Il cinema americano classico 884207067X, 9788842070672

Il cinema americano classico, la cosiddetta 'età dell'oro di Hollywood', ha avuto un impatto enorme sulla

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Table of contents :
Prefazione
I. L’apparato produttivo. «Il mago di Oz»
1. Lo «studio system»
2. Il sistema dei generi
3. Il Codice Hays
4. Il genio del sistema: «Il mago di Oz»
II. Lo stile classico. «Casablanca»
1. La classicità hollywoodiana. Ovvero, di cosa parliamo quando parliamo del cinema americano classico
2. Il racconto cinematografico classico
3. Il «découpage» classico
4. «Casablanca», ovvero il culmine della Hollywood classica
5. La presentazione di Rick. Esercizi di stile (classico)
III. Ideologia e storia nazionale. «Sentieri selvaggi»
1. Hollywood, la società, la politica
2. Il mito della Frontiera e il genere western
3. «Mi chiamo John Ford. Faccio western»
4. Un’odissea americana: «Sentieri selvaggi»
IV. I generi e l’universo narrativo: la commedia. «La signora del venerdì»
1. La galassia del comico
2. Howard Hawks, un artista americano
3. «La rubo e la rifaccio»: «La signora del venerdì» e la commedia degli anni Trenta
V. I generi e l’universo narrativo: il noir. «Vertigine»
1. «What Is This Thing Called Noir?»1. La definizione di «noir»
2. «Vertigine» e il noir. L’universo del sogno, tra letteratura e cinema
3. Dal romanzo al film. Dal giallo al noir
4. Sogni, simulacri e strategia narrativa
5. «Vertigine» come doppio racconto
VI. Lo «star system». «Quando la moglie è in vacanza»
1. «Star system» e divismo. Considerazioni generali
2. La dimensione semiotica della star. Attore, divo, personaggio
3. Il caso Marilyn
4. «Quando la moglie è in vacanza», ovvero Marilyn e «gli stimoli repressi del maschio maturo. Sue origini e conseguenze»
VII. Autori a Hollywood. Orson Welles e «Quarto potere»
1. Il contesto. Norma ed eccezione: un iconoclasta a Hollywood
2. «First Person Singular». Welles a Hollywood9
3. Il film. Un labirinto senza centro
4. Realismo storico e senso morale
5. Da Conrad a Coleridge, da Pollicino a Kubla Khan
6. La struttura narrativa e lo stile
7. Il prologo
VIII. Il cinema d’animazione. Walt Disney e «Biancaneve e i sette nani»
1. Che cos’è il cinema d’animazione?
2. Vita e morte del «cartoon» americano
3. Walt Disney: dentro – e oltre – il cinema classico
Cronologia Cinema, società e cultura in America 1927-1969
Bibliografia essenziale
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Il cinema americano classico
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Biblioteca Universale Laterza Giaime Alonge - Giulia Carluccio

Il cinema americano classico

Editori Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: maggio 2020 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma   Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858142325 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Indice

Prefazione

I.

L’apparato produttivo. «Il mago di Oz» 1. Lo «studio system» 2. Il sistema dei generi 3. Il Codice Hays 4. Il genio del sistema: «Il mago di Oz»

II.

Lo stile classico. «Casablanca» 1. La classicità hollywoodiana. Ovvero, di cosa parliamo quando parliamo del cinema americano classico 2. Il racconto cinematografico classico 3. Il «découpage» classico 4. «Casablanca», ovvero il culmine della Hollywood classica 5. La presentazione di Rick. Esercizi di stile (classico)

III.

Ideologia e storia nazionale. «Sentieri selvaggi» 1. Hollywood, la società, la politica 2. Il mito della Frontiera e il genere western 3. «Mi chiamo John Ford. Faccio western» 4. Un’odissea americana: «Sentieri selvaggi»

IV.

I generi e l’universo narrativo: la commedia. «La signora del venerdì»

1. La galassia del comico 2. Howard Hawks, un artista americano 3. «La rubo e la rifaccio»: «La signora del venerdì» e la commedia degli anni Trenta

V.

I generi e l’universo narrativo: il noir. «Vertigine» 1. «What Is This Thing Called Noir?»1. La definizione di «noir» 2. «Vertigine» e il noir. L’universo del sogno, tra letteratura e cinema 3. Dal romanzo al film. Dal giallo al noir 4. Sogni, simulacri e strategia narrativa 5. «Vertigine» come doppio racconto

VI.

Lo «star system». «Quando la moglie è in vacanza» 1. «Star system» e divismo. Considerazioni generali 2. La dimensione semiotica della star. Attore, divo, personaggio 3. Il caso Marilyn 4. «Quando la moglie è in vacanza», ovvero Marilyn e «gli stimoli repressi del maschio maturo. Sue origini e conseguenze»

VII. Autori a Hollywood. Orson Welles e «Quarto potere» 1. Il contesto. Norma ed eccezione: un iconoclasta a Hollywood 2. «First Person Singular». Welles a Hollywood9 3. Il film. Un labirinto senza centro 4. Realismo storico e senso morale 5. Da Conrad a Coleridge, da Pollicino a Kubla Khan 6. La struttura narrativa e lo stile 7. Il prologo

VIII.

Il cinema d’animazione. Walt Disney e «Biancaneve e i sette nani» 1. Che cos’è il cinema d’animazione? 2. Vita e morte del «cartoon» americano 3. Walt Disney: dentro – e oltre – il cinema classico

Cronologia

Cinema, società e cultura in America 1927-1969 Bibliografia essenziale

Prefazione

Per buona parte del XX secolo, Hollywood è stata quasi sinonimo di cinema. Dalla fine della Grande Guerra, quando i produttori americani impongono il loro predominio sul mercato europeo, sino agli anni Cinquanta, segnati dall’arrivo della televisione, i film realizzati in California sono stati la principale fonte di intrattenimento per la maggioranza dei cittadini dei paesi occidentali. Il cinema hollywoodiano ha avuto un impatto enorme sulla vita sociale e culturale del Novecento. Esso non solo ha rappresentato la più importante forma di svago del ‘secolo breve’ (nel 1939, negli Stati Uniti, il 65% della popolazione andava al cinema almeno una volta alla settimana), ma si è configurato anche come un potentissimo strumento di diffusione di mode, stili di vita, idee politiche. È dai divi di Hollywood che intere generazioni hanno imparato come pettinarsi, come baciare, come fumare. E non si tratta di un fenomeno limitato al pubblico popolare. Il cinema hollywoodiano, nel Nuovo così come nel Vecchio Continente, ha avuto un’influenza significativa anche sui ceti intellettuali, che spesso – paradossalmente – hanno scoperto le potenzialità artistiche del cinema proprio grazie ai prodotti dell’industria americana (basti pensare a Louis Delluc e alla ‘prima avanguardia’ francese). Se quel cinema è ‘classico’, è anche per la sua capacità di parlare a spettatori appartenenti a classi e nazioni diverse. Apparentemente, oggi le cose non sono poi così diverse: i film hollywoodiani fanno ancora ricorso allo stile elaborato tra le due guerre mondiali, ed esercitano sempre un predominio netto sul piano internazionale. Ma la natura profonda dello spettacolo hollywoodiano è mutata

radicalmente. Ora, la proiezione del film in sala rappresenta soltanto un tassello – marginale sul piano economico – di una vasta macchina dell’intrattenimento, in cui si articolano le più diverse attività ludico-ricreative: televisione, home video, parchi dei divertimenti, videogiochi, giocattoli ecc. Nel periodo classico, per quanto fossero già reperibili esempi di diversificazione dell’attività da parte delle case di produzione hollywoodiane (Walt Disney inizia a investire sul merchandising legato a Topolino nel 1929, solo un anno dopo la creazione del personaggio), il cuore del processo rimane il film in quanto tale. Allora, infatti, un film produceva utili grazie ai biglietti venduti, mentre oggi la maggior parte delle pellicole incassa denaro in virtù dei passaggi televisivi e dei vari gadget. Ed è evidente che una tale rivoluzione di natura produttiva non può non avere avuto dei riflessi sul piano estetico: fare – e vedere – un film nel 2005 è un’esperienza assai differente rispetto al 1935. Questo libro intende offrire un’introduzione a una stagione di straordinaria rilevanza per la storia del cinema e, più in generale, per la cultura del Novecento. Ma si tratta, appunto, di un’introduzione, non di una storia del cinema americano classico. Gli otto capitoli in cui si articola il volume affrontano alcune questioni chiave dello sviluppo del cinema hollywoodiano, quali l’organizzazione produttiva o lo star system, senza cercare di costruire un percorso diacronico che dia conto di tutti i fenomeni (autori, generi, film, divi, tecniche ecc.) più importanti. Ogni capitolo, tendenzialmente, è costituito da una prima parte, in cui il problema in oggetto viene illustrato nelle sue linee generali, e da una seconda, incentrata su un singolo film, che assolve la funzione di exemplum. Per quanto riguarda l’arco temporale preso in esame, abbiamo scelto di partire dall’avvento del sonoro (1927), anche se autorevoli studiosi del cinema hollywoodiano ritengono – con ottime ragioni – che già l’ultimo decennio del muto vada considerato come parte integrante dell’epoca classica (ci riferiamo alla periodizzazione 1917-1960 proposta

da Bordwell, Staiger e Thompson). Iniziare dal muto, infatti, ci avrebbe costretti ad affrontare una quantità di questioni di ordine metodologico che, inevitabilmente, avrebbero ‘sbilanciato’ il libro. A fine volume è presente una cronologia, in cui gli eventi salienti della storia del cinema americano sono collegati al contesto politico-culturale, al fine di recuperare quella prospettiva diacronica che il corpo centrale dell’opera ha programmaticamente rifiutato. Qui il periodo preso in esame, 1927-1969, è un po’ più ampio rispetto a quello abbracciato dagli otto capitoli: infatti, non essendoci una data precisa che segni la ‘fine ufficiale’ della ‘vecchia’ Hollywood – il cui sistema agonizza per tutto il corso degli anni Sessanta – abbiamo scelto di estendere la cronologia sino al biennio 1967-1969. In quegli anni, infatti, escono film come Il laureato (The Graduate, 1967) e Easy Rider (id., 1969), i quali sanciscono l’inizio della New Hollywood, ossia di quel vasto processo di rinascita del cinema hollywoodiano, fatto di un complesso equilibrio di continuità e rottura con il passato, che attraversa gli anni Settanta e conduce alla riconquista, da parte dei produttori americani, di quella posizione di predominio nel mercato globale che era andata erodendosi nel decennio precedente. G. A. G. C. Torino, settembre 2005 Giaime Alonge è autore dei capitoli I, III, IV e VIII; Giulia Carluccio dei capitoli II, V, VI e VII.

I.

L’apparato produttivo. «Il mago di Oz»

1. Lo «studio system» «Somewhere over the rainbow» («Da qualche parte oltre l’arcobaleno»), canta sognante una ragazzina con le trecce, in un bianco e nero seppiato. La ragazza è Judy Garland, agli inizi della sua carriera, e il film è Il mago di Oz (The Wizard of Oz, 1939), uno dei titoli più noti di tutta la storia del cinema, non solo di quello americano. Se Il mago di Oz è un ‘classico tra i classici’, è anche perché questo film rappresenta la quintessenza del modello produttivo hollywoodiano. Il mago di Oz, infatti, è un caso eclatante di film ‘senza autore’: un film che nasce dalla collaborazione – volontaria o coatta – tra persone diverse, un film del quale nessuno può veramente attribuirsi la completa paternità, neppure il produttore Mervyn LeRoy, che pure ne seguì tutte le fasi di realizzazione. Il mago di Oz è il frutto del lavoro comunitario di un’impresa artigiana, un tipo di lavoro in cui l’individualità dell’Autore si scioglie nella dimensione collettiva propria dello studio system. In italiano la parola ‘studio’, nella sua accezione cinematografica, indica il teatro di posa (girare in studio vs girare in esterno), ma nella lingua inglese essa indica anche l’insieme degli edifici dove ha sede una casa di produzione e, per metonimia, la compagnia in quanto tale. Con la formula studio system, dunque, si indica l’assetto industriale della Hollywood classica, caratterizzato appunto dal predominio di alcuni grandi studios capaci di realizzare e distribuire film su larga scala. Lo studio system è già operativo negli anni Venti, prima dell’introduzione del sonoro, e rimane in vita sino agli inizi degli anni Cinquanta.

David O. Selznick, uno dei più grandi produttori della Hollywood classica, così descrive l’organizzazione del lavoro alla Paramount, nei tardi anni Venti: Non vi erano mai scrittori o registi che non fossero assegnati a uno specifico film in lavorazione. Le persone non venivano più pagate nel preciso momento in cui non erano più necessarie. Il loro lavoro quotidiano era controllato. L’ozio non era tollerato. Vi erano commissioni che si riunivano regolarmente per vigilare su ogni fase delle attività dello studio; si rispettavano rigorosamente i preventivi di spesa e quando si sforava un budget si convocava una riunione. […] Schulberg [il general manager della Paramount tra il 1925 e il 1932] era realmente un grande caporeparto, cosa che costituiva al contempo la sua forza e la sua debolezza: quel tipo di impostazione costituiva una forza nei giorni in cui la gente andava abitualmente al cinema, quando i film venivano venduti in massa, e quando una differenza qualitativa rappresentava una differenza assai piccola all’interno del quadro complessivo. Ma quando l’industria cambiò, e quando il pubblico divenne più selettivo e mutarono i metodi di vendere i film, il sistema della catena di montaggio per realizzare i film ovviamente divenne obsoleto1.

L’ambiente descritto da Selznick è chiaramente di tipo industriale. Le stesse scelte lessicali – ‘caporeparto’, ‘catena di montaggio’ – rimandano all’universo della fabbrica. Ma quando si utilizza la metafora taylorista a proposito di quello che Bordwell, Staiger e Thompson chiamano il ‘modo di produzione’ della Hollywood classica, l’espressione non deve essere presa troppo alla lettera. Come osserva Janet Staiger: Per quanto sia accurato definire il modo di produzione hollywoodiano con formule quali ‘produzione di massa’ e ‘dettagliata divisione del lavoro’, la sua organizzazione era più vicina a una produzione manifatturiera di tipo seriale, in quanto permetteva forme di attività collettiva e di cooperazione tra operai specializzati. […] Nel cinema, la produzione di massa non raggiunse mai il livello di rigidità della catena di montaggio come avvenne in altre industrie2.

Lo stesso Selznick, nella parte finale del brano citato (il discorso sui punti deboli dell’approccio di Schulberg), sottolinea l’obsolescenza di pratiche fordiste nel momento della transizione dal muto al sonoro. Nelle parole di Selznick troviamo traccia del passaggio dal central producer system al producer-unit system. Dalla metà degli anni Dieci alla fine del decennio successivo, le case hollywoodiane operano ciascuna sotto il controllo di un unico produttore (un central producer, appunto, come Schulberg alla Paramount), che sovrintende a tutto il lavoro. A partire dai primi anni Trenta, invece, subentra un’organizzazione più complessa, in cui «un gruppo di uomini supervisionava tra i sei e gli otto film all’anno, e generalmente ogni produttore si concentrava su un particolare tipo di film»,

operando spesso con lo stesso gruppo (unit) di registi, sceneggiatori, attori, tecnici3. Basti citare il caso della ‘Freed unit’ della Metro-Goldwyn-Mayer, l’équipe diretta dal produttore Arthur Freed, che realizzò i principali musical della casa degli anni Quaranta e Cinquanta, da Incontriamoci a Saint Louis (Meet Me in St. Louis, 1944) a Gigi (id., 1958), passando per Un americano a Parigi (An American in Paris, 1951) e Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain, 1952), film nei cui cast & credits compaiono più o meno gli stessi attori (Judy Garland, Gene Kelly, Cyd Charisse, Fred Astaire, Leslie Caron), coreografi (Busby Berkeley, Robert Alton) e registi (Vincente Minnelli, Stanley Donen). Come abbiamo già anticipato, per buona parte della sua storia la Hollywood classica vede il predominio schiacciante di alcune grandi case di produzione, che esercitano un potere di tipo oligopolistico. Durante il periodo sonoro, troviamo cinque compagnie ‘maggiori’, le cosiddette Majors (o ‘Big Five’): Metro-Goldwyn-Mayer (MGM), Warner Brothers, Paramount, 20th Century Fox, Radio-Keith-Orpheum (RKO, la sola a non essere sopravvissuta sino ai nostri giorni). Ognuna possiede delle strutture per realizzare i film (teatri di posa, studi per la post-produzione, magazzini ecc.) e ha sotto contratto del personale (registi, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia, musicisti, tecnici degli effetti speciali ecc.) che opera in base alle direttive dei vertici della compagnia. Ogni Major ha una propria politica, si specializza in alcuni generi o tipi di produzioni, e sviluppa un proprio stile. Ad esempio, i musical della RKO degli anni Trenta, con Fred Astaire e Ginger Rogers, e le scenografie in stile déco di Van Nest Polglase, sono immediatamente distinguibili dai musical della Warner dello stesso periodo, caratterizzati dalle complesse coreografie di Busby Berkeley. Per rendersene conto, è sufficiente mettere a confronto Cappello a cilindro (Top Hat, 1935) e Follie d’inverno (Swing Time, 1936) della RKO (diretti l’uno da Mark Sandrich e l’altro da George Stevens), con Quarantaduesima strada (42nd Street, 1933) e La danza delle luci (Gold Diggers of 1933, 1933) della Warner (per la regia rispettivamente di Lloyd Bacon e Mervyn LeRoy, ma entrambi con coreografie di Busby Berkeley). In Cappello a cilindro e Follie d’inverno, le sequenze coreutiche sono imperniate

sulla coppia di innamorati: la grazia e l’eleganza del corpo in movimento di Fred Astaire conquistano il cuore di Ginger Rogers. In Quarantaduesima strada e La danza delle luci, invece, il numero di ballo è declinato nella chiave dello spettacolo di massa: Busby Berkely dispone di fronte all’obiettivo decine di ballerini (nella Danza delle luci si arriva a 150) i quali, ripresi dall’alto, compongono elaborate figurazioni astratte.

1. La danza delle luci (1933) di Mervyn LeRoy.

Sia Fred Astaire sia Busby Berkeley, più avanti, passeranno alla MGM, in quella ‘Freed unit’ cui si è accennato. Ma i musical MGM degli anni Quaranta e Cinquanta hanno ancora un altro stile: si tratta di produzioni molto ricche, che vogliono colpire il pubblico con uno spettacolo grandioso dai colori sgargianti, in linea con il ‘pompierismo’ della compagnia. Basti pensare alla sontuosa ricostruzione della Parigi di inizio Novecento di Gigi, con gli splendidi costumi di Cecil Beaton. A sua volta, però, la produzione della ‘Freed unit’ presenta delle diversificazioni interne, a seconda dei registi e degli attori/ballerini che lavorano sul singolo progetto. Ad esempio, Incontriamoci a Saint Louis e Gigi, entrambi di Minnelli, sono storie d’amore con al centro un’adolescente (interpretata rispettivamente da Judy Garland e da Leslie Caron), favole sul passaggio dall’infanzia alla maturità

ambientate in un passato sfarzoso e idilliaco (nel primo caso si tratta della Saint Louis dell’Esposizione universale del 1904). Invece, Un americano a Parigi di Minnelli e Cantando sotto la pioggia della coppia Donen-Kelly (quest’ultimo firma la regia di diversi film in cui recita) sono dominati dalla prorompente fisicità di Gene Kelly, il quale trasforma i numeri di ballo in vere performance ginniche, laddove in Incontriamoci a Saint Louis, e soprattutto in Gigi, la dimensione coreutica risultava sostanzialmente secondaria rispetto a quella canora. Ma vi è poi un film come Il pirata (The Pirate, 1948), anch’esso diretto da Minnelli e interpretato da Judy Garland e Gene Kelly – il quale si impone come star di prima grandezza proprio con questa pellicola – che fonde la rêverie adolescenziale della prima con l’atletismo e l’autoironia del secondo.

2. Cappello a cilindro (1935) di Mark Sandrich.

Oltre a disporre dei teatri di posa e del personale che vi lavora, le Majors possiedono anche delle strutture per distribuire i loro prodotti, sia sul mercato nazionale sia su quello estero, e delle sale cinematografiche sparse per gli Stati Uniti. È quella che si chiama ‘integrazione verticale’: le Majors controllano i tre tasselli – produzione, distribuzione, esercizio – dell’industria del cinema. In questo modo, esse si collocano in una posizione di vantaggio nei confronti tanto dei produttori indipendenti,

quanto degli esercenti. Infatti, disponendo di cinema in cui proiettare i propri film, le Majors possono operare anche autonomamente, e quindi sono in grado di imporre le loro condizioni ai proprietari delle sale. Una pratica comune era quella del block booking: la Major non dava a noleggio le pellicole singolarmente, bensì a blocchi. I blocchi erano costituiti da un film di richiamo, con grandi divi, e da altri film di minore interesse, che potevano risultare finanziariamente rischiosi per l’esercente, il quale era però costretto a prenderli. Le tre compagnie minori, le cosiddette Minors (o ‘Little Three’), ossia Columbia, Universal e United Artists, erano tali proprio in quanto non avevano una propria rete di sale cinematografiche. Ma l’uso dell’espressione ‘minori’ non deve far pensare a produzioni necessariamente più povere. Soprattutto la Columbia e la Universal dimostrarono spesso una capacità produttiva non dissimile da quella delle Majors. Il caso della United Artists è un po’ diverso: fondata nel 1919 da alcuni dei registi e degli attori più in vista dell’epoca (David W. Griffith, Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford), la compagnia si occupava essenzialmente della distribuzione dei film indipendenti (come quelli dello stesso Chaplin). Infatti, accanto alle Majors e alle Minors, a Hollywood erano presenti anche altri marchi. C’erano piccole case come la Monogram e la Republic, specializzate in film a basso costo. E c’erano alcuni produttori indipendenti ‘di lusso’, ex dirigenti delle Majors, quali Samuel Goldwyn e David O. Selznick, che producevano pochi film, ma di grande impegno finanziario. In realtà, le linee di confine tra Majors, Minors e indipendenti non sono nette. Il più grande successo della storia del cinema americano classico, Via col vento (Gone with the Wind, 1939), non è stato opera di una Major, bensì di un indipendente, Selznick (che comunque, per portare a termine l’opera, poté contare sul sostegno finanziario della MGM). La Republic era specializzata in B-movies, ma produsse anche alcuni film di registi di primo piano, come Un uomo tranquillo (The Quiet Man, 1952) di John Ford (che vinse il premio Oscar) e Johnny Guitar (id., 1954) di Nicholas Ray. A loro volta, le Majors non realizzavano solo film a grosso budget, ma si dedicavano pure alle pellicole di serie B. Anche se – secondo una battuta che circolava nell’ambiente di

Hollywood – i B-movies della MGM, in assoluto la compagnia più ricca, potevano costare come un film di serie A di un’altra casa. I B-movies erano fatti con meno soldi, più in fretta, e con attori meno noti, ma, proprio grazie al fatto che, in caso di insuccesso, avrebbero causato un danno finanziario di poco conto, a volte erano l’occasione per sperimentare nuove tecniche, o affrontare temi scottanti che un film di serie A non poteva permettersi di toccare, proprio perché, trattandosi di una produzione più ricca, non era opportuno rischiare il flop. Grazie a questa maggiore libertà creativa, in alcuni casi i B-movies erano in grado di ottenere ottimi risultati commerciali. Basti citare il caso degli horror prodotti da Val Lewton per la RKO, e diretti da Jacques Tourneur: Il bacio della pantera (The Cat People, 1942), Ho camminato con uno zombi (I Walked with a Zombie, 1943) e L’uomo leopardo (The Leopard Man, 1943). I B-movies rappresentavano i titoli di seconda scelta del ‘pacchetto’ del block booking. Gli esercenti abbinavano, con un solo biglietto, un film di serie A e uno di serie B, oppure, nelle sale di provincia e negli spettacoli mattutini del weekend pensati per il pubblico infantile, due Bmovies. Ma, all’epoca della Hollywood classica, andare al cinema non significava soltanto vedere dei lungometraggi. Il programma, infatti, comprendeva anche uno o più cortometraggi: una comica, un disegno animato, il numero di un cinegiornale.

IL NON-FICTION I cinegiornali erano cortometraggi di informazione, contenenti servizi di argomenti diversi (politica, sport, cronaca ecc.), la cui cadenza variava a seconda del periodo e della compagnia produttrice (potevano essere mensili, quindicinali, settimanali). I cinegiornali vengono introdotti già durante il muto e scompaiono con l’arrivo della televisione, soppiantati dai telegiornali. Il cinegiornale più famoso della storia del cinema americano è The March of Time, prodotto da Louis de Rochemont per il gruppo Time-Life tra il 1935 e il 1951. Si può vedere un esempio di – finto – cinegiornale all’inizio di Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles. I cinegiornali fanno parte della più vasta famiglia del cinema di non-fiction, al cui interno rientrano tutti quei film che non mettono in scena un mondo fittizio, funzionale al racconto di una storia, bensì registrano avvenimenti della vita reale. Il documentarismo americano ha una lunga tradizione, che corre parallela – ma a volte vi si intreccia – alla storia del cinema hollywoodiano. Si tratta di una vicenda che inizia con gli anni Venti e con l’opera pionieristica di Robert Flaherty, passa attraverso i documentari militanti, legati al New Deal, realizzati negli anni Trenta da Pare Lorentz, e arriva fino al cinema diretto degli anni Sessanta, con un film come Primary (t.l.:

Elezioni primarie, 1960) di Richard Leacock, dedicato al processo di selezione del candidato democratico per le elezioni presidenziali del 1960.

L’assetto che abbiamo descritto nelle pagine precedenti caratterizza la produzione hollywoodiana fino alla fine degli anni Quaranta. Nel decennio successivo, la situazione si modifica in maniera rilevante. Già prima della seconda guerra mondiale, qualcuno tra i cineasti e gli attori di Hollywood aveva iniziato a porsi il problema di una maggiore autonomia espressiva dai vertici dell’industria. Nel 1935, Cary Grant scioglie il suo contratto con la Paramount e diviene il primo divo freelance della storia di Hollywood. Dopo il conflitto, il regista Frank Capra, insieme ai colleghi William Wyler e George Stevens, riesce a dar vita a una compagnia indipendente, la Liberty Films, che produrrà il suo film più famoso: La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life, 1946). Altri si mettono in proprio, da John Ford (la sua Argosy Pictures era attiva già nel 1940, ma inizia a operare a pieno regime solo a partire dal 1946) a Humphrey Bogart (che fonda la Santana nel 1948). Nella fase finale della Hollywood classica si assiste all’emergere di una nuova pratica produttiva, il cosiddetto package-unit system (‘sistema dell’unità-pacchetto’), che nasce a metà degli anni Quaranta e si impone nella seconda metà dei Cinquanta. Abbandonata la vecchia struttura con un produttore a capo di un gruppo che realizza tra i sei e gli otto titoli all’anno, ora si lavora su singoli progetti: un produttore mette insieme una squadra (regista, sceneggiatore, attori) ad hoc per un certo film, combinando le risorse delle Majors e quelle degli indipendenti. Esaminiamo un caso concreto: Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956) di John Ford, che analizzeremo a fondo nel terzo capitolo. Il film è prodotto da una casa indipendente, la Whitney Pictures, a seguito di un accordo con la Warner Brothers: la prima si accolla la spesa totale della produzione, che però verrà rimborsata (fino a un tetto di 2 milioni e mezzo di dollari) dalla Major nel momento in cui la pellicola sarà ultimata. Inoltre, la Warner si impegna a investire mezzo milione di dollari in pubblicità. Una volta superati i 5 milioni di incassi, gli utili saranno divisi a metà tra Warner e Whitney. La

star del film, John Wayne, riceve il 10% degli utili, così come il regista. La crescita delle produzioni indipendenti coincide con le forti difficoltà economiche che si abbattono sui grandi studios tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta. Da un lato, il successo della televisione sottrae sempre più spettatori al cinema. Dall’altro, una sentenza della Corte Suprema del 1948, la cosiddetta ‘Paramount decision’, costringe le Majors, sulla base della legislazione antitrust, a vendere le catene di sale, indebolendo notevolmente la posizione delle ‘cinque grandi’. In un mercato più permeabile grazie alla fine dell’integrazione verticale, i film indipendenti e quelli stranieri divengono maggiormente competitivi. A tutto ciò si aggiunge la riduzione dei proventi della distribuzione all’estero, dove molti governi hanno alzato barriere doganali per proteggere le loro cinematografie. La ‘Paramount decision’, inoltre, dichiara illegale la pratica del block booking, provocando così la fine dei Bmovies, che ora gli esercenti sono liberi di rifiutare. I maggiori rischi commerciali e la diminuzione degli incassi portano anche alla progressiva scomparsa di quella pletora di cortometraggi che fungevano da ‘contorno’ (torneremo sull’argomento nell’ottavo capitolo). Insomma, gli ultimi anni della Hollywood classica vedono un netto calo della produzione. Non solo gli studios producono meno film, ma spesso vanno a girare all’estero, dove i costi sono più bassi. Molti dei kolossal storici degli anni Cinquanta e Sessanta, con il cui sfarzo Hollywood tenta, inutilmente, di combattere la concorrenza del piccolo schermo, sono realizzati in Italia. Basti citare il caso di Ben-Hur (id., 1959) di William Wyler, passato alla storia per la spettacolare scena della corsa delle bighe, girato appunto a Roma. Cinecittà, infatti, è in grado di offrire agli americani strutture e maestranze di ottimo livello a prezzi inferiori rispetto alla California. Progressivamente, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, le compagnie hollywoodiane licenziano parte del personale, e affittano i teatri di posa alle reti televisive, oppure si mettono esse stesse a produrre per la televisione. Alla fine degli anni Sessanta, quando una nuova generazione – Francis Ford Coppola, Robert Altman, Woody Allen ecc. – arriva a

reinventare il cinema americano, le vecchie case produttrici sono ormai l’ombra di se stesse: ridotte a strutture distributive per gli indipendenti, lavorano a film che ripropongono stancamente gli schemi di un tempo, senza rendersi conto che il pubblico è ormai radicalmente cambiato. 2. Il sistema dei generi Lo studio system non consisteva in pura e semplice produzione in serie, poiché ogni film doveva essere – o quanto meno doveva apparire – un pezzo unico. In caso contrario, il mercato si sarebbe saturato molto in fretta. La Hollywood classica – come ogni tipo di cinema popolare – lavorava utilizzando dei grandi modelli di racconto, i generi, attorno ai quali si articolava una complessa dialettica di standardizzazione e differenziazione. I generi servivano – e servono tutt’oggi – ad appagare il desiderio del pubblico di farsi raccontare più e più volte la stessa storia, ma in forme sempre diverse. Oppure, seguendo le indicazioni di Cesare Segre (che fa riferimento alla letteratura), possiamo concepire il genere come un campo di tensione tra la norma e la violazione della stessa operata dal singolo autore4. Ad esempio, un film noir per essere tale deve raccontare una vicenda criminale, ambientata in una città notturna e inquietante, con una donna seducente e spietata; ciò che cambia è il modo in cui ogni regista utilizza questi elementi. Solo per citare due dei titoli più famosi, Il mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941) di John Huston, generalmente considerato come il capostipite del noir, è diverso dalla Fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944) di Billy Wilder. E non sono solo i registi e gli sceneggiatori a ‘piegare’ i generi in una direzione piuttosto che in un’altra. Infatti, ogni casa di produzione si specializzava in alcuni generi (kolossal storici e commedie alla Paramount, gangster movies e film ‘sociali’ alla Warner, cinema fantastico alla Universal ecc.), fornendone una propria versione che doveva distinguersi nettamente da quella dei concorrenti. Disegnare una mappa precisa dei generi della Hollywood classica sarebbe un’operazione assai complessa, che non c’è modo di tentare in questa sede. Nel corso del tempo i generi si modificano, ad esempio passando dalla serie B alla A, come avviene al western a cavallo tra gli anni Trenta e i Quaranta. E si

dividono in sottogeneri. Il musical – per limitarci a un solo caso – si articola in tre grandi classi: il backstage musical (film sulla messa in scena di uno spettacolo), la fiaba, il musical folk5. Alcuni generi, poi, sono tra loro affini, e la medesima storia può essere raccontata una seconda volta cambiando costumi e scenografie. Basti citare il western Tamburi lontani (Distant Drums, 1951) di Raoul Walsh, remake di un film di guerra diretto dallo stesso regista, Obiettivo Burma (Objective, Burma!, 1945). La trama è sostanzialmente analoga, mutano solo il luogo e il tempo dell’azione (la Florida del 1840 da un lato, la Birmania del 1944 dall’altro), e il nemico (gli indiani Seminole nel primo, i giapponesi nel secondo) contro cui si batte l’esercito degli Stati Uniti. Inoltre, i generi si ibridano fra di loro, tanto che in alcuni casi non è semplice collocare un film in una categoria piuttosto che in un’altra. Notorious, l’amante perduta (Notorious, 1946) di Alfred Hitchcock è un giallo, in cui Cary Grant e Ingrid Bergman devono smantellare una rete di spie naziste. Accanto alla spy story però c’è anche il dramma sentimentale, con l’amore tormentato tra i due protagonisti. Oklahoma! (id., 1955) di Fred Zinnemann, tratto dall’opera omonima di Oscar Hammerstein II e Richard Rodgers (uno dei musical più importanti della storia del teatro americano), è indubitabilmente un musical (di tipo folk), dato che gli attori in alcune scene cantano e ballano. Ma Oklahoma! è anche ambientato nel West e presenta un soggetto tipico del cinema western, ossia il conflitto tra allevatori e agricoltori. Gli sceneggiatori della Warner riciclavano così spesso le medesime storie che il writing department della casa di produzione era soprannominato la ‘stanza dell’eco’6. La produzione hollywoodiana si basava sul principio del riutilizzo sistematico dei materiali narrativi, un principio di cui il sistema dei generi rappresenta solo l’aspetto più evidente. Ad esempio, Le notti di Chicago (Underworld, 1927) di Josef von Sternberg, un film muto che anticipa il gangster movie degli anni Trenta, racconta di un ménage à trois nell’ambiente della malavita, in cui la donna contesa si chiama Feathers. Il cattivo, volendo umiliare uno dei due protagonisti maschili, un ex alcolista, getta una banconota da 10 dollari nella sputacchiera per fargliela raccogliere. Alla sceneggiatura delle Notti di Chicago (da un

soggetto di Ben Hecht) collaborò, non accreditato, Howard Hawks, il quale, quasi trent’anni dopo, lavorando al suo Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959), si ricorderà del film di von Sternberg. Un dollaro d’onore, infatti, inizia proprio con il cattivo che lancia una moneta in una sputacchiera, per farsi gioco di Dean Martin, un alcolizzato che elemosina un sorso di whisky in un saloon. E la donna (Angie Dickinson) che si innamora dell’eroe (John Wayne) si chiama proprio Feathers. Di Un dollaro d’onore, peraltro, farà un remake lo stesso Hawks, con El Dorado (id., 1967). Del sistema dei generi riparleremo in maniera più approfondita più avanti, quando esamineremo due casi specifici: la commedia (capitolo quarto) e il noir (capitolo quinto). 3. Il Codice Hays Negli Stati Uniti non è mai esistita una censura federale, ossia un ufficio con sede a Washington che abbia giurisdizione sulla circolazione dei film sul territorio dell’intero paese. In America, contrariamente all’Europa, la censura è sempre stata gestita a livello locale, sin dai tempi dello scontro – che arrivò alla Corte Suprema – tra la casa di produzione Mutual e lo stato dell’Ohio, che aveva bandito dai suoi confini una delle pellicole realizzate dalla compagnia, Nascita di una nazione (Birth of a Nation, 1915) di David W. Griffith, perché ritenuta (a buon diritto) razzista. È chiaro che per Hollywood un controllo a livello nazionale avrebbe rappresentato un problema ben più grave rispetto alle decisioni delle autorità di un singolo stato, o di una singola città. Quindi, per fare in modo che il governo non istituisse la censura federale, in occasione delle ripetute campagne lanciate dai gruppi religiosi (in particolare dai cattolici) e dai settori più conservatori dell’opinione pubblica contro la supposta immoralità dei film, l’industria del cinema reagì sempre con toni concilianti, proponendo forme di autocontrollo. Già nel 1922, in seguito a una serie di scandali a sfondo sessuale che avevano coinvolto esponenti del mondo di Hollywood, e che sembravano minare la rispettabilità dell’intera comunità, le case di produzione cinematografiche avevano dato vita al Motion Picture Producers and Distributors of America

(MPPDA), con a capo un ex esponente del Partito repubblicano, Will H. Hays. L’MPPDA, che sarà noto più semplicemente come Hays Office, era una struttura pensata per gestire i rapporti tra Hollywood e il potere politico. Tra le questioni da affrontare c’era la necessità di evitare che i film recassero offesa alla ‘morale corrente’, facendo così aumentare il rischio che Washington optasse per l’adozione della censura federale. Nel 1927 Hays introduce un codice di autoregolamentazione: un elenco di argomenti ‘rischiosi’ da evitare o da trattare con cautela. La lista delle tematiche ‘a rischio’ comprendeva, tra le altre: «nudità licenziosa o allusiva; […] traffico illegale di droga; qualunque allusione a perversioni sessuali; […] relazioni sessuali tra razza bianca e negra»7. Negli anni Venti, però, il principale obiettivo dello Hays Office è la difesa di Hollywood dalla legislazione antitrust. La questione della censura diviene prioritaria soltanto agli inizi del decennio seguente. I primi anni Trenta, infatti, vedono una crescita della ‘licenziosità’ dei film americani. Si tratta di un periodo assai duro, tanto per gli Stati Uniti in generale, colpiti dal disastro della Grande Depressione, quanto per Hollywood, che deve confrontarsi con l’innalzamento dei costi di produzione indotto dall’avvento del sonoro. Da un lato, i film assorbono gli stimoli provenienti da una società alle prese con la crisi economica e con la crescita della criminalità. Indubbiamente, in tale processo gioca un ruolo importante l’arrivo a Hollywood di una schiera di scrittori cresciuti nei giornali (Ben Hecht, Dudley Nichols, Billy Wilder) e nei teatri di New York (Preston Sturges, Sidney Buchman, Robert Riskin), assunti dalle Majors per lavorare ai dialoghi e alle sceneggiature dei nuovi film sonori. Costoro portano nel mondo del cinema un’ironia irriverente e uno stile mimetico rispetto al linguaggio della vita reale, che certo il pubblico più conservatore trova sconveniente. Dall’altro, a fronte dell’impoverimento repentino di ampie fette di pubblico (nel 1932 gli Stati Uniti contano 12 milioni di disoccupati), i produttori, per evitare un calo nelle vendite dei biglietti, utilizzano una ricetta ben collaudata: più sesso e più violenza.

IL PASSAGGIO DAL MUTO AL

SONORO Convenzionalmente la data di inizio dell’epoca del cinema sonoro è il 1927, anno in cui esce Il cantante di Jazz (The Jazz Singer) di Alan Crosland, il primo film parlato. Negli Stati Uniti, la transizione al sonoro si conclude nel 1929, quando Jacques Feyder gira Il bacio (The Kiss), l’ultimo film muto realizzato a Hollywood. Il passaggio al sonoro implicò forti spese per le case di produzione, perché si dovettero adattare tanto gli studi quanto le sale cinematografiche alle esigenze della nuova tecnologia (i teatri di posa del muto, ad esempio, non erano strutture insonorizzate). Soprattutto, questa trasformazione ebbe gravi ricadute sul piano estetico. Alcuni dei generi, dei registi e degli attori di spicco del muto furono letteralmente spazzati via. Si pensi, ad esempio, a Buster Keaton, tra le più grandi star degli anni Venti, la cui recitazione straniata era intimamente legata all’assenza della parola, e che quindi, nel contesto del cinema sonoro, venne brutalmente messo da parte. Non per nulla, l’altro grande protagonista del genere comico del muto, Charlie Chaplin, realizzò il suo primo film parlato solo nel 1940 (grazie al fatto che era il produttore di se stesso, e quindi poteva scegliere come e quando lavorare), con Il grande dittatore (The Great Dictator), mentre il precedente Tempi moderni (Modern Times, 1936) utilizzava unicamente musica e rumori (con l’eccezione di qualche rara battuta, legata a personaggi secondari). Al contempo, però, il sonoro provocò anche la nascita di nuovi generi, come il musical, e l’ampliamento delle possibilità espressive di forme già esistenti, quali, ad esempio, la commedia e il war movie (grazie all’introduzione, rispettivamente, dei dialoghi e del suono nelle scene di battaglia).

Vediamo qualche esempio. In Scarface (Scarface: Shame of a Nation, 1932) di Howard Hawks (con Ben Hecht tra gli sceneggiatori), uno dei film che impongono la moda dei gangster movies, non solo troviamo un tasso di violenza eccezionale per l’epoca, ma anche un legame incestuoso piuttosto esplicito tra il protagonista, il perfido boss Tony Camonte (interpretato da Paul Muni e ispirato alla figura di Al Capone), e la sorella8. In Freaks (id., 1932) Tod Browning racconta una vicenda inquietante ambientata in un circo di ‘scherzi di natura’, e colloca davanti all’obiettivo persone realmente deformi. La storia si conclude con la terribile punizione della perfida trapezista ‘normale’ che ha sposato un nano solo per il suo denaro, la quale viene gettata sotto le ruote dei carri e trasformata anch’ella in freak. Partita a quattro (Design for Living, 1933) di Ernst Lubitsch, da un testo teatrale di Noël Coward adattato per lo schermo da Ben Hecht, è una commedia che ostenta un aperto disprezzo per le convenzioni sociali: il film finisce con Miriam Hopkins che abbandona il marito e riprende felicemente il ménage à trois che conduceva all’inizio

con Fredric March e Gary Cooper. In Lady Lou-La donna fatale (She Done Him Wrong, 1933), Cary Grant e Mae West, attrice simbolo della rilassatezza dei costumi del cinema americano dei primi anni Trenta, hanno il seguente scambio di battute: «Non hai mai trovato un uomo che sapesse renderti felice?» – «Certo, un sacco di volte». Nel 1930 Will Hays aveva fatto adottare un nuovo codice di autoregolamentazione, basato largamente sul precedente testo del 1927. Autori del cosiddetto Production Code, passato alla storia come Codice Hays, furono due esponenti dell’intellettualità cattolica: il gesuita e docente universitario Daniel Lord, e il giornalista Martin Quigley. Il Codice raccomandava prudenza, o vietava un riferimento di qualunque genere, a proposito di un gran numero di temi e di comportamenti ritenuti devianti: crimini, alcol, droga, omosessualità, offese alla religione e alla bandiera, prostituzione, aborto ecc. Inizialmente, Hays cercò di far sì che l’adesione al Codice da parte dei membri del MPPDA fosse volontaria, ma molte case di produzione di fatto non si adeguarono. Nel 1934, a fronte della minaccia di un boicottaggio dei film ritenuti più scandalosi da parte della Legion of Decency (‘Legione della Decenza’), un’organizzazione cattolica alla cui battaglia però si unirono anche gruppi protestanti ed ebraici, Hays impose il Codice con la forza. Lo Hays Office decretò che nessun film potesse essere distribuito nelle sale appartenenti alle Majors senza la sua approvazione preventiva. In caso di violazione di tale regola, la casa di produzione del film in questione sarebbe stata multata. È chiaro che la forza del Codice risiedeva nell’integrazione verticale: finché i membri del MPPDA possedevano catene di sale cinematografiche, non avere il nulla osta di Hays significava di fatto non riuscire a distribuire il film9. Non per niente, il Codice inizia a entrare in crisi negli anni Cinquanta, quando si verifica la separazione tra produzione ed esercizio. Tra i primi casi di violazione figurano due film di Otto Preminger L., entrambi distribuiti dalla United Artists: La vergine sotto il tetto (The Moon Is Blue, 1953), che presenta dei dialoghi allora considerati audaci, e L’uomo dal braccio d’oro (The Man with the Golden Arm, 1955), in cui Frank Sinatra interpreta il ruolo di un tossicomane.

Con gli anni Sessanta il Codice si dimostra sempre più anacronistico, soprattutto perché la composizione dell’audience è ormai radicalmente cambiata. Le famiglie, che avevano rappresentato il cuore del pubblico del cinema classico, rimangono a casa a guardare la televisione, e al cinema vanno quasi unicamente i giovani. E questi ultimi appartengono a una generazione certamente poco in sintonia con i dettami del Production Code: è il periodo della lotta per i diritti civili, dell’opposizione alla guerra del Vietnam, degli hippies. Il Codice verrà definitivamente abrogato nel 1968, a favore di un sistema di classi, sul modello di quello in uso in Gran Bretagna e in altri paesi europei, che vieta la visione di alcuni film agli spettatori al di sotto di certe fasce di età. 4. Il genio del sistema: «Il mago di Oz» L’organizzazione del lavoro nella Hollywood classica si basava sull’enfatizzazione della vocazione collettiva del processo creativo che caratterizza il cinema in quanto tale (quanto meno quello narrativo: nell’ambito del cinema sperimentale possiamo trovare esempi di film realizzati interamente da una sola persona). I registi, ossia coloro che abitualmente si è portati a considerare gli ‘autori’ dei film, erano solo un tassello di una complessa macchina, alla guida della quale era il produttore, e di cui facevano parte altre figure che fornivano un apporto determinante al risultato finale, un apporto talvolta anche superiore a quello dello stesso regista. Un caso particolarmente chiaro di tale modus operandi è rappresentato dal Mago di Oz, la cui vicenda produttiva esemplifica perfettamente la natura di quel ‘genio del sistema’ – in contrapposizione al genio individuale dell’artista demiurgo teorizzato dalla politique des auteurs – di cui parlava André Bazin, in un articolo del 1957, a proposito della tradizione hollywoodiana10.

3. Il mago di Oz (1939) di Victor Fleming.

Il mago di Oz è tratto dal romanzo omonimo di Frank Baum, pubblicato per la prima volta nel 1900, uno dei testi più popolari della letteratura americana per l’infanzia, che racconta della piccola Dorothy, trasportata da un tornado dal natio Kansas alla favolosa terra di Oz, dove la bambina vive delle straordinarie avventure in compagnia dello Spaventapasseri, dell’Uomo di latta e del Leone codardo. Di questo libro – e di alcuni degli altri 13 titoli della lunga saga del mondo di Oz – erano già state realizzate numerose riduzioni teatrali e cinematografiche, in buona parte con l’apporto dello stesso Baum, a partire dal 190211. Ma se, nell’autunno del 1937, la Metro-Goldwin-Mayer decide di fare un nuovo adattamento dell’opera di Baum, non è tanto per la serie ininterrotta di successi che, nelle sue varie forme, essa aveva riscosso per più di trent’anni, quanto piuttosto per l’imminente uscita nelle sale di Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, 1937), il primo lungometraggio della Disney. La convinzione generale, presto suffragata dai fatti, era che Biancaneve e i sette nani avrebbe ottenuto ottimi risultati al botteghino. Perciò, anche alla MGM pareva necessario disporre di una favola in Technicolor da offrire al pubblico. Non per nulla, Il mago di Oz viene costruito sullo stesso schema adottato da Disney: un soggetto fiabesco ibridato con il pattern del musical. Scrive in proposito lo

scrittore anglo-indiano Salman Rushdie, nella sua affascinante analisi del Mago di Oz: Dorothy si accinge a superare Biancaneve di circa cinquanta volte. Si riesce quasi a sentire i responsabili degli studi MGM che discutono il modo di mettere in ombra il successo di Disney: non soltanto offrendo, in scene girate ‘dal vivo’, quasi altrettanti effetti miracolosi di quelli del cartone animato di Disney, ma anche in fatto di nani. Se Biancaneve aveva sette nani, i capi degli studi decisero che Dorothy Gale, proveniente dalla stella chiamata Kansas, doveva averne trecentocinquanta. [Rushdie si riferisce ai Munchkins, i Mastichini nella versione italiana, i piccoli abitanti di una delle regioni della terra di Oz, interpretati appunto da nani, N.d.A.]12

D’altra parte, la stessa scelta di usare il colore per le scene ambientate a Oz – in contrapposizione al bianco e nero virato seppia del prologo e dell’epilogo, che si svolgono nella ‘grigia realtà’ del Kansas – è funzionale alla realizzazione di un film capace di rivaleggiare con le creazioni di Walt Disney. Infatti, sin dagli inizi degli anni Trenta la Disney si era largamente affidata al colore per creare il clima ‘magico’ delle sue storie. Non è certo un caso che il primo film hollywoodiano in Technicolor sia stato prodotto proprio da Walt Disney: Fiori e alberi (Flowers and Trees, 1932), un cortometraggio della serie Silly Symphonies. I colori brillanti che caratterizzano l’avventura di Dorothy, a partire dal rosso rubino delle scarpe fatate indossate dalla ragazza (nel romanzo di Baum sono d’argento: il cambiamento è chiaramente funzionale a far risaltare lo splendore del Technicolor), sono volutamente antinaturalistici, pensati per una messa in scena di matrice onirico-favolistica che faccia assomigliare il film a un disegno animato. Il progetto del Mago di Oz, dunque, nasce come risposta ai risultati ottenuti da una casa concorrente, in quella logica di standardizzazione e differenziazione di cui abbiamo detto. Il mago di Oz vuole ‘distinguersi’ da Biancaneve e i sette nani (su cui torneremo più diffusamente nell’ottavo capitolo), a partire dal fatto che si tratta di un film dal vero anziché di un cartoon, ma al contempo fa proprie alcune delle opzioni stilistiche della pellicola della Disney. Nel 1938 la MGM era guidata con piglio autocratico da Louis B. Mayer. Fino alla metà degli anni Trenta, Mayer aveva dovuto condividere la gestione della cosiddetta ‘Tiffany degli studios’ (dal nome del più famoso gioielliere di New York) con Irving Thalberg, l’enfant prodige divenuto capo della produzione della

a soli 25 anni. Thalberg, figura geniale e dispotica, sarà il modello del protagonista dell’ultimo romanzo, incompiuto, di Francis Scott Fitzgerald, Gli ultimi fuochi, ambientato nel mondo del cinema (il grande scrittore americano trascorse l’ultima fase della sua vita a Hollywood, lavorando con scarso successo come sceneggiatore)13. La morte prematura (a 37 anni) di Thalberg, avvenuta nel 1936, lascia Mayer da solo al vertice della compagnia, che dirigerà ininterrottamente fino al 1951. Mayer affida il progetto del Mago di Oz a Mervyn LeRoy, un ex regista della Warner arrivato da poco alla MGM, dove svolge anche funzioni di produttore. Mayer risponde negativamente alla richiesta di LeRoy di dirigere egli stesso il film, e in più gli impone di essere affiancato da Arthur Freed, un compositore in procinto di passare a lavorare in produzione, il cui aiuto è ritenuto necessario per la realizzazione di un musical. MGM

IL COLORE Il colore era già presente nel cinema muto, quando le pellicole in bianco e nero venivano colorate con mezzi diversi (dalla colorazione manuale dei fotogrammi alle tecniche meccaniche dell’imbibizione e del viraggio). Il passaggio alla pellicola a colori in senso proprio avviene negli anni Trenta, con la diffusione del Technicolor in tricromia: un procedimento complesso e dispendioso basato sull’utilizzo di tre diversi negativi in bianco e nero, a ognuno dei quali è abbinato un filtro, uno per ciascuno dei colori primari (rosso, blu, giallo). A partire dal 1953, il Technicolor viene progressivamente sostituito dall’Eastman Color, con pellicola unica, più economico e di qualità inferiore. Il primo lungometraggio in Technicolor è Becky Sharp (id., 1935) di Rouben Mamoulian, tratto dalla Fiera delle vanità di William Thackeray. Per tutti gli anni Trenta e Quaranta Hollywood ricorre abbastanza di rado al colore, generalmente limitato a super-produzioni, quali appunto Il mago di Oz oppure Via col vento, anche se non mancano film con budget ‘normale’ realizzati in Technicolor, come ad esempio Nulla sul serio (Nothing Sacred, 1937), una commedia diretta da William Wellman. Il cinema hollywoodiano passerà completamente al colore solo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sia per l’abbassamento dei costi provocato dall’arrivo dell’Eastman Color, sia perché in quel periodo Hollywood stava ancora tentando di vincere la sfida con la televisione, puntando sulla superiore qualità dell’immagine cinematografica rispetto al piccolo schermo. Non per niente, questi sono anche gli anni della diffusione dei formati panoramici, il più importante dei quali è il Cinemascope, che utilizzano una lente anamorfica capace di ‘comprimere’ un’immagine molto ampia su una normale pellicola 35 mm, che viene poi ‘decompressa’ in fase di proiezione (sul proiettore è montata una lente analoga a quella utilizzata in fase di riprese). Il primo film in Cinemascope è stato La tunica (The Robe, 1953) di Henry Koster.

Mayer cerca anche di prendere in prestito la diva bambina

Shirley Temple, sotto contratto presso la 20th Century Fox. Quella del prestito di registi, attori e tecnici da uno studio all’altro era pratica piuttosto comune, ma in questo caso la trattativa non va in porto. La scelta cade allora su Judy Garland, una giovane promessa della MGM. La Temple era certo più congruente rispetto alla trama del libro, perché l’eroina di Baum è una bambina e non un’adolescente, qual era Judy Garland, che infatti venne truccata per dimostrare meno anni (ne aveva quindici quando venne selezionata per interpretare il ruolo). Ma la presenza della Garland nel film si rivelerà fondamentale. Se il Mago di Oz è diventato uno dei classici del cinema americano, e Over the Rainbow uno dei brani più famosi di tutta la storia della musica per film, lo si deve in buona parte alle grandi doti canore della star. Inoltre, l’incontro tra Judy Garland e Arthur Freed sul set del Mago di Oz avrà un’influenza determinante sullo sviluppo successivo del musical della MGM. La giovane attrice/cantante, infatti, costituirà uno degli elementi centrali di quella ‘Freed unit’ di cui abbiamo parlato e per la cui nascita Il mago di Oz rappresenta una sorta di prova generale. Il primo sceneggiatore cui viene affidato il compito di ridurre il testo di Baum per lo schermo è Herman J. Mankiewicz, fratello del regista Joseph Mankiewicz, nonché autore dello script di Quarto potere. Mankiewicz stende un primo trattamento, senza sapere che altri due sceneggiatori – Ogden Nash e Noel Langley – sono stati messi a lavorare sulla stessa materia. A Hollywood accadeva spesso che diversi sceneggiatori, all’insaputa l’uno dell’altro, operassero contemporaneamente su un medesimo soggetto, in modo tale che i produttori potessero scegliere tra ipotesi differenti, estromettendo dal processo produttivo coloro che sembravano contribuirvi in maniera meno efficace. I titoli di testa attribuiscono la sceneggiatura del Mago di Oz a Noel Langley, Florence Ryerson e Edgar Allan Woolf, ma in tutto furono ben dieci gli scrittori che, in fasi diverse, lavorarono alla sceneggiatura del film, senza contare l’apporto di E.Y. Harburg, autore delle canzoni. La parte più rilevante del lavoro venne svolta da Langley – che peraltro a un certo punto fu esonerato, per essere poi richiamato a collaborare al film – ma è chiaro che

risulta assai difficile attribuire una paternità certa alla sceneggiatura. Troviamo una situazione simile anche sul piano della regia, in quanto sul set del Mago di Oz si alternarono quattro registi diversi. Il primo è Richard Thorpe, un artigiano di buon mestiere, che dopo due settimane viene allontanato perché LeRoy non lo ritiene all’altezza del compito. A sostituirlo arriva George Cukor, uno dei registi più importanti dell’epoca, autore, tra i suoi molti titoli, di alcune delle migliori commedie hollywoodiane, da Donne (The Women, 1939), con un cast totalmente femminile – Cukor è passato alla storia come un ‘regista di donne’ –, a Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story, 1940). Rimane tre giorni e poi va a dirigere Via col vento. In questo breve lasso di tempo, però, Cukor fornisce un apporto importante, cambiando la pettinatura della protagonista, cui toglie la parrucca bionda, per farne il più possibile una semplice ragazza di provincia. Dopo Cukor, giunge Victor Fleming, un altro regista-artigiano, molto lontano dal modello autoriale incarnato da Cukor. Fleming lavora al film per ben quattro mesi, arrivando quasi fino alla fine della lavorazione. Infatti, sui credits compare il nome di Fleming, che però, a pochi giorni dalla fine delle riprese, deve andare a prendere in mano le redini di Via col vento, dal cui set nel frattempo Cukor è stato cacciato. Il quarto regista del Mago di Oz (per dieci giorni) è King Vidor, il più ‘indipendente’ dei registi della MGM. Durante il periodo del cinema muto, Vidor era stato tra i più importanti cineasti americani, firmando opere quali La grande parata (The Big Parade, 1925), uno dei primi film che denunciano la catastrofe della Grande Guerra, e La folla (The Crowd, 1928), sui pericoli della società di massa. Negli anni Trenta, Vidor si misura ancora con temi scottanti, come nel caso di Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread, 1934), un film autoprodotto (a fronte del rifiuto della MGM di finanziare l’impresa, l’autore ipotecò la propria casa) dove affronta la tragica realtà della Grande Depressione. Insomma, Vidor era un regista piuttosto lontano dallo spirito del Mago di Oz ma, per quanto intellettualmente autonomo, egli rimaneva comunque il ‘dipendente’ di una Major, e accettò di buon grado di portare a termine il film, senza neppure comparire nei titoli di testa.

Soprattutto nel caso dei film con budget molto alti, che coinvolgevano centinaia di persone, la stesura dei credits poteva essere oggetto di complesse trattative tra la casa di produzione, coloro che avevano collaborato alla pellicola e le organizzazioni sindacali che rappresentavano i diversi ruoli professionali (la Screen Directors Guild per i registi, la Screen Writers Guild per gli sceneggiatori ecc.), e spesso capitava che l’apporto di qualcuno non figurasse o fosse sminuito nei titoli di testa, oppure, all’opposto, che la persona sbagliata ottenesse dei meriti (ma non è una caratteristica precipua della Hollywood classica: casi di questo genere sono reperibili in tutta la storia del cinema). Spesso si considera il 1939 come l’anno simbolo della Hollywood classica. A dieci anni dal compimento della transizione al sonoro, e subito prima degli orrori della seconda guerra mondiale, Hollywood dispiega il massimo della sua capacità mitopoietica. Dopo il conflitto, le Majors, colpite dalla ‘Paramount decision’ e dalla concorrenza della televisione, non saranno più in grado di sviluppare la fantasia, la creatività e la forza produttiva espresse nel periodo prebellico. Nel 1939 escono alcuni dei più grandi capolavori del cinema americano classico. In primo luogo Via col vento, che tanto ha in comune con Il mago di Oz, a partire da due dei suoi registi (Fleming, che firma entrambi i film, vince il premio Oscar per Via col vento) e dall’uso del Technicolor. Ma ci sono anche Ninotchka (id.) di Ernst Lubitsch, Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington) di Frank Capra, Ombre rosse (Stagecoach) di John Ford, La voce nella tempesta (Wuthering Heights) di William Wyler, La via dei giganti (Union Pacific) di Cecil B. De Mille, Avventurieri dell’aria (Only Angels Have Wings) di Howard Hawks e il già citato Donne di George Cukor. In questo anno di incredibile abbondanza, Il mago di Oz – uno dei 41 film distribuiti dalla MGM nel 1939 – ottiene buoni risultati al botteghino ma, a fronte di costi di produzione e promozione molto alti, finisce per rappresentare una perdita per la compagnia. Il film inizierà a produrre utili molto più avanti, grazie ai passaggi televisivi e all’home video, quando si sarà sedimentato profondamente nella cultura popolare americana, di cui rappresenta una delle componenti chiave. Negli Stati Uniti,

infatti, Il mago di Oz è uno di quei film cui si allude spessissimo, al cinema così come nelle conversazioni quotidiane, a partire dalla frase – ormai topica – che pronuncia Dorothy quando arriva a Oz: «Ho l’impressione che non siamo più nel Kansas». Basti indicare soltanto due casi, tra loro diversissimi: il droide D3BO di Guerre stellari (Star Wars, 1977), chiaramente ispirato all’Uomo di latta che accompagna Judy Garland nel suo viaggio, e la comparsa di Glinda, la strega buona che protegge Dorothy, a conforto di Nicholas Cage nel finale di Cuore selvaggio (Wild at Heart, 1990) di David Lynch. «Somewhere over the rainbow»: abbiamo incominciato da lì, ma avrebbe anche potuto essere il «Domani è un altro giorno» del finale di Via col vento, oppure il viso di Greta Garbo, o la sigaretta di Humphrey Bogart. Hollywood, cuore pulsante dell’immaginario del XX secolo, nel corso della sua storia ha generato melodie, frasi, immagini, che sono divenute feticci, icone, ‘miti d’oggi’ a tutti noti e continuamente citati, come sempre accade con ciò che è ‘classico’.   R. Behlmer (a cura di), Memo from David O. Selznick, The Modern Library, New York 2000, p. 19 (trad. nostra). 1

D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, Routledge, London 1988, pp. 92-93 (trad. nostra). 2

3

Ivi, p. 320 (trad. nostra).

4

Cfr. C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1999, p. 257.

Cfr. R. Altman, The American Film Musical, Indiana University Press-British Film Institute, Bloomington-London 1987. 5

I settori in cui si articolavano le case di produzione erano chiamati ‘dipartimenti’. Il writing department era appunto il ‘dipartimento scrittura’. 6

Citato in R.A. Inglis, Sviluppo e funzionamento dell’autoregolamentazione, in AA.VV., Hollywood. Lo studio system, Marsilio, Venezia 1982, p. 215. 7

Del film di Hawks farà un remake Brian De Palma, nel 1983, con Al Pacino nei panni del protagonista. 8

Sulla storia del Production Code vedi R. Maltby, The Production Code and the Hays Office, in T. Balio, Grand Design. Hollywood as a Modern Business Enterprise, 1930-1939, University of California Press, Berkeley 1993, pp. 37-72. 9

Cfr. A. Bazin, Sulla politique des auteurs, trad. it., in S. Toni e P. Cristalli (a cura di), Dal cinema al cinema. La nuova critica e le origini delle nouvelles vagues, Transeuropa, Ancona 1997, pp. 53-62. Circa la nozione di politique des auteurs rimandiamo al capitolo settimo. 10

11

Cfr. M.E. Swartz, Oz before the Rainbow. L. Frank Baum’s «The Wonderful Wizard of

Oz» on Stage and Screen to 1939, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2000. S. Rushdie, Il mago di Oz, trad. it., Linea d’Ombra, Milano 1993, pp. 29-30. La «stella chiamata Kansas» viene da uno dei versi della canzone che segna l’arrivo di Dorothy nel mondo di Oz. Come osserva lo stesso Rushdie, il numero delle comparse che interpretano i Mastichini non è certo. 350 è la stima più generosa. Aljean Harmetz, nel suo libro sulla lavorazione del Mago di Oz, cui abbiamo ampiamente attinto per stendere questo paragrafo, parla di 124 comparse. Cfr. A. Harmetz, The Making of «The Wizard of Oz», Hyperion, New York 1998, pp. 188204. 12

Del romanzo di Fitzgerald realizzerà una riuscita versione cinematografica Elia Kazan: Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon, 1976). 13

II.

Lo stile classico. «Casablanca»

1. La classicità hollywoodiana. Ovvero, di cosa parliamo quando parliamo del cinema americano classico Il cinema dell’età d’oro di Hollywood, proiettato sugli schermi di tutto il mondo, e capace di fornire miti, modelli sociali, comportamentali, veicolare ideologie ecc., è innegabilmente un riferimento imprescindibile per l’immaginario del Novecento. La ‘fabbrica dei sogni’, secondo una delle più diffuse definizioni della macchina industriale hollywoodiana, ha costituito non soltanto una potenza economica e uno strumento politico e propagandistico fondamentale, come si vedrà in altre pagine di questo libro, ma anche oggettivamente una produzione culturale che, al di là dell’american way of life, ha diffuso forme narrative, tecniche linguistiche, schemi iconografici che hanno permeato la cultura del secolo scorso, raggiungendo un equilibrio, una coerenza e una riconoscibilità che ne fanno un riferimento e un modello in qualche modo ‘classico’. Tale ‘classicità’, che è il risultato di decenni di sperimentazioni tecniche e narrative, e di progressive modificazioni e razionalizzazioni dell’apparato industriale, in un processo di forte reciprocità1, si pone non soltanto come il raggiungimento di una stabilità (certamente relativa) di modi di produzione e di rappresentazione, ma anche come l’espressione di una cultura capace di segnare un’epoca, di raccogliere l’eredità di tradizioni precedenti, di fondare una nuova civiltà culturale, di proseguire e ricreare una mitologia, degli archetipi, degli stereotipi che in qualche modo siglano l’incontro o la con-fusione tra l’universo culturale proprio della vecchia Europa e quello della giovane America. Il critico francese André Bazin, nel famoso saggio L’evoluzione del linguaggio cinematografico, fu tra i primi a riconoscere in questo cinema «tutti i caratteri della pienezza di un’arte ‘classica’»2, riferendosi in particolare agli elementi linguistici e stilistici, di cui parleremo più avanti; ma l’idea stessa di ‘classicità’ chiama in causa o evoca pure una ‘pienezza’ di altro tipo, più complessiva e generale. Fin dalla ‘prima’ classicità hollywoodiana, che gli storici vedono in formazione già dalla metà degli anni Dieci3, e dalla prima ‘invasione’ degli schermi europei da parte di questo cinema (con i film di Griffith, di De Mille, con le comiche di Charlot ecc.), in Europa, e in particolare in Francia, dagli anni Dieci e per tutti gli anni Venti, l’entusiasmo di molti intellettuali si contrappose allo snobismo e al disprezzo della cultura accademica più retriva, decretandone la morte e celebrando, con Hollywood, la nascita di un cinema capace di raccontare con forme proprie, con un proprio linguaggio, con un proprio stile, non più malamente dipendente da teatro e letteratura, ma autonomamente capace di comporre l’apporto delle arti e delle forme culturali precedenti in una sintesi nuova. L’icona di Charlot, ripresa nel film d’avanguardia del pittore Fernand Léger Ballet mécanique (1924), cui contribuirono altri artisti come Francis Picabia e Man Ray, ne è una testimonianza significativa. Qui, nella decostruzione delle forme artistiche tradizionali e nel ‘balletto meccanico’ che ne deriva, emerge, come omaggio a una nuova e vivificante arte, la silhouette del più noto e tipico personaggio del cinema hollywoodiano di allora. Lo stesso Charlot, e più in generale il mito del cinema americano, si ritrovano ossessivamente anche nelle opere di altri intellettuali, poeti, artisti e cineasti degli anni Venti, come Philippe Soupault, Louis Delluc, Jean Epstein, per rimanere in ambito francese.

IL PASSAGGIO DAL CINEMA PRIMITIVO A QUELLO DEFINITO CLASSICO Film come quelli di Griffith e De Mille, le comiche con Charlot, e in generale la produzione cinematografica statunitense della metà degli anni Dieci, segnano effettivamente il passaggio o la transizione dal cosiddetto cinema primitivo a quello classico. Nel cinema primitivo, l’inquadratura tende a essere autonoma dalla catena del montaggio e perlopiù analoga alla visione teatrale (in campo totale piuttosto che in piano ravvicinato e tendenzialmente fissa),

privilegiando lo spettacolo della visione, che è di per sé un’attrazione, piuttosto che la continuità narrativa, utilizzando anche apporti esterni al film, come i commenti e gli interventi dal vivo di un bonimenteur, vale a dire un imbonitore in funzione di presentatore e narratore. Nel cinema che gli storici hanno definito appunto classico o istituzionale, invece, lo scopo viene a essere specificamente la narrazione, il racconto, attraverso mezzi propriamente cinematografici, grazie alle risorse del montaggio che, nella successione continua di diversi piani (dal primo piano al totale ecc.) e nella mobilizzazione della macchina da presa, costruiscono una sintassi narrativa propria, tutta interna al film, capace di rivolgersi a uno spettatore che entra sempre più nel mondo della finzione, in quel processo di identificazione destinato a essere caratteristica precipua della fruizione del film classico. Nel corso degli anni Dieci, dunque, nel cinema americano in particolare, questo processo coincide con la messa a punto di un sistema di montaggio in continuità, in cui il découpage della scena (la sua frammentazione, selezione e successiva ricostruzione) in base a una determinata logica di raccordi, l’uso dei movimenti di macchina interni alle singole inquadrature, la proibizione dello sguardo in macchina per l’attore/personaggio ecc. stabiliscono un continuity system che permette nuova profondità e complessità al racconto cinematografico, articolandone lo spazio e il tempo secondo convenzioni che consentono anche retrospezioni (flashback) e simultaneità narrative (montaggio alternato). Si tratta di una trasformazione cui il sonoro, alla fine degli anni Venti, conferirà ulteriore coerenza utilizzando il suono interno alla finzione, cioè diegetico (dialoghi, rumori d’ambiente ecc.), per meglio approfondire il discorso narrativo contribuendo alla sua fluidità, mentre quello esterno (extradiegetico), la musica di accompagnamento, verrà utilizzato da un lato in senso espressivo, per commentare e suggerire atmosfere o tonalità particolari, dall’altro per rafforzare il continuity system, con veri e propri ponti sonori tra una sequenza e l’altra. Ulteriori possibilità, come suoni fuori campo (off) o commenti di narratori esterni alla finzione (suoni over) giungeranno a rendere più complessa e articolata la narrazione cinematografica. Tale processo non va però visto come una dinamica evolutiva ‘naturale’. Se certamente il progresso tecnologico e la razionalizzazione dell’apparato produttivo migliorano le tecniche primitive e vengono a fornire nuove possibilità, tuttavia il passaggio dal cinema delle origini a quello classico va visto piuttosto come una trasformazione legata anche a un ruolo socioculturale che il cinema viene ad assumere nel corso di circa due decenni, che ne modifica profondamente le ragioni d’essere, così come ne allarga e diversifica il destinatario. Da un consumo a base quasi esclusivamente popolare, si muove verso un coinvolgimento di massa, che comprende diverse fasce sociali, parallelamente al raggiungimento di una nuova e diversa legittimità e ambizione culturale. Dalle brevi gag, o dalle vedute panoramiche e dai film di inseguimento tipici della prima produzione cinematografica, si giunge a generi differenziati che sviluppano in particolare il potenziale narrativo del cinema, fino a renderlo dominante, adattando testi letterari, teatrali, poetici o scrivendo soggetti ad hoc. Inoltre, se lo spettacolo cinematografico delle origini vive nel contesto più allargato delle varie forme di spettacolo popolare (fiere, vaudevilles, esibizioni da circo ecc.), con le quali spesso si confonde, funzionando appunto come uno spettacolo ibrido, in cui film di brevissima durata vengono mostrati insieme a numeri di varietà o altre forme di esibizione, il film classico o proto-classico si guadagnerà una autonomia propria, sia stilistico-narrativa, come si è visto, che di presentazione, conquistando lo spazio di una sala specializzata in cui lo spettatore possa meglio immergersi in una finzione sempre più avvolgente, nel buio di un luogo in cui consumare un’esperienza del tutto peculiare, come inizia ad avvenire negli Stati Uniti verso il 1905, con la nascita e la diffusione delle nickelodeon, le prime sale cinematografiche. Da qui alle lussuose sale cinematografiche degli anni Venti, veri e propri templi di una nuova religione, il passaggio è quello che si identifica, appunto, con la nascita e la progressiva messa a punto di un linguaggio cinematografico e di una proposta culturale suscettibile di essere definita classica.

Se per Léger e l’avanguardia storica il riferimento al cinema hollywoodiano vale come provocazione nei confronti della vecchia arte europea e sono soprattutto le qualità ritmiche e dinamiche dei film americani a fornire stimolo per un cinema fatto da pittori, poeti e musicisti, l’idea che la cultura di Hollywood sia in qualche modo erede e depositaria della cultura tradizionale o che, sostituendosi a essa, ne abbia introiettato in forme proprie il lascito o che, ancora, possieda in se stessa una legittimità altrettanto antica, è condivisa da molti ed eterogenei commentatori dei decenni successivi. Il poeta francese Blaise Cendrars, per esempio, dice nel 1936: Amo Hollywood e credo nel suo avvenire e nella sua fortuna, non perché Hollywood sia la capitale universale di una nuova industria il cui movimento di denaro viene valutato ogni anno in miliardi di dollari, ma perché questa città, che è ancora al suo esordio, è situata su sette colli come tutte le città d’arte che hanno rivestito un ruolo nella storia della civiltà. Inoltre, come Firenze o a Parigi, mi sveglio tutte le mattine al canto degli uccelli, e anche questo è di buon augurio […] centinaia di migliaia di anni prima che Mr. Wilcox desse un nome a questo paese, la regione su cui sorse Hollywood era già un centro inesauribile di attività e di vita. Ne sono prova gli innumerevoli scheletri di mammut portati alla luce nel corso degli ultimi venticinque anni man mano che procedeva l’edificazione della città attuale […]. Esistono, infatti, disseminati sul pianeta, luoghi predestinati […] Parigi, Londra, Roma, Atene, Pechino sono costruite su ‘cimiteri di elefanti’4.

Oltre all’idea di una vera e propria predestinazione di Hollywood a città d’arte, di cui parla Cendrars, è interessante la sottolineatura di una sua stretta parentela con altri luoghi e città simbolo della grande civiltà culturale, il suo esserne erede. Elementi che sono parimenti presenti in un articolo del 1955 di cui è autore il regista francese Eric Rohmer, allora critico cinematografico dei «Cahiers du cinéma»: La visione di certi Griffith, di certi Hawks, di certi Cukor, di certi Hitchcock, di Mankiewicz o anche di una commedia, di un thriller, di un western firmati da nomi meno prestigiosi, è sempre stata sufficiente per convincermi che la costa californiana non è, per il cineasta dotato e appassionato, quell’inferno che alcuni pretendono, ma al contrario quella terra di elezione, quella patria che fu Firenze nel Quattrocento per i pittori, o Vienna nel XIX secolo per i musicisti […]. Se l’America non fa che renderci ciò che noi le abbiamo prestato, ce lo restituisce tutto: è questo l’essenziale5.

In anni più recenti, in un divertente e acuto articolo pubblicato nel 1975 sull’«Espresso», dal significativo titolo Amleto all’assedio di Casablanca (in altre riedizioni Casablanca, o la rinascita degli Dei), Umberto Eco individua nel cult movie di Michael Curtiz del 1942, di cui ci occupiamo in questo capitolo, una spregiudicata e si potrebbe dire spudorata rielaborazione di infiniti stereotipi letterari, di archetipi e motivi di antica provenienza: Proprio perché gli archetipi ci sono tutti, proprio perché Casablanca è la citazione di mille altri film, ed ogni attore vi rifà una parte eseguita altre volte, gioca sullo spettatore la risonanza dell’intertestualità. Casablanca porta con sé, come in una scia di profumo, altre situazioni che lo spettatore vi immette […]. In esso si dispiegano per forza quasi tellurica le Potenze della Narrativa allo stato brado […]. Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento. Il fenomeno è degno se non altro di venerazione6.

Al di là delle «profondità omeriche» evocate spiritosamente da Eco nel passo qui riportato, in effetti la lettura del semiologo rintraccia, in una ampia disamina, i molteplici stereotipi e motivi narrativi che si intrecciano in Casablanca (id.), rendendo conto, attraverso un film esemplare – che per molti rappresenta il culmine della classicità hollywoodiana7 – di quella disinvolta, ma non per questo meno importante, stratificazione culturale su cui poggia la narrativa cinematografica classica, in una audace sintesi di fonti, apporti, riferimenti, che di per sé, e in quanto tale, dispiega «le Potenze della Narrativa allo stato brado». In qualche modo anche in questo caso, nonostante Eco sottolinei, in altri passaggi dell’articolo, il kitsch sublime dell’operazione («il colmo della banalità lascia intravvedere un sospetto di sublime»), il ‘classico’ hollywoodiano è erede di una tradizione con cui non esita a cimentarsi. Del resto l’analisi di Eco, riferita alla dimensione narrativa, coglie molto bene quella natura tipica di intertestualità (ovvero, di richiamo tra testi diversi) interna sia al sistema cinematografico (attraverso collegamenti interni al meccanismo dei generi, al fenomeno divistico ecc.), sia al sistema culturale complessivo (letterario, teatrale ecc.). Un’intertestualità che, oltre a essere programmatica, funziona anche come residuo archeologico di reminiscenze diverse che possono fare riferimento alla pluralità dei soggetti coinvolti nel processo di produzione hollywoodiana e alla molteplicità di apporti che si rintracciano in ogni singolo film, come è infatti il caso di Casablanca, su cui torneremo. Senza inoltre considerare che la «Mecca del cinema», come la definisce Cendrars nello scritto citato, negli anni di cui ci occupiamo è luogo di convergenza di persone (tecnici, registi, attori, sceneggiatori) che provengono da tutto il mondo, e dall’Europa in particolare, portatori di vissuti e di esperienze culturali differenti. Hollywood, quindi, come luogo geografico di incontro di provenienze diverse, ma anche come luogo culturale di incontro di apporti diversi, laboratorio, melting pot, sia pure finalizzato a una produzione che tende alla serializzazione e all’omogeneizzazione. D’altro canto, quella dimensione di universalità che si confonde con l’idea stessa di classicità che questo cinema ha dimostrato di possedere, invadendo per decenni gli schermi di tutto il mondo, è anche legata a questa sorta di koiné che innegabilmente ha saputo costruire. È ancora Rohmer, nel già citato articolo, a sottolineare: Questo carattere di universalità noi lo ritroviamo nei temi che il cinema americano ama sviluppare. Certamente, si dirà, si tratta di luoghi comuni. Ma amo di più le idee vecchie come il mondo, e che hanno il loro blasone, piuttosto che l’eco insulso di quella letteratura di inizio secolo in cui l’Europa cerca sovente ispirazione. C’è sicuramente della pedanteria a evocare l’Iliade a proposito di un western, ma se certi commentatori non hanno esitato ad avvicinare Charlot o tale eroe di Capra al Perceval della Tavola rotonda, d’altra parte l’ossessione dell’antico è così forte in certi maestri del romanzo americano, Melville, James o Faulkner, che un parallelo tra il folklore dei primi colonizzatori del Mediterraneo e quello dei pionieri dell’Arizona non è solo un artificio retorico8.

E si tratta di un’universalità che è del tutto indissociabile dallo stile con cui viene espressa, o meglio è consustanziale ad esso. Da cineasta quale è, Rohmer non si limita al piano narrativo, ma lo riconduce infine a quello stilistico: Se dovessi definire lo stile americano in materia di cinema, avanzerei due termini: efficacia e eleganza […] scienza dell’efficacia, purezza di linee, economia di mezzi, proprie di tutti i classici9.

Le parole di Rohmer si saldano qui con quelle di Bazin riportate nella prima parte di questo paragrafo. Classicità in quanto pienezza narrativa, ma anche stilistica. E da questo punto di vista, le convenzioni narrative, retoriche e linguistiche del cinema hollywoodiano classico hanno non solo prodotto uno stile omogeneo e riconoscibile, ma anche una sintassi comune cui il cinema narrativo occidentale in generale ha fatto e, in una certa misura, fa tuttora riferimento. 2. Il racconto cinematografico classico

Prima di affrontare l’efficacia e l’eleganza dello stile hollywoodiano classico, va sottolineato che la sua «purezza di linee» ed «economia di mezzi», secondo le espressioni utilizzate da Rohmer, riguardano innanzitutto l’idea di racconto che ne sta alla base. Cioè, le caratteristiche linguistiche di questo stile sono coerentemente correlate a un certo modello narrativo. Tale modello coincide, in linea generale, con una narrazione ‘forte’10, orientata cioè da un narratore che guida la storia, attraverso una serie di eventi, situazioni, accadimenti concatenati tra loro in base a precisi collegamenti di causa ed effetto, in un contesto ambientale altrettanto precisamente delineato dove agiscono personaggi che coincidono con ruoli e tipi ben definiti. Senza soffermarci sullo schema processuale di questo tipo di narrazione e sui problemi narratologici che comporta11, si può ancora notare che tendenzialmente il racconto cinematografico classico si sviluppa, con la stessa economia che si ritrova poi a livello espressivo, eliminando tutto ciò che non è funzionale alle linee principali della storia, che possono essere più d’una. Normalmente, il film classico prevede un double plot, cioè la combinatoria di due linee, che riguardano ovviamente gli stessi personaggi principali, o perlomeno il personaggio protagonista. Le due linee sono organizzate in base a un rapporto gerarchico che ne regola da un lato l’importanza reciproca, dall’altro quella relativa al racconto nel suo complesso. Il caso più tipico prevede una storia definita da motivi sentimentali, mentre la seconda può riguardare un processo di tipo avventuroso (western, poliziesco, bellico ecc.), in cui si tratta infine di affermare un certo sistema di valori. Il plot narrativo che risulta dominante è quello che definisce il genere cui appartiene il racconto, del quale deve rispettare in una certa misura norme e convenzioni. La tipologia delle trame è evidentemente strettamente connessa al sistema dei generi. Della nozione di genere parleremo nei capitoli successivi (in particolare nel quarto e nel quinto), e non ci soffermiamo dunque in questa sede sui diversi elementi che concorrono a definirne modalità e caratteristiche. Basti dire, qui, che ogni genere presuppone alcuni ruoli definiti, in base ai quali si costruisce il sistema complessivo dei personaggi, vale a dire, la relazione che regola i rapporti tra i personaggi principali, quelli secondari ecc., nel contesto dello sviluppo dell’azione che, nel racconto classico, è strettamente determinata dal personaggio, o dai personaggi, in quanto agenti causali per eccellenza. Il personaggio classico è definito, infatti, soprattutto in relazione alla finalità narrativa che ne determina l’azione. Tratti psicologici e caratteriali, cioè, sono funzionali alla dinamica narrativa e non valgono di per sé, in quanto tali. La psicologia del personaggio, quindi, tendenzialmente si confonde con il suo agire. Oltre che in relazione al sistema dei generi, la definizione del personaggio cinematografico classico si compie e si realizza anche in relazione allo star system, di cui si parlerà più approfonditamente nel capitolo sesto. Gli interpreti classici, le star, fortemente connotati e contrattualmente legati a determinati studios, confondono la loro maschera, la loro fisionomia divistica con i personaggi che sono chiamati a mettere in scena, secondo quanto stabilisce una precisa strategia produttiva che comprende campagne di stampa, trailer cinematografici, cinegiornali ecc. La logica produttiva determina infatti in toto, o quasi, l’immagine dei divi, legata a ruoli ricorrenti che da un lato precisano meglio i generi e gli universi narrativi propri di ciascun film, dall’altro concorrono a regolare e stuzzicare le attese dello spettatore. Da un certo divo ci si aspetta un certo personaggio, e dunque una certa azione e certi sviluppi narrativi. Da Humphrey Bogart, per esempio, ci si aspetta che interpreti, una volta di più, il ruolo del good bad boy, e cioè del personaggio solo apparentemente ‘cattivo’, il ‘duro dal cuore tenero’, come è, per esempio, in Casablanca, dove la maschera di cinismo che Rick Blayne ostenta nasconde l’eroe romantico e sofferente che tutti conosciamo e vogliamo ri-conoscere ogni volta. La ‘sistematicità’ del racconto cinematografico classico (studio system, star system, sistema dei generi ecc.) fa sì, in sostanza, che un forte grado di convenzionalità consenta non solo quel meccanismo di variazioni sul tema che vivifica e dinamizza la produzione, ma anche che lo spettatore sia quel lector in fabula12, cioè ricopra quel ruolo implicito interno al racconto, che ne raccoglie le indicazioni, ne interpreta alcune istanze, ne subisce e patisce le condizioni, attivando frammenti di sceneggiature implicite, in base a supposizioni, desideri e attese ben orchestrate dalla macchina narrativa (e produttiva). Del resto, in questa sorprendente prevedibilità risiede gran parte del fascino della narrazione classica: lo spettatore è gratificato nel vedere l’avverarsi delle sue supposizioni, mentre il fruitore colto si compiace narcisisticamente nel riconoscere il gioco del testo, il rito del racconto13. Anche l’articolazione delle strutture spazio-temporali del racconto segue principi convenzionali.

Il film classico si costruisce normalmente su un’alternanza di scene che rispettano la durata reale (dialoghi, brevi accadimenti e azioni di limitata portata) e di sequenze in cui il montaggio organizza il tempo della storia attraverso piccoli salti ed ellissi temporali. L’impalcatura complessiva dell’intreccio prevede anche ampie ellissi e ovviamente cambiamenti di luogo tra le sequenze, in una logica complessiva che normalmente è lineare-progressiva e in cui ogni discontinuità, spaziale e temporale, viene riassorbita da giustificazioni e necessità narrative tali da far dimenticare i vuoti strutturali a favore dell’effetto generale del racconto, evidenziato anche dal sistema di continuità convenzionale stabilito dal montaggio, come già si è accennato e come vedremo. Ritorni indietro nel tempo (ricordi, ricostruzioni ecc.) sono possibili tramite il flashback, che tuttavia non altera l’impressione globale di continuità e fluidità, grazie a segnali che ne marcano chiaramente l’inizio e la fine (dissolvenze incrociate, avvicinamenti e allontanamenti della macchina da presa dal soggetto che ricorda, sfocature e così via), e grazie a una necessaria ed evidente giustificazione drammatica. Il flashback è quindi un procedimento fortemente codificato, al servizio di una narrazione che contribuisce a svolgere e di cui deve confermare chiarezza e motivazione drammatica. Al contempo, la costruzione dello spazio deve rispettare la stessa regola di necessità e funzionalità. L’ambiente, lo sfondo spaziale vengono mostrati in tutto il loro potenziale narrativo ed espressivo, senza che la descrizione risulti mai fine a se stessa, come accade nel cinema moderno, dove la macchina da presa spesso indugia su paesaggi e luoghi senza che necessariamente vi sia una ragione legata all’intreccio14. Nulla deve alterare l’effetto di naturalezza e ‘trasparenza’ del racconto, del suo darsi allo spettatore senza che sia marcata l’operazione della narrazione in quanto tale. Si tratta, cioè, di una ‘narrazione discreta’ che poggia largamente, o meglio si confonde, con il découpage ‘invisibile’ che è alla base del linguaggio classico. Stile e racconto sono perfettamente consustanziali e si compenetrano, dando luogo a quell’inconfondibile universo narrativo nel quale lo spettatore è disposto a penetrare, identificandosi con l’uno o l’altro dei personaggi. 3. Il «découpage» classico Se lo spettacolo delle origini, e in generale il cinema muto, prevedeva un regime o uno statuto simile alla performance, in cui ciò che mostrava lo schermo si collegava ‘in diretta’ con interventi sonori diversi, il cinema classico sonoro introietta tutti gli elementi dello spettacolo in un’unica dimensione, quella della proiezione, ‘chiudendo’ il testo narrativo e offrendolo alla fruizione spettatoriale uguale e identico a ogni visione. La verosimiglianza del narrato, come si è visto, funziona sull’effetto di continuità e naturalezza di ciò che si svolge sullo schermo; continuità e naturalezza che possono darsi solo a patto dell’invisibilità dei processi di scrittura su cui si basano. È, infatti, unicamente a condizione che lo spettatore non colga l’artificio della produzione e della scrittura che può scattare il suo assorbimento nella diegesi, cioè nel mondo raccontato. Il meccanismo dell’identificazione spettatoriale, descritto e analizzato in sede teorica da molti studiosi, si basa sulla sospensione della consapevolezza, da parte dello spettatore, che la realtà dello schermo sia fittizia e illusoria, e sulla perdita delle proprie coordinate spazio-temporali, favorita dal buio della sala e dalla sua condizione d’immobilità nella poltrona, nonché dal potenziamento della percezione visiva, in condizioni analoghe a quelle del sogno. Ma se queste caratteristiche riguardano il dispositivo cinematografico nel suo complesso, le peculiarità di funzionamento del cinema narrativo classico trovano in precise regole di scrittura e rappresentazione un supporto fondamentale alla dinamica identificatoria. Quali sono queste regole? Innanzitutto, una serie di tabù o proibizioni. Non si doveva mostrare né la troupe al lavoro, né la tecnologia necessaria alla realizzazione del film, né gli attori potevano guardare verso la macchina da presa, cioè verso lo spettatore, ricordandogli la sua collocazione e ruolo (la proibizione dello sguardo in macchina, che prevede naturalmente eccezioni, risale già agli anni Dieci, come già si è detto). Inoltre, se evidentemente ambienti e spazi ricostruiti in studio dovevano apparire il più possibile verosimili e credibili, è soprattutto la messa a punto del continuity system che consente l’effetto di trasparenza e invisibilità della scrittura hollywoodiana classica. Se il cinema classico ha affermato progressivamente il ruolo decisivo del montaggio nella costruzione dello spazio-tempo filmico, era proprio il montaggio, nella disgregazione reale dello spazio-tempo referenziale, e nella sua dimensione costituzionalmente frammentaria, a dover essere occultato in quanto tale. Tuttavia è precisamente la frammentazione organizzata dal

montaggio a consentire, all’opposto, un effetto di continuità. Sulla scia di Bazin si possono individuare tre caratteristiche essenziali di questo tipo di découpage: motivazione, chiarezza e drammatizzazione15. Questi principi regolano ogni stacco di montaggio che, pur necessario, non deve essere colto, grazie anche a una vera e propria strategia convenzionale di raccordi che aiutino ad attenuare e mascherare i tagli, mantenendo elementi di continuità fra un piano e l’altro, in modo che ogni cambiamento di inquadratura sia meno evidente e brusco. I principali tipi di raccordo che definiscono questa strategia sono: – raccordo di sguardo: un’inquadratura ci mostra un personaggio che guarda qualcosa, la successiva mostra la destinazione di quello sguardo; – raccordo sul movimento: un gesto o un movimento iniziato in un’inquadratura termina nella successiva; – raccordo sull’asse: un’inquadratura mostra il momento successivo di un’azione avviata nella precedente, con lo stesso asse di ripresa, ma a maggior o minor distanza dal soggetto; – raccordo di posizione: due personaggi ripresi uno a destra l’altro a sinistra in un’inquadratura mantengono la stessa posizione nella successiva; – raccordo di direzione: un personaggio che esce di campo a sinistra in un’inquadratura, rientra a sinistra in quella successiva, mantenendo la continuità di direzione. Lo spazio organizzato dal découpage, inoltre, è uno spazio a 180 gradi, cioè l’articolazione visiva viene condotta attraverso angolazioni che appartengono a una stessa metà dello spazio complessivo, consentendo allo spettatore di percepire lo svolgersi dell’azione da una prospettiva omogenea, senza ‘scavalcamenti’ del campo visivo16. Questa logica sintattica trova poi un forte fattore di potenziamento nella colonna sonora. A livello di diegesi e racconto, la colonna sonora, con i dialoghi o suoni di ambiente, mantiene la progressione narrativa a dispetto degli stacchi di montaggio (all’interno di una stessa sequenza, o tra sequenze, utilizzando ‘ponti’ sonori che anticipano o prolungano un determinato suono per collegare le sequenze). A livello extradiegetico, invece, la musica di accompagnamento – con motivi e temi conduttori – è in grado di raddoppiare le strategie testuali e di scrittura condotte su altri livelli. A ciò, si aggiunge poi tutto un sistema di ‘punteggiatura’ altrettanto convenzionale, per cui stacchi netti, piuttosto che dissolvenze, segnano cesure o transizioni di diverso ma chiaro significato (si è già fatto cenno, per esempio, alla dissolvenza incrociata in caso di retrospezione), guidando in modo coerente e (relativamente) privo di ambiguità il percorso del racconto. 4. «Casablanca», ovvero il culmine della Hollywood classica Per più di una ragione, e in parte l’abbiamo già constatato, Casablanca appare come il film hollywodiano, vale a dire classico, per eccellenza o, se si vuole, per antonomasia. Quella pienezza e stratificazione di motivi ‘classici’ individuata da Eco, la sua prevedibilità e il suo raccontare personaggi mitici come il Rick di Humphrey Bogart, il suo linguaggio tipicamente ed esemplarmente classico ne fanno un film chiave giustificandone la straordinaria fortuna e il suo essere e rimanere, dopo molti anni, un cult movie condiviso da diverse generazioni di spettatori. Casablanca è in effetti il più puro «prodotto di una collaudata industria del cinema»17, e questa ‘purezza’, riscontrabile a vari livelli, emerge intatta, a distanza di anni, come per tutti i classici. Vediamo, in breve, le circostanze e il contesto produttivo, per poi affrontare il film dal punto di vista delle sue qualità narrative e stilistiche. Innanzitutto il film è prodotto da quella Warner Bros che aveva realizzato l’anno prima Il mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941, con regia di John Huston), il film che aveva promosso Bogart a ruolo di divo. Il Rick di Casablanca riprende molti tratti del personaggio del film precedente, il good bad boy di cui già si è parlato, attivando quindi, tramite l’icona divistica, quei percorsi di lettura intertestuali che sono fondamentali nel guidare le attese e l’adesione dello spettatore. Oltre a Bogart, inoltre, dal film precedente provengono anche Sidney Greenstreet e Peter Lorre, che tengono viva una dimensione vagamente noir che contribuisce a ‘riempire’ lo schema narrativo di Casablanca di motivi familiari allo spettatore dell’epoca, prolungando i richiami intertestuali e

proiettandoli nel contesto allargato dei film degli anni Quaranta. Anche per lo spettatore odierno, del resto, il film risulta un’opera tipicamente anni Quaranta, capace di evocare tutto un contesto, sebbene la sua pregnanza di classico, come si è visto, riesca a superare i confini di tale datazione. Per quanto riguarda il processo di lavorazione, inoltre, il film è davvero il risultato di una catena di montaggio, di un lavoro del tutto plurale, condotto sotto la supervisione di un produttore esecutivo dalla personalità piuttosto forte, come Hal Wallis, che omogeneizzò tutti gli apporti, intervenendo a diversi livelli, a partire dalla sceneggiatura, fino al montaggio finale. In questo senso, è certamente più significativo, per Casablanca, il ruolo di Wallis rispetto a quello del regista Michael Curtiz. Anche se mai come in questo film è impossibile parlare di ‘autore’ in senso singolare. Se ci soffermiamo sulla preparazione della sceneggiatura, per esempio, possiamo non solo constatare che siamo di fronte a una polifonia di studio, ma anche che la stratificazione narrativa tipica del cinema hollywoodiano, e in particolare quella di Casablanca, trova origine proprio nel processo di lavorazione. Qui, come ricorda Ruggero Eugeni: a partire da un dramma scritto per il teatro, venne realizzato un primo adattamento per lo schermo dai gemelli Epstein; poi, mentre costoro scrivevano la seconda parte del film, il copione veniva riscritto da Edward Koch, un altro sceneggiatore Warner, che premette soprattutto il pedale dell’elemento politico e ideologico della trama; il testo venne quindi scambiato di mano e riscritto dagli Epstein. Dopo che la lavorazione del film aveva avuto inizio le riscritture continuarono; lo sceneggiatore Casey Robinson fu chiamato a correggere nuovamente il testo per meglio sottolineare l’aspetto romantico della storia. In particolare, il finale del film venne definito solo in luglio, meno di un mese prima della fine delle riprese – cosicché gli attori, e in particolare la Bergman, recitarono la loro parte senza sapere effettivamente quale sarebbe stata la scelta finale del proprio personaggio18.

È evidente quindi che il film è squisitamente e totalmente frutto dello studio system, più che di una logica autoriale, testimoniando certamente l’alto grado di professionalità raggiunto da questo sistema, ma anche la sua straordinaria capacità di distillare, attraverso questo tipo di processo creativo, un immaginario dalle molteplici fonti e provenienze – anche in senso geografico, data la massiccia presenza di maestranze di origine europea impiegate negli studios hollywoodiani (tra l’altro, il set di Casablanca, affollato di europei fuggiti dal nazismo, come è il caso per esempio dell’attore Paul Henreid, che interpreta il ruolo dell’eroe della resistenza Victor Laszlo, ma anche di molti altri interpreti o caratteristi, rispecchiava in qualche modo la situazione che il film raccontava). Ed è anche una logica di studio che fa sì che le ristrettezze economiche imposte al film con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour del 7 dicembre 1941, vengano brillantemente risolte riciclando per esempio scenografie utilizzate in altri film (come la stazione di Parigi, che il film condivide con Perdutamente tua, Now, Voyager, 1942, con regia di Irving Rapper), o avvolgendo in una nebbia da film noir gli spazi sommariamente ricostruiti in studio, come il mitico aeroporto della sequenza finale. Tutti elementi che ‘fanno Hollywood’, intrecciando reminiscenze e richiami, casuali o meno. A questa rete di riferimenti interni al sistema cinema, si aggiungono poi i richiami all’attualità, alla storia, che saldano un racconto costruito su stereotipi classici con le esigenze di propaganda ideologica del momento, anche questa amministrata da precise regole e convenzioni a uso delle case di produzione. Casablanca, che in qualche modo, attraverso il sacrificio amoroso di Rick a favore dell’impegno nella resistenza contro il nazismo, racconta la necessità dell’intervento statunitense nel secondo conflitto mondiale e la fine della politica isolazionista americana (cui fanno riferimento diverse battute di dialogo in cui evidentemente l’allusione all’isolazionismo e alla neutralità di Rick riguardano metaforicamente l’America19), venne recensito positivamente dal Bureau of Motion Picture, che aveva l’incarico di schedare i film sulla base del loro contenuto ideologico. E certamente i riferimenti alla guerra aggiungevano ulteriori chiavi di lettura per lo spettatore di allora, in un accorto intreccio narrativo tra storie individuali, private, di finzione, e la storia contemporanea, in un’abile tessitura la cui complessità è rilevata anche dallo storico francese Marc Ferro20. Da questo punto di vista, il film utilizza al meglio la logica del double plot, di cui si è parlato nelle pagine precedenti, dosando abilmente gli schemi di genere cui le due linee narrative principali fanno riferimento. Con le parole di Eugeni: Casablanca innesta una storia di taglio melodrammatico su una storia di war film e usa la seconda per risolvere i dilemmi della prima. Questo intreccio tra sentimenti privati e valori collettivi mette in luce la funzione che il cinema assegna a se stesso in questo particolare momento storico: esso, in linea con le indicazioni dell’Office of War Information dovrà provvedere a instillare fiducia nella vittoria, risolvendo con i mezzi che sa usare – i mezzi della affabulazione, della rappresentazione finzionale – i dissidi e le incertezze ideologiche presenti a livello sociale. «This time I know our side will win», «Ora so che vinceremo», dice Laszlo a Rick assistendo al suo gesto sacrificale: a livello simbolico e finzionale la soluzione del melodramma cinematografico implica già la vittoria della guerra21.

Tutto – luoghi, geografie, spazi – tende nel film a costruire una mappa che risulta sia mappa dei sentimenti che dei valori: Parigi, Casablanca e la Terra Promessa, cioè l’America, disegnano i contorni fisici del processo ideologico che l’intreccio del film sostiene, utilizzando al meglio gli ingredienti della narrativa hollywoodiana. Per esempio, la contrapposizione tra Rick e Laszlo riprende il conflitto classico tra outlaw hero e official hero, cioè tra l’eroe che si colloca fuori dalla legge o dagli schemi istituzionali, pubblici, e l’eroe ufficiale, che tanta parte ha nei generi classici americani, come in primis il western, o il noir22. Da questo punto di vista, lo schema ideologico del film è estremamente interessante. Se l’andamento dell’intreccio celebra la riconciliazione tra i due tipi di eroi, non possiamo dimenticare che l’outlaw hero, cioè Rick, cioè Bogart, coincide con la star del film, quell’insieme di personaggio e divo cui tende l’identificazione e la passione spettatoriale e che rappresenta il fulcro spettacolare del film, come dimostra anche lo stile di ripresa che gli regala un numero di piani ravvicinati maggiore a quelli riservati all’altro eroe, Laszlo, e in generale un découpage che, come si vedrà, fin dalla sequenza della sua presentazione tende a mitizzarne il ruolo, l’immagine e l’universo ideologico di cui è portatore. Al sistema ideologico dei personaggi, cioè, si affianca nel film un vero e proprio sistema stilistico che stabilisce gerarchie e ruoli che le competenze spettatoriali sanno individuare e collocare al posto giusto. In questo senso, è ovvio che i primi piani siano riservati ai soli protagonisti, i due eroi maschili e la donna, Ilsa-Ingrid Bergman, ma in quantità e qualità diverse: i primi piani della Bergman sono contraddistinti da una fotografia meno contrastata, con toni più morbidi e opalescenti, mentre quelli di Bogart, in particolare, appaiono più duri e luministicamente frammentati (opera di Arthur Edeson, già direttore della fotografia del Mistero del falco, del quale riprende anche la profondità di campo utilizzata negli interni, in una forte continuità iconografica tra i due film). Rick domina il film, «everybody comes to Rick’s» («tutti vanno da Rick»), così come l’America, simboleggiata da Rick stesso e dal suo Café Américain nel cuore di Casablanca, dove appena si entra si ode Gershwin, è il luogo fisico e mentale verso cui tutti tendono. Ed è significativo che, sebbene la stretta di mano finale tra Rick e Laszlo simboleggi la riconciliazione tra i due eroi e la fine della posizione isolazionista di Rick (e dell’America), è anche vero che l’eroe americano, pur decidendo per l’impegno, lo fa mantenendo la sua indipendenza, la sua separatezza, allontanandosi, senza la donna, verso un luogo oltre, come nella tradizione western, in una affermazione piena della mitologia e dell’ideologia americana più profonda23. Il personaggio di Rick, in cui molti hanno riconosciuto anche Huckleberry Finn (così come il film rielaborerebbe molti motivi della letteratura di Mark Twain)24, è in effetti un topos americano che con Bogart diviene anche un’icona visiva. Come tutto il film. 5. La presentazione di Rick. Esercizi di stile (classico) Casablanca, come e più dei film precedenti e di quelli successivi interpretati da Bogart, ‘scrive’ i tratti di questa icona, è capace di esserne parte essenziale, quasi sineddoche, pars pro toto, ma anche di emergere e di vivere di vita propria. In uno dei libri più intelligenti e acuti sul cinema americano, o meglio sull’America nel cinema americano, America in the Movies (L’America e il cinema), Michael Wood scrive: Humphrey Bogart è seduto a un tavolino con un bicchiere davanti, guardando immusonito nel vuoto, con un lampo di autocommiserazione eroica negli occhi. Stiamo esaminando un’inquadratura di Casablanca che costituisce oramai per moltissime persone l’essenza non soltanto di quel film, ma dell’intera personalità cinematografica di Bogart. Ingrandita in un poster e disseminata nei circoli, nei caffè, negli atri, negli appartamenti e nelle topaie del mondo occidentale, è un’eco patetica di un poster altrettanto famoso di Che Guevara: la maschera dell’introspezione romantica come risposta alla maschera dell’azione romantica […]. Qualunque altra cosa possa essere stata o diventata, essa è infatti il ritratto di uno stato d’animo che va ben oltre Casablanca e lo stesso Bogart. È un ritratto della solitudine nella sua accezione migliore: fiera, cupa, amara e terribilmente attraente […]. Quel che rimane è il Bogart sopravvissuto nel poster, solo, amareggiato, appartato, immerso nella sofferenza, tagliato fuori da tutta l’umanità, infelice, ma libero25.

L’inquadratura cui si riferisce Wood deve essere quella della sequenza successiva all’arrivo di Ilsa al Rick’s Café, quando effettivamente Rick-Bogart è solo, amareggiato, dopo il ritrovamento ma anche lo scontro con la donna amata. Ma il contesto narrativo conta e non conta. Forse quell’inquadratura è più pregnante di altre, ma unicamente perché è tra altre, in una famiglia di altre, in una moltitudine di altre che definiscono l’icona Bogart nel loro insieme e nella loro somiglianza, coerenza. Quello che non dice Wood, per esempio, è che in quella immagine – e in tutte le altre che rappresenta, comprende, riunisce – vi è una certa fotografia, una certa angolazione ecc., cui si arriva, sempre, con e dopo un certo découpage, una ben precisa strategia retorica che ne prepara l’apparizione e la possibilità di funzionare come punto di raccolta e di

rilancio di tutto ciò che è Rick, in questo caso, o Bogart, o Rick-Bogart, o una sommatoria di questi con altri personaggi interpretati dall’attore (Il Sam Spade del Mistero del falco, ma anche il Marlowe del Grande sonno, The Big Sleep, Howard Hawks, 1946). Rick è Rick, o Bogart è Bogart, dalla prima messa in scena del personaggio fino all’apparizione definitiva nell’inquadratura che lo presenta, o ri-presenta, esplicitamente allo spettatore26. Cioè, l’inquadratura che si può estrapolare, l’inquadratura-poster, non è un quadro a sé stante, ma un frammento di sintagmi visti e rivisti al punto da essere impliciti e da essere in qualche modo compresi nel fotogramma-icona che viaggia, poi, da solo. Proviamo a vedere la sequenza della presentazione di Rick, fino ai piani ravvicinati che giungono a colmare il desiderio dello spettatore e a rispondere alla sua attesa. Un’attesa che è alla base del film e del suo funzionamento. Il film è stato lanciato, tramite organi di stampa e cinegiornali, come un film Warner, con Humphrey Bogart e con Ingrid Bergman, con certe promesse narrative e così via. Dal momento che lo spettatore è seduto in sala, attende e desidera che le promesse vengano mantenute e che vengano mantenute in un certo modo. Bogart è una di queste promesse, così come il personaggio di Rick che viene evocato ripetutamente nella sequenza di esordio del film, ben prima di apparire nell’inquadratura. In effetti, dopo la presentazione del luogo in cui si svolge il film e dei luoghi cui si fa più spesso riferimento (Casablanca, Lisbona, l’America ecc., a partire dalla carta geografica su cui hanno inizio i titoli di testa, fino al mappamondo su cui continuano le parole di un narratore over), l’insegna del Rick’s Café, inquadrata più volte, fa riferimento non solo all’ambiente più importante del film, a livello di intreccio e a livello simbolico (è un café américain), ma anche a un nome proprio, Rick, anticipandone graficamente l’enunciazione orale che avverrà, poi, in precise battute di dialogo. «Everybody comes to Rick’s» dice il capitano Renault al maggiore Strasser, così come poi, all’interno del locale, saranno degli avventori a chiedere di Rick, a cercare Rick, raddoppiando la ricerca e l’attesa dello spettatore. Questi riferimenti, queste evocazioni non sono neutri. Ci dicono già qualcosa di Rick, ci danno degli indizi (vanno da Rick probabilmente gli assassini dei corrieri tedeschi, quindi Rick deve stare da una certa parte; Rick non beve mai con i clienti, si dice agli avventori che lo reclamano, quindi Rick deve essere scontroso e burbero come Sam Spade nel Mistero del falco: il good bad boy e quant’altro…). Le aspettative dello spettatore vengono guidate, ma anche stimolate, rilanciate. Non si fa che parlare di Rick e ancora non lo si vede. Il découpage rinvia il più possibile la sua apparizione nell’inquadratura. Quando siamo nel locale, dove le porte si aprono su un universo ben differente da quello visto all’esterno (dall’esotismo di un Marocco ricostruito in studio e commentato dai motivi arabeggianti della musica extradiegetica di Max Steiner, si passa all’interno del locale dove si sentono Cole Porter e George Gershwin e tutto sa meravigliosamente di America), il montaggio alterna alcune inquadrature di clienti che guardano fuori campo, chiedendo di Rick. I raccordi di sguardo, tra un piano e l’altro, fanno sì che la loro successione risulti morbida, naturale, trasparente, e che i loro sguardi coinvolgano lo spettatore nello spazio della finzione alla ricerca di Rick. Alcuni movimenti di macchina, interni alle singole inquadrature, aggiungono da un lato fluidità al découpage, ma dall’altro intensificano, con l’instabilità del punto di vista dell’obiettivo, l’attesa. Non vediamo l’ora di poter vedere Rick, di guadagnare il primo piano di Bogart, l’immagine che ne mostri le fattezze, il volto, l’icona. Ma, sebbene qualsiasi spettatore in condizioni normali, di piacere e abbandono alla visione, sarebbe pronto a giurare, dopo questa prima attesa e dopo l’annuncio costituito dagli sguardi dei clienti, sulla immediata apparizione di Rick, in primo piano, in realtà il montaggio è estremamente frammentato e l’immagine-poster di Bogart non arriva se non dopo un percorso preciso, scritto a tavolino, formalizzato, a dispetto della naturalezza e dell’illusione di realtà che caratterizzano l’ingresso in scena del personaggio nello pseudo-mondo della finzione.

4. Casablanca (1942) di Michael Curtiz.

Dopo un paio di (relativamente lunghe) inquadrature in movimento che mostrano gli sguardi dei clienti che chiedono di Rick, un raccordo di sguardo ci conduce a una nuova inquadratura in cui vediamo un croupier porgere un assegno a qualcuno, sicuramente Rick, ma ancora non lo vediamo. Pochi istanti e un nuovo raccordo, questa volta sul movimento e sulla direzione del braccio del croupier, ci porta a un piano più ravvicinato, con altra angolazione, che riprende il gesto del croupier che consegna l’assegno a qualcuno di cui vediamo ora il braccio.

5. Casablanca (1942) di Michael Curtiz.

Una mano firma l’assegno, vista di scorcio. Il raccordo sull’azione ci fa dimenticare l’estrema parcellizzazione della messa in inquadratura del personaggio. Le inquadrature, inoltre, durano pochi istanti. Un nuovo stacco è sul braccio di prima, mostrato ora quasi frontalmente, con una leggera obliquità, accanto a un bicchiere da cocktail, una sigaretta e una scacchiera. Nel dettaglio, tali oggetti acquistano una funzionalità indiziaria notevole: sappiamo già di che tipo di personaggio si tratta. Poi la macchina da presa si muove in diagonale, verso l’alto, seguendo la traiettoria della sigaretta portata alla bocca, mostrandoci finalmente il mezzo primo piano (l’inquadratura del busto) di Rick-Bogart, in smoking bianco (mentre tutti gli altri sono neri: è una vera e propria apparizione): illuminazione contrastata, radente, dura, inquieta. Uno stacco ulteriore: Rick-Bogart di profilo, ancora mostrato, come prima, leggermente dal basso verso l’alto, incrociando questo dato con il gioco luministico e con l’espressione chiusa, amara, distante di sempre. Altre inquadrature lo riprendono mentre si limita a rispondere – a cenni – ai suoi interlocutori. È un solitario, uno scostante. Torna infine il mezzo primo piano, l’immagineposter, il punto di arrivo e di raccolta, che è tutto ciò che abbiamo già visto e tutto ciò che possiamo immaginare. Ma è la logica del frammento, del découpage, come abbiamo visto, che rende mitiche quelle fattezze, avendone rinviato l’apparizione, ma anche avendo celebrato, frammento dopo frammento, quasi come reliquie, i dettagli del braccio, della mano, del volto ecc. Una strategia di scrittura convenzionale, mascherata dalla continuità narrativa (l’ingresso in scena del personaggio, cercato dagli astanti), dal desiderio dello spettatore, dalla logica dei raccordi che gettano dei ponti tra un frammento e l’altro. Il continuity system rende invisibile l’artificio su cui si basa l’apparizione mitica di Bogart, sullo sfondo di una colonna sonora che registra la continuità dei suoni diegetici, d’ambiente: rumori e dialoghi e la musica di Sam, che del resto ha preparato l’arrivo di Rick cantando It Had To Be You, ‘dovevi essere tu’… Quando Rick arriva, allora davvero quell’immagine è pronta per essere consegnata al futuro nella sua semplice, naturale e innocentemente industriale stratificazione: Sam Spade, Rick ecc., ma anche Huck Finn e poi forse un giorno persino Che Guevara.

6. Casablanca (1942) di Michael Curtiz.

  La bibliografia in proposito è sterminata. Il riferimento fondamentale è ancora D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, Routledge, London 1988. 1

2

A. Bazin, Che cos’è il cinema, trad. it., Garzanti, Milano 1973, p. 81.

3

Oltre al saggio già citato di Bordwell, Staiger, Thompson, si veda anche N. Burch, Il lucernaio dell’infinito, Pratiche, Parma 1994.

4

B. Cendrars, Hollywood la mecca del cinema, trad. it., Lucarini, Roma 1989, pp. 15-17.

E. Rohmer, Redécouvrir l’Amérique, in «Cahiers du cinéma», n. 54, noël 1955, in A. de Baecque (a cura di), Le goût de l’Amérique, Petite Anthologie des Cahiers du cinéma, vol. I, «Cahiers du cinéma», Paris 2001, pp. 34-35. 5

6

U. Eco, Amleto all’assedio di Casablanca, in G.P. Brunetta, Letteratura e cinema, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 156-57.

Per esempio, la ricca analisi di R. Ray in Id., A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, Princeton University Press, Princeton 1985 (pp. 89-112), si intitola proprio The Culmination of Classic Hollywood: Casablanca. 7

8

Rohmer, Redécouvrir l’Amérique cit., pp. 36-37.

9

Ivi, pp. 35-36.

10

Su questo punto, cfr. F. Casetti, F. Di Chio, L’analisi del film, Bompiani, Milano 1990, pp. 206-208.

Un’ottima sintesi si trova in M. Ambrosini, L. Cardone, L. Cuccu, Introduzione al linguaggio del film, Carocci, Roma 2003, pp. 132 sgg. 11

Riprendendo la definizione dal noto saggio di U. Eco sul ruolo del lettore implicito al racconto. Cfr. U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979. 12

13

Ambrosini, Cardone, Cuccu, Introduzione al linguaggio del film cit., p. 136.

14

Su questi argomenti, G. Carluccio, Cinema e racconto. Lo spazio e il tempo, Loescher, Torino 1988.

15

Bazin, Che cos’è il cinema cit., pp. 76 sgg.

16

Su questi problemi si veda per esempio G. Rondolino, D. Tomasi, Il Manuale del film, Utet, Torino 1995, pp. 160 sgg.

R. Eugeni, Sotto il segno di Mercurio. Storia, storie e situazione spettatoriale in «Casablanca», in Id., Film, sapere, società, Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 53. Si rimanda all’analisi di Eugeni, cui si farà ancora riferimento, per ulteriori approfondimenti sul film. 17

18

Ivi, pp. 53 sgg.

19

Una bella analisi a riguardo si trova in Ray, A Certain Tendency cit., pp. 89 sgg.

20

M. Ferro, Une vision de l’Histoire, Édition du Chêne-Hachette, Paris 2003, p. 72.

21

Eugeni, Film, sapere, società cit., p. 61.

22

Ray, A Certain Tendency cit.

Dice Ray: «avendo trasposto l’ansia degli americani circa la decisione dell’intervento in guerra nella riluttanza di Rick ad aiutare Laszlo, Casablanca si affida il compito di dimostrare come infine Rick possa agire senza sacrificare la sua separatezza», ivi, p. 105. 23

Oltre a Ray, cui ci si è già riferiti, cfr. anche M. Wood, L’America e il cinema, trad. it., Garzanti, Milano 1979. Si veda in particolare il capitolo L’America innanzitutto, pp. 27 sgg. 24

25

Wood, L’America e il cinema cit., pp. 27-29.

Per un approfondimento su personaggio e divo nel racconto cinematografico, D. Tomasi, Cinema e racconto. Il personaggio, Loescher, Torino 1988, cui si farà riferimento anche nel capitolo sesto. 26

III.

Ideologia e storia nazionale. «Sentieri selvaggi»

1. Hollywood, la società, la politica John Milius, autore di Conan il barbaro (Conan the Barbarian, 1982), oltre che della prima stesura dello script di Apocalypse Now (id., 1979), ha chiamato il proprio figlio Ethan, in onore del personaggio interpretato da John Wayne in Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956) di John Ford. Un altro ammiratore del film di Ford è Martin Scorsese, il cui Taxi Driver (id., 1976) è una sorta di versione moderna di Sentieri selvaggi: entrambe le storie gravitano attorno a un eroe tormentato, solitario e feroce, che vaga in un territorio ostile (John Wayne nel deserto, Robert De Niro nella metropoli) per salvare una ragazza rapita. Anche Quentin Tarantino cita Sentieri selvaggi in Kill Bill Vol. 2 (id., 2004), nella scena in cui Uma Thurman è sulla porta della chiesa che si affaccia sulla sconfinata pianura texana. Se questo western, che al momento della sua uscita non destò particolari entusiasmi, ha esercitato un’influenza così marcata sui cineasti delle generazioni successive a Ford, è perché esso si configura come una vera e propria sintesi dei grandi temi dell’immaginario e della cultura degli Stati Uniti: la costruzione della ‘civiltà’ in uno spazio vergine, il viaggio oltre la Frontiera e lo scontro con i ‘selvaggi’, l’amicizia virile, il fascino oscuro della violenza, il terrore dello stupro della donna bianca da parte di un uomo ‘di colore’. Ma prima di immergerci nella lettura di questa densa opera fordiana, è necessario spendere alcune parole sul problema generale del rapporto tra i film e il contesto storico-culturale in cui si inseriscono. Il cinema americano è stato certamente la grande ‘fabbrica dei sogni’ del XX secolo, un luogo mentale in cui intere generazioni si sono rifugiate per lasciarsi alle spalle le angosce della vita quotidiana, la disoccupazione, la miseria, la guerra1. Al contempo, però, anche i film apparentemente più ‘leggeri’ possono presentare tracce dei problemi sociali, politici, economici dell’epoca in cui sono stati realizzati. Come scrive Michael Wood: «Tutti i film rispecchiano, in un modo o nell’altro, la realtà. Non esiste evasione, neanche nei film più dichiaratamente d’evasione»2. Prendiamo un esempio concreto: Il bacio della pantera (Cat People, 1942) di Jacques Tourneur, un B-movie della RKO, di cui Paul Schrader (sceneggiatore di Taxi Driver e altro fan di Sentieri selvaggi) farà un remake con Nastassja Kinski nel 1982. Il film di Tourneur, un classico dell’horror, racconta la vicenda di Irena (Simone Simon), una disegnatrice di moda originaria di uno sperduto villaggio della Serbia, le cui donne sono perseguitate da un’antica maledizione: in caso di forte turbamento emotivo (che si tratti di odio, oppure di passione), si trasformano in belve feroci e uccidono, finanche la persona che amano. Il film si apre con l’incontro tra Irena e Kent allo zoo, davanti alla gabbia della pantera. Kent, un ingegnere navale, prende a corteggiare Irena e, in breve tempo, i due si sposano. La prima notte di nozze, però, Irena si chiude in camera da sola, temendo di trasformarsi in pantera e sbranare il marito. Kent manda Irena da uno psicanalista, ma la terapia non è di aiuto. La donna inizia a nutrire una violenta gelosia verso Kent, sempre più legato ad Alice, una sua collega chiaramente innamorata di lui. Le cose precipitano: Irena tenta di aggredire Kent e Alice, sbrana il dottore, che le ha fatto delle avances, e muore nel giardino zoologico, uccisa dalla pantera che ha liberato. La lettura più ovvia del film è quella psicanalitica: Irena è frigida, la ragazza è atterrita dal sesso e teme ‘l’uomo con la spada’ (il re medievale che le appare in sogno e che, secondo la leggenda, sterminò i mostri del suo villaggio; ma anche l’analista, che nella scena dell’aggressione estrae una lama dal bastone da passeggio). Ha scritto Martin Scorsese: «Il bacio della pantera costò solo 134.000 dollari, ma in America toccò una corda sensibile avventurandosi in un territorio mai esplorato prima: la paura di una giovane sposa della propria sessualità»3.

7. Il bacio della pantera (1942) di Jacques Tourneur.

Ma Il bacio della pantera, come ogni opera complessa, si presta ad analisi di diverso taglio metodologico. Se osserviamo il film di Tourneur alla luce del suo retroterra storico-ideologico, emergono degli elementi di indubbio interesse. Alice, ‘fidanzatina d’America’ di tipo canonico, agli antipodi della fascinosa e inquietante Irena, e Kent, ragazzone sano e schietto, rappresentano l’americano medio, bonario e soddisfatto, senza problemi e senza un passato tragico da cui fuggire. Ci sarebbe la terribile storia della schiavitù, rappresentata fisicamente dalla cameriera nera del ristorante davanti allo studio dove i due lavorano, ma nessuno sembra ricordare quei fatti. Parlando con Alice delle sue difficoltà matrimoniali, Kent afferma: «Non ero mai stato infelice prima. Tutto è sempre andato bene per me». È l’idea squisitamente americana secondo cui il ‘male’ è ‘altrove’. Scrive in proposito Susan Sontag: «Istituire un museo che racconti quel grande crimine che è stata la schiavitù africana negli Stati Uniti sarebbe come riconoscere che il male era qui. Gli americani preferiscono invece immaginare il male che era là, e da cui gli Stati Uniti […] sono esenti»4. Irena, discendente di una stirpe dannata i cui membri nel Medioevo venivano passati a fil di spada, è simbolo della vecchia Europa, con il suo passato antichissimo e luttuoso, nonché con il suo presente: il film viene girato in piena seconda guerra mondiale, da un regista di origine francese, e con un’attrice protagonista anch’ella francese, fuggita a Hollywood dopo che le armate di Hitler hanno occupato il suo paese5. Non a caso Irena viene dalla Serbia, scaturigine della Grande Guerra, a sua volta causa principale di molte delle successive tragedie del Novecento, tra cui appunto il nazismo. Kent e Alice, da buoni americani, sono workaholic (‘etilisti da lavoro’) e abitualmente vanno in ufficio anche dopo cena. Sono ingegneri, svolgono cioè un’attività eminentemente razionale e pratica. Irena, invece, ha un’occupazione di tipo estetico: progetta oggetti tanto belli quanto ‘inutili’, e ha la possibilità di lavorare dove e quando vuole, svincolata dagli orari e dalla mentalità dell’azienda. La natura ‘artistica’ di Irena viene sottolineata in maniera esplicita sin dall’inizio. Nella scena d’apertura, avvicinandosi alla ragazza che sta schizzando dei bozzetti, Kent afferma ammirato: «È la prima volta che incontro un artista». Poco prima, l’uomo aveva lanciato una palla di carta (un disegno scartato dalla donna) nel cestino, con gesto da giocatore di baseball, lo sport

più popolare negli Stati Uniti, come a rimarcare la natura tutta americana del personaggio, in contrapposizione al carattere ‘esotico’ di Irena. Ma in America gli artisti, soprattutto se europei, sono per definizione creature sospette, e infatti, alla fine della vicenda, Irena, la hyphenated American (l’americana ‘con il trattino’: Serbian-American, come Italian-American o Irish-American), viene eliminata, e i due ‘veri’ americani, ‘innocenti’, possono convolare a giuste nozze. Tornando all’affermazione di Michael Wood sopra citata, bisogna osservare che in essa c’è del vero, ma che quella tesi non può essere generalizzata. Indubbiamente, Il bacio della pantera presenta un sottotesto ‘politico’, ma ciò non significa che qualunque film lo possieda. Le interpretazioni di tipo sociologico basate sulla teoria del ‘rispecchiamento’ – ossia l’idea che nei film si rifletterebbero le pulsioni che attraversano la società – vanno praticate con attenzione, perché non esiste mai un rapporto meccanico, osmotico, tra testo e contesto, e le ‘tracce’ di cui si diceva all’inizio vanno cercate attraverso un’analisi rigorosa. Se il cinema è uno specchio della società, si tratta di uno specchio deformante, perché vi sono una serie di ‘filtri’ – la volontà dell’autore, il condizionamento del sistema produttivo, i meccanismi di censura – che interagiscono con gli stimoli provenienti dalla cultura che circonda i film. Scrive in proposito Michèle Lagny: Risulta dunque chiaro che il film è fonte di storia, perché costruisce rappresentazioni della realtà, specifiche e datate ma anche perché fa emergere modi di vedere, di pensare, di fare o di sentire. È fonte per la storia, ancorché, come documento storico, il cinema non dia in alcun caso un «riflesso» diretto della società, ma una versione mediatizzata6.

Ci sono però alcuni film, e alcuni generi, in cui il rapporto tra cinema e società si configura in termini più immediati ed espliciti. Come si è visto nel primo capitolo, una delle cause dell’introduzione del Codice Hays fu l’elevato tasso di crudezza di alcune produzioni dei primi anni Trenta. All’Ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, 1930), diretto da Lewis Milestone e tratto dal best-seller Niente di nuovo sul fronte occidentale (pubblicato l’anno prima) di Erich Maria Remarque, dipinge l’inferno delle trincee della prima guerra mondiale in forme assai realistiche. Io sono un evaso (I Am a Fugitive from a Chain Gang, 1932) di Mervyn LeRoy vede come protagonista un veterano della Grande Guerra il quale, non riuscendo a trovare lavoro al suo ritorno a casa, si dà al crimine e, arrestato, viene condannato ai lavori forzati. In questo film, LeRoy illustra il lato oscuro dell’American way of life. Io sono un evaso ci mostra un sistema carcerario brutale e un paese spietato, dove violare la legge può diventare l’unico modo per sopravvivere. E il dramma di quelli che il presidente Roosevelt definì i «forgotten men» – gli «uomini dimenticati»: i reduci di guerra che il paese non aveva ricompensato in alcun modo per i servigi prestati nel 1917-18 – è presente anche in generi ‘fatui’. Uno dei musical più famosi del decennio, La danza delle luci (Gold Diggers of 1933, 1933), anch’esso diretto da Mervyn LeRoy (con le coreografie di Busby Berkeley), si chiude con un numero di ballo dedicato a ‘my forgotten man’, dove 150 ballerini in divisa mettono in scena l’eroismo di una generazione tradita. Sia Io sono un evaso sia La danza delle luci furono prodotti dalla Warner Brothers, la casa più ‘progressista’, vicina allo spirito del New Deal. Non a caso, fu la Warner a realizzare il primo film hollywoodiano esplicitamente antinazista: Confessions of a Nazi Spy (t.l.: Confessioni di una spia nazista, 1939) di Anatole Litvak (le Majors attesero così a lungo prima di schierarsi contro Hitler, benché molti produttori fossero ebrei, perché cercavano di evitare problemi nella distribuzione delle loro pellicole all’estero). Le regole del Codice Hays, anche se imposero l’eliminazione degli aspetti più aspri presenti nella produzione dei primi anni Trenta, non impedirono ai registi e ai produttori che lo desiderassero di continuare a occuparsi dei problemi sociali e politici. Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington, 1939) di Frank Capra (forse il regista americano più popolare dell’epoca), ad esempio, è un film schiettamente politico, in cui l’autore, seppure in forme edulcorate, mette in guardia il pubblico dal pericolo che uomini d’affari senza scrupoli e politici intriganti corrompano l’anima della democrazia americana. Non per niente, al momento dell’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, il governo si rivolgerà proprio a Capra per sovrintendere alla realizzazione di Why We Fight (t.l.: Perché combattiamo, 1942-45), una serie di documentari pensati per spiegare ai milioni di cittadini chiamati sotto le armi i motivi e la natura del conflitto a cui dovevano partecipare. Più in generale, la comunità hollywoodiana saprà mobilitarsi in maniera massiccia durante il periodo bellico: film di propaganda (questi sono gli anni del boom del war movie), spettacoli di grandi star per le truppe, presenza fisica sulla linea del fuoco per realizzare pellicole di non-fiction, come nel caso dei registi John Ford (che filma la battaglia delle Midway e lo sbarco in Normandia) e John Huston (aggregato alle forze alleate in Italia). Ma già prima del coinvolgimento dell’America nelle ostilità,

John Ford aveva esplicitamente dichiarato il proprio sostegno alla politica dell’amministrazione Roosevelt con Furore (The Grapes of Wrath, 1940), tratto dal romanzo omonimo di John Steinbeck, uno dei classici del realismo sociale americano, dove si descrive, con grande forza e lucidità, la tragedia della disoccupazione e della miseria di massa prodotte dalla Grande Depressione. L’esperienza – diretta o meno – della guerra funse da acceleratore per lo sviluppo di una sorta di ‘via hollywoodiana’ al realismo. Molti film dell’immediato dopoguerra affrontano con schiettezza, oltre che con una carica innovativa sul piano stilistico, gravi questioni sociali: I migliori anni della nostra vita (The Best Years of Our Lives, 1946) di William Wyler, dedicato al problema del difficile reinserimento dei reduci nella vita civile; Barriera invisibile (Gentleman’s Agreement, 1947) di Elia Kazan, sull’antisemitismo negli Stati Uniti; La città nuda (The Naked City, 1948) di Jules Dassin, che ibrida il modello del noir con il documentario. Questa linea del cinema americano venne bruscamente interrotta dal maccartismo, e in particolare dalle indagini sulla ‘sovversione rossa’ nel mondo di Hollywood che la Commissione della Camera sulle attività antiamericane (House on Un-American Activities Committee) condusse tra il 1947 e il 1953. Vennero messi sotto accusa non solo coloro che erano – o erano stati – effettivamente membri del Partito comunista, ma in generale tutti i registi, gli scrittori, gli attori di idee progressiste. Le Majors furono costrette a stilare delle liste nere: elenchi di comunisti, supposti tali, simpatizzanti, ai quali veniva impedito di lavorare. Gli sceneggiatori potevano riuscire a trovare un impiego, nel cinema o nella nascente industria televisiva, scrivendo sotto falso nome, ma per registi e attori le cose erano molto più difficili. Alcuni – Charlie Chaplin, Jules Dassin, Joseph Losey – emigrarono in Europa, mentre altri – come l’attore John Garfield – si diedero al teatro. Ma i più collaborarono con la Commissione: abiurarono e denunciarono i loro vecchi amici. Il caso più eclatante fu quello di Elia Kazan, il cui nome, fino a quel momento, era stato strettamente legato al cinema (e al teatro, in un fruttuoso sodalizio con il drammaturgo Arthur Miller) di impegno civile7. Kazan realizzerà una sorta di ‘apologia della delazione’ con Fronte del porto (On the Waterfront, 1954), dove Marlon Brando interpreta il ruolo di un pugile fallito che accetta di testimoniare contro il boss corrotto del sindacato dei portuali di New York. Le liste nere vennero abbandonate nei primi anni Sessanta. Il momento di svolta, nel loro progressivo smantellamento, è rappresentato da Exodus (id., 1960), un film sulla fondazione dello Stato di Israele diretto da Otto L. Preminger, il quale volle che nei titoli di testa comparisse il vero nome dell’autore della sceneggiatura, Dalton Trumbo, una delle vittime più famose della ‘caccia alle streghe’. Ma il danno prodotto dal clima di paura e di sospetto generato dal maccartismo ormai non poteva essere riparato. Il conformismo ideologico imperante a Hollywood negli anni Cinquanta (con alcune eccezioni, come il summenzionato Preminger) certo non aiutò l’industria del cinema ad affrontare con successo la crisi innescata dall’arrivo della televisione e dallo smantellamento dell’integrazione verticale. Non che il cinema del periodo della Guerra Fredda evitasse del tutto i problemi politici o sociali, ma perlopiù vi si avvicinava in maniera obliqua, attraverso metafore e allusioni. Si pensi, ad esempio, a Johnny Guitar (id., 1954) di Nicholas Ray, un western che, a prima vista, racconta semplicemente una delle storie canoniche di questo genere cinematografico, ossia il conflitto tra i grandi proprietari e un ‘nuovo venuto’, nella fattispecie la volitiva Vienna (Joan Crawford), padrona di una sala da gioco. In realtà, attraverso una formula narrativa apparentemente innocua, Ray parla di una questione scottante: il maccartismo. La scena in cui gli ‘onesti cittadini’ assetati di sangue organizzano un processo farsa, durante il quale minacciano il testimone perché accusi l’innocente Vienna, la quale viene immediatamente condannata all’impiccagione, rappresenta un evidente rimando ai metodi della Commissione sulle attività antiamericane. E la presenza nel cast di Sterling Hayden, nei panni dell’eroe eponimo, non è casuale: l’attore, ex comunista, nel 1950 aveva rinnegato le proprie idee e fornito all’FBI un elenco di nomi di vecchi compagni di partito. 2. Il mito della Frontiera e il genere western L’uso del passato per affrontare questioni relative al presente, cui si è appena fatto riferimento, è una pratica ampiamente diffusa, a Hollywood così come nelle altre cinematografie. Se alla fine del paragrafo precedente abbiamo citato proprio un film western, non è solo perché questo genere, negli Stati Uniti, è stato sfruttato più di altri per elaborare delle metafore della contemporaneità (in un momento in cui i neri erano sostanzialmente relegati fuori campo, ad

esempio, gli indiani offrivano la possibilità di confrontarsi con il problema del rapporto tra razze diverse). Il western ci interessa in modo particolare perché esso è stato anche, e soprattutto, lo strumento attraverso cui i registi hollywoodiani, a partire dall’epoca del muto – I pionieri (The Covered Wagon, 1923) di James Cruze, Il cavallo d’acciaio (The Iron Horse, 1924) di John Ford – sino agli anni Cinquanta, hanno edificato una vera e propria epica nazionale8. La guerra d’indipendenza è sempre stata scarsamente rappresentata dal cinema, secondo Marc Ferro perché per un’industria culturale che si voleva anglosassone la lotta contro l’Inghilterra era un ricordo imbarazzante9. Per ragioni diverse, anche la guerra civile – uno scontro tra americani che poneva inevitabilmente al centro la questione dei neri – si configurava come una memoria assai problematica, nonostante il fatto che due dei più importanti film della storia del cinema americano – Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, 1915) di David W. Griffith e Via col vento (Gone with the Wind, 1939) di Victor Fleming – siano dedicati proprio a questo tema. Il terreno sui cui Hollywood ha ragionato a fondo sul passato – e quindi sul presente – degli Stati Uniti è stato, invece, la conquista degli immensi spazi del West avvenuta nel corso del XIX secolo. André Bazin ha scritto che «il western è nato dall’incontro di una mitologia con un mezzo di espressione»10. La tradizione culturale cui fa riferimento Bazin è ciò che solitamente si definisce come il ‘mito della Frontiera’. Lo studioso americano Frederick J. Turner, in un articolo presentato per la prima volta nel 1893, alla riunione annuale dell’American Historical Association, individuò nella nozione di ‘frontiera’ il principio chiave di interpretazione della storia degli Stati Uniti, una storia radicalmente diversa da quella europea. Nel Vecchio Continente, sostiene Turner, la parola ‘frontiera’ indica una linea di confine tra due Stati, tra due territori parimenti ‘civilizzati’; e si tratta di una linea tendenzialmente (salvo cambiamenti prodotti da una guerra) immobile. In America, invece, la frontiera occidentale del paese divideva uno spazio ‘civile’, ‘addomesticato’ (tame), da uno ‘selvaggio’ (wild), ed era una frontiera ‘mobile’, una linea che si spostava progressivamente verso Ovest, fino a scomparire con la conquista dell’intero continente da parte dei bianchi, intorno al 1890. Secondo Turner, è in questo territorio vergine – dove si sono riversati coloni provenienti dalle nazioni più diverse (il melting pot, ossia il ‘crogiolo di razze’), ma sotto la guida sicura dei WASP (White Anglo-Saxon Protestant: i bianchi, anglosassoni, protestanti, discendenti dei primi inglesi sbarcati in Nord America nel XVII secolo) – che si è generata la specificità della democrazia americana, selvaggia e libera dal retaggio feudale europeo11. Scrive in proposito un altro importante studioso statunitense, Vernon L. Parrington: Da questa rude società emersero gli stati nuovi, con governi costituiti per perseguire fini elementari. Il geloso attaccamento al diritto sovrano di fare come voleva era il principale movente del libero elettore dell’Ovest; come cittadino sovrano egli rifiutava la soggezione a una comunità secondaria. Se governatori, legislatori e giudici si arrogassero poteri eccessivi egli li estrometterebbe dalla loro carica e ne eleggerebbe altri meglio in grado di comprendere i diritti degli americani liberi. Fu questo rude egualitarismo che caratterizzò il primo stadio della fondazione della comunità dell’Ovest12.

La dialettica tra tame e wild, il confronto dell’uomo bianco con la wilderness (il territorio selvaggio) e con coloro che vi abitano, i pellerossa, rappresenta uno dei gangli vitali dell’intera tradizione culturale americana. Se torniamo alla scena di Johnny Guitar cui abbiamo fatto riferimento, quella del ‘processo’ di Vienna, ci accorgiamo che essa esprime alla perfezione questo archetipo. Vienna si trova nel salone del suo locale, e sta suonando il pianoforte. Joan Crawford indossa un ampio vestito da sera bianco, che contrasta violentemente con il nero della folla intenzionata a linciarla (ma che stride anche con gli abiti maschili che la donna porta nel resto del film, eccezion fatta per la scena d’amore notturna con Sterling Hayden). Il pianoforte, il vestito, finanche lo stesso nome del personaggio (Vienna: una metropoli europea), rimandano all’idea di ‘civiltà’, a un mondo elegante e raffinato. Ma la parete di fondo della sala è fatta di pura roccia: la casa da gioco di Vienna, un’imprenditrice simbolo di quell’individualismo dell’Ovest di cui parla Parrington, appoggia letteralmente sulla wilderness, su una scheggia di ‘natura’ che la ‘cultura’ dei pionieri non è ancora riuscita a soggiogare. Sotto un altro punto di vista, però, Johnny Guitar è un western assolutamente anomalo, poiché le figure realmente forti, che stanno al centro del conflitto, sono due donne: da un lato Vienna, e dall’altro Emma, che capeggia la cricca dei notabili. Tanto che, cosa assolutamente bizzarra per un western (e infatti Johnny Guitar è un ibrido tra il melodramma e il western), il duello finale si svolge tra i due personaggi femminili, mentre gli uomini, persino Johnny Guitar, che pure dà il titolo al film, rimangono ai margini. Nella tradizione del cinema western, invece, sono le donne a essere collocate nella periferia della vicenda (quando non sono decisamente assenti). Scrive

Leslie Fiedler, a proposito della differenza tra la letteratura europea e quella statunitense, in un libro ormai divenuto un classico, Amore e morte nel romanzo americano:

8. Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray. I nostri grandi romanzieri, abili quanto si vuole a descrivere l’offesa e la violenza, la solitudine e il terrore, tendono a evitare di descrivere quell’incontro appassionato fra un uomo e una donna che noi ci aspettiamo di trovare come evento centrale di un romanzo. In verità, essi rifuggono dall’ammettere, nei loro racconti, la presenza di qualsiasi donna normale e matura, e ci regalano invece dei mostri di virtù o di depravazione, simboli di sessualità repressa o temuta. […] Il romanzo, comunque, fu precisamente il prodotto del gusto sentimentale del diciottesimo secolo; e una tradizione narrativa continua poté nascere solo quando venne ideata la storia d’amore di Lovelace e Clarissa (lui un Don Giovanni sottratto al mito, lei una dea dell’amore cristiano secolarizzato). Il tema per eccellenza del romanzo è l’amore o, più precisamente, almeno agli inizi, la seduzione e il matrimonio. […] Ma il nostro grande Unroman romantico, il nostro antiromanzo tipico, è Moby Dick, dove mancano le donne13.

Dall’Ultimo dei mohicani di James Fenimore Cooper alle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, passando per Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe e Moby Dick di Herman Melville, l’eroe americano – sostiene Fiedler – è un uomo in fuga dalle donne e dalla civiltà, un uomo che sceglie una vita errabonda nella prateria o sui mari, a caccia o in guerra, in compagnia di un ‘selvaggio’ (il nero Jim che scende il Mississippi insieme a Huck Finn, ad esempio), segno vivente della wilderness. E l’unica forma di ‘amore’ presente in queste vicende è appunto l’amore tra uomini, sublimato nell’amicizia virile tra compagni d’arme. L’erede novecentesco di questa tradizione letteraria è stato certamente il cinema hollywoodiano e, in particolare, il genere western che – nelle mani di registi come John Ford, Howard Hawks, Anthony Mann – ha messo in scena, innumerevoli volte, la storia archetipica del ‘maschio fuggiasco’. Basti solo pensare ai molti western in cui, alla fine, l’eroe cavalca, solo, verso il tramonto, lasciandosi alle spalle una donna che lo ama: da Sfida infernale (My Darling Clementine, 1946) di Ford a L’uomo di Laramie (The Man from Laramie, 1955) di Mann, passando per Il cavaliere della valle solitaria (Shane, 1953) di George Stevens. Più in generale, il cinema western ha rielaborato temi e figure della cultura – sia alta (i romanzi di cui parla Fiedler), sia bassa (i dime novels, la musica folk, il Wild West Show) – nata nell’Ottocento attorno all’esperienza della Frontiera, per produrre racconti che, nel secolo successivo, hanno costituito la suprema incarnazione dell’idea che l’America ha di se stessa14. 3. «Mi chiamo John Ford. Faccio western» Il cineasta hollywoodiano che si è dedicato più di tutti gli altri al western, dal suo debutto alla

regia nel 1914 sino al ritiro nel 1966, è stato certamente John Ford. Non che Ford non si sia misurato anche con altri generi. Anzi, per molti versi i maggiori riconoscimenti professionali gli sono venuti proprio da film che non appartengono al western. Infatti, nonostante l’assoluta centralità di questo genere all’interno del cinema americano classico, soprattutto a partire dagli anni Quaranta, l’establishment hollywoodiano ha sempre guardato ai western con sufficienza, come a film da adolescenti, strutturalmente incapaci di esprimere valori ‘artistici’. Non per niente, tutti gli Oscar vinti da Ford, per il miglior film o la miglior regia, sono relativi a drammi a sfondo sociale oppure a commedie: Il traditore (The Informer, 1935), Furore, Com’era verde la mia valle (How Green Was My Valley, 1941), Un uomo tranquillo (The Quiet Man, 1952). Ciò detto, è indubitabile che il principale contributo di Ford al cinema americano sia rappresentato dai suoi film incentrati sul mito della Frontiera, a partire da Ombre rosse (Stagecoach, 1939), uno dei titoli che segnano il passaggio del western dallo status di B-movie, dov’era stato relegato per tutto il primo decennio del sonoro, a genere di prima grandezza. «Mi chiamo John Ford. Faccio western»: così si presentò una volta, durante una burrascosa riunione della Screen Directors Guild, il sindacato dei registi, negli anni del maccartismo. E il film che rappresenta la summa dell’opera di Ford, così come, più in generale, del genere western nel suo complesso, è – crediamo – Sentieri selvaggi, il titolo numero 115 della sterminata (anche per i parametri della Hollywood classica, dove i registi spesso giravano anche più di un film all’anno) filmografia fordiana15. Già a partire dal cast & credits, Sentieri selvaggi si presenta come la quintessenza del cinema fordiano. Il personaggio principale, Ethan Edwards, è interpretato da John Wayne, attore fordiano per antonomasia. Tra i personaggi secondari troviamo alcuni dei caratteristi abituali del regista, come Ward Bond (nei panni del reverendo e capitano dei Texas Rangers Samuel Clayton) e Harry Carey Jr. (che interpreta Brad Jorgensen)16. Quest’ultimo era figlio del divo del western muto Harry Carey, che era stato il mentore di Ford all’epoca del suo debutto come regista. Il gesto di Wayne di tenersi il braccio destro con la mano sinistra, all’altezza del gomito (una postura che per Ford enfatizzava la solitudine del suo eroe), era un gesto tipico di Harry Carey. Lo script è di Frank Nugent, autore delle sceneggiature di alcuni dei più noti film di Ford, quali Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, 1948), I cavalieri del Nord-Ovest (She Wore a Yellow Ribbon, 1949), La carovana dei mormoni (Wagon Master, 1950) e Cavalcarono insieme (Two Rode Together, 1961). La location principale è la Monument Valley, una zona desertica coperta di mesas (formazioni di roccia dalle pareti ripide e dalla sommità piatta), nel Sud-Ovest degli Stati Uniti, che Ford utilizzò per la prima volta in Ombre rosse, e dove continuò a lavorare periodicamente. La Monument Valley è uno spazio così intimamente fordiano che nessun altro regista vi si è avventurato, se non per fare un omaggio esplicito al maestro del western, come Dennis Hopper in Easy Rider (id., 1969). La colonna sonora (sotto la direzione di Max Steiner, uno dei più famosi compositori della Hollywood classica) è costituita largamente – come avviene spesso nelle pellicole del regista – da motivi della tradizione folk americana, tra cui Gather at the River, un inno di chiesa presente in molti film di Ford, e per il quale vale lo stesso discorso fatto per la Monument Valley (lo utilizzerà Sam Peckinpah nella sequenza d’apertura del Mucchio selvaggio, The Wild Bunch, 1969). 4. Un’odissea americana: «Sentieri selvaggi» «Texas 1868», ci informa un cartello17. Una porta si apre sul paesaggio maestoso della Monument Valley. Una donna esce sul portico di una casa, seguita dai suoi figli e dal marito, a osservare un cavaliere che giunge dal deserto. È Ethan, reduce sudista della guerra di Secessione, che a tre anni dalla sconfitta torna alla fattoria del fratello Aaron e di sua moglie Martha. Sin dalla scena iniziale, Sentieri selvaggi richiama l’attenzione su quella dialettica tame/wild di cui abbiamo detto. Da una parte c’è un luogo chiuso: la casa, uno spazio ‘civile’, con al centro una donna. Dall’altro c’è la wilderness: il deserto sconfinato, in cui si staglia la figura solitaria di un uomo. In Sentieri selvaggi il campo di ripresa proprio degli uomini è il campo lungo, che permette di abbracciare la vastità dell’orizzonte, mentre quello delle donne è il campo totale, che mostra il chiuso dell’universo domestico. Da subito, la dimensione che domina il film è quella dello spazio immenso del West, uno spazio la cui ampiezza viene enfatizzata dal formato panoramico (Vista Vision), che favorisce il movimento orizzontale, intimamente legato all’idea della quest, della ricerca (il titolo originale, The Searchers, significa proprio ‘i cercatori’), attorno a cui gravita il plot.

A questo si aggiunge il tipo di colore usato da Ford: «il Technicolor – osserva Tag Gallagher – di per sé è uno strumento più adatto alla mitizzazione che al realismo»18. Quella di Sentieri selvaggi, insomma, è una scenografia fortemente stilizzata: è lo spazio del Mito, svincolato da precise coordinate geografiche. L’esistenza di una fattoria in mezzo alla Monument Valley, infatti, è inverosimile, perché si tratta di un territorio del tutto inospitale. Ma la forza di questa location sta nella sua portata simbolica: la casa nel deserto è una perfetta visualizzazione dello scontro tra il colono bianco e la wilderness. Scrive Jonathan Lethem nel suo affascinante racconto-saggio su Sentieri selvaggi: C’è una casa di campagna in mezzo alla prateria – no, non è la prateria. Questa famiglia si è insediata ai margini desolati della Monument Valley, all’ombra di quei monoliti arrostiti e spaccati dal sole visti e rivisti nella pubblicità della Jeep. Uno pensa: tanto valeva cercare di coltivare la luna. […] Ci sono film che riescono a vivere anche nella luce sacrificata di uno schermo tv, ma Sentieri selvaggi chiede disperatamente aria. Non solo l’aria di uno schermo abbastanza grande da far torreggiare Wayne e la sua rabbia come i lontani pilastri di roccia sullo sfondo, ma anche l’aria di una folla di spettatori. Il film è una ruvida fetta di un non so che americano, e desidera l’incontro frontale con un’altra fetta: l’ideale sarebbe la proiezione sulla parete di un canyon, per un pubblico di milioni di persone19.

Sentieri selvaggi racconta dell’inseguimento, da parte di Ethan, degli indiani Comanche che hanno rapito Debbie, la figlia più piccola del fratello, e sterminato gli altri membri della famiglia, dopo aver (presumibilmente) violentato Martha e la figlia più grande Lucy (l’attacco alla fattoria segue di poco l’incipit in cui l’eroe torna dalla guerra). Nelle sue peregrinazioni, Ethan è accompagnato da Martin (Jeffrey Hunter), un ragazzo di sangue misto allevato da Aaron e Martha dopo il massacro dei suoi genitori a opera dei pellerossa. Ethan e Martin vagano per anni nelle sconfinate plaghe del West, in cerca della banda del capo Scar (Scout nella versione italiana). Per il tempo di Sentieri selvaggi vale un discorso analogo a quello che abbiamo fatto a proposito dello spazio. La ricerca di Ethan e Martin dura cinque anni, ma si tratta di un tempo assolutamente astratto, come i ‘dieci anni’ dell’Odissea: ciò che conta è il tempo interiore del viaggio iniziatico. Il montaggio fa procedere le stagioni, spostando i personaggi dalle distese innevate del Nord alle dune arroventate del deserto del Sud-Ovest, in un percorso circolare che riporterà i due inseguitori al punto di partenza. Alla fine, infatti, la liberazione di Debbie avverrà poco lontano dalla fattoria da cui Ethan e Martin erano partiti per la loro missione. Mentre l’avventura dei due searchers procede, la fidanzata di Martin, Laurie Jorgensen (Vera Miles), figlia dei vicini degli Edwards, esasperata dall’attesa del ritorno dell’amato, accetta di sposare Charlie McCorry, membro della compagnia di Texas Rangers insieme alla quale, all’inizio del film, Ethan e Martin avevano tentato di salvare Debbie. Quando Ethan e Martin finalmente trovano Debbie, questa è ormai diventata una donna (interpretata da Natalie Wood): una squaw sposata a Scar, che sulle prime non ricorda neppure l’inglese e parla nella lingua dei Comanche. Ethan, che odia gli indiani in modo feroce, è intenzionato a ucciderla, ma Martin riesce a fermarlo. Segue uno scontro con i guerrieri di Scar: Ethan viene ferito e i due sono costretti alla fuga. Ethan e Martin giungono alla fattoria degli Jorgensen, dove sta per celebrarsi il matrimonio tra Charlie e Laurie. Il rito viene interrotto, e Martin e Charlie si battono a pugni sotto lo sguardo deliziato di Laurie, la quale ha già scelto di tornare con Martin. Proprio quando la coppia si è ricongiunta, Martin deve nuovamente partire. Arriva un ufficiale di cavalleria, insieme a Mose Harper, un vecchio lunatico che rivela a Martin dove si trova il campo di Scar. Martin e Ethan partono per la battaglia, insieme ai Rangers. Nonostante l’opposizione di Ethan, Martin si introduce nel villaggio prima dell’attacco, per tentare di trovare Debbie. Il ragazzo striscia nella tenda del capo, uccide Scar e porta via Debbie. I Rangers assaltano l’accampamento. Nella confusione dello scontro, Ethan toglie lo scalpo al cadavere di Scar e poi si lancia all’inseguimento della nipote. Liberatosi di Martin, Ethan afferra Debbie, ma invece di ucciderla, la stringe teneramente a sé. Martin e Ethan tornano con Debbie dagli Jorgensen. Tutti entrano in casa tranne Ethan, che rimane fuori, inquadrato dall’interno attraverso la cornice della porta. La porta si chiude, specularmente rispetto all’incipit, a sottolineare la natura circolare della struttura del testo.

9. Sentieri selvaggi (1956) di John Ford.

Come si evince da questo riassunto, la dialettica tame/femminile vs wild/maschile, presente nella scena d’apertura, attraversa tutto il testo. Anzi, ne costituisce l’architrave. Ethan è la perfetta incarnazione del ‘maschio fuggiasco’ di Leslie Fiedler. Pur amando Martha, ricambiato (gli sguardi tra i due personaggi sono assolutamente espliciti in proposito, così come la scena in cui la donna accarezza il pastrano militare dell’uomo), Ethan è andato in guerra, alla quale invece Aaron non ha partecipato. Dopo la capitolazione del Sud, Ethan ha fatto il bandito (le monete che reca con sé, sottolinea il fratello, sono letteralmente nuove di zecca, per cui, presumibilmente, sono state ‘prelevate alla fonte’ in una rapina) e il mercenario in Messico (la medaglia che regala alla piccola Debbie è una decorazione dell’imperatore Massimiliano)20. Insomma, Ethan è un guerriero di professione, che non ha accettato la sconfitta del Sud e che ha continuato a combattere anche una volta terminato il conflitto. Sotto questo punto di vista, sono assai illuminanti le battute che si scambiano Ethan e il capitano dei Texas Rangers (nonché pastore protestante) Samuel Clayton, anch’egli veterano sudista, nella scena del loro primo incontro: Clayton: «Quando sei ritornato? Non ti ho più visto dalla capitolazione. Anzi, ti dirò che non ti ho visto neanche allora». Ethan: «Non credo nelle capitolazioni. No, ho sempre la mia sciabola, reverendo, e non l’ho trasformata in un vomero ancora».

Subito dopo, Clayton, che ha arruolato pro tempore Ethan nel suo reparto, cerca di fargli prestare giuramento come volontario, ma John Wayne risponde: «Secondo me un uomo deve fare un giuramento alla volta. Io ho fatto il mio agli Stati Confederati d’America. E anche tu, Sam». Quest’ultima frase provoca la stizza di Clayton, al quale Ethan sta rinfacciando di essere ‘venuto a patti con il nemico’. Infatti, facendo parte dei Rangers, in qualche modo Clayton è al servizio di quel governo federale che è stato il loro avversario durante la guerra. Non per nulla, poco prima Clayton si era definito un «ufficiale dello Stato sovrano del Texas», sottolineando implicitamente che la sua fedeltà non va a Washington, bensì al Sud. D’altra parte, alla fine del film, Ethan e Clayton si troveranno uniti nel prendere in giro il giovane tenente di cavalleria che li accompagna nel raid contro i Comanche, proprio perché questi indossa l’uniforme blu dell’esercito del Nord. L’elemento paradossale, e affascinante, del personaggio di Ethan è che egli da un lato odia gli indiani, ma dall’altro, in realtà, non fa parte di quella ‘civiltà’ che sta sorgendo nell’Ovest e di cui è il guardiano. Ethan, come l’eroe dell’Ultimo dei mohicani, è in bilico tra i due mondi, tanto che, al termine della vicenda, non entra in casa, ma rimane fuori, nel deserto: la famiglia si

ricompone, ma Ethan ne è escluso. Ethan, a furia di combattere i pellerossa, ha finito per diventare molto simile a loro: ha una custodia per il fucile e dei mocassini di fattura indiana, parla la lingua dei Comanche, toglie lo scalpo a Scar. Non a caso, non è Ethan a uccidere Scar, bensì Martin. Scar è il doppio malefico di Ethan: morto il capo indiano, il guerriero bianco non sa più che fare della propria vita. Lo spirito della Frontiera, la fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» del paese e nella trasformazione della wilderness in un territorio tame, non è incarnato da Ethan, bensì dalle due figure materne, i pilastri su cui si reggono rispettivamente le famiglie degli Edwards e degli Jorgensen: Martha e la madre di Laurie. Ed è a quest’ultima che viene affidato il discorso ideologico sul ‘destino manifesto’21. Afferma la signora Jorgensen (interpretata da Olive Carey, vedova di Harry Carey e madre di Harry Carey Jr.: anche sul piano del cast, Sentieri selvaggi è un ‘film di famiglie’): «Noi pionieri non siamo che dei poveri esseri umani sperduti in questa landa, isolata da tutti. E lo saremo per chissà quanto tempo. Ma io credo che non durerà in eterno. Un giorno questa regione sarà un luogo meraviglioso per viverci. Ma forse noi ci stenderemo le cuoia prima che questo succeda». «Faceva la maestra da ragazza», commenta compiaciuto il marito (John Qualen, uno dei più noti caratteristi della Hollywood classica). Combattere gli indiani è compito degli uomini, di Ethan, di Martin, del reverendo Clayton, un pastore-soldato che impugna la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra, e che incarna tutta la spietatezza del calvinismo americano. Ma sono le donne, creature istruite (laddove Martin è semi-analfabeta), ‘civili’, a edificare il nuovo mondo, ad ‘addomesticare’ la wilderness (oltre che, talvolta, gli uomini). In Sentieri selvaggi i maschi legati alla dimensione domestica, Aaron Edwards e Lars Jorgensen, sono presentati come l’opposto dell’ideale virile. Il primo è un inetto incapace di difendere i propri cari dagli indiani, oltre che cieco di fronte all’amore – puramente virtuale, certo – tra Martha e il fratello. Il secondo, completamente subalterno alla moglie, è una figura comica. Anche il terzo ‘maschio domestico’, Charlie McCorry, il quale – al contrario di Martin – desidera ardentemente sposare Laurie, è presentato come un personaggio comico. Martin, ‘scudiero’ di Ethan, ma al contempo fidanzato di Laurie, è a metà strada tra il modello del ‘maschio fuggiasco’ e quello del ‘maschio domestico’. Mentre Laurie dimostra apertamente il proprio desiderio fisico per Martin, quest’ultimo è sempre molto tiepido. D’altra parte, nel corso del loro viaggio, Martin non si dimostra mai interessato alle donne, neppure quando una bella cameriera messicana gli fa delle avances esplicite. Martin vuole sposare Laurie, e si batte con Charlie per il possesso della ragazza, però, nei cinque anni della lunga caccia agli indiani, le scrive un’unica lettera sgrammaticata, in cui peraltro le racconta candidamente che si è sposato ‘per errore’ con una squaw (commerciando con un gruppo di pellerossa, il ragazzo ha comprato inconsapevolmente la donna), con la quale comunque non ha alcun commercio carnale e che da lì a poco sarà uccisa dalla cavalleria. Insomma, Martin sembra fare veramente di tutto perché Laurie si trovi un altro marito. Solo alla fine il giovane accetterà di accasarsi, evitando così il destino solitario di Ethan. D’altra parte, la storia d’amore mancata tra Ethan e Martha, e il matrimonio di quest’ultima con il goffo Aaron, sono speculari rispetto alla relazione – quasi mancata – tra Martin e Laurie, e il – quasi – matrimonio tra lei e Charlie. Più in generale, il tema del doppio è centrale nell’intera economia del testo, a partire dal doppio ruolo – soldato e pastore di anime – di Clayton, o dai due nomi – Scar e Cicatriz, dal medesimo significato, ma in lingue diverse, inglese e spagnolo – del capo indiano. Ma oltre alla parabola del ‘maschio fuggiasco’, Sentieri selvaggi presenta un altro grande archetipo della cultura americana: il captivity tale, la storia del rapimento – e dello stupro, reale o paventato – di una donna bianca da parte degli indiani. Il film di Ford si basa sul romanzo omonimo di Alan LeMay, ispirato all’episodio autentico di Cynthia Ann Parker, una bambina bianca rapita dagli indiani nel 1836. L’avventura di Cynthia, però, fu molto diversa da quella di Debbie: anche lei divenne moglie di un capo, ma quando fu ‘salvata’ tentò inutilmente di tornare dai pellerossa, dopo di che – pare – si uccise. Suo figlio fu l’ultimo capo dei Comanche, prima che la tribù si arrendesse al governo di Washington nel 187522. Inoltre, nella realtà storica erano molto più frequenti i casi di stupro di donne indiane da parte dei bianchi, che non il contrario. Ma il punto non è la veridicità del plot di Sentieri selvaggi. Ford lavora sull’immaginario, non sulla storia, e qui mette in scena il grande fantasma dell’America bianca, il terrore della miscegenation (la mescolanza razziale), su cui tornerà anche in altri due film: I dannati e gli eroi (Sergeant Rutledge, 1960) e Cavalcarono insieme. Nel primo, un valoroso sergente nero viene ingiustamente accusato di aver violentato una donna bianca. Non è un caso che questi siano gli anni in cui inizia il movimento

per i diritti civili: ancora una volta, le ingiustizie del passato sono specchio di quelle del presente. In Cavalcarono insieme, invece, James Stewart – che già nell’Amante indiana (Broken Arrow, 1950) di Delmer Daves interpretava un eroe western antirazzista – difende una donna bianca, che ha avuto una sorte analoga a quella di Debbie, dai pregiudizi dei suoi supposti salvatori, i quali ritengono che il suicidio sia l’unica opzione per una ‘donna onesta’ dopo che è stata ‘contaminata’ da un indiano. «Non sono bianche, non più: sono Comanche», sentenzia Ethan carico d’odio, davanti a un gruppo di prigioniere appena liberate dalla cavalleria, ma ormai folli a causa dei traumi subiti. Ethan è ossessionato dalla purezza razziale, tanto che per buona parte del film è apertamente sprezzante verso Martin (che poi però ‘adotterà’, facendo testamento in suo favore), proprio perché il ragazzo non è completamente bianco. «Ti si potrebbe scambiare per un mezzo sangue», gli dice gelido durante il pranzo a casa di Martha e Aaron. «Non direi», risponde stizzito Martin, «Sono per un ottavo indiano, e per il resto gallese e inglese. Almeno così mi hanno detto». Il rancore di Ethan verso i Comanche – lascia intendere Ford – deriva dalla logica della faida, in quanto sua madre è stata uccisa dai pellerossa, come si evince dalla lapide del cimitero della fattoria, dietro a cui si nasconde la piccola Debbie: «Here lies Mary Jane Edwards, killed by Comanches» («Qui giace Mary Jane Edwards, uccisa dai Comanche»). Quello di Sentieri selvaggi è un mondo spietato di morte e di vendetta. Non per niente, Scar dichiara di agire per vendicare i suoi due figli morti nelle guerre contro i bianchi. Gli indiani sono dei selvaggi sanguinari, ma Ethan non è da meno, tanto che toglie lo scalpo a Scar, proprio come farebbe un guerriero Comanche. Ethan e Scar, insomma, sono due facce della stessa medaglia (ancora il tema del doppio). In questo senso, risulta piuttosto evidente che la demistificazione del mito della Frontiera operata dalla New Hollywood, in film quali Piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) di Arthur Penn o Buffalo Bill e gli indiani (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson, 1976) di Robert Altman, è stata ampiamente preparata dai cineasti della Hollywood classica. Non solo l’ultimo western di Ford, Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, 1964), è dalla parte degli indiani, ma già nel Massacro di Fort Apache troviamo Henry Fonda nei panni di un colonnello, ispirato alla figura storica del generale Custer, che provoca una guerra solo per la sua sete di gloria, portando al macello i propri uomini. In Sentieri selvaggi, Look, la moglie indiana di Martin, muore durante un’incursione della cavalleria in un villaggio, che rimanda scopertamente al massacro del fiume Washita, perpetrato dagli uomini di Custer (la marcia militare che Ford usa in questa sequenza, Garry Owen, era il motivo fatto suonare dal generale in quell’occasione). L’uccisione di Look è così gratuita da impietosire persino Ethan (e in questo modo, ha scritto acutamente Gaylyn Studlar, si prepara e si rende più comprensibile il ‘ripensamento’ finale del personaggio)23. Peraltro, nella sceneggiatura di Frank Nugent, subito dopo l’episodio del ritrovamento del cadavere di Look, era presente una scena – girata ma eliminata in montaggio – dove Ethan incontra l’ufficiale responsabile dell’azione, di nuovo scopertamente modellato sul personaggio di Custer, al quale il protagonista dà del vigliacco, accusandolo di aver solo massacrato delle donne anziché dare battaglia ai guerrieri Comanche24. Insomma, lungi dall’essere un eroe senza macchia, Ethan è una figura complessa e contraddittoria. Il protagonista di Sentieri selvaggi è un razzista spietato che vuole uccidere la nipote perché ormai ‘non è più una donna bianca’, ma è anche l’uomo che, sollevando la ragazza come aveva fatto all’inizio del film, quando questa era bambina (di nuovo la struttura ad anello), le dice con dolcezza: «Andiamo a casa, Debbie». Ha affermato in proposito Jean-Luc Godard: «Mistero e fascinazione di questo cinema americano. Come posso odiare […] John Wayne che appoggia Goldwater [leader dell’ala destra del Partito repubblicano negli anni Sessanta] e amarlo teneramente quando solleva bruscamente con le braccia Natalie Wood in Sentieri selvaggi?»25. Ethan è un dark hero che alla fine trova la forza per cambiare. Alla redenzione, però, non segue un lieto fine in senso proprio. Ethan, infatti, risulta inevitabilmente sconfitto dal ‘progresso’ (il processo di trasformazione della wilderness in territorio tame), come avverrà anche a un altro personaggio fordiano, il Tom Doniphon dell’Uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962), sempre interpretato da John Wayne. Ethan salva Debbie e la riporta a casa, ma in quella casa egli non può entrare: se Ethan è un Ulisse americano, è l’Ulisse di Dante, che torna solo per ripartire. Il nucleo familiare che, alla fine del film, simboleggia la ricostruzione dell’unità distrutta all’inizio dall’attacco di Scar, è strutturalmente diverso rispetto a quello

dell’incipit. Infatti, mentre gli Edwards sono WASP, gli Jorgensen sono di origine scandinava (lo si evince dal cognome e dall’accento del marito), dunque non anglosassoni. In più, a loro si uniscono Martin, che ha sangue indiano nelle vene, e Debbie, che è stata la moglie di un capo dei Comanche. Insomma, la famiglia con cui si apre il film è una famiglia omogenea sul piano etnico, quella del finale è invece un ibrido, in cui la componente anglosassone è minoritaria. E mentre questa ‘nuova famiglia’, frutto della miscegenation, entra in casa, l’unico ‘americano vero’ rimane fuori dalla porta, solo, a vagare nel deserto.   Come sottolinea Jean-Loup Bourget, l’espressione «fabbrica dei sogni» per definire Hollywood fu coniata dal poeta sovietico Il’ja Erenburg nel 1932, per essere poi resa popolare dalla sociologia americana negli anni Cinquanta (si veda il capitolo sesto). Cfr. J.L. Bourget, Hollywood. La norme et la marge, Nathan, Paris 1998, p. 4. 1

2

M. Wood, L’America e il cinema, trad. it., Garzanti, Milano 1979, p. 19.

M. Scorsese, M.H. Wilson, Un viaggio personale con Martin Scorsese attraverso il cinema americano, trad. it., Archinto, Milano 1998, p. 98. 3

4

S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, trad. it., Mondadori, Milano 2003, p. 77.

Jacques Tourneur aveva seguito il padre Maurice – anch’egli regista, uno dei nomi più in vista della Hollywood del periodo muto – negli Stati Uniti e aveva preso la cittadinanza americana nel 1919. Simone Simon si era già imposta come attrice di primo piano in Francia, dove aveva recitato, ad esempio, nell’Angelo del male (La bête humaine, 1938) di Jean Renoir. 5

M. Lagny, Il cinema come fonte di storia, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, 5 voll., Einaudi, Torino 2001, vol. V, Teorie, strumenti, memorie, p. 276. 6

Una ricostruzione assai efficace del clima della caccia alle streghe a Hollywood è reperibile nel Prestanome (The Front, 1976) di Martin Ritt (il quale era finito sulla lista nera, così come lo sceneggiatore del film Walter Bernstein e alcuni degli attori), in cui Woody Allen interpreta il ruolo di un finto sceneggiatore che fa da copertura a scrittori accusati di attività antiamericane. Sull’argomento, ma più modesto, si può vedere anche Indiziato di reato (Guilty by Suspicion, 1991) di Irwin Winkler. 7

Per un’introduzione in lingua italiana al cinema western si vedano: R. Bellour (a cura di), Il Western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia, trad. it., Feltrinelli, Milano 1973; J.L. Leutrat e S. Liandrat-Guigues, Le carte del western. Percorsi di un genere cinematografico, trad. it., Le Mani, Recco 1993. 8

9

Cfr. M. Ferro, Aux États-Unis, cinéma et conscience de l’histoire, in Id., Cinéma et Histoire, Gallimard, Paris 1993, p. 228.

A. Bazin, Le Western ou le cinéma américain par excellence, in Id., Qu’est-ce que le cinéma?, Éditions du Cerf, Paris 1985, p. 219 (trad. nostra). 10

11

Cfr. F.J. Turner, La frontiera nella storia americana, trad. it., Il Mulino, Bologna 1959.

12

V.L. Parrington, Storia della cultura americana, vol. II, La rivoluzione romantica, 1800-1860, trad. it., Einaudi, Torino 1969, p. 172.

13

L. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, trad. it., Longanesi, Milano 1983, pp. 22-23.

I dime novels erano romanzi popolari venduti a poco prezzo (un dime equivale a dieci centesimi), affini ai nostri romanzi d’appendice. Il Wild West Show era lo spettacolo (una sorta di circo) sulla vita della Frontiera ideato da Buffalo Bill, eroe del selvaggio West, che ebbe grandissimo successo, in America e in Europa, a cavallo tra Otto e Novecento. Una ricca fonte di informazioni sulla ‘cultura western’ intesa nel senso più ampio è R. Slotkin, Gunfighter Nation. The Myth of the Frontier in Twentieth-Century America, University of Oklahoma Press, Norman 1998. 14

Su questo punto la critica non è affatto concorde. Lindsay Anderson, ad e-sempio, in una monografia fortemente polemica verso la politique des auteurs e l’idea di Ford come ‘autore’ (si veda il capitolo settimo), sostiene che Sentieri selvaggi sarebbe un film non riuscito, sintomatico del ‘declino’ che caratterizzerebbe gli ultimi dieci anni della produzione del regista. Cfr. L. Anderson, John Ford, trad. it., Ubulibri, Milano 1985, pp. 19, 171-79. 15

Un caratterista è un attore che recita in parti secondarie, per lo più specializzato in alcuni ruoli, come – solo per citarne due dei più noti – Walter Brennan, il vecchietto di molti western (compare, ad esempio, in Un dollaro d’onore, Rio Bravo, 1959), o Edward Everett Horton (l’amico di Fred Astaire in Cappello a cilindro, Top Hat, 1935), spesso legato a figure di gentiluomo di gusto anglosassone. 16

17

In gergo tecnico si definisce ‘cartello’ qualunque inquadratura che contenga una scritta.

18

T. Gallagher, John Ford. The Man and His Films, University of California Press, Berkeley 1986, p. 329 (trad. nostra).

J. Lethem, In difesa di ‘Sentieri selvaggi’. Scene da un’ossessione, in Id., A ovest dell’inferno, trad. it., Minimum Fax, Roma 2002, pp. 119, 132. Sul film di Ford sono disponibili tre monografie: J.-L. Leutrat, Sentieri selvaggi di John Ford, trad. it., Le Mani, Recco 1995; E. Buscombe, The Searchers, British Film Institute, London 2000; A. Morsiani, John Ford - Sentieri Selvaggi, Lindau, Torino 2002. 19

Dopo la fine della guerra civile, molti ex soldati sudisti combatterono per Massimiliano d’Asburgo, il sovrano che la Francia di Napoleone III tentò di imporre al Messico. Vi si fa riferimento anche in Via col vento, quando Rossella cerca di convincere Ashley a fuggire insieme in Messico, dove lui – dice la donna – potrebbe trovare lavoro come ufficiale, così come in Vera Cruz (id., 1954) di Robert Aldrich, in cui Gary Cooper è un ex colonnello confederato al servizio di Massimiliano. 20

Quella del manifest destiny è una formula coniata a metà Ottocento dal giornalista John O’Sullivan, assertore del diritto dell’uomo bianco a conquistare l’intero continente nordamericano. Cfr. P. Bairati (a cura di), I profeti dell’impero americano, Einaudi, Torino 1975, pp. 131-42. 21

Diversi degli articoli raccolti in A.M. Eckstein e P. Lehman (a cura di), ‘The Searchers’: Essays and Reflections on John Ford’s Classic Western, Wayne State University Press, Detroit 2004, prendono in esame il rapporto tra il film di Ford (e il romanzo da cui è tratto) e la realtà storica. A un altro libro di LeMay è ispirato Gli inesorabili (The Unforgiven, 1960) di John Huston, che narra una vicenda speculare rispetto a quella di Sentieri selvaggi: una ragazza indiana (Audrey Hepburn) viene cresciuta da una famiglia di bianchi, i quali non vogliono restituirla alla tribù cui ella appartiene. 22

Cfr. G. Studlar, What Would Martha Want? Captivity, Purity, and Feminine Values in «The Searchers», in Eckstein, Lehman (a cura di), «The Searchers» cit., pp. 189-90. 23

24

Cfr. F.S. Nugent, The Searchers, Turner Classics Movies/ScreenPress, Ipswich 2002, pp. 72-74.

25

Citato in A. Farassino, Jean-Luc Godard, vol. I, Il Castoro, Milano 1996, p. 7.

IV.

I generi e l’universo narrativo: la commedia. «La signora del venerdì»

1. La galassia del comico In inglese la parola comedy possiede uno spettro semantico assai ampio, ben maggiore del sostantivo italiano ‘commedia’. In ambito cinematografico, infatti, sotto la dizione ‘comedy’ rientra ogni tipo di film che ‘faccia ridere’. Solo per citare qualche titolo particolarmente noto, sono comedies film tra loro diversissimi quali La febbre dell’oro (The Gold Rush, 1925) di Charlie Chaplin, La guerra lampo dei fratelli Marx (Duck Soup, 1933) di Leo McCarey, Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story, 1940) di George Cukor, Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s, 1961) di Blake Edwards. In prima istanza, possiamo dire che il termine comedy indica un grande filone che nasce con gli inizi del cinema americano (le frenetiche farse di Mack Sennett degli anni Dieci) e ne attraversa tutta la storia senza soluzione di continuità, spingendosi ben oltre i confini del periodo classico. Ma per orizzontarsi all’interno di questo vasto territorio è necessario operare delle differenziazioni interne, in quanto – lo ripetiamo – comedy non rimanda a un genere in senso stretto, bensì a una realtà molto più grande. Comedy è una dimensione del cinema narrativo, al cui interno si raccolgono le espressioni ‘basse’ (nella logica della tassonomia dei generi letterari e teatrali di derivazione aristotelica), le quali si contrappongono alle forme ‘alte’, ‘serie’, che rientrano sotto la dicitura ‘drama’ (dramma). La distinzione principale è quella tra comedian comedy da un lato e romantic comedy dall’altro, che equivale, nella nostra

lingua, alla contrapposizione tra comico e commedia. La comedian comedy indica un film che si basa sulla performance di un attore (o di una coppia, come Laurel e Hardy, oppure anche di gruppi più nutriti, quali i fratelli Marx), il comedian appunto, tendenzialmente di sesso maschile. La romantic comedy, invece, ha al centro un uomo e una donna, di cui il film segue le vicissitudini sentimentali, sino all’inevitabile lieto fine. La comedian comedy deriva dal circo e dal vaudeville (un tipo di teatro popolare in voga negli Stati Uniti tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento), e nasce durante il periodo del muto. I più grandi interpreti del comico degli anni Venti, Buster Keaton e Charlie Chaplin, venivano rispettivamente dal vaudeville e dal music-hall, il corrispettivo britannico del vaudeville (Chaplin era di origine inglese). Quella della comedian comedy è una comicità largamente basata sull’azione violenta, sugli inseguimenti, sulle gag fisiche, uno stile che in inglese è definito slapstick, dal nome del bastone con cui i clown fingono di picchiarsi. In virtù della sua natura eminentemente visivo-cinetica lo slapstick è particolarmente adatto al cinema muto, ma esso sopravvive anche in ambito sonoro, da Laurel e Hardy negli anni Trenta sino a Peter Sellers nei Sessanta, passando per Jerry Lewis. Ad esempio, in Hollywood Party (The Party, 1968) di Blake Edwards, una parodia del mondo hollywoodiano, Peter Sellers spesso suscita il riso senza l’ausilio della parola, attraverso il solo uso del proprio corpo. La vicenda canonica della comedian comedy, osserva Stuart Kaminsky, è quella di un individuo che «cerca di stare al passo con la propria cultura, le cui avventure comiche derivano innanzitutto dall’incapacità di inserirsi nella propria società»1. È una tipologia di personaggio che trova la sua rappresentazione più emblematica nella maschera chapliniana di Charlot, il vagabondo che non sa (e non vuole) trovare una collocazione stabile all’interno del tessuto sociale. In Tempi moderni (Modern Times, 1936), ad esempio, Chaplin (al contempo regista e attore) non riesce ad adeguarsi ai ritmi frenetici del lavoro di fabbrica e, alla fine, riprende la vita di È

vagabondo che caratterizza Charlot. È vero che in Tempi moderni, come in altri film dell’autore, il protagonista è affiancato da una figura femminile (Paulette Goddard), ma l’attrice viene relegata in secondo piano, schiacciata dall’esuberanza del comedian. Nella romantic comedy, invece, abbiamo due personaggi, uno maschile e uno femminile, che sono pienamente co-protagonisti, combattenti di pari dignità nell’eterna lotta tra i due sessi. In questo senso, la romantic comedy è l’erede novecentesco di una lunga tradizione che risale al teatro greco. Scrive in proposito Northrop Frye, in un testo chiave della teoria della letteratura: La struttura della trama della commedia nuova greca, come ci è stata trasmessa da Plauto e Terenzio – in se stessa non tanto una forma quanto una formula – è diventata la base della maggior parte delle commedie fino ai nostri giorni. […] Quel che di solito accade nella commedia è che un giovane vuole una ragazza, ma il suo desiderio è ostacolato da una opposizione, per lo più paterna, finché, verso la conclusione, la trama prende improvvisamente una piega diversa e l’eroe può soddisfare la sua volontà2.

Nella commedia greco-latina, generalmente, l’ostacolo al trionfo dell’amore è rappresentato dalla differenza di classe tra gli innamorati, e viene superato con l’agnizione (riconoscimento): nel finale si scopre che la fanciulla, che fino a quel momento si credeva di umili origini, in realtà è figlia di aristocratici. Nell’America del XX secolo la democrazia permette di risolvere le questioni legate al censo senza l’agnizione: in Sabrina (id., 1954) di Billy Wilder, Audrey Hepburn, figlia dell’autista di una famiglia dell’alta borghesia, può liberamente convolare a nozze con il datore di lavoro del padre (Humphrey Bogart). Per la verità, qualche volta le barriere di casta sono effettivamente insormontabili, come in Vacanze romane (Roman Holiday, 1953) di William Wyler, in cui l’amore tra la principessa europea (ancora Audrey Hepburn) e il giornalista spiantato americano (Gregory Peck) rimane solo potenziale. Vacanze romane è però un’eccezione e in uno dei film fondativi del genere, Accadde una notte (It Happened One Night, 1934) di Frank Capra, un altro giornalista in bolletta (Clark Gable) sposa una ricca ereditiera (Claudette Colbert), benché i due litighino per tutto il film e lei sia già promessa a un uomo del

suo milieu. Infatti, nella romantic comedy, poiché le diversità di status sociale costituiscono un problema modesto, uno degli impedimenti canonici, necessari per costruire il racconto, è rappresentato proprio dal fatto che i due protagonisti sulle prime si detestano e/o che uno dei due dovrebbe sposare qualcun altro. Stanley Cavell, in uno dei libri più importanti sulla romantic comedy, parla di commedia del ‘rimatrimonio’: lui e lei divorziano nelle scene iniziali (o hanno già divorziato), uno dei due vorrebbe risposarsi con una terza persona, ma alla fine la coppia si ricompone3. Troviamo esempi di questo modello in tutto il cinema hollywoodiano degli anni Trenta, da Ventesimo secolo (Twentieth Century, 1934) di Howard Hawks a Scandalo a Filadelfia, passando per L’orribile verità (The Awful Truth, 1937) di Leo McCarey. Ovviamente, nella romantic comedy la comicità non è tanto di natura fisica, quanto piuttosto verbale: il riso è generato dal wit, dall’ironia della trama e delle battute. Per questo la romantic comedy – per quanto sia possibile trovarne alcuni esempi già in epoca muta, come Maschio e femmina (Male and Female, 1919) di Cecil B. De Mille oppure Cosetta (It, 1927) di Clarence Badger – è sostanzialmente legata al cinema sonoro, che offre la possibilità del dialogo. Ed è proprio per il ritmo e l’arguzia dei loro dialoghi che molte commedie hollywoodiane degli anni Trenta sono definite ‘brillanti’ o anche ‘sofisticate’4.

ALTRE STORIE D’AMORE: IL MUSICAL E IL MELODRAMMA La commedia romantica, in virtù del suo nucleo tematico, confina con altri due generi: il musical da un lato, e il melodramma dall’altro. Certo, nel musical non deve esserci necessariamente una vicenda sentimentale, né tale vicenda deve per forza avere un lieto fine. Il mago di Oz (The Wizard of Oz, 1939) non parla d’amore. West Side Story (id., 1961), che innova profondamente il pattern del musical americano (alcune scene sono girate in ambienti reali, cosa allora inusitata), presenta un plot drammatico che si chiude con la morte del protagonista. Ma la maggior parte dei musical del periodo classico racconta una storia d’amore utilizzando le stesse formule narrative della commedia. Cappello a cilindro (Top Hat, 1935), ad esempio, costruisce la love story tra Fred Astaire e Ginger Rogers attorno al meccanismo canonico dello scambio di persona con agnizione finale:

solo all’ultimo lei scopre che lui non è sposato, come invece credeva. Non per niente, molti registi hanno praticato entrambi i generi. Basti pensare a Ernst Lubitsch, che incontriamo alle origini tanto del musical quanto della commedia. Nel 1929 Lubitsch gira Il principe consorte (The Love Parade), uno dei primi esempi di musical (anche se il termine non è ancora in uso: all’epoca il film viene definito ‘operetta’), e agli inizi del decennio successivo realizza alcune delle commedie sofisticate più famose, come Mancia competente (Trouble in Paradise, 1932) e Partita a quattro (Design for Living, 1933). Il melodramma, invece, rappresenta il ‘lato oscuro’ dell’amore, e narra storie dall’esito tragico, o comunque assai tormentate prima di giungere all’happy end. Molti di questi film – Amore sublime (Stella Dallas, 1937) di King Vidor, La figlia del vento (Jezebel, 1938) di William Wyler – hanno al centro un’eroina votata al sacrificio. Si tratta di un filone che va sotto il nome di women’s film (‘film per le donne’), o anche weepie (‘film lacrimevole’), pensato in primo luogo per il pubblico femminile, laddove la commedia si rivolge agli spettatori di ambo i sessi. Dopo la seconda guerra mondiale, l’autore per eccellenza del melodramma hollywoodiano sarà Douglas Sirk, con film quali Magnifica ossessione (Magnificent Obsession, 1953) e Come le foglie al vento (Written on the Wind, 1956). Come sempre avviene nel complesso universo dei generi, gli ibridi tra commedia e melodramma abbondano. Basti citare Un amore splendido (An Affair to Remember, 1957) di Leo McCarey, love story hollywoodiana per antonomasia, con Cary Grant e Deborah Kerr, che inizia come una romantic comedy per poi trasformarsi in un weepie.

Un altro termine che si utilizza a proposito della commedia hollywoodiana è screwball (letteralmente: ‘pazzo’, ‘svitato’), con il quale si indica la linea della romantic comedy più vicina al comico. I personaggi della screwball comedy sono lunatics (‘lunatici’), come si definiscono i due eroi dell’Orribile verità, Cary Grant – autentica icona di questo filone – e Irene Dunne: adulti che si comportano da bambini, al centro di avventure assurde. Sui confini, sia temporali sia filmografici, della screwball comedy non c’è accordo tra gli studiosi: alcuni tendono quasi a far coincidere la screwball comedy con la commedia degli anni Trenta e Quaranta tout court, mentre altri riducono il campo a un numero di anni e di titoli molto ristretto. Senza scendere nel dettaglio del dibattito storiografico, possiamo dire che la screwball comedy inizia a metà degli anni Trenta, con Accadde una notte e Ventesimo secolo, passa attraverso due capolavori quali L’orribile verità e Susanna! (Bringing Up Baby, 1938) di Howard Hawks, e si esaurisce negli anni del secondo conflitto mondiale, anche se

ne troviamo ancora traccia nel periodo postbellico, in film come Infedelmente tua (Unfaithfully Yours, 1948) di Preston Sturges, Ero uno sposo di guerra (I Was a Male War Bride, 1949) e Il magnifico scherzo (Monkey Business, 1952), entrambi diretti da Hawks. La screwball comedy, come indica il suo stesso nome, è caratterizzata da uno spirito anarchico, da una rivolta nei confronti delle regole sociali e dei ruoli sessuali, e da una forte fisicità che spinge la romantic comedy verso lo slapstick. Basti citare Susanna!, in cui Katharine Hepburn, una ragazza ricca e decisamente eccentrica, dà la caccia a Cary Grant, un mite paleontologo, con l’ausilio di un leopardo. Tutto il film è costruito attorno a situazioni paradossali, in cui il personaggio maschile, ingannato e molestato dall’eroina, tenta inutilmente di sfuggire alla fanciulla, di cui alla fine però s’innamorerà suo malgrado. La scena di chiusura è molto indicativa circa la natura di questo sottogenere: Cary Grant è in cima a un’impalcatura, accanto allo scheletro del dinosauro su cui sta lavorando, Katharine Hepburn si arrampica su una scala per parlare con l’uomo e, proprio mentre lui ammette di amarla, lei provoca inavvertitamente il collasso del prezioso reperto preistorico. Il dialogo screwball è caratterizzato dal sistematico sabotaggio delle regole del linguaggio amoroso tradizionale. Cary Grant confessa a Katharine Hepburn di amarla con una formula dubitativa – «Ti amo, credo» – e subito dopo c’è l’implosione dello scheletro: Hawks soffoca il ‘sublime’ della dichiarazione d’amore, istante supremo del rituale di corteggiamento, attraverso il movimento farsesco dello slapstick. Negli anni Cinquanta e Sessanta i toni saranno più pacati: Colazione da Tiffany, uno dei titoli chiave della romantic comedy del periodo, si chiude con un canonico bacio appassionato sotto la pioggia tra Audrey Hepburn e George Peppard, con l’accompagnamento musicale di Moon River. La screwball è legata all’età prebellica: dopo la seconda guerra mondiale i lunatics non troveranno più posto nel cinema americano.

Non per niente, quando Hawks li ripropone per l’ultima volta, nel Magnifico scherzo, deve giustificare le stranezze del protagonista (Cary Grant) facendogli bere una pozione che lo fa regredire all’infanzia. Certo, non tutta la commedia degli anni Cinquanta e Sessanta è del tutto dimentica della spregiudicatezza della screwball. Nel cinema di Billy Wilder, ad esempio, rimane lo spirito sovversivo del passato e il finale dell’Appartamento (The Apartment, 1960), uno dei film più famosi del regista, è molto più vicino a quello di Susanna!, da cui pure lo separano vent’anni, che a quello di Colazione da Tiffany. Jack Lemmon e Shirley MacLaine giocano a carte; lui la guarda adorante e – chiamandola per cognome – le sussurra che l’ama, ma la ragazza risponde: «Stai zitto e dai le carte»5. Nell’America conformista della Guerra Fredda, però, non sono in molti a possedere tale ironia, e le commedie con Rock Hudson e Doris Day – come Il letto racconta… (Pillow Talk, 1959) di Michael Gordon – che furoreggiano in quel periodo sono infinitamente meno graffianti e sottili di quelle degli anni Trenta con Cary Grant e Katharine Hepburn. 2. Howard Hawks, un artista americano Nella Hollywood classica i registi più importanti tendevano a specializzarsi in alcuni generi (Ford faceva western, Hitchcock gialli, Minnelli musical e melodrammi ecc.), al cui interno sviluppare una poetica personale. Tendenzialmente erano i registi di secondo piano, i mestieranti che operavano da semplici impiegati delle Majors, quelli che passavano senza problemi da un genere all’altro. Basti citare il caso di Richard Thorpe, il primo regista del Mago di Oz, il quale, in 44 anni di attività, diresse quasi duecento film, tra cui si trovano western, la serie di Tarzan, musical, commedie, film in costume. Da questo punto di vista, quello di Howard Hawks è un caso assolutamente anomalo. Infatti, nel corso della sua lunga carriera (una quarantina di titoli tra il 1926 e il 1970), Hawks si è cimentato nei generi più diversi: gangster movies (Scarface, Scarface: Shame of a Nation, 1932), film d’avventura (Avventurieri dell’aria, Only Angels Have Wings, 1939), film di

guerra (Il sergente York, Sergeant York, 1941), noir (Il grande sonno, The Big Sleep, 1946), western (Il fiume rosso, Red River, 1948), musical (Gli uomini preferiscono le bionde, Gentlemen Prefer Blondes, 1953), film storici (La regina delle piramidi, Land of the Pharaohs, 1955), commedie (le screwball comedies sopra citate). In qualità di produttore e co-regista (non accreditato) della Cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby (di cui farà un remake John Carpenter nel 1982), Hawks si è persino misurato con la fantascienza, un genere di serie B cui nessun altro grande cineasta della Hollywood classica si avvicinò. Non per niente, nel quadro della comunità hollywoodiana, Hawks fu sempre considerato un buon regista commerciale, ma non ottenne mai la stima di cui godevano colleghi quali John Ford o Alfred Hitchcock. La ‘scoperta’ di Hawks avvenne in Francia, negli anni Cinquanta, grazie ai «Cahiers du cinéma». I giovani critici della rivista rivendicarono la natura artistica del lavoro di Hawks, in quanto – asserivano – al di sotto dell’apparente disomogeneità della sua filmografia è reperibile una forte coerenza interna: uno stile personale e un insieme di temi ricorrenti che fanno della produzione hawksiana il corpus di un autore6. I film di Hawks raccontano spesso la stessa vicenda, per quanto collocata in contesti spazio-temporali molto diversi: un piccolo gruppo di uomini, sostanzialmente privi di legami con la società che li circonda, si misura in una sfida ardua che metterà alla prova le loro capacità. Si tratta di un universo eminentemente maschile, dominato dall’amicizia virile e dal culto del professionismo, in cui però le donne trovano spazio, anche se a fatica. E se Jean Arthur in Avventurieri dell’aria o Angie Dickinson in Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959) si presentano come personaggi femminili di tipo sostanzialmente tradizionale, altre eroine hawksiane conquistano il cuore dell’eroe assumendo comportamenti che, nelle convenzioni del cinema classico, sono considerati appannaggio degli uomini. È il caso di Lauren Bacall in Acque del Sud (To Have and Have Not, 1944), la quale affascina Humphrey Bogart dimostrandogli di essere insolente e

portata all’azione tanto quanto lui. Ed è proprio qui, nella costruzione di figure femminili anomale, che risiede uno dei maggiori elementi di continuità tra le commedie di Hawks e gli altri suoi film: Katharine Hepburn in Susanna! e Rosalind Russell nella Signora del venerdì (His Girl Friday, 1940) sono compagne di gioco e d’avventura del protagonista maschile (Cary Grant in entrambi i film), con il quale stabiliscono un rapporto paritario affine a quello tra Bacall e Bogart in Acque del Sud. 3. «La rubo e la rifaccio»: «La signora del venerdì» e la commedia degli anni Trenta La signora del venerdì, un titolo chiave della screwball comedy, ci offre la possibilità di verificare come un film possa essere al contempo interno al lavoro personale di un autore e parte integrante di un orizzonte più ampio, qual è appunto il genere. Ad esempio, la presenza di un personaggio femminile volitivo, che agisce come pal (un termine gergale, caratteristico dell’immaginario maschile americano, che equivale al nostro ‘amico per la pelle’) dell’uomo, è certamente un tratto tipico del cinema di Hawks, ma è anche un elemento ricorrente della screwball comedy e, più in generale, di tutta la commedia degli anni Trenta, dove abbondano le coppie di amanti-compagni di avventure, dai due ladri di Mancia competente (Miriam Hopkins e Herbert Marshall) al duo on the road di Accadde una notte. Nella Signora del venerdì, certo, ritroviamo lo stile e i temi caratteristici di Hawks, ma vi affiorano anche legami con film di altri registi, a partire dal fatto che si tratta di un remake. Infatti, La signora del venerdì è la seconda riduzione cinematografica di una pièce di Ben Hecht e Charles MacArthur, Prima pagina (The Front Page), portata sullo schermo per la prima volta da Lewis Milestone nel 1931 (e che sarà rifatta nel 1974 da Billy Wilder)7. Tutta la romantic comedy degli anni Trenta e Quaranta risente dell’influenza del teatro. Non solo diversi film – Partita a quattro e Scrivimi fermo posta (The Shop around the Corner, 1940) di Lubitsch, Pranzo alle otto (Dinner at Eight, 1933) di Cukor – sono tratti da commedie teatrali ma, più in

generale, la brillantezza dei dialoghi di cui si diceva deriva largamente della lezione dei commediografi del tempo (l’inglese Noël Coward in primo luogo), che spesso vengono assunti da Hollywood come sceneggiatori. A questi si aggiungono gli scrittori cresciuti nei quotidiani, che contribuiscono anch’essi alla verve delle commedie hollywoodiane. In tal senso, è assai significativo proprio il caso di Ben Hecht, che debutta nel giornalismo, per passare poi al teatro e al cinema, collaborando ad alcuni film di Hawks tra cui appunto La signora del venerdì, anche se non accreditato (la sceneggiatura è attribuita in toto a Charles Lederer, che aveva già lavorato alla versione di Milestone). Nel libro-intervista di Joseph McBride, Hawks afferma più volte di ‘rubare’ dai film degli altri, o anche dai propri: «Ci sono delle scene nei suoi film che ha rivisto e di cui poi ha pensato: ‘Oh, quella è piatta, avrei dovuto farla in modo diverso’? Certo. Ecco perché la rubo e la rifaccio»8. Il remake è ovviamente una forma di ‘furto’, e Hawks arrivò al punto di realizzare remake di suoi propri film, come nel caso di Un dollaro d’onore/El Dorado (id., 1967). Ma nel cinema di Hawks, accanto alla rielaborazione di materiali prelevati da altri film, c’è anche lo scarto rispetto alla norma, l’innovazione geniale e spiazzante. In Prima pagina (sia la pièce, sia il film di Milestone), i protagonisti sono due uomini: il direttore di un giornale e il suo miglior reporter. Quest’ultimo vuole sposarsi e cambiare lavoro, ma l’altro cerca di impedire le nozze in tutti i modi, per non perdere un collaboratore prezioso. È un tipo di vicenda che Hawks ha narrato molte volte. Da una parte ci sono l’amicizia virile e il mito del professionismo (che siano giornalisti, piloti o cowboy poco importa: ciò che conta è ‘fare un buon lavoro’), dall’altra c’è la ‘minaccia’ di una ragazza, che strappa l’uomo al rapporto privilegiato con i suoi pals. Nella Signora del venerdì, però, Hawks compie una sterzata inaspettata e trasforma il personaggio del reporter in una donna. La signora del venerdì, una tipica commedia del ‘rimatrimonio’, racconta della difficile storia d’amore tra

Hildy Johnson (Rosalind Russell) e Walter Burns (Cary Grant), rispettivamente giornalista e direttore del «Morning Post», un combattivo quotidiano di Chicago. All’inizio del film i due hanno appena divorziato e la donna si reca in redazione ad annunciare all’ex consorte che sta per risposarsi con Bruce Baldwin (Ralph Bellamy), un opaco assicuratore che, contrariamente a Walter, può garantirle una vita ‘normale’, ossia una casa e dei figli, laddove il primo matrimonio era stato caratterizzato da un’immersione totalizzante della coppia nella dimensione lavorativa. Walter, un personaggio esuberante e spregiudicato, agli antipodi del timido e goffo Bruce, inizia a tessere subdole trame per annullare le nozze. Con l’ausilio di Louie, un gangster italoamericano che gli fa da ‘assistente’, e di Vangie, un’appariscente bionda platino, Walter riesce per ben due volte a far incarcerare Bruce con delle false accuse (rispettivamente, furto dell’orologio di Louie e molestie nei confronti della ragazza). Ma l’arma con cui Walter riconquisterà il cuore di Hildy è un’altra: il lavoro. La donna, nonostante all’inizio dichiari di voler smettere di fare la vita randagia dei cronisti, in realtà è nata per fare il reporter, e quando Walter, sempre con un inganno, la convince a seguire il caso di Earl Williams (John Qualen, un caratterista che abbiamo già incontrato nel capitolo terzo), lei non sa resistere. Williams deve essere impiccato e il corrotto sindaco di Chicago vuole sfruttare la sua esecuzione a fini elettorali. Dopo una serie di intricate avventure, Walter e Hildy riescono a salvare il condannato e a far fallire i piani del primo cittadino, mentre Bruce riparte tristemente per la natia Albany (una cittadina di provincia, capitale dello Stato di New York) in compagnia della madre. Il film si chiude su Walter e Hildy che progettano un nuovo viaggio di nozze alla cascate del Niagara, anche se l’uomo già propone una tappa proprio ad Albany, per seguire lo svolgimento di uno sciopero appena iniziato. Anche solo da questo breve riassunto risulta chiara la natura del personaggio di Hildy e del suo rapporto con Walter. All’inizio Hildy sembra desiderare un uomo con il quale

costruire una famiglia tradizionale, e si secca per la mancanza di cavalleria di Walter, il quale non le accende le sigarette e non la lascia passare per prima dalle porte. Ma Hildy è una donna che lavora, libera e intelligente, e la sua natura profonda le impedisce di realizzare quel sogno domestico che pure vagheggia. Rosalind Russell sfoggia gli abiti eleganti e gli assurdi cappellini tipici delle attrici della romantic comedy degli anni Trenta, ma quando si mette a scrivere l’articolo su Earl Williams si tira su la falda, trasformando il copricapo in un cappellaccio da cowboy, negando così la propria femminilità. Allo stesso modo, nella scena in cui si lancia all’inseguimento di un testimone che cerca di sottrarsi alle sue domande, Hildy, impacciata dai suoi indumenti femminili, si solleva la gonna per correre meglio, e poi ferma l’uomo con un placcaggio da giocatore di football. Insomma, Hildy è il collega più fidato di Walter, il suo ‘fratello in armi’ nella battaglia quotidiana del «Morning Post», il suo pal. Lei stessa si definisce con questo termine squisitamente maschile, nella scena in cui saluta i colleghi della sala stampa, quando crede ancora di essere sul punto di partire con Bruce e lasciarsi alle spalle il mondo del giornalismo: «Non dimenticatevi del vostro pal Hildy Johnson». Da questo punto di vista, la traduzione italiana non rende il senso del titolo originale: His Girl Friday, infatti, alla lettera suonerebbe come ‘la sua ragazza Venerdì’, con un’allusione al compagno di Robinson Crusoe. La scena del ristorante, all’inizio del film, quando Walter, Hildy e Bruce pranzano insieme, è già chiarissima sul fatto che sarà il primo a vincere la tenzone amorosa, perché tra Cary Grant e Rosalind Russell c’è una sintonia perfetta, anche sei lei qui sembra detestarlo, mentre Bruce è visibilmente fuori posto. Walter e Hildy fumano e bevono caffè corretto con il rhum, mentre Bruce non tocca né sigarette né alcolici. Walter e Hildy si scambiano battute sferzanti e rapidissime, tanto che a volte è difficile stare dietro al vortice di parole (Hawks aveva iniziato a creare dialoghi veloci già in Ventesimo secolo, ma qui il ritmo è decisamente superiore). Nella screwball comedy i personaggi rifiutano il

linguaggio canonico dell’amore, però parlano moltissimo: anzi, è proprio parlando che si innamorano. È scontato che alla fine Hildy sceglierà Walter anziché Bruce non solo perché il primo è interpretato da uno dei divi più fascinosi della storia del cinema hollywoodiano, ma anche perché egli dimostra una capacità oratoria sconosciuta al rivale. E i dialoghi della Signora del venerdì, oltre che molto rapidi e pieni di ironia, sono anche ricchi di allusioni sessuali. Per ottemperare alle regole del Codice Hays, infatti, registi e sceneggiatori delle commedie svilupparono tecniche raffinate per far ridere gli adulti senza turbare i più giovani, giocando sul doppio senso. Ad esempio, quando Bruce si lamenta con Hildy di non trovare più il portafogli (rubatogli da Louie), la donna risponde: «Troverai che mancano molte cose», con un riferimento obliquo al fatto che non è più vergine.

10. La signora del venerdì (1940) di Howard Hawks.

La scena del ristorante, però, è interessante anche per altre ragioni. In primo luogo, qui emerge un elemento tipico della romantic comedy, ossia la sua vocazione metropolitana. Quando Bruce spiega candidamente che dopo il matrimonio

vivranno ad Albany, insieme alla madre di lui, Walter inizia a prendere in giro i promessi sposi (anche se, ovviamente, Bruce non se ne rende conto) circa la ‘fortuna’ di abitare in quella ‘ridente cittadina’. Per quanto alcune commedie abbiano un’ambientazione parzialmente (Susanna!, L’orribile verità), o anche totalmente (Accade una notte, Scandalo a Filadelfia), extraurbana, lo spazio naturale della romantic comedy è la grande città (New York essenzialmente), e l’ironia su coloro che vivono in provincia – gli abitanti di Des Moines (Iowa) in Partita a quattro, o quelli di Pittsburgh (Pennsylvania) nei Dimenticati (Sullivan’s Travels, 1941) di Preston Sturges – è sistematica. L’ambiente moderno e cosmopolita della grande città rappresenta lo sfondo naturale della commedia degli anni Trenta, con i suoi personaggi che sorseggiano cocktail e si scambiano battute argute. D’altra parte, il semplice fatto che Walter e Hildy siano giornalisti è significativo: quella del reporter d’assalto, cinico e pronto a tutto, è una professione eminentemente metropolitana, che infatti caratterizza i protagonisti di molte commedie del periodo, da Accadde una notte a La donna del giorno (Woman of the Year, 1942) di George Stevens, passando per Nulla sul serio (Nothing Sacred, 1937) di William Wellman.

11. La signora del venerdì (1940) di Howard Hawks.

Inoltre, la scena del ristorante è importante anche perché qui Hawks dà prova della sua ‘cleptomania’, rifacendo quasi alla lettera un dialogo dell’Orribile verità, dove Cary Grant già si beffava di Ralph Bellamy, il quale progettava di portare l’ex moglie dell’altro a vivere a Oklahoma City (e anche qui il povero Bellamy finiva miseramente sconfitto). Hawks ruba dal film di McCarey, uscito solo tre anni primi, e non lo nasconde, anzi: ostenta – come anche in Susanna! – le dinamiche di interscambio tra i testi che compongono il genere. Più in generale, poiché la screwball comedy è un tipo di spettacolo ‘leggero’, che non ha l’obbligo permanente dell’illusione di realtà, la propensione della Hollywood classica ai giochi di natura metadiscorsiva vi emerge in maniera particolarmente evidente9. Nella Signora del venerdì troviamo due esempi eclatanti di questa tendenza. Nella scena in cui la ‘pupa’ platinata viene incaricata di ‘incastrare’ Bruce, la ragazza chiede a Walter come potrà riconoscerlo ed egli risponde: «Assomiglia a quel tizio del cinema, sai… Ralph Bellamy». Verso la fine del film Walter risponde a una

minaccia del sindaco dicendogli: «L’ultimo uomo che mi ha detto questo era Archie Leach, una settimana prima di tagliarsi la gola». Archie Leach era il vero nome di Cary Grant.

12. L’orribile verità (1937) di Leo McCarey.

Nella Signora del venerdì, però, sotto questa apparenza scanzonata, c’è dell’altro. Il film, infatti, è costruito su un delicato equilibrio tra commedia e tragedia: in primo piano campeggia la storia d’amore screwball, ma sullo sfondo ci sono un uomo che sta per essere impiccato e una città in mano a politici senza scrupoli. Nella commedia degli anni Trenta e Quaranta, per quanto le storie siano condotte volutamente su un registro frivolo, non mancano richiami ai problemi politici e sociali. In Pranzo alle otto, ad esempio, vi sono continui riferimenti alla Grande Depressione, mentre Vogliamo vivere (To Be or Not To Be, 1942) di Lubitsch parla delle persecuzioni razziali a opera della Germania nazista. Nella Signora del venerdì la realtà dell’epoca affiora chiaramente: la denuncia della corruzione della classe dirigente di Chicago, cui Walter contrappone il modello

positivo del sindaco riformatore di New York Fiorello La Guardia, o la battuta di Cary Grant su Hitler (quando il protagonista ordina a uno dei suoi redattori di rifare la prima pagina, per dar spazio alla vicenda Williams, dice di relegare il Führer nella pagina dei fumetti). Ma la dimensione drammatica della Signora del venerdì è rappresentata soprattutto dall’incombenza del tema della morte. Buona parte del film, infatti, si svolge all’interno del carcere, letteralmente all’ombra della forca, e a un certo punto c’è addirittura una scena di semi-suicidio, in cui Molly, una ragazza legata a Williams, si lancia fuori dalla finestra (ma non muore) pur di non rivelare dove si trova l’uomo, appena evaso. Stanley Cavell parla di «cupezza del film», e lega questo elemento alla quasi totale assenza di musica che caratterizza La signora del venerdì10. La mancanza di musica di commento in un film del 1940 è effettivamente molto anomala. Questa scelta di Hawks è certo legata alla disarticolazione della retorica canonica della love story che abbiamo detto essere tipica della screwball: se Walter e Hildy si corteggiano in modo anticonvenzionale, parlando di lavoro anziché dei loro sentimenti, non hanno certo bisogno di un motivetto romantico che accompagni lo sviluppo della loro relazione. In verità, però, nella Signora del venerdì un po’ di musica romantica c’è, ed è nel finale, quando Hildy si mette a piangere. Nell’ultima scena, dopo che Bruce è andato via, Hildy, confusa, scoppia in lacrime perché si rende conto di amare ancora Walter. In questo momento Hildy sveste i panni del pal e torna a essere una donna. Ma si tratta solo di un breve istante. Subito dopo, l’universo assurdo della screwball comedy prende di nuovo il sopravvento: Hildy e Walter escono dalla sala stampa, lui – per l’ennesima volta – varca per primo la soglia, parlando della necessità di conciliare il viaggio di nozze con il servizio sullo sciopero, mentre lei lo segue portando i bagagli, come una fedele ‘ragazza Venerdì’.  

S.M. Kaminsky, Generi cinematografici americani, trad. it., Pratiche, Parma 1997, p. 169. 1

2

N. Frye, Anatomia della critica, trad. it., Einaudi, Torino 1969, pp. 216-17.

Cfr. S. Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, trad. it., Einaudi, Torino 1999. Per un’introduzione complessiva in lingua italiana alla commedia americana si veda G. Fink, «Gaio e tragico! Breve e interminabile!». Le frontiere della commedia, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, 5 voll., Einaudi, Torino 2000, vol. II, t. II, Gli Stati Uniti, pp. 1019-48. 3

In Italia si usa anche la formula ‘commedia americana’, per distinguerla dalla ‘commedia all’italiana’, generalmente di ambientazione popolare, laddove quella hollywoodiana ha sempre uno sfondo borghese. 4

Si tratta della traduzione letterale della battuta originale («Shut up and deal»), laddove il doppiaggio italiano («Fa’ le carte e poi ridimmelo») ammorbidisce notevolmente il senso della frase. Proprio per rendere a pieno le sfumature dei dialoghi, anche le altre battute citate in questo capitolo sono traduzioni nostre dell’originale inglese. 5

Sulla fortuna critica di Hawks si veda J. Hillier e P. Wollen (a cura di), Howard Hawks: American Artist, British Film Institute, London 1996. In italiano su Hawks si può leggere: J. McBride, Il cinema secondo Hawks, trad. it., Pratiche, Parma 1992; B. Grespi, Howard Hawks, Le Mani, Recco 2004. Circa la nozione di autore, rimandiamo al capitolo settimo. 6

Della commedia di Hecht e MacArthur esiste anche una quarta riduzione cinematografica, molto meno significativa delle tre precedenti: Cambio marito (Switching Channels, 1988) di Ted Kotcheff. 7

8

J. McBride, Il cinema secondo Hawks cit., p. 52.

Un metadiscorso è un discorso che parla di se stesso. In un film un elemento metadiscorsivo è un’allusione a un altro film, o al cinema in quanto tale. La produzione della Hollywood classica abbonda di rimandi ironici di questo tipo. Si prenda ad esempio Sciarada (Charade, 1963) di Stanley Donen, anch’esso interpretato da Cary Grant. In questo thriller (ibridato con la commedia) ci sono una battuta su Gene Kelly, attore e co-regista di vari musical dello stesso Donen, e un’altra su Grace Kelly, partner di Grant in alcuni dei più importanti gialli di Hitchcock. 9

10

Cfr. S. Cavell, Alla ricerca della felicità cit., p. 259.

V.

I generi e l’universo narrativo: il noir. «Vertigine»

1. «What Is This Thing Called Noir?»2. La definizione di «noir» Punto di derivazione di diverse fonti, tradizioni e tipologie letterarie, il noir cinematografico, o meglio il film noir, vive di uno statuto incerto, indistinto, a diversi livelli. A partire dalla sua stessa definizione: basta sfogliare qualche dizionario dei generi cinematografici per rendersi conto che non esiste una definizione soddisfacente di ciò che, tuttavia, bene intendiamo e riconosciamo come film noir. Da un lato, infatti, il genere è perlopiù considerato un ‘sottogenere’, e allora la voce da consultare è quella del ‘film giallo’ – dove ci si imbatte in un vasto territorio, anche in senso geografico, in cui è possibile spaziare da Rebecca, la prima moglie di Hitchcock (Rebecca, 1939) a L’avventura di Antonioni (1960) – oppure del film ‘criminale’, in cui il noir emerge come peculiare accezione di questo universo, tra il gangster film e altri sottogeneri a sfondo variamente poliziesco; dall’altro, inoltre, i suoi contorni si presentano assai sfumati. Se l’espressione ‘film noir’, introdotta dalla critica francese nel secondo dopoguerra, si riferisce, nella più corrente delle accezioni, al noir americano degli anni Quaranta (ed è l’accezione che qui interessa), questo panorama non si presenta tuttavia così precisamente delineato. Una prima ragione di questa incertezza riguarda proprio il fatto che la denominazione stessa si presenta in quanto categoria critica, e cioè definizione a posteriori, elaborata appunto in sede di analisi critica, piuttosto che non come categoria produttiva esplicitamente in opera negli studios hollywoodiani. E per quanto tale definizione appaia piuttosto precocemente, fin dal 19462, opportunamente James Naremore, in uno studio recente sul noir, sottolinea che essa «appartiene alla storia delle idee quanto a quella del cinema»3. Il dibattito critico e le diverse proposte di definizione, che lo stesso Naremore ricostruisce e discute, risultano in generale non soltanto numerose e variegate, ma anche piuttosto contraddittorie e talvolta pretestuose o vaghe4, come molti contributi contemporanei tendono a evidenziare5. Tuttavia, a ben vedere, nell’ambito di questa ampia tradizione critica, non soltanto l’idea di film noir viene comunque associata a una serie di tratti narrativi, tematici e stilistici che sostanzialmente appaiono piuttosto stabili e riconoscibili, ma soprattutto i riferimenti, le analisi, gli esempi si rifanno, in buona misura, a una determinata produzione hollywoodiana e dunque a una ben precisa serie di film prodotti nel periodo di cui ci occupiamo, accomunati da caratteristiche, riferimenti e analogie piuttosto evidenti. Dunque, senza dimenticare le cautele e le perplessità del dibattito recente, esiste una narrativa cinematografica definita e percepita come noir che costituisce una delle tendenze più tipiche e rappresentative dell’universo hollywoodiano classico, oltreché uno degli oggetti di culto più stabili della cinefilia. Da questo punto di

vista non è inutile tornare ai critici francesi che hanno iniziato ‘a caldo’ a parlare di film noir, coniando la definizione in analogia con i romanzi polizieschi della «Série Noire» pubblicata in Francia dall’editore Gallimard, partendo da film come Il mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941), di John Huston, La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944) di Billy Wilder, Vertigine (Laura, 1944) di Otto L. Preminger, L’ombra del passato (Murder My Sweet, 1944) di Edward Dmytryk e, infine, Il postino suona sempre due volte (The Postman Always Rings Twice, 1946) di Tay Garnett. Tali film, messi inoltre in relazione con pellicole francesi come Il porto delle nebbie (Quai des brumes, 1938) e Albergo Nord (Hôtel du Nord, 1938), di Marcel Carné, vengono individuati come una ben precisa tendenza all’interno della produzione hollywoodiana, di cui viene sottolineato da un lato l’elemento appunto ‘nero’, l’atmosfera cupa e pessimista, e dall’altro anche un certo realismo o crudezza di rappresentazione che motivano il confronto con gli esempi europei citati. A metà degli anni Cinquanta è poi il celebre Panorama du film noir américain di Raymond Borde ed Etienne Chaumeton a fornire un quadro più sistematico, nonché un indice cronologico del genere, che comprende sia film come i già citati Mistero del falco e Vertigine, ma anche Il grande sonno (The Big Sleep, 1946) di Howard Hawks, e Rebecca, la prima moglie di Hitchcock, specificandone magari l’appartenenza a un determinato filone. I due autori vedono nel periodo 1941-1945 quello della «formazione di uno stile», che conclude il suo «apogeo» nel 1948, per esaurirsi all’inizio degli anni Cinquanta. Senza entrare nel merito di una datazione così precisa e certamente discutibile, anche se sostanzialmente ripresa, invece, in un noto studio di Paul Schrader6, il panorama delineato dai due autori francesi risulta nitidamente riconoscibile in base a elementi che vengono definiti in termini di «stile, atmosfera, soggetto» (e anche Schrader parla di «sottili qualità di tono e atmosfera»). Da questo punto di vista, più che il realismo già notato dagli studi precedenti, da qui in poi è piuttosto la dimensione onirica e spesso allucinata a contraddistinguere il ‘genere’, laddove l’ambientazione e la tematica criminale sono espressione di un malessere e di una patologia che hanno a che fare con la depressione e il disorientamento della società americana del periodo bellico e postbellico, insieme a influenze e fonti diverse. Semplificando, queste riguardano innanzitutto quella letteratura nera che fa riferimento alla scuola statunitense definita hard-boiled (cioè, a scrittori come Dashiell Hammett, Raymond Chandler, James Cain e altri, da cui per altro sono tratti, rispettivamente, Il mistero del falco, Il grande sonno e Il postino suona sempre due volte, per limitarci a film già citati). Per quanto riguarda l’universo stilistico più propriamente cinematografico, è notevole l’influenza dell’espressionismo tedesco, anche in relazione alla presenza di molti registi o tecnici emigrati a Hollywood dalla Germania, autori o collaboratori di moltissimi film noir (tra i registi, lo stesso Otto L. Preminger, Billy Wilder, Robert Siodmak, Edgar Ulmer, per citarne solo alcuni). Un’altra componente forte è l’influenza della psicanalisi, in relazione alla grande diffusione ‘popolare’ della dottrina di Freud in America negli anni Trenta. In effetti, è vero che, al di là della semplificazione e degli errori di traduzione dell’opera di Freud, la vulgata psicanalitica viene a interessare da vicino Hollywood (e significativamente, come ricorda Gandini, «nel 1939 sono molti i produttori cinematografici che si abbonano alla ‘Psychoanalytical Review’»7), fornendo stimoli e temi all’espressione di un disagio sociale generalizzato che viene a coincidere e confondersi spesso con un disagio e un turbamento mentali. Il motivo del sogno, tra le più note e fondanti nozioni della psicanalisi freudiana, oltre a

definire quella qualità onirica e allucinata che permea le atmosfere e lo stile iconografico e cinematografico del film noir, viene a definire esplicitamente o implicitamente molti racconti e intrecci di questa produzione. La presenza effettiva di sogni o stati di allucinazione e alterazione mentale, così come quella del ricordo e della rimemorazione, è in effetti un tratto narrativo e tematico tra i più frequenti nel film noir, venendo a interessare anche la struttura stessa del racconto, spesso interrotto o ‘alterato’, nella sua continuità e linearità, da cambiamenti di registro, di statuto narrativo, di temporalità ecc. La dimensione complessiva di onirismo, disorientamento e infine di ambiguità che ne risulta inficia e indebolisce i confini tra realtà e immaginazione, oltreché, finalmente, sul piano morale, le distinzioni tra bene e male, in una confusione che, oltre all’espressionismo tedesco, rimanda anche a molto horror cinematografico; e ciò anche sul piano stilistico. Film come Il bacio della pantera, per esempio, e in generale la produzione di Val Lewton, di cui ci si è già occupati, possono confondere i propri contorni narrativi, tematici, stilistici con molto cinema noir. Del resto, all’inizio degli anni Quaranta, fenomeni di ibridazione dei generi sono anche consapevolmente sollecitati dalla macchina produttiva hollywoodiana8, oltreché legati a dinamiche spontanee e, in molti casi, horror e noir, in particolare, sembrano sovrapponibili. Effetti fotografici come un’illuminazione fortemente contrastata, l’uso di una certa profondità di campo e un’ambientazione claustrofobica e figurativamente stilizzata sono caratteristiche di entrambi i generi, come la tendenza al fantastico, al delirio, al sogno/incubo. Il mondo noir, poi, più specificamente, è normalmente un mondo urbano, notturno, in cui gli esterni non sembrano offrire maggiore spazio e apertura di interni fortemente contrastati e frammentati, in cui muovono personaggi sospinti da destini avversi in trappole spesso mortali. Un mondo i cui contorni spaziali vengono ridefiniti anche da una temporalità complessa, interrotta, come si diceva, da rimemorazioni, fantasie, racconti nel racconto che trovano nel flashback un elemento fondamentale e un topos linguistico caratterizzante. Il racconto, poi, tende frequentemente a organizzarsi su più piste, su più punti di vista, esprimendo soggettività e squilibri individuali che vengono a interessare anche le strutture e i percorsi dell’intreccio, come accade per esempio in un film come Vertigine in cui, a questo proposito, è persino ravvisabile una reminiscenza di Quarto potere9 (Citizen Kane, 1941; cfr. il capitolo settimo). 2. «Vertigine» e il noir. L’universo del sogno, tra letteratura e cinema Torniamo alla questione dei rapporti e dei legami del noir con la letteratura, per poi analizzare il film di Preminger anche dal punto di vista dell’adattamento letterario su cui si basa. Se uno dei percorsi indicati da Borde e Chaumeton è precisamente quello proveniente dal ‘nero’ letterario hammettiano/chandleriano, un altro è quello che accomuna film come Rebecca, la prima moglie di Hitchcock e Vertigine a fonti letterarie variamente definibili come letteratura gialla. Nel primo caso viene rispettata la struttura del tipico romanzo-suspense come la descrive per esempio Todorov proprio riferendosi a Hammett e a Chandler (il delitto è antecedente rispetto al racconto, come nel giallo-enigma, ma la catena delittuosa continua parallelamente all’inchiesta, condotta da un detective non ‘invulnerabile’10). Nel secondo le tipologie del giallo/nero letterario si confondono

o si fondono con strutture narrative estremamente complesse che sviluppano gli spunti letterari (non solo degli intrecci, ma appunto dei meccanismi narrativi) in peculiari forme di racconto che si appoggiano sul flashback, sulle modificazioni del punto di vista, sulle narrazioni soggettive, come si diceva sopra, dando narrativamente vita a quell’effetto di confusione e onirismo di cui si è parlato. Ed è propriamente la dimensione onirica a proiettare su uno sfondo costituzionalmente vago e sfumato l’indistinzione dei confini tra bene e male, innocenza e colpa ecc., in un’indiscernibilità morale che, se in generale è elemento tematico comune al modello del romanzo-suspense, qui tuttavia acquista una sorta di iscrizione nella struttura narrativa, che assume specificità proprie rispetto alle fonti letterarie di partenza. Inoltre, le modalità propriamente cinematografiche di narrazione soggettiva, retrospettiva, ‘onirica’ sembrano consentire una rappresentazione, o meglio una ‘messa in scena’, quasi naturale della dialettica presenza/assenza, vita/morte, realtà/immaginazione che è, in fondo, il cuore o l’essenza del racconto ‘giallo’ nella sua forma più pura. E i personaggi di questa messa in scena, di più o meno diretta derivazione letteraria, diventano nel noir propriamente dei simulacri, dei fantasmi mentali, delle ombre. Ed è proprio in questo senso che il film di Preminger risulta rappresentativo ed esemplare.

13. La donna del ritratto (1944) di Fritz Lang.

Vertigine esce nel 1944. Lo stesso anno della Donna del ritratto (The Lady in the Window) di Fritz Lang e della Donna fantasma (Phantom Lady) di Robert Siodmak. Tre film che rinviano fin dal titolo a un soggetto femminile intorno al quale la narrazione (sia nel senso della storia che del discorso narrativo, vale a dire dei modi di racconto) elabora di volta in volta una peculiare dialettica tra presenza e assenza trovando un denominatore comune e un luogo simbolico diegetizzato, cioè, narrativizzato, in ciascuno dei casi citati, nel motivo del ritratto. Come peraltro già, pochi anni prima, in Rebecca, la prima moglie.

14. Rebecca, la prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock.

Ma se il topos del ritratto11 rinvia di per sé, attraverso una traccia tangibile e iconica, a quel percorso, questa non è che una traccia, appunto – la più vistosa – di un itinerario che si svolge tutto tra simulacri la cui essenza, il cui reale statuto, per così dire ‘ontologico’, resta comunque affatto indecidibile, irrimediabilmente perso in un universo onirico più o meno esplicito o esplicitato come tale (dalla dissolvenza che dà inizio al racconto retrospettivo della giovane Lady de Winter, inaugurando un universo nebbioso e fiabesco in Rebecca, la prima moglie, al sogno che si rivela come tale alla fine del film nella Donna del ritratto). Tuttavia, negli esempi citati, ciò che definisce la qualità specificamente onirica della narrazione e lo statuto di simulacro dei personaggi-spettro che vi agiscono come attori non è tanto (o non solo) la presenza di più o meno evidenti singole cifre stilistiche convenzionalmente deputate ad alludere allo statuto onirico (appunto dissolvenze, effetti flou ecc.), né la esplicita diegetizzazione del sogno o del risveglio, come nel finale del film di Lang. Si tratta piuttosto di una strategia narrativa (e certamente anche stilistica) complessiva che mette in scena, rappresenta degli universi fantasmatici e, appunto, onirici (nelle varie sfumature del ‘sogno’ o dell’‘incubo’). E il caso di Vertigine, per la centralità che vi assume il motivo del simulacro e per l’abilità con cui questo emerge da una logica complessiva che riscrive la struttura del romanzo di partenza – Laura, della scrittrice americana Vera Caspary12 – è straordinariamente pregnante.

15. Vertigine (1944) di Otto L. Preminger.

3. Dal romanzo al film. Dal giallo al noir I dati cronachistici e gli aneddoti riguardanti la tormentata lavorazione del film, tutta parallela alla parimenti tormentata collaborazione (anzi, alla mancata collaborazione) con Vera Caspary per la sceneggiatura – fino al dissenso esplicito della scrittrice nei confronti delle modificazioni attuate rispetto al romanzo –, rendono conto, a un livello immediatamente oggettivo e fattuale, della profonda diversità dei due testi, quello letterario e quello cinematografico; ma soprattutto rendono conto, al di là degli aspetti di tipo più quantitativo o ‘economici’ dell’adattamento (ciò che manca, ciò che si aggiunge, ciò che si sostituisce ecc.), della diversa qualità e «materia dei sogni» raccontata. E si tratta di una qualità e di una materia che Preminger ha conquistato e definito progressivamente e ostinatamente al prezzo di scontri, astuzie, contrattazioni e compromessi con le esigenze dello studio (e più direttamente con le esigenze e le intemperanze del tycoon della Fox David Zanuck). Ed è noto, fra l’altro, come attraverso queste peripezie il film passò dal settore di produzione dei B-movies a quello di ‘serie A’, e Preminger in particolare dal ruolo di producer a quello di regista, nonostante le resistenze di Zanuck che aveva già scelto Rouben Mamoulian. Senza tornare in dettaglio sulle circostanze che consentirono al trentottenne Preminger di dirigere il suo primo ‘vero’ film13, è comunque rilevante notare come, nei limiti di una produzione hollywoodiana classica, il regista riesca via via a controllare pienamente e direttamente tutte le fasi della realizzazione di Vertigine e in particolare il lavoro sulla sceneggiatura. La personalità di Preminger, del resto, porterà il regista a divenire fin dagli anni Cinquanta produttore indipendente, attraversando la storia del cinema hollywoodiano in tutte le sue fasi, e a realizzare come regista, nella sua lunga e ricca carriera, una serie di film sempre innovativi dal punto di vista narrativo o tecnico-stilistico, e spesso spregiudicati tematicamente nonché ideologicamente. Oltre ad alcuni altri noir di particolare intensità (tra cui Il segreto

di una donna, Whirlpool, 1949 e Seduzione mortale, Angel Face, 1952), film come La magnifica preda (River of No Return, 1954), un western atipico in Cinemascope, e Carmen Jones (id., 1954), una versione nera della Carmen di Bizet, testimoniano di una precisa ‘autorialità’ che porterà Preminger a trattare in una rappresentazione crudamente realistica il problema della droga con L’uomo dal braccio d’oro (The Man with the Golden Arm, 1955), dopo aver sfidato il Codice Hays con La vergine sotto il tetto (The Moon is Blue, 1953), e ad affrontare il kolossal con l’adattamento dell’omonimo romanzo di Leon Uris in Exodus (id., 1960)14. Tornando a Vertigine e alla fonte letteraria, era stato Preminger stesso a scegliere il romanzo della Caspary, ed è Preminger a iniziare immediatamente il lavoro sulla sceneggiatura insieme a Jay Dratler, invitando a collaborare anche Vera Caspary, la quale subito esprime il proprio disaccordo a riguardo delle modificazioni apportate al romanzo (segnatamente per l’arma del delitto – nel romanzo, un revolver nascosto nel bastone del giornalista Waldo Lydecker; nel film il fucile da caccia, nascosto nella pendola –, oltre che per la diversa caratterizzazione di Laura). Ma, in effetti, al di là di questi elementi che non sono certo privi di significato (si pensi per esempio ai risvolti tematici della scelta della pendola in riferimento al motivo del tempo, che molta parte ha nel film), è un’operazione di riscrittura più complessiva e generale quella che gli sceneggiatori che via via rielaborano il soggetto insieme a Preminger realizzano a partire dal testo di partenza15. Le modificazioni operate sul romanzo si collocano a diversi livelli. A livello di oggetti, come già si è accennato (il pendolo, il fucile ecc.); a livello di personaggi (non soltanto una diversa connotazione globale del personaggio di Laura – nel film, secondo la Caspary, piatta e convenzionale –, ma anche la diversa caratterizzazione fisica di Waldo, con la scelta di un attore come Clion Webb, magro al contrario del Waldo obeso del libro, e più anziano); ma, soprattutto, a livello di struttura e strategia narrativa, con l’eliminazione di tutti i racconti esplicitamente retrospettivi del romanzo, a esclusione di quello di Waldo, con il risultato che alla strategia ‘pirandelliana’ del punto di vista del testo scritto – anche se i diversi racconti non si smentiscono l’un l’altro – il film ne sostituisce una nuova, volutamente ambigua, vero perno strutturale e semantico del film, e supporto quindi di quella materia onirica di cui si accennava, forma e sostanza inattingibile di una realtà di puri simulacri. Il testo della Caspary costruisce e racconta la storia della morte e del ritorno di Laura attraverso cinque differenti narrazioni – tutte retrospettive e in prima persona, a eccezione del caso relativo al personaggio di Shelby Carpenter (Jimmy, nella versione originale del film) – perfettamente riconducibili a diversi soggetti, a diverse strategie enunciative, a diversi punti di vista, corrispondenti anche a diversi stili di scrittura. In questo senso, il romanzo rispetta esteriormente il duplice schema tipico del giallo-enigma. Secondo la descrizione che ne dà Todorov16, infatti, il giallo-enigma non contiene una, ma due storie: la storia del delitto e quella dell’inchiesta, laddove la prima si conclude prima che cominci la seconda (anche se nel caso del romanzo Laura, tuttavia, la conclusione della prima è solo apparente). Inoltre, la seconda storia coincide pure con una sorta di lento apprendistato che, nel caso in questione, giunge a modificare radicalmente tutte le conoscenze acquisite sulla prima storia, o meglio la storia stessa (l’omicidio di Laura non è l’omicidio di Laura). Altro elemento tipico è la storia dell’inchiesta, che gode di uno statuto particolare essendo spesso raccontata da un amico del detective che dichiara esplicitamente di accingersi a scrivere un libro (ed è in effetti la situazione in cui si pone Waldo

Lydecker, anche se nel romanzo i racconti vengono a essere più di uno). Quindi, la seconda storia coincide con la storia del libro stesso. In ultima analisi, vi è una storia e vi è un modo di raccontarla; cioè, la prima storia, quella del delitto, diventa la storia di un’assenza, ma è l’unica reale. Al limite, dice Todorov, la seconda può anche essere sostituita con dossiers, resoconti di polizia, verbali ecc. (ciò che in parte succede nel romanzo della Caspary). La prima storia viene raccontata attraverso una serie di convenzioni letterarie, come inversioni temporali e punti di vista particolari (ed è ancora il caso di Laura), e la seconda è il luogo in cui tutti questi procedimenti trovano una giustificazione (il che, come si vedrà, non accade nella sceneggiatura del film). In realtà, tale schema si ibrida con quello del genere suspense, visto che la prima storia, dal momento del ritorno di Laura, in qualche modo continua insieme alla seconda, e visto che il detective e il (primo) narratore non godono, in modi diversi, dell’incolumità (il tenente Mark McPherson non esce indenne dall’inchiesta, innamorandosi della [falsa] vittima dell’omicidio, e Lydecker, narratore menzognero e assassino, è destinato a morire). Ora, se il romanzo si colloca entro questo schema, pur giocandoci intorno ed elaborando abilmente il motivo della falsa assenza della prima storia, è tuttavia l’adattamento cinematografico che vi tornerà sopra in modo peculiare, costruendovi quella strategia di cui si diceva. Tornando al romanzo, dunque, il primo racconto è quello di Waldo (dall’arrivo di McPherson a casa sua, dopo l’omicidio di Laura, alla sera precedente il ritorno della donna creduta morta), delegato a presentarci Laura, a raccontarla e vivificarla, partendo dalla sua morte; il secondo è quello di Mark (che ha inizio dal ritorno di Laura, e che parte quindi dalla sua vita – o resurrezione – per giungere fino al complicarsi dell’inchiesta); il terzo è un resoconto stenografico dell’interrogatorio subito da Shelby Carpenter, fidanzato della vittima; il quarto è quello di Laura (dagli apparenti sospetti di Mark su di lei, parallelamente all’innamoramento, all’ultimo squillo di campanello prima della tragedia e dello svelamento finale); infine, il quinto è ancora un racconto di Mark, con lo scioglimento dell’intrigo poliziesco e di quello amoroso, che si conclude tuttavia con le ultime parole di Waldo, riportate da Mark. L’economia interna di questo impianto17 è già significativa. Il racconto di Waldo è lungo per l’esattezza 64 pagine; quello di Mark, 56; il resoconto dell’interrogatorio a Shelby, 8; il diario di Laura, 39; e, infine, l’ultima narrazione di Mark, comprese le parole finali di Waldo, 16 pagine. Il ruolo fondamentale (e speculare) dei due personaggi maschili principali emerge anche da questo semplice dato quantitativo, così come la funzione puramente strumentale del personaggio di Shelby è allusa dal suo essere privato in qualche modo del diritto di parola come narratore, se non all’interno di un interrogatorio (tra l’altro brevissimo) riportato da copia stenografata. Il racconto di Laura, invece, è come reso possibile dagli altri e non ha senso se non in rapporto ai primi due, che in qualche modo la pongono il primo come donna morta, il secondo come donna viva, lasciandole la parola. L’elemento stilistico, poi, contribuisce ulteriormente a conferire spessore, intensità e capacità evocativa e di coinvolgimento di volta in volta differenti. Alla prosa ricercata, ma brillante e appassionata del racconto di Waldo, segue quella immediata e diretta (e quindi specularmente opposta) del racconto di Mark; dopo, il piatto resoconto stenografico di Shelby e lo stile ingenuamente ‘psicologico’ e vuotamente immaginifico del diario di Laura; laddove è evidente, inoltre, che alle differenti opzioni stilistiche corrispondono

anche diversi punti di vista, questa volta nel senso metaforico dell’espressione, vale a dire differenti visioni del mondo. Il virtuosismo della Caspary nel montare questo meccanismo narrativo e stilistico molto preciso, e non privo di fascino, è indubbio. Tuttavia, si ha l’impressione che il tentativo di creare il corrispettivo stilistico della modificazione del punto di vista narrante sortisca un effetto in qualche modo contraddittorio. Mentre il collage dei diversi testi-racconto della storia di un oggetto di desiderio prima perduto e poi ritrovato – Laura – funziona efficacemente e suggestivamente come l’assemblaggio di frammenti soggettivi incompleti (anche se sul piano diegetico tutto è coerente e perfettamente combaciante), con l’allusione alla specularità di Waldo e Mark, e con l’assenza di un vero testo unificatore che è l’idea forte del romanzo, l’eccessiva definizione stilistica dei diversi narratori tende poi a personificarli e a psicologizzarli, attenuando l’astrazione di fondo. Cioè, per dirla in breve, quello che poteva essere un perfetto teatro d’ombre diventa un (abile) giallo psicologico. Da questo punto di vista, le modificazioni attuate dalla sceneggiatura, dove appunto vengono aboliti tutti i racconti esplicitamente retrospettivi a eccezione di quello di Waldo (senza che tuttavia sia chiaro quando questo racconto ha fine), risultano essenziali. In questo modo la struttura enunciativa viene a coinvolgere forme soggettive complesse, la cui ambiguità sortisce un peculiare effetto di sdoppiamenti successivi e di onirismo che pervade l’intero testo, al di là di una singola sequenza, come si vedrà, definibile come onirica, rendendo il gialloenigma di partenza altra cosa. Vale a dire, il meccanismo dell’esplicito passaggio del testimone tra i diversi soggetti narranti presenti nel romanzo lascia il posto a una sorta di ambiguità e a un indefinito scivolamento progressivo (chi parla dopo Waldo? È Mark? Chi racconta il ritorno di Laura? È un sogno? ecc.); un’ambiguità, una mancanza di chiarezza (voluta e difesa da Preminger, che respinge la richiesta di Zanuck di inserire almeno un flashback chiarificatore a opera di Laura) su cui si fonda e costruisce quel teatro d’ombre, quel carosello di simulacri e proiezioni soggettive che il romanzo si limitava a suggerire. Dal punto di vista della gerarchia quantitativa di presenza dei personaggi, pur nel diverso impianto, i ruoli stabiliti dal film di Preminger rispettano sostanzialmente le indicazioni del romanzo, con un analogo peso assegnato ai due personaggi maschili che si contendono, pur ambiguamente, la narrazione. La scelta di struttura e strategia narrativa è coerente con le scelte stilistiche attuate poi in sede di mise en scène. Si pensi per esempio alla fotografia, con effetti luministici che esaltano e imbiancano il contorno degli oggetti e dei corpi, e ai movimenti della macchina da presa, fluidi, agili e leggeri che davvero creano quella tipica ‘fascinazione’ e quello ‘sguardo fantastico’ sempre sottolineati dalla critica. E l’unità stilistica dell’intera narrazione (compresa la virata espressionista dell’ultima sequenza) contribuisce a confermare definitivamente la totalità del regime onirico o immaginario che riguarda tutto il testo e che sembra inaugurato, fin dall’inizio, con il racconto del primo (o unico o falso) soggetto narrante, cioè Waldo Lydecker. A dire il vero, una traccia o un residuo del differente trattamento stilistico in riferimento alla diversa caratterizzazione dei personaggi, come nel romanzo, può risiedere nella diversità degli stili di recitazione che distinguono per esempio il virtuosismo brillante della recitazione più accademica e teatrale di Clion Webb (Waldo), dalla secchezza più naturalistica di Dana Andrews (Mark) o dalla semplicità di Gene Tierney (Laura). Al di là, da un lato, delle caratteristiche del bagaglio e delle abilità professionali di ciascuno di questi attori e, dall’altro, delle esigenze di caratterizzazione dei

personaggi, la direzione di Preminger sembra in effetti voler accentuare la teatralità – squisita – dell’attore e del personaggio di Lydecker che, appunto, appare sempre significativamente come un attore. 4. Sogni, simulacri e strategia narrativa La sequenza iniziale – dopo i titoli che scorrono sul ritratto di Laura (subito un ‘simulacro’), mostrato con angolazione leggermente obliqua, mentre sentiamo il tema musicale che da commento extradiegetico diverrà motivo diegetico (evocatore della presenza di Laura per noi, ma anche per i personaggi del film che lo ascoltano riprodotto su disco) – rivela immediatamente una strategia narrativa peculiare ed essenziale in rapporto a ciò che segue, al film nel suo complesso. Le parole di qualcuno che poi si presenta come Lydecker («Non dimenticherò mai il giorno in cui Laura morì… io, Waldo Lydecker») iniziano con lo schermo nero, sullo svanire della coda del tema musicale di David Raksin a cui si sostituiscono, e proseguono con la carrellata che scopre l’appartamento di Waldo, i suoi mobili in stile Biedermeier, le maschere, gli idoli orientali, i ritratti femminili alle pareti, la pendola barocca (che avrà il suo doppio in casa di Laura), la vetrina con la collezione di porcellane e cristalli, fino a mostrare McPherson che viene redarguito dalla stessa voce proprio perché tocca uno di quegli oggetti. Solo allora, dopo una carrellata di raccordo spaziale che accompagna Mark nella stanza da bagno, un’improvvisa e rapida panoramica raggiunge Waldo immerso nella vasca, ancorando così quella voce proveniente dal nero al suo corpo nudo, anziano e fragile. Dunque, dal nero dello schermo, una voce prende parola, inizia un racconto. Un soggetto narrante, inizialmente indistinto, senza corpo, dà avvio in prima persona a una retrospezione; da un tempo e uno spazio imprecisati muoviamo verso un altro tempo e spazio che appaiono sullo schermo quando la voce di Lydecker annuncia la presenza di «uno dei soliti poliziotti». Ed è in effetti il corpo di Mark McPherson a essere mostrato prima di quello di Lydecker di cui continuiamo per qualche momento a udire solo la voce. In qualche modo si può dire che Lydecker venga messo in scena ma non in inquadratura, o meglio che alla sua immagine propria venga sostituita – anche se provvisoriamente – quella di Mark. Non solo i due personaggi, la cui specularità e reciprocità risultano nel film molto più forti che nel romanzo, appaiono fin da subito l’uno il doppio dell’altro (prima la carrellata fino a Mark, mentre la voce di Lydecker si presenta, poi la panoramica a scoprire Waldo, dopo che è stato presentato Mark), ma anche il loro statuto è fin dall’inizio quello instabile, incompleto, di voci senza corpo o corpi senza voce che hanno origine dal nero, dal buio, dall’ombra. E il mondo che prende forma dal nero iniziale è tra l’altro un mondo in cui, intorno ai due personaggi, la macchina da presa segnala la presenza di maschere, profili, ritratti. Cioè, simulacri, come del resto quello della prima immagine del film, il ritratto della protagonista. È così che inizia il teatro d’ombre di Vertigine – Laura, a partire dall’ombra di un soggetto narrante la cui origine resta ignota; a partire dall’ombra di un oggetto del desiderio, quello evocato dal ritratto. A partire da un’assenza che diverrà solo apparentemente una presenza. Sarà l’ombra di Laura, tra l’altro, il luogo di convergenza dei due soggetti maschili. È infatti a McPherson che Lydecker inizia a raccontare la storia di Laura, fino alla morte della donna su cui il detective sta indagando. La narrazione della storia di Laura corrisponde a un’ulteriore retrospezione, attivata da una serie di flashback soggettivi e intermittenti di Waldo. Ora, se è

Waldo Lydecker il narratore della prima parte del film, dove si colloca il suo racconto, rispetto al passato di cui parla? Se è Waldo a farci conoscere Laura, parlando di lei a McPherson nella sequenza al ristorante, ricordando il loro incontro e ricostruendo la vita di Laura, dove e quando si conclude il suo racconto? Qual è il momento di raccordo, di aggancio con le prime parole pronunciate, nel nero, da Lydecker? Dov’è l’adesso narrativo del «Non dimenticherò mai il giorno in cui Laura morì»? Se, alla fine, Waldo muore, quand’è che il primo racconto retrospettivo si conclude? Davvero, la voce che ci introduce alla storia di Laura è senza origine, proviene da un tempo che rimane indeterminato, imprecisato, in qualche modo eternizzato (e il film, dopo la morte di Waldo, si conclude con l’immagine della pendola – l’altra pendola – in frantumi). Da questo punto di vista, il flashback di Waldo si avvicina più a quello, altrettanto conturbante, di Joe Gillis – cadavere – in Viale del tramonto di Billy Wilder (Sunset Boulevard, 1950) di sei anni successivo a Vertigine, piuttosto che a quello di Walter Neff (ferito, quasi morto, ma ancorato in un adesso narrativo ‘normale’ rispetto al flashback delle sue memorie dettate al registratore) in La fiamma del peccato, altro titolo wilderiano, già citato, contemporaneo a Vertigine. In questo senso, la trasgressione o la peculiarità di Vertigine non è tanto o non solo nell’idea del narratore-assassino (Waldo come il Roger Ackroyd della Christie, in Dalle nove alle dieci, o L’assassinio di Roger Ackroyd), o nel flashback che ci spinge ad associare all’evidenza iconica delle immagini l’evidenza della verità (come nel flashback menzognero dell’hitchcockiano Paura in palcoscenico, Stage Fright, 1950) e quindi qui a credere a Waldo (che peraltro non mente, ma omette, come già nel romanzo), quanto più sottilmente in un’ambiguità destinata a rimanere irrisolta, che non ci permette di collocare il tempo (perduto) della storia di Laura (perduta) rispetto a un tempo in cui ha luogo la rimemorazione, e di riequilibrare la sfasatura storia/discorso, cioè tra la fabula e la sua narrazione, che non è qui unicamente funzionale alle esigenze di una detectivestory, ma investe più profondamente la struttura e il senso del racconto. Nel film, il cambiamento di punto di vista (da Waldo a Mark, dopo la sequenza del ristorante) si dà senza che Waldo abbia esplicitamente concluso il suo racconto retrospettivo e senza che Mark venga esplicitamente posto come narratore. È un indizio della mise en scène, della regia, che marca il passaggio: la carrellata su Mark, fino al primo piano, all’uscita dal ristorante, prima della dissolvenza in nero che chiude la sequenza. Da questo momento, tutto ciò che viene raccontato (il ritorno di Laura, il proseguimento delle indagini) vede Mark presente, fino alla sequenza finale. Del resto, nel corso del primo incontro tra Waldo e Mark, il primo sembra trasferire all’altro il suo sapere (e il suo desiderare) nei confronti di Laura (e in questo senso si potrebbe dire che il ‘lento apprendistato’ su cui si costruisce tradizionalmente la seconda parte del giallo-enigma qui coincide con un apprendistato nei confronti di Laura; ma si tratta di un apprendistato nei confronti di un oggetto di desiderio che risulterà puramente immaginario e immaginato, proprio quando sembrerà attualizzarsi, presentificarsi con il ritorno di Laura). È da questo momento che, senza che ciò avvenga esplicitamente, come si è detto, la focalizzazione narrativa sembra situarsi su Mark, con un effetto vago, ma insinuante, di disorientamento, confermando quell’instabilità o indistinzione dell’istanza narrante, palese fin dall’inizio. Ma l’ambiguità riguarda ora anche ciò che ci viene raccontato, il ritorno di Laura. È un sogno di Mark? Parrebbe suggerirlo sia il contesto narrativo (il poliziotto, forse ubriaco, si addormenta di fronte al ritratto della donna in uno stato di

esplicito desiderio), sia un doppio movimento di macchina che si avvicina prima a Mark (secondo un procedimento convenzionale di segnalazione del sogno), poi si allontana per preparare l’ingresso di Laura (o, convenzionalmente, l’inizio del sogno). Ma anche questo sogno presunto, se ha un possibile inizio, non conosce una conclusione esplicita. Oppure Laura (che peraltro appare quella notte a Mark come un fantasma, vestita di bianco) ritorna ‘davvero’? L’assenza di un ulteriore racconto retrospettivo (per esempio, il flashback di Laura richiesto da Zanuck) contribuisce a quest’altra ambiguità. Tutto ciò che viene raccontato successivamente vede Mark presente, fino alla sequenza finale in cui è un narratore apparentemente onnisciente che mostra Waldo in agguato per uccidere Laura, mentre questa sente la sua voce registrata alla radio recitare versi di Dowson (nella versione italiana D’Annunzio, nella francese Mallarmé). Un’altra voce, con ulteriori effetti di disorientamento riguardo alla voce/voci narranti. Vi è tuttavia un altro indizio di tipo discorsivo che può complicare ulteriormente le cose e riportare il racconto alla sequenza iniziale. È una panoramica rapida e improvvisa, assolutamente identica a quella che mette in campo Waldo all’inizio, a mostrarlo alla fine nella stanza di Laura, mentre ne udiamo la voce provenire da un altrove (la radio), come un altrove appariva il nero iniziale da cui sembrava provenire la sua voce, provvisoriamente (o realmente) senza corpo, come quella registrata su un «disco meccanico», come dice l’annunciatore radiofonico. Per l’esattezza, l’annunciatore dice: «Quella che avete ascoltato è la voce di Waldo Lydecker, registrata su un disco meccanico». Che senso ha allora il richiamo, tramite la stessa panoramica, alla voce dell’inizio? Ecco che in questo modo il tema del contrasto tra presenza e assenza, tra realtà e immaginazione, tra soggetto e simulacro, non si collega soltanto a Laura, punto di convergenza dello sguardo, del desiderio dei due uomini e, quindi, al suo ritratto (che concretamente e ovviamente rappresenta una dialettica presenza/assenza), ma a tutto il testo e alla sua strategia narrativa. 5. «Vertigine» come doppio racconto Riorganizzando il discorso, si può notare quindi come sia possibile rinvenire nel film una doppia articolazione narrativa18. Da un lato, quella relativa alla storia narrata, cioè la storia di Laura; dall’altro, quella relativa alla sua narrazione, cioè la storia della narrazione della storia di Laura, tematizzata e drammatizzata nel testo. Mentre il primo livello comporta una serie di trasformazioni del soggetto narrativo Laura, il secondo comporta una serie di trasformazioni del punto di vista, ossia dell’istanza attraverso cui la storia viene raccontata, ben al di là di quelle indicate e giustificate nel romanzo: una voce senza localizzazione spazio-temporale, poi un personaggio della narrazione, Waldo (coincidente con la voce off e da questa apparentemente delegato), che ricorda in flashback alcuni momenti del passato di Laura, infine il passaggio alla focalizzazione attraverso il punto di vista di Mark. Ciascuno dei due livelli, con una specularità assoluta, presenta un punto di rottura e squilibrio forte. Per quanto riguarda il primo, si tratta della ricomparsa di Laura (la storia di una donna morta diventa la storia di una donna viva); per quanto riguarda il secondo, la disgiunzione è rappresentata dalla modificazione del punto di vista, da Waldo a Mark, nuovo attore delegato a raccontare. A partire da questa doppia articolazione, e dai relativi e simmetrici punti di rottura, sono diverse le letture possibili, come percorsi indicati e offerti allo

spettatore che non si escludono vicendevolmente, ma possono essere compresenti e anzi collocati in un rapporto di presupposizione reciproca gerarchizzata (e in questo risiede molta parte del fascino e della ricchezza del film, rispetto alla materia letteraria di partenza). Un primo percorso di lettura è quello che può essere definito ‘realista’. In questa prospettiva, se il racconto dell’enunciato (la storia di Laura) è quello di un noir tipico che svolge il passaggio da uno statuto di verità a un altro (Laura morta vs Laura viva; segreto sull’assassino vs scoperta della verità), il racconto dell’enunciazione (la narrazione della storia di Laura) qualifica invece il (primo) narratore come menzognero e assassino. L’ipotesi ‘realista’ non esclude la variante per cui il ritorno di Laura è un sogno di Mark (un sogno ‘vero’, come nel caso del sogno della Donna del ritratto). Tuttavia è difficile accontentarsi della lettura puramente referenziale del film. Sono troppi gli elementi e gli indizi che puntano in un’altra direzione e che provocano una sensazione insinuante di incompletezza e non finito (vedi la presenza ossessiva del ritratto di Laura, la voce di Waldo che ritorna alla fine come voce meccanica, l’ambigua complementarietà tra i due personaggi maschili ecc.). Il secondo percorso è allora quello più propriamente ‘fantastico’: in questo caso la storia di Laura è una storia fantastica, vicina al racconto di fate, che segue lo schema tipico del genere e in cui l’amore dell’eroe riesce a far rivivere un fantasma o uno spettro, costretto a vagare in un altrove che è lo spazio dell’incantesimo posto tra la vita e la morte, ma anche lo spazio della memoria e del ricordo, che verrà realizzato dall’eroe selezionando uno dei due valori possibili, la vita o la morte. Un percorso, da questo punto di vista, perfettamente supportato dalle opzioni stilistiche di cui si è già parlato: i contorni luminosi, i movimenti aerei della macchina da presa ecc. La storia dell’enunciazione è in questo caso la storia dei modi di convocazione dello spettro: convocata da Waldo, Laura non può realizzarsi, la sua immagine è ancora troppo soggettiva, troppo vicina al ritratto, alla sua essenza spettrale; ha bisogno, per liberarsi dalla sua esistenza indefinita, di allontanarsi dalla sua immagine, di rivivere la sua storia, il suo omicidio (è Mark che riesce a farla rivivere, a offrirle uno spazio in cui manifestarsi, lo spazio di un sogno, per mezzo di un possibile filtro magico, il whisky che stordisce l’uomo e lo fa sognare ecc.), evocato, costruito attraverso il desiderio e attraverso un percorso percettivo (la vista del quadro, il tocco dei vestiti, la fragranza del profumo prendono corpo – in senso proprio – nel sogno). Ma la realizzazione avviene al prezzo di uno scacco o di una perdita: Laura non è più ciò che era, concrezione fantastica di vita e di morte, di ricordi e proiezioni soggettive, di percezioni parziali. Dallo straordinario alla norma, la Laura realizzata è solo l’immagine sbiadita della sua stessa immagine. Ma lo scarto non è solo questo, qualcosa sfugge ancora ed è proprio il ricordo di quella voce dal nero, ambigua e inattribuibile, che continua a presentarsi come residuo, forse riagganciato all’ultima voce meccanica della radio. Ma anche quella è solo una voce registrata, difficile da ancorare in un adesso: quando, dove, chi? Questo è ‘lo’ scarto di Vertigine, quello scarto che inaugura un ulteriore percorso di lettura, quello propriamente ‘onirico’, quello per cui tutti i personaggi della narrazione appaiono come simulacri posti da una voce senza corpo, che appare dal nero indistinto. In questo caso la storia dell’enunciato è quella di due forme immaginarie o oniriche simmetriche e speculari, quelle di Waldo e di Mark, intorno a un fantasma inafferrabile, quello di Laura. La coppia Waldo-Mark

rappresenta allora due facce di uno stesso soggetto, soggetto dell’impotenza e dello scacco; doppio o sdoppiamento che presuppone un corpo unitario che la voce non riesce a essere. La storia dell’enunciazione diventa la storia di un narratore che racconta il suo fallimento, la sua impotenza rispetto ai simulacri soggettivi che ha proiettato in un teatro di pure ombre. Un narratore solo apparentemente onnisciente che tuttavia non possiede il controllo passionale della sua storia, non riuscendo a esorcizzare il nero senza tempo da cui emerge. E il film finisce infatti con l’immagine della pendola in frantumi – sola alternativa al nero iniziale –, prima che torni l’immagine della realtà puramente effettuale del ritratto che incornicia il film. Il giallo-enigma da cui il film ha preso spunto, e lo schema da cui deriva, non sono che una traccia privata di spessore e del senso originario. L’idea positivista della possibilità di convertire un’assenza in presenza, attraverso un processo di veridizione, o la possibilità di raccontare una storia attraverso un discorso coerente e un meccanismo di enunciazione ricomposto hanno lasciato il posto a un’intenzionale frammentazione dei soggetti del discorso, impossibilitata a ricomporsi e ad afferrare e risolvere l’assenza che inseguono. Come in sogno.   Che cos’è questa cosa chiamata noir? è, significativamente, il titolo di uno studio sul cinema noir, di A. Silver e Linda Brookover, in A. Silver, J. Ursini (a cura di), Film Noir Reader, Limelight, New York 1999. 1

Cfr. J.-P. Chartier, Les Américains aussi font des films ‘noirs’, in «Revue du cinéma», 2, 1946, pp. 67-70, trad. it. in M. Fabbri, E. Resegotti (a cura di), I colori del nero, Ubulibri, Milano 1989, pp. 140-41 e, nello stesso anno, N. Frank, Un nouveau genre policier: l’aventure criminelle, in «L’Écran français», 61, 28 agosto 1946, pp. 14-16, parimenti tradotto in Fabbri, Resegotti (a cura di), I colori del nero cit., pp. 137-38. 2

J. Naremore, More Than Night. Film Noir in Its Context, University of California Press, Berkeley-Los AngelesLondon 1998, p. 11. 3

Un’ottima ricostruzione e sistemazione critica si trova nel bel saggio di L. Gandini, Il film noir americano, Lindau, Torino 2001, cui si rimanda per un approfondimento complessivo sul genere. 4

Cfr. anche M. Vernet, Film Noir on the Edge of Doom, in J. Copjec (a cura di), Shades of Noir, Verso, LondonNew York 1993 o R. Maltby, The Politics of the Maladjusted Text, in I. Cameron (a cura di), The Book of Film Noir, Continuum, New York 1992. 5

P. Schrader, Notes on Film Noir, pubblicato per la prima volta in «Film Comment», 1972, pp. 8-13, trad. it. in Fabbri, Resegotti (a cura di), I colori del nero cit., pp. 169-77. 6

7

Gandini, Il film noir americano cit., p. 54.

8

Per uno studio complessivo, si rimanda a R. Altman, Film/Genere, V&P, Milano 2004.

9

Su questo cfr. anche il saggio di O. Bächler, Laura, Synopsis/Nathan, Paris 1997.

T. Todorov, Tipologia del romanzo poliziesco, in R. Cremante, L. Rambelli, La trama del delitto, Pratiche, Parma 1980, pp. 161-62. 10

Sul motivo del ritratto cfr. il numero monografico di «Iris» n. 14-15, autunno 1992, Le portrait peint au cinéma e, in particolare, il saggio di D. Païni, Au commencement était le portrait, pp. 107-16, dedicato alla Donna che visse due volte (Vertigo, 1958) di Hitchcock, di cui fornisce un’analisi che può suggerire spunti interessanti anche per il caso di Vertigine. 11

12

In edizione italiana, V. Caspary, Laura, trad. it. di L. Crepax, Mondadori, Milano 1977.

13

Per un approfondimento, si veda G. Carluccio, L. Cena, Preminger, La Nuova Italia, Scandicci 1990.

14

Ibid., per uno studio complessivo dell’opera di Preminger.

Per l’analisi che segue è utile fornire una sinossi del film: Waldo Lydecker, un celebre giornalista newyorkese, si accinge a scrivere la storia di Laura Hunt, una ragazza da lui protetta il cui cadavere è stato trovato con il volto sfigurato da un colpo di fucile. Ma giunge a interrogarlo il detective Mark McPherson, che si reca poi anche da Ann Treadwell, zia di Laura, e da Jimmy Carpenter, fidanzato della morta e amante di Ann. Il loro racconto, e poi il lussuoso appartamento di Laura, dominato da un suo splendido ritratto, fanno una forte impressione su Mark. La sera, poi, al ristorante, Lydecker gli narra del suo incontro, anni prima, con Laura, e di come l’avesse lanciata nella società newyorkese facendone una disegnatrice pubblicitaria di successo. Mark appare sempre più ossessionato e affascinato dall’immagine della ragazza, mentre continua le indagini e rifiuta di restituire a Waldo i regali da lui fatti all’amica morta, tra cui un orologio a pendolo. Infine una sera si reca nell’appartamento, finché mezzo ubriaco si assopisce su una poltrona; ma viene svegliato all’improvviso da 15

Laura, viva e ignara di quanto accaduto, avendo trascorso il weekend in campagna. Mark comprende allora che a essere stata uccisa al suo posto è una sua modella, Diane, anch’essa legata a Jimmy con il quale si era incontrata a casa di Laura. Gli indizi sembrano allora convergere proprio sulla ragazza, tanto che a una festa per il suo ritorno Mark l’arresta sotto gli occhi di tutti e la porta al commissariato, pur credendola innocente, per ingannare il vero assassino. Rilasciatala, infatti, Mark si reca a casa di Waldo in cerca del fucile usato per l’omicidio, ma non lo trova; è invece nascosto nel pendolo a casa di Laura, dove Waldo si è recato per dissuadere la ragazza dal legarsi al detective. Ma Laura, ormai innamorata di Mark, lo respinge, e Waldo, sopraggiunto il rivale, è costretto ad andarsene. Laura e Mark, trovata l’arma del delitto, si convincono che proprio Waldo, geloso, ha ucciso Diane per errore, e il poliziotto va ad arrestarlo. Ma Waldo torna da Laura per ucciderla; Mark e i suoi irrompono nell’appartamento appena in tempo, colpendolo a morte. 16

Todorov, Tipologia del romanzo poliziesco cit., pp. 155 sgg.

17

Con riferimento all’edizione italiana del romanzo, Caspary, Laura cit.

Per un approfondimento, G. Carluccio, Simulacri del noir, in L. Quaresima (a cura di), Il cinema e le altre arti, Marsilio, Venezia 1996, pp. 367-74; K. Thompson, Closure Within a Dream: Point of View in Laura, in «Film Reader», 3, 1979. 18

VI.

Lo «star system». «Quando la moglie è in vacanza»

1. «Star system» e divismo. Considerazioni generali A proposito di Casablanca (id., 1942) di Michael Curtiz, e a proposito della esemplarità di questo film proprio in quanto ‘film classico’, nel capitolo secondo di questo libro si è evidenziato il ruolo centrale che vi occupa la presenza del divo Bogart nei panni del personaggio, ormai mitico, di Rick. Proviamo a riprendere e a sviluppare alcune questioni che il caso di Bogart/Rick indica esemplarmente, per inquadrare più in generale il fenomeno del divismo e il ruolo dello star system nel cinema di cui ci occupiamo. Intanto, il fatto che Bogart abbia interpretato altri film Warner prima di Casablanca, come il citato Mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941) di John Huston, non soltanto, insieme ad altri indicatori di genere, stile ecc., attesta che si tratta di un ‘film Warner’, e quindi di un prodotto connotato da un certo marchio di fabbrica, ma pure fa sì che il divo porti con sé i tratti narrativi dei personaggi precedentemente interpretati, i quali costituiscono un bagaglio che viene a segnare implicitamente il nuovo personaggio e a predeterminare le attese dello spettatore che già conosce Bogart. Nel caso di Rick, come si è visto, le aspettative spettatoriali vengono sostanzialmente confermate e il nuovo personaggio risulta una variazione sul tema del good bad boy, nella più pura espressione della logica produttiva e narrativa hollywoodiana, che vede nella serie variata una regola fondamentale. Da questo punto di vista, la presenza del divo è una garanzia commerciale forte. Il divo è quindi un investimento su cui la casa di produzione conta; un investimento che, a partire dal momento in cui l’attore ha firmato un contratto di esclusiva con quella determinata casa, comporta tutta una serie di strategie che precedono e preparano la realizzazione dei film di cui l’attore sarà protagonista, atte a costruirne l’immagine e la personalità divistica. Organi di stampa, vicini alla produzione o da questa foraggiati, cinegiornali, campagne pubblicitarie ecc. vengono messi in campo per inventare una ‘persona’ che – attraverso una sapiente combinazione di elementi

autenticamente o falsamente biografici dell’attore in carne e ossa, e tratti selezionati dallo stereotipo di genere che l’attore è destinato a interpretare – terrà vive determinate promesse narrative, sollecitando e incanalando attese e desideri del pubblico, e rendendo parimenti familiare l’immagine fisica dell’attore, attraverso un’iconografia che fotografia, illustrazione popolare, riprese cinematografiche ‘scrivono’ e connotano in un certo modo. Nulla è lasciato al caso, in una strategia che si basa su un sistema integrato dei media che negli anni di cui ci occupiamo ha nel cinema il centro motore, ma che comprende appunto stampa, radio e in seguito televisione, in una logica economica molto precisa. Già in uno studio del 1950, dal fortunato titolo Hollywood, Dream Factory, Hortense Powdermaker poteva sottolineare come il vantaggio economico dello star system fosse quello di creare e utilizzare, con il divo, un prodotto tangibile, riconoscibile, suscettibile di essere pubblicizzato e commercializzato come qualsiasi altro prodotto. Il presupposto della studiosa, del resto, è molto chiaro: Hollywood è impegnata nella produzione di massa di sogni prefabbricati. Il tentativo è quello di tradurre il sogno americano, secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali, nell’idea che tutti i sogni degli uomini possono essere fabbricati uguali. Il cinema è la prima arte popolare a diventare un enorme business con produzione e distribuzione di massa. È quindi ovvio che i film non possano essere prodotti singolarmente, e che una certa forma di produzione di serie sia inevitabile1.

Al centro di questa logica produttiva, lo star system: Ci sono molti vantaggi nello star system. La star è un prodotto tangibile che può essere pubblicizzato e può essere oggetto di marketing – un volto, un corpo, un paio di gambe, un certo tipo di personalità, reale o artificiale – e può essere tipizzato come il terribile cattivo, l’eroe onesto, la sirena fatale, la dolce fanciulla, la donna nevrotica. Il sistema fornisce una formula facile da capire2.

Il saggio della Powdermaker, che si propone come «uno sguardo antropologico al mondo dei movie-makers», rimarca in realtà soprattutto la logica di profitto che interessa la star come prodotto. Se anche studi più recenti approfondiscono la centralità dello star system nelle strategie economiche delle Majors, non va però dimenticato il senso e il valore, oltreché artistico, anche sociologico e mitologico che le immagini divistiche possono assumere e che, anzi, ne garantiscono il successo stesso, motivandolo profondamente3. Dal momento in cui, già dagli anni Dieci, le case di produzione decidono di pubblicizzare il nome degli interpreti, precedentemente anonimi, in modo da confondersi e annullarsi come identità singole in favore dell’identità di fabbrica (per cui, per esempio, l’interprete femminile di molti film Biograph dei primi anni Dieci era semplicemente la ‘Biograph Girl’, prima di diventare una diva con nome e cognome, Florence Lawrence), l’emergere del divo viene non solo strategicamente favorito e costruito, ma anche contraddistinto da fenomeni di

ricezione e consumo che dimostrano come il divo stesso risponda o corrisponda a desideri e bisogni motivati socialmente e antropologicamente. Talvolta anche in opposizione (spesso calcolata, da parte dell’industria) ad alcuni valori dominanti. In questo ambito di questioni, studi recenti sottolineano come determinate immagini divistiche siano relative al ruolo di precise formazioni sociali. Per esempio, un importante saggio della studiosa americana Miriam Hansen sottolinea come il grande successo, negli anni Venti, del divo Rodolfo Valentino presso il pubblico femminile (giunto a eccessi di adorazione e venerazione, fino al punto da causare suicidi in occasione della morte prematura dell’attore), si basasse sull’interazione, all’interno dell’immagine del divo, di elementi quali una forte etnicità (la provenienza italiana, e quindi i tratti latini e i ruoli esotici interpretati), e una identità maschile eterodossa, non priva di elementi femminei, molto differente dal modello virile tipico dell’America sotto la presidenza di Theodore Roosevelt: È luogo comune nella mitologia di Hollywood che la carriera di Valentino si sia fondata – e sia affondata – sul suo personaggio di latin lover. La pubblicità dominante questa rapidissima carriera, fino alla prematura scomparsa di Valentino nel 1926 e alla sua leggendaria vita ultraterrena, ruota intorno a due questioni inevitabilmente connesse l’una all’altra: la sua diversità etnica e il problema della sua virilità. In entrambi i casi le percepibili deviazioni dai modelli dominanti di identità sociale e sessuale, che turbarono e probabilmente distrussero la sua carriera, costituivano proprio le qualità che lo rendevano oggetto di fascino senza precedenti. Ma il duplice scandalo dell’etnicità e dell’ambiguità sessuale risultava una funzione del prevalente e specifico segno che dominò la carriera di Valentino: la sua enorme popolarità presso il pubblico femminile. Mentre Hollywood confezionava la leggenda di Valentino, incoraggiando la fusione tra realtà e finzione per farne una star, le ammiratrici divennero parte di quella leggenda. I riferimenti al comportamento dei fan non erano mai stati così fortemente connotati in termini di genere e sessualità, né la reazione del pubblico fu mai più così esplicitamente legata al desiderio femminile4.

In questo senso, un’immagine divistica, o una ‘persona divistica’, secondo la terminologia corrente, pur costruita, confezionata e sostenuta dalla logica industriale, funziona perché poggia su un insieme di tratti e valori profondamente motivati dal contesto sociale cui si rivolge. La star, cioè, corrisponde sempre a una certa concrezione di immaginario socioculturale, legato alle ideologie e ai valori dominanti di una determinata epoca. Naturalmente, e lo abbiamo visto con Bogart, l’immagine fisica, la definizione iconografica di un divo, è perfettamente consustanziale alla stratificazione dei ruoli e dei personaggi interpretati. L’idea, appunto, di ‘persona divistica’, bene si riferisce a questa natura di ‘persona’ complessiva, astratta, frutto di molti elementi concreti, riconducibili da un lato alla biografia ufficiale del divo, manipolata o autentica che sia, e quindi a una persona reale, dall’altro a un insieme di personaggi ‘artefatti’ che, di film in film, sfaccettano uno stereotipo molto preciso. Questa astrazione complessiva dell’immagine divistica fa sì

che al di là del profondo legame con l’epoca che l’ha generata e alla quale corrisponde, determinate sue qualità possano, in alcuni casi, diventare in qualche modo universali, venendo a ‘eternizzare’ quell’immagine, a fissarne i contorni come in un’icona che vive oltre il cinema, oltre i film interpretati, oltre la stessa vita terrena del divo. Casi come quello di Bogart (ricordiamo le parole di Michael Wood a proposito del poster di Casablanca, di cui si è parlato nel capitolo secondo), James Dean o Marilyn Monroe, di cui parleremo a breve, testimoniano come la forza di determinate icone divistiche permetta loro una particolare longevità e anche la possibilità di essere ridefinite extracinematograficamente, in una continua riattualizzazione e prolungamento del mito. L’immagine di Marilyn, per esempio, a partire dalla tragica fine della diva, nell’agosto 1962, ha conosciuto continue riprese, riscritture, remake, dalla letteratura (l’underground americano, Charles Bukowski, Truman Capote, Pier Paolo Pasolini, Angela Carter, James Ballard), all’arte (la pop arte, Andy Warhol, Mimmo Rotella), alle canzoni (Candle in the Wind di Elton John, per citarne una), per non parlare del mondo della pubblicità, del merchandising (le Barbie-Marilyn, per esempio). Immagini mitiche che dagli stereotipi di partenza, definiti industrialmente, riescono ad acquistare un nuovo statuto di archetipi, quasi di incarnazioni originarie, pure, di determinati concetti, simboli, valori, grazie alla loro capacità di resistere all’obsolescenza tipica dei prodotti dell’industria culturale, pur essendone la massima espressione. È una sorta di paradosso, ma è anche il riflesso di quella profondità insospettata e implicita dei prodotti di serie della grande Dream Factory hollywoodiana, capace di distillare dalla materia a disposizione quanta più essenza possibile. Questi dei di una nuova religione, secondo la proposta del sociologo Edgar Morin5, oggetti spesso di un vero e proprio culto da parte dei fan (come nel caso di Valentino, ma anche di molti altri divi dagli anni Venti in poi), riescono a superare i luoghi deputati della liturgia di cui sono protagonisti, parafrasando ancora Morin, cioè le sale cinematografiche, per diventare anche post-mortem (in alcuni casi soprattutto post-mortem), veri e propri miti. In uno dei libri più acuti sulla cultura di massa, Miti d’oggi, Roland Barthes assegnava al divismo hollywoodiano un ruolo fondamentale all’interno dell’orizzonte mitologico contemporaneo, dedicando a Greta Garbo, per esempio, un testo molto pregnante: La Garbo appartiene ancora a quel momento del cinema in cui la sola cattura del viso umano provocava nelle folle il massimo turbamento, in cui ci si perdeva letteralmente in un’immagine umana come in un filtro, in cui il viso costituiva una specie di stato assoluto della carne che non si poteva raggiungere né abbandonare. Alcuni anni prima, il viso di

Rodolfo Valentino provocava dei suicidi; quello della Garbo partecipa ancora del medesimo regno di amore cortese in cui la carne sviluppa mistici sentimenti di perdizione […]. Ora la tentazione della maschera totale (la maschera antica, per esempio) implica forse meno il tema del segreto (come è il caso delle mascherine italiane) che non quello di un archetipo del viso umano. La Garbo offriva una specie di idea platonica della creatura, e ciò appunto spiega come il suo viso sia quasi asessuato, senza per questo essere equivoco […]. Come momento di transizione, il viso della Garbo concilia due età iconografiche, assicura il passaggio dallo spavento al fascino. Oggi, è noto, siamo all’altro polo di questa evoluzione: il viso di Audrey Hepburn, per esempio, è individualizzato non solo dalla sua tematica particolare (donna-bambina, donna-gatta), ma anche dalla sua persona, da una specificazione quasi unica del viso che non ha più nulla di essenziale, ma è costituito da una complessità infinita delle funzioni morfologiche. Come linguaggio, la singolarità della Garbo era di ordine concettuale, quella di Audrey Hepburn è di ordine sostanziale. Il viso della Garbo è Idea, quello della Hepburn è evento6.

In queste parole si nota molto bene la duplicità caratteristica dell’icona divistica; il fatto, da un lato, di appartenere e rappresentare un’epoca (‘quel momento del cinema’, la ‘transizione tra due età cinematografiche’, la contrapposizione con la Hepburn), ma anche, dall’altro, il fatto di emergere come archetipo eterno, come maschera ideale, concettuale, metastorica. Certo, non tutti i divi divengono icone capaci di resistere al tempo. La combinatoria dei tratti e delle caratteristiche che definiscono un’immagine divistica non corrisponde a una scienza esatta, ma alle dinamiche tensive e mobili che la àncorano in un determinato contesto, nonché all’incidenza del ‘fattore umano’ che preme e agisce dentro le reti intertestuali che lo mettono in scena, che vi alludono più o meno artatamente. L’immagine di Marilyn corrisponde a una vera e propria rete intertestuale. Di questa rete fanno parte materiali eterogenei, come le fotografie per cui ha posato, le cover delle centinaia di riviste che l’hanno ritratta, i film interpretati, le locandine, i trailer, le interviste rilasciate, quelle inventate, le riprese della sua esibizione davanti ai soldati durante la guerra di Corea, i reportage delle sue nozze con il campione di baseball Joe Di Maggio e, in seguito, con il drammaturgo Arthur Miller, le immagini della sua performance alla festa di compleanno del presidente John Kennedy nel 1962, con la celebre e ineffabile interpretazione della canzone Happy Birthday, Mr. President, fino, all’estremo, alle immagini del suo cadavere. Tutto ciò ha in comune qualcuno o qualcosa che possiede o possedeva, da qualche parte, un’esistenza reale; e una traccia di questa, un soffio vitale, resta al di là delle strategie di rappresentazione e delle convenzioni o intenzioni iconografiche che l’hanno in qualche modo catturato. Al centro della rete intertestuale, poi, va detto che il cinema, i testi propriamente cinematografici, costituiscono il cuore pulsante del sistema. L’ontologia propria dell’immagine cinematografica, il suo carattere riproduttivo, fa sì che, per quanto semiologicamente e

commercialmente strutturata, l’immagine della star sia anche la traccia documentaria di un attore o un’attrice che ha interpretato in un determinato hic et nunc un personaggio, con il proprio corpo, il proprio volto, la propria voce. Come diceva Bazin, la fotografia che è alla base del cinema «beneficia di un transfert di realtà dalla cosa alla sua riproduzione»7 e, senza entrare nel merito di discussioni teoriche sulla questione del realismo cinematografico, il transfert di vita che la riproduzione del corpo vivente dell’attore e della sua performance recitativa comporta è una reminiscenza fondamentale che ritroviamo anche nella più serializzata delle immagini ulteriori e persino postume che se ne possono trarre. Il soffio vitale di Marilyn è un ricordo che ogni spettatore o osservatore immette conflittualmente e inevitabilmente nelle virtualmente infinite e morte serigrafie del volto di Marilyn proposte da Andy Warhol. Anche nelle immagini più alterate, dove la Marilyn warholiana è a tutti gli effetti una maschera, quel remoto transfert di realtà continua a insufflare vita in un mito che la mercificazione non uccide. 2. La dimensione semiotica della star. Attore, divo, personaggio Nelle pagine precedenti si è fatto riferimento alla complessità di fattori che interessano il fenomeno del divismo, sottolineando in particolare anche la dimensione sociologica che ne spiega e giustifica il funzionamento, al di là delle logiche squisitamente industriali dello star system. Divi, personaggi, immagini divengono luoghi di incrocio di forze e pulsioni differenti che vedono produzione e consumo ben contestualizzati da un punto di vista storico-sociale. Si è anche sottolineato come la natura sociologica del fenomeno si confonda con quella più propriamente semiotica, allargando l’orizzonte testuale costituito dai film a una più ampia dimensione intertestuale, comprendente l’insieme degli altri testi paracinematografici ed extracinematografici che sostengono la formazione e la sopravvivenza di un’immagine divistica. Dal punto di vista metodologico, affrontare tale complessità significa operare in una prospettiva sociosemiotica capace di afferrare la particolare ‘polisemia strutturata’ costituita da ogni immagine divistica, come sostiene lo studioso inglese Richard Dyer, autore di un fondamentale studio sull’argomento8: Le analisi delle star, in quanto immagini che esistono nei film e in altri testi mediatici, accentuano la loro polisemia strutturata; cioè la molteplicità finita di significati e affetti che incorporano e il tentativo di strutturarli in maniera che alcuni significati e affetti siano rimarcati e altri occultati o delocalizzati9.

Al centro di un’analisi di questo tipo, pur lasciando aperto l’orizzonte intertestuale di cui si è parlato, sono i testi filmici interpretati dalla star. Da questo punto di vista, al di là di un’analisi

complessiva dei film in questione, l’indagine deve riguardare il rapporto che lega attore, divo e personaggio. Infatti, è propriamente questo rapporto a costituire uno dei nodi essenziali della ‘realtà’ del personaggio filmico. Come bene nota Dario Tomasi in un articolato studio del personaggio cinematografico10, l’attore contribuisce alla caratterizzazione del personaggio, fino a esserne in un certo senso coautore. In quest’ottica, l’attore è co-autore del suo personaggio non soltanto per la realtà fisica che gli offre, ma anche per ciò che si porta dietro a livello di immagine divistica, oltre che per i modi specifici della sua interpretazione, del suo discorso recitativo, che pure possono costituire un apporto ‘autoriale’ fondamentale. Il divo, quindi, rispetto all’attore, è un’immagine semiotica definita, preesistente, che entra inevitabilmente in dialettica e in con-fusione con la performance attoriale che è invece legata a quella determinata occorrenza. In questo senso, in realtà, la dialettica è complessa. Da un lato, divo/attore, dunque, ma anche, dall’altro, divo/attore/personaggio. La peculiarità di ciascun testo filmico sarà quella di regolare e dosare gli equilibri vicendevoli tra ciò che porta con sé l’immagine divistica, ciò che vi aggiunge o vi conferisce l’apporto recitativo, e ciò che è definito a livello di sceneggiatura per il costrutto narrativo-personaggio. La proiezione dell’analisi di tali rapporti in un determinato film, nell’insieme di tutte le altre interpretazioni della stessa star, di tutti gli altri film, può mostrare come l’attore possa avere o meno autonomia rispetto a quanto già definito, e la sua performance possa avere una dimensione critica o un certo distacco ironico rispetto al ruolo (è il caso, per esempio, della straordinaria ironia con cui una delle più intelligenti dive degli anni Trenta, Mae West, dava vita al suo ruolo di icona del sesso), oppure come un certo personaggio invece si stacchi dalla serie di variazioni sul tema e il divo sia impiegato in contre-emploi, come si dice in gergo cinematografico, cioè in contraddizione con il ruolo solito. In generale, l’analisi del personaggio cinematografico deve sempre articolarsi su tre piani distinti che riguardano innanzitutto il piano della storia, dell’intreccio, e cioè l’insieme di azioni ed eventi di cui è protagonista, e quindi, poi, il modo in cui l’attore interpreta il suo ruolo in tali situazioni, per poi cogliere le modalità specificamente filmiche e registiche che aggiungono ulteriori elementi stilistici e simbolici che connotano il personaggio. Nel caso in cui l’attore sia un divo, si tratta anche di verificare come la storia e l’intreccio che lo riguardano si pongano nel macro-testo complessivo delle sue diverse e precedenti interpretazioni, e come la regia e tutte le altre scelte filmiche e profilmiche contribuiscano per conferma o per opposizione all’iconografia e al découpage tipico della sua immagine.

3. Il caso Marilyn Se, nelle pagine precedenti, i riferimenti a Marilyn Monroe sono stati numerosi, non è certamente per caso. Sebbene un luogo comune diffuso definisca l’attrice ‘l’ultima stella’ e la sua tragica fine venga a segnare simbolicamente la fine dello star system classico, o più in generale dell’epoca aurea del cinema hollywoodiano, la sua carriera, legata perlopiù a uno stereotipo di genere (e in modo sublime), la sua straordinaria e varia presenza mediatica, la sua fama e il suo duraturo mito ne fanno la star per eccellenza, l’espressione più completa delle dinamiche del divismo: dalle strategie produttive che hanno trasformato Norma Jean Mortensen in Marilyn Monroe, una pin up tra tante altre in una vera e propria star, alle logiche del consumo e della ricezione che hanno fatto di Marilyn, nata come la tipica dumb blonde (la bionda svampita), un sex symbol dalle diverse connotazioni, al punto da essere oggi, per esempio, celebrata dalle femministe, come anche dalla cultura gay, per limitarci a una semplice suggestione. Certamente il mito contemporaneo di Marilyn, nutrito, come si è visto, da immagini e testi diversi che continuano a esaltarlo, è anche legato a un’immagine biografica che la morte improvvisa e misteriosa dell’attrice (forse un suicidio, forse una involontaria overdose di farmaci, forse, ancora, un omicidio in cui sarebbero coinvolti John e Bob Kennedy, rispettivamente l’allora presidente degli Stati Uniti e suo fratello) rende ‘letteraria’ e al contempo simbolica di una bellezza e di una dannazione tipiche del mondo moderno e della civiltà dei consumi. Tuttavia, senza nulla togliere alle straordinarie qualità dell’attrice Marilyn – oggi finalmente riconosciute dopo essere state a lungo offuscate dalla bellezza fisica della donna, quasi fossero qualità antitetiche11 – e all’eccezionalità, forse, della persona reale, ciò che ci interessa è la persona divistica di Marilyn, così come questa è stata scientemente costruita da Hollywood negli anni Cinquanta, in una esemplare, paradigmatica ancorché stupefacente integrazione di diverse risorse mediatiche nel medium cinematografico, secondo strategie di marketing capaci di soddisfare i bisogni e i desideri di un determinato contesto sociale e ideologico, e di incarnarne l’immaginario. Il caso di Marilyn è proprio quello della creazione industriale di una immagine divistica. Da questo punto di vista è di straordinario interesse verificare come già nel 1957, in uno studio specialistico dal titolo La costruzione delle immagini popolari. Grace Kelly e Marilyn Monroe, Thomas Harris mettesse a confronto due persone divistiche quasi antitetiche e pertanto emblematiche, come le due attrici americane, sottolineando il ruolo delle strategie di marketing nella costruzione, appunto, della loro popolarità. Il presupposto di partenza è che:

i moderni metodi pubblicitari prescrivono che il divo debba essere noto al suo pubblico potenziale non solo in virtù dei ruoli cinematografici, ma anche attraverso le riviste specializzate, i periodici nazionali, la radio, la televisione e i quotidiani. L’insieme di questa strategia pubblicitaria è calcolato per rendere la personalità più familiare a un pubblico che reagirà andando a vedere i film della star.

Quindi, proprio per la loro esemplarità, sono Grace Kelly e Marilyn Monroe a essere analizzate come ‘casi’: il metodo utilizzato è consistito nel vedere tutti i film di G.K. e M.M., e nel raccogliere i servizi speciali dei periodici, le recensioni e la pubblicità dello studio, per ricostruire il contenuto tematico dei loro ruoli individuali […]. In questo quadro si è compiuta un’analisi di tutto il materiale uscito su riviste nazionali durante il periodo compreso tra il settembre 1951 e il giugno 1956 […]. Nelle fasi iniziali della costruzione delle immagini della Monroe e della Kelly, l’utilizzo della verità come materia prima è stato sfruttato con straordinaria efficacia. In entrambi i casi è stato impiegato materiale biografico autentico, con grandissima efficacia. I temi principali riportati nei periodici trovavano una stretta corrispondenza nelle biografie ufficiali delle due attrici.

Dopodiché, Harris nota, per quanto riguarda la Kelly, come l’immagine di ‘signora’ veicolata dai film sia saldamente ancorata al reale background familiare della diva. Immagine puntualmente ripresa in riviste mondane ma rispettabili come «Vogue», «Mademoiselle», «Cosmopolitan» ecc. Mentre, venendo a Marilyn: Se i registi, con il sostegno dell’ufficio stampa, hanno rappresentato Grace Kelly come la compagna ideale, con la stessa efficacia sono anche riusciti a fare di Marilyn la compagna di giochi ideale. Quest’immagine […] ha innalzato l’attrice a una posizione quasi allegorica di oggetto simbolico e proibito del desiderio sessuale maschile. Questo tipo di immagine costituiva un esito ‘obbligato’ delle esperienze della Monroe precedenti il cinema, nelle vesti di modella e ragazza ‘osé’. […] prima ancora di ottenere una scrittura cinematografica, Marilyn Monroe venne ospitata da «Esquire» e «Coronet» e in altre riviste meno note, caratterizzate da un taglio decisamente maschile […]. Appena vennero rivelate le circostanze della sua nascita, le sue disavventure giovanili e il suo precoce matrimonio, Marilyn Monroe divenne un simbolo sessuale ancora più provocante. Gli addetti stampa si concentrarono sulla sua voce calda, sulla sua ‘camminata orizzontale’, sul suo abbigliamento discinto, i suoi occhi socchiusi e la sua bocca dischiusa. La sua immagine fuori dallo schermo venne rafforzata con battute e boutade, note nell’ambiente come ‘monroeismi’. L’utilizzazione di questo approccio concreto e spiritoso al sesso collima con il suo stereotipo sullo schermo […] il pubblico ha accettato Marilyn come un simbolo sessuale dal cuore tenero12.

L’analisi di Harris è esemplare nell’indicare la rete intertestuale che i dirigenti della Fox mettono in gioco per costruire l’immagine di Marilyn, sfruttando anche elementi biografici per giungere a un sex symbol che stempera la propria virulenza con una psicologia di bambina fragile che resterà sempre legata all’idea, potremmo dire, di Marilyn: dai film interpretati, fino alla definizione di ‘bellissima bambina’ che per esempio ne darà lo scrittore americano Truman Capote in Musica per camaleonti, o al romanzo dello stesso autore, Colazione da Tiffany, da cui Blake Edwards trarrà, nel 1961, un film interpretato, in modo straordinario, da un’attrice e una donna molto diversa da Marilyn, Audrey Hepburn, che pure, in qualche modo,

partecipa della stessa idea (Capote, infatti, avrebbe voluto che fosse Marilyn a interpretare quel ruolo). Certamente, la peculiarità dell’immagine di Marilyn è legata a questo abbinamento di sensualità dirompente da un lato e fragilità e innocenza dall’altro che costituisce l’ingrediente fondamentale del suo personaggio nelle sceneggiature delle commedie brillanti da lei interpretate, che costituiscono il genere prevalente e caratterizzante della sua carriera. Film come Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes) di Howard Hawks, Come sposare un milionario (How to Marry a Millionnaire) di Jean Negulesco, entrambi del 1953, Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch), su cui ci soffermeremo più avanti, o A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot) di Billy Wilder, rispettivamente del 1955 e 1959, costituiscono non soltanto alcune tra le migliori commedie classiche di Hollywood, ma anche perfette espressioni del personaggio-Marilyn, oltreché ottime interpretazioni dell’attrice. Va detto, tuttavia, che anche i ruoli in contre-emploi, o che variano sensibilmente rispetto al modello originario, fanno i conti con questo. Per le stesse logiche e strategie su cui ci siamo ampiamente soffermati, e che legano produzione e consumo, proposte narrative o spettacolari e attese spettatoriali, ruoli drammatici come quello di Rose Loomis in Niagara (id., 1953) di Henry Hathaway, quasi una dark lady, o la Roslyn-Marilyn degli Spostati (The Misfits, 1961) di John Huston, scritto dall’allora consorte di Marilyn, Arthur Miller, non solo mettono in evidenza un lato drammatico latente nella persona divistica di Marilyn, ma funzionano anche perché lo spettatore vi immette una preconoscenza, un pregiudizio che entra in dialettica con quei ruoli, rendendoli più intensi e profondamente umani. In casi come questi, il rapporto attore/divo/personaggio risulta di particolare complessità perché il divo, l’immagine divistica, agisce in tensione con il personaggio; tuttavia la performance dell’attore tende a collegare i due termini, utilizzando tecniche e modalità tipiche, nell’uso della voce, del corpo, della postura, della camminata ecc., che sono di Marilyn che recita il personaggio e non del costrutto narrativo di sceneggiatura, stabilendo un forte comune denominatore che lo spettatore avverte se non altro emozionalmente. A ciò si aggiunge poi la regia, in senso complessivo, che, al di là delle differenze e delle cifre autoriali presenti nei singoli film, risulta comunque tesa a utilizzare un découpage e un’iconografia che lavorano sul corpo di Marilyn in modo da metterne in evidenza gli elementi fondamentali: la bocca dischiusa, di cui parlava Harris, gli occhi socchiusi o viceversa sgranati, la camminata ecc., secondo modalità ricorrenti.

L’ACTORS STUDIO

Fondato nel 1947 a New York da Elia Kazan, Cheryl Crawford e Robert Lewis, lo Studio è tuttora la più importante scuola di arte drammatica degli Stati Uniti. Naturale prolungamento delle ricerche e delle sperimentazioni del Group Theatre, il metodo di recitazione insegnato all’Actors Studio risale alla lezione del regista russo Stanislavskij, diffusa in America da alcuni suoi allievi del Teatro d’arte di Mosca che, emigrati negli anni Venti negli Stati Uniti, vi fondano l’American Laboratory Theatre. Partendo da una significativa revisione dei precetti sul realismo psicologico e sul naturalismo teatrale propri dell’insegnamento di Stanislavskij, il metodo dell’Actors Studio, sviluppato principalmente da Lee Strasberg, evolve in una direzione caratteristica, che riguarda innanzitutto la teoria dell’identificazione della personalità profonda dell’attore con quella del personaggio. Un’identificazione che deve quindi comprendere la totale disponibilità psicologica dell’attore, che deve scavare nel proprio inconscio e farne affiorare i conflitti. In questo senso, il metodo non solo si allontana dalle teorie brechtiane della ‘distanziazione’ del personaggio, mantenute da Stanislavskij, ma anche dal classicismo hollywoodiano del periodo precedente. Le interpretazioni degli attori dello Studio vanno molto al di là della trasparenza classica, con forti connotazioni nevrotiche e accentuazioni drammatiche che modificano profondamente la drammaturgia dell’attore dal dopoguerra in poi. I più significativi interpreti del metodo sono attori come Marlon Brando e James Dean, le cui interpretazioni nei film sopra citati sono sicuramente esemplari dello stile dell’Actors Studio, insieme a Paul Newman, Marilyn Monroe, fino a Ben Gazzara e Robert De Niro, fondando in buona misura caratteristiche e fisionomia del divismo americano moderno.

Tra l’altro, proprio l’accostamento di film fuori genere con quelli di genere, le commedie, mette in evidenza l’estrema padronanza del mezzo recitativo da parte di Marilyn, la cui consapevolezza e il cui rigore motiveranno a un certo punto della sua carriera, a metà degli anni Cinquanta, la frequentazione dell’Actors Studio, la più impegnata scuola di recitazione del periodo (che da allora imporrà un certo modello al cinema americano, in vigore ancora oggi), senza però che questa lezione aggiunga qualcosa di sostanziale a uno stile e a una tecnica personale estremamente calibrata. A ben vedere, per esempio, nelle commedie citate e in particolare nel ruolo della dumb blonde, l’uso del corpo, della bocca, del volto, dello sguardo, della voce viene condotto con un leggerissimo e sottilissimo scarto ironico o più semplicemente umoristico, che costituiscono ciò che è stato definito come una sorta di indirection13, di impercettibile distanziamento dal personaggio, che definisce un discorso, cioè uno stile, d’attore molto preciso. Questo elemento è forse anche legato e favorito dal fatto che molte delle commedie interpretate da Marilyn presentano uno schema e una struttura narrativa che possono essere definiti ‘metacinematografici’, cioè riferiti a situazioni che parlano di cinema, magari metaforicamente, mettendo in scena spettacoli, numeri musicali (come spesso accade nella commedia musicale) che rimandano al cinema. Marilyn ha spesso interpretato il ruolo della ballerina-cantante di musical o di saloon (oltre ai film già citati, anche La magnifica preda, River of No Return, 1953, di Otto L. Preminger, Fermata d’autobus, Bus Stop, 1956, di Joshua Logan e Facciamo l’amore,

Let’s Make Love, 1960, di George Cukor), dove si mette in scena una ragazza ‘proprio come Marilyn’, come la vulgata biografica di Marilyn diffusa dai media attesta, che fa carriera, o la tenta, nel mondo dello spettacolo. Marilyn ha dato espressione a questo personaggio decisamente metacinematografico e metabiografico con una sensibilità e un’intelligenza recitativa personale che in qualche modo l’ha avuta vinta sul sistema, emergendo in proprio e consentendo alla diva e all’attrice di non essere solo il sex symbol degli anni Cinquanta, ma di superare i confini di un’epoca. 4. «Quando la moglie è in vacanza», ovvero Marilyn e «gli stimoli repressi del maschio maturo. Sue origini e conseguenze» Lo studio di Harris da cui abbiamo preso spunto per queste pagine su Marilyn, sottolinea come, a differenza di Grace Kelly, immagine della ‘compagna ideale’ per il maschio americano medio, Marilyn, la sua immagine, si sia posta per quest’ultimo come quella della ‘compagna di giochi ideale’, venendo a concretizzare i desideri maschili dell’epoca. Più recentemente, Richard Dyer ha meglio precisato che il sex symbol Marilyn corrisponde all’immaginario sessuale rilevato dal rapporto Kinsey, vale a dire dall’indagine statistica condotta da Alfred Charles Kinsey sul comportamento sessuale degli americani in quello stesso 1953 in cui Marilyn aveva posato nuda per la rivista maschile «Playboy». Cioè, l’immagine sessuale di Marilyn ha a che fare con le idee sulla sessualità del momento, idee e desideri che la rivista «Playboy» bene rappresenta, e che sembrano associare a una certa libertà sessuale, o alla ricerca di una certa libertà sessuale, un bisogno di innocenza e naturalezza14. Marilyn sembra proprio la più perfetta espressione del binomio sesso/naturalezza, o sesso/innocenza. Il ‘sex symbol dal cuore tenero’, nelle parole di Harris. Se tutto ciò viene in qualche modo programmato e studiato da parte della Fox che ha sotto contratto Marilyn, e se Marilyn ci mette sicuramente del suo, in senso biografico e in senso di apporto artistico, come già si è detto, ecco che una commedia metacinematografica come Quando la moglie è in vacanza sembra quasi a livello di manifesto, di enunciazione programmatica, raccontarci tutto ciò. Il film di Wilder adatta per lo schermo una fortunata pièce teatrale di George Axelrod, che collabora alla sceneggiatura del film (e che non a caso è lo sceneggiatore di Colazione da Tiffany). Dalla commedia teatrale viene anche l’interprete maschile del film, Tom Ewell, nei panni di Richard Sherman, americano medio che più medio non si può. I personaggi sono estremamente e intelligentemente tipizzati, tanto da funzionare come simboli, senza alcun pericolo di didascalismo, data la sottigliezza e lo humor straordinario della sceneggiatura e della regia di Billy Wilder.

Dicevamo che il film è esplicitamente un film sul cinema. Non solo diversi riferimenti o citazioni cinematografiche lo indicano (l’immaginazione di Sherman che si vede, in un sogno a occhi aperti, come grande seduttore, lo porta a rivivere la sequenza di amore sulla spiaggia di Da qui all’eternità, From Here to Eternity, diretto due anni prima dall’amico di Wilder, Fred Zinnemann; oppure ancora più esplicitamente, Sherman e ‘The Girl’, la ragazza, Marilyn, si recano al cinema a vedere Il mostro della laguna nera, The Creature of the Black Lagoon, di Jack Arnold, uscito quello stesso anno), ma anche tutto il film allude, attraverso la storia della ragazza che nel film non ha nome, ‘The Girl’, appunto, alla storia o meglio alla carriera di Marilyn. La ragazza, che appare come un’ombra sul vero e proprio schermo della porta di ingresso, illuminata in modo tale da risultare una pura immagine onirica e/o cinematografica, nel suo primo ingresso in scena, e che viene a turbare la vita, forse solo fantastica, onirica appunto, dell’impiegato di una casa editrice (che deve significativamente leggere, per lavoro, un saggio sugli ‘stimoli repressi del maschio maturo’), è un’aspirante ‘qualcuno’, un’aspirante diva, forse, che per il momento si accontenta di fare la pubblicità di un dentifricio, dopo avere posato ‘in una di quelle foto d’arte’ per una rivista americana, «U.S. Camera», come Marilyn ha fatto decine di volte. Sherman, il maschio americano normale, con famiglia regolare, per il momento in vacanza, tiene in libreria quelle immagini, così come tiene nel suo inconscio il desiderio di liberazione sessuale che sembra concretizzarsi al momento dell’apparizione di Marilyn. Dopo aver obbedito alle indicazioni lasciate dalla moglie in vacanza (non bere, non fumare ecc.), e dopo aver persino mangiato al ristorante vegetariano, dove cibi a base di segale si accompagnano a bevande rigorosamente analcoliche, e se si parla di nudismo è a opera di una brutta e castrante fanatica di una dogmatica e fredda liberazione dei corpi, non gli resta che rifugiarsi nell’immaginazione prima di dedicarsi alla lettura del manoscritto sugli istinti repressi del maschio maturo. Ma ecco che arriva Lei, l’incarnazione del desiderio e della desiderabilità sessuale, che viene ad abitare al piano di sopra, quasi luogo dell’inconscio, separato da una semplice botola, prima inchiodata, poi aperta. La ‘donnissima’, come la definisce lo scrittore Giuseppe Marotta in una recensione dell’epoca15, è provocante quanto innocente. Tiene ‘gli intimi in frigorifero’, secondo una battuta di dialogo che si confonde con i ‘monroeismi’ pronunciati da Marilyn nelle interviste, ma è pronta a mangiare le patatine e a suonare ‘le tagliatelle’ al pianoforte con il nostro pseudoseduttore. È in grado di interpretare altri ruoli, altre immagini femminili, in un’altra sequenza immaginaria di Sherman, esattamente come Marilyn fece in una

famosa serie di fotografie, ma in realtà è ‘la compagna di giochi ideale’, che ti eccita, ti ‘diverte’ con estrema naturalezza, ma in sostanza non ti compromette e non ti danna (e infatti Sherman, alla fine, corre a raggiungere la moglie in vacanza).

16. Quando la moglie è in vacanza (1955) di Billy Wilder.

Il film è scoperto nel lavorare metanarrativamente sull’immagine di Marilyn, attraverso il personaggio di finzione che riprende una volta di più il suo stereotipo narrativo, e che però parla di lei come diva, e che viene da lei stessa interpretato nel senso di venire costruito attraverso una recitazione vigile e consapevole. Del resto, Wilder non è nuovo a questa dimensione di messa a nudo dei meccanismi e delle convenzioni di Hollywood e dei suoi protagonisti, e se qui la commedia si muove con leggerezza, ma con estrema lucidità in questo orizzonte, il gioco non è meno significativo di quello condotto nel film drammatico esplicitamente dedicato a Hollywood, Viale del tramonto, Sunset Boulevard, realizzato nel 1950. Qui, in Quando la moglie è in vacanza, il regista manipola le risorse dello star system, per metterle in scena, sia pure sottilmente, in un plot di derivazione teatrale che certamente ha anche vita autonoma. Se pensiamo per esempio a ciò che ha preceduto l’uscita del film – e cioè non solo l’affissione a Manhattan di un enorme poster pubblicitario con la celebre immagine di Marilyn con la gonna sollevata dal soffio della metropolitana, relativa alla sequenza più famosa del film (ripresa anche nelle locandine diffuse in tutto il mondo), ma anche l’evento delle stesse riprese on location di tale scena davanti a una folla sterminata e in delirio (al punto da rendere inutilizzabile il girato, poi rifatto in studio) –, non possiamo non cogliere la natura scopertamente costruita e intertestuale della Marilyn del film che, per le attese del

pubblico già bombardato dagli echi di cronaca e dalle immagini riprese a Manhattan (che si diceva avessero provocato una crisi di gelosia di Joe Di Maggio, allora marito di Marilyn, accelerando la fine del loro matrimonio, di cui tutti i giornali parlavano), viene da un lato a interpretare il solito personaggio, dall’altro a dar vita cinematografica alle immagini pubblicitarie e fotografiche già diffuse, mettendo in scena anche se stessa, trascinando con sé la propria biografia. E significativamente, alla fine del film, poco prima che il pentito Sherman, dopo l’avventura con ‘la ragazza’ (che il Codice Hays rende una mancata avventura), decida di correre dalla mogliettina, l’uomo, noto per i suoi deliri immaginativi, tenterà vanamente di convincere colui che teme essere il corteggiatore della moglie, che nel suo bagno c’è ‘una bionda’ e che forse ‘è Marilyn Monroe’… Il film, quindi, colma in ultimo il vuoto del nome proprio della ragazza, ‘The Girl’, ‘la donnissima’, ma solo con un ammiccamento, con una battuta da commedia che dà, però, senso a tutta l’operazione. Ed è altrettanto significativo che il personaggio maschile, simbolo perfetto dell’americano medio, ma anche dello spettatore medio, del pubblico stesso, ‘finito il film’, terminata cioè l’avventura, sia disposto a lasciare la creatura apparsa sullo schermo, immagine di Marilyn Monroe, e a tornare dalla moglie, cioè dal cinema alla vita di tutti i giorni, lasciando The Girl-Marilyn alla finestra, un altro schermo, un’inquadratura nell’inquadratura, pronta a reincarnarsi altre volte in altre storie.

17. Quando la moglie è in vacanza (1955) di Billy Wilder.

Se la recitazione di Marilyn sottolinea, con alcuni elementi deliziosamente e naturalmente caricaturali, la maschera, lo stereotipo del personaggio, permettendo dunque all’attrice di emergere insieme e oltre alla diva, che trova una perfetta identificazione nel personaggio,

anche la regia di Wilder, a partire da una sceneggiatura che imposta una narrazione spesso di secondo grado, utilizza, senza darlo eccessivamente a vedere, con la stessa naturalezza apparente del discorso attoriale di Marilyn, schermi e cornici che permettono di cogliere il film nel film (riquadri di porte, finestre, la scala o giochi di luce che creano degli sfondi per le apparizioni del personaggio), ma anche e soprattutto di vedere Marilyn, attrice/diva/personaggio.

18. Quando la moglie è in vacanza (1955) di Billy Wilder. H. Powdermaker, Hollywood, Dream Factory, Little, Brown and Company, Boston 1950, p. 39. 1

2

Ivi, p. 229.

Per una panoramica degli studi sul divismo e per un approfondimento, cfr. l’ottimo saggio di F. Pitassio, Attore/Divo, Il Castoro, Milano 2003, J. Nacache, L’acteur du cinéma, Nathan, Paris 2002 e S. Gundle, L’età d’oro dello Star System, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, 5 voll., Einaudi, Torino 2000, vol. II, t. I, Gli Stati Uniti. Altri contributi più specialistici verranno citati successivamente in nota. 3

M. Hansen, Maschio divo. Ambiguità sessuale, etnicità erotica: Valentino e le spettatrici, in P. Cristalli (a cura di), Valentino. Lo schermo della passione, Transeuropa/Cinegrafie, Ancona 1996, p. 63 (il testo è tratto da M. Hansen, Babel and Baylon, Harvard University Press, 1991). 4

5

E. Morin, Le star, trad. it., Olivares, Milano 1995.

6

R. Barthes, Il viso della Garbo, in Id., Miti d’oggi, trad. it., Einaudi, Torino 1974, pp. 63-64.

7

A. Bazin, Che cos’è il cinema, trad. it., Garzanti, Milano 1973, p. 8.

8

R. Dyer, Star, trad. it., Kaplan, Torino 2003.

9

Ivi, p. 3.

Su questo, D. Tomasi, Cinema e racconto. Il personaggio, Loescher, Torino 1988, p. 135, cui si farà riferimento in questo paragrafo. 10

Non ci avventuriamo in indicazioni bibliografiche esaustive, data la vanità e impossibilità dell’impresa. Su Marilyn esiste una sterminata letteratura di vario genere che è impossibile qui sintetizzare o razionalizzare, data anche la sua estrema eterogeneità. Ci limitiamo a due recenti lavori italiani: G. Muscio, Marilyn Monroe, Mondadori, Milano 2004 e G. Carluccio (a cura di), La bellezza di Marilyn, Kaplan, Torino 2006. 11

12

T. Harris, The Building of Popular Images. Grace Kelly and Marilyn Monroe, in «Studies in

Public Communication», 1, 1957; trad. it. in Pitassio, Attore/Divo cit., pp. 158-63. Su questo si sofferma a lungo M. Schiavo in Amata dalla luce: ritratto di Marilyn, Tre Lune, Mantova 1999. 13

R. Dyer, Heavenly Bodies. Film Stars and Society, St. Martin’s Press, New York 1986, pp. 1820. 14

15

Ora in G. Marotta, L’oro di Napoli, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2002, pp. 55-59.

VII. Autori a Hollywood. Orson Welles e «Quarto potere»

1. Il contesto. Norma ed eccezione: un iconoclasta a Hollywood Il contesto produttivo che si è descritto nelle pagine precedenti e in generale l’intera organizzazione dello studio system del periodo classico si fondano dunque sull’idea di film come prodotto di uno sforzo collettivo, all’interno di una logica di catena di montaggio in cui a emergere come ruolo dominante è la figura del produttore, piuttosto che quella del regista. Seppure singole personalità registiche riescano a esprimere, di film in film, una poetica e uno stile coerenti e riconoscibili, il periodo che va dall’inizio degli anni Trenta, con l’avvento del sonoro, alla metà degli anni Cinquanta, vede il regista come «ingranaggio nella macchina» (sono parole di Selznick), esecutore di un progetto che viene deciso da altri, e artefice di un prodotto che in fase di montaggio può essere ulteriormente ridefinito dalla produzione. All’interno e sulla base di questo sistema, ogni studio, come si è visto, definisce una propria house aesthetic, vale a dire una propria cifra estetica, che si fonda su una specifica combinatoria di ingredienti che sostanzialmente confermano la coerenza e la compattezza della logica dei generi a livello narrativo, del meccanismo divistico e, a livello stilistico, della relativa stabilità ed equilibrio del découpage fondato sulla continuità. Eccezioni e differenze muovono più sul meccanismo delle variazioni sul tema che non su effettive devianze dalla norma. Il sistema produttivo e rappresentativo hollywoodiano di questi anni è quindi, in generale, piuttosto omogeneo e tendente alla standardizzazione sul piano narrativo-tematico, come su quello tecnico-stilistico. Se nel 1936 nasce la Screen Directors Guild (SDG), come associazione di categoria il cui obiettivo è di rivendicare una maggiore autonomia dei registi a fronte dello strapotere dei produttori1, il regista Frank Capra, presidente dell’associazione, tre anni più tardi pubblica, in una lettera aperta al «New York Times», il seguente bilancio: Per tre anni abbiamo cercato di avere due settimane di preparazione per i film di serie A, una per quelli di serie B, e la supervisione almeno della prima fase di montaggio. […] Abbiamo solo chiesto che al regista sia consentito leggere il copione del film che dovrà dirigere, e montare il film, sia pure in forma non definitiva. […] Per questo ci sono voluti tre anni di lotta. Direi che oggi l’ottanta per cento dei registi gira le scene esattamente come viene detto loro di girarle, senza alcuna variazione, e che il novanta per cento non ha voce in capitolo né sul soggetto, né sul montaggio2.

E, del resto, se da un lato lo stesso Capra, forte del prestigio e della fama assicuratigli innanzitutto dai ben cinque Oscar guadagnati dal suo Accadde una notte (It Happened One Night, 1934) qualche anno prima, muoveva queste rivendicazioni ‘autoriali’ per il ruolo del regista, dall’altro condivideva appieno i principi stilistici e narrativi del sistema hollywoodiano. Come dimostra la sua regia e come attestano precise dichiarazioni in merito («Il pubblico non deve mai rendersi conto che ci sia una macchina da presa nel giro di mille miglia»)3, l’esigenza di una, peraltro relativa, autonomia espressa ufficialmente come presidente della SDG non si poneva in alcun modo come ipotesi alternativa o sovversiva dell’estetica classica, ma semmai come ipotesi di discussione tutta interna al regime produttivo. Sono molti i registi che, in questo periodo, si identificano e amano identificarsi perfettamente con lo stile della trasparenza e della invisibilità espresso dalla macchina produttiva hollywoodiana. George Cukor, per esempio, come ricorda Gandini, dichiarava esplicitamente: «Nel mio caso lo stile di regia deve perlopiù coincidere con un’assenza di stile»4. È precisamente in questo contesto che ogni diversa accezione di ‘autorialità’, irrispettosa della logica complessiva di un sistema che ne rifiuta la dimensione singolare e individuale, non poteva che apparire, ed essere, esplicitamente e violentemente iconoclasta. Ed è, infatti, proprio in termini di iconoclastia che Martin Scorsese, nel suo Viaggio personale nel cinema americano, definisce l’esperienza hollywoodiana di Orson Welles, iniziata prepotentemente proprio nel 1939 e inevitabilmente destinata a interrompersi molto presto5. «L’enorme personalità di Orson Welles

non poteva adattarsi per lungo tempo alla disciplina di Hollywood», dirà il regista francese René Clair6. La sua esigenza di ‘autorialità’ e di individualità artistica e creativa si poneva in effetti in antitesi assoluta con la serializzazione produttiva e la standardizzazione di Hollywood, come il giovane regista («il più giovane degli iconoclasti», con le parole di Scorsese) ebbe a dichiarare in un articolo del 1941, poco dopo la fine delle riprese del suo primo film, Quarto potere (Citizen Kane): Per favore, cercate di capirmi, io credo che un film abbia bisogno di un capo. Si può dire che non esista un film di rilievo che non sia stato fatto […] da un uomo. Quest’uomo è stato il produttore, poteva essere lo scrittore, è stato il regista, come dovrebbe essere sempre […]. Questa personalità dominante è, nell’arte cinematografica, essenziale. Quando è assente, il film è semplicemente il prodotto di vari dipartimenti dello studio, dal costruttore del set all’artefice dei dialoghi, ed è insignificante come qualsiasi merce prodotta in serie7.

L’autonomia e la responsabilità creativa di cui parla Welles fanno esplicito riferimento a un’idea di ‘autore’ individuale e singolare che non poteva che entrare in forte frizione con la macchina hollywoodiana dopo che, nel 1939, per una serie di circostanze straordinarie, la RKO gli aveva concesso un contratto del tutto eccezionale che doveva garantire al ventiquattrenne Welles proprio quell’autonomia che gli consentirà di realizzare, tra polemiche, battaglie e scandali, un film del tutto eversivo rispetto ai canoni hollywoodiani. Un film destinato a risultare eccessivo ed eccedente da tutti i punti di vista, produttivo, narrativo, stilistico ecc., ma anche a porsi, tra querelles e celebrazioni che proseguiranno nel tempo, come film wellesiano, cioè come film ‘d’autore’ a pieno titolo: un fim capace di interessare fortemente la riflessione sul cinema e la pratica stilistica della modernità, a partire dalla centralità che Quarto potere assumerà all’interno della politique des auteurs e dell’idea di cinema proposta dalla generazione di critici e registi da cui avrà origine, alla fine degli anni Cinquanta, la Nouvelle Vague francese e più in generale una buona parte dell’estetica cinematografica postclassica. Insieme al riferimento al cinema di Jean Renoir, di Roberto Rossellini e del neorealismo italiano, a uno studio attento dei film di registi hollywoodiani come Howard Hawks, Nicholas Ray, Alfred Hitchcock e altri, considerati a pieno titolo autori, l’opera di Welles, a partire da Quarto potere, viene a nutrire una nuova concezione di cinema che vede nella scrittura filmica, nell’uso della macchina da presa paragonata alla penna di uno scrittore e quindi di un autore, la possibilità di esprimere una poetica coerente e personale, oltre l’invisibilità e l’appiattimento che, sulle pagine di una rivista militante come i «Cahiers du cinéma», vengono imputate non solo al cinema hollywoodiano di serie, ma anche al cosiddetto cinéma de papa francese, cioè il cinema della generazione precedente. La visibilità e l’‘eccessività’ della scrittura e della poetica wellesiana diventano, per critici e registi come André Bazin, François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e altri, manifesto di un cinema in cui, come sottolinea Bazin riferendosi a Welles, innanzitutto «lo stile crea il senso»8.

LA NOZIONE DI «AUTORE» AL CINEMA Il termine designa una nozione complessa e ambigua, suscettibile di acquistare significati e pertinenze diverse a seconda della prospettiva storica e metodologica che si assume, e che interessa inoltre a diversi livelli, fra loro intrecciati, problemi di ordine istituzionale, critico-teorico e legati all’asse realizzazione-consumo. Nel caso del cinema, la stessa accezione più immediata e intuitiva di «autore» appare problematica, prestandosi a possibili equivoci e fraintendimenti. Posto, infatti, che la realizzazione di un film si basa, in generale, su un processo di produzione molteplice, in cui diversi apporti e contributi concorrono al risultato finale (dal soggetto alla sceneggiatura; dall’allestimento del set, della scena, alle riprese; dal montaggio al missaggio ecc.), è legittimo considerare il solo regista come l’«autore» del film? Oppure, piuttosto, il titolo spetta allo sceneggiatore? Senza contare il ruolo degli interpreti (spesso identificati dal pubblico come il marchio distintivo del film: «un film di Marilyn», «un film di Marlon Brando») o, in determinati contesti storici e produttivi, quello del produttore. Inoltre, le stesse maestranze tecniche forniscono un contributo spesso decisivo alla qualità del film. Tuttavia, se il titolo di autore si riferisce a un progetto espressivo riconoscibile, a una comunicazione di idee e alla proposta di una peculiare visione del mondo attraverso un film, non è senza ragioni che la pratica corrente lo assegna al regista. Piuttosto, si può distinguere un «cinema d’autore», in cui autore e regista tendono in questo senso a coincidere, da generi, correnti, momenti della storia del cinema in cui si impone una strategia produttiva che fa del regista l’esecutore più o meno personale e inventivo di un progetto che decide ad altro livello il suo senso, la sua logica, il suo funzionamento, e l’accento viene posto via via sul divo, sul genere ecc. In questa prospettiva, il problema dell’autore, dunque, coinvolge innanzitutto il lato istituzionale, per riflettersi immediatamente su quello realizzativo e sulla pratica del consumo. In linea generale si può affermare che fino agli anni Cinquanta realizzazione e consumo si appoggiano principalmente sullo star-system e, più o meno esplicitamente, sulla strategia dei generi, mentre solo a partire dagli anni Sessanta si produce e si consuma un cinema propriamente «d’autore». Tuttavia, dal punto di vista critico-teorico, la nozione di autore, insieme a quella complementare di «opera», in riferimento alla personalità stilistica, espressiva, tematica del regista, si è imposta nella storiografia del cinema tradizionale e, più o meno sotterraneamente, percorre fino ai giorni nostri il discorso sul cinema. L’idea che il cineasta sia un autore emerge sin dal primo decennio del secolo, nell’ambito di una riflessione tesa a legittimare lo stesso statuto artistico del cinema (per esempio, nell’estetica di Ricciotto Canudo), percorrendo questa linea guida fino agli anni Venti. È, in particolare, con l’avanguardia francese che la nozione si rivela anche come precisa ideologia, a partire da una serie di autori

che, oltre a essere registi, sono anche teorici, scrittori di cinema (Jean Epstein, per esempio), così come autore appare a tutti gli effetti Sergej M. Ejzensˇtejn. Ma il presupposto diretto dell’idea di centralità della nozione di autore, proclamata e praticata negli anni Cinquanta dalla Nouvelle Vague, va cercato nel manifesto di Alexandre Astruc sulla caméra-stylo, datato 1948, in cui si proclamava il diritto per il cineasta di avere uno stile, di usare la cinepresa come una stilografica, di prendere la parola: «Il cineasta», scriveva, «dovrà dire io come il romanziere o il poeta». La politique des auteurs condotta sulle pagine dei «Cahiers du cinéma» da chi, come Truffaut, Rivette e Godard, costituirà il gruppo dei registi della Nouvelle Vague, si fonda proprio sull’idea che il cinema sia un linguaggio e il film un’operazione di scrittura in grado di dar corpo alla soggettività del suo autore. E lo statuto di autore viene attribuito non solo a registi come Bresson, Welles, Renoir e Rossellini, ma anche a chi, come Hawks, Ray, il Lang americano, Hitchcock, si era dimostrato in grado di raggiungere una propria coerenza espressiva e stilistica pur all’interno delle strutture predeterminate del cinema hollywoodiano, ben al di là della qualifica di «abile artigiano» assegnata dalla critica ufficiale. La nozione di autore, in questa prospettiva, riguarda un campo di coerenza concettuale e morale, una visione del mondo che il film trasforma concretamente in un campo di coerenza tecnico-stilistica. E tale ipotesi teorica passa direttamente dalla critica alla pratica del cinema nei film in cui gli «autori» Truffaut, Rivette e, soprattutto, Godard, lasciano tracce tangibili della loro presenza, come coscienza tecnico-stilistica riconoscibile, soggettività esasperata, reinvenzioni e trasgressioni delle regole consolidate del linguaggio del cinema. In questo modo il cineasta non rivendica più solamente la possibilità di essere riconosciuto come autore, ma si pone come autore «cinematografico».

2. «First Person Singular». Welles a Hollywood9 Signor Marcus – disse in tono così sincero che la voce gli tremò –, non mi stupirebbe se Orson Welles fosse la più grossa minaccia piovuta a Hollywood da anni. Si becca centocinquantamila dollari a film e non mi stupirei che fosse così estremista da costringervi a rifare tutte le apparecchiature e a ricominciare tutto da capo, come avete fatto nel ’28 col sonoro. – Oh, mio Dio! – gemette il signor Marcus.

Questa battuta potrebbe sembrare il frammento di un dialogo, magari un po’ didascalico, tratto da un film o un romanzo sul cinema realizzato, col senno di poi, oggi. Si tratta, invece, di una sorta di profezia (del resto annunciata) che Francis Scott Fitzgerald mette in bocca a Pat Hobby, il protagonista di una serie di racconti sul mondo del cinema pubblicati nel 1940 (e, dunque, ancor prima dell’uscita pubblica di Quarto potere) su «Esquire». Pat Hobby è un ex scrittore di didascalie per i film muti, poi riciclato come soggettista, che attraversa il mondo illusorio degli studios americani, commentandone tendenze, mode, isterismi e mitologia con alterni accenti di cinismo, autocommiserazione o, come in questo caso, malcelata invidia. Tra l’altro qui, nel racconto interamente dedicato a Orson Welles10, la profezia di una minaccia legata alla presenza di Welles a Hollywood provoca addirittura un attacco cardiaco al vecchio e potente produttore signor Marcus cui Pat Hobby sta chiedendo un favore. Fitzgerald, in realtà, mette in bocca a un personaggio di finzione una battuta che avrebbero potuto pronunciare – o forse hanno pronunciato – in molti in quel momento a Hollywood, così come attribuisce a Hobby un’antipatia (e un’invidia) nei confronti del regista di Quarto potere che certo non erano in pochi a provare da quando, il 21 luglio 1939, la RKO aveva firmato con il ventiquattrenne Welles, al suo esordio cinematografico, un contratto senza precedenti, conferendogli un’autonomia quasi completa, dall’accettazione del soggetto in poi; e questo, lo ricordiamo ancora, accadeva nell’era dei grandi tycoon, vale a dire nell’era di uno studio system dominato da produttori tiranni alla David O. Selznick che, proprio nel 1939, come si è visto nelle pagine precedenti, produceva con la MGM Via col vento. Welles, in effetti, fa il suo ingresso a Hollywood dalla porta principale, grazie a una fama già consolidata di enfant prodige e di genio. Se le stesse, note, circostanze biografiche (la perdita della madre, pianista e sua precoce iniziatrice a Shakespeare e ai classici, il giro del mondo a soli otto anni, la perdita poco dopo del padre, un’educazione nel complesso eccentrica e non convenzionale) avviano il ragazzo di Kenosha, Wisconsin, a un destino non comune, il giovanissimo Welles cui la RKO concede una libertà straordinaria non solo ha già rifiutato altre offerte giunte da Hollywood (tra cui una della stessa RKO che lo voleva come interprete per il Quasimodo di William Dieterle – Notre Dame, The Hunchback of Notre Dame, 1939), ma si presenta al mondo del cinema forte di una sensazionale e polimorfa carriera teatrale (come regista, scenografo, attore, autore di adattamenti ecc.) e, soprattutto, reduce dal clamore, e dal successo, suscitato dalla famosa beffa radiofonica giocata al mondo intero con l’adattamento della Guerra dei mondi di Herbert G. Wells, un classico della letteratura di fantascienza attualizzato in stile di cronaca, come se si annunciasse lo sbarco dei marziani sulla Terra (era il 31 ottobre – la notte di Halloween, del resto – del 1938). Certo la RKO – nella persona del direttore di produzione George Schaefer, ex assistente alla Goldwyn, assunto all’inizio del 1937 per tentare una campagna di qualità (come era nelle intenzioni del gruppo RCA-Rockefeller, che controllava allora la più fragile delle grandi Majors) – intendeva assicurarsi con Welles una sorta di «asso pigliatutto che avrebbe dovuto sfornare un

film all’anno»11, correndo anche il consapevole rischio di avere a che fare con una personalità artistica difficilmente irreggimentabile (come dimostra la stessa eccezionalità del contratto che gli veniva offerto) e incline alla trasgressione delle regole consolidate e alla provocazione. Il suo stesso percorso teatrale, iniziato professionalmente da Welles adolescente sui palcoscenici di Dublino, ha il suo culmine nella seconda metà degli anni Trenta, quando, con la realizzazione di un Voodoo Macbeth ambientato a Harlem e interpretato da neri (un centinaio di attori, di cui solo 6 o 7 professionisti) e di un Giulio Cesare attualizzato in chiave antinazista (rispettivamente nel 1936 e nel 1937), si grida contemporaneamente al genio e allo scandalo. In effetti, se la rivista «Time» lo descrive come «l’astro più scintillante che sia sorto a Broadway da anni e anni. Welles dovrebbe sentirsi a suo agio nel firmamento, perché il cielo è l’unico limite che la sua ambizione riconosca», la persecuzione da parte del magnate della stampa, William Randolph Hearst, nei confronti di Welles inizia ben prima di Quarto potere, presunta biografia in chiave negativa dello stesso Hearst, e ha origine proprio con pesanti e serrati attacchi al Macbeth nero. Del resto è propriamente grazie a questa pubblicità, nel bene e nel male, che Welles e l’intera compagnia del Mercury Theatre, da lui fondata insieme a John Houseman nel 1937, ottengono facilmente un contratto con la stazione radiofonica della CBS per la realizzazione di adattamenti di classici letterari (spesso virati in gotico) e radiodrammi da raccontare in First Person Singular (titolo del programma della CBS). Il repertorio spazia con spregiudicatezza, ma anche con coerenza profonda, se colta in prospettiva, da Amleto alla già citata Guerra dei mondi, o all’adattamento di Cuore di tenebra che precede il progetto cinematografico, poi fallito, concepito nel primo anno di attività alla RKO e nucleo tematico anche di Quarto potere. Al di là dell’enorme pubblicità (e anche di qualche fastidio) procurata a Welles con lo scherzo di Halloween (che milioni di radioascoltatori presero sul serio) – premessa necessaria della sua (breve) fortuna a Hollywood (secondo una reazione a catena esemplare del meccanismo dell’industria culturale e del sistema dei media: successo a Broadway - contratto radiofonico successo radiofonico - contratto cinematografico) –, l’esperienza radiofonica risulta essenziale nel suo complesso anche dal punto di vista delle strategie narrative e drammatiche utilizzate, del personale approccio wellesiano al mezzo e, quindi, di come ciò nutra e arricchisca anche la successiva concezione della rappresentazione cinematografica. In questo senso, infatti, è interessante notare come First Person Singular non fosse soltanto un titolo assai adeguato per l’egocentrismo e la personalità di Welles, ma rispondesse effettivamente a un programma preciso di utilizzo del mezzo radiofonico come insieme di voci narrative individualizzate attraverso l’impiego di monologhi interiori, diari, lettere, spesso con un conseguente trattamento del tempo narrato oltre la linearità cronologica del radiodramma tradizionale. Il che non è evidentemente privo di senso rispetto alla struttura narrativa di un film come Quarto potere. Ma non soltanto il regime narrativo caratteristico dei programmi radiofonici wellesiani anticipa e fonda la successiva esperienza cinematografica; anche dal punto di vista delle strategie linguistiche e drammaturgiche, il coinvolgimento dell’intera compagnia Mercury, compresi i tecnici del suono e il musicista Bernard Herrmann (che con Quarto potere firmerà la sua prima composizione per il cinema), si traduce in una rappresentazione sonora stratificata e complessa, costruita in profondità, con vocalità ed effetti sonori e musicali atti a evocare una spazialità pienamente prospettica. Naturalmente, al centro della scena sonora la voce dello stesso Welles dava corpo fisico peculiare alla ‘prima persona singolare’, nel ruolo del narratore o del personaggio protagonista (e non è senza importanza notare che, come sarebbe dovuto accadere per l’adattamento cinematografico non realizzato, in Cuore di tenebra Welles interpretava sia Marlow che Kurtz). Un’analisi attenta dello stile radiofonico di Welles (per esempio anche sulla registrazione della trasmissione della Guerra dei mondi) permette di considerare come un’analoga ricchezza e spessore rivesta anche la colonna sonora, nel suo complesso, di Quarto potere, non meno innovativa, sorprendente e trasgressiva rispetto alle regole classiche della colonna visiva. In effetti, se la minaccia rivoluzionaria profetizzata da Pat Hobby nel racconto di Fitzgerald si riferisce al linguaggio del cinema, certamente nel caso di Welles questa nozione riguarda una dimensione pienamente audiovisiva. Anzi, se il film in qualche modo forza e distrugge il découpage classico, ciò accade soprattutto a livello di relazioni audiovisive, e la vera profondità di campo – capace di divenire profondità narrativa e di senso – è la profondità di una scena audiovisiva, nuova ed eccessiva per gli occhi di uno spettatore di quel momento. Welles, dunque, al momento della firma del contratto a Hollywood è già non solo una figura pubblica, ma anche un artista con una

ricca e molteplice esperienza, nonostante la giovanissima età, e una individualità artistica precisa e irriducibile. Perché la RKO accetta la scommessa e offre a un genio ribelle (e a tutta la sua compagnia) una sicuramente rischiosa autonomia (relativa, ma immensa rispetto ai canoni vigenti)? In effetti, proprio perché la sfida è quella di lanciare una nuova immagine della casa di produzione, debole rispetto a Majors come la MGM, la Warner Brothers o la Paramount, famose per avere in dotazione scuderie di attori, scrittori e registi di valore. La RKO piuttosto poteva vantare un notevole reparto per gli effetti speciali, con una schiera di tecnici, artisti e scenografi di talento (si pensi a King Kong, id., di Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper, prodotto dalla RKO nel 1933, o al fatto che Disney aveva realizzato proprio con l’équipe RKO il suo primo lungometraggio di animazione, Biancaneve e i sette nani, Snow White and the Seven Dwarfs, nel 1937). Ma se certamente Welles si avvantaggia di tale prerogativa dello studio e si appropria della qualità fantastica e immaginaria dello sguardo tipico RKO, collaborando splendidamente con la direzione artistica di Van Nest Polglase e Perry Ferguson, o gli effetti speciali di Vernon L. Walker, certamente non si può dire che il progetto di rilancio della RKO attraverso Welles sia riuscito. Dopo vari progetti abortiti o rifiutati (tra cui il già citato Cuore di tenebra), con Quarto potere e la battaglia ingaggiata da Hearst contro Welles fin dalle prime indiscrezioni sulla sceneggiatura, si corre il rischio, se non addirittura che venga bruciato il negativo del film, come voleva Hearst, almeno che ne venga impedita l’uscita, che comunque verrà rinviata, innescando un clima di polemica e di isteria collettiva, tra partigiani e detrattori, tra chi ne attende e celebra le presumibili genialità e chi si cimenta in una campagna distruttiva – come la giornalista Louella Parson, del resto parte attiva della scuderia di Hearst. Come si sa, alla sua uscita il film risulterà un successo per la critica e per gli addetti ai lavori (Erich von Stroheim per esempio dirà: «Citizen Kane passerà alla storia del cinema. Pieni poteri a Welles!»), ma fu un clamoroso insuccesso di pubblico. Del resto, come è stato detto, il film era decisamente al di sopra dell’età mentale del pubblico medio. Con il successivo L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942) la disfatta sarà completa, e lo stesso Schaefer, che aveva fino ad allora sostenuto Welles all’interno della RKO, anche nel pieno della bufera Hearst, viene costretto a dimettersi. Pat Hobby in qualche modo aveva ragione. Welles era una minaccia per Hollywood, una minaccia rivoluzionaria (e non solo per motivi politici, come pure sosteneva lo stesso Hearst che giunse al punto di accusare il regista di Quarto potere di filocomunismo, motivando addirittura un’inchiesta dell’FBI). Una rivoluzione che riguardava la logica produttiva, narrativa e linguistica della Hollywood classica; una rivoluzione destinata a lasciare tracce profonde e durature, a segnare e modificare la storia del cinema, così come la stessa riflessione teorica sulla natura del mezzo cinematografico da André Bazin in poi. Un film mitico (anche nel sogno ricorrente del regista Ferrand – interpretato dallo stesso Truffaut – che si rivede bambino a rubare da un cinema la locandina di Quarto potere, in Effetto Notte, La nuit américaine, di François Truffaut, 1973) e che, nell’ormai tradizionale appuntamento decennale organizzato dalla rivista «Sight & Sound», dove critici di tutto il mondo votano i dieci migliori film della storia del cinema, continua da sempre a risultare il primo. Ma la sua portata e la stessa presenza di Welles a Hollywood, nel 1941, erano davvero eccessive. In effetti, con Quarto potere Welles aveva inaugurato un modo di narrare che eccedeva da tutti i punti di vista, da quello immediatamente tematico, dilatando la vicenda sul piano storicorealistico, morale, psicologico, a quello drammaturgico, forzando e reinventando il linguaggio classico nella rappresentazione di una realtà che è anche stilisticamente prospettica, sfaccettata, contraddittoria come i personaggi che la abitano, a partire dal Kane interpretato da Welles stesso. Un modo di narrare eccessivo che rintracciamo in tutte le sue opere successive, anche quelle realizzate con mezzi di fortuna o con finanziamenti raccolti in giro per il mondo, dopo la scomunica hollywoodiana. Se con il film di esordio Welles aveva avuto il privilegio di controllare in toto la sua opera, la sfida al sistema hollywoodiano non fu più possibile. Non solo dopo L’orgoglio degli Amberson, nel 1942, Welles viene licenziato dalla RKO, ma il film, tratto dall’omonimo romanzo di Booth Tarkington, viene distribuito in una versione manipolata in sede di montaggio dalla casa produttrice. Incentrato sulla decadenza di una famiglia agli inizi del secolo, sullo sfondo del tramonto dell’economia latifondista, alle soglie della moderna industrializzazione, il film presenta una serie di tematiche e caratteristiche stilistiche che proseguono la direzione intrapresa con Quarto potere, con il quale il film costituisce una sorta di dittico. Da un lato, una contestualizzazione storica precisa che rimanda alle origini del

capitalismo moderno, affrontato con il primo film attraverso la vita di Kane lungo settant’anni cruciali di storia americana, dall’altro, gli aspetti esistenziali legati alla rappresentazione dell’individuo, in contrasto non solo ideologico, ma anche morale con la società e l’universo cui appartiene. Un contrasto legato a una volontà narcisistica e infantile di potere, a dispetto dell’intima vulnerabilità e fragilità, connesse, nei due film, alla perdita dell’infanzia. Ma soprattutto, il tentativo di trasmettere attraverso lo stile il senso del film, dilatando drammaturgicamente lo spazio e il tempo dell’inquadratura, della sequenza, con il ricorso frequente a piani-sequenza, a riprese in profondità di campo, a profondità e montaggi peculiari anche a livello sonoro, all’interno di realtà scenograficamente complesse (per esempio, l’incombenza dei soffitti costruiti in studio che convenzionalmente venivano esclusi dal campo visivo), a volte sovrabbondanti, iconograficamente forti. Caratteristiche che rendono unitaria, riconoscibile, compatta l’opera wellesiana nel suo complesso; caratteristiche che di volta in volta vengono coniugate in direzioni diverse, ma sostanzialmente analoghe: dai film di genere – come i grandi noir (La Signora di Shanghai, The Lady From Shanghai, 1947; Rapporto confidenziale, Mr. Arkadin, 1955; L’infernale Quinlan, Touch of Evil, 1958) – ai film in cui la tematica esistenziale si esprime su base letteraria (Il processo, The Trial, 1962) o ai film direttamente tratti da Shakespeare (Macbeth, id., 1948; Otello, Othello, 1952; Falstaff, Chimes at Midnight, 1966), in cui gli echi shakespeariani presenti in tutta la sua opera trovano diretta espressione. Un’opera che vede nell’artificio, nella falsità materiale della rappresentazione (ravvisabile anche nel trucco che rende spesso fisicamente eccessivi anche i personaggi), nel gusto di una sorta di illusionismo o gioco di prestigio audiovisivo, la sola dimensione estetica capace di arrivare a una verità sul piano drammatico. E un omaggio all’estetica del falso, in una sorta di testamento beffardo, sarà infine F come Falso/Verità e menzogne (F for Fake/Vérités et Mensonges, 1975). 3. Il film. Un labirinto senza centro Quarto potere è, del resto, ancora un film eccessivo. La sua eccezionalità, la sua stessa forza, e certamente anche il motivo per cui continua a essere oggetto di studio e di amore, in una parola, un mito, non riguardano solo la sua originalità sul piano stilistico-narrativo, in rapporto ai modi di racconto, alle tecniche utilizzate e alla sua ricchezza formale. Riguardano anche un vero e proprio eccesso di senso, una stratificazione e complessità semantica che rendono qualsiasi percorso interpretativo semplicemente un percorso possibile tra altri, in relazione reciproca tra di loro secondo un ordine, una gerarchia o una disposizione indecidibili. L’avventura ermeneutica di Quarto potere assomiglia all’attraversamento di un labirinto in cui tutte le strade, e nessuna al contempo, sembrano condurre al centro. Fu Borges, in una recensione contemporanea all’uscita del film, apparsa su «El Sur» n. 83, nell’agosto del 1941, a definire il film in questi termini: in uno dei racconti di Chesterton – The Head of Caesar, credo – l’eroe osserva che nulla è più terrificante di un labirinto senza centro. Questo film è esattamente quel labirinto12.

E ancora: Oppressivamente, infinitamente, Orson Welles esibisce frammenti della vita dell’uomo Charles Foster Kane e ci invita a combinarli e a ricostruirlo. […] Alla fine comprendiamo che i frammenti non sono retti da una segreta unità: l’aborrito Charles Foster Kane è un simulacro, un caos di apparenze.

La lettura di Borges, che parte dall’individuazione di una chiave nichilista («Unisce al ricordo di Koheleth quello di un altro nichilista: Franz Kafka. Il tema – nel contempo metafisico e poliziesco, mitologico e allegorico – è la ricerca dell’anima segreta di un uomo»), coglie soprattutto la tematica esistenziale del film, la dimensione profonda e simbolica della storia, la sua strutturazione (o de-strutturazione) prismatica a frammenti, via via restituiti dalle diverse testimonianze e dai diversi resoconti della vita di Charles Foster Kane. Il riferimento kafkiano, così come quello biblico, seguono coerentemente un percorso di senso che vede nel «simulacro», nel «caos di apparenze» che emerge dal labirinto scentrato del film non solo il tema della relatività della verità o dell’impossibilità di giudicare un uomo, ma quello ben più definitivamente pessimista della vanitas e della corruttibilità, dissolubilità di gesti, azioni, comportamenti, pensieri nel nulla. In questo senso, è chiaro che se la ricerca («metafisica e poliziesca» insieme) del significato della parola «Rosebud», e lo svelamento dell’enigma (per il solo spettatore, a esclusione dei personaggi della storia) giungono al loro culmine nel momento stesso in cui se ne vanifica l’importanza (dopo che lo slittino si dissolve tra le fiamme, l’epilogo del film ritorna esattamente alla situazione di mistero iniziale, ribadendo il «No Trespassing» su cui già si è soffermato lo

sguardo della macchina da presa nel prologo del film), allora «Rosebud», e quindi il rimpianto e la nostalgia per l’infanzia perduta, non spiegano poi molto; il loro senso si perde, si dissolve nel fumo nero che esce dal camino della residenza di Charles Foster Kane. Del resto, lo slittino non è che uno dei migliaia di oggetti (ormai vani) accatastati nei depositi di Xanadu. 4. Realismo storico e senso morale Il Quarto potere di Borges risulta, coerentemente con la poetica dello scrittore argentino, un’opera essenzialmente allegorica (e non del tutto in accezione positiva: Borges accusa il film di pedanteria e gigantismo), e l’analisi che ne viene proposta rimuove totalmente la dimensione di realismo storico-sociale del film, cui Borges non dedica alcuna attenzione. Eppure attraverso la vita del cittadino Kane (in cui è effettivamente possibile ravvisare alcuni riferimenti espliciti a William Randolph Hearst, che per questo intentò una causa alla produzione – così come ad altre figure di magnati americani, come Howard Hughes o Julien Brulatour, proprietario della Kodak) vengono inquadrati cinquant’anni di storia americana (con i puntuali riferimenti del cinegiornale e di alcune interviste), e l’approccio wellesiano mette a nudo una contraddizione che mira all’ideologia del New Deal, per esempio nell’ambivalenza del Kane pubblico: da un lato riformista autoritario e paternalistico, dall’altro capitalista aggressivo. È evidente, d’altro canto, nella stessa costruzione narrativa, l’esigenza di dilatare il più possibile i termini storici e cronologici di una vicenda personale e di un protagonista della vita sociale, in modo da coinvolgere nel giudizio su un uomo il giudizio su una società, fino appunto agli anni del New Deal. Altrettanto chiara l’analisi precisa e spietata del mondo della stampa e del sistema dei media che vi si collega (basterebbe il cinegiornale interno al film, «News on the March»), attraverso una descrizione delle logiche e dei metodi giornalistici moderni (con riferimenti, questa volta sì, molto precisi allo stile Hearst). Del resto, il titolo dell’edizione italiana del film attiva propriamente questo percorso di lettura che non è certamente meno importante di altri. Ma anche su questo versante tematico è possibile percepire un’eco che tende a dilatare i contorni realistici più concreti e diretti in una dimensione di respiro più ampio. Se la vicenda personale di Charles Foster Kane ‘riassume’ cinquant’anni di storia americana – la prima versione della sceneggiatura, preparata da Herman Mankiewicz e poi ampiamente rivista, in altre sei differenti versioni, con il pieno contributo di Welles, si intitolava per l’appunto «American» –, il passaggio dalla storia alla Storia avviene anche attraverso una connotazione simbolica dei personaggi e degli accadimenti. La perdita dell’infanzia, l’allontanamento da casa del bimbo, corrispondono anche al passaggio dell’America dall’età ‘pura’ e incontaminata dei pionieri all’America di Wall Street. In questo senso, molti hanno sottolineato come la madre di Kane rappresenti il perfetto emblema dell’etica puritana del sacrificio. Il sacrificio di quell’America lontana e perduta, concretamente incarnato dall’affidamento del figlio a un tutore-banchiere, insieme a una fortuna ereditata da un cercatore d’oro. Qualcuno ha anche notato, suggestivamente e legittimamente (in un film che, fra le altre cose, presenta anche tutta una serie di elementi cifrati, assonanze, doppi sensi ecc.), come lo stesso nome «Mary Kane» suoni quasi uguale alla pronuncia americana di «American». L’America, quindi, del capitale finanziario prende la sua innocenza, la sua infanzia. Ma ecco che da questa dimensione storica e metastorica si ritorna a una dimensione esistenziale, morale. L’ossessione di potere politico, finanziario, sociale di Kane appare un’ossessione di tipo nevrotico, legata a una mancanza, a una perdita, a una fragilità intima e finisce con il risolversi, in effetti, nell’ossessione dell’infanzia, come ha sottolineato innanzitutto Bazin: Quarto potere e L’Orgoglio degli Amberson, da soli, costituiscono quello che si potrebbe chiamare il ciclo del realismo sociale […] sono per il cinema l’equivalente del romanzo realista e, diciamo, della tradizione balzachiana. Essi apparivano in primo luogo come delle efficaci testimonianze critiche sulla società americana. Ma questo primo livello di significato deve essere superato, e sotto questa sedimentazione sociale, si giungerà subito al massiccio cristallino del senso morale. […] La volontà di potere sociale di Kane, l’orgoglio di George Minafer affondano le loro radici nella loro infanzia, ossia in quella di Welles13.

Bazin giunge addirittura a cogliere nell’ossessione di Kane l’ossessione di Welles (non dimentichiamo che Welles stesso ha perduto molto presto l’infanzia). L’enfant prodige, che Welles è stato, è qualcuno che invecchia precocemente, che si allontana a passi prodigiosi, per l’appunto, dalla propria infanzia. Al di là del dato più meccanicamente biografico (e si potrebbe però notare che la sceneggiatura di Mankiewicz, nelle successive rielaborazioni condotte da Welles stesso, rivela una progressiva riduzione degli elementi biografici ispirati a Hearst, mentre parallelamente crescono gli elementi che ci riportano a Welles), si può cogliere nel film, insieme all’ossessione dell’infanzia, quella della vecchiaia. Si pensi anche, tra l’altro, a come Welles interprete, attore,

venticinquenne, rivesta con estrema disinvoltura i panni di un uomo anziano e, comunque, più vecchio, per buona parte del film. L’invecchiamento di Kane risulta tragico nel film quanto la perdita dell’infanzia. Anche perché, in una reciprocità fatale e ineluttabile, i due termini conducono entrambi alla morte. Il tema della morte è un altro dei temi morali, esistenziali del film. Il film inizia all’insegna della morte e la sua stessa disposizione a flashback, dentro un tempo già dato, già trascorso, concretizza sul piano strutturale la percezione della morte che caratterizza tutto il film. Il tema stesso del potere, in un’eco faustiana che certamente è forte nel film (dice Welles: «Tutti i personaggi che ho interpretato sono delle diverse versioni di Faust»14), è legato all’idea della corruzione fisica e morale, alla perdita dell’innocenza e quindi dell’infanzia, dell’avvicinamento alla morte. Da questo punto di vista è interessante notare che il leitmotiv del potere, nel commento musicale di Bernard Herrmann (che in generale costruisce una tessitura testuale di complessità pari alle immagini cui si accompagna, suggerendo piste semantiche che si intersecano con quelle narrative), è al contempo un tema fortemente mortuario (lo sentiamo all’inizio, nel prologo del film), in cui si rielaborano riferimenti al Dies Irae e alla Messa gregoriana dei morti. Ed è anche significativo che, al momento della boccia di vetro, del richiamo alla neve, il leitmotiv di Rosebud sorge musicalmente dal motivo mortuario del potere, per poi distinguersi solo secondariamente. I due temi musicali, ripetuti più volte e con diversi arrangiamenti sempre motivati semanticamente, si contengono l’un l’altro. Sono, in qualche modo, l’uno il doppio dell’altro. 5. Da Conrad a Coleridge, da Pollicino a Kubla Khan La duplicità è, del resto, uno dei motivi essenziali del film, ravvisabile a ogni livello. A partire dalla stessa personalità di Kane, doppio nel suo intimo, sia in senso sociopolitico, come si è già sottolineato, che in senso morale (generoso e tiranno, onesto e prevaricatore ecc.), fino al sistema dei personaggi (Kane-Leland, chiaramente l’uno il doppio dell’altro – quasi Caino e Abele, come fa venire in mente anche il nome di Kane – o Marlow/Kurtz, con un richiamo conradiano che conduce al ‘cuore di tenebra’ del film; le due mogli) e addirittura degli oggetti (anche le slitte sono due: ‘Rosebud’ e ‘The Crusader’, la slitta che Thatcher regala a Kane al suo primo Natale fuori casa). La stessa duplicità è ravvisabile nella struttura narrativa del film (il prologo e l’epilogo; il racconto della vita di Kane nel cinegiornale – sorta di film nel film, o di film del film15 – e il racconto della vita di Kane attraverso le testimonianze), nonché nello stile di scrittura (la ripresa in continuità, il piano-sequenza e la profondità di campo, ma anche, come si è detto, tutti gli effetti di montaggio possibili; il realismo ravvisato da Bazin, ma anche l’astrazione o l’espressionismo sottolineato soprattutto dalla critica anglosassone16). Inoltre, il motivo del doppio, ripercorso in profondità a tutti i livelli possibili, può anche funzionare come motivoguida attraverso le molte reminiscenze e i molti riferimenti culturali e letterari presenti nel film: a partire da quello conradiano, per cui Quarto potere è anche (in una sorta di sublimazione) il Cuore di tenebra che Welles non è riuscito a realizzare l’anno precedente17, con il viaggio profondo che dallo stato di cultura (il potere politico, economico, finanziario, la vecchiaia come conoscenza) si compie verso uno stato di natura (l’infanzia, l’ignoranza, l’innocenza), in un trattamento assiologico dei due termini archetipici complesso e certamente non manicheo. Evidenti inoltre i riferimenti – molteplici – al romanzo americano, come per esempio quelli al Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald (più di un aspetto di Kane rimanda a Gatsby, così come lo sdoppiamento Kane/Leland rimanda a Gatsby/Carraway)18. Ma anche da questo punto di vista, il film appare come un labirinto senza il centro. Nessuno di questi riferimenti risulta quello centrale, anzi sembra vanificare il suo significato non appena da esso stesso si aprono altre piste. Il film è allora anche un simulacro culturale, un caos di apparenze che rinviano ciascuna ad altrettanti archetipi (o stereotipi, se si vuole). Per esempio, in stretto collegamento con il tema dell’infanzia, è possibile anche riconoscere una dimensione fiabesca, non soltanto in un trattamento fantastico-onirico della scena e dell’immagine – artefici, del resto, insieme a Welles e al direttore della fotografia Gregg Toland, i tecnici del reparto effetti speciali RKO: si pensi alla somiglianza tra Xanadu e il castello della regina cattiva della Biancaneve disneyana, realizzata appena tre anni prima proprio in quegli studi, dove pure si è realizzato King Kong, secondo molti altra reminiscenza o eco ravvisabile nell’immaginario che definisce l’universo di Kane –, ma anche nella specifica presenza di archetipi ricorrenti della fiaba tradizionale. In questo senso,

l’allontanamento da casa del piccolo Kane, determinato da motivi di vantaggio economico, si costruisce sullo schema soggiacente di una funzione tipica della fiaba, come per esempio in Pollicino o Hansel e Gretel. Kane è propriamente una sorta di Pollicino che cerca, senza trovarla se non alla fine, ma vanamente, la strada di casa. E la dimensione fantastica e onirica del film, sostenuta soprattutto a livello stilistico (si pensi al prologo, alla descrizione notturna e confusa della residenza di Xanadu, all’avanzare della macchina da presa che ricorda, come reminiscenza, un altro incipit decisamente ed esplicitamente onirico, quello di Rebecca, la prima moglie, Rebecca, 1939, di Alfred Hitchcok), richiama alla memoria un ulteriore riferimento, questa volta liricopoetico e peraltro diretto: il Kubla Khan di Coleridge e la descrizione, del tutto onirica, della sua Xanadu19. È interessante a questo punto notare come non solo il film riprenda esattamente il nome della favolosa residenza – e lo stesso nome «Kane» è una minima variazione del «Khan» di Kubla Khan –, ma anche come Coleridge sostenesse di avere avuto in sogno la visione di Xanadu, e come la sua descrizione non fosse altro che la trascrizione di questa apparizione onirica o rêverie allucinatoria. Ed è questo riferimento a risultare in effetti determinante, non tanto o non solo sul piano dell’archeologia e della stratificazione dei motivi culturali all’origine del film (molti altri potrebbero essere richiamati, ma si rivela un’operazione enciclopedica, un catalogo che comunque non esaurisce il film), quanto piuttosto su quello della qualità e della logica stilistica e discorsiva del film, come avremo modo di notare. Alla fine, la scrittura di Quarto potere è una scrittura che trova la sua coerenza in una soggettività marcatamente onirica o allucinatoria, che si racconta, inventando un racconto, la propria narrazione, i suoi narratori. Dunque, un’analisi tematica del film, sia pura schematica e ‘panoramica’, sembra condurre a una sorta di compresenza di molti, o persino di tutti i riferimenti possibili (e forse la chiave è, anche da questo punto di vista, quella nichilista percepita da Borges: tutto è uguale a tutto, alla fine di tutto non resta nulla, se non la vanitas: Quarto potere come un moderno e laico Ecclesiaste). 6. La struttura narrativa e lo stile Un primo livello di originalità e complessità del racconto riguarda preliminarmente e programmaticamente l’organizzazione dell’intreccio rispetto alla linearità cronologica naturale, attuata in modo tale da accostare a una clamorosa frantumazione del tempo, nei diversi flashback e pure nel cinegiornale che li precede, una molteplicità di punti di vista diegetici, cioè interni al mondo della finzione, in una sorta di struttura prismatica complessiva o, secondo una metafora esplicitamente chiamata in causa dal film stesso, di puzzle. Tale costruzione prevede un funzionamento testuale complesso, a partire dalla struttura eterogenea su cui si basa e che comprende20: – un prologo (dall’esterno all’interno di Xanadu, fino alla morte di Kane, con l’enunciazione della parola «Rosebud»), senza narratore o narratori diegetizzati o diegetici; – un cinegiornale diegetizzato che funziona come un ‘film nel film’, una sorta di suo doppio, o embrione, in una dimensione di ‘esposizione’, in cui alle immagini che mostrano ritagli di giornali, fotografie, episodi della vita di Kane, si aggiunge l’intervento di una voce narrante – quella del commentatore del servizio giornalistico – giustificata, quindi, diegeticamente; – l’avvio dell’inchiesta dopo il cinegiornale; – i diversi racconti visualizzati in flashback dopo brevi introduzioni (scambi di battute tra il giornalista e l’intervistato) che li giustificano come narrazioni diegetiche; – la fine dell’inchiesta, con il ritorno al sistema del prologo (dopo averci mostrato la slitta che brucia, la macchina da presa esce da Xanadu, con percorso inverso rispetto al prologo, per tornare all’esterno), dunque senza narratori diegetici. Questo dispositivo si pone già, a livello di sceneggiatura e di organizzazione dei materiali narrativi, come fortemente elaborato, costruito, lontano dalla chiarezza, continuità e fluidità narrative del regime classico. Intanto, la peculiare articolazione dell’intreccio pone esplicitamente il problema del narratore, cioè della posizione dell’istanza narrante, laddove questa spesso concede voce a ‘narratori’ diegetici che moltiplicano i punti di vista sul personaggio senza svelare l’enigma che questi sembra costituire. In qualche modo è come se ciascun testimone della vita di Kane, promosso a turno al ruolo effimero di narratore, non svelando l’enigma, rimandi al

successivo, in una globale sconfitta di tutti i narratori interni al racconto. In questo senso la svalorizzazione dei diversi narratori sembra rafforzare il ruolo del ‘vero’ narratore, e cioè di quell’istanza narrante che poi, nei modi specifici del racconto cinematografico, dà vita alla storia e, solo attraverso questi, giunge ad affermare l’impossibilità di raggiungere l’interiorità di Kane, semplicemente evocata dai frammenti sparsi. In qualche modo, il narratore demiurgo, che beffa tutti gli altri narratori, trionfa unicamente per affermare la vanità dell’intero percorso narrativo. Il racconto, che si pone come storia e fallimento di tutti i racconti che contiene, e storia o progetto di se stesso, finisce con il chiudersi sull’inutilità della sua stessa esistenza. In altre parole, in questa ottica beffarda e nichilista, il gioco della narrazione è anche il gioco e la messa in scacco del quadro enunciativo21 di un film che programmaticamente si dà come discorso che ospita altri discorsi, rappresentazione che ospita altre rappresentazioni (il cinegiornale, i flashback), offrendo da un lato incarnazioni precise di narratori e narratari (cioè i destinatari della narrazione), negando tuttavia dall’altro veridicità al loro vedere, sapere e credere. Ma se il film fa del proprio darsi e raccontarsi un tema centrale, il punto di origine rinvia infine non solo a un Autore implicito che si confonde con l’Autore reale (l’effetto firma iniziale dei titoli di testa, «by Orson Welles», la presenza di Welles come interprete che sovrappone autore, attore, personaggio, il ‘vezzo’ dei titoli di coda in cui il solo corpo a non essere messo in immagine accanto ai nomi degli interpreti è proprio quello che ha dominato l’intero film22 ecc.), ma a un soggetto, o a una soggettività, che alla fine negano veridicità al proprio racconto, al proprio raccontarsi. Del resto, se il prologo del film ne annuncia e inaugura il progetto, vedremo come questo, infine, si risolva nell’idea di una narrazione fortemente falsificante, per utilizzare un’espressione del filosofo francese Gilles Deleuze, il cui scopo è la definitiva messa in crisi della nozione di verità di un mondo, ovvero del mondo, e di un soggetto, ovvero del soggetto23. Tuttavia, se la struttura e l’avventura della narrazione si rivelano piuttosto un simulacro di racconto, una sua possibile parafrasi o allucinazione, sono le caratteristiche stilistiche e specificamente filmiche del discorso a esprimerne o trasmetterne direttamente la dimensione falsificante. In questo senso, l’idea di Bazin di «uno stile che crea il senso» o l’affermazione secondo cui si attua «una convincente affinità tra questa fisica dell’immagine e la metafisica drammatica della storia»24 colgono perfettamente la qualità semantica, quasi ideografica, per certi versi, della scrittura wellesiana. L’analisi di questo stile – e cioè dei rapporti di necessità tra le scelte formali e quelle semantiche, o l’omologia tra i procedimenti discorsivi e il senso globale del film – si è condotta, si sa, perlopiù a partire da due soluzioni di discorso privilegiate: il ricorso insistito alla ripresa in profondità di campo (cui si aggiunge spesso l’angolazione dal basso e la profondità ‘laterale’ del grandangolo, con la messa in campo dei soffitti, oltre alla peculiare profondità sonora ‘radiofonica’25) e al piano-sequenza (perlopiù in reciproca combinazione), in antitesi al découpage tradizionale. A questo proposito, va sottolineato che se l’immagine in profondità e il pianosequenza permettono evidentemente la costruzione, all’interno dell’immagine, di relazioni peculiari tra i diversi elementi diegetici e semantici della scena, e se è altrettanto evidente che tale procedimento comporta anche una diversa fruizione-partecipazione da parte dello spettatore (non guidato in modo univoco dall’istanza narrante attraverso la successione di piani, come nel découpage classico, ma ‘libero’ di muoversi nei confronti del montaggio interno all’immagine), va anche sottolineato come questa rottura nei confronti delle convenzioni tenda a una con-fusione di immagini che, ben lungi dal sostenere una logica ‘realistica’, si allontana invece da ogni possibile naturalismo. Il lavoro sulla profondità dello spazio riguarda ciò che per Deleuze diviene un’esplorazione piuttosto del tempo che, nell’architettura dei flashback che contengono le sequenze e le inquadrature in profondità, giunge a demolire definitivamente l’idea di un tempo cronologico26. Se Bazin sottolineava il va e vieni tra découpage in profondità e continuità del pianosequenza da un lato, e montaggio dall’altro, nel senso di un va e vieni tra realismo e astrazione, va detto che il realismo di cui parla Bazin è a tutti gli effetti un realismo ‘drammatico’ che si basa cioè su una percezione fisica dei rapporti tra i personaggi come forze drammatiche, in cui la fisica dell’immagine si confonde con la metafisica della storia. Dunque, il realismo fisico dell’immagine è un realismo di tipo metafisico, filosofico o ontologico27 che dà accesso direttamente al senso, o al non-senso, del racconto. Inoltre, per Bazin: l’allungamento dell’immagine in profondità, abbinata alla ripresa quasi costantemente dal basso, crea in tutto il film un’impressione costante di tensione e di conflitto, come se l’immagine rischiasse di squarciarsi [e corrisponde, N.d.A.] a un preciso intendimento estetico: imporci una visione del dramma. Visione che si potrebbe definire infernale poiché lo sguardo dal basso verso l’alto sembra venire da terra, mentre i soffitti, precludendo ogni fuga interna alla scenografia, completano la fatalità della maledizione28.

Ora, questa tensione, questo conflitto, che indubbiamente esprimono quasi ideograficamente la contraddizione intrinseca nel personaggio, come universalmente si ribadisce, vengono però rilanciati all’infinito dall’intervento del montaggio che, a livello visivo come sonoro, scardina e squarcia ogni coerenza dello spazio-tempo, rendendo definitivamente inconsistenti i legami supposti tra le sequenze e all’interno delle sequenze, moltiplicando e sovrapponendo prismaticamente l’impressione di visione infernale o demoniaca notata da Bazin – in uno stile che complessivamente risulta allucinato e fantastico, e in cui l’ancoraggio di questo sguardo infernale a un soggetto resta problematico –, pur essendo via via sempre più forte l’idea di una soggettività che racconta o si racconta. Se è vero, come indicava Bazin, che spesso si tratta di un montaggio astratto, metaforico, teso alla costruzione di un tempo labirintico e frammentario, questo conosce tutte le possibili occorrenze. Dissolvenze incrociate (ben 150 nel film, su 485 inquadrature montate, a eccezione del cinegiornale e dei credits29), dissolvenze in nero, tendine (nel cinegiornale che è a sua volta catalogo ed enciclopedia dentro l’enciclopedia-film), stacchi netti ecc. definiscono incessantemente le caratteristiche di un flusso narrativo che nulla certamente ha a che fare con il continuity system della trasparenza classica, e lo stesso ricorso a opzioni di messa in scena alternative al découpage convenzionale acquista senso solo in questo assemblaggio linguistico e negli accostamenti reciproci. Anche l’utilizzo di sintagmi tradizionali modifica il suo funzionamento per l’associazione con soluzioni discorsive differenti o opposte. Si veda, per esempio, il caso dell’utilizzo della cosiddetta ‘sequenza a episodi’, conosciuta certamente dal cinema hollywoodiano degli anni Trenta ma mai trattata in un contesto complessivo così fortemente manipolato sul piano cronologico e in collegamento diretto con una improvvisa dilatazione del tempo come accade, per esempio, nella sequenza che riassume i tre anni del supplizio della seconda moglie, costretta da Kane a esibirsi come cantante lirica fino al tentativo di suicidio. Come è noto, alcune dissolvenze incrociate alternano determinate inquadrature di Susan Alexander Kane in una serie di diverse, patetiche, rappresentazioni, fino all’inquadratura, del tutto metaforica, di una lampadina che si spegne. Il tentato suicidio, poi, si racconta in pianosequenza in profondità30. Sartre ha sintetizzato molto bene il senso dell’accostamento di due procedimenti discorsivi così diversi (il montaggio che elabora, riassumendolo, il tempo della storia, e la ripresa in continuità e in profondità che ne rispetta la durata drammatica) e, in particolare, l’efficacia del riassunto («Per tre anni egli la costrinse a cantare su tutti i palcoscenici d’America. L’angoscia di Susan aumentava, ogni spettacolo era per lei una tortura, un giorno non ce la fece più»), come sottolinea anche Bazin31. Ed è qui evidente che l’effetto deriva proprio da quello scontro di forze e da quel tempo infine caleidoscopico, che si contrae e si dilata, laddove la profondità mostra piani e presenze le cui proporzioni risultano reciprocamente assurde nella nitidezza dell’immagine (oggetti giganteschi in primo piano, per esempio il flacone di sonnifero, rispetto alle proporzioni umane) in un discorso che è del tutto allucinato e allucinante. In generale, il montaggio, sul piano visivo come su quello sonoro, afferma e nega incessantemente la continuità, i collegamenti, per mischiare le carte, trasformare il dialogo con lo spettatore in un monologo libero e soggettivo. Come accade per i salti improvvisi nel tempo, attuati con eclatanti soluzioni di discorso che associano a un determinato schema temporale alluso dalle immagini il ricorso a un effetto sonoro che lo ristruttura. Pensiamo all’inquadratura in campo medio in cui Kane e i suoi collaboratori dell’«Inquirer», agli inizi, guardano ammirati la vetrina del giornale rivale, il «Chronicle», e la fotografia del suo prestigioso staff. Qualche secondo dopo la macchina da presa si avvicina alla fotografia, fino a farne coincidere i bordi con quelli dell’inquadratura stessa. La macchina da presa, quindi, sosta qualche secondo su tale inquadratura, dopodiché l’immagine si anima leggermente e udiamo la voce di Kane fuori campo: «Sei anni fa guardavo la fotografia dei migliori giornalisti del mondo ed ero come un bambino di fronte ad una vetrina di dolci; oggi, sei anni dopo, ho ottenuto questi dolci, tutti quanti». Un récadrage (la macchina da presa arretra leggermente e modifica l’angolazione) chiarisce che dalla fotografia di sei anni prima si è passati alla messa in posa per una nuova fotografia dello stesso gruppo, ora all’«Inquirer». Sei anni, dunque, sono stati elisi dal tempo del discorso, e la brillante soluzione visiva (la trasformazione in continuità della fotografia nel gruppo in posa sei anni dopo) rende il passaggio e l’evento sensazionali, ma anche fantastici, soggettivi, onirici. Qui l’intervento del sonoro (la voce fuori campo di Kane) contribuisce a definire l’ellissi («Sei anni dopo»). In altri casi, invece, esso può creare una irreale continuità, in presenza di un’evidente ellissi visiva, di un salto di montaggio. Nella sequenza relativa alla campagna elettorale di Kane, per

esempio, una frase iniziata dall’amico Leland in un comizio in suo favore, viene finita dallo stesso Kane in un altro comizio, in un’altra sede e in un altro momento (l’effetto è quasi specularmente opposto al precedente). Senza dimenticare, poi, che queste sequenze sono interne ai flashback che visualizzano i racconti dei diversi testimoni della vita di Kane. E se il punto di vista dei diversi racconti è ricondotto a singoli personaggi, soluzioni stilistiche del genere di quelle analizzate accentuano la presenza di una diversa istanza narrante – o di una sovrastante soggettività che interviene, vanamente onnisciente e onnipotente, sulla storia, manipolandola con effetti arbitrari e fortemente idiosincratici – la quale, nella giustapposizione e (talvolta) sovrapposizione temporale di un flashback all’altro, giunge a negare l’attendibilità di ciascun singolo punto di vista. La temporalità compresente, accumulatrice che viene rappresentata e fatta percepire mette in crisi la nozione di verità, del soggetto e del mondo. 7. Il prologo In questo senso, l’enigma esplicito del film, quello della vita di un uomo, è non solo destinato a rimanere irrisolto o addirittura posto palesemente come irrisolvibile – anche se, con gesto vistoso, l’istanza narrante, escludendo dal suo ‘sapere’ i personaggi della storia, mostrerà allo spettatore il significato di «Rosebud» – ma, soprattutto, rimanda a una più generale crisi del soggetto e dell’essere cui anche i molteplici riferimenti culturali ravvisabili nel film, di cui sopra si è fatto cenno, in fondo rinviano. Il simulacro culturale che è il film ha il senso di porre la questione di come la cultura, i prodotti culturali, le opere, l’arte, il linguaggio possano raccontare il soggetto e l’essere, di come possano inventarne il mondo. L’opera Quarto potere, come il romanzo moderno, diviene contenitore, genere dei generi, Babele di linguaggi, racconto che racconta la sua narrazione, flusso di coscienza. Il personaggio e il mondo raccontato non solo non sono di fatto accessibili (del resto, il cartello «No Trespassing» con cui si apre e si chiude il film, nelle inquadrature che ci mostrano l’esterno di Xanadu, è palesemente ammonitore, in una delle più esplicite interpellazioni allo spettatore), ma forse sono del tutto inesistenti, falsi, evocabili solo oniricamente, come allucinazione, visione davvero infernale o demoniaca. In questa prospettiva, il prologo risulta determinante. È, infatti, dal prologo che il film inizia a demolire, a vanificare le configurazioni classiche del racconto, per stabilire le cifre peculiari del proprio percorso narrativo. È noto come dal valore accordato al prologo e all’epilogo (che incorniciano il puzzle del cinegiornale, dei flashback ecc.) venga in buona misura fatta dipendere una lettura globale del film generalmente condivisa e ‘attestata’. Si tratta evidentemente di due sequenze costruite su un sistema analogo (non vi sono narratori interni) e in esplicito e speculare rapporto reciproco32; indizi sensibili ne indicano la corrispondenza: lo stesso tema musicale – il montaggio di diverse inquadrature della residenza di Xanadu a cominciare dal cartello «No Trespassing» – ma, soprattutto, i due momenti estremi del racconto, nell’assenza di narratori figurativizzati nella diegesi, rilevano nella visibilità della scrittura e nella forte organizzazione interna l’esistenza di un presunto narratore sovrano che sembra porre l’enigma nel prologo, con la morte – ma anche con la prima, peculiare messa in scena – di Kane e lo lascia sussistere con il ritorno, a conclusione dell’epilogo, del «No Trespassing», che viene qui ad acquistare e compiere un senso letterale.

19. Quarto potere (1941) di Orson Welles.

Marie Claire Ropars ha sottolineato come nel montaggio della sequenza iniziale, piuttosto rapido e frammentato (una ventina di inquadrature, a esclusione dei titoli iniziali, dalla prima che ci mostra il cartello, a quella del profilo del corpo senza vita di Kane, sullo sfondo della finestra illuminata), sembrino ravvisabili due movimenti o andamenti narrativi: uno più propriamente descrittivo (l’evocazione esterna di Xanadu, accompagnata dal tema musicale lento e sordo che ritroveremo nell’epilogo) e un secondo maggiormente diegetico, con la messa in scena del personaggio all’interno di Xanadu, l’evento della sua ultima parola e, infine, la morte. Ma anche come, in realtà, nell’organizzazione della sequenza, descrizione e narrazione si fondino nell’unità di un discorso – di carattere lirico-onirico – teso a generare l’enigma, motore di un racconto che finirà con il chiudersi su se stesso. Lo stesso montaggio delle inquadrature del primo movimento, evidentemente, è lungi dal ‘descrivere’ la coerenza di uno spazio reale, e piuttosto, a partire da frammenti, ne ricompone uno immaginario, evocativo, nei confronti della messa in scena e della messa in inquadratura del personaggio di cui prepara l’attesa, e dell’enigma che questi costituisce. Vediamo una descrizione sommaria della sequenza. Dal piano ravvicinato del cartello, la macchina si muove con un carrello verticale verso l’alto, lungo la recinzione sulla quale è appoggiato. Attraverso una dissolvenza incrociata si passa a un fregio architettonico che conserva una certa analogia formale con la griglia stessa. Altre dissolvenze ci portano all’inferriata del cancello di Xanadu con il monogramma «K» (l’angolazione è obliqua e in alto scorgiamo tra le nuvole il castello); in seguito, sempre perlopiù attraverso dissolvenze incrociate, si susseguono diverse vedute della residenza (gabbie di animali, un laghetto con alcune gondole, l’architettura del castello), laddove le dissolvenze e il montaggio, per analogia formale, delle diverse inquadrature giungono a una coerenza che è solo quella della ‘scrittura’, dell’organizzazione della narrazione, quindi di uno sguardo, nell’indiziare, in un effetto globale, l’enigma del soggetto e del racconto. L’illuminazione (scarsa o contrastata) contribuisce a connotare come misteriosa la scenografia ibrida e inquietante di Xanadu, come quando si giunge all’inquadratura dell’esterno notturno di una finestra gotica illuminata. Qui improvvisamente si interrompe il tema musicale ‘del potere’ (che poi riprenderà), mentre si spegne la luce della stanza che si scorgeva al di là della finestra. Uno stacco di montaggio ci porta ora all’interno della stanza, in cui vediamo, contro lo sfondo illuminato della finestra vista prima dall’esterno, in penombra, il profilo di un corpo disteso su un letto; da qui, precisamente, sembra avviarsi il secondo movimento, e cioè, apparentemente, il percorso narrativo. Una nevicata copre l’inquadratura, finché un violento zoom in avanti giunge a mostrare una boccia di vetro contenente una casetta con la neve. Poi, con

il dettaglio estremamente ravvicinato delle labbra di un uomo, udiamo sussurrare la parola che queste pronunciano («Rosebud»), prima che inquadrature successive (un braccio riverso con la boccia che cade e si frantuma, un’infermiera che accorre, vista, distorta, attraverso il riflesso di un frammento di vetro, l’infermiera stessa che ricompone e congiunge le braccia sul petto dell’uomo ecc.) ci raccontino, a livello di evidenza, la morte dell’uomo stesso.

20. Quarto potere (1941) di Orson Welles.

L’ultima inquadratura torna al campo medio della stanza, con il corpo disteso, in penombra, sul letto, sullo sfondo della finestra illuminata. Il piano ravvicinato delle labbra, la neve sull’inquadratura, lo zoom sulla boccia, suggeriscono una soggettività del personaggio che, nel contesto della sequenza così costruita, si pone come misteriosa, enigmatica. Del personaggio stesso, in qualche modo ‘messo in scena’ quasi dall’inizio della sequenza (la residenza rinvia necessariamente a ‘qualcuno’ che così l’ha voluta, la abita o l’ha abitata ecc., così come a ‘qualcuno’ rinvia direttamente la «K» sovrapposta alla sommità del cancello di ingresso), viene negata una vera ‘immagine propria’: quell’immagine, cioè, che nella presentazione di un personaggio fornisce elementi sufficienti per distinguerne l’identità e permetterne il futuro riconoscimento. Se nel racconto classico la presentazione di un personaggio si può costruire in diverse tappe (ovviamente non tutte obbligatorie) come l’evocazione, la nominazione, la sua messa in scena, la messa in inquadratura, l’enunciazione di un’immagine propria ecc., ciascuna di esse può essere separata dalla successiva e, in particolare, l’enunciazione dell’immagine propria può venire ritardata (per suscitare un’attesa che si può caricare semanticamente a seconda delle esigenze del testo, come accade, per esempio, per il Rick di Casablanca, id., 1942, di cui si è parlato nel capitolo secondo di questo libro). Qui, invece, il personaggio è messo in inquadratura (dopo essere stato messo, per allusioni e indizi, precedentemente in scena), ma di lui abbiamo solo immagini parziali che, più che ‘informarci’, aprono interrogativi e contribuiscono a costruire l’enigma. Del resto, se dal senso letterale di immagine propria si procede verso un senso più lato, possiamo dire che questa è proprio ciò che la narrazione, nel caso di Charles Foster Kane, ci nega per tutto lo sviluppo del racconto. Inoltre possiamo dire, ancora a proposito della presentazione del personaggio, che se in qualsiasi testo può talvolta essere difficoltoso stabilirne gli esatti confini, in Quarto potere questa si estende a tutto il racconto, senza arrivare a concludersi, a compiersi, rimanendo piuttosto un’evocazione.

21. Quarto potere (1941) di Orson Welles.

Infine, l’epilogo del film. Una serie di inquadrature, in movimento e dall’alto, con frequenti dissolvenze incrociate, ci mostra il gruppo dei giornalisti che si prepara ad abbandonare i depositi, immensi e zeppi, di Xanadu, mentre la colonna sonora ritorna sul tema musicale già presente nel prologo. La presenza sensibile di un narratore sovrano persiste nell’insistenza su punti di vista al di sopra dei personaggi, in senso spaziale ma presto anche narrativo (sul piano del vedere, ma anche del sapere): a un certo punto un movimento della macchina da presa, o meglio l’intervento marcato di uno sguardo, si fa largo tra la miriade di feticci collezionati da Kane, per ‘scegliere’ (= mostrare) la slitta che, di lì a poco, qualcuno getterà nel fuoco. Tra le altre, un’inquadratura in movimento restringe progressivamente il campo visivo, fino al dettaglio della scritta «Rosebud» che si intravede tra le fiamme, mentre udiamo nuovamente la voce del prologo pronunciare la parola. Il narratore ha concesso in questo caso il suo ‘vedere’ e ‘sapere’ allo spettatore, ma non ai personaggi della storia, per i quali l’enigma di «Rosebud» resterà irrisolto. Ma questa informazione non è che una delle possibili, innumerevoli uscite disseminate lungo il percorso labirintico del racconto, e il vero enigma resta tale. Il film, infatti, non finisce con lo svelamento del segreto di «Rosebud»: il discorso prosegue, riprendendo a ritroso il cammino dell’inizio del prologo, dall’interno all’esterno di Xanadu, fino a ritornare al cartello che vi vieta l’accesso. L’ultima inquadratura ripete quella del prologo: vediamo sullo sfondo Xanadu, obliquamente e dal basso verso l’alto, mentre in primo piano a sinistra, sulla cancellata, giganteggia il monogramma «K», misterioso come all’inizio del film. Ora, un primo livello analitico porta soprattutto a vedere nelle strategie narrative un progetto di messa in evidenza delle ragioni della scrittura in quanto tali e di un racconto che dà a vedere l’avventura della propria narrazione33. Ma, fin dal prologo, il film sceglie la modalità liricoromanzesca del racconto moderno, in cui la ricerca del personaggio, del soggetto, coincide con la ricerca della forma, in una tendenza alla narrazione riflessiva, al monologo, in una temporalità che è puramente soggettiva. Se si analizza meglio il découpage della sequenza del prologo, allora si potrà notare che l’affermarsi di un’istanza sovrana coincide con l’affermarsi di una soggettività e di uno sguardo che si danno a vedere attraverso tracce molteplici, soprattutto attraverso la diretta rappresentazione di una temporalità che non ha alcuno statuto realisticamente referenziale, ma puramente riflessivo, fino all’allucinazione o alla rêverie che il film rappresenta. Del resto, dopo i due cartelli iniziali («A Mercury Production by Orson Welles» e «Citizen Kane»), i cui caratteri si rapportano e si contrappongono a un tempo ai titoli del cinegionale che irromperà subito dopo il prologo34, a partire dalla dissolvenza in nero con cui si chiude il titolo del film, il nero perdura

come inquadratura per diversi secondi sullo schermo, prima che compaia il famoso «No Trespassing». È questo nero, propriamente, che dà origine alle immagini del film, e non senza significato. La visione infernale che via via si comporrà sullo schermo ha origine letteralmente dall’inferno, dalla morte. È la morte, il nero, che origina la vita del racconto, vita del racconto che va a raccontarci la morte del personaggio, cercando di ricostruirne la vita. La prima morte messa in scena dal film, prima di quella palese del personaggio, è proprio questo nero che inaugura tutto, che genera. Fin da subito, dunque, la morte e la vita – del racconto come del personaggio, del soggetto, del mondo – si confondono senza soluzione di continuità, come nella rappresentazione sonora che, oltre all’enunciazione straniante, allucinata, onirica della parola «Rosebud», prevede quel commento musicale che fa partire il motivo dell’infanzia, di «Rosebud», da quello mortuario iniziale, come chiariscono le reminiscenze funeree già ricordate. Dal nero ha poi inizio quel carrello dal basso che inaugura la serie delle dissolvenze incrociate descritte sopra, a partire dal «No Trespassing», per farci oltrepassare, dal basso, tutta una serie di soglie. Dal basso, per l’appunto. Il nero, e poi quel movimento che parte da sotto terra e che, fin da qui, annuncia quell’origine, o non origine, che motiverà anche le famose angolazioni rilevate da Bazin per le immagini in profondità di campo che troveremo nello sviluppo del film. Si potrebbe dire che l’ancoraggio delle future, successive visioni o allucinazioni in profondità, distorte dall’angolazione e dal grandangolo, ha come punto di partenza questa provenienza dagli inferi, letteralmente. Oltre alla profondità di campo, una figura stilistica essenziale va individuata nella dissolvenza incrociata che, fin da questo incipit, funziona come diretta rappresentazione dello scorrere di un tempo non banalmente cronologico, a servizio di una scrittura fantastica o fantasmatica, immateriale, cangiante e instabile. Laddove il succedersi delle diverse immagini di soglie dà luogo all’apparizione fiabesca di un castello che, non a caso, è reminiscenza di una fiaba cinematografica (il castello della regina di Biancaneve, immaginato e creato come effetto speciale negli stessi studi RKO) e/o visione della Xanadu di un poema romantico sognato come quello di Coleridge che verrà citato, come parola scritta, solo più avanti, nel cinegiornale, che allucina in un altro stile, in un’altra modalità espositiva la stessa storia. Castello, luogo, dimora, mondo che si qualifica come tutto il mondo possibile: anch’esso catalogo, accumulazione, enciclopedia, in una apparizione, rêverie, che si dà come davanti e oltre lo specchio (si veda la nona inquadratura della sequenza che, dopo la visione pittorica, artificiale, onirica della dimora di scorcio, al di là del cancello con il monogramma K, la ripresenta capovolta, riflessa nello specchio del laghetto antistante). Castello che è immagine del tutto mentale, come puramente mentale è la luce della finestra che rimane punto fisso invariato e invariabile nel dissolversi delle immagini di cui è quasi sezione aurea35, nel montaggio, prima di spegnersi e riaccendersi, questa volta dall’altro lato, nel passaggio all’interno, per segnalare, in una coerenza che è solo soggettiva, delirante, allucinata, una nuova nascita (il bianco della nevicata, il sorgere di una nuova rappresentazione, la casetta della boccia, l’infinitamente piccolo rispetto all’infinitamente grande del castello di Xanadu, un nuovo ricordo), prima di una nuova morte, quella del personaggio che è unicamente profilo, ombra, fantasma di un corpo che riesce solo a mostrarsi come frammento gargantuesco, la bocca o la mano, in una visione quasi da cartone animato, da fumetto. Ed è la forte presenza del montaggio, più di venti inquadrature, appunto, in ‘poco’ tempo (un tempo peraltro incalcolabile, sia come discorso – sembra lunghissimo – che come storia: quanto può durare questa allucinazione che genera tutte le altre?), a rompere assolutamente con l’organicità classica, con l’unione del senso e del sensibile tipica dell’estetica classica, a migliaia di anni luce dalle convenzioni hollywoodiane.   Su questo e in generale sullo statuto del regista nel periodo di cui ci occupiamo, cfr. L. Gandini, La regia cinematografica, Carocci, Roma 1998, pp. 103-32, e L. Albano, Il secolo della regia, Marsilio, Venezia 1999, pp. 159-212. 1

L. Rosten, Hollywood: The Movie Colony, the Movie Makers, Harcourt-Brace, New York 1941, pp. 302-303, cit. in Gandini, La regia cinematografica cit., p. 104. 2

3

F. Capra, Il nome sopra il titolo, trad. it., Lucarini, Roma 1989, pp. 298-99.

4

In Gandini, La regia cinematografica cit., p. 110.

Cfr. di preferenza la versione British Film Institute, 1997. 5

6

DVD:

A Personal Journey with Martin Scorsese through American Movies, Hyperion/Miramax Books-

R. Clair, Cinéma d’hier, cinéma d’aujourd’hui, Gallimard, Paris 1970, p. 292.

L’articolo, apparso su «Stage» nel febbraio del 1941, è riportato in R. Kozarski, Hollywood Directors 1941-1976, Oxford University Press, London-Oxford-New York 1977. La citazione è in Gandini, La regia cinematografica cit., p. 124. 7

8

A. Bazin, Orson Welles, trad. it., Il Formichiere, Milano 1980, p. 50.

Su Quarto potere si veda anche G. Carluccio, La materia di cui sono fatti i sogni. Monologo, soggettività, onirismo in «Citizen Kane», in P. Bertetto, L’interpretazione dei film, Marsilio, Venezia 2003, pp. 109-36, in cui si trova un’analisi più estesa. La bibliografia sul film e su Welles è sterminata. Oltre ai classici come Bazin, per un’introduzione si consiglia R.L. Carringer, Come Welles ha realizzato Quarto potere, trad. it., Il Castoro, Milano 2000 e J. Naremore, Orson Welles, ovvero la magia del cinema, trad. it., Marsilio, Venezia 1993. Altri testi verranno indicati successivamente nelle note che seguiranno. 9

F.S. Fitzgerald, Pat Hobby e Orson Welles, in Id., I Racconti di Pat Hobby - L’età del cinema, trad. it., Theoria, Roma-Napoli 1996 (il dialogo citato è a p. 56). 10

L’espressione è di James Naremore, Orson Welles, ovvero la magia del cinema cit., p. 39. Al saggio di Naremore si fa d’ora in poi riferimento per notizie e circostanze che riguardano l’esordio di Welles al cinema. 11

12

In E. Cozarinsky (a cura di), Borges al cinema, Il Formichiere, Milano 1979, pp. 58-59.

13

Bazin, Orson Welles cit., pp. 45-46.

14

Ivi, p. 136.

Cfr. l’analisi di M. Marie, La séquence/Le film, in R. Bellour (a cura di), Le cinéma américain. Analyses de films, Flammarion, Paris 1980, pp. 27-44. 15

16

Naremore, Orson Welles, ovvero la magia del cinema cit.

17

Cfr. Carringer, Come Welles ha realizzato Quarto potere cit., pp. 41 sgg.

R.L. Carringer, Citizen Kane, The Great Gatsby and Some Conventions of Americain Narrative, in M. Beja (a cura di), Perspectives on Orson Welles, Hall, New York 1995, pp. 117-34. 18

19

Come palesa del resto un sottotitolo del cinegiornale.

Un’analisi fondamentale, cui si farà riferimento, è quella di M.-C. Ropars, Narration et signification, in Bellour (a cura di), Le cinéma américain cit., pp. 9-26. 20

Sui problemi dell’enunciazione e del progetto comunicativo del film, cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo, Bompiani, Milano 1986, in particolare pp. 51-57, 98-111, 128-38 e F. Casetti, F. Di Chio, L’analisi del film, Bompiani, Milano 1990, pp. 219 sgg. 21

22

Sui titoli cfr. Casetti, Dentro lo sguardo cit., in particolare, pp. 51-57.

23

G. Deleuze, L’immagine-tempo, trad. it., Ubulibri, Milano 1989, pp. 147 sgg.

24

Bazin, Orson Welles cit., p. 50.

Molti studiosi hanno sottolineato l’importanza della formazione drammaturgica ‘radiofonica’ di Welles, in particolare in riferimento agli adattamenti della serie dal titolo assai significativo First Person Singular, per la CBS, nel cui ambito venne realizzato anche l’adattamento di Cuore di tenebra. 25

26

Deleuze, L’immagine-tempo cit., p. 113.

Nelle parole di Bazin: «il découpage in profondità è più carico di significato del découpage analitico. Non è meno astratto di quest’ultimo, ma il supplemento di astrazione che infonde alla narrazione gli deriva appunto da un sovrappiù di realismo. Un realismo in qualche misura ontologico, che restituisce all’oggetto e alla scenografia la consistenza del loro esistere, il peso della loro presenza», in Bazin, Orson Welles cit., p. 77. 27

28

Ibid.

29

F. Berthomé, R. Thomas, Citizen Kane, Flammarion, Paris 1992, p. 155.

30

Per quanto la costruzione dell’immagine sia di fatto il risultato di un ‘trucco’ di montaggio, come oggi è noto.

31

Citato anche da Bazin, Orson Welles cit., p. 58.

32

Cfr. ancora l’analisi di Ropars, Narration et signification cit.

33

Vedi ancora le analisi di Ropars, Narration et signification cit. e di Casetti.

34

Su questo cfr. J. Tarnowski, Le prologue de Citizen Kane, in «La Revue du cinéma», n. 427, maggio 1987, pp. 95 sgg.

35

Ibid.

VIII.

Il cinema d’animazione. Walt Disney e «Biancaneve e i sette nani»

1. Che cos’è il cinema d’animazione? Con l’espressione ‘cinema d’animazione’ si indica ogni film che utilizzi la tecnica del ‘passo uno’: la macchina da presa impressiona la pellicola un fotogramma per volta (come se si trattasse di fotografie), e tra uno scatto e l’altro gli elementi inquadrati (disegni, pupazzi, modellini) vengono modificati, così che in fase di proiezione si ha l’illusione del movimento. Più le modifiche sono piccole e più il movimento è fluido, ma anche più lungo è il lavoro dell’animatore. La forma maggiormente diffusa di cinema d’animazione è costituita dai disegni animati, che negli Stati Uniti si chiamano animated cartoons, o semplicemente cartoons. Letteralmente animated cartoon significa ‘vignetta animata’ (il nostro ‘cartone animato’ è un calco fonetico che non traduce correttamente la formula originale). Le prime esperienze di disegno animato americano, infatti, sono fortemente legate al mondo dei comics e delle illustrazioni umoristiche dei quotidiani. Non a caso, colui che è considerato il padre del cinema d’animazione americano, Winsor McCay, al quale si deve il primo cartoon realizzato negli Stati Uniti, Little Nemo (t.l.: Il piccolo Nemo, 1911), è al contempo uno degli ‘inventori’ del fumetto (Little Nemo era appunto l’eroe di una striscia da lui lanciata nel 1905).

IL CINEMA SPERIMENTALE Il cinema sperimentale (o cinema d’avanguardia) si contrappone a quello industriale tanto sul piano produttivo quanto su quello estetico. Si tratta di film realizzati e distribuiti al di fuori delle normali strutture

commerciali, che rifiutano la dimensione del racconto, optando per l’associazione a-logica delle immagini, il flusso di forme astratte, la visualizzazione di esperienze oniriche. Il cinema sperimentale nasce negli anni Venti con le avanguardie storiche (definite tali per distinguerle dalla neo-avanguardia degli anni Sessanta e Settanta). Sul piano cinematografico, quella delle avanguardie storiche è un’esperienza soprattutto europea. Infatti, benché in America, tra le due guerre mondiali, siano reperibili non pochi film sperimentali, da Manhatta (1921) di Paul Strand e Charles Sheeler a Lot in Sodom (1932) di James Sibley Watson e Melville Folsom Webber, il solo artista statunitense che abbia giocato un ruolo realmente significativo nell’ambito del cinema delle avanguardie storiche è Man Ray, autore di Le retour à la raison (1923) ed Emak Bakia (1926), il quale però viveva e operava a Parigi, come altri intellettuali americani espatriati. La presenza del cinema d’avanguardia negli Stati Uniti inizia a divenire più rilevante a partire dagli anni Quaranta, con l’attività di Maya Deren, che nel 1943 realizza la sua prima opera, Meshes of the Afternoon, insieme ad Alexander Hammid. Durante gli anni Sessanta, gli Stati Uniti diverranno l’epicentro del cinema sperimentale internazionale, con figure quali Andy Warhol, Stan Brakhage, Kenneth Anger, Jonas Mekas.

L’animazione, dunque, non è un genere, bensì una tecnica che può essere impiegata nei modi più diversi. Sul piano quantitativo, la forma più diffusa di cinema a ‘passo uno’ – lo ripetiamo – è il disegno animato, che nella Hollywood classica era rappresentato dal cartoon della durata canonica di sette minuti, proiettato prima del lungometraggio, insieme agli altri cortometraggi che componevano il ‘pacchetto’ offerto allo spettatore di cui abbiamo parlato nel primo capitolo. Accanto al disegno animato troviamo altre tipologie di film d’animazione, relativamente rare a Hollywood, quali i film con le silhouette articolate (in inglese: cutout animation) e quelli con i pupazzi. Esiste poi una lunga tradizione di cinema d’animazione sperimentale, che inizia in Europa negli anni Venti con le avanguardie storiche, e che successivamente si diffonde in Nord America, grazie anche all’arrivo di alcuni degli artisti del Vecchio Continente, come il tedesco Oskar Fischinger, esponente del cinema astratto (film che presentano solo forme geometriche, senza immagini rappresentative), o lo scozzese Norman McLaren, autore di film realizzati dipingendo direttamente sulla pellicola. Ma l’animazione è presente in vari modi anche all’interno dei lungometraggi dal vero: negli effetti speciali,

nei titoli di testa, nelle sequenze ‘ibride’ in cui gli attori interagiscono con personaggi animati. La dizione ‘effetti speciali’ venne utilizzata per la prima volta nei credits di Gloria (What Price Glory?, 1926), un film sulla Grande Guerra diretto da Raoul Walsh. Con questa formula si indicano tutti i ‘trucchi’ cui si ricorre durante le riprese (effetti meccanici), con l’uso di cascatori e particolari attrezzature, e in fase di post-produzione (effetti fotografici), quando l’immagine viene rielaborata in vari modi (con la stampatrice ottica nel periodo classico, con il computer ai giorni nostri)1, al fine di ottenere soluzioni visive che altrimenti sarebbe impossibile realizzare per motivi tecnici, economici o di sicurezza. Quando si parla di effetti speciali solitamente si pensa alle astronavi dei film di fantascienza o alle battaglie dei war movies, ma nel cinema classico, che preferiva il lavoro in studio a quello in ambienti reali, buona parte dei trucchi era relativa alla simulazione di eventi del tutto quotidiani: una nevicata (con l’ausilio di una speciale macchina collocata sul set), oppure il traffico di una grande arteria cittadina (grazie alla retro-proiezione)2. All’interno di questo ampio bagaglio di trucchi, l’animazione ha sempre giocato una funzione importante. Uno dei film chiave degli anni Trenta, King Kong (id., 1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, deve il suo enorme successo in larga parte ai modellini animati con cui il responsabile degli effetti speciali, il leggendario Willis O’Brien, ha dato vita al gigantesco gorilla che terrorizza New York e agli altri animali preistorici che popolano la misteriosa Isola del Teschio. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’opera di O’Brien sarà proseguita da Ray Harryhausen, le cui creazioni più famose sono probabilmente gli scheletri guerrieri e le creature mitologiche degli Argonauti (Jason and the Argonauts, 1963), diretto da Don Chaffey, vero cult movie del cinema fantastico di serie B3. Una seconda modalità di impiego dell’animazione nel cinema dal vero è rappresentata dai titoli di testa. In questo campo, il nome più illustre è certamente quello di Saul Bass,

autore di titoli di testa dalla raffinata grafica stilizzata, i cui esempi più alti si trovano nell’Uomo dal braccio d’oro (The Man with the Golden Arm, 1955) e in Anatomia di un omicidio (Anatomy of a Murder, 1959) di Otto L. Preminger, e nella Donna che visse due volte (Vertigo, 1958) e in Intrigo internazionale (North by Northwest, 1959) di Alfred Hitchcock. Ma un caso del tutto unico è rappresentato dai titoli di testa della Pantera rosa (The Pink Panther, 1963) di Blake Edwards, per i quali Friz Freleng, veterano dei cartoons della Warner Brothers, creò un personaggio che ottenne un tale successo di pubblico da divenire l’eroe di una serie di disegni animati autonoma rispetto al film per cui era stato concepito. Da ultimo bisogna citare le forme di tecnica mista, in cui gli attori compaiono insieme a personaggi animati. Si tratta di una formula utilizzata già durante il periodo muto, come nella serie ispirata ad Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, che Walt Disney realizzò tra il 1924 e il 1927, dove una bambina in carne e ossa si muove all’interno di un universo di disegni animati. Nell’ambito della produzione sonora, il terreno d’incontro tra i due mondi è spesso rappresentato dai numeri di ballo. Infatti, da un lato il lungometraggio animato adotta, a partire dal suo capostipite Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, 1937), il modello del musical, dall’altro il musical hollywoodiano, soprattutto quello della MGM, abbonda di sequenze oniriche, per realizzare le quali il cinema d’animazione offre ricche possibilità. Ad esempio, nei Tre caballeros (The Three Caballeros, 1945), prodotto dalla Disney, Paperino si lancia in scatenati ritmi latino-americani con la ballerina brasiliana Aurora Miranda. In Due marinai e una ragazza (Anchors Aweigh, 1945) di George Sidney, un musical della MGM con Gene Kelly e Frank Sinatra, compare una scena in cui il primo – mentre narra una fiaba ad alcuni bambini (il racconto viene appunto visualizzato attraverso il cartoon) – danza con il topo Jerry, compagno del gatto Tom in uno dei più longevi sodalizi della storia del cinema d’animazione. Nel progetto originario Gene Kelly avrebbe dovuto ballare con Topolino, ma la Disney non acconsentì a

far comparire uno dei suoi divi nel film di una casa concorrente, e quindi si dovette ripiegare sul personaggio creato dagli animatori della MGM Bill Hanna e Joe Barbera. In virtù del successo ottenuto da Due marinai e una ragazza, Hanna e Barbera furono coinvolti anche in altri musical della Major, come Nebbie sulla Manica (Dangerous when Wet, 1953) di Charles Walters, dove Tom e Jerry nuotano in compagnia della ex campionessa di nuoto Esther Williams, star dei musical acquatici.

22. Due marinai e una ragazza (1945) di George Sidney.

2. Vita e morte del «cartoon» americano Come già abbiamo accennato, il disegno animato americano nasce con Winsor McCay, autore di alcuni dei capolavori della storia dell’animazione, quali Gertie the Dinosaur (t.l.: Gertie il dinosauro, 1914) e The Sinking of the Lusitania (t.l.: L’affondamento del Lusitania, 1918). McCay opera con metodi artigianali, collocandosi in una posizione antitetica rispetto all’idea del cinema come ‘fabbrica’. Basti dire che per realizzare The Sinking of the Lusitania, un film di una decina di minuti che ricostruisce, con grande realismo e

impatto visivo, l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania da parte di un sottomarino tedesco verificatosi nel 1915, McCay – il quale si guadagnava da vivere come illustratore di grandi testate giornalistiche, dedicandosi al cinema per puro diletto – lavorò per quasi tre anni con il solo ausilio di due assistenti. Più o meno nello stesso periodo in cui McCay realizza The Sinking of the Lusitania, a New York (il business del cartoon si trasferisce in California solo con il sonoro) iniziano a sorgere i primi studios di animazione, che operano il passaggio a una produzione di tipo commerciale. La parola studios non deve trarre in inganno: a paragone del coevo cinema dal vero si tratta di ben misera cosa, piccole imprese con una decina di dipendenti. Ma in confronto alle modalità operative di McCay, le compagnie di John Randolph Bray e dei fratelli Fleischer presentano un approccio all’animazione di tipo schiettamente industriale. Infatti, da una parte abbiamo un’organizzazione del lavoro di natura collettiva, in cui un’équipe di animatori procede sotto la guida di un registaproduttore, dall’altra ci troviamo di fronte non a cartoons autonomi, a ‘pezzi unici’, come nel caso dei film di McCay, bensì a serie che hanno un protagonista che torna da un episodio all’altro. L’opzione per il modello seriale, mutuata dal fumetto (non per niente molte delle prime serie – The Newlyweds, Krazy Kat, Happy Hooligan – sono ricavate dai comics), agevola il salto dell’animazione dall’artigianato alla ‘catena di montaggio’. La serie, infatti, da un lato permette di abbattere i tempi di realizzazione (una volta definiti i caratteri di fondo, si tratta solo di operare varianti sul medesimo pattern), dall’altro di sfruttare la familiarità del pubblico con i personaggi in forme simili allo star system. Nel complesso, però, l’animazione americana del periodo muto rimane confinata ai margini del mondo del cinema. Questi primi cartoons, imparagonabili con le raffinate opere di McCay, sono prodotti grezzi, licenziati in fretta e furia, che per lo spettatore rappresentano solo un’appendice, piacevole ma in fondo trascurabile, dei lungometraggi.

L’unica eccezione è costituita da Felix the Cat, creato da Otto Messmer, la prima vera star del cinema d’animazione, che nel corso degli anni Venti si guadagnerà una vasta popolarità tanto negli Stati Uniti quanto all’estero. Messmer fa della povertà stilistica dei cartoons dell’epoca un elemento di forza: è proprio la natura piatta ed essenziale dell’immagine a rendere affascinanti i suoi film. In virtù di tale stilizzazione, Felix è al centro di avventure surreali in cui vengono sovvertite le regole dell’universo sociale e di quello fisico, avventure in cui il corpo del gatto si trasforma nei modi più impensati (la coda che diventa, a seconda dei casi, un punto interrogativo o un bastone da passeggio). Ed è proprio qui, nella sistematica violazione del confine tra esseri viventi e oggetti inanimati, tra mondo animale e mondo umano, che risiede la natura profonda dell’animazione, la quale è appunto l’arte di ‘dare vita’ – anima – a ciò che in natura non ne ha. Quella dell’animazione, insomma, è una forma espressiva a vocazione antirealistica, che tende a reinventare il mondo piuttosto che a riprodurlo (ma si tratta di una definizione da prendere con beneficio d’inventario: alcune delle opere chiave del cinema d’animazione, come il citato The Sinking of the Lusitania o molti dei lungometraggi Disney, per non parlare della più recente animazione digitale, vanno in tutt’altra direzione; è una questione complessa di cui riparleremo più avanti)4. L’arrivo del sonoro inferse un colpo mortale a Felix the Cat, il quale, come altri grandi comici del muto, non seppe adattarsi alle mutate condizioni tecnologiche. Il sonoro, però, costituì anche una ricca occasione di crescita per il cinema d’animazione. Anzi, gli animatori furono tra i primi cineasti a fare un uso realmente inventivo del nuovo mezzo. Se alla fine degli anni Venti molti registi hollywoodiani (ma un discorso analogo vale per quelli europei) usavano il sonoro con esiti piattamente riproduttivi, rischiando di far ripiombare il cinema nella condizione di ‘teatro fotografato’, Walt Disney, con il primo cartoon sonoro della storia (che è anche il primo cartoon con Topolino), Willie del vaporetto (Steamboat Willie, 1928), mostrò le possibilità creative del

suono sincrono. I risultati non tardarono a venire: tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta i cartoons con Topolino e quelli dell’altra serie Diseny, le Silly Symphonies, ottennero un successo enorme, tanto che, in alcuni casi, molti spettatori si recavano al cinema più per vedere il cortometraggio animato che il film a soggetto che seguiva. E si tratta di una popolarità che prescinde dall’età degli spettatori: per tutto il periodo classico, infatti, l’animazione è uno spettacolo che si rivolge tanto ai bambini quanto agli adulti. Anzi, certe serie e certi personaggi – ma non quelli della Disney – si rivolgevano in primo luogo ai secondi. Con il sonoro, dunque, l’animazione entra a pieno titolo all’interno dell’industria del cinema e tutte le grandi case hollywoodiane si interessano ai cartoons, anche se con modalità diverse. Alcune Majors, come la Warner e la MGM, costituiscono un loro animation department sin dalla prima metà degli anni Trenta, mente altre si limitano a distribuire produzioni indipendenti: la 20th Century Fox ha un contratto con i Terrytoons, la Universal con i Walter Lantz Cartoons. La Paramount distribuisce i film dello studio dei fratelli Fleischer, che assorbe nel 1942, trasformandolo nel proprio animation department. Tra il 1929 e il 1956 Disney distribuisce i suoi film attraverso altre compagnie (nell’ordine: Columbia, United Artists, RKO) per poi fondare una propria casa di distribuzione, la Buena Vista. Nel momento del suo debutto sullo schermo, Topolino è un personaggio piuttosto diverso da quello che poi diverrà in seguito: è un ‘ragazzaccio’, erede dello spirito anarchico di Felix (cui non a caso somiglia anche sul piano fisico), che in Willie del vaporetto si diverte a fare un concerto insieme a Minnie ‘suonando’ degli animali. I due topi strapazzano oche e gatti, come se fossero strumenti musicali, per trarne una melodia. Qui sta la genialità di Willie del vaporetto: Disney applica al film sonoro il principio della violazione del confine tra esseri viventi e oggetti inanimati – e tra umani e animali – di cui abbiamo parlato a proposito di Felix e che per molti versi rappresenta la quintessenza dell’animazione. In Willie

del vaporetto animali antropomorfi (Topolino e Minnie), animali veri e propri (il piccolo zoo imbarcato sul battello) e oggetti (le diverse parti della nave) compongono un unico universo ‘animato’, dove danno vita a gag surreali. E in questo mondo di pura invenzione rumori, musica e parole (che di fatto non ci sono: Topolino e Minnie ‘parlano’, ma emettono solo suoni incomprensibili) si fondono in un unico flusso, su cui si struttura il ritmo visivo. Nel cinema sonoro, generalmente, la parola è l’elemento centrale. La scelta di Disney di rifiutare la centralità della voce, e costruire invece una partitura fatta di una miscela in cui non si riesce a distinguere la musica dai rumori, è segno appunto della vocazione antirealistica dell’animazione. Tale scelta sarà ribadita, ad esempio, nella Danza degli scheletri (The Skeleton Dance, 1929), primo episodio delle Silly Symphonies, dove quattro scheletri mettono in scena una comica danza macabra, in cui tibie e costole vengono usate come violini e xilofoni. Il discorso che abbiamo fatto per la produzione Disney del primo sonoro vale, più in generale, per buona parte dell’animazione americana del periodo classico. In quasi tutte le serie – da quelle di Betty Boop e Braccio di Ferro realizzate dai fratelli Fleischer negli anni Trenta alle ‘Looney Tunes’ e alle ‘Merrie Melodies’ (i cui eroi sono Bugs Bunny, Duffy Duck e compagni) prodotte dalla Warner tra gli anni Trenta e i Sessanta, passando per il lavoro di Tex Avery alla MGM (dal 1942 al 1957) – troviamo sempre un tipo di spettacolo anarchico, dove non si rispetta nessuna legge, fisica o morale, del nostro mondo, e in cui si ignorano deliberatamente le convenzioni del racconto hollywoodiano (ad esempio, lo sguardo in macchina è usato sistematicamente). Betty Boop è una ragazza sexy (almeno fino a che il Codice Hays non costringerà i Fleischer a vestirla in modo più castigato) al centro di avventure assurde, in cui perlopiù deve difendersi dalle pesanti avances dei maschi – umani o animali – in cui si imbatte. Ma tutta la produzione dei Fleischer è

segnata da un’ironia trasgressiva e graffiante, legata alla cultura ebraica newyorkese (i due erano figli di ebrei austriaci immigrati). Prendiamo, ad esempio, The Kids in the Shoe (t.l.: I bambini nella scarpa, 1935), un film ‘minore’ dove non compare nessuno dei loro eroi seriali. In questo cartoon si racconta della strana vita di una famiglia lillipuziana di origine mitteleuropea (i personaggi parlano con un forte accento tedesco) che vive all’interno di una scarpa. I bambini fanno tutto ciò che va contro i precetti dei genitori: non mangiano, non si lavano, cantano e combattono con i cuscini invece di dormire dopo che sono stati messi a letto. Alla fine la madre li minaccia con l’olio di ricino e i ragazzi vanno finalmente a coricarsi; lei però si beve tutta la bottiglia, che scopriamo contenere sidro. Insomma, l’ordine viene ristabilito, ma si tratta di un ordine ottenuto con l’inganno e ad opera di una madre non esattamente irreprensibile. A trionfare non sono i ‘valori familiari’, bensì la legge del più astuto. I cartoons di Tex Avery sono caratterizzati da una violenza ipertrofica e dallo scatenamento delle pulsioni sessuali. Uno dei suoi film più noti, Red Hot Riding Hood (t.l.: La calda Cappuccetto Rosso, 1943) è una parodia della famosa fiaba, in cui un lupo in smoking pazzo di desiderio insegue una Cappuccetto Rosso pin-up, dovendo al contempo sottrarsi alle violente profferte erotiche della nonna. Invece, il ciclo di ‘Road Runner’, creato da Chuck Jones alla Warner, è fondato sulla ripetizione all’infinito del medesimo sketch: Wile Coyote tenta di catturare il velocissimo pennuto, ma fallisce miseramente, rivolgendo contro se stesso la trappola che aveva messo a punto con il materiale fornito dalla ditta ACME. Il tutto avviene senza che nessuno dei due personaggi pronunci mai una sola battuta, a eccezione del famoso verso «beep beep». Si tratta di una struttura narrativa minimale: i cartoons di ‘Road Runner’ sono fatti di singole gag, del tutto indipendenti l’una dall’altra, tant’è che l’ordine delle scene potrebbe essere tranquillamente invertito e l’economia complessiva del testo non ne risentirebbe affatto.

Insomma, il cartoon americano rappresenta un paradosso vivente: si tratta di film realizzati a Hollywood, prodotti e/o distribuiti dalle case che hanno ‘inventato’ lo stile classico, ma che rifiutano in maniera sistematica quel modello narrativo-rappresentativo. Alla ricerca del verosimile e allo psicologismo del racconto classico i cartoons contrappongono il nonsense, la distruzione dell’illusione di realtà, un andamento del racconto rapsodico e caotico. Al moralismo di tanti film dal vero, i cartoons sostituiscono una esplicita ‘immoralità’: nel loro mondo non ci sono buoni e malvagi, ma soltanto forti e deboli, furbi e ottusi, e le azioni di questi divi di carta, per quanto perfide, non sono mai valutate sul piano etico. Schiacciare la testa di un gatto per fare un concerto, o far esplodere la faccia di Daffy Duck con un fucile a pallettoni, non sono ‘cattive azioni’, bensì gag esilaranti. In questo senso, i cartoons sono affini alle espressioni più radicali del cinema comico, quali i film dei fratelli Marx – ebrei newyorkesi come i Fleischer – e la screwball comedy. L’animazione, dunque, ci aiuta a capire che non esiste ‘uno’ stile classico, che non c’è un paradigma monolitico di norme inflessibili. Il cinema hollywoodiano classico era una realtà composita, che comprendeva generi e forme tra loro differenti, una realtà in cui, certo, c’era un pattern dominante, ma rispetto al quale era possibile operare degli scarti, anche forti. Però, per quanto l’animazione americana5 potesse essere in conflitto con molte ‘regole’ delle Majors, essa ne condivise la parabola discendente, anzi, fu una delle prime vittime dello smantellamento dello studio system. Nel momento in cui il sistema hollywoodiano entra in crisi, a causa della fine dell’integrazione verticale e della concorrenza della televisione, la produzione degli animated cartoons viene progressivamente ridotta, sino a cessare del tutto durante gli anni Sessanta. I cartoons, infatti, per quanto godessero di ampia popolarità, in una fase di calo delle vendite dei biglietti divennero troppo costosi: gli spettatori amavano gli eroi di Tex Avery e di Chuck Jones, ma andavano al cinema per vedere il film a soggetto, e ci sarebbero andati anche se

prima non fosse stato proiettato il cartoon. I fratelli Fleischer avevano abbandonato il campo già durante la seconda guerra mondiale: essendosi pesantemente indebitati per produrre due lungometraggi, I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels, 1939) e Mr. Bug Goes to Town (t.l.: Mr. Bug va in città, 1941), nel vano tentativo di contrastare il predominio della Disney, nel 1942 avevano dovuto cedere la loro compagnia alla Paramount. Nel corso degli anni Sessanta tutti gli studios di animazione, con la sola eccezione della Disney, cessano la produzione per le sale e il cartoon si trasferisce in televisione, dove sopravvive come mero intrattenimento pomeridiano per i bambini. Sul grande schermo rimarranno soltanto i film della Disney, che aveva conquistato una posizione di netta superiorità nel mercato dell’animazione già a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. Ed è proprio alla Disney, e in particolare al suo film più famoso, Biancaneve e i sette nani, che è dedicata la seconda parte di questo capitolo. 3. Walt Disney: dentro – e oltre – il cinema classico Non tutta l’animazione americana può essere ricondotta all’interno dello schema che abbiamo delineato nel paragrafo precedente. La produzione Disney, dal 1933-34 in avanti, si muove verso l’assimilazione delle regole del cinema classico da parte del cartoon. Lo stile del disegno si fa via via meno stilizzato, i fondali più complessi e giocati sulla profondità, i movimenti di uomini e animali maggiormente fluidi e realistici. Sul piano narrativo, compaiono storie organizzate in maniera più coerente, spesso dotate anche di un esplicito insegnamento etico. Non a caso, gli autori della Disney cominciano a rifarsi ai classici della letteratura favolistica. Se Willie del vaporetto e La danza degli scheletri sono un accumulo di gag messe in scena da personaggi gioiosamente perfidi, Three Little Pigs (t.l.: I tre porcellini, 1933), The Grasshopper and the Ants (t.l.: La cavalletta e le formiche, 1934), La lepre e la tartaruga (The Tortoise and the Hare, 1935), invece, per quanto comici, possiedono una morale e dei personaggi dichiaratamente divisi in ‘buoni’ e ‘cattivi’ o, quanto meno, in virtuosi e non, dove sono sempre i primi a trionfare sui

secondi. Non per niente, con il passare degli anni Topolino diviene sempre più un ‘bravo ragazzo’, tanto che a un certo punto viene introdotto Paperino (che fa la sua apparizione nel 1934), il cui compito è proprio quello di svolgere la funzione ‘anarchica’ che prima era stata del topo (il quale, non per nulla, pur rimanendo il simbolo della casa di produzione, negli anni Quaranta è ormai stato scalzato dal papero nei favori del pubblico). Nel 1932, con Fiori e alberi (Flowers and Trees), Disney è il primo a utilizzare il Technicolor. Tanto l’uso del sonoro, nel 1928-29, era stato inventivo e antirealistico, quanto l’impiego del colore da parte della Disney è subito mimetico, al limite dell’oleografia. Osservando le diverse Silly Symphonies distribuite dal 1932-33 al 1937, anno in cui viene prodotto Il vecchio mulino (The Old Mill), vera sintesi della svolta ‘realistica’ della Disney, ci si rende conto di come il costante innalzamento del livello tecnico dei cartoons della casa vada di pari passo con il rifiuto sempre più marcato del modello ‘eversivo’ di Felix the Cat, di Betty Boop e del primo Topolino. In quest’ottica, la scelta di realizzare un lungometraggio appare del tutto congruente: è soltanto oltrepassando i confini della forma ‘breve’ che la Disney può realmente confrontarsi ad armi pari con il cinema ‘maggiore’. Nella prima metà degli anni Trenta, certo, Disney si impone come la figura di maggior spicco all’interno dell’animazione americana, e le sue creazioni ottengono un enorme successo internazionale, ma i suoi film rimangono comunque confinati nel ghetto del cortometraggio, appendice dello spettacolo più importante. È proprio per superare questo limite, per diventare una casa di produzione a pieno titolo, capace di porsi sullo stesso piano delle Majors, che la Disney, nel 1934-35, avvia il progetto di Biancaneve e i sette nani, passato alla storia come il primo lungometraggio d’animazione (anche se, nel 1926, in Germania, Lotte Reiniger aveva realizzato un film di silhouette animate della durata di un’ora: Le avventure del principe Achmed, Die Abenteuer des Prinzen Achmed). Il risultato di questa sfida sarà

una vittoria piena. Biancaneve e i sette nani, infatti, oltre a conquistare un premio al Festival di Venezia del 1938, otterrà un vasto successo di pubblico: costato un milione e mezzo di dollari, ne incasserà più di otto, tra il mercato americano e quello straniero. Prima e durante la lavorazione di Biancaneve e i sette nani (nel corso della quale gli impiegati della Disney salgono a quota settecento, un numero incredibile per uno studio d’animazione), le Silly Symphonies vengono usate come banco di prova di nuove tecniche e di nuove soluzioni narrative e figurative. Da un lato le Silly Symphonies permettono di studiare i problemi relativi all’uso del colore e alla creazione dell’illusione della tridimensionalità, dall’altro presentano alcuni personaggi che fungono da ‘bozzetto’ per le figure del lungometraggio. In Babes in the Woods (t.l.: Bimbi nel bosco, 1932), ad esempio, ispirato alla favola di Hänsel e Gretel, i due bambini sono soccorsi da un gruppo di gnomi barbuti che mettono in fuga una strega piuttosto simile a quella di Biancaneve e i sette nani. Allo stesso modo, la tartaruga che compare tra gli animali della foresta che aiutano Biancaneve è anticipata da quella della Lepre e la tartaruga. Più in generale, un cartoon come La lepre e la tartaruga annuncia il tipo di adattamento che Disney farà del testo dei fratelli Grimm in Biancaneve e i sette nani. Nella Lepre e la tartaruga, infatti, la fiaba seicentesca di Jean de La Fontaine viene adeguata ai gusti del pubblico americano con l’inserimento di elementi ‘moderni’, come nel caso della scena della lepre che gioca a baseball. In Biancaneve e i sette nani, accanto al décor del castello e allo stile oratorio della regina, che rimandano a un Medioevo fantastico, troviamo elementi decisamente anacronistici. Basti pensare alla scena della miniera. I nani lavorano nel sottosuolo per estrarre le gemme, così come vuole la tradizione della mitologia nordica ma, a un certo punto, un orologio batte le cinque e i sette tornano a casa, come farebbero degli operai del XX secolo che hanno finito il turno. Allo stesso modo, Biancaneve prepara la torta di frutta e obbliga i nani – che tratta come bambini – a lavarsi le mani prima di sedersi a tavola per la cena, come una brava

massaia americana. In tal senso, il confronto con The Kids in the Shoe è illuminante: nel film dei Fleischer la madre inganna i bambini e poi si beve il sidro, mentre Biancaneve è una donna di casa perfetta che, per di più, recita le preghiere prima di addormentarsi. Ma per quanto sia possibile individuare molti elementi di continuità tra le Silly Symphonies e Biancaneve e i sette nani, lo iato tra i cartoons di sette minuti e il lungometraggio rimane enorme, così come enormi furono i problemi che dovette affrontare Disney, il quale si addentrava in un territorio completamente vergine. Con Biancaneve e i sette nani, infatti, egli provò per la prima volta a usare l’animazione per raccontare una storia così come la concepisce il cinema dal vero. Era quindi necessario creare dei personaggi con cui il pubblico si potesse identificare o – nel caso della regina cattiva – che potesse detestare. Per questo Disney scelse di dare tratti il più possibile realistici a uomini e donne. Tradizionalmente, gli eroi ‘umani’ del cartoon degli anni Trenta avevano fattezze grottesche. Basti pensare ai corpi assurdi di Braccio di Ferro e della sua fidanzata Olivia. Inoltre, come abbiamo visto, il confine tra mondo umano e mondo animale era spesso piuttosto confuso. La stessa Betty Boop, nel suo cartoon di esordio, Dizzy Dishes (t.l.: Piatti da vertigine, 1930), era un ibrido tra una ragazza e un cane. In Biancaneve e i sette nani, invece, Biancaneve, la regina, il principe e il cacciatore hanno tutti fattezze ‘normali’, tanto che Disney fu accusato di aver usato il rotoscopio, uno strumento messo a punto dai Fleischer negli anni Dieci, che permette di ricalcare a matita l’immagine di un fotogramma di un film dal vero, in modo tale che l’animatore possa riprodurre i tratti e i movimenti del corpo umano in modo fedele. Soltanto i nani conservano l’aspetto ‘eccentrico’ tipico del cartoon, e infatti hanno il compito di dare vita alle scene di tipo comico. Si tratta di una dicotomia che tornerà in buona parte della produzione Disney, prima e dopo la morte dello ‘zio Walt’: da Cenerentola (Cinderella, 1950) alla Bella e la bestia

(Beauty and the Beast, 1991), nei film Disney troviamo spesso una polarità tra protagonisti ‘seri’, disegnati in maniera realistica, e figure secondarie comiche, dalle fattezze grottesche. Ma per quanto i nani siano molto legati alla tradizione del cartoon, essi sono comunque dei personaggi a tutto tondo, non delle semplici maschere comiche. Ognuno di loro, infatti, è dotato di un nome e di una specifica psicologia. Nella fiaba dei fratelli Grimm, invece, questo elemento era assente, come osservava con disappunto Bruno Bettelheim, fortemente critico nei confronti del lavoro di adattamento dell’opera letteraria fatto da Disney: L’attribuzione a ciascuno dei nani di un nome e di una personalità distinti – mentre nella fiaba sono tutti identici – come nel film di Walt Disney, interferisce gravemente con l’idea inconscia che essi simboleggiano una forma immatura e pre-individuale di esistenza che Biancaneve deve superare. Simili sconsiderate aggiunte alle fiabe, che apparentemente ne accrescono l’interesse umano, in realtà tendono a distruggerlo perché rendono difficile afferrare in modo corretto il significato più profondo della storia6.

Ma, a parte le valutazioni che si possono fare rispetto alla fedeltà al testo di partenza, quello che qui ci interessa è il fatto che Disney si sforzi in tutti i modi di adeguarsi alle regole del film a soggetto: Biancaneve e i sette nani non è una Silly Symphony di ottanta minuti, bensì un altro tipo di film. Al di là del tratto realistico del disegno e della fluidità dei movimenti, così come della ricchezza degli sfondi e della sistematica ricerca dell’illusione della profondità, è lo stesso uso dei movimenti di macchina e del montaggio a indicare la volontà di Disney di impiegare a pieno le risorse espressive dello stile classico. Il montaggio dei cartoons degli anni Venti e Trenta era piuttosto semplice: serviva unicamente a correlare tra loro le varie gag. In Biancaneve e i sette nani, invece, il montaggio assolve a complesse funzioni narrative. Basti pensare alla sequenza di montaggio alternato del finale, quando Biancaneve viene avvelenata dalla strega, mentre i nani corrono al salvataggio. Oppure si veda la sequenza successiva alla morte apparente di Biancaneve, in cui il montaggio opera delle ellissi temporali: alcune brevi inquadrature, che ci mostrano il bosco in condizioni climatiche diverse, danno conto del passaggio delle stagioni

(ma troviamo una soluzione simile già in The Grasshopper and the Ants). In Biancaneve e i sette nani Disney seziona lo spazio in base ai principi del montaggio analitico, per guidare l’attenzione dello spettatore o creare effetti di suspense. Si prenda, ad esempio, la scena in cui i nani trovano Biancaneve addormentata sui loro letti. Il passaggio dal campo totale della stanza al primo piano dell’eroina è segno dell’assimilazione delle regole del découpage classico: il mistero della creatura addormentata sotto la coperta è svelato all’interno di un campo totale, che permette al pubblico di vedere l’azione nel suo insieme ma, appena il volto di Biancaneve è stato scoperto, c’è subito un piano più stretto che focalizza l’attenzione sul viso della protagonista. Se, nel complesso, è vero che con Biancaneve e i sette nani Disney cerca di trasformare il cartoon in una forma pienamente narrativa, bisogna però sottolineare che, nel compiere quest’operazione, egli opta comunque per un genere dallo statuto narrativo relativamente debole come il musical. Infatti, il musical, pur raccontando una storia, ha un andamento sincopato, in cui, in alcuni momenti, la vicenda ‘si ferma’ per lasciare spazio a un numero di canto e ballo, una performance in sé conchiusa, un po’ come le singole gag dei cartoons. Disney, insomma, opera una sorta di mediazione: c’è lo iato rispetto al modello linguisticoespressivo del cartoon degli anni Trenta, ma la rottura non viene consumata fino in fondo. Dove invece la rottura è totale è sul piano ideologico. Come abbiamo visto, buona parte del cartoon americano contiene un’ironia graffiante, spesso pensata più per gli adulti che per i bambini. Disney, invece, sceglie lo spettacolo per famiglie, vede nell’animazione in primo luogo una forma di intrattenimento infantile. Da qui la centralità delle fiabe, che pure non costituiscono una novità nel quadro del cinema d’animazione: il punto è l’uso che Disney fa di quel materiale letterario. Rimanendo al personaggio di Biancaneve, nel 1933 i Fleischer avevano già realizzato una versione a disegni animati della favola dei fratelli Grimm, Snow White (t.l.: Biancaneve), con Betty Boop nel ruolo

della protagonista, in cui il testo di partenza veniva completamente stravolto per creare una vicenda tutta giocata su nonsense ed erotismo, con l’accompagnamento musicale del grande cantante jazz Cab Calloway. Niente di più lontano, insomma, dai rossori virginali e dalle dolci melodie della Biancaneve del 1937.

23. Biancaneve e i sette nani (1937) di Walt Disney.

Certo, è piuttosto facile ironizzare sulla morale piccoloborghese di Walt Disney, sul kitsch delle soluzioni visive di tanti suoi film (per non parlare di Disneyland) o sulla rozzezza della sua aspirazione a divulgare la ‘cultura alta’ presso il pubblico di massa, come cerca di fare in Fantasia (id., 1940), goffo tentativo di unire le idee del cinema astratto tedesco con il modello commerciale hollywoodiano. Ma, con tutte le ombre che il personaggio presenta, non si può non riconoscerne la genialità. Nel quadro della Hollywood classica, Disney è stato certamente uno degli autoriproduttori che hanno brillato per lungimiranza e ampiezza di vedute. Disney è stato uno sperimentatore coraggioso per tutta la vita, investendo per primo su progetti cui nessuno aveva ancora pensato o che parevano destinati al fallimento,

dal cartoon sonoro al lungometraggio animato, passando per il Technicolor. Disney è stato anche uno dei primi a capire la necessità, per Hollywood, di espandersi oltre i confini dell’industria cinematografica propriamente detta. Già negli anni Trenta, Disney investe pesantemente sul merchandising, dagli orologi di Topolino al disco con la canzoncina di Three Little Pigs. Dopo la seconda guerra mondiale si muove nella direzione della differenziazione dell’offerta, postulando la necessità del passaggio ad altri media e ad altre forme di intrattenimento. Nel 1950 la Disney distribuisce il suo primo lungometraggio dal vero, L’isola del tesoro (Treasure Island), diretto da Byron Haskin, e mette in onda il suo primo show televisivo. Cinque anni dopo viene inaugurata Disneyland. E nel firmamento dell’età dell’oro di Hollywood, Topolino e Biancaneve sono certamente tra le star che meglio hanno saputo continuare a parlare alle generazioni successive. Dopo il trionfo della stagione 1937-38, Biancaneve e i sette nani è stato distribuito nelle sale altre nove volte, dal 1944 al 1993, ottenendo sempre ottimi risultati al botteghino. Quando, nel 1994, è stato finalmente pubblicato in videocassetta, nelle vendite ha battuto il blockbuster del momento: Jurassic Park (id., 1993).

24. Biancaneve e i sette nani (1937) di Walt Disney.

  La stampatrice ottica, o truca, è lo strumento con cui nel cinema classico (e, più in generale, in tutto il cinema precedente l’avvento del digitale) si realizzavano le dissolvenze, le sovrimpressioni e vari tipi di effetti speciali. Si tratta di un’apparecchiatura complessa, con un proiettore e una macchina da presa sincronizzati, che permette di impressionare più volte lo stesso segmento di pellicola, offrendo così la possibilità di comporre tra loro diverse immagini. 1

La retro-proiezione (dall’inglese back projection), o trasparente, è uno dei trucchi più utilizzati nel cinema classico: gli attori recitano di fronte a uno schermo traslucido su cui, da dietro, vengono proiettate immagini precedentemente girate in esterno. È l’effetto speciale con cui, ad esempio, si girano in teatro di posa le scene in automobile: il personaggio è al volante, in primo piano, mentre sul fondo dell’inquadratura, sul lunotto posteriore, scorre il paesaggio. 2

Limitandoci alle pubblicazioni più recenti, un’agile introduzione alla storia e alle tecniche degli effetti speciali è rappresentata da R. Hamus-Vallée, Les effets spéciaux, Cahiers du cinéma, Paris 2004. Un volume molto ricco sulla fantascienza americana (ma anche con diversi riferimenti a horror e fantastico) è V. Sobchack, Spazio e tempo nel cinema di fantascienza. Filosofia di un genere hollywoodiano, trad. it., Bononia University Press, Bologna 2002. 3

Sul cinema d’animazione americano durante il muto si veda D. Craon, Before Mickey. The Animated Film 1898-1928, The University of Chicago Press, Chicago 1993. 4

Nell’ampia bibliografia disponibile sulla storia dell’animazione americana, il testo sicuramente più completo e affidabile è L. Maltin, Of Mice and Magic. A History of American Animated Cartoons, Plume, New York 1987. Su Disney, uno dei libri più ricchi e interessanti è E. Bruno, E. Ghezzi (a cura di), Walt Disney, 5

La Biennale di Venezia, Venezia 1985. Per un approfondimento sul rapporto tra cartoon e stile classico cfr. G. Alonge, Topolino e i guanti del dottor Caligari. L’animazione americana, il cinema delle origini e le avanguardie storiche, in G. Alonge, A. Amaducci, Passo uno, l’immagine animata dal cinema al digitale, Lindau, Torino 2003, pp. 9-80. B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, trad. it., Feltrinelli, Milano 2003, p. 202. 6

Cronologia

Cinema, società e cultura in America 19271969

1927 Il cantante di Jazz (The Jazz Singer) di Alan Crosland inaugura l’era del cinema sonoro. Friedrich W. Murnau gira Aurora (Sunrise), il più importante dei suoi film americani. L’orchestra di Duke Ellington debutta al Cotton Club, uno dei cabaret più alla moda di New York: siamo nel pieno di quella che Francis Scott Fitzgerald definì «età del jazz». Muoiono sulla sedia elettrica gli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, immigrati italiani condannati ingiustamente a causa della loro fede politica. In loro difesa c’erano state mobilitazioni in tutti gli Stati Uniti e nel resto mondo. Charles A. Lindbergh compie la prima trasvolata atlantica, da New York a Parigi. 1928 Esce La folla (The Crowd) di King Vidor, uno dei vertici del cinema muto americano. Esce Willie del vaporetto (Steamboat Willie) di Walt Disney, primo film d’animazione sonoro e primo cartoon con Topolino. Viene fondata la RKO. È eletto presidente il repubblicano Herbert C. Hoover. 1929 Jacques Feyder gira Il bacio (The Kiss), ultimo film muto realizzato a Hollywood. Prima edizione dell’Academy Award: il premio per il miglior film va ad Ali (Wings) di William A. Wellman, uscito nel 1927. Esce Il principe consorte (The Love Parade) di Ernst Lubitsch, uno dei primi esempi di musical (ma il termine non è ancora in uso: all’epoca il film viene definito ‘operetta’). Vengono pubblicati L’urlo e il furore di William Faulkner e Addio alle armi di Ernest Hemingway. Quest’ultimo sarà trasposto per lo schermo due volte, nel 1932 e nel 1957, rispettivamente con la regia di Frank Borzage e di Charles Vidor. Viene fondato il Museum of Modern Art di New York. Crolla la borsa di New York: inizia la Grande Depressione. 1930 All’Ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front) di Lewis Milestone,

tratto da Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, inaugura il war movie dell’epoca sonora. Sergej M. Ejzens ˇ tejn è a Hollywood. La Paramount sembra interessata a finanziare un film del grande regista sovietico, l’adattamento cinematografico di Una tragedia americana di Theodore Dreiser, ma alla fine il progetto sfuma. John Dos Passos pubblica Il 42° parallelo. Grant Wood dipinge Gotico americano. 1931 Lewis Milestone gira The Front Page (t.l.: Prima pagina), dall’omonima pièce di Ben Hecht e Charles MacArthur, di cui saranno fatte altre tre versioni cinematografiche: La signora del venerdì (His Girl Friday, 1940) di Howard Hawks, Prima pagina (The Front Page, 1974) di Billy Wilder, Cambio marito (Switching Channels, 1988) di Ted Kotcheff. L’FBI arresta Al Capone, boss della mafia italo-americana. A New York viene terminata la costruzione dell’Empire State Building; due anni dopo vi si arrampicherà King Kong. 1932 Prima dell’adozione del Codice Hays sesso e crimine dilagano nei film hollywoodiani. Scarface (Scarface: Shame of a Nation) di Howard Hawks, tra i primi esempi di gangster movie, il cui protagonista è ispirato alla figura di Al Capone, presenta un tasso di violenza inaudito per l’epoca. Non sono un angelo (I’m No Angel) di Wesley Ruggles è il primo film della ‘bomba sexy’ Mae West, scritto da lei stessa. Freaks (id.) di Tod Browning racconta una vicenda ambientata in un circo dove si esibiscono alcuni ‘scherzi di natura’, interpretati da veri ‘mostri’. Esce Fiori e alberi (Flowers and Trees), cartoon della serie Disney Silly Symphonies: è il primo film in Technicolor realizzato a Hollywood. Il democratico Franklin Delano Roosevelt viene eletto presidente. Il paese conta 12 milioni di disoccupati. 1933 Quarantaduesima strada (42nd Street) di Lloyd Bacon e La danza delle luci (Gold Diggers of 1933) di Mervyn LeRoy (entrambi con coreografie di Busby Berkeley) rappresentano il vertice del musical della Warner. Esce King Kong (id.) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, tra i capisaldi del cinema fantastico hollywoodiano. Compare sugli schermi La guerra lampo dei fratelli Marx (Duck Soup) di Leo McCarey, unico film dei fratelli Marx diretto da un regista di peso: da molti è considerato il loro capolavoro. Roosevelt si insedia alla Casa Bianca: inizia il New Deal. Finisce il proibizionismo: dopo 14 anni negli Stati Uniti è nuovamente legale consumare alcolici. Adolf Hitler diventa cancelliere; in conseguenza di ciò buona parte della comunità cinematografica tedesca emigra a Hollywood, dove impone, soprattutto in generi come il noir, lo stile visivo del cinema della Repubblica di Weimar. 1934 Escono Accadde una notte (It Happened One Night) di Frank Capra e Ventesimo secolo (Twentieth Century) di Howard Hawks: nasce la screwball comedy. Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread) di King Vidor punta l’attenzione sulla

tragica realtà della Grande Depressione. Il Codice Hays, stilato nel 1930, diviene operativo. Il documentarista Robert Flaherty realizza L’uomo di Aran (Man of Aran). Benny Goodman fonda la sua orchestra: inizia la moda dello swing. Francis Scott Fitzgerald pubblica Tenera è la notte. Fiorello La Guardia diventa sindaco di New York. Molto vicino alla politica riformista del presidente Roosevelt, benché repubblicano, La Guardia è considerato il padre della New York moderna. Il rapinatore John Dillinger viene ucciso dall’FBI a Chicago mentre sta uscendo da una sala cinematografica. Il film in programmazione era Le due strade (Manhattan Melodrama) di W.S. Van Dyke, un dramma criminale con Clark Gable e William Powell. 1935 Esce Cappello a cilindro (Top Hat) di Mark Sandrich, il più noto film con la coppia Fred Astaire-Ginger Rogers. Becky Sharp (id.,) di Rouben Mamoulian, tratto dalla Fiera delle vanità di William Thackeray, è il primo lungometraggio in Technicolor. Dalla fusione tra Fox Film Corporation e 20th Century Picture Inc. sorge la 20th Century Fox. Nasce The March of Time, il cinegiornale americano per antonomasia. Prodotto da Louis de Rochemont per il gruppo Time-Life, The March of Time uscirà fino al 1951. George Gershwin compone Porgy and Bess. Viene fondata la cineteca del Museum of Modern Art di New York. 1936 A soli 37 anni muore Irving Thalberg, uno dei più grandi produttori hollywoodiani, capo della produzione prima alla Universal, poi alla MGM. Charlie Chaplin realizza Tempi moderni (Modern Times), un’esilarante satira della civiltà industriale. Viene fondata la Screen Directors Guild (SDG). Fritz Lang gira Furia (Fury), il suo primo film americano. Margaret Mitchell pubblica Via col vento, un romanzo di enorme successo che diverrà un film tre anni dopo. Roosevelt viene eletto presidente per la seconda volta. Scoppia la guerra civile spagnola. Tra i volontari accorsi da tutto il mondo per sostenere il governo repubblicano anche alcuni cittadini americani, inquadrati nella Brigata Lincoln. In Spagna si recherà pure Ernest Hemingway, che da quell’esperienza trarrà ispirazione per il suo romanzo Per chi suona la campana, portato sullo schermo nel 1943, con la regia di Sam Wood. 1937 Esce Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs) della Disney, primo lungometraggio animato americano: il successo è enorme in tutto il mondo. Esce Amore sublime (Stella Dallas) di King Vidor, prototipo del women’s film:

melodrammi pensati per il pubblico femminile, incentrati su un’eroina (qui interpretata da Barbara Stanwyck) forte e generalmente votata al sacrificio. Pare Lorentz gira The River (t.l.: Il fiume), sul risanamento della valle del Mississippi, una pietra miliare della storia del documentario sociale americano. 1938 Esce Susanna! (Bringing Up Baby) di Howard Hawks, apice della screwball comedy. William Wyler gira La figlia del vento (Jezebel), con Bette Davis, altro esempio canonico di women’s film. Orson Welles realizza una trasmissione radiofonica basata sulla Guerra dei mondi di Herbert G. Wells, terrorizzando l’intero paese. Anche grazie allo scalpore suscitato dal programma, l’anno successivo la RKO offre a Welles un contratto fuori dal comune, che garantisce al regista il pieno controllo artistico del suo lavoro. Ludwig Mies van der Rohe, architetto della Bauhaus (scuola di architettura e design razionalista fiorita nella Repubblica di Weimar e chiusa dai nazisti), emigra negli Stati Uniti, dove sarà attivo fino agli anni Sessanta. Le idee della Bauhaus avranno una profonda influenza sull’architettura americana. 1939 ‘Anno d’oro’ del cinema hollywoodiano: escono Ninotchka (id.) di Ernst Lubitsch, Via col vento (Gone with the Wind) e Il mago di Oz (The Wizard of Oz) di Victor Fleming, Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington) di Frank Capra, Ombre rosse (Stagecoach) di John Ford, La voce nella tempesta (Wuthering Heights) di William Wyler, La via dei giganti (Union Pacific) di Cecil B. De Mille, Donne (The Women) di George Cukor, Avventurieri dell’aria (Only Angels Have Wings) di Howard Hawks. Alfred Hitchcock si trasferisce a Hollywood. Il suo primo film americano, Rebecca, la prima moglie (Rebecca), prodotto da David O. Selznick, esce l’anno seguente. Negli Stati Uniti cominciano trasmissioni televisive regolari, ma il successo di massa del piccolo schermo arriverà solo negli anni Cinquanta. Nel 1939 i film hollywoodiani rappresentano la principale forma di intrattenimento popolare: 85 milioni di americani (il 65% della popolazione) vanno al cinema almeno una volta alla settimana. John Steinbeck pubblica Furore, trasposto per lo schermo l’anno successivo da John Ford. La Germania invade la Polonia: inizia la seconda guerra mondiale. 1940 Escono Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story) di George Cukor e La signora del venerdì (His Girl Friday) di Howard Hawks, vertici della commedia prebellica. Nel Grande dittatore (The Great Dictator) Charlie Chaplin satireggia Hitler e Mussolini. Roosevelt è eletto presidente per la terza volta. La Germania conquista la Francia: Hitler è padrone dell’Europa, solo l’Inghilterra resiste. 1941 Esce Quarto potere (Citizen Kane) di Orson Welles. L’autore, alla sua prima

prova come regista cinematografico, ha 26 anni: il film avrà un impatto rivoluzionario sulla storia del cinema. John Huston debutta alla regia con Il mistero del falco (The Maltese Falcon), tratto da un romanzo di Dashiell Hammett. Il film è generalmente considerato come il capostipite del noir americano. La Germania invade l’Unione Sovietica; il Giappone attacca la base navale di Pearl Harbor, provocando l’ingresso in guerra degli Stati Uniti: il conflitto è mondiale. 1942 Esce Casablanca (id.) di Michael Curtiz: il film farà di Humphrey Bogart una delle leggende più durature del cinema americano. Esce Il bacio della pantera (The Cat People): il primo della serie di horror diretti da Jacques Tourneur e prodotti da Val Lewton per la RKO. Edward Hopper dipinge Nighthawks. A New York apre la galleria di Peggy Guggenheim. Inizia la riscossa degli Alleati: gli americani sconfiggono i giapponesi nella battaglia delle Midway, gli inglesi mettono in rotta gli italo-tedeschi a elAlamein, i sovietici annientano la sesta armata tedesca nell’assedio di Stalingrado. 1943 Maya Deren e Alexander Hammid realizzano Meshes of the Aernoon, pietra miliare del cinema sperimentale americano. A Broadway debutta Oklahoma! (id.) di Oscar Hammerstein II e Richard Rodgers, uno dei musical di maggiore successo della storia del teatro americano. Diventerà un film nel 1955, per la regia di Fred Zinnemann. 1944 Escono La fiamma del peccato (Double Indemnity) di Billy Wilder (scritto dal regista insieme a Raymond Chandler) e Vertigine (Laura) di Otto L. Preminger: due titoli chiave del noir americano. Esce Incontriamoci a Saint Louis (Meet Me in St. Louis) di Vincente Minnelli, uno dei vertici del musical della MGM. Dizzy Gillespie lancia il be-bop. Le forze alleate sbarcano in Normandia. Roosevelt è eletto presidente per la quarta volta. 1945 Esce Obiettivo Burma (Objective Burma!) di Raoul Walsh, esempio canonico del war film degli anni Quaranta. Alla conferenza di Yalta, Roosevelt, Stalin e Churchill si accordano sull’assetto politico mondiale del dopoguerra (febbraio). Muore il presidente Roosevelt; gli succede il suo vice Harry Truman (aprile). Nel corso della conferenza di San Francisco viene fondata l’ONU (aprile-giugno). Le forze alleate penetrano nel cuore della Germania (russi e anglo-americani si incontrano sul fiume Elba il 25 aprile) che si arrende il 7 maggio. In agosto, dopo che gli americani hanno sganciato due bombe atomiche sulle città di Hiroshima e Nagasaki, capitola anche il Giappone. 1946 Esce I migliori anni della nostra vita (The Best Years of Our Lives) di William Wyler che racconta delle difficoltà dei reduci nel reinserirsi nella vita civile.

Compare sugli schermi La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life), il più famoso film di Frank Capra. Esce Il grande sonno (The Big Sleep) di Howard Hawks, da un romanzo di Raymond Chandler (alla sceneggiatura collabora William Faulkner): un classico del noir. 1947 Elia Kazan, Cheryl Crawford e Robert Lewis fondano a New York l’Actors Studio, che presto diventerà la più importante scuola di recitazione (teatrale e cinematografica) d’America: vi studieranno i maggiori divi hollywoodiani del dopoguerra, tra cui Marlon Brando, James Dean, Paul Newman, Marilyn Monroe. La Commissione della Camera sulle attività antiamericane inizia a investigare a Hollywood. Le udienze andranno avanti fino al 1953, provocando l’adozione delle ‘liste nere’ (elenchi di comunisti, o presunti tali, cui non dare lavoro) da parte delle case di produzione. Il pittore Jackson Pollock inizia a utilizzare la tecnica del dripping: sgocciolatura del colore sulla tela stesa a terra. Il presidente Truman usa l’espressione «guerra fredda» a proposito della contrapposizione crescente tra Stati Uniti e Unione Sovietica. 1948 Una sentenza della Corte Suprema, la ‘Paramount decision’, costringe le Majors a vendere le loro catene di sale cinematografiche, avviando così lo smantellamento dello studio system. Muore David W. Griffith. Truman vince le elezioni ed è confermato presidente. Viene lanciato il piano Marshall per risollevare l’economia dell’Europa occidentale, piegata dalla catastrofe bellica. I russi pongono il blocco a Berlino Ovest, la cui popolazione viene rifornita dagli americani con un ponte aereo. 1949 Esce La mia amica Irma (My Friend Irma) di George Marshall, film d’esordio di Jerry Lewis in coppia con Dean Martin. Primo esperimento atomico sovietico: inizia la corsa agli armamenti nucleari da parte delle due superpotenze. Costituzione della NATO. 1950 Esce Viale del tramonto (Sunset Boulevard) di Billy Wilder, uno dei più famosi film sul cinema, interpretato dagli ex divi del muto Gloria Swanson, Erich von Stroheim e Buster Keaton. Esce Winchester ’73 (id.): il primo dei cinque western che Anthony Mann diresse con James Stewart come protagonista. Inizia la guerra di Corea. 1951 Esce Un tram che si chiama desiderio (A Streetcar Named Desire) di Elia Kazan, da una pièce di Tennessee Williams, che rivela le doti di Marlon Brando e impone lo stile recitativo dell’Actors Studio. J.D. Salinger pubblica Il giovane Holden. 1952 Esce Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain) di Stanley Donen e Gene

Kelly, uno dei capolavori del musical. Dwight D. Eisenhower vince le elezioni: è il primo presidente repubblicano dal 1932. 1953 Esce La tunica (The Robe) di Henry Koster, un kolossal storico prodotto dalla 20th Century Fox: è il primo film realizzato in Cinemascope. A causa del clima creato dal maccartismo Charlie Chaplin lascia gli Stati Uniti per l’Inghilterra. La United Artists distribuisce La vergine sotto il tetto (The Moon Is Blue) di Otto L. Preminger senza l’avallo dell’ufficio Hays: il sistema del Codice inizia a entrare in crisi. Iniziano le prime trasmissioni televisive a colori. Le reti televisive americane hanno 27 milioni di abbonati. Finisce la guerra di Corea. 1954 Pro o contro la lista nera: Fronte del porto (On the Waterfront) di Elia Kazan, il quale ha collaborato con la Commissione per le attività antiamericane, ha come eroe un delatore, mentre Johnny Guitar (id.) di Nicholas Ray riflette sui pericoli dell’intolleranza e della giustizia sommaria. La Corte Suprema dichiara illegale la segregazione razziale nelle scuole. Seguono tensioni e scontri in molte parti del Sud degli Stati Uniti. 1955 Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch) di Billy Wilder consacra definitivamente Marilyn Monroe quale diva di prima grandezza. James Dean debutta nella Valle dell’Eden (East of Eden) di Elia Kazan. L’anno dopo l’attore morirà in un incidente automobilistico. La scomparsa a soli 24 anni sancirà la fama di giovane ribelle del protagonista di Gioventù bruciata (Rebel without a Cause), secondo film di Dean (in tutto ne farà appena tre). 1956 Esce Come le foglie al vento (Written on the Wind) di Douglas Sirk, uno dei classici del melodramma hollywoodiano. Esce Sentieri selvaggi (The Searchers) di John Ford, vertice del cinema western. Heartbreak Hotel di Elvis Presley è al primo posto nella classifica dei dischi più venduti: è nato il rock and roll. Allen Ginsberg scrive Urlo, testo chiave della poesia americana novecentesca. Dwight D. Eisenhower viene rieletto presidente. 1957 Esce La parola ai giurati (Twelve Angry Men) di Sidney Lumet (al suo debutto come regista cinematografico), tratto da un dramma televisivo: un classico del cinema processuale. Jack Kerouac pubblica Sulla strada, manifesto della Beat generation. 1958 Esce La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof) di Richard Brooks, da un testo teatrale di Tennessee Williams, uno dei film che impongono Paul Newman come nuovo divo. Creazione della NASA. 1959 Esce Un dollaro d’onore (Rio Bravo) di Howard Hawks, un classico del cinema western; lo stesso regista ne farà un remake nel 1967: El Dorado (id.).

Esce Intrigo Internazionale (North by Northwest) di Alfred Hitchcock, film simbolo della poetica del regista, interpretato dal suo attore prediletto, Cary Grant. John Cassavetes realizza il suo primo film, Ombre (Shadows), girato in 16 millimetri per le strade di New York con attori non professionisti. A New York viene completata la costruzione del Guggenheim Museum, su progetto di Frank Lloyd Wright. 1960 Esce Psyco (Psycho) di Alfred Hitchcock, uno dei thriller più famosi dell’intera storia del cinema. Il produttore-regista indipendente Roger Corman gira I vivi e i morti (The Fall of the House of Usher), primo capitolo del suo ciclo di film ispirati ai racconti di Edgar Allan Poe. Dopo anni di lavoro sotto falso nome, lo sceneggiatore Dalton Trumbo, una delle vittime più note della ‘caccia alle streghe’, compare nei credits di Exodus (id.) di Otto L. Preminger: inizia lo smantellamento delle liste nere. A New York nasce il New American Cinema Group, movimento d’avanguardia lanciato da Jonas Mekas. Il democratico John F. Kennedy vince le elezioni presidenziali. È il primo (e finora l’unico) presidente cattolico della storia degli Stati Uniti. Parte della campagna elettorale di Kennedy viene filmata da un’équipe di giovani documentaristi guidata da Richard Leacock. Il film che nasce da questa esperienza, Primary (t.l.: Elezioni primarie), rappresenta uno dei manifesti del cinema diretto, corrente del documentario che si sviluppa negli anni Sessanta tra Stati Uniti, Canada e Francia. 1961 Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s) di Blake Edwards consacra il mito di Audrey Hepburn. West Side Story (id.) di Robert Wise e Jerome Robbins innova profondamente il musical americano: il film racconta una vicenda drammatica, ambientata nei quartieri poveri di New York, con alcune scene girate in ambienti reali. Gli spostati (The Misfits) di John Huston, su sceneggiatura di Arthur Miller, è l’ultimo film interpretato da Marilyn Monroe, certo il suo lavoro più intenso. La diva morirà suicida l’anno successivo. Incontro tra Andy Warhol e il gallerista Leo Castelli, il quale giocherà un ruolo di primo piano nell’affermazione della pop art. I fratelli Wilson fondano i Beach Boys, gruppo simbolo della surf music. Viene costruito il muro di Berlino. 1962 Esce L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance), western crepuscolare di John Ford, tra i suoi film più suggestivi. Crisi dei missili di Cuba: gli Stati Uniti impongono il blocco navale all’isola caraibica, dove l’Unione Sovietica sta installando missili nucleari. Per alcuni giorni le due superpotenze sono sull’orlo della guerra, ma alla fine viene trovata una soluzione diplomatica. Gli Stati Uniti iniziano a inviare consiglieri militari nel Vietnam del Sud, che intendono aiutare nella lotta contro la guerriglia dei vietcong, sostenuta dal governo comunista del Vietnam del Nord.

Bob Dylan incide Blowin’ in the Wind, simbolo della musica della controcultura degli anni Sessanta. 1963 Esce Gli argonauti (Jason and the Argonauts) di Don Chaffey, cult movie del cinema fantastico di serie B, con gli effetti speciali di Ray Harryhausen. Un milione di manifestanti sfila a Washington per i diritti civili dei neri. Il presidente John F. Kennedy viene ucciso a Dallas; gli succede il vice Lyndon Johnson. 1964 Con Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb), Stanley Kubrick (che si è trasferito in Inghilterra dall’inizio del decennio) si fa beffe delle ossessioni della guerra fredda. La pop art è presentata alla Biennale di Venezia. Il presidente Johnson vince le elezioni e rimane in carica. 1965 Il musical Tutti insieme appassionatamente (The Sound of Music) di Robert Wise ottiene un’enorme successo di pubblico, ma il genere è ormai in pieno declino, così come il modello hollywoodiano nel suo complesso. John Coltrane incide Ascension, album simbolo del free jazz. Con l’invio di truppe di terra nel Sud-Est asiatico, il coinvolgimento militare statunitense in Vietnam si fa nettamente più pesante. Inizia una vasta campagna di bombardamenti americani sul Vietnam del Nord. Viene assassinato Malcolm X, leader dell’ala radicale del movimento nero. Seguono gravi incidenti e rivolte nei ghetti. 1966 Muore Walt Disney: lascia un impero multimediale che unisce cinema, fumetti, televisione e parchi di divertimento. Frank Sinatra incide Strangers in the Night. Viene fondato il Black Panther Party, organizzazione rivoluzionaria degli afroamericani. 1967 Escono Il laureato (The Graduate) di Mike Nichols e Gangster Story (Bonnie and Clyde) di Arthur Penn: la giovinezza e il ribellismo dei protagonisti dei due film incarnano lo spirito della generazione degli anni Sessanta. Viene fondato l’American Film Institute, un ente preposto alla conservazione e allo studio del patrimonio cinematografico americano. Il movimento contro la guerra in Vietnam indice manifestazioni in tutto il paese. 1968 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey) di Stanley Kubrick rivoluziona il genere fantascientifico e annuncia la nascita del cinema degli effetti speciali. Sul set di Hollywood Party (The Party), esilarante commedia con Peter Sellers, il regista Blake Edwards utilizza per la prima volta il video assist (una videocamera collegata alla macchina da presa che registra su nastro le scene girate, in modo da poterle controllare immediatamente). Roman Polanski realizza il suo primo film americano, Rosemary’s Baby (id.), che diventerà un classico del cinema horror. Il Codice Hays viene abbandonato.

Offensiva del Tet (il capodanno vietnamita): l’esercito del Vietnam del Nord e i vietcong attaccano in tutto il Sud, cogliendo di sorpresa le forze americane. Squadre suicide occupano l’ambasciata degli Stati Uniti a Saigon. Vengono assassinati Robert F. Kennedy, fratello del presidente ucciso a Dallas e probabile candidato democratico alla presidenza, e Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili. L’opposizione alla guerra acquista sempre più consistenza: violenti scontri tra dimostranti pacifisti e polizia si verificano a Chicago, durante la convention del Partito democratico. Il presidente Johnson rinuncia a correre per un secondo mandato. Viene eletto presidente il repubblicano Richard Nixon. 1969 Easy Rider (id.) di Dennis Hopper, un film indipendente costato 500.000 dollari, ne incassa 19 milioni e si impone come uno dei massimi successi della stagione. Con Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch) Sam Peckinpah reinventa il genere western, mostrando il lato oscuro del mito della Frontiera. Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy) di John Schlesinger, che racconta una storia dura ambientata nel mondo miserabile della prostituzione maschile, vince tre premi Oscar (miglior film, regia, sceneggiatura). Siamo ormai nell’epoca della New Hollywood. Nixon fa intervenire le forze statunitensi in Cambogia, per distruggere le basi dei vietcong, ma al contempo inizia il ritiro americano dall’area, che si concluderà nel 1973. La navetta spaziale americana Apollo 11 raggiunge la Luna: l’astronauta Neil Armstrong è il primo uomo a camminare sul suolo lunare.

Bibliografia essenziale

In virtù della natura propedeutica del nostro lavoro, abbiamo scelto di inserire in questa bibliografia unicamente le principali opere a carattere generale, privilegiando i testi più accessibili nel nostro paese. AA.VV., Hollywood. Lo studio system, Marsilio, Venezia 1982. K. Anger, Hollywood Babilonia, 2 voll., trad. it., Adelphi, Milano 1979-1986. T. Balio, Grand Design. Hollywood as a Modern Business Enterprise, 1930-1939, University of California Press, Berkeley 1993. R. Bellour (a cura di), Le cinéma américain. Analyses de films, 2 voll., Flammarion, Paris 1980. D. Bordwell, J. Staiger e K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, Routledge, London 1988. J.-L. Bourget, Hollywood. La norme et la marge, Nathan, Paris 1998. G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, 5 voll., Einaudi, Torino 19992001, vol. II, Gli Stati Uniti, 2 tomi, Einaudi, Torino 1999-2000. L. Ceplair e S. Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema americano, 1930-1960, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1981. T. Doherty, Pre-Code Hollywood. Sex, Immorality, and Insurrection in American Cinema 1930-1934, Columbia University Press, New York 1999. F. Dragosei, Lo squalo e il grattacielo. Miti e fantasmi dell’immaginario americano, Il Mulino, Bologna 2002. R. Dyer, Star, trad. it., Kaplan, Torino 2003. B.K. Grant (a cura di), Film Genre Reader II, University of Texas Press, Austin 1995. L. Jacobs, L’avventurosa storia del cinema americano, trad. it., Einaudi, Torino 1952. G. Jowett, Film. The Democratic Art, Little, Brown and Company, Boston 1976. S.M. Kaminsky, Generi cinematografici americani, trad. it., Pratiche, Parma 1997. C.R. Koppes e G.D. Black, La guerra di Hollywood. Politica, interessi e pubblicità nei film della seconda guerra mondiale, trad. it., Il Mandarino, Cles 1988. S. Kozloff, Overhearing Film Dialogue, University of California Press, Berkeley 2000. F. La Polla, Stili americani, Bononia University Press, Bologna 2003. L. Maltin, Of Mice and Magic. A History of American Animated Cartoons, Plume, New York 1987.

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