cosa andava bene, il momento della conversione al sonoro». M. Rubin, Busby Berkeley and the Backstage Musical, in Cohan (a cura di), Hollywood Musicals, cit., p. 54. 10 R. Dyer, Entertainment and Utopia [1977], in Cohan (a cura di), Hollywood Musicals, cit., pp. 19-30. L’intervento di Dyer costituisce il saggio fondativo per l’analisi seria del musical, così come Storie di rumore e di furore di Elsaesser aveva qualche anno prima dato inizio a un modo sofisticato di studiare il melodramma. 11
Rubin, Busby Berkeley and the Backstage Musical, cit., p. 59.
12
Altman, The American Film Musical, cit., p. 167.
S. Cohan, Incongruous Entertainment: Camp, Cultural Value, and the MGM Musical, Durham, Duke University Press, 2005, p. 44. 13
14 Sulle politiche di produzione della MGM e della Arthur Freed Unit si veda Th. Schatz, The Genius of the System, New York, The Pantheon Books, 1988. 15
Altman, The American Film Musical, cit., p. 115.
16
Cohan, Incongruous Entertainment, cit., pp. 5-19.
R. Dyer, Judy Garland and Gay Men, in Id., Heavenly Bodies: Film Stars and Society, New York, St. Martin’s Press, 1986, p. 179. I migliori studi sul camp sono raccolti in Fabio Cleto (a cura di), Camp: Queer Aesthetics and the Performing Subject, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1999. 17
18 M. Tinkcom, «Working Like a Homosexual». Camp Visual Codes and the Labor of Gay Subjects in the MGM Freed Unit, in Cohan (a cura di), Hollywood Musicals, cit., p. 118. 19 M. Roth, Some Warner Musicals and the Spirit of the New Deal, in R. Altman (a cura di), Genre: The Musical, London, Routledge & Kegan Paul, 1981, pp. 41-56, 47. 20
I cinque tratti elencati sono le categorie proposte da Dyer in Entertainment and Utopia, cit.
21
Ibid., p. 26.
22
Ibid., p. 28.
Sulla componente onirica nei musical di Minnelli si veda R. Campari, Film della memoria. Mondi perduti, ricordati e sognati, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 125-129. 23
24 Altman, Film/Genere, cit., p. 285; J. Feuer, The Hollywood Musical, Bloomington, Indiana University Press, 19932, p. 15. 25
Feuer, The Hollywood Musical, cit., pp. 8-9.
Per un’analisi della tradizione culturale del western si vedano H. Nash Smith, The Virgin Land, New York, Vintage Books, Random House, 1950; J. Kitses, Horizon West, London, Secker and Warburg/BFI, 1969. 26
27 Il commento si trova nell’intervista al regista contenuta nel DVD del film, Turner Entertainment Co. & Warner Brothers Video, 2002. 28
Cfr. http://www.harveyhouse.net, visualizzato il 19 luglio 2005.
29
Th. Schatz, Hollywood Genres, New York, McGraw-Hill, 1981, p. 34.
Cfr. Altman, The American Film Musical, cit. Su questo aspetto mi soffermerò in seguito nell’analisi di Gli uomini preferiscono le bionde. 30
31 Non sono d’accordo con Schatz, che minimizza l’apporto del western e considera il film un puro musical. Cfr. Schatz, Hollywood Genres, cit., p. 27. 32 La nozione di testo bifocale è ancora una volta di Altman. Cfr., oltre al volume già citato, il saggio I generi di Hollywood, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, t. I, Torino, Einaudi, 1999. 33
Su questo particolare dispositivo del genere si veda Feuer, The Hollywood Musical, cit.
Il film, soprattutto grazie alla presenza di Marilyn, partecipa al discorso sulla sessualità del periodo e può essere visto in relazione alle dinamiche esplorate nel capitolo precedente. Nel 1953, anno di uscita della pellicola, appare «Playboy», con Marilyn protagonista in copertina e nell’inserto fotografico centrale, e viene pubblicato il rapporto Kinsey sulla sessualità femminile. Per un’analisi dell’immagine di Marilyn in relazione al panorama culturale dell’epoca, si veda il bel saggio di Richard Dyer, Monroe and Sexuality, in Id., Heavenly Bodies, cit. 34
35 Si veda L. Arbuthnot, G. Seneca, Pre-text and Text in Gentlemen Prefer Blondes, in P. Erens (a cura di), Issues in Feminist Film Criticism, Bloomington, Indiana University Press, 1990, pp. 112-125, con cui l’analisi che segue ha alcuni elementi in comune. 36
Altman, The American Film Musical, cit., pp. 28-29.
Cfr. L. Mulvey, Gentlemen Prefer Blondes: Anita Loos/Howard Hawks/Marilyn Monroe, in J. Hillier, P. Wollen (a cura di), Howard Hawks. American Artist, London, BFI, 1996, pp. 214-129, 225. 37
38 Per un’interpretazione della mascolinità nel film di Hawks rinvio a S. Cohan, Masked Men. Masculinity and the Movies in the Fifties, Bloomington, Indiana University Press, 1997, pp. 200-220. 39 Su questo aspetto si veda l’approfondita analisi dei numeri musicali fatta da F. La Polla in Stanley Donen/Gene Kelly. Cantando sotto la pioggia, Torino, Lindau, 1997, pp. 57-95, e P. Wollen, Singin’ in the Rain, London, BFI, 1992. 40 Per esempio The Barkleys of Broadway (I Barkleys di Broadway, ch. Walters, 1949) e The Band Wagon (Spettacolo di varietà, V. Minnelli, 1953), scritti anch’essi da comden e green per MGM. Cfr. J. Feuer, The SelfReflexive Musical and the Myth of Entertainment, in B.K. Grant (a cura di), Film Genre Reader II, Austin, University of Texas Press, 1995, pp. 441-455. 41
Su questo episodio rinvio nuovamente a La Polla, Stanley Donen/Gene Kelly, cit., pp. 41-55.
Cfr. Altman, The American Film Musical, cit.; sul rapporto tra il genere cinematografico e la musica si veda Feuer, The Hollywood Musical, cit. 42
43 Un ulteriore elemento di interesse della scena è costituito dalla rappresentazione del pubblico diegetico. La folla è assiepata in trepidante attesa e accoglie le star con grande entusiasmo. Ma la reazione del pubblico è del tutto artificiosa, i movimenti sembrano seguire le indicazioni di un direttore d’orchestra fuoricampo. Gli spettatori si alzano e urlano nello stesso momento, come un coro: la spontaneità rumorosa e caotica tipica dei fan viene così completamente domata. La scelta di coreografare un evento collettivo spontaneo sembra indicare che la teatralità della realtà non è poi così diversa dalla performance dello spettacolo. Così ogni distinzione netta, qualitativa, tra realtà e finzione viene a cadere. Strategie del tutto simili ritroviamo nell’episodio di Gli uomini preferiscono le bionde in cui Lorelei e Dorothy arrivano al porto: la reazione degli atleti, rapiti dalla bellezza delle due, è coreografata in modo simile a quella dei fan di Don e Lina. 44 Su questo aspetto si veda S. Cohan, What a Glorious Classic: Singin’ in the Rain and Mass-Camp Recycling, in Id., Incongruous Entertainment, cit., pp. 200-245. 45 C. Metz, Le signifiant imaginaire, trad. it. Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio, 1980.
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